Paul Klee. Una ricognizione
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Transcript of Paul Klee. Una ricognizione
PierLuigi Albini
Paul Klee. Una ricognizione Seminario di studio del 2004
revisionato dicembre 2010
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PREMESSA
Alcune questioni preliminari per rendere esplicite le chiavi di lettura dell’interpretazione che
segue. Penso che non sia più possibile parlare dell’arte contemporanea e anche di Paul Klee:
1. senza avere sempre in mente che è stato il grande sviluppo tecnico-scientifico, la modernità
insomma, a orientare anche i cambiamenti di gusto e di sensibilità degli artisti, e a suggerire
un’attività di radicale, coraggiosa sperimentazione artistica o, comunque, di reazione alla
modernità;
2. senza fare riferimento ad una teoria della percezione che, mettendo in secondo piano la
letteratura umanistico-filosofica del passato, si appoggi alle neuroscienze e, in particolare, alla
neuroestetica.
Non svilupperò il punto 1. perché ci porterebbe troppo lontano.1
Quanto al punto 2., faccio mia l’opinione di Semir Zeki, il più noto studioso di neuroscienze, sul
fatto che gli artisti del Novecento (in particolare le avanguardie) sono stati dei neurologi
inconsapevoli. Nel senso che le loro sperimentazioni si capiscono bene solo riconoscendo che
hanno cercato di coinvolgere in modo non tradizionale, pur non avendone le cognizioni scientifiche,
le aree del cervello dedicate alla visione. Nel caso di Klee, c’è da dire che egli appare anche come
un fisico consapevole, nel senso che era piuttosto informato sulle tendenze più avanzate della fisica
del tempo.
1 Vedi il saggio, P. Albini, Manifesti futuristi. Scienza macchine natura, pubblicato su www.romanzieri.com
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P. Picasso, La tragedia, 1903
P. Klee, Il disegnatore con brocca, 1909
Parlando delle neuroscienze, dobbiamo tenere in mente che la visione è un processo attivo, che
la ricostruzione dell’immagine avviene nel cervello, che la percezione è scomposta ed elaborata da
diverse aree visive, che le cellule neuronali sono specializzate. Ad esempio, per quanto riguarda i
colori complementari, le cellule eccitate dal rosso sono inibite al verde, quelle del giallo sono
incapaci di percepire il verde, quelle deputate al bianco non colgono il nero. La percezione dello
spazio e della forma, dipendono a loro volta quasi esclusivamente dalle differenze di luminosità del
colore e non dal colore in sé. Tanto da permettere a Picasso di dipingere solo con tonalità blu, senza
farci perdere la percezione della forma, o a Klee di dipingere solo in tonalità marroni.
Una cellula specializzata per vedere una linea obliqua verso destra, non rileva una linea
orientata in modo diverso, e così via. Questa specializzazione delle varie aree e dei neuroni riguarda
perciò anche orientamento delle linee, forme e movimento; e ognuna di queste componenti è
processata in aree cerebrali diverse, separatamente o in parallelo.
Come è noto, le immagini che si formano nel nostro cervello non sono affatto una riproduzione
fotografica della realtà, ma un’elaborazione e un’interpretazione delle differenti tonalità di luce
emanate dai pigmenti da parte del nostro cervello, il quale procede anche a memoria, completando
dettagli che non rileviamo, rifinendo il non-finito, incanalando automaticamente verso una
predeterminata area visiva e specifici neuroni la rilevazione della tonalità azzurra o grigia del cielo.
Come aveva già intuito Matisse: “Vedere è già un’operazione creativa che richiede uno sforzo.”
È il colore la prima cosa che percepisce il cervello, poi le forme, poi il movimento. Ovviamente
stiamo parlando di millisecondi.
G. Matisse, La gioia di vivere
A. Derain, Charing Cross Bridge, 1906
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Ma cosa succede se invece dell’azzurro, il pittore dipinge un cielo rosso o un prato giallo?
Oppure una banana blu? Se, insomma, i colori sono sbagliati? Se, come diceva Matisse, si libera il
colore? O, ancora, se un insieme di linee non riesce a ricostruirsi nel nostro assemblaggio cerebrale
in una forma conosciuta, una delle tante che abbiamo cominciato ad immagazzinare fin dalla
nascita? Se una forma non rappresenta ciò che dovrebbe nella nostra esperienza?
Si crea quello che si può chiamare un effetto deragliamento, un détournement, una sorpresa e
uno piazzamento neuronali che incrementano in modo esponenziale una caratteristica strutturale
dell’arte, ossia l’ambiguità. In sostanza, l’ambiguità dell’arte presuppone una sorpresa sensoriale,
una specie di vertigine che ci coglie quando l’arte entra in conflitto con l’esperienza visiva
ordinaria, coinvolgendo più intensamente parti del nostro lobo frontale.
Del resto, il nostro cervello – come è ormai accertato – ricostruisce i segnali in diverse aree
neuronali e li processa, talvolta completando a memoria ciò che manca. Si tratta dell’effetto su cui
può giocare l’attrazione del non finito, che nel caso del perfettamente finito innesca sensazioni di
altro genere.
Le medesime aree visive sono deputate alla percezione e all’elaborazione, ma se non c’è
ambiguità, non c’è maggiore attenzione da parte di chi guarda (come ben sanno gli scrittori di
romanzi noir e gran parte degli artisti dei nostri giorni). Senza l’ambiguità - che, come ci ricorda
Semir Zeki, riguarda anche la pittura del passato, come nel caso di Vermeer e delle sue
rappresentazioni di interni, oppure il non-finito di Michelangelo – forse non ci sarebbe bisogno di
interpretazione. Quasi tutta l’arte contemporanea è costruita su questi deragliamenti neurologici
spinti al massimo. È una ricerca, dapprima inconsapevole, di quella che una volta si chiamava la
psicologia della visione, perché produce uno scarto forte tra lo schema neurologico chiaro e
sperimentato e i dati che non riescono a collocarsi automaticamente in senso univoco.
L’ambiguità dell’arte non coincide affatto con il cosiddetto ineffabile dell’arte, con la bellezza
ineffabile su cui si sono a lungo esercitati critici e studiosi di estetica, specialmente romantici e
idealisti. In questo caso, il termine ineffabile sta, in realtà, per lavori in corso, cioè per processi di
apprendimento ancora in gran parte da esplorare, sia per le attività apparentemente più semplici sia
per quelle cosiddette superiori. Questi lavori in corso sono per il momento sostituiti dalla
narrazione letteraria, dalla fantasia e dal rigore del critico.
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da S. Zeki, Arte e cervello, Bollati Boringhieri, 2003
Come si vede, il quadro alla “Mondrian” e quello di destra in movimento hanno come bersaglio aree diverse del
cervello.
Del resto, le neuroscienze hanno circa vent’anni, anzi sono nella loro infanzia, perché solo da
poco tempo abbiamo a disposizione strumenti non invasivi per capire cosa succede nel
funzionamento del cervello quando viene stimolato da un’immagine. Tra l’altro, l’ineffabile degli
umanisti, cioè il tentativo di descrivere l’arte con le parole, rappresenta in effetti l’incapacità della
funzione verbale di star dietro a quella visiva, di milioni di anni più antica, evoluta e raffinata. Per
dirla con il Thomas Eliot di Quattro quartetti, significa “fare un’incursione nel vago con logori
strumenti”. Con strumenti inadeguati, cioè. Sovrapponendo al percorso percettivo della visione e
dell’emozione un universo simbolico diverso.
P. Klee, Il passo, 1932
P. Klee, Incendio sotto la luna piena, 1933
Naturalmente, la neuroestetica non sostituirà l’estetica. Qui non sostengo alcun principio
deterministico. La soddisfazione estetica non può essere spiegata limitandosi ad osservare il
funzionamento dei neuroni e la ragnatela delle sinapsi, anche se bisogna guardarsi dal credere che
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l’attività estetica è riferibile alle sole funzioni superiori del cervello. La capacità di astrazione
sembra infatti contenuta già nell’attività neuronale primaria. Dico solo che in futuro (già oggi) sarà
difficile parlare di arte senza servirsi anche di questo strumento. Un po’ come non è più possibile
parlare di meteorologia senza una strumentazione adeguata, affidandosi invece solo a splendidi e
poetici discorsi sui calli che fanno male o sullo scricchiolar d’ossa. Tuttavia, un’estetica esisterà
sempre come giudizio sulla qualità dei risultati artistici, solo che si restringerà il territorio dei
giudizi soggettivi, mentre la cassetta degli attrezzi dei critici dovrà contenere anche i principi della
neuroestetica.
