Memorie Inutili - Carlo Gozzi (Venezia, 13 dicembre 1720 – Venezia, 4 aprile 1806)

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CARLO GOZZI MEMORIE INUTILI LIBERTÀ EGUAGLIANZA CARLO GOZZI A' SUOI CONCITTADINI FRATELLI. Io fo pubblicare colla stampa un libro intitolato Memorie inutili della vita di Carlo Gozzi, scritte da lui medesimo, e da lui pubblicate per umiltà. Cotesto libr o da me cominciato a scrivere l'ultimo giorno d'aprile dell'anno 1780, condotto a fine nell'anno stesso, e che contiene il corso de' non considerabili avvenimen ti relativi alla mia vita, dalla mia infanzia sino all'anno sopra accennato, fu costretto dalla violenza a rimanere inedito e imprigionato sino al tempo present e. Nella dedicatoria ch'io fo di quel mio libro agli amati miei concittadini, dirò lo ro qualche cosa più delle violenze e delle sopraffazioni, che ho dovuto soffrire d a parecchi, un tempo detti Grandi, sopra alcuni casi che stanno nelle mie Memori e, e lo dirò loro soltanto per farli ridere, se mi riesce, come fecero rider me, p er quell'istinto che Dio m'ha voluto donare, imperturbabile, indifferente e semp re risibile sugli eventi a' quali va soggetta l'umanità. Sembrerà impossibile che, scrivend'io le inutili e frivole memorie della mia vita l'anno 1780, sia giunto ad empiere due tomi d'un volume palpabilissimo. Più rifles sioni da non curare, che accidenti da leggere volentieri, accrebbero la mole. Qu e' due tomi sono pieni d'inezie opportunissime a far sbavigliare e dormire color o che patiscono delle vigilie, ma io li pubblico per umiltà. Sono scritti divisi in capitoli facetamente e comicamente al possibile, perch'io  non mi sono mai giudicato persona seria e d'importanza. Non mi costrinsi a proc curare di scriverli coll'esattezza, col sapore e colle grazie della nostra lingu a, un giorno tanto in pregio e ridotta ornai un bastardume da non poter più legitt imarla. Il miglior capitale che contenga il mio libro è una candida verità, la qual verità può accrescere in me, per avventura, argomento d'umiliazione per il giudizio degli uomini inclinati alle cose sublimi. Scrissi soltanto le memorie della mia vita, delle mie debolezze e degli errori miei, che furono molti, perch'io non sc rivo le memorie della vita, delle debolezze e degli errori altrui, che non so qu anti sieno, salvo ciò ch'ebbe con me relazione. Siccome dall'anno 1780 Dio m'ha lasciata la respirazione sino all'anno 1797 in c ui siamo, abborrend'io l'ozio, mi intrattenni scrivendo anche un terzo tomo, nel  quale, oltre alle memorie della mia vita posteriori a quelle de' due primi tomi , inserisco la mia romorosa commedia intitolata Le droghe d'amore, che io realme nte trassi da una commedia di Tirso de Molina scrittore spagnuolo, intitolata Ce los con celos se curan, riducendola io ad uso de' nostri teatri, insin dal dicem bre 1775. Infelice commedia per sé, ma fatta romorosa dalle altrui mal suscitate c ollere, dalle altrui fanciullesche sospettose imprudenze, dalla altrui cecità, da'  malnati altrui maligni sopraffattori puntigli e maligne vendette, e dalla altru i esosa venalità; le quali cose si leggeranno, da chi vorrà leggerle, in tutta la lo ro estensione, con tutti gli aneddoti non ancora palesi e tutta la ingenuità, nel secondo tomo delle mie insulse Memorie. Non si troveranno nell'opera mia, né tratti d'un livore che non ho mai avuto, né tur pi ritratti, né vocaboli infamatori. Arrossirei se avessi lordati i miei fogli con  simili brutture e laidezze, le quali dinotano un disperato d'animo, ebbro d'ira , ineducato, vendicativo, basso e feccioso, in chi ha, non solo la brutalità di sc riverli, ma anche quella di farli stampare e pubblicare a mente fredda e serena. Qual uomo di senno potrà negarmi che ci sieno dei mortali di talento e d'onore, ma  dominati dalla voluttà, da un cieco amor proprio e da una gigantesca presunzione ch'hanno concepita di lor medesimi, i quali per non sapere o non volere uniforma rsi a' sistemi di vivere del paese loro, né bilanciarsi col proprio stato, né con le  condizioni tiranniche nelle quali è posta talora la misera umanità dove nacquero, né con la forza a cui devono star soggetti, massime se aspirano a de' luminosi o lu crosi uffizi, combattuti e incalzati, possano farsi un grosso numero di nimici a

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Carlo Gozzi (Venezia, 13 dicembre 1720 – Venezia, 4 aprile 1806)

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CARLO GOZZI

MEMORIE INUTILI

LIBERTÀ EGUAGLIANZACARLO GOZZI

A' SUOI CONCITTADINI FRATELLI.Io fo pubblicare colla stampa un libro intitolato Memorie inutili della vita diCarlo Gozzi, scritte da lui medesimo, e da lui pubblicate per umiltà. Cotesto libro da me cominciato a scrivere l'ultimo giorno d'aprile dell'anno 1780, condottoa fine nell'anno stesso, e che contiene il corso de' non considerabili avvenimenti relativi alla mia vita, dalla mia infanzia sino all'anno sopra accennato, fucostretto dalla violenza a rimanere inedito e imprigionato sino al tempo presente.Nella dedicatoria ch'io fo di quel mio libro agli amati miei concittadini, dirò loro qualche cosa più delle violenze e delle sopraffazioni, che ho dovuto soffrire da parecchi, un tempo detti Grandi, sopra alcuni casi che stanno nelle mie Memorie, e lo dirò loro soltanto per farli ridere, se mi riesce, come fecero rider me, p

er quell'istinto che Dio m'ha voluto donare, imperturbabile, indifferente e sempre risibile sugli eventi a' quali va soggetta l'umanità.Sembrerà impossibile che, scrivend'io le inutili e frivole memorie della mia vital'anno 1780, sia giunto ad empiere due tomi d'un volume palpabilissimo. Più riflessioni da non curare, che accidenti da leggere volentieri, accrebbero la mole. Que' due tomi sono pieni d'inezie opportunissime a far sbavigliare e dormire coloro che patiscono delle vigilie, ma io li pubblico per umiltà.Sono scritti divisi in capitoli facetamente e comicamente al possibile, perch'io non mi sono mai giudicato persona seria e d'importanza. Non mi costrinsi a proccurare di scriverli coll'esattezza, col sapore e colle grazie della nostra lingua, un giorno tanto in pregio e ridotta ornai un bastardume da non poter più legittimarla. Il miglior capitale che contenga il mio libro è una candida verità, la qualverità può accrescere in me, per avventura, argomento d'umiliazione per il giudizio

degli uomini inclinati alle cose sublimi. Scrissi soltanto le memorie della miavita, delle mie debolezze e degli errori miei, che furono molti, perch'io non scrivo le memorie della vita, delle debolezze e degli errori altrui, che non so quanti sieno, salvo ciò ch'ebbe con me relazione.Siccome dall'anno 1780 Dio m'ha lasciata la respirazione sino all'anno 1797 in cui siamo, abborrend'io l'ozio, mi intrattenni scrivendo anche un terzo tomo, nel quale, oltre alle memorie della mia vita posteriori a quelle de' due primi tomi, inserisco la mia romorosa commedia intitolata Le droghe d'amore, che io realmente trassi da una commedia di Tirso de Molina scrittore spagnuolo, intitolata Celos con celos se curan, riducendola io ad uso de' nostri teatri, insin dal dicembre 1775. Infelice commedia per sé, ma fatta romorosa dalle altrui mal suscitate collere, dalle altrui fanciullesche sospettose imprudenze, dalla altrui cecità, da'

 malnati altrui maligni sopraffattori puntigli e maligne vendette, e dalla altrui esosa venalità; le quali cose si leggeranno, da chi vorrà leggerle, in tutta la loro estensione, con tutti gli aneddoti non ancora palesi e tutta la ingenuità, nelsecondo tomo delle mie insulse Memorie.Non si troveranno nell'opera mia, né tratti d'un livore che non ho mai avuto, né turpi ritratti, né vocaboli infamatori. Arrossirei se avessi lordati i miei fogli con simili brutture e laidezze, le quali dinotano un disperato d'animo, ebbro d'ira, ineducato, vendicativo, basso e feccioso, in chi ha, non solo la brutalità di scriverli, ma anche quella di farli stampare e pubblicare a mente fredda e serena.Qual uomo di senno potrà negarmi che ci sieno dei mortali di talento e d'onore, ma dominati dalla voluttà, da un cieco amor proprio e da una gigantesca presunzionech'hanno concepita di lor medesimi, i quali per non sapere o non volere uniformarsi a' sistemi di vivere del paese loro, né bilanciarsi col proprio stato, né con le

 condizioni tiranniche nelle quali è posta talora la misera umanità dove nacquero, nécon la forza a cui devono star soggetti, massime se aspirano a de' luminosi o lucrosi uffizi, combattuti e incalzati, possano farsi un grosso numero di nimici a

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nche ingiusti e ordirsi un turbine di sciagure da lor medesimi senza avvedersi?Tali uomini, niente filosofi, e da essere compianti nell'indole loro, vedono sempre gli oggetti delle loro sventure fuori da loro medesimi, e si tessono grado grado, per temperamento, tante avversità, che con dolore de' loro ottimi consanguinei e de' sensibili lor patrioti, gl'inducono a odiar la patria, a fuggire disperati, bestemmiando; e si può dire di questi, in Venezia, ciò che disse un giorno Boelòa Parigi:

 Mais le jour qu'il partit, plus défait et plus blêmeque n'est un pénitent sur la fin da carême,la colère dans l'ame et le feu dans les yeux,il distilla sa rage en ces tristes adieux.Miserabile quel scrittore che nel giustificarsi non vede in sé che meriti e argomenti da panegirici; trova in un esercito di persone oggetti, in suo confronto, da condannare e satireggiare, e crede di poter intitolare apologie de' libelli.Ho sempre compiante le crudeli sciagure sofferte, e in vero sofferte in parte con ingiustizia, dall'autore del libro stampato in Stockholm l'anno 1779, e sparso per le famiglie di Venezia l'anno 1780; libro giudicato esecrando da' possentiingiusti oppressori ingiuriati, e libro che da quelli si volle affogato nella dimenticanza e nella obblivione, come scandaloso e sacrilego, con un mal impiegato

 e mal comandato silenzio.Le vertigini dell'acceso cervello orgoglioso di quel scrittore iracondo per de'puerili falsi principi contro un'innocente opera scenica e contro me, non hannomai concesso di fargli comprendere la verità, ch'egli per le sue guercie imprudenze e per un'orba sua credulità, ed io per una dabbenaggine ed una semplice condiscendenza, fummo ambidue vittime della sopraffazione, del puntiglio, della forza, del mal talento, e del capriccio de' suoi, e non miei, possenti nimici. Quella forza medesima ch'ebbe l'inumano divertimento di sacrificar lui e me, tenne ancheferma la mia volontà di smentirlo e convincerlo di mendacio, come avrei fatto senza indugio con delle prove innegabili, e di farlo ritrattare di quanto egli scrisse di menzognero e calunnioso rapporto a me solo, siccome egli s'è impegnato, onestamente o furbescamente, di fare, se lo convincessi, nella pagina cinquantadue della stampa di Stockholm 1779 e nella pagina centotrentuna della ristampa fatta

in Venezia in quest'anno 1797 di quel suo libro, composto di millanterie, di senapismi, non meno che di sofismi e di papaveri.I miei concittadini rileveranno nella dedicatoria, che io fo loro delle mie scipite Memorie e della mia cattiva commedia, la violenta costrizione a cui ho dovuto più volte inchinarmi e abbassare il capo, tacendo e ridendo filosoficamente, per non aver voglia di staccarmi da' miei congiunti, da' miei amici, né d'abbandonare la patria in cui nacqui, e nel grembo della quale voglio morire senza chiedereuffizi, senza pretese di grandeggiare, senza inquietarmi e senza odiare nessuno. Se non ho meriti di conseguenza verso la mia patria, averò certamente quello di averla amata, d'averla intrattenuta lecitamente e di non averla disturbata giammai.Sperava di potermi appropriare il lieve merito d'aver sostenuto in essa con la mia penna, per quanto ho potuto, una morale ch'io credo sana, ma lo scrittore del nord, da me commiserato nella sua stoltezza, procelloso, furente e stizzito, co' propositi che si leggeranno nelle mie Memorie, ha proccurato di guastare anche questo picciolo merito ch'io mi lusingava d'avere, abbaiando e ululando a tutto l'universo ch'io sono un falso filosofo, un ipocrita, un impostore, un caupone, e quelle altre delizie che si leggono nella soavità del suo inchiostro educato. Mi rincresce di sapere fondatamente che l'arte di tutti coloro, i quali scrivonoper levar degli ostacoli allo sfogo delle loro passioni viziose, è non solo quella di seminare nelle famiglie una morale a rovescio con de' spiritosi sofismi, maprincipalmente quella di dare alla radice e di screditare con tutto lo sforzo loro i fedeli sostenitori della morale più sana e più utile. Siamo però tutti uomini soggetti ad errare, ed io non ho mai ostentato di farmi considerare qual filosofo,e come lo scrittore del settentrione ha cercato di dipingermi col suo fantastico

, rabbioso, sgorbiatore pennello; e s'egli ebbe la cortesia di citare qualche mio verso con un suo bistorto proposito, riguardo a me, non avrebbe dovuto ommettere quest'altro, che contiene una mia proposizione, che fu tante volte pronunziat

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o ne' teatri, e si legge pubblicato a stampa nelle capricciose opere mie teatrali:Filosofia v'è ben, ma non filosofo.L'error pernicioso non istà negli errori remissibili all'umana fragilità, ma consiste nel far divenire l'errore virtù e la virtù errore nella testa degli uomini e delle femmine, dal vizio ingegnoso, eloquente ed industre mascherato da filosofia, enel portare in trionfo il vessillo d'una tale animalesca vittoria. Si troverà molt

o da leggere, spezialmente nel secondo tomo delle mie Memorie, in su questo argomento, ch'io credo, e dovrebbe essere creduto da tutti, d'una terribile conseguenza sulle popolazioni.Nella saggia ed ottima libertà data alle stampe in questi beati giorni di ristabilita democrazia, tra le molte cose sane, istruttive e lodevoli che questa provvida libertà mette sotto le nostre riflessioni, non so tuttavia negare che l'avidità d'un inonesto mercimonio o della affamata indigenza" dei nostri librai, non abusidi cotesta amabilissima libertà, colla sbrigliata furibonda pubblicazione di infinite sciocchezze, che scoprono una verminosa e fetente piaga di ineducazione e fanno vergogna alla nazion nostra; e di molte inopportune arditezze, che amareggiano e irritano degli animi dissimili dall'animo mio, e contrarie a quella pace ea quella buona armonia ch'io sono certo che chi presiede al Governo brama di col

tivare per la perfetta universale fratellanza e cordialità che si vuol stabilita e consolidata.Il libro uscito da Stockholm l'anno 1779, ch'io m'era dimenticato, senza scordarmi le ingiuste sopraffazioni che oppressero il commiserabile autore di quello, e libro risuscitato da non so quante liberali stamperie di Venezia in quest'anno1797, contiene moltissime verità, ed è peccato che il cruccio e il veleno che acciecano, più che una filosofica calma, l'abbiano dettato. Devo però altamente protestare che quanto contiene quel libro contro di me non è che uno sfogo menzognero suggerito dalle false immagini che lo scrittore s'è formato di me senza conoscermi punto, come proverò ad evidenza; delle infantate supposizioni, che pertinacemente volle alimentare nella di lui sconnessa e rovente fantasia, e una rabbiosa da lui sperata vendetta contro di me d'una sciagura, che da se medesimo s'era tessuta conindustria particolare.

La novella stampa fatta in Venezia di quel libro in quest'anno, che ha rinverdite delle fastidiose dicerie popolari in cosa ch'io giudicava dimenticata, m'obbliga finalmente a pubblicare le Memorie della mia vita sinora tenute inedite dalla violenza. Nel secondo tomo di quelle si leggerà, tra la serie de' miei avvenimenti, per incidenza, estesamente e in una ingenua e chiara verità innegabile, avvolorata da que' testimoni impuntabili che avrò nominati, che Io scrittore di quel libro ebbe fracido torto in quanto il tosco del suo infiammato cervello l'ha indotto a contaminare una quarta parte delle sue pagine di lorde invettive e d'asserzioni mendaci contro me.S'egli avesse confessate nel suo libro le intrinseche vere cagioni che Io ridussero allo strettoio della disperazione, si troverebbe che le cause delle sue infelicità furono ben altro che una cattiva commedia da lui fatta divenire una satirapersonale, e da lui querelata, lacerando, per quanto ha potuto, con una vaneggiatrice biliosa empietà l'onore dello scrittore di quella. Rimetto il giudizio a' lettori delle mie mansuete veraci memorie. Mi lusingo d'essere conosciuto dalla maggior parte de' miei concittadini, di lineamenti diversi affatto da quelli co' quali il cruccio indecente e bugiardo s'è incagnato a voler disegnare il caratteremio, invaghito di fare una vendetta d'un'offesa ch'io non mi sono giammai nemmen sognato di fare.Tuttavia, siccome non sono conosciuto da tutto quel mondo in cui egli ha fatto piovere il suo libro vendicativo, e siccome io non ho la facoltà di guarire dalla indiscretezza, dalla ignoranza, dalla malignità, né quella di infondere un giusto criterio in tutti i mortali, potrebbe darsi che nella mente di alcuni di questi prendesse vigore a torto quel materiale volgare proverbio "chi tace conferma". È soltanto per ciò, che, valendomi d'una benefica libertà data alla stampa, levo anch'io d

al suo sepolcro dove giaceva da diciassett'anni il mio manoscritto, di cui forse avrei fatto unicamente un assai magro legato nel mio testamento, e lo fo uscire da' torchi al pubblico.

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Nella letargica taciturnità della mia lingua, non patirono però letargo giammai, né il mio guardo, né il mio udito, né la mia mente, e meno di quelli la penna mia.Credo d'avere un picciolo numero di nimici, i quali si prendano la briga d'essermi nimici senza sapere il perché. Per gli accurati e rigidi esami e processi ch'io fo con frequenza a me medesimo, devo confessare di non comprendere cotesto perché nemmen'io. Al picciolo numero de' miei nimici, se però è vero ch'io gli abbia, nonpotrei che replicar loro un detto di Dante antico. Un mulattiere cantava de' ver

si di Dante, storpiandoli. Dante lo pregò dolcemente a non diformare i suoi versi. Quel brutale per tutta risposta gli fece in faccia parecchie fiche. La brigatella d'amici ch'era d'intorno a Dante gli chiedeva perché sofferisse quella ingiuria e lo stimolava a punire colui. Dante, volgendosi agli amici suoi, con una calma e una freddezza indicibile, rispose loro: - Non darei una delle mie fiche per cento delle sue. - Io non possiedo le doti di quel poeta filosofo immortale, ma tengo un poco della di lui natura.Salute e fratellanza.Stampato dal CITTADINO PALESE, li 13 mietitore, anno I della Libertà Italiana. Registrato a sola salvezza della proprietà.A' SUOI AMATI CONCITTADINICARLO GOZZI.

Sparsa la voce che Pietro Antonio Gratarol, fu secretarlo dell'ora ex-senato diVenezia, era fuggito, giudicai placidamente ch'egli fosse fuggito per non poterpiù star fermo. M'increbbe la di lui fuga, e per i suoi congiunti e per lui, e perché sapeva da quali funeste conseguenze, fuggendo egli dall'uffizio che sosteneva, sarebbe stato fulminato dall'ex-governo.Le persone ch'hanno il diletto, ch'io non ebbi mai, di leggere tutte le gazzette del mondo, trovarono in una gazzetta forestiera che Pietro Antonio enunziava di star scrivendo un suo libro intitolato Narrazione apologetica, e minacciava che l'avrebbe fatto comparire tra noi.Venezia è la vera sede della curiosità, ed attendeva con una gran avidità quel fenomeno. Chi diceva: Il Gratarol fa bene. Chi diceva: Il Gratarol fa male. Io non diceva ch'egli facesse né bene né male, e considerava soltanto che ognuno è padrone dellasua carta, delle sue penne e del suo inchiostro.

Comparve finalmente quel libro cometa da Stockholm, uscito dalle stampe del cavalier Fougt, e fu donato con secretezza da' fautori di Pietro Antonio a molte famiglie della nostra patria, le quali se lo prestavano l'una all'altra colle ditaalla bocca ordinando silenzio. Alcuni decantavano quel libro scritto con una penna dell'ala dritta dell'angelo Gabriele. Alcuni altri sostenevano ch'egli era scritto con una penna dell'ala sinistra di Belzebù. Io ero certissimo ch'egli era scritto con una penna di pollo d'India o con una penna d'oca. Si narrava che in quel libro molte dame e molti signori de' più cospiqui, massime di quelli che presiedevano allora al governo, erano dipinti co' più neri colori del libello. Il mormorio era sordo, perché ognuno aveva di quelle paure che oggi non s'hanno più. Mi si diceva all'orecchio ch'io ero trattato in quel libro da falso filosofo, da ipocrita, da malvagio, e con altri deliziosi epiteti dell'urbanità dello scrittore, per que' propositi che si leggeranno nelle memorie della mia vita.Io non alterava punto il mio istinto risibile, perdonava ad un cervello roventee disperato, e quasi lo ringraziava ch'egli m'avesse posto nel ruolo di tante gran signore e di tanti gran signori. Mi si esibiva il libro da leggere, stimolandomi a rispondere. Io ricusai per alcuni mesi una tale lettura, perché non vado intraccia giammai di cimentare la mia umanità a concepire dell'odio, e perché veramente commiserava nel mio interno il povero Pietro Antonio, qualunque fosse la causa vera della sua disperazione, emigrazione e delle sue afflittive sciagure.Finalmente un giorno trovai sul mio scrittorio quel libro gemma. Chiesi chi l'avesse recato. Mi fu risposto che una bella signora, la quale non aveva voluto palesare il suo nome, mi faceva quel regalo. Non volli far torto al dono d'una bella signora, e mi costrinsi a leggere la Narrazione apologetica.Quantunque molti tratti di quel libro rabbioso dovessero tenermi risvegliato, ce

rcai del soccorso in una infinità di tabacco ed in molti caffè, per non addormentarmi sulla lettura e per giugnere all'ultima pagina. Passando sopravvia ad alcune narrazioni, accuse e invettive contenute e scagliate da quel volume per lacerare

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la riputazione di parecchi personaggi, in quel tempo tremendi, per delle ragioni che per avventura aveva l'infelice emigrato, ma ragioni che, o di consimili o di poco differenti da quelle, avevano molti altri meno di lui superbi e più di luisaggi e sofferenti, sarei passato sopravvia anche alle narrazioni, accuse e invettive libellatrici, ch'egli s'è ricreato a scrivere contro me, se non le avessi vedute appoggiate a delle solenni menzogne.Un pensièro che coteste menzogne potessero esser credute verità e cagionare qualche

mala impressione, a discapito del mio carattere, sugli animi di coloro che non mi conoscono, s'io le lasciassi correre tacendo, m'indusse a voler rintuzzare lamenzogna e a porre in chiarezza ia verità, soltanto però riguardo a me solo, con delle prove di fatto, in una operetta gioviale che mi recai tosto a comporre.M'ingannava a creder lecita l'opera mia. Il mio determinato disegno non potè rimanere occulto. Fui chiamato da una persona, che doveva impormi, la quale mi dissecon gravità: - Io so che scrivete contro quell'esecrabile libro del Gratarol. Nonsi deve tener viva per nessun modo la memoria di quella nefandità con risposte e confutazioni. Ella deve morire da se medesima e seppellirsi nella obblivione.- Mi perdoni - rispos'io chinando il capo: -quel libro, creduto proibito, diverràanzi ricercato maggiormente. Se ne faranno delle replicate edizioni nelle estere stamperie per mercimonio, perché questo è il destino de' libri proscritti. Giudiche

rei miglior consiglio il far ricamare quel libro di vibrate, saporite, laconiche annotazioni. Farei stampare di quello un numero grande d'esemplari in Venezia,dinotando superiorità e franchezza d'animo. Comanderei che fosse venduto pubblicamente da' nostri librai al prezzo di soli cinque soldi per esemplare. Questo, alparer mio, sarebbe il miglior partito per strozzare la curiosità e per far caderequel libro nell'avvilimento e nella dimenticanza. Io, per altro, non fo che un picciolo opuscolo scherzevole che riguarda a me solo, per smentire delle bugiarde asserzioni e per ributtare de' titoli, che nulla hanno che fare con me, di impostore, d'ipocrita, di malvagio, di caupone, ecc., de' quali quel disperato scrittore ha voluto onorarmi.La persona rispettabile si eresse con maggior serietà dicendomi: - Sono tanti i personaggi illustri e maggiori di voi lacerati in quel libro temerario, i quali sorpassano, che dovete sorpassare anche voi. È stabilito e fissato dalla maturità che

non sia scritta linea in quest'argomento. Siete avvertito. Siate prudente.L'ordine mi parve tiranno, ma siccome io non voleva t abbandonare né la patria, né i parenti, né gli amici per andare a Stockholm a far porre alle stampe il mio opuscolo dal cavalier Fougt, mi raccomandai alle mie solite risa, lacerai i miei fogli, e usai quella prudenza ehe usavano i personaggi illustri.Nulla ostante però alla politica austerità minaccievole usata verso la mia penna obbediente, si vide sbucare un libretto scritto in Milano a' dì 16 d'aprile dell'anno 1780 e stampato tra i Svizzeri, intitolato Riflessioni d'un imparziale sopra la "Narrazione apologetica" di Pietro Antonio Gratarol.Io mi sono sforzato a non voler credere che quel libro sia stato proccurato da alcuni de' personaggi illustri i quali avevano fissato politicamente e filosoficamente di sorpassare in silenzio le sanguinose ingiurie grataroliane, quantunquealcuni elogi, poeticamente caricati in quel libro, mi facessero sospettare che ciò fosse. Egli mi fu mandato per alcuni momenti, forse per farmi leggere degli elogi che quell'opuscolo conteneva anche per me. Ringraziai col cuore l'"Imparziale", ma rifiutai quegli elogi, prima perché io non li meritava, poscia perché erano tanto gravi, che dinotavano non avere lo scrittore alcuna cognizione del mio intrinseco carattere niente grave.L'"Imparziale" non era informato de' veri aneddoti a me relativi. Il suo libro era una confutazione riflessiva, non sprezzabile, ma mancante di calore, e soprattutto mancante affatto della grand'arte di farsi leggere, mancanza fatale nell'argomento di cui si trattava. Fu deciso dal nostro universale, che non si prendeincomodo d'occupar molto l'applicazione, che quell'opuscolo era una sciocchezzailleggibile, e fu condannato al gran buio della dimenticanza.Questa condanna non aveva a far nulla con me. Pure chi avrebbe creduto che il no

stro intelligente universale, salvi pochi intelligenti, si determinasse a giudicare con pienezza di voti e con perfetta credenza, ch'io fossi l'autore di quell'opuscolo battezzato con nome d'insigne sciocchezza? - Buono ! - diss' io: - oltr

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e ad un menzognero libello, e a' titoli d'ipocrita, d'impostore, di malvagio, ecc., vengo illustrato dall'opinione presso che generale de' miei patrioti anche con quello di scrittor sciocco?Volli allora pubblicare un lepido, calzante, solenne manifesto, per guarire le menti dalla cieca credenza adottata, facendo intendere altamente ch'io non avevascritto il libro dell'"Imparziale" per levarmi d'addosso ed espurgarmi almeno dell'epiteto di scioccone.

Siccome aveva io letto a qualche mio amico il frizzante ed efficace manifesto, sparsa la voce, non so come, del mio apparecchio, fui chiamato dalla solita persona da temersi, con ordine di portar meco il mio scritto. V'andai. Le presentai da leggere l'opuscoletto. Lo lesse facendo di quando in quando la bocca ridente.Sperai di non trovare opposizione violente. M'ingannava. Al termine della lettura mi fu intuonato, con un sussiego da dar soggezione: - Trattengo appresso di me questi vostri fogli, perché non possiate darli alle stampe e pubblicarli.Addussi tutte le mie lecite, buone e belle ragioni, spezialmente sulla credenzaestesa che il libro pubblicato dall'"Imparziale" fosse mio parto. Furono parolegettate. Mi si rispose che in Venezia non si doveva stampar nulla che risvegliasse la memoria dell'orribile libro del Gratarol, e ch'io dovessi usare la prudenza e il giudizio.

Il Gratarol avrebbe date delle pugna all'aria ad una tale sopraffazione. Le risa di Democrito vennero in mio soccorso, e, per non imitare le di lui furie, soffersi taciturno pazientemente dall'opinione de' poco intelligenti anche il titolodi scioccone.Ma perché il libro dell'"Imparziale" non fece altro effetto che quello di far eruttare il Vesuvio del bilioso Gratarol, si vide ben tosto comparire una novella edizione della giudicata sacrilega opera sua, con un'aggiunta d'annotazioni che mettevano in chiarezza i nomi e le persone verso le quali egli aveva scoccate le sue velenose saette. Per tal modo la rigida, matura massima stabilita da' saggi,di non risvegliare memoria colle stampe di quel libro, aveva l'intento che s'è veduto.De' sopiattoni librai, e non librai, inondarono Venezia di quel libello, facendo un traffico opulentissimo, celatamente, d'un'opera che, per dire il vero, non a

veva altro merito che quello d'un'arrischiata temerità né altro rilievo che quello della proibizione che la voleva affogata. Io aveva preveduto e predetto questo avvenimento, e perciò non maravigliai; ma siccome vidi inconcusse e replicate alla perpetua memoria degli uomini, delle menzogne che potevano rannuvolare l'onor mio, sopra il quale, per paterna eredità di natura, sono veramente sensibile e non molto moderno filosofo, mi posi ascrivere i frivoli accidenti del corso della miavita, dall'età mia puerile sino all'anno 1780, a solo fine di poter anche narrareper incidenza e pubblicare in una purissima verità l'avvenutomi col stravagante ebalzano cervello del Gratarol nell'occasione della mia commedia Le droghe d'amore, onde porre a confronto, e sempre relativamente a me solo, la candida verità, colla sordida menzognera calunnia immaginata da un uomo ch'io sempre compiansi nelle sue vere sciagure non meritate, e a torto cruccioso verso di me, e con me irragionevole, pertinace e inflessibile.Sperai d'esser padrone di poter dare al pubblico il quadro de' non considerabili accidenti della mia vita, i quali non potevano far altro effetto che quello d'annoiare de' lettori e d'umiliar me medesimo, ed io m'assoggettava volentieri a questo misero effetto, per non lasciai vive e credibili col mio silenzio delle bugiarde diffa matorie mordacità a me dirette. Prendeva uno sbaglio anche nella lusinga di questa mia padronanza. Il mio divisamento innocente non potè star celato, e mi fu suonato di nuovo che dal ravvivare discorsi sul libro del Gratarol, Dio mi guardasse. Beato risibile istinto mio ! Posi a dormire in un sonno profondo, tra i miei scartafacci scordati, due grossi volumi ch'io aveva scritti, perché volli star desto io sopra a quel "Dio mi guardasse dal pubblicarli".Se un'ampia libertà data oggidì alle stampe non avesse quasi fatto venire alle pugna de' nostri librai per rinnovellare a gara la stampa della Narrazione apologetic

a del Gratarol, ornai schizzata da non so quanti torchi di Venezia, i miei volumi dormirebbero ancora i lor sonni tranquilli, tanto più quanto si è sparsa voce chel'infelice autore della Narrazione, che fu sempre da me commiserato e compianto

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nelle sue sventure e ne' pregiudizi della sua alterata fantasia, sia mancato divita. Quantunque egli abbia voluto a forza dichiararsi nimico mio, io non poteimai essere nimico di lui, e se de' librai di Venezia, che colla unica morale teologia del loro interesse abusano con dolore de' saggi a diritto e a rovescio d'un'utile e provvida libertà, non avessero avuta la gentilezza di allagare novellamente la patria mia delle false e ingiuste detrazioni a me dirette, non scuotereioggi dal sonno i miei volumi, cogliendo il punto d'una democratica libertà, ch'io

non contaminerò giammai.I miei volumi, che sin dall'anno 1780 erano due, sono oggi tre, perché mi sono spassato a scrivere anche gli accidentuzzi della mia vita dall'anno 1780 sino all'anno 1797, in cui ho ancora gli occhi aperti per godere della vista de' miei amici, e ancora la penna tra le dita per occuparmi ne' pochi momenti che mi restanod'ozio. Nel secondo volume potrannosi leggere, da chi sa leggere o non ricusa di leggere, diffusamente in una luminosa verità, le cose avvenute tra me, la comicaRicci e il Gratarol; e chi le avrà lette potrà poscia giudicare liberamente se l'apologetico scrittore potesse dilaniare il mio nome per quanto ha potuto, con la guercia e biliosa sua penna. Non è mia colpa se tutti gli onorati testimoni da me nominati a' casi che ingenuamente ho scritti, non abbiano potuto vivere dall'anno1780 all'anno 1797. Ce ne sono però tanti di vivi, ancora in cognizione del vero,

quanti bastano ad attestare ch'io non ho lordate le mie narrazioni colla menomaombra della menzogna. Oltre a ciò, la verità semplice porta con sé un certo lume naturale, che la fa palese ad ognuno.Nel terzo volume, oltre a' pochi successi posteriori a' primi della mia vita, si potrà leggere nella purità la mia cattiva, ma innocente commedia Le droghe d'amore, che fece tanto accendere il cervello combustibile del povero Gratarol, per quelle cause che si potranno leggere nel tomo secondo.Tutto il voluminoso ammasso di queste mie agghiacciate inutilità è da me donato liberamente ad uno de'più onesti e più abili Veneti stampatori, a cui lo consegno benedicendo il di lui capitale.Ardisco di dedicare a voi, amatissimi miei concittadini, cotesto ammasso, non giàperch'io presuma di dedicarvi cosa degna della vostra attenzione e del vostro merito, ma puramente per farvi giudici sopra la Narrazione del Gratarol a me relat

iva e sopra la narrazione mia relativa a lui, onde possiate decidere s'egli abbia avuta ragione alcuna di andar a vomitare sopra de' fogli nella Svezia delle ingiurie brutali contro me, dipingendo il carattere mio con le schife tinte del suo ingiusto livore.Impresso egli ostinatamente ch'io abbia voluto malignarlo ed esporto alle pubbliche risa in una commedia per delle ragioni che s'è immaginato, o credè ciecamente senza voler condannare la sua incauta direzione e senza riflettere a' suoi possenti nimici, da' quali io medesimo fui amareggiato per sua cagione, volle svelenarsi e vendicarsi solennemente, componendo una acerba commedia, a suo modo, di me,nella sua Narrazione.Egli non mi conosceva e ricusò di conoscermi, e per ciò la sua commedia non istà beneal mio dosso. Supplisco io a' difetti della sua commedia, e nelle memorie dellamia vita, dalla mia infanzia sino all'età mia senile, vi do la intera, vera e autentica commedia del mio naturale e del mio carattere. La mia commedia è lunga ed insulsa, ma per lo meno averete in essa dipinto sul vero il mio originale ritratto, e conoscerete che il mal talento del collerico Gratarol non poteva sapere né lodarmi né infamarmi senza cadere nelle falsità.Se mai v'incontrate a qualche rispettosa mia espressione verso de' personaggi detti Grandi nel passato governo, riflettete ch'io scrissi negli anni trascorsi, e ch'io rispettai, rispetto e rispetterò sempre chi presiede a' governi con mansuetudine.So ben vedere che nessuno deve aver desiderio di aver ragguaglio degli accidenti della mia vita, e che la serie delle mie memorie contenente puerilità, studi inutili, debolezze, piccioli viaggi, infermità, vita militare, dissensioni domestiche, occupazioni nel fòro, filologiche controversie, composizioni teatrali, lunghe pra

tiche, tanto contrarie all'ipocrisia, da me tenute con una falange di comici, di comiche, di ballerini, di ballerine, di canterini, di canterine, riflessetti eosservazioncelle sopra la umanità in generale, non può interessarvi, né tenervi fermi

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grazie, non li curo; e do un compendio sincero della mia vita, appunto perché possano ridere a loro talento di me.CAPITOLO I.Mia stirpe e mia nascita.Si può satireggiare e ridere da' sciocchi indiscreti anche sull'origine d'una famiglia, e però dono a' derisori di questa spezie una breve ma vera notizia della mia stirpe e della mia nascita, perché possano regolare i loro dileggi. Lo stipite de

l tronco nostro comincia nel secolo 1300 da un certo Pezòlo de' Gozzi. Un albero legittimo, involto ne' ragnateli, nella polvere, con qualche tarlo, non appeso alle pareti in una bella cornice, ma non mai opposto né contraddetto e corso a' tribunali nelle ragioni delle cause civili, afferma queste verità. Non mi sono mai raccomandato a qualche genealogista per trovare un'origine più lontana, perché non sono spagnolo.De' monumenti storici vogliono che la nostra famiglia derivi dalla famiglia de'Gozze, che sussiste ancora in Raugia; la quale fu una di quelle famiglie fondatrici di quella antichissima repubblica. Nelle storie di Bergamo si legge che l'accennato Pezòlo de' Gozzi fu uomo possente nella terra di Alzano, e ch'è lodato dalla serenissima repubblica di Venezia per aver egli esposte le sostanze e la persona contro le armi milanesi, per conservare quella terra sotto a questo invitto e

clemente dominio.Oli uffizi d'inviati e di podesterie, sostenuti da' discendenti da cotesto Pezòlode' Gozzi per la città di Bergamo, provano che furono del Consiglio di quella città, e due privilegi del secolo 1500 accertano che due tralci separati di questa famiglia ottennero d'essere considerati originari veneti cittadini. Si edificaronodelle abitazioni per i lor vivi e per i lor morti, come si vede nella contrada e nella chiesa di San Cassiano in Venezia.Uno di que' rami ebbe l'onore nel secolo 1600 d'essere aggregato alle famiglie patrizie, indi si estinse. Il ramo da cui discendo io, rimase nel cetto della veneta originaria cittadinanza, a cui certamente non fece mai disonore alcuno.Nessuno de' miei ascendenti cercò d'avere di quegli impieghi decorosi e fertili, a' quali può aspirare la veneta cittadinanza. Gli animi de' Gozzi furono per lo più pacifici e moderati. Forse si contentarono del loro stato, e forse furono alieni

dalle tumultuose concorrenze. Se ne avessero chiesti, ottenuti ed esercitati, sono certissimo che, spogli d'ogni superbia e lontani da un milantare inopportuno, sarebbero stati fedeli al principe loro.Dugent'anni circa saranno, il padre dell'avolo mio comperò intorno a seicento campi di terreno con delle fabbriche nel Friuli, cinque miglia lontani da Pordenone. Molti di questi campi sono praterie, e sono feudali. Ogni discendenza de' posseditori di queste praterie ha l'obbligo di rinnovellare l'investitura feudale, equesta rinnovazione costa parecchi ducati. I ministri della Camera de' feudi d'Udine sono vigilantissimi. Se una discendenza, mancato il padre, tarda a recare que' parecchi ducati, a rinnovellare la investitura e a giurare fedeltà, sequestrano i fieni di quelle praterie fedelmente. Ciò avvenne a me dopo la morte di mio padre, per la negligenza di alcuni mesi; trascuratezza che cagionò la pena di molte lire più del consueto nella spesa di questa rispettabile investitura. Da una tale pergamena averà forse origine quel tìtolo di conte, che corre negli atti pubblici e nelle soprascritte delle lettere. Chi non volesse concedermi questo titolo, non m'offende, e m'offenderebbe moltissimo se non mi concedesse il fieno di quelle feudali praterie.Ho detto qualche cosa della mia stirpe, perché nessuno possa dire, malignamente sprezzante, di non sapere di qual paese io mi sia. Parlerò ora della mia nascita.Mio padre fu Jacopo Antonio Gozzi, uomo di mente penetrantissima, d'un sentimento d'onore assai delicato, d'un temperamento suscettibile, risoluto e da temere in alcuni momenti. Egli rimase figlio maschio unico del di lui padre Gasparo in età puerile, sotto la tutela della di lui madre contessa Emilia Grompo, nobile di Padova. Il di lui patrimonio era sufficiente a fargli fare un'ottima comparsa nella società, ma volle farla troppo sublime. Figlio maschio unico, allevato da una t

enera madre, che lo appagava in tutti i desideri suoi, apprese principalmente aseguire le sue inclinazioni, che pendevano alle cavalieresche grandezze, a possedere un gran numero di cavalli e di cani, alle caccie ed a splendidi conviti, se

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nza riflettere alle conseguenze d'un matrimonio da lui incontrato nella sua fresca età inconsideratamente e per seguire una delle sue inclinazioni.Mia madre fu Angela Tiepolo, d'una famiglia patrizia veneta che s'estinse nel di lei fratello Almorò Cesare, il quale morì benemerito senatore circa all'anno 1749.Averò forse annoiato con una troppo lunga digressione sulla mia stirpe e sulla mia nascita. I satirici non troveranno in queste niente che possa risvegliare in me dell'ambizione e niente che possa movere la lor penna alla derisione. I gradi d

egli uomini furono da me sempre contemplati come figliuoli dell'accidente, ma necessari per il bell'ordine della subordinazione che regge i popoli; e quanto alla nascita mia, non guardo da dove vengo, ma guardo laddove vado. Un viaggio intrapreso di mala condotta nelle azioni, contrario a ciò che richiede una nascita civile, potrebbe rattristare i miei onorati parenti defunti, e potrebbe coprire d'una maschera di rossore me medesimo e tutti i miei posteri.Il mio nome è Carlo, e fui il sesto parto della mia madre, non so se mi deva direuscito alla luce o alle tenebre di questo mondo.Scrivo l'ultimo giorno d'aprile, nell'anno 1780. L'età mia oltrepassa i cinquant'anni e non arriva a'sessanta. Non disturbo il sacrestano perché mi faccia vedere la fede del mio battesimo, essendo certissimo d'essere battezzato, di non avere la stolida albagia di passare per damerino, come si potè per il passato e si può nel p

resente rilevare dal mio vestire e dall'acconciatura de' miei capelli ma soprattutto perché non fo conto alcuno sull'età degli uomini. In tutte le età si muore, ed ho veduti essere uomini de' ragazzi, ed essere degli uomini maturi e de' vecchi, petulanti e ridicoli fanciulletti.CAPITOLO II.Mia educazione, vicende mie e della famiglia sino a' miei sedici anni.La fratellanza nostra corse al numero di undici tra maschi e femmine. Non potrei scrivere che delle memorie onorate de' miei fratelli e delle mie sorelle; ma io mi sono proposto di dare delle memorie intorno alla mia vita soltanto. L'epidemia letteraria fu sempre dominatrice nel nostro albergo; ed ho de' fratelli e delle sorelle capaci di scrivere agevolmente la vita loro, se il prurito di scriverla gli assalisse.De' successivi preti, non molto dotti, furono i pedanti in casa, educatori della

 nostra fratellanza sino ad una certa età. Ho detto Successivi, perché, a misura della loro temerità e de' loro garbugli amorosi colle serve, furono scacciati e sostituiti.S'apre una via di poter incominciare a formar un'idea del mio istinto sino dalla mia infanzia. Fui sino da fanciulletto osservatore taciturno, nulla insolente,imperturbabile e diligentissimo nelle mie lezioni. I miei fratelli condiscepolitraevano de' comodi dal mio naturale all'estremo pacifico e muto. Accusavano meal pedante di tutte le impertinenze ch'essi facevano nella scuola. Io non mi degnava né di scusarmi né d'accusare, e sofferiva con somma costanza le ingiuste crudeltà del maestro punitore. Oso dire che non fu mai da alcun ragazzo mostrata maggiore indifferenza di quella che mostrava io al gran castigo di scacciarmi ingiustamente dalla mensa sul punto di pormi a pranzare. L'obbedire, il sorridere, eranole mie difese. Questi tratti possono far giudicare a' miei nimici ch'io fossi un ragazzo stupido, ed agli amici ch'io fossi un ragazzo filosofo. Lo sguardo delgiusto è cosa rarissima. Do un sincero picciolo cenno del mio temperamento sino dalla mia puerilità a' pronosticatori, i quali, se si vorranno dar la briga di esaminare tutte le persone che ho praticate, tutti i domestici che m'hanno servito, rileveranno che la mia taciturnità e il mio sorpassare, la mia costanza, per il correr degli anni, non si sono alterati; ch'io guardo le vicende del mondo sempre con occhio ridente, e che mi scossero soltanto quelle che attaccarono l'onor mio.Il disordine della famiglia non era ancora giunto a rendere impossibile una regolare scolastica educazione ne' figliuoli. I miei due fratelli maggiori Gasparo e Francesco entrarono ne' collegi e furono in tempo di poter bere a tutti i fonti delle scuole metodiche successive; male spese inopportune, non misurate con l'economia e co' numerosi frutti d'un matrimonio, introdussero in breve giro d'anni

 l'impossibilità alle buone regole di educazione riguardo agli studi.Io fui consegnato ad un dotto parroco di villa per alcuni anni, indi ad un prete di Venezia, d'una dottrina sufficiente e d'ottimi costumi, per qualche tempo. U

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n liceo di due sacerdoti genovesi, che insegnavano a parecchi nobili e a parecchi ignobili, fu l'asilo in cui scorsi que' studi che può scorrere sino all'età di quattordici anni un giovine amante de' libri ed avido d'apprendere qualche cosa.Eravamo in quel liceo circa a venticinque scolari. Scorrevamo tutti gli studi medesimi con qualche differenza di classe, ed ebbi occasione di conoscere chiaramente dopo molti anni, che i maestri sono utilissime guide a' giovani amanti dello studio, e deità inefficaci e noiose per quelli che l'abborriscono. L'ozio e il vi

zio cancellano nella mente de' mal inclinati tutte le semine de' precettori, e vidi e vedo più di due terzi de' miei condiscepoli, ignobili, a' quali la Gramatica, l'Umanità, la Rettorica non hanno altro insegnato che ad ubbriacarsi alle taverne, a portar delle sacca prezzolati, ed a gridar per le vie: "Mele cotte, susinee marroni!", con un paniere sul capo e una bilancia appiccata al fianco. Miserabile condizione de' padri!Scorgendo io lo scoglio cagionato dalle circostanze della famiglia ad un mio più lungo corso nelle scuole, credei co' pochi semi acquistati di poter aiutarmi da me medesimo, per non rimanere ignorante affatto. L'esempio di Gasparo mio maggiore fratello, la cui passione per gli studi era pubblicamente lodata, aggiungasi il mio buon volere, mi tenne inchiodato sopra a' libri di tutti i generi, né comprendeva che ci fosse diletto considerabile fuori del leggere, del riflettere e del

lo scrivere.La poesia, la lingua purgata italiana e l'eloquenza erano in quel tempo studi in andazzo e pregevoli. Le adunanze de' giovanetti in Venezia erano molte su questi tre argomenti, de' quali oggi è perduta ogni traccia, forse per maggior utilità de' concittadini. Vedo una infinità di giovani scapestrati, nani superbi, presuntuosi, leggeri, oziosi e perniziosi. Non so quali siano i loro studi; e tuttoché quello della poesia, della nostra purgata lingua e dell'eloquenza tenesse al tempo de' miei anni giovanili innumerabile gioventù civile occupata in emulazione e morigeratezza, loderò un bulicame di persone ben nate, che baldanzose sanno tutto per supposizione di saper tutto, nulla producono al mondo, non sanno scrivere tre linee di lettera co' lor sentimenti sviluppati né senza stomachevoli errori di gramatica o d'ortografia.Lascierò di riflettere che la stima verso a' Grandi è necessaria, e che quella la qu

ale vien loro dimostrata da' popoli, cagionata dalla lor nascita e dalla ricchezza loro, non è stima, ma falsa simulazione. Non sosterrò che un indispensabile quasi giornaliere commercio di lettere diffuso con un innumerabile genere di persone, che non saranno per avventura scientifiche, ma che conosceranno se una letterasia ben scritta o ben ridicola, possa cattivare una gran parte della stima o una gran parte del disprezzo de' Grandi. Non rammemoro quel ricco, posto con ingegnosa verità dal signor Merciè nel suo dramma dell'Indigenza, il quale non poteva scrivere un urgentissimo viglietto, perché il suo secretario era fuori di casa. Non dirò nulla a molti scientifici precettori de' rampolli de' Grandi d'oggidì, che, deridendo e sprezzando a' loro alunni le belle lettere e la soda corretta eleganza, allevano de' geometri, de' matematici, de' fisici, de' filosofi, degli astronomi, degli algebratici, degli storici naturali, de' diluvi di scienze, che poi non sanno esprimere in iscritto né ciò che hanno loro insegnato né i loro bisogni.Tutto ciò che l'impostura dipinge agli occhi miei si rimane nella mia penna. Non voglio nimici. Siccome quando si sta scrivendo cadono talora de' goccioloni d'inchiostro dalla penna, i quali non servono che a fare de' sgorbi sulla materia che si scrive, dettando le memorie della mia vita mi caderanno frequentemente de' goccioloni inopportuni e molesti.Le mie applicazioni sui frivoli studi della purgata lingua d'Italia, della poesia e della eloquenza, furono di tanta fatica, di tanta assiduita, che mi vergogno a palesarle. Mi cagionarono un'emorragia di sangue dalle narici così eccessiva che, replicandosi di quando in quando, fui giudicato morto ben quattro volte comeSeneca. I premurosi della mia salute mi celavano tutti i libri, mi privavano della carta e del calamaio; ma io era un abilissimo ladro per rinvenir tutto, e incagnato abbastanza per leggere e scrivere di furto ne' stanzini disabitati. A nar

rare questa verità, posso far credere a' maligni ch'io pretenda di dipignermi degno d'un elogio, e s'ingannano. Guardandogli colla mia lente, gli assicuro anzi di far loro un benefizio d'aprir la via ad un argomento di beffeggiarmi.

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Le applicazioni sopra a degli studi giudicati universalmente disutili, e che riducono l'applicato alle infermità, sono fieramente riprese dal celebre medico signor Tissot, il quale applaude soltanto gli studenti che si ammazzano sulle applicazioni che possono giovare all'umanità; e sto in buona fede che le sue applicazioni e quelle de' suoi ammiratori sieno giovevoli all'umanità.L'abate Giovan Antonio Verdani, bibliotecario nella quondam scelta e magna libreria della patrizia casa Soranzo, versatissimo nelle belle lettere, aveva della p

ietà per la mia debolezza, che era anche la sua, e mi soccorreva d'avvertimenti edi libri rarissimi, capidopera di eloquenza semplice, di prosa e di poesia italiana.Non saprei render conto della quantità di carta da me consumata e colmata di pensieri, di prose e di versi. Ho voluto imitare lo stile di tutti i scrittori antichi toscani più celebrati. Sono certo di non essere mai giunto alla lor perfezione;ma sono certo ancora che la lettura indefessa, non superfiziale, d'una montagnadi buoni libri, che trattano di tutte le materie, non lascia una migliore testadella mia, vuota né di lumi, né di nozioni, né della facoltà di riflettere e di conghietturare con aggiustatezza, né di morale; e sono altresì certissimo che l'esercizio efficace dell'imitazione nello scrivere insegna la facilità dell'esprimere le proprie idee colle tinte, co' termini,colle frasi differenti, o adeguate a quelle imma

gini gravi, famigliari e facete, che nascono negl'intelletti nostri e vogliamo altrui comunicare sviluppate nel loro vero aspetto e ben tinteggiate con delle prose o de' versi.Senza giugnere alla facoltà che ho cercata in questo proposito, mi sono acquistato la infelicità di rimanere nel numero di pochissime persone conoscitrici di questa verità, e mi sono guadagnato quell'altra miseria di leggere a stento, con della noia, dell'antipatia insuperabile e del disprezzo molti libri italiani moderni, ripieni di false immaginazioni, di sofismi, e soprattutto d'un'eloquenza e d'unadicitura sempre eguale in tutte le materie che trattano, lorda di gergoni, d'ampollosità, di goffaggini, di periodi vorticosi ed oscuri e d'un frasario ridicolo.Le scienze, le cognizioni e le scoperte vantate, delle quali oggidì si tratta, saranno utili e rispettabili, e perciò non dovrebbero essere profanate e vilipese dalla incolta, impura, impropria e spropositata dicitura. Francesco Redi fu grand'u

omo, gran filosofo, gran medico, gran naturalista, e favorisce la mia opinione co' scritti suoi. L'opere di belle lettere, di spirito e poetiche, sono assolutamente cattive, spregievoli e indegne dell' immortalità, se mancano da questa parte.Non sono numerabili i bei sentimenti e grandi, che periscono affogati nel lezzodi una penna inesperta, e sono infiniti i piccolissimi sentimenti ben sviluppati, coloriti dalle tinte de' veri termini e posti nel vero loro punto di vista dauna penna maestra, che brillano agli occhi di tutti i lettori, dotti ed indotti. De' gusti non si deve disputare; ma si può agevolmente sostenere che sia caduto in un vergognoso letargo in questo proposito il nostro secolo.Ho scritto e stampato abbastanza in su questo argomento senza nessun effetto, ma credo in me non disdicevole una picciola esagerazione funebre sopra a quella facoltà che bramai di possedere; facoltà oggidì considerata inutile, e che mi viene però liberalmente concessa a chiusi occhi, non dalla intelligenza, ma da una ignorante prevenzione, perch'io non abbia nemmeno il conforto di potermi accertare di possederla. Sono tuttavia grato anche verso a' ciechi ed a' sordi, che vedono ed odono ne' miei scritti delle bellezze.Una perpetua lettura; un immenso logorare d'inchiostro; delle attentissime osservazioni sul costume e sulla umanità; gli stimoli dell'abate Verdani e quelli di Antonio Federigo Seghezzi; l'esempio di mio fratello Gasparo; l'occasione d'una giornaliera adunanza letteraria nella casa nostra tennero aperto l'adito al proseguimento d'una non so se buona o infelice coltura alla mia mente ed al mio spirito.Mi proccurai da un piemontese, la di cui dottrina era il saper leggere, alcune scintille de' princìpi dell'idioma francese, non già per favellare in quel linguaggio in Italia, abborrendo quella parte d'impostura che spicca tra noi in questo pro

posito, non meno che il farmi corbellare, ma per potere da me medesimo coll'aiuto d'una gramatica e d'un vocabolario giugnere, come feci al possibile, a comprendere gli ottimi e perniziosi libri ch'escono da quella nazione premiatissima e p

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er ciò valentissima.Dalle accennate fonti, dal mio genio instancabile e dal continuo esercizio, è uscita quella non so quale mia educazione letteraria, ch'io non so se m'adorni o midisadorni, ma che ho sempre seguita per mio innocente e disinteressato divertimento sino alla canizie d'un terzo de' miei capelli, e che seguirò collo stesso metodo sino al mio uscire da questo mondo presentato dalla mia lente facetissimo agli occhi del mio intelletto. Vederanno i grand'uomini di vasta e profonda scienza

 (ch'io non guardo colla mia lente per non cadere in un imperdonabile errore) che, narrando io le picciole fonti della mia educazione, non fo che dipingere conumiltà un pigmeo letterario.Riguardo alla mia educazione morale, la famiglia in cui nacqui ha sempre coltivata un'augusta immagine della religione, le di cui conseguenze sono fuori dalle penetrazioni della mia lente; e il padre mio, trascurato nell'economia, fu attentissimo a' doveri verso la religione e al buon esempio delle oneste azioni. Era nimico acerrimo della menzogna, e uscivano dall'animo suo delicato e suscettibile, al suono d'una bugia, guanciate d'un suono enorme sul viso de' suoi pargoletti.Siccome egli era franco cavallerizzo e appassionato per i cavalli, ci ammaestrava in quell'esercizio e ci voleva vedere ogni giorno a cavallo ne' tempi della vi

lleggiatura. Non valeva il nostro timore o il ribrezzo allo sbuffare o arretrosire di qualche puledro non bene ancora avvezzato; conveniva salire la bestia, sofferire qualche vergheggiata in sulle gambe, galleggiare e correre senza riflettere al pericolo de' stinchi e del collo. Alcuni cozzoni, che venivano a scorgerede' viziosi puledri, m'hanno dato de' ricordi da porre in opra al caso d'un cavallo sfrenato e sboccato; ed ho avuta un'occasione, che narrerò poi, di valermi con frutto d'uno di que' ricordi, di salvare la vita e di riconoscerla da un cozzone.Si eseguivano nella nostra casa di villa alcune rappresentazioni sceniche in unteatrino di poco regolare architettura. Tutta la nostra fratellanza mascolina efemminina aveva della comica disposizione, e in faccia ad un'assemblea spettatrice di villici eravamo tutti eccellenti attori. Oltre all'opere tragiche e comiche apparate a memoria, non si mancava di rappresentare delle farse giocose di pic

ciolo intreccio, alla sprovveduta.Una mia sorella, appellata Marina, ed io eravamo perfetti imitatori d'alcune femmine e d'alcuni uomini coniugati, note caricature del villaggio. Innestando alle farse molte scene appoggiate a' dialoghi ed a' contrasti famosi di quelle mogli e di que' mariti spesso ubbriachi, co' panni indosso de' nostri originali imitati, la copia d'imitazione era tanto puntuale agli occhi de' nostri villerecci ascoltatori, che, conoscendola, ridendo bestialmente, ci caricavano d'applausi proporzionati alle loro grossolane nature.A mio padre ed a mia madre venne il capriccio di voler essere imitati in una farsa da me e dalla mia sorella accennata. Facemmo gli schizzinosi alquanto; ma bisogna obbedire al padre e alla madre. Gli abbiamo serviti con una esattissima imitazione di vestiti, d'attitudini, d'intercalari e di dialoghi in alcune scene intrecciate di famigliari contrasti tra lor consueti. La maraviglia loro fu grande, e le loro risa furono il castigo alla nostra obbediente temerità.Mi dilettai d'apprendere a strimpellare passabilmente un chitarrino; e in competenza con mio fratello Gasparo composi, cantando e suonando, de' versi rimati improvvisi nelle ricreazioni, con tutta l'audacia occorrente a questo cimento, un po' troppo stupidamente creduto da una moltitudine miracoloso.Appago una mia brama di ciarlare alquanto sopra a questo miracolo. A mio credere, que' rigoletti d'immenso popolo a bocca aperta che s'affolla intorno ad un improvvisatore di versi, prova soltanto che, ad onta dell'avvilimento con cui si pensa sulla poesia, ella abbia quella forza sugli animi e sui cervelli, che le viene con ingiustizia dalle lingue negata.Dicesi che Cristoforo Altissimo, poeta del secolo 1400, abbia composto alla sprovveduta, cantando in ottava rima pubblicamente, il suo poema de' Reali di Franci

a, e che alla sfuggita sia stato ricopiato rapidamente mentr'egli lo componeva cantando. Benché si peni a trovarlo per la sua rarità, egli è stampato sin da que' tempi, ed io l'ho letto favoritomi dal suaccennato abate Verdani. In un oceano di ot

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tave che formano quell'antico poema, pochissime sono quelle degne d'essere considerate poesia; tuttoché è da credere che, prima di darlo alle stampe, la lima non sia stata inoperosa.Ho uditi parecchi e parecchie improvvisatori e improvvisatrici più celebrati dal secolo nostro, ed ho compreso benissimo che, se quel diluvio di versi, che sputano colle lor facce infuocate facendo maravigliare gli ascoltatori, fossero scritti, non solo vaierebbero poco tra i generi poetici, ma non troverebbero lettori c

he avessero la sofferenza di giugnere alla ventesima parte di quelli colla lettura.L'olivetano padre Zucchi, che ho udito rimare alla sprovveduta ne' miei fresc'anni, faceva qualche strofa sensata più che gli altri suoi pari detti colti; ma egli era tanto lento nel suo verseggiare che il riflesso poteva aver parte.I rimatori all'improvviso potranno essere per avventura colmi di dottrina e d'erudizioni a poter ben discorrere sopra que' tanti quesiti che vengono loro proposti. Non sarebbero ascoltati se gli trattassero divinamente in ottima prosa. Peravere delle gran turbe ascoltatrici fanatiche, è necessario che esprimano le loroimmagini e i loro pensieri, comunque vengano, velocemente e con de' cattivi versi rimati che spesso non sono che un mormorio di parole vuote di senso, per cagionar de' stupori. L'umanità fu sempre un bracchetto in traccia di maraviglie.

Se un pittore volesse rappresentare in un quadro la Temerità o l'Impostura mascherata da Poesia, non saprei meglio consigliarlo che a dipingere un improvvisatoredi versi, con gli occhi spalancati, le braccia all'aria e una calca di persone rivolte a quello co' visi maravigliati e stupidi.M'inchinerò sempre per semplice urbana politezza alle incoronazioni di lauro ne' Campidogli dei cavalieri Perfetti e delle Corille; ma adorerò sempre cordialmente e seriamente quelle de' Virgili, de' Petrarchi e de' Tassi soltanto.Oli Arcadi rideranno se a questo proposito parlerò d'un improvvisatore di versi da me conosciuto e udito infinite volte; e tuttavia farei un'ingiustizia a non fare menzione di lui e a non confessare che quello fu l'unico oggetto di maraviglia ch'io udissi in un tal genere tanto considerato. Il di lui verseggiare e rimare improvvisamente e lungamente, in anacreontici, in ottava rima e in qualunque metro, ben suonando un suo chitarrino, era vuoto delle parole Clio, Euterpe, plett

ro, Parnaso, Aganippe, ruscelletto, zefiretto, ecc.; e non era che un esteso discorso famigliare, piano, mansueto, ma d'una fertilissima concatenazione d'immagini e di pensieretti naturali, vivaci, gentili, leggiadri. Egli non usciva nel suo improvvisare da' due dialetti veneziano e padovano; il che accrescerà le risa dileggiatrici negli Arcadi e nel Campidoglio.Improvvisando in sul "diligite inimicos vestros", in una circostanza di due nimici ch'erano presenti, ed esagerando sull'afflizione del suo cuore in un'altra circostanza, per un cavaliere a lui benefico abbandonato da' medici e moribondo, ho veduto tener fermi gli ascoltatori non solo, ma cagionare in sul fatto una riconciliazione tra i due nimici e far scorrere le lagrime dagli occhi sui suoi lamenti per il benemerito cavaliere spirante. A tali effetti cagionati sul cuore umano riconosco un poeta improvvisatore, lo registro tra gli uomini che potrebbero anche scrivere della poesia per la immortalità, e l'adorno della corona d'alloronel mio Campidoglio.Il signor Giovanni Sibiliate, fratello del rinomato professore di belle letterenell'Università di Padova, è la persona di cui fo menzione.È facile che nessuno bramasse di leggere la mia opinione intorno a' rimatori allasprovveduta, com'è facile che nessuno brami di leggere le memorie della mia vita.Nel corso della mia educazione ho anche improvvisato, e dico il perché non mi piacque proseguire in un tale esercizio. Potrà essere sorpassata questa disgressione come uno di que' goccioloni d'inchiostro disturbatori, che cadono dalla penna, da me predetti.Ebbi un maestro di scherma e persino un maestro di ballo; ma i libri e la pennafurono sempre soprattutto il mio passatempo essenziale. L'aspetto d'una numerosa adunanza nelle mie pubbliche letterarie azioni accrebbe in me l'ardire. In una

privata visita, a me novella, la mia circospezione fu spesso battezzata per selvatichezza.Il mio primo sonetto scusabile fu da me composto in età di nove anni; e siccome, o

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ltre all'applauso, egli mi fu fertile d'un bacile di confezione, non mi è mai potuto uscire dalla memoria. Ecco l'argomento ed ecco il mio sonetto.Certa signora Angela Armano, di professione levatrice assistente a' parti, aveva un'amica a Padova, alla quale era morto un cagnolino sua delizia, né poteva guarire dall'afflizione di quella morte. Cotesta signora Angela voleva confortare l'amica con molta rettorica. Voleva inviarle in dono una sua cagnetta appellata Delina, conosciuta dall'amica, in sostituzione del cane defunto. Non voleva più resti

tuzione della Delina, e voleva accompagnarla con un sonetto che contenesse tutti que' sentimenti che può contenere una lettera scritta da una femmina levatrice sopra a questo argomento, ch'ella considerava importante.Benché la famiglia nostra fosse un ospedale di poeti, nessuno di questi volle assumere il peso di trattare in versi il desiderio della signora Angela ciarliera esmaniosa. Le di lei preghiere mi commossero, ed ho servita io la signora Angelabernescamente, nel modo che segue:ALLA VEDOVA D'UN CAGNOLINOSONETTO.Madama, io vi vorrei pur confortarecon qualche graziosa diceria;ma la sciagura vuole, e vostra e mia,

che in un sonetto la non vi può stare.Non vi state, mia cara, a disperare,ché la sarebbe una poltronerial'entrar per un can morto in frenesia;chi nasce muor, convien moralizzare.Vi sovvenite ch'egli avrà pisciatoalcuna volta in camera o in cucina,che in quell'istante lo avreste ammazzato.Io vi spedisco intanto la Delina,che più d'un cane ha d'essa innamorato,e può farvi di cani una dezina.È bella e picciolina;di lei non voglio più nuova o risposta;

servitevi per razza, o di supposta.La composizione è certamente una puerilità inetta; ma, se i miei lettori si degneranno d'abbassare la loro rimembranza alla capacità che avevano a' nov'anni dell'età loro, concederanno qualche indulgenza al mio sonetto.Due anni dopo circa si rinovellava l'edizione delle rime di Gaspara Stampa in Venezia, per commissione del principe conte Antonio Rambaldo di Collalto di Vienna, cavaliere illustre e per la sua nascita e per i suoi scritti. I poeti sanno che il canzoniere di quella Safo del secolo 1500 è pieno di sospirosi affanni d'amore, diretti a certo conte Collaltino di Collalto, valente guerriero, colto verseggiatore, e ch'ella lasciò fama d'essersi infermata e di esser morta giovine per quell'amore. Le donne del nostro secolo crederanno una tal fama, baia. Il costumee il modo di pensare s'è cambiato sino in Cupido, ed egli usa oggidì, negli amoretti, delle armi differentissime dalle antiche per far morire i suoi sudditi. Egli è tiranno per la via de' liberi sfoghi brutali, delle consunzioni e del celtico.Dovevanosi aggiungere, nel fine di quella edizione, de' poetici componimenti d'elogio all'eroina poetessa, di alcuni scrittori del nostro tempo. Ebbi la temeritàdi voler entrare nel numero di quelli, e composi un sonetto ad imitazione de' piùantichi poeti toscani. Quel sonetto comunque sia, si legge stampato nella suaccennata edizione, ed apparisce in esso ch'io avessi un'amante sino da quell'età. Ciò fu per un puro effetto della imitazione, che allora era in costume; e non negherò tuttavia d'aver amato davvero in età più matura.Quella meschina composizione m'ha cagionato de' nuovi stimoli di immergermi nella poesia. Fu letta dal celebre signor Apostolo Zeno, e si è degnato di voler conoscere lo scrittore che imitava la semplicità antica poetica di Cino da Pistoia, diDante da Maiano, di Guitone d'Arezzo e di Guido Cavalcanti. S'è maravigliato, o fe

ce gentilmente vista di maravigliarsi, nel vedere un ragazzo. M'accarezzò, e perch'egli era uno de' benemeriti coltivatori dell'antica semplicità, scacciatori delle gonfiezze de' secentisti e ristauratori del nostro secolo, m'incoraggi esibendo

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mi l'uso de' libri di tutta la sua scelta libreria.L'incoraggimento d'un tant'uomo aggiunse fuoco alla mia passione. Non uscì da quel punto nessuna di quelle raccolte di poetiche composizioni, delle quali non è ancora spento l'andazzo in Venezia e nell'altre città dell'Italia, a' maritaggi, allemonacazioni, agl'innalzamenti di grado, alle morti di persone, di gatti, di cani, di pappagalli che non fosse lordata da' versi miei, gravi o scherzevoli.I libri, la carta, le penne e l'inchiostro erano la mia vita. Era sempre gravido

, sempre partoriente de' mostri nei luoghi rimoti. Ho scritti furiosamente, Diosa come, sino all'età de' miei sedici anni, oltre a delle innumerabili prose e delle innumerabili poesie volanti, quattro lunghi poemi: il Berlinghieri, il Don Chisciotte, la Filosofia morale (cioè i Discorsi degli animali del Firenzuola), il Gonella in dodici canti. L'abate Giovan Antonio Verdani s'era innamorato di quest'ultimo, e voleva che andasse alle stampe. Un poema pel signor Giulio Cesare Beccelli, uscito da' torchi di Verona, sopra Io stesso argomento, involò quell'aspetto di novità che poteva avere il mio lavoro; e quantunque fosse più copioso di fattidi quello del Beccelli, da me cavati da buone fonti antiche, l'umiltà mia non volle arrischiare confronti.Un viaggio ch'io feci, e un allontanamento dalla mia casa di tre anni, e le rivoluzioni che nacquero nella mia famiglia nel triennio della mia lontananza, fecer

o cadere tutte le ragazzesche fatiche mie letterarie, che lasciai in un monte, in quel smarrimento che meritavano. È probabile che de' salsicciai e de'fruttivendoli sieno stati i loro giusti carnefici.Al mio ripatriare dopo tre anni, non so per qual evento, vidi stampato il romanzo intitolato Il Farsamon del signor Marivò, prima traduzione dal francese, ch'io feci col solo aiuto della gramatica e del vocabolario, a fine di esercitarmi pergiugnere a capire i libri di quell'idioma. Scorsi quella traduzione colla lettura, la riconobbi, e conobbi e mi vergognai d'averla fatta malissimo.Ho data un'idea in astratto a chi ebbe la flemma di leggere, della mia educazione, de' fonti da' quali me l'ho proccurata volontario, delle mie occupazioni e inclinazioni sino all'età de' miei sedici anni. Tutto spirerà un'immagine di frivolezza allo sguardo de' profondi scientifici. Sono mansuetissimo a' loro sorrisi sprezzanti, senza mirarli colla mia lente intellettuale, con cui cercherei indarno l

e produzioni della maggior parte di questi. I giusti compatiranno le mie scuole, non dileggeranno il mio buon genio d'apprendere qualche cosa, ed io sarò umile alla indiscretezza de' primi e riconoscente all'umanità de' secondi.CAPITOLO III.Circostanze d'allora della mia famiglia, e mia risoluzione d'allontanarmi da quella.Il numero della fratellanza nostra in quel tempo era stato diminuito dalla morte, ma con parsimonia. Eravamo ridotti quattro maschi e cinque femmine. Un maschio ed una femmina si erano accordati di troncare il loro corso d'affanni in età fresca, e morirono. Le spese non proporzionate colle rendite e con una numerosa prole da non poter più appagare con un confortino o un bamboccio, e qualche litigio passivo, che scemò d'alcune campagne il patrimonio, incominciarono a far nascere de' pensieri alquanto oscuretti, indi ridussero in pochi anni la famiglia in angustia.Mio fratello Gasparo s'era già ammogliato per una geniale astrazione poetica. Anche la poesia ha de' pericoli. Quest'uomo veramente particolare per la sommersione che fece di tutto se medesimo sui libri e nelle indefesse applicazioni letterarie, non meno che nell'essere uno di que' filosofi che si possono chiamare persone indolenti in tutto ciò che non sente di letteratura, apprese da Francesco Petrarca ad innamorarsi.Una giovane, che aveva però due lustri più di lui, che era di nome Luigia, di cognome Bergalli, e tra le pastorelle d'Arcadia Irminda Partenide, poetessa di fantasia, come si può vedere dall'opere sue a stampa, fu la Laura di mio fratello, il quale, per non essere canonico come il Petrarca, se l'ha sposata petrarchescamente, ma legalmente. Questa femmina di fervida e volante immaginazione, e perciò abilis

sima a' poetici rapimenti, volle per i stimoli d'un buon animo, misti con quelli dell'ambizione e della presunzione che aveva della sua attività, inoltrarsi a regolare le cose domestiche disordinate; ma i suoi progetti e gli ordini suoi non p

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oterono uscire da' ratti romanzeschi e pindarici. Innamoratasi d'un dominio ideale e divenuta sovrana d'un regno tisico, col desiderio di far tutti felici, converace disinteresse, altro non fece che tessere delle maggiori infelicità a tuttigli altri non meno che a se medesima.Il di lei marito, perpetuamente curvo e perduto sui libri, averebbe certo perduta ogni quiete, se avesse voluto opporsele. Convien conoscere nel fondo loro i caratteri, i temperamenti e le circostanze, per esser giusti nel condannare e nell

'assolvere.Non è cosa da buoni filosofi l'asserire che degli influssi maligni di qualche stella cagionino i disturbi delle famiglie. La nostra famiglia era composta d'un padre, d'una madre, di quattro fratelli e di cinque sorelle, tutti di buon cuore, tutti onorati e tutti amici; e con tutto ciò ella fu lo specchio della infelicità inogni tempo e in tutti gli individui che la formarono. Chi cercasse le cause naturali di questa afflittiva verità, le troverebbe; ma per lo più torna il conto ad accomunarsi col volgo e a dire che una stella maligna ha sempre perseguitata la famiglia nostra, per non fare de' cattivi uffizi e per non rendersi odiosi coll'investigare.Alle confusioni e alle amarezze nelle quali gemevamo in quel tempo, s'aggiunsero de' parti de' nuovi coniugati, di maggior peso all'economia; ma la sciagura più a

cerba e di cui sento ancora nel cuore la ferita, fu un fiero colpo d'apoplesia,che percosse l'amato mio padre. Egli visse dappoi infermo sett'anni circa dal punto d'un così crudele avvenimento, muto e paralitico, ma colla mente lucidissima;facoltà che rendeva all'animo suo oltremodo sensibile e più amaro il peso della suamiserabile circostanza.Il pianto di cinque sorelle, la nascita de' novelli nipoti, la casa popolata difemminette, di sensali, di ebrei ministri del regno tisico, il vortice delle irregolarità domestiche, il favellare cóntro alle quali era delitto d'ammutinamento, fecero risolvere il mio fratello Francesco secondogenito d'allontanarsi. Egli passònel Levante col provveditore generale di mare, S. E. cavaliere Antonio Loredano, di memoria felice.Aveva io in quella stagione circa a tredici anni. Le notizie che scrisse di sé daCorfù mio fratello Francesco, e sulle clementi forme colle quali era trattato dal

provveditore generale e sul grado d'alfiere che aveva ottenuto, mi fecero suscitare la brama di allontanare anche me da un ammasso di disordini, ch'io conosceva e nel loro peso e nelle loro conseguenze, con la sciagura di scorgermi un ragazzo soggetto ed inutile a suggerire degli argini.Raccomandato dal zio materno Almorò Cesare Tiepolo a S. E. Girolamo Quirini eletto provveditore generale nella Dalmazia e nell'Albania, col mio picciolo equipaggio, al quale non mi scordai d'accoppiare la cassetta de' miei libri e il mio chitarrino, in età di sedici in diciassett'anni, salutati i parenti, passai come venturiere in quelle provincie, a conoscere l'indole de' militari e di que' popoli.CAPITOLO IV.Mio imbarco in una galera e mio arrivo a Zara.Vidi ben tosto ch'io aveva incominciata una carriera mal adeguata al mio istinto, a cui fu sempre caro quel verso di Francesco Berni: voleva far da sé, non comandato;ma siccome ho sempre abborrita la volubilità e amata la costanza nelle mie scelte, non mi degnai nemmeno di mostrare coll'esterno il menomo segno di pentimento.Mi si apriva per lo meno un uscio alle mie osservazioni sopra a degli uomini d'un nuovo mondo per me. Questo pensiero mi confortava, e fu sufficiente a farmi l'animo risibile e scherzevole sopra tutte le avversità e a tutti i patimenti che provai nel mio triennio illirico, passato il quale fui di ritorno alla mia famiglia.Ho preceduto per ordine di S. E. provveditore generale Quirini il di lui imbarco sopra una galera appellata Generalizia, ch'era al porto di Malamocco. Fui accolto da un drappello di militari uffiziali, con uno sguardo di curiosità e di gentilezza.

In una corte in cui tutti aspirano a qualche fortuna, si guarda con del sospetto ogni aggregato e si cerca di intendere se sia da temere o da non curare alle occasioni degli avanzamenti agli uffizi, il dono de' quali dipende dalla volontà e d

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alla predilezione di S. E. provveditor generale. Forse per insensatezza, io nonfui giammai suscettibile di un tal pensiero, come si vedrà nella narrazione del mio triennio, quantunque un tal pensiero sia un tarlo inseparabile dal cuore de' cortigiani.Ho dovuto ingoiare una gran quantità d'interrogazioni di quegli uffiziali, ed ho risposto laconico, da ragazzo inesperto ma cauto. Alcuni di que' signori avevanoconosciuto mio fratello Francesco a Corfù. Parvero sollevati dal peso della loro c

uriosità conoscendomi, e con molte esclamazioni di giubilo mi esibirono la loro militare amicizia.I miei ringraziamenti furono umili e di poche sillabe. Mi giudicarono nel cuor loro un giovane imbrogliato, niente uffizioso, e superbo. S'ingannavano, e lo confessarono qualche mese dopo. Ero raccolto a esaminare i loro caratteri per ben conoscerli e per bilanciare la mia condotta. Una penetrazione efficace e rapida che Dio m'ha concessa, ed un raccoglimento imperturbabile, scopersero nel giro di poche ore in quel drappelletto degli onesti uomini nobili e ben educati, de' nobili rovinati dalla pessima educazione, e dei plebei puntellati dalle protezioni. Il vizio del giuoco, della intemperanza e delle sbrigliate lussurie campeggiava quasi in tutti.Piantai le mie regole di società, e non furono sfortunate. Le mie pratiche confide

nziali furono poche e durevoli. Vidi essere nelle genti d'armata i vizi sopra accennati cancrene incurabili. L'orrore che aveva concepito per quelli nel corso della mia educazione, i riflessi alla mia salute e alla mia borsa di poco peso, m'aiutarono. Parvemi di non doverli adottare, e parvemi di non dover essere un zelante declamatore contro a quelli. Seguendo esattamente questa regola, mi riuscì d'essere, coll'andare del tempo, amato da tutti universalmente.Invitato dalle combriccole militari alle adunanze d'incontinenza, a' festini difemmine da piacere, non feci lo schizzinoso, e fui sozio con una pronta condiscendenza. Senza abbandonarmi a' brutali trasporti che tirano addosso a' mortali de' pentimenti, de' rimorsi e de' certi castighi naturalissimi, fui ognora il ragazzo più allegro di quelle smoderate combriccole.Contentandomi che alcuno de' miei compagnoni, provetto, oppresso ma non vinto dal mal francese, mi desse il titolo di rattenuto scioccherello privo de' veri gus

ti, risi dell'ebbrezza altrui, studiai de' differenti geni, esaminai degli animaleschi caratteri, e trovai in quelle sgangherate adunanze un'ottima e fertile scuola d'errori istruttivi. Non fui in alcune circostanze, diverse da quelle, insensibile all'amore; ma riservo ad un capitolo separato l'argomento verace di qualche mia debolezza e de' miei sistemi su questo proposito.Do un'idea passeggiera de' modi del mio pensare sino da' miei più freschi anni, efarò poi conoscere, inoltrandomi nelle memorie, ch'io scrìvo con una verità incontrastabile, che in nessun tempo della mia vita non mi può appartenere né il titolo di casto né quello di dissoluto né quello d'ipocrita.Sono trascorso un po' troppo innanzi prima del tempo, e ritorno al mio imbarco sulla galera Generalizia nel porto di Malamocco. Prima che giugnesse il provveditor generale, ebbi campo due giorni e due notti di commiserare l'umanità sopra forse trecento scellerati carichi di catene, condannati a vivere nel mezzo ad una dovizia di miserie e di tormenti, tutti per sé bastanti a far morire. Un'epidemia pietosa di febbri maligne, introdotta sulla galera, ne involava ogni giorno parecchi all'acqua, al biscotto, alla dieta, a' ferri e alle sferze degli aguzzini; e, accompagnati dalla voce tuonante d'un frate francescano arsiccio e nero e sempre gioviale, volavano, credo, al paradiso.In due notti penose potei apprendere la differenza che passa dal pernottare nella propria casa al pernottare in una galera. Ebbi necessità di richiamare alla mente co' più forti colori tutte le circostanze che mi addoloravano nella mia famiglia, per rinfrancar l'animo e per apparecchiarlo a' maggiori disagi da me preveduti.L'arrivo all'imbarco del provveditor generale, fra lo strepito degli strumenti e delle cannonate, mi scosse da' miei piccioli pensieri e mi sorprese. Questo cav

aliere, ch'io aveva prima ben dieci volte visitato al di lui palagio e m'aveva sempre accolto scherzevole e con quella affabilità e quella dolcezza confidenzialech'è propria quasi in tutti i veneti patrizi, giunse all'imbarco colle vesti, coll

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e scarpe e col cappello cremesi, con un aspetto sostenutissimo a me nuovo, e con una fierezza nel volto notabile. Appresi dagli altri uffiziali che alla sua comparsa in quelle vesti occorrevano delle mute riverenze profonde, e assai diverse da quelle che si fanno in Venezia ad un patrizio togato.Salì egli nella galera Generalizia, mostrò di non degnarsi nemmeno di osservare i nostri inchini co' nostri nasi sui nostri piedi. Sbandita affatto la affabilità concui ci aveva accolti e presi per la mano in Venezia, non guardò nessuno di noi nel

 volto, e fece caricar di catene il giovine capitano della guardia, appellato Combat, che aveva mancato di non so quale piccola ceremonia militare nell'accoglierlo. Osservai tutti gli astanti, sbigottiti e con gli occhi spalancati, guardarsi l'un l'altro.Quelle austere novità occuparono per poco il mio cervello. Parvemi ragazzescamente filosofando di comprendere che un nobile d'una repubblica eletto provveditor generale d'una armata e capo di due estese provincie, nel presentarsi tale, dovesse mostrarsi in un aspetto affatto diverso da quello d'un patrizio togato, per far tremare e per istillare della soggezione a tutti i subordinati, avvezzi e fatti arditi da un privato cortese accoglimento, e spesso presuntuosi e millantatori di possedere e di disporre della grazia generalizia.Siccome ero io fortissimo nella massima di non commettere delitti, di fare il do

ver mio senza niente pretendere dalla fortuna, fui meno atterrito degli altri al terribile contegno e agli aspri comandi di quel signore. Diceva tra me: - Eglimi fa alquanto di paura; ma egli si degna di darsi il peso, il pensiero e lo studio di trasformare se medesimo nel contegno per farmela; - ed apprezzando la sua fatica trovava minore la mia paura, del suo disturbo. Ritiratosi egli nella sua stanza nel profondo di quel navilio infernale, spedì il tenente colonnello Micheli suo maggiore della provincia a tutti gli uffiziali e venturieri imbarcati, a chiedere loro chi fossero e da chi raccomandati. Dopo tante visite fattegli nel di lui palagio, tanti accoglimenti, tanti colloqui avuti con lui in Venezia da tutti noi, nessuno si attendeva questa ricerca. Mi riconfermai nel riflesso ragazzo-filosofico, che aveva fatto. In questa maniera egli estingueva interamente inognuno le speranze concepite nelle visite fattegli ed accolte con tanta umanità, prima che s'imbarcasse e prima che vestisse le insegne generalizie.

Il maggiore della provincia, Micheli, ottima persona e assai pingue, venne ad eseguire quel comando, molto affaccendato e sudato, in gran diligenza, con un foglio ed un toccalapis. Ognuno aombrava, borbottava e sbuffava a passare quella rassegna. Dal canto mio, ho risposto con viso ridente al signor maggiore della provincia pingue e badiale, ch'io mi chiamava Carlo Gozzi, e ch'era stato raccomandato dal patrizio Almorò Cesare Tiepolo. Tacqui il senatore e il mio zio materno, per non comparire ambizioso. Quella dimenticanza, certamente finta, nell'E. S., che tanto increbbe agli altri, a me parve un tratto politico necessario per alcune teste fumanti de' miei sozi, che s'erano molto vantati d'intrinsechezza col cavaliere prima del di lui imbarco.La galera Generalizia, col séguito d'un'altra galera detta Conserva e d'alcuni navili sottili armati, s'avviò nel golfo Adriatico, e sopraggiunse la notte assai buia. Quella notte mi rimase fitta nella mente per un accidentuzzo che mi avvenne.Egli può stare nelle memorie della mia vita; mi si può perdonare qualche indecenza ch'egli contiene; ed io lo narro soltanto per far comprendere qual asilo sia unagalera per un giovinotto avvezzo alla casa paterna e appena uscito da quella.Il luogo comune per alcune indispensabili necessità degli uffiziali, soleva essere una panchetta balaustrata, sopra all'acqua, vicina al timone della galera. Sperai in quella notte oscurissima di potermi ivi sgravare d'una delle sopraddette necessità. Trovai un ordine tremendo nella voce del timoniere, che nessuno dovesseaver l'ardire di presentare il diretano a quella panchetta, perché ella corrispondeva ad una finestrella di sotto della stanza di Sua Eccellenza. Il comando mi parve disturbatore, ma ragionevole.Chiesi dove potessi andare, e mi fu risposto che il meglio era di calarsi con cautela sullo sperone per prua della galera. M'avviai veloce, colle brache in mano

 per la corsia verso cotesto sperone per prua, ed ho saliti frettolosamente alcuni gradini, che conducono ad alcuni altri gradini per i quali si discendeva al da me bramato sperone. Un "chi va là" enorme di una sentinella morlacca ivi posta,

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che mi si presentò col fucile, con un viso tenebroso e con due baffi spannali, trattenendomi, accrebbe la mia necessità. Gli chiesi la libertà sulla mia Decorrenza, guardando mansueto i suoi baffi opportuni, ed egli mi fu clemente lasciandomi oltrepassare.Tra il buio e la premura grande mi calai sullo sperone, tenendomi ben forte ad una corda che penzigliava. Calcai sopra una massa molliccia, che gorgogliò molte volte una voce soffocata, come quella d'un asmatico. La necessità stimolatrice e la

tenebrìa non mi lasciarono esaminare quella massa ch'io calpestava. Mi sollevai dal mio peso soperchio, non senza spruzzi marittimi che la galera in corso mandava da' flutti con della violenza a inaffiarmi.Sollevato e risalito, chiesi alla sentinella che fosse quella massa molliccia, che gorgogliò una voce senza articolazione sotto a' miei piedi. Mi rispose con somma freddezza, ch'ella era d'un forzato morto di febbre maligna, a cui doveva aver calcato il petto; ch'egli era stato posto ivi al fresco, sino a tanto che s'approdava nell'Istria per seppellirlo in sul lito. Raccapricciai, ma le favorevoliconsuete mie risa vennero tosto a soccorrermi.Dopo dodici giornate molto incomode e dodici notti di fastidio e d'interrotto sonniferare, la nostra veramente galera giunse nel porto di Zara, metropoli dellaDalmazia.

Seguì uno sbarco privato e quieto, e seguì poscia, qualche giorno dopo, lo sbarco strepitoso, in cui il provveditore generale Iacopo Cavalli cesse il bastone di comando al provveditore generale Girolamo Quirini. Questa solennità segue in sul mare tra il rimbombo degli strumenti, delle artiglierie e delle moschètterie, con molti ordini osservati a puntino, e merita d'esser veduta dagl'infiniti uomini ch'hanno il solletico della curiosità per gli spettacoli. Un certo vecchio grasso di corta statura, con due basette sotto al naso, lepidissimo ed onestissimo, appellato il capitano Girolamo Visinoni, come prattico, era il deputato direttore di tutte le cérémonie e le osservanze occorrenti. Io non ebbi altra ispezione quel giorno, che di pormi indosso il migliore de' miei vestiti, che non era gran cosa.CAPITOLO V.Mia infermità mortale superata, mie moralità, mia amicizia intrinseca, unica, consolidata nella Dalmazia.

