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Costantemente mantenersi...presenti, dentro la propria pelle, esercitarsi, avere una
condotta particolare, disprezzare il facile comodo, disprezzare l'inutile lusso, essere
uomini raffinati, ma essere uomini fermi. Mantenere la fedeltà della parola, e nel
fisico, esercitarci a combattere. Cioè fondate, fatevi una cultura solida, che non sia
una cultura puramente, così, trasmessa, una cultura solida. Una cultura che vi
permette di essere dei capi. Se ci sono dieci uomini e uno di voi sta in mezzo, egli è il
capo. E allo stesso tempo forgiatevi il vostro corpo. Pensate a magnis itineribus, i
militi romani che raggiunsero in dodici giorni il lago di Ginevra. Marciando.
Ricordate che i Romani portavano sessanta chili sulla schiena. [...] Fate risorgere lo
Spirito dalla congiuntura delle vostre ossa! Tutto il vostro corpo dev'essere una
immagine di quello Spirito. [...] Approfittate del bene e di tutto ciò che di positivo vi
dà anche questa attuale civiltà e cultura. Non disprezzatela! Perchè l'avversario non
dev'essere mai disprezzato. È buona norma ammirare anche il nemico, per quello che
egli ha di positivo. [...] Arricchite la vostra anima, studiate bene anche tutto ciò che è
contrario a voi! Dovete essere spiritualmente aperti. Uomini come voi devono essere
capaci di restare incantati per due ore a contemplare un albero! Il senso di Dio, che ve
lo predicano semplicemente come senso di fraternità fra tutti gli uomini...ma
sviluppatelo, per quella che è la contemplazione! Maledetta, fra l'altro, da tutti i Padri
della Chiesa... Quella che è la contemplazione delle fonti, delle acque, della bellezza
che sta attorno a voi. Un raggio di sole che illumini una strada, una brutta squallida
strada... ma questo raggio di sole è la luce che Dio mi dà! Dovete farlo rivivere nel
vostro spirito come un impulso naturale. E poi un'altra cosa, che è la base di tutto, è la
fraternità fra di voi, la fraternità gentile, senza quelle rozzezze a cui molti indulgono
con la illusione di essere più uomini...
(da una Conferenza a Fons Perennis del Prof. Pio Filippani Ronconi)
Riportiamo l’intervista di Pietrangelo Buttafuoco a Pio Filippani Ronconi del 27/01/2001 per
“IL FOGLIO”.
Roma. “Il nascondimento – così ci dice l’ultimo superstite delle Waffen SS, appaiando sul
tavolinetto ‘Segnavia’ di Martin Heidegger con il ‘Canone buddista’ – è la veste di potenza della
realtà”. Pio Filippani Ronconi che nel campanello del suo appartamento ha giustamente messo tanto
di corona araldica, infatti, non s’è mai nascosto. Forse il disvelamento è allora la veste di potenza
del mondo che sta dietro il mondo, perché il signor conte è sempre stato quello che è. Asiatico per
parte di nonna, madrileno di nascita, italiano di patria, è insignito della Croce di Ferro e quasi quasi
minimizza. “Una Croce di seconda classe, non era certo la Croix pour le merit del caro Ernst
Jünger. Ma cosa mai posso essere stato rispetto ai miei antenati guerrieri, io?”. Ne ha avuto uno che
s’è fatto fucilare per non aver voluto gridare “vive la République!” davanti al fuoco dell’esercito
napoleonico, un altro che si ricordò in un post scriptum di essere stato nominato anche medaglia
d’oro, uno zio, “uncle Joseph”, nelle A ntille di quel tempo che “certo non erano il posto chic di
adesso”, un padre – “l’ingegnere signor conte” – veloce con la colt da meritarsi più di una leggenda
nelle Americhe di Butch Cassidy e Sundance Kid e del Mucchio Selvaggio, una madre infine,
catturata nella Spagna della guerra civile, che quando viene portata “all’allegra fucilazione”
rieducativa dai rossi di Barcellona, chiede al capo plotone: “Dammi il cappotto”. La storia della
mamma è niente male. “Il rosso le risponde: ‘Che cosa te ne importa donna, tra poco sarai un pezzo
di carne frolla’. Lei chiese ancora il suo cappotto: ‘C’è freddo, non voglio che tu possa pensare che
stia tremando
dalla paura’. Il capo plotone le si avvicinò rapito: ‘Donna, tu hai più coglioni di me!’ ”. La madre
aveva “occhi verdi e spirito celtico”.
E’ un soldato dunque Pio Filippani Ronconi. Forse l’ultimo: “Ma cosa mai posso essere stato
rispetto a tutti i miei antenati guerrieri, io. Il più male in arnese di loro mi fa marameo”. E il signor
conte appoggia il pollice al naso e, pur tradendo un leggero tremore da ottantunenne, fa:
“Marameo”.
Disarmando ogni pregiudizio, offrendosi all’occhio laico e al pudore liberale, così si presenta:
“Sono solo un relitto che non è potuto affondare per mancanza d’acqua”. E si potrebbe aggiungere:
“E’ un relitto che non hanno saputo affondare”. Pio Filippani Ronconi che è stato comunque un
potente rappresentante dell’establishment culturale accademico, è anche la più recente vittima della
memoria. Si sono accorti di una sua foto in divisa (“Avevamo pantaloni da sci, la giacca
germanizzata, le mostrine con le rune, berretto col Totenkopf”), hanno inviato una email al cdr del
Corriere della Sera dove il conte, che è il più importante tra gli orientalisti, aveva cominciato a
scrivere, e Ferruccio de Bortoli – custode, anche suo malgrado, della memoria – lo ha dovuto
sospendere o meglio licenziare o, piuttosto, cancellare. In un film americano “L’allievo”, con la
storia di un distinto signore in età, dal passato buio (ovviamente nazi), ci hanno fatto un racconto di
bassa pedagogia buonista. Con Pio Filippani Ronconi, invece, i vicini che se lo sono visti ritratto sul
giornale in divisa (quella divisa) hanno fatto solo un commento alla moglie: “Ma che bel ragazzo
era il professore!”.
Il signor conte è appunto professore. Maestro all’Istituto orientale di Napoli, traduttore delle
Upanishad , autore Utet e Bollati Boringhieri, collaboratore di Giorgio Colli, autorità indiscussa di
quella scienza della guerra che è la notte del ΝΕΚΤΑΡ. C’è una formula vedica che rende bene
l’idea. “Ayus pra tr” signica “portare la vita al di là degli ostacoli”, o meglio, “fare attraversare la
morte alla vita”. Ebbe una laurea honoris causa ancora qualche anno fa. Consegnatagli
democraticamente a Trieste da Luigi Berlinguer. Fece una prolusione in latino e in persiano. Di lui
si sa che conosce tante lingue da far sospettare una contaminazione tale da ricorrere a un manuale
d’esorcismo. Parla un tedesco vagamente barbarico, con influenze svedesi, borbotta in spagnolo,
sbotta in runico, pensa in sanscrito. Declama tutti e trenta i plurali regolari dell’arabo e
naturalmente anche il trentunesimo, l’irregolare. “Sono come quelli abruzzesi” dice lui per
rassicurare gli stupefatti. Pratico del Tibet manco fosse l’Abruzzo, ulula nella lingua dei lupi e
anche in quella dei turchi. Una volta, addormentato in una grotta, venne svegliato da una coppia.
“Di lupi, non di turchi”. Conosce l’ebraico e l’aramaico. Li studiò da ragazzino frequentando la
sinagoga di Roma quando era un giovane collegiale al De Merode. “Nessuno poteva mai
immaginare in me la futura SS. Entravo e chiedevo: ‘Dove si sta leggendo?’. Trovavo sempre un
dito gentile che mi indicava il punto del Libro”. “Da adulto, andando in giro per il mondo – perché
non creda che io abbia trascorso tutto il mio tempo studiando – ho disseminato dappertutto le rune.
In Africa, in Asia, nelle Americhe. Vedrà che prima o poi qualche archeologo tedesco cadrà in
questa trappola e ci farà una teoria su quanto avevano girato il mondo gli antichi germani. Ho
studiato la Cabala naturalmente”. Ha studiato la Cabala naturalmente.
La storia di Pio Filippani Ronconi è veramente la storia del mondo dietro il mondo. Altro che
laurea. La cameriera che certo non decifra la delicata calligrafia iranica del signor conte, si
raccomandava: “Se la faccia dare in medicina la laurea, ché i dottori guadagnano bene”. Questo
ultimo aneddoto ce lo ha raccontato la moglie che è un bello spirito. Lei si sta divertendo in queste
giornate di offensiva del politicamente corretto, squilla il telefono e dice al marito: “Wanda, ti
vogliono. Sei più cercato di Wanda Osiri ormai”. In questa casa dove ci guardano gli occhi dello
Scià persiano, accanto alle divinità guerriere della perfezione, da sotto il vetro della scrivania
guarda anche un frate cappuccino. Un giorno un marocchino amico di famiglia si ritirò per la
preghiera avendo però il cuore colmo di sconforto. Povero, senza aiuto, alzava il canto al Dio
Clemente e Misericordioso quando a un tratto si trovò interrotto da un uomo in saio, forse un sufi,
ma con le mani bendate, che gli disse: “Non avere pena, domani avrai il denaro sufficiente per
andare a Mecca”. Turbato, il marocchino se ne tornò agli affanni della sua giornata per trovare
l’indomani nella buca delle lettere una busta piena di soldi. “La lettera era stata spedita da San
Giovanni Rotondo dove lui fece la prima tappa per la Mecca, era stato padre Pio a fare il miracolo”.
Così ci dice la signora che ci racconta anche di certe serate mondane con il professore birichino che,
“quando passa Norberto Bobbio in processione”, gli va incontro per dirgli: “Ciao, come ti va la
vita?”.
A differenza della maggior parte dei suoi colleghi, Pio Filippani Ronconi non è mai stato iscritto al
Partito nazionale fascista, neppure quando era ancora un giovane assistente di Giuseppe Tucci, il
suo maestro di dottrina tibetana, quando invece che concentrarsi nella carriera tra i traccheggi, lui
con Sua Eccellenza il ministro Giuseppe Bottai avrebbe discusso solo di calibro 8 e di escursioni nel
Sahara. “Ero solo un soldato, niente altro che un soldato pronto ad andare laddove ci fosse un pezzo
di guerra. Come mio padre d’altronde, che allo scoppio della Prima guerra mondiale lasciò le sue
mandrie cornute tra la Cordigliera delle Ande e Capo Horn, regalò la sua colt a un amico e se ne
andò tra plotoni scudati, quelli che con la visiera agli occhi se ne andavano a depositare candele di
dinamite dentro le trincee degli austriaci”.