Questa troppo lunga premessa era necessaria per capire meglio (e al di là di quanto lui stesso ne
scrisse) quale operazione estetica ha comportato l’innovazione pittorica di Paul Klee. Ci aiuta anche
a renderci conto delle nostre stesse percezioni quando possiamo smarrirci alla ricerca di significati
nei colori, nelle forme, nei grafismi di quello che può essere considerato uno dei più grandi pittori
del Novecento (e non solo). Anche perché, secondo una straordinaria intuizione di C.G. Argan,
l’obbiettivo di Klee non era di rappresentare ma di visualizzare, e la visualità segue sempre le leggi
della percezione. Se questo è vero, Klee più di altri non può essere compreso ignorando cosa
succede nel nostro cervello quando guardiamo una sua opera.
Per cinquecento anni dall’inizio del Rinascimento italiano, scrive John Golding, “gli artisti
hanno preso a guida le leggi della matematica o della prospettiva scientifica e, conformandosi a
queste leggi, hanno guardato ai loro soggetti da un unico angolo fisso”. Con Klee (non è questa la
sede per analizzare il ruolo del cubismo e di altre avanguardie in questo campo) cambia
completamente la rappresentazione. I percorsi cerebrali nel loro farsi evolutivo, così come il mondo
è evoluzione, entrano direttamente nel quadro.
1. FORMAZIONE E CRONOLOGIA FINO ALLA TUNISIA
Sebbene svizzero, la patria culturale e di adozione di Paul Klee è stata la Germania.
Ai suoi inizi è fortemente influenzato dal grafismo di Beardsley, però spogliato dalla
tendenza al sublime. Klee rimane ben ancorato alla terra, dorato di ironia e con tendenze alla
desacralizzazione. [Barilli, 2002]
P. Klee, Berna, 1896
P. Klee, La vergine sull’albero 1903
Dal 1898 ai primi del Novecento la sua produzione è quasi esclusivamente grafica. La cifra
prevalente è quella del grottesco, dell’ironico e del tragicomico, come evidente derivazione dalla
tradizione nordica di Bruegel e Bosch. Un riferimento che Klee, tra ritorni e ripensamenti, non
abbandonerà mai davvero e che riprenderà in modo esplicito nell’ultima parte della sua vita.
Vedremo tra poco come questo taglio stilistico fosse fortemente ancorato anche alla sua idea di
condizione umana. Klee assimila anche il Jugendstil e la cifra elegante ed aerea del suo disegno; la
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tendenza ad un fitomorfismo immaginario rimarrà una costante della sua arte. La sua formazione fu
piuttosto vasta comprendendo la musica, la
grafica e la letteratura.
Nel 1901 compì il classico viaggio di
istruzione artistica in Italia, ma rimase
abbastanza freddo nei confronti dell’arte classica
[Pirani, 1990]. Scriverà di una “dolorosa presa di
coscienza della distanza ormai invalicabile
dall’ideale classico”.
Klee rappresenta anche in questo una
delle voci più alte del Novecento che testimonia
un’irrimediabile rottura del secolo con la
tradizione.
In questi anni, cominciò a passare dalla grafica alla sperimentazione della pittura, misurandosi
soprattutto con i problemi del colore, e andò a Parigi e poi si sposò, stabilendosi a Monaco di
Baviera.
A Parigi conobbe direttamente le opere degli impressionisti e si interessò soprattutto di Van
Gogh, ma rimase entusiasta anche di Leonardo da Vinci, che aveva già visto in Italia. E si capisce il
perché di quest’ultima passione, pensando alla successiva evoluzione della pittura di Klee, visto che
Leonardo introdusse nella pittura lo sfumato, il filtro dell’aria come velo della prospettiva, così
come il colore apparirà vaporizzato in Klee.
P. Klee, Paesaggio, 1899
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P. Klee, La sorella dell’artista, 1903
P. Klee, Nudo seduto, 1903
Nel 1908 vide di nuovo Van Gogh in due mostre tenutesi a Monaco e l’anno dopo si
entusiasmò per Cézanne, di cui vennnero esposti, sempre a Monaco, otto dipinti. Ragazza con
brocche del 1910 e Giardino con natura morta dello stesso anno, testimoniano di queste influenze
attraverso la ricerca di collegamenti tra colori, forme e stati d’animo.
P. Klee, Ragazza con brocche, 1910
P. Klee, Giardino con natura morta, 1910
Nel frattempo, Klee compì esperienze importanti per la maturazione definitiva della sua
pittura. Nel 1908 era stato pubblicato Astrazione ed empatia, una tesi di laurea di Wilhelm
Worringer, che è da considerarsi – al di là delle intenzioni dell’autore – un caposaldo
dell’astrattismo che ebbe un grande successo e che accese appassionate discussioni nel mondo
artistico e della critica d’arte. Per Worringer, che conserva in parte una certa attualità - assieme agli
studiosi della cosiddetta scuola viennese, molto importanti nella storia dell’estetica – “la spinta
all’astrazione rappresenta […] la conseguenza di una forte inquietudine interiore dell’uomo,
provocata dai fenomeni del mondo esterno”. Si è trattato comunque, per la scuola viennese (i cui
massimi esponenti sono stati Riegl, Wöllflin, Worringer), di inaugurare un nuovo filone di
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riflessione che riuscisse ad allacciare, da un lato, la sensibilità artistica alla modernità e, dall’altro, a
costruirne i collegamenti con i fenomeni artistici del passato, compresa l’antichità classica e il
remoto arcaismo. Un tentativo straordinario che pochi hanno in seguito emulato (in Italia penso ad
una figura come Ranuccio Bianchi Bandinelli, con Organicità e astrazione, e agli studi in corso di
Renato Barilli, limitatamente alla tarda antichità), rinchiudendosi piuttosto in uno specialismo
povero di interconnessioni e ben deciso a non avventurarsi nei grandi affreschi storici. Lo spirituale
nell’arte di Kandinskij, altra opera fondamentale dell’astrattismo, vede la luce nel 1912, quando già
si era consolidato il rapporto di amicizia e di reciproca stima con Klee. Per quanto quest’ultimo si
guarderà bene dal seguire il russo sulla strada del suo esasperato spiritualismo.
P. Klee, Amicizia di due ragazze, 1913
P. Klee, Maschera, 1910
Intanto, nel 1911, Klee era uscito dall’isolamento artistico in cui si era mantenuto fino ad
allora, entrando in rapporto con Der Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro), il movimento fondato da
Augusto Macke, Vassily Kandinskij e Franz Marc, che si proponeva “di organizzare e sostenere
tutte le tendenze artistiche che consideravano – superando gli elementi figurativi ancora impliciti
nell’espressionismo – la sfera dell’arte come nettamente distinta da quella della natura”. [Pirani,
1995] Semplificazione dell’immagine e accrescimento degli stimoli emotivi dati dal quadro erano
l’obbiettivo artistico del movimento. Klee partecipò alla seconda esposizione promossa dal
movimento, assieme a Picasso, Vlaminck, Derain, Malevich e ad altri.
Nel 1913 Klee soggiornò di nuovo a Parigi, dove strinse rapporti con i cubisti e, in
particolare con Delaunay, che nella storia dell’arte rappresenta una specie di crocevia dei
movimenti artistici del tempo, tra cubismo orfico e futurismo, tra correnti razionaliste e spiritualismo dell’ambiente tedesco-olandese. Con Delaunay, Klee “scopre la potenza emotiva e
fantastica della luce, il ritmo e il movimento dell’immagine ottenuta attraverso i contrasti simultanei
dei colori”. [Pirani, 1995]. Vedremo più avanti l’influenza di Cézanne su di lui.
Ma in quello stesso anno, a Monaco, scoprì i futuristi e se ne entusiasmò, soprattutto di
Carlo Carrà. Nei Diari ne sintetizzò così l’estetica: “Quando si apre una finestra entra in camera
tutto il rumore della strada, il movimento e l’oggettività delle cose fuori […] La potenza della
strada, la vita, l’ambizione, la paura che si possono osservare nella città, il senso di oppressione che
il baccano provoca”.
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P. Klee, Pali della luce, 1913
P. Klee, Piccolo paesaggio con aria di
pioggia, 1913
Come si può rilevare dal commento, Klee introdusse però un senso di ansia nella visione
della città moderna, ben al di qua dell’acritica esaltazione futurista. Quel che dovette affascinare
Klee, fu il tentativo di praticare una pittura totale, in grado di rappresentare emozioni, ricordi, ciò
che si vede e ciò che si sente. I due dipinti Pali della luce, del 1913 e Piccolo paesaggio con aria di
pioggia, sempre del 1913, testimoniano di queste influenze, dove Klee non rinuncia comunque ad
una rappresentazione della natura.