Piantata la nuova reggenza e piantata la corte, ebbi otto soli giorni di tempo da studiare il mio impiego di venturiere, ivi detto d'aiutante di S. E., e di seguire il mio costume d'osservatore, nel principio del mio triennio.Fui assalito da una febbre, che s'è dichiarata dell'abilità delle maligne. Vedendomi solo nel mezzo a persone che conosceva appena, aggravato da una infermità micidiale, e in que' princìpi in una stanza provvigionale assai squallida, le di cui finestre in iscambio d'invetriate avevano le impannate di tela infracidita dal tempo e dalla pioggia, lacera e volante ad ogni soffio di vento, con un scarsissimo erario nella mia borsa, non potei impedire all'umanità il rammemorarsi che alla più picciola febbre, nella mia casa paterna aveva per lo meno una diligente assistenza e non mai disgiunta una serva o una sorella dal mio guanciale, che fugava le mosche molestatrici dalla mia faccia. La poca premura che aveva di vivere mi soccorse a scacciare de' pensieri e delle rimembranze inutili.Mentr'era un giorno solo e ardente nella mia affannosa febbre, uno di que' galeotti, che ravvolti in una specie di schiavina ridotta veste, cinti a traverso con una fune, entrano dagli uffiziali di quando in quando ad esibirsi a' bassi e schifi servigi e involare qualche cosa se ben fatto vien loro, si affacciò all'uscio della mia stanza poco dissimile dalla sua, e mi chiese se mi occorreva qualchecosa da lui. Gli donai alcune gazzette perché m'inviasse unconfessore; uffizio ben differente da quello ch'egli era venuto per fare. Vidi poco dopo comparire un buon padre dell'ordine de' predicatori di San Domenico. Egli m'ascoltò, ed io l'ascoltai, e mi sono trovato capacissimo di morire con una costanza da antico romano.De' moderni filosofi, che hanno adottata, a mio credere, assolutamente un'immagine falsa della filosofia, troveranno in questo mio apparecchio alla morte d'acco

rdo con un domenicano, una piccolezza plebea di pensare. Io non seppi e non saprògiammai disgiungere la filosofia dalla religione, né ho potuto giammai arrossire sul punto della religione di somigliare a un bambino e ad un vecchio decrepito. R

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ingrazio il mio bamboleggiare per innocenza, e il mio vaneggiare con una naturaspossata per de' timori avvalorati da tanti grand'uomini in questo proposito, egiudicando ciò che si chiama da alcuni "sublimità di pensare", cecità dannosissima, cagionata da' sensi viziati e da un corrotto costume. Non invidio sublimi.Il protomedico Danieli, assai grasso e assai nero, a cui ero stato raccomandatoda S. E. provveditor generale, non mancava né di attenzione né di polverine né di cordiali né di cristeri, colla solita inutilità. Mi consigliò a rassegnarmi alla morte ed

a ricevere la venerabile eucaristia, edificatissimo che avessi prevenuta l'inefficacia della sua dottrina ippocratica colla mia confessione penitenziale. Richiamando tutto il residuo de' miei spiriti vitali, feci con sommo raccoglimento anche questo passo. Trovava pochissima differenza da quella mia stanza ad un sepolcro riguardo al mio corpo, e per ciò non mi passava nemmeno per la fantasia il ribrezzo d'abbandonarlo a' beccamorti.Lo stato mio attendeva la sacra unzione, quando una di quelle emorragie di sangue dalle narici che m'avevano prima ben quattro volte ridotto all'uscio della morte, venne a farmi rivivere.Era ridotto lo spettacolo d'una infinità di popolo, che si affollava intorno al mio letticciuolo; per vedere la beccheria del mio naso. Furono adoperati invano gli strettoi, le polveri, l'erbe, gli empiastri astringenti, le pietre simpatiche,

 le parole in arcano, e tutti i pentacoli divoti e magici delle femminette.Empiuti ch'ebbi due catini di sangue, caddi in un deliquio, che il protomedico appellò sincope e che aveva tutte le apparenze di morte. Il sangue cessò d'uscire, rinvenni dopo un quarto d'ora, e, tre giorni dopo la "sincope", mi trovai bensì debile, ma libero affatto di febbre e risanato.La mia ignoranza non potè conciliare col caso avvenuto in quella mia infermità il parere del protomedico, il quale aveva proibito come un carnefice in quella natura di male un salasso, ma una dezina di medici franchi fisici ragionatori con dieci discorsi diversi, appoggiati a dieci ben fondate ragioni diverse, d'origine diversa e di conghietture tutte diverse, spiegherebbero diversamente questo fenomeno con somma limpidezza e felicità, illuminando o sbalordendo la mia ignoranza. Grand'intelletto ha dato messer Domenedio agli uomini!I lettori di queste memorie possono facilmente essere profeti sullo stato in cui

 si rimase, dopo quella infermità, un borsellino verde, che alla mia partenza m'era stato consegnato leggero e tisicuzzo.Conobbi in quella amara circostanza la cordialità ingenua e soziale del signor Innocenzio Massimo, nobile di Padova, ch'era nella corte capitano d'alabardieri. Quest'uomo, veramente raro per le doti dell'animo suo, per la sua prontezza di spirito, per il suo coraggio, per la sua attività e onoratezza, fu l'unico intrinseco amico ch'io avessi in quel triennio di lontananza dalla mia famiglia, terminato il quale, non correr di tempo, non distanza di luogo, non umane vicende poterono troncare o diminuire l'amicizia nostra, che da trentacinqu'anni circa è ancora e sarà sempre la stessa.Alcune qualità ed alcune massime indivisibili dal suo temperamento: verbigrazia, di non voler sofferire offese; di non voler essere ingannato; di scoprire con penetrazione l'ingannatore; d'opporsi nella sua famiglia alle superflue spese introdotte dal costume guasto, dalla leggerezza e dal lusso; gli hanno fatti de' nimici.La decenza regolare ch'egli sostiene nel di lui albergo; l'ospitalità con cui accetta e tratta i suoi conoscenti ed amici; gli agi che con immensa spesa apparecchia a' suoi posteri; le beneficenze ch'egli usa verso gli afflitti; la concordiache proccura negli animi esacerbati de' suoi concittadini; le brighe ch'egli siprende di somma fatica per tutti quelli che a lui ricorrono; non poterono giammai disarmare una turba fatta ingiusta dalla corruttela nel pensare introdotta dalla scienza del secolo, e che di giorno in giorno va rendendo l'umanità sempre maggiormente franca e sciolta e leggiadra in quella cattiveria a cui pende naturalmente. Perché ho pubblicati in istampa de' miei sentimenti correlativi a quest'ottimo amico mio nel tomo quarto delle mie inezie teatrali a lui dedicato, e perché nel

 corso di questi mal impiegati fogli caderà a proposito ancora il far menzione dilui, seguo le mie memorie niente memorabili.CAPITOLO VI.

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Breve studio di fortificazione e di militari esercizi. Mie riflessioni, che saranno giudicate follie.Terminata la mia convalescenza, fui raccomandato da S. E. provveditor generale al tenente colonnello degl'ingegneri, Marchiori, perch'io studiassi la matematica relativa alla fortificazione. Quel cavaliere mi chiamò a sé e mi disse che aveva avuta notizia dal mio zio della mia inclinazione all'applicare, e che m'apriva lavia ad uno studio utilissimo a chi vuoi fare il soldato. Mi vidi in ciò distinto d

agli altri venturieri, e conobbi più espressamente che la dimenticanza dimostratadall'E. S. al suo imbarco, di noi cortigiani e del nostro nome, non era stata che una politica finzione per abbassare gli orgogli.Lo ringraziai umilmente, e, senza abbandonare punto né poco i miei primi affetti alla poesia e all'eloquenza italiana, m'adattai con piacere anche agl'insegnamenti del signor tenente colonnello degl'ingegneri Marchiori. Il mio grave maestro m'interrogò sull'aritmetica, della quale non aveva che de' princìpi; e siccome intesi benissimo da' suoi ricordi che il saperla fondatamente e francamente era cosa indispensabile alla scuola che intraprendeva, mi posi a studiarla con tutta la testa fredda che si richiede a quello studio, e nel giro di un mese fui più dotto abachista d'un usuraio; quindi incominciai ad ascoltare attento e ad eseguire i dettami del signor maestro ingegnere.

L'amico mio signor Innocenzio Massimo, ch'era stato un lungo tempo discepolo del rinomato matematico nell'università di Padova, signor marchese Poleni, oltre a' compassi, alle squadre, alle regole e agli altri ordigni occorrenti al disegno, possedeva molti ottimi libri francesi, che trattavano di geometria, di matematica e di fortificazione, e mi fornì liberalmente di quanto aveva in possesso. Tra lelezioni del signor Marchiori, i discorsi scolastici che teneva col signor Massimo, Euclide, Archimede e i libri francesi che leggeva sprofondato, nuotava ne' punti, nelle linee, nelle figure e ne' calcoli, ed era fornitissimo di quell'entusiasmo, alla mia lente faceto, che hanno tutti i studenti di quella scienza.Non mi ridussi però giammai, come quelli, a tenere per inutilità e frivolezze gli studi della morale salubre e quelli delle belle lettere ricreatrici e umanizzatrici. Mi ricordava le buone ragioni per le quali, a' giorni suoi, Vespasiano imperatore aveva sbanditi i matematici, che s'offerivano a' suoi grand'edifizi.

Sapeva che una infinità di vascelli e di grosse navi, parti di questa scienza, perivano miseramente nelle procelle; che cento fortezze, capidopera di questa scienza, erano da questa scienza medesima desolate, distrutte e prese; che delle inondazioni rovesciavano continuamente, col guasto delle sostanze di mezzo milione di viventi, degli argini costruiti da questa scienza, e che la causa di queste medesime inondazioni rovinose erano state dell'opere industri e mirabili anteriori di questa scienza; che, ad onta di questa scienza créatrice, le fabbriche sue creature non potevano difendersi da' terremoti, dagl'incendi, né da' fulmini, salva ragione a' conduttori del signor professore Toaldo, che verrà loro fatta non so quando.Oltre a ciò, siccome era franco nell'aritmetica, senza valermi dell'algebra de' grand'uomini, faceva de' conteggi onorati in sui beni, in sui mali, e sugli oggetti superflui che dà questa scienza all'umanità. Errava forse nel sommare, ma lasciando da un canto gli oggetti superflui e disutili, trovava la somma de' mali infinitamente superiore alla somma de' beni.M'inorridivano cento e più mila uomini ammazzati e affogati ingegnosamente nelle battaglie e nelle navigazioni alle quali questa gran madre prestava tutta la suadotta assistenza, e mi piaceva però il rilevare in un orologio di lei figlio, l'ora di andare a pranzo, a cena, a letto, più che quella di andare da un avvocato. Il favellare delle cose superflue, che dona agli uomini questa scienza, è uffizio della morale, scienza da me, con somma balordaggine, risolutamente considerata più utile di tutte le altre al genere umano.Nella costituzione a cui fu ridotto il mappamondo ne' suoi quattro elementi dagli uomini più cattivi ingegnosi, le scuole, le catedre e le accademie di alcune scienze protette, premiate e stipendiate da' principi, sono riveribili e rispettabi

li. Fortunati per ciò gl'illustri scientifici maestri e discepoli giovevoli alla misera umanità, che aspirano a de' stipendi e a delle pensioni per beneficare i mortali co' loro lumi e la loro sapienza. Io che, forse stoltamente pensando, né voll

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i giammai pescare onorari, né scontentarmi di ciò che naturalmente possiedo, facendo loro de' rispettosi inchini, non posso però trattenere la voce del mio cuore sugli effetti de' loro licei, a tale che ella non dica basso: Gian Iacopo Russò ha dimolti torti, ma non tutti quelli che se gli addossano.Seguendo i precetti della morale, ho spesso occasione di adoperarli anche versoi scientifici mio prossimo. Il riparto de' stipendi fa sempre piangere, ridere e mormorare questi signori. Esercito l'animo mio ad aver piacere del bene che vie

n conferito agli uni, e ad aver dispiacere delle difficoltà che trovano gli altria vincere il bene preteso nelle loro assidue circuizioni scientifiche. Non esamino se quel bene che fu conferito sia stato conferito con discernimento e giustizia, o con cecità ed ingiustizia; se la forza de' vezzi d'una femmina o quella de'vezzi di una borsa o gli effetti della ignoranza o quelli del timore d'una violenza abbiano relazione co' riparti de' beni a' scienziati, per non trovare degliargomenti da alterare la mia morale.Nel giro di circa otto lune del mio studio, disegnando, ricopiando, calcolando e passeggiando quasi ogni giorno le mura della città di Zara e del di lei forte col signor Massimo intelligente, esaminando le fortificazioni apprezzate, era giunto a comprendere la ragione di tutti gli edifizi suggeriti dalla morte alla illuminata natura umana per la distruzione degli uomini assaliti ed assalitori.

Il mio genio pacifico e risibile traeva da quegli studi de' frutti niente truci, anzi mansuetissimi. Vivevamo in società io ed il signor Massimo, ed avevamo preso allora a pigione un casino posto in sulle mura dalla parte che guarda al mare ed a' scogli. Il sole facendo il suo corso percuoteva da un lato o dall'altro, girando, quella abitazione sino al suo tramontare. Non v'era facciata né piano di finestra di quell'albergo, sopra cui non avessi lineati e stabiliti degli orologida sole di varie figure esattissimi, co' lor motti morali inutilissimi.Un tenente detto Giovanni Apergi, uomo di somma probità, assai divoto verso il Cielo, massime quand'era assalito dai dolori nelle giunture acquistati dall'esserestato assai divoto verso il mondo, si prese amichevolmente la briga di insegnarmi gli esercizi militari del fucile, della picca e della bandiera, che furono dame appresi in breve tempo, e sudava una camicia ogni giorno nel giuoco di scherma col signor Massimo, ammaestrato e feroce in quest'arte diabolicamente nobile.

Eravamo occupati egli ed io alcune ore del giorno sopra un suo gran scacchiere carico di soldatuzzi di legno movibili, e formando de' squadroni in battaglia studiavamo tutte le mozioni e le posture più vantaggiose per essere ammazzati con parsimonia, per ammazzare con prodigalità e per acquistarsi del merito in ben concimare de' cimiteri.Già era soldato per metà e disposto a seguitare gli studi per divenire un soldato intero, ma risoluto nell'animo mio di abbandonare l'armata al termine del triennio intrapreso. Un anno di osservazioni m'aveva abbastanza svelata l'indole d'una società, che quantunque avesse alcuni pochi individui dabbene, era però affatto contraria nel maggior numero in cui viene considerata, all'istinto mio; e un cervello incapace di dar ricetto al verme dell'ambizione e un cuore alieno dalle brame d'uffizi e di lucri, mi persuasero agevolmente ad un tale abbandono. La mia resistenza in quel triennio, non fu altro che un riguardo di non dar luogo alle derisioni, di non farmi giudicare volubile e leggero da' miei congiunti, a' quali averei voluto un giorno giovare co' miei suggerimenti, col mio credito e coll'esempio della mia perseveranza. Il mio lettor è però in piena libertà di considerare la mia resistenza di tre anni, più un'ostinazione mal sostenuta che un riguardo.Scorsi otto mesi di scuola di fortificazione, un'atrabile mi involò il mio poveromaestro tenente colonnello Marchiori in pochissime ore. Egli aveva ottenuta unacompagnia vacante nel reggimento di fanti italiani appellato "Lagarde", pochi giorni prima, in competenza col capitan tenente del reggimento medesimo. Essendo egli uno di que' uffiziali riformati col privilegio di aspettativa e con poco onorario, scortato da' suoi titoli e da' suoi diritti, vinse la compagnia in concorrenza, e sperando di vivere più agiatamente ebbe la morte dalla sua stessa vittoria. Alcune parole pungenti l'animo suo delicato sul trionfo ottenuto, delle quali

 fu impossibile il vendicarsi, risvegliarono tanti veleni nel di lui interno, che gli fecero abbandonare la vita e la compagnia conquistata. A quest'evento i miei riflessi morali fecero un viaggio assai lungo.

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Il Marchiori era onest'uomo, la sua morte fu compianta da tutti, dolse insino achi era stato la cagione, credo anche al capitan tenente ch'ebbe tosto la compagnia combattuta, ma scommetterei che il dispiacere degli altri non fu maggiore del mio. La sua sofferenza, la sua affabilità, la sua dolcezza usate con me, più comeamico che come maestro, mi restarono fitte nella fantasia e tennero in me la mestizia viva per lungo tempo.Grado grado mi raffreddai ne' miei disegni geometrici, mi riaccesi ne' miei prim

i studi; e, senza mancare alle guardie e agli altri doveri della mia ispezione,attendeva il termine del mio triennio, a cui mancava ancor molto, per cangiar vita.CAPITOLO VII.Prova che la poesìa non è arte inutile, come si crede comunemente.Convien dire che la mia debolezza per la poesia e per l'eloquenza italiana fosse grande. Nell'armata veneta, e specialmente nella Dalmazia, erano pochi e moltocattivi gli scrittori ne' detti generi. Scriveva e leggeva le mie fantasie da me medesimo, senza cercare quella compiacenza di cui vanno in traccia come bracchetti gli scrittori nel leggere altrui le operette loro per sentirsi lodare o adulare, ma soprattutto per seccare de' diretani e de' genitali, presumendo di ricreare de' cervelli e de' cuori. Il signor secretario del generalato, Giovanni Colo

mbo, che ebbe poscia un onore non disgiunto da una sciagura, raddolcita però da una magnifica pompa funebre, cioè di morire gran cancelliere della nostra repubblica serenissima, aveva qualche diletto delle belle lettere. Questo signore d'animosoave e d'indole gioviale, che aveva notizia della epidemia poetica della mia famiglia, mi stimolava a leggergli qualche cosa, e sembrava ascoltatore contento.Aveva seco recata una picciola ma scelta libreria, e mi forniva cortesemente dique' libri che a me mancavano. I miei versi per lo più urbanamente satirici, e pitture discretamente vivaci di caratteri, frutti di una pontuale osservazione filosofica sull'umano genere dell'uno e dell'altro sesso, erano palesi al signor secretario, al signor Massimo e a me soltanto.La città di Zara volle dare un segno di venerazione al nostro provveditor generale Quirini, e fu edificata per un sol giorno solenne nel prato del Forte una gransala di legnami, addobbata di bei damaschi, e furono dispensati a molte persone

de' viglietti d'invito per radunare un'accademia, nella giornata prefissa, di prosatori e di verseggiatori. Ogni accademico invitato doveva recitare due composizioni in prosa o in verso a piacere. Ne' viglietti erano notati il primo e il secondo tema da trattarsi. Ecco il primo: "Se sia più lodevole il principe che serba, difende e coltiva i propri stati nella pace, o sia più lodevole quello che cerca di conquistare de' nuovi stati coll'armi, per dilatare il dominio suo". Ecco il secondo: "Una composizione in lode del provveditore generale".Un vecchio nobile della città, detto il signor dottore Giovanni Pellegrini, avvocato fiscale, vestito a velluto nero con una gran parrucca bionda raggruppata, letterato molto eloquente sullo stile del padre Casimiro Frescot e del Tesauro, era il capo accademico e dispensatore degli inviti. A me non fu dato cotesto invito. Ciò prova ch'io ero un ignoto dilettante di belle lettere, e può anche provare che il signor Pellegrini assennato e gravissimo mi credesse ragionevolmente ragazzo non degno d'essere considerato, trattandosi d'una impresa ch'egli conduceva colla maggior serietà illirica italianata.Li signori Colombo e Massimo m'eccitavano ad apparecchiare due composizioni suitemi proposti e sparsi per la gran giornata prefissa; ma io ricusava di fare una tale comparsa, e per non avere avuto l'invito e per umiltà. Tuttavia volli divertirmi occultamente e abortire due sonetti, l'uno sul primo, l'altro sul secondo argomento; ma, risoluto di non fare alcun uso di quelli, gli aveva seppelliti nel fondo d'una scarsella. Si deve credere ch'io lodassi col primo la pace, e che il secondo fosse un elogio felice o infelice all'Eccellenza Sua.Il provveditor generale, accompagnato dagli uffiziali e da' maggiori di quella città, entrò nella sala casotto e si assise in un ricco sedile al quale si saliva per molti gradini, e uno stormo, non so da dove uscito, di letterati, andava posand

o i loro terghi eruditi in alcuni seggioloni, che formavano un semicircolo.Aveva veduto fuori dal casotto indamascato de' servi affaccendati, che apparecchiavano de' rinfreschi acquatici, e una gran sete mi molestava. Credei cosa lecit

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a l'andar a chiedere in cortesia una limonata a que' servi per dissetarmi, ed era da mal consiglio ingannato. Mi si rispose che, per un preciso comando, l'attodella misericordia di dar bere agli assetati era riservato per special privilegio verso agli accademici soltanto.Questa sgarbata risposta data al sitio di molti uffiziali aveva accesa una mutaturbolenza. Mi vergognai di ricevere una negativa tanto increata, e mi determinai in sul fatto con viso franco a dichiararmi accademico, per non sofferire rosso

re e per espugnare una limonata col titolo di poeta e con due sonetti, che era inespugnabile col titolo d'uffiziale e colle armi.Quest'accidente ha riconfermato nell'animo mio l'opinione dell'utilità della poesia contro l'universale parere che la considera inutile. Ella m'ha soccorso d'unalimonata e m'ha difeso dal crepare di sete. Colla limonata e co' miei due sonetti benemeriti in corpo, corsi arditamente ad occupare uno de' seggioloni nell'assemblea, la quale si sorprese alla mia comparsa, ma ebbe la bontà di sorpassare.Risuonò l'aere per tre ore di lunghe dissertazioni ampollose erudite e di carmi poco soavi. Qualche generalizio sbadiglio onorava di quando in quando l'accademiae gli accademici. Non posso dire tuttavia che non sieno giunti agli orecchi miei delle composizioni tollerabili e non attese da' miei maliziosi timori. Un certo abatino dall'ostia trapelò del genio poetico. Mi si dice ch'egli è ora divenuto ves

covo. Chi sa che la poesia non sia stata utile a fargli avere una mitra, come fu utile a me nella limonata.Tuonai anch'io nell'accademia col mio sonetto che sostenne il principe pacificopiù che il conquistatore, un di presso co' sentimenti dell'epistola di Boelò diretta al suo re Luigi decimoquarto, e coll'altro sonetto in lode del nostro provveditore generale Quirini. Quest'ultimo sonetto ebbe la sorte febea di piacere assaiall'E. S. e all'universale per conseguenza; egli mi stabilì poeta nelle opinioni zaratine. Fece poi nascere una scena comica due giorni dopo.Il provveditor generale si divertiva spesso sull'ore fresche a correre a cavallo, quando quattro quando sei miglia fuori della città, e una truppa d'uffiziali gli facevano codazzo cavalcando dietro all'orme sue. Tra questi correva anch'io. Cavalcando per tal modo un giorno, venne brama all' E. S. di sentire nuovamente il mio sonetto in sua lode, ch'era divenuto famoso, come spesso si vedono divenir

circolari in copia e famose delle inezie per le sole circostanze che le avvalorano.Il cavaliere mi chiamò altamente; spronai il cavallo per apppressarmegli, ed eglisenza punto rallentare il gualoppo, mi comandò di recitargli quel sonetto. Non credo che sia stato recitato un sonetto in una maniera simile a quella ch'io doveiprendere, dalla creazione del mondo a quel punto. Gualoppando dietro a quel signore, sparando quasi il polmone per farmi udire, con tutti i trilli, le aspirazioni, le cadenze, i semituoni, le smozzicature e le dissonanze che può cagionare loscuotimento niente accademico d'un cavallo in corso, recitai quel sonetto che parve di singulti, e ringraziai il Cielo, cacciato ch'ebbi fuori il quattordicesimo verso.Parvemi d'intendere, conoscendo molto bene quel cavaliere, sostenuto e terribile nelle cose importanti, ma bizzarro in alcuni momenti dello spassarsi, ch'egli abbia voluto per quella via stimolare il solletico alle sue risa. Credo di non aver preso errore, e solo può essersi egli ingannato, se ebbe speranza di ridere più di me sopra a quel caso. Dubitai tuttavia d'essere stato oggetto di riso alla comitiva cavalcatrice. Dubbio folle. Que' signori, cortigiani dabbene, mi giudicarono unanimi prediletto, distinto ed onorato pubblicamente dall'E.S. ed ebbero invidia d'una scena arlecchinesca ch'io aveva sostenuta, e ch'essi non avevano avuta la fortuna di rappresentare in mio luogo.CAPITOLO VIII.Ratifica d'un cenno dato nel capitolo secondo dì queste Memorie, relativo ad un mio pericolo della vita.Ho detto nel secondo capitolo che i ricordi datimi da un cozzone da cavalli ne'miei primi anni mi salvarono la vita, e il caso avvenne in una delle corse a cav

allo che faceva il provveditor generale col séguito degli uffiziali. Sull'ora determinata a quel cavalcare tutti gli uffiziali della corte mandavano alla scuderia generalizia i loro fornimenti da cavallo, e ognuno saliva sopra quella bestia c

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he giugneva dalla scuderia bardata dalla propria conosciuta guarnitura.Il bassà della Bossina aveva spedito in dono al provveditor generale un certo cavallo turco non castrato, di pelo stornello, di bella struttura, ma così fiero e cosìvizioso, che nessuno voleva salire sulla sua schiena pericolosa. Un giorno, nella moltitudine de' cavalli che giunsero bardati nel punto del cavalcare, vidi che i mozzi della stalla avevano posto i fornimenti di mia ragione in su quel turco indomito. Chi può indovinare le cause moventi i mozzi d'una stalla?

Lo sbigottire non fu mai per me, non so se per insensatezza o se per animo coraggioso. Aveva già cavalcate delle male bestie, fatta confidenza colle stramazzate,e quel momento, in faccia a tanti armigeri, non permetteva trepidazione. Balzaisopra all'animale come un antico paladino di Francia, senza esaminare per la fretta se il morso o le barde stessero a dovere.Il bucefalo, senza punto obbedire al freno, in iscambio di seguire la brigata posta in viaggio, si levò alto in sull'anche, fece un giro a dritta per aere, e conuna rapidissima carriera si mise a correre verso le sue stalle, ch'erano sotto le mura della città. Era un nulla il tirare e il girare le redini. M'abbassai alquanto per vedere la ragione dell'inutilità del morso. M'avvidi che la bestia non aveva freno in bocca, e che la stanghetta del morso, per la pressa, per l'innavvertenza o per la malizia de' mozzi, più animali d'un cavallo turco, non serviva che d

i barbazale.Le porte basse e le vie anguste, per le quali doveva passare in balìa di quel diavolo che volava, mi fecero riflettere che sarei giunto nella scuderia senza la testa; mi ricordai l'insegnamento del mio cozzone, e disperatamente allungandomi rizzato sulle staffe colle braccia innanzi, turai colle mani ambidue gli occhi all'animale in carriera. Egli non seppe più dove s'andasse, e cozzando orbo e furioso con la fronte in una muraglia, sbalordito mi cadde sotto con tutte quattro legambe. Rimasi in piedi da bravo cavallerizzo, e fatto alzare il turco che tremava come una foglia umiliato, tremando però alquanto anch'io, gli rassettai il morso nella bocca, e salitevi sopra nuovamente raggiunsi la brigata coll'applauso ch'hanno sempre queste brutali stramberie. Il dito medio della mia sinistra mano rimase gloriosamente scorticato nella percossa della muraglia. Porto ancora il segno della scorticatura, e una mancanza di alquanto di carne, ch'io consacrai al m

io pazzo valore applaudito. Sono certo che, trovandosi orbo improvvisamente, l'animale poco a poco si sarebbe fermato; ma era necessaria una muraglia a troncartosto l'impeto inviato d'un cavallo in carriera.CAPITOLO IX.Fatterelli, osservazioncelle, riflessetti, inette moralità e ciarle che annoieranno.Poche faccende avevano le milizie in quelle provincie, e il mio sonetto in lodedella pace andava a pennello. Alcuni casi, molti viaggi tennero occupati il miocervello, gli occhi miei, la mia curiosità taciturna; e cinguetto alquanto sopra a questi fogli esaminando la mia memoria.Erano state chiamate le truppe regolate in Italia che presidiavano le fortezze della Dalmazia, per la neutralità che correva del nostro serenissimo governo, nelle guerre accese in quel tempo tra le estere potenze. L'augusto veneto senato aveva commesso al nostro provveditor generale di levare delle nuove milizie di que'sudditi, per le necessarie guernigioni nella Dalmazia, non solo, ma per inviarein Italia un grosso numero di morlacchi.L'arruolare per i presìdi delle fortezze illiriche fu cosa facile; ma lo spedire il grosso numero di morlacchi in Italia non fu piccolo studio dell'E. S. Quelle fiere facinorose senza la menoma educazione intendono d'esser suddite e vorrebbero conciliare però la sudditanza col poter rubare e assassinare a lor senno, col ricusare d'obbedire in tutto ciò che lor non accomoda, e la ragione è per quelli un favellare sottovoce a de' sordi. L'unirsi in un collettizio comandato, l'abbandonare le tane loro per passare in Italia, era cosa da coloro ricusata come se fosse ricusabile.I loro capi, educati, bravi e fedeli al principe, sudarono assai, e convenne ric

hiamare i banditi, che per i frequenti misfatti di ruberie, omicidi, incendi edaltri simili eroismi, sono sempre innumerabili in que' territori, e fu necessario in aggiunta promettere a que' villici selvaggi ostinati delle paghe anticipate

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 per indurii al passaggio del mare e a lasciarsi condurre in Italia.Fui presente alla rassegna di quella specie d' antropofaghi, che fu data alla marina della città di Zara innanzi al provveditore generale con de' pronti navigli parati alla vela per l'imbarco di quelle belve. Ad ogni paio di que' lestrigoni rassegnati si dispensavano le paghe anticipate promesse, e quelli, per mostrare della contentezza, abbaiavano una non so quale loro canzone, facevano de' straniballetti presi per mano dinanzi all'E. S. e passavano nel naviglio.

Venerai la creazione anche in quei barbari, ma commiserai l'educazione, ed ebbiun passeggero desiderio di penetrare colla vista nel paradiso per vedere come campeggino in quel luogo di eterna beatitudine i morlacchi. È certo che le piazze d'Italia possedute dal nostro clemente governo, furono più disturbate che presidiate da que' brutali. Seguivano, specialmente in Verona, senza dar retta a' comandidella disciplina e della subordinazione, i loro sistemi di ruberie, d'assassini, di violenze, di tumulti e di pertinace disobbedienza; e pochi mesi dopo furonorimandati alle loro caverne per liberare l'Italia veneta da una intollerabile vessazione.Dovevano ripassare la rassegna nella capitale della Dalmazia per obbedienza e per essere congedati. Non vollero intendere ordini o precetti, e scoperte dal mare le prime terre illiriche, pretesero di sbarcare da' navili. I nocchieri si oppo

sero; ma essendo vicini ad essere tagliati a pezzi per fedeltà, presero terra disperatamente e aprirono le stalle a quegl'indomiti montoni.Questa narrazione non ha che fare colle memorie della mia vita, e potrebbe anche destare il sospetto ch'io abbia voluto porre in disegno di cattivo ritratto i popoli de' villaggi della Dalmazia. Convien sofferire qualche mia osservazione, e i valenti uomini onorati capi di que' territori sempre in susta con que' bestiali irragionevoli, mi giustificheranno nel resto.Ho vedute tutte le fortezze, molte terre e molti villaggi di quelle provincie. In parecchie città trovai delle persone educate, di buona fede, cordiali e liberali. Nelle più lontane dalla corte del provveditor generale, de' costumi rozzi e barbari. I villici sono tutti fiere crudeli, superstiziose, insensibili alla ragione. Conservano ne' loro matrimoni, ne' loro mortuori, ne' loro giuochi, gli usi degli antichi gentili perfettamente. Chi legge Omero e Virgilio trova l'immagine d

e' morlacchi.Essi pagano una truppa di femmine perché piangano sui cadaveri de' morti loro, lequali femmine si danno il cambio per dar riposo alle trachee spossate e rese fioche da certi lugubri ululati d'una musica che mette spavento. Uno de' loro giuochi è il levare alto, appoggiato alla palma della destra mano, un pezzo di marmo d'un peso enorme, e lo scagliarlo dopo tre o quattro salti. Colui che lo scaglia a dritta linea e più lontano, ha vinto il giuoco. Ciò ricorda i pezzi di masso pesantissimi che scagliavano a' loro nimici Diomede e Turno.Ne' nidi loro i morlacchi sono valenti e utili al principato in occasione di guerra co' turchi confinanti, verso a' quali conservano una cordiale antipatia. Ne' territori litorali, gli abitanti sono atti ad essere marinai, temerari abbastanza e risoluti combattitori sull'onde. Verso al Monténégro sono ancora più barbari i popoli. Quelle famiglie, i cui ascendenti e discendenti morirono pacificamente sui loro letti o canili e non vantano qualche buon numero d'ammazzati in esse, sono guardate con occhio di disprezzo dalle altre.Sulla spiaggia fuori della città di Budua, dove un drappello di que' nostri simili calano spesso la state dalle montagne per godere l'aere che spira dal mare, vidi fare le archibugiate e rimanere tre cadaveri sulla sabbia. Uno di quelli delle famiglie d'una lunga serie morta pacificamente, rimproverato da un altro di quella vergogna, volle troncare il rossore ai suoi posteri e incominciare i loro trofei dal farsi ammazzare ammazzando.Le zuffe e le archibugiate tra villaggio e villaggio in que' contorni sono frequenti. Quelli d'un villaggio che uccidono un uomo d'altro villaggio, non hanno mai la pace che al prezzo di cento zecchini o a quello d'una testa d'un uomo del villaggio loro; tariffa stabilita senza intervento di principe tra quelle genti d

alla bestialità considerata equità. Ebbi molte di queste erudizioni di tratti umanida un ecclesiastico d'un villaggio del Montenero, che mi teneva conversazione quasi ogni giorno sulla spiaggia di Budua. Egli parlava un gergone italiano, narra

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 terre potevano chiamare degli agricoltori italiani e far divenire una Puglia quelle campagne. Vidi ridere sgangheratamente i confabulatori sul mio progetto, echiedendo il perché di quelle risa, mi risposero che molti signori dalmatini s'erano provati a far venire de' villani industri dall'Italia, e che pochi giorni dopo il loro arrivo furono trovati uccisi per la campagna, senza poter rinvenire icolpevoli della lor morte.Mi persuasi tosto d'essere un cattivo progettante, e mi maravigliai che que' sig

nori ridessero e non piangessero a darmi quelle notizie.Amo troppo i due fratelli Arduini e gli altri nostri bravi studenti d'agricoltura per consigliarli ad andare tra i morlacchi a rendere ubertose ed utili le campagne di quelle due provincie; le quali per esser frontiere ad un possente comune nimico e confinanti, costano all'erario del nostro principe molto più di quello che rendono. Non ebbi giammai la temerità di voler penetrare, e specialmente di discorrere sulle viste e sulle ragioni politiche, ed è forse bene che quelle provincie rimangano nella loro sterilità. Il mio predicare, scrivere, stampare e provareche la prima indispensabile agricoltura dovrebb'essere sulle teste e sui cuori de' popoli, per avere di conseguenza de' buoni effetti nella sommissione, nella subordinazione, nella coltivazione, nelle arti e nella fedeltà, ha fatti molti progettanti collerici contro di me. Questi interpretano per mordaci satire tutte le

verità evangeliche, se sospettano in esse un'ombra avversa alle mire di particolare interesse o di particolare ambizione o passione particolare che hanno. Le veraci sciagure da me contemplate e riferite della Dalmazia, non tralasciando quella che i padroni delle tenute e de' poderi devono contentarsi di piccolissima porzione de' prodotti anche avanzati da' furti de' villici coltivatori, dovrebbero provare per incontrastabili le mie proposizioni sull'educazione morale e calmarela ingiusta bile sul mio carattere de' falsi interpreti. A questi, senza abbassarsi al cruccio, dovrebbe bastare il dire con aria di grandezza e di disprezzo, in linguaggio francese per avere maggior credito: Ces sonts des bagateles morales. Ho mangiato nel mio triennio dalmatino a vilissimo prezzo del gran salvaggiume e degli ottimi grandissimi pesci, spesso contro voglia e per cogliere una congiuntura propizia presentata dall'accidente. Rade volte la necessità trova di che provvedersi. Gli abitanti de' scogli, che sono i pescatori, pescano quando vien lo

ro la brama di pescare. Non badano a vigilie e portano quasi sempre molto pescein vendita nei giorni che si mangia la carne; e ciò che non vidi altrove è che recano il pesce a vendere calcato entro a delle sacca.Potrei narrare una lunga serie d'altre mie osservazioni fatte da me in que' paesi, ma temo d'allontanarmi di troppo dalle memorie della mia vita, e sono più contento della noia che ho data, di quelli che l'hanno avuta.Molti avranno già scritte e stampate relazioni di maggior conseguenza, e l'abate Alberto Fortis, uomo di vasto intelletto, d'ardire eguale ed istancabile nelle osservazioni e scoperte dette solide ed utili, ha fatte negli abitanti, ne' mari,ne' monti, ne' laghi, ne' fiumi e nelle campagne di quelle provincie delle scoperte utilissime e considerabilissime. Sono stampate, e ognuno può leggerle e crederle, come l'hanno lette e credute degli altri.Mi fu detto ch'egli abbia inventariate delle gran maraviglie e progettate dellemaniere di prodotti e di barili di merci, che si possono trarre da quel pezzo di mondo, ch'egli giudica abbandonato in una stomachevole trascuratezza. Tali progetti hanno un'effigie vezzosa, che piace a parecchi innamorati della novità dellescoperte, e non importa che sieno in gran parte falsi e in gran parte non eseguibili, perocché in ogni età v'è una scienza dettata da un fantasma detto moda, il quale si è sempre divertito sull'umana volubilità, sull'umana avidità, sull'umano capriccio. I viventi dell'età nostra si persuadono e s'allegrano facilmente, ad un semplice fantastico disegno dell'opulenza, del lucro e degli agi de' nostri corpi, passando sopravia a tutto ciò che giova agli spiriti e a' cuori per fermarli ne' limiti della temperanza, della moderazione, della verità e del dovere.È una tavoletta il dire che, senza il balsamo della educazione morale, l'opulenzae gli agi sono soltanto veduti da chi non li possiede in chi li possiede e guard

ati con occhio d'invidia, di rancore e coll'animo di pirata; e che chi gli ha in possesso non vede e non crede giammai di possederli, facendo un vergognoso abuso di quelli.

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Non credo che l'abate Fortis, del di cui intelletto si deve avere molta stima, si sia degnato di ricordare, che per ridurre la Dalmazia e l'Albania veneta a tutto quel bene che potrebbero dare coll'industria, sarebbe necessario incominciare dallo spargere poco a poco con insistenza sul costume e sul pensare un'efficace buona morale, che apparecchiasse i cervelli, gli animi e i cuori alla ragione e all'obbedienza. Con questo studio preliminare e indefesso, dopo il corso d'un secolo e mezzo, si potrebbe forse verificare la decima parte de' lusinghieri prog

etti. I miei riflessi sull'educazione, sul costume e sulla morale, saranno sempre minuzie ridicole allo sguardo de' progettanti sorgenti di corporali dovizie, i quali, piuttosto di trovare ostacoli in una guasta morale alle loro mire, che per lo più non oltrepassano i loro individui, s'ingegnano a provare che la cattivamorale è l'ottima. Le lor prove non sono che sofismi, ma sono comode, e per ciò persuadono facilmente; e gli ostacoli miei non sono che frivolezze indegne d'occupare la mente de'grand'uomini: ond'io ripiglio le memorie della mia vita più frivolee più indifferenti.CAPITOLO X.Sono arrolato nella milizia di cavalleria.Erano scorsi circa a quindici mesi del mio triennio, quando avvenne la da me anzidetta novità della spedizione di quasi tutte le truppe regolate in Italia e dell'

ordine d'arrolare nuove milizie nella Dalmazia. Fu quello il momento in cui parve bene a S. E. provveditor generale di farmi registrare nel ruolo de' militari.Commise ch'io fossi arrolato cadetto nobile nella cavalleria; ed eccomi soldatoda vero in età di intorno a diciott'anni.Il signor Giorgio Barbarigo, ragionato, basso, grasso e onest'uomo, m'ha data la notizia che m'aveva registrato e che poteva andare nella ragionataria a riscuotere trentotto lire al mese di buona moneta veneta, che si convenivano al mio titolo. Mi sorprese l'inaspettata notizia, e fui a ringraziare l'E. S. dell'ordine dato.Egli rispose al mio dovuto uffizio, che essendo state chiamate in Italia quasi tutte le truppe regolate, vedeva difficil cosa che se gli potesse aprire la congiuntura nel suo triennio di reggimento, ch'era già in parte trascorso, di potermi dare maggior grado nelle milizie. Aggiunse con un modo ironico e scherzevole le parole seguenti: - Benché io creda che non abbiate intenzione di seguire la carrier

a militare, apparendo da molti segni della condotta vostra che abbiate piuttosto quella di vestire l'abito religioso.Perché il mio cervello (forse pregiudicato) non si forma obbietti e non coltiva pensieri molesti, ho interpretata quella generalizia ironia in mio vantaggio, rispondendo a quel cavaliere con sommessione, ilarità e ingenuità, che la mia inclinazione non era veramente di proseguire il corso militare, ma che non avrei nemmeno giammai vestito un abito ecclesiastico; che non era per me disutile l'aver studiata l'umanità in un'armata e ne' popoli di quelle due provincie, e che soprattuttom'era utilissimo l'onore d'aver servito l'E. S. per tre anni. M'avvidi che la mia risposta non gli dispiacque, e mi ritirai col solito profondo inchino.Fui attentissimo a' miei militari doveri; e sono certo che, se fosse avvenuto un cimento di guerra, mi sarei esposto da ragazzo romanzescamente onorato a morirmartire della patria, della mia gloria e delle mensuali trentotto lire.Non mi acquistai meriti nel mio triennio, a mio credere, che equivalessero il prezzo che riscossi dal principe, riscossione che non oltrepassò il mio triennio. Epilogherò in un fascio tutti i meriti miei di quel tempo, per lasciar decidere a' lettori se sono in debito di restituzione. Sono stato diligente e pontuale alle mie guardie e a tutte le altre ispezioni mie, di giorno e di notte. Ho seguito il nostro provveditore generale per mare e per terra alla visita delle fortezze terrestri e litorali. Nelle occasioni di pestilenza, suffumeggiai tre o quattro volte il giorno in un crivello, con danno notabile delle mie camicie e de' miei manichini, le molte e frequenti lettere che giugnevano da' villaggi infetti dirette al provveditor generale, che si fidava della mia accuratezza in quell'uffiziodi fumo. Ho portati in voce degli arresti a de' patrizi veneti dell'armata, a de' nobili e a degli uffiziali, ordinatimi dall'E. S. e sempre con dispiacere. Sog

giacqui ad un arresto con molti altri uffiziali per una bistorta riferta fatta non so da chi a S. E. Non seppi vedere giammai qual colpa avessi io e qual colpaavessero gli altri, perché fosse fatta la bistorta riferta. Fui il primo liberato

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poche ore dopo, sulla richiesta di grazia fatta volontariamente per me da una dama Veniero gentilissima. Quantunque fossi innocente, la ringraziai come s'io fossi stato un reo da lei liberato.Tralascio di porre nel conto de' meriti miei i patimenti grandissimi che soffersi ne' viaggi da terra sopra a de' tristi rozzoni sotto agli ardenti raggi del sole di quel clima, e dormendo le notti vestito con gli stivali in gamba, spesso nelle aperte valli e campagne morlacche; e nei viaggi da mare dormendo nelle gale

re sopra a' viluppi delle gomone, ferito da un milione di cimici. Rivolgeva tanto agevolmente gli argomenti di queste mie pene ad argomenti di saporite risa, che non posso vantar meriti da questa parte. I patimenti che ho passati ne' disordini volontari, detti sollazzi da' militari, de' quali darò qualche idea, sono stati maggiori.Tuttavia parecchie di quelle attestazioni proccurate da molte persone che assediano il pubblico erario, non hanno maggior fondamento di quelle che avrei potutoproccurar io colle solite caricate espressioni de' benevoli che le firmano.Registro un mio merito, che non è marziale, ma che avrebbe potuto essere efficacea qualche altro ragazzo militare, ad aprirgli una via di ascendere con rapidità forse al grado di colonnello. Si penerà a credere questa verità. Io fui in Dalmazia una servetta celebre in sul teatro, nella commedia improvvisa.

CAPITOLO XI.Abilità comica, giuochi, imprudenze, pericoli, riflessioni sempre frivole.In un teatro della corte si recitavano tutto il carnovale tragedie, drammi e commedie all'improvviso da' dilettanti di comica, per divertire il provveditore generale, gli altri patrizi rappresentanti, l'uffizialità e la città. La compagnia comica, come suol essere per lo più ne' teatri non venali, era composta tutta d'uomini, e de' maschi giovani colle vesti muliebri supplivano alle parti delle femmine. Io m'era scelto di rappresentare la parte della servetta.Bilanciando il genio de' miei ascoltatori e la nazione a cui doveva presentarmi, inventai un genere di servetta non più veduta. Mi feci vestire da ragazza serva dalmatina. I miei capelli erano divisi, intrecciati con delle fettuccie di zendado color di rosa. Le mie vesti, i miei abbigliamenti, erano quelle e quelli della più galante serva della città di Sebenfco. Lasciai da un canto la favella toscana,

che usano le servette de' nostri teatri d'Italia, e perché aveva appresa la favella illirica soffribilmente, m'apparecchiai ad esprimere i miei sentimenti ne' dialoghi e ne' soliloqui improvvisi col dialetto veneziano alterato e dalla pronunzia e da molti vocaboli illirici italianizzati, a tal che il mio linguaggio era un gergone faceto.Sono uscito a far la mia parte concertata con un loquacissimo coraggio, e quella nuova specie di sevetta inaspettata, intesa da que' nazionali non meno che dagl'italiani, sorprese, fu accolta con giubilo da' miei spettatori, e vinse gli animi di tutti generalmente. I miei scorci muliebri dalmatini; le mie risposte satiriche alla padrona; le mie malizie in sugli aneddoti noti de' miei compagni e della città, esposte con arte decente e con delicatezza; i miei rimproveri; la mia ostentata castità; i miei riflessi, i miei lamenti, fecero tanto ridere il provveditore generale e tutti gli ascoltatori, che mi fu accordata universalmente la vittoria di poter essere considerato la più valente e la più buffoncella servetta che sia comparsa in sui teatri. Si volevano spesso le commedie improvvise per rideresulle ciarle facete e sul gergone illirico italianizzato della Luce, che vuol dire tra noi Lucia. Con questo nome, e non con quello di Smeraldina, Corallina o Colombina, volli esser chiamata nelle commedie.Molte signore cercarono a gara di voler conoscere cotesta Luce maschio, diavolotanto scherzevole in iscena, da vicino e fuori dal palco scenario, e trovarono un ragazzo così sostenuto, taciturno e differente dalla Luce, che incollerirono. Ora ch'io sono in un'età avanzata, conosco che le lor collere erano più mia fortuna che mia disgrazia. Quelle che in séguito seppero celare il loro disgusto sopra a quella differenza e mostrare che la rattenutezza e la serietà in un giovine erano de' gran incentivi per i loro cuori, mi fanno ora fare con maggior fondamento la so

pra accennata riflessione morale. Era io d'età assai fresca, e non conosceva ancora l'estensione dell'ingegno donnesco.La mia comica bravura mi fruttò d'essere dispensato dalle guardie e dall'altre isp

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ezioni militari per quanto durarono i tre carnovali del mio triennio. Al cominciare di quelle stagioni, il provveditor generale mi chiamava, e con maniera affabile raccomandava a me il suo divertimento nel teatro della corte sciogliendomi dagli altri uffizi. Egli fece introdurre a Zara nella state per estivo divertimento il giuoco del pallone che ivi non si accostumava. Per l'esercizio che aveva avuto prima nel Friuli in quel giuoco, stimolato dall'E. S. dovei espormi, e fuiuno de' principali competitori col mio vestito lascivo di renso, il mio girello

di zendal nero e i miei nastri. La mia inclinazione allo studio, la mia picciola letteratura, la mia sostenutezza e serietà, non fecero giammai l'effetto che fecero sull'animo del bel sesso la mia comica abilità e la mia comparsa nel circo delpallone. Queste posero in cimento la mia castità e la soggiogarono la prima volta. Verrà il capitolo de' miei amori.La sopraddetta osservazione potrebbe farmi discendere moralmente a far de' giudizi poco aggradevoli sull'indole femminina e sulle principali magnetiche attrazioni de' cervelli e de' cuori donneschi. Sono discreto, e anzi mi rallegro con questo sesso che sieno estinte per lui le idee del costume de' tempi del Petrarca,e di vederlo nuotare a' dì nostri in un lago di soave elettricità confacente al suogenio, per l'abbandono nella maggior parte de' giovani degli studi incomodi, e per la perfetta loro occupazione delle leggerezze non dissimili da' palloni spint

i pomposamente per l'aria da un braccio robusto e dalla comparsa d'un uomo servetta nella commedia.Oltre a che non interesserebbe la minuta storia del mio ragazzesco coraggio esposto in molti cimenti nella Dalmazia, mi vergogno a confessare delle mie bravure, che non furono altro che insensate e forsennate imprudenze. Tuttavia, siccome il dare un picciolo dettaglio anche di quelle è un dovere di chi scrive le memoriedella sua vita, lo darò storicamente e ingenuamente, senza speranza che nessun padre, leggendolo, si riduca a considerare maturamente in qual mondo spedisca un figlio inesperto avviandolo a quell'armata in cui sono stato, e senza speranza che nessun giovane avviato a quella tragga dalle mie narrazioni quel frutto che trar potrebbe.Non v'era occasione di guerra, e il valore de' giovani uffiziali voleva sfogarsi. Sarei passato per un vigliacco, se avessi ricusato d'unirmi alle loro combricc

ole, nelle loro imprese. Queste imprese però consistevano nell'insidiarsi la borsa co' giucchi violenti, nel far delle serenate ne' luoghi da' quali poteva venire delle controserenate cogli archibugi, nel fare de' festini da ballo è delle cenecolle femmine da piacere, ne' garbugli notturni, ne' travestimenti per spaventare, e nel disturbare i sonni degli abitanti di quelle città e quelle fortezze dovesi trovava la corte generalizia. Mi risovviene che una notte della state nella città di Spalato otto o dieci di noi ci vestimmo due camicie, l'una con le manicheper le gambe, l'altra per le braccia, con un berrettone bianco in testa e una stanga nelle mani, e scorremmo la città com'ombre uscite dall'altro mondo, picchiando agli usci, svegliando chi dormiva con urli orribili, mettendo spavento nelle femmine e ne' fanciulli. E perché usano in quella città di tenere la notte, per il gran bollore, aperte le stalle de' cavalli per refrigerio di quelle bestie, sciogliemmo dalle cavezze più di cinquanta cavalli, e crosciando colle nostre stanghe gli facemmo correre per tutta la città. Il romore era infernale. Le genti saltavanodai loro letti temendo forse una scorreria di turchi e gridavano dalle finestre: - Che diavolo è questo? Chi è là? Chi va là? - Gridavano a sordi. Seguivamo il nostro crosciare e il nostro correre. La mattina gli abitanti sbalorditi si narravano l'un l'altro il caso come un prodigio, e avevano una briga a rinvenire i loro animali.Il saper io suonare passabilmente un mio chitarrino, mi faceva persona necessaria a queste interminabili e correggibili impertinenze da gioventù scapestrata, chemeritavano punizione, e che non intesi giammai come non arrivassero all'udito del provveditor generale, che sapeva punire acerbamente. L'emulazione nel coraggio della nazione italiana e della nazione illirica, ch'hanno sempre un occulto amaretto di disapprovazione, cagiona spesso in que' paesi de' brutti cimenti. È una v

ergogna degl'italiani il porre a repentaglio il coraggio per sostenere delle inscienze contro l'urbanità a lor senno, ed è cieca follia più che coraggio il sostenerle, massime fuori dalla lor patria e nel mezzo ad una nazione risoluta e strambiss

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ima.Dopo questa verità da me conosciuta sin da quel tempo, discendo a farmi il biasimo più che l'elogio, protestando che non si troverà nessuno che faccia testimonianza ch'io non sia stato una torre immobile e ch'io volgessi la fronte alle archibugiate minacciate ed imminenti nelle petulanze insoffribili sostenute co' miei compagni. Converrebbe chiedere ad un medico fisico bravo anotomico, più che a me, la ragione della mia intrepidezza costantemente risibile, nelle burrasche che passai

sul mare, nelle infermità che minacciarono i giorni miei, a' terremoti che scossero la mia abitazione, a' fulmini che la circondarono, alle tempeste che desolarono le mie sostanze ed a' cimenti di poter essere trucidato. Dal canto mio, non saprei rendere questa ragione, e per renderne una che vaglia per tutte, sosterrò d'essere uno stupido.A Budua, città verso al Monténégro, nella quale le femmine sono tenute in una gelosa guardia non comprensibile dall'Italia e dove sono facilissimi gli omicidi, il signor Massimo mio amico faceva di que' gesti amorosi, da una finestra del nostro alloggio, che sogliono fare i giovani in qualche distanza alle vicine, ad una fanciulla, ch'era delle più nobili e promessa sposa ad un signore di quella città, ed era corrisposto con quella vivacità ch'è naturale in una ragazza tenuta schiava. Convien dire che lo sposo futuro avesse qualche notizia di quell'aerea tresca. Una m

attina quell'illirico assai rozzo si pose in conversazione con noi uffiziali della corte in una piazzetta dove siedevamo sopra a certe panche di pietra. Egli fece goffamente cadere ad un goffo proposito una sua goffa esagerazione di disprezzo sul costume degli uomini e delle femmine d'Italia, con un sorriso tra il sciocco e l'acerbo, scherzevole a modo suo, guardando sempre il sopraddetto signor Massimo. La verità è che quel goffo discorso significava in sostanza, senza equivoco, che tutti gli uomini italiani erano cornuti e tutte le femmine italiane bagascie.Il Massimo, senza dar corpo ad un tale animalesco significato, che chiamava sangue e vendetta in sul fatto, si contentò di difendere il costume mascolino e femminino della nostra nazione audacemente e di provare con degli argomenti robusti che la barbarie e la tirannide maschile verso alle donne, sempre acute e sempre ingegnose in ogni clima, cagionavano peggior costume e maggiori disordini nell'Ill

iria, che non cagionava l'adito libero di conversare in Italia. Credo ch'egli abbia detto in parte il vero e in parte il falso, perché il facilitare e il sorpassare i disordini non fa che non sieno disordini; ma l'Illirico, poco facondo e che si sentiva male in gamba per sostenere una controversia di parole, non fece che crollare il capo col viso arcigno e dire al Massimo che avrebbe potuto imparare a suo costo che gl'italiani si regolavano malissimo nel loro costume.Non ci voleva altro che questa specie di sfida perché degl'italiani divenissero cavalieri erranti sostenitori del costume d'Italia in una città verso il Monténégro, dove s'ammazzano gli uomini per lieve motivo con quella indifferenza che s'ammazzano le quaglie ed i beccafichi.il signor Massimo si volse a me dicendo che, fattala notte, doveva seguirlo col mio chitarrino; e la mia intrepida condiscendenzaromanzesca rispose che l'avrei seguito assolutamente. Gli altri italiani ch'erano presenti, più giudiziosi di noi, fecero i sordi.V'era un giovine coadiutore nella secretaria generalizia, di nascita fiorentino, appellato Stefano Torri. Questi recitava nelle nostre commedie e nelle nostre tragedie le parti da femmina con molta abilità, e aveva inoltre l'abilità di cantarealcune ariette come un uscignuolo. Perché la nostra gita notturna avesse aspetto di serenata (cosa strana in quei paesi), il Massimo invitò quel povero giovine a gorgheggiare, senza avvertirlo dell'avvenuto; ed egli, vago di far sentire la suabella voce, e uomo di buone viscere, diede la sua parola.Giunse la notte. Correva il settembre, la stagione era calda e risplendeva la luna. Ci armammo del nostro brando, di due pistolette, e ci piantammo nella strada maggiore, ch'era lunga e diritta, sotto alle finestre della Dulcinea promessa sposa. Il Torri spiccò le sue canzonette melodiose, ed io strimpellai e pizzicai il mio chitarrino accompagnando la sua musica per un'ora. Fu improvvisamente apert

a una finestra, con del furore, dell'albergo celabrato da' nostri concenti, e vedemmo sbucare una grossa testa di faccia nerissima, la quale con una voce da Caron dimonio dalla voce chioccia, suonò le seguenti parole mal pronunziate: - Che in

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solenzia!Conoscemmo che quel gran teschio era sacro, e d'un monsignore canonico, zio della fanciulla. Ci voleva ben altro che una voce bovina canonica per sbigottirci.Il Torri canterino, coadiutore d'una secretarla e non militare, cominciò a comprendere che le sue canzoni erano inopportune; e con quella prudenza che massime lapaura suggerisce facendo de' buoni riflessi, chiese permissione d'andarsene. Lopersuademmo a fermarsi, adducendo che la strada era pubblica, che il divertiment

o era lecito ed innocente, e col decoro della nostra nazione. Egli seguitò il suocanto, ma le sue ariette avevano un perpetuo trillo mal collocato. Sostenemmo questo primo assalto canonico, che dopo aver replicato tre o quattro volte il tenebroso - Che insolenzia! - terminò con un chiuderci la finestra in faccia impetuosamente.Il secondo assalto fu molto diverso da quello della orribil voce ecclesiastica,e molto più serio. Questo chiuse la gola al nostro musico e gli fece uscire le sue canzonette per altra parte. Vedemmo al chiarore della luna imboccare la via dalunge sei incappucciati con sei archibugi luccicanti calati, e volgere il passotardo verso noi. A una tal vista il nostro canterino ebbe un'occorrenza tanto veemente, che sparì come un dardo per andarsi a sgravare ben chiuso nella sua abitazione.

Il signor Massimo ed io rimanemmo fermi come un Orlando ed un Rodomonte. Seguitai a suonare, e, perché non mancasse il canto, l'amico sciolse de' canzoncini villerecci con una voce franca, ma meno grata di quella del canonico, e con de' stuonamenti da far vergogna alla musica italiana e da far spiritare la signora più cheda farsi onore con lei colla nostra serenata.I sei incappucciati, a tal insistenza, si avvicinarono a venti passi da noi. Udimmo il crich di sei cani di fucile che alzarono al punto di poter far fuoco. Lanostra intrepidezza fu certamente infermità da salassi, da corda, da elleboro e da bastonate. Senza movere un passo, inarcammo le nostre pistolette verso la squadra mascherata. Gli assalitori guardarono noi, e noi guardammo gli assalitori per ben due minuti. Essi pensarono di passarci dinanzi difilati in qualche distanza sempre guardandoci con alterigia. Noi pensammo di lasciarli passare accompagnandoli con non meno fiero sguardo. Forse per darci tempo ad un atto di contrizione

 o di fare un riflesso prudente che ci facesse risolvere ad abbandonare il posto, seguirono il loro viaggio sino al fondo di quella via rivolgendosi a noi di nuovo.Quegl'imbacuccati conoscevano male la nostra bestialità. Rinnovellammo il canto ed il suono con maggior fracasso. Ritornarono al nostro verso con un passo da risoluzione, e trovando di nuovo i lor due inimici galletti temerari colle pistolette inarcate e in guardia, pensarono che fosse meglio l'oltrepassare e il ritirarsi senza più lasciarsi vedere. Allora il nostro strimpellare e le nostre urla musicali seguitarono sino all'alba: ma, vedendo apertamente ch'eravamo rimasti padroni assoluti del campo, con delle risa sbardellate sopra la vittoria ottenuta dalla nostra stolida audacia in difesa de' bei costumi dell'Italia, ci ritirammo per dormire alquanto.Credo che la partenza della corte generalizia da quella città, che dovemmo seguire anche noi un giorno dopo quella memorabile impresa, abbia impedito che ne' successivi giorni delle occulte archibugiate non abbassassero il nostro orgoglioso trionfo. Ho sempre considerato, più che grandezza d'animo, sbalordimento e cecità dicervello, il nostro coraggio in quel cimento. Interpretai che si abbia voluto farci fuggire per semplice paura, o che il riflesso sulla nostra imminente partenza o sull'essere noi persone del séguito e della corte d'un rispettabile capo di quelle provincie, trattenesse le archibugiate di que' buduani feroci, più che il timore della insana bravura di due mal armati arroganti insetti.Potrei narrare una serie infinita di occasioni incontrate di questo genere da farsi ammazzare con quell'onore che può dare il morire per sostenere delle impertinenze che disonorano, condannabili, e de' puerili puntigli. A Spalato, di notte, una delle nostre serenate fu soggetta a un'orrida tempesta di gravissime pietre,

che ci fece saltare come caprioli per scansarle, ma non mai per fuggire. Volemmo esaltare una bella ragazza di Raugia ivi mantenuta e amoreggiata da uno de' primi signori di quella città. Resistemmo sino al giorno col cranio intero, ad onore

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del costume d'Italia.Tra la gioventù militare, disoccupata ed oziosa, un giovinetto fa de' miracoli seconserva nello spirito il germe de' buoni princìpi bevuti nella sua famiglia. Se non discende ad uniformarsi al costume, alle imprudenze ed alle sfrenatezze degli altri, è noncurato, sprezzato e deriso. La rattenutezza e i sani riguardi sono sciocche viltà dell'animo, e il particolarizzarsi è una satira agli altri che lo rende odioso. Sciagura ornai resa comune anche fuori dell'armata. S'egli discende ad

unirsi, il giuoco, le femmine, la crapula lo rovinano nello stato, nella salutee nella buona fama, e le impertinenze sopraffattrici, dette sollazzi scherzevoli, mettono a pericolo la di lui vita.Posso vantare senza esagerazione d'aver fatto il miracolo di non aver mai giuocato che piccioli giuochi, di non essermi mai abbandonato alle sbrigliatezze della lussuria, d'aver custoditi nel cuore i princìpi della mia famigliare educazione e d'essere stato amato da tutti per una misurata condiscendenza e fratellanza apparente, ch'io credei necessaria a costo di qualche pericolo, sempre però colla massima fissa di non voler lasciare una trista opinione di me negli animi generalmente corrotti nel costume dell'armata, e coll'altra massima di non seguire la professione del soldato al terminare del mio triennio.CAPITOLO XII. Stratagemma militare.

Parmi d'essere in necessità di fare un racconto vero per far conoscere a' miei lettori che, quando ho potuto conciliare l'onore d'una pazza bravura necessaria almio sistema nella società in cui viveva con la cautela dell'evitare un pericolo, non ho mancato di farlo destramente, quantunque fossi un ragazzo di poco esperienza. Il racconto non merita d'essere considerato per la sua piccolezza; ma nessuna delle memorie della mia vita è meritevole di considerazione, le quali memorie non saranno lette che da que' pochi che avranno la inconcludente ma giusta curiosità di conoscere ciò ch'io fui e ciò ch'io sono, in un quadro censurabile in tutto, fuori che negli oggetti disegnati con imputabile verità ed esattezza.La città di Zara, dov' è per lo più la residenza del provveditor generale, ha una strada maestra assai lunga, che incomincia alla piazza di San Simeone e conduce sino alla porta detta Porta Marina. Molte viottole, che discendono dalle belle muradi quella città dalla parte del mare, sboccano in questa strada maggiore. Avvenne

che alcuni militari avevano voluto attraversare una di quelle viottole, che riducono al passeggio delle spaziose mura, e che un uomo intabarrato, muto e minaccievole, coperto la faccia, aveva loro presentato un facondo enorme trombone da fuoco alle vite e gli aveva fatti retrocedere e cambiare viottola. Quella violenza doveva essere ragguagliata al provveditor generale, che averebbe rimediato alla pubblica quiete e alla libertà del paese; ma per i militari era una viltà il produrre alla giustizia superiore tale ricorso, benché in alcuni di quelli non fosse viltà il rinculare e il cedere alla minaccievole bocca d'un trombone.È da sapere che in quel vicolo abitava una delle più belle giovinette popolane che vedesse occhio umano, chiamata per nome Tonina. Ella aveva di molti spasimati, ele sue cattiverie, i suoi nascondigli e l'esca che sapeva dare a parecchi merlotti, facevano il di lei carattere tanto tristerello, che la sua bellezza diveniva cosa materiale e da poche lire, e nondimeno ella sapeva venderla de' zecchini.Ci fu chi dirò più sotto, che amante perduto di costei e desideroso d'essere solo all'idolatria di sì bel tesoro, a contemplazione di quella frasca, per darle una testimonianza alla dalmatina d'un smisurato affetto, presentava il trombone a chi voleva di notte passare per di là.Avvenuto un tal caso per due sere consecutive, l'accidente divenne una delle maggiori novità del paese nell'anticamera generalizia. La conversazione d'ufficialità era ivi numerosa, e finalmente vergognandosi i militi che erano stati rispinti dal trombone della poltroneria e dello spavento avuto, si disposero di unire un buon numero d'uffiziali congiurati contro al trombone con giuramento di fedeltà.Fui ricercato s'io ricusava d'unirmi al drappello. La mia condiscendenza, la mia insensatezza e i miei sistemi non ammettevano un rifiuto, ed ho francamente data la fede d'essere colla truppa. Concluso il trattato in quell'anticamera, si co

mmise il silenzio e fu stabilito che tutti i congiurati dovessero porsi un nastro bianco al cappello per essere conosciuti, e che alle tre della notte ognuno dovesse trovarsi armato al consueto campo d'arme, ch'era la sala d'un bigliardo, p

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er andar poi all'assalto di Buda.Un nobile illirico appellato Simeone C***, assai bell'uomo, onesto, e d'uno di quegli animi risoluti che spaventano anche i militari, quantunque egli non fossesoldato, sedeva in un canto di quell'anticamera sonneforoso, quasi dormendo, e pareva che non ascoltasse il trattato della congiura. Egli era persona franca e gioviale, e che più volte mi aveva fatte delle proteste di vera cordiale amicizia.Poco dopo segufta la lega, io passai nella sala del generalato. Egli mi seguì pian

amente, incominciò meco de' discorsi indifferenti, ma, tirandomi passo passo in disparte, cambiò linguaggio e cominciò da questo preambolo: - È tempo ch'io vi doni unavera testimonianza della mia cordiale amicizia. Mi duole che abbiate data la fede imprudentemente d'unirvi stassera con que' Gradassi. Vi credo illibato e secreto, e che non paleserete a nessuno quanto sono per confessarvi, onde non vengano fatti de' ricorsi ad una forza superiore, che si deve rispettare, e perché non si creda esservi della viltà in chi è incapace d'averne. Da ciò misurerete com'io pensodi voi e la mia amicizia. Il mascherato son io. Questa sera i tromboni saranno quattro. Perderò la vita, ma la perderanno parecchi prima di passare per quella viottola. Mi rincresce di voi. Dispensatevi per qualche modo dal vostro impegno, elasciate che vengano gli altri che al sangue, al corpo troveranno di che spassarsi.

Questo ragionamento di tuono e d'eloquenza da trombone mi sorprese alquanto; manon mi tolse né il cuore né la lingua né il raziocinio, e gli risposi per il modo seguente: - Stupisco che abbiate incominciato il vostro discorso dal protestarmi amicizia e dal predicarmi la prudenza. Con mio dolore, voi non conoscete nemmeno il principio della prima e nemmeno il significato della seconda. Vi sono obbligato puramente della credenza che avete, ch'io sia incapace di palesare la vostra persona e ciò che mi confidate, a nessuno. Il vostro discernimento è giusto soltanto in questo. Saprei morire prima d'indurmi a palesarvi. Voi mi sforzate minacciando la mia vita a disimpegnarmi da una parola data, perch'io mi renda ridicolo e spregievole agli occhi di tutto il cetto militare, e questo è un tratto della vostra amicizia. Giurerei di non ingannarmi a credere che per un aereo vergognoso puntiglio e per una immagine falsa del valore, a petizione d'una bella pettegola che meriterebbe castigo, vi siete posto all'ostinato cimento di farvi ammazzare e d

'ammazzare de' vostri amici. E questo è un tratto della vostra prudenza. Se voi vi ritirate da tale impresa e lasciate libera quella via alla lega de' matti quanto siete voi matto, non succede alcun male né si potrà attribuire la taccia di pusillanimità che ad una larva non conosciuta, e se io mancassi alla fede data a' soci,voi non potreste levarmi la macchia di mancatore e di vile. Diverrei il bersaglio degli scherzi ingiuriosi di tutta l'armata. La custodia del secreto, ch'io vigiuro, sarà in tal caso cosa contraria alle leggi dell'amicizia, della prudenza, del mondo e di Dio. Anche la vostra pretesa di secretezza mette a cimento il mioonore. Chi v'assicura che alcuno de' vostri aderenti, per darsi merito e per sottrarsi da un pericolo, non faccia secretamente giugnere all'udito di S. E. generale, il vostro nome e la vostra bestialità? Ecco allora esposta a' vostri dubbi offensivi la mia fede inalterabile ed innocente. Avete preciso debito di aderire a' consigli della mia vera amicizia, dettati dalla mia soda prudenza. Dovete lasciar libera quella via, e allora vi sarò obbligato. Fate poi all'amore con altro che col trombone da fuoco con quella frasca della Tonina. La sua macchina merita la vostra debolezza; l'animo suo dovrebbe meritare i vostri disprezzi; ma io nonfo il pedante sugli oggetti degni o non degni d'amore, e compatisco la umanità.Vidi il signor Simeone C*** cruccioso d'essere convinto da' miei argomenti, semplici ma ragionati, e lontanissimo dall'abbracciare il mio pacifico consiglio. Da vero dalmatino feroce proruppe nelle ignude proteste significanti e ne' giuramenti che non abbandonerebbe il campo giammai, e concludendo che rimarrebbe cadavere, ma non senza fare una strage. Ho creduta necessaria una dose dell'arte strionica. Lo guardai taciturno alquanto con uno sguardo di commozione favellatrice;indi con un atto tragico da vero declamatore teatrale gli dissi: - Ebbene, vi prometto ch'io sarò il primo questa sera ad entrare nella viottola da voi presidiata

, e senza offendervi, a presentare il petto alle vostre archibugiate. Non ho più bel modo da farvi conoscere che non mi siete amico. - Gli volsi le spalle con qualche furia, ma con un passo molto lento.

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Egli che, fuori dalla fierezza istillata in lui dall'educacazione, era nel fondo del cuore ottima persona, mi prese per un braccio fermandomi. M'avvidi ch'era penetrato, e con poche parole da tragedia urbana lo indussi a promettermi di lasciar libera quella strada, senza però lasciai libera la Tonina. Io gli promisi di non palesar mai l'arcano; e gli attenni una parola, ch'io credo ora posta in libertà da trentacinque e più anni trascorsi, e forse dalla di lui morte, perch'egli aveva molto maggiore età della mia.

Per tre sere consecutive fui il più sollecito dell'alleanza a comparire al bigliardo armato, col mio nastro bianco sul cappello, e il primo e più fiero sfidatore de' tromboni, certo che non mi si opponevano, e i congiurati si vantarono di una vittoria che non ebbe altra battaglia che quella delle mie parole secrète. Mi restò fitta nella memoria la correggibile direzione della bella Tonina, persona del volgo, e che aveva cagionato un tanto pericolo. Sono innumerabili nel mondo i disordini di specie varia, e tutti rovinosi, della gioventù e delle famiglie, che non hanno altra origine che quella delle infinite Tonine. Per essere disordini rovinosi non v'è mestiere che vi sieno tromboni. Le armi, tra palesi e secrète, sono una selva d'armi.Oli amori del signor Simeone C*** con quella corsara di Venere erano già evaporati ed estinti, come suol avvenire di tutti quegli affetti i quali non hanno altra

base che quella del senso, della brutalità, della seduzione mascolina, e dell'insidia, del capriccio, dell'ambizione e dall'avarizia muliebre. Al bel sembiante della Tonina non mancavano amanti, e l'animo suo, differente dal volto, teneva deste le lingue cagionando molti accidenti e innalzandole molti trofei commiserabili. Non mi sembra spoglio di tratti faceti l'avvenimento ch'io sono infraddue dinarrare, temendo di dar della noia a' lettori. Risolvo di narrarlo pontualmente, colla brama che non riesca noioso.CAPITOLO XIII.Amara correzione nata dal caso, da me data alla bella Tonino, e mia riconciliazione con quella giovane.Una sera dell'ultimo carnovale, ch'era il terzo del mio triennio, al cui termine mancavano intorno a sette mesi, si faceva una farsa all'improvviso nel teatro della corte, alla richiesta del provveditor generale, ed erano ordinati da noi mi

litari una cena e un festino da ballo in una sala privata, per passare la notteallegra dopo la recita della farsa. In quella farsa io era Luce, mal maritata con Pantalone vizioso, rotto e fallito. Era ridotta in un'estrema indigenza ed aveva una figliuoletta nelle fasce, frutto del mio matrimonio. In una scena notturna d'un mio soliloquio cunava io la mia prole. Cantava io un canzoncino per farla addormentare. Questo canzoncino era interrotto dalla narrazione delle mie disgrazie, con de' tratti che facevano molto ridere i spettatori.La storia ch'io raccontava; le ragioni per le quali era discesa a sposare un vecchio; i miei accidenti; le mie sofferenze esposte con de' monosillabi della modestia; la descrizione del bel pezzo di femmina ch'era stata e della carogna ch'era divenuta, cagionavano continue risa e continue picchiate di mani. Mi lagnava del freddo, della fame, de' mali trattamenti. Non faceva il bisogno di latte pernodrire la figlia, e il poco che faceva era non salubre, anzi venefico per le rabbie e per i patimenti che sopportava. Questo cattivo latte facea de' dolori diventre al mio bene, parto dalle mie viscere, ed egli belava tutta la notte comeuna pecora, né mi lasciava chiuder occhio.La notte era assai avanzata. Attendeva il vecchio matto di mio marito, che mai non veniva. Sospettava ch'egli fosse nella calle del Pozzetto, che a Zara in quel tempo era una via nota da piaceri illegittimi. Temeva qualche sciagura. Moralizzava. Cadeva in un pianto dirotto, facendo ridere.Fatto stava che un certo uffiziale, signor Antonio Zeno, che rappresentava valentemente la parte del Pantalone, non era ancora giunto al suo comico dovere in teatro, e che toccando a quello l'uscire in iscena a dialogare con me, non giugnendo egli, non poteva esser troncato il mio soliloquio, ch'era durato presso un quarto d'ora con fortuna, ma ch'era esaurito d'argomenti.

Un buon comico all'improvviso non si deve sbigottire e non deve mancare di ciarle. Per tirare in lungo la scena e per un ripiego, finsi che la mia bambina piangesse, né volesse addormentarsi pel cunare e cantare. M'impazientai traendola dalla

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 cuna. Mi dilacciai il seno, e attaccai a quelle poppe che non aveva, la mia fanciulletta, con molte moine d'affetto per chetarla. Questa novella inezia, con qualche lamento sui miei lattaiuoli che mi dolevano per i morsi di quella ingordamia creatura, mantenne in buon avviamento le risa. Volgeva tratto tratto l'occhio alle quinte ed era veramente inquieto nell'interno di non veder arrivare il signor Zeno Pantalone, perché non sapeva più a che appiccare il filo per durare nel soliloquio.

Levai lo sguardo a' palchetti accidentalmente, e vidi in un proscenio quella Tonina di mal costume risplendere in una bellezza e in una gala illuminatrice del frutto de' suoi delitti, che baldanzosa rideva più degli altri delle mie freddure donnesche. Mi risovvenne in quel punto il pericolo che aveva corso delle trombonate per di lei cagione. Parvemi d'aver trovato un tesoro, e un lampo di novello argomento risvegliò in me un'eloquenza ardita, ch'era permessa e goduta in un teatro non venale e in vero libero un poco troppo, e potei soccorrere il mio povero soliloquio ch'era spirante.Posi in sul fatto il nome di Tonina alla mia figliuoletta bamboccio, e rivolsi il mio discorso verso a quella. L'accarezzai, contemplai le sue fattezze; mi lusingai che la mia figlia Tonina dovesse crescere una bella ragazza. Protestai dalcanto mio di darle coll'esempio, coll'attenzione, co' precetti, co' castighi una

 buona educazione. Esclamai quindi verso alla picciola Tonina che aveva nel grembo, che, se ad onta delle mie cure materne, ella dovesse cadere un giorno ne' tali e tali errori, nelle tali e tali imprudenze, nelle tali e tali scostumatezze, e cagionasse i tali e tali disordini, sarebbe la peggior Tonina del mondo, e che in tal caso pregava divotamente il ciclo a troncare nelle fascie i giorni suoi.I tali e tali errori, le tali e tali imprudenze, le tali e tali scostumatezze, i tali e tali disordini cagionati erano a puntino aneddoti notissimi relativi alla Tonina ch'era nel proscenio. Non vidi a' giorni miei avere maggior acclamazioni un comico soliloquio del mio. Tutti generalmente gli spettatori a un punto volsero i loro visi al palchetto della bella Tonina in gala, con la maggior chiassata di risa e il maggior fracasso di picchiate di mani che fosse giammai udito. Sua Eccellenza generale, che aveva qualche notizia del costume di quella sirena,

onorava di sciolte risa il mio non atteso tratto di spirito correttore. La Tonina rinculò con impeto nel palchetto e fuggì dal teatro bestemmiando il mio soliloquio e il mio nome.Giunse finalmente Pantalone mio marito, e si terminò la commedia, che nel suo séguito non ebbe poi nulla di più allegro della scena ch'io feci colla mia fanciulletta.Non si creda ch'io narri l'avvenimento del mio soliloquio per darmi un'aria di vanto. Quantunque quella giovane discola fosse persona del popolo e cagione di molte sciagure col suo costume odioso, e quantunque lo stesso provveditore generale m'avesse applaudito, mi sono condannato dopo di quell'improvviso estro scenico, di esser caduto in un'imprudenza e indiscretezza per sostenere una vana comica abilità. Si dona alla gioventù ciò che non si dona giammai all'età matura.Ho detto che dopo la recita erano ordinati un festino e una cena dagli uffiziali e ch'era anch'io della brigata. Sciolto il teatro, passammo al convito ed al festino; ed io v'andai vestito da Luce, com'era stato nella farsa, per mancanza di tempo e per fare un'appendice comica. La Tonina era delle convitate. Non sapeva ch'io fossi della partita, e stava sedendo in un canto della sala, mesta e ingrognata. Quando mi vide comparire, parve che vedesse l'orco e volle fuggire.La presi per una mano e le protestai che sarei partito io piuttosto che restasse priva la compagnia del più bel capitale. Le giurai ch'era molto bella e ch'era un peccato ch'ella fosse cattiva. La pregai dolcemente a riflettere sul caso accidentale avvenuto, sulla pubblica intera ampia sentenza data sul suo costume e a difendersi dalle lusinghiere private adulazioni che l'accecavano. Lo dissi che Dio aveva posto in lei nel mondo un angelo e non un dimonio. Innestai tante lodi a tante insolenze con tanta franchezza, che non potè far a meno di ridere. Risero tutti, sino i di lei amanti. Ella volle danzare con me, e accettai l'invito. Ciò pa

reva un segno di pace, e non era che un tradimento. Danzò meco con tutti que' vezzi, que' lazzi, quelle civetterie e que' stringimenti di mano che le suggeriva la sua perversa natura vendicativa e seduttrice.

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I vezzi donneschi, che hanno lo scopo d'una vendetta, sono i più ciechi e più comodi per gli accorti viziosi, perché la femmina impuntigliata a volere una vittoria discende alle maggiori debolezze senza avvedersi. Io non era vizioso, e guai a mese mi fossi lasciato invescare da' sforzi artificiosi di quella vipera offesa.Il festino ripigliato dopo la cena (a cui la mia nimica mi volle appresso) terminò verso al vegnente giorno, ed io fui chiamato dalla Tonina per tutta la notte coll'affettuoso dolce nome, alla dalmatina, di "diavolo maledetto". Promisi a' suo

i stimoli di farle visita, ma fui mancatore.Ho data un'idea all'ingrosso con tutte quelle verità che mi sono ricordato, del mio pensare, del mio operare, della mia direzione e del mio carattere sino all'età mia di diciannove in vent'anni. Ci saranno delle altre verità di que' tempi, ch'ionon mi ricordo. Questa dimenticanza è opportuna, perché i miei lettori hanno il tedio minore. È certo che se avessi fatte delle male azioni me le ricorderei. Mi sarebbero rimaste impresse, perché non ho mai studiato a indurare il mio cuore a' rimorsi e le scriverei francamente per non avere rimorsi di non aver scritte tutte le verità che ho promesse. Potrei narrare molte altre cose ch'io mi ricordo del miotriennio; ma io scrivo le memorie attinenti alla mia vita e non quelle attinenti alla vita degli altri più che alla mia.Nella verace pittura che ne' miei racconti inopponibili apparisce sino a quest'e

poca di me, gli amici veleranno un giovine bizzarro alquanto, ma di buon'indole; i nimici vedranno un imprudente d'indole pessima; gl'indifferenti, che mi conoscono di vista e superfizialmente, vedranno un oggetto molto diverso dall'idea che si sono prima formata sugli estrinseci miei. A suo luogo dirò anche la cagione di questa ragionevole ma fallace idea. Ella apparirà in un pontuale ritratto ch'iodarò di me stesso, vincendo qualunque pittore.CAPITOLO XIV.Fine del mìo triennio nella Dalmazia. Mia picchia economia sbilanciata e giustificata. Calcoli. Ragionamenti. Riflessioni cattive, perché non sono false. Mio arrivo in Venezia.I tre anni del mio corso militare erano vicini al loro fine, quando fui assalito da una febbre, non mortale, ma lunga e tediosa. Era tempo ch'io facessi un bilancio sulla mia circostanza e sul mio stato d'allora, e lo feci. Non aveva avuti

altri soccorsi dalla mia famiglia, in tutto quel tempo, che due cambiali, l'unadi quattordici, l'altra di sei zecchini, e dalla pubblica cassa militare quellodelle mensuali trentotto lire, benigno prezzo alla mia inutilità marziale.Il giornaliero vitto, la pigione, la decente comparsa ad una corte di vestiti edi biancheria, un necessario servo, due malattie, qualche indispensabile spesetta nella società in un mondo disordinato, mi fecero trovare al fine del mio triennio debitore verso l'amico signor Massimo di cinquantasei zecchini e sedici lire in punto, vale a dire di dugento ducati.Se le necessità non sono vizi, un tal debito era moderato. Era però d'un gran peso al mio spirito, il quale si confortava soltanto colle maniere nobili dell'amico e colla morale certezza di pagare il mio debito giugnendo alla casa paterna. Ne'miei conteggi trovava che tra le poche monete avute dalla famiglia, l'utilità militare e il debito che aveva incontrato, erano entrati nella mia borsa, in tutto il corso di que' tre anni, quattrocento ottanta ducati, e sembrava a me di non essere stato scialacquatore a spendere intorno a cento cinquanta ducati all'anno nel mìo intero mantenimento e nelle mie infermità.Averei potuto cogliere un risparmio, concorrendo alla mensa giornaliera che dava il provveditor generale a tutti gli uffiziali della corte e della sua guardia,alla qual mensa non interveniva la di lui persona sublime. L'Eccelllenza Sua non sapeva (tratte alcune buone anime pazienti o costrette dalla irreparabile necessità) qual ciurma di gente sedeva a quella sua mensa, né le triviali bassezze che la deturpavano; ma io, che aveva uditi sino dal principio i discorsi imprudenti einfami che si facevano, le baruffe facchinesche che si accendevano tra commensale e commensale, tra commensale e staffiere, e veduti i tondi e i bicchieri volare ne' capi, pensando forse da ragazzo superbo, mi contentai di incontrare un deb

ito di dugentoducati per allontanarmi da quella pericolosa prostituita utilità. Mi trovai a quel convito ch'io guardava come la cena di Tieste, soltanto ne' giorni indispensabili ne' quali mi toccava la guardia per ispezione.

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Le relazioni e i computi ch'io do, fatti sull'economia de' miei tre anni, devono certo parere miserabili piccolezze da omettersi, e non è vero. Prego il mio lettore, prima di dare questa sentenza, ad attendermi all'arrivo ch'io feci alla casa paterna desolata dalla pessima direzione, e al mio tentativo di por qualche argine nell'amministrazione per riparare inevitabili maggiori disordini. Egli vedrà nel séguito delle mie memorie, che le teste riscaldate e colleriche de' mortali sono fertilissime romanziere nell'inventare delle false accuse, e se sarò stato dipin

to e predicato un scialacquatore, un rotto giuocatore e un disordinatore della famiglia ne' sopra accennati tre anni, non averò avuto il torto ad esporre la veritàdelle mie misere relazioni e i più miseri miei conteggi sull'economia di quel triennio.Non ebbi mai vergogna che tutto il mondo sapesse il mio stato ristretto, ed averei anzi della vergogna ad ostentare di possedere più di ciò che possiedo. Se mai miriducessi ad un'estrema indigenza gettando il poco patrimonio che ho nelle concubine, nel lusso, nella galanteria e in simili virtù, accuserei me medesimo e non avrei la temerità di accusare quelli che non aderissero a rimettere nelle mìe mani de' soccorsi onde poter io seguitare il corso delle mie lussurie, de' miei stravizzi, del mio grandeggiare e de' miei viziosi sistemi.Quelli che pensano com' io penso, non troveranno piccolezze ne' miei conterelli.

 La ricchezza non è per se medesima che un vocabolo. I sistemi e le costituzioni nelle quali fu posto il mondo dall'industria, dall'avidità e dalla forza degli uomini, hanno data una reale sostanza e solidità d'immaginazione al vocabolo di ricchezza, che assolutamente non significa nulla. L'essenzialità data dall'umana immaginazione, giustificata dalla falsa macchina del costume e da' pretesti, menzogne credute verità, è fonte perenne e principale delle inginstizie, delle sopraffazioni,delle insidie, de' tradimenti, delle estorsioni, de' furti, degli assassini, de' bisogni e delle angustie dell'umanità. S'io abbasso il mio sguardo ad un legnaiuolo, indi se lo rivolgo ad un duca, e quindi lo innalzo ad un re, trovo con evidenza che non è ricco che quello il quale ha una ricchezza d'animo di contentarsi di ciò che possiede. È un peccato che questa verità inopponibile sia soltanto confessata da me e da molti milioni di moribondi.Il mio triennio è giunto al suo fine. Venne nella Dalmazia il nuovo provveditor ge

nerale Iacopo Boldù. Fu cesso il bastone di comando da S. E. Quirini colle solenni e sempre belle formalità repubblicane.Aveva composte ne' momenti dell'ozio mio molte poesie in lode del signor provveditor generale e fattene giugnere delle altre da Venezia, le aveva tutte ricopiate in una raccolta con un carattere bellissimo, che aveva nella mia giovinezza, e ricucite insieme con una rispettosa lettera dedicatoria in un cartone coperto d'un bel velluto cremesi. Mi presentai all'E. S. unito all'amico signor Massimo,e credei stoltamente di fare una buona azione recando un tributo di versi esaltatori. Io non ero Virgilio, né nato al tempo di Augusto, e confesso che il solo fanatismo ch'io aveva per l'arte poetica mi faceva credere di far un regalo donando de' versi.Il cavaliere accolse il libro con affabilità dicendo: - Vi ringrazio. Potrò mostrare almeno che, stando voi nella mia corte, siete stati alla scuola. - Seppi dappoi ch'egli fece un dono di quel libro all'eminentissimo cardinale di lui zio vescovo di Brescia. L'E. S. mi chiese se voleva ritornare a Venezia o rimanere nellaDalmazia, godendo l'uffizio di cadetto nobile nella cavalleria, attendendo maggior fortuna. Lo supplicai a ricondurrai a Venezia, ed egli accettò la mia supplica.Un altro, fuori di me, avrebbe cercato con delle fedi poco fedeli d'ottenere delle lunghe e replicate licenze dalla clemenza troppo clemente, per sussistere molti anni ne' ruoli militari del principe e per godere con fraude per lungo tempoil benefizio delle mensuali trentotto lire. Era alieno dal seguitare la professione del soldato e dal razzolare con delle insidiose covertelle nel pubblico erario. Considerava il principe padre comune, ma credeva ancora, che questo padre non meritasse d'avere de' figli ladri, che con delle menzogne, de' meriti inventati e delle protezioni acquistate co' torcicolli, colle adulazioni, coltivate con

gli uffizi e le bassezze più vili di questo mondo, insidiassero e annichilassero le paterne preziose sostanze a tante pubbliche ed essenziali necessità destinate.Era un ragazzo povero e con un debito di dugento ducati, ma sapeva di non aver m

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eritato co' miei sudori in pubblico servigio, che il principe soccorresse la mia povertà e pagasse i miei debiti, benché non fossi un vizioso. Rifletteva ch'io erapovero soltanto per la numerosa mia fratellanza e per un patrimonio male amministrato. Con tutto ciò, parco ne' miei desideri, mi lusingava di poter vivere modestamente e con sobrietà nel frutto delle facoltà famigliari, rendendomi operoso in quelle, ed era certissimo che il mio buon padre ch'era ancora tra i vivi, benché infermo paralitico e muto, non averebbe ricusato di pagare il mio debito de' meschin

i dugento ducati. Io non aveva con lui demeriti, ed egli era troppo onorato perdubitarne.Il mio nome sarà forse vissuto ne' ruoli pubblici delle milizie per chi sa quantotempo, anche dopo la mia partenza dalla Dalmazia. Desiderò che la cassa militare del principe non si sia lasciata beccare nemmeno quel tenue onorario sotto al mio nome. Sarei innocente dal canto mio. Non ho mai chiesto conto di ciò che non doveva avere, benché non abbia neppure chiesta la mia cassazione. Non professo crediti colla mia repubblica per azioni guerriere, e per le mie azioni private non ebbi, non ho, e non averò mai da rimproverare il mio zelo e la mia fedeltà. Fui povero,sono povero, e mi lusingo di morir povero. Morrei certamente disperato, se mi riducessi a morire fatto ricco da' raggiri, dall'inganno, dall'ingiustizia e dall'avarizia.