Squilla ancora il telefono. Il professore che a questo punto non possiamo più chiamare con il titolo
accademico, ma “soldato”, che come definizione gli è più congeniale, si aggrappa alla sua katana, la
spada da samurai, se la porta ai denti e la stringe per farsi pazienza. Detto tra parentesi è una
bellissima spada: “E’ vecchia e cionca – dice – ma ha aperto tante teste americane”. Il soldato si fa
proprio un punto d’onore della sua capacità di farsi largo con la lama. “Sì, questo sì. Sono celebre
nel tirare con il pugnale, solo io tra i ragazzi dell’Esercito italiano potevo tenere testa alla bravura
dei siciliani e dei calabresi con il coltello, anzi, insegnavo loro come sgozzare un uomo senza
perdere tempo”.
La storia di Pio Filippani Ronconi, conte, patrizio romano, è la storia dell’ultimo soldato. Appunto:
“Della Ventinovesima divisione granatieri SS, dei 1.650 uomini che rispondevano agli ordini di
Carlo Federico degli Oddi, il mio comandante, ce n’è uno superstite, uno: quello che sta davanti a
lei”. L’otto settembre, che lo aveva travolto nello spavento di un’insopportabile vergogna, gli fece
cercare a tutti i costi l’estrema possibilità di mettere a nudo se stesso, “scheggia di morte” quale
voleva essere, nell’annullamento di un rituale suicidio d’omaggio all’onore che non conosce riti.
“Cercavo un seppuku” ci dice oggi, un suicidio elaborato nella purificazione. Nelle Waffen questo
soldato trovò la tipica scuola di guerra, “quella a piedi dei grandi eserciti del ’700”. “Volevo
annullarmi e la notizia della costituzione di una divisione italiana mi trovò triste perché dopo l’otto
settembre l’Italia era solo vergogna”. Le Waffen SS furono nella notte del ΝΕΚΤΑΡ dell’ultimo
anno di guerra, la legione straniera di chi aveva eletto la Germania “anima dell’Europa”.
Arrivavano dal Belgio, dalla Francia, 600 uomini anche dall’Inghilterra. E naturalmente c’erano
russi, lituani, ceceni, turchi, egiziani. Ovviamente indiani, tibetani, tartari. C’erano le SS
musulmane a cavallo. “C’erano anche le SS albanesi – ricorda ancora Filippani Ronconi – ma erano
così disordinate…”. Si sommavano, in tutto, in 38 divisioni. A Mariano Comense, davanti allo stato
maggiore, al suono di quello che secondo il soldato è l’inno più bello di tutti i tempi, “Gloria di
Prussia, l’inno di Federico II”, marciarono le rappresentanze di tutte quelle divisioni. Etnie, popoli e
lingue di quel mondo dietro il mondo si ritrovarono sotto le insegne runiche. “Mi sembrò una scena
settecentesca”. Oggi il soldato dice: “In Germania trova luogo l’anima dell’Europa. Essendo anche
un ufficiale tedesco, conosco bene la mia materia. Anche se la Germania ha avuto bisogno di
un’iniezione asiatica. Le SS, infatti, i migliori li mandavano in Tibet”.
C’è un capitolo che solo questo soldato può aprire, ci permettiamo di farlo sotto la forma di una
domanda morbosa. A proposito di iniezione asiatica, ma Ernst Jünger, era un iniziato? “Nel senso
della Thule?”. In quel senso, certo. “Sì”. E’ il vero motivo per cui Adolf Hitler non poté permettersi
di mandarlo a morte? “Lo stesso motivo per cui non se lo sarebbe potuto permettere con me”, così
ci è sembrato di sentire tra le parole di questo soldato che, “nel rammemoramento spirituale” ci
sembra ormai il Riccardo III di William Shakespeare, e cioè il “virtuoso dell’azione”. La guerra lo
ha attraversato facendolo suo. “Ero alto un metro e 78 centimetri e mezzo. Volevo andare nei
paracadutisti, ma non mi presero per mezzo centimetro, non ci riuscii neppure mettendo una
saponetta sotto il tallone per alzarmi di più. Me ne vergognai. Feci però la guerra nel modo
migliore. Nel mio corpo si sono avventati i pidocchi e le bombe. Ho avuto tutte le malattie, tutti le
smorfie della morte e anche tutti i suoi recessi: la diarrea di sangue, l’epatite, la setticemia. Per
questo non ho mai permesso a nessun signorino vestito bene, quelli che vedevo nelle scuole
ufficiali, di insegnare a me la guerra”. Lui incarna il fuoco di Marte: “Ma le divinità che mi
assistevano nel conflitto erano
Foglie e pietre. Il ritratto di Ungern Khan firmato da Pio
Filippani Ronconi
Sessantasei (adesso sarebbero novantadue ndr) anni fa, all’alba del 17 settembre 1921, cadeva
fucilato a Novonikolajevsk, secondo altri a Verkhne-Udinsk, presso il confine mongolo, il
comandante della divisione asiatica di cavalleria, barone Román Fiodórovic von Ungern-
Sternberg, ultimo difensore della Mongolia “esterna” indipendente e della Siberia “bianca”. Con la
morte del “Barone pazzo” nulla piú si opponeva al dilagare dell’esercito bolscevico di Blücher
nell’Estremo Oriente siberiano e la fase guerreggiata della Rivoluzione si concludeva.
L’effimera meteora del Barone e le disperate imprese della sua divisione non ebbero, in fondo,
un effetto determinante su quest’ultimo scorcio della Guerra Civile, specialmente dopo il crollo
dell’esercito bianco di Kolcak che, battuto il 14 novembre 1919 ad Omsk, aveva praticamente
cessato di esistere. Invece, l’importanza del barone Ungern e del suo variopinto esercito, formato da
Cosacchi della Trans-baikalia, da Buriati, Mongoli, volontari Tibetani e Guardie Bianche di ogni
provenienza, era soprattutto di natura spirituale. Il Barone, religiosamente affiliato ad una
corrente tantrica facente capo allo Hutuktu di Ta-Kuré e suo braccio militare durante l’anno in
cui fu padrone della Mongolia esterna, aveva sin dal principio, cioè sin dalla conferenza
panmongola di Cita del 25 febbraio 1919, dichiarato la sua intenzione di ristabilire la teocrazia
lamaista nel cuore dell’Asia, «affinché da lí partisse la vasta liberazione del mondo».
La controrivoluzione era per lui solo un pretesto per evocare sul piano terreno una gerarchia
già attuata su quello invisibile. Questa gerarchia doveva proiettarsi su un mandala, un mesocosmo
simbolico, il cui centro sarebbe stata la “Grande Mongolia”, comprendente, oltre alle sue due parti
geografiche, l’immenso spazio che dal Baikal giunge allo Hsin-Kiang e al Tibet. Ivi, pensava, si
sarebbe attuata la rigenerazione del mondo sotto il segno del Sovrano dell’agarttha (“inafferrabile”)
Shambala, la “Terra degli Iniziati”, ove Zla-ba Bzan-po e i suoi 24 successivi eredi perpetuavano il
segreto insegnamento del Kalacakra, la “Ruota del Tempo”, loro impartito dal Risvegliato 2500
anni fa.
2500 anni è esattamente la metà del ciclo di 5000 che, secondo la tradizione, separa
l’apparizione dell’ultimo Buddha terrestre, Gautama Sakyamuni, dall’avvento del successivo
Maitreya, figura probabilmente mutuata dallo zoroastriano Mithra Saosyant, “Mithra il Salvatore”
(difatti l’iconografia buddhista lo rappresenta tradizionalmente come un principe “seduto al modo
barbarico”, cioè assiso all’europea). Lo stesso Hutuktu di Urga, che Ungern, liberandolo dai Cinesi,
aveva ristabilito sul trono, terza autorità nella gerarchia lamaista dopo il Dalai Lama di Lhasa e il
Panc’en Lama di Tashi-lhumpo, era teologicamente considerato quale proiezione fisica (sprul-sku)
di Maitreya, prefigurazione, quindi, del Buddha venturo. Ungern, consapevole nonostante questa
vittoria della sua fine imminente, si rendeva conto di trovarsi in un istante “apicale” del divenire
della storia, come se fosse nel cavo fra due onde, un attimo prima che rovinino in basso. Pertanto,
nel suo breve periodo di governo ad Urga (dal 2 febbraio all’11 luglio 1921) cercò di tramutare
questo istante in un “periodo senza tempo” che permettesse allo Hutuktu di compiere la sua opera
spirituale, liberandolo dalla pressione esterna dei due poteri che incombevano: la Cina dei “Signori
della Guerra” dal Sud, e la valanga bolscevica che muoveva inarrestabile dal Nord, dalla Siberia.
Erano tempi terribili in cui, piú che dal potere delle armi, gli eventi sembravano determinati
da forze promananti da una sorta di magia infera. Coloro che furono testimoni degli
sconvolgimenti determinati dalla Rivoluzione di Ottobre ricordano la spaventevole automaticità
medianica con cui le “forze rivoluzionarie” demolivano le strutture della vita civile cosiddetta
“borghese” e le vestigia dell’ordine antico. Le masse si coagulavano in quegli strati della società in
cui maggiormente era assente il principio dell’“Io” autocosciente, fra i miseri, i vagabondi, gli
allucinati sopravvissuti dai Laghi Masuri e dalle battaglie della Galizia, i fanatici, i tarati e tutti
coloro per i quali la ferocia belluina era alimento quotidiano dell’anima. Ai rivoluzionari non si
scampava: mossa come da un’ispirazione demoniaca, la “giustizia del popolo” colpiva
infallantemente i nemici della Rivoluzione un momento prima che si muovessero. Il Terrore era
guidato da una occulta saggezza che nulla aveva a che fare con la brillante intelligenza di coloro
(Trockij, Kamenev, Zinoviev ecc.) che lo avevano scatenato e pensavano di dirigerlo: una saggezza
che realmente promanava dall’elemento preindividuale della “massa”, come le forze fisico-
chimiche che provocano un terremoto o la fuoriuscita della lava da un vulcano.