Nel 1914 si recò finalmente Tunisia, per un breve soggiorno, e lì realizzò la più importante
svolta della sua vita artistica
L’acquerello Hammamet con Moschea segna il punto di passaggio, contemporaneo a quello
compiuto da Piet Mondrian, e cioè la riduzione della realtà ai suoi tasselli primari, costitutivi
originari, il cui insieme deve restituire a chi guarda il senso del paesaggio, della luce, della storia,
della relazione tra umanità che vi abita e ambiente. Ma, al contrario di Mondrian, Klee non si
ridurrà mai ai soli colori primari e ad un geometrismo lineare.
P. Klee, Motivo da Hammamet, 1914
P. Klee, Cupole rosse e bianche, 1914
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Il colore e la luce del deserto si infiltrano ovunque, condizionano gli stessi colori dei
giardini, delle moschee, dei teli stesi ad asciugare, delle case. La mia impressione è che i riquadri
cromatici di Klee siano una derivazione dei piani poligonali in cui i cubisti scomponevano la figura
con l’intenzione di rappresentarla dai diversi punti di vista possibili.
Ma in Klee questi piani multipli si trasformano in tessere, ossia non in un modo di vedere
ma in un tentativo di scomposizione della realtà primaria su un piano bidimensionale, come
vedremo meglio tra poco. Una specie di rumore di fondo dell’universo che si materializza nelle
sfumature cromatiche e nell’ambiente. Più in là nel tempo, queste tessere si ripresenteranno nella
pittura di Klee con un’intenzione arcaizzante. Del resto, come osserva S. Zeki, “nuove forme,
consistenti per lo più di linee, quadrati e rettangoli, sono meravigliosamente adatte a stimolare
alcune delle cellule della corteccia visiva”. E questo perché la loro caratteristica è di avere
immagazzinato con l’esperienza la forma astratta delle forme, che possiamo considerare una specie
di idea preesistente dentro di noi quando osserviamo un’opera d’arte. “Il vedere – osserva Richard
Gregory, altro noto neuroscienziato, autore di numerosi studi sul cervello e sulla visione – implica
sempre l’esistenza di un’ipotesi nel cervello”.
G. Braque, Viadotto dell’Estaque
P. Klee, Il Don Giovanni bavarese, 1919
Tuttavia, Klee è ben lontano, nonostante i soggetti rappresentati, da qualsiasi suggestione
vedutistica. La serie dei dipinti tunisini si dovrebbero quasi osservare come in pianta: è il punto di
vista topografico quello che lo affascina (dov’è questa cosa in rapporto all’altra? E in rapporto
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all’insieme?) Per questo sono necessarie la costruzione di una topografia rigorosa e una ricerca
continua dei rapporti tra i colori e le linee dove il trapassare degli uni negli altri è dato dallo sfumare
delle tonalità.
Insomma, cosa gli dà la Tunisia?
P. Klee, Caffè a Tunisi, 1914
Gli suggerisce il senso degli oggetti in cui geometrismo della forma e colore definiscono il
mondo: la luce si irradia dall’interno delle cose, dei riquadri, delle figure stilizzate, quando ci sono,
creando impressioni e associazioni percettive policrome. Il tentativo è quello di risalire alle strutture
primarie della vita dando loro una rappresentazione diretta, come una musica, scavalcando il
visibile tradizionale, cercando di collocarsi in un mondo parallelo ma non meno vero di quello che
frequentiamo abitualmente.
L’esperienza tunisina lo libera dal problema del colore che lo aveva impegnato fino ad allora
e gli fa scrivere nei suoi Diari: “Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi
possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno. Sono
pittore.” In realtà, la luce e i colori tunisini fanno da innesco, da catalizzatori di precedenti
predisposizioni alle qualità costruttive del colore. Ma è la Tunisia che gli permette di prendere la
strada di un naturalismo parallelo: non la rappresentazione del pulsare nervoso della vita moderna,
ma dell’origine del mondo.
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2. TEORIE ESTETICHE DI KLEE
Apriamo ora una prima parentesi sull’estetica di
Klee utilizzando i suoi scritti.
Non c’è purtroppo lo spazio per dare uno sguardo,
come pure sarebbe necessario, al contesto culturale e
sociale del tempo in cui visse.
Il primo scritto è La confessione creatrice del 1919, in
cui Klee “separa in modo netto la sfera dell’arte dalla
natura” [Bucarelli, 1970]: una distinzione già fatta da
Kandinskij, suo grande amico e collega di Bauhaus, ma
quest’ultimo la fa in nome di uno spiritualismo che Klee
non accettava. Ovviamente, qui per natura si intende la sua
fedele riproduzione, più o meno fotografica.
Il secondo è Teoria della forma e della figurazione
(1921-1931). Si tratta del risultato delle lezioni tenute al
Bauhaus, con un impianto che si appoggia molto a
proposizioni di carattere scientifico ma non facendone
discendere l’arte, piuttosto delineando una specie di cosmologia parallela che rivendica l’autonomia
dell’arte. “Anche l’arte è pensiero e non vi può essere pensiero che non sia pensiero del mondo”,
scrive. Il mondo di Klee non è un mondo trascendente, perché se “l’arte non è razionale, non è
nemmeno irrazionale”. “Se l’arte è un modo di pensare, è un modo di pensare facendo, se è così non
può dipendere da un precedente stato della mente” [Bucarelli, 1970]; e qui c’è una grande
differenza dai surrealisti. Della maggior parte dei suoi quadri si può dire che evocano un mondo
incantato, ma non onirico: ironia e rigore compositivo geometrizzante non gli fanno superare questa
soglia.
Nel periodo di Monaco Klee sembra molto più interessato alle teorie della fisica più
avanzata che al dibattito estetico del tempo.
P. Klee, La villa R., 1919
P. Klee, Flora cosmica, 1923
P. Klee, 914
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Palma Bucarelli sosteneva che bisogna superare la leggenda di un Klee visionario. La sola
differenza della sua arte rispetto al pensiero razionale è che il suo metodo “non si deduce ma si
elabora con l’operare”. Per me, infatti, il suo orientamento sembra molto vicino all’empirismo
critico del tempo.
“Su un impianto di forme astratte, ma che lievitano, si associa questo o quel ricordo della
realtà, un’evocazione accennata e casuale” [Schmalenbach, 1970] Forse, un accostamento possibile
è a quell’universo autonomo di segni che proprio in quegli anni la linguistica veniva sviluppando
con Saussurre, che era attivo a Ginevra. [Pirani, 1990]
Voglio però segnalare che esiste una straordinaria equivalenza tra l’arte di Klee e quella di
Italo Calvino e che proprio la scrittura di quest’ultimo ci può aiutare a comprendere meglio la
pittura del primo. Vale infatti per Klee quello che è stato detto da Giorgio Manganelli per Calvino:
profondo in superficie. Se si rilegge lo straordinario saggio di Calvino di Lezioni americane, si
dovrà convenire che tutti e cinque i principi estetici che lo scrittore italiano proponeva di far
transitare nel XXI secolo, trovano un quasi perfetto riscontro nell’arte di Klee. Leggerezza,
Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità, esprimono compiutamente sia la scrittura di Calvino
che la pittura di Klee. E non si tratta solo di termini suggestivi, perché gli stessi processi creativi
descritti da Calvino, che ne costituiscono la struttura di riferimento, potrebbero comodamente essere
adattati a Klee. Forse, per quest’ultimo, si potrebbe aggiungere in modo esplicito un principio che
nella scrittura di Calvino è implicito, ossia la musicalità.
“Come Klee – osserva Tullio Pericoli nel suo dialogo con Calvino – anche tu sei alla ricerca
delle forme possibili e disegnabili, che non ci sono nella realtà ma esistono in quanto possibili
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(pensando a Borges si potrebbe ammettere una rivendicazione dell’esistenza delle forme non
disegnate e dei racconti non raccontati).” 2
3. IL BAUHAUS E I QUATTRO AZZURRI
Durante la Grande guerra, anche Klee venne chiamato sotto le armi, ma non fu inviato al
fronte, mentre provò il dolore della morte di suoi grandi amici artisti. Tuttavia, Klee continuò a
dipingere e ad esporre, scrivendo anche il saggio di estetica che ho già citato.
Nel 1920 entrò al Bauhaus, svolgendo le sue lezioni in parallelo con Kandinskij, e dove
rimarrà fino al 1931.