Correva il mese d'ottobre dell'ultimo anno del mio triennio illirico, quando miimbarcai nella galera Generalizia. I tempi erano avversi. Dopo un penoso viaggio di ventidue giorni, vidi Venezia e respirai. Mi sono inchinato con de' ringraziamenti al cavaliere che m'aveva ricondotto, e m'avviai verso la magione paternanella contrada di San Cassiano, col mio picciolo equipaggio e con quello dell'amico signor Massimo, che invitai ad albergar meco sino ch'egli fosse passato a Padova, sua patria, sperando di poter contribuire in parte a' suoi benefici con un buon alloggio.CAPITOLO XV. Prime scoperte sulla mia famiglia, contrarie alle mie lusinghe.Passando dalla galera all'antica mia abitazione avita e paterna, il mio spiritoondeggiava tra il piacere d'esser uscito dalla servile soggezione passando allalibertà e quello di poter dare alloggio ad un buon amico, e tra il timore di dargli un cattivo ricovero. Arrivammo all'uscio, e vidi il mio compagno sorpreso nel

vedere l'edifizio della mia casa, che in vero ha l'aspetto di palagio. Egli, ch'èintelligente d'architettura, mi fece un grand'elogio sulla bella pianta. Gli risposi ch'egli era in debito di sapere che spesso gli esterni rallegravano e gli interni mortificavano. L'amico ebbe del tempo di contemplare la bella fabbrica al di fuori, perché più di sei gran picchiate all'uscio erano state il picchiare ad una sepoltura.Una femminetta, appellata Eugenia, custode del diserto, venne finalmente ad aprire. Le chiesi dove fossero i miei congiunti. Mi rispose, con un sbaviglio, ch'erano tutti a villeggiare nel Friuli, ma che si attendeva a momenti a Venezia miofratello Gasparo. Scaricati i corredi, salimmo una bella scala di marmo che dimostrava di non condurre all'inferno; ma, appena montato l'ultimo scaglione, mi si presentarono tutte le meste larve della indigenza. I pavimenti avevano delle cavità cancrenose. Le invetriate lasciavano libero l'ingresso a tutti i venti marcati sulla bussola de' piloti. Le tappezzerie erano poche, affumicate, rotte e penziglianti. D'una galleria di bellissimi quadri antichi, ch'io aveva fitti nella memoria, registrati e lasciati fideicommissi nel testamento dell'avolo mio, co' quali sperava di far maravigliare l'amico, non v'era più reliquia. Vidi solo i ritratti degli avi miei, del Tiziano e del Tintoretto, nella sala. Io li guardava, ed essi guardavano me. Parevano mesti, maravigliati, e chiedenti ragione de' consunti agi da loro lasciati.Non ho mai detto che nel picciolo archivio della famiglia nostra esiste un antico libro tarlato colle ricevute de' pagamenti alle pubbliche decime, in cui si rileva che il padre del mio bisavolo pagava la decima al principe per dieci e più mila ducati di rendita annuale che possedeva. Un solo riflesso di moralità fa ch'ioscriva questa menzione. La ricordanza di que' ritratti che mi guardavano e del m

io guardare lo stato squallido della mia abitazione, suscita in me ora l'estro vano di dire una verità, che può servire d'avviso esemplare a tutte le discendenze, ma che non servirà a nulla, e particolarmente alla nostra posterità. L'avolo mio, che

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 aveva lasciato un unico figlio maschio, una buona facoltà legata ad un strettissimo fideicommisso mascolino perpetuo, quattro civili abitazioni tutte corredate con abbondanza, l'una in Venezia, l'altra in Padova, l'altra in Pordenone, l'altra in Vicinale, villa del Friuli, com'egli accenna nel suo testamento, non si saràmai immaginato che le disposizioni testamentarie de' morti avessero pochissima forza co' vivi.Aveva già prevenuto l'amico signor Massimo fedelmente delle circostanze nostre fam

igliari, ma non aveva potuto prevenirlo di tutte le infelicità maggiori avvenute nella mia casa nel tempo del mio triennio dalmatino. L'aver avuta una notizia che le due mie maggiori sorelle erano state maritate, aveva destata in me la lusinga che gl'interessi famigliari, ridotti ad un assetto migliore, avessero cagionata la bella impresa. Ero in quel miserabile inganno che s'udirà, e che mi dicevanocento bocche degli oscuri oggetti che m'erano a fronte. Proruppi infine nelle mie consuete risa, e chiesi ridendo perdono al sozio dell'averlo invitato ad un mal albergo. L'accertai che il mio cuore era differente. Risvegliai con esso un'allegra conversazione, esaminando e trovando per ogni stanza degli addobbi, la comica vista de' quali non faceva che raddoppiare le risa mie. Consigliava l'amicoa ricreare il suo sguardo nel bell'esterno dell'abitazione. Alloggiammo infine nel miglior modo che potemmo.

Giunse due giorni dopo mio fratello Gasparo, e, fatti alcuni convenevoli col forestiere, il cui merito, la cui amicizia, il cui credito furono da me dichiaraticon sincera favella, piantammo la società in terzo. Mio fratello, ch'era d'un genio lepido anche con la febbre, accrebbe lo spirito alla conversazione.Avevamo tutti due una gran brama di favellarci fraternamente e secretamente. Giunse il momento di poterlo fare. Gli chiesi conto del povero mio padre, della madre, degli altri e delle circostanze della famiglia. Ciò che aveva veduto nella casa di Venezia era precursore di tristo augurio a ciò che doveva udire.Il fratello, filosofo ma non senza un'umana sensibilità che appariva di quando inquando sugli occhi suoi, m'ha dati succintamente questi ragguagli: che la famiglia era in un'angustia tragica; che il padre viveva, ma ognora mutolo e paralitico come era prima della mia partenza; che si erano maritate le due maggiori sorelle Marina ed Emilia, l'una nel conte Michele di Prata, l'altra nel conte Giovan

Daniele di Montereale; che si erano promessi per le dotazioni verso diecimila ducati; che si erano venduti le tali e tali campagne e i tali e tali beni, e incontrati de' debiti per più di duemila ducati con de' mercanti; che ardeva un litigio nel fòro tra il conte Montereale cognato e la famiglia per certa somma della dote non ancora pagata; che le altre tre sorelle Laura, Girolama e Chiara, erano molto cresciute, e che davano de' gran pensieri.Mi increbbe il scorgere l'impossibilità di poter pagare istantaneamente il mio debito, ma tutte quelle spaventevoli narrazioni non mi fecero pentire d'aver abbandonato l'uffizio di cadetto nobile di cavalleria. Pochi giorni trascorsi, il signor Massimo partì per Padova colla promessa del pagamento del mio debito de' dugento ducati, sopra il quale non espresse che de' sentimenti da vero amico. La stagione era ancora da villeggiare, e desiderai di portarmi nel Friuli a baciar la mano all'infelice mio padre. Ci andai col fratello, armato l'animo d'una gigantesca fortezza, fortezza ch'ebbi poscia un estremo bisogno di adoperare.CAPITOLO XVI.Seconde scoperte sulla mia famiglia, che atterrarono le mie speranze e la buonavolontà che aveva d'essere operoso. Mia determinazione d'abbandonarmi a' miei studi primieri.La nostra casa di villa, fabbricata all'antica e un tempo assai vasta, comoda econ una quantità di adiacenze, era divenuta uno di que' castellacci da me dipintinella cenventesima sesta ottava del duodecimo canto del mio poema faceto intitolato La Marfisa bizzarra. Gli edifizi erano stati demoliti per due terzi colla vendita de' materiali, e pochi vestigi sussistenti abitati cantavano: Qui fu Troia. Apparecchiato il mio cuore a' deplorabili addobbi e alla penuria d'agi di quel castellaccio, dalle bocche persuadenti delle mobilie della città, non mi curai ne

mmeno di esaminarlo.Una cert'aria gioviale, allegra, di contentezza e spirante sanità, che appariva sul viso a tutti i villeggiatori, fermò il mio sguardo alla mia giunta. Nel mezzo al

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le voci di giubilo de' parenti, degli ospiti, de' servi e de' villici, non senza abbaiare di molti cani, smontai dal calesse col fratello. Fui abbracciato non so da chi né da quanti, e non so quale aspetto militare, che aveva acquistato non so come, e che non aveva a far nulla con me intrinsecamente, mi faceva guardare da' nostri villani come una cometa.Levando gli occhi, vidi il povero padre mio tremebondo nell'alto del castellaccio, che, appoggiato ad un bastone, si ingegnava di strascinarsi ad una finestra p

er vedermi. Quella scoperta pose in rivoluzione tutto il sangue nelle mie vene.Corsi alle scale e, salitele velocemente, entrai dove egli era, gli presi una mano, baciandogliela con verace trasporto filiale. Egli mi cadde sopra una spallaanche più paralitico che non era, e non potendomi favellare per la lingua perduta, proruppe in un pianto commiserevole. La violenza ch'io feci a trattenere a forza le mie lagrime per non rattristarlo maggiormente, fu per spezzarmi il polmone. Egli seguì vacillante i miei passi a me appoggiato, e poco a poco giugnemmo ad un'altra stanza.La stagione era verso al novembre e assai fredda, massime nel clima friulano. Ardeva in quella stanza un buon fuoco, presso il quale v'era una sedia da poltrire, perpetuo giornaliero riposo alle membra inferme del padre mio, che per il corso di sette anni, con vergogna degli infiniti suggerimenti della medica scienza,

or concorde or discorde e sempre inutile, e non ancora giunto a cinquantacinqu'anni dell'età sua gemeva in quella miseria.Era in quella medesima stanza mia madre, la quale mi espresse flemmaticamente dei sentimenti non lontani dal carattere materno, ma che tenevano della sostenutezza. Questa madre, che amai e rispettai sempre per dovere e per genio, protestava spesso, anche senza necessità di proteste, che amava con un riparto eguale di affetti tutti i suoi nove figli. Diceva con serietà e inarcando le ciglia, frequentemente: - Tagliatemi un dito, mi duole; tagliatemi un altro dito, mi duole; - e passava sino a nove delle sue dita tagliate in parole col dolore medesimo. Nondimeno il dolore forse d'otto dita tagliate unito, non averebbe eguagliato il dolore del taglio del dito primogenito, che era il fratello Gasparo.Egli vive, è uomo d'onore e filosofo per quanto si può essere filosofo, e sono certo che, chiamato alla conferma di questa verità, la confesserebbe. Nel diligente stu

dio ch'io feci sul genere umano ho trovate tante madri colla debolezza della mia, che non mi sono mai sognato di condannarla. Considerai sempre che mio fratello, per le sue doti e per le sue ottime qualità, meritasse il di lei affetto più che gli altri otto tra figliuoli e figliuole. Siccome però le madri affettuose ad un figlio per lo più non hanno altra brama che quella d'appagarlo e impiegano la loro predilezione tanto ad esaltare le di lui buone qualità quanto a proteggere le di lui umane fralezze, mia madre aveva tenuta mano al matrimonio di mio fratello perfare d'un figlio amato un vero martire, e solo mi increbbe di vedere che la di lei predilezione, conservata per tutto il tempo della sua lunga vita non solo, ma sino al punto della sua morte col suo testamento, non abbia mai che accresciute le infelicità d'un uomo, che amai sempre, che amo ancora, e che amerò sino al finire de' giorni miei come fratello e come amico. Non averei fatta questa piccola disgressione se non l'avessi veduta necessaria al séguito delle mie memorie.La stanza dov'eravamo s'era empiuta di parenti e di famigliari curiosi sulla persona mia. Mio padre si sforzava di farmi delle ricerche; ma la ferita sua lingua non permettendogli l'articolazione, s'impazientava e ricadeva nel pianto. Il cuor mio contaminato non m'impedì di por mano ad una lunga catena di racconti degliaccidenti più faceti ch'io aveva passati nella Dalmazia e ne' miei viaggi, e lo feci ridere coll'assemblea tutto il resto di quella giornata.L'aria perfetta di que' villaggi; una mensa non molto decente, ma fatta abbondante dal prezzo amabile de' commestibili di que' paesi; la giovialità, i sali e le lepidezze delle quali la nostra fratellanza fece sempre professione, non mi lasciavano dar retta alle mancanze dell'albergo.Il secondo giorno della mia villeggiatura scopersi che il vero male non istava nell'abitazione, ma stava negli animi. Non saprei dire il perché, parve ch'io fossi

 considerato da tutti persona di conseguenza. Le tre sorelle rimaste in casa miprendevano da una parte con secretezza, e mi narravano che la moglie di mio fratello Gasparo, in alleanza stretta con la signora nostra madre, che l'amava cieca

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mente per esser ella sposa del primogenito, dominava e reggeva interamente gli affari della famiglia, i quali andavano sempre di male in peggio; che la padronanza del nostro padre infermo non era che una covertella sedotta e adoperata dalla volontà della nostra madre, e sempre in favore de' suggerimenti della direttrice; e che se io non metteva qualche argine, la famiglia terminava di cadere nell'ultimo precipizio. Una di queste mie sorelle, nominata Girolama, che leggeva molti libri, scriveva molti fogli, componeva molti sonetti, traduceva delle opere fra

ncesi in versi italiani, perch'era attaccata dalla epidemia famigliare, mi favellò con una gravita ed una eloquenza da Sibilla.La moglie di mio fratello non lasciava di proccurarsi de colloqui secreti con me. Ella mi diceva che suo marito era pigro, indolente, quasi sempre perduto sugli studi infruttuosi, spesso in una certa conversazione geniale, e lontanissimo dal voler pensieri e pesi domestici; ch'ella aveva fatto il possibile (Dio lo sapeva) e che avrebbe seguitato a fare il possibile (Dio l'avrebbe veduto). Mi narrava le imprese che aveva fatte, quelle che intendeva di fare, che, per dire il vero, non erano che poetiche bestialità. Mi giurava ch'ella non era padrona di nulla; non posseditrice, non amministratrice di tutte le rendite, ma ch'era sempliceconsigliera, inframmettitrice, riparatrice, provveditrice a' bisogni per buon cuore. Mi stimolava a far de' seri discorsi a suo marito, che lo inducessero ad ab

bandonare le sue inutili applicazioni e specialmente le sue visite geniali di pregiudizio sommo, e lo costringessero a soccorrere le di lei immense fatiche ed a pensare a' suoi figliuoli ch'erano cinque.Nel misto delle verità, delle menzogne e delle fantasie che uscivano dal cervelloognora infiammato di quella povera donna, in vero affaticatissima e sempre imbrogliata, rilevava ch'ella era mossa sostanzialmente dal timore di essere incolpata de' disordini avvenuti, dallo spirito dell'ambizione che aveva di prima ministra d'uno stato immaginario, e dal diavolino di qualche donnesca gelosia del marito, il quale, scordando un lungo canzoniere petrarchesco che aveva composto perlei ne' tempi andati, da lei retribuito con cinque figliuoli, la trascurava, e non facendole più nemmeno un sonettino, rivolgeva i suoi carmi ad un altro idoletto.L'omaggio di tutti quelli della famiglia, che presentavano a lei i lor memoriali

 supplichevoli per ottenere un ducato o un paio di scarpe o consimili grazie col suo mezzo (non si sapeva da qual padrone), era per lei un fasto ed una vittoria che compensavano tutte le sue immense fatiche nella sua reale, ma negata e soprattutto pindarica amministrazione.Alrnorò mio fratello minore era pure alla villa per le vacanze di quella scuola che non aveva. Appariva ch'egli avesse avuta pochissima educazione scolastica e che avesse minor decenza ne' suoi vestiti. Ragazzo di buone viscere, allegro e innocente, perduto nel diletto di tessere inganni agli augelletti, non aveva né l'età néil tempo di riflettere alle sciagure, né mi parlava che del numero e della speciedegli augelli che aveva presi e degli accidenti, per lui gravissimi, avvenutigli nelle sue uccellature.Mio padre non mi parlava perché non poteva, mia madre perché non voleva, i cinque figliuoli di mio fratello co' loro fanciulleschi sussurri e le loro strida disturbavano l'unico mio diletto in cui era ricaduto, di leggere, di scrivere delle prose e di comporre de' versi. A tutte le lamentazioni ed a tutti i stimoli accennati che mi si replicavano, io non rispondeva che con un: - Vedremo, e penseremo.Nel quadro di burrasca che mi si era presentato della mìa famiglia, scorgeva che qualunque passo di novità che avessi tentato in quel numeroso vespaio di parenti, opposto alla corrente amministrazione, la quale mi dispiaceva, ma la quale sottol'ombra di mio padre era posseduta dalle femmine, sarebbe stato mal dipinto appresso al mio padre medesimo, pregiudicato dalla educazione, suscettibile e caldoper temperamento, debile per infermità, ma sempre padrone, e padre da me rispettato ed amato. Dubitava che qualche mio movimento, non solo si rendesse infruttuoso, ma fosse per esser dannoso. Temeva di divenire l'odio di tutti, perché vedeva che il movente di tutti era più amor proprio che saggio riflesso e apparecchio alla

moderazione, e temeva di cagionare delle scosse tali nella macchina già cadente dell'amato mio padre, che troncassero que' pochi giorni di vita che gli restavano. Si vedrà fra poco che il mio pensare non era da cattivo astrologo.

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Mi determinai, con una ferma costanza, alla rattenutezza, a sorpassare ogni cosa, vivente il padre, di abbandonarmi a' miei soliti studi di belle lettere ed alle solite mie osservazioni sul mondo e sulla umanità.Seppi che mio zio materno Almorò Cesare Tiepolo, vecchio senatore venerando, villeggiava tre miglia lontano da noi ne' beni di sua ragione. Fui a baciargli la mano. Mi chiese com'era stato trattato in Dalmazia da S. E. Quirini. Risposi che ottimamente, ma che non aveva potuto darmi alcun solido uffizio, perché le milizie e

rano passate alle guarnigioni nell'Italia. Mi esibì d'inviarmi e di raccomandarmia S. E. provveditor generale a Verona. Risposi che lo ringraziava, ma che Martenon voleva ispirarmi la vocazione militare: ch'io prevedeva di dovermi impiegare per la mia famiglia, la quale con voci altissime chiamava soccorso. Egli mi disse, crollando il capo e stringendo le labbra, ch'io aveva ragione.CAPITOLO XVII.Ritorno a Venezia colla famiglia dal Friuli. Seguo i miei metodi di vita e scelgo qualche sollievo giovevole alle mie osservazioni sul genere umano e sul mondo. Terze scoperte peggiori delle prime e delle seconde. Principio delle mie avversità famigliari.Il mese di novembre era avanzato, e la famiglia si andava disponendo a lasciarela villa per ritirarsi a Venezia. Mi divertiva a contemplare l'apparecchio del n

ostro viaggio e del nostro bagaglio, differenti da quelli d'un generalato a' quali era avvezzo. Mio padre infermo; mia madre seria e politica; mia cognata donna d'affari; mio fratello Gasparo in astrazione; tre sorelle custodi delle lor cuffie poco moderne; mio fratello Almorò mesto di abbandonare gli augelletti e le gabbie, ch'egli raccomandava al castaido, con una specie di testamanto; io coll'aspetto marziale senza proposito; alcune serve ed alcuni servi con delle cattive livree; alcuni gatti ed alcuni cagnoletti, formavano la compagnia viaggiatrice, non dissimile dalle viaggiatrici compagnie de' commedianti.Diranno alcuni che averei potuto non esporre nelle memorie della mia vita tantioggetti e tanti quadri d'umiliazione. Nelle verità delle vicende della mia famiglia non ho trovate giammai indegne azioni, e la sola ambizione de' poco filosofi,anzi de' nulla filosofi, vede il rossore e la imprudenza dove non sono, e non li scorge dove sono e dove il vederli sarebbe opportuno.

La nostra brigata, sempre scherzevole e sempre ridente, giunse a Venezia e prese alloggiamento con quel disordine e con que' disastri che si possono avere in un ricinto bel corpo, ma senza viscere.Scelto da me uno stanzino nel piano più alto dell'abitazione, rassettato un tavolino mal in gamba, provvedutomi un vasto calamaio, molte penne e molta carta, leggeva e scriveva un lago di poetiche corbellerie, per lo meno sei ore del giorno.Non aveva maggior divertimento di quello, né ommetto quell'altro che traeva nel sedere qualche ora al caffè, nell'ascoltare i vari discorsi, nell'anatomizzare i vari caratteri e i vari cervelli che li facevano, né taccio quello che aveva la serane' teatri della città, ascoltando le differenti tragedie e le differenti commedie che si facevano.Mio fratello Gasparo aveva date al teatro alcune tragedie che piacevano in queltempo, che non piacerebbero più a' nostri giorni, ma che a me piacerebbero ancora, perocché sono bensì conoscitore, delle perpetue instabilità delle opinioni e de' gusti della nostra pregevole umanità, ma lontanissimo dal cambiarmi nel mio parere e dal confessare insensibilmente d'essere stato uno stolido ad ogni periodo di cinque o sei anni per tutto il tempo della mia vita.Aveva tenuta pratica e studiati de' generali, de' capi da mare, de' nobili, de'gran signori, degli uffiziali d'armata, de' soldati, de' popoli delle città illiriche, de' morlacchi di que' villaggi, de' mainotti, de' pastrovicchi, de' sforzati, de' galeotti, e volli conoscere la mia veneta popolazione, che prima non aveva potuto studiare. Incominciai dalla pratica d'un cetto di persone, che a Venezia si appellano cortigiani. Questi erano bottegai, artisti, e non senza qualche prete, uomini destri, onorati, conoscitori di tutto il mondo veneto, bravi, rispettati dalla plebe per il loro coraggio, per le loro inframmesse nelle baruffe e

per il titolo che s'erano acquistato di cortigiani e che sapevano come si fa a poco spendere e a molto godere.Con questo genere di mortali, alcuni giorni festivi determinati, andava a spassa

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rmi, vogando nelle loro barchette di compagnia, e a caccia d'augelli palustri ea delle merende alla Giudecca, al Campalto, alla Malcontenta, a Murano, a Burano e nelle altre isolette vicine a Venezia. Alla somma di trenta o poco più soldoni, che mi toccava di tangente nella spesa di que' conviti, aggiungeva il dono liberale alla brigata d'alcune fette di prosciutto friulano eccellente, il qual dono aveva la virtù di farmi distinguere, ed era assai rispettato per così picciolo tributo.

I caratteri de' miei sozi mi dilettavano, e i racconti de' loro casi, delle loro baruffe, delle loro riconciliazioni, de' loro amori, delle loro sciagure, narrati col loro frasario e colla veneta vivacità, mi piacevano e m'istruivano. Questaspecie di gente onorata e godibile è ora imbastardita in Venezia, a misura del guasto negli animi e nel costume introdotto dalla scienza del secolo, che va fiancheggiando più l'inganno che la lealtà. Qualche veneto "cortigiano" ancor vivo confessa questa verità battendosi la fronte, rammemorando i suoi sozi antichi e gli antichi suoi tempi, con delle commiserazioni sull'età nostra e sulla razza de' cortigiani corrotta.Quanto alla famigliare amministrazione, proccurava di non disturbare nessuno perché non fosse disturbato mio padre, non lasciando però di studiare la condotta, i movimenti, i maneggi e i raggiri che si tenevano. Qualche ebreo, qualche sensale e

 molte femminette da servigi, ch'entravano, uscivano, ritornavano a confabularein secreto colla moglie di mio fratello, erano calamité a' miei sguardi e alla mia affaccendata penetrazione. Dolevami di vedere mio fratello Gasparo sempre filosofo, sempre poeta, e nemmeno per qualche momento economo, ma dolevami cheto e tra me medesimo.Aveva tre sorelle in casa. Osservava venire alla conversazione de' giovanastri calabroni franchissimi, e confesso che questa sola circostanza scuoteva alquantola massima da me presa di sostenere un'esterna indifferenza sopra a tutte le mie scoperte. Entrava io in casa, guardava que' visitatori ciarlieri con viso burbero, traeva il mio cappello e lo rimetteva tosto, e volgendo loro le spalle saliva al mio stanzino e a' miei libri, col desiderio che que' signori s'avvedesseroch'io non era contento della loro società.Non m'ingannava sulla lusinga dell'effetto del mio contegno. Mi fu detto dalla s

ignora cognata, che s'arrischiò a farmi una ammonizione da matrona con molta dolcezza in questo proposito, che non bisognava disgustare gli amici della famiglia,e che i modi che io teneva erano alquanto aspretti. Trattenendo a stento molti sentimenti che sarebbero stati più aspretti de' miei modi, risposi soltanto sorridendo, che m'intendeva anch'io dell'amicizia, e che sapeva distinguere dalla veraalla falsa; che non m'avvedeva d'aver usato de' sgarbi a nessuno; che mio padreviveva ed era il padrone; e che se anche avessi qualche interno dispiacere per alcune cose che paressero alla mia ignoranza imprudenti ed irregolari, io era ungiovine da non essere considerato.Questo solo mio picciolo indizio di disapprovazione incominciò a farmi guardare come una serpe dal numeroso sesso femminino della famiglia. Le mie stesse tre sorelle, che mi amavano, ch'erano d'ottima pasta, d'una soda religione, non poterono difendere i loro donneschi cervelli da qualche stilla di velenoso sospetto contro di me.Per non mostrarmi alieno affatto degl'interessi domestici, dava qualche mio parere sopra alle poche cose inconcludenti che mi si comunicavano per affettazione,che non era mai trovato buono, e recava qualche uffizio vocale che m'era raccomandato. Soprattutto teneva compagnia alcune ore del giorno e della sera a mio padre, che mi vedeva sempre con della tenerezza e delle lagrime.In alcuni momenti di colloquio colle sorelle rilevai che cinquemila ducati di beni venduti nel Friuli col pretesto di dotare le due sorelle maritate, o non erano stati esborsati da' compratori, o non erano passati nelle mani degli sposi che in parte; ch'era avvenuto lo stesso della maggior parte delle drapperie, biancherie e gioie, per le quali cose s'era incontrato un grosso debito con un consorzio di mercanti. Beveva e chiudeva nel seno degli amari calici di consimili erudi

zioni. Scopriva che i due matrimoni fatti delle due prime mie sorelle non eranostati conclusi tanto per dar stato a due persone, quanto per aprire con apparente onestà un campo di poter possedere del denaro per quelle vie che a Venezia si ch

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iamano stocchi, e per avere un modo di giustificare con un buon pretesto le alienazioni de' fideicommissi.Rifletteva che una bistorta condotta, anche non colpevole di malizia, riduce a'bisogni istantanei e alle angustie, e che questi bisogni e queste angustie costringevano ciecamente a de' ripieghi i quali non fanno che accrescere le necessità,Incolpava soltanto il destino, che dal tempo della morte dell'avolo mio paterno, il quale aveva lasciato un bel patrimonio e una giovane moglie vedova con un fa

nciulletto e una fanciulletta, sino a' giorni mesti ch'io noto qui sopra, l'amministrazione delle rendite e de' capitali fosse passata successivamente per le mani muliebri e per un vortice d'irregolarità rovinose. Proccurai che mio fratello Francesco, ch'era a Corfù, avesse un ragguaglio sincero e diligente delle circostanze della famiglia. Entro ora nel pelago delle mie maggiori disavventure.CAPITOLO XVIII.Divengo, con una perfetta ingiustizia, l'odio di tutti gli individui della famiglia. Risolvo di ritornare in Dalmazia. Morte di mio padre.Tra le mie osservazioni, aveva vedute mia madre e la moglie di mio fratello uscire per tempo insieme mascherate parecchie mattine. Non intendeva il movente di quella gita, ch'era un maneggio segreto e che aveva tutte le apparenze d'un grand'arcano. Era già terminato il carnovale, e correva il mese di marzo dell'anno 1745

, epoca sempre dolorosa alla mia rimembranza. La gita delle due signore unite, non più mascherate ma col zendado, seguiva fedelmente tutte le mattine. Chiesi alle sorelle se sapevano il significato di quelle continue uscite in arcano. Mi risposero di saper solo che il padre si vedeva mal volentieri in Venezia nel suo stato infelice; che essendo vicina la primavera voleva passare alla villa nel Friuli con la nostra madre, lasciando direttrice della famiglia in Venezia la signora cognata; che l'erario era vuoto, e che i granai e le cantine di villa confessavano il vacuo. Feci le spalle gobbe, e mi ristrinsi dolente in quelle.Pochi giorni dopo, mentr'io era nel mio stanzino applicato a' miei studi, ognorbenefici ammorzatori de' miei acerbi pensieri, mi vidi comparire ie tre sorellepiangenti. Tremai temendo che fosse morto mio padre, ma intesi che ciò non era. Mi dissero con de' gesti della disperazione, ch'io solo poteva riparare ad un'estrema disgrazia di rossore e di danno; che le uscite dalla casa, In arcano, della

madre e della cognata, avevano concluso un contratto con certo signor FrancescoZini mercante da panni; ch'egli dava loro seicento ducati, con patto che uscissimo tosto dalla casa paterna e la dessimo a lui, e ch'egli, oltre alla detta somma di danaio, dava in permuta perpetua reciproca una sua angusta abitazione nella lontana contrada di San Jacopo, detto "dall'Orio". Mi aggiunsero che il padre nostro era già stato disposto a dare l'assenso e che i fratelli Gasparo ed Almorò aderivano all'assenso del padre. Le lagrime di quelle povere ragazze, i loro colori rettorici sul colpo d'avvilimento, aggiunti alla vergogna che provai anch'io, mi commossero. Terminarono il loro discorso sempre singhiozzando e con tutti glistimoli perch'io impedissi il vergognoso e pernicioso contratto; ma con tutte le preghiere del mondo, ch'io tenessi occulto l'uffizio loro e non le esponessi adelle crudeli mortificazioni.Vidi aperta una voragine di dissensioni, di amarezze e di dispiaceri, specialmente per me. Un estremo bisogno di danaio; un contratto già stabilito vocalmente dalla madre e dalla cognata; un assenso accordato dal padre; la condiscendenza rispettosa di due fratelli; la secretezza che doveva custodire a riguardo delle sorelle; la mia essenza nuova in casa, già resa sospetta di turbolente; l'essere io privo di aderenze e di amici in Venezia; tutto mi spaventava. Disposto a proccurare di soccorrere per qualche modo mio padre nel suo desiderio di partire per la campagna, ed a impedire un contratto tanto indecente, feci anch'io una gita secreta, e visitai il soprannominato signor Francesco Zini.Mi feci conoscere con delle soavi espressioni, trattandolo da coppa d'oro ed esponendogli ch'io sapeva ch'egli era per fare un negozio con suo periglio e con nostra notabile umiliazione. Gli dissi che mio padre era infermo da molti anni; che la nostra abitazione paterna era soggetta ad uno stretto fideicommisso antico;

 che mancato il padre egli avrebbe perduto il di lui danaio e l'alloggio; che tutta la fratellanza non sarebbe concorsa ad assentire a contratto abbozzato; cheun mio fratello era in Levante; ch'io era le mille miglia lontano dal dare l'ass

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enso, e che non avrei potuto che uscire dalla casa obbediente per servirlo, quando mio padre me lo avesse comandato. Discesi al patetico, dipingendogli una numerosa famiglia sloggiatrice afflitta, con pochi fardelli, dal paterno nido, sotto agli occhi di tutto il vicinato e della contrada, la quale avrebbe detto: - Que' signori sloggiano perché hanno venduta la casa! - Feci un ritratto del rossore,della mestizia e de' pianti di molti della famiglia. Gli provai ch'egli acquistava una bella abitazione, ma che acquistava anche una bruttissima odiosità. Lo preg

ai con tutta la sommessione a far cadere da onest'uomo, con qualche buon pretesto, un contratto che non era ancor seguito per suo e per nostro bene.Il signor Francesco Zini aggiunse ad un viso grasso, rosso, e beccato dal vaiuolo, i lineamenti della maraviglia, e mi rispose: ch'egli non intendeva la mia filastrocca; ch'era un galantuomo, che dava il suo sangue e non acqua per avere quella abitazione; ch'era stato assicurato dalla mia signora madre, dalla mia signora cognata e dal sensale intervenuto in quell'onorato negozio, che il mio signor padre cercava di farlo e che tutti i di lui figli maschi concorrevano anzi a farsi emancipare dal padre nel punto di rogare il contratto, per dare una robustasussistenza e per salvezza del di lui innocente interesse; che ques'affare era stato combinato, e ch'era sullo scrittoio del signor marchese Suarez causidico suo difensore; che senza alcun dubbio, non emancipandosi i figli dal padre e non d

ando essi per tal modo un valido assenso al contratto perch'egli dovesse avere la sua ben giusta progressione durevole, .non avrebbe esborsato un soldo se fosse caduto il mondo; ch'egli non era uno sciocco da lasciarsi ficcare delle carote.Lodai la cautela perspicace del pingue signor Zini. Rammemorai che mio fratelloFrancesco era nel Levante. Riprotestai ch'io non voleva né emanciparmi dal padre nédar consentimenti a costo della vita, e lo pregai con le più mansuete forme a stornare il negozio con qualche facile e lecita scusa, e a non palesare ch'io fossistato da lui a fare il detto uffizio. Gli feci toccare con le dita che agli occhi dell'uomo cristiano ed onesto le mie preghiere non potevano che comparire giustissime, e che il solo brutale averebbe potuto palesare il dissenso che gli giurava, facendo odioso al padre e alla madre un figlio onorato e innocente, con inutilità del di lui interesse.Egli mi promise tutto colle sue gote larghe e vermiglie, traendo una sua berrett

a da notte, ed ebbe l'ingegno di mostrarsi penetratissimo, quantunque le sue pesanti e interminabili proteste d'esserlo risvegliassero in me qualche dubbio. Non conosceva ancora abbastanza la natura degli uomini, e affogai i miei dubbi riducendomi alla buona fede.Allegro come se avessi espugnata Gibilterra, tutto certezza d'aver impedita unavicenda spiacevole, da ragazzo di gran senno e di gran direzione, me ne andai acasa. Non dissi nulla del passo da me fatto, nemmeno alle mie sorelle, perch'erano femmine, e attendeva il scioglimento del contratto senza scandali dalla parte dell'umanità del signor Zini.Ruminava intanto tra me come potessi aiutare mio padre nella brama ch'egli aveva di passare alla villa, e come potessi soccorrere la famiglia sino alla nuova ricolta alla quale solo mancavano tre mesi. Faceva de' computi sul valore de' miei vestiti, sopra un orologio, sopra una tabacchiera, dispostissimo a spogliarmi di tutto; ma i calcoli mi disperavano. Non aveva altri veri amici fuori del signor Massimo, ch'era a Padova. Rifletteva ch'egli era creditore di dugento ducati e figlio di famiglia con suo padre vivente. Aveva però notizia che tanto il padre quanto il figlio, non che un altro di lui fratello, erano bensì avveduti con coloro che cercavano d'ingannarli, ma altrettanto erano soccorritori liberali co' loro amici veraci di buona e sincera volontà, e che avevano de' modi da poter soccorrere. Quante volte nell'avvenire, ne' casi miei burrascosi, ebbi occasione di conoscere queste verità!Andava disegnando su' miei possibili i tentativi nel cercare le medicine, quando il signor Francesco Zini ruppe tutte le mie immaginazioni. Invasato egli dallabrama di possedere la nostra abitazione e di fare d'essa l'acquisto, pubblicò la mia comparsa da lui e i miei ragionamenti a suo modo. Devo credere ch'egli abbia

espresso che, se non si persuadeva il giovinastro ardito e torbido, ch'era stato a visitarlo, a prestare solenne assenso al contratto, egli non sborsava due lire.

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Mentr'era io nel mio stanzino, studiando e discorrendo col mio minore fratello Almorò sopra alla scarsa scuola che aveva avuta, comparve mia madre in una veste assai filosofica, con un sussiego che dinotava del turbamento interno, ma che proccurava di celare sotto al suo contegno grave e flemmatico. Rivolta sempre a me solo, con un contegno più di giudice che di madre, fece una narrazione delle angustie nelle quali si trovava la famiglia. Disse che Dio benedetto l'aveva illuminata e soccorsa a trovare seicento ducati da un mercante benefico nel tale e tal mo

do; che il notaio era pronto per rogare l'istrumento; chiese a me che dicessi di quella provvidenza.Lessi nel centro del suo cuore la infedeltà del signor Zini, e mi vidi perduto. Risposi rispettoso che veramente un tal contratto a me non sembrava provvidenza, ma che mio padre era padrone di far ciò che voleva senza rendere a' figli suoi conto alcuno. Ella s'accese e disse in atto minaccevole ch'era necessario anche il mio assenso e che non credeva ch'io avessi la imprudente audacia di tragiversarecol mio dissenso un soccorso a mio padre e alla famiglia, nel stato in cui erano l'uno e l'altra.Avrei voluto poter dire delle verità senza pungere, ma ci sono delle verità che, dette, pungono irreparabilmente. Risposi, e sempre con sommessione, che per mio padre avrei dato il sangue, ma non mai l'assenso ad un contratto di tanto avvilimen

to e della specie dannosa di tanti contratti anteriori simili a quello, tutti figli d'una direzione desolatrice; che i buoni economi misuravano, prevedevano, enon si riducevano a vendere o ad ipotecare tratto tratto un pezzo del patrimonio per rammarginare le piaghe della incautela e del disordine; che per tal via lafamiglia tutta averebbe in breve dovuto cercare un ricovero all'ospedale; che con tutte le incurie, le indirezioni e le vendite sino allor corse della cecità, lerendite del patrimonio rimasto s'avvicinavano a tremila ducati l'anno, e ch'io non intendeva come ci fossero le estremità ch'ella mi narrava; che chi non può mantenersi in una metropoli con decenza, può mantenersi nel Friuli con più decenza e con due terzi meno di spesa, e che le case si affittano e non si vendono. Dopo tuttii miei riflessi replicai che mio padre era padrone di fare qualunque contratto,ma ch'io lo conosceva giusto e incapace di violentarmi a dare un assenso contrario alla mia libera volontà. Tutti i miei torcicolli, le mie riverenze, il mio far

colle mani le stimate di San Francesco, non potevano mitigare l'ardente significato del mio discorso.La madre si eresse colle mani a' fianchi, chiedendomi chi intendessi accusare delle disgrazie. Al cimento in cui mi pose di dire delle altre verità temerarie innegabili, mi contentai di rispondere: - Accuso il solo destino e le disgrazie medesime.- Io credo - diss'ella con un sorriso fremente - che concorrerete a cotesto assenso.- No certo - risposi con un inchino profondo, che non poteva essere interpretato che per un'ironia impertinente, benché non Io fosse. Altro non ci volle per innalzare le fiamme d'un Vesuvio.La madre con ciglio procelloso proruppe verso a me, ch'era il sesto dito delle sue mani, con queste materne espressioni: che dal punto del mio ritorno dalla Dalmazia, ella era stata una Cassandra nel pronosticare ch'io averei posta la famiglia sossopra; che non conosceva in me un di lei figlio; che i consigli d'un amico a cui m'era attaccato avevano cagionato a me per lo passato, e cagionavano allora, la comune rovina. (Ecco in iscena l'innocente generoso amico signor Massimo). Seguì, che se mi fossi ben diretto nel mio triennio, S. E. Quirini m'averebbe rimunerato con qualche buon uffizio militare. (Addio mia determinata volontà di non seguire il mestiere del soldato. Addio vera impossibilità d'aver uffizi mentre fui in Dalmazia, e addio mio studio tenuto per ben dirigermi). Continuò che la mìa gita era stata un'incomoda spesa all'economia della casa; ch'ero stato un vizioso... ch'ella sapeva... che taceva... ma che... basta..., e che il debito da me incontrato col signor Massimo de' dugento ducati, non era che una perdita da me fatta al giucco della bassetta.

Il debito era ancora vivo e non aveva dato alcun incomodo alla famiglia. Mi sorprese un rimprovero tanto strano. Ecco giunti a proposito i piccioli conteggi economici che si leggono nel capitolo decimoquarto di queste memorie. Sarei entrato

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 forse in una collera cieca e contraria al mio temperamento, se fossi stato rimproverato di tutti que' peccati con verità. Il solo tocco inconveniente sopra l'amico signor Massimo m'invogliava a incollerire, ma mi costrinsi. A tante ingiustizie uscite dalla bocca d'una madre che rispettava ed amava, vidi ben tosto ch'ella era stata mal imbevuta e crudelmente suscitata contro di me. Consigliato dalla mia innocenza e dal mio dovere, rimasi fermo e muto come un simulacro.La madre prese con impeto d' affetto, che parve materno, per un braccio il ragaz

zo mio fratello Almorò, e guardando me con disprezzo, che parve compassionevole, disse a quello: - Andiamo, andiamo, mio caro figlio, abbandoniamo ne' suoi errori quel matto. - Mi volse le spalle conducendo il fratello, come chi cerca di salvare una creatura da un orrendo pericolo.Il lettore mi scuserà ch'io abbia scritto minutamente di troppo il stucchevole racconto di quest' evento. Egli mi rimase così fitto nella memoria ed aprì un abisso di tante vessazioni alla mia filosofica costanza, che mi fu impossibile il laconismo.L'apparato ch'io scorsi mentalmente contro di me dopo questa tragicommedia mi fece vedere che mal mio grado averci dovuto ritornare cadetto a cavallo per mio minor male. Dubbioso in questo pensiero, uscendo dal mio stanzino, discesi le scale, e giunto nella sala trovai (tratto mio padre) tutta la famiglia in tumulto, c

ommiserata dalle adulazioni de' soliti amici suoi con me sdegnosi. S'era già sparso ch'io aveva trattato tutti da ladri, che aveva risposto alla mia madre con scandalosa ed empia temerità, e che si vedeva in me una volontà dichiarata d'ergermi in tiranno della famiglia.Sopraffatto da questa disseminazione, mi vidi guardare da tutti con dell'orrore, e le mie stesse tre sorelle, le quali mi avevano stimolato a impedire un disordine, erano ingrognate e dispettose verso di me. Averei potuto rimproverar loro,in faccia a tutti, l'eccitamento che m'avevano dato, ma non mi sono degnato di farlo. Mi riconfermai nella risoluzione di partire per la Dalmazia, e, senza perdermi a far parole della mia volontà con nessuno, appesi la spada al mio fianco e uscendo taciturno andai alla riva de' Dalmati, detta de' Schiavoni, a vedere se ci fosse navilio di partenza per Zara. Trovai un trabaccolo che doveva partire tra quattro o cinque giorni. Il padrone del navilio era un certo Bernetich. Presi

il suo nome in registro e, sprofondato ne' miei pensieri, fui esule e lontano dalla mia casa tutto quel giorno.Sforzai alla calma e all'ilarità il mio spirito già determinato. Ritornai all' abitazione e trovai la famiglia burbera ancora verso di me, ma d'un'aria contenta. Il signor Francesco Zini si contentava di fare il contratto coll'esborso e con quegli assensi fraterni che si potevano rogare, senza dar retta all'essenso mio. La faccenda era già stata provvidamente maturata, ed io non sapeva che mio fratelloFrancesco, prima di partire per il Levante, aveva fatto un ampio generale mandato di proccura al fratello Gasparo.Come un trionfo alla barba mia si vociferava che il giorno susseguente si faceva solenne e legale il sacrifizio, né mi curai di sapere i ripieghi trovati. Mi mostrai colla possibile ilarità, né ommisi di andare a tenere la consueta compagnia la sera allo sfortunato mio padre, ch'era seduto al fuoco, e mi guardai dal promovere discorsi spiacevoli.Credo bene il fare una descrizione topografica del nostro albergo. Egli era stato sino ab antiquo fabbricato in due perfetti separati alloggi. Gli usci doppi, terrestri ed acquatici, due scale, due cisterne, e tutto forma anche oggidì due nobili compiute abitazioni divise, perocché al terapo dell'edificarle le famiglie Gozzi erano due, che poi si ridussero alla sola nostra famiglia. Noi abitavamo nelpiano di sotto e in alcuni camerini nell'alto. L'altro piano di sopra era in quel tempo affittato cento e cinquanta ducati l'anno a certo signor Uccelli, onesto mercante da ferrami, ma era stato venduto anche quello con uno de' contratti in costume nella famiglia, sulla vita del mio buon padre, per mille dugento ducati a S. E. il signor proccuratore Sagredo, di memoria felice.Quantunque nella compagnia ch'io teneva quella sera al mio caro padre sfuggissi

con accuratezza di lasciar correre il menomo cenno d'amarezza sulle cose accadute in quel giorno, egli mi guardava e piangeva di quando in quando, ed io proccurava indarno dal canto mio di risvegliare in lui delle liete idee.

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Vorrei potermi scordare una notte, che fu per me una delle più oscure e angosciose della mia vita. Quel povero infermo, paralitico e muto da seti' anni, ma d' una mente acutissima, raccogliendo tutti i suoi spiriti, balbettando, facendo de' cenni e talora piangendo, mi fece troppo chiaro comprendere i suoi dispiaceri sulle circostanze nelle quali era caduta la famiglia. Spiegò mirabilmente che compativa l'acerbezza che sentiva anch'io sul contratto ch'era per farsi. Espresse conmio stupore e dolore ch'io avessi una breve pazienza, ch'egli era vicinissimo al

la morte; e che la sua mancanza restituiva alla famiglia la casa di sopra venduta sulla di lui vita, e ch'era quella molto migliore dell'abitata. Terminò questo muto ma eloquente discorso colle lagrime.Commosso io nell'intimo del mio cuore, tentai di calmarlo e di persuaderlo a non far raggirare per la sua mente pensieri tanto afflittivi. M'avvidi che per rendermi odioso anche al padre mio non era stata rispettata nemmeno la sua infermità colle riferte a modo altrui. Non feci alcun cenno sopra ciò per giustificarmi, e tacqui la mia ferma volontà di partire, per non accrescere il suo turbamento. Egli doveva passare, due giorni dopo quella sera fatale, nel Friuli, ed io disponeva mentalmente di partire, due giorni dopo la sua partenza, per la Dalmazia.Sembrava calmato da' simulati modi gioviali e dal mio rivolgere alle risa tuttii mesti angomenti. Volle alzarsi dal sedile per entrare nel letto. Lo soccorsi a

 drizzarsi, ma egli vacillava più del solito e declinava colle ginocchia verso alla terra. Lo presi abbracciato, sostenendolo. Momento crudele! M'avvidi che un ultimo colpo di fiera apoplesia m'involava mio padre dalle braccia. Egli articolò con voce alta e perfettamente queste due parole: - Io moro; - parole che mi piombarono sul cuore con tanta violenza che fui per cadere. Mia madre, ch'era presente, fuggì dalla stanza. Chiamai soccorso. Entrarono de' servi. Uno fu inviato da mea cercar medici; gli altri m'aiutarono a porre nel letto il mio buon padre, reso immobile affatto. Un medico, detto il dottor Bonariva, gli fece fare un salasso immediatamente. Tutti gli aiuti furono vani. L'infelice mio padre, nell'età ancora robusta di cinquantacinqu'anni, assistito spiritualmente dall'esemplare religioso don Pietro Righetti, oggidì canonico della basilica di San Marco, con tutti isegni di cristiana rassegnazione e d'intendimento, dopo ott'ore d'oppressione, d'affanno e d'agonia, chiuse le luci all'enorme buio in cui rimaneva la sua famig

lia.CAPITOLO XIX.Miei placidi tentativi inutili. Frivole mie considerazioni filosofiche morali. Apparato di ardentissime dissensioni famigliari.Il La Bruyère scrisse una verità innegabile, scrivendo che, quando gli abusi e i pregiudizi sono introdotti e invecchiati in uno stato, il tentare di levargli non è che un frugare in una cloaca e innalzare un puzzo che incomoda maggiormente. Unafamiglia numerosa non è uno stato, ma è una piccola repubblica in cui, se gli abusie i pregiudizi si sono introdotti e inveterati, il voler troncarli riesce il frugare nella cloaca detta dal La Bruyère. Siccome una gran parte delle memorie che scrivo della mia vita sono relative alle fatiche da me fatte invano per redimerela mia famiglia, mi trovo in necessità di far de' racconti senza speranza che possano interessare chi gli legge. Nondimeno, quelli che averanno la sofferenza di leggerli anche sbadigliando, troveranno uno specchio che può animarli a invigilareed a troncare i princìpi e gli abusi tra le pareti loro, per non ridursi a frugare, con inutilità e ammorbando, nella cloaca del La Bruyère.Appena spirato mio padre, la signora cognata, che si mostrava attiva, affaccendata, uscì dalla stanza lugubre e pretese di consolare gli addolorati figliuoli e figliuole, assicurandoli con una efficace asserzione che il defunto era il più bel morto che si fosse veduto. Questa inaspettata asserzione, che non aveva niente d'umano né di morale né di filosofico, e ch'ella replicava e affermava con de' giuramenti per consolarci, mi fece e mi fa ancora tanta rabbia, che mi rincrescerebbe persino che alcuni de' miei lettori ridessero nel leggerla.Tra i pianti, i deliqui e gli acerbi pensieri, ve n'era uno funestissimo. Dovrò dirlo? Non v'era modo, né di che fare, né credito da poter fare un dovuto onore funebr

e ad un cadavere tanto rispettabile. Parole assai, ma nessun fatto dagli amici casalinghi. Questa dura circostanza dica in quale stato rimase la nostra famiglia alla morte d'un onorato, ottimo, ma indolente padre.

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Io era persona nuova e non aveva altro amico che il signor Massimo, ch'era creditore e malignato da' miei congiunti. Il mio dolore mi suggerì a scrivere in sul fatto una lettera a cotesto vero amico, dandogli notizia de' casi funesti ed oscuri, e chiedendogli qualche soccorso. Ho spedito colla lettera a Padova un uomo fidato, commettendogli d'attendere la risposta. L'amico cordiale, anche col consenso del di lui padre e con tutta la sollecitudine, mi spedì una somma di danaio che sorpassava il bisogno d'un modesto funerale e de' suoi accessòri.

Quand'ebbi ricevuti i danari credei bene il fare una di quelle azioni che dovrebbero fare un buon effetto sugli animi, ma che per lo più lasciano gli animi come erano prima. Chiamai mio fratello Gasparo in secreto, ch'era assai turbato ed afflitto. Gli consegnai nelle sue mani il gruppo del danaio che m'era giunto liberamente. Gli dissi da qual parte veniva. Espressi ch'io non mi considerava né padrone né precettore; ch'egli era il fratello maggiore, e ch'io voleva riconoscerlo per capo della famiglia; che averci coadiuvato agli affari per quanto avessi potuto; ch'egli aveva cinque figliuoli; che la casa era in quel disordine che poteva vedere; ch'era suo principal debito il pigliare le redini maschilmente del governo e della direzione, levandolo dalle mani a chi aveva condotta la casa ad un totale naufragio; che quello era il vero tempo di far ciò; e lo pregai con tutta la cordialità a dar retta alle mie preghiere ed a' miei ricordi.

Egli accolse il danaio ed il mio discorso come un uomo che ha quel buon animo equell'intelletto che non se gli può negare. Mi disse che vedeva pur troppo la necessità di porsi alla testa d'una amministrazione disordinata, per riordinarla con una maschia costanza; che qualche rendita maggiore, che si accresceva de' contratti di vendite vitalizie ch'erano estinti colla mancanza del povero nostro padre, aggiungeva nerbo e agevolava la possibilità; che era disposto ad abbandonare delle applicazioni non intese e non premiate in Italia, per attendere con maturità e fermezza a' regolare e ad amministrare le cose domestiche.Non mi lusingai già che questo buon avvenimento succedesse. Sapeva ch'era impossibile il far cambiare natura e difficile il far cambiare carattere. Conosceva il genio faccendiere, dominatore, inquieto ed acceso della di lui consorte; il di lui naturale pacifico, non atto ad opporsi, la passione predominante ch'egli aveva per lo studio delle belle lettere; ma credei necessario il fare il sopra accenn

ato passo, per scemare al possibile la generale cattiva impressione di me, ch'era stata seminata nelle numerose teste della famiglia.Non ebbi cuore d'esser presente a' funebri uffizi, e mi chiusi nel mio stanzino, dove fui per tre giorni e tre notti, poco moderno filosofo, a sfogare il mio pianto, non scevro da qualche puntura rimorditrice d'aver contribuito ad accelerare innocentemente la morte dell'adorato mio padre.Non ci voleva meno della detta tragedia, perché il contratto del signor FrancescoZini mercante cadesse in nonnulla. Lo scrivere i susseguenti successi della miafamiglia mi dà qualche ribrezzo. Vorrei poterli dire senza che in essi apparisse una specie di censura involontaria sopra alcuni de' miei congiunti e una specie di vantaggiosa pittura di me. La verità si deve dire, ma protesto altresì ch'è anche una verità ch'io ebbi sempre del dolore degli errori degli altri, contemplando il danno che cagionavano loro, e che non ebbi giammai né il piacere della vendetta né ilsentimento dell'ambizione per quel bene che feci alla mia famiglia, se pur è veroche le abbia fatto del bene. Ciò si potrà giudicare dal seguito delle mie memorie.Le dissensioni nelle numerose famiglie di fratelli, sorelle, madri e cognate, producono le maggiori cagioni di far durevoli gli errori. Ogni persona di quella invasata società conosce perfettamente per pratica il debile dell'altra persona e sa pungere crudelmente sul vivo. Le menti irritate e guercie vedono gli oggetti a rovescio, e i partigiani e gli adulatori aggiungono zolfo ad un fuoco che fa comparire ragioni da essere compiante, de' torti da essere corretti. 11 zelo è interpretato per insidia e per tirannia, e non v' è protesta o sano argomento che persuada. La miseria di questa specie d'inferno è tanto feroce, che la ragione è accecata e il libero arbitrio non si riduce a conoscere il vero che dopo una lunga serie d'anni infelici e quando le armi della vendetta sono stanche e spuntate da mill

e sofferenze, dalla ingenuità, e da' benefici disinteressati degl'innocenti. Chi condanna i movimenti di una famiglia che arde nella dissensione può anche condannare le azioni de' sonnambuli allor che agiscono dormendo. Quantunque nella nostra

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fratellanza non ci sia esempio che si usassero moine o baci o abbracciamenti tra noi, l'affetto e l'amicizia erano reciprochi e universali; ma de' spiritelli capaci di cagionare delle dissensioni si erano introdotti ne' cerebri.Mi restava una madre, tre fratelli, tre sorelle e la cognata, l'indole accesa, arrischiata e vendicativa della quale, unita al saper colorire le cose a modo suo e al predominio che aveva sugli animi, cagionava il maggiore de' miei timori. Sotto l'ombra dell'infermo mio padre tutti erano stati padroni, o, per meglio dir

e, nessuno aveva veduto il vero capo della casa e nessuno aveva appreso ad essere buon figlio di famiglia, né conosciuta la regolare necessaria subordinazione. Tutti avevano i loro impegni, i loro debiti separati, e soprattutto le loro passioni come ha tutta l'umanità, ma la umanità de' miei famigliari parenti non era povera di spirito né d'intelletto, e senza un vero principale che desse loro una salutar soggezione, l'amor proprio e le passioni avevano fatti di tutti gl'individui tanti politici agenti per lor medesimi e disertori da quella sola linea, il cooperare dietro la quale forma il buon ordine d'una famigliare condotta e d'una decorosa sussistenza. Aggiungasi che l'epidemico genio della poesia, impossessato ditutti i cervelli della famiglia, dava al pensare ed al riflettere universale unnon so che di romanzesco. Ognuno s'era ordita una tela per se stesso, e ognuno aveva delle mire e degl'idoletti fuori dal vero culto.

Per una lunga serie d'anni non erano stati tenuti registri, né delle rendite né delle vendite fatte de' capitali, e tutti avevano ragione negando d'essere stati amministratori. In questo stato di cose la morte d'un padre lascia una famiglia esposta ad una irreparabile guerra intestina e suscettibilissima a' più accesi argomenti di dissensione. Sarei indiscreto ed inumano se per le cose avvenute dopo lamorte del padre accusassi madre, fratelli, sorelle, cognata, tutti di buone viscere, ma tutti riscaldati i cervelli da' sistemi sino a quel punto tenuti e da un certo costume addormentato sopra ad una consuetudine diretta dall'ingannato amor proprio.Un giovane solo nel mezzo a tanti, di poco più di vent'anni e più pensatore che favellatore, con un'aria marziale appresa, che cercava di piantare delle nuove regole e di levare de' domìni, accendeva l'irascibile e apriva l'adito a de' sospetti di sopraffazione e di tirannia. I riscaldamenti delle fantasie offuscano la ragio

ne e sono infermità. Le infermità non sono condannabili, e il mio esterno, di cui si avrà l'immagine esattissima nel ritratto che darò di me stesso, aveva forse di que' difetti che possono far sospettare con delle false ma scusabili conghietture.Mia madre, nel mezzo alle sue afflizioni per la recente mancanza del marito, non lasciava di proporre il pagamento della sua dote, benché tenuissima, come una persona che si crede vicina a naufragare e in necessità di cercare uno schifo per salvarsi. La cognata si mostrava al solito necessaria, faccendiera, e i sensali e gli ebrei e le femminette da servigi non scemavano le loro visite. Le sorelle erano sempre in confabulazioni secrète tra loro o colla cognata, che prometteva loromariti e dotazioni.Dopo tutte le sue proteste caldissime di prendere il freno del governo, mio fratello Gasparo aveva in sul. momento medesimo consegnati alla moglie i danari giunti da Padova, tratta qualche moneta per il suo borsellino, ond'ella potesse disporre a talento, e legatissimo a' studi suoi ed a' consueti suoi pacifici e geniali modi di vivere, non mostrava alcun segno di padronanza.Erano scorsi da venti giorni dopo la morte di mio padre, quando fui chiamato adun serio congresso del fratello maggiore, della madre e della cognata. Sedemmo sopra quattro sedie impagliate e rotte, e la cognata propose, con un viso che spirava importanza e maturità, che bisognava pensare a risarcire il signor Massimo de' suoi crediti (si noti la tentazione all'animo mio per sedurlo), e che anche per altre necessità era da vendere nuovamente per mille dugento ducati la casa ricuperata per la morte del padre, posta sopra alla nostra abitazione, sulle vite dinoi quattro fratelli; che il compratore era pronto (forse era il signor Francesco Zini); che con quella somma si sarebbero posti gl'interessi in assetto, i quali con una buona pianta di governo sarebbero poscia andati divinamente. Mia madre

 battendo le palpebre lodava la bella idea. Mio fratello la confermava come unacosa indispensabile. Tutti guardavano me, attendendo il consenso al divino trovato.

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Non comprendeva come la madre e la cognata entrassero in quel congresso, e comeil fratello, che aveva accettato il governo e la padronanza con un animo tanto risoluto, non s! vergognasse a fare una tal comparsa e ad aderire con tanta facilità alle proposizioni e a' trattati della moglie. Vidi aperto un inferno di dissensioni, e mi contentai di rispondere con la flemma possibile: che quanto al signor Massimo, conosceva di quanta amichevole sofferenza era capace per l'impotenzad'un amico sincero e di buona volontà, e ch'io non era persuaso della proposta ven

dita vitalizia; che ciò mi sembrava una progressione de' metodi rovinosi; che piuttosto averei affittato il nostro albergo, facendo passare per qualche tempo la famiglia in economia alla villa, dove si viveva molto bene con due terzi meno dispesa, e ciò sino a tanto che fossero pagati i debiti incontrati e che gl'interessi della casa fossero un po' meglio piantati.Questa mia scandalosa risposta, che feriva con molte saette il genio e l'amor proprio di tutti, mi fece nuovamente guardare come un Dionisio tiranno. Alcuni secreti bisbigli facevano di giorno in giorno più oscure le occhiate che mi si davano. Ho un grand'obbligo a Dio del temperamento risibile che m'ha concesso.Mio fratello Francesco aveva scritto da Corfù che si imbarcava per venire, e credei opportuno l'attendere pazientemente la sua venuta, per avere un appoggio allemie innocenti intenzioni. Ero solo, isolato, odiato e contemplato come una comet

a minaccevole.Per distormi dagli amari pensieri, richiamava tutti i miei spiriti e gli obbligava ad occuparsi a scrivere de' ruscelli di versi, di prose e di fantasie. In una lunga concatenazione di persecutori pensieri afflittivi di tutti i miei giorni, sino al punto in cui scrivo ora, oltre al soccorso del mio interno robusto e democraziano, non ho cercato altra distrazione che quella di studiare l'umanità e quella d'empiere infinite risme di versi e di prose satiriche, morali e di spirito. Posso dire che lo immaginare e lo scrivere sia stato a' miei dolenti pensieriogn'ora quello che sono gli opiati calmanti a' dolori di ventre.CAPITOLO XX.Di male in male peggiore.Giunse mio fratello Francesco, e, colla lusinga di conciliare de' beni, non suscitai che de' mali. All'arrivo del fratello dal Levante parve che rinascesse la s

erenità famigliare, e mi rallegrai. Fui sollecito ad informarlo con ingenuità dellecircostanze e de' miei desideri sul comun bene. Comprese egli benissimo le mie dirette mire. Giudicai ben fatto ch'egli partisse per la campagna nel Friuli e s'impossessasse delle rendite da quella parte, ch'erano il maggior sforzo di tutte le altre nostre entrate, e vicine alla ricolta. Credei che non si dovesse usare delle asprezze, ma che si dovesse poco a poco levare gli abusi e i nascondiglidelle disposizioni. Concertammo di non levare il titolo di capo della famiglia al fratello Gasparo, di cercare tutti i vantaggi possibili sulle rendite, ma di passare alle sue economiche mani i ricavati di quelle, ond'egli sostenesse la famiglia e tenesse un esatto registro del riscosso e del speso. Inculcammo per risvegliarlo dal suo letargo, e rispose da risvegliatissimo e risoluto di aderire. Per raddolcire e coltivare gli animi, pregammo la madre a volersi assumere delleispezioni famigliari, la cognata ad assumersene delle altre, la famiglia tutta a contribuire alle regole, alla pace, alla buona armonia.Tutti questi passi, che imbecilmente ci parevano belli per calmar gli animi e ridurli all'unione, furono accolti apparentemente con una contentezza universale.La cognata mostrò una rassegnazione esemplare, ma (ohimè!) ella disse che aveva un suo libro di conteggi tenuti per molti anni d'una parte d'amministrazione, e cheper sua quiete ella ci pregava d'una firma come di quitanza e di specie di ben operato, dal medesimo suo marito e dagli altri tre fratelli. Proccurai di farle comprendere che non aveva necessità di una tal firma; che nessuno si sognava di chiederle conto del passato; che anzi tutti professavano della gratitudine alle fatiche e a' disturbi lungamente da lei sofferti, e che dormisse pure i suoi sonnitranquilli. Le mie èrano parole. Ella insisteva, dimostrava de' timori nell'andare del tempo, protestava di cercare puramente la quiete del di lei spirito. Non ri

finiva mai di pregare e di far pregare di quella firma nel fondo ad un suo libracelo di scartafacci di caratteri e di numeri magici.Il fratello Francesco mi fece de' riflessi che parevano sani e ch'erano infermi.

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 Mi disse che nulla significava quella firma necessarissima per la pace in que'princìpi; ch'era da ovviare e da troncare tutti i motivi di malcontentezza e di turbolenza; che nessun fine maligno poteva avere una donna entrata nella nostra casa senza alcuna dote, e colla di lei madre e il di lei padre vissuti lungo tempo, mantenuti e seppelliti a spese della nostra famiglia, e che non aveva avuto mai né aveva niente di proprio. Aggiungeva che s'era consigliato con de' legali e che sapeva ciò che diceva; ch'egli certamente non abbracciava d'agire poco né molto se

 doveva incominciare dal dar de' disgusti, i quali averebbero tragiversata l'opera sua.Infelici riflessi e più infelice politica. Il fratello Gasparo, marito della chiedente, aveva già firmato per dar buon esempio. Il fratello Almorò era già stato sedotto a firmare. Il fratello Francesco era disposto per prudenza a firmare e mi predicava perch'io firmassi. Io rimaneva solo, e il solito giovine torbido, inquietoed ostile. Vinsi la contrarietà del mio cuore per levarmi l'odio universale. Senza alcun esame de' magici scartafacci, in atto di fare una quitanza, si videro impresse generosamente quattro firme nel fondo d'un informe libraccio, che pochi mesi dopo animarono l'occulta serpe in que' sgorbi, che s'udirà.Pregai il fratello Francesco a misurar bene le spedizioni che faceva dal Friulia Venezia e, nel carteggio che doveva tenere col fratello Gasparo, d'illuminarsi

 sulle disposizioni che s'intendeva di fare, e a non essere facile e condiscendente a tutti gli ordini di spedire generi e danari che gli fossero dimandati. Conosceva male il carattere di mio fratello Francesco, e sperando d'avere in lui un buon appoggio ero malissimo appoggiato. Senza essere ingiusto, egli era d'un istinto di formica diligentissima per se medesimo soltanto. D'un esterno affabile, d'un interno politico attento a non disgustare nemmeno una mosca, incapace di far fronte a' disordini per il bene comune, per non avere nimici, aveva la sola mira del di lui particolar interesse e di far nascere una divisione senza chiederla, per porsi al possesso del patrimonio a lui spettante. Egli non s'adattava poi a riflettere colla mente né sui debiti che esistevano, né sopra a tre sorelle cherimanevano, né agli imbrogli infiniti e alle guerre che potevano essere suscitateda questa sua brama occulta.Egli passò alla campagna, si pose in possesso con gli affittuali delle rendite, ed

 io m'occupai ne' miei soliti studi con una mansuetudine che dinotava ch'io nonvoleva disturbare e molestare gli affari, e ch'era pronto a stare a qualunque legge di parsimonia dal canto mio.Tutte le apparenze morali vogliono che si volesse ravviluppare in un ammasso ditanti imbarazzi ed a tanta disperazione mio fratello Francesco e me, che ci riducessimo a una nuova partenza, egli per il Levante ed io per la Dalmazia. Non hochi incolpare di queste apparenze, e le menti riscaldate per delle passioni e delle offese che credono d'aver ricevute, meritano più compassione che accusa.Le lettere e le commissioni di spedire dal Friuli a Venezia, fioccavano. Mio fratello villeggiatore e ministro voleva mostrare prontezza e non dare disgusti. Senza chieder ragione obbediva, non solo alle commissioni del fratello Gasparo, ma a quelle della cognata e della madre indistintamente. Spediva tutto ciò che gli veniva ordinato, perché gli ordini contenevano de' ben coloriti pretesti. Nel corso di sette e poco più mesi egli aveva eseguite tutte le commissioni e s'era felicemente alleggerito dall'intero imbroglio della ricolta di quell'anno. Alcune rendite di Venezia, della Bergamasca e della Vicentina, che ascendevano a circa ottocento ducati, erano state riscosse e consunte.Si seguitava a fulminare il fratello con degli ordini e col "mandate e spedite,che la famiglia è in angustia", ed egli rispondeva: - Non ho più che spedire. - Aveva un bel chiedere ragione di che s'era fatto di tante botti di vino, di tante gran sacca di farina, di tante rigaglie, di tanti danari spediti e riscossi. Degli impegni anteriori, particolari e divisi; un miserabile mantenimento della famiglia, avevano fatto volare ogni sostanza. Chi diceva: - Ebbi solo questo; - e chi: - Ebbi solo quest'altro, e feci si e si. - Ognuno rendeva un conto in astratto, a voce e sopra le dita. Mio fratello Oasparo, capo della casa per i nuovi sist

emi, sapeva meno di tutti gli altri come fossero andate le faccende, né aveva tenuto il menomo registro. Breve. Si concludeva che, senza vendere uno stabile sulle nostre vite, ognuno sarebbe morto di fame.

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Ora incomincian le dolenti note.CAPITOLO XXI.Mia flemma smarrita. Vesuvi, insidie e guerre tragicomiche famigliari.Risolvei di levar la fronte e di spiegarmi altamente, senza più curare di comparir inquieto, sturbatore e petulante, determinandomi ad assumere de' pesi che averei lasciati perpetuamente agli altri col solo fine di vedere la pace domestica. Le estreme angustie alle quali i modi tenuti riducevano una numerosa fratellanza

e una nuova discendenza di nipotismo, aprivano una voragine di dissensioni canine ed avevano cacciate lunge quella pace e quell'armonia ch'io bramava.M'era fatto qualche buon amico anche in Venezia, che m'animava. M'eressi un galletto e dissi sonoramente che tutta la famiglia doveva ridursi alla villa in unanecessaria economia per qualche tempo, e che averei fatto il possibile e pensato io a sostenerla, e che non voleva assolutamente né vendite né ipoteche di stabili e d'altri capitali. Una sì fiera risoluzione, unita a quella d'intimare la villa, che fu ributtata come un'orrenda bestemmia, mi fece divenire un Nerone punibile,con tutta la mia innocenza.Ho incominciato a incontrare de' debiti, a privarmi del picciolo mio equipaggio, per sostenere il necessario bisogno alla famiglia. Vedeva che m'era impossibile il provvedere ad una famiglia in Venezia, composta di quindici persone tra padr

oni e servi, per un lungo tempo. Stimolava ogni giorno tutti alla partenza per la campagna, che mi si negava da tutte le femmine in alleanza, volgendomi le spalle senza rispondermi.La mensa era un congresso di visi arcigni, di sguardi torvi e di parole pungenti. Faceva il sordo, il cieco, il Jobbe, fisso nelle mie massime. Ciò che m'addolorava era il vedere imminente una divisione di fratelli e di patrimonio. Proccurava di tener lontana questa necessità riflettendo allo stato in cui sarebbe rimasto il solo ammogliato in quel tempo de' quattro fratelli, e che aveva cinque figliuoli, con un quarto della facoltà aggravata da debiti. Non poteva accusare questo fratello che d'una indolenza insuperabile del suo istinto e dell'intera perdita sua in que' studi ch'erano pure anche la mia debolezza.Tra gli amici casalinghi e niente amici miei entravano de' forensi. M'avvedeva che si tenevano de' consigli contro di me dalla cognata, dalla madre, dalle sorel

le sedotte e da mio fratello Gasparo, che lasciava fare. Tutte le accennate femmine, che guidavano il fratello Gasparo condiscendente, visitavano ogni sera unadama compassionevole e pia, la quale aveva l'assidua servitù, amicizia ed assistenza ne' molti litigi che sofferiva, d'un celebre avvocato veneto. Si cercavano de' soccorsi e si macchinavano degli assalti del fòro contro di me, per assediarmi e sconfiggermi con degli appoggi.Quella dama d'animo incomparabile e di costume angelico era la contessa Elisabetta Ghellini di Vicenza, rimasta vedova da qualche anno, con un fanciullo, del Veneto patrizio Barbarigo Balbi. L'avvocato celebre, di lei direttore, era il conte Francesco Santonini.È cosa rarissima il ritrovare una dama adorna di tutte le qualità che aveva la sopra accennata. Nell'età di circa quarant'anni, cagionevole nella salute, con pochi beni della fortuna, i quali le erano anche contesi, oppressa dagli atti forensi econ frequenza assalita da mortali infermità, tutta religione, fiducia e coraggio,sopprimeva gli affanni suoi con un fervente sguardo al cielo. Attenta all'educazione dell'unico suo figliuoletto, che allora poteva avere otto o nov' anni, Io provvedeva di maestri, gli serviva di specchio d'un buon esempio, gl'instillava le più onorate e più sane massime indefessamente. Dotata d'intelletto e di vivacità, leggeva gran parte del giorno de' buoni libri. Si dilettava moltissimo della poesia e intratteneva una conversazione per lo più d'afflitti. L'animo suo era tanto sensibile alle miserie della umanità, che, scordandosi del suo stato ristretto, si spogliava spesso con una mirabile intrepidezza di ciò che doveva servire a lei, per soccorrere altrui. Sempre impegnata nel proteggere e nel dare aiuti, traeva daciò il sollievo maggiore del suo spirito.Non è una disgressione isolata il disegno in abbozzo ch'io do di quella dama; è cosa

 che ha molta relazione alle memorie della mia vita, siccome vedranno quelli che avranno la pazienza di leggerle. Nel bollore delle dissensioni del nostro albergo, udiva alla sfuggita i grand'elogi che si facevano dalle mie parenti a me avv

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erse e da mio fratello Gasparo a cotesta dama da loro visitata, e sentiva recitare un nembo di sonetti sublimi in sua lode, che si apparecchiavano da recitarlee donarle alla ricreazione. Costume un tempo consueto e tenuto da' poeti dove avevano pratica.Indovinai tra me stesso che si cercasse l'assistenza d'un celebre avvocato, il quale martirizzasse la mia buona volontà predicata come diabolica. Con questa mentale astrologia, siccome aveva l'umore di poeta anch'io, non invitato mai a quella

 conversazione, proccurai coraggiosamente e inaspettatamente di visitare, e solo, una dama che udiva tanto celebrare da' miei accecati nimici.Ella m'accolse. Mi chiese chi fossi. Mi feci conoscere. Il suo nobile e affabile sussiego prese l'aspetto d'austerità. Dopo alquante espressioni dal canto mio doverose sulla protezione ch'ella donava a' miei parenti, la vidi più sostenuta. Ella sciolse una facondia felice, che possedeva, per questo modo: - Mio signore, iosono una poverissima donna riguardo al mio stato, ma per la grazia di Dio riccadi buoni sentimenti e di buona educazione. La di lei famiglia è dotta e degna d'essere veduta con occhio di benevolenza e di stima da tutto il mondo. È peccato cheuna tale famiglia sia molestata e ridotta alle lagrime da qualche individuo, che ha vincolo di sangue, di dovere, di rispetto nella medesima. Una madre assai nobile vilipesa, delle sorelle tiranneggiate, delle persone meritevoli odiate, e d

elle moltissime stravaganze e ingiustizie disonorano questo individuo.Ad un tale preambolo il mio temperamento, che fu sempre alieno affatto, benché con mio danno, dall'addurre giustificazioni in difesa della mia innocenza, mi suggeriva di partire con un inchino; ma la urbanità e il timore che il celebre avvocato male impresso rovesciasse tutte le mie direzioni, mi trattennero. Con tutta laapparecchiata mia prevenzione, mi ferì crudelmente e mi sorprese il detto assalto, non essendo ben fornito l'animo ad un udirmi lineare con tanta barbarie. Ho sempre considerato che chi dilaniava la mia persona cogli accesi dardi d'una fantasia riscaldata, credesse d'aver ragione di farlo, quantunque avesse il torto, né incolleriva per le false supposizioni né per i tratti vendicativi; ma la pittura infernale ch'era stata fatta di me, non era da me attesa con de' colori tanto obbrobriosi.Volli incominciare la mia difesa, ma la dama eloquente, invaghita della sua inop

portuna correzione e interessata in un'opera pia che sperava di fare, impedì le mie parole, dicendo ch'ella non mi credeva di cattivo cuore affatto, e che bastava ch'io non aderissi a' consigli di certo amico a lei noto, per essere un giovine ragionevole e umano.Ecco di nuovo ingiustamente a campo l'amico signor Massimo, che m'aveva soccorso nella Dalmazia, che aveva sovvenuta la famiglia, e ch'era ancora cortesemente taciturno creditore di tutto. Questo tratto indiscreto mi punse con troppa violenza il cuore perch'io dovessi tacere. Era io trattato da cattivo e da sciocco, ed aveva pazienza; ma non soffersi alla vita mia di udire le offese ingiuste agliamici miei, senza scuotermi.Dissi alla dama con una accigliata serietà, che s'ella aveva giustizia, com'era certo che ne avesse, doveva ascoltarmi, che gli animi mal prevenuti non potevano essere che de' pessimi giudici, e ch'io desiderava ch'ella non cadesse nel numero degl'ingiusti. Narrai con tanta felicità e tanta ingenuità la serie delle disgrazie volute dalla miserabile condotta della famiglia; ciò ch'era avvenuto, ciò ch'era per avvenire; ciò ch'io desiderava, ciò che non si voleva; le mie intenzioni onorate,le insidie che mi si opponevano; i meriti e l'innocenza dell'amico; che vidi maravigliata e penetrata la dama.In quel punto medesimo giunse opportunamente nella stanza il conte Francesco Santonini celebre avvocato, stanco e sonnolente. Io gli feci i miei complimenti, ed egli retribuì. La dama gli disse: - Conte, avevate ragione di dubitare intorno agli affari della famiglia Gozzi. Trovo in questo signore degli opposti che mi stordiscono.Il conte sonneferoso rispose siedendo: - Non le diss'io che conveniva udire tutte le campane, per sapere quale di quelle avesse miglior suono? Discorsi di femmi

ne accese il cervello... - Dopo queste parole s'addormentò.Pregai la dama a proteggere la famiglia ed a favorire le viste innocenti ch'io aveva. La supplicai a non usare delle punture verso agli altri, accertandola che

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la famiglia, più che di fuoco, aveva necessità di ghiaccio. Quanto a me, fui per moltissimi anni fedele ed onorato servitore di quell'ottima dama, e sino al punto fatale di dover piangere la di lei morte. Quanto a' parenti, poco a poco le visite si raffreddarono, indi furono tronche senza mia colpa, e i sonetti panegiricisi cambiarono in satirette.CAPITOLO XXII. Assedi e assalti forensi. Separazione indispensabile della famiglia.

Ne' frequentatori nella casa, buoni o tristi amici, non mancavano de' causidicicoltivatori di risse, e i miei cattolici desideri, la mia provveduta assistenzae le mie preghiere alla famiglia di passare alla villa, furono col seguente modo compensati. De' ministri del fòro, colle loro cattive parrucche e i loro vestimenti da lutto, comparvero nella nostra abitazione. Fecero un inventario insino del più picciolo chiodo. Chiesi che fosse quella diligenza. Mi si disse che mia madre faceva il legale pagamento della sua dote. Un altro oscuro ministro m'intimò unadimanda presentata negli atti d'un notaio, chiedente mantenimento e dotazione per le tre mie sorelle rimaste. Un altro ministro, cieco d'un occhio, m'intimò una dimanda di mille cinquecento ducati per parte di certi mercanti alleati, che avevano date delle gioie, delle drapperie e delle biancherie per le due sorelle maritate. I due cognati chiedevano in giudizio presso a tremila ducati, residuo dell

e doti promesse, oltre a' livelli totali stabiliti, di verso quattromila ducati. Una folla di piccioli creditori, . suscitati non so da chi e da me non conosciuti, m'erano a' fianchi e intimavano de' sequestri sulle rendite ancora non maturate.L'aggressione più maravigliosa e inaspettata fu una dimanda al Magistrato della petizione di circa novecento ducati della moglie di mio fratello, più litigante della contessa di Pimbecche nella commedia del Racine. Ella chiedeva quella somma che protestava di avanzare per le sue amministrazioni tenute, apparente (ella diceva) da' conti da noi fatti esaminare, esaminati e firmati, ma che ella aveva poscia fatti apparire da quella selva di caratteri e di numeri di negromanzia del libraccio da noi senza alcun esame firmato, com'è detto di sopra.Sembrava che de' cacciatori auzzassero cento cani ad un tratto per dar la fuga ad una fera, e una cert'aria di contentezza e di trionfo che appariva ne' miei fa

migliari parenti diceva chiaro da qual fonte e con qual speranza venivano sullemie spalle tutti quegli assedi ed assalti ad un punto. Un tale apparato, che aveva l'aspetto d'una truppa di mostri spaventevoli, doveva atterrire e fugare qualunque soldato veterano, non che un giovine che aveva allora verso ventidue anni, e che non aveva alcuna idea degli ordini e delle battaglie forensi.Le mie democraziane risa vennero in mio soccorso. Mi strinsi a mio fratello Almorò e con lettere al fratello Frantello. Tutti due conobbero facilmente ciò che si voleva da noi e il cruento sacrifizio a cui si tentava di costringerci. Consigliai col benefico direttore conte Francesco Santonini sulla pioggia de' folgori chem'assalivano, e la mia direzione è uscita dal suo parere e dalla sua penna. Avvisai il fratello Francesco di non lasciarci levare il possesso de' beni del Friuli, ordinandogli che mi spedisse la copia di qualunque atto del fòro gli venisse intimato. M'opposi al troppo vasto pagamento, esteso anche sulle campagne, quanto alla dote della madre, non negandolo ne' limiti delle leggi e della giustizia. Condiscesi a degli accordi co' mercanti e co' due cognati, con obbligo di pagare, un tanto all'anno, i loro crediti, misurando le somme annuali colle forze del patrimonio, reso uno scheletro, e convennero discretamente. Ho esibito co' modi più dolci in una scrittura di risposta alle sorelle, di tenerle amorosamente appresso di noi, provvedendole de' loro bisogni e pensando al loro stato, ma negando una dotazione che non poteva esser pretesa sforzatamente in costituzione ne' fideicommissi de' Veneziani d'origine e di famiglia. Negai l'inaspettata e mostruosa pretesa di crediti della cognata, per quanto sarebbe da' giudici considerato. E perché ella sosteneva d'essere créditrice da noi per essere débitrice a parecchi creditori che avevano a lei affidate merci per i bisogni della famiglia, oblazionai che, verificati e liquidati cotesti crediti, sarebbero i creditori risarciti.

Dopo tutti i sopradetti accordi e le sopradette opposizioni contestate, seguitai a soccorrere la famiglia come poteva, attendendo la ventura ricolta; e tutto feci senza mai discorrere di dividere mio fratello Gasparo da noi, colla speranza

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che gli animi a poco a poco si raffreddassero e si calmassero. Speranza vanissima. La insistenza de' miei nuovi sistemi, che tendevano a distruggere le anteriori libere direzioni, a levare gli anteriori disordinati domìni e le oscure amministrazioni, non fece che irritare maggiormente le furie.Espressi in una urbana scrittura estragiudiziale intimata alla madre, al fratello, alla cognata e alle sorelle, con risoluzione che, se la famiglia non passasse alla villa, come aveva tante volte pregato, io non era più in grado di caricarmi

di debiti per sostenerla in una metropoli, massime dovendo soffrire a' magistrati delle molestie e delle spese in controversie co' miei stessi commensali congiunti. Mi si rispondeva come s'io favellassi con dei simulacri. Le citazioni della madre, della cognata, delle sorelle volavano. Gli sgarbi e gl'insulti crescevano. La mensa era divenuta una bolgia infernale, da esser descritta da Dante. Pertutte queste irragionevoli ragioni una fratellanza, che internamente si amava, offuscata da' diavoletti della discordia, spirava combustione, odio e vendetta. Provai a sottrarmi col fratello Almorò da' dardi che mi si scagliavano alla mensa,dalla minestra sino al formaggio, specialmente da una madre che doveva rispettare. Feci apparecchiare una picciola mensa per noi due in una stanza separata. Trovai ch'era con violenza, non so da chi, statasparecchiata la tavola, adducendo che la tovaglia, i tovaglioli, i tondi, le taz

ze, tutto era di ragione della dote di mia madre, e che se ne volessi me ne comperassi.Io non dirò se la necessità o la prudenza o una femminile sopraffazione meschinamente artifiziosa consigliata, m'abbia indotto a staccarmi dalla famiglia ridotta un inferno, che nulla voleva di ciò ch'io bramava, che m'incalzava per ridurmi eglieccessi o per fugarmi. I giusti mi compatirono, i politici mi condannarono.La verità è che, per fuggire de' rischi e de' pericoli imminenti, per una fisica impotenza contrariata e vilipesa, m'assentai col fratello Almorò dall'abitazione, lasciando tutti nella loro volontà e al loro destino. Prima di partire col fratello dalla bolgia infernale, chiesi a mia madre con tutta l'umiltà, in grazia, i letti che servivano a' nostri interrotti riposi, esibendo il prezzo di quelli a norma della stima del suo pagamento di dote. Mi rispose con un dispiacere sardonico, che non poteva aderire alla mia richiesta, perché quei letti occorrevano alla famigl

ia. Risi anche di quella negativa.E quindi uscimmo a riveder le stelle.CAPITOLO XXIII.Disseminazioni, transazioni, divisioni legali e quiete cercata invano.Un passo indispensabile, sforzato dalla altrui direzione, divenne un delitto inapparenza e una specie d'immaginario vantaggio e trionfo in quelli che s'erano invaghiti di rovinarci co' litigi forensi. Sperarono di farsi un'utile strada coll'odiosità a peso di noi tre fratelli e di vincere delle cause, o piuttosto di poter cantare per lo meno: - È morto Sansone, ma morirono i Filistei secolui. - Le dissensioni domestiche accecano a questo segno.Fu tosto disseminato per tutta la città che tre fratelli Gozzi disumanati e barbari s'erano posti in un violente possesso d'un intero patrimonio della famiglia, piantando il quarto fratello con cinque figliuoli, tre sorelle, la moglie e la madre, dama veneta rispettabile, nelle lagrime e nella indigenza la più crudele. I fanti de' magistrati seppero ritrovarmi e fulminarmi colle citazioni in un picciolo tugurio ch'io aveva preso in affitto a Santa Caterina, dove le case sono rinvilite per la lontananza, e dove alloggiava col fratello Almorò, affogando nel fumo che mandava la cucina, con poche mobilie e una fante vecchia befana, appellataJacopa, che ci serviva. Democrito e la mia innocenza mi dicevano tuttavia: - Non fuggire, accogli colle risa le tue vicende, non crepare e resisti.Io non mi sono mai degnato, per istinto, di girare affaccendato giustificandomicolla lingua, anzi ho sempre considerato un tale uffizio ciarliere più adoperato da' rei che dagli innocenti. Il conoscere gli uomini non mi scosse giammai da questo parere. Una indolenza da me scientemente conservata sopra a delle false disseminazioni può aver lasciate per avventura, anzi di conseguenza, alcune false impr

essioni svantaggiose contro di me, e l'indole mia, che piccica del satirico, può forse averle alimentate e ribadite. Se le memorie della mia vita cancelleranno alcune di coteste false impressioni, averò l'obbligo alla mia storica veridica penna

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 ingenua, e non mai ad una penna seccatrice apologetica sopra alle censure che mi si facessero dietro le spalle dalle altrui lingue.Nelle sopradette amare circostanze fui avvertito che la moglie di mio fratello,sempre progettante poetica e sempre vaga di maneggi e d'amministrare, aveva sedotto il povero mio fratello, facendogli credere e vedere mentalmente delle montagne d'utilità a firmare la scrittura della condotta del teatro di Sant'Angelo in Venezia, e non so quante scritture di stipendio ad una truppa di comici, che dovev

ano agire ad una rovina, ma ch'ella conteggiava per un opulente vantaggio, facendosi impresaria, direttrice e sovrastante e seguace alla truppa ne' teatri di Venezia e di terraferma.Avrei non voluto avere questa notizia. Benché ella desse un'idea delle anteriori direzioni tenute e mi servisse di giustificazione, non ebbi alcun sentimento allegro, e compiansi il fratello e gl'innocenti suoi figli. Tentai, senza essere nominato, di far dissuadere quella femmina rovente sopra una tale impresa. Ributtò ogni persuasione tentata, certissima di guadagnar de' tesori da far mordere le dita d'invidia a' di lei cognati.Non era più tempo di ritardare quelle divisioni che sino a quel punto aveva tenute lontane. Oltre il desiderio che aveva di far noto al mondo il mio dissenso in questo proposito indecoroso e rovinoso, scorgendo per buon consiglio tenuto che l

a intrapresa avrebbe per qualche via potuto involgere le sostanze di tutti, senza delle divisioni di fraterna legali, intimai civilmente al fratello Gasparo laseparazione del patrimonio, così consigliato.Discesi a de' trattati ed a cercare d'accomodarmi co' miei parenti. S'interposero delle persone, e fu estesa e firmata una carta preliminare di divisione e di accordi, col comune consentimento e colla speranza di troncare molte teste ad un'idra che soffiava veleno da tante parti. Insistendo la madre e le sorelle (che poi si pentirono) di voler vivere unite alla famiglia del fratello Gasparo, quella ebbe da noi la conferma del pagamento della sua dote presso che al dieci per cento, e queste ebbero una somma annuale vitalizia, accordata a misura delle estenuate forze che rimanevano, con un patto d'accrescimento d'una somma determinata e d'anno fissato, estinti che fossero i debiti assunti da pagarsi, per i qualifu destinata un'antiparte, che fu poscia a mio peso. De' beni del Friuli due agr

imensori periti fecero quattro parti eguali. I beni di Venezia, della Bergamasca e della Vicentina furono divisi a rendita con un'altra scrittura firmata.Mio fratello Gasparo ebbe desiderio d'avere nel suo paramento l'abitazione di sopra, ricuperata per la mancanza del padre, e condiscendemmo nella scrittura suddetta; e nella scrittura medesima cesse a noi tre fratelli l'albergo di sotto, che abitava, ma colla scrittura. Ognuno conobbe il suo patrimonio, così volendo il fratello Francesco per farsi diligente formica sul suo retaggio a piacere. Per tal modo tre fratelli che sembravano uniti, non rimasero uniti che coll'animo, e il patrimonio se ne andò in quarti. A me, oltre la mia porzione, rimase il peso diestinguere i debiti coll'antiparte, per dover rendere conto al fine d'ogn'anno dell'operato. Le pretese della cognata non furono considerate in quelle convenzioni, ma si vedrà che ho poi dovuto considerarle allor quando le sperate comiche miniere d'oro non furono che miniere di rovine sulle spalle dell'infelice indolente fratello.Dopo tutti questi stabilimenti, col consenso de' miei fratelli Francesco e Almorò, prevedendo de' casi mesti, mi sono espresso colla madre e colle sorelle, che in qualunque tempo e in qualunque evento averebbero trovato in noi tre fratelli un accoglimento filiale e fraterno.Ognuno crederà che con tutti questi pensieri io non trovassi tempo da occupare ne' miei studi geniali, e ognuno s'inganna. Non passava giorno ch'io non cercassi in quelli l'unico mio sollievo. Uscirono dal mio calamaio delle infinite superfluità letterarie continuamente, per lo più facete e contrarie agli afflittivi pensieri che doveva avere. Anche queste mi cagionarono delle strane vicende. De' racconti niente malenconici conterranno gli eventi cagionati dal genio mio letterario e da quello di voler conoscere l'umanità, e porrà in chiarezza che per quanto si stud

i il mondo non si giugne giammai a ben conoscerlo, né a farsi un argine che difenda da tutte le stravaganze degli umani cervelli.CAPITOLO XXIV.