Ungern chiaramente si rendeva conto di tutto ciò e, dalle sue conversazioni con l’ingegnere
Ossendowski, già ministro delle Finanze nel governo di Kolcak, risulta evidente come egli
cercasse di evocare misticamente il principio opposto, quello solare, che segnava il suo stendardo,
riferendosi ad una cultura, quella tantrico-buddhista, che da due millenni lo coltivava. Soltanto che
la sua ascesi personale non poteva diventare il mezzo strategico di vittoria per i suoi cinquemila
cosacchi, russi sí, mistici forse, ma fatalmente appartenenti ad un mondo orientato verso
un’esperienza dello Spirito volta al mondo sensibile esteriore. Nel suo Uomini, Bestie e Dèi, che è
la narrazione della sua fuga dalla Siberia alla Mongolia, Ossendowski ci ha lasciato
un’impressionante descrizione degli eventi, ma, molto di piú, dell’allucinata atmosfera che
regnava sulla ufficialità che attorniava il Barone e fra le sue truppe, sottomesse da anni a
spaventose fatiche e ad una disciplina rigidissima e, per giunta, consapevoli del disastro
imminente. La narrazione dell’Ossendowski verrà in seguito aspramente criticata (fra gli altri dallo
stesso Sven Hedin) per la parte riguardante i suoi viaggi fra gli Altai e la Zungaria. Resta, però,
intatta la sua testimonianza sulla figura e sulle avventure del Barone e, soprattutto, sul senso
“magico” del destino che ivi si compiva.
Ricordo perfettamente la straordinaria impressione che suscitò nell’Europa distratta e frenetica degli
anni Venti, anche fra i lettori piú materialisti e intenti negli affari contingenti, la relazione sul
collegamento mistico fra lo Hutuktu, il Bodhisattva incarnato, il Barone Ungern e il Re del
Mondo, presenza invisibile ma concretamente percepibile che conferiva un significato trascendente
al sacrificio a cui i Cosacchi, il fiore dei popoli russi, andavano incontro. Questo motivo del “Re del
Mondo” dette fuoco alle polveri di innumerevoli discussioni, specialmente fra coloro che si
accorgevano che non si trattava di una invenzione letteraria. Fra gli altri, lo stesso René Guénon lo
sottopose ad una critica serrata nel suo Le Roi du Monde, dimostrandone la fondatezza, in un’epoca
in cui la Scienza orientalistica praticamente nulla sapeva del mito di re Chandra-bhadra (tib. Zlâ-ba
Bzan-po) depositario di una sentenza segreta comunicatagli dal Buddha, e soprattutto ignorava la
saga del suo Regnum spirituale, una specie del Castello del Graal, che storici e geografi si sono in
seguito affannati a ricercare in vari luoghi del Tibet e della valle del Tarim in Asia Centrale: regno
visibile solo agli Eletti, che però si renderà manifesto a tutti sotto il ventiquattresimo erede di
Chandra-bhadra, quando la sapienza del Kalacakra emergerà per illuminare gli uomini circa la
coincidenza della loro interiorità purificata e l’Universo degli archetipi.
La leggenda di questo Barone baltico, di stirpe germanico-magiara che, rivestito della tunica
gialla del lama sotto il mantello di ufficiale imperiale, e spiegando davanti agli squadroni lo
stendardo mongolo, procede “nella direzione sbagliata”, verso Ovest anziché verso Est, ove
chiaramente si sarebbe salvato, è tipicamente russa, ricollegandosi al motivo sacrificale della
zértvjennost’ (“l’offrirsi come vittima”) per l’istaurazione del Figlio della Benedizione sulla Terra
Madre, che in veste poetica era stata enunciata dallo stesso Solovjèv.
Nell’ultimo rapporto ufficiale, tenuto ai princípi di agosto 1921, quando la divisione asiatica di
cavalleria si trovava sul fiume Selenga intenta ad interrompere la Transiberiana fra Cita e Kiakhta,
egli impartí l’ordine apparentemente assurdo di compiere la conversione verso Ovest, indi
verso Sud, avendo come meta gli Altai e la Zungaria. In quella occasione disse esplicitamente al
generale Rjesusín che si proponeva di raggiungere, attraverso lo Hsin Kiang cinese, niente di
meno che la “fortezza spirituale tibetana”, ove rigenerare se stesso e i laceri resti della sua
divisione. Assassinato il suo amico Borís la sera stessa dagli ufficiali in rivolta e morti gli ultimi
fedeli, egli mosse solitario verso una direzione che non aveva piú rapporto con la realtà geografica
del luogo e militare della situazione, nel postremo tentativo, non di salvare la vita, bensí di
ricollegarsi prima di morire con il proprio principio metafisico: il Re del Mondo.
La sua disperata migrazione verso il Sole che tramonta era in realtà un ultimo atto di culto
verso la Luce che aveva sorretto le sue imprese. Trascorse la sua ultima notte di libertà nella
yurta del calmucco Ja lama. Il Barone si avvide, forse, del significato del nome del suo ospite: Ja,
abbreviazione in dialetto khalka del mongolo Jayagha, “fato”, “esistenza”, “destino”, karma. E il
“fato” lo consegnerà la mattina seguente alle Guardie Rosse di Shentikín, il fiduciario di Blücher.
Era il 21 agosto. Regolarmente processato nel sovjet di Novonikolayevsk, senza che gli venissero
toccate le spalline e la croce di San Giorgio, viene accusato di “complotto anti-sovietico per portare
al trono Mikhail Romanov, efferatezze ed assassinio di masse di lavoratori russi e cinesi”.
Condannato, viene fucilato due giorni piú tardi.
Nello stesso tempo, in un angolo della lontanissima Europa, nella Germania sconquassata del
primo dopoguerra, il mito del Re del Mondo giungeva per vie misteriose a gruppi di giovani
intellettuali, corroborando con il suo simbolo solare i nuovi meditatori del “Vril” e le assisi della
Thule-Gesellschaft.
*da “Un tempo, un destino”, in «Letteratura – Tradizione», II, 9
L’indologo dalla Croce di Ferro– Intervista a Pio Filippani
Ronconi
Sono passati tre anni dalla scomparsa del Professor Pio Filippani Ronconi un grande uomo che è
stato e sempre sarà per chi lo ricorda. Nel mio studio ho la sua foto con la dedica, la conservo con
affetto, come si deve conservare con affetto tutto quello che abbiamo nel cuore di chi ci ha
insegnato l’onore per la patria, la parola data che diventa una consegna fino alla morte. Nella foto lo
si vede nella sua elegante uniforme di ufficiale Germanico. Gli ho voluto bene, perché fu un grande
saggio, al quale mi inchino davanti al suo pensiero. Quando si perde qualcuno ci si rifugia nel
passato, e io in questi giorni mi sono riletto i suoi scritti. Conservo alcune lettere che mi scrisse, e il
suo biglietto da visita, che mi diede quando gli feci visita nella sua casa di Roma nel maggio del
1998. Ricordo la sua gentilezza, e la comprensione per i miei limiti
intellettuali. Mi piace ricordarlo con la intervista nata durante la mia visita avvenuta nella sua casa
a Roma nel 1998. Uno scrittore Ray Bradbury scrisse “Ognuno deve lasciare qualcosa dietro
quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro
eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro
sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia
dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l’albero o il fiore che abbiamo piantato,
noi saremo là”. Ho trascritto queste parole che per me sono l’anima, tutto ciò che io penso e
condivido. Permettetemi ancora una citazione che mi pare possa essere in tono con gli scritti. Ezra
Pound scriveva: “Ciò che ami molto rimane, il resto è scoria, ciò che ami molto non ti sarà
strappato, ciò che ami molto è la tua vera eredità”.
Pio Filippani Ronconi (PFR): Io sono Pio Filippani, Conte Ronconi, professionalmente sono un
indologo, ma sono anche iranista avendo una laurea in Teologia islamica. Ho insegnato filosofia
cinese per dodici anni, ho scritto anche un manuale di filosofia cinese. Ho scritto complessivamente
una ventina di libri. Quindi ho vissuto come uno scienziato, uno studioso.
Nella SS io ero Untersturmführer (Sottotenente) e portavo la Croce di Ferro. In quel periodo sono
inoltre stato tre volte proposto per la medaglia d’argento italiana al valor militare. Nella Wehrmacht
fui invece promosso al grado di tenente il 22 Giugno 1944.
Quando mi sono arruolato volontario nei granatieri, a mala pena mi hanno preso poiché mi
consideravano “piccolo”. Infatti, mi chiamavano “francobollo vieni qui” e subito si prendevano un
pugno in faccia.
Emilio Del Bel Belluz (EDBB): Davvero?
PFR: Certo. Ciò che mio padre fin da piccolo mi ha istigato è stato quello di imparare le arti del
combattimento. Quindi, siccome ero molto furioso e molto litigioso inizialmente praticai della boxe.
L’appresi nelle palestre frequentate dai tramvieri e dai facchini dei mercati generali. Dopodichè,
presi due cinture nere: una di judo e una di Aikido. Quest’ultima è l’arte più raffinata che esiste
poiché si combatte con la spada, con l’arco, con il pugno e le mani. Quindi sono un aikidoka che è
un grado molto difficile da raggiungere.
Il Conte Carlo Federico degli Oddi era amico fraterno di Rudolf Hess, erano stati compagni ad
Alessandria d’Egitto poiché entrambi erano nati lì. Era molto orgoglioso di questa amicizia. Aveva,
inoltre, con sé la bandiera della Libera Repubblica di Siena che i suoi antenati avevano difesa
trecento anni prima.
Il Generale Emilio Canevari nel rapporto agli ufficiali nella Caserma della Bicocca alla vigilia della
partenza ci disse: “Signori Ufficiali, non un passo indietro. Voi non andate per fare bella figura, ma
solo a morire! Da come vi comporterete in combattimento dipenderà se i tedeschi riarmeranno
l’Esercito Italiano”.
Per Pio Filippani (leggendo dal Suo articolo “L’aspro sapore della giovinezza, i ricordi di un
vecchio uomo d’arme – La 29ª Divisione Granatieri SS”) “fu come buttare un secchio di benzina
sul fuoco languente: approssimativamente armati e sommariamente equipaggiati partimmo come
furie vendicatrici da Milano (Scalo Greco) il 13 marzo 1944 alle ore 7 per Littoria”.
EDBB: Professore, Lei è una persona felice per come ha condotto la sua esistenza?
PFR: Bah! Avrei voluto avere altre occasioni, non sono andato in Russia e la cosa mi rompe le
scatole. Avrei voluto combattere per continuare la Controrivoluzione delle Armate Bianche.
