Padalo dunque sono
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI “ALDO MORO”FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
Corso di Laurea in Filosofia
Laurea Triennale in Filosofia Etico-politica
“PEDALO, DUNQUE SONO”: PERCHÉ ANDARE IN BICICLETTA
PUÒ ESSERE UNA FILOSOFIA DI VITA
RELATOREChiar. mo Prof. Ottavio Marzocca
LAUREANDALuisa Gissi
ANNO ACCADEMICO 2010-2011
1
Indice
INTRODUZIONE.................................................................................3
CAP. 1
Abitare il/nel mondo: tra Heidegger e Arendt.......................................9
CAP. 2
Energia ed equità: pensare la mobilità nell'ottica di Illich..................17
CAP. 3
Critica delle automobili e rapporto tra identità e luoghi.....................26
CAP. 4
Dai nonluoghi al bello della bicicletta: idee dell'antropologo Augé. . .33
CAP. 5
La bicicletta come movimento politico...............................................42
CAP. 6
Percezione del tempo e questione della velocità: Virilio....................53
CAP. 7
Le città e i luoghi, tra globale e locale................................................61
CAP. 8
La questione ecologica........................................................................71
CONCLUSIONI..................................................................................81
Bibliografia..........................................................................................84
Sitografia.............................................................................................88
Ringraziamenti....................................................................................89
2
INTRODUZIONE
“Le tentazioni alla passività, che molti individui subiscono nella
relazione con i vari mezzi di comunicazione, svaniscono non appena
si mettono in sella; diventano responsabili di loro stessi e ne sono
subito consapevoli […] Se in più si tiene conto del fatto che l'uso
della bicicletta permette loro di ripiombare nei ricordi dell'infanzia e
nello scorrere della loro esistenza, si può concludere che l'esperienza
del ciclismo è una prova esistenziale fondamentale che rinsalda
coloro che vi si dedicano nella loro stessa coscienza identitaria:
pedalo, dunque sono.”1
Andare in bicicletta come filosofia: un'idea apparentemente distante
dal senso letterale della filosofia greca come “amore per la sapienza”,
ma che tanto si avvicina se pensiamo che proprio per i filosofi greci
fare filosofia era anzitutto uno stile di vita, un “vivere come si pensa”.
L'antropologo Augé ha pensato al ciclismo come “forma di
umanesimo”2, foucaultianamente lo definirei una controcondotta: una
“reazione diversa” ad abitudini – a questo ethos ormai cambiato – che
hanno preso piede nella nostra società. Chiaramente non stiamo
1 Marc Augé, Il bello della bicicletta, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 63.2 Ivi, p. 65.
3
parlando del ciclismo come sport, quanto piuttosto di quello urbano,
quotidiano, di gente comune e non di atleti professionisti.
Pensare la bici come una filosofia di vita talvolta rientra tra le “frasi
fatte” di giornali e rotocalchi, quasi sempre associata ai “fanatici”
dell'ecologia, spesso bistrattata o considerata come un tentativo
nostalgico e anti-moderno contro l'ingresso dirompente delle auto
nella nostra vita.
Proprio per confutare questi luoghi comuni, e per dimostrare la
profondità di significato di un gesto apparentemente banale: pedalare
(ma che differenza tra i pedali della bicicletta e frizione – freno –
acceleratore!), occorre sviluppare una riflessione non superficiale sul
tema.
Con questo non si vuol dire che per andare in bici bisogna essere
filosofi, siamo ben lungi da affermare “un'eresia” del genere, ma le
due ruote possono essere un mezzo per aprire la mente a nuovi punti
di vista (uno dei modi per vivere una controcondotta).
Sono tanti gli aspetti che si possono affrontare se si pensa ad una
“filosofia della bicicletta”, tanto che Didier Tronchet3 ha coniato il
termine ciclosofia4, caratterizzata da una multidisciplinarietà che
coinvolge filosofia, antropologia, ecologia, ma anche urbanistica,
sociologia, psicologia.
Il suo Piccolo trattato di ciclosofia. Il mondo visto dal sellino è stato
lo spunto iniziale per queste riflessioni che hanno trovato poi
fondamento, con piacevole stupore, anche nel pensiero di altri autori
molto distanti da questo giornalista-tuttofare contemporaneo.
Con alto senso pratico e ironia, Tronchet nota che la prima cosa che 3 Giornalista, regista, disegnatore, attore e sceneggiatore francese (anche lui, come Augé.. Sarà
un caso?).4 Didier Tronchet, Piccolo trattato di ciclosofia. Il mondo visto dal sellino, Il Saggiatore, Milano
2004.
4
distingue un ciclista da un automobilista è il fondoschiena, che invece
accomuna chi guida a chi guarda la televisione, visto che non c'è
molta differenza tra un divano e un sedile. Entrambi, rispetto a chi
pedala, perdono la dignità. Sono prigionieri, di mura o di lamiere.
“La nuova rivoluzione (cicloruzione) può venire semplicemente da
questa alternativa mattutina: prendo l'automobile o la bicicletta? Chi
avrà scelto la macchina e pertanto avrà coordinato movimenti secchi,
precisi e meccanici, subìto con rassegnazione o eccitazione gli
ingorghi, lottato per trovare un parcheggio, porterà con sé dall'inizio
della propria giornata lavorativa una parte di questa
Programmazione neurolinguistica casuale. C'è da temere che essa
eserciterà il suo nefasto influsso sulle più minute decisioni o relazioni
umane. Questi è partito con il piede giusto per alimentare, con il
proprio fuoco già ben attizzato, il grande Moloch dello spirito di
competizione. Immaginiamo che lo stesso uomo abbia invece scelto di
andare in bicicletta a occupare il proprio posto nel Grande Processo
di Produzione. La ventiquattrore sul portapacchi, avrà respirato aria
viva, avrà fatto surf tra le lamiere d'acciaio accalcate, sarà corso
dietro a un passerotto irragionevole, sarà stato trafitto dalla luce
mattutina dell'inizio del mondo, e grazie a tutto questo si sentirà
rigenerato.”5
“La bicicletta non è una non-auto”, ma la contrapposizione è
inevitabile data la “colonizzazione dello spazio vitale da parte delle
quattro ruote”. Considerando il numero dei morti per incidenti
stradali, Tronchet fa una geniale analogia: “nessun'altra specie, nella
5 Ivi, p. 9.
5
storia della creazione, ha mai generato il proprio predatore con tanto
entusiasmo. I topi non sono mai andati al Salone del gatto.”6 Il Salone
dell'Auto come paradosso del nostro essere preda delle nostre
“creature”7.
Le sensazioni positive date dal movimento fisico sono un altro aspetto
non irrilevante: ormai ci si muove stando fermi (in auto, in treno, in
aereo), dimenticando la forza delle nostre gambe. I pensieri sono più
puliti e meno nervosi se si è giunti in un posto camminando o
pedalando, senza la possibilità di ostacoli insormontabili come un
ingorgo infinito o un ritardo ferroviario. Ma per parlare di questo
occorre riflettere anche sul cambiamento delle distanze quotidiane.
Sulla percezione dello spazio, della velocità e del tempo (Virilio ci
aiuta molto in questo). E di se stessi.
“Trasportato da un luogo a un altro da un assemblaggio di lamiere a
propulsione meccanica, il corpo umano ha forti probabilità di trovarsi
nello stesso identico stato all'arrivo […] lo spirito umano sarà
complessivamente nel medesimo stato di coscienza.” Invece, “in
bicicletta chi parte e chi arriva non è mai esattamente la stessa
persona.”8
E a livello sociale? Ancora Tronchet nota che, sulla strada, mentre gli
automobilisti sono avversari, i ciclisti sono solidali. Semplicemente
perché lo spirito di competizione diverrebbe un suicidio per questi
ultimi. Chi guida è convinto, malamente, di essere al sicuro, e si pone
in un certo modo. “L'assopimento dei sensi ne è il mortale
corollario”. Chi pedala è convinto, giustamente, di essere in pericolo 6 Ivi, p. 11.7 E quanta storia della filosofia sull'idea del Golem... Perché l'auto non potrebbe essere un
Golem?8 Ivi, p. 36.
6
(date le velocità medie, meno dell'automobilista), e si pone in un altro
modo.
“La bicicletta, prima ancora di essere un mezzo di locomozione, è un
meraviglioso strumento per la conoscenza di sé […] La ciclosofia è
pertanto l'insieme delle idee, delle intuizioni e delle sensazioni nate
sulla bicicletta. […] Mezzo di locomozione fisico, certo la bicicletta è
soprattutto un mezzo di locomozione della coscienza. E il principio
ciclosofico fondamentale è: ogni corpo su una bicicletta assiste a uno
spostamento del proprio sguardo sul mondo. All'esterno, ci si sposta
in bicicletta. Ma all'interno, è la bicicletta che ci sposta.”9
Chi meglio degli studiosi dello spazio urbano può aiutarci a capire le
potenzialità etiche, filosofiche e politiche della bicicletta? Dai
nonluoghi descritti da Augé al rapporto globale-locale secondo
Magnaghi, Sassen e Davis, si vedrà come la bicicletta può diventare
protagonista di una vita diversa da quella che ci viene propinata dai
piani urbanistici a misura non umana.
“La bicicletta inventa una nuova geografia della città […] La
bicicletta modifica il tempo, ma anche lo spazio. Rifate con la
macchina un tragitto particolarmente bello in bicicletta. Fa schifo.”10
“Nello spazio urbano, il criterio di esistenza è ormai proporzionale
all'inquinamento acustico.”11
Il silenzio della bicicletta sorprende il pedone che attraversa la strada
distratto, ma regala suoni dimenticati quando le strade sono
9 Ibidem.10 Ivi, p. 55 e p. 131.11 Ivi, p. 44.
7
miracolosamente vuote per brevi istanti di non traffico.
Prendendo spunto da diversi autori (filosofi, antropologi, urbanisti,
ecologisti) ho scelto alcuni di questi temi, seguendo un ordine “a
misura di due ruote”, e provato a parlare di una filosofia dell'andare in
bicicletta, che in realtà diventa una vera e propria filosofia di vita
coinvolgendo ogni aspetto del quotidiano sino appunto a diventare una
“prova esistenziale fondamentale”12.
Un circolo che inizia e “finisce” (che però, proprio in quanto circolo,
non può finire mai) nello stesso punto: dalle idee prettamente
filosofiche di Heidegger e di Arendt sul concetto di abitare il mondo
(ecologia è lo studio di oikos, che è ambiente in quanto casa), alla
mobilità connessa ad energia ed equità di Illich, all'antropologia di
Augé e La Cecla, ad esempi concreti di “controcondotta”: andare in
bicicletta come movimento politico (il caso della Critical Mass, ma
anche esempi di scelte politiche in senso stretto in alcune realtà
urbane), alla percezione del tempo e dello spazio secondo Virilio e
altri urbanisti, per chiudere infine con la questione ecologica in senso
stretto (siamo così tornati allo studio dell'oikos).
L'idea di un circolo (come una ruota di bicicletta) di pensieri
multidisciplinari per sviluppare una controcondotta volta a
(re)imparare ad abitare pedalando: questa è la mia proposta.
12 Marc Augé, Il bello della bicicletta, op. cit., p. 63.
8
CAP. 1
Abitare il/nel mondo: tra Heidegger e Arendt
“La vera crisi dell'abitare consiste nel fatto che i mortali sono sempre
ancora in cerca dell'essenza dell'abitare, che essi devono anzitutto
imparare ad abitare.”13
Non è dato di sapere se Martin Heidegger andasse o meno in
bicicletta, ma questa conclusione, a cui perviene nel saggio Costruire
abitare pensare, può essere un indizio per constatare la sua attenzione
all'ambiente in cui viviamo.
Ogni stile di vita richiede (e anche quando non richiede, implica) delle
“basi filosofiche” (se, appena, si pensa quando si vive...).
Nel saggio su citato e in Vita activa. La condizione umana14 di Arendt,
si possono individuare due solidi pilastri filosofici per uno stile di vita
attento alla Terra – in opposizione rispetto all'individualismo
dell'uomo contemporaneo concentrato su se stesso – proprio per la
focalizzazione di alcune riflessioni sul concetto dell'abitare.
Da esseri umani, il nostro modo di essere sulla Terra è l'abitare.
13 Martin Heidegger, Costruire abitare pensare. Conferenza del 5 agosto 1951 nel quadro del Secondo Colloquio di Darmstadt su “Uomo e spazio”. In Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 108.
14 Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1964.
9
“L'abitare è il tratto fondamentale dell'essere in conformità del quale
i mortali sono.”15 Abitiamo il mondo e nel mondo: per volontà
potremmo estraniarci e non vivere il mondo, rinchiudendoci in luoghi
che non ci facciano pensare a quello che c'è “là fuori”, o nel virtuale;
ma, pur rinchiusi in un qualsiasi posto (reale o virtuale), questo sarà
collocato nel mondo.16
“Essere uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè:
abitare.”17
Così Heidegger risponde alla domanda “cos'è l'abitare?”: “l'abitare ci
appare in tutta la sua ampiezza quando pensiamo che nell'abitare
risiede l'essere dell'uomo, inteso come il soggiornare dei mortali sulla
terra.”18
Non potremmo essere se non abitassimo. L'abitare sta nell'essenza
dell'essere uomo: un uomo è se abita. Perché risiede, ma anche perché
fa.
“Non ci limitiamo ad abitare, sarebbe come un non far nulla, ma
invece siamo in un certo mestiere, facciamo degli affari, viaggiamo e
abitiamo da qualche parte mentre siamo in viaggio, ora in un posto
ora in un altro. […] L'abitare è già sempre un soggiornare presso le
cose.”19
Soggiornando sulla terra siamo costretti, per co-esistenza, a
relazionarci con essa e con gli altri esseri (non solo umani) che la
popolano (per questo “soggiorniamo presso le cose”). Haeckel20 così
definiva la scienza ecologica: “la conoscenza della somma delle
15 Martin Heidegger, op. cit., p. 107.16 Forse non siamo molto lontani dal momento in cui potremo rinchiuderci in posti fuori dal
mondo, esplorare l'Universo – ma dovremo comunque relazionarci con il posto-Universo!17 Ivi, p. 97.18 Ivi, p. 99.19 Ivi, p. 97, p. 101.20 Biologo tedesco, che ha coniato appunto il termine “ecologia” (nella sua accezione prettamente
scientifica).
10
relazioni degli organismi con il mondo esterno circostante con le
condizioni organiche ed inorganiche dell’esistenza.”21
Sia che la si veda da una prospettiva scientifica che da una filosofica,
l'esistenza non può prescindere da relazioni.
Ecologia, etimologicamente, viene da oikos che è “ambiente” in
quanto “casa”. L'uno e l'altra li abitiamo. Pare chiaro il nesso
inestricabile tra i due concetti, dell'oikos e dell'abitare. Comprenderne
il più possibile il significato richiede una complementarità degli studi
al loro riguardo. L'uno ci aiuta a capire l'altro.
Abitare come soggiornare presso le cose, come risiedere presso i
luoghi: di fatto in cosa consiste? E' la nostra quotidianità, la nostra
essenza di uomini: è nel modo in cui si abita che si definisce il nostro
modo di vivere e quindi di essere.
La questione ecologica, nell'accezione appena descritta, è anzitutto
ontologica!
“Il tratto fondamentale dell'abitare è questo aver cura.”22
Questa definizione contiene in sé una scelta di vita, esistenziale: l'aver
cura.
Per essere uomini bisogna abitare, questo implica l'aver cura,
nell'essere uomini è insito l'aver cura della terra che si abita:
argomento semplice, ma non semplicistico, per affermare la necessità
di porre attenzione all'ambiente.
“I mortali abitano in quanto essi salvano la terra. […] Salvare non
significa solo strappare da un pericolo, ma vuol dire propriamente:
liberare qualcosa per la sua essenza propria. Salvare la terra è più
21 Ernst Haeckel, Generelle Morphologie der Organismen (1866).22 Martin Heidegger, op. cit., p. 99.
11
che utilizzarla, o, peggio, sfiancarla. Il salvare la terra non la
padroneggia e non l'assoggetta; da questi atteggiamenti, manca solo
un passo perché si instauri uno sfruttamento senza limiti.”23
Questa attenzione, che è cura, non vuol dire solo non sfiancare la
Terra (che è il significato più immediato, e su cui attualmente più si
riflette, dello sfruttamento delle risorse24), ma anche risiedere vivendo
ed esprimendo la propria essenza umana: rapportarsi in con-vivenza.
E' qui che si innesta il discorso antropologico.25
In questo senso la crisi dell'abitare è legata alla nostra necessità di
“imparare ad abitare”26. Portare l'abitare nella pienezza della sua
essenza dev'essere uno dei compiti dei mortali: “essi compiono ciò
quando costruiscono a partire dall'abitare e pensano per l'abitare”27.
Il pensare stesso rientra nell'abitare.
“Quello che io propongo, perciò, è molto semplice: niente di più che
pensare a ciò che facciamo.”28
Il punto di partenza della riflessione di Hannah Arendt – la condizione
umana – è diverso da quello heideggeriano, tuttavia ci sono dei risvolti
del suo pensiero che molto si avvicinano a questo problema
dell'abitare.