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Buon volere tragiversato. Liti attive incominciate. Studio sul cetto forense.Sarei stato assai sciocco, se avessi avuta lusinga che le divisioni seguite e le disposizioni firmate conducessero la colomba col ramo dell'olivo nel becco. Aveva già parato l'animo ad una infinità di disturbi ed a immollare di sudore più camicie che non aveva nell'armaio. Le divisioni avevano sottratte da una irregolare amministrazione tre quarte parti del patrimonio, ma avevano lasciata una asprezza negli animi della famiglia del fratello Gasparo presso che inestinguibile.

Volli por mano nell'archivietto delle scritture della casa, per impossessarmi de' lumi e delle ragioni comuni in sui fideicommissi alienati e dispersi. Trovai che tutte quelle scritture erano state dispettosamente vendute, non so da chi, emi fu additato soltanto da una fante, in gran secretezza, qual pizzicagnolo le aveva comperate a peso. Corsi da quel vendisalsiccia, e fui solo a tempo di ricuperare a buon patto alcuni sommari e alcuni testamenti che non avevano ancora involto prosciutto. Non ho colpa se questo tragico accidente, di tanta conseguenzache doveva far piangere, fece in me un effetto contrario.Cercando lumi da' lumi, razzolando ne' scrittoi degli avvocati, de' notai, de' pubblici archivi colla scorta di vecchi sommari, fui indefesso a segno di porre in assetto più di ottanta gran processi di scritture, in gran parte copiati dalla mia penna, come può vedere chi vive e potrà vedere chi resta dopo la mia morte nelle

canzerie del mio albergo. Studiai le mie ragioni e m'apparecchiai a proporle sotto al parere dei giudici.Fu quello il tempo ch'io conobbi il signor Antonio Testa causidico, uomo meritamente reso celebre, e nato per sostenere con sommo valore la sua professione. Loscelsi per difensore, e mi scagliai senza gran volontà nelle guerre sostenute perlo più dal cavillo, che mi tennero occupatissimo ben diciott'anni, ne' quali ebbioccasione di studiare l'umanità che popola le sale del gran Palazzo e i sistemi delle battaglie che ivi si fanno.Gl'invecchiati abusi introdotti, e in ogni età corsi con maggior raffinamento da un esercito di forensi, la maggior parte di mente sottile e non tutti d'animo retto, hanno formato un sistema, nella direzione del piatire, quanto falso altrettanto solido e non separabile dalla sua falsità. De' sensi oscuri e mutilati, delleproposizioni oracoli nelle contestazioni, degli atti preliminari, non sono che r

eti reciproche tese con delle viste di far imbrogliare e cadere in un disordinedi direzione; e delle dispute ingegnosissime di prove bistorte e sui crudeli effetti de' giudizi che sono per nascere, sovente fanno trionfare il torto e rendono la ragione sfregiata, abbattuta e talora indigente, a segno che si rimane cadavere colle vesti del torto.Non credo, né si deve credere, che ci sieno stati o ci sieno alcuni giudici poco dotti, poco illuminati e incapaci di giudicare le controversie. Se ciò fosse, potrebbesi temere che la penetrazione degli acuti e audaci causidici avesse, pro tempore, tutto arrischiato, cogliendo de' vantaggi da questa sciagura, e che questasciagura avesse parte col falso sistema stabilito e fissato. Questo sistema, dacui non possono uscire né gli onorati né gl'inonesti causidici negli assalti e nelle difese de' loro clienti, ha una cert'aria di maligno, di cavilloso, di sopraffattore, d'ingannatore, d'astuto e d'oppressore, che rende, con ingiustizia, soggetti alla satira tutti i forensi generalmente.Un filosofo scrittore francese, esaminando il cetto forense della sua nazione, considera, con un tratto satirico sanguinoso, la ragione per la quale i principisoffrono ne' loro stati questo genere di persone. Se queste menti sublimi, sottili e inquietissime, nodrite dalla lor bàlia Discordia - dic'egli - non fossero occupate e non si sfogassero nel distruggere lo stato delle private famiglie, non potrebbero tenere a freno la loro inquietezza torbida, spiritata ed attiva, e susciterebbero delle turbolenze, delle ribellioni e delle insidie a' principati.Se le satire valessero a regolare i sistemi ed i stratagemmi perniciosi, sarebbero meglio impiegate che co' causidici, co' marescialli delle armate, i quali ne' loro sistemi e stratagemmi sono più valenti e più celebrati quanto più sanno distruggere senza pietà de' loro simili. Viva l'umanità!

Non sia chi mi rimproveri d'aver scritte anch'io delle satirette sulla milizia forense. Rispondo che le composi sui loro sistemi e sopra alcuni caratteri generali della lor professione soltanto. Ne' studi d'osservazione ch'io feci sopra a t

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utti i gradi dell'uman genere, in diciott'anni ch'ebbi il fastidio necessario de' litigi in pro della mia famiglia, e che mi tenne stretto a' tribunali, sono debitore d'una perfetta conoscenza del nostro cetto causidico. Ho ritrovato ne' miei principali difensori avvocati signori Andrea Svario, Carlo Cordellina, Federico Todeschini, Francesco Massarini, Antonio Lorenzoni, Conti Francesco e Cesare, padre e figlio Santonini, e conte Giuseppe Alcaini, nel loro sistema forense, un'eloquenza e un fervore d'animo mirabile e fuori dal loro sistema, infinita urb

anità, cordialità, prudenza e disinteressatezza. Parlo degli avvocati del tempo de'miei litigi, né dubiterei di non trovare le medesime qualità ne' signori Tommaso Galino, Giovan Battista Cromer miei amicissimi, e in tanti altri luminosi in questi ultimi tempi, se fossi in necessità di piatire, da che Dio mi salvi.Non posso accusare i forensi che mi furono avversari, perché gli conobbi soltantocome nimici e nel loro necessario cattivo sistema. Parmi di poter assicurare ilmio prossimo che la povertà, la voluttà, il lusso ed i vizi, non fanno peggiori effetti ne' causidici, di quelli che fanno nelle famiglie lontane affatto dalla professione forense. Il signor Testa, penetrato dalle mie circostanze e dal mio buon volere, mi si fece amichevole direttore e difensore. Non volle da me giammai quelle mercedi che sono dovute alle aplicazioni ed a' passi de' suoipari, chiamando insulti le mie esibizioni, e non fece talora difficoltà ad aprire la sua borsa n

elle mie ristrettezze e ne' miei conflitti. Non ho mai conosciuto un forense più veloce di lui a comprendere le ragioni e le obbiezioni, né il più rapido a fare un fruttuoso esame d'un promontorio di scritture, né il più penetrativo a pronosticare dell'esito d'una lite e a conoscere la mente, l'animo e l'equità de'nostri giudici.Nella sua professione ognora in battaglia, egli non può avere nimici che degl'invidiosi de' molti beni ch'egli s'è guadagnati co' suoi sudori, degli avidi che non possono usurpargli le sue sostanze, e degli avversi fugati dalla sua abilità. Il tempo, le mie e le di lui circostanze, le sue occupazioni che si accrebbero sempremai, hanno scemata tra lui e me una pratica ch'era giornaliera e famigliare; maniente potrà in me diminuire un sentimento di gratitudine, che conserverò sempre verso ad un uomo riparatore alle desolazioni e miglioratore dello stato della mia famiglia.Incamminate le mie molte giuste pretese di comun giovamento a' tribunali della g

iustizia, non tralasciai di visitare tratto tratto mia madre e la famiglia di mio fratello Gasparo, allora occupato colla moglie a innestare e a tradurre dellepoetiche fantasie teatrali per la comica compagnia e per quel teatro da lui preso a condurre, e che doveva arricchirlo. Alle mie visite, ingenue e cordiali dalcanto mio, la madre mi chiedeva qualche picciola somma di danaio a prestanza con sostenutezza materna, ch'entro al possibile non le negava, scordandomi di chiedere la restituzione. La cognata si sforzava a caricarmi di qualche affettata adulazione. Le sorelle mi guardavano con occhio di vero affetto, rattenuto da non so qual soggezione, e il fratello m'accettava come un filosofo che non si cura di veder nessuno mal volentieri.CAPITOLO XXV.Contrattempo, frutto del rancore misto col bisogno. Mi maritano senza moglie.Le rendite ch'erano rimaste al fratello Gasparo per le divisioni, unite al frutto della dote della madre, all'assegnamento vitalizio stabilito alle tre sorelleche rimanevano appresso di lui, ed a' proventi ch'egli aveva annualmente da certi librai e da altre faccende letterarie appresso Sua Eccellenza proccuratore Marco Foscarini, fu doge di gloriosa memoria, montavano alla somma di circa mille cinquecento ducati annuali, netti da quegli aggravi e da que' debiti ch'io m'eraaddossato di pagare. Tal somma non era un tesoro, ma non sarebbero nemmeno un tesoro le ricchezze di Creso in una famiglia disordinata il di cui capo è il solo capriccio di tutti quelli che la compongono.Ho detto che nelle divisioni il fratello Gasparo aveva bramata la casa di sopra, ch'era affittata cento cinquanta ducati, che lo avevamo servito, riservando colle divisioni medesime a noi tre fratelli la casa di sotto allora da lui abitata. Avevamo anche accordati alcuni mesi di tempo onde potesse sloggiare con agio. A

ppena potè legalmente disporre della casa di sopra, occorrendo forse danari per dare i quartali o le mesate a que' comici che dovevano agire per farlo opulente, egli, o piuttosto la di lui moglie, aveva già fatto un mercato di quella casa, risc

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uotendo moltissime annate di affitti anticipati dalla nobil donna Ginevra Loredan Zeno, che andò ad abitarla, seguitando colla maggior calma del mondo, senza badare a tempo, a patti firmati o a divisioni seguite, ad abitare colla sua famiglia la casa di sotto, spettante a noi tre fratelli.Siccome aveva disegnato, in accordo co' fratelli medesimi di farla ristaurare ne' molti suoi bisogni, d'affittarla per qualche anno e sino a tanto che, pagati i gravosi debiti assunti, avessimo potuto abitarla pacificamente, aveva anche pro

nto l'affittuale. La dama contessa Ghellini Balbi, avendo udita la nostra disposizione, m'aveva detto che, se volessimo dare a pigione a lei quella casa, l'avrebbe presa volontieri, avendo una incomoda abitazione; e noi gliela avevamo accordata, per quegli anni però che avevamo disposto d'appigionarla.Le divisioni seguite; il cimento in cui m'era posto di pagare tutti i debiti assunti colle rendite e senza fare ipoteche; lo storno ch'io aveva chiesto a' tribunali de' contratti mostruosi seguiti vivente il padre; erano offese da non essere perdonate con facilità da chi aveva fatto i debiti, le ipoteche, i contratti.La dama Ghellini Balbi aveva in buona fede escomeata la sua abitazione. Il proprietario di quella la aveva affittata ad altri per il tempo in cui ella doveva sgomberarla. Io non scorgeva liberata la casa nostra. I mesi scorrevano. Un imbroglio grande si avvicinava, e mi vedeva sforzato ad una violenza che abborriva, tu

ttoché fosse avvalorata dalla giustizia.Chiesi con tutta la dolcezza l'albergo ch'era del nostro retaggio, avendo servito nel partimento il fratello dell'abitazione superiore, molto più spaziosa e molto meglio conservata. Niente mi si rispose, anzi si incominciarono a suonar delletrombe per tutta la città, le quali esprimevano che, non contento io d'aver ridotta una famiglia in angustia, cercava di cacciare fuori dall'asilo paterno la vecchia madre, tre sorelle nubili, un fratello colla moglie e cinque teneri innocenti lor figli, mettendo tutti raminghi sopra la strada, senza pietà. Queste false voci dilaniatrici la riputazione, usatissime da' mortali, fanno spesso ammalare ecrcpare un onest'uomo, s'egli è disarmato d'un risibile filosofico. Attendeva chemi venisse appiccata in questo proposito una di quelle liti interminabili che fanno disonore a' forensi, ma che non mancano di campioni sostenitori.Io non scrivo questa stravaganza, che per far sapere di quanti mali sia capace e

 quanto inestinguibile sia il seme delle dissensioni acerbe d'una famiglia, e massime quando ha l'origine dalle femmine che si sono calzate le brache mascoline.Per dar maggior corpo alla disseminazione ed a' colori della mia sognata o inventata brutale tirannide, cotesti miei parenti pensarono d'ammogliarmi senza il consentimento mio. La vita esemplare e di palese religione che teneva la vedova dama contessa Ghellini Balbi non ammetteva maldicenze decise, ma le mie dovute visite giornaliere alla di lei conversazione aprivano l'adito agevole a delle semioneste dicerie. Si diceva ch'io aveva sposata quella dama, e che tutte le mie direzioni non avevano avuta e non avevano altra mira e altra ragione che questa.Una tale vociferazione mi onorava in parte, e m'incresceva soltanto che una dama saggia, affettuosissima verso l'unico suo figliuoletto, in un'età d'un doppio alla mia, venisse dipinta dalla malignità capace d'una imprudenza assai facile da esser creduta. Non feci però che ridere a tutti questi ingiusti e bugiardi ululati, e senza degnarmi di stancare il polmone ad abbaiare sopra un'ingiusta falsità indiscreta, attesi a volere la nostra casa da me chiesta con tutte le ragioni che non potevano essere oscurate dalle ciarle.Colsi mio fratello Gasparo fuori da' donneschi tumulti. Gli feci comprendere fraternamente gl'impegni miei, le circostanze della dama, che per una buona fede poteva rimanere senza ricovero, le ingiustizie che mi si facevano e le mie ragioni, le quali erano da lui comprese anche senza ch'io gliele dicessi. Quel pover uomo, quasi piangendo, rammentandomi Jobbe co' suoi movimenti, mi protestò di non avere alcuna colpa nel disordine che avveniva, e ch'egli affermava per strano e contrario alla giustizia. Aggiunse ch'egli sofferiva de' romori infernali, de' titoli d'uomo pusillanime, di padre spoglio di zelo per la sua prole, e infine chenon era né obbedito né ascoltato.

Per farmi persuaso ch'egli non opponeva dal canto suoch'io avessi il giusto possesso della casa nostra, prese una penna e scrisse sopra ad un foglio, che m'ha consegnato colla sua firma, ch'egli non aveva parte al

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cuna nelle opposizioni che si facevano, e che i di lui fratelli Francesco, Carlo ed Almorò avevano ragione di impossessarsi della casa toccata loro nel partimento legale seguìto, e ch'egli non sarebbe giammai per contraddire al loro giusto possesso della medesima.Le divisioni, le carte, i maneggi, le preghiere, tutto fu vano. Il tempo stringeva, e convenne con mio rammarico ricorrere a un giudice che decidesse sommariamente il nostro possesso. Questo fu Sua Eccellenza conte Qalean Angarano, allora a

vvogador del comune. Contro ogni mia aspettazione vidi comparire al tribunale di quel gravissimo giudice la moglie di mio fratello in aria di avvocatessa, allatesta di mia madre e delle mie sorelle, colla retroguardia di mio fratello vittima. Tronco una scena troppo comica,  Che la mia commedia cantar non cura. Il giudice conobbe la mia incontrastabile ragione e, prima di far la parte delgiudice, si dispose umanamente a far quella del mediatore. Vidi molte confabulazioni secrète tra il giudice e Sua Eccellenza Daniele Renier senatore, che sosteneva la circostanza della dama Ghellini Balbi, la quale aveva da noi la scrittura d'affitanza e pagato il suo semestre d'affitto. 11 medesimo senatore confabulavasecretamente colla mia cognata, ch'era la colonna della mia vessazione. Ero curioso di vedere il parto delle confabulazioni, ed eccolo. Il senatore Renier venne

 a dirmi che il giudice era per pronunziare la sentenza a mio favore, ma che s'io facessi uno sborso di sessanta ducati, che mia cognata chiedeva per alcuni bisogni, averei avuto il possesso della casa senza sentenze che vanno soggette agli appelli e a tardanze indicibili. Respirai, ringraziando l'Eccellenza Sua del maneggio e del buon consiglio. La cognata ebbe i sessanta ducati, e noi avemmo lanostra casa. Feci immediatamente ristaurare quell'albergo, che pareva l'avanzo d'un saccheggio. La dama passò ad abitarlo con un'affittanza di soli cinqu'anni, equesto passaggio fece rinforzare i discorsi ch'ella era già mia moglie senza il menomo dubbio.Aveva io già presa a pigione co' fratelli una casa nella contrada di Sant'Ubaldo,di poco costo, ammobigliandola con parsimonia del bisognevole. Proccurava che il mio minore fratello Almorò proseguisse le sue scuole, appoggiato ad un buon religioso. Attendeva a pagare i debiti, a riparare qualche fabbrica cadente, a sollec

itare le attive mie liti, ed a scrivere in alcune ore del giorno molti poetici capricci per distrazione.CAPITOLO XXVI.Avvenimento serio.Era un gran tempo ch'io non visitava il senatore mio zio materno, Almorò Cesare Tiepolo. M'ideava che mia madre e delle altre persone a lei attinenti, le quali non perdevano di vista quel buon vecchio e lo coltivavano con di quelle mire ch'io non ebbi e non avrò mai, accese da quelle ragioni che credevano d'avere, m'avessero fatto un apparecchio odioso a lor modo appresso di lui; ed io non voleva sentire ingiuste mortificazioni, né affaticarmi a giustificare la mia innocenza, massime perché non avrei potuto ciò fare senza accuse verso a degli oggetti che internamente rispettava ed amava.Oltre a che lo sdegnare di perdere del tempo e delle parole sul giustificarmi fu sempre uno de' molti difetti del mio carattere, aveva rilevato colle mie indefesse osservazioni sull'uomo, che i Veneti patrizi, giustissimi e scevri d'ogni passione nel giudicare, sedenti a' tribunali, sulle ragioni altrui disputate e udite con estensione, erano privatamente molto suscettibili alla commozione sulle prime esposizioni che venivano fatte loro nelle lor case, e molto difficili da esser svolti da una prima impressione. Ho sempre giudicato che ciò nasca da un buonanimo, sdegnoso di udir l'oppressione benché palliata, e che i Grandi della nostra repubblica sieno veramente adorabili per mille doti de' cuori loro, anche con questo privato accidentale sentimento.Per la mia taciturnità, per il mio vivere il più del tempo solitario, per le mie scarsissime ufficiosità del costume viziato, per il mio non chiedere e non voler niente dalla fortuna, e per il mio libero scrivere, potrei avere de' nimici terribil

i, se si degnassero di abbassare lo sguardo ad una persona non considerabile come son io.Oppresso da un'idrope nel petto e ridotto presso alla morte, il mio saggio e buo

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n zio materno mi fece sapere che voleva vedermi. V'andai immediatamente, ed egli mi fece sedere vicino al suo letto. Si lagnò soavemente perch'io non mi fossi dalui lasciato vedere da un tempo sì lungo. Gli risposi con ingenuità che il timore ch'egli fosse stato mal impresso contro di me senza punto di verità, e quello dellesue collere, che m'erano state partecipate forse perché non me gli appressassi, m'avevano trattenuto.- Se mi fossi lagnato - diss'egli - che mia sorella e vostra madre fosse stata o

ffesa e trattata con delle ostilità, ciò non doveva troncare le vostre visite.- Vedo - risposi - avverato il fondamento de' miei dubbi e della mia trepidazione. Non credo questo - soggiunsi - il momento di disturbarla con delle lunghe storie di giustificazione. Desidero la di lei salute, per suo e per mio vantaggio.Ho tutto cercato, anche sovvertendo il mio carattere pacifico, per impedire divisioni e dissidi. Sono certo che alla sua guarigione, ch'io bramo con tutto lo spirito, ella resterà persuaso ch'io non offesi e non usai ostilità alcuna a nessuno,e ch'io sono soltanto in traccia di far del bene a tutti, coll'intero spoglio del mio particolare interesse e ponendo me stesso sotto al giogo d'enormi applicazioni e fatiche, non che di perigli.Egli era giusto, saggio, filosofo ed infermo, e nulla più mi rispose. Io replicaile mie visite giornaliere, e fui assicurato che quel venerabile vecchio aveva de

tto alla sua sorella mia madre: - Credetemi che Carlo vostro figliuolo è un buon giovine.La di lui malattia crebbe sempre, ed io m'avvidi, dalle persone ch'egli faceva stimolare perché andassero a lui, che, prevedendo egli la sua morte, cercava una riconciliazione con tutti i suoi conoscenti i quali potessero sospettare ch'egli avesse qualche sentimento di livore contro di essi.Assistito spiritualmente da certo frate Bernardo degl'Ingesuati, che in quel tempo passava per un dotto regolare, si faceva leggere di quando in quando de' passi delle sacre pagine, e mostrava tanta indifferenza in sulla morte, che mosse quel frate a dirgli: - Non vorrei ch'ella s'inducesse a morire un po' troppo filosofo.Quantunque egli avesse occupati a' suoi giorni de' posti ragguardevoli nella repubblica e specialmente quello dell'eccelso Consiglio de' Dieci molte volte, non

fu mai udito dire in quella mortale infermità la menoma parola che avesse relazione a' tribunali o al governo.Siccome egli era stato per tutto il tempo della sua vita vago d'avere de' commensali e di vedersi innanzi la mensa imbandita di buoni cibi, e particolarmente de' pesci più ricercati, anche vicino alla morte, bevendo soltanto qualche cucchiaio di que' brodetti che si sogliono dare a' moribondi, voleva la mensa parata pergli altri come prima, e chiamava a sé ogni giorno un suo gondoliere, facendosi narrare di quali bei pesci quel giorno era fornita la pescheria. Sulla narrazione del gondoliere faceva delle lodi e de' biasimi, e per la stagione opportuna o inopportuna e sulla qualità de' pesci che gli erano nominati e sulle acque nelle quali erano stati presi. Passava quindi a de' ferventi atti di contrizione, a de' colloqui sensati col religioso di lui assistente, a delle preci con sommo raccoglimento. Devo attestare ch'egli è spirato da grand'uomo, filosoficamente cristiano,e che il suo esempio ha impressa in me la brama d'imitare il suo fine.La virtù della pazienza fu da lui posseduta al grado maggiore, e nessuno lo vide alterarsi per nessuna aspra vicenda a lui relativa. Per dare un saggio solo di questa sua imperterrita virtù, narro un successo avvenutogli alcuni anni prima del suo morire. Nel sbarcare una sera dalla sua gondola, incespicò nella veste larga elunga patrizia, e fu per cadere nell'acqua. Il gondoliere, per prenderlo e per impedire la caduta, lasciò il remo che aveva nelle mani, il qual remo, cadendo conimpeto sopra al destro braccio del padrone, glielo spezzò. Il gondoliere non s'avvide del fatto. Il padrone s'avvide bene, ma non disse verbo. Salì le scale e, giunto alle sue stanze, il cameriere se gli avvicinò traendogli la veste al solito. Egli disse soltanto con imperturbabilità: - Tira un po' adagio, perché il mio bracciodestro è in due pezzi. - Il romore de' famigliari che lo amavano fu grande. Il gon

doliere corse amaramente piangendo e chiedendogli perdonanza. Egli calmava tutti, e disse al gondoliere: - Mi facesti un male per farmi un bene. Qual colpa haitu da chiedermi perdono? - Soggiacque a stare quaranta giorni nel letto, sempre

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nella stessa positura ordinatagli dal chirurgo, senza mai dire una sillaba che dinotasse la menoma impazienza. Potrei narrare una serie di questi suoi tratti, che non avrebbero a far nulla colle memorie della mia vita.Fui veduto penetrato dalla sua morte, e mi si avvicinò un certo signor Giovannantonio Gusèo, solito a fare il notaio, l'agrimensore, l'avvocato, il cancelliere ed il giudice in alcune iurisdizioni del Friuli, uomo conosciuto per più artificioso del greco antico Sinone, ch'era aderente e consigliere della moglie di mio fratel

lo, che aveva data mano e rogati ne' suoi protocolli molti istrumenti di alienazioni pel nostro innocente patrimonio fideicommisso, e mi suggerì, in via di ricordo zelante, di contribuire alla mia madre, oltre alla sua dote, dieci sacca di farina e due botti di vino, che mi sarei fatto, diceva egli, un grandissimo onore.Conobbi la sede da cui partiva questo inviato e notai la ingegnosa accuratezza che lo inviava cogliendo un momento che pareva opportuno a sedurmi. Tali astuziefurono sempre per me un fastidio, e passando dalla mestizia al sussiego, risposi al messaggere Gusèo: che giudicava una scelta d'infelice cieca predilezione quella della madre di stare colla famiglia di mio fratello Gasparo; che la casa mia era anche abitazione di mia madre qualora avesse voluto accettarla; che in questa ella sarebbe riverita ed amata da tre rispettosi figli; che avrebbe avuto il suo trattamento e goduto il prodotto della sua dote; che rifiutando la nostra esib

izione non faceva che farci un insulto; che accettandola faceva un bene al fratello Gasparo, col diminuire il numero della di lui famiglia; che gl'impegni mieidi dover pagare un ammasso di debiti, di riparare a' stabili ridotti alla diroccazione, e di svincolare dalle catene molti capitali fideicommissi dispersi, nonmi permettevano di snervare le forze ch'erano anche di troppo intisichite. Questa mia risposta rinverdì la ciarliera falsa conchiusione ch'io era un vero Falaride.Perché il lucroso reggimento del Zante e gli altri uffizi sostenuti non avevano punto accresciute le facoltà dell'illibato defunto mio buon zìo senatore Tiepolo, neltestamento ch'egli fece ordinò che fossero pagati tutti i di lui debiti, facendo registrare in esso testamento l'onorato catalogo de' suoi creditori. Del resto egli lasciava erede una sua sorella appellata Girolama, vita di lei durante; indisostituiva erede mia madre. Questa ebbe in quella funesta occasione parte d'alcu

ni beni nel Friuli d'una vecchia sua zia Tiepolo, morta ab intestato, i quali uniti alla sua dote, potevano formare il sufficiente suo mantenimento.Io fui sempre il di lei sesto dito, tagliato dalle sue mani senza alcun suo dolore. Ella era padrona di disporre della sua predilezione e di tenere aperto il suo tenero cuore per chi possedeva la grazia sua. Ebbi il dispiacere di non possederla senza invidiare chi la possedeva, e posso assicurare il mio paziente lettore che il maggior dispiacere ch'io abbia avuto riguardo a mia madre fu quello divederla sempre senza un ducato da spendere a modo suo, anche allorquando giunsea possedere tutta la facoltà di quella famiglia Tiepolo estinta, dopo la morte della sua sorella Girolama, che lasciò de' mobili e molti danari istituendola erede di tutto, unita a mio fratello Gasparo ed a' di lui figli.CAPITOLO XXII.È confermato ch'io fossi marito, benché non avessi moglie. Alcuni aneddoti di carattere serio.Avvenne caso che ribadì sulle lingue il mio sognato matrimonio colla dama contessa Ghellini Balbi, e fu per questo modo. Il nobile patrizio Benedetto Balbi, canonico di Padova e abate di Lonigo, cognato di quella dama, cavaliere fornito di doti e di beni della fortuna, s'era fatto creare dalla giustizia tutore e curatore solo del nipote Paolo, unico figlio della dama cognata. Quel giovinetto potevaavere in quel tempo l'età d'anni dieci circa, e il zio dispose di staccarlo dal seno materno per porlo in educazione nel collegio de' cherici regolari somaschi in San Cipriano di Murano.La madre, tenerissima dell'unico figlio degno della di lei tenerezza, non opponeva già ch'egli entrasse nel collegio, ma s'affrontava che un figlio, da lei sino a quell'età mantenuto e fatto educare, se le involasse dalle braccia come da un per

icolo, con una totale rigida privazione, voluta dal cognato, della materna ingerenza nel collegio sopra al suo parto. Corsero delle parole pungenti, e la dama si presentò a' tribunali, chiedendo alla giustizia d'essere tutrice del figlio unit

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amente al cognato. Le fiamme s'innalzarono, ed io doveva partecipare dell'arsura con tutta la mia innocenza. Il cavaliere cognato, per avvalorare quali si fossero le sue ragioni, andava narrando per tutta la città e a tutti quelli che si abbattevano in lui, proccurandosi anche de' promulgatori, che ognuno sapeva che la cognata sua era passata ad un nuovo matrimonio col conte Carlo Gozzi, che non era più Balbi ma Gozzi, e che aveva perduto ogni diritto sul figlio della di lui famiglia.

Eccomi di nuovo ammogliato, assolutamente senza saper d'esserlo; e se Cartesio non m'aiutava col suo sistema, facendomi riflettere replicatamente ch'io esisteva e che esisteva libero, avrei creduto anch'io d'avere una moglie. Rideva tuttavia colla dama di quell'ostinato matrimonio; ma siccome il cavaliere s'era finalmente espresso di non volere litigi forensi e di volere abbandonare tutti i pensieri e tutte le disposizioni che s'era prefissi in vantaggio del nipote, lasciandolo in balìa liberissima della madre, ciò pose freno alle mie risa. Costringendomi auna gravita catoniana, feci intendere alla mia dama che un suo, benché giusto puntiglio, doveva essere affogato, qualora essenzialmente ella non potesse risarcire il suo figliuoletto di que' beni de' quali poteva essere colmato dal zio. Quantunque io fossi persuaso che cento libbre d'oro non pagassero una dramma d'affetto sincero e naturale, scevro dalle viste dell'ambizione, m'accomodai al pensare

mondano ed espressi da bravo sofista che il verace amore non cagionava giammai del danno all'oggetto amato.A questo riflesso, che secondo il mio pensare morale, spoglio dell'avido interesse, non è che un sofisma, ma ch'è incontrastabile e legittimo nelle universali opinioni, vidi piangere quella dama dirottamente, indi scuotersi e dire: - Avete ragione, io sono una povera donna; sarei condannata da tutto il mondo e un giorno forse dallo stesso mio figlio. Sono pronta a sacrificare i miei diritti, a chiudere nel mio seno i trasporti degli affetti materni, le ferite delle ingiurie che mi si fanno, e tutto ciò che può pregiudicare al bene d'un figlio che adoro e a cui non posso fare tutte quelle beneficenze che il zio può fargli. Fatemi anzi il piacere di farvi relatore del mio inalterabile sentimento.Feci il mio breve panegirico alla virtuosa risoluzione, e recai al nobil uomo cognato (da cui aveva in ogni tempo ricevuto delle notabili politezze) l'eroica ri

soluzione della dama. M'ingegnai a dipingere il di lei merito e a sostenere chei di lei affetti non erano già scusabili, ma degni degli elogi maggiori. Il cavaliere si commosse e mi disse: - Io non sono già un leone. Intendo che la madre abbia la ispezione di visitare il figlio, di invigilare a' di lui bisogni, che saranno da me contribuiti nell'avvenire. Voglio che possa qualche volta ricondurselo a pranzare con lei, e basterà solo ch'ella misuri i tratti della sua tenerezza a tale che questi non possano disturbare la di lui educazione e scolastica disciplina.Con questi vocali sacri impegni reciprochi, io fui il ministro che staccò dal seno materno il figlio, e che lo condusse al collegio. Una tremante sforzata virtuosa intrepidezza del giovinetto in una tale separazione mi disse chiaro ch'egli doveva coll'andare degli anni retribuire, con una condotta degna degli onori della sua patria, alla virtù della madre e alle beneficenze del zio.La morte sola, che non ha rispettata l'età né della madre né del zio, poteva ingannare i miei pronostici veraci riguardo ad essi. Né la madre né il zio furono a tempo digodere il frutto de' loro affetti e delle loro attenzioni, essendo la madre dodici e il zio quindici anni circa, dopo quel punto, mancati di vita.Il giovine patrizio Paolo Balbi, uscito da' suoi studi, viventi ancora la madreed il zio, abitava con questo, ma visitava quella ogni giorno; ed ebbe la buonaarmonia sempremai perseveranza tra i due cognati ed il giovine cavaliere. Adorno questi d'un genio indefesso per lo studio, la sua morigeratezza e ritiratezza opposte alla corruzione del secolo, il suo intelletto, il suo bell'animo, la inaccessibile sua probità e rettitudine, la sua commiserazione per gli oppressi, il suo carattere adattato all'indole della patria sua, l'aria sua gioviale, aperta efilosofica, la sua riflessiva facondia, gli aprirono la via facile ad occupare u

n posto ed indi ad essere contraddittore ne' rispettabili congressi delle Quarantie; né si dee dubitare che la giustizia de' suoi concittadini patrizi non lo elevi a meritati gradi più luminosi.

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Fui dunque ammogliato nel modo che ho detto, da delle voci che bramarono di fare de' pregiudizi alla dama sopra accennata. Moltissime cose, sparse da delle lingue maligne, irritate e vendicative, sono credute e narrate per vere, e sono vere come questo mio matrimonio. Dal canto mio averò sempre del rossore a lasciarmi indurre a credere con facilità per vere delle cose che possono danneggiare il mio prossimo, conoscendo con fondamento che l'origine loro è l'irascibile e la mala intenzione de' vari strani caratteri de' mortali.

CAPITOLO XXVIII.Non crederei ciò che contiene il seguente capitolo, se non l'avessi veduto.Nelle dissensioni e nelle divisioni delle famiglie, le amarezze degli animi fanno pensare in un modo che, quantunque da qualche parte deva esistere il torto, tutti gl'individui non solo sostengono d'aver ragione, ma si avvezzano tutti a credere d'averla assolutamente. Io sono in dubbio se abbia avuto ragione di fare quanto feci e quanto ho narrato con ingenuità.Sapeva che l'impresa del teatro preso a condurre dalla condiscendenza di mio fratello andava male e prometteva peggio. È certo che per le cose avvenute anteriormente un animo cattivo e vendicativo avrebbe provata della compiacenza. Io sentiva del dispiacere, e ciò mi lusingava di non avere un animo cattivo. Quanto più male andavano le faccende di quella impresa e quanto più erano prevedute delle stragi da

 chi se l'aveva addossata, tanto più si accresceva il livore contro di me, come s'io fossi stato la causa legittima della mal consigliata impresa, ch'era stata da me solennemente colle parole e co' fatti disapprovata. Non lasciava di visitare quella famiglia per tener ferma la fraterna armonia, per render conto di quanto operava in vantaggio comune; ma ad onta delle mie dimostrazioni sincere di benevolenza, sempre in vero poco loquaci, mi avvedeva con del rammarico che le ferite lasciate dalle divisioni del patrimonio spruzzavano ancora del sangue.La minore delle mie sorelle, detta Chiara, mossa forse da delle previsioni infelici, mi pregò un giorno di riceverla appresso noi tre fratelli, e discesi tosto cordialmente alla di lei richiesta. Avrei fatto lo stesso con mia madre e colle altre due sorelle, ma erano ben lontane dall'accetare ciò che aveano prima rifiutato come una gran sciagura. Dissi a questa minore sorella che non avendo appresso di me la madre, che essendo mio fratello Francesco per lo più occupato nell'attende

re agl'interessi delle campagne nel Friuli, il fratello Almorò assai ragazzo e obbligato alle sue scuole, io affaccendato tutti i giorni, parte ne' studi degli avvocati, parte a' tribunali per sollecitare i molti interessi della famiglia, non era decente ch'ella rimanesse sotto la custodia d'una rozza e stolida fantesca. La pregai a farmi il piacere d'entrare in serbo in un monastero, dove la averessimo mantenuta sino a tanto ch'io avessi fatto cambiare aspetto alle circostanze d'allora, e che la averessimo poscia con maggior decoro accolta, dando tutto il pensiero al di lei stato. Io non ho sorelle balorde né cattive. Ella convenne agevolmente e tranquillamente colla mia ragionevole richiesta, e fu da noi posta nel nonastero di Santa Maria degli Angeli di Pordenone, come fanciulla in diposito.Chi è soggetto, come era io, alle mire delle lingue iraconde, che cercavano di screditarmi co' titoli d'ingiusto, d'inunano, di tiranno, le quali m'avevano persino ammogliato senza matrimonio e potevano anche dipingermi un pessimo custode della sorella con delle invenzioni assai peggiori, doveva avere la precauzione ch'io ebbi, quantunque le precauzioni dell'uomo più cauto della terra non abbiano tutte il buon effetto che dovrebbero avere. Parlo con quella esperienza che coll'andare degli anni hanno fornito le mie osservazioni sull'indole de' cattivi uominie delle peggiori femmine, co' quali e colle quali la buona fede, di cui né seppi nésaprò mai spogliarmi, non è che un veleno. Mi doleva estremamente di veder resistere nella famiglia del fratello Gasparo un'amarezza, per le cose avvenute, ir.estinguibile. A' modi ch'io teneva, alle visite ch'io faceva, si proccurava di nascondere agli occhi miei il pernizioso rancore che bolliva ne' seni, ma egli non potètrattenersi di fare uno sfogo pubblicamente con un tentativo mostruoso, ch'io non crederei se non l'avessi veduto.

Andava con frequenza nel carnovale, unito agli altri miei due fratelli, a vedere le comiche rappresentazioni che si facevano nel teatro di Sant'Angelo di Venezia, preso a condurre dalla cognata più che da mio fratello. Li nostra gita era meno

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 per divertirci che per sostenere d possibile un'impresa in cui vedevamo un fratello sacriti, cato. Non lasciavamo di pregare la dama Ghellini Balti a venire con noi, ed ella condiscendeva e si affaticava ai applaudire in teatro alle rappresentazioni più d'ogn'altro spettatore.Si era rappresentata in quel teatro una traduzione dal francese della commedia intitolata Esopo alla corte, ed aveva avuta qualche fortuna e per la elegante traduzione di mio fratello e per il suo aspetto di novità. Era sparsa la voce che si

stava traducendo il seguito di quella om media del medesimo autore francese, opera intitolata Esopo in città, e che presto sarebbe stata esposta. Noi eravamo desiderosi di vederla, di sostenerla, e d'un utile avvenimento. Un onest'uomo, che praticava indistintamente nella famiglia del fratello Gasparo e nella nostra, miprese un giorno e in gran secretezza e mezzo sbigottito mi disse: - Sappiate che nella commedia tradotta dal francese dell'Esopo in città, v'è una scena innestata e non indotta, nella quale voi, i vostri fratelli Francesco e Almorò e la dama Ghellini Balbi, siete esposti con de' modi sanguinosamente satirici in un brutto aspetto agli occhi del pubblico. Non mi nominate, ma maneggiatevi sollecitamente per troncare il disordine, poiché tra cinque giorni la commedia si rappresenta.Credei facilmente vera la relazione dell'amico, ma mi guardai bene dal dare il menomo segno che gli indicasse la mia credenza. Lo ringraziai dell'avviso zelante

 sempre ridendo come di cosa non possibile, e le mie risa cadevano sulla di luidabbenaggine e sulla sua credula immaginazione, riscaldata da un zelo male a proposito. Il pover'uomo sudava per persuadermi, ma non ebbe dal mio canto che risa, beffeggi e ironici ringraziamenti, Lo piantai lasciandolo collerico sul mio ridere.Ho religiosamente custodita la mia lingua co' miei stessi fratelli e colla dama, e mostrai anzi impazienza e desiderio di vedere in iscena la nuova commedia. Entrò finalmente in teatro, e fummo attenti io, la dama e i fratelli miei a provvederci d'un palchetto comodo. Avemmo il rincrescimento di vedere poco concorso in quel teatro, e il rincrescimento di vedere quella commedia progredire languendo.Esopo alla corte, colle sue favolette ad ogni proposito, scritte eccellentemente, colla sua figura scrignuta e grottesca, e soprattutto coll'aspetto di novità della sua rappresentazione, era piaciuto. Esopo in città, colle cose medesime, ma che

 aveva perduta la forza dell'aspetto di novità, parve un plagio dell'altro, composizione snervata, ed annoiava.Comparve finalmente la scena d'invenzione aggiunta, rifertami dall'amico. Una vecchia dama vestita a nero veniva ad esporre ad Esopo una lunga narrazione dellesue, da lei chiamate, calamità. Lo sfogo del suo interminabile racconto contenevaostinatamente tutte le menzogne che s'erano inventate e dette contro di noi e contro la dama Ghellini Balbi al tempo del bollore delle sopra accennate nostre famigliari dissensioni e divisioni. Quella vecchia dama concludeva ch'era stata scacciata di casa con un suo affettuoso figlio, tre figlie, una nuora e cinque nipotini, da tre propri figli suoi disumanati e sedotti. Terminava piangendo e chiedendo aiuto e consiglio ad Esopo frigio, il quale, con una tavoletta stiracchiata, in versi, la commiserava. La vecchia dama vestita a nero era pontualmente lafigura della nostra povera madre, la quale, accecata da un acerbetto contro noie dal mèle della sua predilezione, aveva creduto lecito, e forse aveva esultato, di lasciarsi esporre sopra una scena spettacolo al pubblico.Quella scena lunghissima, aggiunta senza proposito e per episodio da una privata passione, non intesa dal pubblico, destò de' sbadigli e fece ancor più languire quell'opera, la quale non ebbe alcun utile avvenimento. Durante quell'ingiusto episodio indecentemente maligno, vidi la dama Ghellini Balbi divenir taciturna e turbarsi, e vidi i due miei fratelli accendersi e disporsi a fare de' gran schiamazzi. Le mie risa sbardellate sopra all'infelice tentativo facevano rabbia; e miofratello Francesco, pieno d'idee marziali, voleva fare delle bravate. Egli non faceva altro che farmi ridere ancora più. Con de' buoni riflessi consigliai tutti,sempre ridendo, a bere dell'acqua che ammorzasse i loro vapori, e a ristringersi in un inalterabile silenzio. Fui obbedito. Se si fossero fatti de' schiamazzi,

si averebbe dato assolutamente corpo a un effetto che, per tal contegno, cadde ammorzato da se medesimo senza interessare nessuno, come avverrà alle memorie della mia vita.

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Ebbi poscia della compiacenza d'aver riso a quel mostruoso accidente, massime leggendo Eliano storico, che nelle sue memorie riferisce un avvenimento nel modo che segue: "Quando (dic'egli) gli attacchi pubblici di dileggio e d'ingiuria assaltano uno spirito coraggioso, si dissipano e spariscono come nebbia al vento; ma se trovano una anima abbietta, superba e vile ad un tratto, la riempiono d'unamestizia e d'una smania che sovente è seguita dalla morte. Ecco una prova. Socrate, posto apertamente in iscena con della satirica malignità da Aristofane poeta com

ico, non fece che ridere saporitamente. Poliagro, nel caso medesimo di Socrate,divenne furente e s'è impiccato".Anche la commedia d'Esopo in città, col suo episodio inaspettato ed aggiunto, fu un buon libretto alle osservazioni anatomiche sull'intelletto e sul cuore umano.Ciò ch'ebbi forza di non voler credere mai, fu che mio fratello Gasparo avesse parte colla sua penna e coll'animo suo nel sopra accennato episodio, ch'io lascio in libertà i miei lettori di epitetare con degli epiteti più caricati de' miei.CAPITOLO XXIX.Litìgi utili che annoiarono certamente più me nel farli, che non annoieranno il lettore nel leggerli.[Ho seguitato ad estinguere i debiti colle somme annuali accordate. Soccorso del Testa, col primo litigio liberai una campagna e fabbriche d'un fideicommisso ne

l territorio vicentino; col secondo litigio ricuperai la metà d'un'osteria e d'una decima nella villa di Bagnoli colle loro giurisdizioni, pure nel territorio vicentino, possedute per alcuni contratti dalla casa Pisani delta Moretta; col terzo ricuperai un capitale d'ottocento ducati nella casa patrizia Battagia, e concedei quel capitale a livello alla zia materna Girolama Tiepolo; col quarto rintracciai e vinsi una casa e una bottega d'un fideicommisso nella contrada di SantaMaria Zobenigo in Venezia; col quinto riacquistai una campagna con la casa colonica poste nella villa dì Tamài nel Friuli, già vendute ai conti di Porcia; col sesto liberai una piccola casa nella contrada di Santa Maria Mater Domini di Venezia, abusivamente venduta dalla moglie di mio fratello. Quella signora abbeverò d'una velenosa loquacità contro di me l'avvocato conte Giovanni Bujovich, che perse la causa con tutti i voti. Non uscendo punto dalla discretezza cristiana, mi riuscì d'accrescere di circa dugento ducati annuali di rendita le affittanze d'alcuni nostr

i poderi di Bergamasca. Col settimo litigio ricuperai, con guerra infuocata, de' beni fideicommissi nel Friuli (campi, fabbriche e un jus di passaggio sul fiume Meduna), già venduti, col pretesto di dotare le due sorelle Marina ed Emilia, con una specie di que' contratti che noi appelliamo "stocchi". Il direttore e notaio stipulatore era stato quel Giovan Antonio Gusèo, nuovo Sinone aderente della mia cognata. I miei lettori non mi considerino d'un genio piatitore, e sappiano che reggevo a quelle fatiche col soccorso dello studio poetico, e che quando gli avversari proposero accordi, ho sempre accettato. Maggiore di tutte fu la lite contro il marchese Antonio Terzi di Bergamo, che possedeva de' beni fideicommissi mascolini dovuti a noi per duetestamenti del secolo 1500 di due buoni vecchi Jacopo e Cristoforo Gozzi. Le scritture dell'avolo mio e della di lui vedova contessa Emilia Grompo vendute al pizzicagnolo e le forti aderenze dell'avversario non mi spaventarono].Aveva pagati tremila e più ducati di debiti; aveva riparato a delle fabbriche cadenti con forse altri mille; aveva ricuperati più di quattordicimila ducati di capitali perduti, accrescendo alle rendite annuali circa settecento ducati; aveva ripartito il bene con tutta la fratellanza e ridotta a maggior somma la contribuzione vitalizia alle due sorelle rimaste col fratello Gasparo, eseguendo l'accordopreliminare alle nostre divisioni. Averei sollecitata la causa co' signori marchesi Terzi, ma de' casi non aspettati rallentarono la mia intrapresa.CAPITOLO XXX.Causa passiva fastidiosa.[Nel capitolo XXII dissi che la moglie di mio fratello aveva preteso un creditomostruoso, ma che non se n'era fatto nulla. I debiti da lei incontrati nel disordine del teatro diretto col semplice nome di mio fratello Gasparo, fecero che el

la suscitasse di nuovo quelle pretese a' tribunali contro noi tre fratelli, Francesco, Carlo e Almorò, firmatari de' caratteri magici e de' pentacoli di negromanzia della cognata: il fratello maggiore, che aveva firmato per primo, non era chi

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amato in giudizio].I miei celebri avvocati signori Federico Todeschini e Francesco Massarini, uniti al signor Testa, dicevano per una apparente verità che il fratello Gasparo faceva a noi tre quella lite. Io conosceva l'indole pacifica del fratello e un animo in lui bensì capace di lasciar correre de' disordini, o per aver la sua quiete o per la sua indolenza, ma non atto per se medesimo a promuovere de' litigi forensi. Sapeva che non solo era disceso, per fuggire una tempesta di circuizioni, all'i

mpresa teatrale, ma che, dopo le divisioni seguite con noi, la moglie colla famiglia, senza rendere a lui conto alcuno, aveva cambiato d'abitazione più di sei volte, per temperamento inquieto o, vogliamo dire, attivo, e ch'egli era andato a picchiare all'uscio degli alberghi primi, già vuoti, per alloggiare, ricevendo le notizie, da' vicini compassionevoli di vederlo stanco sul battitoio, che la di lui famiglia era uscita e andata ad abitare nella tale o tale contrada. M'era noto che la moglie col suo nome aveva venduti de' stabili sulla di lui vita di sua ragione, e che finalmente, per fuggire egli un vortice d'inquietudini, s'era prese due stanze in affitto lontane dalla sua famiglia, nelle quali, recato il monticello de' libri suoi e sprofondato ne' studi, cercava una pace che tuttavia nonpoteva avere, perocché un padre di famiglia che fugge da' pensieri domestici non fa che tirarsi addosso de' più afflittivi pensieri di quelli che fugge. Con questi

ragguagli legittimi proccurava di assicurare i miei avvocati che il fratello non aveva parte alcuna nell'assalto delle pretensioni della moglie.In questo piato quel Giovanni Antonio Gusèo, aderente della cognata, da me altre volte nominato, deponeva in giudizio colla esibizione d'un falsissimo giuramento, che noi tre fratelli avevamo ordinato e comandato a lui di rivedere e d'esaminare con tutto il rigore i conti dell'amministrazione tenuta dalla cognata, e chel'aveva ritrovata reale créditrice della somma ch'ella ci chiedeva.[Indarno i nostri celebri avvocati Todeschini e Massarini opposero validissime argomentazioni e fatti innegabili. Due avvocatuzzi screditati ci fecero insegnare dai giudici sapientissimi che si deve aprir gli occhi prima di firmare de' fogli. Da quel punto io leggo dieci volte sino le mie lettere prima di firmarle. Risi; né mi lagnai col fratello Francesco, che aveva voluta quella soscrizione. Si accordarono verso a settecento ducati di credito alla cognata, i quali non furono

d'alcun soccorso alla famiglia di Gasparo. Per avvalorare il suo credito, la cognata aveva avuto l'abilità di presentare in giudizio una lunga schiera di finti creditori, che poi vollero essere pagati da lei o da noi. Onde nacquero altre liti a farmi ritardare quella col marchese Terzi].CAPITOLO XXXI.Corso lungo e guarigione d'una malattia. Dispareri de' medici. Una mia sorella vuol essere monaca. Riflessi morali fuori di moda. Principio di scaramuccie letterarie. Altre minuzie.Con tutti i disturbi miei, non mai disgiunti dalle giornaliere mie applicazioniindicibili sulla nostra favella purgata, sulle belle lettere e spezialmente sulla inconsiderabile poesia, ero in una salute perfetta. Improvvisamente, una notte, de' sbocchi violenti di sangue dal petto vennero ad avvisarmi che la sanità ne'mortali è appiccata ad un fragilissimo filo. De' salassi, de' cibi pitagorici e una frugalità nel mio vitto, in cui, oso dire, pochi fuori di me sarebbero capaci d'usare una lunga perseveranza simile alla mia, e il mio poco temere la morte, mifecero credere d'avere riacquistata una médiocre salute.Parvemi d'essere in grado di poter riporre la fratellanza, che restava con me, nella casa paterna. Chiesi questa casa, ch'era stata appigionata da più di cinqu'anni alla dama contessa Ghellini Balbi, con la dovuta civiltà; ed ella gentilmente condiscese al mio buon desiderio, provvedendosi d'altra abitazione nella contrada di Santo Agostino. Ammobigliai ed accomodai con la possibile decenza il nostroantico nido, che fu ben tosto da noi tre fratelli abitato.Avvenne allora che invitai ad uscire dal monastero la sorella minore ed a venire alla mensa de' suoi fratelli, portandomi io in persona a Pordenone, dov'ella era, a far quest'uffizio. Fosse per debolezza, per seduzione umana o per ispirazio

ne divina, quella buona ragazza resistì a tutte le mie preghiere, a tutte le mie collere, a tutte le mie minacele, che la volevano fuori da quel convento; ella chiese con una santa ostinazione d'essere lasciata nella sua carcere e d'essere so

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ccorsa a poter rimanere per tutto il tempo della sua vita nella soavità di quellabeata stia di vergini.Le comandai di venire per lo meno tre o quattro mesi alla casa paterna, promettendole che, s'ella persisteva nella sua volontà, ch'io appellava sacro fanatismo, l'avrei servita d'essere il di lei carnefice. Mi rispose con un serio entusiasmo, il quale mi fece ridere, d'essere stata nel secolo abbastanza per conoscere lacattiveria del mondo; e perch'io insisteva a voler ch'ella uscisse, chiuse le su

e opposizioni con una poco celeste pertinacia, dicendomi che non l'averei tratta dalle sue grate se non la traeva a pezzi. Bench'io non credessi questa risposta dettata dagli angeli, abbassai il capo per non dare uno scandalo. Fu appagata e nella vestizione e nella professione, con quelle spese e que' livelli che occorrono a dar delle spose a Gesù Cristo.Se contemplassi gli affanni che sofferirono e che soffrono le altre quattro miesorelle maritate, de' quali affanni sono informatissimo, dovrei dire che quellaragazza abbia pensato meglio delle altre; ma i sistemi del secolo rovesciano troppa vergogna sulle spalle di chi fa de' riflessi, i quali non contengono che delle verità. Vidi le mie quattro sorelle maritate sempre in angustia e sempre piangenti con tutta l'indole dolce che avevano e la sofferenza estrema della quale erano capaci. Ne ho veduta, con mio dolore, morire una miseramente, ottima e giovin

e, per la sola ragione d'essersi maritata, e scorsi sempre la monacella amata dalle suore, tranquilla ognora, ridere di quelle cose che noi, raffinati ne' diletti e non mai trovatori d'un diletto solido, appelliamo scempierie, e rallegrarsi a que' piccioli regaietti che noi, filosofi ammaestrati nell'avidità, ci avvezziamo a non curare ed a disprezzare. Ella fu innalzata coll'andare degli anni all'onore del sommo grado di abadessa nel suo monastero, ed ho creduta più lei contenta di quel grado, che Luigi decimosesto contento del grado di re della Francia e della Navarra.Tutti i semi delle dissensioni delle nostre famiglie parevano spenti. Le altre mie due sorelle, Laura e Girolama, s'erano maritate con quella vitalizia contribuzione che avevano e con certe ragioni dotali che sarebbero in loro pervenute dopo la morte d'un decrepito zio conte Carlo Badini, ch'era rimasto usufruttuario d'una dote di diecimila ducati d'una sorella di mio padre, sua moglie defunta, e

che doveva restituire a noi fratelli e sorelle, seguìta la di lui morte. Giunse anche questo caso a farmi dicervellare. Ricuperai con qualche controversia forense quanto era ricuperabile, e divisi il ricuperato com'era debito di giustizia.Mio fratello Gasparo aveva ottenuto in quel tempo un uffizio dagli Eccellentissimi Riformatori dello Studio di Padova, uffizio fruttante oltre a seicento ducati l'anno, ed aveva di quando in quando delle gratificazioni pecuniarie da quellagrave magistratura, per le sue estraordinarie occupazioni. Ciò prova che la letteratura, la quale cerca mercede, non è del tutto abbandonata in Venezia. Oltre a ciò,egli s'era aperta una via lecita, che sembra impossibile, per vedersi dinanzi de' zecchini, in riparo de' disordini del teatro condotto ed abbandonato per la strage sofferta. Non v'era sposalizio o monacazione de' Grandi della nostra repubblica, o elevazione a doge, a proccuratore o a gran cancelliere, che non fosserocommesse a questo mio fratello le orazioni e le raccolte di poesie, più necessarie al costume che alla lettura; e cotesti Grandi s'erano fatta una legge, che dava splendore alle loro famiglie, di presentargli in dono cento zecchini ogni volta ch'egli aveva avuto questo pensiere, i quali zecchini però niente o poco giovavano al pover'uomo, perché nelle sue mani mettevano l'ali.Questi ragguagli non hanno che fare colle memorie della mia vita, ma danno lustro alla mia patria, e non sono in tutto fuori dal mio proposito. Le mie composizioni poetiche, che si stampavano colle raccolte, le quali avevano un aspetto di novità e d'urbana satira sul costume, erano lette volentieri, e m'era acquistato per disgrazia nome di buon poeta e buon scrittore. Molti gran signori cercarono d'appoggiare a me le premure loro e di farmi divenire raccoglitore. Essi non sapevano che aveva sposato il verso del Berni: Voleva far da sé, non comandato.

Ogni volta che mi si fece l'onore di parlarmi perch'io accettassi quest'uffizio, mi sono schermito con civiltà, inviando a mio fratello i messaggeri, senza però negare delle mie composizioni, che ingrandissero o umiliassero le raccolte.

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Sempre pensando a ripigliare il mio litigio col signor marchese Terzi di Bergamo, per proccurare del bene alla famiglia, de' recidivi sbocchi di sangue dal petto ammansavano il mio desiderio. Molti dottori in medicina mi guardavano come untisico vicino allo spirare, ed i pitocchi contemplandomi per la via mi promettevano di pregare per la mia sopravvivenza se dessi loro un danaio. I più esperti medici dell'Università di Padova m'ordinavano di bere il latte d'un'asinella, medicina che non faceva altro che dirmi: - Tisicuzzo, raccomanda l'anima tua.

Il medico mio ordinario, detto il dottore Arcadio Cappello, ora defunto, invecchiato, dotto, pratico del mio temperamento e buon filosofo, mi proibiva come un veleno ogni sorta di latte. - Voi - mi diceva egli - sofferite un male scabroso,ma che non ha alcuna di quelle origini e che non ha fatto alcuno di que' progressi che giudicano que' dottori spettabili. Se molinerete col pensiero e vi farete dell'apprensione d'animo per la vostra infermità, morrete. Se avrete il coraggioe la forza di spirito di non fermarvi a riflettere sopra a quella e di sprezzarla, guarirete. Ella non ha altro principio che un fondo ipocondriaco che vi siete acquistato con una vita affannosa, applicata e sedentaria. Ogni genere di latte crudo è per voi un veleno. Un regolato modo di vivere, un'anima spregiatrice delmale che avete, il viaggiare a cavallo due o tre ore per giorno, sono le vostresalutari medicine.

Il signor marchese Terzi di Bergamo non ha nessun obbligo a quella mia infermità.Vuoto quasi di sangue, e per quello che m'era uscito volonteroso d'uscire e perquello che le saettuzze de' chirurghi m'avevano tratto per i medici precetti, aveva una mente sgombratissima e in sommo grado penetrativa. Disteso esangue nel letto, facendomi recare, contro a' divieti de' fisici dottori, le scritture, i sommari ed i testamenti avanzati e ricuperati dal pizzicagnolo, ho costruita una contestazione, con un innesto di ragioni tanto chiare ed evidenti contro quel mio avversario, che gli hanno dato in progresso di tempo de' sconsigliati e molesti pensieri.La seccatura delle recidive di quella mia infermità, che durarono due anni e mezzo assalendomi quando meno m'aspettava, averebbe sbigottito e fatto disperare della vita ogni persona meno stupida di me. Contro al consiglio di parecchi medici,i quali mi protestavano con gli occhi spalancati e dinotanti un notabile orrore

che la violenza del cavalcare una bestia mi averebbe riscaldato, riaperte dellevene e le più grosse del petto ed affogato nel sangue, m'appigliai al suggerimento del dottore Arcadio Cappello, per incontrare le sciagure funeste o le fortune pronosticate da' signori fisici. Il Cappello ebbe ragione. Un vitto regolato, undisprezzo del male, un esercizio a cavallo per un anno tre o quattr'ore ogni giorno, mi guarirono perfettamente. Sono scorsi venti e più anni ch'io non vedo indizio di quella malattia, che non ho alcun indizio d'averla avuta, e che ho tutti gli indizi di dover dar ragione al dottore Arcadio Cappello.Non le dissensioni famigliari, non i molesti pensieri, non il grave peso de' debiti assunti a pagare, non le battaglie forensi, esterne e domestiche, non le mortali infermità fastidiose e lunghe, poterono raffrenare in me lo sfogo d'un quotidiano poetico capriccio e della mia passione ridicola per le belle lettere. E perché in quel tempo s'erano accese delle controversie letterarie in Venezia sulla colta filologia e sulle opere di spirito dell'Italia (delle quali controversie daròun cenno in compendio ne' seguenti capitoli), sputando a sgorghi il sangue delle mie vene, averò scritti ben cento sonetti scherzevoli e urbanamente satirici e un buon numero di opuscoli, in difesa de' maestri antichi scrittori e della coltura di scrivere, e contro alle opere teatrali e poetiche de' signori Chiari, Goldoni e d'altri, facendo ridere colla lettura de' miei ragionevoli faceti capriccigli amici che mi visitavano e il medico ed il chirurgo.CAPITOLO XXXII.Cagioni che resero vana la mia brama di riunire sotto un sol tetto di nuovo tutte le nostre famiglie.Furono i letterari contrasti, de' quali i miei lettori sofferenti avranno le cause e gli effetti, che mi condussero grado grado ad empiere non so quante risme d

i carta di rappresentazioni teatrali, e fu la mia insaziabile filosofica brama di conoscere tutti i gradi dell'umanità, che m'indusse alle notomiche osservazionisull'indole della scenica popolazione, che mi restava da conoscere, nel mezzo al

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la quale, nel corso di venticinque e più anni del mio scenico passatempo, se non avessi raccolta della materia da scrivere e da divertire, mi crederei più insensato d'un architrave.Aveva dato del movimento al litigio contro al signor marchese Terzi di Bergamo,e aveva supplicato il Serenissimo Collegio per ottenere una delegazione della causa ad un veneto tribunale, minacciando il detto signor marchese, che voleva per legge esser convenuto nel foro di Bergamo, dov'egli aveva il suo domicilio. La

spesa era per me intollerabile, e con delle buone ragioni ottenni dalla pubblica clemenza la grazia di quella delegazione ad una magistratura in Venezia, dettail Sopragastaldo. La lite rimase giacente per molti anni, e le ragioni della mia pausa sono le seguenti.Il desiderio ch'io nodriva nel seno, era (se non fossi morto prima) di attendere dagli effetti naturali del tempo e dalle mie assiduita in pro di tutti, di poter cogliere un punto opportuno a riunire nuovamente tutta la nostra famiglia; made' moltiplicati eventi accrebbero tanti ostacoli d'anno in anno a quella mia brama, ch'ella dovè infine contentarsi di rimanere nel numero delle brame impossibili da appagarsi. La famiglia del fratello Gasparo, quantunque fosse alleggerita dalle tre nostre sorelle, rimaneva ancora numerosa. Mia madre, la moglie, due figli maschi, tre figlie femmine del frate] lo, formava il numero. Da quella parte

si coltivava la vecchia nostra madre, sostituita erede dal defunto suo fratelloAlmorò Cesare Tiepolo nella di lui facoltà, alla mancanza della di lui sorella Girolama molto più vecchia di mia madre. Lo stato a cui sì doveva pensare per tre figliuole del fratello Gasparo, ottime ragazze e che meritavano un tal pensiero, faceva ragionevole la coltivazione assidua usata dalla famiglia di mio fratello sull'animo della nostra madre, non meno che sull'animo della di lei più vecchia sorella.Vorrei che quella coltivazione fosse stata colla sola sopraddetta innocente mira, e non fosse stata contaminata da alcuni vermicelli di vendetta, dalla vana supposizione di possedere delle ricchezze e dalla ridicola ambizione di dilatare un dominio nell'aria. Simili coltivazioni non vanno mai disgiunte da qualche cattivo uffizio contro a quelli che potrebbero e dovrebbero per jus di natura partecipare d'un benefizio testamentario, massime se non l'hanno demeritato.Non so che i miei due fratelli Francesco ed Almorò, ambi maritati ed ambi padri di

 figli legittimi a' tempi della morte della zia e della madre, abbiano demeritato colla madre e colla zia loro, e anzi m'è noto che il secondo di questi ha sudato per molti anni a servire di fattore di villa alla zia, che s'era saviamente ritirata alla campagna per vivere in una misurata economia e per espurgare la eredità da' molti debiti lasciati dal di lei fratello. Mi risovviene dal canto mio d'aver fatto verso mia madre ognora il dovere di figlio, e verso la zia il dovere di nipote. Fui per questa opponitore alle stragi che le minacciavano i creditori del defunto mio zio, di lei fratello, riducendoli a ricevere i loro crediti senza alcun frutto e divisi in annate per tutti quegli anni che a lei accomodarono. Fui per questa proccuratore, pagatore, mediatore per tutto il tempo ch'ella visse, rendendole esatto e pontuale conto ogn'anno di ciò che aveva avuto e di ciò che aveva pagato. Sostenni sempre, senza studio e naturalmente, l'ingenuo aspetto d'un dovere di parentela, e non quello di coltivatore artifizioso, di adulatore e di seminatore di sospetti, o di malizioso commiseratore di me medesimo.Quella eredità lasciata alla madre ed indi, comunemente e indistintamente, a' quattro di lei figli, anche con una marca di fideicommisso unita al patrimonio universale della nostra famiglia (confesso il vero), era uno de' molti punti da me attesi per cercare la riunione di tutte le nostre famiglie divise, in una; ma la detta eredità ebbe quel destino che si vedrà, che sempre predissi a' miei due fratelli Francesco ed Almorò, corbellando le loro non strane lusinghe.Se non avessi incontrati tutti i disturbi, tutte le fatiche, tutte le pene, le angustie, le infermità che ho narrate, per l'ingrandimento e per la preservazione del patrimonio a comune vantaggio; se, in confronto a' pensieri da me avuti sempre per i parenti miei e per il possibile decoro della famiglia, non fossero stati minutissimi i pensieri ch'ebbi per me medesimo; se avessi presa moglie e avessi

 de' figliuoli; potrei dubitare che si potesse credere in me qualche sentimentod'invidia e di rammarico per l'eredità Tiepolo, caduta per un ruscello le di cui acque non servirono che a sciacquare la bocca a molti, lasciando in quelle bocche

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 medesime la stessa sete di prima, e ne' cuori di chi raccolse quelle acque delle indicibili amarezze.Le nostre divisioni, che avevano spezzato in quattro parti il patrimonio nostro, davano il possesso a tutti quattro noi fratelli del proprio partimento. Non v'è divisione di patrimonio senza divisione di idee.Seicento ducati e più all'anno d'aggravi, quasi tutti perpetui e insolidati (piaghe de' patrimoni da un lungo tempo male amministrati e ch'ebbero il peso di molte

 femmine), che restavano da pagarsi, furono a me appoggiati, avendo io il grand'onore da' creditori di voler essi riconoscere me soltanto per le loro riscossioni. Quelle due sorelle Laura e Girolama, che m'erano state tanto avverse ne' princìpi delle dissensioni famigliari, uscite dalle sorgenti di quelle e maritate, spiegarono l'amore che avevano sempre avuto per me, e vollero il loro fratello Carlo risponsabile del loro vitalizio.La somma per supplire agli annuali aggravi mi fu assegnata con delle rendite dicerti affittuali di Bergamo, di Vicenza e di Venezia, i quali ogn'anno mi stancheggiano ne' pagamenti, cadono ogn'anno in debito di residui, con tutte le mie attenzioni e le mie dugento lettere di sollecitazioni, di preghiere, di minaccie in questo proposito; e tuttavia sono più di trent'anni ch'io adempisco non solo a tutti questi pesi di contribuzione per salvare i beni comuni dalle invasioni, ma

a molti ripari ancora che chiedono ogn'anno le fabbriche, spezialmente di Venezia, ne' loro continui cancherini.I due fratelli Francesco ed Almorò, senza pregiudizio d'una reciproca fraterna benevolenza, la quale non fu tra noi giammai raffreddata, legati col pensiero al loro interesse ed a' loro beni, s'alienarono a poco a poco dalle mie intenzioni di riunire le nostre famiglie tutte. Abitavano poco in Venezia e molto nel Friuli, dove avevano i piccioli poderi del loro retaggio. Prevedeva de' nuovi matrimoni, che avrebbero resa assolutamente vana la mia brama dell'universale riunione di famiglia; e le mie previsioni coll'andare del tempo si verificarono, tanto nell'uno quanto nell'altro de' miei due fratelli.Tutte queste circostanze, tutti questi avvenimenti, uniti al dispendio considerabile avuto al solo mio peso nell'infermità mia di due anni e mezzo, intiepidironoi desideri veduti da me ineseguibili, e intiepidirono in me quell'utile ardore c

he mi aveva fatta contestare la lite col possente avversario signor marchese Terzi di Bergamo. M'astrinsi alle metodiche annuali faccende stabilite ed a me addossate per tener lontani i comuni maggiori disordini, faccende che non furono dame giammai trascurate, e m'abbandonai in quel tempo alla mia frivola letteratura, come un uomo dell'ozio nimicissimo.CAPITOLO XXXIII.Necessaria informazione e necessario preambolo sull'origini e sul progresso delle scaramuccie letterarie.Accademia granellesca.Benché nella storia sincera dell'origine delle mie dieci fiabe sceniche, posta nel principio del primo volume de' miei capricci teatrali usciti dalle stampe l'anno 1772, ci sia quanto basta per far sapere l'epoche e le cagioni delle nostre inutili controversie letterarie e quelle delle mie bizzarre rappresentazioni, credo di dover rammemorare alcune cose sopra a quelle, avendo esse molta relazione sopra alle mie vicende di venticinque e più anni e colle memorie della mia vita.I gradini che mi condussero ad esporre delle poetiche bizzarrie in sul teatro: bizzarrie ch'io non ebbi giammai la folle ambizione d'apprezzare o di pretendereche fossero apprezzate più di ciò che vagliono; che non ebbero, non hanno e non avranno giammai nimici i veri letterati; ch'ebbero, ch'hanno ed avranno sempre amiche le popolazioni intere; che fecero, fanno e faranno ognora arrabbiare alcuni credentisi letterati, sono i seguenti.Ebbi la debolezza di guardare con qualche risentimento il precipizio in cui cadeva la nostra colta poesia italiana, fondata co' suoi primi semi nel secolo milledugento; rinforzata nel milletrecento; indebolita alquanto nel millequattrocento; rinverdita e consolidata nel millecinquecento da tanti illustri scrittori; gua

sta nel milleseicento; riscossa nel finire di quel secolo e nel principio del nostro millesettecento sino verso la metà, e brutalmente poscia capivolta e corrotta da alcuni arditi fanatici dell'età nostra,

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I quali, coll'ambizioso desiderio d'essere considerati originali scrittori, predicando per freddi e puerili tutti i benemeriti nostri padri fondatori e sostenitori, scossero la gioventù da' colti veri metodi e dalla pregevole semplicità, animandola a calpestare tutto ciò che ne' scorsi secoli fu venerato come l'angelo guidadi Tobia, e a scagliarsi colla mente famelica e divoratrice nell'abisso degli enti che non esistono, fecero vaneggiare e divenire energumeni un'infinità d'intelletti attissimi per se medesimi a riuscire valenti con più sani princìpi.

Ebbi l'altra debolezza di guardare con qualche risentimento la decadenza e il possesso che prendeva l'ignoranza sulla purità della nostra favella italiana, ch'iogiudicava facoltà principale, anzi pure indispensabile allo scrivere con armonicadecenza litterale, a sviluppare con felicità e a dare i veri lumi e le vere tintea' sentimenti nell'opere specialmente di spirito del nostro idioma.Ebbi la terza debolezza di vedere, con qualche risentimento, estinguersi la varietà dello stile con cui si trattavano per letterario dovere le varie materie sublimi, famigliari e facete, tanto nella prosa quanto ne' versi, e ridursi ad un solo mostruoso, quando rigonfio, quando goffo stile, tutto ciò che si andava scrivendo e stampando, dal tema più considerabile sino al tema del viglietto giornaliere all'innamorata.Non si creda però giammai che il mio risentimento sopra a quelle ch'io giudicava s

ciagure letterarie del nostro secolo, mi facesse uscire dal mio istinto risibile. Quanto scrissi scherzevolmente e quanto feci uscire dalle stampe in difesa de' nostri maestri, del colto scrivere e della purità della nostra favella contro agli audaci corruttori degl'ingegni dell'Italia fa chiara e legittima fede d'un zelo gioviale e niente riscaldato.Scevro finalmente affatto del sopraddetto risentimento, devo confessare che tutti i miei panegirici al vero, uniti a quelli di parecchi altri zelanti, le mie sferzate al falso e quelle di parecchi altri, non poterono por argine alle stravaganze, alle infiammazioni de' cerebri, alle bestialità fumanti credute filosoficheriforme, e che quanto al fatto della purità litterale della nostra italiana favella, essendo sparsa sull'immensità de' cervelli la semina degli impostori, la qualefece credere agevolmente e quasi universalmente che il cercar di conoscerla siaun perditempo e una stitica imbecillità, e che il non sudare ad apprenderla sia un

a libera virtù, devo confessare, mal mio grado, che la infermità non ha più rimedio, e che convien commettere la guarigione agli effetti del girare de' tempi, i quali conducono nell'opinione degli uomini con de' mezzi sconosciuti gli andazzi, e fanno accarezzare ora il falso ora il vero ad onta di qualche umano contrasto.Correva circa l'anno 1740, quando fu istituita dal capriccio e dal caso un'accademia di Venezia di gente allegra, versata nello studio delle belle lettere, amantissima della coltura, della semplicità e del vero; la quale, seguendo l'orme de'Chiabrera, de' Redi, de' Zeni, de' Manfredi, de' Lazarini, e di tanti altri benemeriti ristauratori e guaritori della enfatica, metaforica, figurata pestilenzaintrodotta nelle fantasie da' secentisti, sosteneva e faceva germogliare nelle menti della gioventù l'idea dell'ottimo e l'emulazione.La scoperta fatta da questa allegra e dotta brigatella d'un scimunito appellatoGiuseppe Secchellari, il quale, ingannato dall'amor proprio e da' circuitori burloni in traccia di divertirsi, si considerava profondo scientifico, e che empieva de' fogli di marroni e di scempiaggini da non potere udire senza ridere sgangheratamente alla lettura, la fece determinare a eleggere principe della accademia istituita quel nuovo pesce, forse per dinotare mansuetudine letteraria.Fu eletto tra le risa con tutti i voti, gli fu posto il nome d'arcigranellone egli fu dato il titolo di principe dell'Accademia Granellesca, co quali titoli furono sempre chiamati il principe e l'accademia. Seguì la solenne incoronazione diquel raro imbecille con una ghirlanda di susine, nel mezzo all'accademia radunata; e il più bello della comica scena fu il vederlo andar superbo dell'onore di cui la brigata lo fregiava e il suo ringraziare gli accademici di forse trenta tracomposizioni poetiche e cicalate a lui dirette, le quali non erano che sali ironici burleschi, schernitori un tanto principe, e ch'egli ingoiava per elogi ed es

altazioni.Un antico seggiolone altissimo, prima di sedere sul quale quel principe, di statura nano, doveva tirare due o tre salti, era la catedra del sovrano dell'accadem

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ia, ed egli siedeva sopra quella pavoneggiandosi, perocché aveva bevuto ch'era ilsedile di Pietro Bembo cardinale, celeberrimo scrittore. Un gufo con due genitali nel destro artiglio gli stava sopra ed era da lui venerato per lo stemma dell'accademia; da quell'altezza si traeva dal seno un fascio di fogli e recitava alcongresso con una vociuzza falsa alcune sue spropositate fanfaluche, ch'egli chiamava dissertazioni, alle dieci righe delle quali era interrotto dal picchiare delle mani e dagli applausi degli accademici, che non ne volevano più, ed egli supe

rbo e persuaso di que' plausi porgeva con maestà i suoi scartafacci al secretano della brigata, da conservare negli atti dell'accademia.Quando la detta accademia si radunava nel bollore della state, si portavano all'assemblea de' vassoi con sorbetti agghiacciati, ma al principe, per segnale di distinzione, si recava un gran peccherone di tè bollente sur una coppa d'argento. Se si radunava nel crudo verno, era ad ognuno del circolo dispensato caffè, ma al principe, per segnale di distinzione, si porgeva acqua gelata freddissima. Quel venerabile arcigranellone, borioso d'essere onorato e distinto dagli altri, tracannava l'uno e l'altro calice, liquefacendosi in un sudore o tremando e abbrividendo di freddo.Non sono annoverabili tutte le burle, e sempre nuove, dirette a un così fatto principe, dalla di lui stolta ambizione ricevute per onori, le quali formavano, ogni

 volta che l'accademia si univa, una farsa comica antidoto alla malenconia. E perché non confessava giammai di non sapere tutto ciò che alcuno degli accademici glichiedeva se sapesse, egli era obbligato talora a rimare alla sprovveduta, talora a cantare un'arietta in musica e persino a battersi talora nel mezzo all'accademia, spogliato in camicia, con un mastro di spada che lo fulminava di frugoni col fioretto e lo faceva girare per lo spazzo come una trottola. Tutto imprendevacon la franchezza di quell'arcigranellone ch'era, trionfante ognora tra le risae i plausi che l'assordavano.Un tal novello Calandrino, di cui io do soltanto una idea in abbozzo, non era però che un zimbello di richiamo alla gioventù, sempre inclinata alla giovialità più che alla grave e rigida pedanteria, ond'ella venisse ad arrolarsi volontieri sotto il vessillo del gufo de' due testicoli nel destro artiglio. Ogni volta che l'accademia si radunava, il principe col suo contegno sostenuto, colle sue strane disse

rtazioni, co' suoi scorci arlecchineschi, colle sue non mai prevedute risposte alle interrogazioni che se gli facevano e con mille stoltezze ridicole, serviva d'introduzione e d'una breve ricreazione a' sozi, i quali poscia, lasciando durol'arcigranellone nella sua catedra di Pietro Bembo come ascoltatore e giudice delle cose, traevano da' portafogli le loro composizioni in verso ed in prosa, serie e facete, sopra a' vari temi dispensati o scelti dalle volontà, giudiziose, ragionate, leggiadre nelle frasi, armoniche nella eleganza, differenti nello stilee purgatissime sul fatto della lingua. Seguiva un'amena lettura che ricreava gli astanti per ben due ore. Ogni lettore, terminata di leggere l'opera sua, si volgeva all'arcigranellone, i di cui pareri bistorti e le di cui ragioni d'approvazione rinnovellavano l'allegro schiamazzo e le risa.Quella serio-faceta accademia, l'istituto e la massima della quale era il tenerfermo lo studio in sugli antichi maestri, ferma la semplicità e l'armonia seduttrice dell'eloquenza sensata, e ferma scrupolosamente la purità delnostro litterale linguaggio, aveva un grandissimo concorso di gioventù in emulazione, e non giugnevano a Venezia dotti forestieri che non cercassero d'essere in essa introdotti e non approvassero e applaudissero la facezia che serviva d'allettamento e d'attrazione, il sapore, la eleganza, la cribrata nitidezza, le frasie i termini scelti e propri alle composizioni che in essa udivano.È superfluo ch'io registri il catalogo intero de' nomi degl'infiniti sozi granelleschi; tuttavia noterò que' pochi rimastimi nella memoria, e sono: i due fratelli Giuseppe e Daniele Farsetti, Sebastiano Grotta, Paolo Balbi, Nicolò Tron, tutti patrizi veneti eruditi ed amanti del purgato scrivere; l'abate Natale dalle Laste;il canonico... Rossi; l'abate Leonardo Marcellotto; l'abate Bartolommeo Piantoni; l'abate Carlo Testa; l'abate Giuseppe Cherubini; l'abate Giovan Antonio Deluca

; l'abate... Belli; l'abate Francesco Pasinetti; l'abate Adamante Martinelli; l'abate Matteo Ficco; l'abate Giuseppe Manzoni; il signor Pietro Fabris; il signor Giorgio Brucner; i signori Giovanni, Giorgio e Sebastiano fratelli Marsìli; il si

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gnor conte Guglielmo Camposampiero; il signor Marco Forcellini; il signor Sebastiano Muletti; Gasparo e Carlo fratelli Gozzi.Potrei notare forse altri trenta e più nomi, se mi risovvenissero. E perché i più allegri di quel drappello amavano di far galeggiare di boria, per spassare tutti gli altri, l'arcigranellone, fingevano talora delle lettere dirette a quello, nelle quali de' gran personaggi, mossi dalla rinomanza della di lui scienza, della di lui saggia reggenza, del di lui sublime principato, lo supplicavano a degnarsi

di registrarli nel catalogo de' suoi fortunati sudditi accademici; si troverebbero in quello registrati Federico secondo re di Prussia, il Gran Sultano, il Sofì di Persia, il Preteianni ed altri gran nomi consimili. Tutti i sozi avevano il loro nome accademico pronunziato dalla magnificaggine del principe, e mi ricordo soltanto ch'io fui nominato il Solitario.Da quella alleanza di spiriti assoggettati volontariamente co' scritti loro all' esame d' una austera critica ed alla lima de' più esperti e maturi, uscivano giudiziose e leggiadre composizioni poetiche in ogni metro, le più ricercate per le raccolte in costume e le più accette e considerate dal pubblico; uscivano poemetti e poemi seri e giocosi ricercatissimi; uscivano le urbane satire morali piene diverità, di precisione, di vivi ritratti, di sali, di stile famigliare bernesco, di stile oraziano robusto e vibrato; uscivano le orazioni più eleganti, più sublimi, p

iù geometriche, più rettoriche, niente ampollose, per i solenni innalzamenti a doge, a proccuratore di San Marco, a gran cancelliere; uscivano le convincenti difese de' nostri maestri scrittori antichi, e particolarmente del nostro Dante immortale; uscivano le lezioni fatte sopra a' canti di quel vasto intelletto, che meritamente per cinque secoli s'è conservato e si conserverà per tutti i secoli venturiil soprannome di divino, a dispetto degli impostori i quali cercarono d'annichilarlo; uscivano novelle facete comiche e nello stile e nella lingua purgatissime; uscivano modelli di lettere famigliari naturali ed amene; uscivano i molti volumi delle Congreghe de' Pellegrini, de' Mondi morali, degli Osservatori; uscivano elette poesie e prose latine; uscivano traduzioni de' libri dell'estere brave nazioni, che (serbato il fondo loro) apparivano trasformatissime nel linguaggio,nelle frasi e nello stile, e con tutti i colori e la coltura del nostro idioma.Dovrò cercare testimonianze delle cose pubbliche?