(Leggendo dal Suo articolo “L’aspro sapore della giovinezza, i ricordi di un vecchio uomo d’arme
– La 29ª Divisione Granatieri SS”) “Mancherei al mio dovere di soldato se dimenticassi il piccolo
reparto di Russi bianchi, probabilmente appartenenti alla ROA (Rússkaya Osvabodítelnaya´
Armiya), cosacchi appiedati reduci nientedimeno che della controrivoluzione del 1918-19, che
combatteva con noi alla nostra destra: ebbi da loro la papakha[1] di ordinanza, che indossavo
ogniqualvolta “uscivo” con il mio reparto al tramonto, a cercare gatte da pelare. Il valore di questi
veterani rese ampiamente onore alle tradizioni del cessato esercito imperiale russo, quattro lustri
dopo la sua presunta dissoluzione”.
EDBB: Tra questi volontari c’erano anche nobili russi?
PFR: Sì, certo. Ad esempio il Principe Sidamone Ristlj. Quando i reparti russi antibolscevici furono
abbandonati, come al solito, dagli inglesi e dagli americani, si imbarcarono ad Odessa ed andarono
a Costantinopoli. Lì gli Alleati gli intimarono di consegnare le armi.
Loro, invece, si aprirono la strada con i fucili e con i cannoni mettendo in fuga sia i francesi che gli
inglesi.
Allora le unità di artiglieria andarono in Bulgaria e divennero parte dell’esercito bulgaro. La unità di
cavalleria e di fanteria, invece, andarono in Jugoslavia dove formarono delle unità di lavoro per la
riparazione delle linee ferroviarie del paese balcanico che aveva bisogno di tale manovalanza. Le
unità restarono dunque compatte.
Quando i tedeschi scatenarono l’Operazione Barbarossa alcuni ufficiali prussiani di grande spessore
ed intelligenza organizzarono, disobbedendo agli ordini ricevuti, l’Armata Russa di Liberazione
assegnandone il comando al Generale Vlassov. Un Generale che era stato trombato da Stalin,
poiché lo aveva lasciato in retroguardia con poche truppe in modo che fosse tolto di mezzo dai
tedeschi. Fu così che costituirono la Rússkaya Osvabodítelnaya´ Armiya.
EDBB: Uomini straordinari.
PFR: Uomini straordinari di cui ricordo il Principe Schkuro, ricordo Mohammed Nurghijeraj, che
era un principe caucasico. Io ho conosciuto il fior fiore di questa gente.
Oddio, ho anche arrestato un gruppo di turcomanni che erano entrati in un villaggio di cui io ero il
comandante, li ho fatti tradurre da me. Mi ricordo che avevo la febbre e per questo mi misi il
cappotto di ufficiale e il berretto con la visiera. Mi feci venire davanti questi individui nella mia
camera da letto nel castello dei Sommi Picenardi a Torre de’ Picenardi, vicino a Cremona.
Ricordo che li guardai negli occhi e chiesi loro in turco: “da dove siete venuti?”.
“Effendi, pascià effendi”, “Signore mio, signor pascià”, e baciandomi la mano mi dissero
“Comandante uccideteci abbiamo peccato, siamo nelle vostre mani”.
Ciò avvenne perché io parlavo turco, avevo i gradi da ufficiale e la faccia da principe. Quindi ero il
loro pascià.
EDBB: In Italia erano dunque presenti.
PFR: Sì, particolarmente nell’Italia Settentrionale. C’erano i cosiddetti reparti Ostturkisch delle SS
cioè i reparti turco-orientali delle Waffen SS. Ovvero, Kazachi, Uzbechi, Turcomanni, eccetera.
Con loro parlavo turco occidentale che loro però facevano fatica a comprendere.
PFR: Volevano poter ad esempio pregare perché erano spesso dei mussulmani fanatici.
EDBB: La prima volta che ho letto un Suo articolo è stato sulla rivista “Intervento”. L’articolo era
dedicato a von Ungern Sternberg. Un articolo che ho amato in un modo incredibile.
PFR: Vede, io mi sono occupato anche di certe forme segrete di buddhismo radicate nel Tibet.
Quarant’anni fa conoscevo bene il tibetano. Von Ungern Sternberg mi fece una grande impressione
già da quando ero ragazzo. Il libro di Ossendowski “Bestie, uomini e dèi” quando uscì nel 1926
suscitò un putiferio. Ossendowski era un polacco che in Siberia divenne il Ministro delle Finanze
dell’Ammiraglio Kolc’ak.
Vede, io ho sempre avuto due modelli ideali: Corneliu Zelea Codreanu e il Barone pazzo.
Quest’ultimo in particolar modo. Román Fiodórovich von Ungern Sternberg, nel cui nome e
cognome c’è già tutta l’Europa e l’Asia messe assieme.
PFR: Di Ungern mi ha sempre colpito la dimensione magica. Quando ero adolescente avevo anche
conosciuto personalmente Julius Evola che soleva dire di me scherzosamente: “Filippani è uno
steineriano, ma ha il buon gusto di non farlo sapere!”. Cioè, voleva dire che ero “discepolo” del
mago, del filosofo austriaco Rudolf Steiner. In effetti Evola ci azzeccò, soltanto che io non ero uno
steineriano, anche perché Steiner era fondamentalmente un occultista. Tuttavia, mi interessava la
sua linea di meditazione.
Steiner apparteneva a quella corrente di pensiero occulta che ebbe in Germania, dopo la guerra, una
grande influenza. Era stato amico di Von Moltke e quando una volta nel 1915 fu in visita presso di
lui al suo quartier generale, lo consigliò di non arrestare l’avanzata sul fronte occidentale, anche se i
soldati avessero rischiato di crepare di fatica. Erano arrivati infatti a 50 kmda Parigi e riteneva che,
se non si fossero arrestati, quella guerra, che rappresentava la morte della Europa, sarebbe cessata.
Von Moltke, però, subì l’influenza del figlio del Kaiser che gli ordinò di fermare l’avanzata e che
successivamente lo sostituì con un altro generale.
EDBB: E di Evola, cosa pensa?
PFR: Io l’ho già scritto nella mia introduzione alle opere di Evola, che dovrò tra l’altro celebrare
nel congresso di Milano che si terrà tra il 27 e il 28 Novembre 1998. Conosco Evola su diversi
piani. Ero inoltre fraterno amico di Massimo Scaligero che era il grande amico e il grandissimo
avversario, dal punto di vista tecnico, di Evola.
Evola aveva un difetto terribile: era un mago nato. Nel senso che egli trasformava in esperienza
quello che per gli altri erano puri e semplici filosofemi sui quali si può parlare fino all’infinito.
Questa è stata la ragione per cui Evola è stato in guerra volontario a diciassette anni.
EDBB: Perchè Evola amava la Germania?
PFR: Mi è difficile risponderLe in poche parole poiché sono frenato dal fatto che sono un epigone
di quell’epoca e di quella gente. Sono praticamente un individuo che a mala pena ha indossato una
casacca per rincorrere il treno in partenza di quegli uomini.
EDBB: Dove ha incontrato per la prima volta Evola?
PFR: La prima volta nelle sue opere all’età di quattordici anni. In particolare lessi una sua opera
fondamentale “Lo yoga della potenza” che ho praticato fino ai ventisette anni. Questo spiega anche
le possibilità che avevo in guerra. Io percepivo gli elementi terrifici all’incontrario, come potenze
scatenanti, quindi praticavo lo yoga, praticavo il tantra della mano sinistra insomma, stando in un
campo di battaglia. Questo Le spiega tutto.
EDBB: Ma in Italia, lo frequentava all’Università o presso qualche caffè particolare?
PFR: Io Evola l’ho frequentato scarsamente, anche se per me è un personaggio meraviglioso che
conosceva profondamente i suoi limiti ed anche il suo destino. Evola era l’uomo che avrebbe potuto
risvegliare in Occidente la nuova filosofia. Tuttavia, gli mancava un punto essenziale: non aveva
avuto contatti con la fraternità dei Rosacroce. Egli era un templare che andava cercando quello che
aveva sotto il naso.
EDBB: Evola, un moderno templare?
PFR: Certo. Ho conosciuto anche il suo maestro Giovanni Colazza, una personalità straordinaria di
cui nessuno sapeva. Era uno di quegli uomini occulti.
EDBB: Professore ha mai letto i libri di Leon Degrelle?
PFR: Sì ho letto parecchie cose di Degrelle, ma vede, Degrelle è un po’ distante dal mio spirito. A
parte il fatto che lui in guerra si è comportato in modo meraviglioso, perché è un uomo politico.
EDBB: Professore, Lei ricorda qualche povero scrittore, intendo quegli scrittori che vivono solo
con i propri scritti, magari legato alla sua Roma?
PFR: Il poeta Onofri. Arturo Onofri. Apparteneva alla mia stessa fratellanza, pur avendomi
preceduto di parecchie lunghezze e di molto maggior valore. Anche Massimo Scaligero, mio amico
fraterno.
EDBB: Quindi esistevano nella Roma di trenta, quarant’anni fa, questi personaggi solitari, disperati,
come gli scrittori, come i poeti.
PFR: Sì, ma esistevano soprattutto delle scuole che possiamo dire magiche cui facevano capo dei
medici eminenti come ad esempio Sebastiani, che era il segretario di Benito Mussolini. Cui
facevano parte persone che erano al di là del visibile. Come ad esempio Ciro Formisano che ha
resuscitato la sapienza pitagorica. C’era allora un’atmosfera straordinaria. Consideri anche Sibilla
Aleramo, che credo sia stata anche l’amante di Julius Evola e di Massimo Scaligero. Questi
rapporti, però, non si esaurivano solo nell’aspetto fisico, ma erano molto più profondi fatti da una
generazione tempratasi nella Grande Guerra. Come quella di mio padre, arrivato in Italia dalla
Patagonia per poter combattere e come lui tanti contadini italiani emigrati nelle campagne argentine
che tornarono in Europa per l’Italia.
Pertanto, esisteva una fraternità chiamiamola di spiritualisti, che non si è mai più ricostituita. In
questo senso Evola ha operato male, perché ha risvegliato una visione magica dell’esistenza che
molti si illudono di seguire, ma in realtà seguono l’indagine riflessa di quella che è stata una
esperienza magico-letteraria-guerresca-filosofico-scientifica.
EDBB: Lei, oggi, di fronte alla tomba di un soldato tedesco o di un soldato italiano, che cosa
prova?
PFR: Quando entro in un cimitero, la prima cosa che faccio è quella di andare sulla tomba dei miei
avversari. Poiché noi in guerra siamo assolutamente uguali. Apparteniamo a un esercito celeste, un
esercito di gente per cui il combattimento è un’occasione di offerta. Noi siamo degli oblati.
A volte, comunque, mi reco al cimitero germanico di Pomezia sulla tomba di un granatiere delle
Waffen SS chiamato Beck che io mi sono portato sulle spalle oramai cadavere.
