Note e discussioni Schede incrociate per editori e …...la pubblicazione del saggio di Pantaleone...
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N o te e discussioni
Schede incrociate per editori e lettoridi Pietro Albonetti
Da alcuni anni gli editori presentano rendiconti più numerosi: storie, autobiografie, memorie, documenti tratti dagli archivi. Qui, leggendo alcuni libri appena usciti, entro appena nella dimensione del fenomeno: le confessioni editoriali vanno dall’Europa alPAmerica. Così gli editori salgono alla ribalta coi loro autori e la casa risalta quanto i suoi inquilini. I lettori, clienti della casa, osservano curiosi; se sono intossicati da droga libresca sentiranno di avere una relazione più particolare con la casa.
Ma in Italia non si vede ancora un deciso movimento verso la storia dell’editoria di questo secolo. Si tratta ancora di piccole storie e di limitata documentazione offerte all’attenzione di un pubblico che, ormai numeroso a seguire l’una o l’altra performance editoriale, è attirato anche da preludi e movimenti interni.
L’ansia di entrare nella cucina dell’editore e di cogliere il retroscena del pubblicare offre così agli editori altre occasioni editoriali, che un po’ alla volta gli studiosi indirizzeranno ad una conoscenza più sistemata ed organica.
Rispetto ad altre metamorfosi non è innaturale che gli editori siano anche scrittori
(scrittori al quadrato o alla radice quadrata?). Ecco qui allora memorie di due editori, due volumi di lettere e un recente romanzo1: vi cercherò indizi di una storia scontata ma non scritta: circa sessant’anni di rapporti coi lettori italiani. Non c’è bisogno di dimostrare il contributo che può dare la storia dell’editoria alla storia in generale.
Non si può riprendere in questa nota la bibliografia dei precedenti studi e contributi: non sarebbe un consuntivo rapido, né facile. Una prima ricognizione esauriente dovrebbe raccogliere un materiale vario e più o meno celebrativo. È un inevitabile riflesso che attorno all’industria editoriale crescano scritture di accompagnamento, di commento, di celebrazione. Le memorie degli editori sono certamente meglio intese da chi è in qualche modo coinvolto nelle vicende editoriali: dovrò mettermi semplicemente dalla parte del lettore comune e cercherò qualche elemento generale in un’attività cos socialmente influente.
I frammenti della memoria di Giulio Einaudi, le lettere con Bompiani, le lettere di Zavattini (non è editore, ma tra i due precedenti editori è un singolare legame) sono letture che insieme possono produrre alcuni ef-
1 Giulio Einaudi, Frammenti di memoria, Milano, Rizzoli, 1988; Valentino Bompiani, Il mestiere dell’editore, Milano, Longanesi, 1988; Caro Bompiani. Lettere con l ’editore, a cura di Gabriella D’Ina e Giuseppe Zaccaria, Milano, Bompiani, 1988; Cesare Zavattini, Una, cento, mille lettere, a cura di Silvana Cirillo, Milano, Bompiani, 1988; Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, Milano, Bompiani, 1988. Da ricordare anche due precedenti lavori di Bompiani, Via privata, Milano, Mondadori, 1983, e Dialoghi a distanza, Milano, Mondadori, 1986.
Italia contemporanea”, marzo 1989, n. 174
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fetti per illuminare meglio il tempo che coprono e particolarmente quello che va dal 1930 al 1950.
La “grata dorata” di Einaudi
Per un piccolo scarto di tempo la cronologia dovrebbe dare la precedenza a Bompiani, ma le pagine di Einaudi, la cui attività comincia qualche anno dopo, ci offrono un’introduzione migliore.
Giulio Einaudi aveva iniziato a fare l’editore nel novembre 1933. Fece visita dopo poche settimane a Valentino Bompiani: “Mi fece, se ben ricordo, una lezione di editoria, e uscii dai suoi uffici molto sicuro, rinfrancato dall’idea di avere un antagonista amico nel cammino difficile che avevo intrapreso [...] Solamente Arnoldo, il grande Arnoldo Mondadori, mi fu maestro di editoria al pari di Valentino”2. Il cenno alla solidarietà tra colleghi si trova spesso, ma l’antagonismo è una traccia pure importante. Questi rapporti di simpatia celano anche storie più ruvide. Bisognerà aspettare che sia più avanzato il lavoro negli archivi, dove si raccoglie il vario dialogo e confronto che ha veicolato la pubblicazione dei libri alla conquista del mercato. Se un ciclo della storia del libro sta per concludersi, come sembra, resterà almeno il gusto di farne la storia.
Si capisce allora perché una figura come Giulio Einaudi, disponendosi a ricordare, accenda l’interesse di molti, direi, in tutta la provincia italiana. Prima di riportare alcune mie impressioni, farò un avvicinamento al libro dell’editore torinese per interposta persona, cioè con le parole di Cesare Cases, che della Casa Einaudi ha diretta esperienza.
È una recensione3 amichevolmente dissacratoria, che può aiutare anche un lettore periferico, che abbia seguito più inconsapevolmente la produzione Einaudi. Cases sostiene che Einaudi non risponde ancora a domande importanti, nemmeno a quelle che pone a se stesso: “Ma come sono passati attraverso il fascismo i giovani allievi di Augusto Monti?” . “Com’era Felice Balbo?” “Chi era, per noi del mestiere, l’ingegnere?” . Possono essere anche le mie domande, attraverso le quali ripensare esperienze culturali e politiche di tutto un periodo. Chi non vede che almeno a cominciare dalla prima guerra mondiale un più gran numero di persone via via si mise a leggere per consolarsi, per desiderare, per risentirsi, per capire? Questa esperienza generale è ancora poco decantata.
Che possiamo dire noi, per adesso, se lo stesso Cases chiede più storia e vede in una grata dorata, che Einaudi ebbe in dono da Eduardo, l’allegoria del fallimento di tutta la cultura laica di sinistra in Italia? “Zitti, zitti, piano, piano, non disturbiamo per carità, scendiamo giù per la scala di pietra, Einaudi in testa, poi tutti noi del mercoledì e Contini, Dionisotti, Segre e altri e guardiamo dietro la grata dorata i fedeli... sullo sfondo discerniamo figure meno benevole, l’ombra di don Milani, Dal Noce, Franco Fortini... e perfino torve bande di ciellini. Ci fan le boccacce brandendo in segni di scherno il catalogo Einaudi. Non si può dire che abbiano tutti i torti”4.
Colpevole la mia parte, mi piacerebbe capire meglio perché andavo in sollucchero per il catalogo Einaudi: storia passata, che conviene conoscere. Per adesso lo stesso Einaudi dice che in queste sue pagine è impreciso.
2 G. Einaudi, Frammenti di memoria, cit., p. 15.3 Cesare Cases, Il signore di Perno, “L’Indice”, 1988, n. 2, pp. 4-5.4 C. Cases, Il signore di Perno, cit., p. 5.
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La storia delle case editrici è un’angolatu- ra insostituibile per dare nuove dimensioni alla realtà e al fato dei libri: “Leggere resta ancora un mistero anche se lo facciamo ogni giorno”5. È necessario indagare i modi, le articolazioni, le scelte, le differenze e le mediazioni da editore a editore. Restano, per esempio, ancora da studiare molti viaggi editoriali nel fascismo. Einaudi intitola il primo capitoletto delle memorie La macchina da scrivere Olivetti: gli servì per la prima giovanile grafica antifascista alla fine degli anni venti. Ma, da editore, la prima manovra fu il rinnovamento della rivista “La cultura”, tra il 1934 e il 1935: il proposito era quello di non saltare per aria al primo passo. Non si potè evitare invece dopo un anno la chiusura e che i redattori finissero quasi tutti in prigione. La rivista suddetta aveva cercato una grafica più disinvolta e contenuti con meno letteratura e più storia, meno erudizione e più attualità. Ma dovettero cessare anche quelle prudenti innovazioni.
Restava la vita individuale come sentimento di antifascismo e di libertà. Carlo Levi “si sentiva ‘libero dal proprio tempo, così da esso esiliato, da poter essere veramente un contemporaneo’. Cioè ‘libero’, estraneo al regime totalitario da esso ‘esiliato’, e ‘contemporaneo’ di quanti cercavano i segni di ogni diversità. Per Carlo i ‘diversi’ furono i contadini della Lucania, nonché ‘gli uomini nuovi, piccoli oscuri, con cui ebbe la fortuna di formarsi e conoscersi’, così come per Leone Ginzburg i diversi furono i compagni e i Maestri; per Pavese i contadini delle sue colline, le donne, i libri che leggeva, traduceva e annotava a margine; per Mila, il diverso era la musica, la frequentazione di
gente vera, i montanari, coi quali si cimentava nelle imprese più ardite. Per me i diversi furono tutto questo insieme. Avrebbe così ragione Fortini, quando dice che la mia giovinezza ‘non si distingueva da quella di tanti altri del mio ceto e classe’. Ma eravamo poi così tanti?”6.
In questa paginetta intitolata Libero dal proprio tempo troviamo tratti di esistenze che si vanno definendo come viaggiatori alla ricerca di un vero paese, un paese diverso. Si sente lo spaesamento delle persone. Giaime Pintor, che poi morì nella guerra, diceva che “le discussioni malinconiche non sono quelle dei dotti... ma quelle della gente comune, degli sportivi e degli uomini d’affari, che sono caratterizzate da una spaventosa serietà anche quando trattano degli argomenti più futili”7. Molti anni dopo Felice Balbo ha cercato di trovare un posto fisso agli intellettuali: “La vedetta ha il suo momento eroico nel resistere al sonno dell’alba, quando gli altri dormono, e non nel darsi da fare con gli altri quando la nave è finita negli scogli”8. Il frastuono sul ruolo degli intellettuali, comunque definito, oggi non si sente quasi più.
In queste pagine di Einaudi molte occasioni di confronto sono appena abbozzate. Accenno solo a ciò che ritengo appartenere se non sempre a meriti oggettivi, almeno al mio sentimento grato.
Gli aspetti materiali e grafici dei libri Einaudi non ci hanno forse dato soddisfazioni sensorie? Chi scrive non può dimenticare il primo momento del possesso materiale di un Decameron illustrato e custodito da cofanetto, consegnato, un giorno a metà degli anni cinquanta, all’uscita di un liceo, da un ra- tealista che non si vide più a ritirare le rate.
5 Robert Darnton, The great cat massacre and other episodes in french cultural history, Basic Books, 1984, p. 209 (tr. it., Milano, Adelphi, 1988).6 G. Einaudi, Frammenti di memoria, cit., p. 37.7 G. Einaudi, Frammenti di memoria, cit., p. 46.8 Felice Balbo, Opere 1945-1964, Torino, Boringhieri, 1966, p. 568.
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Vorrei potere unire a questo ricordo quello di tutti gli altri che cominciarono a leggere in simili occasioni e a invaghirsi non solo dei bei libri che venivano diffusi, ma anche dei contenuti che facevano sperare l’azione della cultura progressiva e liberante. Dalla parte dell’editore questa tensione si coglie negli accenni alle incursioni nella bianca provincia veneta e fino ai due processi che seguirono la pubblicazione del saggio di Pantaleone su mafia e politica (1976) e l’inchiesta di Staja- no su Africo (1979). È accaduto appena ieri e sembra un tempo lontanissimo. Con Einaudi, con sentimento piu elegiaco che critico, vediamo “editori che amano conoscere e coltivare i propri autori, di cui leggono i manoscritti durante lunghe notti bianche”; la vicenda del “Politecnico”, che tiene desta in modo leggendario la questione della cultura democratica e del suo errare; le figure di Contini, Momigliano, Dionisotti, Calvino, Gadda, ecc. L’ultimo scrittore nominato, di cui si parla spesso, ma non ingombra, perché forse lo leggiamo a piccole e saporite dosi come si potrebbe fare con Tacito, è “l’uomo mitissimo e buonissimo, nonostante le angosce che trapelano dai suoi scritti” . “Mi è stato ricordato recentemente — continua Einaudi — durante un soggiorno sull’Altipiano di Asiago, da Mario Rigoni Stern, che facendomi da guida attraverso le trincee della prima guerra mondiale, mi indicò quella occupata dall’ingegnere e a poca distanza da quella, in campo avverso, di un altro scrittore: Robert Musil”9. Chiudo con l’accenno alla Firenze di Montale e Contini: “quando Firenze aveva un respiro di cultura che non si è mai più verificato nel nostro paese”10. Sembra un ricordo del tutto fantasioso se si pensa che furono gli anni prima e dentro la seconda guerra.