Il Bauhaus era stato fondato da Gropius nel 1910 (la sua sede fu dapprima a Weimar e poi a
Dessau) e il suo obbiettivo, detto in sintesi, consisteva nell’annullare la separazione esistente tra
belle arti e artigianato e di collegare l’attività artistica con le nuove tecnologie della produzione
industriale. [Pirani, 1990] Non è qui l’occasione per parlare dell’importanza centrale del Bauhaus
nell’estetica del Novecento. Nella scuola Klee svolse un’azione equilibratrice e Gropius lo
considerava “l’estrema istanza morale del Bauhaus”. I suoi allievi lo soprannominarono il Budda,
per il suo atteggiamento distaccato dalla vita sociale della scuola, ma anche perché lo consideravano
una specie di oracolo. [Fiedler, Feierabend, 2000]
2 Un paragone tra la scrittura di Calvino e la pittura di Klee è stato effettuato da Franco Ricci in A conference on Italo
Calvino. Memos for the Next Millenium, University of California, Davis, 4-5 Aprile 1997, poi ripetuta in Calvino and
Klee: Painting with Words, Writing with Pictures.", Florida State University, April 1998. Non ho avuto però la
possibilità di consultarne i testi.
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P. Klee, Racconto alla Hoffmann,
1921
P. Klee, Room perspective red-green, 1921
Faccio solo qualche
accenno ad un’esperienza pure
fondamentale nella biografia
artistica di Klee. Non solo in
questo periodo la ricerca visiva
di Klee assunse caratteristiche
particolari, dovendo misurarsi
con il funzionalismo imperante
nella scuola e con le necessità
pratiche di un insegnamento
artistico fortemente orientato alla
produzione, ma fu anche
l’occasione per tradurre più
compiutamente la sua estetica in
teorie e in didattica.
Forse il periodo del
Bauhaus coincise con il
raggiungimento del massimo
fascino delle sue opere. Arte nel
suo farsi e spiegazione del farsi
nell’arte si intrecciarono
strettamente, come testimonia un
suo allievo, Christof Hertel:
“Assistevamo alla genesi delle
forme, una genesi che era al
tempo stesso reale e fantastica in
misura mai sperimentata prima. […] Viaggiavamo con lui attraverso i millenni. Klee ci rese di
nuovo partecipi di esperienze primigenie di cui non avevamo più che una conoscenza meccanica.
[…] Egli ci indicò la grande sintesi che tutto comprende, l’organico come l’inorganico. Tutto:
zoologia, biologia, chimica, fisica, astronomia, letteratura, tipografia, contribuiva a chiarirci come
noi, col nostro essere e col nostro agire, siamo legati all’umanità e al ritmo cosmico. Klee ci parlava
P. Klee, Senecio, 1922
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di valori espressivi, ci diceva che le cose devono avere forma e senso, che la funzione
dell’immagine consiste nell’esprimere qualcosa.”
P. Klee, Luogo colpito, 1922
P. Klee, Simbad il marinaio, 1923
M. Breuer, Wassily
P. Klee, Stanza degli spiriti con porta alta,
1923
P. Klee, Côte de Provence, 1927
P. Klee, Barche in secca, 1927
18
In effetti, la sua influenza nel Bauhaus fu molto forte. L’autorevole testimonianza di C.G.
Argan ci dice, ad esempio, che il più lucido designer uscito dal Bauhaus, Marcel Breuer, deve
almeno in parte a Klee l’idea di una ”costruzione rarefatta, filiforme, di lineare tensione, che
percorre lo spazio invece di occuparlo, anima l’ambiente con l’agilità del suo rtitmo grafico,
sostituisce alla consistenza massiccia dell’oggetto la quasi-immaterialità del segno”. Argan si
riferisce alla famosa poltrona Wassily, ma le stesse parole potrebbero applicarsi alla pittura di Klee.
Tuttavia, i rapporti di Klee con il Bauhaus non furono in generale sereni. Il conflitto delle
idee si accese spesso. Klee non era una meccanocentrico, il suo mondo non era quello della fusione
tra macchine e arte; caso mai, era quello della trasfigurazione delle prime nella seconda. Ma era
proprio il tema delle macchine che non lo appassionava.
Nel 1924, con Kandinskij, Feininger, Jawlensky formò il gruppo I Quattro Azzurri, che
tenne molte mostre.
Il mutamento del clima artistico nel Bauhaus introdusse sempre maggiori tensioni verso il
1925, quando prese il sopravvento l’analisi tecnica dei materiali ed una messa in secondo piano
dell’importanza della pittura. Il cambiamento della didattica sgomentò Klee che cominciò a pensare
di abbandonare la scuola nel 1929. “Il Bauhaus non mi emoziona più; si pretendono da me cose che
danno pochi risultati. […] Nessuno ne ha colpa tranne me che non trovo il coraggio di andarmene”,
scrisse in una lettera. Nel 1931 si trasferì ad insegnare a Düsseldorf.
Il Bauhaus si sciolse nel 1933, a seguito delle pressioni naziste che consideravano la scuola
un “focolaio di bolscevismo intellettuale”.
19
4. TEMI
4.1. Klee e la musica
Si tratta di una delle chiavi principali di lettura della sua arte, non solo perché Klee fu un
buon violinista e figlio di un musicista, a lungo incerto tra musica e pittura, e non solo perché
moltissime opere hanno come tema la musica, le maschere o il teatro. Ma per ragioni intrinseche
alla sua poetica.
Klee fu molto circospetto nel pensare ad un’analogia tra le varie arti, come andava allora di
moda nei circoli intellettuali, e non teorizzò in alcun modo la possibilità della sinestesia, come
fecero i futuristi o i dadaisti, ossia l’associazione di stimoli sensoriali diversi contenuti in una stessa
opera, servendosi di mezzi tecnici ibridi.
P. Klee, Il tessuto vocale della canatante Rosa Silber,
1922
P. Klee, Bianco
polifonicamente incorniciato, 1930
Ora, seguendo in gran parte l’interessante analisi compiuta da Daniela Gamba, c’è un primo
livello di lettura dell’opera di Klee che rappresenta l’omaggio continuo che egli fa alla sua passione
musicale. Qui il titolo e il tema delle opere sono espliciti, come ne Il tessuto vocale della cantante
Rosa Silber del 1922, oppure Bianco polifonicamente incorniciato (1930).
Un secondo livello riguarda l’uso dei segni musicali, dei suoi grafemi, inseriti nel quadro o
allusi nel loro formarsi, quasi a rinforzare quell’universo autonomo dei segni che nasce dalle
proposte linguistiche che Saussurre veniva facendo.
Klee, Suono antico, 1923
P. Klee, Cammello
in bosco ritmico
20
Un terzo livello risale alle teorie di Goethe e interpreta la forma come l’interruzione di
qualcosa che stava crescendo, che era in corso di espansione, una specie di fotogramma di una
pellicola (che tuttavia non significa congelare il movimento, anche per mezzo dell’inserzione di
frecce, che rappresentano dei simboli complessi).
P. Klee, Fuga in rosso, 1921
P. Klee, Commedia, 1921
Qui le immagini ritmiche servono a sottolineare questo fatto, richiamandone la componente
temporale.
Un quarto livello – a mio avviso il più significativo - riguarda la cosiddetta polifonia
pittorica evidente in Klee, come esplicita e unica possibilità di rappresentazione del mondo. Lo
vedremo meglio tra poco. Come i rapporti numerici, fin da Pitagora, coincidono con gli intervalli
musicali, così in Klee il rapporto tra le diverse parti del dipinto, anche il più fantastico, si basano
sull’astratto rigore dei numeri. E i numeri, come si sa, sono il più potente strumento disponibile per
descrivere l’universo.
In Klee bisogna fare attenzione alla matematica non meno che alla poesia. Will Grohmann,
amico dell’artista e uno dei suoi massimi critici, racconta: “Tra le carte di Klee ho trovato lo schema
per uno di questi quadri. Numeri sono scritti nei vari quadrati a formare diverse serie aritmetiche,
forse per dare all’artista una più chiara e complessiva dinamica dei rapporti formali. Se si sommano
questi numeri lungo le orizzontali e le verticali i risultati coincidono come nel noto quadrato
magico.”
P. Klee, Superscacchiera, 1937
P. Klee, Senza titolo, 1914
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In Klee torna continuamente la questione della musica, oltre tutto ne fanno fede i suoi stretti
rapporti con Schönberg, alle cui polifonie sembrano riferirsi alcuni titoli della serie delle Armonie.
