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Monica M.G.L. Valentini

E il mondo non fu più lo stesso…

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DELLA STESSA AUTRICE:

Cristalli La spada bianca

Il condottiero Il richiamo del silenzio Principe delle tenebre

Agemina L’ombra della ginestra

Come convivere con uno sport sconosciuto Roma vista da me

E il mondo non fu più lo stesso…

© 2009 MGL VALENTINI Tutti i diritti riservati

Copertina e Grafica: Marco Licio Fabi

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Il kaiser Guglielmo II di Germania

Lo zar Nicola II di Russia

L’imperatore Francesco Giuseppe I d’Austria

Il re Giorgio V d’Inghilterra

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Tutto ebbe inizio con la fine delle guerre in Europa, nel 1870. La cosa buffa, a pensarci bene, è che questo lungo periodo di pace, in cui alleanze e prosperità economica avrebbero dovuto dare stabilità, era in realtà un focolaio intestino di ciò che sarebbe accaduto in seguito. A partire dai francesi che, in Place de la Concorde, avevano drappeggiato di nero la statua di Strasburgo, ceduta l’11 maggio 1871 alla Germania assieme all’Alsazia e alla Lorena. Se, da un lato, il cancelliere di ferro, il prussiano Bismarck, era stato ben felice di apporre la firma sul documento che gli permetteva di incamerare le due provincie francesi, dall’altra il popolo gallico avrebbe rimuginato e borbottato e covato sogni di rivincita fino al secolo successivo. Tuttavia, se i francesi fremevano senza darlo a vedere, una parte dell’Europa, quella balcanica, scalpitava come se avesse avuto la febbre. Ma andiamo con ordine. Sullo scorcio del diciannovesimo secolo lo scacchiere politico europeo era composto per la maggior parte da grandi imperi: quello inglese, quello austro-ungarico e quello russo, i cui regnanti erano tutti imparentati tra loro, eccezione fatta per l’impero ottomano e quello nipponico. Prendiamo lo zar di Russia, Nicola II. Quest’uomo mite, incapace di grandi decisioni, amante della quiete, aveva sposato Alessandra d’Assia, nipote della regina Vittoria, la quale, preso atto delle debolezze del marito, aveva impugnato le redini della casa imperiale e aveva cercato di barcamenare il consorte nel difficile compito che gli competeva. Era di origini tedesche, poiché il padre era il granduca d’Assia, mentre sua madre una delle figlie della regina Vittoria e fino alla fine avrebbe sempre supportato il marito nelle questioni di stato. La zarina Alessandra era, a ragion veduta, cugina del re inglese,

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Giorgio V, e del kaiser tedesco, Guglielmo II. Pertanto, Inghilterra, Germania e Russia intrattenevano rapporti amichevoli, almeno a livello personale, e i rispettivi coronati erano certi che non si sarebbero mai fatti guerra, a dispetto del carattere bellicoso di Guglielmo II, poco amato dalla zarina. Questi, infatti, si sentiva molto più legato all’Austria di Francesco Giuseppe I che non al panslavismo russo, e intratteneva cordiali rapporti di amicizia con l’erede al trono austro-ungarico, Francesco Ferdinando d’Asburgo d’Este. Lo spirito degli avi, guerrieri teutonici fin nel midollo, lo animava e lo spingeva a superare in ogni modo la menomazione fisica che lo affliggeva, ossia l’atrofia al braccio sinistro, rendendolo scontroso, duro e inflessibile. Francesco Giuseppe I, al contrario del kaiser e dello zar, non era più giovane, avendo compiuto ottantaquattro anni e, come lui stesso disse, nulla gli era stato risparmiato dalla vita, dall’assassinio dell’amata moglie, l’imperatrice Sissi, al suicidio del primogenito Rodolfo a Mayerling e guardava con occhi più critici e cinici lo scacchiere politico. Il fardello di esperienze che gravava sulle sue spalle lo rendeva molto cauto, più simile al morigerato Giorgio V d’Inghilterra che non al bellicoso Guglielmo II; eppure aveva preferito come alleata la Germania, molto più simile come lingua, usi e costumi. Il fatto che la Gran Bretagna possedesse un impero vasto come il Commonwealth, che fruisse di una flotta da fare invidia, aveva spinto il kaiser a intensificare gli sforzi bellici per poter gareggiare con il cugino Giorgio V. Questi, al contrario, lasciava correre, da perfetto gentleman inglese, pago del suo status e si godeva la tranquilla eredità della nonna, la regina Vittoria. All’inizio del ventesimo secolo molti erano gli appetiti di vari stati: da quelli che sognavano un proprio impero, a quelli che, in piccolo, aspiravano a un’autodeterminazione. Chi, più di tutti, soffriva tumulti intestini, era il vasto impero austro-ungarico di Francesco Giuseppe I. Le troppe minoranze etniche che lo formavano erano sempre sul piede della rivolta, tra cui la parte del nord Italia, mentre ruteni, polacchi e ucraini