Le oneste passioni di Zavattini
Einaudi stesso ci suggerisce come passare alle lettere di Zavattini. Si trova a un certo punto un modo di ricordare per associazioni: De Filippo, Napoli, De Sica, Luzzara, Zavattini. “Con Zavattini negli anni ’60 si progettò una collana di libri fotografici, aperta e subito chiusa con Un Paese di Paul Strand. Era un paese padano, Luzzara, e le fotografie ormai classiche di Strand erano commentate da un testo di Zavattini. Il secondo volume doveva essere un Napoli, a cura di De Sica. Erano foto bellissime, una specie di film, non ricordo perché non se ne fece nulla. Forse i tempi non erano maturi per questo genere di libri”11.
Una, cento, mille lettere, raccoglie lettere di Cesare Zavattini dal 1929 al 1983. Il passaggio da Einaudi a Zavattini non è forzato, come abbiamo già visto. Non è nemmeno il passaggio da un editore ad uno scrittore. Zavattini è sì un autore in proprio, ma anche un singolare seminatore di progetti e di idee e merita un posto di primo piano nell’officina della cultura italiana a cominciare, anche per lui, almeno da sei decenni fa.
Con Zavattini si inizia un altro percorso di eventi culturali, probabilmente il più esteso se lo misuriamo con questioni di diffusione culturale. Egli è forse l’intellettuale italiano che ha inteso meglio degli altri il potenziale politico e culturale democratico nell’uso provocatorio dei media.
Aveva già quarant’anni quando combinò idee di sperimentazione con una leale e appassionata scelta a sinistra. Se prendiamo la provocazione di Leo Longanesi diremo che quest’ultimo è il suo antagonista di destra. Queste 254 lettere (nell’archivio sono almeno cinquemila) lucide ed esuberanti, ormai sono
9 G. Einaudi, Frammenti di memoria, cit., p. 131.10 G. Einaudi, Frammenti di memoria, cit., p. 154.11 G. Einaudi, Frammenti di memoria, cit., p. 167.
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soltanto la testimonianza di un’ipotesi culturale, che forse si è realizzata soffocando l’utopia che conteneva.
Le idee più decise e precise sono rientrate e non se ne parla più, se non in strettissime crepe dell’imperante conformismo della cultura popolare. Se fosse stato per lui doveva fermentare nella politica e nella cultura una conoscenza del Paese, che potrebbe formare ora una tradizione alternativa ricca di esperienze intellettuali e professionali.
La strada che proponeva Zavattini era diversa da quella del “Politecnico” . Quella di Zavattini sembra un po’ folle, a prima vista. È invece coerente e giustificata perché proponeva di mettersi al passo di un rinnovamento culturale democratico partendo da dati sociali reali. Pochi hanno avuto il coraggio di dire che bisognava utilizzare i media al meglio per i poveri. Pochi hanno cercato di spostare così in basso la critica e la pratica della cultura. Poteva fare di più di fronte alle resistenze che ha incontrato? Non era forse gomito a gomito con produttori, editori, direttori di giornali? Una biografia non frettolosa dovrà rispondere.
È difficile intanto trovare un altro carteggio che contenga un’analoga battaglia culturale: così accidentata, ma anche radicata ad una scelta. Zavattini dice che mutò “da albero a uomo” durante la guerra, ma la corrispondenza segnala sempre relazioni umanissime a cominciare dalla prima lettera qui pubblicata, cioè dal 1929. Subito, con una vivacità e vitalità sorprendenti, incontriamo giovani, soldati, caserme, poeti in provincia, scrittori celebri a tavola, e anche lettori12. Zavattini sembra subito collocarsi al centro di cronache un po’ reali e un po’ surreali13.
Nelle lettere si sente il motore di Zavattini e l’energia istintiva per una riforma culturale, attraverso giornali, cinegiornali, inchieste, promozione e diffusione delle arti: sottrarsi attraverso i mezzi tecnici alla peggiore riproduzione tecnica e al degrado della cultura. La cultura dei media non è guardata dal lato violento dell’industria. Indirizzando le energie verso un approdo diverso da quello insito nell’appropriazione economico-commer- ciale della cultura e dell’arte l’intellettuale in ogni caso non avrebbe dovuto voltarsi più indietro.
Zavattini non è inerte quando indica la scoperta del mondo legata all’agire intellettuale coerente, perché anche la realizzazione di sé come autore è legata al mondo esterno. Si deve ammirare anche la sua vitalità prodiga e inesauribile, che scaturisce dal contatto che Zavattini mantiene con tutto e con tutti (anche quando si isola nel lavoro) secondo un ritmo che sembra comune alla sua vita individuale, alla natura, ai suoi paesi, alla storia: così è anche un poeta, non solo un intellettuale partecipe e propugnatore.
Lettere quindi di notevole importanza per la riflessione su un’epoca e per certi connotati culturali che hanno resistito fino a pochi anni fa. Zavattini è uno che ha lavorato nelle cucine, qualcuno potrebbe anche dire nelle basse cucine, della letteratura, del giornalismo, del cinema, da più di sessant’anni e spesso con mansioni di cuoco. Forse, è, suo malgrado, anche antesignano di certo fast- food della cultura di massa d’oggi.
È difficile valutare l’insieme dell’attività e dell’opera di Zavattini, in gran parte sommersa e inedita. L’idea è resa bene dalla curatrice delle lettere quando accenna a “anni
12 Vedi S. Cirillo, Itinerario di una ricerca, in C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., pp. V-XIV e le lettere iniziali, pp. 3-15. Per la metamorfosi da albero a uomo vedi la lettera a Bompiani, agosto 1943, citata dal destinata- rio, ivi, p. IX.13 Gianfranco Contini inserì racconti di Zavattini in un’antologia del surrealismo italiano preparata nel 1946 per un editore francese, Italie magique, ripresentata nel 1988, Italia magica, Torino, Einaudi.
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di immersione nel pescosissimo mare zavat- tiniano” 14. Peccato si sia perduta quella cassa di lettere e documenti, bruciati nel 1937, dopo l’arresto di Guglielmo Peirce, cugino di Carlo Bernari, coi quali Zavattini corrispondeva. Con Zavattini si percorrono infatti gli anni trenta in uno dei modi più disinvolti e attenti. Senza quegli anni non si può capire Zavattini.
Già in quel primo decennio collabora con molti editori. Gli impegni maggiori li ha con Bompiani, Mondadori, Rizzoli: da loro segue e rilancia rotocalchi, prepara famosi almanacchi, dirige collane di narrativa, aperte ad autori giovani, e pubblicazioni da edicole, consapevole più delle armi che maneggia che del mercato. Quando sarà portato dal drammatico sfascio della guerra a tirare le somme non rinnegherà la vetrina dei suoi primi prodotti di intrattenimento, né il filo del discorso con un pubblico di massa, né la sua vena paradossale, né la risorsa dell’umorismo. Tutt’altro. Ma troverà una soluzione autocritica che forse si legge bene in Ipocrita ’43 e, cercando di non rallentare la veloce intelligenza del mondo della cultura di massa, si metterà dalla parte dei non violenti e dei poveri, che sono uomini uguali agli altri, solo più deboli e indifesi15. Questo aspetto nella cultura italiana è anche tradizionale, ma in Zavattini non è confuso, come si trova in altri.
Zavattini avrà sempre dalla sua la ragione di aver cercato di elaborare una cultura senza reticenze su un terreno appropriato di intervento. Già nel 1931 scrive all’amico Attilio Bertolucci “Bisogna vedere certe riviste estere che belle, ogni tanto le sfoglio ma non ho il tempo di leggerle. Noi italiani siamo ta
gliati fuori”16. Nel 1935 è preso interamente dal “Secolo illustrato”: “C’è tutto da rifare, servizi, contratti, ecc., bisogna camminare per le strade, sfogliare anche i bollettini della Rinascente. In tre mesi credo che lo impronterei come lo vedo. Ma proprio stamane il mio principale mi ha dato un colpo: dice che lo vuole per le donne che sono le nostre lettrici, e che sia popolare (d’accordo per questo, ma ci sono classi di migliaia e di migliaia di lettori, come avvocati, professionisti, borghesia e anche impiegati, che non hanno il loro settimanale, a questo miravo). Rizzoli mi fa capire che in copertina vorrà le belle gambe”. Sembra perfino un’ingenua incomprensione. Chissà che cosa intendeva fornire Zavattini agli avvocati e agli altri? Sta di fatto che questo giovanotto che viene da un paese del Po vede con occhio acutissimo quel che piace a editori e produttori e sa fare un mucchio di cose. In città sono gradite queste energie modernizzanti. I valori fascisti sono persino battuti da questi rotocalchi?
Zavattini partiva da interessi culturali seri e da sicura sensibilità; in più capiva le novità dovunque spuntassero: basterebbe ricordare la prima lettura degli Indifferenti di Moravia17. Egli sa bene che non è la cultura un po’ coatta e un po’ noiosa dei fascisti quella che può soddisfare le nuove inquietudini. Si mette dalla parte di editori e produttori. Vorrebbe fare certe cose “leggermente” impegnate, ma i suoi padroni vedono che gli italiani si aspettano cose leggere e disimpegnate e annullano i suoi suggerimenti. Non se lo lasciano sfuggire; in qualche modo lo spremono. Non sa sottrarsi, spera di riuscire a salvare qualche idea dalla manipolazione
14 S. Cirillo, Itinerario di una ricerca, cit., p. V.15 S. Cirillo, Itinerario di una ricerca, cit., p. IX.16 Datata da Milano, primi mesi 1931, in C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., p. 29.17 La recensione di Zavattini a Gli indifferenti apparve su “L’Italia letteraria” del 21 luglio 1929, vedine la riproduzione parziale in C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., p. 6.
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commerciale. II successo più grande gli arrise nel dopoguerra nel cinema. Se si leggono le lettere che cadono attorno al periodo di Ladri di biciclette ci rendiamo conto di quanto fosse difficile dominare gli eventi di una linea culturale e perfino la proprietà intellettuale18. Ci fu chi riconobbe che la cultura italiana aveva espresso una creatura d’arte e di verità che realmente viveva la contraddizione profonda del popolo italiano19. Ma l’onore della genitura era contesa al buon Zavattini.