La polifonia di Klee allude alla simultaneità delle sensazioni (quelle stesse che in altro
contesto e con diversi mezzi cercarono di rappresentare i futuristi). Si tratta quindi di una sinestesia
impropria perché non cambia mezzo di espressione: essa è tutta e solo contenuta nell’opera
pittorica. Ma, si badi bene, Klee considerava la polifonia pittorica superiore a quella musicale, al
contrario di quanto sostenevano le correnti artistiche principali del tempo. [Gamba, 1999] E qui
essa, a somiglianza di quanto avviene nella musica, che è rappresentazione contemporanea di suono
e di silenzio in una durata temporale, indica quella quarta dimensione – il tempo - che Klee cercava
di rappresentare, come vedremo tra poco.
Ma, infine, anche per la musica, come per la pittura, in fondo si tratta di un mondo parallelo
e autonomo che ha misteriosamente a che fare con la realtà e con i nostri sensi. Come se la pittura di
Klee riuscisse a stabilire con il nostro sentire un rapporto omologo a quello che la musica stabilisce
con la nostra percezione acustica, attraverso consonanze immediate che seguono itinerari propri,
esplicitamente dedicati, nella nostra organizzazione neuronale. Come se la visione di un quadro di
Klee tentasse di chiamare obliquamente in causa, attraverso le allusioni cromatiche e le suggestioni
grafiche, e senza che ne rendiamo conto, aree del nostro cervello deputate all’interpretazione dei
suoni.
P. Klee, Nuova armonia, 1937
P. Klee, Due differenti annotazioni, 1934
4.2. Klee e la natura
La pittura di Klee guarda sempre alla natura ma non nel modo tradizionale,
rappresentandola, imitandola. Piuttosto, c’è in lui “la voce della natura come concerto di voci, ma
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appena sussurrate, misteriose, quasi impercettibili” (ancora una metafora musicale).
[Schmalenbach, 1970]
P. Klee, Fiori di notte, 1930
P. Klee, Giardino subacqueo, 1939
Scriveva Klee nel 1916: “Contemplo il creato da un punto di vista remoto, primigenio”. È
certamente qui un’altra chiave fondamentale della sua estetica. All’artista, sosterrà Klee, interessano
però più le forze creative della natura che non i suoi fenomeni generali.
Da questo punto di vista, la funzione dell’artista non è quella del demiurgo, quanto quella
del medium - sosterrà in una sua celebre conferenza – che si fa portatore della linfa che dalle radici,
attraverso il tronco dell’albero (l’artista sarebbe il tronco) si trasforma nel mondo diverso delle
fronde. Egli deve cogliere, capire queste funzioni elementari della natura e rappresentarle. L’artista
– aggiunge Klee – si può anche permettere “di pensare che la creazione non può essere oggi
interamente terminata ed estende così questa azione creativa del mondo dal passato al futuro. In tal
modo conferisce alla genesi una durata”. Klee si mette sempre dal punto di vista della genesi del
mondo. E, aggiunge, che l’artista “è forse un filosofo senza volerlo”. Il mondo com’è, come ci
appare, sostiene ancora, è troppo chiuso nel tempo e nello spazio e forse su altri pianeti “si può
essere giunti a forme completamente differenti”.
P. Klee, Pesce d’oro, 1925
P. Klee, Luogo pescoso, 1922
Questa visione è, nello stesso tempo, uno dei motivi centrali di quello che Renato Barilli
chiama il principio femminile, ossia della durata e della permanenza (anche qui c’è un’allusione
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musicale). Niente più della suggestione geologica di certi suoi dipinti può darne il senso. Qui le
profondità della prospettiva sono escluse, al massimo ci sono dei carotaggi, ma sempre svolti su un
piano bidimensionale, così come si riporta un rilievo su una carta geografica. Klee è un grande
cartografo dell’immaginario. Ma il suo geometrismo non è rigido, il mondo che rappresenta è pur
sempre un mondo in movimento, che si è evoluto e che si evolverà. Non è il principio primo alla
Mondrian, ma è l’impulso primario, e perciò le sue piastrelle, le sue tessere, sono rotte dai
cromatismi e la materia pittorica non viene occultata per giungere alla rappresentazione del colore
puro, ma serve a sostituire il senso del movimento. [Barilli, 2000] D’altra parte, l’evasione
fantastica di Klee avviene sempre in un ambito naturale, in una dimensione immaginaria “in cui
regno vegetale, regno animale, gli spazi cosmici e gli universi stellari si incontrano”. (M. De
Micheli)
Strada maestra e strade
secondarie del 1929 rappresenta il vertice
di questa concezione: uno studio attento
di come la delicatezza e l’eleganza della
forma trascolora negli accostamenti
cromatici e nelle loro variazioni appena
percettibili: la moltiplicazione del sempre
uguale non produce stasi, ma varietà,
come se il principio primo si ibridasse e
si deformasse a contatto con il suo
realizzarsi, con il suo esserci, in un
mondo terreno, in questo mondo. Un
mondo che si fa tessuto: ecco, si tratta del
tessuto originario con cui poi la natura
farà il mondo, così come a partire da un
qualsiasi tessuto, con le sue trame, con la
qualità dei suoi fili, con l’intrecciarsi dei
colori si cuciono poi gli abiti.
Natura, ovviamente, è la totalità
del mondo, anche quello artificiale,
quello costruito dall’uomo. Secondo me,
uno dei segni più alti, commoventi, di
questa capacità di Klee di evocare
assieme tempo, e quindi storia, spazio e
quindi cartografie essenziali, memoria e
quindi emozioni, è dato dal suo Piccola stanza veneziana.
P. Klee, Piccola stanza veneziana, 1933
P. Klee, Strada maestra e strade secondarie, 1929
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Con pochi colori e con un’economia delle linee Klee evoca e risolve la sensazione che può
dare Venezia. C’è qui la memoria di un Settecento prezioso e in maschera, assieme alle acque dei
canali e al loro tortuoso percorso, con un blu che allude anche alla notte, che può essere quella della
decadenza ma anche della profondità temporale della storia della Serenissima. Un blu primordiale e
intenso, come primordiali sono le acque ospitanti la vita, le acque della laguna che sono ragion
d’essere della città. La cifra complessiva è l’estrema eleganza, come elegante è il merletto urbano di
Venezia, riassunto in poche linee, come eleganti sono i protagonisti del suo immaginario (magari si
tratta delle scorribande notturne di Giacomo Casanova, di cui – se si sta un po’ in ascolto – è forse
possibile sentire l’eco dei passi sulle pietre delle calli). Venezia è lì e ti guarda, con il segno
dell’infinito – che è anche un’allusione alle maschere - quasi al centro del quadro e con il sintetico
rosso dei suoi palazzi illuminati di vita notturna. Con quell’aria di eterno mistero che tenta di
raggiungere il mare orientale. Tutto questo si può vedere da una piccola stanza veneziana, ma anche
dall’emozione della propria memoria che il dipinto attiva.
P. Klee, Paesaggio con uccelli, 1923
Il metro di misura di Klee, spesso alternato ad altri grafismi, comporta una scelta rigorosa, e
per essa “nutre una predilezione particolare per l’interregno, quello dell’acqua e quello dell’aria,
reale e nel contempo irreale”. [Schmalenbach, 1970] Ma ciò avviene proprio perché si tratta di una
metafora di quel mondo parallelo e tuttavia compresente a quello reale (come lo sono le diverse
dimensioni immaginabili), poeticamente rappresentato. Questo dell’acqua e dell’aria è, peraltro, il
regno in cui le metamorfosi sono più probabili, e proprio in questo passaggio metamorfico, quando
una forma si sta dissolvendo per trasformarsi in un’altra, è possibile sorprendere l’essenza delle
cose. Fino al punto, come in questo Paesaggio con uccelli del 1923, in cui aria e acqua si
confondono, con gli uccelli che sembrerebbero piuttosto collocati in un paesaggio sottomarino o
specchiarsi in esso. Di lì è possibile sorprendere l’intima natura del creato.
C’è qui il motivo della iconicità, della raffigurazione, che Renato Barilli definisce principio
maschile, come in Luna piena del 1919: la toppa di base, la mattonella riquadrata, qui si trasforma e
allude ad una figura concreta, come se si sforzasse di metamorfizzarsi nel mondo nostro.
Non è facile uscire dai giardini di Klee, scrive M. Micheli. Lo cito per esteso perché è un
passo molto bello di questo storico dell’arte. “Ci si aggira tra arborescenze lunari, tra cespugli di
corallo, su laghi di amianto.