Per comprenderli conviene partire dal principio: la definizione delle
attività umane a cui corrispondono le “condizioni di base in cui la vita
sulla terra è stata data all'uomo”29, e cioè l'attività lavorativa,
l'operare e l'agire. La prima è legata alle necessità della vita biologica,
23 Martin Heidegger, op. cit., p. 100.24 Vedi cap. 8 di questa tesi, “La questione ecologica”.25 Vedi cap. 3 e ss.26 Vedi cit. inizio cap., Martin Heidegger, op. cit., p. 108.27 Ibidem.28 Hannah Arendt, op. cit., p. 5.29 Ivi, p. 7.
12
la seconda alla mondanità delle cose artificiali, la terza alla condizione
della pluralità. Alla nostra riflessione interessano in particolare le
prime due, che si caratterizzano per un'altra distinzione,
rispettivamente: tra la terra, “vera quintessenza della condizione
umana”30, che è contesto del vivere; e il mondo artificiale, che è
contesto dell'abitare.
Il lavoro, contestualizzato materialmente sulla terra, è volto
praticamente alla conservazione della vita naturale: mediante il lavoro
si svolge un ciclo infinito tra produzione e consumo. Biologicamente,
per vivere, dobbiamo lavorare, ossia svolgere quelle attività che
consentono al nostro corpo le sue funzioni basilari. I prodotti di queste
prestazioni sono effimeri, destinati per natura a consumarsi spesso
nell'atto stesso della loro produzione.
L'opera, contestualizzata materialmente nel mondo artificiale, invece
destina – in teoria – i suoi prodotti all'uso, che si protrae nel tempo. Le
cose del mondo servono a stabilizzare la vita umana. “La condizione
umana dell'operare è l'essere-nel-mondo.”31
Dunque, prima il lavoro per vivere sulla terra. “Il secondo compito del
lavoro è la sua costante, interminabile lotta contro i processi di
sviluppo e deperimento attraverso i quali la natura invade sempre il
mondo artificiale creato dall'uomo, minacciando la durevolezza del
mondo e la sua disponibilità per l'uso umano. La protezione e la
preservazione del mondo contro i processi naturali richiedono il
compimento monotono di faccende ripetute quotidianamente.”32 Per
vivere sulla terra abbiamo bisogno di preservare il mondo, che è
propriamente umano. Poi attraverso l'opera ci attiviamo per abitare il
30 Ivi, p. 2.31 Ivi, p. 7.32 Ivi, p. 71.
13
mondo e relazionarci con le cose artificiali.33
Il problema si pone nel momento in cui si confondono consumo e uso:
in teoria un oggetto d'uso permane, a meno che non venga
deliberatamente distrutto. La nostra società si è abituata presto
all'obsolescenza: abbiamo bisogno di nuovi oggetti d'uso da
consumare, anche se quelli vecchi funzionano ancora (ma non
abbastanza per il progresso tecnologico).
La “questione ecologica” non consiste solo nella sostituzione del
mondo naturale con quello artificiale, ma nel consumo di tale mondo e
nel problema dell'abitare: abitando il mondo dovremmo usarlo e non
consumarlo. Preservarlo dalle insidie della natura non può essere una
giustificazione per distruggerla: senza terra non può esserci mondo, la
necessità biologica viene prima di quella della mondanità.
“Il pericolo della futura automazione non è tanto la deplorata
meccanizzazione e artificializzazione della vita naturale, quanto il
fatto che, nonostante la sua artificialità, ogni produttività umana
sarebbe risucchiata in un processo vitale enormemente intensificato, e
seguirebbe automaticamente, senza pena o sforzo, il suo sempre
ricorrente ciclo naturale. Il ritmo delle macchine intensificherebbe a
dismisura il ritmo naturale della vita, ma non modificherebbe,
rendendola solo più micidiale, la funzione principale della vita
rispetto al mondo, che consiste nel consumare ciò che è durevole. […]
lo spettro di una società di mero consumo è più allarmante in quanto
ideale della società attuale che come una realtà da sempre esistente.
[…] E che cos'altro è, infine, questo ideale della società moderna se
non l'antico sogno del povero e dell'indigente, che può avere un
33 La terza attività, l'azione, non ci interessa per il momento. Ne riparleremo nel cap. 5.
14
fascino finché rimane un sogno, ma diventa il paradiso di un pazzo
non appena è realizzato?”34
Dovremmo trasformare i tempi verbali di queste affermazioni35: il
ritmo delle macchine, ormai, ha intensificato il ritmo della vita.36 La
consumazione di ciò che è durevole in che misura è accettabile?
Quanto è lontano questo “paradiso di un pazzo”?
L'alienazione del mondo moderno è una duplice fuga: dalla terra
all'universo e dal mondo all'io.37 Questo perché: 1) abbiamo
dimenticato che l'unico habitat38 che ci accoglie senza problemi
“naturali” è quello da cui stiamo fuggendo (da quando siamo riusciti
ad andare sulla luna, ma lì non possiamo respirare senza macchine) e
che stiamo distruggendo deliberatamente (come se fosse un prodotto
da consumare e non un mondo da usare [cioè: abitare]39); 2)
l'intensificarsi del processo vitale causato dall'automazione ci rende
difficile relazionarci col mondo e preferiamo chiuderci nell'io.
“Ciò che rende la società di massa così difficile da sopportare non è,
o almeno non è principalmente, il numero delle persone che la
compongono, ma il fatto che il mondo che sta tra loro ha perduto il
suo potere di riunirle insieme, di metterle in relazione e di separarle.”40
Problematico non è solo il processo di distruzione del nostro habitat,
ma tutto quello che esso implica: consumando il mondo, velocizzando
la vita, non abitiamo più, anche perché cambia il modo di relazionarci
34 Ivi, pp. 93-4.35 Vita activa è stato pubblicato (in America) nel 1958, più di mezzo secolo fa.36 Al problema della velocità è dedicato nello specifico il cap. 6.37 v. Hannah Arendt, op. cit., p. 6.38 Non a caso habitat viene dal latino habitare.39 Si pensi al significato che assume oggi l'espressione bene di consumo, praticamente l'opposto
di quello che Arendt intende per consumo.40 Hannah Arendt, op. cit., p. 39.
15
– a noi stessi e all'altro.
Il problema dell'abitare si è rivelato più complesso di quello che
poteva sembrare. Le implicazioni che comporta, sia da un punto di
vista heideggerriano che da un punto di vista arendtiano, sono
numerose e riguardano l'uomo sotto diversi aspetti.
Per quanto differenti, quello che ci interessa di queste riflessioni è
capire come possiamo vivere il mondo rispettandolo, con tutti quelli
che ci abitano, noi compresi.
La proposta di pensare l'andare in bicicletta come filosofia di vita
vuole inserirsi in questo contesto: è un modo di abitare il mondo nella
forma del rispetto, anche di se stessi, che comporta delle differenze
sostanziali in confronto alle abitudini più diffuse della società
contemporanea. Non si vuol certo dire che Arendt o Heidegger
sicuramente condividerebbero quest'idea, ma attraverso il loro
pensiero si sono poste delle basi per svilupparla, rifacendosi ora non
solo alla filosofia in senso stretto, ma attingendo anche da
antropologia (soprattutto), sociologia, urbanistica – perché in fin dei
conti, tutto ciò che riguarda l'uomo implica il suo pensare, e laddove
c'è pensiero bisogna fare in modo che ci sia non solo senno, ma anche
filosofia.
16
CAP. 2
Energia ed equità41: pensare la mobilità nell'ottica di Illich
“La bicicletta richiede poco spazio. Se ne possono parcheggiare
diciotto al posto di un'auto, se ne possono spostare trenta nello spazio
divorato da un'unica vettura. Per portare quarantamila persone al di
là di un ponte in un'ora, ci vogliono tre corsie di una determinata
larghezza se si usano treni automatizzati, quattro se ci si serve di
autobus, dodici se si ricorre alle automobili, e solo due se le
quarantamila persone vanno in bicicletta.”42
Prima di arrivare al nodo principale, cioè quello strettamente socio-
antropologico, è la concretezza di un pensatore fuori dagli schemi
come Illich che potrebbe convincere anche i più scettici dell'utilità che
può avere una diversa idea della mobilità. Parlo di concretezza e
utilità non a caso: la questione si può inquadrare non solo seguendo
motivazioni “astratte”, psico-sociologiche, ma pure strettamente
politico-economiche. Sono i numeri che servono a convincere una
società schiava dei criteri economici? Bene, è anche su questo fronte
che l'andare in bicicletta “vince” su tutti gli altri mezzi di trasporto!
41 Ivan Illich, Elogio della bicicletta, Bollati Boringhieri, Torino 2006, tit. or. Energie et équité.42 Ivi, p. 58.
17
E' del 1973 Energie et équité (in italiano tradotto Elogio della
bicicletta) ma forse oggi, più che allora, ci rendiamo conto della
significatività delle verità che il filosofo austriaco sosteneva.
Il nucleo di questo testo di Illich è, come ci dice il titolo, il rapporto
che intercorre tra energia ed equità. Di crisi energetica parla tanto
l'opinione pubblica, che è spesso ignara di certe questioni (e questo la
dice lunga sull'evidenza del problema), quindi occorre inquadrarla
senza trascurare la complessità dei fattori che la determinano.43
“Gli ideologi […] chiamano <<crisi energetica>> la loro
frustrazione, […] non riescono a vedere che la minaccia di collasso
sociale non deriva né da carenza di combustibile né dal modo
dilapidatorio, inquinante e irrazionale con cui viene impiegata la
potenza disponibile, bensì dal continuo sforzo dell'industria rivolto a
ingozzare la società con quantitativi di energia che inevitabilmente
degradano, depauperano e frustrano la maggioranza della gente.”44
Il collasso sociale non è solo un collasso ambientale.
Una politica basata sui bassi consumi permetterebbe un'ampia scelta
di stili di vita e di culture (sembra un paradosso, il fatto che meno
energia usiamo più ci possiamo diversificare, ma è proprio così);
viceversa, l'alto consumo veicola la società verso uno stile di vita
sempre più uniformato e omologato. L'energia ci serve, ma fino ad un
certo punto! Al di sotto di una data soglia, energia ed equità vanno di
pari passo: superato il limite, se l'energia continua a crescere lo fa
inevitabilmente a spese dell'equità.
A questo livello si sviluppa una delle contraddizioni della nostra
società: il tentativo – vano – di far andare equità e sviluppo industriale
43 Sulla questione si è approfondito nel cap. 8.44 Ivi, p. 13.
18
di pari passo.
“La fede nell'efficacia della potenza impedisce loro [gli ingegneri] di
scorgere l'efficacia straordinariamente maggiore che si può ottenere
astenendosi dall'usarla.”45
La dimensione naturale è diventata inconcepibile: non ci viene in
mente.
“Che attraverso un processo politico si possa trovare una dimensione
naturale, ineludibile e che segni un limite, è un'idea che non rientra
nel mondo delle verità del passeggero.”46
Quello che Illich ci propone, innanzitutto, è una “contro-ricerca” dei
limiti energetici necessari: in primis l'imperativo sociale di porre dei
limiti, poi l'individuazione della fascia entro cui potrebbe esserci la
soglia critica, infine la messa in luce dell'iniquità.
Applicando questo metodo alla questione della circolazione, la
criticità si troverebbe nel limite di velocità di 25 km orari. Inutile dire
che l'industrializzazione del traffico ha portato ben oltre questo limite.
“E' l'alta velocità il fattore critico che rende socialmente distruttivo il
trasporto. […] La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a
basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la
strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di
una bicicletta.”47
Definito il traffico come lo spostamento di persone, le sue componenti
sono il transito, cioè gli spostamenti che richiedono l'uso dell'energia
metabolica umana, e il trasporto, in cui si utilizzano altre fonti di
energia.48 Laddove prevale il primo c'è libertà personale e il 45 Ivi, p. 50.46 Ivi, p. 52.47 Ivi, p. 20.48 Ivi, p. 21.
19
movimento è efficace, invece la dipendenza dal trasporto
(automobilistico e non solo) ci fa perdere la libertà. Inoltre la
superiorità di questa componente del traffico è una negazione della
giustizia sociale. Dipendendo da energia non umana, il trasporto è
iniquo: più sei ricco, più vai veloce. Il trasporto produce un conflitto a
somma zero, si vince quando qualcun altro perde, se qualcuno
accelera lo fa sempre a scapito di altri (non in senso fisico, ma
sociale). Invece, il transito è un'azione indipendente dei transienti, e la
somma è sempre positiva: tutti ci guadagnano.
“La dipendenza forzata dalle macchine automobili nega allora a una
collettività di persone semoventi proprio quei valori che i potenziati
mezzi di trasporto dovrebbero in teoria garantire.”49 La mobilità
dipende da una rete di percorsi disegnati con criteri industriali.
Quando dipendiamo dalle nostre gambe ci muoviamo secondo lo
stimolo del momento, in qualunque direzione che non sia
materialmente preclusa: l'assenza di una strada (o la sua non-
percorribilità) è un ostacolo solo se usiamo un mezzo che ne ha
bisogno.
Se si considera poi che aumentando la velocità dei mezzi aumenta
pure il traffico in senso stretto, il paradosso è sempre più evidente:
l'accelerazione è assolutamente inefficace, ce lo dicono gli ingorghi.
Negli Stati Uniti, mediamente, il traffico occupa il 28% del tempo
sociale. Per fare 12000 km in un anno, l'americano tipo dedica 1600
ore alla sua auto: cioè si muove in media a 7,5 km/h.50 La matematica
(prima o dopo – lo si può scegliere – del pensiero) ci dice che andando
in bici si muoverebbe alla stessa velocità, e con che risparmio!
49 Ibidem.50 Ivi, p. 26.
20
“L'uomo, senza l'aiuto di alcuno strumento, è capace di spostarsi con
piena efficienza. […] L'uomo a piedi è una macchina termodinamica
più efficiente di qualunque veicolo a motore e della maggioranza
degli animali; […] L'uomo in bicicletta può andare tre o quattro volte
più svelto del pedone […] La bicicletta è il perfetto traduttore per
accordare l'energia metabolica dell'uomo all'impedenza della
locomozione. Munito di questo strumento, l'uomo supera in efficienza
non solo qualunque macchina, ma anche tutti gli altri animali.”51
Non è l'efficienza l'eterno chiodo fisso del progresso tecnologico?
Che le macchine non sono inutili è chiaro a tutti, non si vuole
sostenere il contrario. Quello che sembra meno evidente è fino a che
punto siano utili: sembra che i più abbiano dimenticato che per fare
cinquecento metri si fa prima ad andare a piedi o in bici, tanto più che
se oltre al tempo impiegato nell'ingorgo stradale ci si aggiunge quello
del parcheggio, l'ago dell'efficienza (così come quello dell'economia)
pende chiaramente dal lato dell'energia metabolica umana...
Gli effetti distorsivi dell'industrializzazione del trasporto si verificano
sulla percezione del tempo, dello spazio e delle potenzialità personali.
L'invenzione del cuscinetto a sfera è alla base sia della tecnologia
automobilistica che dello “strumento-bicicletta”: le direzioni possibili
sono decisamente opposte rispetto alla soglia di velocità (25 km/h), si
sceglie o una maggiore libertà nell'equità o una maggiore velocità.52 Al
di sotto di essa, i veicoli migliorano il traffico, al di sopra lo
ostruiscono, saturando l'ambiente di lamiere e strade – è il territorio
che si trasforma in base alle esigenze dei mezzi che utilizziamo.
51 Ivi, p. 54.52 Ivi, p. 56.
21
(Distorsione e distruzione dello spazio).
Ci viene espropriato il tempo che vorremmo guadagnare accelerando:
grandi velocità per tutti implicano che ognuno ha sempre meno tempo
per sé. Anche il tempo sociale è speso per il traffico: il prodotto
dell'industria del trasporto è il passeggero abituale, esasperato dalla
mancanza di tempo. (Distorsione e distruzione del tempo).
“[Il passeggero abituale] drogato dal trasporto, non ha più coscienza
dei poteri fisici, psichici e sociali che i piedi di un uomo posseggono.”53
C'è un monopolio radicale dell'industria sulla mobilità naturale, con il
trasporto a scapito del transito. (Distorsione e distruzione delle
potenzialità personali).
“Tra le conseguenze di questa concessione [il monopolio del
trasporto], la distruzione dell'ambiente fisico è quella meno deleteria;
i risultati di gran lunga più amari sono le frustrazioni psichiche che si
moltiplicano, le disutilità crescenti generate dall'incessante
produzione, e l'iniquo trasferimento di potere che si deve subire:
fenomeni che manifestano tutti una relazione distorta tra tempo e
spazio. Il passeggero che consente a vivere in un mondo
monopolizzato dal trasporto diventa un angosciato e forzato
consumatore di distanze delle quali non può più decidere né la forma
né la lunghezza.”54
La conseguenza che Illich ritiene meno deleteria è, tuttavia, quella che
salta più all'occhio: quando si parla del problema del traffico, delle
automobili, degli “ecologismi”, in un modo o nell'altro si sfocia
53 Ivi, p. 29.54 Ivi, p. 43.
22
sempre nella questione dell'inquinamento – difficilmente si toccano
altri temi in proposito. Sarebbe interessante interrogarsi sulla cecità
della società nei confronti di questi suoi mutamenti di percezione: è
proprio vero che non possiamo accorgercene? O non vogliamo farlo?