EDBB: Ci racconta, per concludere questa intervista, qualche altro aneddoto della sua esperienza al
fronte?
PFR: Un giorno incontrai un camerata tedesco delle SS, se ben ricordo aveva il grado di Capitano
ed io quello Sottotenente. Vide sul mio braccio il distintivo di ardito italiano e mi chiese che cosa
fosse. Glielo spiegai in tedesco. Allora mi rispose: “Voi siete quei diavoli che combattete con il
pugnale? Non potete addestrare un gruppo di sette/nove uomini del battaglione per costituire un
reparto d’élite tedesco?”. Battaglione a cui quello Degli Oddi era tra l’altro d’appoggio.
Gli risposi di sì e fu così che ci recammo al campo tedesco per cercare dei volontari. Il Capitano
chiese se c’erano sette volontari che volevano imparare il combattimento corpo a corpo all’italiana.
Si fecero avanti in sette ed incominciammo l’addestramento la notte stessa.
Li portai su un sentiero segnato da due bende che indicavano che a destra e a sinistra c’erano le
mine. Allora il nostro battaglione reggeva cinque chilometri di fronte, anche se in realtà una tale
unità ha la forza per controllarne effettivamente seicento metri. Fu così che vennero impiegati i
campi minati per creare una barriera difensiva per tutta la nostra unità.
Li portai fuori, li feci strisciare nel fango con me. Tra di noi c’era una gioia grandissima, ci
sembrava quasi di andarci a donare a una donna bellissima. Arrivammo a un reticolato e gli dissi:
“Adesso guardate come faccio io”. Entrai nel centro di fuoco[2] americano e mi incominciai a
muovere come se fossi “ubriaco”[3], mostrando così ai tedeschi come si effettua una assalto nella
maniera degli arditi.
EDBB: Dopodichè?
PFR: Tornati al campo, i tedeschi presi dall’entusiasmo mi chiesero se volevo prendere Borgo
Flora che era la cerniera tra i settori inglese e americano del fronte. Di fronte a questa cerniera
c’erano i tedeschi e gli italiani “Degli Oddi”, un gruppo sparuto di russi e la Xª MAS. Dopo la Xª i
paracadutisti. Mi è tanto spiaciuto non essermi arruolato nei paracadutisti, ma da ragazzo temevo di
aver paura a lanciarmi con il paracadute. Comunque, dei soldati meravigliosi, come non ne conobbi
mai più.
Purtroppo i tedeschi, maniaci della perfezione, una volta approvato il mio piano per prendere Borgo
Flora, mi vollero far ripetere per la seconda volta l’esercitazione con cui simulavo l’assalto al borgo
con il mio personale tedesco. Perdemmo così l’iniziativa e proprio quel giorno l’artiglieria anglo-
americana iniziò a far fuoco contro le nostre postazioni.
[1] Il berretto di pelliccia (NdA).
[2] Il centro di fuoco è l’insieme delle postazioni dipendenti da un unico comando di un settore
difensivo (NdA).
[3] Probabilmente Pio Filippani Ronconi con questa espressione vuol indicare la tecnica conosciuta
come “passo del fantasma”. Che consiste nel muoversi di notte, silenziosamente, controllando il
terreno senza far rumore, ma sfruttandone gli appigli tattici.
Il personaggio. Oltre la leggenda nera dicembre 7, 2011
Pio Filippani Ronconi
da “il Giornale“
L’ultima cintura nera di Aikido la prese a 78 anni; una delle tante che si era meritato praticando le
arti marziali. Infatti il conte Pio Filippani Ronconi, scomparso novantenne nel febbraio del 2010, lo
si ricorda soprattutto perché fu un grande guerriero. Sarebbe invece ora di scoprirlo come uomo di
cultura, liberarlo dall’aura maledetta delle scelte giovanili. Anche perché del Fascismo e della RSI
in fondo non gli importava «un fico secco» e riconobbe che le SS – nelle quali militò dopo l’8
settembre ’43 col grado di Obersturmführer – erano cadute «nelle zanne di Lucifero».
Meglio allora dedicarsi al Filippani Ronconi saggista, all’orientalista stimato da Henri Corbin e
Alessandro Bausani, al traduttore del canone buddista e di testi sacri induisti e islamici. Conosceva
40 lingue, tibetano compreso (Giuseppe Tucci glielo fece imparare in una settimana), insegnava
idiomi, letterature, religioni e filosofie orientali e molto altro dalla sua cattedra universitaria. Inoltre
era maestro anche di scienze meno accademiche, quelle esoteriche approfondite in compagnia di
Julius Evola e degli antroposofi Giovanni Colazza e Massimo Scaligero. L’orientalista guerriero.
Omaggio a Pio Filippani Ronconi (Il Cerchio, pagg. 246, euro 25, introduzione di Gianfranco de
Turris) è il primo libro che permette un’immagine più completa dell’uomo e dello studioso. Si tratta
di una raccolta di testimonianze di colleghi e allievi, brevi saggi sul suo lavoro. A coronare il tutto,
un’intervista che l’orientalista Angelo Iacovella, curatore del volume, fece al professore nel 2001 (e
della quale anticipiamo in questa pagina una parte). Ne esce un Filippani-Ronconi inedito, lontano
dall’immagine truce che ancora gli si cuce addosso.
L’iniziazione esoterica dell’orientalista guerriero
da “il Giornale“
Pubblichiamo una parte dell’intervista inedita rilasciata nel 2001 da Pio Filippani Ronconi ad
Angelo Iacovella e contenuta nel libro L’orientalista guerriero. Omaggio a Pio Filippani Ronconi
appena uscito per Il Cerchio.
In merito alla Thule e alle sue aspirazioni più propriamente occulte, può dirmi qualcosa di più? Lei
praticava già allora delle discipline realizzative?
«Io conobbi i Tantra, quando avevo quattordici anni e qualche mese, quindi si può immaginare…
Già conoscevo, avevo delle idee rudimentali, non certamente perfezionate, di sanscrito e di arabo;
potevo interpretare un testo scritto in sanscrito, naturalmente con l’aiuto di una traduzione. Anche
adesso, cerco sempre un appoggio… ma comunque possedevo il sanscrito e avevo, con grande
fatica, letto Hermann Wirth, Der Aufgang der Menschheit, dimenticandomi del piccolo particolare
che non conoscevo il tedesco. Allora, non lo conoscevo affatto. Quindi andavo sempre alla
Biblioteca Nazionale, dove cercavo di sgattaiolare, perché, quando mi vedevano coi pantaloni corti,
mi rimandavano via, a meno che non ci fosse una signora che si inteneriva per me… Poi, io ti ho
detto che conobbi i Tantra. È una cosa che non ho detto mai, ma adesso sono abbastanza vecchio e
posso anche correggere la mia biografia. Conobbi anche molte altre cose, che abitualmente vengono
tenute segrete, non certo in Europa, ma sicuramente in India. Mi auto addestrai nello studio delle
rune e arrivai a determinati risultati molto semplici, ma anche, diciamo così, molto… “volgari”.
Come far piovere, oppure far partorire una vacca, oppure, non so, sapere quello che c’è sotto terra
in un determinato posto… In Africa, mi ricordo di aver adoperato questi piccoli giocattoli per
trovare caverne, luoghi dove mettere il comando di compagnia. Io guardavo una carta, dicevo, “qui
abbiamo dodici metri di distanza dal nemico, qui c’è una caverna, qui c’è una fonte d’acqua che
però non funziona più, l’acqua è avvelenata, è cattiva…” e via discorrendo».
Cosa può dirmi delle sue “iniziazioni orientali”, specie di quella zoroastriana?
Quella zoroastriana fu veramente qualcosa di straordinario, perché io sono stato portato in un luogo
segreto, che stava nel cuore della capitale persiana. Un luogo, il primo posto dove si sarebbe
scatenato l’urlo della marmaglia, per distruggere questi pagani… entrai, c’era un grande cortile con
un piccolo edificio nel centro. Entrai e scendendo, mi ricordo che c’era un vecchio inturbantato, un
vecchio zoroastriano col turbante che cantava le lodi di Zarathustra, con una voce pulita,
meravigliosa. Mi portarono lì senza dirmi niente. Io arraffai una sciarpa e un paio di guanti, perché
sospettai che c’era qualcosa. Allora mi portarono dinnanzi a questo tabernacolo dove ardeva uno dei
tre fuochi dell’Iran, mi infilai i guanti… poi presi la sciarpa e me ne feci un turbante, tappandomi la
bocca, e poi cantai lo Ahunavaitì… e recitai la Ahunavaitì, che è la lode all’uomo giusto, all’uomo
che non mente. Questi due persiani, commossi, mi presero così, così, sotto il braccio, che è un gesto
che esiste, credo, dall’Anatolia fino alla Cina. Le persone di rispetto si aiutano a camminare, si
suppone che siano sfinite di stanchezza. Chi avesse detto loro che io mi ero occupato di Zarathustra,
non lo so… E pensa che la settimana prima, avevano rifiutato di mostrare il fuoco sacro, a Bombay,
a un professore che era, forse, il più grande iranista europeo, il professor Duchesne».
Lei ha viaggiato molto?
«No, poco, pochissimo. Sono stato in Africa settentrionale, son nato in Ispagna, ho soggiornato in
Francia dai miei zii, zii piemontesi e francesi, poi… dove sono stato? In vari posti…»
In Russia?
«In Russia ci son passato soltanto e mi son divertito perché mi misero vicino una bella ragazza, che
aveva il compito di scrutare ciò che io leggevo; e io mi ero portato il vangelo in russo e questa mi si
mise accanto nella aereostazione di Scere… mi pare. Lo aprii di colpo e vidi che costei era restata…
così. Mi feci il segno della croce, tre volte, e cominciai a recitare… avevo il testo in greco. Lo lessi:
en arché en o logos kai… Recitai questo a mezza voce e poi lo recitai in russo. E continuai
tranquillamente per una mezz’ora e poi chiusi il vangelo, lo misi da parte e mi misi ad aspettare
l’aereo…Mi dettero la laurea honoris causa in teologia islamica per premiare le opere che avevo
scritto nell’ambito degli ismaeliti. Gli ismaeliti, se avessero potuto, mi avrebbero tagliato la
gola…».
Per lesa maestà… per leso imam…
«Già. Adesso conosci quasi tutti i miei misteri… tu sei mai stato in Iran?»
No, purtroppo.
«Un paese molto piacevole».
Anche adesso?
«Beh… basta non essere iraniani…».