È sempre stato difficile per gli scrittori italiani trovare folgorazioni realiste e la poesia dei poveri: coinvolgere nell’arte e nella cultura una società disgregata e maltrattata dalle classi forti. Zavattini vi giungeva con un percorso originale, ma adatto al suo istinto: da anni era riuscito a far stare insieme, nelle sue relazioni e nel suo lavoro, sia gli uomini di “Soiaria”, sia la sezione Walt Disney alla Mondadori, sia la direzione o la redazione di tre o quattro giornali illustrati. Non che fosse l’unico ad accostarsi ad un orizzonte culturale così spurio, ma era tra i pochi a capire quel che succedeva (un altro, ma con altra ideologia, ripeto, era Longanesi). Capì che la nuova pubblicistica di massa metteva a nudo il vecchio lavoro letterario. Aveva già bonariamente rimproverato i suoi amici nel 1929: “Mi vien voglia di sculacciarvi, cari letterati ragazzacci, ci scapperà il libro. Ci scapperà il libro sui letterati, mio primo e antico sogno.”20 Nel 1942 per prendere le distanze da un giornalista fascista rifiuterà anche il pubblico: “Il pubblico non esiste, esiste soltanto come antagonista della nostra coscienza, cioè co
me sirena che cerca di farci allontanare dal retto cammino. Il pubblico è il diavolo...”21. Sembra un anatema, si sente invece la sfida. Ma è una guerra difficile da vincere. Produttori, critici e pubblico sono pronti a seppellire la parte migliore di un’idea, quella che sa di utopia. Che tuttavia cercasse di non vendere l’anima al diavolo si capisce anche dalle lettere a Giovanni Mosca e a Pitigrilli: gente dell’ambiente di lavoro negli anni del fascismo. Pitigrilli inoltre, informatore dell’Ovra, sciaguratamente ingannava i giovani antifascisti torinesi, in mezzo ai quali era accolto, e ne provocò l’arresto. Così lo tratteggiò Aldo Garosci: “Lo stesso provocatore che condusse a questi arresti [...] era specialmente adatto per una operazione del tipo. Uomo dotato di non ordinaria acutezza e forse spinto al mestiere tanto da un gusto malato per l’intrigo, dal disprezzo per ciò che può conferire alla persona umana una superiorità ideale, quanto da bisogni di guadagno, lo scrittore pornografo Pitigrilli (Dino Segre) che fu lo strumento di quella operazione di polizia, non era la piccola spia che agisce in un ambiente ristretto. La sua acuta e cinica personalità, che si adeguava nelle apparenze alla modernità dei giovani gruppi intellettuali, gli permetteva di penetrare facilmente in essi, superato che fosse il primo istinto di diffidenza che un totale immoralismo non manca mai di creare. Un tale onesto Jago poteva non soltanto ottenere che gli fosse detto molto di più di quel che gli era detto; poteva valutare una personalità nei possibili pericoli che presentava per il regime con criteri più profondi...”22. Queste
18 C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., pp. 125-143.19 Franco Fortini, Dieci inverni. 1947-1956. Contributi a un discorso socialista, Bari, De Donato, 1973, pp. 152- 156 (l’articolo è del 1949).20 C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., p. 11 (lettera a Gino Saviotti, novembre 1929).21 C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., p. 65 (lettera a Marco Ramperti, Roma, 11 giugno 1942).22 Aldo Garosci, Vita di Carlo Rosselli, Vallecchi, Firenze, 1973, pp. 372-373 (1a ed. 1945). Le lettere a Pitigrilli e a
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digressioni sono fili da tirare meglio: è bastata un’ansa nei tunnel del fascismo per ritrovare i giovani di Einaudi. Pitigrilli era stato direttore del quindicinale di novelle “Le grandi firme”, famoso per le copertine disegnate da Boccasile. Zavattini l’aveva rilevato per conto di Mondadori: cercò di migliorare la qualità e di contenere l’influenza di Pitigrilli. Che cosa poteva intuire Zavattini delle canagliate di quel signore? Certo capiva che occorreva differenziare anche la letteratura di intrattenimento. In fondo le lettere hanno sempre a che fare con la coscienza.
Nel dopoguerra si dette da fare con passione per un giornale da intitolarsi “Il disonesto”. L’idea aveva bisogno di appoggi sostanziosi e naufragò: “Ecco un’altra magnifica occasione perduta. Questo giornale era il più tempestivo che si potesse fare, tanto che molte delle idee in esso contenute e da me raccontate a tutti, come Lei sa che io faccio, le ho viste sciupate qua e là mentre invece esse avevano bisogno di un certo modo di espressione e di una tribuna unica da cui essere lanciate. Il giornale rispecchiava tutta la mia esperienza morale e si serviva di tutta la mia esperienza giornalistica per diffondere tra la gente, con un linguaggio comprensibile, una violenta riforma del costume. Al di fuori dell’ ‘Uomo qualunque’, che è stato quel successo che lei sa, le edicole non hanno visto nessun foglio interessante. ‘L’Uomo qualunque’ non è una trovata giornalistica, ma una trovata politica; e purtroppo io la credo una trovata di pessimo gusto, poiché nutre negli italiani quello che di generico e di ipocrita essi hanno nel sangue. Il mio giornale sarebbe stato contro
‘L’Uomo qualunque’ nel senso che lo animava uno spirito rivoluzionario di cui ‘L’Uomo qualunque’ ha una paura folle. Io invece non ho paura, se non delle mie abitudini”23. La lettera era indirizzata a Cesare Civita, che ora, 1946, viveva in Argentina. Aveva lasciato la Mondadori nel 1938 per le leggi razziali (“Quel 1938 troncò certo dei grandi progetti e delle grandi possibilità. Qualche volta eravamo un po’ troppo focosi e impulsivi ma neH’insieme saremmo riusciti a portare una vera rivoluzione nel campo editoriale e in quelli limitrofi”24). Zavattini sentiva fin nelle viscere che un modo aperto della pratica culturale, elementare, alfabetico, era in grado di fare lievitare una storia ancora invisibile. Forse per questo chiedeva anche a Vittorini di testimoniare di sé la parte nascosta: “non credi insomma che lo sforzo che dobbiamo fare tutti noi è quello di lasciar vedere di tutti noi i momenti che compongono un nostro atto, la varietà degli umori che lo nutrono? è uno dei modi di togliere gli altri dal complesso di inferiorità che sentono nei riguardi della cultura”25. La mimesis di Zavattini è onesta, leale, democratica. Il 22 dicembre 1950 inviava ad Alberto Mondadori la lettera di dimissioni dalla redazione di “Epoca” (un settimanale illustrato di grandi ambizioni, ma che adattò subito la rotta sulla politica del governo) con queste parole: “Non può darsi che tu non capisca che le mie dimissioni sono proprio vere. Mi dichiarai di sinistra durante la guerra e da allora ho sempre cercato di farlo sapere, in altre parole di compromettermi”26. Per lui era necessario compromettersi anche con i media, ma non disorientarsi.
Mosca in C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., pp. 44-46 (a Pitigrilli, da Milano, 15 maggio 1937) e pp. 65-66 (a Mosca, da Roma, 6 luglio 1942).23 C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., pp. 101-107 (da Roma, 26 agosto 1946).24 C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., p. 102.25 C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., p. 113 (da Roma, 17 maggio 1947).26 C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., pp. 159-161.
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Bompiani e i suoi ‘campioni’
Come siamo usciti dalla casa Einaudi in compagnia di Zavattini, con lui possiamo entrare nella casa Bompiani. Con Valentino Bompiani Zavattini ha mantenuto il sodalizio più lungo, da sessant’anni in qua: amicizia, libri e altri progetti. Anche presso questo editore dovremmo fare una robusta sosta bibliologica, che queste rapide comparazioni non consentono. Caro Bompiani. Lettere con l’editore è un volume grosso e labirintico: si può provare sia l’ansia del chiuso, sia lo stupore della ricchezza documentaria che intravvediamo. In ogni caso anche qui siamo finiti sulle rive di un altro pescoso archivio e proviamo una sorta di capogiro in mezzo a tutta quella gente, che va e viene.
Bompiani è editore di molti successi. Concorrono con lui altri editori, ma è indubbio che il suo nome è tra i primi nella mente dell’italiano lettore di romanzi. Il suo catalogo è ricco anche di saggistica, di varie collane e opere, ma i suoi romanzieri formano una squadra che ha nomi mondiali. Basteranno i nomi di Moravia e di Eco. Proprio questi due nomi mi permettono di pensare a due tempi, a una discontinuità: con Moravia trovo il tempo che comincia con Gli indifferenti, 1929, con Eco quello che comincia con II nome della rosa, 1980. Il tempo di Moravia è quello stesso che abbiamo richiamato prima con Einaudi e Zavattini e ora con Bompiani. Potremmo farlo con alcune altre decine di nomi tra editori e romanzieri. Nei loro libri e nei loro archivi c’è complessivamente una storia dell’Italia contemporanea. Isolati, in gruppi, ma mai lontani gli uni dagli altri l’hanno seguita o preceduta o si sono messi un po’ ai margini: sono però inseparabili dalla nostra storia.
C.E. Gadda scrivendo a Gianfranco Contini nel settembre 1940 notava: “Tutta la letteratura e tutte le arti figurative erano al Forte dei Marmi”27. Anche ai lettori deve essere parso talvolta di cogliere almeno gli scrittori in gruppo, quasi un collegio di àuguri cui sono affidati compiti di interpretazione della vita e della storia, di ognuno e di tutti. La fama dello scrittore che indovina per noi si è formata poco più di un secolo fa, ma tra le date del fascismo e i primi decenni della Repubblica si è consolidata in una idea di consorteria confermata da alcune piccole mitologie del costume: la cadenza dei libri pubblicati, i premi, le tirature, le recensioni, le interviste, ecc. Ma la realtà è più complicata e i fenomeni anche letterari più profondi. Per studiare la reciproca influenza di letteratura e società bisogna avere metodo e andare molto al di là delle cronache curiose, anche solo per rilevare impatti nostrani, per non dire di quelli mondiali. Così di fronte a queste prime documentazioni si apre un’indagine lunga e paziente: i primi sopralluoghi, tra moli di reperti, non possono che essere superficiali.
Leggendo Caro Bompiani il risalto maggiore viene dal fervore culturale che si polarizza intorno alla casa editrice tra il secondo decennio del fascismo, la guerra e il dopoguerra. Non neghiamo l’energia degli anni successivi, ma il regime della macchina editoriale in quegli anni ha una tensione tutta propria rispetto al tempo distruttivo e difficile che passava. Non sembra un luogo felice o una torre eburnea, ma proprio una risorsa diversa in presenza di una catastrofe, il fervore che forse produce un certo stadio dell’angoscia: testi nuovi, traduzioni di classici e di contemporanei, antologie di letterature, opere enciclopediche. Ci sarà da tener conto di “quel gran numero di lettori capaci, che
27 Carlo Emilio Gadda, Lettere a Gianfranco Contini a cura del destinatario 1934-1967, Milano, Garzanti, 1988, p. 29.
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ormai è in Italia”28, ma anche da analizzare i legami colla letteratura più commerciabile. La crisi della guerra poi portava a consumare libri, forse come altre scorte di derrate: un consumo più vorace e indifferenziato.
Raymond Queneau notava il 24 settembre 1944 in un suo diario: “per quattro anni, il mattino, nel metrò, invece di vedere i lettori spiegare i giornali, si poteva sorprenderli nella lettura di Platone, di Montaigne ma anche di qualsiasi altra cosa. Ci si felicita del ritorno del pubblico alla lettura, gli editori soprattutto che esauriscono ogni prodotto, anche di cattiva qualità”29.