Oppure lo facciamo, però non lo riteniamo un problema? Ci sembra
davvero così assurdo poter pensare di diminuire le nostre frustrazioni
psichiche spostandoci – quando possibile – in bicicletta, o a piedi,
anziché imbottigliarci nel traffico?
Probabilmente una delle difficoltà reali, e non dovute ad una diretta e
semplice mancanza di formulazione di un pensiero alternativo a
quello sociale di massa (come potrebbero essere gli interrogativi
appena formulati), la troviamo nella mutazione degli spazi: se devo
percorrere 30 km per andare al lavoro difficilmente mi verrà in mente
di andarci in bicicletta. Ma nulla esclude, anzi è più facile pensare che
le due questioni siano interconnesse.55
Tornando a Illich, alla luce dei pregi e dell'efficienza dimostrata dal
mezzo bicicletta, propone un'interessante ridefinizione dello sviluppo
di un Paese: è sottoattrezzato ciascuno Stato che non riesce a dotare
ogni cittadino di una bicicletta, che non ha piste ciclabili e un servizio
pubblico motorizzato alla velocità ciclistica (al di sotto della soglia dei
25 km/h); è sovraindustrializzato un Paese in cui domina l'industria
del trasporto. Infine la maturità tecnologica si misura attraverso la
libertà dalla frustrazione del non movimento e dalla dipendenza dal
trasporto.
“E' il mondo dei lunghi viaggi [quello della maturità tecnologica]: un
55 Cioè, la mutazione spaziale dipende dal fatto che abbiamo adattato le nostre città al mezzo a cui siamo più abituati, ossia l'auto. Vedi in particolare il cap. 7.
23
mondo dove ogni luogo è accessibile a ogni persona, secondo il suo
talento e la sua velocità, senza fretta e senza paura, per mezzo di
veicoli che coprono le distanze senza far violenza alla terra che
l'uomo ha calcato per centinaia di migliaia di anni. La
sottoattrezzatura […] incoraggia l'asservimento dell'uomo all'uomo.”56
Le vie per raggiungere la maturità tecnologica sono due: o ci si libera
dall'opulenza o ci si libera dalla carenza.
“Entrambe hanno la stessa meta, cioè una ristrutturazione sociale
dello spazio che faccia continuamente sentire a ognuno che il centro
del mondo è proprio dove egli sta, cammina e vive.”57
Nel primo caso si dovrebbero ampliare le zone pedonali e renderle
meno isolate, per evitare quella solitudine dell'abbondanza per cui ci
si incontra solo tra un'isola ed un'altra, e riscoprire la capacità di
muoversi nei luoghi dove si vive senza dipendere dal trasporto. Nel
secondo caso si dovrebbe essere attenti all'estensione del raggio
d'azione della vita quotidiana, ampliando gli orizzonti senza diventare
schiavi dell'accelerazione. Quest'ultima strada, che dovrebbe essere
intrapresa dai Paesi più poveri, costa meno cara rispetto alle rinunce
che dovrebbero fare i ricchi – ma il prezzo che pagheremmo se
continuassimo verso l'opulenza sarebbe molto più alto di una rinuncia
alla schiavitù dal trasporto.
“Scegliere un'economia a contenuto minimo di energia costringe il
povero a rinunciare alle attese fantastiche e il ricco a riconoscere nei
propri interessi costituiti una passività tremenda.”58
56 Ivi, p. 65.57 Ivi, p. 67.58 Ivi, p. 16.
24
Pensare la mobilità in questi termini ci mette in grado di riconoscere
uno di quei modi dell'abitare il mondo – che vuol dire anche,
inevitabilmente, spostarsi al suo interno – rispettandolo senza
consumarlo, avendone cura.
Sull'utilità dell'energia abbiamo pochi dubbi, forse qualcuno in più ne
ha la società sull'utilità dell'equità: ma l'idea che ci sarebbe la
possibilità di farle marciare insieme, entrambe necessarie alla nostra
essenza di uomini che abitano il mondo ancor prima che utili, è uno
dei motivi a cui pensare quando si deve scegliere, uscendo di casa, se
prendere o meno le chiavi dell'auto.
25
CAP. 3
Critica delle automobili e rapporto tra identità e luoghi
“Tracciamo l'identikit dell'homo macchinans: individualista accanito
(più io che noi), spirito di competizione (la sindrome <<vrum
vrum>>), maschilista (macchina grande = attributi forti), aggressivo
(sono circondato da paranoici che ce l'hanno con me), perdita del
senso di realtà (esiste un mondo intorno alla macchina?), polluzione
diurna (l'ho ancora fatta nel mio strato d'ozono), culto dell'apparenza
(mostro, quindi sono) e del superfluo (è indispensabile perché non ne
ho bisogno). Sorpresa! Non è forse l'identikit dell'homo oeconomicus
liberalis che appare in sovrimpressione?”59
L'uguaglianza homo macchinans = homo oeconomicus liberalis ce la
descrive Tronchet, ma non è certo l'unico ad averla ipotizzata.
“Se c'è un simbolo che incarna per eccellenza la società neoliberale e
che potrebbe essere uno stemma sulla bandiera di vecchi e nuovi
governi è l'automobile come diritto di tutti.”60
Architetto e antropologo siciliano, curatore dell'edizione italiana
dell'Elogio della bicicletta di Illich, Franco La Cecla accompagna il
testo con un saggio dedicato alla critica delle automobili, in cui svolge
59 Didier Tronchet, op. cit., p. 72.60 Franco La Cecla, Per una critica delle automobili, in Elogio della bicicletta, op. cit., p. 79.
26
significative riflessioni alla luce degli anni trascorsi tra la sua
pubblicazione originale su Le Monde e la traduzione nel nostro
Paese61.
32 anni dopo, la situazione non è affatto cambiata, anzi si può dire
peggiorata. E il problema è che non si riesce a comprendere che
l'ecologia non è una questione di stile di vita o di scelta, ma l'ultima
scelta possibile.62
La critica alle automobili è uno dei cardini della questione,
probabilmente anche uno tra i più spinosi, perché facilmente esposto
alle accuse di anti-modernismo. Innanzitutto quindi, chiariamo – di
nuovo e una volta per tutte – che non si vuole affermare l'inutilità
delle auto: sono un'ottima invenzione, con difetti ma anche pregi, a
volte quasi indispensabili.
“L'auto sarebbe utile se fosse un mezzo tra altri per spostarsi, ma
questo è un assurdo. L'auto contiene insito il monopolio, la
distruzione di tutte le forme dell'andare.”63
Quello che si critica è l'uso indiscriminato, spregiudicato, l'elevamento
a simbolo sociale, la trasformazione in feticcio, la dipendenza,
l'adattamento generale delle nostre esigenze a quelle di uno strumento
che ci domina, ci sottomette, come fossimo passati da essere inventori
a schiavi.
La mobilità nella società contemporanea detta “ragioni
aristocratiche”, è una “fede molto prima di essere una pratica e un
diritto.”64 61 Energie et équité è stato pubblicato su Le Monde nel 1973, Elogio della bicicletta è del 2006.62 Ivi, p. 81.63 Ivi, p. 89.64 Ivi, p. 84.
27
Possiamo pensare alle auto blu (e sognare – immaginare sarebbe
troppo poco – che in biciclette blu i pensieri di chi pedala
prenderebbero ossigeno, e pare che ne avrebbero proprio bisogno... E
che risparmio sarebbe!) che indicano uno status, o più “banalmente”
alle equazioni auto più grande = proprietario più ricco = persona più
importante (così crede lui/lei, almeno), alle ore di ferie passate a
lavare/curare il feticcio (che spavento passare davanti ad un
autolavaggio, il sabato o la domenica – che spreco di acqua!), o a
sfogliare un giornale specializzato sognando le rate (lavorare per
guidare o guidare per lavorare?), o a guardare pubblicità che istigano
al sentimento di inferiorità...
“Le auto di oggi vi permettono di stare in poltrona, di non accorgervi
nemmeno del pericolo che correte o fate correre agli altri.”65
La pericolosità ce la dicono i numeri: solo in Italia, più di 4000 morti
all'anno (12 al giorno) per incidenti stradali (più di 200000 all'anno,
quasi 600 al giorno),66 per non parlare dei feriti e di chi rimane con
disabilità permanenti.
Dovremmo accorgerci della velocità, invece le distrazioni in macchina
aumentano sempre di più, dagli schermi dei navigatori si è passati ai
lettori DVD integrati (!), la stabilità delle quattro ruote è arrivata ad un
punto tale che le sensazioni provate all'interno prescindono totalmente
da quanto si sta correndo.
Anche la bici è pericolosa, ma non in se stessa come le auto, è
pericolosa perché fragile ed esposta alle intemperanze degli
automobilisti. Forse basterebbero delle piste ciclabili attrezzate per 65 Ivi, p. 87.66 Dati riferiti al 2009, da studi ACI (Automobile Club d'Italia) e Istat (Istituto nazionale di
statistica) su http://www.aci.it/sezione-istituzionale/studi-e-ricerche/dati-e-statistiche.html (ultimo accesso giugno 2011).
28
evitare un morto al giorno67. Inoltre c'è una differenza sostanziale, la
coscienza del pericolo: averla serve a stare più attenti.
Illuminante è il caso di Hanoi citato da La Cecla68: appena nel traffico
cittadino (prevalentemente ciclistico) si introducono i motorini, i
giornali parlano di un numero di morti per incidenti pari a quello dei
giorni della guerra del Vietnam!69
“L'automobile inventa un handicappato, il pedone, qualcuno che
viene definito da una mancanza. E inventa le riserve, i recinti chiusi
dove questa minoranza può circolare, le zone pedonali.”70 Accade più
o meno lo stesso per ciclisti e piste ciclabili.
Il pedone ha smesso di essere un uomo normale: come si fa a non
parlare di disumanizzazione? Non può passare inosservato il fatto che
si smettano di usare le gambe per muoversi: non dovrebbe essere parte
della nostra natura? Se così è, ed essa sta mutando, non dovremmo
almeno occuparcene (se non pre-occuparcene)?
Serve per andare più veloce? Ma ne abbiamo veramente bisogno in
questa misura?
L'abuso porta all'effetto opposto della velocità: l'ingorgo, la migliore
“illustrazione della deficienza del credo progressista.”71
“La bicicletta è il modo inventato per dare il massimo della libertà a
tutti e il massimo della democrazia a una città. Non richiede che le
strade divengano piste [come le autostrade, diverse dalle ciclabili, che
servono a noi perché non riusciamo (o non vogliamo?) trovare una
67 Fonte Istat.68 Franco La Cecla, op. cit., p. 90.69 Chiaramente qui un altro fattore, quello della nuova e sconosciuta modernità, incide
profondamente su questo dato.70 Ivi, p. 85.71 Ivi, p. 90.
29
soluzione migliore per badare all'incolumità di chi pedala] né che i
centri storici vengano condannati perché ostili alla circolazione. Oggi
l'effetto più controproducente del monopolio automobilistico è l'aver
negato la credibilità della convivenza di automobili e urbanità. […]
L'auto postula la fine della città, non ne ha bisogno.”72
Così si sono ingigantite le periferie, visto che il centro non “serve
più”.
Non si gioca per la strada, è troppo pericoloso (le auto sono
pericolose, non il gioco!), per questo i bambini sono rinchiusi in altre
“isole ludiche”; non si cammina, è troppo pericoloso (le auto o il
passeggio?), per questo gli anziani sono rinchiusi in “centri culturali”.
La nostra società è una società di “rinchiusi”, viviamo parcheggiati.
In Mente locale. Per un'antropologia dell'abitare, La Cecla esamina il
rapporto, in disgregazione, tra identità e luoghi.
Il punto di partenza è il quotidiano, visto che “l'antropologia […] è la
capacità di discernimento rispetto a cose che sfuggono perché troppo
visibili, sotto gli occhi di tutti.”73 In questo caso quello che sfugge è lo
spazio, in fase di spersonalizzazione, che cerca di essere sempre più
funzionale (adattato a ciò che serve), relativo (agli utilizzatori),
fluttuante e sradicato (senza storia e uguale dappertutto).
Il domicilio, luogo in cui si abita, si trasforma sempre più in residenza,
luogo in cui si risiede: perde il suo carattere che ci fa sentire a casa. Se
tutti i luoghi sono uguali, ovunque ci sentiamo a casa e ovunque ci
sentiamo persi: le due cose si confondono.
72 Ivi, p. 91.73 Franco La Cecla, Mente locale. Per un'antropologia dell'abitare, in Per un'antropologia del
quotidiano, Elèuthera, Milano 2005, p. 9.
30
L'abitare è un godimento del mondo, un soddisfarsi di esso avendone
bisogno.
L'antropologo siciliano individua dei criteri per un sano abitare74: tutti
richiedono una differenziazione dei luoghi, un'assegnazione a ciascun
luogo del suo proprio.
“La perdita di contatto tra abitare e costruito rende difficile quel
processo culturale che consiste nel rapporto reciproco tra identità e
luoghi. I luoghi sono <<alienati>> e altrettanto lo sono gli abitanti.
Nasce il senso desolato delle periferie, l'omologazione delle
prospettive, il somigliarsi di tutti i quartieri suburbani del mondo e
con essi il senso di anonimità.”75
L'adattamento tra individuo, gruppo e luogo è fragile e complesso:
abitando in un posto, se esso non ha identità, la perde inevitabilmente
anche l'individuo o la comunità che lo vive – uno influenza l'altro.
Per questo occorre fare mente locale: depositare la mente su di un
luogo. L'abitare non è una percezione istantanea, ci vuole del tempo
perché si costruisca, perché il pensiero si depositi e ci permetta di
orientarci e “comprendere” il posto.
“Dimorare significa rendersi conto di una separazione, raccogliersi
in sé per constatare che da questa separazione emerge la compagnia,
una compagnia, sempre da riconfermare, con un luogo. Lo spazio di
una città, della propria città, o della città in cui ci si trova a vivere,
volenti o nolenti, è l'evidenza che c'è qualcosa fuori di noi. L'agio o il
disagio di vivere in un luogo ce lo ricordano continuamente.”76
74 E sono: differenza tra residenza e lavoro, regolamentazione del vicinato, nucleo familiare ristretto, servizi collettivi in luoghi istituzionalizzati, luoghi appropriati differenziati, proporzione tra abitazione e famiglia, ottimizzazione dello spazio domestico.
75 Ivi, p. 37.76 Ivi, p. 67.
31
Ma come possiamo distinguere l'agio dal disagio se gli spazi sono tutti
uguali?
La perdita di identità e la spersonalizzazione dei luoghi creano
spaesamento, da cui derivano contraddizioni sociali. Un esempio è la
“sacralità del guard-rail”77: nei luoghi in cui sono avvenuti incidenti
stradali si erigono templi sacri a memoria dei “caduti sulla strada”. La
loro sacralità è in evidente contrasto con la totale indifferenza del
contesto in cui si trovano, tuttavia è uno dei segni che mostrano la
necessità (e la volontà?) di voler dare un'identità ad un posto.
Per poter abitare abbiamo bisogno che il luogo in cui viviamo abbia
una sua identità, altrimenti la perdiamo anche noi.
“Macchina, dissi accarezzando il cofano, non ce l'ho con te, tu sei
bella e svelta, hai portato anche delle cose buone nel mondo. Bastava
che restassi quello che sei, un carriolone con un motore assai
raffinato, non la padrona di ogni strada e ogni città. Tu sei disegnata
nella bandiera di quelli che hanno distrutto ciò che c'era di più vivo e
generoso nel mio Paese. Ce ne sono milioni come te che in questo
momento corrono sull'autostrada e si schiantano una contro l'altra,
diventano carogne di lamiera, sopra la gente ci muore contenta e
rassegnata, e sempre più ne morirà.”78
77 A cui è dedicato l'ultimo capitolo di Mente locale. Per un'antropologia dell'abitare, op. cit.78 Stefano Benni, Saltatempo, Feltrinelli, Milano 2003, p. 254.
32
CAP. 4
Dai nonluoghi al bello della bicicletta: idee dell'antropologo Augé
“Il luogo antropologico è principio di senso per coloro che
l'abitano.”79
Uno degli studiosi che più ha approfondito la questione dell'identità
dei luoghi è l'antropologo francese Marc Augé. Teorico della
surmodernità, ha coniato il termine nonluogo proprio per definire quei
posti privi di “personalità” propria.
La nostra società sta assistendo (forse da protagonista un po' troppo
passiva) alla mutazione spaziale80 che caratterizza la globalizzazione:
tra le cause – sicuramente non l'unica – il tentativo di annullamento
delle distanze attraverso la supervelocità81 (non solo fisica, ma anche
di comunicazione).