I molteplici stati di coscienza nello Yoga e nello sciamanesimo (di P.Filippani
Ronconi)
Questo articolo di Pio Filippani Ronconi ha visto luce sul numero 3 della nostra rivista. Lo
riproponiamo on linedietro richiesta di numerosi amici lettori, per la sua straordinaria
efficacia, chiarezza, originalità e profondità.
Qualsiasi studio che si proponga di sceverare la natura, le tecniche, i fini e le tappe progressive
dello Yoga, come anche di quell’insieme di pratiche e di riti estatiche caratterizzano lo
Sciamanesimo, si troverà di fronte alla difficoltà di superare il limite puramente descrittivo, ad
esempio degli anga dello Yoga o delle fasi di iniziazione e della pratica sciamanica, che ben poco
possono rivelare circa la realtà intima – il Wesen – del sistema esoterico o estatico preso in esame.
Si tratta di un problema epistemologico: per intendere questo elemento, che costituisce lo scenario
interiore sul quale lo sciamano compie le sue pratiche, occorre penetrare imaginativamente negli
stati di coscienza nei lo yogin, il mago” o lo sciamano s’immerge lucido e vegliante, e intendere il
rapporto fra questi stati di coscienza – che ritroviamo descritti in una miriade di opere dagli
Yogasûtra di Patanjali fino ai Tantra śaiva, vaisnava o śâkta – e il mondo obiettivo spazio-
temporale di veglia, per intenderci, quello stesso che viene apparentemente trasceso e messo da
parte durante l’impresa estatica, dato che ad un certo momento, alla fine del rito o dell’evocazione,
il “portento” si verifica proprio nel comune ambito spazio-temporale e su questo lo si recepisce.
A tale proposito, si può osservare che anziché trattarsi di uno spazio-scenario passivo, quello dello
yogin o dello sciamano scaturisce dalla volontà stessa dell’operatore, quella di personificarsi “qui”
o “là”, “in questo tempo” o “in quell’altro”, presente o futuro. Lo yogin e, in parte, lo sciamano
possono operare sulle cose perché percepiscono il pensiero con cui se le rappresentano, cioè il
pensiero “magico” dello yogin viene foggiato dalle discipline del pratyâhara (la abstractio delle
facoltà di percezione dallo strumento sensorio), del dhârana (cioè la concentrazione mentale) e del
dhyâna (la meditazione estatica).
Si tratta di un problema eminentemente epistemologico, di cui, fra tutte le tradizioni sapienziali,
quella dell’India può offrirci la chiave d’interpretazione, poiché in India si è conservato fino al
giorno d’oggi e trasmesso in un rigoroso linguaggio filosofico il retaggio di almeno due civiltà,
quella postulata come indomediterranea, che si continua ai giorni nostri nella cultura dei tantra e
delle sette gnostiche in generale, e quelle del filone vedico che, pur se ridotto ed adattato a nuove
esigenze religiose, si perpetua come liturgia nella religioni dell’India e, come fonte autorevole, nella
“filosofia dei sei sistemi”, i darśana. Per fare un paragone, è come se, accanto alla filosofia positiva
dei Greci si fosse conservata fino ai giorni nostri la sapienza dei Misteri dell’antichità, trascritta in
un linguaggio mistico-matematico.
Non soltanto, ma questa “meditazione filosofica” volta alla realizzazione spirituale può, in seguito a
recenti studi, vantare una doppia genealogia: quella vedica su accennata, fondata sul culto delle
divinità maschili e luminose, che simboleggiano – a livello della meditazione estatica – i poteri
luminosi della coscienza, il cui culto sarebbe stato importato in India dalla migrazione arya, e , di
fronte a questa, quella che amiamo definire “indomediterranea” per la sua somiglianza con i culti e i
misteri della nostra antichità pre-classica, che ha al suo centro puri poteri numinosi personificati nei
cosiddetti asura, che nella successiva tradizione indiana diventano semplicemente i démoni anti-
deva, le cui imprese e sconfitte ad opera dei deva e degli eroi dell’epica (vedi il Ramâyaņa, il
Mahâbhârata, ecc.) sono alla base della gigantesca mitologia indiana.
E proprio a questi secondi dèi, relegati ad una funzione negativa rispetto ai deva aryi, risale
tradizionalmente l’insegnamento ascetico ad esempio del Jainismo, i cui varii Tirthankara, cioè
Pontefici, risalgono ad oltre l’850 a.C., data del penultimo di essi, Pârśva, seguito dal Jina nel VI
sec. a.C. Anche l’epopea ariana dei Purâna e del Mahâbhârata, a tacere del Râmâyana, serba
rispettoso ricordo di questi anti-dèi che regnavano nel sud non-ariano quali, di contro ai deva,
possedevano la âtma-vidyâ, la “scienza del sé stesso”, un poco come un’anticipazione del delfico
γνωθι σεαύτον.
“Dopo la loro sconfitta, Indra il signore degli Âryi chiese ai re Asura Bali, Namuci e Prahlâda: ‘Il
vostro regno è stato conquistato, voi siete nelle mani dei vostri nemici, eppure sul vostro volto non
vi è traccia di dolore. Quale ne è la ragione?’. Bali, signore dell’âtma-vidyâ, figlio di Virocana,
rispose in modo tale da scuotere l’orgoglio di Indra: “O Signore dei Signori! Sono sorpreso dalla tua
follia. Adesso tu prosperi e la mia fortuna mi è stata sottratta, ma non si conviene che lodi te stesso
di fronte a me’”. (1)
Dal punto di vista storico, il fatto che nell’antichissimo Rg-veda si trovino menzionati alcuni
termini denotanti asceti non appartenenti strettamente alla tradizione aryo-vedica, come vātarasana-
muni, in alternativa a vātarasana- śramana, Keśin (“dalla lunga chioma”, detto dei maghi volanti a
cagione del calore ascetico, il tapas da loro sprigionato, cfr. Rg-veda X, 136), Vrâtya e Arhat,
dimostra che la tradizione śramana è con ogni probabilità anteriore a quella introdotta dagli Aryi
con i Veda. Si potrebbe anche postulare un rapporto, se non altro tecnico – per la pratica dell’estasi
e la realizzazione degli stati superiori della coscienza – con alcune specie di sciamanesimo praticato
in Asia Orientale, data anche la coincidenza onomastica di śaman con śramana, quest’ultimo
derivato dal verbo √šram = adoprarsi, affaticarsi. (2)
Le tappe della realizzazione interiore del myste, muni o śramana che sia sono accompagnate dalla
penetrazione negli strati più profondi della coscienza, laddove egli attua la propria identità con le
potenze che reggono, su di un’ottava cosmica, i processi della volontà, quelli stessi che, al livello
fisico-sensibile, cui corrisponde la coscienza di veglia, sovraintendono nella compagine umana alle
funzioni del ricambio, del movimento nello spazio e della generazione. La capacità, per esempio,
che ha uno sciamano di compiere portenti che apparentemente vìolano le leggi della materialità
ordinaria dipende dalla sua identificazione – la sua adaequatio, anubhava si direbbe in sanscrito
(“diventare la cosa meditata”) – con quel livello di realtà che è soggettivamente un livello di
coscienza.
La tradizione indiana, alla quale si è fatto riferimento, annovera quattro livelli di coscienza, che
vengono simbolicamente riferiti ad altrettanti momenti dell’articolazione del verbo creatore
espresso con il fonema OM (cioè AUM). La Mândukya Upanişad (Upanişad trad. Filippani
Ronconi, Boringhieri 1974 III ed., pagg. 527 ss.), che qui cercheremo di riassumere con le parole
stesse dell’Autore, così descrive i molteplici stati di coscienza e le corrispondenti condizioni
ontologiche:
“Om è questo indefettibile brahman, Om è tutto ciò che è; questa Upanişad ne è la spiegazione. Ciò
che è esistito, ciò che esiste e ciò che esisterà, tutto ciò è compreso nella Om. Quell’altro,
trascendente la tritemporalità, è pur esso designato da Om.
Tutto ciò che è, è invero il brahman (lo spirito universale); questo âtman (lo spirito individuale) è il
brahman; questo âtman ha quattro stati (catuşpat, “quattro piedi”).
La prima condizione è Vaiŝvânara (“comune a tutti gli uomini”), la quale ha come sede lo stato di
veglia (jagarita-sthâna); essa ha conoscenza degli oggetti esteriori; ha sette membra, diciannove
volti (3) e fruisce del mondo materiale.
La seconda condizione è Taijasa (“sostanziata di luce”, tejas), la cui sede è lo stato di sogno
(svapna): essa ha conoscenza degli oggetti interiori; ha sette membra e diciannove bocche ed ha
come dominio il mondo della manifestazione sottile.
Allorchè l’essere dormiente non prova più desideri, non è più soggetto a sogni, allora si ha la
condizione di sonno profondo (suşupta). Colui che si è identificato a questo stato (ekī-bhūta) è
divenuto sintesi di conoscenza, (prajñāna-ghana), si è fatto beatitudine (ânanda-maya) ed ha la
beatitudine come campo di esperienza: la coscienza è il suo strumento di conoscenza. Costui è
chiamato prajña (“conoscitore assoluto”). Questa è la terza condizione.
Egli è il Signore di tutto, Egli è l’onnisciente; Egli è l’ordinatore interno, matrice del tutto. Egli è
l’origine e la fine di tutti gli esistenti.
I saggi pensano che il Quarto che non ha conoscenza né degli oggetti interni né di quelli esterni, né,
contemporaneamente, di questi e di quelli, che non è sintesi di conoscenza, poiché non è né
conoscente né non conoscente, che è invisibile, non agente, incomprensibile, indefinibile,
impensabile, indescrivibile, è la sicura essenza fondamentale dell’âtman, nel quale è totalmente
cessata ogni traccia di manifestazione, ed è pienezza di pace e di beatitudine, senza dualità; questo è
l’âtman (così deve venir conosciuto).
Egli è l’âtman: riguardo alle lettere è super indefettibile, designato da Om, riguardo alla cui misure
(adhi-mâtra) ogni piede del brahman corrisponde ad ogni sua misura, ogni misura sua ad ogni
piede del brahman: questi piedi sono le lettere A, U, M.
Vaiŝvânara, la cui sede è lo stato di veglia, è designato dalla lettera A, che è la prima misura
(mâtra) del monosillabo Om per il fatto che âpti (“connessione” fra i dati dell’esperienza sensibile)
inizia con A. Colui che così conosca consegue (âpnoti) tutti gli oggetti di desiderio ed è il primo
(âdi) in ogni impresa.