25
P. Klee, Natura morta araba, 1930
P. Klee, Tramonto, 1930
Si guardano tra i rami i verdi uccelli di fosforo, le stelle che si confondo con la brina. Si vive
ora un paesaggio di quarzo, ora in una landa sottomarina, nel cuore di una luce preziosa di alga e di
diamante. Talvolta si cammina invece sopra un mosaico vibrante oppure tra una selva di simboli
domestici o esoterici che emanano un leggero tossico cromatico come per un’invisibile
disintegrazione. Ma talvolta la sua visione si fa anche più immediata e diretta.” Una poesia della
natura che è la sua ispirazione essenziale, e non è un caso che Klee fosse molto amato dai poeti del
tempo, in particolare dai surrealisti.
4.3. Klee e l’Universo
“La sua concezione di fondo era genetica: egli vedeva dappertutto il divenire e per ciò
richiamava l’attenzione sull’agire dell’essere”. [Schmalenbach, 1970]. Lo abbiamo già in parte visto
parlando del suo rapporto con la natura. In effetti, Klee rinuncia a rappresentare la terza dimensione.
Ritiene artificioso, illusorio, il tentativo di rendere le tre dimensioni su una superficie
bidimensionale come il quadro, perciò sceglie le sole due dimensioni cartesiane. Lì non c’è
prospettiva perché non c’è, appunto, la terza dimensione: perciò i soggetti non sono in relazione tra
loro secondo questo criterio. Ma Klee unisce alle due prime dimensioni il movimento – la quarta
dimensione - nel senso del farsi del mondo a partire dai suoi principi primi. Tempo e movimento si
equivalgono.
P. Klee, Ricostruzione, 1926
P. Klee, Equilibrio oscillante, 1922
26
Il tempo di Klee è un tempo molteplice, è il tempo della poesia, quello della musica e quello
del cinema. “Tempi vorticosi e tempi lentissimi, scrive Gillo Dorfles, perché anche là dove la linea
si arresta ritroviamo spesso il tempo che diviene scanditura di ritmi che si dissolvono verso il
nulla”. Una delle grandi novità della pittura di Klee consiste, infatti, nel tempo che entra dentro il
quadro. Le linee e le frecce che lui disegna alludono sempre ad un percorso, oltre che ad un valore,
e un percorso è strettamente legato al tempo.
Klee è un evoluzionista e un cosmologo. Il suo giocare con le dimensioni rappresentabili
ricorda (e anticipa) le teorie fisiche attuali sui mondi a più dimensioni. Ma perché introdurre il
tempo nella bidimensionalità? Perché il tempo è una costante; le forze naturali si evolvono, c’è un
passato e c’è un futuro: dunque, qualsiasi dimensione o gruppo di dimensioni scorre su un nastro
temporale, anche se questo nastro può benissimo essere reversibile (come appunto ci dice anche
l’astrofisica moderna con la teoria dei buchi neri).
Naturalmente Klee non poteva intendere la questione della bidimensionalità della
rappresentazione da lui pensata negli stessi termini in cui oggi la fisica sta esplorando la possibil ità
che esistano diversi universi, ivi compresi quelli a una o a due dimensioni. Per quanto, le prime
speculazioni scientificamente serie sull’esistenza di più dimensioni risalgono al 1919 ad opera del
fisico polacco Theodor Kaluza, che ampliò la teoria di Einstein supponendo l’esistenza di una
quarta dimensione spaziale arrotolata su se stessa. Sarebbe interessante fare una ricerca
documentaria sulle letture di Klee e sui rapporti cronologici tra le teorie scientifiche sull’universo e
le sue realizzazioni pittoriche. E del resto già nell’Ottocento si era capito che dal punto di vista
matematico-geometrico potevano esistere spazi contenenti un maggior numero di dimensioni. La
geometria non euclidea vide ad esempio la luce nella seconda metà di quel secolo. Ma la cosa
importante è che tali suggestioni erano comunque nell’aria e si sa che la percezione delle atmosfere
culturali da parte degli artisti è molto acuta. Facciamolo dire allo stesso Klee: “Oggi la relatività
delle cose visibili - scrive – è nota, di conseguenza consideriamo come un articolo di fede la
convinzione secondo la quale, in rapporto all’universo, il visibile costituisce un puro fenomeno
isolato e che ci sono, a nostra insaputa, altre numerose realtà”.
P. Klee, Diciassette, 1923
27
A me fa venire in mente la patafisica dello scrittore Alfred Jarry, pubblicata nel 1907 con il
titolo Gesta e opinioni del dott. Faustroll Patafisico. Che cos’è la patafisica? È la scienza delle
soluzioni immaginarie.
Essa infatti, dice Jarry, “studierà le leggi che reggono le eccezioni e esplicherà l’universo
supplementare a questo; o meno ambiziosamente descriverà un universo che si può vedere e che
forse si deve vedere al posto del tradizionale, le leggi che si è ritenuto di scoprire dell’universo
tradizionale essendo anche delle correlazioni di eccezioni, sebbene più frequenti, in ogni caso fatti
accidentali che, riducendosi a delle eccezioni poco eccezionali, non hanno neppure l’attrattiva della
singolarità”. E il dott. Faustroll Patafisico, ad un certo punto, dichiara: “L’etere luminoso e tutte le
particelle della materia, che io distinguo perfettamente, avendo il mio corpo astrale dei buoni occhi
patafisici, ha la forma, a prima vista, di un sistema di listelle rigide articolate e di volani animati da
un rapido movimento di rotazione, sostenute
da alcune di quelle listelle.”
Però c’è poco da sorridere. Le teorie
scientifiche attuali dicono che esisterebbe un
multiuniverso o megaverso in cui la nostra
dimensione è immersa su una specie di
membrana tridimensionale insieme a quelle
di altri universi dotati di maggiori o minori
dimensioni.
Insomma, Klee compie un’operazione
che potremmo chiamare iperspaziale. Egli
sembra aver pensato: cosa vieta, in una
genesi plurima, che le dimensioni siano tra
loro raggruppate escludendone alcune e cosa
vieta di esprimere questa visione secondo un
andamento cromatico musicale, oltre che di
segni? Ancora una volta, rinveniamo qui una
singolare equivalenza tra l’arte di Klee e
quella di Italo Calvino, specialmente del
ciclo fantascientifico.
Del resto, non è forse vero che oggi
alcune teorie sulla costituzione ultima
dell’universo lo descrivono come una
complessa sinfonia cosmica, vibrata da
piccolissime cordicelle: le stringhe? La
vibrazione è ciò che noi chiamiamo spazio.
D’altra parte, nella rivale teoria della
gravità quantistica è la relazione tra i loop
che formano un universo granulare a
formare lo spazio.
4.4. Klee e la modernità
Eppure, Klee ha una visione che
può sembrare disperante della modernità.
Non la guarda con sospetto ma non ne diventa prigioniero. La stempera nell’ironia e nel gioco.
Significativo il suo commento ad un’acquaforte del 1904 Eroe con l’ala, che rappresenta la sua
concezione di fondo sul problema dell’uomo: “L’eroe con l’ala, un eroe tragicomico, un antico Don
Chisciotte: questa nuova idea poetica, emersa come da un acquitrino nel 1904 ha ormai una forma
ben definita e ben sviluppata.
P. Klee, La luce e altre cose, 1931
P. Klee, Aperto, 1933
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Quest’uomo nato, in contrasto con esseri divini, con
un’ala sola, fa grandi sforzi per volare, e così si spezza
braccia e gambe, ma tuttavia resiste sotto l’usbergo
della sua idea. Il contrasto fra il suo atteggiamento
solenne, monumentale e la sua rovina in atto era ciò che
dovevo mettere particolarmente in rilievo come simbolo
della tragicommedia”.
Per lui il dramma della modernità è quello
dell’enorme distanza tra le potenzialità psichiche
dell’umanità e le limitazioni del corpo. Come sottolinea
Federica Pirani, nelle lezioni al Bauhaus, anni dopo,
sosterrà che “questa capacità dell’uomo di spaziare a
piacimento con lo spirito nel terreno e nel sopraterreno,
in antitesi con l’impotenza fisica costituisce la più
profonda tragedia umana: la tragedia della spiritualità
[…] L’uomo è per metà prigioniero e per metà alato…”
Klee è ben lontano dal pensare la tecnologia
come il mezzo per accorciare questa distanza, come
tentarono di fare i futuristi, e non riteneva che il
riduzionismo praticato dal Bauhaus o il produttivismo
del costruttivismo russo potessero risolvere la
questione. Tuttavia, a differenza dei metafisici, non ha
rimpianti, né fugge nello psichismo dei surrealisti e
nemmeno si rifugia nell’astrazione rigorosa di un
Mondrian. Ma, il mondo del macchinismo è
per lui privo di consistenza.