Potrò agevolmente essere accusato dagl'innovatori ch'io cerchi di dar corpo a delle frivolezze. Ciò sarà picciola sciagura per me; ed è ben sciagura maggiore per tuttigli altri quella del lasciarsi sedurre a credere che l'opere degl'innovatori contengano altro che frivolezze, e frivolezze strane, mal pensate, snaturate e scritte mostruosamente.Chi averebbe immaginato che un vocabolo ridotto a un'essenza contraria al di lui vero significato, vocabolo omai reso comune persino in sulla lingua delle femmine e de' ragazzi ad ogni proposito che loro non accomoda, dovesse rovesciare a'tempi nostri tutte le regole fissate dalle lunghe osservazioni de' saggi e dall'esperienza? Questo vocabolo è la ignuda parola pregiudizio. Ho detto che questo vocabolo fu ridotto ad un'essenza opposta al di lui vero significato, perocché, secondo i princìpi miei, i quali non andranno esenti dalla vergogna d'esser chiamati pregiudizio dagl'innovatori, ho dovuto sempre credere con fermezza, che a ciò che non nuoce, anzi giova ed è necessario all'intera umanità, non si possa dare il titolo di pregiudizio; ed è facile il dar la prova alla mia proposizione.Dovei credere e credo ancora necessari e giovevoli alla società ed a' popoli i fondamenti dell'augusta religione e gli assessori che la facevano venerare e risplendere; ma gl'innovatori filosofi chiamarono tutto ciò col vocabolo di pregiudiziodelle menti ingannate, intimorite, lusingate, abbagliate e sedotte; e l'augustareligione, argine salutare allo sfogo di tutte quelle passioni alle quali l'umanità è inclinata, languì facilmente intiepidita, derisa ed inoperosa.Dovei sempre credere, e credo ancora giovevoli alla società ed a' popoli i patiboli che puniscano i scellerati per dare un esempio di terrore e di renitenza a' delitti, onde rimanesse al possibile illesa la comune salvezza; ma gl'innovatori filosofi gli chiamarono col vocabolo di pregiudizio tirannico, animarono la iniqu

ità e si moltiplicarono in venti doppi gli assassini alle strade, i ladri domestici, i sacrileghi e i notturni trucidatori.Dovrei sempre credere, e credo ancora giovevoli alla società ed a' popoli l'eroism

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o, la probità, la buona fede e l'equità; ma i filosofi spregiudicati, i quali attribuiscono la felicità nel godere e nel possedere comunque sia, chiamarono gli accennati attributi pregiudizi romanzeschi; fucorrotta e venduta la giustizia con una franca impudenza, trionfò il raggiro, l'inganno, il tradimento, e pianse a lagrime di sangue oppressa e sopraffatta a torto una infinità d'innocenti ingenui, poveri di spirito e poverelli di borsa.Fu dipinto da pregiudizio muffato e barbaro il tenere astrette le femmine nelle

case loro alla vigilanza sopra a' figli, alle figlie, a' servi, a' lavori domestici, all'economia famigliare; e le femmine sbucarono tosto da' loro alberghi, sfrenate come le antiche baccanti, e gridando: - Libertà, libertà! - imbrogliarono tutte le strade, scordarono figli, figlie, servi, lavori ed economia, e colla testa fumante, unicamente occupata nelle mode, nelle emulatrici frivole invenzioni, nel profondere per l'appariscenza, ne' spassi, ne' giuochi, negli amori, nel civettare, abbandonate a' loro capricci, fomentati da' lor consiglieri filosofi. I mariti non ebbero più coraggio d'opporsi alla desolazione del loro onore, delle loro sostanze, delle loro famiglie, del mal esempio alla figliolanza, per timore d'esser macchiati dal vocabolo pregiudizio.Fu dato il nome di pregiudizio alla legge che minaccia la pena di morte alle infanticida, e la morigeratezza, il pudore e la castità furono chiamati pregiudizi ca

gionati da' spaventacchi de' Leviti e da un'imbecille educazione delle femminette superstiziose, e... Mi vergogno a dire quali sieno gli infiniti vantaggi che hanno portati nelle famiglie e sulle popolazioni queste filosofiche belle scoperte e questi pregiudizi calpestati e fugati.Furono beffeggiati come ignoranti, come goffi e come infermi di pregiudizio que' pochi che esclamarono e risero sulle fantasticherie innumerabili delle mode caduche quasi ogni giorno, e furono giudicati stupidi, grossolani, spogli di buon gusto, di raffinatezza, di conoscimento, di penetrazione e di delicatezza nella mente e ne' sensi. Tutte le donne e tutti gli uomini divennero tosto visionari sensatissimi. Si piccarono nel discernere e nell'inventare, e videro e trovarono infinite armonie e infinite discordanze immaginarie; infiniti agi, infiniti disagi, infiniti sapori immaginari e infinite insipidezze e depravazioni immaginarienelle suppellettili, ne' vestiti, ne' colori, negli addobbi, nelle cucine, ne' c

ibi, ne' vini, nelle mense; si videro in tutti gli oggetti muti e insensati l'eleganza e l'ineleganza, e sino gli orinali ed i canterelli furono degni di essere qualificati coll'epiteto d'eleganti. Ciò sia detto per la verità e con quella sopportazione ch'oggi richiede il dire la verità agl'infetti dal pregiudizio verace.A tutti i sopraddetti pregiudizi scoperti, dileguati e atterrati da' lumi penetrantissimi degl'innovatori, furono sostituiti i vantaggi che possono dare la irreligione, i riguardi perduti, la giustizia sovvertita, i tribunali posti in soggezione da un torrente di vizi facinorosi, i scellerati compianti ed incoraggiti,le immaginazioni riscaldate, i sensi aguzzati, il lussureggiare, lo sfogo di tutte le passioni, il lusso dominatore per una falsa necessità infantata dalle fantasie sovvertite, le di cui conseguenze sono i violenti interminabili desideri nonbilanziati colla possibilità, gl'inganni, i raggiri, le oppressioni, le mancanze della parola e della buona fede, le truffe, le ladrerie, i fallimenti, le angustie, gli universali turpi mercimoni della libidine, gli adulteri, i nodi maritaliesacerbati e disgiunti.Per tal modo, a forza d' usare il vocabolo pregiudizio verso tutto ciò che s' opponeva alle illecite voluttà, alla violenza, alle sfrenatezze, a' garbugli, a' sbilanci delle famiglie, a' disordini della società, al reale universale legittimo pregiudizio, il genere umano s'è sommerso generalmente e volontariamente in un commiserevole pregiudizio che sembra irrimediabile, colla lusinga di guarire da' pregiudizi. È bella cosa l'udire tutti strillare e lagnarsi degli effetti del vero pregiudizio in cui si sono inabissati e in cui gemono, ed è bello l'udire que' medesimi che strillano e si lagnano della miseria che gli circonda, affettare gli atei,sostenere ostinatamente con de' leggiadri sofismi ogni momento il vocabolo pregiudizio e sostenere per bene tutto ciò che cagiona quel pregiudizio legittimo, degl

i effetti del quale si lagnano, strillano e piangono.A fronte de' pregiudizi comuni, tanto essenziali figliuoli dell'abusata parola pregiudizio, è cosa certamente picciola, e che non merita gran riflesso, quella cag

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ionata nel nostro secolo dal fu padre gesuita, ora abate Saverio Bettinelli, e da alcuni altri spiriti inquieti, addottrinati abbastanza per poter danneggiare e sovvertire coll'accennato vocabolo pregiudizio i pacifici studi, i metodi, le scuole, il pensare, i vocabolari, il rispetto che si aveva alla purità e al fraseggiare armonioso, alla semplicità della nostra litterale favella e alla fissata coltura nelle belle lettere, specialmente nell'opere di spirito, e ambiziosi e arrischiati abbastanza per tentare l'incendio del tempio di Diana, per farsi ammirare

 come nuove stelle e originali pensatori e scrittori. Cotesto padre, ora abate Bettinelli, non senza ingegno, non senza facondia e non senza fecondità, ha incominciato a predicare sul pergamo del Parnaso alla gioventù, ch'era pregiudizio il fermarsi e l'addormentarsi a contemplare e ad imitare gli antichi nostri maestri; e deridendo Dante, Petrarca, Boccaccio e tutta la immensa schiera di quelli che ci hanno aperta, indi consolidata la via del bene immaginare, del ben pensare, del ben sviluppare le nostre idee co' veri termini, con le vere frasi, le vere tinte, la vera semplicità, e con una dicitura armoniosa e felice, sparse i semi del vero pregiudizio della poltroneria sopra a questo punto, col solo zelo di rendersi particolare e osservabile, di farsi credere originale e nuova cometa nel nostro secolo.Quasi che i nostri maestri non sieno stati filosofi, con tutta la doviziosa filo

sofia che trapela dall'opere loro, il Bettinelli tuonando decantò il nostro secolo solo illuminato del vero e filosofico, e usando quel medesimo vocabolo di pregiudizio, che ha introdotta la corruttela, pregiudicato e guasto il costume morale ed economico delle famiglie e de' popoli, beffeggiò come pregiudicati tutti quelli che studiavano sul vero, chiamandoli stitici parolai perduti sopra a' scrittori agghiacciati, languidi e sterili, accordando a Dante immortale, senza intenderlo, soltanto pochi versi e poche immagini felici nel mezzo a un immenso pelago di scurrilità e di durezze stomachevoli.Questo preteso innovatore, che forse aveva ragione a combattere l'uso delle raccolte di poesie che si accostumano alle monacazioni, a' nodi maritali ed alle esaltazioni de' Grandi, per quella noia che recano cogli assedi agli scrittori, quantunque un tal uso non sia dannoso, illustri le famiglie, tenga in un eserciziofilologico e in emulazione la gioventù e faccia spargere dalla mano de' ricchi un

soccorso al vitto de' poveri artisti, fece stampare un suo poemetto intitolato Le raccolte, per estinguere l'uso di quelle e per dare un saggio della sua fantasia originale.Sin da quel tempo, in cui io era molto giovine, la nostra faceta assemblea granellesca vide con sguardo sorridente i fenomeni strani del signor Bettinelli e sidispose ad un passatempo gioviale per rintuzzarli. Il signor Marco Forcellini, uomo erudito, e il signor abate dottore Natale dalle Laste, uomo dottissimo ed accuratissimo, sozi della nostra accademia, presero ad esaminare il poemetto del Bettinelli, e dibucciando i di lui marroni infiniti e svelando agli occhi del pubblico che l'autore di quell'opera, il quale voleva apparire originale poeta gigante, non era che un servile plagiario dell'Ariosto e di Boelò, posero in assetto un opuscolo critico giudizioso intitolato Parere sopra al "Poemetto delle raccolte". Siccome parve all'accademia nostra, il di cui istituto era lo scherzare, che quel Parere tenesse aspetto di troppa serietà, fu ordinato a me di rellegrarlo con un'epistoletta d'aggiunta scherzevole. Fui obbediente agli ordini della presidenza accademica, e scrissi quell'epistola come il mio scarso ingegno me l'ha dettata, e forse troppo audace e pungente. Quel Parere e quell'Epistola d'aggiuntafurono dati alle stampe.Mio fratello Gasparo, che vide ingiustamente vilipeso Dante, quel lume risplendentissimo non offuscabile, illustratore dell'Italia, resistente nella venerazione degl'intelletti per tanti secoli e vilipeso da chi non lo intendeva o fingeva di non intenderlo per primeggiare con una infantata originalità, scrisse un libro intitolato Difesa di Dante, e lo fece uscire dalle stampe al pubblico. Se gli intelligenti non avessero accordato che quel libro è pieno di verità e di bellezze rintuzzanti e vittoriose sulle arroganti puerili derisioni del signor Bettinelli, no

n oserei di lodare un'opera d'un mio fratello. Ella è una bell'opera. Qual prò da queste opposizioni? Tutte le novità, sienoo non sieno novità, basta che ne, abbiano l'aspetto, hanno il vigore di sedurre e

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di susurrare un numero infinito di intelletti non conoscitori del vero, suscettibili d'un romoroso fanatismo; numero che supera in seimila doppi il numero di que' pochi i quali, fedeli alla verità, la seguono anche in quel pozzo in cui la impostura la sommerge. Ebbi sempre l'ardire che hanno i politici nell'innalzare lamente e nel guardare, come da un'altezza, la bassa valle dell'umanità, ma con questa differenza: essi guardano cotesta valle come abitata da un bulicame d'insetti da poter opprimere, costringere e dirigere come ben torna loro, né si degnano poi

 di più abbassarsi alla fratellanza di quest'insetti, sino che la morte non gli affratella. Io guardo la stessa valle come popolata da' miei simili, fo le mie osservazioni, rido de' loro scorci, de' lor movimenti, de' loro divincolamenti, indi m'abbasso al mio prossimo, m'associo nuovamente con lui, e, assicurandolo chesiamo tutti ridicoli, proccuro di farlo ridere non meno di lui che di me nelle prove della mia proposizione.Non ha bisogno di studiare l'astronomia per sapere se vi sieno de' pianeti dominatori dell'umano pensare. De' semi naturali di leggerezza, d'incostanza, di noia, di brama di novità, de' quali abbiamo pregni i nostri cervelli, pullulando cambiano il pensare de' mortali, e cagionano degli andazzi che tutte le gómone di tutti gli arzanali del mondo non frenerebbero nella estensione del loro periodo. Esaurito un andazzo, i semi sopraddetti suscitano degli altri andazzi, e senza studi

are i pianeti (se non corre l'andazzo di studiarli), chi ha con perseveranza studiato l'uomo ne' secoli avrà rilevato agevolmente che una successiva catena di questi andazzi, risvegliati da semi naturali di leggerezza, d'incostanza, di noia e di brama di cose nuove, furono e saranno sempre i dominatori dell'umana balordaggine, sempre cieca e sempre presuntuosa di possedere una vista penetrantissima. I morti avranno veduto, noi vederemo, e i nostri posteri vederanno sempre delle decadenze, degl'innalzamenti, e le opinioni generali de' popoli ne' tempi or tra queste or tra quell'altre zampe di pochi pensatori ambiziosi pubblicatori di cose or utili or disutili, or frivole ed or perniziose.Per le mie osservazioni, i pensatori e propagatori delle scienze, de' sistemi, delle scoperte, che vincono di quando in quando con un'idea che somiglia a una novità, di cagionare per alcun tempo de' generali andazzi periodici, non devono nemmeno lusingarsi che l'esercito de' loro seguaci, fieri in sul garrire e in sul so

stenere durante il periodo di quell'andazzo, guardi con maggior fermezza e sodezza l'andazzo rispettabile da lor cagionato, dell'andazzo che risveglia l'apritura d'una magnifica nuova bottega da caffè, o quella del Biondi scientifico inventore di mode, vera fenice degli andazzi più considerabili e più importanti secondo l'umana fragilità sempre farfalla.Quanto alle belle lettere, all'eloquenza, al puro linguaggio litterale, alla metàdel nostro secolo ed all'oriente del signor Bettinelli il guasto doveva succedere. Il giardino di purità e di semplicità quasi ristabilito doveva essere rovesciato, sfrondato e diserto da un novello mostruoso andazzo. La nostra faceta accademia ebbe un bel strillare ragionatamente per trincierare gli esemplari de' buoni maestri, la coltura, i metodi, le regolarità, la diversità dello stile, la nitidezza,la semplicità, la purità della lingua. Sostenne invano che ogni colta nazione, che ha lasciata una lingua denominata madre lingua, ebbe la sua favella litterale, la sua favella volgare e i suoi dialetti di linguaggi corrotti, e che essendosi l'Italia tutta e le estere nazioni, per apprendere la lingua italiana litterale, riportate alla fonte del vocabolario toscano stabilito dall'Accademia della Crusca di Firenze, il qual vocabolario si sarebbe anche potuto arricchire, col trascorrere de' tempi, d'una maggior dovizia di termini scelti e approvati da' diligenti accademici fondatori, non si dovesse scostarsi dalla favella litterale in quel dizionario compilata e consolidata. L'andazzo nascente di corruttela doveva far considerare stitichezze da dileggiare le sode ben fondate ragioni; e incominciammo a vedere una libertà furibonda autrice di composizioni fanatiche, sforzate, oscure, ampollose; un nembo di stiracchiati sofismi, di periodi rotondi nonnulladicenti, di leggiadri deliri d'infermi, di sentimenti rovesciati e bistorti, che si dissero usciti da' nostri cuori e dalle nostre anime, d'un frasario e d'un l

inguaggio mescuglio di tutti i vernacoli, lardellato di qualche grecismo, ma sopra tutto di termini, di modi e di parole francesi, che rendono inutili oggimai le nostre grammatiche e i nostri vocabolari. Ma che per ciò? Quest'andazzo non è fuor

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i dalla provvidenza. Egli apparecchia dell'utilità per un tempo a de' novelli compilatori, e tutto è bene.Il valente poeta francese Boelò rifletteva a' suoi giorni che il vero merito poteva da' cavilli della romorosa maligna impostura essere per alcun tempo oscurato ed oppresso, ma ch'egli era come un legno da una mano violente tenuto a forza sott'acqua. Un giorno o l'altro (diss'egli) abbandonato da quella mano che crede d'averlo sommerso del tutto, egli risorge a galla, si fa vedere e conoscere. Dal c

anto mio lascio a' posteri la speranza di veder galleggiare nuovamente cotesto legno.CAPITOLO XXXIV.Seguito di letterarie giocose baruffe da me sostenute. Goldoni e Chiari. Mia determinazione di spassare i miei concittadini con delle sceniche bizzarre fantasie sul teatro.L'andazzo introdotto di libera irregolarità e d'entusiasmo faceva de' gran progressi come andazzo comodo. Le menti traviate e confuse avevano perduto il discernimento del mal scrivere dal ben scrivere, e applaudivano per ignoranza e per supposizione il pessimo e l'ottimo indistintamente. Poco a poco si adottarono le goffaggini comuni e intelligibili, le gonfiezze tuonanti e tenebrose, e lo scriver puro, colto, giudizioso e naturale apparve snervatezza e spregevole affettazione.

 Il sciagurato contagio si diffuse per modo che furono considerati, acclamati eapplauditi generalmente per eccellenti, originali, inarrivabili scrittori italiani sino il dottore Carlo Goldoni e l'abate Pietro Chiari, i quali dovevano anch'essi cagionare un andazzo di pochi lustri, per contribuire alla fatale sconfitta dell'accurato e purgato scrivere. Que' due poeti teatrali, emuli e critici l'uno dell'altro, ebbero il vigore di far bollire i cervelli della nostra popolazione per modo che, divisa in due procellosi partiti, faceva poco meno che alle scientifiche pugna per sostenere la sublimità dell'opere loro.Una tempesta di commedie, di tragicommedie, di tragedie, ammassi di imperfezioni, poste in iscena a gara e a furore successivamente da que' due geni dell'incoltura, e un'influenza sterminata di volumi d'opere teatrali, di romanzi, di lettere critiche, di poemi, di cantate, di apologie de' due guastatori co' quali inondavano la città di Venezia, sbalordì, tenne occupata e sviò da ogni regolarità e dal buon

 senso tutta la gioventù.La sola nostra allegra società granellesca si tenne monda dall'andazzo epidemico goldoniano e chiarista. Quantunque ella non fuggisse di frequentare i teatri né fosse ingiusta a segno di non accordare al Goldoni quella porzione di merito che se gli conveniva sulla materia scenica, a differenza del Chiari di lui emulo, a cui concedeva poco o nonnulla, ella non poteva guardare che con occhio di ridentecommiserazione sulle tavolette delle signore, sopra a' scrittoi de' signori, sui banchi de' bottegai e degli artisti, tra le mani de' passeggiatori, nelle pubbliche e private scuole, ne' collegi e persino ne' monasteri le commedie del Goldoni, quelle del Chiari co' suoi romanzi, e mille poetiche trivialità e bestialità dique' due logoratori di penne, come specchi d' ottima riforma e come esemplari per ben pensare e per scrivere colla vera eleganza. Non si scandalezzi nessuno s'io riferisco una verità udita con gli orecchi miei propri. Un certo abate Salerni,veneziano, predicatore evangelico, che tuonava quaresimali da' pergami e che aveva un torrente di ascoltatori, disse un giorno, con una soda albagia, che per scrivere e comporre i suoi fortunati sermoni sacri egli leggeva indefessamente lecommedie del Goldoni.Per dire qualche cosa della spezie che a me facevano que' due diluvi d'inchiostro, Goldoni e Chiari, dal canto mio, colla coscienza purgata e colla verità sulla penna dirò ch'io trovava nel primo molte immagini comiche, della verità, della naturalezza; ma delle meschinità d'intreccio; la natura copiata materialmente, non imitata; le virtù e i vizi spesso mal collocati, sovente il vizio trionfatore; de' lordi plebei equivoci, massime nelle commedie sue nazionali; de' caratteri caricati; delle sconnesse erudizioni rubacchiate e innestate con poco proposito, ma per imporre alla moltitudine degl'ignoranti; e soprattutto uno scrittore italiano (le

vatolo dal dialetto veneto del volgo nel quale era dottissimo) da porre nel catalogo de' più goffi, bassi e scorretti scrittori del nostro idioma.Checché ne dicano gli elogi proccurati, prezzolati, volontari o del fanatismo parz

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iale de' giornalisti, de' gazzettieri, de' prefazionatori, de' romanzieri, degli apologisti o de' Volteri, quel comico autore, salva la sua commediada lui composta a Parigi del Bourru bienfaisant, che servì bene al teatro francese e che tradotta in italiano non servì a nulla ne' nostri teatri, non fece nessunaopera scenica perfetta e non ne fece nessuna senza qualche buon tratto comico.Agli occhi miei apparve sempre un uomo nato coll'istinto da poter fare delle ottime commedie, ma, fosse la poca coltura, il poco discernimento, la necessità in cu

i era d'appagare la nazione per sostenere de' poveri comici italiani da' quali era stipendiato, o la fretta con cui doveva comporre ogni anno una infinità d'opere nuove teatrali per sostenersi, non v'è nessuna delle sue opere italiane che non sia pienissima di difetti.In alcune controversie aeree facete, più di sali poetici dileggiatori che di censure formali, che sono corse sull'andazzo goldoniano e chiarista; controversie che la nostra scherzevole accademia non s'è mai degnata d'indirizzare precisamente con una critica regolare all'inondazione dell'opere de' due scrittori Goldoni e Chiari, ma che furono piuttosto senapismi ragionati in astratto per scuotere la gioventù dal letargo in cui la teneva il lezzo delle irregolarità, delle trivialità e della ignoranza di lingua; so d'aver fatta una disfida perché mi si additasse qualetra le infinite commedie italiane del Goldoni si giudicava perfetta, ristringend

omi ad una sola per non immergermi in un pelago, con impegno di far conoscere sino a' fanciulli il pubblico inganno. Nessuno s'è abbassato a nominarmi cotesta perfetta commedia, ed io non potei vincere altro co' miei giocosi pungoli, che dipignevano veramente la goffagine dello scrivere del Goldoni, che una sua pubblicaconfessione da lui stampata co' seguenti due versi, i quali pontualmente ritengono della goffaggine da me provata:Pur troppo so che buon scrittor non sono e che a' fonti miglior non ho bevuto.Quanto all'abate Chiari, trovava in lui un cervello acceso, disordinato, audacee pedantesco; un'oscurità d'intreccio da astrologo; de' salti da stivali da setteleghe;delle scene isolate e disgiunte dall'azione, suddite d'una loquacità predicantesifilosofica e sentenziosa; qualche buona sorpresa teatrale; qualche descrizione bestialmente felice; una perniziosa morale; uno scrittore il più gonfio e ampolloso

 che adornasse il nostro secolo. Vidi un sonetto stampato e impiccato per le botteghe di Venezia di quel poeta, da lui composto per il giubilo della salute ricuperata da un cavaliere Veneto patrizio, che incominciava da questo verso:Sull'incude fatal del nostro pianto, ecc.Con tali mostruosità metrizzate egli spacciavasi coraggiosamente da novello Pindaro, e trattando il Goldoni da augel palustre seduceva infiniti cervelli che l'ammiravano senza intenderlo. Non è da maravigliarsi. Un Goldoni ed un Chiari con qualche alunno dovevano avere la facoltà di cagionare un andazzo periodico, tanto più sulfureo e universale, quanto egli era risvegliato ne' ricinti de' teatri, abbracciando tutta la popolazione divisa in due partiti e così indiavolata e cieca, che non discerneva nemmeno la infinita superiorità del merito comico che aveva il Goldoni sopra a quello del Chiari suo competitore.Una così strana novità di giudizi e di letteraria corruttela faceva sdegnare alquanto il zelo de' coltivatori del genio di regolarità e di coltura, spezialmente della nostra granellesca accademia. Nessun vantaggio da' giusti sdegni qualora un andazzo è in carriera. L'andazzo goldoniano e chiarista doveva correre per alquanti lustri e doveva succedere e rinforzarsi, al rallentarsi di quello, l'altro andazzo di cui ho fatto menzione nel precedente capitolo, de' smoderati, snaturati, scorretti entusiasti detti sublimi filosofici scrittori, scopritori di nuovi mondi letterari, che veggiamo confettare la gioventù de' nostri giorni, che minaccianonuovi vocabolari e persino nuovi alfabeti, trattando l'antichità da imbecille di cortissima vista, e involgendo l'umanità in un inseparabile caos di letterarie follie.Riguardo all'andazzo goldoniano e chiarista, si potrà credere, senza ribrezzo, ch'egli fosse da me guardato col viso e col cuore ridente, come soglio guardare tut

ti gli eventi, e spezialmente quelli de' funghi delle umane opinioni. Giudicandomi per lo meno padrone de' miei pensieri, un poetico libretto ch'io scrissi nelmio scrittoio per ricrearmi, ch'io non ebbi alcuna disposizione di pubblicare, e

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 di cui parlerò più sotto, mi pose per accidente in necessità di difendere con delle lepidezze, deridendo que' due scrittori, ciò ch'io considerava metodo vero e vera coltura di scrivere.I soli amici miei sono certi ch'io non ebbi giammai né invidia né sentimento d'emulazione con que' due laghi di volumi in ottavo. Se tutti avessero la giustizia diconsiderare ch'io fui sempre un semplice dilettante scrittore di prose e di versi, che ho sempre donato e che dono quanto m'esce dalla penna, penserebbero tutti

 come gli amici miei e sarebbero certi, come quelli, che la sola lecita fantasia di divertir me e di ricreare gli spiriti affaticati sul lungo studio della verità, della purità e della semplicità maestosa dello scrivere nel nostro idioma, m'abbia indotto a scherzare con qualche ampolla d'inchiostro sulla illegittima invasione degli accennati due innovatori e sopra alcun altro. Il Cielo rimetta il peccato di temerario giudizio a que' molti che m'hanno, per avventura, predicato indiscreto satirico e rintracciatore della mia propria fortuna sulla rovina altrui.De' comici e de' librai potrebbero disingannarli, ma siccome non curo temerari falsi giudizi, così non cerco testimonianze in questo proposito alla mia generosità,che forse non sarà da me nemmeno interamente lodata nel capitolo della pittura del mio carattere.Fu dunque l'anno 1757 ch'io composi un libricciuolo poetico faceto, d'uno stile

legatissimo a quello de' nostri buoni maestri antichi toscani, intitolato La Tartana degl'influssi per l'anno bisestile 1757. Un'urbana allegra critica generale e morale sugli usi e sugli abusi d'allora, in buona parte fondata sopra alcuniversi dell'oscuro poetafiorentino Burchiello, ch'io presi per testi profetici al mio lavoro, empieva le pagine di quel mio opuscolo da me scritto per passatempo e per esercizio di lingua, che piacque alla nostra assemblea letteraria, fedele uniforme di genio, e ch'io dedicai al patrizio Veneto Daniele Farsetti, al quale, mostrandosi egli desideroso d'averlo, lo donai manoscritto com'era, senza curarmi di trattenermene copia. Quel cavaliere, dottissimo, mecenate della nostra granellesca accademia, intendendo di farmi una gentile sorpresa, senza palesarmi la sua intenzione, immaginando per avventura di trovare delle difficoltà in Venezia, ordinò la stampa di que' miei pochi fogli a Parigi, con un picciol numero d'esemplari, i quali giunti

a Venezia furono da lui tutti regalati e sparsi per la città.Quel volumetto averebbe fatto il suo giro d'una mano in altra mano tranquillamente, ricreando parecchi per la vasta rete di critica morale d'un osservatore suicaratteri e sui costumi del nostro mondo; ma alcune poche stille d'inchiostro amaretto, impiegate a lineare ed a sferzare bernescamente i cattivi scrittori di que' giorni, furono aspidi velenosi e sacrileghi. Il signor Goldoni, che oltre all'essere un diluvio d'opere sceniche, aveva anche in corpo non so qual diuretico per comporre de' poemetti, delle canzoni, de' capitoli e dell'altre poesie d'una vena molto limacciosa, inserì in una raccolta di composizioni poetiche, formatain applauso d'un veneto patrizio Veniero, che terminava d'essere rettore a Bergamo, una sua schidionata di dozzinali terzine, nelle quali si svelenò contro la mia povera Tartana degl'influssi. Egli trattò quel libretto da rancidume, da ululatoda cane, da spaventacelo inetto e insoffribile. Trattò me da uomo collerico, compatibile, perocché (cantò egli) tentava io la fortuna invano. Molte altre consimili espressioni gentili adornavano quelle terzine.Frattanto il celebre signor Lami, che in que' giorni scriveva il foglio letterario di Firenze, a cui era pervenuta la mia Tartana, l'aveva creduta degna di fard'essa qualche menzione ne' fogli suoi e di inserire in quelli alcune ottave che trasse dal mio opuscolo, nelle quali commiseravano la decadenza e la corruttela della nostra lingua; e il benemerito padre Calogerà, che in quel tempo pubblicava il Giornale de' letterati d'Italia, scrisse e pubblicò nelle sue memorie degli applausi certamente non meritati dal mio libricciuolo.Mi lusingo di non avere necessità di persuadere i lettori ch'io non registro queste verità per ambizione. Non conosceva il signor Lami né il padre Calogerà. Non carteggio co' famosi letterati per fabbricarmi delle testimonianze vantaggiose dalle na

turalmente civili e adulatorie loro risposte. Non mi degno di circuire giornalisti, gazzettieri, né scrittori di fogli periodici, perché co' loro giudizi imponganoe persuadano infiniti ignoranti ch'è buono ciò ch'è cattivo e ch'è cattivo ciò ch'è buono,

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er le sentenze de' lor tribunali. Seppi ognora umiliare abbastanza i! mio amor proprio e disprezzare le mie letterarie bazzecole da me medesimo. Considerai sempre vilissimi que' scrittori che, colla impostura di tali estorti o pagati sutterfugi, cercano di soddisfare la loro boria letteraria e di farsi creare profondiautori dal mendicume de' falsi attestati imponenti alla vasta ignoranza.Ebbi del sentimento di gratitudine per il signor Lami e per il padre Calogerà, sembrandomi di scorgere in essi un genio uniforme al mio e una persuasione ch'io av

essi dette delle verità per scuotere la gioventù guasta dagli andazzi d'incoltura edi corruttela nel scrivere. Infatti, quantunque la mia Tartana fosse rigidamente composta d'un linguaggio litterale toscano e d'uno stile imitatore de' poeti antichi della Toscana, testi di lingua, particolarmente di Luigi Pulci, il libretto era ricercatissimo, prestato, letto, interpretato, applaudito da' giusti intelligenti; giudicato una maligna satira da' partigiani goldonisti e chiaristi depravati nel gusto.Forse la scarsezza di copie degli esemplari di quell'opuscolo e il suo arrivo da Parigi erano le principali cagionidella di lui fama. Tuttavia egli cagionava tanta elettricità nel pubblico e tantedispute; tanti erano i giovani studenti che cercavano di conoscermi e ch'io feci arruolare nella nostra gioviale, inconcussa granellesca accademia, che credei r

agionevole la mia speranza di veder risorgere un novello andazzo di coltura, per lo meno nelle opere di spirito.Fu per ciò ch'io mi proposi di sostenere il mio picciolo sassolino scagliato nel vespaio della depravazione, e di ribattere e di ridere, con de' scherzi e de' sali d'uno stile purgato e senza critica pedantesca, le terzine del Goldoni da luifatte in lode del patrizio Veniero ritornato da Bergamo, dileggiatrici stizzitedella mia Tartana. Io non voleva che allettare e far ridere alle spalle di quelcollerico onest'uomo, ma cattivo scrittore; e però, siccome egli aveva esercitatala professione di avvocato nel veneto fòro, e siccome riteneva nelle sue composizioni delle grossolane maniere e de' colori delle scritture delle contestazioni forensi, così finsi una sua lettera a me diretta, scritta comicamente in caricaturacon tutti i termini e le frasi che accostumano i causidici nel lor contestare ilitigi, colla quale mi spediva le sue terzine da esaminare. Inventai ch'egli int

itolasse cotesta sua favata Scrittura contestativa al taglio della "Tartana degl'influssi" stampata a Parigi l'anno 1757. Presi quindi ad esaminare le di lui terzine e mi fu agevole lo scoprire in esse, con una faceta critica, una lunga schiera di goffaggini, d'improprietà, di puerilità e di torti.Senza alterare punto né poco i di lui sentimenti comuni e bassi di quelle terzine, colle quali egli pretendeva di lodare il cavaliere da lui esaltato e di inveire contro il mio libretto da lui odiato, rifusi le sue terzine co' sentimenti suoi medesimi, ma con un linguaggio colto, poetico, elevato ed armonioso, facendogli conoscere che anche i sentimenti triviali che piangono doppiamente nel fango d'una dicitura palustre, espressi con un giro di scelte parole, con delle frasi proprie all'argomento che si tratta e coll'armonia poetica che il verseggiare richiede, acquistavano dignità e potevano passare dal di lui stuonato colascione all'accordata cetra d'Apollo. Lo dissuadevafinalmente con delle buone ragioni e de' riflessi amichevoli a non porre alle stampe la sua infelice biliosa Scrittura contestativa al taglia della "Tartana", e terminava l'operetta mia con alcune ottave scherzevoli, specie di memoriale alpubblico, col quale chiedeva in grazia, per lui, esenzione dall'obbligo che se gli dava di scrivere composizioni poetiche.Non mi fermai in questo ridente intreccietto di cose. La mia baldanzosa e allegra Tartana conteneva in vero alcuni spruzzi satirici in astratto e generali sopra alle commedie che correvano allora in su' nostri teatri, e il Goldoni sbuffando se li era appropriati. Nelle sue terzine d'invettiva al mio picciolo volume aveva egli posti due versi causidici contro a me, ch'erano una specie di sfida. Eccoli: Chi non prova l'assunto e l'argomento

fa come il cane che abbaia alla luna.M'accinsi a scrìvere un altro libretto, che provava "l'assunto e l'argomento", e che aveva la forza non meno d'una prova evidente che quella di far ridere chi lo

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leggeva o l'udiva a leggere. Radunava in quell'opuscolo mentalmente i nostri accademici granelleschi un giorno di carnovale all'osteria detta del Pellegrino, che riferisce colle finestre sopra la piazza di San Marco, ad un pranzo. Quivi affacciatisi i sozi miei per vedere le maschere, scoprivano una mostruosa maschera, con quattro faccie differentissime l'una dall'altra, entrare nell'osteria. La pregavano a entrare nella nostra stanza per esaminare tanta mostruosità. La maschera dalle quattro faccie e quattro bocche era la commedia intitolata Il teatro com

ico del Goldoni, da me personificata allegoricamente in quella maschera. Il teatro comico personificato voleva fuggirecruccioso, appena ravvisava in me lo scrittore della Tartana; ma era trattenutoe obbligato a sostenere meco un dialogo ad offesa e difesa sopra a' suoi parti teatrali.Sostenni e provai in quel dialogo ch'egli aveva cercati la fortuna e il concorso ne' teatri, più col cambiare aspetto a' suoi generi dando loro di quando in quando un'aria di novità, che col vero merito di attrazione di quelli.Sostenni e provai che, passato egli dal schiccherare de' soggetti in abbozzo per la sussistenza dell'antica commedia italiana alla sprovveduta, che poi s'è indotto a odiare e a perseguitare da padre sconoscente e tiranno, non aveva fatto cheporre in dialogo, con qualche maggior regolarità e filatura, de' soggetti scordati

 dell'arte comica all'improvviso e con quella grossolana dicitura che chi sa scrivere può rilevare; ma che vedendo egli illanguidire cotesto suo primo genere, ch'egli chiamava riforma, aveva assalito il pubblico colla novità delle Pamele e d'altri romanzi; che al languire di questa novità era uscito coll'altra novità delle farse nazionali, ricopiando le Baruffe di Chioggia, de' campielli, delle massaie, ed altre simili bassezze popolari, le quali assolutamente, nella loro trivialità niente letteraria, erano stati i suoi migliori guazzetti scenici, e d'una . tempera d'avere una vita più lunga in sul teatro degli altri innesti suoi; che raffreddandosi anche quel genere per una certa somiglianzà dell'una con l'altra di quelle rappresentazioni, essendo questo il destino delle fortune teatrali, per lo più dipendenti in Italia da un orbo fanatismo, egli aveva cercata l'altra novità di solleticare gli orecchi de' spettatori co' versi martelliani rimati e coll'opere scemitragiche piene d'assurdi, di improprietà, di mal esempio del costume orientale, de

lle Spose persiane, delle bestiali Ircane, de' sozzi Eunuchi, delle Curcume nefande, e che questa novità, quanto più censurabile, condannabile e detestabile per lospecchio lascivo di bigamia e di lussuria, per la virtù e la innocenza calpestatadal vizio furente, per la impossibilità degli avvenimenti e per cent'altre gemme consimili ch'ella contiene, tanto più aveva stabilita la sua corona di lauro nell'orbo fanatismo e nella opinione d'un bulicame di sciocchi, i quali, appresi a memoria i sperticati infelici versi martelliani delle sue Persiane e delle sue Circasse, recitandoli per ogni chiassolino, innalzavano i suoi propositi al tempio della gloria avvelenando l'udito degli avvezzi all'ottimo e fomentando in lui ilpetulante commiserevole sentimento di vanità.Sostenni e provai ch'egli s'era prosuntuosamente arrischiato anche alla novità del tragico sublime, ma che la fortuna, in un genere poco inteso dall'universale, e da lui pecorinamente sostenuto, l'aveva fatto prudente in questo proposito, consigliandolo a ristringersi alla bassezza de Pettegolezzi delle donne, delle Femmine gelose della signora Lucrezia, della Putta onorata, della Bona muger, de' Rusteghi, de' Toderi brontoloni, e di consimili argomenti proporzionati alla sua vena, ne' quali, in vero, egli aveva un'abilità indicibile d'innestare tutti i dialoghi in dialetto veneziano, che ricopiava con immensa fatica manuale nelle famiglie del basso popolo, nelle taverne, nelle biscaccie, a' tragitti, ne' caffè, nelle casipole a pian terreno e ne' più nascosti vicoli di Venezia, divertendo moltissimo ne' teatri con un mendicume di verità, e di verità insolite da vedersi illuminate, decorate e recitate sulle scene da degli attori esattissimi nell'obbedirlo ad esporre pazientemente con una naturale imitazione le popolari sue farse.Sostenni e provai che nelle sue produzioni sceniche egli aveva frequentemente addossati le truffe, le barene e il ridicolo a' suoi personaggi nobili, e le azion

i eroiche, serie e generose a' suoi personaggi della plebe, per cattivarsi l'animo del romoroso sostenitore del grosso numero di quella ch'è sempre invidiosa e collerica colla maggioranza de' gradi e con un pubblico mal esempio contrario all'

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ordine indispensabile della subordinazione.Sostenni e provai che la sua Putta onorata non era onorata, e una filza d'altriconsimili sbagli suoi; ch'egli aveva adulato il vizio allettando e predicata lavirtù seccando. E siccome il Teatro comico dalle quattro bocche s'era protestato di voler fare abolire le quattro benemerite facete maschere del teatro antico italiano, e la innocente materiale commedia improvvisa dell'arte, trattandola, conimpostura e sconoscenza, da goffa, da immodesta e da perniziosa, sostenni e prov

ai che l'opere sue teatrali erano in cento doppi più lascive, più immodeste e più perniziose di quella, sulla popolazione. Una selva foltissima di espressioni oscene, di circostanze solleticatrici la lussuria, di equivoci sporchi e di laidezze, ch'io aveva ricopiate in serie nel mio libretto dalle sue opere stesse ch'egli aveva date alle stampe, era la mia convincente prova.La mostruosa maschera si difendeva assai male, come fa chi ha il torto, e avvolgendosi intorno mi chiamava satirico indiscreto, linguaccia maligna, temerario einvidioso con tutte le sue quattro bocche per ribattere il mio "assunto" e il mio "argomento" provato. Finalmente il Teatro comico, convinto da me e beffeggiato da' granelleschi, alzando i suoi panni dinanzi faceva vedere una quinta bocca allegorica che teneva nel mezzo al suo ventre, la quale bocca allegorica piangendo sconciatamente s'arrendeva e chiedeva grazia. Un verso delle soprammentovate t

erzine del signor Goldoni, col quale aveva preteso di vilipendermi battezzandomi da collerico colla fortuna, mi suggerì la invenzione della bocca allegorica nel ventre di quella maschera, tratto ch'io confesso per satirico, ma per uno di que' tratti satirici provocati e meritati.Composi una lettera dedicatoria in versi sciolti seriofaceti da porre in frontea' miei due opuscoli, con la quale li dedicava a certo Pietro Carati, notissimoVeneto cittadino miserabile, che ravvolto in una toga lacera, con un parrucconerossiccio, le calze nere turate ne' loro innumerabili buchi con la seta verde, cenerognola o bianca (veri segni del povero cittadino), chiedeva per le vie modestamente a' suoi conoscenti qualche picciola moneta per sostenere in vita la suanascita civile. Anche quella lettera dedicatoria dinotava ch'io non era "in collera con la fortuna"; ch'io non cercava co' scritti miei nessun dono da quella dea, e che il mio scopo non era che di combattere possibilmente i cattivi scrittor

i e di sostenere possibilmente le buone regole e la purità litterale.Coteste due operette divennero pubbliche prima d'essere pubblicate colle stampealle quali era io parato a darle. Il fragore che fecero nascere anticipatamenteha cagionato il seguente avvenimento.Il patrizio commendatore balì Giuseppe Farsetti, sozio della nostra granellesca accademia, coltissimo scrittore e amantissimo della buona poesia, venne in traccia di me dicendomi che, pregato egli da un altro patrizio, conte Ludovico Widiman, ottimo cavaliere, ma parziale del Goldoni per bontà di cuore, mi chiedeva il servigio di trattenermi dal pubblicare i miei opuscoli. Già si sapeva (aggiunse egli per parte del patrizio Widiman) che il Goldoni era uno scrittore materiale e grossolano, che non poteva competere meco sulla materia del colto scrivere, e che alui pareva cosa contraria alla carità lo screditarlo come cattivo scrittore sullapopolazione dalla quale scaturiva la sorgente della di lui prebenda.Un tal uffizio mi sorprese uscito dalla voce d'un cavaliere, rigoroso protettore della coltura. Non potei però frenare le mie consuete risa, ben vedendo chi l'aveva proccurato e ben conoscendo l'arma sotterranea del meschino raggiro. Risposiall'Eccellenza Sua ch'io credeva giustizia il correggere il Goldoni del suo insolentire contro di me, e ch'io credeva un dovere il tentare di guarire la gioventùdall'epidemia della goffa irregolarità e della incoltura; che per altro io mi trovava spoglio affatto di desiderio di letterarie meschine vendette e d'ambizione,e che averei servito lui e il patrizio conte Widiman di seppellire i miei due libretti nel silenzio. Aggiunsi però una mia predizione, cioè che, se il Goldoni, fingendo in secreto quella umiltà e quella afflizione che sogliono mostrare le astutefemminette co' mariti o con gli amanti per arrivare all'intento loro, aveva ottenuta la predetta sospensione e il far tacere me, avrebbe poi egli certamente seg

uito a molestarmi sulla pubblica opinione per svelenarsi e per ostentare una vittoria letteraria co' suoi affascinati idolatri.Fui obbediente alla premura de' due cavalieri, e fui indovino nel mio pronostico

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. Nelle raccolte di poesie che si fanno in Venezia per nozze, per monacazioni, per i solenni trionfi de' gran signori, non meno che in qualche scena delle sue commedie, il Goldoni seguì sgraziatamente a porre in derisione lo scrivere colla toscana purità litterale e con le grazie leggiadre, co' veri colori, i veri terminie con la felice eleganza di quella. De' personaggi affettatissimi e sgarbati toscani ch'egli innestava o nelle sue farse teatrali o ne' suoi grossolani poemetti ch'egli intitolava Tavole rotonde o altro, erano le sue batterie. Affidando egl

i all'aura favorevole popolare che possedeva e mettendo in ridicolo per quanto poteva con de' modi legittimamente ridicoli e dozzinali la colta regolarità, non senza qualche ingiuria che teneva del plebeo, che non aveva nessuna relazione conle questioni letterarie, proccurando di tenere in soggezione la mia penna col bucherare de' signori, ch'egli appellava "i suoi cari padroni", si è lusingato di fare una sua vendetta e di strozzare la veritiera mia innocente Tartana.Il suo cruccio infelicemente astuto fu per me la più bella scena comica ch'egli facesse, e mi disposi a dargli de' motivi di accrescerla. Aveva io promesso a' due soprannomati cavalieri di non porre alle stampe i due detti opuscoli miei, e nessuno potè indurmi a contraffare alle mie promesse; ma scorgendo l'indefesso nauseoso insolentire del poeta comico, m'apparecchiai a delle difese molto più comichedelle sue, e che non dovessero che spassare i lettori e persuaderli per la bland

a via delle risa. Niente si vince in così fatte poco importanti questioni, quandonon si voglia incontrare una controversia critica regolata, che verrebbe letta da pochi, e con de' sbadigli, senonché col rovesciare un piacevole ridicolo sulle spalle di chi più lo merita; e sperando io di non meritare cotesto ridicolo, m'ingegnai a rimandarlo a chi in me lo voleva con delle composizioni facete, laconiche e convincenti, le quali, tenendo i sali, la vivacità, le pitture e l'odore dellasatira lecita, erano ricercate, ricopiate e lette universalmente e allegramente.Non usciva nessuna delle frequenti raccolte poetiche che a Venezia si accostumano anche troppo, ad onta del cattivo poemetto dell'abbate Bettinelli con cui pretese di sopprimerle, che non contenesse una giostra di versi tra me e il mio buon amico Goldoni, che ad onta delle sue collere fu sempre da me considerato mio buon amico e infelice scrittore.Egli s'era fatto registrare nella famosa accademia degli Arcadi di Roma col nome

 di Polisseno Fegeio, fregio altitonante, che comunica quelle qualità di buon poeta e di buon scrittore che sono note a chi intende il mondo poetico e la vera eloquenza. Lontanissimo io dall'acquistarmi un nome nell'Arcadia da spaventare, micontentai di rimanere col nome di Solitario nella mansueta accademia de' granelli. Contrapposi a molte languide e goffe favate metriche, che il Goldoni impastricciava contro a me e contro gli amatori del purgato scrivere, favate ch'egli intitolava Poemetti e ch'erano un dipresso come quello del Bettinelli contro Le raccolte, un mio burlesco poemetto per nozze a cui posi il titolo de' Sudori d'Imeneo, che feci uscire dalle stampe. Questa operetta fece una rivolta di geni ch'egli non si aspettava.Furono innumerabili le poesie da me scritte, con de' metri differenti e sempre facete, di critica al costume e di martirio a' cattivi scrittori del nostro secolo. Erano allora, come suol avvenire a tutte le coraggiose novità d'un tal genere,ricercatissime, lette più che non sono le serie poesie; facevano un gran sussurroe non facevano nessun frutto.Siccome io non ebbi giammai la flemmatica diligenza ambiziosa di tener conto o registro alcuno de' miei capricciosi poetici lavori né delle mie prose, come quello che non somiglia punto né poco agl'innamorati dell'opere loro, così posso dire soltanto che parte uscirono dalle stampe e parte rimasero inediti manoscritti. Se mi si chiedesse (il che non avverrà mai) dove si potessero rinvenire, risponderei: Appresso di me non già. Alcuni amici miei, tra' quali il signor Raffaele Todeschini, Veneto giovine d'impuntabile onoratezza e d'ottimo discernimento, ma un po' troppo gentilmente per me prevenuto, e il signor Sebastiano Muletti, bergamasco, posseditore d'una scelta raccolta di libri e un po' troppo amante della poesia, si sono fatti volontari archivisti di tutte le bazzecole mie letterarie che hanno

 potuto raccogliere dalla mia noncuranza.Tutti i sopra accennati colpi in difesa de' buoni scrittori ed atti a porre in un aspetto ridicolo i cattivi seminatori della mostruosa libertà della incoltura e

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de' bestiali deliri poetici, non lasciavano certamente illese le opere dell'abate Chiari. Pure, o fosse egli più astuto del Goldoni, o consigliato da degli amiciavveduti, o non si degnasse di abbassarsi a difendere la sua gran rinomanza di celebre, o di unirsi al suo nimico Goldoni, resisteva taciturno alle ferite.Avvenne in que' tempi che da uno sconosciuto scrittore . in un foglio periodicofu posto in derisione con cinque dubbi, che non erano cinque dubbi ma cinque critiche evidenze, un prologo teatrale dell'abate Chiari, ch'egli aveva fatto recit

are nel teatro in S. Giovanni Crisostomo in Venezia, indi fatto da lui pubblicare a stampa come cosa sublime. La derisione del prologo con que' cinque dubbi, che lo qualificavano una strana poetica bestialità, fu a me falsamente attribuita. Ella non aveva nulla d'irragionevole e, se fosse stata cosa mia, non averei avuto riguardo alcuno a pubblicarla per mia. Ebbi un altro nimico poeta a fronte, d'un'audacia e d'una brutalità celeberrima.Sei sonettazzi vigliacchi, lordi, satirici, che incominciarono a circolare manoscritti contro a me e contro la predetta accademia granellesca, furono i suoi dardi. Allora fu che si destò un boschetto di penne in mio favore e a difesa dell'accademia. I cinque dubbi sul prologo divennero venti o trenta dubbi solidi e dileggiatori nel foglio periodico, e tali che fecero procelloso e frenetico l'abate.Egli si abbassò a baciare il Goldoni, e il Goldoni si abbassò ad accettare i suoi ba

ci. Fu fatta tra essi la pace e un'alleanza offensiva e difensiva contro a me eall'accademia nostra. L'accademia s'accrebbe di numero, si ristrinse e nacque un faceto fatto d'arme d'inchiostro, da cui si sperava il risorgimento della colta eloquenza poetica e della purgatezza della litterale favella italiana.La bottega di Paolo Colombani, libraio in Venezia, era il centro de' ragguagli di quella guerra, ed era molto frequentata da' granelleschi, i quali si proposero di dar dell'utile al Colombani e di ridere. Il Cognito, il Fecondo, il Velluto, il Rinserrato, il Destro, il Mancino, io Solitario e tanti altri nostri accademici, fecero uscire da quella bottega de' fogli poetici burloni mensuali latini e toscani, fulminanti i cattivi poeti e i cattivi scrittori, e nel giorno che usciva il foglio la bottega del Colombani era un sciamo di comperatori di quella novità. Que' fogli portavano il titolo d'Atti granelleschi. Io darò qui un solo epigramma incluso in quelli, stampato nel foglio del dicembre 1760, diretto al Chiari,

 che co' suoi sonettazzi manoscritti aveva preteso di vilipendere l'accademia.La composizione è del coltissimo patrizio commendatore balì Giuseppe Farsetti, e laparafrasi in italiano, ch'io pur registro, è dell'ora defunto ottimo giovane, indefesso studente ed erudito Giannantonio Deluca, tra i granelleschi il Manzine; epuossi quest'epigramma considerare come preludio agli Atti che seguitarono:Maeonides risere, quod ipsas invocet Aulus,chartae pernicìes Aulus et exitium;qui genio indulgens versus sine fine pudendosevomit, eternas et cacat Iliadas;quique sophocloeo suras vincire cothurno,plautinosque audet contaminare sales.Hinc magis atque magis, geminato musa cachinnorisit, et hoc Aula misit epistolium:"Non mihi, sed scombris foetentibus, imo latrinaedebentur foetus, ambltiose, tui".

PARAFRASI.Scoppiar di risa le meonie dive,che Ciacco le invocasse, Ciacco pestee struggimento di gualchiere e carta;il quale dal farnetico invasatosenza mai rifinar fece de' versistomacosi, ed Iliadi eterne caca,e vestir osa le polpaccie indegnedi sofocleo coturno, e i puri sali

contaminar di Plauto. Or dalle risapiù e più le muse ismascellar di pria,e ne spedirò a Ciacco cotal motto:

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"Dennosi, o vanarel, tuoi sozzi partiagli fracidi sgombri e alle sardelle,e anzi ad un cessame, e non a noi".Non si deve celare la verità. Una parte di quegli Atti era di giovani accademici che, irritati da' sei sonettazzi insultatori del Chiari e un po' troppo sdegnosi, consisteva in molti sonetti berneschi, pulciani e burchielleschi oscuri ed interpretabili, di favella purgata, adorni di sali e di pitture; ma non erano che cólt

e invettive, cólti frizzi, cólte ingiurie e un cólto dare la baia a' due poeti Goldoni e Chiari ed a' loro seguaci. Alcuni sonetti ed alcune ottave di mio fratello Gasparo, pubblicati sotto il nome del Velluto in quegli Atti, proccuravano indarno di ridurre il bollore di que' giovani ad una dolcezza ragionata, senza però lasciar d'animarli alla difesa del retto pensare e del scrivere purgatamente.Dal canto mio considerai che alla coltura e alla derisione degl'incolti si dovesse accoppiare in que' fogli dell'accortezza, della seduzione, de' brevi argomenti e delle ragioni per avere del buon effetto. E perché que' due poeti, col pretesto di riformare il teatro s'erano proposti di voler strozzata la innocente commedia materiale italiana alla sprovveduta, sostenuta dalle valenti maschere meritamente amate dal pubblico, Bacchi, Fiorilli, Zannoni e Derbes, che divertivano i Grandi ed il popolo e che danneggiavano la ricolta alla poetica spettabilità, consi

derai che niente più potesse castigare la petulanza letteraria de' due sognati Menandri, che il prendere in protezione le amenità, i sali, i lazzi delle farse all'improvviso de' nostri Truffaldini, de' nostri Tartaglia, de' nostri Brighella, de' nostri Pantaloni, delle nostre Smeraldine.Un capriccioso allegro critico canto ditirambico, che sotto al mio nome accademico di Solitario pubblicai ne' sopraddetti Atti granelleschi, con una scherzevole difesa a' comici improvvisatori accennati e alle allegre loro farse, con una rimarcabile beffeggiatura alle sceniche opere d'allora, che si predicavano regolate e riformatrici, non senza tratti ragionevoli a refrigerio della colta poesia e dello scrivere regolare e sensato, riuscì un senapismo efficace a' due poeti ed a' loro parziali discepoli.Parecchie ottave pulciane piacevoli e ragionate che indirizzai in quegli Atti, parte a' religiosi dell'uno e dell'altro sesso, parte a' cavalieri, parte alle da

me, parte a' cittadini, parte alle cittadine, parte a' mercanti, parte alla plebe, col titolo d'Introduzione agli Atti granelleschi, piene d'urbanità, di avvertimenti, di riflessi, di pronostici, di raccomandazioni, di preghiere, di ragionevoli esagerazioni a risorgimento e a salvezza della coltura nella eloquenza italiana, ci cattivarono degli animi; e de' miei sonetti, usciti in que' fogli di argomentazione trattata laconicamente, convincentemente e burlescamente, ebbero un partito di risibili considerabile, che gli apparava a memoria.Tutta la città era in movimento per quegli Atti. Un gran numero di giovanetti collegiali si davano volontari sotto allo stendardo de' granelleschi. Le famiglie nobili a' lor maritaggi, alle loro monacazioni volevano picciole raccolte di poesie semplici, ragionate e purgate uscite dalla nostra accademia, dalle quali era sbandita ogni composizione che odorasse della goffaggine goldoniana e dell'ampollosa frenesia chiariste, e le quali erano, per lo più, sferzate a' cattivi poeti.Potrei porre in queste Memorie non degne di memoria molte testimonianze che sono alla stampa d'illustri scrittori non spregiatrici le mie scherzevoli fatiche di quella stagione; ma io non ho la boria meschina di tanti altri schiccheratori.Soltanto per una prova ch'io non mentisco giammai, porrò qui un endecasillabo a me diretto dal dottissimo dottore Natale dalle Laste, pubblicato l'anno 1761 in una raccoltina poetica uscita dalla nostra accademia e fatta per la monacazione nel convento detto delle Vergini di Venezia d'una dama Balbi. Era io lo stimolatore de' miei confratelli granelleschi perché concorressero a scrivere per quella raccolta. Stimolai anche il predetto maturo rispettabile signor Dalle Laste. Egli m'inviò l'ironico leggiadro endecasillabo seguente, che fu stampato nella raccoltina colla traduzione a fronte del mentovato giovine Giannantonio Deluca accademico granellesco.

NATALIS LASTESII AD CAROLUM GOZIUM,HENDECASYLLAB.Gozzi floscule, Gozzi ocelle vatum,

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cui linguae venus et lepos etruscaeleni ex ore fluit malos poetasgaudenti sale perfricare multo;urges officiosus, atque blandamBalborum genus inclitum puellamcommendas prece non malis poetis:candore ut niteat perinde carmen,

lacte ut purior illa, liliisquecoetus virgineos renidet inter:illam os atque oculi ut decent modesti,ut simplex tunica atque mensa simplex,sic et versiculis decus pudorqueadsit, nil tumidum, nihil sit audax,et nugis coreant, inaniisque.Fugit te ratio? An patere dudumnescis hoc stadium malis poetis,totum quod rapidis vorent quadrigis?Bonorum hic piger, odit lile tritaargumenta; senex hic arma fixit;

non tempos vacuum alteri; horret altermisceri Baviisque Maeviisqueet saeclo tacet hostis inficeto.Eheu pagina, crede, lenta surget;paucique et graciles et indisertiBalborum genus inclytum puellamlaudabunt tibi. Quare, ocelle vatum,si quid iam meditaris urbi amicum,quod Zattae, Albritiique praela vincat,quod aures sonitu impleat capaces,in rem consule; gratiaque sartaiunge, o, feedera cum malis poetis.TRADUZIONE DEL DELUCA.

Gozzi, delizia ed occhio de' poeti,cui le grazie ed il fior del tosco stiledal facil labbro scorre, e i tristi vatipunzecchiar godi con acuto sale,soave sforzi, e per piacevol guisaaccomandi a' poeti e non a' tristi,la verginetta inclito onor de' Balbi:onde d'egual candor sia puro il versocome del latte e del giglio più purasplend'ella in cerchio d'alme verginette:come modesto labbro, e modest'occhioe schietta tonacella e schietta mensaa lei si addice, si a' versetti siabeltà e rossor; nulla di gonfio e audacee netti sien di ciancie e freddi scherzi.Ov' hai tu il senno? E non per anche sai,che questo è corso aperto a' vati guastionde il divorin tutto a briglia sciolta?Fra' buoni pigro è questi, e quello ha in odiotriti argomenti; questi vecchio l'armedepose; ad altri vien men ozio: ed altriir misto a' Bavii e Mevii inorridisce,e nimico all'avverso secol tace.Ahi tardo crescerà, credilmi, il foglio;e pochi ed ispossati e ineleganti

la giovinetta inclito onor de' Balbiloredanti. Or tu, o occhio de' poeti,se vuoi far opra al paese gradita

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che del Zatta e d'Albrizzi ' i torchi avanzi,che i capaci orecchioni empia col suono,in ciò pon cura, ed omai fa' la pace,e in brigata ne va' co' tristi vati.Il dolce avviso che mi dava quel grand'uomo, assennato per età, per dottrina e per esperienza, fu guardato da me come una verità, ma come una verità che non dovesse troncare le mie risa e il mio divertimento e le difese della purgatezza dello scr

ivere e della buona morale, contaminati dall'incolto libero modo di comporre e dal sfrenato modo di riflettere tendente alla sovversione de' costumi.Un certo cherico appellato Placido Bordoni, sviscerato amante e discepolo dell'abate Chiari, raccoglitore ed editore non so di quanti volumi delle rime del maestro, ch'egli ha intitolate Poesie liriche, pretese di sbaragliarela nostra accademia con un libricciuolo a cui pose il titolo di Nuovo secreto, ecc., e con una epistola in versi sciolti della nuova ampollosa tempera, direttaall'abate Chiari, ebbe la pretina inciviltà di voler morto e sotterrato mentalmente alla vita letteraria il benemerito mio fratello Gasparo, cantarellando: Già è morto Fannio, in paceRiposi, ch'io non turbo, quale ei sia,Quel ch'ei gode là giù riposo oscuro, ecc.

L'abate Chiari dispose di dare la risoluta sconfitta e la fuga alla schiera de'granelleschi con certo libro d'un anonimo francese scrittore, da lui pubblicatocome sua traduzione, intitolato Genio e costumi del secolo. Quel libro francese, che come si deve credere non aveva a far nulla con noi accademici, fu dal Chiari, il quale, per essere uomo uscito dalla compagnia de' padri gesuiti, si piccava d'essere eccellente scrittore, impastricciato qua e colà d'infiniti squarci malinnestati sulle pagine di quel libro innocente, diretti agli accademici granelleschi colle più dozzinali e fangose invettive e co' più villaneschi strapazzi che unrabbioso scrittore superbo vergasse. Il trattare gli accademici da semplici grammatici, da pedanti inutili, da insetti spregevoli, furono i più piccoli insulti.Per un decreto della nostra allegra assemblea, la quale aveva per sozi molti eruditi patrizi Veneti, rintuzzai la petulanza del Nuovo secreto del Bordoni e il cattivo impasto del Genio e costumi del secolo del Chiari, con un libretto di cen

tosettantacinque pagine pubblicato dal libraio Colombani l'anno 1761, sotto al titolo di Fogli sopra alcune massime del "Genio e costumi del secolo" dell'abatePietro Chiari e contro ai poeti Nugnez de' nostri tempi, Nugnez, che dopo aver esercitati parecchi mestieri, con poca educazione e molta ignoranza, divenne improvvisamente autore d'un lago di commedie e di romanzi, descritto nel famoso romanzo del Gil-Blas di Santillana, fu somigliantissimo all'abate Chiari ed a' suoiseguaci, ch'io presi di mira nelle mie centosettantacinque pagine.Non darò la pena a me di scrivere, né ad altri di leggere l'estratto di quel libro già pubblicato in difesa della nostra accademia contro al Chiari, contro al cherico Bordoni, contro al Goldoni e contro gli alunni de' cattivi scrittori. Chi vorrà prendersi la briga di leggerlo, troverà le cagioni, le controversie di que' tempi;troverà una scherzevole ferocia e (posso dirlo con un'umile franchezza) troverà unaincontrastabile verità. Il foglio settimo posto alla pagina cinquantotto, ch'è il confronto fatto da me dell'anonimo autore francese del Genio con la traduzione del Chiari, atto a mortificare un uomo di porfido, fece il gran prodigio di mortificare anche il Chiari. La lettera d'un seminarista a me diretta posta alla pagina centoquattro, e la risposta mia alla pagina centonove, a me sembrano efficaci,non indegne d'essere lette e considerate anche al proposito de' tempi ne' qualisi troviamo oggidì. Due sermoni cristiani d'esortazione, in versi sciolti, posti nel principio dell'opera mia, l'uno indirizzato al Chiari, l'altro al di lui alunno Bordoni, chiusero in casa per la vergogna otto e più giorni il primo, e fecerodisperare e girare per la città come discervellato e aombrato il secondo, il quale era un giovine di buon intelletto, ma guasto dall'affezione che aveva a de' strani princìpi.Nel bollore di quella letteraria battaglia mi vidi innanzi una mattina un nunzio

 del patrizio Veneto Giovanni Donado, esponente che l'Eccellenza Sua voleva favellare con me. Siccome, per costume e per istinto, la mia vita è d'uomo solitario,che conversa molto con se medesimo forse scipitamente, io non aveva l'onore di c

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onoscere quel cavaliere, che per quella luminosa rinomanza ch'egli aveva nella nostra inclita repubblica e altrove, di niente vasta, di giustizia, di probità e di rigorismo nelle sue repubblicane ispezioni di governo: attributi che lo faranno vivere immortale ne' secoli.Protesto che l'immagine ch'io aveva di quel gran signore e il tremendo tribunale che allora egli occupava mi scossero a quella chiamata, quantunque la mia comparsa dovesse essere semplicemente al di lui privato palagio. Ebbi per guida confo

rtatrice l'innocenza, e v'andai.Il cavaliere m'accolse con affabilità, e dopo alcune espressioni comuni d'introduzione chiesi quali fossero i comandi suoi. Egli ebbe la benigna curiosità di squadrarmi dal capo a' piedi con viso sorridente, poscia d'esprimere con laconismo leseguenti parole: - Mi sono divertito a leggere le vostre letterarie questioni. Ho desiderato di conoscervi. Avete ragione. È bene che la gioventù s'illumini del vero. Seguitate a difenderlo. Basterà che non veniate alle pugna, perché allora le controversie sarebbero da sospendersi.Sapeva benissimo che quelle espressioni uscite dalla voce d'un tanto cavaliere dovevano animarmi, perocché gli scrittori che vengono considerati utili alla popolazione, sostenuti dalle provvide mani imperanti, possono cagionare qualche buon effetto; ma sapeva ancora che in Italia, e spezialmente tra noi, alcune pietre sc

agliate per diga, non sostenute, non protette e non fatte rispettare, servono piùa far maggiormente muggire che a fermare un torrente di strane illegittime innovazioni di corruttela.I fogli mensuali, che uscivano sotto all'umile titolo di Atti granelleschi, patroneggiati, avrebbero potuto coll'andare de' mesi passare ad argomenti più utili alla gioventù, che non era la materia frivola goldoniana e chiarista, essendo particolarmente la granellesca comitiva composta non di limitati ingegnetti, ed essendo avversa (come si può rilevare da' nascenti parti suoi) alle infinite massime sparse dalla contagiosa scienza del secolo, alla rovesciata morale di mal esempio e d'incentivo attissimo ad ammutinare l'umanità subordinata.Tutto ha sempre servito a farmi studiare il genere umano, né vado soggetto gran cosa ad alterazione o alla meraviglia sopra a ciò che vedo succedere, né se talora scorgo la prudenza in necessità d'operare contro a lei medesima, per troncare de' mal

i maggiori, a' quali sono paratissimi i cervelli sovvertiti e in tumulto nel bulicame della nostra specie.I granelleschi furono dipinti molesti, maldicenti, indiscreti ed ingiusti. I loro fogli mensuali furono predicati, iniquamente, pidocchiosi tentativi del bisogno, e non furono chiusi gli orecchi in tutto alle ipocrite calunniose querimonieed agli uffizi privati de' torcicolli, ch'ebbero il vigore e l'industria d'accendere sino la gelosia nelle rispettabili giurisdizioni contro a quegli Atti, tutori della sempre orfana verità, minaccevoli, ma ingenui ed innocentissimi. Il furore contro quelli fu grande, e fu la prudenza che ricise il corso loro.Le dette scaramuccie letterarie, che incominciarono l'anno 1757 dalla mia Tartana e che seguirono sino l'anno 1761, formarono i gradini che mi condussero a ordire de' capricci scenici. Oltre a che le accennate questioni avevano pregiudicato alquanto all'opere teatrali in andazzo de' due poeti Goldoni e Chiari, essendoquelle guardate con minor cecità di fanatismo, la pace fatta tra essi aveva terminato di raffreddare i loro letterari interessi. L'emulazione che ardeva prima tra loro e le critiche che si facevano l'un l'altro, avevano riscaldati e fatti bollire due partiti divisi d'opinione, che con le gare erano stati fruttiferi. Nons'era veduto giammai partito diviso in una tanto inconcludente materia, con maggior susurro, né con maggior ingiustizia. Dico ciò in favore del Goldoni, e per pocoonore delle umane geniali intelligenze e dell'umano discernimento.Quella pace e quella lega offensiva e difensiva de' due poeti teatrali contro gli accademici granelleschi, partorì la conseguenza della freddezza all'opere loro,e il giro del tempo che dà fine ad ogni andazzo faceva apparire un languore di mal augurio. Nulla di meno, rincorati que' due scrittori dall'argine posto al proseguimento degli Atti granelleschi, seguitavano a vilipendere la brigata degli acc

ademici co' titoli di grammatici, di pedanti, di cruschevoli affettati e stitici, di scrittorelli inutili.Il Chiari, con rodomontesca prosopopea, gli aveva sfidati a comporre delle comme

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die in sua competenza. Di ciò fanno testimonianza que' versi d'un sonetto di mio fratello Gasparo, stampato negli Atti granelleschi, sotto al nome del "Fecondo": Prima di fare a' granelleschi invitofanne una tu non pazza né bestiale,ma ch'abbia il suo ripien sano e l'ordito. Allor poi sali arditosul monte d'Elicona e gli disfida;

intanto lascia che di te si rida.Il Goldoni, quantunque avesse confessato pubblicamente di non aver studiato a' buoni fonti e d'essere un cattivo scrittore, non rifiniva però di deridere la coltura dello scrivere. Armatosi in sua difesa di quegli elogi che qualche merito dona e la impostura cerca con tutti i mezzi, soccorso da de' fautori che l'ammiravano e cercavano d'imitarlo con delle commedie, con una spossatezza sventuratissima, e che essendo unicamente nuvoloni di vuote parole poste in dialogo, chiamavano me semplice parolaio, si era trincierato nel dire che l'enorme concorso popolare veduto alle sue opere teatrali decideva della essenzialità del suo vero merito, che altro era una critica sottile di parole ed altro le cose approvate e acclamate da' popoli ne' pubblici teatri. Sembra impossibile che ad un uomo il quale si vantava studente accurato de' popoli e della natura, che aveva veduto un immen

so terribile partito in concorso a lui avverso, suscitato dalle opere snaturatee bestiali del Chiari, suo critico e suo scenico competitore, uscisse di bocca una così debil prova del suo vero merito.A quella sua proposizione, che sembrava a' mal pratici della umanità una torre inespugnabile, opposi quel sonetto bernesco: Dottor, se incontra qualche tua commedia,non dir per questo ella sia buona mai; perché, se incontra una del Chiari assai,tu di' ch'ella è cattiva e ch'ella tedia; e se a qualche altra il popol non t'assedia,stolto e ignorante non lo chiamerai;o s'una al Chiari casca, non dirai:Ciò fu perch'ella è una fola, un'inedia.

 O tu vuoi che il concorso sia buon segno,o l'abbandono un tristo segno sia,o il popolo a decider non sia degno. Perdio, Dottor, di qua non fuggì via.Rispondi e aguzza quanto vuoi l'ingegno:o tu, o il Chiari, o il popolo è in pazzia. Se astratto e in balordiarispondi: - È sempre buon segno il concorso, -viva il Goldoni, il Chiari, il Bacchi e l'orso.Ma perché forse cento consimili mie composizioni d'argomenti scherzevolmente ed efficacemente trattati, con le quali fui invero un martirio a quel buon uomo, erano pur chiamate tuttavia con disprezzo da lui e da' suoi partigiani eco della dilui voce, frivole e non curabili maldicenze uscite dall'animo d'un uomo torbido, invidioso e cattivo, e perché egli citava sempre ostinatamente il concorso popolare per autenticità del merito delle sue teatrali produzioni, espressi un giorno, senza rimordimento del mio cuore, che il concorso in un teatro non decideva che le opere sceniche sue fossero buone, e che io m'impegnava di cagionare maggior concorso delle sue orditure colla fiaba dell'Amore alle tre melaranze, racconto delle nonne a' lor nipotini, ridotta a scenica rappresentazione. Delle risa incredule e beffeggiatrici accesero il mio puntiglio e mi fecero accingere a quel cimento bizzarro.Composto e letto da me il mio strano apparecchio a' nostri dotti accademici granelleschi, benché le loro risa sulla lettura mi facessero un buon pronostico, essimedesimi però nel fine mi sconsigliarono, anzi mi pregarono a non esporre quella fanciullaggine, adducendo che sarebbe fischiata e che poteva pregiudicare il deco

ro accademico con tanto onore sino a quel punto sostenuto. Risposi che conveniva assalire l'intero pubblico sul teatro per cagionare una scossa di diversione, ch'io donava e non vendeva il mio tentativo di nobile vendetta all' accademia vil

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ipesa a torto, e che le loro signorie, intelligentissime di coltura, d' esattezza e di buoni libri, conoscevano molto male il genere umano e i nostri simili.Donai alla compagnia comica del Sacchi la mia originale stravaganza scenica, e fu esposta nel teatro in San Samuele in Venezia nel carnovale dell'anno 1761. Lanovità d'una tal fola inaspettata, ridotta ad azione teatrale, che non lasciava d'essere una parodia arditissima sulle opere del Goldoni e del Chiari, né vuota di senso allegogorico, ha cagionata un'allegra rivoluzione strepitosa e una diversio

ne così grande nel pubblico, che i due poeti videro come in uno specchio la lor decadenza.Chi avrebbe predetto che quella favilla fiabesca dovesse debilitare l'andazzo dell'opere sceniche ch'erano prima tanto ammirate, e rialzare sopra a quello l'andazzo, acclamatissimo per tanti anni, d'una mia serie successiva di fiabe fanciullesche? Così va il mondo.FINE DELLA PARTE PRIMAPARTE SECONDALIBERTÀ EGUAGLIANZARAGIONAMENTO DEL CITTADINO CARLO GOZZIA' CITTADINI AMICI DELLA MEMORIA DI PIETRO ANTONIO QRATAROLHo letto l'opuscolo che faceste uscire dalle stampe del cittadino Giovanni Zatta

, intitolato Memorie ultime di Pietro Antonio Gratarol coi documenti sulla di lui morte, ecc., ed ho letta la vostra prefazione preliminare a quell'opuscolo. Ame non resta alcun dubbio che i vostri accurati documenti sulla morte di quell'infelice non contengano pur troppo la verità, e leggendo la sicurezza del di lui miserabile funesto fine, ho provata tutta la umana interna commozione e commiserazione. Credo quel vostro opuscolo essenzialmente diretto a vendicare dalle ingiustizie del fisco del caduto governo le ottime innocenti cugine del defunto Gratarol.Vi protesto che giammai lessi cosa con maggior orrore, abborrimento e sdegno delle rapacità diabolicamente tiranne e ladre usate dal fisco sui beni ed effetti della famiglia di quell'esule sfortunato. La vostra impresa di prendere ad assistere le oppresse sorelle Gratarol, cugine del mancato di vita, ond'esse possiedanofinalmente le sostanze loro dovute ed usurpate con delle inaudite rapine, merita

 de' panegirici; ed è da credere costantemente che il nostro nuovo attivo zelantedemocratico governo, armato di giusta collera e sollecito ad abbattere gli abbombili abusi trascorsi, consoli ne' limiti del congrue, sulle chiare vostre dimostrazioni, le degne cittadine Gratarol, nostre dilette consorelle.È pur degno di lode l'amichevole genio che avete di "riabilitare", come dite voi,la memoria di Pietro Antonio Gratarol, bersagliato in gran parte da un bizzarroindegno capriccio, da una turpe venalità protetta e dalla tirannide.Nessuno potrà mai contaminare la di lui memoria dal canto della onoratezza, del talento, dello spirito, della attività o della fedeltà incorrotta in ogni tempo versoal, ora, ex-governo e all'ex-senato in cui ha servito; e se mai alcun uomo cattivo osasse di voler macchiare la memoria di Pietro Antonio Gratarol dalla parte delle sopra accennate sue doti e sopra accennate sue virtù, arruolatemi vostro socio nel difenderle con tutto il calore.Se però voleste sostenere ch'egli fosse più che un uomo, come folgoreggia dalle vostre infiammate esagerazioni; ch'egli non fosse un po' troppo immerso nelle leggerezze, nelle effemminatezze, nelle galanterie, nelle splendidezze, senza bilancia sul proprio suo stato; ch'egli non fosse soggiogato dall'amor proprio e da unaimmagine troppo sublime di se medesimo; ch'egli non avesse alterata la fantasiadalle letture, da' sofismi, dalle stiracchiate idee romanzesche non confacenti colla sua patria e colla sua costituzione; ch'egli non conoscesse male gl'influssi sopraffattori che ci dominavano per schermirsi da quelli, massime dipendendo da quelli i luminosi uffizi a' quali aspirava; ch'egli non si credesse infallibile nel sposare delle false opinioni; ch'egli, guidato da' suoi princìpi opposti alle sue circostanze, non si fosse indotto a sprezzar la sua patria e a bramare ardentemente d'allontanarsi da quella; ch'egli non fosse orgoglioso, imprudente, pu

ntiglioso, d'umor viperino, indomito, arrischiato, vendicativo eccessivamente, e non avesse quanti capitali bastavano a farsi de' nimici anche ingiusti; dispensatemi in grazia dall'esser vostro socio nella difesa.

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La serie de' casi afflittivi che quell'uomo commiserabile s'è ordita da se medesimo per temperamento, e la sua stessa Narrazione apologetica, in cui l'alterigia biliosa l'ha fatto scordare persino la sua educazione civile, s'oppongono con troppa efficacia e chiarezza su questo punto.Non vi recate ad offesa s'io considero che o voi non siate stati giammai amici di lui, o egli non sia stato giammai amico di voi; perocché o voi mancaste nel dargli de' cordiali, prudenti e sani consigli, o egli li ha rifiutati, derisi e calp

estati.S'io fo qualche esame e qualche riflesso sulla preliminare prefazione e sopra all'opuscolo che a voi piacque di giudicare Supplemento alla "Narrazione apologetica" del Gratarol, da voi pubblicati colle stampe del generoso Zatta libraio in quest'anno 1797, non v'accendete. Siate giusti, democratici veri, e non considerate le urbane verità d'un vostro confratello, a torto vituperato, "amarezze e ferocie".Nella vostra prefazione, in cui innalzate alle stelle la Narrazione del Gratarol, non so se per esaltare la memoria d'un amico o per fiancheggiare un indiscreto e indecente traffico de' nostri librai, ma in cui anche esprimete molte verità relative alle esecrabili oppressioni sofferte dal Gratarol sventurato, non posso negare, mi sorpresi nel leggere le seguenti vostre parole:

"Se in una prefazione fosse acconcio il dare un consiglio, noi vorremmo persuadere un uomo assai rispettabile, contro del quale Gratarol s'è permesso qualche sfogo di giusto dolore, a risparmiar l'edizione di due grossi volumi di Memorie inutili della sua vita, ch'egli ha promesso con suo Manifesto stampato dal cittadino Palese, ecc., o almeno a non voler in quelle inutili memorie infierire contro un cadavere o portar ferite all'ombra ancora sdegnata e minacciosa e sempre invulnerabile del Gratarol. Oseremo certo di riprometterci da un uomo dolcissimo e di amabile società che non vorrà attaccare la memoria di quell'uomo, mentre si cerca da' suoi amici di riabilitarla, e che al più, poiché l'opera del Gratarol si è troppo recentemente divulgata, sarà contento delle qualificazioni contro di lui già lanciate con qualche amarezza nel citato Manifesto".È pur rimarcabile la nota che avete posta a piè di pagina della vostra prefazione, cioè "che il titolo de' miei volumi dovrebb'essere Memorie inutili della vita di Ca

rlo Gozzi scritte da lui medesimo e da lui pubblicate per umiltà". Non abbiate timore ch'io cambi titolo a' miei volumi.[I quali furono da me scritti l'anno 1780, quando il Gratarol viveva e scrivevaingiustamente contro me. Or ecco le ragioni del titolo:]La prima ragione è quella della mia umiltà, non avendo io alcuna prosunzione di me medesimo per credere che ci sia alcun bramoso di leggere il corso della mia vita, né alcuna considerazione o baldanza per li scritti miei. La seconda ragione è quella che, siccome gli accidenti della mia vita sono di poco rimarco e non atti ad interessare, così le narrazioni veridiche di quelli non mi servirono che d'un pretesto per poter empiere i miei grossi volumi di riflessioni di quella morale ch'io credei sempre la più sana e la più utile per il mio prossimo, e che da cinquant'anni ho predicata nei pubblici teatri e ne' miei fogli stampati, e sempre con una perfettissima inutilità.La scienza ingegnosa del nostro secolo, che da gran tempo va fiancheggiando e adulando con molta industria le passioni della umanità, dipingendo da pregiudizi lemassime della morale di tanti secoli al nostro secolo anteriori, ha seminato una mèsse di morale a rovescio (vede Iddio, e dovrebbero vedere anche gli uomini, con qual ricolta desolatrice e venefica alle famiglie) ed ha resa la mia povera morale affatto inutile.Eccovi appagati anche sul titolo de' miei volumi.Se voi credete utili le replicate edizioni della Narrazione apologetica del Gratarol e il tenerla viva sotto gli occhi dell'universo, non (sdegnate che le Memorie inutili della mia vita possano presentarsi a stampa almeno sotto al mezzo guardo di qualche monocolo.Viziato io a scrivere i miei pensieri con uno stile piano, naturale e semplice,

perdonerete se in questo mio ragionamento che indirizzo a voi, non trovate né energia, né energico, né energumeno, avendo sempre proccurato di difendere la mia fantasia dall'andar soggetta a' volvoli, alle coliche ed a' premiti.

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Nell'ultimo mio paragrafo un fraterno debito di coscienza mi obbliga ad avvertirvi che le mal fondate prevenzioni, le sposate parzialità, le esagerazioni, i ciechi trasporti, le private passioni, le invettive, le declamazioni iraconde, lo spirito di vendetta, le indistinte e non cribrate condanne, l'entusiasmo ed il fanatismo, sono velenosi tarli, rodenti le radici e i germogli di quella sospirata democrazia, che noi bramiamo ardentemente abbarbicata, consolidata e vegetabile".Salute e fratellanza.

CAPITOLO I.Mire belliche poetiche sopra la comica milizia da me scelta all'assalto teatrale de' due nominati poeti Goldoni e Chiari. Fiaba seconda di questo nome, intitolata Il corvo. Terza di questo nome, intitolata Il re cervo. Quarta di questo nome, intitolata La Turandotte. Quinta di questo nome, intitolata I pitocchi fortunati.Nel lungo corso delle osservazioni da me fatte sopra a tutti i cetti della umanità - umanità divisa dal caso e dalla violenza per modo da non poter usare legittimamente il termine evangelico di "prossimo" con essa sino al giorno del giudizio universale - non aveva ancora potuto studiare la scenica popolazione, e desiderava d'essere anotomista anche sopra a cotesto genere di mortali.Per dar l'assalto a' sopra accennati due poeti nel teatro e per fare una diversi

one di popolo, aveva scelta per mia squadra la compagnia comica del Sacchi, rinomato Truffaldino.Quella compagnia, formata nella maggior parte di stretti parenti, correva nellacomune opinione per la più morigerata ed onesta di tutte le altre. Sosteneva con somma bravura la commedia antica dell'arte italiana alla sprovveduta; genere checon della inumanità, sotto alla maschera d'un zelo per la coltura e che non era piùche un zelante interesse venale, i signori Goldoni e Chiari s'erano proposti divoler abolire colle loro innovazioni, da me scherzevolmente combattute nella imperfezione, senza offesa alcuna alle opere teatrali comiche e tragiche rispettabili.Antonio Sacchi, Agostino Fiorilli, Atanagio Zannoni, Cesare Derbes erano le quattro maschere: Truffaldino, Tartaglia, Brighella e Pantalone; tutti attori eccellenti nella lor professione. La perizia nell'arte, la prontezza, la grazia, la fe

rtilità, i lazzi, i sali, le arguzie, la naturalezza e molta filosofia erano le loro doti. La servetta Andriana Sacchi Zannoni, vivacissima, aveva la medesima qualità. Tutto il resto della compagnia, nel tempo ch'io presi a soccorrerla ed a prendere prattica con quella, era di vecchi e di vecchie, di figure infelici abili, di personaggi agghiacciati, di ragazzi e ragazze inesperti. Ne' tempi anteriori, la società di queste genti era stata fortunatissima e favorita in Italia.I due nominati poeti ch'erano prima, possiamo dire, sozi di quella, s'erano ribellati e colle loro novità l'avevano perseguitata e danneggiata. Era ella passata alla regia corte di Portogallo, dove faceva molto bene gli affari suoi; ma trovò ivi un nimico più formidabile assai di due poeti. L'orribile tremuoto di Lisbona troncò i divertimenti di quella metropoli, e troncò le utilità di queste povere genti, che doverono partire dal Portogallo. Ritornate a Venezia dopo forse quattr'anni di lontananza, si accamparono nel teatro detto di San Samuele.Oltre a che avevano prima abbandonata l'Italia con dispiacere delle infinite anime allegre, le quali si annoiavano a' Filosofi inglesi, alle Pamelle, alle Pastorelle fedeli, a' Plauti, a' Molieri, a' Terenzi, a' Torquati Tassi, alla monotonia sonnifera de' versi martelliani; per consuetudine tra noi, divien nuovo ciò che piacque e che da qualche anno non s'è veduto.Le quattro maschere, la servetta e qualche altro personaggio, meritevoli nel genere all'improvviso più che non erano i poeti pensatori e bilanciatori nell'opere scritte, rubarono per il primo anno il concorso alle riforme; ma poco a poco le doviziose novità prodotte nel teatro da' due fertili scrittori, i quali trattavanoqueste brave persone da mimi spregevoli, da scipiti buffoni, con indicibile scipitezza, e da nimici della coltura, con una impostura letteraria conosciuta da pochi per tale, trionfarono e le ridussero quasi ad un totale abbandono.

Ho creduto di avere più fiorito argomento di ridere togliendo ad essere colonnello alla compagnia del Sacchi, scegliendola per milizia, e di fare una gioviale capricciosa vendetta alla nostra granellesca comitiva grossolanamente villaneggiata

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, se co' miei generi allegorici bizzarri, di fondo puerile, donati al Sacchi, potessi vincere una costante affollata diversione di concorso al di lui teatro. La fiaba dell'Amore alle tre melarancie aveva incominciato un così bell'effetto.La collera che risvegliò quell'arditissima produzione ne' due poeti e ne' loro partigiani, colla rivolta che ha cagionata, colle parodie e con gli arcani allegorici che conteneva, interpretati da' gazzettieri con degli elogi e delle scoperted'intenzione insino a me medesimo ignote, fu grande. Le schiere nimiche si ingeg

navano a deridere la mia fiaba con de' freddi scherzi, ostentando della nausea letteraria e un zelante disprezzo. Adducevano che tale scenica azione non era che una triviale buffoneria da plebaglia, dimenticandosi che il cetto nobile ed educato l'aveva intesa, gustata e goduta; gridavano che la cagione del gran concorso ch'ella aveva, derivava dall'essere appoggiata al formidabile ridicolo di quelle quattro valenti maschere ch'essi volevano estinte, e dal maraviglioso di alcune trasformazioni, non conoscendo o lasciando da un lato il vero spirito di quel comico abbozzo.Ridendo io delle loro vane diseminazioni, proposi pubblicamente che la forza dell'apparecchio, i gradi della condotta, l'arte rettorica e l'armoniosa eloquenzapotevano ridurre un puerile falso argomento, trattato in aspetto serio, all'illusione d'una verità, e fermare l'umano genere, tratti dalla universalità forse trenta

 avversi miei i quali, anche a proposizione provata, averebbero condannati cento e più mila uomini d'ignoranza e si sarebbero fatti eunuchi rinunziando d'esser uomini, piuttosto che confessare il vero in questo proposito. Nuove beffe alla mia proposizione e nuovo cimento per me nel provarla con evidenza sulla popolazione.La fiaba del Corvo, da me tratta dal Cunto de li cunte, trattenemiento pe li piccerille, libro napolitano, ridotta a terribile tragedia, non senza qualche tratto faceto delle mie quattro maschere benemerite, che voleva sostenere in sul teatro a benefizio degl'ipocondriaci, ad onta delle minacce aristoteliche mal conosciute e usate illegittamente, fece questo miracolo.Il pubblico pianse e rise a modo mio, e corse in folla ad infinite repliche di questa fola, come s'ella fosse stata una verità, con un danno indicibile a' due poeti e con de' plausi seri de' gazzettieri alla condotta di quella, alla morale, a

l senso allegorico, e fu da essi giudicata un vero esempio d'amor fraterno.Tutte le opinioni favorevoli nelle materie teatrali, che godono della irruzionedi spettatori, hanno tra noi il vantaggio del seimila per uno.Volli battere il ferro mentr'era rovente, e la mia terza fiaba intitolata Il recervo, ribadi la mia proposizione con delle enormi replicate calche acclamatrici. Furono trovate in essa mille bellezze ch'io, che la scrissi, non aveva vedute, e fu giudicata uno specchio morale allegorico per i monarchi i quali, per troppo cieca credenza ed amicizia per qualche ministro, sono da quello trasformati in figure abborribili.E perché i miei ostinati pochi avversari sostenevano a gola gonfia ancora che il grand'effetto delle mie tre prime fiabe avveniva dalla decorazione e dal maraviglioso delle magiche trasformazioni, e niente concedevano all'apparecchio, a' gradi dell'artifiziosa condotta, alla rettorica, alla malfa della verseggiata eloquenza, a' squarci di seria morale e alla chiara critica allegoria che contenevano, con altre due fiabe, La Turandotte e I pitocchi fortunati, spoglieaffatto di magiche maraviglie, ma non di gradi d'apparecchio, di morale, d'allegoria e di forte passione, e ch'ebbero il concorso e la sorte medesima delle prime benché di base falsissima, ho provata interamente la mia proposizione, senza peròdisarmare i contrari miei.A' tentativi scenici de' due poeti, che incominciavano a divenir languidi, opponeva una delle mie bizzarrie poetiche, sempre di falsa base, ma fornita delle sopraddette qualità e pienissima d'ingredienti ch'erano assolutamente cose e non parole, la qual involava la ricolta a' teatri sostenuti dalla creduta coltura e moltiplicava la mèsse del Sacchi.Aveva scelta per mia ricreazione nell'ore d'ozio quella famiglia comica (ricreaz

ione saporitissima), e in un breve giro di tempo studiai e penetrai filosoficamente tanto bene gli spiriti e i caratteri de' miei soldati che tutte le parti dame scritte ne' miei capricci poetici teatrali, composte con la mira all'anima de

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' miei personaggi e a quelli addossate, erano esposte sul teatro per modo che sembrava che uscissero da' loro propri cuori naturalmente, e perciò piacevano doppiamente. Questa facoltà o non è posseduta o non è esercitata da tutti gl'ingegni che scrivono per i teatri, ed è un'industria necessaria da usarsi nelle compagnie comiche dell'Italia, perché la tenuissima contribuzione che danno per un'usanza invecchiata gli spettatori, non dà modo a' nostri comici di estendersi a un vasto numero di attori e di attrici stipendiati, da poter scegliere e da poter addossare con ad

eguato equilibrio di proporzione tutti i vari caratteri che si danno in natura.Da un tale mio studio e da questa mia penetrazione, imitazione ed abilità (studioch'io non disgiungo dallo studio ch'io feci sull'indole e sul genio de' miei ascoltatori) avvenne molta parte di quel vantaggio all'opere mie teatrali che non è conosciuto dalla incapacità de' miei pochi censori, e che le sostenne per tanti anni con quella fortuna che nessuno potrà negare.Il solo Goldoni seppe usare lo studio medesimo sopra a' personaggi da lui serviti de' suoi generi premeditati; ma io sfido il Goldoni e tutti gli scrittori de'nostri teatri a comporre le parti differenti nel loro carattere, con tutti i sali, tutte le arguzie, le facezie, la satira morale e tutti i ragionamenti in dialogo e in soliloquio connaturali a' miei Truffaldini, a' miei Tartaglia, a' mieiBrighella, a' miei Pantaloni, alle mie servette, come feci io, senza cadere nel

languore, nella freddezza, e con lo stesso avvenimento d'acclamazione ch'ebberoi tratti miei.Coloro che si provarono a dar favella a quegli attori pieni d'arte, d'acume e d'una grazia confessata e applaudita dall'universale, non fecero altro che snaturarli, e non fecero altro effetto che quello di far torcere i nasi colle scipitezze, di far correre il gelo pelle pelle colle freddure, di attirarsi le fischiateal terzo delle loro rappresentazioni, alle quali essi soli ridevano allegri, con la ferma credenza d'aver esposto al pubblico un monte di sali e d'argute facezie. Forse da questa loro sciagura avviene che infingendosi, per men peggiore partito, gravi e seri comicamente, trattano cotesti nostri portenti di soccorrevolegiovialità da buffoni spreggiabili, trattano l'Italia tutta da ubbriaca e da grossolana, trattano me da poeta sostenitore delle mimiche inizie e trattano i miei generi teatrali da sfasciate commedie dell'arte italiana alla sprovveduta, con un

a goffa ingiustizia ed una falsità stomachevole, smentita dal fatto. Non v'è chi non sappia che le maschere italiane, da me volute sostenere per artifizio e per una lecita ricreazione di quel pubblico che le amava meritamente, in parecchie e non in tutte le mie sceniche produzioni, hanno in quelle la più picciola parte, e che il fondo di soda morale e di robusta passione, appoggiato agli attori seri, fu la vera causa della loro resistenza.Siccome la catena de' miei generi teatrali fu lunga più per una spezie di necessitàche per un mio genio, averò occasione in séguito di favellarne. Può star certo il miolettore ch'io non lo annoierò né con le analisi di questi generi né con le apologie di questi generi. Averò occasione soltanto di farlo ridere di que' pochi catelini stizziti che fecero ridere me, abbaiando a cotesti generi e abbaiando al pubblicoper la sola ragione che piacquero questi generi.I miei comici protetti mi guardavano come il loro genio tutelare. Facevano delle esclamazioni di giubilo quando mi vedevano. Confessavano a tutto il mondo ch'io era la stella propizia del loro risorgimento. Protestavano un obbligo non ricompensabile e un'eterna gratitudine.CAPITOLO II.Comici e comiche dell'Italia in generale, riguardo alla professione e riguardo al carattere ed al costume. Capitolo da filosofo osservatore.Fra tutti i mortali i più difficili da conoscere nell'animo da un filosofo osservatore, per quanto egli abbia la mente penetrativa, sono certamente i comici e lecomiche. Una scola di finzione che hanno sino da piccolini, li ammaestra per modo alla falsità, a dipingere per modo la menzogna per la ingenuità, ch'è necessaria una grande acutezza per rinvenire il vero ne' cuori loro. I viaggi, le pratiche, gli eventi, la esperienza, gli esempi, i duelli continui dello spirito e dell'inte

lletto risvegliano i cervelli e raffinano i sistemi comici mascolini e femminini.Riservo una pittura particolare della compagnia del Sacchi, che ho soccorsa per

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quasi venticinque anni de' miei generi scenici e colla mia amicizia, spoglia d'ogni idea d'interesse; e fo ora una generale pittura all'ingrosso del nostro cetto comico italiano, ch'io credo poco o nulla diverso, riguardo a' morali sistemi, da quello di tutte le altre nazioni.È da credere a chius'occhi assolutamente che l'idolo principale da' comici adorato non sia che un interesse venale. Tutte le civiltà, le espressioni d'obbligo, di elogi, d'umanità, di sofferenza, di cristianità, di pietà, d'accoglimento cortese non s

ono tra' comici che un sistema fisso di finzioni credute necessarie a coltivarel'ara dell'idolo del loro interesse venale. Se quest'idolo viene ferito anche giustamente e ragionevolmente, non v'è più in essi ombra di tutte le belle forme sopra accennate. Una semplice lusinga di venalità vicina fa loro non curare e sacrificare ciecamente le persone benefiche e la riputazione di tutto il mondo, senza riguardo alcuno e senzariflesso a que' danni che loro possono avvenire in progresso, non veduti per accecamento d'avidità o creduti lontani o che sperano di poter evitare co' loro raggiri. Il tempo presente è il solo tempo da' comici contemplato.Gli accesi e collerici si scoprono più facilmente. Le teste fredde sono più difficili da scoprirsi. Il sistema di corbellare de' comici non si estende solo alle persone fuori dell'arte, che credono utili alla lor mèsse, ma è sempre operoso per corb

ellare i medesimi confratelli dell'arte. Trovano però maggior stento a dar scaccomatto a' periti del mestiere. Se arrivano a rendersi necessari alla loro società nella professione, non v'è indiscretezza, non v'è pretesa, non v'è ingiustizia, non v'è sopraffazione, non v'è tirannia che non si credano lecitamente in possesso di poter usare.Questi sistemi, che colla scienza del secolo si sono dilatati anche in molte persone non comiche, si distinguono però con qualche differenza sulla scenica popolazione. I non comici, scoperti nella magagna, si avviliscono e si vergognano alquanto. I comici smascherati, allorché non possono più celarsi co' loro sforzi di raggiri vorticosi e instancabili, sono tanto spregiudicati e franchi che ridono in faccia allo scopritore con una indicibile sfrontatezza, quasi dicendo: Siete ben sciocco se vi lusingate d'aver fatta una gran scoperta.Nella generalità de' nostri comici e delle nostre comiche, che ho conosciuta, prat

icata e studiata, può essermi sfuggita dagli occhi qualche fenice maschio o femmina.Intorno all'esercitare l'arte loro, tutta la scola e l'educazione che hanno è il saper leggere e scrivere, chi più e chi meno scorrettamente. Ne ho conosciuti di quelli e di quelle che non avevano nemmeno questa facoltà, e tuttavia facevano i comici e le comiche con somma franchezza. Si facevano leggere la parte, che loro era consegnata, da qualche amico o da qualche congiunto tante volte quante bastavano a imprimere di quella un abbozzo nella loro memoria. L'orecchia attenta al suggeritore bastava a far rappresentare un eroe o un'eroina senza alcuna verità, ricchi di controsensi, di tardanze, di retrocessioni, e più ignoranti del comico e della comica che li rappresentava.L'audacia è il principale attributo e la maggior educazione de' nostri comici e delle nostre comiche, e il solo esercizio ne riduce alcuni ed alcune di passabilie presso che valenti. È per ciò che arde sempre una guerra civile nelle nostre compagnie comiche per espugnare le parti di maggior forza delle rappresentazioni novelle. Queste guerre però non nascono dal zelo di esercitarsi, ma dall'ambizione e dalla speranza di guadagnarsi la pubblica grazia, per il merito d'una parte che rappresentano e col farsi vedere spesso ad agire a diritto ed a torto con una cieca temerità.Con tutte queste sciagure, se i nostri teatri avessero della maggior protezionee della maggior utilità, averessimo ancora, del pari a tutte le altre nazioni, de' comici e delle comiche eccellenti. Non abbiamo scarsezza di persone di bella presenza, d'ingegno, animate e sensibili; abbiamo scarsezza di educazione che limi, di soda protezione e d'utilità che incoraggisca, e abbiamo una ricchezza esorbitante di abbandono e di noncuranza, che basta a far languire i nostri teatri ed a

 fissare loro il disprezzo.Ho notato che i migliori de' nostri comici e delle nostre comiche sono quelli equelle che hanno qualche maggior educazione; ma ho anche notato che, per vivere

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colle loro famiglie e per sostenersi nella necessaria coltura teatrale di appariscenza, i stipendi dell'arte non bastarono, e che portarono il peso de' credulimercanti e de' sciocchi amanti; da che deriva gran parte del discredito e delladeiezione di questo mestiere.Mi fecero sempre ridere coloro che, giudicando inutile al buon effetto la morale rispettabile predicata da' pergami, divisavano di far imprimere la sana moralene' popoli colle rappresentazioni sceniche. Gian Iacopo Russò, sostenendo che il d

etto "fa' quel che dico, e non far quello ch'io fo" niente vale senza il buon esempio di costume di chi espone la predica, disse una delle più belle verità che si sieno dette; e tralascio di riflettere sopra la morale al rovescio che si va introducendo per dritta morale nelle nuove sceniche rappresentazioni, dette colte sulla lingua de' comici predicatori.CAPITOLO III.Pittura della compagnia comica del Sacchi da me soccorsa. Seguo ad essere osservatore.Ho data l'idea che ho concepita de' nostri comici e delle nostre comiche in generale; darò ora la pittura particolare della comica compagnia del Sacchi, sopra laquale per il corso di quasi venticinqu'anni della mia volontaria amichevole assistenza ho potuto con agio fare una diligente anotomica e filosofica osservazione

. Io che aveva potuto leggere nelle viscere di quelle mie creature e aveva potuto fornirle di sentimenti, di dialoghi, di soliloqui immedesimati co' loro spiriti e i loro caratteri, non poteva con la stessa abilità e rapidità penetrare anche nel loro sistema morale, chiuso da più forti muraglie che non erano i loro caratteri, i loro spiriti, i loro scorci e le loro strutture.Non v'ha dubbio che per lo meno sette personaggi di quella società erano eccellenti sostenitori della commedia italiana alla sprovveduta, genere che ben eseguitofu sempre una verace pubblica innocente ricreazione, e mal eseguito non ha niente di più infelice e di più insofferibile. In ciò solo convengo co' sciocchi persecutori di quel genere, piccioli geni che con la loro ostentata serietà sono più ridicolie più inutili de' cattivi Arlecchini.La compagnia del Sacchi aveva un credito universale quanto a' costumi famigliari, differentissimo da quello che in generale hanno quasi tutte le nostre comiche

compagnie, per le quali gl'innumerabili non filosofi sono molto mal prevenuti. Oltre alla proporzione che aveva questa società colle mie idee bizzarre morali allegoriche ed oltre alla sua comica bravura, il buon odore di onestà che godeva nelle opinioni mi persuase più d'ogn'altra cosa ad avvicinarmi, e posso dire ad affratellarmi filosoficamente con essa.La unione, la buona armonia, le occupazioni domestiche, lo studio, la subordinazione, il rigore, la proibizione alle femmine di ricever visite, l'abborrimento che queste dimostravano di accettar doni da' seduttori, l'ore regolarmente divise ne' lavori casalinghi, nelle preci, e l'opere di pietà co' miserabili ch'io vidinel mio comico drappelletto, mi piacquero. In questo, se qualche attrice o qualche attore de' stipendiati uscivano alquanto dalla massima stabilita di morigeratezza, erano tosto scacciati, ed erano sostituite persone dopo un processo d'informazioni prese più sulla regolarità del costume che sulla scenica loro abilità.Quantunque io sia spregiudicato e spoglio da certi riguardi, e non abbia scansato ne' miei studi sulla umanità giammai di ritrovarmi di passaggio senza ribrezzo alcuno con tutti i generi di mortali, è però cosa certa che senza la ottima fama de'miei protetti, non mi sarei intrinsecato e familiarizzato, né averei scelta la mia giornaliera conversazione con questi nell'ore d'ozio, conversazione che fu allegra e costante per più di vent'anni.Fui non solo autore d'una lunga serie di nuovi generi teatrali omogenei ed utilissimi a' miei protetti, ma rinovellatore di quasi tutti i squarci ch'entrano nelle loro commedie alla sprovveduta, ch'erano prima d'ampollosi secentismi e ch'essi chiamano "dote" della commedia. Non so dire qual numero di prologhi, qual numero di "addio" in versi, da recitarsi al pubblico le prime e le ultime sere delcorso delle rappresentazioni loro, abbia scritti per le prime attrici pro tempor

e; quante canzonette da innestare e cantare nelle lor farse, né quante migliaia di fogli abbia empiuti di soliloqui, di disperazioni, di minacce, di rimproveri, di preghiere, di correzioni paterne e d'altri discorsi ch'entrano a proposito nel

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le scene delle commedie improvvisate e che i comici chiamano generici, necessari agli attori ed alle attrici non pratici di quell'arte per riscuotere degli applausi.Fui compare alle cresime, a' battesimi, e fui autore, consigliere, maestro, mediatore di quella compagnia; e tutto ciò senza erigermi da pedante e da pretendente, ma sempre pregato, e con una disinteressata, condiscendente, umana e scherzevole forma.