Taijasa, la cui sede è lo stato di sogno, è designato dalla lettera U, che è la seconda misura, in
quanto utkarşa (“elevazione”) rispetto alla dualità di mondo materiale e mondo sottile (sūkşma):
esso, invero, sublima (utkarşati) il flusso ininterrotto di conoscenza (jñâna-santati). Colui il quale
ciò conosca è in armonia con il Tutto; non uno dei suoi discendenti ignorerà il brahman.
Prajña, la cui sede è lo stato di sonno profondo, è designato dalla lettera M, che è la terza misura, in
quanto determina (miti) la “dissoluzione” (apîti, cioè la lisi della conoscenza oggettiva). Colui il
quale ciò conosce diventa invero onnipenetrante.
Il Quarto stato (caturtha) è incommensurabile (a-mâtra, in quanto non soggetto ad esperienza), è
non-agente, è al di là della manifestazione; esso è assoluta calma (śiva) e trascende la condizione di
soggetto ed oggetto. Tale è la lettera Om. Colui il quale così conosca diventa puro âtman
(“individuo assoluto”) e, mediante l’âtman (“il sé”) penetra nell’ âtman (“sé come spirito
universale”).”
Ora, in particolare, il Quarto stato, al quale corrisponde l’esperienza (vegliante!) della catalessi, non
si somma ai precedenti tre stati come loro ultimo, bensì è immanente in ognuno di loro, come atto di
pura autoconoscenza nella realizzata identità di âtman e di brahman, di spirito incarnato e di spirito
universale.
Dal punto di vista metafisico, in riassunto, si tratta di ciò:
Il brahman, uscendo dalla sua assolutezza per una sorta di gioco magico – la mâyâ , substrato
dell’“Illusione” esistenziale – si attua estravertendosi in quattro diversi livelli di conoscenza,
ognuno dei quali contiene in potenza i successivi: l’Essere puro identico a sé stesso corrispondente
al quarto stato; il Verbo (Vâk, Para-śabda), come causa, kârana, attraverso le sedici vocali, forme a
priori delle sue infinite potenze (śakti) di manifestazione, cui corrisponde nell’uomo ordinario lo
stato di sonno profondo; al livello invece di sonno con sogni corrisponde il piano delle forze sottili,
sūkşma, come le forze psicofisiche dell’energia vitale volte verso la manifestazione del mondo su
piano materiale, sthūla.
Dallo Spirito del Mondo, Mahân âtma, già “inespresso”, avyakta, possibilità di manifestazione in
generale, discende la Psiche, Buddhi, che come Colonna di Luce connette il mondo dello spirito con
l’anima dell’uomo, nella quale essa si individua come esperienza pensante (manas) ed esperienza
riflessa dell’io (ahamkâra). Attorno a queste categorie si organizzano gli strumenti della percezione
sensoria (nuddhîndriya), in dipendenza delle rispettive facoltà (karmêndriya) da cui gli universali
della Natura obiettivata (tan-mâtra), le quidditates che, alla loro volta, danno luogo agli elementi
“fisici”.
In pratica il mondo oggettivo esteriore viene dedotto dallo Spirito Universale interiormente intuito,
per cui alla fine dei conti tutto i mondo che si dispiega dinanzi ai nostri sensi è un epifenomeno
dello stesso spirito che se lo rappresenta! Questo metafisicamente spiega come i pensiero
tradizionale, deducendo il mondo manifesto dallo Spirito che, in ultima analisi, è quello che se lo
rappresenta, ammetta di poter operare su quello “magicamente”, partendo dalle facoltà interiori di
rappresentazione e di volontà. Queste facoltà operano su diversi piani a seconda dell’energia che la
volontà cosciente del praticante mette in funzione.
Di là dal potere logico-discorsivo che coglie il mondo paralizzato nella sua parvenza “minerale”
sulla dimensione spazio-temporale, a livello di sogno si ha l’immaginazione, che sperimenta il
mondo nella sua realtà di energia pura su di una dimensione di “durata”, cioè di sintesi temporale,
non ancora frantumata nella successione degli “attimi” (anu); di là da questa, a livello di sonno
profondo, l’asceta sperimenta il mondo come pura “sonorità” (nâda), che si rifrange nelle sedici
“vocali” (svâra), “vesti di potenza” dell’assoluto (śakti, le “piccole madri”, mâtrikas, della realtà), il
quale costituisce la “quarta” dimensione della realtà, essenziata di pura coscienza autoluminosa
(prabhâsvaram cittam), pura immanenza in tutte le possibili forme di coscienza.
Questa concezione relativa alla molteplicità degli stati di coscienza, che fra l’altro è
eminentemente sviluppata nella letteratura tantrica dell’India, costituisce la base per la speculazione
e la pratica dell’ascesi mahâyâna in India e nel Tibet, con un riflesso immediato sullo sciamanesimo
Bon-po, che ne ha pienamente accolto la teoria.
Questa esperienza, più che teoria, dei quattro stati di coscienza è, in pratica, il fondamento
epistemologico su cui si basa la meditazione filosofica indiana (anvīkşikī), volta non tanto a
raggiungere una spiegazione logica dell’Universo e della nostra esistenza in esso, quanto a
sperimentare concretamente il suo significato e la sua efficienza, al fine di ottenere la “liberazione
in vita” (jīvân-mukti); liberazione da un’esistenza condizionata dall’Ignoranza (avidyâ), dal dolore
(duhkha), malattia e morte.
Ma anche, indipendentemente dal caso del vîra, l’“eroe” che nella pratica dello yoga si propone di
conseguire la libertà da tutti i vincoli e l’immortalità, la penetrazione cosciente e desta nei livelli in
cui l’uomo comune, il pâsu (l’animale), si assopisce perdendo il senso dell’”io sono”, è la
condizione imprenscindibile anche per l’asceta meno qualificato che miri a conseguire le siddhi, i
poteri magici.
A questo punto si può formulare l’ ipotesi che tutte quelle tecniche psicofisiche, che caratterizzano
le varie Religiones Secundae come lo Sciamanesimo, le forme popolari del Tao-chiao, i culti
estatici, che vegetano come forme crepuscolari liturgico-devozionali accanto alle grandi religioni,
ad esempio i vari ordini di dervisci nell’Islam (specialmente i Mevlevî ed i Bektashî), attingano quel
sapere frammentario ed evanescente che guida le loro pratiche da una remota esperienza di
quell’insieme di discipline, le quali nella loro interezza sono tuttora il retaggio curato e
filosoficamente giustificato dello Yoga classico e delle altre forme della medesima disciplina che ci
sono state trasmesse dai Tantra sia hindu che buddhisti, dagli Âgama dello Śaiva-siddhânta e dal
Vajra-yâna mahâyânico. Per loro si tratta di discendere – giovandosi di vari appigli psicofisici:
concentrazione mentale su adatti monoideismi e stati alterati di coscienza dovuti ad ingestione di
funghi, fumo prolungato, consumo di droghe, ecc. – ad un livello di coscienza profonda profondo,
che non è semplicemente mentale, bensì implica differenti dimensioni oggettivamente e strumentali,
e su di esso sperimentare non passivamente un’alterazione dell’”appoggio”, se non addirittura ciò
che nel Mahâyâna si denomina “la revulsione dell’appoggio”, âśraya-parâvrtti, per cui i rapporto
con la realtà fisico-sensibile è causato non più da un passivo determinismo che l’asceta subisce,
bensì da una diversa causalità a cui lo sciamano ha accesso. Si tratta, per dirla semplicemente, di
animare i poteri dell’immaginazione (non “fantasia”!) sul livello a cui l’uomo comune si assopisce,
dell’ispirazione, al livello (per gli altri!) di sonno profondo, ove operano le potenze della volontà
con un percorso opposto a quello del pensiero ordinario, e, infine, dell’intuizione, al livello di
catalessi, laddove si attua, di là da qualunque possibile cogitazione, l’identità fra soggetto ed
oggetto dell’esperienza, la cosmica epopteia (4) dei Misteri antichi.
Fin qui si è cercato di tratteggiare alcuni caratteri psicologici di coincidenza fra lo Yoga e lo
Sciamanesimo, per cui rimane il dubbio se alcune forme di Yoga non “classico”, che da millenni si
perpetuano nelle scuole settarie, non rappresentino lo sviluppo ambientale di alcune branche di
sciamanesimo antico, la cui arcaicità può risalire alla scoperta della fusione dei metalli, data
l’importanza, positiva o negativa (vedasi la maledizione contro la professione di fabbro presso i
Berberi di contro la posizione quasi regale del fabbro tra Altaici, Malesi ed Estremo-orientali), che
assume l’armamentario metallico presso gli Sciamani. Questo potrebbe essere oggetto di uno studio
approfondito di natura tecnica, antropologica, sociale, ecc.
Volendo riassumere i caratteri più specificamente comuni delle varie specie di Sciamanesimo si
potrà dire che essi sono quelli relativi all’estasi, all’entrata in condizioni non usuali di
consapevolezza, allo sviluppo di facoltà extrasensoriali e dei poteri ad esse connessi (siddhi, mna),
ciò che ci riporta al tema dei molteplici stati di coscienza che sono alla base dello Yoga, sia quello
“classico” che quello praticato dalle numerose sétte gnostiche in India e nel Tibet. Nell’ambito del
Vajrayâna e delle scuole da questo derivate nel Tibet (Sahaja-yâna e Kâla-cakra) tali esperienze,
che in pratica rivelano diverse dimensioni dell’esperienza cosciente, acquistano una specie di status
ontologico, ipostatizzandosi nella triplice ottava di corpo-verbo-mente (kâya, vâk, citta), che
corrisponde ai primi tre stati di coscienza postulati, come detto sopra, dalla Mândukya Upanişad o,
nell’ambito strettamente soteriologico, dalla realizzazione della quadruplice mudrâ, o dal
quadruplice vuoto mediato dall’âśraya-parâvrtti, la “revulsione” dell’appoggio dato dall’esperienza
sensibile del mondo, la quale “revulsione” conduce alla realizzazione del vuoto (śûnyata, tib. ston-
pa-ñid) di là dal mondo dell’Illusione esistenziale (mâyâ, tib. Sgyu-maán, ak’rul-snán).
A voler riassumere, a parte la chiesa Bon-po, che ha assorbito i criteri fondamentali dell’avversario
Buddhismo e si è perciò organizzata e sistematizzata, lo Sciamanesimo presenta l’immagine di un
sapere estremamente arcaico, proprio ad una remotissima cultura, ormai crepuscolare, proprio
perché si è rarefatto i tipo umano che la sostentava, per i quale era ancora naturale l’accesso in
diverse condizioni spirituali, nelle quali l’uomo odierno – assiato su di un’esperienza astratta della
realtà – perde la coscienza. Si tratta di una fase culturale per la quale diciannove secoli fa Plutarco
di Cheronea constatava smarrito la “morte del grande Pan”.