Osserviamo di nuovo la Macchina
cinguettante del 1922: qui si tratta di una
parodia della meccanica e di uno sberleffo alle
leggi fisiche del costruttivismo e dello stesso
Bahaus. Klee sembra una sinfonia degli
opposti: la sua è un’estetica di “ordine e
disordine, forma e informe, organico e
inorganico, disegno e materia, serietà e ironia,
comico e tragico”. [Barilli, 2000] Anche Klee,
come i futuristi, tenta una ricostruzione
dell’universo, anche il suo è un universo
autonomo, ma non una proiezione della nuova
civiltà tecnologica. Renato Barilli parla, è
vero, di meccanomorfismo di Klee, ma io
parlerei più di stratificazioni geologiche e
temporali, di risalita a ciò che c’è sotto e
prima, in chiave fisico-fantastica.
4.5. Klee e l’infanzia
L’interesse per il disegno artistico dei
bambini risale in Klee al 1902, quando si
imbatté casualmente in disegni infantili propri.
“Opere eleganti e ingenue”, le definì. Del
disegno infantile Klee apprezzava soprattutto la capacità di guardare il mondo in modo innocente.
“I signori critici – scrisse in seguito – dicono spesso che i miei quadri assomigliano agli scarabocchi
P. Klee, Eroe con l’ala, 1908
P. Klee, Macchina cinguettante, 1923
29
dei bambini. Potesse essere davvero così! I quadri che mio figlio Felix ha dipinto sono migliori dei
miei”.
P. Klee, Avviso alle navi, 1917
P. Klee, Venere barbarica, 1921
Qui Klee si ricollega, almeno in parte, al clima culturale del tempo, alla riscoperta dei
primitivi, dell’arte africana, della semplicità di rappresentazione, alla capacità di assoggettare il
mondo non ad un processo razionale ma di puntare direttamente alla sua raffigurazione simbolica.
Da questo punto di vista, l’innocenza è la sola guida per capire-rappresentare. Del resto, la
pensavano così quasi tutti gli artisti del tempo che, continuando la tradizione romantica, erano
attratti dalle facoltà intuitive dell’umanità.
Naturalmente l’infantilismo grafico di Klee tutto era fuorché uno scarabocchio e una
raffigurazione incongrua: era, in realtà, il frutto di un calcolo e di una progettazione molto attenti e
studiati. Quello che lo attraeva dei disegni infantili era la carica di energia che emanavano, la
capacità di mettere in presa diretta le proprie sensazioni con il mondo, saltando qualsiasi
convenzione. La stessa energia, dice Lyonel Feininger, altro grande pittore del Bauhaus, all’incrocio
tra razionalismo e futurismo e tra i fondatori dell’arte contemporanea americana, che “talvolta si
cela nei disegni dei bambini”.
Anche in questo Klee si dimostra un neurologo inconsapevole. La sua ricostruzione
dell’universo è, contemporaneamente, la ricostruzione del processo di addestramento neuronale
dell’uomo dalla nascita in poi, teso ad estrarre “informazioni sugli aspetti essenziali, costanti del
nostro universo visivo, a partire da una massa di dati in continuo cambiamento”. (S. Zeki). Se la
capacità di visione è geneticamente determinata – continua lo studioso di neuroestetica - lo
“sviluppo della corteccia associativa matura in diverse tappe successive, come se il suo sviluppo
dipendesse dalle acquisizioni dell’esperienza visiva.” Ora, la capacità di rappresentazione dei
bambini si situa proprio su quel crinale temporale in cui “si acquisiscono quelle capacità visive che
non possono essere modificate per il resto della vita dell’individuo.”
30
P. Klee, Ritratto della signora P nel sud, 1924
P. Klee, Ha testa, mani e piede, 1930
Lì, per Klee, c’è il terreno vergine delle mille possibilità che sono date alla rappresentazione,
un universo potenziale che, poi, non potrà più essere modificato, se non attraverso l’arte. Un
bambino, non subisce quell’effetto deragliamento di cui parlavo all’inizio, lo accetta come un dato
naturale tra gli altri. Perché mai una banana non può essere rossa o una linea schematica non può
rappresentare un essere umano?
P. Klee, Giocatore al gol, 1921
P. Klee, Foglio illustrato, 1927
Il germe del mondo (ontogenesi) e il processo evolutivo (filogenesi) qui si completano;
infantile e astrazione raggiungono il loro massimo potenziale attraverso un bricolage, un riciclaggio
di materiali-composizioni poveri, essenziali. “Un ingenuo candido fanciullo è entrato nella stanza
dei bottoni, e li pigia all’impazzata, recuperando il loro funzionamento alla logica del piacere” – dice splendidamente Barilli.
È la riscoperta-riadattazione ludica del mondo, come fa un bambino alle sue prime armi,
come fa il mio nipotino Alessandro, ipereccitato dai bottoni degli apparecchi con cui muovere
31
misteriosamente il mondo delle cose che lo circondano, le quali non sono ancora in collegamento
logico tra loro: solo in seguito formeranno il nostro mondo di adulti, compatto e opaco.
4.6. Klee e l’arcaismo
Ne ho già accennato parlando della scuola viennese – in particolare di Worringer - e del
cambiamento di forma-colore nelle famose tessere di Klee. Qui posso dare solo qualche
suggestione, sia per le difficoltà dell’argomento sia perché si tratta di una ricerca ancora aperta.
L’interrogativo è il seguente: in che misura ed al di là di certe somiglianze i segni di Klee
richiamano volutamente le astrazioni arcaiche, i segni e i grafismi del periodo geometrico della
storia dell’arte, quando la figura veniva rappresentata in modo stilizzato e prevaleva l’ornamento
geometrizzante?
Dal punto di vista neurologico la cosa è chiara, il riconoscimento dei volti è svolto da
un’area specializzata del cervello che non viene attivata di fronte ad una rappresentazione non
figurativa. La percezione della forma è invece diffusa su diverse aree. Ma quale relazione c’è tra
l’astratto-geometrico dell’antichità e quello moderno? Questo è, per l’appunto, un tema affascinante
e ancora aperto. Alcuni, come Dorfles, sostengono che non è risolvibile. Altri parlano di scacco
immanente ad ogni ermeneutica dell’arcaico, nel senso di una impossibilità di comprensione.3 Per
me il problema è ancora da indagare a lungo e forse potrà essere proprio la neuroestetica ad aiutarci
nel processo di comprensione.
Modelli di loto egizio
Modello di scudo di Tirinto
Klee, in consonanza con le tendenze del tempo, va alla ricerca del primitivo, del più
semplice, delle sensazioni originarie, dell’ingenuità e purezza del tratto. Il geometrico arcaico
dipende forse da come l’umanità del tempo interrogava e interpretava il mondo, dal suo modo di
simbolizzarlo? Poiché ancora non sappiamo in quale rapporto stanno le singole aree cerebrali con
l’immagine unificata che si forma nel cervello, una riposta è del tutto prematura. Ma dobbiamo
guardarci dal comporre un’equazione troppo semplice tra primitivo = infantile: si tratta di un
vecchio e superato modo di vedere la questione, di derivazione ottocentesca.
L’arcaismo dei segni che appaiono in Klee avrebbe a che fare con una ricostruzione a ritroso
della storia della sensibilità umana, dove - ovviamente – il prima non è meno complesso del dopo.
All’origine, sostiene Wilhem Worringer, parlando del decorativismo come di un campo che più di
altri dimostra le sue tesi, “l’uomo non trasferì nell’arte l’organismo vegetale in sé ma la sua legge
strutturale […] così alle origini l’ornamento vegetale non riproduce propriamente la pianta, ma la
regolarità della sua struttura esterna”. E porta a dimostrazione una lunga serie di esempi che sarebbe
fuori luogo riprodurre qui.
3 Così ad esempio in G. Carchia e R. Salizzoni, Estetica e antropologia. Arte e comunicazione dei primitivi, Torino,
1980, citati in G. Nuccitelli, Origine dell’arte e arte delle origini, Torino, 2003
32
P. Klee, Leggenda del Nilo, 1937
P. Klee, Intenzione, 1938
C’è poi, secondo l’autore, il passaggio dalla fase astratta (ossia geometrica) a quella
empatica, cioè ad una rappresentazione mimetico-figurativa del mondo. Non importa qui analizzare
le ragioni avanzate da Worringer per tale passaggio, basterà osservare che la sua generalizzazione
non funziona con l’arte primitiva.