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guardavano alla Russia come loro protettrice. A suo tempo l’impero ottomano aveva concesso l’autonomia all’Albania, sotto la poderosa pressione dell’Austria che sperava, in tal modo, di poter incamerare la Serbia. Ma questa, bellicosa e facinorosa, convinta che il predominio austro-ungarico sulla Bosnia valesse a impedirle uno sbocco al mare, per nulla intimorita dal vasto impero, aveva pensato bene di invadere l’Albania, libera dalla sfera ottomana, per poter godere di quello sbocco sul mare. Il vecchio imperatore si era visto costretto a mandare un ultimatum alla Serbia, intimandole il ritiro delle truppe entro otto giorni o le parole avrebbero lasciato spazio alle armi. Il kaiser aveva plaudito l’ultimatum, sussurrando a denti stretti che la Serbia andava in qualche modo rimessa in riga. Ora, visto il panslavismo russo, era logico supporre che lo zar Nicola II, essendo paladino della regione balcanica, avrebbe risposto a tono all’ultimatum austriaco. Invece rimase in silenzio e la Serbia si vide costretta a chinare la testa e a ritirarsi di mala voglia, rinunciando allo sbocco sul mare. Tutto questo accadeva nel 1913, nello stesso momento in cui la Bulgaria si conquistava uno sbocco sul Mar Egeo e l’accesso al Mediterraneo, e un anno dopo che l’Italia si era annessa la Libia, e la Grecia si era annessa la Tracia, a spese dell’impero della Mezzaluna.

È facile supporre come le diplomazie fossero impegnate a reggere le sorti di ogni paese nel migliore dei modi e come si industriassero per abbracciare la volontà dei regnanti e sostenere l’opinione pubblica. Perché in tutto questo contesto di affanno diplomatico, di annessioni e focolai di ribellioni, aveva iniziato a soffiare un vento di libertà che i popoli anelavano e che non facevano dormire sogni sereni ai governanti. La vecchia aristocrazia aveva un bel da fare nel mostrarsi ai ricevimenti con lustrini e ottoni lucidati a dovere: fuori dei palazzi signorili si ingrossava sempre più la tempesta della rivolta. Cosa assai strana, questa ondata di libertà che tanto faceva impensierire i potentati, sarebbe stata alimentata dalla Germania per costringere la Russia a una pace separata nel 1917. Chi finanziava e sosteneva Lenin, altri non era che la

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Germania di Guglielmo II per chiudere uno dei due fronti di guerra che la dilaniavano. Che poi tutti avversassero Lenin era un mero cavillo: al momento serviva per porre termine alla guerra e tutti chiudevano un occhio. Ma questo è ciò che accadde in seguito. Agli inizi del secolo, dunque, si auspicava una guerra allo stesso modo in cui la si paventava, sebbene al momento l’ultimatum alla Serbia fosse finito con un nulla di fatto. Le alleanze reggevano e questo era ciò che contava. Eppure il semplice gesto della Serbia aveva mostrato chiaramente come queste fossero fragili e posate su basi d’argilla. Sin dal 1882 la Germania, l’Austria e l’Italia si erano unite in una Triplice Alleanza. Di conseguenza, giacché la Germania gettava con troppa insistenza l’occhio verso est per cercare di annettersi la Polonia, la Lituania e la costa Baltica, Gran Bretagna, Francia e Russia si erano a loro volta unite nella Triplice Intesa per contrastare qualsiasi azione perpetrata dai paesi alleati centrali. Era un’evoluzione della Cordiale Intesa stipulata a suo tempo tra Gran Bretagna e Francia per comporre dispute su Egitto e Marocco. Inoltre, nel 1907 la Gran Bretagna aveva siglato un patto con la Russia per dirimere le dispute in Persia e Afghanistan, cosa questa che non era piaciuta alla Germania, la quale aveva da lunga data relazioni con la Turchia. Dal canto suo, però, la Germania fin dal 1899 aveva iniziato la costruzione di una ferrovia che andava da Berlino fino a Baghdad e questo aveva fatto storcere il naso agli inglesi. Insomma, ci si divertiva a tirare un po’ troppo la corda da tutte le parti, confidando che la corda fosse in realtà un elastico che difficilmente si sarebbe strappato. Tutto sommato, la pace persisteva e i regnanti godevano di quel periodo prospero, illudendosi che sarebbe durato a lungo. Gli attempati regimi erano duri a morire, eppure l’ottuagenario imperatore aveva subodorato qualcosa di grave quando si era reso conto che il suo erede, l’arciduca Francesco Ferdinando, patteggiava per quei paesi slavi che lui sognava di