“Diventa ogni giorno più difficile distinguere fra l'esterno e l'interno,
l'altrove e il qui.”82 Questo perché il centro del mondo si è
demoltiplicato e deterritorializzato: è ovunque e da nessuna parte, sia
79 Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione ad un'antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 1993, p. 59.
80 Sulle mutazioni delle città v. cap. 7.81 Sulla scomparsa della città legata alla velocità v. Virilio, cap. 6.82 Marc Augé, Nonluoghi, op cit., p. 17.
33
per l'irrompere nella realtà quotidiana di processi virtuali (come
potremmo definire quelli economici delle varie Piazze Affari), sia
perché possiamo muoverci facilmente tra posti molto distanti anche in
breve tempo.
La globalità determina effetti di omogeneizzazione e di esclusione
(tutti devono essere uguali, mentre il “diverso” è continuamente
demonizzato).
Si tende a considerare la cancellazione delle frontiere come qualcosa
di positivo. Questo è senza dubbio vero se le concepiamo come un
blocco tra un Paese ed un altro. Se però proviamo a immaginare
che“una frontiera non è un muro che vieta il passaggio, ma una
soglia che invita al passaggio”83 i conti non tornano: annullandola si
eliminano anche le differenze che questo passaggio comporterebbe.
Spostarsi implica un cambiamento di ciò che ci circonda: ogni posto
ha i suoi odori, i suoi colori, i suoi riferimenti, le sue peculiarità, le sue
tradizioni, etc. Arrivando in un qualsiasi aeroporto probabilmente non
si noterebbero molte differenze con quello di partenza: non si vive il
cambiamento che dovrebbe essere intrinseco allo spostamento.
Per questo l'aeroporto è il prototipo del nonluogo come lo concepisce
Augé, ma non l'unico. “Uno spazio che non può definirsi identitario,
relazionale e storico definirà un nonluogo”84, così “i nonluoghi sono
tanto le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle
persone e dei beni – strade a scorrimento veloce, svincoli, aeroporti –
quanto i mezzi di trasporto stessi o i grandi centri commerciali o,
ancora, i campi profughi dove sono parcheggiati i rifugiati del
pianeta.”85
83 Ivi, p. 14.84 Ivi, p. 77.85 Ivi, p. 47.
34
Nel “non” di questi “luoghi” la prima cosa che si smarrisce è dunque
l'identità, non solo del posto ma anche di chi lo frequenta.
Inevitabilmente muta anche il rapporto tra i frequentatori dello spazio
(che non è relazionale!).
“E' il mondo contemporaneo stesso che, a causa delle sue
trasformazioni accelerate, richiama lo sguardo antropologico, cioè
una riflessione rinnovata e metodica sulla categoria dell'alterità.”86
La surmodernità è caratterizzata essenzialmente dagli eccessi di
spazio, tempo e individuo.87 Il primo è correlato al restringimento del
pianeta, ai mutamenti di scala (percepiamo le distanze molto
diversamente rispetto anche solo a mezzo secolo fa), ai mezzi di
trasporto sempre più rapidi. Per come percepiamo e utilizziamo il
tempo, esso non può più essere principio di intelligibilità né di
identità: la storia accelera, c'è sovrabbondanza di avvenimenti (anche
questo è un problema antropologico!). L'eccesso riguarda anche la
produzione di senso individuale, così tutti i riferimenti sono
individualizzati (i posti tutti uguali lo richiedono perché ci si possa
orientare, quando si riesce a farlo...).
Per questo quello che si prospetta sarebbe “un mondo promesso
all'individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all'effimero.”88 Questa prospettiva diviene realtà nei nonluoghi della surmodernità:
dovrebbe bastare questa evidenza a convincerci a preservare l'identità
dei posti che non l'hanno ancora persa. “Il nonluogo è il contrario
86 Ivi, p. 40.87 Ivi, p. 43.88 Ivi, p. 74.
35
dell'utopia: esso esiste e non accoglie una società organica.”89
In un certo senso possiamo notare un paradosso: la perdita identitaria
dei luoghi è un effetto quasi diretto della globalizzazione, che
dovrebbe (il condizionale è d'obbligo) volgere verso una società
unitaria (davvero necessariamente omologata?), invece comporta un
disorientamento sociale generale.
“E' il nonluogo a creare l'identità condivisa dei passeggeri, della
clientela o dei guidatori della domenica.”90
L'anonimato è il simbolo di questa “identità condivisa” e provvisoria: i
passeggeri si riducono a codici, di carte d'imbarco o pedaggi
autostradali o sedili prenotati su treni ad alta velocità o tessere
dell'ipermercato, a numeri per statistiche che determinano la sorte di
uno spazio (il flusso dei passeggeri permette ad un aeroporto o una
stazione di ingrandirsi o rimpicciolirsi, o ad un centro commerciale di
aprire a nuovi marchi o chiudere magari per la concorrenza di uno più
vicino allo svincolo...).
“Il passeggero dei nonluoghi non ritrova la sua identità che al
controllo della dogana, al casello autostradale o alla cassa. […] Lo
spazio del nonluogo crea solitudine e similitudine.”91
Ritrovata la propria identità per breve tempo si torna poi alle folle di
anonimi individui, più che mai ci si sente soli tra questa gente per
qualche ora tutta uguale (non è assolutamente un caso che, spesso, chi
non è in compagnia è al telefono – anzi è più raro vedere qualcuno
solo che non lo usa!). La tentazione del narcisismo è forte, e la legge
comune dominante è “fare come gli altri per essere se stessi”.
89 Ivi, p. 99.90 Ivi, p. 92.91 Ivi, pp. 93-94.
36
“I politici hanno finito con il non chiedersi più dove vanno, perché
sanno sempre meno dove si trovano.”92 E non solo loro. Lo
smarrimento è generale, perché non ci si può orientare in un labirinto
di luoghi anonimi. Paradossalmente, i cartelli autostradali sempre più
commentano i posti che evitano (in Italia sono di colore marrone le
indicazioni turistiche sulle strade); infatti è proprio per questo che
esistono le strade ad alta velocità, per evitare i(l traffico dei) paesi, o
no? Per permettere gli spostamenti “toccata e fuga”...
Citando Malraux, Augé ci fa notare che “le nostre città si trasformano
in musei (monumenti intonacati, esposti, illuminati, settori riservati e
isole pedonali) proprio mentre tangenziali, autostrade, treni ad alta
velocità e strade a scorrimento veloce le aggirano.”93
“E' nell'anonimato del nonluogo che si prova in solitudine la
comunanza dei destini umani. Ci sarà dunque posto domani, o forse,
malgrado l'apparente contraddizione dei termini, c'è già posto oggi
per un'etnologia della solitudine.”94
Proprio perché sono i destini umani ad essere in gioco occorre
approfondire e trovare delle soluzioni che vadano nella direzione
opposta dello smarrimento.
“Non sarà certo la bicicletta a salvarci, ma da qualche parte bisogna
pur cominciare.”95
E' lo stesso Augé che, in un altro testo96, ci mostra quale potrebbe
92 Ivi, p. 101.93 Ivi, p. 74.94 Ivi, pp. 105-6.95 Luigi Bairo, Bici ribelle. Percorsi di fantasia, resistenza e libertà., Stampa Alternativa Nuovi
equilibri, Roma 2009, p. 16.96 Marc Augé, Il bello della bicicletta, op. cit.
37
essere un opposto positivo dei nonluoghi: il sellino, quale posto
migliore per ritrovare se stessi?
“Mettere delle biciclette a disposizione degli abitanti o dei turisti
significa obbligarli a vedersi e a incontrarsi, a trasformare le strade
in luogo di socializzazione, a ricreare luoghi di vita, a sognare la
città.”97
Luoghi di vita: la semplicità di questa espressione ci riporta ancora al
senso proprio dell'abitare. L'uso della bicicletta implica l'incontro tra
chi si muove, senza filtri di alcun genere, un vero e proprio “faccia a
faccia”. Banalmente ci basta pensare al fatto che, in bici, ci si può
fermare ogni volta che si vuole, magari per parlare con qualcuno; il
saluto tra gli automobilisti, piuttosto blando, generalmente varia tra un
colpo di clacson e un lampeggiare di abbaglianti.
“La distanza sempre più grande tra luoghi di vita e luoghi di lavoro,
l'uso sistematico dell'automobile hanno confinato la bicicletta ai
settori dello sport o del tempo libero.”98
L'uso quotidiano è sempre più difficile da adattare alle esigenze
determinate socialmente, ma esistono dei margini in cui è ancora
possibile fare delle scelte che non siano “di comodo”: in fin dei conti
se il supermercato vicino casa un bel giorno chiude dipende anche dal
fatto che si preferisce fare qualche km per arrivare all'ipermercato in
periferia (ma con quale senno? C'è davvero tutta questa differenza di
prezzi o di varietà di prodotti? Non si vuole semplificare troppo la
questione: sono diversi i fattori che determinano questo tipo di scelte
97 Ivi, p. 8.98 Ivi, p. 13.
38
dei consumatori, ma proprio per questo è bene interrogarsi in
proposito, visto che sono proprio le “scelte collettive” ad avere le
conseguenze socialmente più rilevanti).
Antropologicamente la bicicletta ha un altro ruolo molto interessante e
“producente” di scoperta: di sé e dei propri limiti, oltre che
dell'alterità.
“Il corpo a corpo con me stesso era un'esperienza intima, scoprivo le
mie possibilità e i miei limiti: non si può barare con la bici.”99
Mentire a se stessi – utilizzando motori rombanti (che, purtroppo,
nello sport diventano chimici100), acquistati ad un prezzo più o meno
alto, a sostituzione della propria impotenza – è pratica molto diffusa.
Ma se a “guidare” siamo noi con il nostro corpo, per impratichirci
dobbiamo inevitabilmente approfondire la nostra autoconoscenza e
autocoscienza! Questo significa adattare i percorsi e gli orari ad
esigenze proprie: “andare in bicicletta vuol dire imparare a gestire il
tempo: il tempo breve della giornata e il tempo lungo degli anni che si
accumulano.”101
Quale altro mezzo ci dà una tale coscienza, anche del tempo che
passa? Al di là dell'allenamento (che comunque ci dà segno di una
crescita personale, se c'è), in una salita fa differenza – in positivo o in
negativo – qualche anno in più o in meno.
Conosci te stesso ce lo diceva già l'oracolo di Delfi, forse avremmo
bisogno di ripetercelo più spesso.
99 Ivi, p. 22.100 Probabilmente questo è uno dei motivi per cui il ciclismo ha perso popolarità in quanto sport: i
tempi di Bartali e Coppi non sono gli stessi di un Contador in maglia rosa al Giro d'Italia (2011) mentre il Tour de France ancora lo indaga per doping nelle vittorie precedenti (Tour 2010)... Il mito storico è cambiato, per quanto – proprio perché storia – ci sono imprese ciclistiche che rimangono intramontabili, al di là di tutto.
101 Ivi, p. 23.
39
“Bisogna aggiungere come altro merito della bicicletta il
reinserimento del ciclista nella sua propria individualità, ma anche la
reinvenzione di legami sociali gradevoli, leggeri, eventualmente
effimeri, ma sempre portatori di una certa gioia di vivere.”102 Questo
perché “l'ebbrezza della solitudine non impedisce il piacere della
socializzazione.”103 Semplicemente c'è maggiore libertà di scelta:
proseguire diritti coi propri pensieri sfuggenti che prendono aria,
oppure fermarsi a fare due chiacchiere.
E' molto diverso dallo scegliere di aprire o chiudere il finestrino!
“Il fattore urbano si estende ovunque, ma ci siamo persi la città e
perdiamo di vista noi stessi. A questo punto la bicicletta forse
acquista un ruolo determinante per aiutare gli uomini a riprendere
coscienza di loro stessi e dei luoghi in cui vivono, invertendo, per
quanto li riguarda, il movimento che proietta le città fuori da loro
stesse. Abbiamo bisogno della bicicletta, per ritrovarci in noi stessi,
proprio mentre ritroviamo un centro nei luoghi in cui viviamo.”104
Bisogna essere accorti, tuttavia, ed evitare che la bici resti “l'ultima
illusione” in una situazione di crisi di senso generalizzata.
Dare bellezza al caso e ridare senso alla mobilità: questi gli obiettivi
immediati e primari che non devono solo far parte di un'utopia, ma
essere parte di un progetto concreto che ha già avuto modo di
dimostrare la sua fattibilità in diversi luoghi.105
“Il solo fatto che l'uso della bicicletta offra una dimensione concreta
al sogno di un mondo utopico in cui la gioia di vivere sia finalmente 102 Ivi, pp. 26-7.103 Ivi, p. 25.104 Ivi, p. 38.105 V. cap. successivo.
40
prioritaria per ognuno e assicuri il rispetto di tutti ci dà una ragione
per sperare: ritorno all'utopia e ritorno al reale coincidono. In
bicicletta, per cambiare la vita! Il ciclismo come forma di
umanesimo.”106
A noi il compito di scegliere, come sempre, se inseguire o meno il
sogno.
106 Marc Augé, Il bello della bicicletta, op. cit., p. 65.
41
CAP. 5
La bicicletta come movimento politico
“Ogni volta che vedo un adulto in bicicletta penso che per la razza
umana ci sia ancora speranza.”107
Partendo dal fatto che “la bicicletta è un mezzo economico e
democratico”108 possiamo contare diversi “esperimenti politici” che
hanno sottolineato e sottolineano i vantaggi che questo mezzo
comporta, dimostrando come questa bistrattata utopia possa diventare
reale. Questi hanno un significato politico nel senso più puro del
termine, nella misura in cui riguardano proprio il vivere la polis
abitandola in un certo modo.
Ci sono casi di trasformazione sociale sia indiretta che diretta.
“La metà degli anni '90 del XIX secolo era il culmine del boom delle
biciclette in America, e i consumatori ne compravano in grandi
quantità. […] Una bicicletta di qualità poteva essere acquistata per
meno di 100 dollari. […] In tutto, il numero delle aziende americane
coinvolte, in un modo o nell'altro, nel commercio di bici si aggirava
107 Herbert George Wells, in Luigi Bairo, op. cit., p.16.108 Corrado Augias, Riscoprire la bici, geniale e democratica, la Repubblica, 7 maggio 2011, p.
34.
42
intorno a 3000, incluso un negozio di bici a Dayton, in Ohio, di
proprietà di due fratelli, Orville e Wilbur Wright, che si stavano
ispirando alla tecnologia di questo mezzo per rifinire un'altra
invenzione sulla quale stavano lavorando.”109
Questo si verificava contemporaneamente ad un altro fenomeno
sociale importantissimo – l'emancipazione femminile – e qualcuno ha
sostenuto che le due situazioni fossero intrecciate (non possiamo dire
con certezza in che misura la diffusione della bicicletta abbia
incentivato l'emancipazione femminile o viceversa, ma non possiamo
negare l'intersecarsi degli eventi storici).
“Nel momento in cui sale in sella, [una donna] sa che non può
succederle niente di male mentre è sulla sua bicicletta, e se ne va
come l'immagine della femminilità libera e incondizionata. La
bicicletta insegna anche a cambiare in modo pratico l'abbigliamento,
dona alle donne aria fresca ed esercizio, e aiuta a renderle uguali agli
uomini nel lavoro e nel piacere […] La bicicletta predica la necessità
del suffragio femminile.”110 E' una donna di fine Ottocento a dirlo!
“I mutamenti sociali portati dalla bicicletta non si limitavano alla
moda femminile. Una donna con una bicicletta non doveva più
dipendere da un uomo per i propri spostamenti – era libera di andare
e venire a suo piacimento. Aveva sperimentato un nuovo genere di
<<potere fisico>>, reso possibile dalla velocità del veicolo. La
bicicletta offriva una parità con gli uomini che era sia nuova che
euforizzante. In breve tempo, <<sempre più donne presero a
considerare la bicicletta come una macchina che produceva
109 Peter Zheutlin, Il giro del mondo in bicicletta. La straordinaria avventura di una donna alla conquista della libertà, Elliot, Roma 2011. L'invenzione a cui si riferisce è chiaramente l'aeroplano.
110 Susan B. Anthony, lettera alla rivista Sidepaths, 1898, cit. in ivi, p. 213.
43
libertà>>111.”
La storia da cui traiamo queste conclusioni è quella di Annie
Kopchovsky, alias Annie Londonderry, la prima donna ad aver
effettuato il giro del mondo in bicicletta.112
“L'odissea di Annie di quindici mesi intorno al mondo, tra il 1894 e il
1895, è un capitolo della storia del ciclismo audace e inedito, per
quanto pittoresco, contorto e bizzarro. […] Ma il viaggio di Annie era
perfettamente paradigmatico della confluenza del movimento delle
donne e della mania del ciclismo.”113
La bicicletta come strumento di potere114 è un aspetto che non può
essere trascurato, in relazione alla stessa natura umana. E' un'altra
donna115, Hannah Arendt, ad aver sostenuto l'importanza dell'azione
nella vita dell'essere umano.