Il lavoro editoriale nella casa Bompiani, attraverso questi documenti, sembra qualificarsi invece nelle strettezze. Si può indicare, per curiosità, che il primo libro di Bompiani fu il Don Bosco di Ernesto Vercesi (1929). Per altre curiosità e coincidenze si leggano le pagine rapide anche de II mestiere dell’editore. Bompiani formò presto un catalogo vivace di saggi, di narrativa e di attualità. Nel luglio del 1934 sollecitava in questo modo proprio Za- vattini, che preparava l’almanacco, che divenne presto eponimo degli almanacchi letterari: “L’almanacco è specchio di cronaca e considera la fama letteraria come un fatto di cronaca”30. Si trattava di impegnare sul medesimo terreno letteratura e cronaca, di portare le lettere all’intrattenimenlto, di incontrarsi col nuovo tempo libero e le disponibilità economiche di crescenti ceti medi: si formava una comunione non sempre fondata su valori artistici ed etici, ma più sulla distrazione, sulla moda, sulla sensibilità. Era forse andata sempre così la cosa letteraria, sia pure entro altre mode. Forse soltanto di fronte al mortale pericolo della guerra si attivò una comunione che sentiva la lettura
come valore morale e scoperta di destini comuni sociali e politici. Il rapporto è via via mutato in poco tempo, ma non si possono dare nemmeno descrizioni approssimative di questo scambio tra trame letterarie e lo spirito dei lettori: vi trovano momentaneo rifugio milioni di ansie. Gli “astratti furori” di Conversazione in Sicilia di Vittorini sono forse la più bella sintesi e l’unico appello possibile alla disordinata situazione spirituale della fine degli anni trenta. Era un tempo maturo per capirsi di nuovo, anche con modi narrativi che provenivano da molte esperienze. Quell’onda poi è durata alcuni decenni.
Bompiani celebrava i suoi primi venti anni di attività con una lettera orgogliosa a Curzio Malaparte: “Io non ho bisogno deH’Iri, non ho banche cattoliche che mi finanziano. In vent’anni non ho avuto il minimo sussidio e aiuto da nessuno. Non ho mai venduto nemmeno un solo libro a un ente statale o parastatale. Non ho finanziatori segreti, non ho interessi politici, né preoccupazioni politiche, se non quelle che riguardano la mia qualità di italiano. Durante il fascismo mi hanno sequestrato e fermato 152 libri. Stampai il Mein Kampf e il mio solo rammarico è che non tutti gli italiani lo abbiano letto abbastanza, perché in quel caso, forse, molte cose sarebbero cambiate e molte disgrazie sarebbero state evitate. Non ho mai stampato un libro di un gerarca, né grande né piccolo, come non ho stampato i mille libri sulla guerra etiopica, come ho rifiutato tutti i vari libri sui generali e simili dopo l’ultima guerra. Ho persino rifiutato di stampare il libro su Ciano, del quale in Svizzera avevano acquistato per me i diritti, e l’ho rifiutato per non mescolarmi alla cronaca e allo scandalo. Che fosse un affare editoriale qualsiasi
28 Carlo Bo a Bompiani, Sestri Levante, 15 gennaio 1944, in Caro Bompiani, cit., p. 95.29 Raymond Queneau, Bâtons, chiffres et lettres, Paris, Gallimard, 1965, p. 159 (29 septembre 1944).30 Caro Bompiani, cit., p. 547 (da Milano, 27 luglio 1934).
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imbecille poteva capirlo”31. In effetti quello fu un tempo di tentazioni e anche di cadute. Ma allo storico oggi interessa vedere più a fondo rispetto alle diverse diritture morali. Dietro a queste parziali documentazioni e memorie c’è da scoprire l’ossatura di una storia culturale.
Con gli scrittori americani il fiuto di Bompiani non fu da meno di quello dei suoi migliori collaboratori. Per suo conto tirò fuori due traduzioni indimenticabili: “libri di scrittori americani erano già usciti, s’intende, a cominciare da Dos Passos e Dreiser, ma la diffusa, rapida, incisiva cittadinanza di quella letteratura nel nostro paese comincia e si condensa con la pubblicazione di due romanzi: Uomini e topi di John Steinbeck e Piccolo campo di Erskine Caldwell. È andata così: vidi su un giornale americano l’annuncio di un romanzo di Steinbeck. Telegrafai. Quando il libro arrivò mia moglie lo lesse dalla mattina alla sera; io lo lessi quella stessa notte. Altrettanto accadde per il romanzo di Caldwell”32. Furono tradotti uno da Vittorini l’altro da Pavese. Era il 1938: questi romanzi appartenevano ad altre culture eppure cadevano sul nostro terreno come pioggia sul secco. Infatti ci sembrano perfino imbarazzate le censure e le more frapposte dal Minculpop e da Alessandro Pavolini agli esiti editoriali di Americana, che Pavese definì a Vittorini come “il mito da tutti vissuto e che tu ci racconti”33.
Il 1938 fu lo stesso anno che confermò Bompiani nell’idea di preparare un dizionario delle opere, dei personaggi e degli autori, l’arca di Noè della cultura34. Come nel ro
manzo fantapolitico Farenheit 451 si imparavano a memoria le opere da salvare da un potere persecutore, Bompiani, durante una riunione di scrittori in Germania, dove era presente anche Goebbels, sentì la voce che gli ordinava di raccogliere in un’unica opera la quintessenza di tutte, liofilizzata da esperti. Questo senso dell’avventura nobile agli editori piace molto.
Bompiani poi ci aiuta a concludere queste note con un richiamo all’ultimo romanzo di Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, che per me vuole essere semplicemente la provvisoria osservazione finale sul rapporto editori, scrittori, lettori che è stata la dominante di queste note. La fama dei romanzi di Eco ha sollevato il problema di identificare nuovi lettori, una nuova situazione della lettura in una nuova cultura. Non abbiamo quasi nessuno strumento per essere storiograficamente precisi. Questa storia, pur cambiando, non sappiamo ancora spiegarla. Ma un epilogo simbolico ci viene offerto dai contenuti del Pendolo di Foucault. Difficile trovare un’altra opera più piena di storia editoriale di questa: resterà certamente un documento indiretto per capire come lavoravano gli editori nel nostro tempo e per altri costumi culturali tra gli anni settanta e ottanta. Ci sarebbero da rilevare centinaia di note, da riempire schede, su schede, come quelle incrociate del protagonista Casaubon35. Bompiani è grato a Eco e vive la fortuna editoriale del suo campione col sentimento di un’apparizione profetica: egli è l’esperto assoluto del romanzo popolare e “rivela al proprio pubblico non ciò che
31 Caro Bompiani, cit., p. 428 (a Curzio Malaparte, Milano, 11 gennaio 1949).32 V. Bompiani, Il mestiere dell’editore, cit., p. 119.33 La frase è di Pavese, tratta da una lettera riportata ne II mestiere di vivere, Torino, Einaudi, 1962, p. 226, alla data 27 maggio 1942.34 V. Bompiani, Il mestiere dell'editore, cit., pp. 145 sgg.35 Casaubon è, come non manca di segnalare Eco, anche un personaggio di Middlemarch di George Eliot: la delineazione del personaggio si può leggere nel Dizionario delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte te letterature, Milano, Bompiani, 1964, voi. V ili, p. 155.
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si attende, ma quello che dovrebbe volere, anche se non lo sa”36. A pensarci bene è quasi il punto di partenza di Zavattini eppure i tempi sono molto cambiati. Non è su questo però che richiamo l’attenzione. Per i miei interessi di storico sono attratto dalla contaminazione storiografica operata da Eco. Sto al suo gioco, che per molti versi è perfetto, ma, dal punto di vista dello storico, riscontro un’avaria alla macchina romanzesca. Leggendo il Pendolo mi sono ricordato di un saggio storico (ce ne sono anche altri) che ha dato una protratta falsariga al plot di Eco37. Mi limito a citare da quello studio l’intenzione che muoveva l’autore: “È forse difficile accettare che uno studio scientifico, e tutto il tempo e l’energia che richiede, possa convenientemente essere dedicato a un’assurda fantasia come I Protocolli o a oscure figure come il cattivo romanziere Hermann Goed- sche, il furfante Osman Bey, il mezzo matto e pseudomistico Sergei Nilus e gli altri. Tuttavia è un grande errore supporre che solo gli scrittori che contano siano quelli che gli uo
mini di cultura possono seriamente considerare. Esiste un mondo sotterraneo dove le fantasie patologiche spacciate per idee sono sotto- prodotti senza fine di fanatici disonesti e presuntuosi che influenzano ignoranti e superstiziosi... Ci sono momenti in cui questo sottomondo emerge dalle profondità e rapidamente affascina, cattura e domina moltitudini di gente normalmente equilibrata e responsabile, che quindi si allontana dall’equilibrio e dalla responsabilità...”38. Era anche questa l’idea che ha mosso Eco? Ma che segno è se Eco sente il bisogno di decostruire una storia già ricostruita e di estenderla liberamente? Il feuilleton gioca coll’accertamento storico come il gatto con il topo? In un dizionario di narratologia39 si indica con la parola latina gnarus il narratore come colui che sa. Non sarà per caso ìgna- rus allora il lettore, nonostante l’abbondanza dei segni messi a disposizione? L’indefinitezza dei termini tra storia e romanzo non è solo una formula del successo, diventa quasi una visione del mondo.
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36 V. Bompiani, Il mestiere di editore, cit., p. 143.37 Norman Cohn, Warrant fo r genocide. The myth o f the Jewish world conspiracy and the Protocols o f the Elders o f Sion, London, Eyre & Spottiswoode, 1967 (trad. it. Licenza per un genocidio. I “Protocolli degli anziani di Sion”. Storia di un falso, Torino, Einaudi, 1969).38 N. Cohn, Warrant fo r genocide, cit., p. 18.39 Gerald Prince, A Dictionary o f narratology, Aldershot, Scolar-Gonwer, 1988.
Vita quotidiana e seconda guerra mondialedi Luigi Cavazzoli
Solo di recente gli studi e la ricerca storici hanno iniziato a riservare una maggiore attenzione alla vita quotidiana della gente comune negli anni della seconda guerra mondiale. A fronte, infatti, di una sterminata bibliografia concernente gli aspetti politi- co/militari, stanno un numero limitato di contributi mirati a lumeggiare le condizioni di vita della popolazione civile, la quale invece, a differenza di ciò che avvenne nei precedenti conflitti, fu largamente coinvolta e partecipe delle vicende della guerra. In proposito Giorgio Rochat sottolinea opportunamente che la seconda guerra mondiale richiese “non solo la mobilitazione delle forze armate e degli apparati industriali, ma di tutta la società” chiamata a dare oltre all’ “obbedienza della prima guerra mondiale”, pure “una partecipazione attiva a più livelli”1.
Per la verità già nel 1972 Nicola Gallerano aveva dedicato un incisivo saggio alle condizioni di vita e agli atteggiamenti di gran parte della popolazione italiana, utilizzando come fonte le relazioni dei questori sulla “si
tuazione politico-economica” delle varie province2. È comunque necessario attendere il convegno di Pesaro del 1984 su “Linea gotica 1944. Eserciti, popolazioni, partigiani”, perché siano disponibili alcuni significativi contributi di ricerca su temi quali l’economia di guerra — in particolare quella del periodo 1943-1945, intesa come produzione, occupazione, consumi —, gli aspetti demografici, la mentalità e la cultura; questioni tutte da affrontare avendo presenti le peculiarità delle situazioni locali; studi ora raccolti nella seconda parte del volume che raccoglie gli atti del convegno3. Questa sezione presenta la “linea Gotica” come un evento agganciato alla dimensione del vissuto quotidiano.
Gli anni che vanno dal 1943 al 1945 segnano il ritorno a forme di vita che sembrano riaffiorare — osserva con acume il curatore della sezione Paolo Sorcinelli4, — dalla memoria collettiva; “in proposito è sufficiente riferirsi alla socializzazione del tempo e dello spazio provocata dallo sfollamento e dai bombardamenti; al ripristino di tecniche
1 Giorgio Rochat, Lo sforzo bellico 1940-1943. Analisi di una sconfitta, in Aa.Vv., L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, a cura di Francesca Ferratini Tosi, Massimo Legnani, Gaetano Grassi, Milano, Angeli, 1988, pp. 220, [Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia].2 Nicola Gallerano, Il fronte interno 1942-1943, “Il movimento di liberazione in Italia”, 1972, n. 109, pp. 4-32.1 Aa.Vv., Linea Gotica 1944. Eserciti, popolazioni, partigiani, a cura di G. Rochat, Enzo Santarelli, Paolo Sorcinelli, Milano, Angeli, 1986, [Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Istituto pesarese per la storia del movimento di liberazione, Anpi Pesaro e Urbino].4 P. Sorcinelli, La guerra e la gente: percorsi e fon ti per la ricerca fra storia sociale e archivi locali, in Linea Gotica 1944, cit., pp. 211-221. La citazione che segue è a p. 214.