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assoggettare da una vita. Già il semplice fatto che l’erede al trono avesse deciso di convolare a nozze morganatiche la diceva lunga, ma l’idea che aveva di far divenire l’Austria-Ungheria un impero a tre, concedendo diritti anche agli stati slavi, faceva preoccupare non poco Francesco Giuseppe I. Suo nipote era un coacervo di sangue reale, così come l’impero che avrebbe ereditato. Nelle sue vene scorreva il sangue di Federico II di Svevia, di Carlomagno, di Carlo V, di Maria Teresa d’Austria, di Filippo di Spagna, di Luigi XII di Francia, di Eleonora d’Aquitania, di Maria Stuarda e altri, compresi gli Este di cui portava il nome e questo macigno di responsabilità gli pesava. Era l’uomo nuovo che con le sue idee progressiste avrebbe potuto fare la differenza e fu a causa di ciò che lo zio imperatore gli aveva fatto solennemente giurare che i figli avuti da quel matrimonio non avrebbero mai campato diritti al trono. E lui aveva giurato, preferendo di gran lunga sposare la donna amata anziché una imposta per ragioni di stato. Il guaio è che Gavrilo Princip e i suoi complici non lo sapevano e quel 28 giugno del 1914 innescarono una bomba ad orologeria che sarebbe sfociata nella Prima Guerra Mondiale. Il 28 giugno 1914 Guglielmo II era a Kiel per l’annuale kermesse di giochi, gare e rappresentazioni e stava lui medesimo gareggiando con il suo yacht, quando gli consegnarono un messaggio urgente: Francesco Ferdinando era stato assassinato a Sarajevo insieme alla moglie, dal diciannovenne Gavrilo Princip, un reazionario anarchico. Il kaiser abbandonò la regata e rientrò immediatamente a Berlino e da quel giorno l’Europa diplomatica rimase con il fiato sospeso in attesa della reazione inevitabile dell’Austria. Era logico supporre che l’imperatore avrebbe dichiarato guerra alla Serbia per punire quell’atto inconsulto, e alleati di una e dell’altra parte rimasero con le orecchie dritte per capire come sarebbero evolute le cose. Ciò nonostante Francesco Giuseppe I, a dispetto dell’assassinio, che riteneva una giusta raddrizzata al timone

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dell’impero da parte di Dio, non pensò a dichiarare guerra come il kaiser si aspettava. Il vecchio imperatore, in realtà, temeva, al pari del primo ministro ungherese, conte Tisza, che una guerra contro la Serbia avrebbe messo in moto un meccanismo più grande di loro, perché la Russia non sarebbe rimasta a guardare. E la Russia era alleata di Francia e Inghilterra e il solo potenziale di uomini che aveva era spaventosamente alto. Guglielmo II, invece, aveva inveito contro i serbi, giungendo a dire che occorreva sistemarli una volta per tutte e soffriva come sui carboni ardenti l’indecisione di Francesco Giuseppe I. Era incline a pensarla come il ministro degli esteri austriaco, conte Berchtold e il capo di stato maggiore austriaco barone Conrad von Hötzendorf, i quali vedevano nell’assassinio l’occasione che attendevano da anni per annettersi la Serbia. Pur tuttavia l’imperatore nicchiava, l’opinione pubblica manifestava violentemente contro lo stato balcanico e le diplomazie avevano il fiato corto a forza di correre per portare notizie lungo tutta l’Europa. A distanza di una settimana dall’assassinio, il kaiser, convinto che l’Austria dovesse dichiarare guerra prima che la Russia si fortificasse, se ne andò in crociera nelle acque norvegesi, certo, in realtà, che non ci sarebbe stato nessun conflitto. E mentre lui si godeva il riposo, a Vienna si lavorava alacremente per decidere il da farsi. La maggioranza dei ministri era favorevole a dare una dimostrazione di forza alla Serbia, mentre il conte Tisza scongiurava l’imperatore di pensarci bene prima di prendere qualsiasi decisione, ventilando l’ipotesi che, di fianco alla Russia, sarebbe scesa in campo anche la Romania. Francesco Giuseppe I nicchiava, consapevole del pericolo e deciso a evitarlo senza perdere la faccia. Allo stesso modo del governo austriaco, anche il resto del mondo era diviso in due, tra coloro che erano convinti non ci sarebbe stata una guerra e coloro che la chiedevano a gran voce. Gli stessi diplomatici, a distanza di tempo dall’assassinio, iniziavano ad aver dubbi sull’intenzione dell’Austria di muovere guerra. In effetti, c’erano da tener