Alcune ragazze di quella comica famiglia, nessuna delle quali era brutta e nessuna senza qualche buona disposizione al mestiere, mi pregavano di soccorsi e di qualche scuola, né ricusai di farle esporre scenicamente al pubblico con delle parti adattate a' loro caratteri, da me composte e da me insegnate loro, con un mirabile effetto in loro vantaggio. Discesi, pregato, nell'ore dell'ozio mio, a farloro delle reciproche scuole. Le faceva leggere e tradurre dal francese de' libri proporzionati all'arte loro. Scriveva loro delle lettere inventate sopra a vari argomenti famigliari, i quali argomenti potessero ammaestrarle e costringerlea riflettere e a sviluppare i lor sentimenti, obbligandole a formare, comunque uscissero, le risposte. Correggeva i loro errori, ch'erano spesso di que' maiuscoli e inaspettati, ridendo. Ciò serviva a me d'un gioviale divertimento e a quelledi qualche coltura.

Nell'allontanarsi che facevano da Venezia pe' consueti sei mesi, non v' era pericolo ch'io non ricevessi delle lettere scritte a gara, e anche amorose, ogni ordinario, da Milano, da Torino, da Genova, da Parma, da Mantova, da Bologna e da tutte le città dov'erano a recitare; né mancava delle mie risposte scherzevoli, affettuose, minaccevoli, derisorie, e con tutti que' modi ch'io credeva utili a tenerle risvegliate, giudicando una corrispondenza di lettere vivace e di sentimentiil più adeguato e il più profittevole esercizio per una comica.S'inganna chi crede di poter praticare con delle comiche senza far all'amore. Convien farlo o fingere di farlo. Questa è la via di ridurle al lor bene. Esse sonoimpastate d'amore. Amore comincia ad essere la lor guida principale da' loro cinque o sei anni d'età; e da questa parte conobbi ben tosto che l'austerità della compagnia del Sacchi era infruttuosa, come aveva veduta inutile sopra a tal punto anche la rigidezza delle private famiglie. Con le comiche il termine d'amicizia è fa

voloso; sostituiscono a quella l'amore e non ascoltano distinzioni. L'idea che hanno dell'amicizia non serve loro che a corbellarsi tra femmine con una tempesta d'espressioni e di baci giudaici. Devo tuttavia protestare che le comiche discendenti da quella compagnia facevano all'amore con precauzione e senza sfacciataggini. La massima di rigidezza cagionava per lo meno questo buon frutto, e la massima di onoratezza cagionava una differenza notabile da' sistemi che hanno negli amori molte altre femmine della comica professione.Parecchie comiche delle altre compagnie insidiano per sistema fisso i loro amanti e gli spogliano dolcemente delle loro sostanze al possibile. Per dar di piglio alle chiome di quella ch'esse chiamano fortuna e ch'io chiamo infamia, non si curano che la via da loro intrapresa sia pulita o fangosa. Adorano la scelleraggine e disprezzano la onestà e la discrezione, se per la prima sperano di poter accrescere il loro stato o appagare la loro ingordigia. Quantunque cerchino colle parole di coprire la lor turpitudine col velo della decenza e della onestà possibilmente, calpestano intrinsecamente il rossore e cantano quel verso: Colla vergogna io già mi sono avvezza.Le attrici della compagnia del Sacchi erano alienissime dal sentimento della turpe venalità infamatoria. Convien far loro questa giustizia.Corrono due termini in gergo nel linguaggio furbesco dei nostri comici: l'uno è il "miccheggiare", vale a dire "porre in necessità di donare con le circuizioni artifiziose"; l'altro è "gonzo", termine col quale vien chiamato il sciocco amante che si lusinga d'essere amato, e che indebolito fa il liberale mettendo in rovina il proprio sostentamento. La virtù perniziosa di questi due termini assassini non era posta a fruttò dalle femmine della compagnia del Sacchi. Esse facevano all' amore per istinto, per inclinazione e per l'esempio che avevano avuto di erede in e

rede.Cercavano co' loro amori de' partiti che le applaudissero nell'arte e qualche amante non comico e agiato, che facendosele mogli le traesse da un mestiere che tu

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tte le femmine teatrali giurarono sempre di abborrire, senza ch'io credessi a' loro giuramenti.Alla mia vista (riguardo a me) gli amori di quelle ragazze non erano che duellidi spirito e de' tratti comici che mi spassavano. Tutte parenti e tutte gelose dell'avanzamento nell'arte comica, mi guardavano come un pianeta adorato da' principali della compagnia e capace di porle in trionfo colle mie sceniche invenzioni. La gara che avevano tra esse per vincersi nella bravura e ne' pubblici applau

si, e della quale io mi valeva per vantaggio di loro medesime, della compagnia da me soccorsa e dell'opere mie, le faceva dicervellare per guadagnarsi il mio cuore. Avevano forse qualche altra mira suggerita da Imeneo, della quale fui sempre attento con delle chiarissime dichiarazioni a spogliarle.La loro attenzione, le loro proteste, le loro collere, le loro gelosie per me, e talora i lor pianti avevano tutta la scenica illusione di svisceratezza. In tutte le città dove passavano la primavera e la state rappresentavano questa scena medesima con parecchi amanti. Alla loro venuta in Venezia, un carteggio di lettere che tenevano con gli amanti che avevano dovuto abbandonare, carteggio che proccuravano indarno di celare, palesava la loro comica incostanza. Le mie gioviali cancelleresche interrogazioni acute, i miei costituti suggestivi, e infine le loro confessioni mi chiarivano e mi facevano ridere saporitamente. Protestavano che

 le lettere che avevano ricevute e alle quali rispondevano, erano di giovani mercanti o di ricchi cittadini, e talora di cavalieri torinesi, milanesi, parmigiani, modenesi, genovesi, ecc., i quali avevano una viva onorata intenzione di sposarle, ma che quelli attendevano la morte, chi d'un zio, chi d'un padre, chi d'una madre, chi d'una moglie, tutti presso che agonizzanti d'apoplessia, d'etisia,d'idropisia.Finalmente, per farmi conoscere il cuor loro sincero, ché la bugia non poteva più soccorrere, mi facevano leggere le lettere che avevano ricevute e che ricevevano dagli esteri amanti. Forse speravano di destare in me della gelosia. Nuova sorgente di divertimento per me. Leggeva le lettere amatorie a loro dirette. Trovava i loro amanti o Calloandri o romanzieri o libertini e, con mio stupore, de' lombardi ipocriti beccarellisti.Le illuminava al possibile. Le consigliava a non perdersi in quelle pericolose f

rascherie che le sviavano dallo studio maturo della lor professione, e ad attendere de' giovani comici abili per stabilire con quelli de' nodi coniugali che popolassero la colonia comica. Mostravano tutto il ribrezzo al mestiere, come fanno tutte le femmine sceniche, che sono sceniche anche in questo ribrezzo. Per farloro conoscere la cecità in cui vivevano, dettava loro le lettere di risposta pergli amanti, astringendoli affettuosamente a dichiararsi nell'essenziale. Giugnevano delle risposte fredde, e passavano pochi ordinari che non si vedevano più risposte. Per tal via si chiarivano del loro errore, senza lasciare di ripigliarlo.I loro affetti per me, al dir loro, erano i più solidi, e le mie risa incredule le offendevano. Si opprimevano e malignavano reciprocamente sulla professione, siquerelavano e si accusavano al mio tribunale, dove trovavano d'aver il torto tutte, ma le più oppresse erano da me le più protette tuttavia.Alcune parti da me scritte sul loro carattere nelle opere sceniche ch'io donava, le innalzava alle stelle. Quanti obblighi! quanta riconoscenza! quanti amori! Non so negare che in alcuni momenti non dovessero lusingarsi della mia tenerezza. Il giorno dietro mi trovavano totalmente diverso, indifferente, freddissimo. L'amor proprio le faceva dar nelle furie ed accendersi più quanto mi vedevano ridere delle lor smanie.È però molto difficile il frequentare la conversazione con delle comiche ragazze, le quali hanno nell'anima sei libri d'arte amandi oltre a quello di Ovidio, l'essere loro quotidiano assistente, consigliere, maestro e cagione della loro comicasorte, e il non cadere in una bassezza coniugale che faccia decidere il mondo sopra a qualche nostra solenne follia. Uso i termini di bassezza e di follia in questo proposito, per adattarmi al linguaggio dell'universale, tuttoché sappia io benissimo, per le mie contemplazioni e le mie osservazioni filosofiche sulle corre

nti educazioni delle fanciulle, ch'è più facile il trovare una buona moglie in sui teatri che nelle private famiglie. L'universale non è filosofo abbastanza per scorgere e per confessare questa verità, ma l'universale è sempre rispettabile. Il mio te

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mperamento, il mio abborrire tutti i legami, le mie erudizioni, le mie commiserazioni sullo studio della mia spezie e i miei trentacinque anni che aveva in que' tempi, furono i miei consiglieri fedeli. Ho promesso di dare un capitolo de' miei amori, e lo darò.Nel mezzo a queste gare gioviali, muliebri e comiche, è impossibile un'eguaglianza equilibrata dì protezione. La ragazza più perseguitata e considerata la più inetta nell'arte comica sarà certamente stata da me la più sostenuta e innalzata, senza curar

e qualche nimica ciarla destata dalla invidia.Vidi tutte quelle giovani maritarsi per la via degli applausi, dote da me loro proccurata. Alcune si maritarono nel mestiere e alcune fuori da quello. Senza privare le maritate nell'arte comica de' miei soccorsi, dal punto de' loro imenei,mi sono allontanato dal dare la menoma ombra di disturbo a' loro matrimoni con un'assenza tanto costante che le fece stupire, conoscermi nelle vere mie massimefuori da' scherzi, e seppero fingere del dispiacere notabile del mio allontanamento.Quanto agli uomini principali di quella comica repubblica, erano attentissimi perch'io non ricevessi disgusti. Mi pregavano soprattutto a non dar retta a qualche imprudenza che, per leggerezza, per gelosia di mestiere, per puntigli, per pretensioni di preminenze sulle parti delle mie nuove opere teatrali, potesse uscir

e dalle teste fumanti delle lor femmine. Rispondeva loro che, sino a tanto che la lor compagnia si sostenesse nella buona fama in cui era, e sino che le leggerezze, i contrasti e le ciarle fossero state tra le femmine, non mi sarei degnatodi abbassarmi a' disgusti, né di abbandonare la loro società de' miei soccorsi e della mia famigliarità; ma che se mai gli uomini fossero caduti ne' difetti medesimidelle femmine e nelle dissensioni, averei pensato diversamente.Era per me un conforto il passar l'ore degli ozi miei con quelle persone risvegliate, facete, civili ed allegre; ed era per me una quiete di spirito il vedere gli uomini di quel comico congresso assediati e voluti commensali da' cavalieri e dagli onest'uomini, le femmine comiche dalle dame e dalle morigerate signore, a differenza di molte altre della professione; ed era per me una compiacenza il vederle ben piantate nella loro mèsse teatrale da me ravvivata e sostenuta da' miei capricci scenici, sempre di nuovo aspetto e sempre avventurati.

Alla satira che potrebbe fare il pregiudizio o la malignità sopra una tale mia lunga scelta di conversazione, risparmierei una controsatira filosofica sopra allesocietà che si dicono di onesto e spiritoso trattenimento ne' casini, nelle adunanze e ne' caffè. Per non rendermi odioso dipingendo delle verità, mi ristringo a pregare i miei giudici a riflettere e ad essere indulgenti sulla differenza de' geni.Ritornando a' miei comici protetti, dirò che la giudicata coltura che si pretese di introdurre in sui teatri, poco a poco corruppe i costumi di questa regolare erara famiglia comica, com'anche una certa predicata coltura voluta introdurre nelle famiglie private corruppe il costume di queste. Molti comici forestieri, provveduti a stipendio e ad accrescere la compagnia per sostenere delle parti serie, comiche e tragiche nell'opere teatrali, animarono la libertà di pensare e di operare. I sistemi di quella compagnia, i quali non erano forse che d' una finta onestà ostentata, si alterarono e si cambiarono. Non è ancora il tempo di far la pittura di questo cambiamento. Dovrò farlo a suo luogo, perché molte peripezie delle memorie della mia vita, nel trascorrere di circa venticinqu'anni, mi nacquero dallamia condiscendenza, dalla mia costanza e dal mio buon animo nel soccorrere quella comica società.Alcune malattie sono tanto connesse a' nostri istinti che non sono guaribili né dal tempo né dagli eventi né dalle riflessioni. La buona fede e la condiscendenza sono in me due infermità che degenerarono spesso in sciocchezza. In tutto il corso della mia vita ho flagellata la ipocrisia, come si può vedere ne' scritti miei e come sanno tutti quelli che m'hanno conosciuto e praticato. Non posso però negare chel'apparente onestà, morigeratezza e pietà, sostenute per tanto tempo da' comici da me protetti, non fosse comoda a' loro amici ed utilissima alle loro ricolte, e ch

e la libertà di pensare e d'operare, introdotta tra essi dalla scienza del corrente secolo e dalla chiamata coltura, non gli abbia ridotti fabbricatori della torre di Babilonia. Gli ho veduti passare dagli agi alla povertà; non conoscersi più per

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 parenti né per amici, tutti disgiunti, tutti l'uno dell'altro sospettosi, tutti nimici irreconciliabili ad onta di molti miei tentativi amichevoli, a tale che finalmente ho dovuto allontanarmi da quelli, come dirò nel progresso di queste Memorie.CAPITOLO IV.Fine dell'andazzo goldoniano e chiarista. Non tralascio di spassare i mìei concittadini nel teatro. Seguo a riflettere, forse prendendo de' granchi.

Correva l'anno 1766, in cui il mio comico drappello, soccorso dalle sceniche mie bizzarre rappresentazioni, si era piantato nel teatro con tante batterie invincibili e in una dovizia di concorrenti tanto parziale e determinata che le altrecomiche compagnie, sostenitrici de' generi predicati colti e, al parer mio, più incolti delle mie fiabe, traevano poco frutto dal picciolo numero de' loro ammiratori o commiseratori. Le opere del Chiari erano divenute, fuori da ogni abbaglio, agli orecchi di tutti, quelle ch'erano essenzialmente insino dalla nascita loro. Quelle del Goldoni, non mai però senza qualche merito dalla giustizia dell'animo mio considerato, non facevano più l'effetto anteriore sull'universale. Il pubblico trovava in esse della somiglianza con le da lui prima esposte. Si scorgeva inesse della miseria di idee, della languidezza, de' difetti. Dicevasi ch'egli aveva vuoto e scosso il sacco.

La verità è che l'andazzo chiarista e goldoniano, per il vizio di leggerezza degli umani cervelli, doveva avere il fine di tutti gli andazzi; e la verità è che nell'Italia un poeta teatrale, per quanto favore egli abbia avuto nell'animo e nella opinione del pubblico, non deve lusingarsi di perseverare con una lunga sussistenza sulle nostre scene più del Goldoni. Annoia il genere, annoia lo stile, annoia persino il suono del nome dell'autore prima gradito; e un genere di nuovo aspetto,non senza sali e non senza ripieno, ch'abbia la fortuna di piacere, cagiona unatal diversione che lo fa quasi dimenticare.La non estesa o poca o superficiale o malferma educazione non lascia concepire alla generalità del popolo italiano una stima solida per gli scrittori de' nostri climi, specialmente teatrali, che sono soltanto guardati come sorgenti noncurabili d'un passeggero divertimento. Venezia supera ogn'altra metropoli dell' Italiain questa maniera di pensare. Un veneto cittadino congratulandosi col Goldoni d'

una sua commedia che aveva avuto un incontro felice, quasi vergognandosi d'essersi abbassato ad esprimere degli elogi a quel proposito, aggiunse, e presto: Egli è vero che queste tali opere sono freddure che non meritano alcun riflesso, ma tuttavia concepisco ch'Ella deve aver avuta della compiacenza.Il Goldoni aveva ragionevolmente ridotti i meschini comici italiani al pagamento di trenta zecchini per ogni opera teatrale che loro consegnava, efficace o inefficace ch'ella fosse. I miei teatrali capricci erano da me donati. È da credere che i capricci donati, i quali involavano i concorrenti all'opere pagate, facessero insolentire i comici pagatori contro un uomo che per ogni riflesso doveva essere rispettato. Anche da ciò si conosca la squallidità dell'Italia in quest'argomento.Il Chiari terminò di scrivere per i teatri, perché l'opere sue avevano terminato difar effetto. Il Goldoni è passato a Parigi, a cercare quella fortuna di cui egli renderà conto nelle memorie della sua vita, e la comica compagnia del Sacchi rimase attorniata dal concorso e dalla dovizia.Parecchi cervelietti dicentisi sostenitori della coltura si sforzarono a imitare il Goldoni, ed ebbero quella sorte che dà un andazzo evaporato e che dà la picciolezza degl'ingegnetti snervati e pedanti.Divenne una necessità e una specie di legge di consuetudine dettata dalla mia amicizia il dare ogn'anno una o due rappresentazioni della mia penna arrischiata, per sostenere la fortuna di que' comici che avevano sostenute con abilità le mie poetiche fantasie. Anche i miei patrioti, che divertendosi s'erano compiaciuti di stabilire un andazzo di queste tali opere allegoriche sensate, meritavano la miariconoscenza e la mia retribuzione.Dopo l'ardita parodia d'abbozzo comico allegorico dell'Amore alle tre melarancie

, e dopo il Corvo, il Re cervo, la Turandotte, i Pitocchi fortunati, aveva donati al Sacchi la Donna serpente, la Zobeide, il Mostro turchino, con un sempre maggiormente strepitoso ottimo avvenimento, sino all'anno sopraddetto 1766.

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L'andazzo di quel genere desiderato e ubertoso, piantato nella sola compagnia del Sacchi e che danneggiava oltremodo le altre comiche compagnie, fece risolveredegli altri, chiamati poeti, a divenire imitatori (come suol avvenire negli andazzi teatrali) del mio genere, per soccorrere quelle compagnie. Essi affidarono alle immense decorazioni, alle trasformazioni e alle agghiacciate buffonerie. Non intesero né il senso allegorico, né la urbana satira sul costume, né la forza dell'apparecchio, né la condotta, né lo spirito, né l'arte, né il vigore intrinseco del genere

da me trattato. Dico: non intesero gl'ingredienti da me adoperati, per non dire: non ebbero la facoltà intellettuale di possederli né quella di saperli usare; e riscossero quel castigo nelle universali opinioni, che meritava il disprezzo da essi dimostrato a' miei generi e a quel pubblico che gli aveva applauditi.Un ammasso di maraviglie, d'assurdi, di scurrilità, di prolissità, di puerilità, di snervatezze, e nonnulla significante, non fa un'opera scenica degna di far nelle menti alcuna durevole impressione; e la pubblica dimenticanza de' generi imitatidai miei, e la poca resistenza in su' teatri degli altri vari generi, o romanzeschi o famigliari o promotori del pianto o promotori delle risa, detti colti e verisimili, spesso incoltissimi e inverisimilissimi, quasi sempre l'uno all'altrosomigliantissimi, che furono introdotti nel lungo corso di trent'anni tra noi; e il bene che fu scritto e stampato, e il male che fu scritto e stampato de' miei

 generi; e la durevole comparsa con frutto che fanno ancora sulle nostre scene e sopra quelle delle altre nazioni, tradotti, ad onta della loro vecchiezza; e la scipita critica che seguono a fare anche oggidì gli affamati inetti scrittori per dar movimento alla miseria de' lor fogliperiodici, e quella degl'invidiosi accaniti eterni seccatori de' diretani, lorocondiscepoli, e che s'intendono di educazione de' popoli appunto come i condiscepoli loro, dopo quasi trent'anni di sussistenza in sul teatro de' miei generi (critica appoggiata soltanto a' titoli fanciulleschi da' quali sono coperti i miei generi e gli argomenti ch'io presi per semplice pretesto e per semplice letterario puntiglio dalle balie e dalle nonne); tutto dice che i miei generi favolosi, poetici, allegorici sono una qualche cosa, senza ch'io risenta la menoma prosunzione per i miei generi né il menomo dispiacere per le interminabili censure derisorie in astratto che si fanno a' miei generi, essendo io umano abbastanza per co

mprendere che per gli affamati e per gli appassionati si deve sentire della commiserazione.Il Goldoni, ch'era a Parigi ad affaticarsi invano per fa' rifiorire il teatro italiano che esisteva allora in quella metropoli, sentendo il sussurro che facevano le mie favole nell'Italia, si è abbassato a spedire a Venezia una sua composizione favolosa, intitolata Il genio buono e il genio cattivo. Ella fu rappresentata nel teatro in S. Giovanni Grisostomo. ed ebbe la felicità di un numero grande direpliche. La cagione dell'incontro avventurato avvenne perch'ella conteneva dell'arte teatrale, de' caratteri piacevoli, della morale e de' tratti filosofici; e il buon avvenimento di quella non vorrà mai significare che il genere scenico favoloso allegorico sia spregevole.Siccome però nel genere de' cani, de' pesci, degli augelli, de' serpenti e va discorrendo, v'è una interminabile varietà e differenza di strutture, di colori, di mole e di nomi, che non tolgono loro la denominazione di cane, di pesce, d'augello,di serpente e va discorrendo, così nel genere scenico favoloso, tra Il genio buono e il genio cattivo del Goldoni e le mie Melarancie, il mio Corvo, il mio Cervo, la mia Turandotte, i miei Pitocchi fortunati, la mia Donna serpente, la mia Zobeide, il mio Mostro turchino, il mio Augel belverde, il mio Re de' geni, ecc., v'è la medesima differenza di colori, di struttura, di mole, d'edifizio, senza perdere la denominazione di generi favolosi.Al Goldoni, che s'è meritato della rinomanza per la via de' generi comici famigliari, non era concessa rinomanza per la via del genere favoloso poetico; né intesi mai la ragione per cui i miei ridicoli censori mi. opponessero il buon effetto, che fu anche puramente effimero, de' due Geni del Goldoni, colla lusinga di mortificare un orgoglio che non ebbi giammai.

Chi non vuole accertarsi non si accerti che il genere scenico favoloso, che interessi il pubblico e che resista in sui teatri, è il più difficile di tutti gli altri generi; e che se non contiene grandezza che imponga, arcano maestoso che incant

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i, novità d'aspetto che fermi, eloquenza che inebbri, sentimenti filosofici sentenziosi, sali urbani di critica allettatrice, dialoghi usciti dal cuore, e sopra tutto la gran malfa della seduzione che riduca ad un'illusione ingannevole di far comparire all'animo e alle menti de' spettatori verità l'impossibilità, non lascerà mai in quel teatro dove egli viene esposto né un'impressione che lo qualifichi, né quell'utile decoro che tien ferma la perseveranza d'un avviamento lucroso a' nostri poveri comici. Le mie favole non avranno nessuna delle sopraddette qualità, ma è c

osa certa che fecero un effetto come se le avessero.I miei censori rideranno di queste verità, ed io farò ridere il mio lettore sulla spezie de' miei censori, quando sarò al segno e verrà il tempo di farlo, come promisinel fine del capitolo primo di questa seconda parte delle Memorie ch'io pubblico per umiltà.CAPITOLO V.Ripiglio un litigio forense e scrivo favol, teatrali.[Nel 1766 i fratelli mi stimolarono a ripigliare il litigio contro il marchese Terzi, da me sospeso per le ragioni esposte nel capitolo XXXII della parte prima. Perché non si dicesse ch'io, perduto nell'assistenza de' comici, trascurava il bene de' miei fratelli, affrontai un nembo di fatiche e d'angustie con un coraggio da Orlando. Ottenuto dal signor Daniele Zanchi, difensore del mio avversario, d

i potere esaminare nella sua abitazione due grandissimi cassonacci di carta, netrassi quarantadue gran volumi di copie. Era una invernata nevosa, e il Zanchi mi faceva recare uno scaldino di bragie. Il marchese Terzi da una sola causa ne fece nascere una ventina per sommergermi. Perseverai con animo guerriero. Almorò eFrancesco m'aiutavano un poco nelle smisurate spese].A mio fratello Gasparo era bastato il prestare il nome e l'assenso per proseguirlo. E perché alcuni cavalieri aderenti del signor marchese avversario gli chiedevano con viso serio: - Che diavolo di molestia portate al marchese Terzi? - egli rispondeva stringendosi nelle spalle: - Io non so nulla. Sono macchine di mio fratello Carlo, d'indole litigioso e che crede di avere delle ragioni. - Non ho mai creduto che un tale suo contegno fosse una politica per salvarsi da una sua temuta odiosità e per rovesciarla sugli omeri miei. Quelli che mi riferivano le sue risposte non ebbero da me che risa, conoscendo il carattere di mio fratello, il q

uale, per fuggire tutti i contrasti e per farsi amare da tutti, s'era contentato di sofferire infinite angustie nella sua famiglia.Mi vedeva in esborso, nel giro di due anni di quel litigio, di diciassettemila lire. Scorgeva commessa ad un'orrida procella la mia sussistenza. Se non avessi avuto de' cordiali amici (il principale de' quali fu il nobile signor InnocenzioMassimo di cui ho parlato) che mi dessero animo e con la voce e con delle soccorrevoli graziose prestanze, e se non avessi avuto un animo forte, la direzione del signor marchese Terzi averebbe goduta una di quelle felicità che il cielo permette per uno di quegli arcani che a noi non è concesso di penetrare.Furono pesantissime le mie fatiche corporali e mentali nell'applicare al mio scrittoio, a quello de' miei avvocati, nello scrivere, nel ricopiare scritture e materie ributtatissime dal mio cuore, e nel correre alle ore determinate da' mieidifensori e nel fòro.Il mio avversario, fornitissimo di gran signori aderenti, mi predicava a tutte le società torbido, indiscreto, molesto, cavilioso ed ingiusto. Riceveva qualche rimprovero poco clemente, al quale mi contentava di rispondere con un sorriso significante. Poco uffizioso e poco ciarliere per natura, ho sempre risparmiata la fatica delle giustificazioni sulle da me conosciute inurbane e false disseminazioni ed accuse.Fui abbandonato improvvisamente dal più importante mio difensore, causidico signor Antonio Testa, che aveva sino a quel punto diretta la contestazione di quel piato affannoso. Egli era carico oltremodo di pesi forensi. La mia causa richiedeva molte ore di applicazione, ch'egli non poteva più concedermi. La impossibilità dalsuo canto e la convenienza dal canto mio cagionarono quell'abbandono. Gl'infiniti tratti di buona amicizia che aveva prima per un lungo corso d'anni ricevuti e

quelli che ricevei posteriormente tennero sempre fermo nell'animo mio il sentimento di cordialità e di riconoscenza verso di lui.Era io ridotto isolato e solo alla difesa, alle angustie, alle fatiche, a' dicer

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vellamenti, alla scherma, alle spese di quel fastidioso litigio. Tutti que' pesi dovevano cagionarmi una malattia. Non mancarono di cagionarmela, ed io non mancai di sofferirla pazientemente, senza perdere una dramma della mia costanza.Parrà forse, impossibile che il balsamo ch'io cercava alle mie ferite fosse, nelle poche ore disoccupate dall'esercizio affannoso di piatitore, l'inventare e il comporre de' generi poetici bizzarri teatrali. Recava meco de' fogli con delle ossature da me poste in apparecchio, ed entrando in una bottega da caffè sulla riva

degli Schiavoni, salendo ad una stanza in faccia a San Giorgio, mi faceva portare il caffè e un calamaio, e scriveva soliloqui e dialoghi.Nel corso di quella mia lite, che fu ardentissima e durò tre anni, uscirono dal mio cerebro disturbato e dalla mia penna l'Augel belverde, il Re de' geni, la Donna vedicativa, la Caduta di donna Elvira, il Pubblico secreto; opere che non dinotavano nessuna malenconia d'un cervello litigante, e che furono accettate con tanto fragore di applausi e con tanta utilità della compagnia del Sacchi, da me protetta ad onta delle burrasche che agitavano il mio cervello.[Il marchese Terzi m'ingannò col pretesto d'una convenzione, ch'io accettai con quella buona fede che fu sempre una delle mie sciagure. Tenni per ventitré giorni conferenze, assistito dal conte G. B. Seriman, col rappresentante dell' avversario, conte Vettore Sandi; e poi dovetti ottenere una giornata alla Quarantia, dove

i miei avvocati conti Cesare Santonini e Giuseppe Alcaini vinsero la mia causa contro i competitori Cordellina e Todeschini. Ma restava al marchese la facoltà diricorrere. Mediante un solenne accordo, ebbi in compensazione delle mie pretesealcuni beni, dei quali consegnai tosto la lor porzione ai miei tre fratelli insieme con l'esatto conto di tutto].CAPITOLO VI.Principio di turbolenze nella compagnia comica del Sacchi. Mia costanza e miei eroismi ridicoli.Dopo dieci anni della mia ricreazione comica, era tempo che ella dovesse essereintorbidata da qualche fastidioso principio. Le due notti affannose, altro mio nuovo bizzarro aborto scenico, aveva data al Sacchi molta utilità. La compagnia dame soccorsa, fornita in quel tempo di buoni attori anche per le parti di seria passione, aveva incominciato ad alterare il costume morale; ma aveva l'arte tutta

via di mantenere un'apparente austera onestà, e la predicava. Parevami di rilevare in quella società de' modi differenti da prima, e scemata la buona armonia de' tempi anteriori.La dissensione tra parenti aveva incominciato a scagliare i suoi semi. De' comici forestieri, accettati per rinforzo, giovavano alle rappresentazioni, ma guastavano de' cervelli della prima tanto pacifica brigata. Satireggiavano l'amministrazione degli utili e la condotta. Accusavano d'ingiustizia, di tirannia e anchedi furto i disponitori. Commiseravano quelli che si credevano oppressi; gettavano le pietre e nascondevano le mani che le avevano scagliate. Piccandosi di sapienza con tutta la loro ignoranza, erano giunti a far credere a parte della societàche l'opere da me donate non erano di quel profitto che si credeva ciecamente. Attribuivano il concorso alle decorazioni e alle loro particolari bravure. Non dissimili dalla mosca d'Esopo, ferma sulla schiena del destriere in carriera, dicevano: Vedi quanta polvere innalziamo dal terreno. Con certi conteggi maliziosi di spese che costava la decorazione delle mie favole e con delle accuse agli amministratori dell'impresa comica, ammutinavano alcuni degl'interessati, sfumavanoil merito mio nelle teste di quelli e innestavano l'ira e il sospetto contro alSacchi direttore. Gli persuadevano a non resistere sozi all' impresa, e li ridussero a voler essere stipendiati e ad odiarsi perfettamente.L'umanità in generale non vorrebbe sentire il peso di alcun debito, e nemmeno quello della gratitudine che niente costa. L'amor proprio le suggerisce alcune strane teologie, da far divenir credito ciò ch'è debito. È da assicurarsi che in questo proposito l'umanità comica sia molto peggiore di tutti gli altri cetti dell'umanità. Niente alterava il mio risibile sulle mie osservazioni riguardo a me e riguardo al bene lucroso e al risorgimento che aveva proccurato a una società comica oppressa

 e desolata.I più vecchi e più accorti comici di quella non lasciavano però di coltivarmi e di pregarmi de' miei poetici soccorsi. Senza mostrar di sapere le opinioni offensive a

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' miei doni sparse per la loro repubblica, e che invero saper non doveva, e senza dinotare il menomo disgusto, credei di dover sospendere per alcun anno di darloro de' nuovi miei scenici capricci. Non ho migliori maniere di tentare la guarigione delle teste pregiudicate, indiscrete e sconoscenti. Mi scansai con de' pretesti di occupazioni famigliari dal donar loro de' novelli drammi.Le genti avvezze a' nuovi generi, nel primo anno cominciarono a mormorare dellamancanza. Nel secondo cominciarono a gridare. Scemava il pubblico favore. Il tea

tro del Sacchi diveniva un diserto, e non mancava chi dalle logge diceva altamente delle ingiurie a' comici. La deiezione cresceva di giorno in giorno. Allora fu che tutti gli attori proruppero in espressioni affettuose universali ed in vive preghiere verso di me.Aveva avvezzato il pubblico a de' generi nuovi in quella compagnia. Quella compagnia aveva sostenuto il mio letterario puntiglio. Parevami d'averle fatto più un male che un bene ad assisterla per dieci anni, indi ad abbandonarla. Io non mi degno di considerare affronto ciò ch'esce da' cornici. Avrei potuto ridere loro in faccia e voltar loro le spalle. Risi tra me medesimo e rinnovellai la mia assistenza fervorosa con delle opere nuove che piacquero, come dirò.I padroni degli altri teatri di Venezia, che si vedevano estremamente danneggiati dalle mie, quali si fossero, sceniche novità, mi circuivano con delle esibizioni

 male a proposito, perché mi arrendessi a sostenere i loro ricinti; e le belle comiche di que' ricinti non mancavano di ordirmi intorno de' lacci e delle reti divezzi. Meritavano tutto, ma io ero abbastanza faceto eroe per non disertare da'miei protetti.Il Sacchi si lagnava spesso d'essere co' suoi campioni nei teatri più lontani e piùincomodi alla popolozione, come sono quelli in San Samuele e in Sant'Angelo, ne' quali ci volevano le mie novità bizzarre e grandi per godere dell'utile d'un'attrazione efficace e d'un avviamento perseverante. Sospirava ognora per entrare nel teatro in San Salvatore, favoritissimo per essere piantato nel centro ed a portata della maggior popolazione di Venezia.Perché le opere delli signori Goldoni e Chiari avevano un tempo sostenuti in dovizia i teatri non possessi dal Sacchi, e perché erano decaduti ad onta di molte traduzioni dal teatro francese e di molti pisciarelli scenici di alcuni poetuzzi sog

nanti coltura, introdotti a fronte delle mie poetiche fantasie, chiamate da quelli bestialità; Sua Eccellenza Vendramini, proprietario del teatro in San Salvatore, mi fece assalire da un prete mio amico, appellato don Baldassare, con le esibizioni di molte cordialità e molte utilità se, abbandonando la compagnia del Sacchi,avessi voluto intraprendere di soccorrere il drappello comico del suo teatro inSan Salvatore.Risposi da Attilio Regolo, ch'io non scriveva prezzolato, ma per mio passatempo; che sino che la compagnia del Sacchi non si sciogliesse o riducesse all' impotenza, non averei composti e donati i miei scenici abbozzi che a quella; che se l'Eccellenza Sua aveva la condiscendenza di considerare per utili i miei mostruosi parti teatrali e li desiderava rappresentati nel suo teatro, poteva aver tuttiquelli che l'estro e non mai il comando m'avesse suggeriti, col porre in possesso del suo ricinto la compagnia diretta dal Sacchi.Non passarono molti mesi che fui scelto dal cavaliere mediatore de' patti tra lui ed il Sacchi. Feci io da notaio, estesi la scrittura di locazione, e posi quel capocomico nel teatro che tanto desiderava. Averei voluto abbandonare la comica poesia e attenermi a' miei privati divertimenti poetici; ma oltre all'essere affogato dalle preghiere, stimolato dalla necessità della compagnia in quel cambiamento di teatro da me proccurato e da me per un lungo corso d'anni soccorsa, mi pareva di mancare al cavaliere, che in parte a contemplazione all' opere mie novelle era disceso a concedere il suo teatro a' miei protetti. Anche una lunga usanza fissata di conversazione famigliare e gioviale da me presa con quelle genti fu una della ragioni della mia resistenza.Tutti i sopraddetti miei delicati sentimenti non starebbero male, se tutti gli uomini fossero di quelli suscettibili. Le mie osservazioni mi fecero comprendere

la ragione per cui gli uomini oggidì detti di spirito e grandi chiamano i riguardi di delicatezza d'animo, vergognosa miseria del cuore. Siccome perseverai per forse altri quattordici anni all' assistenza e alla famigliarità con que' comici, av

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erò argomento di scrivere parecchi capitoli di memorie relativi a cotesti quattordici anni della mia vita, che odoreranno di teatro, che saranno sincerissimi, riflessivi e lepidi per quanto potrò; e si rileverà in questi come la mia disinteressata eroica assistenza usata verso alle dette persone teatrali incominciò ad essere imbarazzata per de' comici eventi, e come la mia buona fede mal impiegata si meritasse infine, più che il titolo di buona fede, il titolo legittimo di sciocchezza.CAPITOLO VII.

Novità dannose nella compagnia del Sacchi. Miei passi, miei impegni, mie minacce,miei pronostici, miei puntigli in favore di quella compagnia, tutte cose sufficienti a far ridere ragionevolmente di me.Appena ebbe il Sacchi la carta firmata di concessione del teatro in San Salvatore per l'anno successivo, i comici scacciati da quello presero il teatro in Sant'Angelo, allora dal Sacchi occupato, e iracondi di perdere il loro asilo, cercarono colla loro politica di vendicarsi. Circuirono con lusinghe e con danari (di che i comici italiani hanno sempre bisogno) de' più valenti attori della compagniada me protetta, tra' quali Cesare Derbes, Pantalone eccellente, e Agostino Fiorilli, Tartaglia celeberrimo. Riuscì ai circuitori di sedurre que' due campioni dell'arte comica alla sprovveduta a disertare e ad unirsi al loro squadrone, più per indebolire la società insuperabile del Sacchi che per fortificare il loro nuovo acc

ampamento, sapendosi che, per non poter essi avere alcuna sorte nelle commedie all'improvviso, s'erano interamente dedicati alla predicata teatrale coltura.Una tal diserzione mortificava gl'interessati col Sacchi, e mi sussurravano agli orecchi la loro disgrazia. Incresceva anche a me di veder disgiunte quattro maschere, portenti della natura, che unite formavano un amenissimo divertimento. M'accinsi a voler distorre que' due attori da un abbandono poco onesto dopo quattordici e più anni di armonica unione. Parlai col Derbes, ch'era anche mio compare,con de' modi che dovevano convincerlo. La risposta ch'egli ha data al di lui compare, ch'egli idolatrava in parole, fu questa: - Perché appunto temevach'Ella proccurasse di distormi da' miei nuovi compagni, e perché il mio cuore non è capace di negare niente a lei, tenni occulto il contratto e lo firmai secretamente per non essere più in grado di poterla servire, s'Ella me ne parlasse. Con dispiacere non sono più in grado di aderire alla sua premura.

Perdei per un istante il mio risibile a così strana risposta, e proruppi ne' risoluti e seri rimproveri. Egli mostrò comicamente di affliggersi, e pretese di scusarsi caricando la compagnia del Sacchi di quelle tacce che i turbolenti avevano disseminate. Mi contentai di predirgli che passava in una società dove si sarebbe reso inutile, e di minacciarlo che averei avuto de' modi da farlo pentire della sua confederazione con altri comici.Corsi al Fiorilli, come si trattasse del riparo a una mia grave disgrazia, e lotrovai più umano del mio compare. Egli non aveva ancora firmato l'abbandono, e potei ridurlo a baciare i suoi antichi compagni ed a soscrivere una carta di non disunirsi da loro per tre anni ancora.Perché i comici italiani hanno la falsa etichetta ne' personaggi seri de' titoli di primo, secondo, terzo, ecc., la prima attrice della compagnia era allora la Regina Cicucci, valentissima comica; ma per non essere gran cosa grata al pubblico di Venezia, con tutto il di lei valore, il Sacchi l'aveva licenziata per provvedersi d'un'altra prima attrice. - Che bella cosa - mi disse un giorno il Sacchi- sarebbe quella di poter rubare alla compagnia nimica, che cerca d'involare a me i compagni, la signora Caterina Manzoni, loro prima attrice! La vendetta sarebbe giusta, ed io sarei molto ben provveduto di prima attrice. Temo però - diceva egli - che la mia compagnia non accomodi a quella signora.La signora Manzoni, e per la sua bellezza e per la sua bravura e per le sue attrattive e per i suoi modi colti ed educati, era molto mia amica. Ella mi si era parecchie volte raccomandata perch'io m'adoperassi a farla entrare nella compagnia del Sacchi, alla quale dimostrava somma inclinazione, lo non era solito ad impacciarmi in tali comici collocamenti, ma il caso e le parole del Sacchi mi indussero ad una inframmessa. Feci la proposizione a

quella signora, che la accolse con una esultanza grande e con de' ringraziamenti eloquentissimi verso a me. Ci fu qualche disparere sopra all'onorario e sopra alcune convenienze; ma andando io e tornando, trattando e spianando difficoltà da a

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bile comico sensale, ridussi la faccenda in accordo.Giunto al momento in cui mi recai per farle firmare i patti, la bella giovine mi venne incontro con una mestizia in sul viso che la faceva più bella. Sembrava che non avesse cuore di favellarmi. Io non intendeva la sua sospensione, e le davacoraggio. Ella mi disse finalmente, con qualche lacrima che le donava maggior grazia, che i di lei compagni e le di lei compagne, i quali avevano penetrata la sua diserzione, avevano pianto dirottamente, se le erano prostrati ginocchioni al

le piante, pregandola a non abbandonarli ad una certa rovina se rimanevano senza lei, e ch'ella, commossa lo spirito dalla compassione, aveva ciecamente soscritto un contratto di rimanere nella lor società per alcuni anni ancora.In vero conosceva quella giovine d'un animo sensibilissimo, ma non la credeva capace d'una così fatta mancanza per sensibilità. Ella averà avute delle altre forti ragioni di deludere i patti che aveva con me, e se mai ella scriverà le memorie della sua vita, si potranno leggere. Avrei dovuto perdere il mio risibile nuovamente, come feci col Derbes mio compare, ma a fronte di tanta bellezza non potei farlo. Le infinite politezze cordiali che ho ricevute da quella giovane coll'andare del tempo, non mi lasciano pentimento di non essermi incollerito di quella mancanza, e m'obbliga un debito di giustizia a confessare in lei tutti gli attributi che sarebbero pregiabili in una dama.

Ella ha abbandonata in età giovanile la comica professione, in cui si distinguevadalle altre attrici per abilità e per educazione, pochi anni dopo l'accennato accidente, e s'è ben meritata la fortuna che la pose in istato di poter fare un tal passo, per dedicarsi, com'ella fa con tutto lo spirito, a istillare in due suoi figliuoletti le massime più austere della virtù sociale e spirituale.Mi contentai quel giorno di risponderle con viso sorridente ch'ella era padronadi se medesima, e che qualunque prima attrice potesse provvedere il Sacchi, averei l'ingegno di farla comparire al pubblico cotanto valente comica quant'era lei. Ecco in me un nuovo comico puntiglio.Ragguagliai al Sacchi il scioglimento della mia inframmessa, il quale mi rispose rozzamente: - Sapeva già che a quella persona non averebbe accomodato l'unirsi alla mia compagnia. - Egli seguì a carteggiare per la provvista d'un'altra prima attrice.

Bramo che il mio lettore sia persuaso ch'io era divenuto faccendiere in quella circostanza, non tanto per la amicizia ch'io avessi per la comica compagnia del Sacchi, quanto in riflesso al cavaliere ch'io aveva indotto ad accordare il suo teatro a quella. Temeva che la rivalità, le insidie, le seduzioni e le vendette lariducessero una truppa snervata e impossente, che il ricinto del cavaliere potesse divenirgli infruttuoso, e d'aver io qualche colpa di quel suo danno. Sterilee disusata delicatezza!CAPITOLO VIII.Mio consiglio estorto dal Sacchi. Accettazione nella sua compagnia della prima attrice Teodora Ricci. Abbozzo del suo ritratto. Gradini de' primi miei impegni per quella comica.Qualunque volta il Sacchi era al caso di dover provvedere alla sua truppa una femmina prima attrice, le altre attrici, tutte strette parenti, facevano un gran remore. Non è spiegabile la congiura che ordivano quelle strette parenti contro leprimi attrici novelle che venivano scelte pro tempore. Le accettate di nuovo dovevano soffrire il martirio d'essere criticate e disprezzate nel mestiere e malignate grossolanamente nel costume morale. Chi sa che un riflesso sopra a una tale certa sciagura non sia stato una delle cause della mancanza della signora Manzoni? Le dette notizie, che non sembrano relative alle memorie della mia vita, losaranno troppo, come si vedrà. Il Sacchi, che accortamente affettava di consigliar meco gli affari suoi, massime nell'imbroglio in cui si trovava in sul cambiamento di teatro, da cui derivavano le turbolenze e gli ammutinamenti, mi disse un giorno che aveva un trattato con due prime attrici e che, dovendo scegliere una sola delle due, mi pregava del mio parere in sulla scelta. M'aggiunse che una era la signora Maddalena Battagia e l'altra la signora Teodora Ricci; che per le re

lazioni avute, la prima era una valente donna toscana, ma d'età non fresca, non capace nella commedia alla sprovveduta e che aveva molte pretese di preminenze e d'etichette, ma soprattutto quella d'un grosso onorario; che per le notizie avute

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, la seconda era una giovane principiante, piena di spirito, di bella figura, di bella voce, ch'era stata applaudita in ogni città dove aveva recitato e capace anche nella commedia dell'arte all'improvviso, ch'ella aveva un marito abile per la comica, e che poteva avere moglie e marito per un onorario di soli cinquecentoventi ducati l'anno.Io non conosceva né la signora Battagia né la signora Ricci; ma esaminando e bilanciando le lettere di ragguaglio sopra all'una e sopra all'altra, la mia risposta f

u breve, e con de' laconici riflessi incontrastabili lo consigliai a stipendiare cotesta signora Ricci col marito; ciò che il Sacchi era internamente determinatodi fare, anche prima di chiedere il mio consiglio per una comica artifiziosa stima e dipendenza.Fu accordata la Ricci col marito, con una scrittura di tre anni e per uno stipendio di cinquecentoventi ducati l'anno; prezzo miserabile ad una povera comica, obbligata ad un vestiario teatrale decente e alle spese de' viaggi frequenti, che aveva un marito, un figlio, una gravidanza, e che veniva a farsi lacerare in sulla professione e in sul costume inorale dalla critica e dalle detrazioni velenose delle attrici parenti della compagnia.Giunse a Venezia cotesta mia novella creatura nella quaresima dell'anno 1771, efui pregato dal Sacchi a recarmi da lui una sera in cui attendeva la Ricci col m

arito, giunta di Genova. Si desiderava ch'io udissi da lei recitare uno squarcio di scena tragica, per rilevare la sua maniera d'esporre, il suo spirito e la sua inclinazione.Vidi quella giovane di bella figura, quantunque una sua gravidanza l'alterasse.La sua faccia, benché diroccata dal vaiuolo, non lasciava d'essere teatrale in qualche lontananza. Le sue belle chiome bionde supplivano a qualche difetto del viso. I suoi vestiti che spiegavano la sua indigenza erano però accomodati e portatida lei con tant'arte leggiadra che non lasciava riflettere se fossero di lana odi seta, nuovi o logori. Ella pareva alquanto legata dalla soggezione nel mezzoalla comitiva nuova per lei. Non potei determinarmi a giudicare se i suoi modi,rattenuti e legati nel contegno, nascessero dal timore o dalla furberia. Parvemi di poter comprendere in lei un istinto impaziente. Ella fremeva che il marito le facesse poco onore in quella conversazione. Egli dormì

sempre saporitamente, ad onta degli urti occulti ch'ella gli dava.Recitò un pezzo di scena tragica in versi, con bella e robusta voce, con buon senso, intelligenza e con un fuoco da far molto sperare da lei nella sua professione, spezialmente nelle parti feroci. Notai un po' di durezza declamatoria monotona e qualche altro difettuzzo guaribile. Uno de' suoi difetti, non rimediabile, consisteva ne' movimenti delle sue labbra, che ben spesso arrivavano ad essere sberleffi. La sua bocca, non picciola, indebolita e rovinata negli angoli da' tarli del vaiuolo, sforzava quella povera giovine ad un involontario difetto. Aggiungasi un mio fisico riflesso. Il disprezzo che abbiamo per alcuni oggetti schifi agli occhi nostri è da noi naturalmente dinotato con un contorcimento della bocca.La Ricci, per pregiudizio e per un naturale altero e schizzinoso, ogni momento sentiva e vedeva delle cose spregevoli e schife con l'udito e lo sguardo suo, e le dinotava col contorcere le sue labbra. Ciò ha rinforzato e viziato il suo difetto per modo che divenne un abito inestirpabile o piuttosto natura.Terminato ch'ella ebbe il saggio della sua abilità, le feci quegli elogi che meritava, e la animai a quel coraggio che non appariva dal suo contegno.Le altre attrici dell'assemblea furono molto attente alle mie parole; e il Sacchi, più attento al di lui interesse che alle mie espressioni, mi si volse dicendo:- Signor conte, ho presa questa giovine per il di lei consiglio, si ricordi ch'Ella ha un debito di fare ch'ella sia utile alla nostra società.Risposi che averei fatto il possibile e per lui e per lei, conosciuto che avessi il vero carattere comico e tragico della giovane. Notai della mestizia nelle fisonomie delle altre attrici e della disposizione a schizzare de' veleni.Perché la compagnia de' miei protetti doveva presto partire per Mantova, la Riccimi pregò di volerla assistere, ne' pochi giorni che si fermava in Venezia, nelle p

arti di quelle rappresentazioni che le erano state consegnate, nuove per lei. Mostrai tutta l'attenzione per incoraggirla, e fui quasi ogni giorno alla di lei abitazione a farle recitare le sue parti con quegli avvertimenti che mi parvero n

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ecessari.Oltre all'essere impuntigliato col Derbes disertore e alquanto colla signora Manzoni, ma soprattutto per porre una truppa forte nel teatro del cavaliere da me indotto a concederlo al Sacchi, aveva espresso un buon pronostico sulla giovine Ricci, e per istinto m'era legato al cuore di non voler esser fallace. Ella m'accoglieva con affabilità e con aria di contentezza. Di giorno in giorno rilevava inlei della abilità non comune.

La trovava mesta talora, e chiestole un giorno il perché fosse malanconica, ella mi disse che prevedeva la sua rovina nell'essere entrata in una compagnia di femmine e d'uomini quasi tutti congiunti di sangue e collegati insieme; che si vedeva isolata, senza alcun appoggio; che la di lei madre l'aveva rimproverata e sbigottita sull'aver accettato d'unirsi a quelle genti, predicendole che sarebbe stata oppressa, screditata e sforzata a partire come disutile da Venezia, con sommo pregiudizio de' suoi buoni princìpi di acclamazione nelle altre città meno combattute da altre comiche compagnie.Risi de' suoi timori e delle previsioni, benché non fossero larve. Proccurai di farle credere quella gran bugia che il merito supera sempre tutti gli ostacoli. Le promisi de' soccorsi scenici di nuovo aspetto a lei appoggiati. La assicurai che, se indovinava di farla necessaria all'utilità della compagnia, il che non potev

a nascere che dal farle guadagnare decisivamente la grazia universale del pubblico, tutti i pericoli sarebbero svaniti ma che ciò non si poteva fare s'ella non superasse le trepidazioni e se non avvezzava l'animo alla costanza e a non curarsi di qualche contrarietà.Pareva a quella giovine ch'io dovessi essere rispettato e guardato da' suoi nuovi compagni con sommo riguardo per quel bene che avevano da me ricevuto, per quello che potevano ricevere e per quello che potevano perdere se mi sdegnassi; e convien dire ch'ella si sia determinata a coltivare la mia amicizia come l'unico suo sostegno. La sua povertà mi destava la compassione, e le sue maniere civili e gioviali di accoglimento, che parevano sincere, mi piacevano. Cercava inoltre diconoscere l'indole sua per poter comporre delle parti che stessero bene al di lei carattere e per far verificare il mio buon pronostico in di lei favore; studio che aveva sempre fatto sopra a tutti gli altri attori da me protetti, per esser

e giovevole alla cassa della comica comunità. Questo mio studio in quel tempo riguardo alla Ricci potè essere di pochi giorni e di qualche momento soltanto.Le mie visite e le mie attenzioni per quella giovane increscevano alle altre attrici parenti, accuratissime per sistema a tener dietro a' passi di tutti, relativi alla loro repubblica. Esse mi facevano delle questioni, con aria di noncuranza e d'ingenuità, sopra all'abilità della Ricci. Pareva loro di vedere in lei de' gran difetti e un'impossibilità fisica ch'ella potesse mai riuscire nella loro compagnia. Mostravano però un gran desiderio d'ingannarsi. Conosceva le loro maliziette, replicava i miei pronostici, e m'impegnai maggiormente a sostenere i buoni preludi della mia opinione, proponendo di farli vedere avverati. Allora fu che volarono per la compagnia delle dicerie e degli aneddoti sul costume scorretto dellapovera mia alunna novella. Ciò non era cosa da non aspettarsi. Tutti sapevano tutto, e nessuno era l'autore della propalazione. Ho detto ch'ebbi sempre il vizio di sostenere i più oppressi di quella società. Lasciai cadere a terra tutte le ciarle e m'impegnai con maggior fervore a soccorrere la sussistenza d'una meschina indigente con un marito, un figliuolo, una gravidanza, e d'ottima disposizione nell'arte sua.La compagnia passò a Mantova, indi a Verona a recitare, dove la Ricci partorì e dove il cielo, per favorirla, le ha levata quella seconda prole. Da quelle due città giunsero lettere uscite da' compagni della Ricci a Venezia, che screditavano l'abilità di quella giovine. La dipingevano carica di difetti invincibili, e prevenivano il pubblico di Venezia in di lei svantaggio.I gran partiti che avevano in questa città le due belle e brave attrici della compagnia rivale a quella del Sacchi, che doveva entrare nel teatro in Sant'Angelo,tessevano anticipatamente la caduta in Venezia della mia protetta, e non facevan

o che accendere il mio puntiglio a superare tutti gli ostacoli. La Ricci era attentissima a scrivermi dalle piazze dove recitava ed a raccomandarsi. Non avendoancora potuto conoscere la di lei anima comica e il di lei carattere fondamental

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e, scrissi una rappresentazione intitolata La innamorata da vero.Tentai con quella di espor la giovane in parecchi aspetti, per dare un saggio del suo spirito al pubblico, che vincesse in parte il di lui favore. In quella azione scenica, in cui ella era una dama amante proscritta, indi servitore d'una locanda, indi zingaro, indi soldato, indi cavaliere, ecc., per nascondersi a' rigori della giustizia e per sviscerato amore, sperai che, per lo meno, una gran fatica potesse conciliarle della indulgenza e della grazia. M'avvidi dopo d'essermi

 ingannato nella mia lusinga e nel mio giudizio. Quella rappresentazione, che per se stessa fu fortunata, non istava però bene in sul dosso della Ricci. Fu esposta a Mantova, e il Sacchi mi scrisse maraviglia dell'opera e della attrice.Narrerò l'ingresso di quella giovane in sul teatro di Venezia, gli scogli incontrati per farle benevolo il pubblico, la vittoria ottenuta su' miei pronostici e l'amicizia ch'ebbi nel corso di sei anni per la Ricci. Le vicende ch'ella m'ha cagionate non furono agli occhi miei che di quelle frivolezze ridicole, che sono innestate con l'umanità sempre comica, ma che agli occhi di molti comparvero gravi e di conseguenza. Nel leggerle essi potranno avere un esempio che insegni loro asfuggirle, se le credono importanti. Un buon numero de' miei amici mi chiese lastoria di quella amicizia. Ho sempre risparmiati i polmoni nel favellare ed ho sempre logorate volentieri delle penne senza fatica. È perciò ch'io scrivo con forse

troppa estensione il corso d'una amicizia, che potrà essere chiamata amore, con un'ampia mia permissione. Egli è relativo alle memorie di sei anni della mia vita, nésaprei come ommetterlo; e se riesce tedioso, è cosa agevole il tralasciare di leggerlo.CAPITOLO IX.Comparsa della attrice Teodora Ricci sul teatro di Veneziacon poca fortuna. Cagioni che m'impuntigliarono a sostenerla.Fu di ritorno a Venezia la mia scenica falange, ed entrò per la prima volta in possesso del teatro in San Salvatore, mancante di qualcheduno de' suoi buoni soldati, particolarmente di Cesare Derbes, valentissimo. Vollero i direttori politicidi quella truppa tener il pubblico nella brama di vedere la novella attrice peralcune delle prime sere. Non si bada nelle università comiche di pregiudicare né disacrificare un nuovo personaggio tenendolo nascosto, coltivando il desiderio del

 pubblico e una troppo grande dannosa prevenzione. Esse dicono: - Siamo tutti nuovi le prime sere, dopo sei mesi d'assenza d'una metropoli bramosa d'un divertimento teatrale, ed abbiamo il ricinto pieno naturalmente. Serbiamo il nuovo attore per fare un invito calzante quando incomincia la scarsezza di spettatori, e la curiosità condurrà una calca. Vada bene o vada male, averemo quella sera la borsa piena. - I nostri comici non hanno per guida che l'avidità di danaro.Fu esposta al pubblico la povera Ricci con un invito altitonante e con La innamorata da vero. Opera nuova, attrice nuova, teatro pieno. Quantunque la mia capricciosa composizione per i suoi molti ingredienti sia stata acclamata per molte repliche, si decise che la Ricci era soltanto un'attrice appena scusabile. Il giubilo di alcune comiche della compagnia, benché da esse raffrenato, trapelava. Io sorrideva, e mi piccava ancor più in favore della oppressa a torto, perocché scorgevain lei, al contrario degli altri, somma abilità e somma disposizione alla bravura.La giovane fu riprodotta colla parte della regina d'Inghilterra nella vecchia tragedia Il conte d'Essex. Ella era vestita meschinamente. Recitò eccellentemente, ma con nessun applauso. La sentenza capitale per lei era già fatta. Il Sacchi mi pregò a tradurgli dal francese in versi il Fajel, tragedia del signor d'Arnò, lusigandosi di riprodur con frutto la Ricci in quell'opera. Io risi della sua lusinga senza negare il favore. Tradussi quell'opera di volo in poche sere. Mi risovvieneche una pignatuzza con dell'inchiostro e una trista penna lorda e corta, recatami dall'apparatore de' comici ne' stanzini del teatro, nelle ore che i comici facevano la commedia, erano il mio scrittoio a quella velocissima traduzione.Fu disposta per la Ricci la parte di Gabriella in quella tragedia; e siccome prevedeva il poco buon avvenimento nel teatro di quella opera crudele, volli che, prima di entrare in sulla scena, fosse pubblicata la mia traduzione, formata coll

a pignatuzza d'inchiostro e col mozzicone di penna dell' apparatore, colla stampa. Un mio discorso di disuasione intorno ad alcune opere teatrali francesi tradotte per i nostri teatri, ch'io feci stampare unito alla barbara tragedia del Faj

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el, fece nascere una commedia che si potrebbe intitolare Gl' iracondi per fanatismo.Si era poco prima rappresentata La Gabriella del signor Belloà nel teatro in Sant'Angelo, tradotta per spaventare gli spettatori e per lasciar loro delle immagini oscure, onde sognassero per quindici notti morte ed orrori, come fecero. La signora Manzoni aveva sostenuta la parte di Gabriella in quella tragedissima con sommo valore e sommo applauso. L'argomento del Fajel e quello della Gabriella sono

 una cosa sola, e la catastrofe di quelle due tragedie è la medesima.I fanatici geniali per i nuovi generi teatrali della Francia vennero ad ascoltare il Fajel, collerici con me per il mio discorso preliminare stampato. I partigiani degli altri teatri, e spezialmente quelli meritati dalla signora Manzoni, sparsero che la Ricci pretendeva di fare un confronto odioso nella parte di Gabriella. La Ricci rappresentò quella parte eccellentemente, e ricevé tuttavia tutti que' sgarbi che doveva aspettarsi da un pubblico mal prevenuto. Il Fajel si è replicato, ma sempre co' primi sgarbi verso la Ricci innocente. A questo colpo ella sembrava agli occhi dell' universale sprofondata in un abisso da non poter più risorgere. Le comiche sue compagne esultavano della sua disgrazia. Io rideva ed entrava ancor più nel puntiglio mio per giustizia. Incominciai da quel punto a conoscerel'indole di quella giovine attrice svelatamente. Impetuosa e fervida di temperam

ento e ambiziosa per se medesima come un Lucifero, ella fremeva, piangeva, entrava nel letto colla febbre leonina, bestemmiava il momento in cui aveva accettato di entrare nella compagnia del Sacchi e di venire a Venezia. Copriva per quanto poteva l'origine delle sue smanie con de' riflessi sopra la sua famiglia, sopra una sua nuova gravidanza, sopra la sua povertà. I miei conforti non erano da leiascoltati, quantunque fossero lusinghieri e ragionevoli.Fu allora che, avendo conosciuto il di lei carattere, composi il mio dramma della Principessa filosofa, per formarle una parte che stesse bene al suo dosso. Letta da me quell'opera a tutta la comica assemblea, si proruppe nelle consuete eccessive lodi e nella consueta esultanza. In un momento in cui si andava disegnando un congedo a quella valente sfortunata giovine, come a una persona disutile all' erario comico (congedo ch'ella desiderava per uscire da un bosco di dispiaceri, e congedo contemplato con interno giubilo dalle di lei comiche compagne, che

non mancavano però di appiccarle de' baci sviscerati), spiacque a queste un nuovomio dramma proposto, in cui la parte principale e grande, da me destinata alla Ricci, poteva per avventura farle acquistare ciò ch'ella aveva perduto nel pubblico favore.I garbugli secretamente orditi perché non entrasse in iscena il mio dramma donatodella Principessa filosofa furono infiniti. Le particolari passioni che sono larovina delle famiglie e talora de' Stati, lo sono decisamente delle società comiche. Per sostenere i buoni pronostici che aveva fatti sopra alla Ricci e il mio puntiglio in favore di quella e l'utilità di tutta la compagnia, se fossi stato meno filosofo democratico, averei trovate mille occasioni di mandare al diavolo quella società per le stolide passioni private che la dominavano e spesso m'offendevano.Sussurrando nascostamente d'orecchia in orecchia tra' comici, si dipingeva il mio dramma languido e seccatore. Si adduceva che, essendo composto spoglio di tutte le maschere le quali godevano la grazia pubblica, sarebbe precipitato. Si detestava la mia disposizione, fatta per una debile cecità e ostinazione, della parteprincipale di quell'opera per una comica incapace di sostenerla, ch'era già screditata e in disprezzo del pubblico. Si opponeva qualche spesa occorrente di decorazione e di vestiario per quel dramma, e si giudicava quella spesa gettata e un danno evidente per la compagnia.Tutte queste civili difficoltà mi si tenevano celate al possibile, ma la tardanzadi porre in iscena l'opera mia, P indolenza, il silenzio, i pretesti freddi me le palesavano. La Ricci fremeva, ed io rideva esortandola a lasciare a me il pensiero di vincere grado grado tutte le sue avversità.CAPITOLO X.

Mio trionfo che non merita d'essere considerato.Avvenne per caso che il Veneto patrizio Francesco Gritti, eccellente, vivace e felice penna de' nostri giorni, aveva tradotta dall'idioma francese per suo dipor

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to la tragedia di Pirone, il Gustavo Wasa. Quel cavaliere si persuase alle mie persuasioni di far passare in dono per le mie mani quella tragedia alla compagnia del Sacchi, onde fosse rappresentata, disponendo la parte di Adelaide per la Ricci.Pullularono nuove turbolenze sulla disposizione delle parti di quella tragedia e nuove difficoltà sull'esporre al pubblico una così bell'opera, e opera donata da un cavaliere. Trattandosi di cosa non mia e trattandosi di un cavaliere al dono de

l quale era io stato il mediatore, parvemi di dover alzare la voce e pretenderecontro al mio naturale, per modo che fu stabilito di esporre in sulla scena il Gustavo Wasa.La Ricci, a cui fui assiduo ond'ella ben apprendesse la parte che le era assegnata, e che la apprese con facilità, non aveva altro pensiero che quello d'un vestiario tragico svezzeze decente per ben comparire in quella parte. Se le negava dalla compagnia rigidamente ogni sussidio, adducendo che l'obbligo di ben vestirsiin tutte le rappresentazioni di qualunque nazione era di lei e a peso del suo miserabile stipendio di cinquecentoventi ducati.Le altre sue compagne, che avevano minor parte nella tragedia ch'ella non aveva, allegre della di lei povertà e impossibilità di comparire decentemente, affidavanonella propria abilità non solo, ma nella lor borsa ben fornita,

e si affaticavano e spendevano smoderatamente nell'apparecchiarsi un vestiario alla svezzeze orrevolissimo, per sopraffare con lo splendore e la magnificenza la meschinità della Ricci nella comparsa.Mi sono divertito moltissimo sopra alla loro mal fondata lusinga. La tragedia del Gustavo fu posta in iscena con molta decenza. La Ricci comparve la sera in sul teatro improvvisamente e inaspettatamente più leggiadramente vestita delle altresue compagne, non senza sorpresa e non senza bollore della comica detrazione. Ella sostenne la sua parte con molto valore. L'opera ebbe un evento felice. Fu replicata parecchie sere con acclamazione, perché piacque; ed avvenne per questo chela Ricci, la quale aveva recitato con bravura eguale nelle due tragedie Il conte d'Essex e il Fajel, incominciò solo dal Gustavo a riscuotere que' pubblici applausi che anche prima se le convenivano. Bisogna conoscer le cause per ben conoscere gli effetti. Vidi la giovane alquanto rasserenata, e proccurai di vederla rass

erenata appieno, proteggendo i miei pronostici che incominciavano ad avverarsi.Scorgeva trascorrere i giorni senza che si accennasse nemmeno di dare al pubblico il mio dramma della Principessa filosofa. Averei dovuto offendermi di quella ingiuriosa taciturnità, ma io m'era proposto con fermezza d' animo di non incollerire giammai col cetto comico. La Ricci si lagnava meco della indolenza de' suoi compagni sul punto del non esporre quel dramma, ed io rideva. Per conto mio, nonebbi giammai la sete dell'amor proprio ambizioso e puerile di vedere le mie favate esposte in sul teatro. Sperava però un compiuto risorgimento della giovane da me soccorsa nella parte della Principessa filosofa, e sapeva che delle sciocche sotterranee malizie comiche tenevano inoperoso il mio dramma.Mi proposi di vincere le difficoltà con un'arte flemmatica. Incominciai a spargere con alcuno de' comici che, ad onta del mio istinto poco curioso, non poteva scacciare dalla fantasia una curiosità fanciullesca di vedere qual effetto facesse in sul teatro una composizione d'aspetto tanto nuovo, poetico e bizzarro com'era il mio dramma della Principessa filosofa, che veramente aveva in esso pochissimafede, e che compativa moltissimo la compagniadel Sacchi se non s'arrischiava ad esporlo; ma che il tarlo della mia stolta curiosità m'era tanto molesto che, se quel dramma fosse creduto pericoloso, dannoso o inutile a porlo in iscena alla compagnia del Sacchi, aveva risolto di appagarela mia curiosità donandolo alla compagnia del teatro in Sant'Angelo, in cui era la signora Manzoni, capacissima di sostenere la parte della Filosofa. Sono necessari anche de' stratagemmi per vincere la malignità e la indolenza de' nostri comici, contrarie a' loro vantaggi medesimi.Le mie espressioni passarono tosto d'orecchia in orecchia e cagionarono una fretta mirabile di esporre l'opera mia. Bastava destare il sospetto ch'io volessi da

rla al teatro in Sant'Angelo, dov' era il Derbes disertato e una truppa giudicata rivale, perché fosse immediatamente, a costo d'una disgrazia, rappresentata. IlSacchi, furioso di temperamento e violento, volle il mio dramma in iscena in poc

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hi giorni, gridando, sbaragliando e atterrando tutti gli ostacoli.L'opera mia fu esposta al pubblico a dì otto del febbraio, l'anno 1772. La Ricci,da me ammaestrata, sostenne la parte della Principessa filosofa, parte d'un peso estremo, con una bravura sorprendente. Gli applausi fioccarono, e con diciottorécite di repliche successive d'un concorso indicibile quella valente giovine stabilì nella universale opinione d'essere un'attrice inarrivabile nella bravura. Piacque dappoi e fu bene accolta e applaudita in tutte le rappresentazioni nelle qua

li si espose.La verità ch'io narro del buon avvenimento di quell'opera non vuol dire che il mio dramma sia buono; vuol dire che piacque. E quanto al vantaggio che fece alla Ricci (vantaggio ch'ella doveva godere anche prima di rappresentare la Principessa filosofa), non farò che replicare quell'altra verità: convien conoscere con fondamento le cause, per conoscere la ragione degli effetti.Quella mia vittoria, ma più vittoria della Ricci, la rese necessaria alla comica società, che si dirige co' movimenti del pubblico. Fu però guardata sempre con un occulto livore da alcune delle sue compagne. Non confessarono giammai la di lei bravura, e lodarono per politica la parte della Filosofa da me composta soltanto.CAPITOLO XI.Un cuor facile va sopravia alle riflessioni della prudenza. Seguo a dire di me e

 della comica Rìcci.Se le espressioni di riconoscenza verso a me della comica compagnia relative algrand'utile che le aveva cagionato la Principessa filosofa erano grandi, non erano minori le espressioni della giovine Ricci, che mostrava di conoscere dal miopuntiglio, dalla mia direzione e dalla mia buona amicizia il suo innalzamento alla pubblica grazia e la sconfitta de' suoi nimici. Ella proccurava di cattivarsi con delle maniere affabili la continuazione della mia assistenza. Le mie visite frequenti erano da lei bramate, proccurate e accettate con un' apparente cordialità. Sembrava a lei d'avere il colosso di Rodi per appoggio nelle mie visite giornaliere. Non temeva più i suoi persecutori e sperava di avere de' vantaggi di conseguenza dalla compagnia, se avessi dimostrato per lei una palese anzi solenne parzialità.Non conosceva ella lo spirito vero de' suoi compagni; non conosceva i miei veri

sistemi né il mio temperamento, e ciò ch'era cosa peggiore, ella non conosceva se medesima. Una aperta mia parzialità per lei la faceva odiare e perseguitare maggiormente dalle altre attrici nonché da' direttori della società comica, i quali, dominati sempre dall'idea dell'interesse, si sarebbero creduti, per un certo riguardo dell'interesse medesimo, sforzatamente in necessità, per non disgustarmi, di condiscendere a tutte le di lei pretese di stipendio, di puntigli, di contraddizioni nella sua ispezione, e a cento femminili capricci.Io era affatto alieno dal fare il protettore orgoglioso e minaccevole con de' comici per un'attrice; e molte delle mie massime, benché non fossero rigide, erano però tanto sincere e tanto contrarie alle mire dell'educazione di quella giovine comica, che vedeva impossibile la perseveranza in lei e la perseveranza in me d'una socievole familiarità.Il di lei cervello era tanto leggero e suscettibile alle adulazioni, tanto fervido e cieco a' capricci, all' ambizione, ad un fasto di falso sistema, che la verità, la moderazione, la prudenza, il buon riguardo restavano velati alla sua vista, a tale che potrebbesi quasi dire ch'ella non conoscesse gli errori ne' quali cadeva. Rifletteva io benissimo che a questi tali cervelli, coll'andare del tempo, divengono gli idoli veri que' molti che, per la via dell'adulazione, dipingono da pregiudizi gli attribuiti della virtù e dipingono da tratti di spirito la libertà di pensare e la sfrenatezza, a tale che divengono noiosi e molesti pedanti que' pochi che si oppongono a' loro sofismi e alle loro perniciose ma allettatricipitture.Per quanto aveva sino allora cooperato a' vantaggi di quella giovane, ed anche per quanto le aveva detto per confortarla e per animarla, ella non aveva il torto a lusingarsi ch'io nodrissi per lei qualche sentimento alquanto più oltre di quel

lo dell'amicizia; ma le donne sono naturalmente per tal modo invasate dal loro amor proprio che non hanno confine nelle presunzioni. Era ben difficile che, perquanto ella mi dicesse, cadessi nella sciocchezza di lusingarmi de' di lei tener

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i affetti dal canto mio. L'ingenuo capitolo de' miei amori dirà il modo mio di pensare in questo proposito.Ad onta di tutti i miei riflessi, accordai alla Ricci un'amicizia cordiale. Nonm'offendo che si giudichi esser stata quella amicizia, affetto. La giovane aveva del merito, ed io non sono né un imbecille né un insensato né un ipocrita per vergognarmi e per incollerire cóntro un tal giudizio. Chi ama non è che un uomo, e chi porta il vizio in trionfo col titolo di galanteria non sarà mai più che

un bruto ed un empio, per quante autorità possa allegare de' pari suoi. Il mondo,tuttoché corrotto, averà sempre in abborrimento tanto il cinico impudente quanto illibertino svelato. Dall'ipocrita al dissoluto, all'amante, ci sono le mille miglia di lontananza; ma il libertino dissoluto ha sempre proccurato di fare dell'amante tenero, benefico, cauto rispettatore della buona fama d'una donna, e dell'ipocrita, una famiglia medesima, per difesa al di lui schifo costume.Il mio diletto per il teatro, la mia brama di conoscere e di osservare tutti i cetti degli abitatori del nostro mondo, il mio dar gratis tutte l'opere scenichemie quali si sieno, il buon avvenimento di quelle mi fecero tanto noto che tutte le persone le quali esercitano le professioni teatrali della comica, della musica, della danza, crederono di avere un indispensabile bisogno del mio consiglio, del mio parere e del mio aiuto nelle rappresentazioni, ne' prologhi, negli addi

o, ne' metri di caricare di note, nelle idee e nelle direzioni de' balli pantomimi, tragici, cornici, ecc.Ho tenuta pratica famigliare perciò nel mio albergo, negli alberghi altrui, ne' teatri e per le vie, pubblicamente e senza alcuna riserva, con un numero innumerabile di comici, di comiche, di maestri di musica, di canterini, di canterine, diballerini e di ballerine. Se le voci d'una infinita schiera di virtuosi, e spezialmente di virtuose teatrali, possono fare una legittima testimonianza, si troverà ch'io fui con quelli soccorritore non mai venale, e con queste uno scherzevoleurbano satirico, e più utile amico che galante dimonio seduttore, che ridicolo vagheggino e che animale dissoluto.Le memorie della mia vita, le confessioni ch'io farò de' miei amori e queste solenni pratiche d'una lunga serie d'anni dovrebbero dimostrarmi a tutte le occhiaiede' viventi spregiudicato abbastanza e salvarmi dal brutto nome d'ipocrita, da m

e in tutte l'opere mie perseguitato, calpestato e deriso.Non mi crederei spregiudicato ma stolto, se nel mezzo a queste pratiche, orbo per amore delle veneri sceniche, avessi sbilanciata la mia economia per fare il generoso, guidato da' trasporti della passione e del vizio; se fossi caduto nel laccio d' un matrimonio di conseguenza dannosa alla mia famiglia, a' miei parentied al buon nome di me medesimo; se fossi stato un turpe mezzo, anche innocente,allo sfogo delle altrui concupiscenze.Molte superiorità chiamate filosofiche de' nostri giorni non sono che bestialità, le quali saranno derise e sprezzate in ogni secolo dall'unanimità di tutto il mondo; e chi si beffa del giudizio di tutto il mondo è condannato da tutto il mondo all' ospedale de' pazzi, in cui può a suo senno pavoneggiarsi co' suoi pochi sozi, commiserando comicamente la generalità degli uomini, come un filosofo dicentesi spregiudicato.Alcun sciocco potrà credere ch'io cerchi della giustificazione e degli elogi in questa mia disgressione. Cotesti sciocchi maliziosi non dubitino. Nelle verità ch'io sono per dire intorno alla mia amicizia con la Ricci, mi troveranno più sciocco e più ridicolo ch'essi non sono.M'era internamente proposto di far tutto il bene a me possibile a quella giovane, certo di fare un bene nel tempo medesimo alla società comica da me protetta, seavessi potuto far d' essa una buona attrice, facendo smentire tutti i di lei nimici e vincendo l'opinione favorevole che aveva pronunziata in di lei vantaggio,di troppo combattuta. Ella aveva dello spirito, una buona voce, una memoria felice, una velocità di comprendere sorprendente, un buon aspetto, e sapeva accomodarsi leggiadramente per il teatro. Era mancante di attenzione ne' dialoghi delle sue scene, mancante di naturalezza e mancante di vera sensibilità nelle parti che ra

ppresentava; difetti nimicissimi alla necessaria illusione teatrale, ma difettich'io m'avvedeva succedere dalla poca intelligenza, dal poco impegno del cuore e dalle distrazioni donnesche.

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Qualche coltura letteraria avrebbe potuto soccorrerla; ma ella era spoglia affatto di cotesta coltura, come sono, forse per un abbandono di Melpomene e di Talia, quasi tutte le attrici dell'Italia. Ella medesima mi confessava che, tra cinque o più di lei sorelle, era stata la più trascurata; che aveva avuti alcuni principi nella scola della danza, ma che, apparendo dalla fiacchezza nelle sue ginocchia la fisica impossibilità di poter riuscire una buona ballerina, la madre, povera e priva del marito o col marito indolente e amico del vino, l'aveva destinata a'

bassi servigi della famiglia, per i quali aveva continue mortificazioni; che dimostrando del coraggio e del genio per l'arte comica, un certo Pietro Rossi, capo d'una compagnia di commedianti, l'aveva chiesta alla madre per attrice nella sua società, e che la madre gliela aveva consegnata, facendole un crocione materno in sulla fronte, dicendole: - Pensa a guadagnarti il pane e a non più venire a darpesi alla mia famigliuola di troppo aggravata.Per il cuore che s'era dato a chius'occhi, per una naturale disposizione al mestiere e per la sua giovinezza, gli applausi le avevano aperta la via a qualche progresso. Aveva io vinta coll'opera mia in di lei favore l'opinione del pubblico, il quale in vero non faceva che usarle giustizia. Non temeva ch'ella non facesse onore nell'avvenire alla mia assistenza nell'arte comica; ma dubitava che la sua educazione morale e il suo temperamento incon siderato e zolfureo ponessero u

n giorno o l'altro a repentaglio la mia cordialità e la mia pratica famigliare.Trovava in quella giovane una conversazione non spirituale di commercio di sentimenti, di perspicacia, di riflessioni o di contrasti ingegnosi, ma un accoglimento gioviale, molta decenza e pulitezza nella sua povertà, molta grazia comica ne'suoi racconti, uno spirito d'imitazione giustissimo di tutte le altre comiche italiane, delle quali mi faceva spesso un'esatta viva parodia, dell'abborrimento alle immodestie, de' punti d'ingenuità mirabili; e ciò che più mi piaceva in lei era che non poteva dire una bugia senza che una fiamma inevitabile nel suo viso non palesasse il vano sforzo che faceva nel dirla.A questa qualità, nelle mie osservazioni, affidava io stoltamente la mia direzione di cautela e la mia buona fede. M'avvidi col tempo ch'io doveva condannare i suoi punti d'ingenuità. In questi ella metteva in ridicolo e in una vista tanto spregevole gli amici che aveva avuti e che forse le avevano fatto del bene, ch'io av

erei dovuto dubitare che un giorno avvenisse a me ciò che vedeva avvenuto agli altri.La fiamma che compariva nel suo viso al dire d'una bugia non era perché le dispiacesse il dirla, era per la mancanza d'arte e per la rabbia che aveva di non poter colorirla di verità.Per quanto si affatichiamo, non possiamo giammai spogliarsi appieno dell'amor proprio. Crediamo facilmente di aver qualche merito maggiore di qualche altra persona, d'essere distinti; e il maschio che ha della parzialità per una femmina proccura insino di ingannar sé medesimo in sui difetti di quella, e vede agevolmente delle buone qualità nelle qualità pessime. Non v'é che il tempo, gli avvenimenti e le osservazioni che guariscano un uomo da tal malattia.Ho dette le attrattive che m'allettavano. Ecco il rovescio della medaglia, che suscitava le mie sospensioni e i miei dubbi. La prima prova d'amicizia ch'ebbi dal canto di quella giovane fu il non poterla mai indurre ad un'ora almeno per giorno di lettura di buoni libri, di spiegazione di colti francesi, d'esercizio discrivere qualche riga riflessiva e corretta. Tutte le mie persuasioni, le mie preghiere e tutti i miei rimproveri in questo proposito furono gettati. Mi adduceva ella che gli affari della sua famiglia le impedivano cotesti momenti. Averei voluto impiegare in ciò il maggior tempo della mia coversazione, come aveva fatto con le altre attrici della sua compagnia; ma ella mostrava tanta noia, tanto ribrezzo per l'esercizio sopra accennato che non mi fu mai possibile d'indurla ad un qualche studio, fuori che a quello di scorrere di passaggio le parti ch'ella doveva recitare in sul teatro. Confortata dalla propria audacia e animata da' pubblici applausi, credeva internamente, forse, di non aver bisogno d'uno studio coltivatore del di lei animo e del di lei intelletto.