“L'azione, la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini
senza la mediazione di cose materiali, corrisponde alla condizione
umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l'Uomo, vivono
sulla terra e abitano il mondo.”116
Per un'azione che veda protagonista la bicicletta con tutte le sue
potenzialità i punti di partenza possibili sono essenzialmente due:
dall'alto, attraverso politiche governative di incentivazione; o dal
basso, attraverso movimenti spontanei – anche se l'ideale sarebbe che
le due cose si intrecciassero (e in alcuni casi, per fortuna, succede).
111 Robert A. Smith, A Social History of the Bicycle (McGraw Hill, 1972), 76, in Peter Zheutlin, op. cit., p. 54.
112 Il fatto che abbia realmente percorso circa 5000 km in bici intorno al mondo, come sostenne, è storicamente piuttosto incerto, tuttavia citiamo l'esempio per la sua indubbia valenza simbolica.
113 Ivi, p. 214.114 Ivi, p. 230.115 V. cap. 1.116 Hannah Arendt, op. cit., p. 7.
44
“Non si può pensare di progettare a tavolino e impiantare nella testa
della gente nuovi modelli culturali e nuovi stili di vita, che hanno
bisogno di svilupparsi e crescere in maniera organicamente
naturale.”117
Le piste ciclabili e il servizio di bike sharing118 rientrano nel primo
tipo, e si rivelano molto utili per sensibilizzare l'utenza a questo tipo di
mobilità: non a caso sono le prime richieste di associazioni e
movimenti di ciclisti urbani. E' difficile dire se è grazie alle piste
ciclabili che ci si muove più in bicicletta, o se è perché ci sono tanti
ciclisti che vengono costruite, l'intreccio mescola le due cose e le
rende un tutt'uno – andando nella stessa direzione diventano
necessaria l'una all'altra.
Lo stesso Augé riporta l'esempio del progetto di bike sharing Velib' a
Parigi, parlando di un comunismo urbano per cavalieri/e della
bicicletta, che favorisce lo scivolamento in una geografia poetica
della città119, un successo per le migliaia di parigini che ne
usufruiscono a basso costo: una dimostrazione di come ci si potrebbe
muovere con facilità ed economicamente. Applicando la teoria del
caos120 al fenomeno l'antropologo francese parla di effetto pedalata:
potrebbe essere la causa di miglioramenti globali.121
E che non si tratta solo di un'utopia ce lo dicono i fatti.
Restando in Francia, possiamo guardare (non senza ammirazione)
117 Ted White in Chriss Carlsson (a cura di), Critical Mass. L'uso sovversivo della bicicletta, Feltrinelli, Milano 2003, p. 162.
118 Lo scambio di biciclette pubbliche che permette di prenderle da una postazione e lasciarle in un'altra.
119 Marc Augé, Il bello della bicicletta, op. cit., p. 39.120 Nata dalla domanda provocatoria del meteorologo Lorenz nel 1972: può il battito d'ali di una
farfalla in Brasile provocare un uragano in Texas?121 Ivi, p. 57.
45
l'esempio di Strasburgo: 500 km di piste ciclabili (in una sola città!),
un Comité d’Action des Deux Roues (comitato d’azione per le due
ruote) che si occupa del servizio di bike sharing Velhob - e non
solo122. In Europa probabilmente è l'Olanda il Paese che detiene il
primato nel campo della mobilità sostenibile e la capitale
Amsterdam123 ne è un esempio lampante.
Un altro caso piacevolmente sorprendente è quello di Goteborg,
seconda città della Svezia, che può vantare 450 km di piste ciclabili124,
e dimostra un investimento intelligente (nel 2007 per la mobilità
sostenibile sono stati spesi quasi 3 milioni di euro): se il 40% degli
spostamenti è in bicicletta anche in un paese così freddo (le piste
ciclabili sono innevate per molti mesi dell'anno), vuol dire che deve
essere davvero conveniente!
In Italia125, la Regione più all'avanguardia è l'Emilia Romagna, con
Ferrara in testa: tra le Zone a Traffico Limitato più estese d'Europa, è
per antonomasia la città a misura di bicicletta, basta guardarsi intorno
per averne la prova; innumerevoli sono i progetti a sostegno di questo
mezzo, dal bike sharing alla “Ricicletta”, alla messa in sicurezza dei
percorsi, ai Bicigrill, al Piano Parcheggio Bici fino all'Ufficio
biciclette al Comune.126
A Torino, dove possiamo vedere numerose piste ciclabili, la comunità
Bici e Basta si è posta lo scopo di promuovere l'uso della bicicletta
come mezzo di trasporto, riunire i ciclisti urbani Torinesi per ideare e
122 Vedi http://www.otstrasbourg.fr (ultimo accesso giugno 2011).123 Vedi http://www.iamsterdam.com/it/visiting/cosafare/ciclare (ultimo accesso giugno 2011).124 Persino mappate online http://goteborg.trafiken.nu/sv/gbg/Cykel/Centrum-Vast/ (ultimo
accesso giugno 2011).125 Il risultato del Giretto d'Italia 2011 http://www.ferrarainbici.it/index.phtml?id=420 (ultimo
accesso giugno 2011), iniziativa promossa dalla FIAB (Federazione Italiana Amici della Bicicletta) per il campionamento di dati sulla mobilità in bicicletta, ha visto assegnare il primo posto per Ferrara, Torino e Udine.
126 Tutti i dettagli dei progetti sono visionabili sul sito http://www.ferrarainbici.it (ultimo accesso giugno 2011).
46
condividere progetti sulla mobilità ciclabile e sostenibile, stabilire un
canale di comunicazione con le istituzioni e le associazioni piemontesi
per proporre soluzioni urbane concrete127, evidentemente perché le
politiche attuate “dall'alto” non sono sufficienti alle esigenze di chi
pedala.
Pur non avendo (almeno per ora) alcun primato su scala nazionale,
anche in Puglia sono numerosi i progetti di Mobilità Sostenibile128,
alcuni già realizzati e altri in fase di realizzazione, uno dei quali
riguarda l'Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”: Cicloattivi @
università dovrebbe partire a settembre 2011 e prevede la dotazione di
un parco bici e servizio di noleggio per le Case degli studenti, bonus
su acquisto bici per gli universitari, attivazione di una rete di
ciclofficine (e altro ancora, vedremo!).
Già avviati, invece, grazie a giovani menti finanziate da Principi
Attivi129, sono invece: Ciclospazio130, anagrafe della bici che prevede la
punzonatura di una targa sul telaio per scampare ai ladri (oltre che
essere un luogo associativo barese); CicloMurgia131, che si occupa di
cicloturismo nel territorio murgiano.
Un altro progetto, presente in diverse città d'Italia (nato in Danimarca
e presto diffuso sia nel Nord Europa che negli Stati Uniti), è il
Piedibus132: a piedi o in bicicletta, gruppi di genitori o volontari si
organizzano per accompagnare i bambini a scuola facendo un
“autobus umano” con fermate prestabilite; un'idea semplice ma
127 Vedi http://www.biciebasta.com/ (ultimo accesso giugno 2011).128 Vedi http://www.cremss.puglia.it/mobilita/index.php (ultimo accesso giugno 2011).129 Finanziamenti della Regione Puglia sulla base di un concorso nell'ambito di Bollenti spiriti,
progetto dell'assessorato alle Politiche giovanili.130 Vedi http://www.ciclospazio.it (ultimo accesso giugno 2011).131 Vedi http://www.ciclomurgia.com (ultimo accesso giugno 2011).132 Vedi http://www.piedibus.it/ (ultimo accesso giugno 2011).
47
perfetta soprattutto per scongiurare gli ingorghi automobilistici
all'ingresso e all'uscita da scuola, ma anche per sensibilizzare i più
piccoli ad un certo tipo di mobilità.
Questi sono esempi di movimenti “ibridi”, in cui si intrecciano idee
“dal basso” e finanziamenti pubblici.
“Chi ha scelto di essere padrone della propria esistenza, non
accontentandosi di una vita da puro e semplice cliente/consumatore,
usa la bicicletta.”133
Il movimento della Massa Critica, o Critical Mass, è invece una delle
azioni più diffuse a livello di “protesta politica” che rivendica
l'importanza del ciclismo urbano: l'obiettivo primario è la
sensibilizzazione dei cittadini ancor prima che dei politici.
Nato nel 1972 a San Francisco, si è presto diffuso in tutto il mondo,
facilmente “imitabile” per il suo carattere piuttosto anarchico (nel
senso più puro del termine, cioè senza regole precise, quindi adattabile
alle esigenze dei vari luoghi in cui è promosso).
“La bicicletta inventa una nuova geografia della città. Per maggiori
informazioni rivolgiti alla tua mente.”134 Così recita uno dei tanti
volantini che lo pubblicizzano.
Il nome lo deve a George Bliss, che definì il traffico cinese “una
specie di massa critica, nella quale le biciclette giungono a un
incrocio e aspettano di diventare un numero sufficiente per aprirsi un
varco attraverso le auto, costringendole a fermarsi e viceversa”135.
In pratica consiste in un libero ritrovo di ciclisti, che seguono percorsi
urbani più o meno prestabiliti, senza un vero e proprio leader, per 133 Wolfgang Sachs, For love of the Automobile: Looking Back into the History of Our Desires,
University of California Press, Berkeley 1992, in Chriss Carlsson, op. cit., p. 24.134 Chriss Carlsson, op. cit., p. 33.135 Ivi, p. 156.
48
mostrare agli automobilisti (soprattutto, ma in generale a tutti i
cittadini) la comodità del muoversi in bici nel traffico.
“Critical Mass è un tentativo assolutamente unico di espressione
pubblica e collettiva per rivendicare la vita di relazione e il senso di
interdipendenza e di reciproca responsabilità che si stanno perdendo.
Critical Mass dà lo stimolo e la forza per disertare dalla insensata
schiavitù quotidiana, che il possesso dell'autovettura e le relative
spese comportano. L'aspetto più rivoluzionario, tuttavia, è il fatto che
questo obiettivo venga raggiunto, portando la gente a partecipare in
prima persona a una manifestazione diretta della creatività umana,
estranea a ogni logica di mercato, che ci rigenera, offrendoci un
assaggio di uno stile di vita praticamente dimenticato, libero,
conviviale, cooperativo, associativo, collettivo.”136
Il carattere festoso impreziosisce queste “maratone non autorizzate” di
ciclisti che amano – giustamente – ritenersi parte integrante del
traffico.
“La minaccia più grande che la Critical Mass pone al sistema è
evidentemente il divertimento, che alimenta la capacità umana di
condividere un piacere al di fuori della dimensione commerciale e,
per questa ragione, costituisce un precedente particolarmente
entusiasmante.”137
Si sommano una serie di fattori che contribuiscono a creare
un'atmosfera che non vuole dimostrare solo l'utilità, la comodità,
l'economicità dello spostarsi in bici, ma anche la bellezza di un modo
di vedere e affrontare il mondo.
“Quando una persona usa la bici tutti i giorni, compie un gesto di
136 Ivi, pp. 87-88.137 Ivi, p. 93.
49
solenne rottura rispetto a una delle fondamentali certezze e
<<verità>> della cultura dominante, cioè la necessità di possedere
un'automobile per andare in giro.”138
La quotidianità del gesto è riflessa nella regolarità con cui il
movimento si ritrova (solitamente una volta al mese) e attua la sua
festa per “vedere la città così come potrebbe diventare se solo una
Massa Critica, ossia un numero sufficientemente grande di persone, si
decidesse a cambiare radicalmente le proprie abitudini di mobilità e
di consumo, trasformando il trasporto urbano da una stressante
routine a una pratica felicitaria.”139
L'idea di pratica felicitaria è politicamente illuminante, vederla attuata
con metodi spontanei e popolari è un segno di come la mobilità e la
scena culturale locale sono correlate alla qualità della vita.
In Italia la città con la Massa Critica più organizzata è Roma, dove il
traffico intenso la rende una necessità: ogni ultimo venerdì del mese i
ciclisti invadono le strade, e una volta all'anno la città ospita la
Ciemmona140, Critical Mass interplanetaria.
Molto diffuse sono anche le Ciclofficine popolari, nella capitale ma
non solo, luoghi di incontro per chi vuole riparare la bicicletta o
condividere esperienze.
Questi “esperimenti” possono essere la dimostrazione di un bisogno,
anzitutto vitale, di vivere diversamente. Non a caso si verificano
soprattutto nei luoghi dove mancano delle politiche governative
adatte, e dove in primo luogo occorre sensibilizzare la gente per
138 Ivi, p. 88.139 Ivi, p. 41.140 Vedi http://www.ciemmona.org (ultimo accesso giugno 2011).
50
evitare che si affermi l'idea che certi stili di vita siano solo abitudini di
qualche strano individuo su due ruote.
“La bicicletta è un oggetto che ha assunto nelle diverse parti del
mondo un significato strettamente ambiguo e contraddittorio. In
alcuni contesti viene vista come uno strumento di emancipazione […],
in altri come un segno di povertà e arretratezza. E' un oggetto
profondamente vittoriano […] e contemporaneamente una macchina
della futura utopia. Viene considerata un mezzo di trasporto verde,
ma è anche intimamente legata alla storia e alla cultura
automobilistica e allo sviluppo della rete stradale, che tanto danno
hanno portato all'ambiente. E' tanto una causa di sfruttamento (la
schiavitù del caucciù) quanto uno strumento per lo svago all'aria
aperta, che ci ha regalato la meravigliosa parola freewheeling, cioè
girare in bicicletta senza meta e in piena libertà.”141
Negli Stati Uniti, dove la Critical Mass è nata ormai quasi quarant'anni
fa, l'esigenza si pone in contrapposizione a città metropolitane a
misura d'auto, con strade infinite.
David Byrne142, pedalatore americano (oltre che musicista ed ex leader
dei Talking Heads), per esperienza ha notato che “la maggior parte
delle città americane non è molto accogliente per il ciclista. E
neppure per i pedoni. […] Le esistenze, l'urbanistica, i bilanci e il
tempo ruotano tutti intorno all'automobile.”143 Viaggiatore
inseparabile dalla sua bici pieghevole, nei suoi Diari della bicicletta,
fa un'interessante analisi e comparazione di città americane ed europee
nella loro “pedabilità”.
Se la politica può definirsi l'“insieme di compromessi che
141 Ivi, p. 177.142 David Byrne, Diari della bicicletta, Bompiani, Milano 2010.143 Ivi, p. 13.
51
quotidianamente dobbiamo fare gli uni con gli altri per poter vivere”144, unire gli sforzi – istituzionali da una parte (finanziamenti, piste
ciclabili, bike sharing) e “popolari” dall'altra (sensibilizzazione,
associazioni o movimenti come quello della Massa Critica) – può
essere un modo perché la bicicletta sia uno strumento politico
realmente efficace volto a direzionare trasformazioni sociali.
144 Chriss Carlsson, op. cit., p. 215.
52
CAP. 6
Percezione del tempo e questione della velocità: Virilio
“Chi si ferma è perduto, ma si perde tutto chi non si ferma mai.”145
Già Illich, in conclusione di Energia ed equità, si è fatto promotore
della necessità di una demistificazione della velocità, con l'idea di una
soglia-limite per favorire l'equità146.
“[il passeggero abituale] non vuole essere maggiormente libero come
cittadino, ma essere meglio servito come cliente. Non tiene alla
propria libertà di muoversi e di parlare alla gente, ma al suo diritto di
essere caricato e di essere informato dai media. Vuole un prodotto
migliore, non vuole liberarsi dall'asservimento ai prodotti. E' dunque
indispensabile ch'egli riesca a comprendere che l'accelerazione da lui
ambita è frustrante e non può che portare a un ulteriore declino
dell'equità, del tempo libero e dell'autonomia.”147
Paul Virilio, teorico della dromologia – “scienza della velocità” – è
colui che può meglio di tutti aiutarci a comprendere in che senso,
come dice Illich, l'accelerazione è frustrante.
145 Niccolò Fabi, La bellezza, dall'album Novo Mesto (Virgin, 2006); non è certo un filosofo, ma trovo questa frase piuttosto eloquente.
146 Vedi cap. 2 di questa tesi.147 Ivan Illich, op. cit., p. 30.
53
Filosofo e urbanista francese, ha dedicato gran parte dei suoi studi allo
sviluppo delle tecnologie in relazione a velocità e potere.
La rivoluzione dromocratica148 è quel processo per cui la nostra
società è soggetta ad una continua accelerazione, vedendo in essa un
segno del progresso.
Nell'ottica dromocratica la prima libertà in assoluto è il movimento, e
il suo punto culminante è la libertà di velocità.
Il primo contesto, storicamente, in cui si è sviluppata questa logica è
quello militare: nella strategia di guerra, la sosta equivale alla morte;
la velocità è tempo guadagnato per la vita (non a caso il progresso
delle macchine belliche implica un'accelerazione del movimento e dei
proiettili). Dalle battaglie nelle fortezze medievali, in cui prevaleva il
combattimento prolungato, le cose sono molto cambiate: in quelle
attuali lo stato d'urgenza dei tempi di guerra è ridotto a pochi minuti
(nell'ipotesi di un conflitto nucleare è una situazione perlomeno
preoccupante, poiché in pochi istanti si condensano le scelte sul
destino dell'umanità). In quest'ottica disarmare vuol dire decelerare.