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presenti diversi fattori: la stretta parentela tra regnanti, le economie, le alleanze, la sensazione che nessuno nelle alte sfere avesse intenzioni ostili e, non per ultima, la dichiarazione serba in cui si diceva, prima ancora che tutto accadesse, che la visita dell’arciduca a Sarajevo era poco opportuna visti i tumulti. E soprattutto questa dichiarazione, che Francesco Giuseppe I conosceva, lo lasciava propenso a non prendere nessuna iniziativa, come se si sentisse in colpa per aver concesso al nipote di andare comunque in visita a Sarajevo. Per circa una ventina di giorni l’Europa visse in una sorta di limbo e la gente comune, dopo i primi attimi in cui i cuori avevano palpitato furiosamente, ricominciò a vivere senza più timore dello spettro di una guerra dalle fatali conseguenze. Venti giorni che parvero rispecchiare in piccolo la fatua pace che vigeva dal lontano 1870; venti giorni in cui tutti credevano a tutto e a nulla; venti giorni di febbrile e intenso lavoro diplomatico, con i regnanti che continuavano a scambiarsi lettere affettuose rassicurandosi reciprocamente; venti giorni in cui i militari saggiavano le proprie forze e quelle contrarie, mostrando i muscoli come palestrati.

Venti giorni che fecero la differenza tra il vecchio e il nuovo mondo. Il 19 luglio 1914 il governo di Vienna stilò l’ultimatum, tutti i ministri certi che la Serbia avrebbe respinto le aspre condizioni poste in atto. Ormai aveva vinto la fazione bellicosa e il velo della diplomazia stava per cadere. Il 21 luglio Francesco Giuseppe I, dopo aver letto l’ultimatum, lo autorizzò e due giorni dopo l’intero mondo prendeva atto “del documento più duro che uno stato abbia indirizzato a un altro stato”, come si espresse sir Edward Gray, ministro degli esteri inglese. La Serbia aveva solo ventiquattro ore per rispondere. Per precauzione, il 24 luglio la Russia decise di mobilitare tredici corpi d’armata in gran segreto, solo una parte dell’esercito, mentre il giorno seguente la prima corazzata