Nondimeno, tra gli affari ch'ella mi adduceva per scusa, i maggiori e che la occupavano quasi tutto il giorno erano la tavoletta, Io specchio eterno, l'attaccar merletti, il rinnovar nastri, il cambiar veli, lo studiare l'armonia de' colori

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, e simili faccende; armi utili per la scena, ma che poste nel sommo principal grado d'occupazione, oltre al desolare lo scarso onorario d'una comica del nostro clima e al porla in una pericolosa necessità, spiegano un'anima vana, più dedita ad adescare de' liberali voluttuosi che a vincere il pubblico applauso nel mestiere per la via del vero merito, e la conducono poco a poco da un leggero e scamoffioso pavoneggiarsi ad un affettato e snaturato modo di gestire e di recitare, al qual difetto la Ricci sembrava oltremodo inclinata.

Alcune espressioni che tratto tratto le scappavano dalla bocca, all' occasione di qualche mio motteggio scherzevolmente amaretto in sulla di lei estrema ambizione e relativo alle mie considerazioni e a' miei dubbi qui sovrapposti, mettevano alla luce le sue interne massime di contagiosa educazione. - Se altro non si acquista - diceva ella ringalluzzata e infastidita delle mie punture - che il nostro naturale stipendio, come resistere nell'arte nostra?Dopo queste proposizioni, da me combattute con de' giusti conteggi, delle sicurezze d'accrescimento di onorario, de' sani riflessi e infine con del disprezzo aperto, ella si costringeva ad assicurarmi d'averle fatte per semplice scherzo.Trovava in lei tanta pontualità ed esattezza nel pagare i suoi debiti, tanta temperanza e parsimonia in tutto ciò che non apparteneva alla sua appariscenza e al suo vano fasto, tanta ritiratezza fuori dal teatro, tanta morigeratezza ne' suoi di

scorsi e nel suo contegno, che mi lusingai, nella sua età ancora fresca, che il renderla utile alla compagnia comica in cui era, il soccorrerla nell'arte sua, ilfarle un buon partito, il proccurarle un congruo onesto stipendio,l'istillarle senza pedanteschi rigori de' sodi sentimenti di direzione, il trattarla con una sincera cordiale amicizia potesse guarirla da qualche principio pernicioso ch'ella potesse aver bevuto. Puerile lusinga riguardo a una comica. Lusinga nata in me forse per un po' troppo di parzialità da me per lei concepita, e lusinga ch'io paleso francamente per incominciare a far ridere il pubblico alle mie spalle e per mio avvilimento.Gli occhi mentali de' maschi che contemplano una femmina non possono fidarsi diavere una vista infallibile. Delle picciole piante producono de' gran veleni, ed ogni piccolo avvenimento può insegnare qualche cosa all' umanità. È per questo ch'ioannoio il lettore con una frivola ma pontuale narrazione della amicizia che acco

rdai a quella giovine comica.Sei anni interi di studio, di soziale amistà, di attenzioni, di possibili beneficenze, di comparatico non valsero un fil di paglia a fronte de' princìpi de' quali era imbevuta; e una giovane che con altri semi di educazione averebbe potuto riuscire una colta rara persona e una buona amica, trasportata da' primi germogli innestati nella sua fantasia, dalla forza delle adulazioni e dalle false dannate lusinghe, m'ha cagionate colle sue cieche imprudenze delle vicende che al mondo apparvero serie e importantissime, e che al mio istinto risibile non apparvero che come facezie del caso, a cui la ognora ridicola specie umana dà movimento.CAPITOLO XII.Mia amicizia dichiarata per la comica Ricci. Mie intraprese in di lei vantaggio. Mio comparatico. Mie lusinghe stolte. Mio primo ranno gettato.Prima di concedere la mia società fissa e dichiarata alla vista di tutti a quellaben disposta giovane attrice, per quanto parevami di poter indovinare, parvemi anche di poterle dire: - che ella era in una compagnia comica in cui (fosse impostura o virtù) si ostentava una esemplare onestà e si abborrivano le turpitudini e igarbugli prezzolati; ch'ella era stata dipinta con del calore da alcune lingue maligne (forse ingiustamente e per gelosia di mestiere) cochettina, insidiatricevenale, ricamata con de' racconti d' aneddoti poco onorevoli e predicata d'un carattere da guardarsene; che in vero la sua povertà e il suo contegno da me sino allora osservato dicevano il contrario; ch'io le sarei stato quel buon amico ch'ella dimostrava di desiderare, e che non averei avuto nemmeno riguardo ad esserlevisita giornaliera com'ella bramava e amichevole accompagnatore nel pubblico quando potessi, avvertendola tuttavia che non averebbe trovato in me un presumitore o pretensore di ricevere de' favori, né un loquace galante intrattenitore dicitor

e di nulla, e nemmen per sogno un adulatore; ch'io era però un uomo, ma un uomo capace di riflettere e capace del freno della ragione; ch'io conosceva che l'età mia di verso i cinquant'anni non doveva concepire delle lusinghe sproporzionate, e

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che il mio temperamento flemmatico e niente acceso mi concedeva la padronanza di me medesimo; che non sarei stato indiscreto nel pretendere che ella si alienasse dallericreazioni decenti, dalle amicizie non sospette e dagli onesti sollievi que' giorni e quelle sere che non fosse obbligata alla sua scenica ispezione; che la riserva nel costume in una comica raddoppiava il partito e gli applausi alle di lei abilità; che se, per disgrazia e non per mala direzione, il suo stipendio mensua

le le venisse meno prima della scadenza del susseguente e si trovasse esposta a' bisogni della vita colla sua famigliuola, non aveva che a darmi un cenno ingenuo; che le mie rendite e gli impegni miei non mi concedevano di far molto, ma che il mio cuore non mi concedeva nemmeno di lasciar languire le persone mie amiche; che se mai però, trasportata da alcuni falsi principi d'una libera scuola di prostituzione fastosa, o per le insidiatrici adulazioni o per i stimoli d'una stordita ambizione, ella cadesse a porsi nella vista del mondo, anche senza intrinseco errore, d'una franca mercenaria abbandonata ad una illecita fortuna, mi sareiallontanato dalla sua amicizia, senza però giammai divenirle nimico.- Alle comiche - aggiungeva io - non mancano circuitori di tutti i ceti. Il pubblico è assai mal prevenuto del loro costume, e poche apparenze bastano a farle giudicare quelle che talora essenzialmente non sono. Le visite de' maschi che hanno

 un nome deciso di voluttuosi e di corsari di Venere, sieno palesi od occulte, si sanno sempre per gli occhi d'Argo maliziosi delle persone teatrali e bastano a por le comiche nel numero delle ninfe prostituite; ed io non sono uno di quei filosofi che si adattano a difendere il costume e l'onore di queste tali, ad essere loro famigliare amico, né amante, né pubblica guida, per far la figura esosa di dissoluto, di mezzano o d'un più schifo personaggio, e per lo meno di scimunito accecato da una passione.Concludeva che non voleva nemmeno farmi nimici quelli che m'avessero giudicato ostacolo a' loro sfoghi; che se però le sue mire fossero contrarie alle mie dichiarazioni ingenue e alle mie massime fisse, e trovasse incomoda la mia maniera di pensare, bastava una sua parola per rimaner ella in una assoluta libertà; che siccome ella non poteva obbligar me a fare una comparsa contraria alla miavolontà e al mio buon nome, io non poteva obbligar lei a non essere libera padrona

 del suo albergo, della sua persona e dèlia sua riputazione; che, sollevato dall'obbligo d'amico di dover difendere e sostenere in faccia al mondo la sua buona fama per lei e per me, averebbe tuttavia trovato in me un uomo estimatore della sua comica abilità e che si sarebbe fatto un pregio di soccorrerla nell'arte sua; ma ch'ella doveva legarsi al cuore questa verità, che senza un contegno, in un'attrice, contrario alla prevenzione che il pubblico ha sopra lei, il nome d'amico sociale in un uomo d'onore non aveva a fare punto né poco col nome di comica.A questi discorsi veri da don Chisciotte morale, ch'io riferisco soltanto per far ridere il pubblico di me o per conciliargli il sonno (discorsi ch'io replicaidi quando in quando ben trenta volte alla mia macchinetta, a misura che parevami di scorgere la necessità di doverli fare), ella mi rispondeva che tutte le oneste persone si congratulavano con essa di vedere ch'io aveva per lei dell'impegno e della predilezione; che la stimolavano a cattivarsi la mia amicizia e la esortavano a guardarsi con accuratezza di darmi de' motivi d'allontanarmi da lei. Nonommetteva di nominarmi coteste persone da me conosciute. Che più? Ella mi giuravache sino il di lei confessore esaminandola sulle sue pratiche, l'aveva esortataa non staccarsi giammai dalla mia, ch'egli considerava un portento nel nostro secolo. Questa asserzione mi sembrava un po' troppo affettata e comica.Niente la tratteneva però di accendersi contro le lingue maligne che laceravano la sua fama; lingue ch'ella considerava di femmine. Inveiva contro quelle con un po' troppo di veemenza e di stizza contrarie a' ricordi del confessore, e la peggior cosa era che terminava le sue invettive esclamando: - Già tutte le femmine generalmente e teatrali e non teatrali, e alte e basse e mediocri, non sono che meretrici.Una così strana e vergognosa proposizione, che abbracciava anche lei, mi faceva de

lla sorpresa e dell'abborrimento. Conosceva però il nitro del suo istinto biliosoe subitaneo, conosceva la sua ignoranza e conosceva inquelle sue dannate espressioni il linguaggio e il liceo degl'intrepidi libertini

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 sfrenati ch'ella poteva aver uditi con qualche principio di persuasione.La trovava modesta, sincera, solitaria, non spigolistra, ma non aliena da' doveri d'una donna cattolica. Era giovine, e non tralasciava di lusingarmi d'essere in tempo di poterla ridurre a temere le perniciose condanne de' giudizi del pubblico e di farla pensare con qualche dramma di prudenza per le vie della cordialità, della ingenuità, d'una chiara logica e delle possibili beneficenze. Chiunque vorràcredere che un po' troppo d'affetto, più che la ragione, facesse nascere in me le

accennate lusinghe, può farlo, condannarmi e ridermi in faccia, senza ch'io mi offenda.La Ricci aveva un marito, buona persona e che prima di fare il comico aveva fatto il libraio. Quell'arte aveva lasciato in lui una spezie di fanatismo letterario. Leggeva tutto il giorno e tutta la notte, e scriveva de' grossi volumi da porre alle stampe, co' quali diceva egli d'essere certo di fare un grosso guadagnoe delle investite per sé ed eredi.La sua indefessa faticosissima sterile applicazione lo alienava dalle cure domestiche, delle quali lasciava il peso e la direzione alla moglie, niente chiedendo per sé e niente badando alle sue scarpe rotte e alle sue calzette infangate, forse per imitare un filosofo. I frutti delle sue enormi erudite vigilie arano una magrezza cadaverica e de' sputi di sangue pettorali, che potevano terminare funes

tamente in una tisi, con pericolo di infettare la sua famiglia.La moglie impetuosa lo sgridava ferocemente sulla di lui letteraria perniciosa sterile fissazione, e il marito con un'eroica superiorità commiserava la di lei crassa ignoranza e proseguiva ad ammazzarsi per la via dell'erudizione.Non so qual accidente o qual genio avesse conciliato quel matrimonio, ch'era inun grado sommo sproporzionato e contraddicente; pure ad onta di tutte le contese e le strida, pareva che nel fondo de' loro cuori non si volessero del male, e i loro contrasti, interrotti da me con qualche facezia e che terminavano colle risa, mi servivano di trattenimento come una scena comica.La povera Ricci aveva un marito, un figlio, una serva; era gravida, d'una sanità non ferma e non robusta, ed era immersa in una indigenza che si faceva palese dase medesima, senza ch'ella la esagerasse per farla intendere, qualità che non poteva dispiacermi. Il suo onorario, insieme col marito, di cinquecentoventi ducati

all' anno, per aver il quale aveva firmata una scrittura per più d'un anno, era in vero miserabile in confronto a' pesi e agli impegni suoi, lasciando da un canto l'ardente passione e il trasporto ch'ella aveva illimitato per un capriccioso lusso e per quella peste delle fantasie, introdotta generalmente anche nelle private famiglie sotto il titolo di buon gusto.Per proccurare del bene al possibile a quella tale mia amica, conveniva ch'io m'addossassi qualche pensiere di direzione. Non mancai di questo amichevole debito.Dissi che la compagnia del Sacchi aveva un sommo credito nel costume morale. Molte famiglie nobili, civili ed agiate di Venezia si facevano un piacer d'aver commensali gl'individui mascolini e femminini di quella società comica.La malignità, la gelosia di mestiere e la ingiustizia avevano pregiudicato il buon nome della Ricci, e una noncuranza verso a questa e una predilezione verso alle altre sue compagne, di tutte le accennate famiglie protettrici al bene della compagnia, feriva non meno il buon nome di quella giovine che la mia pratica, e non mi piaceva. Trovava la meschina onorata, morigerata, di abilità, e parevami ch'ella dovesse partecipare de' favori che godevano tutte le sue concomiche. Scorgeva essere ciò necessario per lei e per me.Si noti questo mio scimunito primo impegno di farmi in certo modo mallevadore del di lei merito, del di lei sano costume, della di lei bontà. Un tal impegno a cui m'esposi ha molto che fare con gli eventi successivi di questa mia amicizia balordamente incontrata, di cui siamo in accordo che ognuno possa ridere se ne ha voglia.Rimproverando le altre comiche soavemente ed esagerando con arte e moderazione la pura verità che m'appariva del buon costume e della ritiratezza della Ricci in t

utte le dette famiglie parziali della compagnia, la posi in un breve tempo nel favorevole possesso di tutte le altre sue compagne.La mia incauta o stolida buona fede non sospettava che con un poco di tempo pote

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ssero scoppiare delle mine occulte di temperamento o della prima educazione, forse accese dagli effetti dell'adulazione, che smentissero le mie amichevoli buone testimonianze e mi facessero scomparire.De' pranzi nobili e di oneste brigate, a' quali io medesimo la conduceva ed a' quali ella non mi faceva che dell'onore col suo contegno; degl'inviti di ricreazione nelle nobili, civili ed onorate famiglie, a' quali veniva meco; delle oneste pratiche d'uomini e di donne, che introdussi nella di lei abitazione, fugarono

ogni nebbia seminate in di lei svantaggio e le fecero, com'ella meritava per lasua abilità, un forte partito.Degli animi frementi in secreto per un' invidia ch'io avrei dovuto prevedere non mancarono di farmi giugnere de' ciechi viglietti, i quali mi pronosticavano, con poche righe di spropositi, ch'io mi sarei pentito un giorno degli impegni ch'io prendeva e dell'amicizia famigliare con cui trattava la Ricci.Si rida. Riandando con la mente le anteriori avversità che la giovane aveva sofferte, que' viglietti mi facevano maggiormente entrare in puntiglio di sostenerla.Li giudicava dettati dal livore. Non mancava però di comunicarli alla comica, freddamente, apertamente, scherzevolmente e senza riguardo, per porla in una maggiore attenzione sulla di lei condotta. Ella ardeva di bile. Si lasciava fuggire delle impetuose parole che non suonavano bene. La correggeva e scusava l'indole sua

 combustibile.Seguo a narrare il bene che le ho proccurato, per rendermi sempre maggiormente ridicolo. Commiserai al capocomico Sacchi lo stato infelice domestico della giovine. Provai come un abachista che una scrittura di cinquecentoventi ducati all' anno non poteva che porla in una di quelle necessità di far ciò che nella onorata sua compagnia non si comportava; che la donna era utile al di lui interesse e che la di lui società era fortunata, doviziosa abbastanza perch'egli potesse essere più soccorrevole senza danneggiarsi.Non diro che il Sacchi sia disceso a riguardo mio all'equità. Egli però, ad onta della scrittura firmata per degli anni parecchi, accrebbe centotrenta ducati circaall' anno alla giovine, col pretesto, verso a' suoi sozi, di accordare uno spesato comico di tre lire per recita al di lei marito, ch'egli trovava più capace nella professione e più utile alla compagnia che non aveva creduto. A tale condiscende

nza, il Sacchi indirizzò verso a me queste parole: - Lei vedrà, signor conte, che al nuovo anno delle nuove lagnanze sul scarso stipendio saranno intuonate.Egli diceva il vero. A dispetto d'ogni fissata convenzione, a misura che la Ricci si vedeva maggiormente applaudita dal pubblico e più necessaria alla compagnia,cadeva nelle inquietezze ogn' anno, nelle minacce d'abbandonare i compagni e nelle pretese d'un maggior onorario.In alcuni giorni ne' quali era disobbligata delle sue ispezioni teatrali, me lafaceva compagna e la conduceva meco pubblicamente a' teatri d'opera, di commedia o a quelle decenti ricreazioni ch'ella mostrava di desiderare. Era padrona d'essere mia commensale nella mia abitazione col suo marito, ch'io trovai sempre utile, civile, dabbene e quel letterato ch'egli era. La di lei conversazione era vivace, modesta, e mi divertivano le sue imitazioni esattissime delle voci, de' gesti delle comiche più famose e d'altre persone.Il di lei stato si avviava ad una congrua sussistenza. Siccome nel primo anno del suo ingresso in Venezia ella aveva presa a pigione una camera oscura, fetida,infelice, nel secondo anno s'era provveduta d'un picciolo albergo a pigione sopra se stessa, per maggior agio e maggior libertà.È assai più facile ch'io mi scordi se, nel corso di sei anni della mia buona amicizia, abbia dati de' soccorsi alla sua povertà che non è facile ch'ella si scordi d'averli ricevuti. Ciò è di molto, ma è dire una verità che non è spoglia di ridicolo. Posso dire soltanto di non aver mancato mai a' doveri dell'amicizia a misura delle sue circostanze, aggiungendo di non aver fatto nulla per lei inquesto proposito che potesse sbilanciare il mio stato, ch'io non ebbi giammai la boria di ingrandire con le parole come un parabolano fastoso, né la riserva di non palesarlo ingenuamente a questa tale mia amica, come se fosse stata una mia fi

glia medesima. Si rida.Di qualunque cetto sieno le femmine, se proccurano de' sollievi alla loro indigenza accidentale da' loro amici, sono esosi quegli uomini che non aderiscono poss

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ibilmente e che non prevengono anzi a levar loro il rossore delle richieste. Diqualunque cetto sieno le femmine che barbaramente, senza riguardo alcuno, per appagare i loro capricci o per arricchire, si valgono d' una cieca passione da esse, con tutta l'arte e con tutti i suggerimenti de' lor diavolini perpetui custodi, accesa negli uomini, gli rodono a segno di esporli alla miseria e alle beffedell'universale, non sono né amiche né amanti, ma scellerate, crudeli e stomachevoli arpie.

Io non aveva una cieca passione per la Ricci, come si vedrà, e quanto a me devo confessare di non avere trovato in lei indiscretezze o insidiosi artifizi. Ella era in quel tempo in sul punto della sua partenza con la comica compagnia e di andarsene alle piazze di Bergamo, indi di Milano, e non era gran fatto lontana daldover partorire. Sopra alcune sue civili espressioni con le quali mi protestavadegli obblighi e dimostrava il consueto comico dispiacere in sulla sua partenzada me, non senza le consuete mie grate risa, le raccomandai soltanto di regolarsi nel suo contegno in qualunque città.Le dissi ch'io m'era esposto in faccia il mondo cordialmente per difendere il suo buon nome e la sua sussistenza; che non mi sarei stancato di procurarle maggiori vantaggi. Le ricordai ch'ella aveva de' pertinaci nimici nella sua comica società, e la pregai a non pormi a de' repentagli e a non far disonore con delle impr

udenze alla mia parzialità dichiarata.Tutti i riflessi ragionati, gl'insegnamenti, i ricordi sinceri, le preghiere che noi maschi facciamo e doniamo alle femmine nostre amiche intorno ad una prudente direzione, quanto più sono efficaci e caldi, tanto più patiscono una sciagura insuperabile. Le donne sono tanto affascinate e invasate dal loro amor proprio, tanto persuase del loro merito, delle loro vittorie in amore, e tanto ambiziose chegiudicano sempre effetti della debolezza, d'una passione gelosa, ed ipocriti sermoncini tutti i buoni ricordi i sani consigli degli uomini loro amici. Le mie osservazioni conobbero ognora questa verità, e la Ricci me la fece conoscere più chiaramente d'ogn'altra donna, col passare del tempo.Tuttavia ella rispose allora a' miei discorsi che, per darmi un segno maggiore del buon desiderio ch'ella aveva di dipendere da' miei consigli e dalle mie direzioni, mi pregava a voler incontrare secolei una parentela spirituale, tenendo al

 sacro fonte quel parto ch'era vicina a fare. Discesi volentieri alla sua richiesta, dichiarandole che non averei intrapreso un viaggio per recarmi dov' ella avesse partorito, ma che un mio mandato di proccura averebbe supplito. Aggiunsi con una maniera apertamente scherzevole le parole che seguono: - La vostra richiesta è molto tiranna. Si vede che voi avete in considerazione il vostro interesse piùche non avete i poveri affetti appassionati che per avventura potrei avere per voi. Con la vostra parentela spirituale ponete crudelmente un argine insuperabile a' miei trasporti. - Tutto si rivolse in risa amichevoli.Ella mi pregò di qualche lettera di raccomandazione per Bergamo e per Milano, come fanno, tutte le persone teatrali, e molto più le femmine che gli uomini, per avere (dicono esse) qualche appoggio di partito. Siccome io sapeva l'effetto per lopiù inutile o pernicioso di coteste lettere, gliene feci una sola con le più favorevoli testimonianze di esemplare costume e di abilità, diretta al signor Steffano Sciugliaga, regio secretano degli studi in Milano, mio buon amico e compare, e alla di lui moglie, coppia di probità, di cortesia, di cordialità e di costume moralissimo, la di cui partenza da Venezia m'increbbe sempre.La Ricci passò a Bergamo, dove partorì una fanciulla che fu tenuta al battesimo permio conto, con un mio mandato di procura dal Sacchi, a cui commisi le mie convenienze relative alla chiesa e relative alla povera impagliolata. Ella passò a Milano, da dove mi scrisse le molte cortesie che riceveva dalli signori Stefano e Lucia Sciugliaga, miei carissimi compare e comare, dalle anime soccorrevoli e gentili dei quali meno non attendeva. Dalla noia che provo nello scrivere questo lungo capitolo misuro il tedio estremo de' miei lettori, sicché fo punto.

CAPITOLO XIII.

Nuovi tratti della mia sciocca amicizia perseverante per la comica Ricci.Al terminare delle récite della sacchiana compagnia di Milano, ricevei una lettera dell'amico Sciugliaga, che mi metteva in un dovere cristiano verso la mia novel

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la comare Ricci. Egli mi scrisse che il marito di lei era infermo e che, fatto da lui esaminare e visitare da certo celebre dottore Moscati, era stato dichiarato per tutti i segni evidenti tisico in terzo grado; che la moglie, giovine, nonmolto robusta, e i teneri figli sarebbero caduti nella stessa miseria, senza una separazione. Mi avvisava di ciò per scarico della di lui coscienza, e mi mettevanel debito d'uomo compare di darmi un doveroso pensiero sopra a tale imminente sciagura. Era questo un cattivo principio al mio comparatico. Sentiva però, come l'

amico Sciugliaga, i stimoli della umanità e della pietà, e m'accinsi a de' passi opportuni.Il Sacchi in que' tempi non pareva disumanato. Egli era giunto a Venezia prima degli altri compagni, per porre in assetto l'apritura del suo teatro. Gli palesai la circostanza della Ricci, gli feci vedere la lettera dell'amico Sciugliaga elo pregai a contribuire possibilmente al riparo d'una povera sfortunata, ch'eraun'utile attrice alla sua compagnia. Quell'uomo di temperamento fumoso si sorprese del caso. - Dio guardi - mi disse - che nella compagnia si sparga la voce che il marito della Ricci è infetto d'una tisi, s'apre un inferno di sussurri e di dissensioni.La mia flemma lo fece flemmatico. Concluse che sarebbe stata cosa ottima, all'arrivo della compagnia in Venezia, l'indurre il marito della Ricci, con qualche pr

etesto sulla di lui salute, di portarsi nella sua aria natìa di Bologna, e che gli sarebbero state contribuite tre lire il giorno alla di lui sussistenza per alcuni mesi, quantunque non servisse in quel frattempo la compagnia della di lui professione. Mi aggiunse: - Nel corso di que' mesi o egli guarirà o morirà. Di cosa nasce cosa; ma è ben difficile il trovare persona di direzione che si esponga a separare un marito da una moglie, senza strepito, senza dicerie e con prudenza.Credei la persona più opportuna in tal maneggio la signora Emilia Ricci, madre della mia comare, ch'era in Venezia. Mi portai con sollecitudine da quella femmina, e informatala di tutto a puntino, la consigliai a condurre con cautela e da buona madre quest' affare, trattandosi della salvezza della di lei figlia e degli innocenti figliuoletti. Ella esagerò de' ringraziamenti per il bene ch'io aveva proccurato e sopra la generosità del Sacchi. Si mostrò disposta a condurre la faccenda, e la credei capace, per esser ella assai destra e per aver ella esercitata la p

rofessione di comica nei suoi buoni tempi.Ecco il concerto: ch'ella farebbe esaminare l'infermo da un suo amico medico, dottore Trivellati; che senza disperare l'ammalato di guarigione, gli farebbe proibire di affaticare i polmoni, coll'alienarsi dal recitare. Lo farebbe consigliare a portarsi nell'aria sua natìa di Bologna in quiete per alcuni mesi, con una prescritta medicatura; che quanto alla sua povertà, si tenterebbe di far discendere il Sacchi a qualche contribuzione giornaliera per que' mesi che stesse in medicatura appresso i suoi parenti in Bologna. Il concerto non poteva esser migliore, se quella madre lo avesse eseguito come prometteva.Giunta la mia protetta comare in Venezia, fui a visitarla. Ella venne a incontrarmi co' suoi soliti modi, che avevano tutta la apparenza della cordialità. La vidi estremamente scarnata, pallida e afflitta. Le chiesi il di lei stato. Mi rispose con un atto di disperazione e con del timore d'essere udita: - Signor compare, sono fuori di me; mio marito sputa continuamente sangue marcioso.Devo necessariamente dormire con lui, e vivo in continua agitazione per me e per i miei poveri figli.La calmai narrandole il da me proccurato e stabilito. La esortai ad aversi qualche riguardo per pochi giorni. Quanti vivi ringraziamenti ! Con de' savi trovatiella divise frattanto dal suo letto l'infelice giudicato tisico.La di lei madre, non so il perché, non si curò mai di porre ad effetto i concerti; e siccome io non volli far la comparsa a me inconveniente di dividere quella moglie da quel marito, la povera giovine, vedendolo di giorno in giorno peggiorare nella infermità con pericolo di lei e de' figli, fu costretta a palesare ella medesima al marito la necessità della separazione; il che fece senza disperarlo, da abilissima femmina, e con una direzione che accrebbe la mia stima per lei.

Quell'uomo d'ottimi sentimenti ricevè il poco allegro avviso cristianamente e si dispose a partire rassegnato per Bologna. Raccomandò piangendo a me con tutto lo spirito la moglie ed i figli, e partì per Bologna verso la casa de' suoi parenti, co

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lla contribuzione giornaliera che il Sacchi con esattezza gli mantenne.A questo passo narro per incidenza che il dottore Moscati di Milano aveva presouno di que' sbagli che tutti i medici del mondo possono prendere. Il marito della Ricci non era tisico in terzo grado, e nella quiete ch'ebbe in Bologna, con qualche medicatura si rimise in salute e in uno stato di poter ritornare a servire del suo mestiere la comica compagnia, come avvenne alcuni mesi dopo la sua andata a Bologna.

Egli è ben vero che la moglie, sospettosa e dubbiosa d'una equivoca guarigione o per altro, si divise di stanza e di letto per sempre dal marito ne' tempi posteriori a' casi avvenuti.CAPITOLO XIV.Seguo ad essere amico della Ricci in modo da far ridere una moltitudine alienissima da' miei sistemi.Le circostanze della Ricci che con l'allontanamento del marito mi parvero differenti da quelle di prima, m'indussero a farle un amichevole discorso. Le mie visite giornaliere, mentr'ella aveva il marito appresso, e la mia palese parzialità erano tanto da lei desiderate e coltivate che, se passavano due giorni senza la mia visita alla sua abitazione, me la vedeva comparire col marito alla casa mia, a lagnarsi e a chiedermi la causa d'una tal privazione e perdono s' ella per avve

ntura avesse dati motivi per qualche innocente inavvertenza. Proccurai dunque col mio discorso di farle comprendere che una giovine comica maritata, coll'assenza del marito entrava in una maggiore necessità d'una condotta riservata.Le rammemorai ch'ella aveva de' nimici nella sua compagnia che avrebbero ritentato di lacerare la sua riputazione al più picciolo indizio, dipinto per fatto verola più minuta apparenza, e ch'io medesimo averei rese rare le mie visite, senza però perdere di vista i di lei vantaggi, che siccome io poteva avere la sua conversazione ogni sera pubblicamente ne' stanzini del palco scenario, non v'era bisogno ch'io le facessi ogni giorno visite famigliari nella sua abitazione, per suscitar nel caso suo sulle lingue perverse mal disposte, massime di comici e comicheabilissime nella mormorazione, de' giudizi più che indiscreti sopra a lei, e sopra me.Chiunque avesse veduta la sfortunata giovine a questo

mio annunzio, riderebbe con qualche parsimonia della compassione ch'ella potè destare nell'animo mio. Dimagrata, pallida, di salute non ferma, abbassò gli occhi alla terra con qualche lagrima trattenuta, e dopo alquanto di taciturnità che sembrava cagionata da un intenso dolore, non disse che con voce moderata le seguenti parole: - Nel mezzo a' nimici, priva del marito, vicina a rimaner vedova con due figli, senza alcun appoggio! Sono abbandonata da tutti. - Ricadde in una profonda mestizia.Quantunque tutte le sue parole non contenessero verità, nella sua circostanza la sua immaginazione poteva vedere in tutte quelle un'afflittiva innegabile verità. Isuccessi dell'avvenire faranno conoscere che, per una compassione e una credulitàimbecilli verso un'attrice teatrale, discesi a confortarla. Le promissi che nonaverei alterate le mie consuete visite e la mia palese predilezione per lei, quando però ella col suo contegno non facesse scomparire agli occhi del mondo la miaparzialità. Affidai in ciò al titolo di compare, all'età mia, alla mia indifferenza edisinteressatezza. Chi sa che l'affetto non sia stato il più forte argomentatore a convincermi. Qual vergogna mi potrebbe venire a confessarlo?Non sono mallevadore che internamente ella sentisse l'afflizione che dimostravaper le sue circostanze. Doveva sentirla o sapeva dimostrarla comicamente, e credei dovere di buon amico e compare il proccurarle e concederle que' mezzi che potessero sollevarla e confortarla. Quanto al suo stipendio, ella aveva allora perse sola cinquecentotrenta ducati all'anno, essendo il marito mantenuto a Bologna a spese della compagnia comica; ma senza dar retta ella a' patti firmati da lei di servire la compagnia per alcuni anni ancora e d'esser contenta d'un tale onorario, gridava e strepitava di nuovo di non voler servire per così scarso stipendio.

Benché sapessi io che l'onorario di cinquecentotrenta ducati era de' maggiori cheuna comica compagnia italiana nella sua naturale scarsa ricolta potesse dare a una attrice, vedeva bene che un tale onorario non era una ricchezza, e m'infastid

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iva solo la facilità con cui quella giovine calpestava la sua parola data e firmata. Nullaostante commiserai il di lei stato e i di lei pesi colla compagnia tutta, efficacemente. Proccurai di farle amici la maggior parte de' sozi.Il Sacchi capocomico, per i miei stimoli veniva meco a visitarla, a ricrearla con molte facezie e a dimostrare della considerazione della di lei comica abilità. Non mancava dal canto mio di renderla coll'opere mie sceniche ognor più applaudita

dal pubblico e più necessaria alla sua comica società, unico onesto mezzo per far aumentare il di lei comico stipendio.Seppi da lei improvvisamente che, nulla ostante la scrittura da lei firmata di ducati cinquecentotrenta all' anno per tre anni, il Sacchi le aveva accresciuto uno spesato di due lire al giorno, vale a dire cento e più ducati all'anno in aggiunta. Non dirò che le mie commiserazioni e i miei riflessi fatti al capocomico e a' di lui compagni abbiano cagionato quell'aumento. Il Sacchi giustificava co' suoi sozi questa sua disposizione in vantaggio della Ricci, sul bisogno ch'ella aveva di accrescersi un equipaggio che decorasse la compagnia. Ogni volta che mi passa per la mente quella sua giustificazione, rido. Dirò la causa delle mie risa. Gli osservatori trovano in tutto qualche cosa da imparare.La Ricci senza il compagno marito aveva bisogno d'un amico e compagno di assiste

nza nelle cose sue domestiche e di confidenza, tanto in Venezia quanto ne' sei mesi che stava con la compagnia fuori di Venezia. Ella scelse un giovine comico appellato Carlo Coralli, della compagnia, uomo più educato degli altri suoi compagni, ma bolognese raggiratore e imprudente per quanto dirò. Io voleva bene al Coralli per le sue educate maniere e per la comica abilità. La gioventù è scusabile. Non misono mai sognato d'aver dispiacere di quella tale amicizia, e anzi la difesi contro coloro che la malignavano e la tergiversavano. Trovava con frequenza da quella mia comare molte visite mascoline, di comici, di mercanti onorati, di procacci di Firenze, di Bologna, di Modena e di altre simili persone da lei conosciute. Vedeva tutte le visite di questa spezie volontieri.Le ricordava soltanto con costanza, risolutezza e frequenza che pretendendo ella le mie visite e la mia pubblica parzialità palese a tutti, come s'ingegnava di fare, si guardasse con del rigore dalle visite di que' maschi, massime nobili, con

osciuti dalla città tutta splendidi passeggeri pirati dì Venere, che farebbero lampeggiare il suo disonore e contaminerebbero la mia dimostrata parzialità e le mie visite; ch'ella tenesse a freno la sua ambizione donnesca di falso sistema e non accettasse doni di conseguenza da' dissoluti, per non imbrogliarsi; ch'ella non tentasse garbugli con la vana speranza di secretezza; e infine la pregava ad essere meco sincera, perch'io potessi salvar me medesimo con un pacifico e prudenteallontanamento, lasciandola in balìa di quella libertà di cui era assoluta padrona.Tuttoché le dicessi queste cose con un'amichevole dolcezza, terminando le mie ammonizioni con de' scherzi e delle lepidezze, esse non contenevano però nessuna di quelle adulazioni che tanto a lei piacevano. Parevami di scorgere nel suo internode' fremiti contrari ai miei sistemi ed a' miei ricordi; ma ella sapeva costringerli, e il bene che le voleva e la sua età giovanile rinverdivano le mie lusinghedi poterla indurre con un poco di tempo a pensare con della moderazione e dellavirtù. Fui uno stolido, e mi rincresce di dover confessare la mia stolidezza soltanto perché la mia confessione riesce a discapito di quella povera femmina, rovinata e resa insanabile da de' principi di antimorale d'una falsa filosofia.Convien dire che l'amor suo proprio, ch'era l'unico suo consigliere obbedito, mi dipingesse agli occhi suoi un appassionato d'amore geloso; che i miei ragionamenti, i miei ricordi non le apparissero che come le stolte voci della gelosia; econvien dire che la mia amicizia, il mio comparatico, le mie visite giornaliere, la mia parzialità palese a tutti, da lei proccurate e coltivate, non fossero da lei cercate che per tenere in soggezione la sua compagnia comica, per tenermi obbligato a farla comparire in sul teatro colle opere sceniche mie a di lei vantaggio e perch'io servissi d'ombrello a que' trapassi a' quali la sua ambizione, lasua avidità e la prima sua educazione la strascinavano. Si vedrà nel séguito di queste

 frivole ma ingenue memorie questo mio giudizio verificato.Averei dovuto fare un tal giudizio fin da quel tempo e allontanarmi da quella comare. L'impegno in cui era io di sostenere non meno che i passi ch'io aveva fatt

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i a fronte aperta a risarcimento della di lei abilità comica, del di lei onore lacerato; le testimonianze ch'io aveva fatte della di lei regolarità di costume non solo colla comica compagnia ma con moltissime onorate famiglie nelle quali l'aveva introdotta, e infine la mia dabbenaggine non m'avranno lasciato fare in quel tempo né previsioni né risoluzioni.CAPITOLO XV.Facete nuove scoperte che avvalorano i miei giudizi e mia più faceta perseveranza

in amicizia,Ebbi ben tosto un nuovo forte motivo di risolvermi ad un allontanamento da quella attrice, e non l'ho fatto per le sopraddette ragioni e lusinghe. L'appoggio maggiore della mia speranza di poter ridurre ad un sano pensare e operare quella giovine, era nel vederla modestissima e aliena da uno stimolo brutale de' sensi.Giammai in cinque anni della mia amicizia e delle mie visite giornaliere domestiche, vidi nella Ricci il menomo tratto che dinotasse sfrenatezza, lascivia o libertinaggio. Paleso questa innegabile verità per giustizia.Il Sacchi capocomico, ch'io aveva stimolato a venir meco a visitarla per di leisollievo e conforto, uomo ottuagenario, fu preso da un fuoco d' amore brutale per quella giovine mia comare, amore più comico di lui. Chi avrebbe immaginato che un uomo di ottant'anni, gottoso e con le gambe gonfie, che doveva avere il ghiacc

io nelle midolle, fosse suscettibile d'un tal incendio? Fui innocente mezzano aquesto ridicolo colpo di Cupido.In alcune visite ch'io feci accidentalmente ad un'ora insolita alla comare, scopersi quella fiamma maravigliosa. Salendo io la scala vidi come un lampo il vecchio correre come poteva a celarsi da me. Avendo veduta una tal fuga due o tre volte al mio arrivo, mi sorpresi, ma finsi cecità ed ignoranza né feci parola, conoscendo di qual scena pericolosa sarebbe stato cagione il dir verbo in tal propositoalla giovine. Diceva solo a me stesso: - Perché mai il Sacchi che tante volte viene, con me e senza me, liberamente a tener conversazione alla Ricci, cerca ora di fuggire e di nascondersi quand'io giungo!A me incresceva soltanto quel nascondersi da me, l'imbroglio a cui si esponeva la giovine ciecamente per de'falsi principi di educazione, il disonore ch'ella faceva agli uffizi, a' contras

ti, alle testimonianze co' quali l'aveva posta in ottima riputazione con tutti,e infine il di lei pretendermi visitatore quotidiano e l'essermi reso di lei accompagnatore pubblicamente al ridotto, a' teatri, a' casotti, per le vie, nella piazza, a' pranzi, alle cene di compagnia, alle conversazioni, come un'amica incapace di disonorare se medesima ed un amico.Non m'offendo che si rida della delicatezza del mio pensare e della mia sciocchissima buona fede per quella tal comica. Scrivo diffusamente la ingenua storia di questa mia amicizia, perché non volli mai avere la fatica di narrarla a que' molti che me la chiesero, e perch'ella m'ha cagionate delle solenni peripezie, che avrebbero alterato l'animo d'un uomo meno di me risibile e imperturbabile, ma che possono servire d'avvertimento a chiunque s'avvicina e addomestica troppo con una società di comici e di comiche, per quanto egli sia benefico, disinteressato esincero.Fingendo ignoranza stava a vedere a che riusciva il garbuglio e il nascondersi da me del comico decrepito. Finalmente trovai una mattina la comare, ch'era giunta poco prima a casa, che spiegava un taglio di forse trenta braccia di raso candido, incantata nel contemplarlo.-Avete fatto delle spese? - diss'io.- Sì - rispose ella; - bramava di avere un abito di raso bianco, e sono stata a provvederlo.- Voi vi lagnate sempre della scarsezza del vostro stipendio, e mi consolo però di vedervi in istato di accrescervi equipaggio e di appagare qualche vostra brama- diss'io con un modo amichevole.- Fu con me il Sacchi questa mattina - rispose ella - a farmi piegieria ad un mercante che m'ha dato questo raso a credenza, e sono in accordo col Sacchi di rilasciargli tre zecchini il mese del mio onorario per pagarlo. Ho detto che la Ric

ci non aveva la facoltà di dire delle bugie per delle verità con franchezza. Un rossore improvviso nella sua faccia palesava il secreto. La vidi arrossire a questariferta. - Come! - diss'io con tutta flemma;

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- m'avete fatto un torto. Conosco per esperienza la vostra pontualità. Vi ho servita io altre volte di consimili piegierie; qual bisogno avevate del Sacchi mallevadore? Voi non siete meco sincera.Comparve una fiamma maggiore nel di lei volto. - Ebbene - diss'ella con del dispetto, - le dico la verità. Quel vecchio è innamorato perdutamente di me e vuol donarmi quest'abito. Pretende da me ciò che non averà mai.Scorsi allora la cagione de' nascondigli del vecchio capocomico, e senza la meno

ma alterazione feci all'attrice il seguente discorso con tutta la dolcezza: - Cara la mia comare - diss' io, - m'avvedo d'aver gettata sin ora ogni opera mia con voi. De' guasti principi di educazione e una sfrenata falsa ambizione tradiscono voi e tradiscono la mia buona amicizia. Senza qualche, forse inconsiderata, lusinga donnesca, un vecchio d'ottant'anni non si accende al segno che mi riferite. Vidi già il Sacchi molte volte a nascondersi al mio arrivo e tacqui, e voi tace te quanto me questo secreto garbuglio. Averei dovuto sospendere le mie visite per sempre a una tal sporca scena, e non le sospesi; siatemi grata.Qual bisogno ha il Sacchi di celarsi da me al mio giugnere nella vostra casa, in cui l'ho stimolato a venire, incui l'ho condotto e in cui l'ho sempre veduto volentieri come vostro capocomico disponitore delle rendite della compagnia e pervostro vantaggio?

Voi m'avete fatto divenire un oggetto d'ostacolo, che deve essere naturalmente abborrito dal Sacchi. Io sono divenuto innocentemente un oggetto che sforza a nascondersi da me con dispetto un uomo che m'era amico per il corso di più di vent'anni delle mie a lui utilissime beneficenze. Ecco l'opera vostra ed ecco la gratitudine con cui pagate la mia disinteressata amicizia e la pubblica dimostrazionedella mia parzialità per voi, che da me pretendete.Mi sono esposto a combattere per sostenervi nella vostra professione, per risarcire il vostro onore dilapidato; ho tutto vinto. Voi avete tutto contaminato conuna cieca ingordigia di possedere un abito nuovo di raso bianco con cui speratedi fare una bella comparsa. Quell'abito candido sarà sulla vostra persona il più macchiato, il più sucido, il più vergognoso di tutti gli altri abiti vostri, e abito d'infamia.Voi non riflettete che il vecchio Sacchi, il quale ostenta la figura di capocomi

co, ha una moglie vipera, due uniche figlie, una delle quali non muta e comica nella stessa vostra compagnia; che tutte declamarono contro voi nel mestiere e nella riputazione del vostro costume; che tutte v'invidiano ed odiano cordialmente; che tutte stanno con gli occhi spalancati sulle direzioni di questo vecchio vizioso co' piedi nella fossa, attendendo la di lui morte per beccarsi la sua eredità.Voi avere animo di passar sopravia a tutte queste prudenti e necessarie riflessioni, d'insidiare la borsa di questo vecchio, d'esporvi al ludibrio di cui le lubriche lingue de' vostri compagni vi caricheranno, di rovesciare tutti i solidi onesti principi ne' quali m'è riuscito di piantarvi, tutti i legittimi progressi a' quali la mia amichevole direzione avrebbe procurato di farvi giugnere, d'imbarazzar me, d'imbarazzare voi, per una lorda vanagloriosa venalità. Vedrete quante amarezze vi costeranno quell'abito. Non vi lusingate di secretezze fra gli occhi d'Argo della malizia d'una comica compagnia. Parlo per voi e non per me.V'ho sempre detto che mi avereste buon amico, visitatore e assistente sino a tanto che non vi foste abbandonata ad una pessima fama. Il mio allontanarmi da voiquetamente mi salva. Non posso assicurarvi che anche il mio allontanamento non sia per accrescere le dicerie e la libertà a fulmini maggiori sopra voi e in dannovostro. Porrò in salvezza me, senza tralasciar di difendervi e di sostenervi coll'opera mia nella vostra professione.Conosco il vostro amor proprio e il vostro cervello. Voi mi farete nel vostro interno l'onore di credermi innamorato di voi e geloso del decrepito vostro amante con questo mio ragionamento. Guarite da questa muliebre stolidaggine. Vi amo, e sono soltanto geloso della vostra e della mia buona fama. Non sono vizioso né uno di quegli animali filosofi del secolo che dicono: Si chiudano gli occhi e gli o

recchi, si goda e si lasci godere. È giusto però ch'io non m'erga legislatore, predicatore e pedante sulle vostre direzioni; ma è ben ingiusto che voi pretendiate che un amico e compare serva d'ombrello a' vostri sozzi garbugli. Vi lascio nella i

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ntera libertà vostra di cui siete assoluta padrona.A questo discorso, di ottimi sentimenti per una commedia ma troppo delicati peruna comica, la Ricci guardando il tefreno andava dicendo e replicando: - Non hoio fatta una bella cosa?- Vi accorgerete quanto brutta ella sia stata - diss'io levandomi per partire. - Signor compare - diss'ella trattenendomi con qualche lagrima, ch'io doveva credere più di stizza che di pentimento, - le giuro ch'io non ho creduto di far nessun

 male. Getterei volentieri quel raso fuori dalla finestra. Maledetto questo mestiere teatrale! Abbiamo sempre d'intorno de' diavoli che ci tormentano e ci tentano nella nostra debolezza. Quel vecchio m'ha sbalordita promettendomi argenterie, gioie, tavolette magnifiche e m'ha alterato il cervello.- Ebbene- diss'io, - non voglio essere d'ostacolo alle ricchezze che potete acquistare a costo della vostra infamia e de' libelli che la accompagnano, ma non voglio servire io d'ombrello né essere amico domestico e compagno d'una femmina della vostra spezie.- Sono prontissima alla restituzione del raso - soggiunse ella; - e poi si accerti che ho lasciato il Sacchi in dubbio di voler rilasciare tre zecchini il mesea pagamento. Quel vecchio insidiatore né ebbe né averà mai niente da me di ciò ch'egli tenta d'avere; le giuro ciò per quanto v'è di più sacro. Mi consigli, ia prego; vedrà che

 appuntino eseguirò il suo consiglio.- Mi chiedete consiglio assai tardi in questo proposito - diss'io; - ogni consiglio non solo è vano, ma è dannoso nella vostra circostanza, ed eccovi le ragioni.Il Sacchi, malizioso, vizioso, innamorato, d'indole bestiale, di giudizio corrotto, e comico, v'ha giudicata a quest'ora incapace della delicatezza di restituire o pagare quel raso. Non crederà mai che queste due proposizioni naschino dall'animo vostro, ma giudicherà che sieno suggerite dal mio consiglio, perché conosce abbastanza il mio sistema di pensare. Si accerterà che voi m'abbiate informato della sua laida debolezza. Il rossore, la rabbia, il dispetto faranno del Sacchi un dimonio. Concepirà un intenso odio verso di me, e sforzato a tenerlo occulto per le beneficenze avute e sperate da me, sfogherà le sue animalesche vendette contro di voi. Vi commisero. Voi non conoscete la perfidia di quell'animo infernale, per natura vendicativo. La vostra, benché tarda, rassegnazione merita compatimento. Io n

on posso consigliarvi che a quegli onesti doveri che vi devono esser noti. Vi avvederete che quell'abito, da voi creduto una fortuna, non è per voi che una sciagura.Due giorni dopo questo ragionamento ella mi riferì con ilarità d'aver detto al Sacchi di voler restituire il raso, quand'egli non le accordi di trattenersi tre zecchini il mese a pagamento, e d'avergli detto ciò con ferma costanza e risoluzione.- Io non posso che lodare il passo che faceste - diss'io; - ma non mi negate laverità; che rispos'egli a questa dichiarazione?- Dirò il vero sinceramente - rispos'ella: - egli mi guardò bieco, indi s'è ingrognato e mi disse: - Vedo, vedo da qual parte viene il consiglio. Bene, bene, Ella pagherà l'abito.- Povera comare! - diss'io; - apparecchiate l'anima a pagare il raso col denaroe con delle lagrime. Apprenderete quanto costi un trapasso a una vostra pari e l'insidiare de' brutali viziosi con delle lusinghe per aver de' regali.Difatto ella divenne da quel punto il bersaglio delle saette del vecchio perverso. Dal di lui trono di capocomico scagliava alla Ricci continuate acerbe mortificazioni e grossolani rimproveri sulla professione, né aveva riguardo che fosse presente il di lei compare, benefico alla compagnia, di usare a quella povera giovane i più villani tratti d'avvilimento. S'ella si trovava in iscena a far commediacon lui, valendosi della grazia ch'egli godeva del pubblico, non mancava di tratti buffoneschi facendo ridere gli spettatori alle di lei spalle per rovinarla.Che più? In uno stanzino del teatro una sera, dov'erano ben otto tra comici e comiche e v'era la Ricci e il compare, quell'animale diresse alla giovane non solo degli amari rimproveri, ma delle parole tronche in arcano in di lei disprezzo, le quali significavano d'averla già avuta in possesso all'ultima confidenza. Vidi la

 Ricci impallidire e quasi svenire.Era certo tra me che la Ricci non era discesa a tanta bassezza. Oltre a tutti gl'indizi che aveva per assicurarmi, il vigliacco esoso che osa di dire e cerca di

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 far credere ciò, è abbastanza empio per inventare de' falsi trionfi e delle calunnie. Conobbi che quel vecchio, valente comico ma cattiva persona, tentava di screditare quella infelice nella mia opinione, onde mi allontanassi da lei e la abbandonassi alle di lui vendette ed a quei fini suggeriti da una brutalità sensuale. La prudenza mi suggeriva di risolvere il mio allontanamento, ma parvemi di usareuna crudeltà non conciliabile coll'animo mio ad aderire al tentativo di quel mostro in quella circostanza. Anche alquanto di puntiglio e l'aver modo di farlo pent

ire ebbero parte nel tenermi fermo alla difesa di quella sconsigliata comare.Trovai la Ricci il giorno successivo desolata e immersa nel pianto. Al mio comparire ella incominciò da' giuramenti i più efficaci per assicurarmi che giammai il vecchio aveva avuto da lei il menomo favore, ed a pregarmi piangendo ch'io non credessi alle falsità di quel scellerato. Mi posi a ridere. Cercai di calmarla, e micontentai di rammemorarle le mie predizioni delle lagrime che le averebbe costato un passo falso, della cochetteria interessata e quel suo maledetto raso. - Questa non è la congiuntura d'allontanarmi da voi - diss'io. - Quel vecchio offende voi ed offende me ad un punto, ad onta de' benefici che ha ricevuti e riceve da me. Proccurerò di farlo moderato senza schiamazzi, ch'io non mi degno di fare, e senza solennità. Il mio dubbio è che voi possiate darmi argomento di abbandonarvi peraltri trapassi. Per questo, siate tranquilla, non vi abbandonerò.

Mi portai alla prima prova d'un'opera scenica che aveva donata alla compagnia, la qual prova non era che una lettura d'incontro delle parti distribuite con tutti gli attori e le attrici seduti in circolo. Il Sacchi con viso burbero non desisteva di dare delle frecciate di acerbe parole alla Ricci alla presenza della comica assemblea, e mostrava di rimproverarla sugli amori che correvano tra lei eil comico Carlo Coralli, ch'era nel circolo.Forse egli cercava, pensando nel suo astuto modo fangoso di destare in me dellagelosia di quel comico, senza riflettere ch'io vedeva volontieri assistente e amico della Ricci quell'uomo, come oggetto povero che non poteva por la Ricci in un aspetto infame di mercenaria dissoluta. Io non era geloso che della mia riputazione, ma i comici non pensano con sottigliezza e delicatezza. Dinotai qualche impazienza e qualche nausea sui modi tenuti dal vecchio contro una mia comare, senza degnarmi di profferire parola. Conosceva che il maggior castigo per i comici

 è il ferirli nell'interesse, idolo loro, e però disposi di porre a freno quell'uomo bestia dalla parte dell'interesse, senza far romori.Sospesi le mie visite dalla Ricci. La sera non fui ne' stanzini del palco scenario, com'era solito, e la mattina susseguente non comparvi alla seconda prova dell'opera mia. Bisbiglio comico. Ecco alcuni de' comici da me a chiedermi se fossi in poca salute. - Sto perfettamente - diss'io. - Ma che vuol dire - chiesero essi - che non ci ha favoriti ieri mattina alla prova dell'opera sua, né iersera ne' stanzini del teatro? - Ho degli affari, e la mia persona è superflua - rispos'iocon serietà. Replicai le stesse parole con sostenutezza a tutte le loro interrogazioni. Partirono. La sera non fui ne' stanzini, la mattina successiva non fui alla prova, né la sera ne' stanzini. Il bisbiglio comico divenne tumulto. Alle richieste di me alla Ricci, ella protestava e giurava la verità di non avermi veduto. Tumulto comico maggiore.Io mi spassava pensando alla confusione di quelle genti ferite nel loro interesse, e attendeva dove andava a riuscire la faccenda. L'altra mattina vidi comparire da me il comico Luigi Benedetti romano, nipote del Sacchi. Egli era affannatoe molle da una pioggia dirotta che cadeva. Questi mi fece varie proteste sulla confusione del Sacchi e de' compagni per la novità della mia privazione e varie ricerche sulla causa, ch'egli si infingeva di non sapere, con viso afflitto.Conosceva quell'uomo accorto e giudizioso. Tacqui i garbugli a me noti della debolezza del vecchio comico di lui zio, rispondendo le seguenti parole con una ilarità sostenuta: - Il Sacchi non cura né la mia presenza né la mia assistenza. Io non sono né un poeta prezzolato néun uomo di stucco. Egli o non assiste alle prove o se assiste non fa che gridare, rimproverare e tanagliare senza proposito la Ricci in faccia a' compagni e in

faccia mia né so il perché. La Ricci mi fu da lui raccomandata onde la facessi divenir utile alla sua compagnia. Ho aderito; ella è utile. La Ricci è mia comare, e le sono amico. Sarei io il primo a correggerla s'ella mancasse al suo dovere. Non pr

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etendo d'ergermi in protettore di comiche, non voglio contendere col Sacchi né oppormi alle di lui massime; ma non voglio nemmeno soffrire de' sgarbi. La prudenza mi suggerisce per miglior partito l'allontanarmi e dalla Ricci e da tutta la truppa comica. Dichiaro però ch'io non sarò mai nimico di nessuno e ch'io m'allontanosoltanto per fuggire dalle inconvenienze e dalle increanze che non mi si devono, per godere della mia quiete e perché un divertimento che mi prendo e un bene ch'io cerco di fare non degenerino in amarezze e in disgusti dal canto mio.

A questo discorso il Benedetti fu veramente e comicamente mortificato. Confessando che il Sacchi suo zio era per natura torbido, inconsiderato e stravagante, procurò di persuadermi che quell'uomo da molti giorni era frastornato da alcuni disordini relativi ad una sua figlia maritata, fuori della professione, a Castello;che ciò lo faceva stralunato, inquieto e più strano del solito, e che non sapeva ciò che si facesse o dicesse. Discese a degli elogi comicamente abbondanti verso di me, protestando ch'io sarei la rovina della compagnia piena d'obblighi, col mio allontanamento, e infine cadde sulle preghiere le più efficaci.Sorrisi, promettendo che sarei quella sera ne' stanzini del teatro, la mattina vegnente alla prova dell'opera mia, e che prenderei direzione a seconda degli eventi. Mantenni la mia promessa. Trovai della contentezza e della calma e della creanza. La compagnia comica fece bene i suoi interessi per le opere mie e per le

sue, sino al termine di quel carnovale. Nella quaresima passò alle sue piazze fuori di Venezia per sei mesi a fare il suo solito pellegrinaggio d'uccellatura. LaRicci non mancò di dimostrarmi della gratitudine e del dispiacere nel suo distacco, ed io rimasi in Venezia a fare alcuni riflessi sul di lei carattere pericoloso.CAPITOLO XVI.Riflessioni inutilmente fatte e lusinghe svanite in cosa che non merita né riflessione né lusinga.La mia narrazione sull'amicizia ch'ebbi per la sopra accennata attrice non è un argomento da far ridere o da far sbadigliare chi ha la sofferenza di leggerla. È lunga, ma necessaria per dipingere me uno sciocco e per far vedere in quante strane ridicole peripezie inaspettate può essere involto uno sciocco mio pari, se si prefigge di ridurre una Lucrezia di chi per istinto e per educazione vuol essere be

n altro.Appena fu partita la Ricci, feci a me medesimo delle correzioni. - Non è possibile - diceva a me - che l'amicizia di questa femmina un giorno o l'altro non ti esponga a qualche pubblica scena che alteri alquanto la tua imperturbabilità. Ella è zolfurea, leggera, ambiziosa, tutta amor proprio, ed ha de' perniciosi princìpi d'educazione radicati profondamente. Il sistema del costume morale è corrotto universalmente; pensa a qual grado di corruttela possa esser giunta la morale in una comica. Questa femmina non sarà paga giammai d'un guadagno legittimo, che non può satollare la sua ambizione senza confine. La sua massima fissa è di far la comica, nongià per un possibile onesto onorario, ma per cercare fortuna a costo della sua infamia, spogliando delle sostanze i balordi viziosi che, innamorati della sua comica bravura o della sua macchina, se le avvicineranno. Ella coltiva la tua amicizia, non già per aderire alle tue massime e a' tuoi consigli, ma perché tu contribuisca al suo credito e alla sua bravura; non solo per aumentarsi stipendio col mezzo della tua assistenza, ma per valersi delle armi che tu le procuri contro la sua compagnia, quando si vedrà in auge e necessaria, e per abbandonarsi allora senza soggezione a' guadagni illeciti co' dissoluti viziosi merlotti adulatori cheincenseranno la di lei deità. I tuoi ragionamenti e i tuoi ricordi sono per lei d'una metafisica non intelligibile e dalla scuola de' suoi adulatori dipinti a lei figli del pregiudizio. Ella mostra d'ascoltarli e d'apprezzarli perché ha bisogno di non ributtarli per ora. Nota il suo fremito interno che non può celare quandole fai delle correzioni, per quanto tu adoperi della dolcezza nel fargliele. Tuvorresti fare una Pamela di chi infine sarà sempre la Ricci.Queste solide e ben fondate riflessioni non superavano in me un certo non so qual riguardo di delicatezza e d'amichevole cordialità. La comare, anche lontana, era

 tuttavia diligente a coltivare l'amico compare con lettere affettuose quasi adogni ordinario.Ad onta della sua firma di servire la compagnia per tre anni coll'onorario stabi

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lito e pontualmenle pagato, a misura degli applausi che riscuoteva ne' teatri di terraferma, aggiungeva nelle sue lettere de' lagni e di non voler servire per così scarso stipendio. Anche questa di lei ingiusta inquietezza inquietava me.Un giorno mi giunse una lettera della comare, in cui mi partecipava d'aver avuto un trattato con certo signor Francesco Zannuzzi, comico del teatro italiano diParigi, giunto in Italia per provvedere una prima attrice per quel teatro, e ch'ella s'era accordata, se ben mi ricorda, per tremila franchi all'anno. Aggiungev

a che tante erano le obbligazioni che aveva con me che si credeva in debito di parteciparmi questo suo accordo, chiedendo il mio consiglio. Questo ragguaglio mi fu carissimo, perché se il fatto si verificava, scorgeva liberati la mia amicizia e il mio comparatico e divisi da centinaia di leghe.Le risposi tuttavia che ad un trattato concluso il chieder consiglio era cosa d'inutile affettazione, ch'ella aveva un obbligo firmato di servire la compagnia del Sacchi per tre anni; e che però credeva conveniente almeno ch'ella avvertisse il Sacchi del suo accordo per Parigi, ond'egli potesse provvedersi d'una prima attrice, e ch'io sperava ch'egli non facesse difficoltà a scioglierla dall'impegno,trattandosi di cosa ch'ella giudicava fortuna. Riguardo al consiglio ch'ella michiedeva, risposi con la mia solita sincerità da lei poco amata che l'onorario accordato dal comico Zannuzzi non era gran cosa al di lei mantenimento nella gran m

etropoli di Parigi, ch'io credeva lei non ben ancora fornita di doti per riuscire in quel teatro e in faccia a quella nazione, ch'era in lei un gran obbietto il non avere nemmeno i princìpi della lingua francese, che tuttavia ella era padrona di se medesima.Rimasi colla lusinga che il di lei allontanamento seguisse; ma restai ben sorpreso ad una visita ch'ebbi dal comico Zannuzzi giunto in Venezia. Quell'uomo pulito, da me conosciuto, venne a salutarmi, narrandomi d'essere stato inviato dallasua truppa comica in Italia a provvedere una prima attrice e d'aver girata l'Italia e osservate tutte le comiche per tal provvista. - Lo so - diss'io; - e da uomo intelligente, Ella ha scelta Teodora Ricci. - Nemmen per sogno - rispos'egli. - Vidi anche quella e tenni secolei qualche discorso in astratto; ma ella è mancante di troppi requisiti per il nostro teatro di Parigi. La più a proposito per noi è la Elisabetta Vinacesi colla quale parlai, e attendo da lei risoluzione. - Buon

o! - diss'io tra me - che diavolo tenta la Ricci con una menzogna verso al suo da lei tanto stimato compare?Niente però lasciai d'intentato per persuadere quel comico che s'ingannava. Profusi d'elogi sulle doti e sul merito della Ricci, m'affaticai a provare che al confronto della Ricci la Vinacesi era poca cosa; ma tutto fu vano. Seppi dopo che la Vinacesi, da me conosciuta giovine di molta abilità ma di costume riservato, contenta di ciò che guadagnava in Italia, aveva rifiutato a' tumulti di Parigi e a quelle fortune irregolari che alcune femmine teatrali si promettono in quella metropoli. Mi giunse notizia che il Zannuzzi tentò di persuadere alcune altre bellezzecomiche dell'Italia, senza più trattare con la Ricci. Tutti questi trattati rimasero per allora inconcludenti. Il Zannuzzi fu di ritorno a Parigi, e la mia lusinga di liberarmi da un impegno ch'io vedeva pericoloso svani.CAPITOLO XVII.A che sìa esposto l'uomo che prende impegno e amicizia per una compagnia di comici e comiche, per quanto benefico egli sia con quella.Giunse l'ottobre, mese in cui le comiche truppe di Venezia arrivano a fare quartiere d'inverno e si fermano ne' veneti teatri sino alla quaresima; giunse anchela compagnia del Sacchi. Fatte e restituite le visite di ben trovato e ben arrivati, vidi anche la comare Ricci in buon stato. Le confidai con dispiacere ciò cheil Zannuzzi intorno al di lei andare a Parigi m'aveva detto.Ella mi rispose, alquanto accesa, che il Zannuzzi era benissimo in accordo con lei, ma ch'era partito per riferire a' compagni suoi ciò ch'egli aveva scoperto nelle attrici esaminate in Italia, e per dipendere dalla unanimità nelle sue riferte; ch'ella attendeva lettere e che sperava. Proruppe con delle invettive contro la compagnia del Sacchi in generale, e in particolare colla solita conclusione che

 per il stipendio che aveva, non voleva servire.Il ricordarle il suo patto firmato di servire per tre anni; il convincerla che il suo onorario era de' maggiori che le più abili prime attrici avessero nelle comp

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agnie dell'Italia in cui la ricolta teatrale era poca; il farle riflettere che non sempre era durevole la fortuna che la compagnia Sacchi aveva allora; il dimostrarle che i comici stipendiati erano a miglior partito degl'interessati nell'impresa, esposti a un facile rovescio d'una sorte dipendente dal pubblico e obbligati a pagare i stipendiati; il far l'abachista provandole che il suo onorario bastava al suo mantenersi, ad accrescere il suo equipaggio e a qualche civanzo; l'assicurarla che con un poco di sofferenza, con meno

inquietezze dal canto suo, un po' più d'attenzione a' di lei doveri, l'averei fatta giugnere a stipendio maggiore; erano tutte parole al diserto. Ella suonava instancabilmente la stessa campana.Nella dimora ch'ella faceva recitando colla compagnia nelle diverse città delle provincie, de' spiritosi filosofi che se le avvicinavano la circuivano con tanti elogi e suffumigi della adulazione a lei omogenei, che la povera giovane ritornava sempre a Venezia tronfia, col suo cervelietto, per se stesso ambizioso, alterato, inquieto ed irragionevole, e la mia povera morale diveniva per lei uno scarto inconsiderabile. Le mie osservazioni possono riuscire noiose, ma potrebbero giovare ed essere giovevoli all'umanità femminina, circuita e rovinata da una infinità di diaboliche adulazioni.Dovei avvedermi ben presto che il cambiamento dimostrato dal vecchio Sacchi sugl

i amori brutali suoi verso la Ricci non era stato che una costrizione sino a tanto ch'ella si fosse da me allontanata. La visita ch'ebbi, due giorni dopo l'arrivo in Venezia della truppa comica, dal giovine attore Carlo Coralli, amico assistente della Ricci, m'ha di ciò chiarito, e aprì un altro faceto argomento alle mie democratiche osservazioni. Egli mi disse ch'era venuto ad espurgarsi con me d'undelitto che gli era furiosamente addossato. - Qual delitto? - risposi io sorridendo.- Il Sacchi - proseguì egli - spasima d'amore per la Ricci. Io voglio bene a quella giovine; lo confesso. Tengo pratica nella di lei casa e le sono accompagnatore e assistente per quanto posso. Egli si è scoperto bestialmente geloso di me, e nel tempo che fummo in pellegrinaggio per le provincie, non dando io alcuna rettaalla sua rabbia gelosa, ho ricevuto mille sgarbi e mille mortificazioni da quelvecchio. Finalmente egli s'è indotto a proibirmi con faccia burbera ed aperta di v

isitare la Ricci, perché se il conte Gozzi arriverà a sapere quella domestichezza equella tresca, si disgusterà e abbandonerà la compagnia con sommo danno del suo interesse.- Signor conte - seguì il Coralli, - eccomi a palesarle il mio errore e a protestarle di mai più visitare la Ricci, se le mie visite a lei rincrescono.La inaspettata esposizione del Coralli colpì per modo il mio sollecito, ch'io scoppiai quasi dalle risa come Margutte. Non poteva raccorre il fiato per rispondere a quel comico. - In mezzo a quali persone son io? - diceva fra me - e per chi mai logoro penne, carta, inchiostro e cervello con tanta disinteressatezza, per far del bene? Il Sacchi a cui ho proccurato tanti vantaggi cerca di far me covertella al suo bavoso bamboleggiare!Tacendo quanto sapeva anteriormente delle follie dell'amante ottuagenario, risposi al Coralli quando potei, e interrotto dal riso, che a me poco importava che tutto il genere mascolino facesse all'amore con la Ricci, e ch'egli per conto mio non doveva astenersi dal visitarla e dal prestarle assistenza; ch'io aveva perquella giovine dell'amicizia e uno di quegli affetti che non patiscono gelosie animalesche; ch'io l'aveva sostenuta, difesa, fatta divenir utile alla comica mèsse nella sua professione; ch'io le era compare a di lei richiesta, e ch'ella coltivava le mie visite e le dimostrazioni mie di parzialità per lei a solo fine d'avere un antemurale co' suoi molti nimici della compagnia; ch'ella aveva del meritoabbastanza per avere degli amatori, e ch'io le sarei stato compare, amico e visitatore sino a tanto ch'ella non si mettesse in una vista di rilasciata galante mercenaria e insidiatrice, e con garbugli sperati secreti o con solennità di pratiche con personaggi di grado, adulatori splendidi e notissimi passeggeri, voluttuosi corsari di Venere; che in quel caso mi sarei scordato d'esserle amico famigli

are e il comparatico, allontanandomi interamente dalla sua pratica, per non fare la figura né del sciocco né del dissoluto né del mezzano, e senza però cadere nella bassezza di divenirle nimico; ch'egli non era uno di que' personaggi che potessero

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destare in me gelosia della mia riputazione, e che però non doveva aver ombra di timore d'offendermi nel visitare domesticamente la Ricci.- Mi rincresce - aggiunsi - che il Sacchi v'abbia preso di mira in questo proposito. Egli è persona vendicativa ed ha delle armi possenti da vendicarsi sopra di voi. Se andate dalla Ricci, salutatela per mio conto. - Il Coralli, edificato, mi fece mille ringraziamenti e partì. Il giorno successivo fui a visitare la Ricci:vi trovai il Coralli.

- Aprite quelle finestre - diss'io alla comare. - Perché?- rispos'ella. - Perché voglio affacciarmi - diss'io ridendo - e avvisare tutte le genti che passano ch'io sono qui da voi col Coralli, senza il menomo dispiacere ch'egli ci sia.La conversazione fu lieta e sopra tutt'altro che sulla infantata gelosia. Vollipranzar con la Ricci e col Coralli in quella medesima abitazione, e volli che la Ricci e il Coralli venissero a pranzare meco all'abitazione mia.Mentre io seguiva a donare delle teatrali opere mie alla compagnia (delle qualiopere non farò menzione, né de' titoli né del contenuto con delle analisi e degli estratti, perché sono assai conosciute per la loro fortuna, dalla qual fortuna non pretendo di trarre la conseguenza che fossero buone) e mentre trattava la Ricci e il Coralli con domestichezza, espurgava me dalla gelosia voluta far credere dal S

acchi al Coralli per allontanarlo da quella giovine; ma accresceva nel vecchio l'interno dispetto, la rabbiosa gelosia e la brama di vendicarsi contro al Coralli. Difatto, giunta la novena del natale di quell'anno, tempo in cui i coniici impresari cambiano e licenziano qualche attore o qualche attrice, fu dal Sacchi sonoramente licenziato il Coralli.Ecco il Coralli da me a narrarmi la sua disgrazia e a raccomandarsi perch'io parlassi al Sacchi in suo favore.- Io prevedeva questa vendetta - diss'io. - Quantunque per massima ferma non entri giammai negl'interessi intrinseci della condotta comica, parlerò al Sacchi: manon ho onore d'assicurarvi d'un buon effetto, perché m'è noto il perverso suo istinto.Il caldaione delle comiche nimiche della Ricci e dei comici nimici del Coralli bolliva. Chi diceva che il Coralli era stato licenziato a mia contemplazione per

la pratica che teneva con la Ricci: chi diceva ch'era stato licenziato per lo scandalo che dava alla compagnia con quella amicizia, ed altre fanfaluche turpemente sciocche quanto ridicole turpemente. Tutti erano santi fuori che il Coralli e la Ricci.Trovai la comare afflittissima d'un tale avvenimento. Ella non si degnava forsedi confessare d'essere afflitta di perdere la persona del Coralli; si mostrava appassionata per la sua riputazione annerita dalle lingue maligne della compagnia sull'andata di quell'attore. - Se non aveste usata - diss'io - qualche lusingadi cochettismo verso quel vecchio per la brama d'un abito di raso bianco, non soffrireste ora ciò che sofferite.- L'abito fu da me pagato rilasciando tre zecchini il mese del mio stipendio - rispos'ella tutta infuocata. - Devo anzi confessarle - seguì - che ieri fu da me quel vecchio infame. Egli mi fece vedere i zecchini da me rilasciati, crollando una borsetta e dicendomi: - Questi sono i zecchini trattenuti per il pagamento del raso; se li volete saranno vostri, ma sapete ciò che io voglio da voi a questo prezzo. - Ho risposto con un rifiuto; ciò che si meritava quel scellerato. Mi creda, signor compare, che quel vecchio è un iniquo solenne.- L'azione vostra è buona, ma tarda -diss'io raccapricciando sulla turpitudine del vecchio ipocrita. - Un passo falso conduce in un labirinto intricato.La mia dabbenaggine s'accinse tuttavia a cercare un rimedio onde non avesse effetto l'escomeato del Coralli. Parlai col Sacchi mostrando ignoranza sulle sue vigliacche debolezze e con quant'arte potei, facendogli intendere ch'egli perdeva nel Coralli un buon attore. - Non molto - rispos'egli con ceffo burbero. - Oltrea ciò, egli è un pettegolo rapportatore, alteratore, e mette dissensioni nella mia compagnia. L'ho licenziato, e al termine del carnovale deve andarsene.

- Veramente - diss'io - temo che siate voi quello che ascolta troppo i referendari. A me il Coralli sembra un buon giovine, ben educato, attore abile ed utile al vostro interesse. Oltre a ciò, questo vostro escomeato improvviso desta nella co

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mpagnia de' libelli infami senza proposito che offendono l'onore della povera Ricci.- Come! - rispose il Sacchi; - dovrò pregiudicare l'interesse della mia truppa per rispettare l'onore di quella femmina?- Io non voglio discapiti vostri - diss'io costringendomi sopra quanto sapeva; - so anche prescindere ch'ella sia mia comare, e so sorpassare che nelle ciarle indecenti de' vostri compagni fatte sul proposito del vostro escomeato si mescoli

 il mio nome, né intendo giammai di impacciarmi né d'oppormi alle vostre risoluzioni. V'ho parlato con una amichevole sincerità, ma tutto dal canto mio sia come non detto.- Signor conte - seguì egli, - la assicuro che la mia truppa è troppo aggravata di stipendiati. Lascio però tutte le altre ragioni da un canto, e per farle conoscerela stima che ho di lei, mi dica qual altro attore potrei escomeare. Ho nove giorni di tempo a far questo passo. Licenzierò la persona che lei mi suggerirà e terrò fermo il Coralli per servirla.- Per servir me? - diss'io. - Questa è una esibizione che voi mi fate con sicurezza ch'io non la accetti. Sono onesto abbastanza per non suggerire di levare il pane a una persona qualunque sia. Scordate ch'io v'abbia tenuto questo discorso, e vi prometto di scordarmi d'avervelo fatto.

- Potrebbe darsi - soggiunse il Sacchi alquanto confuso - che qualcheduno deglialtri comici mi chiedesse la sua licenza in questa novena, e in tal caso terrò ilCoralli per aderire alla sua premura.- Non ho premure - diss' io - dimenticate affatto ch'io v'abbia detta parola sul vostro escomeato.Sapeva molto bene che il Sacchi, pensando ne' modi suoi non era capace di scordarsi il mio discorso. La sua avidità interessata e il timore di perdere i miei soccorsi lo facevano incapace d'una tale dimenticanza. Il Coralli non sarebbe partito dalla compagnia se non era un comico raggiratore. Dovei riferirgli l'inutilità del mio ragionamento, colla sola lusinga data dal Sacchi al caso che un altro attore chiedesse licenza d'andarsene. Una infelice astuzia comica bolognese fece abortire il mio tentativo in favore del mio protetto.Tre giorni dopo i sopra accennati parlari, ebbi alla mia abitazione Domenico Bar

santi, altro bolognese valente comico della compagnia medesima e utilissimo attore. Per esser bolognese, era buon uomo e semplice. Egli piangeva e non poteva riavere il fiato per favellarmi. - Altro comico accidente disgustoso - dissi tra me. - Gli feci coraggio.Egli mi narrò che il Coralli suo compattriotta, con apparente amicizia e sotto sigillo di secretezza, gli aveva detto di sapere da buona parte che il Sacchi aveva risolto di licenziarlo come inutile, e che però da buon amico e patriotta cordiale lo consigliava a chiedere volontario la sua licenza al Sacchi prima che gli capitasse un affronto che lo screditava; che una tale asserzione, avvalorata da' giuramenti e dall'apparente affetto amichevole del Coralli, l'aveva spinto a chiedere la sua licenza al Sacchi; che il Sacchi sorpreso gli aveva chiesta la cagione per cui voleva abbandonarlo; ch'egli confessò sinceramente di chiedergli la sua licenza, sapendo già ch'egli era determinato a licenziarlo; che il Sacchi gli aveva giurato d'esser lontanissimo da tale idea, e che anzi lo aveva caro; che l'aveva costretto a dirgli che gliela aveva piantata il Coralli; che il Sacchi invasato gli aveva detto: - Andate tosto dal signor conte Gozzi, narrategli questa storia a puntino e raccomandatevi alla sua protezione. Egli conoscerà di qual carattere sia il Coralli.Il povero Barsanti mi fece pietà. L'esortai ad essere tranquillo, e l'assicurai che dal canto mio avrebbe tutto il bene che potessi fargli. Rimasi con qualche stupore sul raggiro illecito tenuto dal Coralli per far uscire dalla truppa un comico e per rimaner egli, sforzando così il Sacchi a trattener lui per la promessa fattami. Proruppi nelle mie solite risa, riflettendo a' sistemi d'una comica repubblica di cui mi trovava essere colonnello.Il Coralli non mi si presentò più dinanzi per vergogna della sua mina sventata. Dovè p

artire al termine del carnovale, e alla di lui partenza mi scrisse una lettera piena di rimorsi, particolarmente d'aver offeso me col suo stratagemma usato perrimanere nella compagnia.

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Continuai ad essere buon compare ed amico domestico della Ricci per consuetudine e per difenderla da' suoi nimici, ma un poco più attento sulla di lei direzione e per prendere norma nella mia. Le sue doglianze sul poco stipendio e le sue grida di non voler servire per ciò ch'ella considerava vile onorario al di lei merito, erano eterne e mi seccavano. La sua firma di servire per tre anni e le mie esortazioni erano per lei inezie. Osservava io che alcune sere venivano de' gondolieri a picchiare alla porticella del palco scenario e a chiedere la signora Ricci

per alcune dame che la desideravano nel palchetto. Erano ben altro che dame, come seppi coll'andare del tempo.Non trovava da lei visite di persone generalmente conosciute viziose e splendide nella lussuria, e perciò seguiva a visitarla familiarmente e ad assisterla. La casa da lei presa a pigione era sufficiente e vicina al teatro in cui ella recitava e d'un fitto tenuissimo. L'uscio era in una strada di continuo gran passaggiodi gente.Ella mi disse un giorno che quella abitazione era troppo angusta, che doveva accogliere nuovamente il marito che si diceva risanato; ma che voleva stanze a di lei comodo e separate dal marito, per tenere il consorte diviso di camera e di letto, non fidandosi della di lui sanità. Prese dunque a pigione una casa molto più lontana dal suo teatro, con un aggravio di quasi il doppio di quello che pagava, e

sponendosi ad una spesa di trasporti, di pittori, di legnauioli, ecc., assai contraria a quel stipendio ch'ella predicava mendìco.Il mio insinuarle moderazione era favellare a un pilastro. Tuttavia non mancai de' miei soccorsi possibili in questa sua nuova risoluzione ch'io non condannavain tutto. Il peggio fu che questa novella abitazione era in un luogo rimoto e in un viottolo solitario per cui non passava nessuno; scelta che snodava le lingue de' suoi compagni e delle sue compagne invidiose e nemiche a de' turpi giudizitemerari e a delle ciarle di ragionati sospetti di secretezza, alle visite clandestine ed a' garbugli mercenari, delle quali cose la giudicava incapace, forse per mia sciocchezza. Non tralasciava però di tener sempre le armi alla mano per giustificare la sua condotta, per difendere il credito in cui l'aveva posta la miaamicizia, il mio comparatico e le mie visite ch'ella coltivava con tutta l'attenzione.

Terminato anche quel carnovale, la compagnia doveva partire per sei mesi da Venezia. Era stata condotta da Bergamo a Venezia la ragazzina, figlia della Ricci emia figliuoccia, che la madre aveva lasciata a bàlia colà. Pernon condur seco l'impaccio di quella figlia, la collocò a spese in Venezia, raccomandata alla mia attenzione.Partita là compagnia e partita la Ricci con le solite comiche dimostrazioni di dispiacere di perdere la mia conversazione per sei mesi, rimasi assistente all'ultima ragazzetta mia figliuoccia, ch'io visitai con frequenza, soccorrendo a parecchi bisogni suoi. Le solleciti e frequenti lettere della comare fulminavano me di ringraziamenti e fulminavano la sua compagnia co' soliti lagni del miserabile stipendio alla di lei bravura. Degli adulatori amanti, ch'ella trovava per ogni città, riscaldavano il suo cervello, facendole credere che il suo valore meritava un regno per onorario. Bastava ciò perch'ella si scordasse ogni impegno, ogni convenienza, ogni giustizia, e passasse sopravia al giusto riflesso che la ricolta delle migliori compagnie comiche dell'Italia era un mendicume, e ch'ella aveva uno de' maggiori stipendi che avessero le più abili prime attrici delle italiane compagnie.CAPITOLO XVIII.Nuovi benefizi da me fatti a' comici da me protetti e nuovi vantaggi fatti da me alla Ricci. Tutto nonnulla.[I soliti puntigli mi tennero ancora fermo nella protezione di quella compagniacomica e della Ricci].Conviene anche concedere qualche indulgenza al mio carattere flemmatico, ostinato nella costanza, addormentato nelle pratiche e nella amicizia e sofferente. Hosofferti per un lunghissimo tempo de' servi viziosi e disattenti, de' sarti che

mi rubarono e mi rovinarono degli abiti, de' calzolai che mi storpiarono colle scarpe che mi fecero, de' barbieri che mi scorticarono, de' parrucchieri che accorciandomi i capelli m'accorciarono un'orecchia colla forbice, e cent'altre perso

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ne incomodissime, senza lagnarmi che con de' scherzi che le fecero ridere.[Poiché il teatro in San Salvatore era pericolante, mentre il patrizio Vendramin,proprietario, restaurava la fabbrica, la compagnia perdette ventidue recite; mail Bacchi pagò tutti gli stipendi].Due altre comiche compagnie che avevano aperto il loro teatro trionfavano. I miei protetti languivano. Un nuovo Truffaldino, detto Bugani, nel teatro in San Giovanni Crisostomo, infelice e laido secondo Zanni, aveva destato il risibile ne'

veneziani per modo ch'era predicato per Venezia, con perfetta ignorante ingiustizia, assai miglior Zanni del Sacchi.Rabbiosi gli altri comici colla compagnia del Sacchi, la quale negli anni anteriori sorpassava nella fortuna tutti gli altri ricinti teatrali e per la bravura e per i soccorsi miei, si scatenarono contro quella nella sua accidentale disgrazia. De' sonetacci satirici fulminavano il valente comico Sacelli e i suoi compagni, né in quei sonettacci stomachevoli andavano esenti le sceniche opere mie. Nonsaprei dire se que' sporchi libelli uscissero da' meschini poetastri parziali di que' teatri o da qualche commediante di quelli che si piccasse d'esser poeta ad onta della ignoranza.Alcuno de' miei protetti, piccandosi anch'esso della stessa mania e stizzito, s'ingegnava a rispondere per le rime a quei sgorbi poetici, e con altrettanta inso

lenzà. La città era piena di queste sconcacature satiriche. Consigliai ridendo le mie creature a por termine a que' bordelli dal canto loro, e a sperare nella mia penna teatrale la loro vendetta e il castigo de' loro triviali nimici. Stavo io abbozzando un capriccio scenico intitolato Il moro di corpo bianco, ossia lo schiavo del proprio onore, con lusinga di risarcire la compagnia de' danni sofferti.Finalmente, dopo ventidue giorni di lavoro sollecito con non so quanti murai, legnaiuoli, fabbri ed altri artefici, fu dato fine al ristauro della fabbrica, che fatta esaminare da' periti della preside magistratura, fu trovata solida e sufficiente a poter essere aperta a pubblici spettacoli. 11 pubblico editto però, chefu affisso a' pilastri della città, era d'un senso particolare. Egli esprimeva che era data licenza all'apritura del teatro Vendramini in San Salvatore, esaminato dai periti, i quali assicuravano il popolo che per quanto durava quell'autunnoe quel carnovale, non sarebbe caduto. Una tale fede era troppo limitata e troppo

 soggetta a un errore di conseguenza funesta. De' maligni partigiani degli altri teatri disseminavano essere una tal fede proccurata, con altre dicerie perniziose.Fu aperto il teatro, e per dieci o dodici recite non fu che un vero diserto. Lepoche persone ch'entravano alle commedie del Sacchi erano poste in ridicolo co'titoli di stupidi o, ironicamente, di spiriti forti. Per quanto si affaticassero que' poveri comici e nel scegliere opere sceniche attraenti e nel recitarle, tutto riusciva a un nulla. Il popolo, preso dal ribrezzo d'un pericolo e che aveva in Venezia due altri teatri di commedia e tre di drammi musicali, trovavano abbastanza da spassarsi le sere, e guardava quel teatro al di fuori come una trappola del genere umano.Rudamisto e Zenobia di Crébillon, tradotta da un cavaliere torinese, già recitata in Torino dalla compagnia del Bacchi, alla quale il cavaliere traduttore liberaleaveva regalato un vestiario ricchissimo adatto alla tragedia medesima, fu esposta in quella occasione nel teatro di San Salvatore per fare un tentativo. Quellatragedia con uno sforzo di decorazione inusitato, sostenuta mirabilmente da' tre personaggi, Petronio Zanerini, Domenico Barsanti e Teodora Ricci, scemò alquantoil timor panico della popolazione e fu replicata per molte sere con buon concorso. Ciò mi fece conoscere che il trasporto per il divertimento poteva superare ne'veneziani il timore del pericolo di morte.Aveva condotto a fine il mio mostro scenico, misto di passione fortissima e di popolare facezia, intitolato Il moro di corpo bianco, con cui mi lusingava di vendicare i miei protetti e di rimetterli nella loro primiera fortuna. L'osteria del Salvativo, in cui s'era radunata la compagnia comica ad un un pranzo, ebbe lacattedra della lettura che per antipasto io feci dell'opera mia a quell'allegra

comitiva. La sorpresa, i trasporti, l'allegrezza e l'intima persuasione universale degli uditori mi fecero buon pronostico. Donai quell'opera, ossia quella miastravaganza poetica, che entrò in sulla scena decorata decentemente.

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Il teatro fu pieno senza timori, perché la curiosità di sapere che diavolo fosse ilmoro di corpo bianco aveva fatto scordare ogni paura del ricinto che si predicava cadente. Gli applausi, il concorso, l'irruzione ch'ebbe quella favola per diciotto successive récite, spopolarono tutti gli altri teatri. Gl'impresari dell'opere in musica maledicevano Il moro di corpo bianco. I pochi credentisi dotti commiscravano con de' sberleffi l'ignoranza e il cattivo gusto della popolazione, iorideva, e i sonettacci satirici cessarono. I timori del teatro caderono in una p

erfetta obblivione; e la compagnia comica, rimessa nella sua consueta fortuna, seguì a fare una doviziosa ricolta sino al fine di quel carnovale.Siccome la Ricci s'accendeva di maggior ambizione per i pubblici applausi che riscuoteva meritamente anche nel Moro di corpo bianco, non rifiniva mai di stridere sul suo scarso stipendio e di minacciare l'abbandono della compagnia, nulla curando le sue firme di servire per gli anni accordati, il Sacchi venne un giornoa dirmi che le inquietezze di quella femmina disturbavano lui e la compagnia. -Prego lei, signor conte - diss'egli, - di voler inframmettersi onde sia formatauna scrittura solida, durevole per cinqu'anni, con que' patti ch'io rimetto al di lei arbitrio, ma con una comminatoria che la parte che manca a' patti sottoscritti deva pagare all'altra una pena di cinquecento ducati. Forse una tale comminatoria porrà freno alle inquietezze di quella donna, che ogn'anno si scorda tutti

i patti, mette a campo alterazioni e pretese, minaccia e disturba.Lei sa, signor conte - proseguì egli, - il poco frutto delle compagnie comiche dell'Italia, le enormi spese annuali de' viaggi e trasporti, e i pericoli a' qualigl'interessati nell'impresa vanno soggetti, appoggiati alla incertezza ed a strani avvenimenti, a fronte de' stipendiati che devono avere l'indiminuto loro onerario accordato. Ella vide un esempio amaro in quest'anno per la sospensione di tante recite a teatro giudicato cadente e di tante prime recite a teatro vuoto. I stipendiati non perderono nulla, e il danno fu di noi interessati. Però rimetto l'arbitrio che le do alla sua giustizia, supplicandola a ridurre quella femmina alla discretezza e alla quiete.- Veramente - rispos'io - m'impaccio mal volentieri in tali faccende. La catenadi cinqu'anni per una giovine e la comminatoria mi sembrano aspre. Tuttavia parlerò e vi darò la risposta.