Italia contemporanea”, marzo 1989, n. 174
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lavorative come il correggiato per la trebbiatura del grano; ai sistemi casalinghi per la preparazione del sapone e la surrogazione del sale; fino alle forme spontanee e/o organizzate di assalti ai silos e di evasione alle maglie normative sulla macinazione del grano con stratagemmi che sembrano rispolverare, dopo più di sessant’anni, l’epoca della tassa sul macinato” .
Le altre ricerche contenute nel volume affrontano problematiche particolarmente stimolanti, connesse a fattori quali il passaggio del fronte, il razionamento alimentare, i bombardamenti, il ruolo delle donne, lo stato d’animo della popolazione, i danni morali e materiali nella versione proposta dai parroci. Il passaggio del fronte nel Pesarese — ma la riflessione nei suoi aspetti generali può valere anche per altre aree italiane — costituisce il momento in cui le vicende umane, sia collettive che private, si riempiono di traumi, di paure, di condizionamenti, di adattamenti e di emarginazione . Diviene allora importante capire gli stati d’animo, le aspettative, i comportamenti dei diversi ceti di cui si compone la popolazione, all’ap- prossimarsi dello scontro militare. La nuova situazione, che si aggiunge alla piaga degli sfollati, produsse scompiglio pure nella vita delle piccole comunità rurali5. Ma già di per sé lo sfollamento dei centri urbani, progettato per tempo dal regime, si trasformò nel problema della preparazione militare e psicologica alla guerra6. Le successive vicende belliche, il ruolo dell’ideologia ruralista e quello delle migrazioni interne, la creazione di strutture assistenziali e le strategie di cat
tura del consenso, convergono anch’esse in una prospettiva di storia sociale che ponga al centro dell’indagine le condizioni di vita alimentare, abitativa e sanitaria, le aspettative, le paure e i comportamenti di una grande massa di popolazione.
Le problematiche connesse al razionamento alimentare si prestano anche per un approccio al tema della penetrazione dello stato nella società civile. Sotto l’incalzare degli eventi bellici, lo stato assistenziale, che il regime fascista aveva tenuto a battesimo all’inizio degli anni trenta, si accentua mediante una pi diffusa diramazione all’interno della società civile. La questione alimentare può essere utilizzata, come fa Mario Pinotti7 (Pesaro tra la linea Gotica e il pane difficile), quale chiave di lettura del rapporto che di volta in volta si instaura fra le preoccupazioni di mediazione politica dello stato e le logiche di funzionamento interne a ciascun apparato istituzionale da un lato e tra le esigenze, le inquietudini, le aspettative, la mentalità dei diversi gruppi che compongono la società civile dall’altra. Alla ri- costruzione dell’atteggiamento della popolazione nei confronti della guerra può concorrere in misura significativa la fonte (per la verità non sempre facilmente consultabile) costituita dalle risposte dei parroci al questionario proposto dalia Sacra congregazione concistoriale nel 1945 nell’intento di rilevare i danni morali e materiali prodotti dal conflitto8. Un’indagine condotta da Alberto C. Federici9 assegnerebbe ai parroci, negli anni più travagliati dalle vicende belliche, il ruolo di concorrere in misura rilevante al
5 Giorgio Pedrocco, I comuni dell'entroterra pesarese di fronte ai problemi della guerra, in Linea Gotica 1944, cit., pp. 263-280.6 Salvatore Adorno, Lo sfollamento a Pesaro, in Linea Gotica 1944, cit., pp. 281-303.7 Mario Pinotti, Pesaro tra la linea Gotica e il pane difficile, in Linea Gotica 1944, cit., pp. 223-262.8 Sul valore storiografico di questa fonte cfr. Silvio Tramontin, Il clero nella Resistenza: studi compiuti e ricerche da avviare, “Civitas” , 1975, n. 9, pp. 26-27.9 Alberto C. Federici, Il passaggio del fronte attraverso le relazioni dei parroci della diocesi di Fano, in Linea Gotica 1944, cit., pp. 335-380.
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mantenimento dell’identità del gruppo sociale in cui operavano e, quindi, al rafforzamento del senso conservativo della popolazione. Dalla memoria delle donne affiorerebbe, invece10, sia la rassegnazione a fronte di eventi tanto più grandi di esse, che il senso di compiacimento per il ruolo svolto, soprattutto nell’ambito familiare, sovente in sostituzione del marito, del padre o del fratello, e il rimpianto per una perduta solidarietà alimentata anche dai momenti di convivenza forzata. A cominciare dalla permanenza nei rifugi in cui, fra l’altro, una delle manifestazioni ricorrenti era costituita dalle preghiere singole o collettive recitate per esorcizzare l’ansia con cui era vissuta l’attesa che la bomba finisse di sibilare ed esplodesse. Questo pericolo che veniva da un cielo propagandato per anni come inviolabile, modificò abitudini e certezze quotidiane, fece provare sensazioni sconosciute e paure nuove11.
La stessa assenza di istituzioni generata dallo “sfascio” dell’8 settembre 1943, se in alcuni produsse una comprensibile esaltazione, “in altri — rileva puntualmente Claudio Pavone — provocò sgomento, secondo la sequenza, ricavabile da molte testimonianze che prendono le mosse dall’annuncio dell’armistizio, di incredulità-stupore-gioia- preoccupazione-smarrimento”12. Riferì un colonnello inglese che nella cosiddetta “terra di nessuno” la gente non rubava e non s’ammazzava, ma s’aiutava vicendevolmente in modo incredibile, quasi a voler significare che la minaccia incombente delle linee
fra loro nemiche, ancor più dell’assenza delle istituzioni, rese “gli uomini buoni”.
Certo ha ragione Sorcinelli quando sostiene che l’originalità e il valore storiografico di queste ricerche sono anzitutto da individuare nelle fonti utilizzate: dagli archivi degli enti locali a quelli diocesani, dello stato e delle prefetture, integrate dalle fonti orali frutto della memoria di protagonisti e testimoni. Ma è pur vero che gli studi così articolati formano un’ampia e fitta rete in grado di “pescare” nel profondo del vissuto individuale e collettivo. Un’esperienza di ricerca in tal senso, condotta da chi scrive per la provincia di Mantova e i cui esiti troveranno quanto prima collocazione in un volume dal titolo La gente e la guerra, ha confermato la praticabilità d’itinerari intesi ad indagare lo stato emotivo, le condizioni alimentari e la dimensione del mercato nero, la pratica religiosa e il complesso fenomeno del banditismo. Così come Massimo Legnani ha dimostrato il valore degli esiti desumibili da un percorso di ricerca inteso a rilevare l’influenza, sia quantitativa che qualitativa, che le scelte operate dalla “finanza di guerra” hanno prodotto sui diversi ceti sociali13. Tutti filoni di ricerca in grado di esplicitare in misura significativa le condizioni di vita della società durante la seconda guerra mondiale14.
La lettura delle anamnesi contenute nelle cartelle cliniche dei ricoverati negli ospedali psichiatrici nel periodo 1940-1950, può consentire, ad esempio, di individuare i pazienti per i quali i medici accertarono il nesso tra
10 Sandra Lotti, Donne nella guerra: strategie di sopravvivenza tra permanenze e mutamenti, in Linea Gotica 1944, cit., pp. 319-334.11 Claudio Rosati, La memoria dei bombardamenti. Pistoia 1943-1944, in Linea Gotica 1944, cit., pp. 409-432.12 Claudio Pavone, Tre governi e due occupazioni, in L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, cit., p. 425.13 Massimo Legnani, Sul finanziamento della guerra fascista, in L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, cit., pp. 293-306.14 L’importanza di questo tema è sottolineata da Guido D’Agostino e Aurelio Lepre nel loro intervento 1940-1943: dalla guerra immaginata alla guerra reale. Presentazione, “Italia contemporanea”, 1986, n. 164, pp. 37-39.
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guerra e turbamento psichico, ossia tra guerra e “follia” . I fantasmi “laceri e lugubri” dei campi di concentramento o delle colonne dei soldati in ritirata; l’ombra terrificante degli aguzzini, dei militi delle varie polizie, dei soldati oppressori; i sibili delle bombe, le esplosioni, i lutti, le macerie dei bombarda- menti; gli spettri della fame, della sete, del congelamento, delle mutilazioni; le macabre rappresentazioni delle stragi, dei saccheggi, le vendette personali, non appartennero solo al mondo dei “folli” ma con essi convisse gran parte della popolazione. Le vicende documentate nelle anamnesi — oggetto anche di una ricerca in corso dal titolo appunto Guerra e follia, ad opera di un gruppo coordinato da Paolo Sorcinelli — compilate dagli psichiatri furono, infatti, in larga misura le stesse con le quali si confrontarono i compagni e i familiari dei militari e dei civili che varcarono la soglia dei manicomi.
Ha osservato Paul Fussell15 che una delle differenze fondamentali della seconda rispetto alla prima guerra mondiale è la distanza dei combattenti dal territorio nazionale. L’uso massiccio dei bombardamenti ebbe tuttavia l’effetto di provocare, per le popolazioni, una “paradossale vicinanza della violenza e del disastro alla sicurezza, al buon senso e all’amore” . La violenza e l’angoscia invasero così “la dimensione quotidiana e domestica avvicinando, nei periodi di bombardamenti più intensi e continuativi, la condizione dei civili a quella dei combattenti e persino accentuando, per contrasto, l’insopportabilità della morte”16.
Se dobbiamo dar credito a Gabriel Garcia Marquez17, non sarebbero necessarie tante
parole per spiegare ciò che si prova in guerra. Ne basterebbe una sola: paura; o meglio, tutte le paure, anche le più remote e inconsce, in larga misura utilizzate da Ennio Di Nolfo18 per un approccio agli aspetti più sottili e profondi della mentalità sociale e del comportamento comune della popolazione nel corso degli eventi bellici.
Ma la paura e la speranza sono anzitutto temi suggestivi di ricerca che Guido Quazza assegna da tempo ai suoi allievi e attorno ai quali chiama a raccolta “navigati studiosi” , nella giusta convinzione che gli esiti non potranno che confortare la lezione morale, politica e sociale connaturata alla guerra parti- giana. Soprattutto se sarà correttamente indagato “l’intreccio, ecco il filo centrale — sottolinea Quazza —, fra l’ordinario e lo straordinario nella giornata di una guerra specialissima, colto dentro una banda ma senza trascurare le molteplici forme del rapporto tra partigiani e gente del luogo, in primis le donne, sia quelle che collaboravano strettamente coi militanti, sia le ‘civili’”19.
Nell’intento di esorcizzare le paure, le angosce, i patemi d’animo conseguenti alla guerra, la popolazione riservò uno spazio crescente alla pratica religiosa e si strinse in larga parte attorno alla chiesa alla ricerca di conforto e di una guida. Francesco Traniello esplicita “la funzione svolta dalla chiesa italiana nell’ostacolare il corso di un’incombente barbarie, nel favorire la tenuta complessiva di un tessuto nazionale, nell’alimentare e nel sorreggere un senso di solidarietà umana elementare quanto efficace” . Una chiesa, dunque, impegnata a rafforzare un proprio ruolo “civile” oltreché spirituale, in
15 Paul Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 79-86.16 N. Gallerano, Gli italiani in guerra 1940-1943. Appunti per una ricerca, in L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, cit., p . 311.17 Gabriel Garcia Marquez; Cent’anni di solitudine, Milano, Feltrinelli, 1968, p. 322.18 Ennio Di Nolfo, Le paure e le speranze degli italiani 1943-1953, Milano, Mondadori, 1986.19 Guido Quazza, La guerra partigiano: proposte di ricerca, in L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, cit., pp. 482-483.