Con la rivoluzione industriale si è ampliato lo spettro di quella
dromocratica.
La velocità si è affermata come speranza dell'Occidente e legata
indissolubilmente all'idea di potere. Potere vuol dire muovere, il
potere politico riguarda la polis e dunque è anche amministrazione
delle strade: in esse si oppongono sosta (che, nell'ottica dromocratica,
ha una connotazione negativa) e circolazione (che vuol dire
abitabilità).
148 Paul Virilio, Velocità e politica. Saggio di dromologia, Multhipla edizioni, Milano 1981.
54
Tuttavia, la rivoluzione del trasporto non è automaticamente anche del
benessere (certo alcuni miglioramenti sono stati eccellenti, ma non si
può dire lo stesso se si allarga lo sguardo su tutti gli effetti derivati):
maggiore rapidità vuol dire meno libertà (si pensi, a titolo
esemplificativo, ai controlli nelle stazioni e negli aeroporti).
Non c'è convergenza tra progresso dromologico e progresso umano-
sociale.
L'anima è legata al suo corpo, primo veicolo metabolico, se esso viene
sostituito dalle macchine è inevitabile anche uno sconvolgimento
antropologico.
La contrazione delle distanze è una realtà strategica, una negazione
dello spazio: la dissuasione della materia dà valore al nonluogo della
velocità.
In questa direzione, la violenza della velocità è destino e destinazione
del mondo.
La soppressione delle distanze implica inoltre l'annientamento del
tempo, variandone la sua percezione da parte degli uomini, abitanti di
uno spazio-tempo (nel senso che non possiamo abitare solo uno dei
due, poiché se siamo in un luogo, siamo lì anche inevitabilmente in un
momento).
La presenza dell'altro si limita ad essere passeggera, favorendo
l'affermazione della consuetudine cinetica della sparizione
improvvisa149.
Questa estetica della sparizione la vediamo anche nella
militarizzazione del nascosto, in cui si passa dall'uniformità (le
149 Paul Virilio, L'orizzonte negativo. Saggio di dromoscopia, Costa&Nolan, Genova 1986.
55
uniformi, appunto) all'invisibilità (sono ora mimetiche).
Virilio lega la dromoscopia anche al punto di vista dell'automobilista.
L'automobile è un medium dromovisivo: sedersi al posto di guida
equivale a trovarsi in un simulatore di paesaggi, attraverso il
parabrezza si vede il mondo come in un videogame. La distanza-
tempo si dissolve, la profondità di campo si restringe.
Nell'automobile si verifica una mescolanza di vicino e lontano: mentre
si avvicina la realtà fisica, l'orizzonte si allontana (restando esso la
condizione dell'accelerazione, più acceleriamo più si sposta in avanti).
La velocità pura è la negazione del tragitto, normalmente composto di
partenza – viaggio – arrivo. Man mano che la società accelera, il
viaggio si riduce sempre più, fino a diventare nulla: alla fine resterà
solo l'arrivo (un po' come cambiare canale con il telecomando). I
passeggeri sono sempre più passivi.
La velocità implica la fine del mondo fisico come verità dimensionale:
da questo punto di vista, la verità è la prima vittima della celerità.
Oltre che dal punto di vista meramente fisico, la rivoluzione
dromocratica è chiaramente avvenuta anche (ed è soprattutto in questa
direzione che ha raggiunto l'apice150) nella comunicazione, nella
trasmissione di informazioni.
La velocità della luce è diventata parametro di ogni realtà, ma
l'eccesso di velocità è come l'eccesso di luce: il contenuto si perde,
perché abbagliato.
L'istantaneità del trasferimento dell'informazione porta alla
150 Fisicamente, non abbiamo (ancora?) raggiunto la velocità della luce.
56
miniaturizzazione e alla scomparsa dell'oggetto tecnico – scomparirà
anche il mondo fisico?
Ne La velocità di liberazione151, Virilio ci fa notare la monocronia del
presente, tempo dominante: la sua assenza di profondità porta al crollo
della conoscenza della profondità del passato (la prima terribile
conseguenza antropologica è l'oblio). Il futuro, poi, è sempre già
presente oppure irraggiungibile.
C'è un inquinamento dromosferico delle distanze di tempo che
“riduce a niente o quasi l'estensione di un angusto pianeta sospeso
nel vuoto siderale”.
E' la stessa grandezza-natura ad essere inquinata (la scala terrestre si
riduce): per questo motivo non si dovrebbe parlare solo di ecologia
“verde” ma anche di ecologia grigia (che si occuperebbe del degrado
dell'estensione del nostro habitat), per tentare di inibire il processo di
atrofizzazione del tragitto (e recuperare tutti e tre i “fattori”: partenza
– viaggio – arrivo).
C'è inquinamento della prossimità fisica tra le comunità, si
disintegrano le relazioni di vicinato. Questo arreca danni innanzitutto
al nostro sentimento di realtà: se essere presente vuol dire essere
vicino, l'egemonia delle telecomunicazioni porta al dominio
dell'assenza.
Le trasformazioni dovute all'istantaneità delle tecnologie portano al
“dramma” della fusione tra tecnologico e biologico, e al paradosso per
cui ci muoviamo stando fermi.
Un'altra interessante riflessione del filosofo francese è correlata alla
151 Paul Virilio, La velocità di liberazione, ed. Strategia della lumaca, Roma 1997.
57
tradizione cristiana occidentale, poiché in questo contesto si dimostra
sempre più vera la domanda evangelica: “A che serve all'uomo
guadagnare l'universo se perde la sua anima?”152, mentre si svuota di
significato il precetto “ama il prossimo tuo come te stesso” che non
avrebbe senso nella forma “attualizzata” di “amare il nostro lontano
come noi stessi”.
Anche Virilio, come Augé153, individua la criticità dei nonluoghi. E
parla di iperconcentrazione della città-mondo: una omnipolitana – che
(non) ha il centro in nessun luogo, e il cui perimetro è ovunque.
Così è sempre più complessa la comprensione della soggettività, e al
trionfo della velocità corrisponde la “disfatta dei fatti”. La nuova
tecnologia porta alla perdita del corpo154.
Nella città sovraesposta, in cui il senso del confine è mutato, dove
altrove e qui si confondono indistinti, lo spazio è ancora ciò che
impedisce che ogni cosa sia nello stesso posto?155
L'architettura si è introvertita, non ci sono più saperi in grado di
organizzare il tempo e lo spazio delle società, consentendoci di
misurarci con l'ambiente naturale.
E' in crisi la nozione di dimensione, non più spazio sostanziale e
omogeneo ma accidentale ed eterogeneo, perlomeno disorientante.156
Abolendo le distanze di tempo si verifica un'effrazione morfologica,
152 Vangelo secondo Marco, 8:36; cit. in Paul Virilio, La velocità di liberazione, op. cit. Abbiamo raggiungo la velocità di 28000 km/h per uscire dalla gravità terrestre, ma ci siamo persi già sulla Terra, figuriamoci nell'Universo.
153 V. cap. 4 di questa tesi.154 Ubaldo Fadini, Virilio e la fenomenologia della percezione, in Paul Virilio, La velocità di
liberazione, op. cit.155 Paul Virilio, Lo spazio critico, Dedalo, Bari 1988.156 Così Hollywood è il simbolo della città basata sulle apparenze e in eterno movimento digitale.
58
ossia la supremazia della velocità su spazio e tempo157; le nuove
scienze corrono un rischio con il “culto della velocità della luce”: il
delirio d'interpretazione, la velocità supererebbe lo scarto tra fisica e
metafisica! Ma l'incertezza domina, anche in fisica158.
Nella nuova architettura improbabile il nuovo ufficio è il monitor,
caratterizzato da ubiquità opto-elettronica (il mondo del virtuale).
Il tempo della quotidianità è interrotto in modo devastante: dal giorno
solare a quello chimico (delle candele, quando fuori non c'è luce) a
quello elettronico (ventiquattro ore al giorno).
Lo scarto tra la rapidità di trasmissione dei mezzi e la nostra capacità
di cogliere il presente è incolmabile, ma non solo: mentre riusciamo a
migliorare sempre più la rapidità dei mezzi, le nostre capacità
percettive diminuiscono, come se le due cose fossero inversamente
proporzionali.
Il non-presente è più importante di ciò che ci è intorno (l'utilizzo
sfrenato di cellulari, smartphone e di tutti i dispositivi portatili ne è
l'esempio più evidente), il vicino è screditato a vantaggio del
lontano159.
Una dimensione si va perdendo: c'è (con)fusione del reale e della sua
rappresentazione.
C'è uno spazio critico tra comunicazione di massa e distruzione di
massa. Anche volontà e identità scompaiono nella confusione tra
spazio e velocità.
In questo reale che sfuma, la percezione del tempo è sempre più 157 Dimenticando come, anche in senso strettamente fisico, la velocità è composta di spazio e
tempo.158 E' sufficiente pensare al principio di indeterminazione di Heisenberg.159 Ubaldo Fadini, op. cit.
59
ridotta al presente.
La dromocrazia, il dominio della velocità – che è violenta – ci rende
schiavi.
Ricapitolando, con l'eccesso di velocità si perdono: spazio, tempo,
verità, identità – mica poco! Il primo si annulla, catapultandoci in una
non-dimensione, il secondo non sappiamo più percepirlo, la verità è
introvabile, per cui siamo spaesati...
Chiaramente in controtendenza rispetto a questa egemonia della
velocità, il muoversi in bicicletta è un elogio della lentezza, una
riappropriazione del tempo e della sua percezione.
Anche in questo non è – ovviamente – l'unica (né “la”) soluzione:
vediamo infatti numerosi sforzi in direzione dei vari Slow food o Slow
fish (dal punto di vista gastronomico), o anche della Slow economy160
(stesso concetto esteso a più campi).
Tutto questo per andare nella direzione opposta a quella che Virilio ci
ha descritto e che potremmo notare tutti i giorni, se provassimo a
percepire il tempo di cui siamo schiavi, noi che abbiamo sempre
fretta.
160 Idee e progetti raccolti in Federico Rampini, Slow economy. Rinascere con saggezza, Mondadori, Milano 2009.
60
CAP. 7
Le città e i luoghi, tra globale e locale
“Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d'una
mano...”161
Per poter vivere elogiando la lentezza è necessario che gli spazi in cui
ci muoviamo ce lo permettano. Sono le abitudini diffuse che
determinano la conformazione delle nostre città, ma è vero anche il
contrario: cambiando uno dei due fattori anche l'altro non può
rimanere invariato.
Così Italo Calvino, parlando di una delle sue città invisibili: “Ogni
volta che si entra nella piazza, ci si trova in mezzo a un dialogo.”162
Gli interlocutori che potremmo ipotizzare sono molti: gli abitanti, ma
anche le strade, gli incroci, i palazzi “parlano” di un luogo, lo
determinano nella sua tipicità. Da questo dialogo, tra luoghi e persone,
si sviluppa la città.
Le metropoli contemporanee sono “figlie” di un fenomeno che,
economicamente e socialmente, ha caratterizzato i tempi recenti e
caratterizza i nostri giorni: la globalizzazione.
161 Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, p. 18.162 Ivi, p. 86.
61
L'urbanizzazione crescente vede le città, anche quelle medio-piccole,
espandersi secondo esigenze dettate da un'idea “globale”, e sempre
meno a misura d'uomo.
Sono molti i fenomeni che lo dimostrano, e per una loro analisi
possiamo avvalerci degli studi di Saskia Sassen163 che, ne Le città
nell'economia globale164, esamina l'intersezione tra le dinamiche
globali e locali.
Le città, essendo la localizzazione di transazioni internazionali, si
pongono come luogo di processi globali: tuttavia, l'essere connesse
globalmente porta una disconnessione locale, fisica e sociale.
Il modello astratto della telematica si distanzia dai processi materiali,
favorendo l'attuazione di un “pericoloso” paradosso: ad una crescita
del settore iperspecializzato (soprattutto finanziario) corrisponde una
decrescita del settore primario. Ma la trasmissione globale ha bisogno
delle infrastrutture! Al centro dell'economia non ci sono più materie
prime localizzate, ma finanza e servizi specializzati.
L'impatto urbano della globalizzazione economica è anche
nell'insediamento delle strutture, nella mutazione delle città in
quartieri generali delle imprese.
Chiaramente questo non è valido per tutte le città: il processo si
diversifica in base al settore trainante dell'economia di ciascun centro
urbano. Questo porta al delinearsi di profonde disuguaglianze fra le
città.
I mutamenti si distribuiscono tra il valore diverso dato
all'industrializzazione, o al turismo, o ai settori culturale e ambientale:
se l'ago della bilancia è equilibrato – cosa solitamente abbastanza rara
163 Sociologa ed economista statunitense.164 Saskia Sassen, Le città nell'economia globale, Il Mulino, Bologna 1997.
62
– lo sviluppo della città può essere armonioso.
Si vanno affermando nuove e molteplici geografie di centralità e
marginalità, una nuova gerarchia urbana nella complessa articolazione
fra le città globali.
Una delle distinzioni fondamentali è tra l'urbanizzazione che cerca di
dare continuità storica e le città senza storia: i centri storici spesso
sono il fulcro turistico delle città (questo può valere in Europa, molto
più difficilmente in America).
Il centro può assumere varie forme, tuttavia spesso quello tradizionale
è abbandonato a se stesso, perché sono privilegiati i nodi urbani
commerciali o comunque settoriali: le piazze del mercato si spostano
in periferia, le “vie del passeggio” sono sempre più “rinchiuse” in
isole pedonali e “vittime” di fallimenti per la concorrenza degli
ipermercati che si affiancano o sostituiscono i quartieri “industriali”.
Alle disuguaglianze fra le città, dunque, si aggiungono quelle nelle
città, tra i vari quartieri.
Questo, in alcuni casi, determina anche segmentazioni e
discriminazioni antropologiche, tra lavoratori specializzati
(protagonisti di un settore in crescita) e non specializzati – in un
settore in decrescita ma che resta comunque fondamentale (in molte
situazioni si tratta di lavoratori immigrati): il lavoro a basso reddito è
ininfluente nell'economia ma determinante nella socialità
infrastrutturale.
In questo divario crescente, la disparità dei redditi e la precarizzazione
del lavoro necessitano di una ristrutturazione dei consumi. Anche per
questo le trasformazioni nell'organizzazione del settore produttivo
sono all'ordine del giorno.
63
Nella città, che in quest'ottica sono luogo di concentrazione delle
diversità, emergono tutte le contraddizioni della globalizzazione.
Un'idea per andare in una direzione diversa da quella globale ce la dà
l'urbanista Alberto Magnaghi165, che propone un progetto che abbia
come fulcro il locale166.
Il cosiddetto approccio territorialista si basa, appunto, sul territorio,
definibile in diverse accezioni: anzitutto un organismo vivente ad alta
complessità, un'opera d'arte, un neoecosistema con il suo ciclo di vita.
L'evoluzione del nucleo abitativo in comunità non si può ritenere
esattamente lineare: dal villaggio alla polis, alla città romana, a quella
medievale, barocca, moderna e infine alla metropoli; il passaggio non
è mai scontato ma sempre determinato da molti fattori.
Magnaghi definisce la metropoli un'urbanizzazione distruttiva della
città.
Per questo emerge la necessità di nuove regole di progettazione del
territorio.
La metropoli, nella sua morfogenesi, inghiotte i luoghi: soffre di
ipertrofia e topofagia.
In questo senso la megalopoli va verso la necropoli!
La liberazione dal territorio è un evento storico poco durevole e poco
sostenibile: da abitanti si diviene consumatori, al luogo si sostituisce il
sito, la ragione economica sostituisce quella storica (che, invece, è
stata protagonista delle precedenti evoluzioni urbanistiche).
Il fatto che la tecnologia sia dovunque, in tutto e sempre, evidenzia
una nostra dipendenza da essa che è innanzitutto fragilità.
165 Docente di pianificazione territoriale all'Università di Firenze.166 Alberto Magnaghi, Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
64
Il dominio delle funzioni economiche si riflette anche
sull'organizzazione dello spazio, al centro di tutto ci sono: produzione,
circolazione, riproduzione e consumo.
Questo implica una dissoluzione dello spazio pubblico, che si riduce a
parcheggi e ipermercati. La perdita di potere sulla cosa pubblica porta
con sé la fine della cultura dell'abitare.
Non viviamo più in città ma in siti funzionali: gli spazi aperti sono
smembrati, divisi settorialmente e privi di una connessione tra loro
(riservati o all'industrializzazione metropolitana, o all'industria verde –
l'agricoltura, anch'essa rinchiusa in se stessa, o al tempo libero...).