Piuttosto, si può azzardare
un’ipotesi, da proporre con tutte le
cautele del caso: una fase astratto -
geometrizzante, certamente mai
esclusiva e tuttavia prevalente, si
ha nelle fasi in cui grandi
rivolgimenti tecnico-sociali e
culturali obbligano l’umanità a
reinterpretare il mondo, quando
vecchie certezze e antichi valori
vengono rimessi in questione.
Ora, il geometrizzante-astratto
dell’età arcaica greca, ma anche di
altre aree, entra in scena in quasi
perfetta coincidenza con
l’ingresso nell’età del ferro (e con
l’introduzione dell’uso del tornio
per vasi e della ripresa su scala più
ampia dei traffici mediterranei),
tutte cose (anche se non sono le
sole) che producono un profondo
rivoluzionamento politico, sociale
e culturale e che obbligano gli uomini del tempo a ricostruire il modo di vedere il mondo. Come
non pensare che anche l’esplosione dell’astrattismo, figurativo o meno, entra in scena nel
Novecento in coincidenza con una rivoluzione tecnologica senza precedenti nella storia, che ha
spiazzato tutti i nostri consolidati modi di pensare? 4
Tornando ad un’interpretazione più tradizionale, si può dire che Klee esprime una
compresenza di questi due aspetti (cioè di arcaismo e di modernismo), quasi che nello sforzo di
4 Con molta prudenza nel tirarne conclusioni affrettate, si confrontino i graffiti rupestri dal neolitico all’età del ferro con
i grafismi di Klee.
Statuetta cicladica
P. Klee, Parco degli idoli, 1939
33
ricostruzione di un universo possibile non volesse privarsi dell’uso di tutti gli strumenti che gli
permettono di emulare l’evoluzione della sensibilità umana. Oppure, possiamo pensare che Klee
sceglie i motivi geometrizzanti, arcaizzanti, astratti – se vogliamo – perché “la ricerca dell’eterno,
dell’assoluto - per Worringer fine ultimo di ogni arte - è più chiara nella tendenza astratta”.
[Venditti, s.d.]
P. Klee, Segni di giallo, 1937
P. Klee, Panciotto rosso, 1938
In realtà, anche in questo caso, ci troviamo di fronte ad un’operazione a base psicologica.
Infatti, l’arte astratta può anche essere interpretata come sforzo neurologico di analisi dei
componenti primari del mondo, ma in Klee questa scelta si associa a raffigurazioni che,
riproducendo il graffitismo neolitico e dell’età del bronzo, vogliono proprio rappresentare il ritorno
ad una visione primigenia del mondo.
Le oscillazioni tra le rappresentazioni organica dell’ellenismo e l’influenza orientale astratta,
costituiranno – dopo l’estetica antica - la sostanza dell’arte bizantina. Ed è qui che si innesta il
ricupero che Klee fa del mosaico bizantino, pochi anni dopo una sua visita a Ravenna nel 1926,
raggiungendo la più alta capacità di integrazione tra segno e colore. Qui le tessere diventano
mosaicizzanti, e il segno di adagia su di esse o le attraversa dispiegando su due sole dimensioni la
realtà, come nel capolavoro, Ad Parnassum del 1932. Le tessere si compongono di più minuti
riquadri, come se Klee cercasse di raggiungere un livello sottostante della realtà, fatto solo di
vibrazioni cromatiche; l’accostamento dei colori si compone in un’infinita pazienza e minuzia di
gradazioni; i segni grafici raggiungono l’essenziale del suggerimento accennato eppure chiarissimo;
l’equilibrio della composizione raggiunge la perfezione, impaginata com’è in un impianto in cui è
obbligatorio rilevare la disciplina razionale dell’esperienza del Bauhaus.
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P. Klee, Ad Parnassum, 1932
Ma qui c’è anche un’eco di Klimt e della secessione viennese, come a chiudere il cerchio
che dall’antichità giunge alla modernità. Per me, questo quadro rappresenta il più alto tentativo di
sintesi della ricerca estetica di Klee.
5. DOPO IL 1933
Dopo un brevissimo periodo di insegnamento, nel 1933 Klee si trasferì a Berna (in realtà si
trattò di una specie di esilio nella patria originaria) dopo la condanna dei nazisti dell’arte
degenerata. Nella sua pittura appare il dolore e il presentimento della fine, se non altro di un’epoca,
se non ancora la sua personale.
P. Klee, Radiato dalla lista, 1933
P. Klee, Abbraccio
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Il carattere della sua produzione ultima si fa progressivamente più drammatico. Assieme ai
suoi grafismi fiabeschi comincia a riapparire il grottesco, il mostruoso. Il segno diventa sempre più
schematico, caricaturale, i colori si fanno spesso più violenti.
E anche quando conserva le cromie delicate delle sue visioni fantastiche, i titoli dei quadri
alludono al clima di terrore che sta inquinando la civiltà europea, come in Acqua selvaggia del 1934
o in Maschera di terrore del 1932.
Alla fine degli anni Trenta, dato il suo contributo alla nascita del surrealismo, avendo
resistito al riduzionismo di Gropius e del Bauhaus, Klee percepisce la catastrofe imminente e la sua
pittura si fa più angosciosa, notturna, incupita, il nero fa spesso irruzione nella sua tavolozza. Anche
il altre epoche Klee aveva usato colori e sfondi scuri, ma essi alludevano al notturno, al mistero e
alla trasformazione, non al dramma.
P. Klee, Il prigioniero, 1940
P. Klee, L’angelo della morte, 1940
Il plumbeo e il tragico della morte appaiono nel suo orizzonte, come ne L’angelo della
morte e ne Il prigioniero del 1940. La sclerodermia degli ultimi anni lo tiene spesso distante dal
cavalletto.
Si tratta di un Klee che sembra ansioso non più di ricostruire il messaggio di un universo
immaginario o della realtà filtrata dalla poesia, ma di consegnarci riflessioni sulla vita. Messaggi
per lo più disperati, in cui il rapporto tra colore segno ed emozione raggiungono una capacità di
concentrazione eccezionale, colpendoci direttamente nel plesso solare.
Dopo l’atto di violenza, 1940 Imprigionato, 1940
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È come un lungo finale suonato su tonalità gravi. Klee non poteva vedere più oltre né della
sua vita né della storia, minacciata da un’altra stagione di ferro e di sangue.
L’armadio, 1940
Cosa ne sarà dell’umanità? Klee non può immaginarlo, ma intanto sospetta di un lungo
atroce dolore, di una specie di ingresso all’inferno. Se L’armadio del 1940, a differenza dello
specchio di Alice, non si apre su un altro mondo ma in quello che conosciamo, allora ci aspettano
fuoco e sangue.
Il suo ciclo si compie con la Natura morta del 1940, trovata sul suo cavalletto. Qui le cose
non parlano più l’una con l’altra, scandite sul nero dello sfondo che un sole acido non riesce ad
illuminare. E, davvero, per quest’ultimo quadro non so trovare migliore commento dei versi:
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
P. Klee, Natura morta, 1940
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“L’esempio di Klee – per concludere questa ricognizione con un’osservazione di Italo
Calvino – è quello di un artista che ha una grande forza genetica, che in ogni quadro apre delle
strade e certamente ci sta ad essere derubato. È uno che si dà in pasto all’arte futura. Non fa altro
che aprire delle strade che forse non è tanto interessato a sviluppare lui stesso, perché è già subito
occupato ad aprirne delle nuove e quindi tutto quello che fa è un dono agli altri, di cui poi lui
magari si disinteressa.”
6. ALCUNI CONFRONTI
Alcune semplici tavole di confronto con tendenze e maestri contemporanei e successivi a
Paul Klee può dare un’idea di quanto egli fosse inserito nella temperie artistica del suo tempo e
ance di quanto abbia influenzato esperienze artistiche successive.
Qui è evidente come il primo Klee si rifacesse alle esperienze impressioniste e soprattutto a
Paul Cézanne.
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La Grande Jatte di Seurat e Luxe, calme et volupté di Henri Matisse con il Lamento del 1934 di
Paul Klee, ma potremmo anche inserire, di quest’ultimo il Ragazzo al tavolo del 1932
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Oppure un confronto con il cubo futurismo di Delaunay.
Le quadrettature della realtà di Mondrian e di Klee.
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Un più facile e evidente confronto con Kandinskij, suo collega al Bauhaus.
Straordinario il confronto con Enrico Baj e da notare l’influenza avuta su Carla Accardi.
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