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virtù pure di un “patrimonio storico di prestigio morale” che si accrebbe “in ragione inversa al declino del prestigio e dell’autorevolezza dei poteri dello stato”20. Le testimonianze dei parroci in tal senso, sinora raccolte, sono esplicite pur con tutte le cautele che la specificità delle fonti orali — per le quali del resto si dispone ormai di una vasta letteratura — comportano. Una conferma o meno del fenomeno mediante un’analisi di tipo quantitativo è possibile con l’ausilio dei dati contenuti nelle Statistiche parrocchiali che ogni anno i parroci inviano in Curia. Esse sono costituite da schede che di ciascuna parrocchia riportano, fra l’altro, i dati riguardanti l’osservanza del precetto festivo e di quello pasquale; l’accostamento alla comunione domenicale e il totale delle comunioni somministrate nel corso dell’anno; i matrimoni religiosi celebrati con o senza messa, quelli civili e il numero dei concubini; le adesioni all’Azione cattolica, la frequenza alla dottrina cristiana e le lezioni impartite dai sacerdoti nella scuola. Indubbiamente i dati riportati nelle Statistiche non hanno valore in assoluto, in quanto la loro compilazione avviene in carenza di criteri comuni e, soprattutto, di eguale diligenza e precisione da parte dei parroci. Tuttavia le rilevazioni così effettuate, pur contraddistinte da evidenti approssimazioni, possono essere assunte per verificare quantomeno una linea di tendenza.
Un altro filone di ricerca va orientato alla ricostruzione della complessa rete di scambi che alimentò il fiorente mercato clandestino. Guido Quazza coglie infatti nel segno quando scrive che il mercato nero costituisce un
“nodo centrale” degli studi sulla seconda guerra mondiale; nodo sul quale, tuttavia, “troppi interessi di parte hanno per vie spesso contrastanti concorso a far ombra, e non solo per ragioni di retorica commemorativa”21. In questa ottica si sono mossi Giacomo Becattini e Nicolò Bellanca, dimostrando 1’esistenza nel mercato nero di “una morfologia variegatissima ed onnipervasiva, nel suo intreccio con altri [...] fenomeni del periodo e una percezione di esso molto differenziata tra gli autori sociali che vi operano”22. Fenomeni che nel Mantovano, ad esempio, specie nella zona a ridosso del Po, compresero pure il banditismo, a sua volta intrecciato di rapporti ambigui con le polizie e il ribellismo coevi. La maggior parte degli attori furono nel Mantovano dei braccianti, coloro cioè che nel periodo iemale si ritrovavano per lunghi mesi senza reddito e costretti ad una vita di stenti. La domanda di prodotti del mercato nero, il comportamento equivoco di corpi come la brigata nera, l’azione organizzata dei partigiani, costrinsero pure il banditismo ad annodare le proprie fila e a rapportarsi con la rete di incettatori; talché il fenomeno endemico delle rapine invernali non solo assunse dimensioni più cospicue ma ebbe a manifestarsi in tutte le altre stagioni dell’anno. Luciano Casali nel secondo volume della Storia della Resistenza a Modena, in via di conclusione, affronta anch’egli il tema del banditismo e constata che lo stesso si moltiplica nelle zone in cui si afferma il partigianato secondo un rapporto di proporzionalità inversa. Infatti, nelle aree per tradizione “ribelli”, ove maggiori furono le diserzioni durante la prima
20 Francesco Traniello, Il mondo cattolico italiano nella seconda guerra mondiale, in L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, cit. p. 350 e 353.21 G. Quazza, Prefazione ad Aa.Vv., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Milano, Feltrinelli, 1974, p. XII.22 Giacomo Becattini, Nicolò Bellanca, Economia di guerra e mercato nero, “Italia contemporanea”, 1986, n. 165, p. 6.
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guerra mondiale, il banditismo decresce mano a mano che si afferma il “potere” della resistenza armata.
Per ricostruire il vissuto di chi, come la gente comune, non lascia che in rarissimi casi una documentazione scritta a cui attingere e da far rivivere, è dunque possibile ricorrere ad una lettura indiretta del modo con cui essa si rapportò con la guerra approfittando di indicatori quali, appunto, la follia, l’alimentazione e il mercato nero, la pratica religiosa e il banditismo. Tutte manifestazioni a loro volta ricostruibili utilizzando, con le avvertenze sottolineate da Massimo Legnani23, le ricchissime fonti oggi disponibili nell’Acs e negli archivi di stato provinciali, nella Fondazione “L. Micheletti” di Brescia, negli archivi delle prefetture e delle curie vescovili. Una particolare sottolineatura meritano i “Rapporti sui riflessi della situazione nelle corrispondenze epistolari” che le commissioni provinciali di censura dovevano periodicamente compilare e far pervenire alle superiori autorità militari e di polizia. Questi rapporti, tanto efficacemente utilizzati da Loris Rizzi24, costituiscono una fonte eccezionale e riportano, meticolosamente registrati e ordinati, i pensieri e i sentimenti più sinceri della gente e dei militari alle armi sulla guerra, il fascismo, le condizioni di vita del paese, le sorti del conflitto.
In ogni caso una storia sociale dell’Italia durante la seconda guerra mondiale può aversi unicamente dal concorso, come in
precedenza osservato, di tante storie locali quante sono le peculiarità rilevabili nelle condizioni ambientali, nella collocazione rispetto al fronte di guerra, negli usi e costumi delle popolazioni, nelle condizioni di vita delle classi e dei ceti sociali, nel tipo di economia prevalente, nel grado di consenso al regime, nel ruolo della chiesa. Insomma — per non tediare con una lunga elencazione che comunque potrebbe non essere immune da omissioni — tutto ciò che può concorrere ad addentrarci nel vissuto quotidiano di “una società civile vivacissima a paragone di quelle degli altri paesi europei coinvolti nella guerra, che alla guerra reagisce in modo differenziato: emergono egoismi e grandi solidarietà, lutti e gioia di vivere, apoliticità e capacità di prendere partito, difese gelose delle proprie tradizioni e delle proprie chiusure ma anche aperture verso il nuovo e speranze di cambiamento”25. È un percorso di ricerca sicuramente complesso perché comporta il ricorso alle competenze e alle tecniche specifiche non solo della storia ma, pure, quantomeno, dell’antropologia, della sociologia e della psicologia; ugualmente vale la pena di praticarlo in quanto la guerra può così connotarsi come un immenso straordinario laboratorio sociale della cui gestione potrebbe farsi carico l’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione mediante un progetto organico di ricerca che interessi l’intero territorio italiano.
Luigi Cavazzoli
23 M. Legnani, “Paese reale”e “paese legale” dal fascismo alta repubblica, “Italia contemporanea” , 1985, n. 161, pp. 107-110.24 Loris Rizzi, Lo sguardo del potere. La censura militare in Italia nella seconda guerra mondiale 1940-1945, Milano, Rizzoli, 1984.25 N. Gallerano, Gli italiani in guerra, cit., p. 322.
Guerra, guerra di liberazione, guerra civiledi Giuliana Bertacchi
Nel fitto calendario di convegni promossi dagli Istituti della resistenza, questo di Belluno — “Resistenza: guerra, guerra di liberazione, guerra civile”, 27-29 ottobre 1988— spicca in primo luogo per l’attenzione tutta particolare che ha suscitato sin dal suo primo annuncio e che è stata confermata nel corso dei lavori dalla partecipazione di un pubblico numeroso e coinvolto. Sottolinearlo è meno ovvio di quanto non possa apparire: richiamarsi a quell’aspettativa, infatti, può meglio far comprendere il tipo di dibattito che si è sviluppato nelle tre giornate dense di relazioni e di interventi. Come tutti ben ricordano, tre anni fa, nel corso del convegno di Brescia sulla Rsi (cfr. La Repubblica sociale italiana, Annali della Fondazione “Luigi Micheletti” , 2, 1986), la proposta avanzata da Claudio Pavone che, invitando a riflettere sui motivi per cui la definizione di guerra civile fosse stata generalmente ripudiata dagli antifascisti, formulava ipotesi sull’applicabilità di quella definizione allo scontro tra partigiani e fascisti nel 1943- 1945, aveva provocato reazioni polemiche— a partire dallo stesso titolo della relazione, La guerra civile — e alimentato una vivace discussione che ora l’appuntamento bellunese consentiva di riprendere diretta- mente.
Una parte almeno altrettanto significativa delle attese proveniva dall’interno degli Istituti, impegnati a vario titolo e su vari fronti nello studio del 1943-1945, e ancora recente
mente chiamati a intensificare e affinare gli sforzi di indagine, nella prospettiva della “nuova storia della Resistenza antifascista”, a cui fa riferimento il Programma scientifico generale dell’Istituto nazionale e degli Istituti associati. L’iniziativa dell’Istituto di Belluno — universalmente definita “coraggiosa” — offriva infatti la possibilità di confrontare i risultati di ricerche recenti con le implicazioni derivanti dalle nuove proposte di categorizzazione interpretativa della Resistenza, soprattutto da quella della guerra civile, coniugata con la definizione “tradizionale” di guerra di liberazione e inserita nella più generale dimensione del secondo conflitto mondiale (la necessità di una lettura complessa di piani intersecati era, del resto, esplicitamente richiamata dall’intitolazione tripartita del convegno).
La speranza di confrontare ipotesi interpretative sulla base di ricerche specifiche, piuttosto che sul piano delle opzioni generali, per meglio valutarne in concreto la ricaduta storiografica, non è stata certo delusa: dalle indagini che hanno scavato nell’interno della vita di formazione, offrendo materia di riflessione attorno alla complessità dell’ “uomo partigiano” (nel senso indicato da Guido Quazza al convegno “L’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza” dell’aprile 1985), o da alcuni contributi decisivi per l’allargamento del quadro problematico complessivo, sono pervenuti gli apporti — a mio avviso — più proficui e ric-
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chi di spunti per possibili, ulteriori approfondimenti. Tuttavia questa opportunità, ancora ribadita in apertura dei lavori da Guido Quazza e da Claudio Pavone (entrambi, in forme e in contesti diversi, hanno sottolineato sia la complessità degli intrecci che la necessità di verifiche attraverso ricerche innovative, invitando, implicitamente o esplicitamente, a superare logiche di schieramento tra favorevoli e contrari all’uso della definizione di guerra civile), non è stata colta fino in fondo, forse inevitabilmente, se si pensa alla carica di appassionato coinvolgimento non solo di chi quegli avvenimenti ha vissuto in prima persona, ma anche dei “giovani” studiosi antifascisti e alla conseguente sollecitazione a prender posizione sul punto nevralgico della guerra civile.
Almeno altri due piani di dibattito — oltre al confronto di ricerche sulla Resistenza prima accennato e sul quale si ritornerà più avanti — mi pare abbiano attraversato il convegno. L’uno si può schematicamente ricondurre alla lettura della Resistenza in chiave esclusiva o prevalente di guerra di liberazione, con l’accentuazione del carattere antitedesco, dei valori dell’unità antifascista e dell’identità nazionale, ed è stato particolarmente presente nei momenti di discussione alla fine delle varie sessioni, nella tavola rotonda finale, riservata prevalentemente ai rappresentanti delle associazioni partigiane1, in alcuni messaggi pervenuti al convegno, come quelli dei senatori Ferrari Aggradi e Taviani. Anche in questo caso non si è trattato, in genere, di una lettura grezzamente unidimensionale e semplicemente riconducibile di per sé a interpretazioni moderate e — per questa via — agli stereotipi dell’ufficiali
tà celebrativa. Gli aspetti sociali, le connessioni e i nodi internazionali, ad esempio, sono stati tenuti in considerazione, ciò non di meno riflessi soprattutto difensivi di una definizione che pure ha avuto tanta parte nella costruzione della stessa identità partigiana, hanno finito per favorire, al di là della maggiore o minore ricchezza delle motivazioni, la riduzione delle questioni dibattute al pronunciamento a favore o contro l’applicabilità dell’espressione guerra civile, piuttosto che il loro sviluppo in molteplici e complesse direzioni.