Ma può l'uomo esistere senza la complessità geografica dei luoghi?167
L'irreversibilità della forma metropoli probabilmente è ormai
determinata, per via della sovrappopolazione e dell'urbanizzazione che
non si possono fermare.
Tuttavia c'è la possibilità di un “superamento strategico”, che passa
per un cambiamento culturale del concetto di ricchezza e per una certa
forma di riterritorializzazione; a partire dalle economie locali, dal
ritrovamento dell'identità e dalla valorizzazione dell'ambiente.
Un esempio molto vicino a noi – spazialmente e temporalmente – è il
caso della ricostruzione della città de L'Aquila e delle zone limitrofe
colpite dal sisma del 2009.
“I posti non sono mai tabula rasa, anche dopo un terremoto, è il
167 L'uomo ha necessità di una geografia: parlando di una geografia dell'espressione si intende non solo dire ma anche comprendere. [Giuseppe Dematteis, Un modem per Estia, in Mike Davis (a cura di), Geografia dell'espressione. Città e paesaggi del terzo millennio, Mimesis, Milano 1997.] In quest'ottica, nel dibattito contemporaneo si parla anche di una geofilosofia, che rientrerebbe nella necessità di rapportare filosofia e non filosofia; in particolare perché l'eccedenza del paesaggio urbano porta alla perdita di identità. [Tiziana Villani, Geografia dell'espressione, in Mike Davis, op. cit.]
65
tessuto sociale e culturale che fa i posti.”168
Esemplare perché si (ri)parte da zero, e le possibilità sono due: andare
o restare.
E restare vuol dire o “farsi guidare” verso una nuova vita, o
costruirsela da sé.
“Dall'alto” le proposte di ricostruzione dimenticano il territorio169:
quartieri ghetto lontani dai vecchi centri, speculazione edilizia per
misure antisismiche talvolta eccessive170, vita degli abitanti
condizionata da edificazioni senza senso, quartieri dormitorio senza
personalità, etc...
“Dal basso” molti comitati171 si battono, invece, per ricostruire e
mettere a norma i centri abitativi distrutti, e recuperare così la vecchia
dimensione sociale.
Tornando a Magnaghi, in riferimento a situazioni più generiche di
“evoluzioni” urbane, egli sottolinea la dicotomia tra le idee di
sviluppo e di sostenibilità.
Quest'ultima dovrebbe essere la condizione strutturale dello sviluppo
economico.
I luoghi sono soggetti culturali, non bestie da soma: per questo non ci
si dovrebbe limitare a misure di compatibilità ambientale e
paesaggistica ma, appunto, pensare alla sostenibilità.
L'approccio territorialista è antieconomicista, perché non si basa
(come quello globalizzante) sulle ragioni economiche; antinaturalista
168 Franco La Cecla, http://www.repubblica.it/2009/05/sezioni/cronaca/sisma-aquila-10/terremoto-rinascita/terremoto-rinascita.html (ultimo accesso giugno 2011), articolo dell'11 maggio 2009.
169 Tralasciamo il discorso delle tendopoli che, si spera, hanno carattere temporaneo.170 Non perché non servano misure antisismiche, ma perché in alcuni casi sono state adottate, con
fine meramente speculativo, tecniche solitamente alternative tra loro! Il film-documentario del 2010 Draquila. L'Italia che trema di Sabina Guzzanti ci dice molto in proposito.
171 Primo fra tutti il Comitato 3e32, http://www.3e32.com/ (ultimo accesso giugno 2011).
66
e antropobiocentrico perché non è solo la natura al centro delle
attenzioni, ma l'uomo e l'ambiente insieme.
La cura dell'ambiente è necessaria anzitutto per l'uomo, che
dell'ambiente non può fare a meno: ai danni dell'uomo la Terra può
adattarsi modificandosi, come ha fatto nelle tante ere che ha vissuto,
ma non è detto che l'uomo riesca a sopravvivere a questi adattamenti.
Per questo è necessaria una riconquista della sapienza ambientale.
La proposta di uno sviluppo locale autosostenibile implica la
concezione del luogo essenzialmente come patrimonio e pone
l'autosostenibilità al centro della riunificazione tra abitante e
produttore. Lo sviluppo locale si oppone a quello globale.
Parafrasando Aristotele, potremmo dire che la sostenibilità si dice in
molti modi: è politica, con l'autogoverno; sociale, se c'è equità e
integrazione di interessi; economica, nel momento in cui si produce
valore aggiunto locale; ambientale e territoriale, quando si decidono
regole per l'insediamento umano e la riterritorializzazione.
Per un cambiamento concreto sono necessarie nuove pratiche di
comunità: autopromozione urbana, esperienze autoriflessive, con
finalizzazione solidale.
Magnaghi cita Prigogine riaffermando il valore dell'utopia: “l'utopia
del futuro costruisce il presente”.
Il cambiamento può verificarsi attraverso l'attuazione di uno scenario
strategico, in cui gli abitanti sono protagonisti attivi e non solo passivi
dell'urbanizzazione.
Occorre ristabilire il primato dell'abitare, che ha un significato
simbolico, culturale, estetico, identitario, comunitario, di stile di vita e
67
di sviluppo...
Bisogna limitare le distanze (riducendo così la mobilità pendolare) e
riaffermare la strategicità del luogo storico.
Occorre rideterminare il tempo interno delle città: va develocificato
(isole pedonali e piste ciclabili sono solo una piccola parte di un
processo che dovrebbe essere innanzitutto al centro di un
cambiamento della mentalità).
Anche l'urbanista italiano, come Augé172, porta come esempio il
mercato, ipotizzando un passaggio inverso dagli ipermercati ai
supermercati: il piccolo commercio può essere il primo agente di
sviluppo locale. Il “problema degli ipermercati” ha molte
sfaccettature: è urbanistico (esaltazione del trasporto privato),
paesistico (omologazione diffusa), economico (distruzione delle
produzioni del territorio locale), ambientale (inquinamento, traffico,
cementificazione, imballaggi), sociale (identificazione abitante-
consumatore).
“Ci aggiriamo tra le macerie ricercando un senso nel nostro agire
quotidiano, nel nostro fare società locale.”173
Occorre dunque fare società locale, ricostruire una coscienza di luogo
(in modo che ogni posto possa in un certo senso acquisire un suo
genius loci) attraverso una globalizzazione dal basso, bisogna unire i
frammenti della rete dello sviluppo sostenibile e partecipato.
“E' solo nel locale che si produce la socialità [risorsa scarsa] che dà
valore aggiunto.”174
172 Vedi cap. 4 di questa tesi.173 Alberto Magnaghi, “Glocalizzazione”: qualche idea per un'alternativa dal basso,
http://www.nonluoghi.info/old/magnaghi.html (ultimo accesso giugno 2011).174 Ibidem.
68
La contraddizione fra capitale e lavoro si evolve in quella fra
omologazione (e distruzione delle culture) e riaffermazione delle
differenze, tra eterodirezione e autogoverno.
Il riconoscimento delle peculiarità socioculturali passa per la
valorizzazione delle risorse locali: “accompagnare la rivolta
identitaria verso il fare società locale, e non negarla a priori
ricadendo in un astratto universalismo dei valori, mi sembra il primo
salto culturalpolitico da compiere”175.
Tra le politiche cosiddette top-down e le bottom-up è necessario
consolidare degli istituti intermedi: un intervento esclusivamente
dall'alto non serve al territorio, ne fa perdere l'identità; purtroppo però,
gli interventi dal basso spesso sono insufficienti.
Per questo bisogna “connettere i frammenti di energie innovative
facendoli precipitare sinergicamente in uno stesso territorio,
cominciando a trasformarlo visibilmente come atto cooperativo della
rete del multiverso di attori, costruendo scenari condivisi di futuro.”176
“L'ipotesi della globalizzazione dal basso riconosce la disparità della
relazione fra locale e globale e non risolve il problema con
cortocircuiti fallimentari per lo sviluppo delle società locali: propone
di lavorare prioritariamente e strategicamente alla crescita delle reti
locali e della loro densità sociale come condizione imprescindibile
per poter affrontare relazioni e sollecitazioni dalle reti lunghe del
globale.”177
La globalizzazione, dunque, se invertita – non più omologante su
175 Ibidem.176 Ibidem.177 Ibidem.
69
criteri globali ma basata su connessione di specificità locali – può
essere un modo di recuperare il territorio e la sua identità.
“La città è il luogo in cui la parola si trasforma in spazio visibile, in
cui il discorso pubblico assume la forma dell'azione politica.”178
Per questo dalla città dovremmo apprendere anche il valore
dell'esperienza umana.
La bicicletta, ancora una volta, è un esempio di “recupero
dell'identità”, in questo caso dello spazio, in un'ottica localizzante
anziché globalizzante.
Le piste ciclabili sono solo un esempio di incentivazione
all'avvicinamento al territorio, tuttavia resta impareggiabile la
dimensione dell'indipendenza, di potersi muovere in assoluta libertà
(senza dipendere da altri mezzi se non le proprie gambe) in ogni
angolo del luogo in cui si vive, che dovrebbe essere unico (“Le città
come i sogni sono costruite di desideri e di paure.”179): perché è lì che
ci si trova, e non da un'altra parte – quando i posti diventano tutti
uguali diventa fin troppo facile perdersi.
178 Vincenzo Guarrassi, I corpi, lo spazio e la città. Frammenti di un discorso geografico, in Mike Davis, op. cit.
179 Italo Calvino, op. cit., p. 50.
70
CAP. 8
La questione ecologica
Si è cominciato esaminando il tema dell'abitare, attorno al quale sono
stati individuati nuclei di riflessione sulle trasformazioni sociali e
antropologiche.
Volutamente, si è lasciata per ultima la questione ecologica: è
probabilmente la prima che ci viene in mente se pensiamo ad un modo
diverso di vivere nell'ambiente (nel nostro caso incentrato sulla
mobilità ciclistica), dovrebbe essere ovvia, ma non lo è affatto.
E' chiaro che la bicicletta è una scelta che ha tra le sue motivazioni
quella ecologica, del rispetto dell'ambiente anzitutto come habitat.
Occorre, dunque, analizzare il senso (o i sensi) della cosiddetta
“questione ecologica” per comprendere ancora di più il senso (o i
sensi) della mobilità ciclistica (che proprio in quest'ottica si definisce
sostenibile).
Numerosissime sono le pubblicazioni, le interpretazioni, i possibili
punti di partenza, le filosofie sviluppatesi sul tema: sarebbe dunque
impossibile trattarle tutte in questa sede.
Tuttavia risulta necessario e doveroso tracciare alcune linee di
orientamento (restando la scelta dei testi di riferimento ridotta a solo
una parte di quelli essenziali), anche perché vista l'ampiezza delle
71
discussioni pur nell'opinione pubblica è facile cadere in luoghi comuni
o peggio ancora in idee raccontate ed espresse solo per sentito dire o
presunzioni di vario genere.
Abbiamo già visto180 il significato prettamente biologico del termine
ecologia.
Ne Il pensiero ecologico181, Edgar Morin182 sottolinea il bisogno di un
pensiero dell'organizzazione – essendo l'ecologia la scienza delle
interazioni combinatorie / organizzatrici che intercorrono tra tutte le
componenti fisiche e viventi degli eco-sistemi.
Potrebbe dirsi assiomatico l'asservimento dell'uomo alla natura: dai
primi villaggi ai giorni nostri, anche le città dipendono da essa, non
essendosi mai emancipate.
“Più l'uomo possiede la natura, e più la natura lo possiede.”183
L'uomo, parassita del mondo, distruggendolo si autodistrugge.
Il rapporto tra oikos ed esseri viventi è simbiotico: l'uno non può
esistere senza gli altri, per questo è necessaria una co-evoluzione.
La complessità del pensiero ecologizzato presume un dialogo tra
natura e cultura, esige perciò una presa di coscienza diretta per porne
le basi.
Il Wuppertal Institut184 è uno dei maggiori centri di ricerca per il clima,
l'ambiente e l'energia; ha raccolto nel Dizionario dello sviluppo185 le
definizioni dei termini fondamentali per orientarsi nel vasto mondo
dell'ecologia. Lo sviluppo è innanzitutto una particolare forma
180 Vedi il cap. 1 di questa tesi, p. 10.181 Edgar Morin, Il pensiero ecologico, Hopefulmonster, Firenze 1988.182 Filosofo e sociologo francese.183 Ivi, p. 95.184 A Wuppertal, in Germania.185 Wolfgang Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, Gruppo Abele, Torino 1992.
72
mentale, una percezione che modella la realtà.
Wolfgang Sachs, nel definire l'ambiente, evidenzia l'ossimoro dello
sviluppo equo186: dove c'è sviluppo si crea inevitabilmente uno
scompenso sociale – non è possibile uno sviluppo senza limiti, poiché
le risorse sono limitate e non bastano per tutti – è così minacciata la
sopravvivenza stessa del pianeta.
Uno dei problemi nevralgici è che siamo capaci di consumare in un
anno ciò che la natura ha impiegato un milione di anni per
accumulare.
I propositi dell'O.N.U., dal rapporto Brundtland (conosciuto anche
come Our Common Future) del 1987 al progetto Agenda 21 (iniziato
nel '92), si basano sull'idea di sviluppo sostenibile, “uno sviluppo che
soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità
delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni.”187
Il problema è che i limiti naturali dovrebbero essere rispettati e non
posti: uno sviluppo illimitato vìola i limiti della natura.188 Il termine
risorse, nel suo significato originario, deriva da ri-surgere: ha in sé
una capacità autogenerativa, ma purtroppo non è così per le risorse del
pianeta (fatta eccezione per quelle rinnovabili, appunto). Di fatto
l'uomo dipende da esse, viceversa il loro consumo dipende dal potere
dell'uomo.
Ivan Illich definisce l'abitudine al bisogno come la caratteristica
dell'homo miserabilis189. I bisogni non sono né necessità né desideri,
ma il fondamento universale di certezze comuni sociali. Le speranze
diventano aspettative e i desideri diventano rivendicazioni nel
momento in cui le necessità si dissolvono alla luce dello sviluppo.186 Wolfgang Sachs, Ambiente, ivi.187 WCED, Commissione mondiale sull'ambiente e sviluppo, 1987.188 Vandana Shiva, Risorse, in Wolfgang Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, op. cit.189 Ivan Illich, Bisogni, ivi.
73
Per esempio, i costi di una malsana medicina professionale continuano
a sopravanzare quelli di uno stile di vita salutare.
La miseria dell'umanità sta nel definirsi in base a ciò che le manca.
“Definire la nostra umanità comune in termini di bisogni comuni
significa ridurre l'individuo al mero profilo dei propri bisogni.”190
Serge Latouche ci fa notare191 come gli standard di vita siano ridotti al
benessere materiale: le differenze tra i modi di vita si sono appiattite a
differenze dei livelli di vita: come se ben-essere fosse lo stesso che
ben-avere, e se qualità di vita fosse lo stesso che quantità di vita. Lo
standard di vita è misurato solo a livello dei consumi.
Occorrerebbe riscoprire la multidimensionalità del vivere!192
Recuperare l'idea del futuro, per camminare con le proprie gambe, per
la propria strada, per sognare i propri sogni. Non quelli presi in
prestito dallo sviluppo.193
Inquadrando la questione nell'ottica foucaultiana della biopolitica
possiamo aggiungere delle utili sfaccettature alle definizioni
ecologiche.
L'ambiente è il modo in cui il biopotere si approccia allo spazio,
nonché il contesto esterno della molteplicità degli uomini da
governare biopoliticamente. Il mancato incontro tra governo
biopolitico ed ecologia scientifica rappresenta un problema.194
L'ecologismo corre il rischio di sfociare in eco-biopotere, per via
dell'intervento sistematico per la tutela ambientale che rischia di
divenire controllo assoluto.195
190 Ibidem.191 Serge Latouche, Standard di vita, ivi.192 Andando in bicicletta, per esempio...193 Gustavo Esteva, Sviluppo, ivi.194 Ottavio Marzocca, Ambiente, in Lessico di biopolitica, Manifestolibri, Roma 2006.195 Sarah Delucia, Ecologismo, ivi.
74
Lo sviluppo sostenibile è diverso dalla sostenibilità tout court, che è
una tendenza ad elaborare una prospettiva etico-politica in cui sia
possibile misurare la ricchezza e la felicità in relazione al numero di
cose che si è capaci di lasciar perdere.196
Occorrerebbe resistere allo sviluppo, promovuendo un'economia eco-
coerente, frugale e solidale; per andare contro l'attuale autodistruttività
dello sviluppo occidentale.197
Sempre il Wuppertal Institut ha provato a delineare le linee di
programmazione per un Futuro sostenibile198, che parte da una
domanda chiave: come possiamo far fronte al raddoppio della
popolazione del pianeta senza rischiare di distruggere il patrimonio di
risorse naturali necessario alle prossime generazioni?
Il primo passo verso l'equità dovrebbe essere una rinuncia agli eccessi:
il 20% della popolazione non può pretendere di accaparrarsi l'80%
delle risorse.
In ogni caso il XXI secolo è il secolo dell'ambiente: delle catastrofi o
della svolta, in base a quello che l'umanità deciderà di fare.