Sulle ali della nostalgia per una sapienza prossima ad estinguersi e pur tuttora vivente fra rade
popolazioni disperse, lungi dai percorsi della civiltà moderna, si perpetua ancor oggi la mistica
tradizione dei poteri dell’anima ai quali l’iniziazione schiude l’accesso. Si tratta essenzialmente di
discendere con rinvigorita consapevolezza negli stati di coscienza medesimi, nei quali la vigile
presenza dell’”io” si attenua e sparisce presso l’uomo comune, mentre per l’iniziato si accende
nell’acquisto di conoscenze che sono contemporaneamente poteri; primo tra tutti il mistico calore, il
tapas, già mentovato nel Rg-veda (X, 136), il tibetano gtun-mo, che permette di trascendere i limiti
spaziali e temporali, indi le sei siddhi elencate nei tantra della “mano sinistra” (scrt. Vâma-cara). E’
il mondo delle kha-carînî (tib. mkha agro), le “viaggiatrici nello spazio” dotate di miracolosa e
temibile potenza (si pensi alle nostrane streghe volanti attorno al famoso Noce di Benevento).
Resta il dubbio che la condizione animica della “entrata in phronesis” (scrt. Krodha-âveśa, tib.
khro-ba), disciplina individuale che permette lo sciogliersi dalla coscienza legata alla percezione del
mondo materiale, non sia altro che una “irruzione di stati pre-individuali” con il loro naturale carico
astrale nella coscienza di veglia, condizione ben conosciuta nei Tantra ai quali si è alluso più sopra.
Degenerazioni di questa pratica possono essere gli stati di amok e di lalat ben conosciuti tra le
popolazioni malesi ed indonesiane. Discipline volte alla realizzazione di questa specie di wut
sciamanico potrebbero anche essere il furu-tama ed il funa-koshi, praticati in alcune arti marziali
giapponesi.
(1) Acharya Shri Tuls: Prevedic existence of śramana tradition, XXVI International Congress of
Orientalists, New Delhi, 4-1-1964)
(2) Il termine prototurco dovrebbe essere a rigore kami (non si dimentichi che in giapponese kami
sono propriamente gli “spiriti”), mentre il mago con funzione regale è detto bek, bekki.
(3) le sette membra cono i sette strumenti dell’azione: il mentale, il sole e la luna (corrispondenti ai
due occhi), il fuoco (il soffio vitale della bocca), le direzioni dello spazio (l’orecchio), l’atmosfera (i
polmoni), l’etere ove sono foggiate le forme (lo stomaco che elabora il cibo per l’accrescimento del
corpo), la terra (il corpo umano come materia); le diciannove bocche sono gli strumenti
dell’esperienza: i cinque organi di percezione, le cinque facoltà di azione, i cinque soffi vitali, il
mentale, l’intelletto, il pensiero associato, l’organo dell’egoità.
(4) cioè: contemplazione, il più alto livello nell’iniziazione ai Misteri Eleusini.
Mistico e tollerante, ecco l'altro islam
di Luca Negri - 27/09/2012
Fonte: il giornale [scheda fonte]
Gli scritti inediti di Pio Filippani-Ronconi rivalutano la tradizione pacifica di
molti seguaci di Maometto
Le vicende degli ultimi anni e le drammatiche notizie che oggi arrivano da Siria, Nigeria e altri
Paesi musulmani, appiattiscono l'Islam, agli occhi di molti occidentali, sulla minaccia tirannica e
bellica.
Ma c'è un abisso fra un militante di Al-Qaeda e un mistico sufi, fra uno sceicco arabo e un giovane
imam di periferia europea. Un abisso nell'interpretare il Corano, nelle scelte di vita, nel rifiutare o
meno la violenza, nel rispettare le altre confessioni. La religione fondata da Maometto è complessa
e contraddittoria, quanto l'universo cristiano, forse ancora di più. Dell'Islam quasi tutti sappiamo il
minimo indispensabile, ovvero la divisione in due tronconi: Sciiti e Sunniti. Qualcuno sa che
Osama bin Laden seguiva, come la famiglia reale saudita, la corrente del Wahhabismo, estrema e
letterale applicazione della legge coranica e odio sistematico verso i non musulmani. Molti però
ignorano che la tradizione sciita contiene un mondo intero, decisamente meno inquietante e con
altre profonde differenze sul piano teologico, mistico e spesso politico. La posizione dell'Italia, al
centro del Mediterraneo, come ponte fra Oriente e Occidente, ci deve stimolare a conoscere l'altro
monoteismo universale. Ne abbiamo bisogno per combattere chi fa davvero del male e dialogare
con chi è interessato alla convivenza pacifica.
Non sarà forse un caso che il nostro Paese abbia avuto l'onore di ospitare la vita terrena e la carriera
saggistica del conte Pio Flippani-Ronconi. L'orientalista scomparso nel 2010, infatti, scrisse
parecchio su buddismo e pensiero cinese, ma anche di Islam, in particolare delle sue manifestazioni
più eretiche. Proprio Un altro Islam. Mistica, metafisica e cosmologia, si intitola la sua raccolta
postuma di scritti in libreria dal 26 settembre (ed. Irradiazioni, pagg. 200, euro 16), curata dal
professor Angelo Iacovella. È il primo volume (arricchito dalla prefazione dell'islamologo di fama
mondiale Seyyed Hossein Nasr, persiano di nascita ma esule negli Usa) dell'edizione critica di
articoli e contributi inediti dedicati al mondo musulmano medioevale (il secondo tomo, Regalità
iranica e gnosi ismaelita, è previsto per il 2013). Una delle prime cose che ci insegna Flippani-
Ronconi è che fu proprio l'imporsi della rigidezza giuridica da parte dei Sunniti che permise, per
reazione, l'esplosione dell'esoterismo e del misticismo incarnato da Sciiti, Ismaeliti e confraternite
sufi. Spesso la differenza, le tensioni e le lotte erano anche di natura etnica: gli Arabi, musulmani
originari che conquistarono e convertirono l'intero Medio Oriente, riducevano la religione al rispetto
della Legge, gli eterodossi, quasi sempre combattuti e perseguitati, popolavano invece Persia e Asia
minore. Lì le tradizioni religiose pre-islamiche erano ancora vive e contaminarono la purezza
coranica, con influssi zarathustriani, cristiani, greci, addirittura induisti. Non mancarono sette
gnostiche, come quella degli Ismaeliti, guidata dal «Vecchio della Montagna» citato anche nel
Milione di Marco Polo, che infrangevano le prescrizioni del libro sacro.
I mistici estremisti consideravano abrogate tutte le religioni, Islam compreso, superate da un culto
più interiore e spirituale. Proprio l'atteggiamento opposto dei wahhabiti, dei fanatici che vorrebbero
sgozzare ogni infedele. Nell'introduzione al volume Iacovella ricorda che l'attenzione del conte «per
la religione in generale, e l'Islam in particolare, non si esauriva nella sola prospettiva accademica,
ma coinvolgeva anche quella personale ed esistenziale». Filippani-Ronconi era «sensibile, in modo
straordinariamente profondo, alla grazia, o barakah, della spiritualità islamica e alle sacre atmosfere
evocate da quell'arte e da quell'architettura». Insomma, coglieva ciò che può funzionare da antidoto
alle semplificazioni occidentali fondate sull'ignoranza, sulla malafede e sulla disinformazione e al
fondamentalismo.
Gli islamici si accorsero presto del lavoro pionieristico svolto dal professore italiano. Fu lui, molto
probabilmente, l'unico studioso di casa nostra a venire insignito del titolo di dottore honoris causa in
«Teologia e Scienze dell'Islam» dall'Università di Teheran. Quella stessa università e quella stessa
città che lo avevano accolto nei primi anni '50 grazie a una borsa di studio conferitagli dal governo
iranico. In patria seminò molto fra i suoi allievi dell'Istituto Orientale di Napoli, dove insegnò per
molti anni e godette della stima di sommi orientalisti come Giuseppe Tucci e Alessandro Bausani.
Ma una buona parte dell'accademia italiana si dimostrò meno prodiga di lodi. Non si vedeva di buon
occhio un'identificazione stretta con la materia d'insegnamento, ancora meno la lontananza dalle
mode ideologiche e dal conformismo storicistico che dominavano negli atenei. È però probabile che
Filppani-Ronconi poco si preoccupasse dei pregiudizi dei colleghi. Forse reagiva alle critiche con
seraficità sufica, o al massimo facendosi scappare qualche espressione in antico avestico o in
sanscrito.
Un altro Islam. Mistica, metafisica e cosmologia
di Pietrangelo Buttafuoco - 17/11/2012
Fonte: Il Foglio [scheda fonte]
C’è la luna piena nell’ora in cui vengono partoriti i vitelli i cui muggiti s’alzano in alto, più in alto
di tutti i pini, poi forse – è vero – tira una brutta aria, le giumente strusciano il muso sul muso dei
loro puledri per nutrirli di fiato e d’amore ma le cose pre-ci-pi-ta-no. Siamo, infatti, in pieno Kali-
Yuga e se la notte è solenne e serena, è il pieno giorno a farsi unto di umori, con le nubi che
avvolgono la nostra mente e, temo, anche i nostri cuori. Timidi ruscelli senza foce, siamo. E forse
senza neppure fonte. Siamo smarriti nel cosmo che si ritrae e se solo torna – nell’eterno tornare
dell’Essere – ci trova distratti, avvoltolati alle reprimende e ai predicozzi dello spirito del tempo
come quando agli asciugamani a nido d’ape affidiamo le nostre emicranie. Poi ci capita di leggere
Pio Filippani Ronconi, precisamente le prime tre pagine di “Un altro Islam. Mistica, metafisica e
cosmologia”, e tutta la barakà di un venerdì benedicente, ieri, si riversa nella felicità del vero
incamminarsi nel Tempo e nell’Essere. Tutto un libro perfetto per filologia, sapienza e dottrina
(edizioni Irradiazioni) per arrivare alla nota finale di Sveva Filippani Ronconi, figlia di cotanto
guerriero, che descrive il padre in uno stabilimento di Ostia, nella sazia estate del mare e del sole.
Immobile nella posizione yoga, dopo aver nuotato, e poi cordiale, ilare e garbato, con tutti i
vucumprà che andavano da lui – ormai lo conoscevano – per tornare a parlare con lui tutte le loro
lingue, dal sanscrito all’hindi, dal persiano farsi al turco, tutte quelle, insomma, derivate dalla parola
primordiale.