Un altro livello della riflessione si è disposto attorno all’approfondimento dei termini e della formulazione delle categorie interpretative e ha fornito utili contributi anche sotto il profilo del metodo, con esempi di analisi filologica rigorosa sulle fonti coeve, fornendo nel contempo un’efficace arma contro “cortocircuiti” e “manipolazioni” lessicali. In nessun caso, tuttavia, mi pare che il dibattito di Belluno possa essere schematizzato e appiattito in una specie di referendum oppositivo tra guerra di liberazione e guerra civile o sbrigativamente risolto in un pronunciamento perentorio sull’applicabilità della seconda espressione, come potrebbe apparire da certi resoconti, francamente riduttivi, apparsi sulla stampa2.
Le brevi note che qui seguono non hanno — a loro volta — la pretesa di rendere a pieno quel dibattito, nella sua ricchezza e anche nelle sue strozzature: recuperarlo in tutte le sue componenti e valutarlo in modo complessivo richiede tempi non brevi. Non penso solamente alla pubblicazione degli atti, ma anche alla possibilità di disporre degli esiti di indagini, anticipate parzialmente in
1 Alla tavola rotonda, coordinata da Sergio Passera (Insmli), hanno partecipato Arrigo Boldrini (Anpi), Vittorio E. Giumella (Anli), Gianfranco Maris (Aned) e Lamberto Mercuri (Fiap).2 Cfr. Emilio Sarzi Amadé, Guerra civile o Resistenza?, “L’Unità”, 4 novembre 1988. Si veda anche, in termini meno schematici, il resoconto di Stefano Caviglia, Il nemico italiano. La Resistenza fu anche guerra civile? Un convegno a Belluno, “Il Manifesto”, 1° novembre 1988.
Guerra, guerra di liberazione, guerra civile 109
sede di convegno, e alla ripresa e alla verifica di indicazioni di ricerca formulate ex novo o ribadite in questa sede. Sin dall’apertura dei lavori, Guido Quazza ha intrecciato riflessioni e spunti di ricerca con la lettura in ampiezza e in profondità di tre definizioni nate dentro la Resistenza, o riproposte dalla Resistenza in termini originali: guerra di liberazione, guerra per la civiltà — piuttosto che guerra civile —, guerra di religione. Al deciso richiamo alla necessità di rigore e chiarezza nella definizione dei termini, si è accompagnato il riferimento ai loro possibili e auspicabili sviluppi in contesti attuali e in dimensioni di ricerca che non perdono di vista l’uomo e il suo tormentato cammino. Contesti attuali, e non semplicemente attualizzati, come spesso avviene, in modo estrinseco e disinvolto: è una valida indicazione che si può ricavare dall’intervento di Quazza e che si aggiunge ai “punti fermi di correttezza metodologica” da lui stesso illustrati inizialmente.
Claudio Pavone, proponendo una diversa possibile categorizzazione rispetto alla formulazione avanzata da Quazza e rispetto all’intitolazione del convegno, sotto il titolo Le tre guerre: patriottica, civile e di classe, ha analizzato la possibile ricaduta storiografica dell’intreccio — mai scontato, mai schematico — delle tre componenti, individuando nuclei problematici aperti alla verifica di nuove indagini e di nuovi approcci: la militarizzazione e la politicizzazione delle bande; la pratica della violenza e il suo discipli- namento; l’atteggiamento della chiesa cattolica come istituzione e dei “cattolici come persone”; la possibile ricomposizione dell’unità della Resistenza nell’“aspirazione a dar vita a un uomo libero e quindi non frantumato, quali che fossero i contenuti, anche molto diversi, con i quali l’immagine del futuro veniva riempita”.
Marco Palla, entrando decisamente nel merito della questione posta da Pavone, ha sottolineato un tema a cui si sono agganciati
parecchi degli interventi in sede di discussione e che si configura, a sua volta, come terreno di ulteriori approfondimenti: la guerra civile non si presta in sostanza a definire la situazione italiana del 1943-1945, occorre piuttosto indagare sul collaborazionismo e sull’ampia e composita “zona grigia” di chi non si schiera apertamente in campo.
Su alcuni degli specifici filoni di indagine indicati, i partecipanti hanno potuto misurarsi immediatamente, come ad esempio sul tema dei cattolici (di particolare interesse le relazioni di Bruna Bocchini Camaiani e di Silvio Tramontin, che hanno messo in rilievo differenziazioni sensibili in seno all’alto clero, tutt’altro che compatto di fronte all’occupazione tedesca, alla Rsi e alla Resistenza). Ma è soprattutto dall’esame del rapporto tra partigiani e giustizia che sono venuti contributi di indagine su un terreno decisivo per le questioni dibattute, vale a dire l’interno della vita delle formazioni e la memoria partigiana. Sono stati proposti all’attenzione i codici morali e il particolare rigorismo, frutto di una composita convergenza di ideologie diverse e con svariati gradi di interiorizzazione (Roberto Botta), l’immagine dei fascisti e dei tedeschi nella realtà della formazione e nelle storie di vita dei combattenti, attraverso percorsi che mostrano il progressivo prevalere di motivazioni appartenenti alla guerra civile piuttosto che alla guerra patriottica (Daniele Borioli), il processo a un capobanda che diventa spia delle contraddizioni interne allo schieramento resistenziale e materia di mito e di affabula- zione (Angelo Bendotti), episodi e momenti che illustrano il “codice elastico” di una giustizia severa, ma attenta a salvaguardare il rapporto con la popolazione (Cesare Berma- ni). Di diversa impostazione l’intervento di Emilio Sarzi Amadè, rivolto piuttosto a motivare il rifiuto della categoria interpretativa della guerra civile e a proporre quella di “guerra incivile” da parte dei fascisti, che vide protagonista “un numero molto ridotto
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di delatori, che invocavano rappresaglie contro singoli gruppi o interi paesi” .
Il tema giustizia e Resistenza non si racchiude soltanto nei due anni cruciali 1943- 1945: lo ha rammentato Luca Alessandrini, presentando l’archivio di Leonida Casali, coordinatore del Comitato di solidarietà democratica; da queste carte emergono i contorni della vera e propria persecuzione antipartigiana tra la fine degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta. Le dimensioni del fenomeno e le sue implicazioni sociali e politiche ribadiscono l’opportunità di allargare il quadro entro cui riesaminare la possibile ricaduta storiografica della categoria guerra civile applicata al 1943-1945.
Un ulteriore elemento di spiccato interesse dei lavori del convegno è venuto appunto, come prima si accennava, da quegli interventi che, con diverse angolature e valutazioni, hanno contributito a precisare i significati e i percorsi di questo allargamento. Massimo Legnani ha affrontato direttamente il problema, offrendo indicazioni “per meglio capire in che senso il 1943-1945 ‘chiude i conti’ con il 1919-1922”; il 1943- 1945 è vissuto infatti, pur con motivazioni e prospettive diverse, come “fase finale di un processo che ingloba per intero tutta la storia del fascismo” e in tema di guerra civile, Legnani ha prodotto esempi illuminanti di scavo filologico sulle fonti coeve che fanno ricorso a questa terminologia per definire aspetti del conflitto sociale in atto nel primo dopoguerra. Che i conti proseguano anche nel secondo dopoguerra lo ha mostrato anche la relazione di Antonio Paladini, che ha proposto elementi di riflessione sulla categoria giuridica della continuità dello stato, attraverso l’analisi degli orientamenti assunti dalla magistratura. Ancora una volta, dunque, l’angolo prospettico del rapporto Resistenza - storia d’Italia, mostra la sua scontata e non esaurita proficuità.
Una nutrita serie di contributi è stata dedicata alla guerra della Rsi: tra i più apprez
zabili quelli che hanno scavato in direzione dell’autorappresentazione fascista — al di là della propaganda — ricercando matrici culturali e referenti sociali, e, come è avvenuto nella relazione di Mario Isnenghi, delineando il percorso che conduce la destra dalla “memoria separata” e sommersa dei morti di Salò ai terreni dell’equiparazione e della pacificazione. Forse, tuttavia, è ancora necessario attendere una più complessiva maturazione di indagini che superino il rischio dell’appiattimento delle fonti fasciste e una certa separatezza settoriale, inadeguata ad affrontare i complessi piani di incontro e di scontro della storia della Rsi con la storia della Resistenza e della società italiana.
Parecchi altri contributi degni di considerazione sfuggono alla rapidità di queste note (ci limitiamo ad accennare alla contestualizzazione nel quadro europeo delineata da Vaccarino, alle contrastanti strategie degli occupanti tedeschi civili e militari in ordine alla situazione italiana illustrate da Lutz Klinkhammer, alla dimensione della deportazione e della Resistenza degli italiani all’estero ricordate da Vittorio Giuntella, Federico Cereja e altri), come pure meriterebbe un esame analitico il dibattito appassionato e intenso che ha coinvolto relatori e pubblico. In esso si sono manifestati elementi di ulteriore arricchimento, ma anche rigidezze e contrapposizioni che non hanno saputo trovare gli opportuni canali di comunicazione. Non mi pare, tuttavia, che si debba insistere eccessivamente su questo punto: un conto è la discussione “a caldo”, un altro, più importante, è quanto di essa si sedimenta e si sviluppa, con altrettanta convinzione e forse maggiore differenziazione, ma con più omogenei piani di confronto. C’è tuttavia un elemento che, a mio avviso, mette in luce una difficoltà reale per l’avanzamento del dibattito, che ha bisogno di nuovi apporti e contributi di ricerca. In presenza di un attacco quanto mai massiccio e in nessun modo riconducibile a banali operazioni nostalgiche,
Guerra, guerra di liberazione, guerra civile 111
portato al patrimonio storico e culturale dell’antifascismo e della Resistenza, un certo numero di esponenti antifascisti tende a reagire riproponendo una linea “difensiva”, ispirata all’esemplarità ideale della scelta, piuttosto che accogliere l’invito a scavare nella sua complessità e nei suoi molteplici e aggrovigliati legami con la società italiana di ieri e di oggi. Questa è forse la distinzione che si può tentare, ripensando al dibattito bellunese, e che passa orizzontalmente tra chi accoglie la possibile categoria interpretativa della guerra civile e chi invece ritiene più proficui altri approcci.