Efficienza (il “fare bene le cose”) e sufficienza (il “fare le cose
giuste”) dovrebbero essere i criteri alla base di uno sviluppo che non
segua le orme del modello occidentale, che ha già causato molti danni,
quindi è tutt'altro che un esempio da seguire.
Uno sviluppo di questo tipo è alla base anche della giustizia tra
generazioni, dal nostro “progresso” dipende la vita dei nostri figli199.
Si definisce spazio ambientale quello spazio che gli esseri umani
possono utilizzare nell'ambiente naturale senza danneggiarne
196 Sarah Delucia, Sostenibilità, in ivi.197 Onofrio Romano, Sviluppo, in ivi.198 Wuppertal Institut, Futuro sostenibile. Riconversione ecologica nord-sud e nuovi stili di vita,
Emi, Bologna 1997.199 Secondo un proverbio dei nativi americani “non ereditiamo la terra dai nostri padri, ma la
prendiamo in prestito dai nostri figli.”
75
permanentemente le caratteristiche essenziali. Esso dipende: dalla
capacità di carico degli ecosistemi, da quella di rigenerazione, dalla
disponibilità.
Per minimizzare il rischio gli obiettivi possono seguire due direzioni:
il contenimento, con la limitazione dell'inquinamento; la prevenzione,
con la diminuzione del prelievo di risorse200.
Anche per questo sarebbe utile un riciclaggio del territorio, un
recupero delle superfici inutilizzate anziché l'uso di nuove aree libere
(secondo questo studio del Wuppertal Institut, che risale al 1997, dal
2010 non sarebbero state più necessarie nuove costruzioni, ma
purtroppo il presente ci dice che questi criteri sono stati piuttosto
trascurati...).
La rappresentazione materiale-quantitativa della crisi ambientale
permette affermazioni oggettive e la formulazione di obiettivi precisi e
quantitativamente controllabili, ma questo non basta: la risorsa
decisiva per la trasformazione è l'interesse delle persone.
L'Istituto di ricerca tedesco si è espresso anche in materia di mobilità,
definita come il desiderio di una persona di spostarsi dal luogo A alla
destinazione B entro un determinato periodo di tempo. La prima
proposta è sempre quella di limitazione, in opposizione alla schiavitù
“dell'ancor di più”. Anzitutto occorre domandarsi se lo spostamento è
veramente necessario, e promuovere una mobilità a corto raggio, a
bassa potenza e a media velocità: ad un aumento (x) della velocità
corrisponde un aumento (x2) dell'energia necessaria.
La mobilità degli uni è diventata immobilità degli altri, a causa
dell'aumento a dismisura delle distanze.
200 Prima fra tutte è la necessità dell'abbandono dell'energia nucleare, in entrambe le direzioni: sia per l'inquinamento dovuto alle scorie, sia per il pericolo di catastrofi.
76
E' sorta la necessità di evitare la necessità del traffico.
A piedi o in bicicletta i danni ecologici sono nulli, quindi dovrebbero
essere i mezzi più incentivati201. Tuttavia deve seguire un criterio non
solo la scelta del mezzo di trasporto, ma anche l'organizzazione del
traffico – ad esempio con il car sharing202.
Ottavio Marzocca203 ci mostra la difficoltà di trovare una compatibilità
tra ecologia ed economia: l'applicazione di criteri economici per scelte
ecologiche non può essere lineare, né passare inosservata. Così la crisi
ecologica si rivela oiko-logica, ossia declino della capacità umana di
abitare il mondo.
Wolfgang Sachs204, componente del già citato Wuppertal Institut, si è
interrogato sulla finalità della biosfera e sul dilemma della giustizia:
come conciliare ecologia ed equità?
Abbiamo visto un esempio di risposta datoci da Illich in Energia ed
equità...205
Per Alberto Magnaghi il presupposto antropologico della nostra
civilizzazione è il riconoscersi come società nell'edificare il proprio
ambiente di vita.206
La crisi dell'ecologia è nella perdita di relazione con il luogo.207
201 A titolo esemplificativo, Sachs parla della città di Erlangen (Baviera), dove la maggior parte della gente si muove in bicicletta, anche in inverno con la neve.
202 O car pooling, contro il trasporto privato che vede un mezzo per ogni individuo, per mete comuni si comincia a diffondere (ancora troppo poco) l'abitudine di “riempire con più passeggeri” una sola auto.
203 Nel febbraio del 2009 anche l'Università degli Studi di Bari, con il Gruppo di Ricerca “Le tre ecologie” e il contributo del Dipartimento di Scienze Filosofiche, si è domandata in un convegno quali fossero le possibilità di Governare l'ambiente, riunendo poi gli interventi in una pubblicazione. Ottavio Marzocca, Equivoci dell'oikos. Ecologia, economia e governo del day after, in Ottavio Marzocca (a cura di), Governare l'ambiente? La crisi ecologica tra poteri, saperi e conflitti, Mimesis, Milano 2009.
204 Wolfgang Sachs, Per un benessere eco-solidale, ivi.205 Vedi cap. 2 di questa tesi.206 Alberto Magnaghi, Crisi ecologica globale e progettazione, in Governare l'ambiente?, op. cit.207 Vedi cap. 7 di questa tesi.
77
“Abbiamo perso ogni relazione con il luogo. In questo atto sacrilego
risiede gran parte delle cause della crisi ecologica. Il luogo è dotato
di anima, è dotato di tempo, è dotato di storia, non è lo spazio
geografico che si può misurare con il metro, con gli strumenti. Il
luogo è sapiente, incorpora i geni della relazione di lunga durata fra
uomo e natura. Esso si misura con la conoscenza profonda, storica,
culturale e filosofica.”208
Perciò occorre ricostruire il legame perduto tra politica e luoghi.
L'autogoverno dei fattori riproduttivi della vita è la salvezza possibile
del mondo dell'ecocatastrofe annunciata.
“Chi ha molti bisogni ha molti padroni. Le economie locali sono
libere perché piccole e agili, adattabili e flessibili.”209
Felix Guattari210 sostiene che l'ecologia si debba trasformare in una
sfida etico-politica. Occorre una modificazione della mentalità verso il
senso di responsabilità, un rovesciamento del sistema di valori verso
una ecosofia, contro un vero e proprio inquinamento mentale che non
tiene conto dell'essere dell'altro.
Per lo psicanalista-filosofo francese le ecologie sarebbero tre: sociale,
ambientale e mentale. L'ecologia ha il compito di inventare nuove
maniere di stare al mondo e nuove forme di socialità.211
Secondo Onofrio Romano bisogna distruggere la società212: la
distruzione dell'eccedente permetterebbe una liberazione dall'angoscia
esistenziale.
E' l'essere all'altezza della nostra umanità ad essere in gioco nella
crisi ecologica.213 Per questo Nicola Russo ci dice che il problema è
208 Alberto Magnaghi, Crisi ecologica globale e progettazione, in Governare l'ambiente?, op. cit.209 Carlo Petrini, La rivincita del localismo, quotidiano La Repubblica del 13 febbraio 2007.210 Felix Guattari, Introduzione alle “tre ecologie”, in Governare l'ambiente?, op. cit.211 Felix Guattari, Le tre ecologie, Sonda, Torino 1991.212 Onofrio Romano, Bisogna distruggere la società, in Governare l'ambiente?, op. cit.213 Nicola Russo, Ecologia e tecnoscienza. Il governo dell'ambiente e la libertà, ivi.
78
anche nella capacità di avere futuro, che implica la comprensione di
quel che significa e comporta l'essere al mondo.
Di fronte a possibili scenari catastrofici gioca un ruolo determinante la
paura. E' utile nel momento in cui desta prima allarme e poi difesa:
nel passaggio storico dall'originaria paura della natura alla paura per
la natura, è essa che si protegge e non da essa che ci proteggiamo. La
paura diviene così movente per la ricerca di soluzioni ambientali.214
Del problema della responsabilità e dell'etica del futuro si è occupato
in maniera approfondita Hans Jonas ne Il principio responsabilità.
Un'etica per la civiltà tecnologica215: in questa sede possiamo solo
sottolineare l'importanza di questo testo per l'impostazione di una
necessaria etica razionalista applicata ai temi dell'ecologia e della
bioetica – fondata sul dovere della paura e sul coraggio della
responsabilità.
Questa deve considerare le cose non sub specie aeternitatis bensì sub
specie temporis, perché tutto si può perdere in un momento.
E' doveroso citare inoltre Arne Naess, ideatore dell'ecosofia e del
movimento dell'ecologia profonda, che professa la necessità di un
radicale cambiamento dello stile di vita.
“Non si può definire l'uomo se non attraverso la biosfera”216 (che è un
po' come dire, con Heidegger, che l'essere Uomo non può prescindere
dall'abitare e dal modo in cui lo si fa217): per una responsabilità
cosmica dobbiamo proteggere la ricchezza e la diversità della vita.
214 Mario Manfredi, Imparare a temere. Emergenze ambientali ed educazione alla paura, ivi.215 Einaudi, Torino 2002.216 Da un'intervista ad Arne Naess, in Bill Devall, George Sessions, Ecologia profonda. Vivere
come se la natura fosse importante, Gruppo Abele, Torino 1989.217 Vedi cap. 1 di questa tesi.
79
La trasformazione delle nostre idee conduce alla trasformazione del
mondo che ci circonda218.
Quelle citate sono solo alcune delle possibili basi di approfondimento
della questione ecologica, utili per comprendere l'importanza dei
problemi qui trattati, che si riflettono anzitutto nella nostra vita
quotidiana determinandone criticamente molti aspetti, anche se spesso
non siamo in grado di rendercene conto.
Questo per evidenziare la necessità della formazione di una sensibilità
e di un pensiero autenticamente ecologici.219
Tra uomo e natura dovrebbe esserci una visione integrata, un sentire
comune nella continuità e nelle differenze per una sorta di alleanza
extra-specifica.
La coscienza ecologica è un telos, cioè un compito, una necessità
pedagogica finalizzata al riconoscimento dell'abitare come “abitare-
in-comune”.
L'abitare è, dunque, primo ed ultimo argomento alla base di una
“ciclosofia”: in realtà comprende in sé tutti gli altri, perché nel
concepire uno stile di vita – con le implicazioni psico-socio-
antropologiche che abbiamo visto – non si può prescindere né
dall'abitare in senso heidegerriano (come caratteristica ontologica
dell'Uomo), né dall'abitare in senso ecologico (avendo cura
dell'ambiente), anche perché i due sensi non sono poi così distanti.
218 Ideatore della cosiddetta ecologia della mente è Gregory Bateson [Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977]: essa è orientata allo studio dei sistemi evolutivi, tre in particolare, individuo, società ed ecosistema. Secondo una visione olistica, la mente individuale è solo un sottosistema del sistema biologico che connette tutti gli esseri viventi nella “mente” dell'ecosistema.
219 Franca Pinto Minerva, Cura della natura ed educazione ecologica, in Mario Manfredi (a cura di), Variazioni sulla cura, Guerini e Associati, Milano 2009.
80
CONCLUSIONI
“Ciascuno ha le sue spiegazioni per la malattia insana dell'andar su
due ruote, perché infinite sono le esperienze alternative che la bici
riesce a sintetizzare. C'è il viaggio come leggerezza, come nomadismo
esistenziale ed eliminazione del superfluo […] Ci sono la lentezza e la
memoria […] Ci sono la fuga e la solitudine negli elementi [...]”.220
C'è un modo diverso di abitare, che tiene conto primariamente
dell'ambiente, ma che allo stesso tempo aiuta a non perdere se stessi.
C'è una scelta che va verso il bilanciamento di energia ed equità a
vantaggio della seconda, riconoscendo i limiti entro cui la prima è
veramente necessaria. C'è la scelta di rinunciare all'auto quando
possiamo farne a meno, cioè per la maggior parte degli spostamenti
urbani.
C'è la voglia di ridare un'identità agli anonimi luoghi che viviamo, di
ritrovare noi stessi che – disorientati dall'omogeneità degli spazi – non
abbiamo più alcun punto di riferimento e ci sentiamo perduti.
C'è la volontà di trovare nuovi mezzi di autocoscienza e percezione,
nuove vie di socialità.
Ci sono gli “esperimenti politici” di promozione, da parte di enti locali
e non solo, persino dell'Unione Europea, e di singoli gruppi di
cittadini: la scelta di una democrazia partecipativa che ha l'obiettivo di 220 Paolo Rumiz, Tre uomini in bicicletta, Feltrinelli, Milano 2002, p. 13.
81
sensibilizzare e mostrare le possibilità di questo “potente mezzo”.
“La bici: questa nostra macchina dei pensieri che penetra nel segreto
dei mondi e smantella i luoghi comuni.”221
Ci aiuta a comprendere lo spazio-tempo, a riacquisire una dimensione
umana (slegata da quella delle macchine) nella percezione del tempo,
emancipandoci dalla dilagante schiavitù della velocità, elogiando la
lentezza.
“Teoricamente, un viaggio lento dovrebbe dilatare il territorio e
rendercelo più lontano. Falso. E' il trasporto veloce che svuota il
viaggio di senso e, non facendoci vedere nulla, rende lontani i luoghi
vicini. […] Questi due effetti abbinati – lentezza e fatica – creano una
straordinaria illusione ottica, o forse un giusto ribaltamento delle
distanze.”222
Controcondotta rispetto alla globalizzazione, la bicicletta aiuta nella
necessaria riaffermazione del locale e della territorialità.
Rientra nelle possibilità di una mobilità sostenibile attenta alla
questione ecologica, che in fondo è proprio questo: avere la capacità
di reimparare ad abitare, rispettando l'ambiente in cui si vive, che è la
premessa per rispettare se stessi.
Certo, queste due ruote con pedali, sellino e manubrio non sono così
perfette, hanno i loro difetti, ma si è dimostrato che ci sono
motivazioni più che valide per affermare la possibilità di una filosofia
di vita positiva incentrata sull'andare in bicicletta.
“Ecco perché, al termine di un secolo strepitoso che ha visto il trionfo
del pensiero volontarista, talvolta con guasti irrimediabili (di cui la
macchina fu un bell'emblema, non lo abbiamo detto?), occorre
221 Paolo Rumiz, ivi, p. 115.222 Paolo Rumiz, ivi, p. 166.
82
riabilitare la forza del sogno. Perché si tratta proprio di una
<<forza>>. Il sogno, più spesso definito <<debole>> (è anche
questo, ed è la sua forza!), è un'arma di una potenza insospettata.
[…] Così, quando vedrete passare un ciclista trasognato, non fidatevi
del suo aspetto inoffensivo e bonario: sta preparando la conquista del
mondo.”223
223 Didier Tronchet, op. cit., p. 153.
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88
Ringraziamenti
Chi l'avrebbe detto che da un'idea nata così, quasi per caso, sarebbe
venuta fuori una tesi di laurea? E' stato fondamentale credere che
fosse possibile, e in questo mi sono avvalsa dell'aiuto di molti; per
primo il relatore prof. Marzocca, che ringrazio per la fiducia in
quest'idea all'inizio un po' strana.
Ma innanzitutto grazie ai miei genitori, che mi hanno insegnato a
pensare, oltre che a pedalare. Ai nonni, sempre disponibili e forti
come delle rocce.
Grazie agli amici di sempre, ad Antonio, Chiara, Eri, Francesco,
Giorgia, Lilly, Loredana, Lucrezia, Maria Chiara, Mariella, Marina,
Pino (per due), Salvatore, Sandra, e a tutta la compagnia.
Grazie agli amici di ieri, ai vecchi compagni di scuola, agli amici
lontani, a Paola che nelle incursioni molfettesi da Firenze ha avuto
sempre una parola per me; grazie agli amici di oggi, ai più che
“colleghi” universitari, ad Annalisa, a Caterina e alle chiacchierate su
skype, a Clara e Marika e agli interrogativi sul nostro futuro, a
Monica, a Nicolas compagno d'esami e di gelati, a Guenda, Leo,
Oscar; ai colleghi per un giorno in attesa di un esame; ai “compagni di
viaggio” e alle chiacchierate in treno...
Grazie ad Eleonora ed agli amici di Emergency; agli amici pionieri di
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un tentativo di una Critical Mass tutta molfettese; agli amici
“teatranti”, compagni di serate campagnole, ad Alessandro, Carlo,
Mariangela, Valeria; alle giocatrici di calcetto, sempre pronte a
prendersi qualche pallonata per sfogare le tensioni; a Carlo, Isa,
Serena e alle serate Yoga; a Laura e Gino per la “vista mare”...
Grazie a Bubi, per tanti motivi e lei sa perché...; a Licia, “prcè 'r
c'mbegn so c'mbegn” (non si scriverà proprio così, ma l'importante è il
senso...).
Grazie a Fabiana, insostituibile e premuroso angelo custode; e a Luigi,
che non immagina neanche quanto mi abbia ispirato in queste pagine
con le sue disavventure automobilistiche...!
E, dulcis in fundo, grazie a Titti per l'immancabile, infaticabile e
paziente supporto quotidiano, nonostante tutto.
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