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tedesca salpava dal canale di Kiel verso il Mare del Nord. Anche l’Austria aveva iniziato a mobilitare, ma il suo farraginoso meccanismo le avrebbe consentito di giungere a una mobilitazione completa non prima di venti giorni. In parole povere, con la lettura al mondo dell’ultimatum, i paesi si sentirono in dovere di armare, seppure in silenzio, sicuri che l’ultimatum sarebbe stato totalmente respinto e nessuno voleva trovarsi impreparato. Il 25 luglio, vista l’aria che tirava, anche la Serbia mobilitò. Eppure, a grande sorpresa, accettò parte dell’ultimatum, consapevole di mostrarsi, in questo modo, sotto una luce conciliante e rimetteva la disputa sulla clausola più dura di tutte, quella che prevedeva la partecipazione dell’Austria all’inchiesta giudiziaria contro i colpevoli dell’assassinio, al Tribunale Internazionale dell’Aja. L’accettazione remissiva della Serbia lasciò il mondo in sospeso, laddove tutti avevano pensato che solo un miracolo avrebbe potuto bloccare il lento meccanismo messosi in moto. E il miracolo era giunto: l’ultimatum veniva in gran parte accettato e tutti, ora, erano convinti che mostrare le piume come pavoni era solo una prova di forza destinata a rimanere tale. Lo stesso zar, che colse al volo l’occasione per dirimere la cosa in modo pacifico, chiese all’Austria di aprire negoziati con la Serbia, che furono prontamente respinti dal governo. Il 27 luglio, al pari dello zar che auspicava negoziati, Londra tentò di convocare una conferenza delle quattro potenze, Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia allo scopo di trovare una via di uscita diplomatica a quella situazione di prossimo collasso. La Germania, come l’Austria con lo zar, non accettò e il vertice non si fece. Dal canto suo, il kaiser era convinto che la guerra tra Austria e Serbia sarebbe rimasta un conflitto circoscritto ai due paesi belligeranti e riteneva che la Germania non sarebbe mai scesa in campo se l’Austria avesse dato una raddrizzata a quel popolo irrequieto. Ad un amico, poi, aveva confidato che non voleva neppur sentir parlare di guerra, che l’avrebbe evitata in tutti i modi. Ma la condizione era che l’Austria colpisse duramente la Serbia in modo da liquidare la faccenda

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in modo definitivo nel giro di poco tempo. In questo il suo sangue teutonico traspariva a chiare lettere. Di contro, se il kaiser premeva per una spedizione punitiva, la Gran Bretagna premeva per scongiurare tale azione, soprattutto dopo aver saggiato la voglia di entrare in guerra degli austriaci. Il 28 luglio, dopo che ebbe preso visione dell’ultimatum, il kaiser cambiò radicalmente opinione e liquidò la faccenda annotando sul foglio che l’Austria sarebbe stata pazza a muovere guerra dopo aver già moralmente vinto con un simile documento. Ma neppure un’ora dopo che Guglielmo II aveva commentato l’ultimatum, patteggiando per vie più diplomatiche, l’Austria dichiarò guerra alla Serbia, confidando nell’appoggio tedesco. Quel 28 luglio 1914 alle ore 12, a un mese esatto dall’assassinio di Sarajevo, il mondo conosciuto fino allora cessò di esistere, sebbene nessuno in quel momento colse la portata di quella svolta epocale. La conseguenza fu che la marina inglese mobilitò per occupare posizioni strategiche nel Mare del Nord, onde trovarsi in buona posizione qualora la Germania avesse deciso di scendere in guerra al fianco dell’alleato austriaco. Si parava le spalle, per così dire, nonostante i moniti del ministro della marina inglese, sir Winston Churchill. La Germania storse il naso, ma Giorgio V aveva espressamente dichiarato al cugino tedesco che la Gran Bretagna sarebbe rimasta neutrale, anche perché nessuno in Inghilterra capiva la smania di scendere in campo per colpa della Serbia. E questa rassicurazione al kaiser fu sufficiente, perché credeva ciecamente nella parola data da un re. Dalla fredda Russia, intanto, giungevano dispacci dove si veniva a sapere che lo zar aveva mobilitato in parte, appena sei milioni di uomini, e li aveva mandati lungo la frontiera con l’Austria, senza dichiarare guerra, bensì solo a scopo precauzionale. La richiesta dei ministri di mobilitazione generale era stata rifiutata da Nicola II, il quale sperava ancora di evitare il conflitto. Assieme alla Francia, premeva sulla traballante Gran Bretagna, affinché dichiarasse che, se la Germania avesse attaccato la Francia come tutti sospettavano, sarebbe stata costretta a scendere in campo al