L’esperienza, l’immagine, l’uso politico e partitico della Resistenza — una vasta gamma di posizioni sovente contrastanti, all’interno delle quali non mancano né i miti né le appropriazioni indebite — sono strettamente intrecciati con le vicende di questo secondo dopoguerra e per questo sono ancora tanto coinvolgenti, anche sul piano personale, né la pur necessaria distinzione tra i paradigmi dominanti e divulgati e l’esperienza vissuta può essere netta e cartesiana (il plurale mi sembra necessario, dal momento che non si tratta di uno schema univoco: si passa infatti dalla riduzione patriottica, depurata
dalla “guerra di classe”, alla proiezione immediata delle aspirazioni di radicali trasformazioni rivoluzionarie). Quei paradigmi nascono, almeno in parte significativa, dentro la Resistenza e per motivi che non si possono ricondurre solamente alla legittimazione delle forze politiche in campo, ma che coinvolgono, come è ben noto, la stessa identità nazionale e altre grandi questioni. Forse questi paradigmi andrebbero analiticamente considerati e contestualizzati e andrebbe in particolare isolata e studiata una loro componente: la riduzione della Resistenza al culto dei morti, all’omaggio, pur doveroso, all’eroismo e al sacrificio. Quando questa componente viene estrapolata e chiusa in se stessa — è il paradigma prevalente dell’ufficialità celebrativa — si apre inevitabilmente la strada all’equiparazione tra i caduti della Resistenza e quelli della Rsi e, per questa via, a progressive convergenze con la legittimazione del fascismo. Anche per questo mi sembra importante che le sollecitazioni a riconsiderare i venti mesi della guerra parti- giana nella loro centralità e nella loro complessità, venute dai lavori del convegno di Belluno, siano attentamente valutate.
Giuliana Bertacchi
MOVIMENTO OPERAIO E SOCIALISTA
Sommario del n. 3, 1988
Il mondo nuovo. L’utopia sociale nel teatro europeo (1870-1939) a cura di Gianni Isola e Gianfranco Pedullà
IntroduzioneGianfranco Pedullà, Il sogno di un mondo migliore nel teatro popolare francese; Eugenia Casi- ni-Ropa, Béla Balazs e il “teatro per cambiare il mondo'': Roberta Ascarelli, Gli spettacolli del potere. Ragioni teatrali ed emozioni cinematografiche nella socialdemocrazia tedesca: Maria di Giulio, Dalle origini del teatro "popolare'' russo alla nascita del teatro “spontaneo": Gianni Isola, Utopia sociale e società del futuro nei teatro socialista italiano delle origini: Annarita Buttafuoco, Laura Mariani, I volti di Messalina. Note sul rapporto tra emancipazione femminile e teatro.
Note e discussioniAlessandro Roveri, L’Historikerstreit in un'antologia tedesca: Giovanni Casetta, Stato e società in America Latina: verso una nuova storiografia.
Schede
Rassegna delie riviste straniere
Notiziario
Libri ricevuti
La Toscana nel secondo dopoguerradi Massimo Legnani
Il convegno “La Toscana nel secondo dopoguerra”, indetto dall’Istituto storico della resistenza in Toscana e svoltosi a Firenze nel dicembre 1988, presenta tratti ben distinti dalle molte iniziative che negli ultimi anni hanno avuto per oggetto, soprattutto dentro la rete degli Istituti, aspetti specifici o complessivi della storia locale negli anni della Costituente. Nel convegno fiorentino dopoguerra sta a significare, quantomeno tendenzialmente, il primo ventennio repubblicano e, per conseguenza, una prospettiva interamente disincagliata dal rischio di sovrapporre al discorso sull’Italia postfascista quello sugli “esiti” della Resistenza, che ne costituisce solo un aspetto particolare e che si può ormai considerare, nella sua forma tradizionale, esaurito. Ma, soprattutto, assumere come tema di studio la Toscana dalla metà degli anni quaranta all’inizio degli anni sessanta equivale a porsi da un osservatorio in larga misura atipico rispetto al principale asse di sviluppo delle vicende nazionali. Se da un lato, infatti, le trasformazioni socio-economiche incentrate sul dissolvimento del sistema mezzadrile e il delinearsi di una fitta trama di industrializzazione diffusa richiamano quel modello di “terza Italia” che giungerà a maturazione solo a cavallo degli anni sessanta e settanta, dall’altro, sul terreno del governo locale e delle aggregazioni partitiche e sindacali, si evidenzia il fatto che processi di così vaste proporzioni sono retti e guidati da un ceto dirigente che la prevalenza delle sinistre (e del Partito comuni
sta in primo luogo) rende fortemente dissonante rispetto agli equilibri politici che si impongono a livello nazionale.
Su questi due nuclei si è impiantata la struttura del convegno, che ha affrontato, in successione, l’analisi della base economica e delle dinamiche sociali connesse con i mutamenti di quella, il profilo delle lotte e del consenso politico attraverso le diverse arti- colazioni partitiche, il ruolo degli intellettuali e delle istituzioni in cui questi hanno operato. Va però subito precisato che l’efficacia di questo schema non è stata affidata solo alla sua logica interna, ma al fatto che i passaggi del primo quindicennio postbellico sono stati ripercorsi senza estraniarsi dalle visuali suggerite dagli anni ottanta, il che equivale, tanto in termini di problematiche economiche legate ai “distretti industriali” quanto di erosione dell’egemonia comunista, ad una prospettiva di accentuata “distanza storica” . Non dunque un puro riflesso degli svolgimenti più recenti (chè lo stimolo si sarebbe facilmente trasformato in lente deformante), ma il tentativo di saldare gli anni considerati ad un’ottica di più lungo periodo, guardando in avanti non meno che all’indietro (in quest’ultima direzione il riferimento d’obbligo, dato che alcuni relatori al convegno, da Becattini a Rossi, da Garin a Bortolotti, ne sono coautori, è al volume sulla Toscana curato da Giorgio Mori ed edito da Einaudi nel 1986 nella serie delle storie delle regioni dopo l’Unità).
Italia contemporanea”, marzo 1989, n. 174
114 Massimo Legnarli
Uno dei contributi in cui si è più positiva- mente riflesso l’impegno di inserire il primo ventennio repubblicano nel tempo lungo è quello di Giacomo Becattini su “Crisi e sviluppo dell’economia toscana dal 1945 al 1963”, che ha avuto anche il merito (insolito in un contesto culturale in cui gli specialismi disciplinari vengono spesso impiegati per rivendicare astratte gerarchie esplicative) di operare un reale scambio tra l’analisi propriamente economica e la stratificazione socioculturale che interagisce con le scelte produttive. Se il filtro del discorso resta la genesi e il consolidamento dei distretti industriali, il problema della formazione di nuovi ceti di imprenditoria diffusa riporta alle esperienze accumulate all’interno del sistema mezzadrile in materia di commercializzazione e di gestione della forza lavoro e il tema della caduta verticale della società contadina incardinata sulla mezzadria chiama in causa rivolgimenti provocati dalla seconda guerra mondiale in termini politici (crescita delle sinistre in quanto interpreti della crisi dei vincoli sociali tradizionali) non meno che economici (rientro dell’economia italiana nel mercato internazionale). La determinazione, ad esempio, con cui Becattini sottolinea la cesura rappresentata dall’esperienza della guerra e della Resistenza come fase di accumulazione di un forte potenziale di disponibilità al “nuovo”, fornisce una indicazione in grado di intrecciare livelli ed ambiti di discorso apparentemente lontani ed eterogenei. Alcune di queste tematiche sono state riprese ed approfondite dai successivi contributi: dalla relazione di Maria Tinacci Massello su “Le trasformazioni del territorio” (appare particolarmente rilevante l’affermazione che, al termine del periodo considerato, le tensioni sembrano scaturire più dalle contraddizioni ambientali che dai rapporti di produzione), agli interventi intrecciati su “crisi della mezzadria e lotte contadine” di Reginaldo Cianferoni (espulsi dalle campagne i mezzadri “conquistano” la città), Zef-
firo Ciuffoletti (la crescita della capacità di iniziativa dei mezzadri attraverso esperienze quali i consigli di fattoria), Pietro Clemente su una lettura del mondo mezzadrile sotto il profilo dell’antropologia culturale (e per quanto riguarda l’attuale fase degli studi sugli aspetti politici, economici e socioculturali della mezzadria si vedano i ricchi materiali contenuti negli Annali 8 e 9, rispettivamente 1986 e 1987, dell’Istituto Cervi). Nel campo dell’economia e delle culture economiche si sono mossi anche Alfiero Falorni (“La prima fase dell’industrializzazione leggera”, sullo sviluppo della piccola impresa come “industrializzazione dal basso”), Alessandra Pescarolo e Carlo Trigilia (“Insediamento sindacale e relazioni industriali” , sulle difficoltà della cultura sindacale a trovare le chiavi di accesso al modello toscano), Piero Roggi (“Riviste fiorentine e cultura economica”).
La parte più propriamente di storia politica si è sviluppata lungo l’asse, già ricordato, della formazione di una nuova classe dirigente attraverso l’intreccio dell’insediamento dei partiti, della formazione dei quadri, della selezione della deputazione nazionale, dell’attività delle amministrazioni locali. Ai quadri generali di Luigi Lotti sulla lotta politica entro il contesto regionale, di Pier Luigi Ballini sulle dinamiche elettorali, di Franco Andreucci sui parlamentari toscani e di Mario G. Rossi su politica e amministrazione nella Toscana “rossa” , hanno fatto riscontro i contributi specifici di Renzo Martinelli sul Pei, di Ariane Landuyt sui socialisti, di Sandro Rogari sui partiti laici, di Rita Pasquini e Tullio Innocenti sulla De. Nella ricerca delle singolarità regionali ha fatto spicco — in simmetria con molti spunti ricavabili dalle analisi socio-economiche — il ruolo innovativo giocato dal fenomeno resistenziale. Esso ha trovato particolare sviluppo nella relazione di Rossi, tesa a sottolineare il carattere diffuso, oltre i limiti della sinistra, del duplice patrimonio antifascista e
La Toscana nel secondo dopoguerra 115
autonomista che, attraverso le esperienze del Ctln e delle amministrazioni ciellenistiche, si trasferisce nelle nuove concezioni del governo locale. In questo senso sarebbe rinvenibile un raccordo stretto tra primo e secondo dopoguerra, dato che il periodo repubblicano riprende e sviluppa (prevalentemente nell’area “rossa” , ma non in essa soltanto) quel processo di crescita di nuovi ceti dirigenti che era culminato nei conflitti del 1919-1920 e che il fascismo sarebbe in seguito in gran parte riuscito a bloccare congelando le forme di produzione. La diffusione e il radicamento della guerra partigiana gioca allora un ruolo di decisiva importanza non solo come forma generalizzata di mobilitazione civile, ma come strumento di saldatura tra città e campagna, avvio alla omologazione dei rispettivi comportamenti politici. Si tratta, relativamente alle ricerche sul governo locale, di un terreno sinora solo parzialmente investito dalle indagini, una via da percorrere con particolare sistematicità per quanto riguarda la direzione del cambiamento e, attraverso di essa, l’analisi della cultura del nuovo ceto politico locale come campo privilegiato di verifica degli assunti interpretativi generali.
Fino a che punto la storia degli intellettuali e delle istituzioni culturali rientra in ta
le contesto di mutamenti? Le risposte sono ancora parziali ed esitanti e il convegno le ha riflesse. La relazione di Eugenio Garin su “La cultura fra conservazione e rinnovamento” ha inclinato a considerare prevalenti, pur tra sintomi ed esperienze contrastanti, i fattori di continuità. È però vero che la sua attenzione si è fermata in modo quasi esclusivo sui “grandi” intellettuali e sulle istituzioni — principalmente l’Università — in cui operano. Un quadro più mosso sembra suggerito dai contributi di Marino Reicich sull’editoria, di Paolo Galluzzi su “Le istituzioni storico-scientifiche” , di Mariastella Parigi sulle dimensioni culturali presenti nel mondo cattolico, di Luigi To- massini sulle Case del popolo. Tuttavia, se l’apertura di discorso nei confronti delle culture diffuse appare particolarmente pregnante in una fase di rifondazione dei valori politici, non minor rilievo dovrebbe assumere la ricostruzione del profilo di quei ceti intellettuali — tecnici, economisti — la cui sorte risulta strettamente ancorata alle trasformazioni del periodo, e nella direzione dell’attività politico-amministrativa e per l’incidenza sul terreno delle culture delPimprenditorialità diffusa.
Massimo Legnani