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fianco dell’alleata. Al coro si era unita anche l’Italia, sostenendo che tale dichiarazione avrebbe evitato una guerra di proporzioni immani; tuttavia la Gran Bretagna nicchiava, si crogiolava nella sua rinomata flemma e preferiva rimanere a guardare. La Germania di Guglielmo II, dal canto suo, invitava la Gran Bretagna di Giorgio V a rimanere neutrale, promettendo come contropartita che non avrebbe sottratto territori alla Francia, se non alle colonie. E già questo, di per sé, la diceva lunga. Nel frattempo lo zar e il kaiser si scambiavano telegrammi nei quali ognuno asseriva di voler a tutti i costi impedire una guerra che andasse oltre le due belligeranti e, nel loro intimo, erano sicuri di riuscire a non espandere il pericolo, soprattutto Nicola II. Il kaiser, allora, consapevole dell’assurdità di una guerra, si fece promotore di un’intesa tra Austria e Russia per evitare una catastrofe mondiale e sull’onda di quella mano tesa lo zar intimò ai propri generali di bloccare la mobilitazione parziale. Purtroppo per lui, il meccanismo era ormai in moto in tutto il vasto impero e fermarlo per tempo sarebbe stato impossibile. Al che lo zar telegrafò nuovamente al kaiser, sollecitandolo a intervenire il prima possibile presso l’Austria affinché intraprendesse i negoziati. Ma l’Austria fece orecchie da mercante e neppure il kaiser, per quanto si affannasse, riuscì a trattenere la mobilitazione indetta dal proprio stato maggiore per contrapporsi a quella russa. Appena a San Pietroburgo giunse la notizia che la Germania aveva mobilitato, i ministri convinsero lo zar a firmare la tanto agognata mobilitazione generale. Era il 30 luglio 1914. Appena due giorni prima l’Austria aveva dichiarato guerra alla Serbia e già il terzo stato, la Russia, era stato risucchiato nel vortice senza neppure rendersene conto, con la scusa di dover scendere in campo per dare appoggio alla protetta Serbia. L’Austria mobilitò contro la Russia il giorno dopo e la Germania si vide costretta a mandare un ultimatum alla Russia, ordinandole di sospendere le misure belliche contro la sua alleata. San Pietroburgo respinse la richiesta. A quel punto, visto il precipitare della situazione, Berlino, per timore di un doppio fronte, chiese a Parigi di rimanere neutrale, ma la Francia, alleata della Russia sin dal 1894,

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rispose picche e chiamò subito alle armi i propri uomini. I francesi corsero a frotte, felici di credere di scendere in campo per solidarietà tra classi lavoratrici, così come il socialismo predicava da un decennio. Erano ignari, al pari di tutti i soldati di altre parti schierate, di intraprendere un viaggio senza ritorno, un viaggio che avrebbe avuto come meta la trincea e la terra di nessuno. Per impedire il pericolo di sempre, Alfred von Schlieffen, capo di stato maggiore tedesco fino al 1905, aveva a suo tempo elaborato un piano che prevedeva la disfatta della Francia ad ovest per poter lasciare via libera alla Germania verso est. Questo piano attendeva l’invasione del Belgio per poter entrare in Francia e far capitolare Parigi, in modo da liquidare la faccenda in pochi giorni. La Gran Bretagna, subodorando qualcosa, chiese a Francia e Germania di rispettare la neutralità del Belgio, ma alla pronta accettazione della prima fece eco un assordante silenzio della seconda. Il 1 agosto 1914 la Germania dichiarò guerra alla Russia. Eppure, quel medesimo giorno, Giorgio V aveva telegrafato al cugino Nicola II per cercare di impedire un massacro senza fine e lo zar era propenso a ogni trattativa, ben sapendo che il suo popolo, checché se ne dicesse in giro, non era in grado di sostenere uno sforzo bellico. La Russia era ampia e colma di uomini, ciò nonostante del tutto impreparata a una belligeranza. L’arrivo della dichiarazione di guerra della Germania lasciò nello sconforto e nella disperazione il mite zar. Appena due giorni dopo, per coprirsi le spalle, la Germania dichiarò guerra alla Francia e subito le truppe tedesche, infischiandosene della neutralità, invasero il Belgio, come prevedeva il piano Schlieffen. Quella mossa costrinse la Gran Bretagna a dichiarare guerra alla Germania e, come disse l’ammiraglio tedesco Tirpiz in un attimo di sconforto, “tutto è perduto”. Era il 4 agosto 1914.

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L’escalation, costretto dalle alleanze intrecciate, fu come una valanga, un effetto domino a cui nessuno poté sfuggire. Nel giro di pochi giorni, facendosi beffe della diplomazia e dei desideri dei coronati, i parlamentari e i ministri innescarono una reazione a catena che condusse il mondo sul baratro, spazzò via un’intera generazione di vite senza risolvere niente e senza che i posteri imparassero nulla, altrimenti non ci sarebbe stata una Seconda Guerra Mondiale a soli vent’anni di distanza dalla prima. Quel 28 giugno 1914, Gavrilo Princip non lo sapeva ma avrebbe, con un colpo di pistola, cambiato la faccia e i destini del mondo intero.

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