Dopo un lungo dialogo amichevole colla Ricci in tal proposito, le ho stabiliti ottocentocinquanta ducati l'anno, a servire per cinqu'anni la compagnia col marito, colla comminatoria voluta dal Sacchi per la parte che mancava. Parvemi d'aver fatto qualche cosa a ridurre la detta giovine ad avere ottocentocinquanta ducati annuali, essendo venuta nella compagnia col marito nel suo principio per cinquecento e venti ducati, e parvemi di non aver fatto male nemmeno all'interesse del Bacchi. M'ingannava nel mio parere.Estesa da me la scritta, fatta firmare dalla Ricci e dal marito, passai dal Sacchi a riferirgli il convenuto e per fargli firmare i patti. M'attendeva un ringraziamento. Eccolo. Quel vecchio bestiale, che stava leggendo con gli occhiali sul naso, alla mia riferta cominciò il suo ringraziamento dal bestemmiare e dal daredelle pugna orrende sulla tavola a cui sedeva, come s'io l'avessi castrato. Gridòsopra la ingorda pretesa d'una femmina, che non aveva altro merito, diss'egli, che quello che le aveva dato la parte del mio dramma della Principessa filosofa.- Come? - diss'io ridendo a tale animalesca furia - ho fatto ciò che mi pregaste di fare col pieno arbitrio che mi deste, ed ho creduto di non far male. Se non volete firmare la carta, laceratela, ch'io non ci penso e non costringo nessuno.Egli mi fece la grazia di rientrare in se stesso, di chiedermi scusa e di firmare la scrittura. Aggiunse però: - Tutte le comminatorie del mondo non valeranno con la testa di quella donna. Ella vedrà, signor conte, delle novità vergognose ben presto, con tutte le firme e le comminatorie di pene. La supplico della carità di farsi dare parola di non mancare e di non far scomparire la di lei rispettabile mediazione. Ella è di lei compare; quella femmina è obbligata a lei della sua buona comparsa, dei suoi avanzamenti, e dovrebbe esser grata e avere de' riguardi e della soggezione. Spero soltanto in ciò.

Consegnai la scrittura alla Ricci, pregandola a non farmi scomparire con delle inoneste novità. Ella me lo promise; sembrava tranquilla, dicendo soltanto qualchemutilata parola di mal contentamento sul legame de' cinqu'anni.

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La di lei nuova abitazione, posta in luogo recondito e di nessun passaggio di gente, continuava ad accrescer forza alla maldicenza de' suoi nimici sopra allo sua riputazione. Si diceva che in alcune ore a proposito ella ricevesse alcune visite clandestine e sospette, e mille ribalderie. Sapeva ch'ella era malignata daalcune persone e giudicava che la maggior parte delle ciarle offensive uscissero da quelle. L'opera mia l'aveva ristabilita in ottimocredito. Parevami che le maldicenze offendessero più me che la Ricci. Si rida del

mio sciocco puntiglioso eroismo da cavaliere errante per una comica. Combattevacon tutti per la mia difesa e per difesa della innocenza della comare. Seguiva a farle le mie domestiche visite e darle la mia assistenza; aveva preso ciò per costume di conversazione, e mi divertivano i due figliuoletti miei figliocci, invero trattati con qualche inumanità dall'umore bilioso della madre, che tentava io invano di raddolcire.Usava io tuttavia qualche attenzione sui passi, sulla condotta e sul costume diquella giovine per conto mio. Scorgeva in lei tanta ambizione, tanto amor proprio, tanta boria, tante occhiate in alcuni palchetti mentr'ella recitava, e tantiattucci che mi pareva impossibile che una scena improvvisa non dovesse porre ungiorno a repentaglio la mia famigliare amicizia e rovesciare tutti gli edifici da me fatti nel corso degli anni anteriori in vantaggio del di lei interesse, del

la di lei professione, del di lei costume e della di lei buona fama. È perciò ch'iole diceva con frequenza: - Io Vi compiango leggendo nel vostro interno. De' cattivi princìpi d'educazione hanno guasto l'animo vostro. Siete intrinsecamente inferma e non guaribile dalla cattiveria. Dalle vostre inclinazioni deve scoppiare un giorno un fulmime di vergognosa solennità, che mi faccia tardi pentire d'esservistato amico.A queste franche parole mie che punto internamente non le piacevano, ella s'incantava guardandomi, e rispondeva soltanto con questi due punti, uno ammirativo el'altro interrogativo: -È vero! Cred'Ella così, signor compare?CAPITOLO XIX.Della Ricci ancora.Seguendo io a scrivere questa mia storia comica, che certamente non potrà divertire i lettori come il Romanzo comico di Scarron, tralascio di costringere la memor

ia a cercare tutti gli aneddoti e l'epoche esatte relativi a quelli del corso della mia amicizia e del mio comparatico con la sopra accennata attrice.[Scrivo per ammaestrare gli animi facili, di buona fede e incauti, non per mia difesa. Da Genova, dove recitava la compagnia, ricevetti lettere della comare, piene d'invettive contro al Sacchi e agli altri. Quando ritornò a Venezia, scopersiche la Ricci trattava con certa madama Rasetti di Torino per andare al teatro italiano di Parigi, nonostante il contratto col Sacchi. Avevo allora cominciato la mia romorosa commedia Le droghe d'amore].CAPITOLO XX.Notizie Ingenue intorno ai parto della mia commedia rumorosa intitolata Le droghe d'amore e intorno alla Ricci.Non v'è chi non sappia che, dopo il lungo corso delle mie favole allegoriche fortunate da me composte per il teatro, giudicate buone ed acclamate dal pubblico, cercai di cambiar genere scenico, conoscendo che sui nostri teatri un genere sempre il medesimo va illanguidendo, divien noioso agli spettatori e inutile a' comici; e che per trovare degli argomenti omogenei all'indole della truppa comica ch'io soccorreva e sosteneva, aveva scelto a trattare degli argomenti delle favolesceniche dell'informe e stravagante teatro spagnolo. Il Sacchi mi mandava tratto tratto de' fasci di quelle strane e mostruose opere di quel teatro. La maggiorparte erano da me scartate e rifiutate, ma il fondo d'alcune di quelle da me scelto, riedificato con una orditura nuova del tutto, colla introduzione di caratteri naturali e tra noi intesi, dialogato coll'italiano frizzo, l'italiana grandezza ed eloquenza poetica, aveva dato diletto al pubblico e cagionate delle replicate irruzioni di concorso utilissimo a' miei protetti.Di questa verità fanno pubblica testimonianza le mie Donne innamorate da vero, le

mie Donne vendicative, le mie Donne Elvire, le mie Notti affannose, i miei Fratelli nimici, le mie Principesse filosofe, i miei Pubblici secreti, i miei Mori di corpo bianco, i miei Metafisici, le mie Bianche di Melfi, ecc. Le prefazioni ch

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'io scrissi a tutte le opere mie teatrali che furono date alle stampe, danno intero ragguaglio partitamente delle mie capricciose opere teatrali e del loro effetto, e perciò non annoio il lettore sul proposito di quelle.Col medesimo sopra accennato mio sistema aveva ideata, posta in apparecchio d'ossatura, con un intreccio a modo mio, e dialogato in versi l'atto primo di una commedia ch'io intitolai Le droghe d'amore. Una commedia spagnola di Tirso da Molina, antico autore spagnolo, esibitami dal Sacchi come buon argomento, intitolata

 Celos con celos se curan, risvegliò in me l'idea di riedificare il mio dramma sul puro fondo di quella. Pochissimo persuaso dell'opera mia, andava a rilento, e l'aveva anzi posta e abbandonata da un canto per non terminarla, come feci di molti argomenti, cominciati a comporre e scagliati ne' scartafacci inutili.Fu nella novena del natale di quell'anno 1775 ch'io fui sorpreso da un reuma pertinace con una febbre reumatica, la qual febbre degenerata in una di quelle febbri che i medici chiamano putride, fui obbligato dal male, dalla stagione rigida, dall'intemperie e dal medico a rimanere chiuso in casa da trenta e più giorni. La Ricci conservava con me delle amichevoli apparenze indefessamente, ed entrato anche il carnovale, tutte le sere che non era obbligata al teatro veniva col marito a tenermi compagnia.Il patrizio veneto Paolo Balbi, il dottore Andréa Comparetti, ora rinomato profess

ore nell'università di Padova, il signor Raffaele Todeschini, onestissimo amico mio, un mio nipote, figlio di mio fratello Gasparo, il signor Carlo Maffei, illibato mercante che mi amava, il signor Michele Molinari, parzialissimo dell'opere mie quali si fossero, e talora la Ricci col marito, e qualche attore della compagnia del Sacchi quando non era obbligato alle récite, formavano la brigatella della serale mia conversazione nel tempo d'una lunga e tediosa convalescenza che mi tratteneva chiuso nella mia abitazione.L'ozio, che fu sempre mio nimico, e le molte ore di solitudine mi fecero ripigliare il pensiero di dar fine alla mia commedia. Le droghe d'amore, per occuparmie sentir meno la noia. Quanto più m'inoltrava in quell'opera, tanto più mi sembravasnervata, lunga e tediosa, e mi determinava a scagliarla tra le cose inutili. Gli argomenti del teatro spagnolo contengono per lo più in essi tanta favolosa inverisimiglianza che, per sedurre gli spettatori a impegnar l'animo come se venisse

rappresentata loro una verità, è necessaria tutta la malfa dell'arte rettorica e della eloquenza, il che sforza lo scrittore a una prolissità pericolosa in un teatro. A questo pericolo era soggetto il mio dramma Le droghe d'amore.Quel dramma era diviso in tre atti, ed era giunto a dialogarlo sino ad una porzione dell'atto terzo. Mosso io dalla curiosità, tanto per intrattenere la brigatella che mi favoriva la sera quanto per rilevare l'effetto che quell'opera faceva sugli animi, proposi una sera la lettura, e fu gratissima la mia proposizione. Gli ascoltatori furono: la Ricci, il mio nipote Francesco, figlio di mio fratelloGasparo, il dottore Comparetti e il signor Michele Molinari. Si mostrarono tutti presi dall'interesse e per il frizzo satirico sul costume universale e per i dialoghi de' caratteri da me dipinti.Dissi le ragioni della mia disuasione di dare al pubblico quell'opera e la mia costante risoluzione di porla tra le cose dimenticate. Proruppero ne' stimoli perch'io la terminassi e la dessi al teatro. Sopra tutti la Ricci non cessava mai di persuadermi e di stimolarmi e pregarmi perch'io conducessi a fine quell'operaa cui non mancava molto. Niente mi scosse dalla mia determinata volontà di lasciarla tra i parecchi miei scartafacci disutili.Dalla purità di questo principio, ch'ebbe i testimoni accennati, si vedrà i gradiniper i quali una composizione innocente passò, contro ogni mia aspettazione, ad essere considerata una satira particolare.Alcuni giorni dopo la detta lettura, una sera della fastidiosa lunga mia convalescenza, la Ricci ch'era da me venuta uscì improvvisamente a chiedermi s'io conoscessi il signor Pietro Antonio Gratarol, secretario del veneto senato. Le risposidi non conoscerlo, e dissi una verità. Aggiunsi di conoscerlo di veduta tuttavia,additatomi nella piazza da chi lo conosceva, e che all'aria forestiera, all'anda

tura e a' suoi abbigliamenti, non lo averei giudicato mai secretario del grave senato veneto. - L'ho però udito nominare - seguii - per uomo di talento e di spirito.

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- Egli ha una gran stima di lei - disse la Ricci. - Sono obbligato a quel signore ch'egli abbia per me un sentimento ch'io non merito - rispos'io. - Lo credo un uomo pulito - diss'ella - e lo credo un uomo d'onore.- Quanto a me - rispos'io - non ho niente al contrario, quando non si volesse attribuirgli a colpa il concetto ch'egli ha d'essere un famoso passeggero seduttore di femmine, guastatore di cervelli muliebri e abbandonato a quella che oggi è chiamata galanteria ed a cui io do un altro titolo. Queste verità, note all'universa

le e note anche ad alcuni rispettabili tribunali, ch'io dissi alla Ricci, non furono che per dare un avvertimento a un'amica e mia coniare, e avvertimento ch'io conobbi dopo assai tardo. Volli raddolcire il mio discorso, aggiungendo: - Nonnego però che ci sieno degli estrinseci nelle persone, che facciano fare de' falsi giudizi, da' quali giudizi è prudenza il guardarsi, massime da chi aspira ad impieghi. Dal canto mio, siccome non conosco intrinsecamente il signor Gratarol e siccome non mi prendo briga sulle altrui direzioni, né affermo né contraddico a ciò chesuona la pubblica fama di quel signore.- Egli deve andare residente a Napoli - disse la Ricci,- ed io coltivo di andare in un teatro di quella metropoli. Potrei ricevere da lui de' gran favori.- Come! - rispos'io - non cercate dunque più di passare nel teatro di Parigi? - Ce

rco - diss'ella - di procurarmi delle fortune per qualche via. - Servitevi purerispos'io troncando quel discorso e rivolgendo il parlare sopra ad altri argomenti.Vidi benissimo che la Ricci aveva incontrata della amicizia col signor Gratarolnel tempo che le mie febbri e la mia lunga convalescenza impedirono le mie solite visite, e vidi che l'introdotto di lei discorso nasceva da un suo ricordarsi de' miei risoluti ricordi che, s'ella avesse accettale famigliarmente una tal sorta di visite, mettendosi in un aspetto non confacente co' miei sistemi, averei troncate le mie visite domestiche da lei bramate, lasciandola nella sua libertà; escòrsi benissimo che, riscaldata la fantasia, con la introduzione del sopra accennato discorso ella cercava con un'arte infelice di legare la mia visita familiarmente nella sua casa col signor Gratarol, persona ch'io rispettava e con cui averei trattato volentieri e tranquillamente in qualunque luogo fuori che nella abit

azione d'una giovine comica mia comare, che da cinqu'anni aveva sostenuta, innalzata, visitata, accompagnata pubblicamente e difesa come un'amica onesta, prudente e rattenuta.Siccome nel corso di cinqu'anni aveva abbastanza conosciuta l'impossibilità di far pensare ed operare sulla norma de' miei consigli quella giovine, aveva anche prefisso di traccheggiare per tutto quel carnovale coll'ombra della mia assistenza e parzialità, per non esporla a' fulmini delle lingue de' suoi compagni e compagne che cordialmente la odiavano, e per salvar me dalle sporche dicerie; ma giunta poi la quaresima in cui la compagnia comica partiva per le piazze estere, aveva divisato di sospendere con lei ogni carteggio e, ritornata a Venezia, di trattarla con quella civile indifferenza con cui trattava tutte le altre comiche, tanto più quanto prevedeva la di lei fuga per Parigi o per Napoli. Tutte le mie determinazioni pacifiche furono vane col carattere spiegato di quella attrice, impastata di quintessenza d'ambizione, guasta da' princìpi d'educazione e dalle adulazioni dei spiriti dicentisi filosofi del nostro secolo illuminato.CAPITOLO XXI.Alcuni aneddottuzzi noiosi, ma necessari a sapersi, relativi alla comica Ricci,al signor Pietro Antonio Gratarol ed a me.Stanco di soffrire in una specie di prigione la tediosa lunga mia convalescenza, volli, a dispetto del medico, della stagione fredda e piovosa, uscire di casa.In iscambio di pregiudicarmi, parvemi che quella mia temerità mi giovasse, e di sentirmi meglio dopo due o tre giorni di misurato esercizio. Per divertirmi mi portai anche ne' stanzini del teatro, una sera di commedia, da' miei comici protetti, i quali con voce alta unissone mostrarono un comico giubilo di vedermi.Tuttoché sul palco scenario del Sacchi non si ricevessero per austerità che poche pe

rsone e amicissime, non ebbi stupore dal canto mio di trovare ne' stanzini la novità della persona del signor Pietro Antonio Gratarol, tutto splendore ne' vestiti, con un pelliccio di rare bestiuole, coperto d'un drappo di seta color ponsò, che

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 dispensava agrumi canditi diavoloni napoletani e altre delizie di questo genere. Egli m'usò delle gentilezze, presentando anche a me de' suoi dolci, come s'io fossi stata una bella ragazza.Ho retribuito con de' ringraziamenti alle sue pulitezze, e mi guardai bene di non dir parola a nessuno sopra quella novità di persona introdotta ivi, contraria alle massime della compagnia. Fui anche alla casa della Ricci a farle una visita,ma in un'ora in cui era certo di non trovar la visita del signor Gratarol, e con

servando un perfetto silenzio sulla di lui persona.Trovava ogni sera ne' stanzini del teatro quel signore, con nuove magnificenze e semine di confezioni; e visitava talora la Ricci, ma sempre in un'ora da non trovarlo. Sperava, traccheggiando per tal modo, di giugnere al fine di quel carnovale senza sussurri e senza ciarle, e di poter attendere la quaresima per troncare la mia familiarità e ogni mia relazione con quella donna alla partenza della compagnia, e per lasciarla in libertà di cercare quelle fortune ch'ella bramava. Eraio in un inganno. Col di lei carattere e nel mezzo a una truppa di comici e di comiche, non poteva giugnere al fine della mia impresa pacificamente.Le mie visite non erano più giornaliere. Erano brevi e con de' discorsi sui generali e sempre in ore ch'era certo di non trovarmi insieme col di lei nuovo amico,sulla persona del quale fuggiva possibilmente ogni ragionamento. Il mio poco ben

 stare in salute ch'io adduceva, era scusa alle mie rare visite brevi e alle ore cambiate di quelle. La Ricci sapeva molto bene le replicate proteste ch'io le aveva fatte, di allontanarmi da lei qualunque volta avess'ella accolte in casa visite di conosciute persone splendide corsare di Venere, e si fosse sciolta da ogni riguardo verso i giudizi del mondo e verso quelli della sua comica compagnia, che ostentava etichette in tal proposito, e si fosse posta in un aspetto che facesse vergogna a lei ed all'amico, di lei compare; e, forse anche per una semplice incautela, non mancava di proccurare di tenermi fermo per coprire le sue novelle direzioni col mio mantello. Mi faceva intendere di quando in quando, alla sfuggita, la decenza, la morigeratezza, la pulitezza del signor Gratarol, da cui era trattata (diceva ella) come una regina. Esagerava la gran considerazione cheil signor Gratarol aveva di me e il gran dispiacere ch'egli mostrava di non trovarmi da lei, per non poter godere della mia conversazione.

Considerava da me che infatti non piacesse al signor Gratarol il non trovarmi dalla Ricci, onde, eseguito uno de' suoi consueti passaggi d'amicizia di galanteria, ella non rimanesse senza l'appoggio del compare; e forse m'ingannava. Risposi tuttavia al ragionamento della Ricci: - Sono riconoscente verso quel signore. Credo tutte le cose che mi narrate. Nessuno però fuori di me ve le crederebbe. Voiconoscete le circostanze alle quali mi sonoesposto per voi da cinqu'anni, e dovete ricordarvi quanto vi dissi con ingenua fermezza. Mi rincresce di vedervi divenire odiosa alla vostra compagnia che tiensempre i dardi tesi sulle lingue per fulminarvi, e mi dispiacerà che la vostra incauta novella direzione mi levi l'arme da potervi difendere come feci nel tempo passato. Per altro, siate certa che, con tutto il modo mio di pensare differenteda quello del signor Gratarol, mi pregerei d'essere con lui in sociale conversazione in ogni luogo fuori che nella vostra casa. Voi vedete come tratto con quelsignore le sere ne' stanzini del teatro, e se nel modo con cui lo tratto egli possa mai dubitare ch'io non lo stimi e rispetti. Non è tuttavia possibile ch'egli non sappia l'amicizia, la familiarità ch'ebbi per voi di cinqu'anni continui, notissime a tutto il veneto popolo; e voi sapete le mie massime. Dubito che siate più colpevole voi che lui della poca delicatezza con cui egli tratta meco sul vostroproposito. Desidero ch'egli segua a trattarvi con quella decenza, pulitezza, morigeratezza e come se foste una regina, come mi riferiste. Siccome io non m'oppongo alla vostra libera volontà, spero che non abbiate la indiscretezza di pretendere la schiavitù della libertà mia.Qual sorta di riferte facesse la Ricci al signor Gratarol in mio discapito, inviperita di non poter unirmi con lui nel suo albergo, sono note soltanto a lei eda lui. È certo ch'ella guardava le cose instancabilmente coll'occhio dell'ambizion

e e del suo amor proprio, né sarà da maravigliarsi s'ella mi dipingesse qual debilegeloso del Gratarol, ch'io non era stato degli altri di lei amanti, i quali nonmettevano a repentaglio la mia pratica familiare con lei. Io attendevo schermend

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o la quaresima con una brama indicibile, e i giorni di quel carnovale mi sembravano eterni.Narro la serie pontuale de' successivi piccioli incidenti che fecero divenire senza il menomo proposito la mia commedia Le droghe d'amore, quasi del tutto composta e letta a caso innocentemente alla Ricci e ad altri, una satira strepitosa particolare.Mancavano alcune settimane al termine del carnovale, quando entrato io una sera

ne' stanzini del teatro, vi trovai al solito il signor Gratarol, il quale con atto cortese mi si volse dicendo: - Signor conte, qui il Sacchi, il Fiorilli, il Zannoni, invitati da me per il tal giorno di questo carnovale, mi fanno il piacere di venire al mio casino a San Mosè a mangiare un fagiano. Non ho coraggio d'invitar lei; tuttavia sapendo la benevolenza che ha per questi personaggi e il piacere che prova della loro compagnia, s'ella volesse essere de' commensali, riceverei ciò per un onore.L'invito non poteva essere più gentile. Sentendo io quali erano i personaggi invitati da lui al suo pranzo, siccome io m'era prefisso di trattare quel signore con tutta l'urbanità fuori dall'abitazione della Ricci, accolsi con civiltà il di lui invito, aggiungendo però che il mio stato di salute non ferma non mi lasciava impegnare d'essere in grado di godere de' suoi favori con sicurezza, ma che perciò null

a perdeva il suo convito. Alcune di quelle ceremonie di sentimento, delle qualiquel signore era fertilissimo, fissarono la giornata.Un giorno dopo questo stabilimento m'abbattei nel Sacchi sulla piazza. Egli mi si mostrò stralunato, dicendomi che aveva bisogno d'un mio consiglio. - Poco fa - seguì egli - m'incontrai in un signore, che pranzò ieri alla mensa d'un cavaliere patrizio che presiede nel supremo tribunale. Mi trasse da un canto e mi disse: - Il patrizio tale, che voi sapete in qual tribunale presiede, discorrendo ieri alla sua mensa in via di conversazione in sui teatri, espresse queste parole: - Nonso come il Sacchi, il quale ha fama d'esser cauto, di ben regolare la di lui truppa e di non dare accesso sul suo palco scenario che a qualche amico confidenziale, accetti ora seralmente e liberamente sopra al suo palco de' secretari del senato. - Caro Sacchi - proseguì quel signore, - non dite a nessuno ch'io v'abbia riferte queste parole. Ve le dico perché vi voglio bene e perché vi regoliate onde non

 vi succedano cose di mortificazione.- Ella vede, signor conte, - seguì il Sacchi, - che questo avviso caritatevole privato mi mette in necessità di porre qualche rimedio per non adar soggetto a qualche disgrazia, se avessi la temerità di non curarlo. Le confesso, sono imbrogliato,non so qual passo fare, e chiedo consiglio.- Voi scegliete un consigliere inopportuno in tal proposito - rispos'io. - Siete voi il padrone del palco scenario, e foste sempre rigoroso in tal argomento. Perché non ostare con civiltà nel principio ad una cosa che ora v'imbroglia? Io fui piùd'un mese lontano dalla vostra scena per le mie febbri. Al mio ritorno vi trovai il signor Gratarol in possesso e in buona amicizia con tutti. Se anche mi fosse passata per la mente che quel personaggio non stesse bene sul vostro palco scenario, non avrei fatto mai l'uffizio, che a me non s'aspetta, d'avvertirvi.- Io non l'ho introdotto - disse il Sacchi. - Lo vidi una sera sul palco, ed hocreduto che ciò fosse cosa accidentale e passeggera; ma poi, vedendolo perpetuato, feci delle ricerche alla compagnia, e tutte le voci universali mi risposero con della ironica malignità ch'egli venne accompagnatore della Ricci, da lei introdotto, e che venga per lei.- Tanto meno posso esservi consigliere - rispos'io. - Tuttavia credo di potervidire ch'io non credo il signor Gratarol indiscreto, e che potreste narrare in secreto con bella maniera o alla Ricci o a lui medesimo, l'avvertimento privato che riceveste. Sono certo che quel signore si asterrebbe di venire sul palco scenario, per non cagionare a voi una sciagura e un dispiacere a se stesso.- lo mi conosco assai caldo e strambo nel parlare - soggiunse il Sacchi. - Mi faccia lei la carità di dirlo alla Ricci. - Scusatemi - diss'io; - né fo di questa sorta di uffizi né m'impaccio in ciò che spetta a voi.

- Ella mi faccia questa carità - replicò il Sacchi. - Può dire puramente alla Ricci ch'io ho tenuto con lei questo discorso sopra ciò che mi fu detto, ond'Ella possa regolarsi; la assicuro, signor conte, che s'io parlo con quella femmina su questo

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argomento, è impossibile che il caldo non mi faccia dirle delle ingiurie pesanti.- Perché non parlate in una maniera civile al signor Gratarol? - diss' io. - Le dico il vero, non ho coraggio - rispose il Sacchi. - Quel signore mi usa delle pulitezze. Temo ch'egli possa giudicare in me un ritrovato comicoper scacciarlo dalla scena e che possa divenirmi nimico. La Ricci potrà fare per stizza de' pessimi uffizi. Lei sa che nel nostro mestiere siamo in necessità di coltivar tutti.

- Buono! - diss'io - volete dunque che la mia zampa sia quella del gatto che vicavi il marrone dal fuoco. Bene, bene, se verrà un momento opportuno vedrò di servirvi e d'impedire un disordine con la maggior cautela possibile.Feci una delle mie fredde visite alla Ricci in ora di trovarla sola, e dopo unabreve conversazione sui generali, attesi il momento del mio partire per dirle con atto d'indifferenza: - Mi scordava di dirvi una cosa che veramente non ho voglia di dirvi. Crederei però di mancare all'amicizia non dicendovela, e di lasciarvi esposta a ricevere delle grossolane mortificazioni. Il Sacchi mi disse le talie tali cose. Mi pregò ad avvertirvi di ciò ch'egli fu avvertito. Già avete le visite libere del signor Gratarol nella casa vostra. Voglio sperare che vi regoliate con prudenza, senza cagionare odiosità verso nessuno in questa faccenda.- Il Gratarol non viene per me sul palco scenario - rispose la Ricci infiammata.

 - Che importa a me che venga o non venga? Il Sacchi può dirgli che cessi divenire.- V'ho fatta la narrazione d'una verità, pregato - diss'io con perfetta calma. - Fate l'uffizio voi, lo faccia il Sacchi o non lo faccia nessuno, a me niente deve importare.Sono partito dopo queste parole, lasciando la Ricci rovente e crucciosa. Vidi d'aver fatto un male per fare un bene, sedotto dalla mia solita condiscendenza; edall'umore viperino in cui lasciai quella femmina, credei di poter conghietturare tra me de' maligni uffizi contro la mia persona. Quali sieno stati cotesti uffizi non saprei dirlo, ma tutti i segni mi dissero che furono pessimi. La Ricci vedeva con ira, spirante la mia amicizia per lei, e desiderava di tener fermo ilnovello amico. Prima di confessare il suo torto della direzione ch'ella aveva riguardo a me, sarebbe scoppiata; e vinta dal suo amor proprio e dall'albagia, non

 sapeva vedere in me che un ente geloso.Dal punto del sopraddetto ragionamento, non si vide più sul palco scenario il signor Gratarol, Dio sa con qual sentimento verso me.La sera innanzi al convito ordinato dal signor Gratarol, essend'io in uno stanzino del palco scenario in cui era il Sacchi, la Ricci e una di lei sorella, ballerina del teatro, nominata Marianna, e molti attori ed attrici della compagnia, il Sacchi uscì con la seguente esagerazione: - Domani - diss'egli - corre il pranzo del signor Gratarol, a cui sono invitato. Io credeva che l'invito fosse qui alsignor conte, a me, al Fiorilli e al mio compagno Zannoni. Ho però saputo che sono invitate anche delle attrici della mia compagnia, e che soprattutto il magnifico e spendido banchetto è precisamente un trattamento solenne per onorare madama Teodora Ricci. Io non ho mai fatto il conduttore e il ruffiano delle donne della mia truppa. Al corpo... al sangue..., ecc., ecc.; anderà a quel convito chi vuole,io non ci anderò certo. - Egli seguì la sua brutale esagerazione con le più laide invettive.La Ricci aveva la faccia accesa, non sapeva dove rivolgerla, e teneva gli occhibassi alla terra. Tutti avevano gli sguardi verso lei. Confesso che in quella spezie di berlina ella mi faceva compassione. - Ecco - diceva tra me- l'opera mia di cinqu'anni rovesciata dalla imprudenza di questa cieca vanerella che, sorpassando ogni conveniente riguardo, si guadagna di questa sorta di panegirici. Il bordello va divenendo solenne, io mi vedo troppo involto in esso, etemo di non potere attendere il fine del carnovale traccheggiando, senza qualche scoppio di novità increscevole.Seguendo il Sacchi le sue villane espressioni e i giuramenti di non voler essere a quel convito, cercai col miglior modo di calmarlo e di persuaderlo a non manc

are.- Voi cercate - diss'io - di non farvi nimici, e non vi curate poi di fare uno sgarbo notabile ad un signore che v'usa una cortesia? Date troppa retta a delle r

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iferte maligne. La cosa può essere innocentissima, né vedo ragione che dobbiate incollerire. - Mi venne fatto di calmarlo e di persuaderlo ad andarvi.Quanto a me, siccome veramente non mi sentiva bene della salute, e siccome ho sempre avuta antipatia per i lunghi pranzi solenni, massime dati da persone da menon ben conosciute, la mattina per tempo scrissi al signor Gratarol un civile viglietto, dicendogli che ero gratissimo al di lui invito, ma che assalito da un poco di febbre quella notte, non mi sentiva in grado di godere de' suoi favori, e

 che non mi violentava a riceverli per non recare mestizia a un allegro convito. Il mio servo mi recò un viglietto di risposta con un profluvio di dispiaceri e di ceremonie.Le mie direzioni non potevano offendere il signor Gratarol, ma egli era fomentato a sospettare di me; e siccome non poteva nascondere a se medesimo che l'essersi introdotto dalla Ricci non era una direzione di pulitezza verso di me, scorgendo chiara la impossibilità di ridurmi insieme con lui dalla sopraddetta attrice, credo che andasse ognor più acquistando del livoretto verso di me. Si vedrà nel séguito delle mie ingenue, seccaginose, ma necessarie narrazioni che la mia credenza non era uno sbaglio.CAPITOLO XXII.Visita avuta da me del signor Gratarol. Miei dialoghi con quel signore. Mormoraz

ioni della compagnia comica e alcune mie dabbenaggini riguardanti la Ricci.La mattina dietro al lautissimo banchetto dato dal signor Gratarol e mentre eroio ancora a letto, mi fu annunziata la visita del signor Gratarol, ch'io aveva conosciuto appena per momenti e di volo sul palco scenario. Mi raccolsi a ricevere questa visita per me nuova.Egli entrò co' suoi passi più inglesi che veneziani, abbigliato leggiadramente, e con delle espressioni verso di me che l'umiltà mia non potè che considerare adulazioni mal spese. Dopo avergli io chiesto perdono del modo con cui lo riceveva e dopole solite ricerche e risposte sul mio stato di salute, egli passò a dirmi che, essendosi formata una compagnia nobile di dilettanti di comica, ed eretto un teatro nella contrada di San Gregorio per ivi recitare delle commedie e delle tragedie, della qual compagnia egli stesso era membro, aveva egli proposto alla sua comitiva ch'era necessario un capo stabilito, sovrastante, direttore e plenipotenzia

rio, alle cui leggi ognuno dovesse ciecamente obbedire in tutto e per tutto, e che l'assemblea intera era discesa ad accordare la di lui proposizione; ch'egli s'era presa la libertà di nominar me, e che tutta la società aveva acclamato il mio nome con esuberanza e persuasione universale.Lasciando da un canto lo stomachevole spirito di adulazione ch'io scòrsi, confesso che il sentire occupato e impegnato con tanta serietà e ragionare di cosa così frivola un secretario dell'augusto Veneto senato, eletto residente della serenissima repubblica alla corte d'un monarca delle Due Sicilie, risvegliò in me lo stuporee il risibile per tal modo che dovei tardare nel rispondere, per trattenere le risa.Egli però soccorse la mia tardanza seguendo il suo discorso. - Una tale istituzione in Venezia - diss'egli - è utilissima per sviluppare e addestrare gli spiriti eper la educazione de' giovanetti - proseguì quel signore di età matura, secretario del senato, residente alla corte di Napoli e comico della compagnia nobile di dilettanti. - Io trovo la detta istituzione bellissima, utilissima e degna. Che sembra a lei, signor conte?- Lodo - risposi quando potei - la istituzione già inveterata ne' collegi per l'educazione de' ragazzi, né potrei che approvare la medesima istituzione anche fuorida' seminari, per tenere occupata la gioventù ch'esce dal corso de' suoi studi. Ciòpuò essere un onesto e virtuoso divertimento per le famiglie e opportuna scuola per sciogliere gli spiriti, per esercitare la memoria, per arricchire di sentimenti, per far superare a' giovanetti il legame d'una soggezione talora dannosa, e per far spedito, pronto e grazioso il favellar loro. L'emulazione in un tale esercizio, nonché in altri consimili, nella quale entrerebbero i giovani per superarsi l'un l'altro nel vincere applausi da' spettatori, sarebbe un balsamo per tenerl

i occupati, lontani dall'ozio e dall'abbandonarsi alle pratiche viziose e a certa sbrigliata voluttà animalesca che sembra oggidì la principale occupazione de' giovani. Quanto poi alle persone adulte, d'età matura e già occupate in uffizi e pesi re

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matici, crederei che queste dovessero essere più protettrici d'un tale istituto epiù spettatrici che attrici. Tuttavia credo che gli uomini tutti possano a lor senno cercare divertimento per quelle vie che loro accomodano, né in tendo dal cantomio di fare l'Aristarco. Sono poi tenuto a lei d'avermi proposto, e alla sua dame riverita società d'avermi accettato per despota della privata nobile comica direzione. Chiedo però d'essere dispensato da un tale uffizio. Io sono d'un'indole atta al sorpassare e inclinata alla condiscendenza, e non all'imperare, all'imporr

e e al volere obbedienza, sicché riuscirei male nella ispezione che mi si vuole generosamente addossare. Oltre a ciò, io vivo a me stesso, e sarei un pesce fuori dall'acqua mia cheta, se entrassi nella dotta ma tumultuosa società ch'Ella mi accenna. Ella mi vede comporre talora delle frivolezze sceniche favorite dalla pubblica bontà, ed è per questo forse ch'Ella s'è formato di me un'idea vantaggiosa in questo argomento. Il mio comporre delle capricciose opere teatrali e la pratica ch'io tengo da molti anni con de' comici, delle comiche, amici allegri e onorati, non è per me che una distrazione de' pesi infiniti, e molesti che, benché libero, porto volontariamente per la mia numerosa famiglia non molto fortunata. La prego dunque a perdonare al mio rifiuto dell'onore ch'ella m'ha procurato e ad iscusarmi presso a' nobili suoi sozi del mio non accettare.Non so quanto piacesse la mia ingenua risposta al signor Gratarol. Credo che mol

ti tratti della mia sincerità non gli andassero a sangue e che molti altri potessero da lui essere giudicati ironici. Nulla ostante egli seguì nella sua adulazionea me noiosa.- Invero m'immaginava - diss'egli - ch'Ella non accettasse, vedendola di maniere pacifiche; ma almeno può farmi il favore di suggerire persona atta a tale uffizio.- Crederei - diss' io - persona la più a proposito il marchese Francesco Albergati, cavaliere dilettante appassionato e intelligente della materia teatrale. Egli èfatto omai abitante di Venezia, e accetterà volentieri l'impegno.- Lo crede veramente capace? - seguì il Gratarol seriamente, come se si trattassedi cosa di gran rimarco.- Capacissimo - diss' io. - Mi dona dunque la libertà- seguì egli colla stessa ridicola serietà - ch'io proponga a' membri della compagni

a nobile il marchese Albergati come persona suggerita da lei? - Si serva pure -risposi io, quasi sbadigliando, tediato dal lungo dialogo sopra tale inezia.Egli partì finalmente con un lago di complimenti e mostrandosi contento di me; edio ringraziandolo con civiltà della sua visita e protestando che gliela averei restituita tosto che avessi potuto, rimasi contento davvero della sua partenza.Fissato avend'io di non far novità con la Ricci sino alla quaresima, durai bene della fatica a resistere nella mia fissazione di cautela. Dopo il trattamento dato dal signor Gratarol, che veniva descritto monarchico, tutti i comici e tutte le comiche della compagnia, scatenati contro la Ricci, la fulminavano con degli equivoci significanti e solo avevano qualche rattenutezza alla mia presenza. Alcuna però delle attrici, esultante, chiedeva in secreto a me se fossi ancora a segnodi conoscere il carattere di quella femmina di cui avevano proccurato in tante forme di avvertirmi invano. Or mostrava io di non intendere, or correggeva la maldicenza, or volgeva le spalle fingendo collera con le lingue pestifere, e attendeva pur la quaresima.Una sera, còlto dalla stessa sorella della Ricci, M arianna, in un stanzino del teatro, ella mi disse: - Che le pare, signor conte, della stravagante novità? - Chenovità stravagante? - diss'io. - Di quella matta di mia sorella - seguì la giovane.- Ella fu sempre una matta, di cervello leggiero, ambizioso e imprudente. Chi avrebbe detto che dopo cinqu'anni d'assistenza e vera amicizia di lei, si fosse abbandonata a tanta solennità colla persona del Gratarol?Mentre andava pensando a una risposta che niente significasse, de' comici entrati nello stanzino mi levarono d'imbroglio, troncando il discorso.Essend'io accostumato a dare ogn'anno a un buon numero della compagnia comica un pranzo casalingo verso il fine del carnovale, aveva già fatto l'invito per un gio

vedì, per non alterare una consuetudine che facesse fare delle inopportune interpretazioni. La Ricci, il di lei marito, qualche altra attrice, il Fiorilli, il Zannoni e qualche altro attore furono i miei commensali. Le lepidezze volavano, ma

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con mio dispiacere i sali del Fiorilli, facetissimo e ardito, giravano sopra a certi novelli adornamenti che aveva indosso la Ricci, e con delle allusioni che la scorticavano. Ella arrossiva, si avvolgeva senza rispondere; gli altri rìdevano; ed io cercava indarno di risvegliare discorsi d'altro argomento.Dopo quel giorno trovai sparse per la compagnia delle disseminazioni franche, esose, sulla sbrigliatezza della povera Ricci, che la infamavano. Giugnevano perfino ad affermare che ogni sera, terminata la commedia, ella passava col signor Gr

atarol al di lui casino e ch'ivi era trattenuta le notti intere.Queste disseminazioni potevano per avventura esser false malignità. Non era però che la di lei imprudenza e la pratica di quel signore, famoso in tali materie, e forse meno reo di ciò che lo faceva la pubblica voce, non le avesse tirato addosso un bordello di giudizi e di ciarle, spezialmente nella sua compagnia comica, in cui ella aveva de' nimici, in cui si ostentava austerità di costume e in cui non si misuravano parole. La fama stabilita di effemminato e seduttore in un uomo, anche stabilita sopra a delle false supposizioni, rovina la riputazione nel pubblico giudizio di qualunque saggia, morigerata femmina privata a cui egli s'accostacon una domestica amicizia e con cui prende pratica famigliare. Quella d'una comica come si salva?Il signor Gratarol, gonfio d'amor proprio e moderno franco filosofo, sarà stato be

n lunge dal fare questa mia considerazione, che secondo i suoi sistemi non sarebbe stata che figlia del pregiudizio; e anzi sarà stato certo di far dell'onore a quella infelice donna con la sua pratica. Io doveva credere cosa impossibile cheil detto signore non sapesse di dare a me un dispiacere colla sua direzione; pure avrei donato a lui un tal dispiacere, se avessi potuto allontanarmi dalla Ricci prima del fine di quel carnovale, senza dar luogo ad un torrente di ciarle maggiori e senza abbandonare interamente a' flagelli della compagnia una femmina di cui era stato cordiale amico di confidenza e sostegno per il corso di tanti anni, e che finalmente m'era comare.Non poteva trovar altra scusa per il Gratarol se non che nel credere che la Ricci, ambiziosa e forse innamorata, per coltivare e tener ferma la di lui pratica,gli tenesse occulti tutti gli obblighi e gl' impegni che aveva con me e le proteste e dichiarazioni che ben cento volte le aveva fatte. Vedeva benissimo che la

compagnia comica intera desiderava il totale mio abbandono di quella donna, cheancora m'ingegnava di difendere attendendo la quaresima. Finalmente i continui insolenti motteggi verso di me e gli esosi pubblici discorsi mi fecero lasciare da un Iato la mia metafisica e i miei riguardi, e risolsi di allontanarmi affatto dalla Ricci e di troncare del tutto le mie visite prima che il carnovale terminasse.Paleso ch'io considerai che il cieco abbandono della Ricci all'amicizia del Gratarol potesse essere uno sbalordimento d'un cervello leggero muliebre, cagionatodalla abilità di quel signore in queste tali materie; e paleso che una debile lusinga ch'ella fosse in grado di scuotersi da un letargo tanto a lei dannoso, di ravvedersi, di poter ancora frenare le lingue e di poter seguitare a giovarle perle oneste vie, mi fece fare un passo prima di abbandonarla a' fulmini della suacompagnia, passo ch'io sono il primo a condannare di passo falso.Trovai la di lei sorella Marianna, e le parlai co' termini seguenti: - Cara Marianna, voi sapete in qual vista si è posta la sorella vostra col signor Gratarol equali sieno gli obbrobriosi discorsi che corrono sopra lei. Io non sono più in grado di poterla difendere, e sono in necessità di allontanarmi interamente dalla sua pratica e di far conto di non averla mai conosciuta, per non essere involto nelle sporche ciarle che corrono. Avvertitela ch'io tronco da questo punto le mie visite ed ogni relazione con lei, onde ella possa apparecchiarsi delle difese infaccia alla sua compagnia, la quale ha gli occhi sul mio allontanamento da lei per scatenarsi. Sono certo ch'ella interpreterà al suo solito l'uffizio urbano chele fo giugnere, per una gelosia ch'io sento del Gratarol. La di lei testa non è capace di fare altri raziocini che questo, e la sua stolta ambizione e il suo amor proprio saranno sempre i di lei traditori. Ella dovrebbe sapere ch'io so scusar

e la gioventù e ch'io non fui geloso giammai delle persone colle quali so ch'ellafece all'amore, ma le quali non potevano mettere a repentaglio né la sua né la mia riputazione nel pubblico con le loro figure; ed ella è in debito di sapere quante v

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olte, sulla di lei pretesa e premura delle mie visite famigliari, le protestai ch'io avrei cessato d'esserle amico domestico, tosto ch'ella si mettesse in certa vista con oggetti splendidi e famosi dilettanti di femmine. Il Gratarol ha questa fama. Le ciarle e i libelli bollono; ella non è più pratica familiare per me. Ditele ch'io la lascio in pienissima libertà, perché non voglio fare né la figura del sciocco né del mezzano e ch'io le mando questo avviso anticipato, ond'ella possa regolarsi. Assicuratela ch'io non le sarò giammai nimico. - Aggiunsi a questo discorso

 alcune parole calzanti, relative al Gratarol, né posso negare di aver condannatala di lui azione di galanteria, tanto verso la giovane da me assistita, mia amica di più di cinqu'anni e comare, mettendola a pericolo di rovinarsi e di soffrire, quanto verso la mia persona, incapace di fare il più picciolo sgarbo di nessuna natura a chi si sia. M'indusse a questa picciola esagerazione l'esser certo che il signor Gratarol non poteva mostrare che una finta ignoranza sopra ciò ch'era passato tra me e la Ricci per il corso di molti anni. Parlo con ingenuità.La giovane Marianna, dopo aver condannata la sorella co' termini più risoluti nuovamente, promise di far l'uffizio, aggiungendo che la faccenda sarebbe accomodata. - Non v'è altro accomodamento - diss'io; - ella cerchi di salvarsi, perch'io non posso più difenderla e perch'io sono in necessità di difender me per essermi troppo innoltrato nella di lei amicizia per dabbenaggine.

Ho confessato che questo mio uffizio spedito fu un passo falso. Doveva prevedere che un tale uffizio raccomandato a una giovane non obbligata ad intendere il senso delicato nel mio pensare, potesse portarlo materialmente come uno sfogo e una minaccia d'un amante debile in gelosia e potesse forse difformarlo con delle alterazioni; e avrei potuto allontanarmi col fatto, senza far precorrere avvisi,non solo dalla Ricci, ma da tutta la comica compagnia che aveva sostenuta per tanti anni e ch'era innocente in questo argomento, per non essere involto nelle sporche dicerie, ma ho anche confessata una mia debile lusinga di poter scuotere da un letargo con un tale annunzio la giovine, di porre in soggezione le lingue e, rimettendola in sul diritto cammino, di poter ammorzare un fermento di ciarleinfamatrici e di poter seguire ad essere utile a lei e alla sua famiglia. Si vedrà il frutto del mio passo falso nel seguente capitolo.CAPITOLO XXIII.

Frutto del mio passo falso.Due giorni dopo il mio uffizio spedito, comparvero unite, alla mia abitazione, mentr'io ero occupato al mio scrittoio, le due sorelle Ricci, la comica e la ballerina, ch'io accolsi con civiltà. - Seppi qui da mia sorella - disse la comica con un contegno imbarazzato ed ardito - che lei, signor compare, è in collera meco, e sono venuta ad intendere il motivo. - Io non sono in collera punto né poco - rispos'io.- Voi sapete ch'io v'ho sempre detto che, qualora vi metteste in una vista di una venturiera galante, mi sarei allontanato da voi. Avete aperto l'adito a dellesporchissime ciarle ch'io non posso frenare. È offesa la vostra fama e dileggiatal'amicizia ch'ebbi per voi per tanti anni. Cerco di salvarmi, se però sono in tempo, di non essere frammischiato nella laidezza di simili dicerie che non posso frenare; e v'ho mandato un avviso per semplice urbanità, onde possiate apparecchiarvi a difendervi, essend'io dalla vostra direzione medesima disarmato e reso inutile alla vostra difesa. Ho fatto in cinqu'anni della mia sincera amicizia quantoho potuto per voi, per la vostra buona fama e per il vostro onesto interesse, ed ho sofferto abbastanza. Non voglio credervi ingiusta a segno di pretendere da me quello ch'io non devo e non voglio. L'ombra mia non deve servire di covertella a' vostri trapassi. Rimanete ne' vostri capricci, ch'io intendo di voler la mia calma, di rimettere la mia salute in quest'annonon ferma, e di non più disturbar me e disturbar voi co' miei ricordi, per esser puramente molesto alle vostre inclinazioni.A queste parole la giovane divenne muta. Ella guardava qua e là, e co' suoi gestidinotava di volermi dire delle cose da lei trattenute per riguardo alla presenza di sua sorella. - Siete forse offesa dal mio discorso? - diss'io. - Più che a me,

 egli riguarda a voi, onde possiate armarvi contro un profluvio di vessazioni ed'impertinenze di chi per opprimervi non attende se non che io vi lasci isolata.La giovane seguiva i suoi gesti smaniosi, dinotando una brama di palesarmi delle

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 cose in secreto. Allora fu ch'ebbi la debile, stolta lusinga ch'ella fosse ancora in grado di poter accettare de' consigli e d'eseguirli, d'esserle utile senza offendere nessuno, ond' io discesi a farle questa ricerca con una maniera urbana e amichevole. - Avreste forse - diss'io - delle cose da palesare a me solo per avere un consiglio? - Sì signore - rispose ella.- Ebbene - dissi, - voglio darvi ancora un segno di sincera cordialità. Domattinasarò a visitarvi. Disarmatevi d'ogni arte e date luogo alla ingenuità. Se vedrò che i

miei consigli possano essere in tempo di giovarvi senza offesa di nessuno, ve li darò. Desidero che siate in grado di poterli eseguire, ond'io possa far tacere la malignità sfrenata de' vostri compagni, tenerli in soggezione, proccurare i vostri vantaggi e seguire ad esservi buon amico e compare. Temo che il male sia troppo inoltrato; tuttavia vederemo.Ella mi disse d'attendermi, che sarebbe sincerissima; e confesso, s'accrebbe inme qualche scintilla di sciocca lusinga di rimetterla in buon aspetto e di poterle giovare. Non mancai della mia visita la mattina successiva, in un'ora in cuiera certo di non trovare il signor Gratarol. Trovai la Ricci ch'era ancora a letto, ed ecco il comico di quella mia visita.- Sono - diss'io con la maniera più urbana e scherzevole - ad ascoltarvi e ad essere medico alla vostra infermità, s'ella è guaribile. Non mi nascondete nulla, perché l

e mie ricette non riescano più dannose che giovevoli. Sepensate ch'io non sappia scusare i giovanili trascorsi, m'offendete. Confessatemi i gradi della vostra amicizia col Gratarol, ond'io possa scorgere se mi lasciano adito a de' consigli. Sono certo che quel signore è all'oscuro delle disgrazieche vi cagiona, e temo che voi siate cagione di questa sua ignoranza.La Ricci rispose a tutto ciò con un semplice sospiro, che mi fece ridere. - Sietevoi innamorata? - diss'io. - Se siete presa dall'amore, non averò maraviglia, e solo mi rincrescerà d'esser venuto ad ascoltare un male che non è suscettibile di consiglio. Confessatelo, e me ne vado.- Oh, innamorata! - rispose la Ricci. - Son ben io quella donna che s'innamora!- Se dite la verità e se non siete innamorata, posso darvi de' consigli e voi potete eseguirli, se volete - diss'io. Avete voi ricevuti regali di costo da quel signore?

- Niente - rispose ella, - fuori che una picciola catenella d'oro di Napoli da orologio e un manicotto moderno di raso con qualche ricametto.- Questi non sono - diss'io - legami considerabili, né per quel signore né per voi.Potete scrivere al Gratarol un viglietto civile per questa forma: - "Le di lei visite, che m'onorano, cagionano nella indiscreta compagnia comica a cui servo, di quelle infamatrici dicerie che lacerano la mia riputazione, e mi trovo esposta a frequenti brutali irragionevoli rimproveri e a delle punture che trafiggono l'animo mio. La comica malignità, forse per invidia, annerisce il mio onore con lubricità di lingua per tutte le famiglie dove ho pratica. Lei, mio signore, non è in debito di conoscere le circostanze d'una povera giovine comica, isolata nel mezzo a una teatrale combriccola che cerca di opprimerla. Conosco lei per un signoregeneroso, prudente e discreto, e perciò oso di supplicarla ad astenersi di visitarmi. Ella saprà vedere ch'io chiedo in grazia una privazione che a lei è di sollievoe a me è di scapito; e tuttavia attendo gli effetti della mia necessaria preghiera, assicurandola della mia venerazione e della mia inalterabile stima e riconoscenza".- Un tal viglietto - proseguii - non può offendere il signor Gratarol, e sono certo che un animo nobile e discreto deve aderire ad una tale civile richiesta nel caso vostro. Per fargli conoscere la vostra delicatezza, potrete spedirgli unitial viglietto i due regali ch'egli v'ha fatto. Egli non è d'un carattere certamente d'usare la viltà di trattenerli. Se per sorte avvenisse una tal stravaganza, nonvorrò io che abbiate discapito alcuno per aver voi aderito ad un mio suggerimento. Eccovi il mio ingenuo consiglio; siete voi in circostanza e in disposizione diabbracciarlo?- Bisognerà abbracciarlo - rispose la Ricci con un nuovo notabile sospiro.

- Buono! - diss'io - a che mi faceste venir qui? Quali cose erano quelle che ieri volevate dirmi in secreto? Se non potete risolvere senza sospirare, è segno chegiudicate il mio consiglio una costrizione tiranna o che siete innamorata del Gr

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atarol. Né per la prima né per la seconda ragione dovete scrivere il viglietto suggerito, e se altro non avevate da palesarmi se non che siete presa da una forte passione d'amore, dal canto mio vi lascio nella vostra fiamma e nella vostra piena libertà senza rammarico alcuno.- Amore, ohibò! - rispos'ella. - Convien scrivere il viglietto, e lo scriverò, le prometto.- Bene - diss'io; - la vostra direzione e il buon evento in questo proposito mi

daranno l'armi di far tacere e di minacciare i vostri nemici, e vi prometto di continuare con l'ombra e con l'opera mia a proccurarvi del bene. In caso diverso, vi riconfermo il mio allontanamento da voi per sempre. Non vi niego che avrei caro che faceste ricomparire verità e ragioni i contrasti che ho fatti in cinqu'anni in difesa della vostra morigeratezza, del vostro avvanzamento e del vostro interesse.Lasciai la Ricci con delle pulitezze e de' tratti d'amicizia scherzevoli, e come un uomo che giammai avesse da lei ricevuto il menomo dispiacere. Vidi benissimo, ne' modi che ella tenne nell'ascoltarmi e dalla sua effigie, ch'io aveva gettata l'opera mia; né mi sono però pentito d'aver tentata l'ultima prova per raddrizzarla ad un cammino ch'io credeva il migliore per lei.Cinque o sei giorni mancavano al termine di quel carnovale, e quantunque scorges

si apertamente che la Ricci era stata lontanissima dall'eseguire il mio consiglio, e sospettassi anzi ch'ella avesse abusato di quello, tuttavia volli attendere la vicina quaresima con una perfetta indifferenza, per non fomentare delle dicerie e per abbandonare quella femmina al suo destino. Non le feci mai ricerche s'ella avesse o non avesse scritto il viglietto concertato, e non scemai nel corso di que' pochi giorni né le mie visite civili né i tratti d'amichevole cordialità verso lei, con una perfetta dissimulazione sul di lei errore.Un giorno in cui ella era libera dal recitare, le chiesi se quella sera avesse il piacere di andare all'opera in San Samuele, che le averei tenuto compagnia. Accettò la mia esibizione ringraziandomi, ma dimostrò una gran premura di sapere in qual ordine del teatro fosse il palchetto e di qual numero fosse marcato. Questa sua strana premura mi fece indovinare qualche sporco garbuglio comico; nulla ostante non volli dimostrare il menomo sospetto. - Vi manderò la chiave del palchetto

questa mattina - diss'io, - e sopra quella potrete rilevare l'ordine e il numero. Se volete anticipare andando col vostro marito, verrò poi a salutarvi e a tenervi compagnia. - Ho pontualmente eseguita la mia esibizione.Fui a trovarla nel palchetto. Il marito aveva debito d'essere al suo teatro, entrando egli in alcune scene verso la metà della commedia. Rimasi solo colla di luimoglie. M'avvidi tosto della ragione per cui ella aveva avuta la premura di sapere l'ordine e il numero di quel palchetto la mattina. Ella aveva avuta la diligenza amatoria di avvertire il Gratarol che quella sera sarebbe con me all'opera in San Samuele nel tal ordine e nel tal palchetto.Appena salutata la Ricci e seduto con lei, ho udito aprire il palchetto contiguo al mio e affacciarsi persona. Bellissimi furono i muti tratti infiniti di civetteria e le scamoffie della Ricci verso quella persona, ch'io aveva dietro le spalle e non poteva vedere senza volgere il capo. Non giurerei che in que' muti attuzzi reciprochi, che durarono per quanto è durata l'opera, non entrasse qualche sberleffo diretto alla mia dabbenaggine. Scòrsi con la coda dell'occhio che la persona che teneva occupata la Ricci negli attuzzi galanti era il signor Gratarol, il quale, avvertito da lei, s'era provveduto di quel palchetto per dimostrarle lasua appassionata attenzione cercando di starle vicino. Poco mancò ch'io non dessiin uno scoppio di risa. - Oh, sciocco! - diss'io tra me a me medesimo - per chimai t'esponi e a qual femmina pretendi di raddrizzare il cervello e di sanare la riputazione! - Tacqui, e mostrando di scorgere accidentalmente il Gratarol, losalutai con tutta la civiltà, chiedendogli scusa di non avergli ancora restituitala visita che per sua gentilezza m'aveva fatta mentr'ero ammalato, protestando che avrei adempito a questo mio debito in un momento da non essergli di disturbo. Egli mi sommerse in un lago di que' complimenti che lo facevano considerare fac

ondo.- Altro che scrivere i viglietti da me consigliati! - diceva io nel mio interno. Confesso che nella scena di que' due palchetti, più che il cervello leggero, vano

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 e forse riscaldato d'una giovine, condannai la fanciullesca frascheria effemminata del secretano d'un grave senato, eletto residente alla corte di Napoli.Ricondussi la comare alla sua abitazione senza fare alcun cenno in sul passato.[Continuai a farle qualche rara visita, finché, l'ultima notte del carnovale, cenato coi principali della compagnia e andati all'opera che si faceva dopo la mezzanotte nel teatro in San Samuele, intimai alla Ricci la fine della mia sofferenza].

Terminata l'opera, la condussi alla sua abitazione, e nel lasciarla sul limitare dell'uscio, le replicai che pensasse a' casi suoi, essendo quella l'ultima volta che le ero stato compagno. - Ella non verrà dunque più a visitarmi nella mia casa? - disse la Ricci.- Non averete certamente più questo disturbo - rispos'io.- Oh! Ella ci verrà, ci verrà - diss'ella con un atto di baldanzosa sicurezza.Non potei trattenere le risa a quella donnesca presunzione. - Ah! voi continuate a volermi tenere per unospasimato incapace d'allontanarmi da' vostri vezzi? - diss'io. - Se verrò a visitarvi, mi vedrete. - Verrò ben io da lei - rispos'ella. - Spero che non vorrete prendervi un tale incomodo - diss'io volgendole le spalle e partendo.[Qui ebbe termine la mia ingenua pratica con quella donna, che, offesa nelPamor

proprio, si volle vendicare].CAPITOLO XXIV.Seccature insidiose da me sofferte nella quaresima dalla parte della Ricci per l'abbandono da me fatto. Alcune coserelle relative alla compagnia comica da me soccorsa.Siccome la truppa comica doveva passare nella primavera a Mantova, il viaggio breve da farsi la trattenne in Venezia tutta quella quaresima per mio delirio. Era costume che nella quaresima, sino a tanto che la società comica non partiva, eraaperta le sere nella casa del Sacchi una ricreazione lepidissima. Alcuni tavolini di piccioli giucchi di carte, alcuni piatti di frittelle, alcune bottiglie e un'infinità di facezie e di sali formavano quella ricreazione. Seguiva anch'io quell'annuale costume e interveniva, guardato da' comici come il loro genio tutelare

.Scorgendo la Ricci ch'io aveva sospese da vero le mie visite, riscaldata il cervello dal suo puntiglio, si pose a venire a quel crocchio; cosa che negli anni anteriori non aveva mai fatto. Affettando ella di voler giuocare al tavolino e nella partita dov'èra io, nessuno impediva questa sua inclinazione, ed io era a ciò indifferente. Questa sua inclinazione non era che per usare nel giuoco e nel dispensare le carte de' tratti villani e de' sgarbi diretti a me. M'avvidi benissimo che quelle increanze non erano che un'astuzia sciocca usata da lei per indurmi ad andare a lagnarmi alla di lei casa, conoscendo ella il mio temperamento incapace di far una scena solenne alla presenza di tanti e nell'altrui casa. Mi schermiva dalle di lei impertinenze or col fingere di non scorgerle o con de' risolinidi commiserazione sulla di lei follia.Scorgendo ella vana la brama sua d'indurmi a visitarla per la via delle sue mute sgarbatezze, incagnata maggiormente, in alcune altre sere della ricreazione accrebbe per modo la dose di que' rozzi sgarbi verso di me che tutti i comici e lecomiche ammirarono la mia risibile sofferenza e si accesero contro la povera affascinata stizzita. Il mio sorpassare diveniva viltà, e il mio rintuzzare le impertinenze di quella femmina con un atto risoluto e violente nel mezzo a quella comitiva sarebbe stata viltà maggiore. Delle cose frivole in alcune circostanze cagionano degl'imbrogli anche agli uomini che sono degl'imbrogli nimici e per loro natura pacifici. Giudicai bene la quarta sera il sospendere di comparire alla ricreazione.I comici che s'erano avveduti de' sgarbi usatimi dalla Ricci, agitati dal timore di perdere la mia assistenza, vedendo ch'io aveva sospesa la mia comparsa, intimarono alla Ricci di non comparire a quella ricreazione. Vennero poscia da me a

esagerare delle invettive, dando a quella povera affascinata di que' titoli chei comici sanno dare. M'avvisarono della intimazione fatta alla Ricci. Pareva loro d'aver vendicato me delle increanze che la Ricci mi aveva usate, e mi pregaron

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o caldamente di seguitare a intervenire alla loro conversazione, ché non averei piùtrovata quella temeraria.- Avete fatto male - diss'io. - Non so d'aver ricevuti insulti da nessuno. Sospesi due sere di venire per alcuni affari domestici e perché mi sentiva alquanto aggravato nella salute. Mi dispiace che abbiate data a quella povera donna una mortificazione a mio riguardo. Per qualche di lei stravaganza io non potrò mai condannare che il di lei cervello alquanto leggero e riscaldato. Siate tranquilli. Verrò

alla vostra ricreazione. - Vi andai la sera e in séguito tutte le sere. Non vi trovai la Ricci giammai, e lessi nel viso delle altre attrici una cert'aria di trionfo con mio dispiacere.Si deve -credere che la mortificazione ricevuta dalla Ricci da' suoi compagni apparecchiati a darle un martirio per il mio allontanamento da lei, la facesse irritare contro di me maggiormente senza il menomo proposito.[Per indurmi a visitarla, ella mi scrisse, e anche mi fece scrivere dal suo marito. Non risposi; ed ella mi mandò il marito in visita di congedo].- Noi siamo vicini alla partenza per Mantova con la comica compagnia - diss'egli, - e sono venuto per me e per parte di mia moglie, imbarazzata nell'accomodarefardelli, a riverirla, a ricevere i suoi comandi e ad augurarle permanenza felice.

- Ella si è preso un disturbo superfluo - rispos'io.- Le sono però obbligato e le desidero ottimo viaggio e buona sorte.Egli fu muto per qualche momento; indi si scosse per darsi del cuore dicendo: -Per altro io le ho scritta una lettera tempo fa, della quale non ebbi da lei alcuna risposta.- Eccoci a una nuova seccatura molesta - diss'io tra me. Mi costrinsi, rispondendogli con qualche serietà ma con una calma perfetta: - Lei ha fatto male a scrivere quella lettera, ed io ho fatto bene a non curarla, a non darle risposta e a dimenticarla.Credendo egli che la mia flemma fosse naturale e potesse concedergli di farsi ardito meco, s'arrischiò a dirmi con dell'alterigia: - Anzi ho fatto bene a scrivere quella mia lettera.Credei finalmente di dover cambiar contegno, per frenare una stomachevole petula

nza, e volgendomi al mio visitatore con un ciglio oscuro, proruppi in queste parole:- Hai fatto malissimo. Ricordati ch'io sono in casa mia; non abusare della mia civiltà e sofferenza. Stupisco che tu abbia la temerità di venire sino nella mia abitazione a turbare la mia quiete e a sostenere i tuoi sporchi argomenti.Quell'infelice impallidì e rimase come un simulacro ad un linguaggio ch'egli non aspettava da me. In quel mal punto giunse il mio servo a presentargli la cioccolata. Il tremore gli fece prendere assai male la tazza. Bevve unsorso tremando, indi ripose la tazza, adducendo che si sentiva poco in salute eche non poteva bere il rimanente.Partito il servo, quel meschino avvilito mi cadde dinanzi ginocchioni chiedendomi perdono.- Levatevi - diss'io. - Vedo benissimo che voi non avete parte né nellevostre lettere né in queste vostre comparse e che siete un emissario inconsiderato. - Qui egli incominciò una narrazione che ascoltai perché mi divertiva.- Le dirò - diss'egli - quella verità che direi dinanzi un altare, dalla quale Ellarileverà ch'io non ho alcuna colpa de' trapassi di mia moglie. Il signor Gratarol- proseguì - s'introdusse le sere sul palco scenario con le saccocce piene di confezioni e d'agrumi canditi, dispensando a' comici ed alle comiche i suoi favori,ma in vero mostrando della distinzione notabile per mia moglie. Una sera sfoderò di que' confetti che si chiamano diavoloni, a' quali mia moglie fece de' gran elogi. La mattina successiva comparve nella nostra casa un servitore del signor Gratarol con una gran scatola di confetti diavoloni in dono, con un vigliettino indirizzato a mia moglie. Il contenuto del viglietto era ch'egli si prendeva la libertà di mandarle di que' diavoloni ch'ella aveva lodati, aggiungendo che s'egli credesse di non dar dispiacere né a lei né ad altri verrebbe a farle delle visite da l

ui estremamente desiderate, con un'abbondanza d'altre espressioni gentilissime.Mia moglie volle tosto consegnare al servo un viglietto di risposta co' doverosi ringraziamenti per i diavoloni, aggiungendo che le di lui visite erano a lei d'

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onore, che le sarebbero carissime e che non v'era-nes-suno che potesse aver dispiacere ch'ella ricevesse la grazia delle sue visite. - Come ! - diss'io alla moglie leggendo quel viglietto - non dare questa risposta; anzi rifiuta con civiltà e prudenza le di lui visite. Questa novità potrebbe destare nella compagnia dicerie perniziose al tuo onore, e il conte Gozzi, nostro buon compare, consigliere, assistente e famigliare da tanti anni, potrebbe benissimo offendersi che tu non gli abbia nemmeno chiesto consiglio in questa faccenda. Ella gridò meco, mi trattò da

stolido, e volle spedire la sua risposta a suo modo contro la mia volontà. Con mia moglie il mio gridare e il mio tacere è la cosa medesima, com'Ella sa. Signor compare, le giuro per quanto v' è di più sacro che questa è la pura verità: le visite giornaliere e notturne del signor Gratarol incominciarono, perseverarono e divennerosolenni, come è a lei noto, senza mia colpa e senza mio consentimento.Mi piacque moltissimo l'ingresso de' diavoloni forieri e la storia di quelle visite. Sono giusto. Protesto che in quella narrazione scòrsi più colpevole la Ricci del Gratarol. Dissi a quel pover'uomo che si calmasse, ch'io non aveva nessun dispiacere di quelle visite e che solo mi rincresceva d'essere molestato sul mio ragionevole allontanamento; il quale dipendeva dal mio arbitrio e per il quale nondoveva avere alcun rimorso, per quanto era noto alla di lui moglie; ch'io avevatroppe ragioni di eseguirlo e di sostenerlo, e che solo provava del pentimento d

i non averlo eseguito assai prima, senza perder del tempo a cercare de' vani rimedi al riparo della sfortunata figura in cui s'era posta la di lui moglie per suo danno, per sua vergogna e facendo uno sfregio alle mie cordiali attenzioni avute per lei e per la sua famiglia per un lungo corso d'anni; ch'io non dava retta agli argomenti sofistici e stiracchiati del corrotto costume del secolo, e chelasciando padrona della sua libertà la di lui moglie, non v'era argomento giusto che potesse indurmi a credere d'aver resa schiava la libertà mia; che il volermi costringere a forza di circuizioni e impertinenze a una comunella di visite in casa d'una giovane comica perch'io servissi di covertella e riparo alle sciagure da lei volute contro la mia volontà, era una lorda violenza non comportabile; che in vero non poteva negare del folle capriccio, della imprudenza e della ingratitudine nella di lui moglie, ma ch'io perdonava a tutti, ch'io mi scordava tutto e che desiderava soltanto la mia quiete, troncate le ciarle, le ingiuste pretese e

le insistenze moleste su questo punto. Rinnovai i miei auguri di viaggio felicea quel povero sbigottito, lo ringraziai della sua visita con tutti i segni d'urbanità, ed egli partì.[Prima d'andare a Mantova, il Sacchi insistette che riprendessi e ultimassi Le droghe d'amore].CAPITOLO XXV.M'assoggetto a qualche medicatura sulla mia salute non ferma. Do fine alle Droghe d'amore. Mi diverto a modellare altre commedie. Imbrogli cagionati alla compagnia comica da me protetta dalla Ricci. Altre coserelle attissime ad annoiare.Credei d'essere in necessità di dar qualche pensiero alla mia salute che dal dicembre trascorso sino all'aprile era disturbata da qualche febbretta e da una ostinata inappetenza. Il medico mi diceva che se non avessi bevute le acque di Cila,sarei stato assalito nel giugnere dell'autunno da qualche pericolosa malattia. Volli ubbidire al parere di quel dottore e dar retta alla sua dotta minaccia. Attesi il mese di giugno, mi provvidi una cassetta di quelle acque che per opinione del medico dovevano risanarmi perfettamente, e passato ad un casino ch'io teneva nell'amena villa del Stra, prese le solite purgagioni, incominciai a bere quelle acque dette salubri co' metodi prescritti dal mio dottore. Passati quattro giorni della bibita giornaliera, mi sentiva star peggio, perdere le forze e crescere la nausea a' cibi.Scrissi al mio Galeno a Venezia il tristo effetto delle sue acque e che disponeva di sospenderle. Mille rimproveri, mille lugubri pronostici, mille precetti dinon tralasciarle formarono la risposta ch'ebbi. M'ostinai ad obbedire la sua dottrina, bevendo per altri sei giorni le sue predilette acque. Mi ridussi dimagrato, spossato e senza poter più nemmeno fiutare i cibi. Feci scagliare nel fiume Bre

nta tutto il rimasuglio di quelle acque attissime a farmi crepare, onde non mi venisse più tentazione di berne. Mi posi a fare de' disordini moderati, a mangiareindistintamente ogni sorta di cibi, a bere del buon vino con parsimonia; e in po

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chi giorni mi trovai robusto, nodrito e in una salute perfetta.[Nell'ozio villereccio terminai Le droghe d'amore con un'avversione indicibile.Andato a Padova, lessi quella commedia lunghissima all'amico Innocenzio Massimo; e l'avrei sepolta nell'oblio, se il Sacchi non avesse insistito per averla. Volli però leggerla a Gasparo, e gli chiesi il suo parere]. Egli mi rispose che l'opera conteneva de' buoni squarci teatrali, che trovava però in essa de' tratti somigliantissimi "a quelli del mio dramma della Principessa filosofa, i quali potevan

o pregiudicarla in faccia a de' spettatori che avevano applaudita e sapevano quasi a memoria la Filosofa. Finalmente concluse che la estrema lunghezza del dramma, ch'era tutto di caratteri e di sentimento e senza spettacolo, lo persuadeva a sconsigliarmi dall'esporlo sulle scene.Lo pregai a trattenere il libro appresso di lui e ad accorciar quell'opera per tutto dove ben gli sembrasse, riducendola ad una misura discreta. Otto o dieci giorni dopo egli mi restituì la commedia, assicurandomi d'averla diligentemente esaminata e che non aveva trovato un verso da poter troncare senza sconnettere la ragione qual ella si fosse. Replicò il suo consiglio, ed io la posi determi-natamente nel ripostiglio della obblivione, e a tutte le nuove lettere di preghiere delSacchi risposi delle civili negative, promettendo qualche altra mia rappresentazione per farlo desistere sopra Le droghe d'amore. Infatti aveva poste in ossatur

a due sceniche opere, l'una intitolata Il metafìsico, l'altra Bianca contessa di Melfi, che in vero, caricato in quell'anno da molti pensieri per la mia poco fortunata famiglia, pensieri sviatori dai poetici passatempi, non aveva potuto dialogare e condurre a fine.Un giorno della state di quell'anno, ch'io passeggiava soletto per la piazza, vidi il Sacchi co' stivali in gamba giunto frettoloso a Venezia. Egli mi si presentò agitato, dicendomi: - Sa lei, signor conte, la sopraffazione che mi vien fatta? La Ricci ha tenuto un secreto maneggio per essere accolta nella comica compagnia italiana a Parigi. Non so con quai mezzi il trattato è concluso, e ad onta della scrittura penale de' cinquecento ducati a cui Ella fu mediatore e mallevadore,vuol partire immediatamente, piantare la mia compagnia, che rimanendo senza la prima attrice, resta disordinata e rovinata.- Veramente - rispos'io - non so negare che la vostra perdita non sia grande. Pe

r dirvi la verità io sapeva sino dall'ottobre trascorso che questo maneggio bolliva. Credo però che possiate combinare la partenza della Ricci a una stagione che non vi danneggi e che ella vi dia tempo di provvedervi. Non vi dirò ciò ch'è passato tra me e la Ricci su questo proposito. Tentai invano di costringerla ad avvertirvidel suo trattato e invano le promisi che averei tutto conciliato con tranquillità. Vi confesso ora ch'io tacqui ciò che sapeva, perché il suo maneggio non fosse sturbato. Ella spera andando a Parigi di farsi uno stato comodo per la sua vecchiaia, stato impossibile da farsi nella miseria comica dell'Italia. Eccovi la ragioneper la quale fui muto, onde non venisse frastornato il di lei compatibile desiderio né annullata la di lei lusinga. Credo che anche voi possiate pensare colla onestà medesima verso una povera giovine che cerca di stabilirsi uno stato per il tempo della sua inabilità nella professione. Scordatevi le comminatorie penali dellascrittura. Proccurate ch'ella serva la compagnia per l'anno comico incominciato. Cercate frattanto di provvedervi, e lasciate che la Ricci vada a tentare la sua sorte pacificamente.Il Sacchi un poco calmato mi soggiunse che la cosa era in trattato coll'inframmessa d'una dama veneta Valmarana, onde la Ricci servisse la compagnia per tutto quell'anno e per il carnovale successivo in Venezia, perché poi nella quaresima potesse essere in libertà di andarsene a Parigi. - Carteggio frattanto - mi diss'egli - con una certa Bernardi di cui mi vien detto del bene, per avere in lei una prima attrice per l'anno comico venturo. Può darsi che la Ricci si fermi sino la quaresima; ma frattanto sono venuto a Venezia in traccia d'una giovine ch'io so essere di bella figura e di ottima disposizione all'arte nostra, da allevare nellacompagnia. Coteste eroine attrici vaganti che andiamo sostituendo, ch'hanno un poco di rinomanza, insuperbiscono a qualche applauso, pretendono de' tesori, non

mantengono mai parola né in voce né in iscritto, inquietano la società comica e fannoarrabbiare gl'interessati nell'impresa, soggetta a mille sciagure e rovesci.Di fatto il Sacchi scaturì quella sua giovine in Venezia, al creder di lui molto b

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en disposta all'arte sua. Ella era figliuola d'un comico, appellata Regina, e, non so per quale origine, del mio stesso cognome. Egli mi pregò di ascoltarla a recitare un pezzo della mia Principessa filosofa ch'ella sapeva a memoria, e a dirgli sinceramente il mio pronostico. Volli appagarlo, e fui a visitare quella ninfa. Trovai una giovine magra, di buona figura, ma d'un viso scarnato, d'una fisonomia antipatica e d'un cervello romanzesco. L'ho incoraggita a recitarmi la parte della principessa filosofa. Durai della fatica ad ascoltarla. Ella mi recitò que

lla parte con una voce asmatica, con infiniti controsensi, con una monotonia insoffribile, con una pronunzia del nostro vernacolo più triviale e plebeo e con unabassezza d'esporre stomachevole. Volli darle il tuono vero di recitare, de' suggerimenti e farla replicare: ella cadde costantemente in tutti i difetti di prima.[Palesai al Sacchi i difetti di quella creatura; ma il vecchio, già cotto di lei,se la portò a Mantova. Fu stabilito che la Ricci sarebbe andata a Parigi l'anno appresso].CAPITOLO XXVI.Ritorno della Ricci a Venezia. Sua metamorfosi. Mie osservazioni e miei riflessi morali.Ritornata a Venezia la compagnia del Sacchi nell'autunno di quell'anno, non manc

ai, pregato, di comporre il solito prologo in versi, da recitarsi dalla prima attrice Ricci al pubblico all'apritura del teatro. Quantunque io fossi ben alienodal visitare la Ricci alla di lei casa, era anche alieno dall'usare con lei delle inurbanità, e siccome ero solito a passare la maggior parte delle sere nei stanzini del palco scenario, credei di non dover fare la novità di astenermi, per non dar adito a nuovi discorsi, a nuove interpretazioni, a nuovi giudizi e a nuove mormorazioni pettegole, e massime perché non aveva cosa che mi dovesse sforzare ad allontanarmi dagli altri comici miei protetti.Vedeva la Ricci ne' stanzini medesimi e trattava con lei con la civiltà e urbanità usata dall'uomo ben nato, ma come si tratta una valente attrice soltanto. Scorgeva ch'ella aveva fitto nel cervello ancora il puntiglioso verme di volermi indurre a visitarla, e scorgeva ch'ella fremeva della mia indifferente civiltà. Intuonava quando ben le pareva che, voless'io o non volessi, ero il di lei compare. Io f

ingeva o di non intenderla, o tentava di rivolgere il discorso, o passava chetamente ad altro stanzino dov'ella non v'era.Questo mio contegno di cautela appariva a lei una noncuranza offensiva la sua donnesca ambizione, irritava quell'amor proprio tanto raccomandatole da madama Rasetti di Torino. Sperando d'offendermi e di mortificarmi passava ella ad un frascheggiare, mossa dall'inganno della sua baldanza, considerando un vanto ciò ch'eraun avvilimento. Esagerava sopra ai beni ch'ella godeva dal puntodel mio abbandono, senza esprimere quest'abbandono non confacente con la sua alterigia. Candele di cera erano i suoi lumi; ottimi vini, perfetto caffè, zuccheri fini, cioccolata eccellente, con altre delizie che le inondavano la casa, e tutto regalato, erano i beni, argomento delle sue imprudenti esagerazioni.Fermo nella mia taciturnità, in cui cercai sempre il mio divertimento facendo l'osservatore sull'umanità, contemplando e ascoltando quella femmina, il mio viso nonera che ridente, il mio cuore non faceva che dire ciò che doveva, commiserando lamia povera scuola di cinqu'anni gettati. Che più? Forse per mostrare disprezzo vendicativo contro a quella mia povera scuola, ella giunse senza rossore a dar animo e di far degl'inviti lusinghieri al vecchio comico vizioso, donatore d'abiti di raso bianco, da cui nel passato era stata perseguitata e da cui io l'aveva difesa, e ad invitarlo da lei con le medesime seguenti parole: - Già ora non ho nella mia casa seccagginosi morali predicatori di mondani riguardi.Le mie osservazioni trovavano un bel campo da spassarsi sul carattere metamorfosato e sviluppato di quella giovine in un giro di pochi mesi dall'abilità dei suoinovelli amici. Mi piaceva particolarmente la ostentazione del faceto suo orgoglio con cui cercava di far credere ch'ella s'era liberata di me, come se non fosse verità ch'io m'era liberato di lei ad onta delle sue pretese, de' suoi tentativi,

 delle sue circuizioni e insistenze. Senza queste ed altre consimili osservazioni diligenti sulla umanità non si possono comporre delle commedie.[Nella Ricci osservavo gli effetti delle libere moderne filosofiche amicizie].

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Trovava in lei una donna novella, attissima ad appagare l'indole mia democratica.Ella vantava d'aver apprese molte erudizioni importanti, tra le quali era giunta a sapere che la denominazione del giuoco di "rocambol" era nata da due vocaboli inglesi. Narrava d'aver appreso a non portare più brache, perché le brache, massime in certo tempo, chiudono e conservano sotto a' panni delle femmine un tanfo dischifi odori.

- Le donne - diceva ella - devono tener esposte le loro membra all'aria, che giuocando sventoli e purghi i fetori.Coll'immaginazione fissa a Parigi dov'ella doveva andare, Venezia era divenuta per lei una cloaca. Gli abitatori di Venezia e dell'Italia tutta non erano per lei che goffi, dozzinali, ignoranti, insopportabili. - Non vedo l'ora - esclamavaella, sanata da' pregiudizi - di passare a Parigi, là dove de' finanzieri ricchi sfondati scagliano de' borsoni di luigi d'oro alle attrici con maggior facilità che in Italia non si dona una pera.- Sia benedetto - diceva pavoneggiandosi - il fare all'amore senza riguardi d'una stupida educazione. Noi mortali non abbiamo altra felicità che il fare all'amore sino alla morte. - Dicendo ciò, da vera spregiudicata, non faceva il menomo conto d'aver un marito e due figli.

Compariva ogni sera ne' stanzini del teatro empiendo l'aere d'un acuto odore dimuschio, cosa novella in lei; e se alcuno si lagnava dell'acutezza di quell'odore sentendosi offeso e addolorato il capo, ella con un sorriso sprezzante ed unascamoffia che credeva francese diceva:- Che pregiudizi! A Parigi sino gli alberi della Tuillierie odorano di muschio,perché le signore le quali per qualche istante siedono e s'appoggiano a quelle piante, comunicano loro l'odore di muschio ch'esse hanno addosso. - Narrava d'essere affaccendata ad apprendere la gallica favella da una femmina francese di lei maestra e che la informava dei bei costumi di Parigi. Parigi era divenuto sulla sua lingua una specie d'intercalare a tutti i propositi, perpetuo. Invasata della francese leggiadria, della quale s'era formata un'idea a modo suo e a modo della leggerezza del suo cervello, era ridotta a recitare le sue parti con una caricatura notabilmente affettata d'azione, in quel tempo non sofferibile dagl'italia

ni.[Gl'insegnamenti di madama Rasetti e dei novelli amici brillanti e spregiudicati le garbavano meglio della mia vecchia scuola].Per tal modo mi spassavano le mie democratiche osservazioni ch' io faceva sopraalla Ricci cambiata, ossia sviluppata nel suo vero naturale istinto.[Solo commiseravo quella attrice italiana, che difficilmente sarebbe piaciuta aParigi. Fui indovino e me ne spiace].CAPITOLO XXVII.Assedio del Sacchi al mio dramma dimenticato Le droghe d'amore. Dono il dramma per liberarmi dalle insistenti circuizioni seccagginose.[Le ricolte del Sacchi andavano con sterilità. Ond'egli a supplicarmi con tutt'i suoi compagni perché gli cedessi Le droghe d'amore. Non mancarono di spargere ch'io non proteggevo più la compagnia dopo la rottura con la Ricci. Non piegando a questa vile astuzia, ma al mio sentimento di carità verso la compagnia, diedi finalmente al Sacchi quel dramma, perché non ne avevo terminato nessun altro. Pochi giorni dopo, egli mi disse che dalla magistratura di revisione Le droghe d'amore erano liberamente licenziate per il teatro. Prima di lasciarlo rappresentare, tentaidi nuovo se a Gasparo riesciva di scemare almeno d'un terzo quella lunghissima favata. Ma Gasparo mi rispose come l'altra volta. Poiché il Sacchi insisteva per la sollecita rappresentazione, assegnai le parti agli attori e alle attrici].CAPITOLO XXVIII.Nuova lettura da me fatta del mio dramma Le droghe d'amore a tutta la compagniacomica. Gesti e parole mutilate della Ricci die mi fanno indovinare il di lei mal talento disposto a degl'infantati pessimi uffizi. Mia cautela a tale inaspettata scoperta. Mi dispongo a impedire la rappresentazione del dramma con tutto il

mio ingegno.Parato io a sofferire di dover fare nuovamente una fastidiosa ma necessaria lettura, seduto rimpetto ad una numerosa adunanza di tutti gli attori non solo, ma d

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'altre persone amiche nella abitazione del Sacchi, comparve anche la Ricci tronfia e pomposa. Ella affettò di voler sedere appresso di me. Controgenio e mal mio grado m'abbandonai a logorare di nuovo i miei poveri polmoni nella lettura di cosa stucchevole già letta e riletta.Quantunque nella lettura dell'opera ch'io unirò stampata a queste Memorie si potrà più estesamente rilevare i caratteri da me introdotti e dipinti, do una breve ideade' caratteri de' personaggi e della mia disposizione delle parti. Federico duca

 di Salerno, innamorato perdutamente di Eleonora contessa di Nola, uomo d'indole dolce, agitato tra l'amore per la contessa e l'affetto per un amico, voluto daquella esiliato per un puntiglio e per dar una prova all'amore del duca: parte principale da me assegnata al comico Petronio Zanerini; - Leonora contessa di Nola, giovane bizzarra, fiera, puntigliosa, artifiziosa, arguta, amata dal duca: parte principale da me assegnata alla comica Ricci; - don Carlo, favorito ed amico sincero del duca, di carattere cinico e voluto esiliato dalla contessa: parte di episodio da me assegnata al comico Barsanti; - don Adone, cugino del duca, giovinastro amante di se medesimo, presuntuoso, sprezzatore de' costumi antiquati giudicati da lui pregiudizi, damerino affettato: parte d'episodio da me assegnata al comico Benedetti romano; - Alessandro, gran cancelliere del duca, amante diArdemia marchesa di Taranto, geloso d'una sofistica e tormentatrice gelosia: par

te d'episodio da me assegnata al comico Vitalba; - Ardemia, dama semplice in apparenza ma accorta in sostanza, amante del gran cancelliere, costretta per buon cuore a dover tormentare l'amante di gelosia, di carattere flemmatico: parte d'episodio da me assegnata all'attrice Chiara Benedetti; - Lisa, damigella della contessa di Nola, zelante e correttrice indefessa delle stravaganze della padrona:parte d'episodio da me assegnata alla comica Angela Vitalba; - Garbo, staffieredel duca, uomo faceto e satirico: parte d'episodio da me assegnata al comico Agostino Fiorilli; - e qualche altro personaggio di poco interesse erano gl'interlocutori che giuo-cavano l'ideata e composta opera mia.Giunto che fui colla mia lunga noiosa lettura alla sedi-cesima scena dell'atto primo, nella qual scena esce per la prima volta don Adone cugino del duca, la Ricci che m'era appresso cominciò a fare de' contorcimenti, come se quel carattere ch'ella aveva udito nel mio dramma da più d'un anno, riuscisse allora un oggetto nuo

vo e di sorpresa per lei. A misura ch'io m'inoltrava con la mia lettura nelle scene dì quel carattere d'episodio e che ha pochissima parte nel dramma, ella accresceva le sue notabili smanie, le quali incominciavano a disturbarmi.Avend'io letto a lei da più d'un anno sino alla metà del terzo ed ultimo atto, dopola qual metà quel carattere non ha più influenza col dramma, avend'ella approvata elodata l'opera, anzi avendomi stimolato a terminarla, così non poteva indovinare qual grillo le saltellasse per il cervello. Giudicai ch'ella avesse una di quelle naturali occorrenze da cui potesse agevolmente sollevarsi; ma siccome ad ogni uscita del don Adone la mia lettura la faceva divincolare e borbottare tra dentiin un modo che, aggiunto al tedio ch'io provava in quella lettura, m'infastidiva soverchiamente, non potei trattenermi di volgermi a lei dicendo con tutta la calma: - Ma, signora, è Ella forse annoiata più di me di questa lettura? - Ella mi rispose soltanto con un contegno di sostenutezza e volgendosi da un'altra parte: -Eh ! niente, niente.Seguendo la mia lettura, ad ogni parola di quel don Adone il fremere della Ricci era tanto caricato e disturbatore che, tra la molestia ch'io soffriva e la brama che in me s'accresceva di sapere il movente de' di lei fremiti de' quali non scorgeva proposito, mi rivolsi a quell'attrice nuovamente, dicendole con la solita flemma: -Signora, trova Ella in quest'opera cose che le dispiacciano? Vedo inlei delle smanie né so da che nascano. Il dramma è lo stesso che lessi a lei or sarà più d'un anno; non terminato, è vero, ma non molto lontano dal suo fine. Egli è quel dramma che a me non piaceva e a lei piaceva a segno di stimolarmi a terminarlo. Che mai ha egli ora che possa cagionare in lei tante inquietezze?Le altre sopraddette e queste sono tutte le parole ch'io dissi alla Ricci con flemmatica civiltà nell'occasione di quella per me stucchevole lettura, disturbato d

alle di lei smanie e dal di lei borbottare perpetuo. Se dieci o dodici attori ch'erano presenti non bastano a fare una testimonianza, v'era presente l'onorato signor Carlo Maffei e qualche altra privata persona, che in vero io non mi ricord

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o quale. La pura verità è che all'ultima mia pacifica ricerca che infastidito feci alla Ricci, ella mi rispose con un sorriso aspro e sardonico: - Eh! bene, bene, questo suo don Adone, questo suo don Adone !Fu quello il punto in cui come al lume d'un folgore mi si aprì la mente e ch'io vidi chiara la maligna intenzione di quella comica di volere appropriare il carattere di quel don Adone al signor Gratarol di lei amico, ditentare con un artifizioso pessimo uffizio verso quel signore di accenderlo cont

ro di me, per vendicarsi secondo la sua testa leggera e crucciosa sulle cose passate, cagionando una scena peggiore di tutte le scene del mio dramma.- Non serve - dissi tra me - che il carattere del mio don Adone sia stato da mepiantato, esaurito e letto a questa femmina quattordici mesi or sono e prima che fosse a mia cognizione la di lei intrinseca pratica col Gratarol, ch'io alloraconosceva appena di nome; che il carattere del mio don Adone sia universalissimo e non abbia alcuna relazione, almeno per mia volontà, con quello del Gratarol. La vipera è determinata a schizzare un veleno pericoloso. Le cose trascorse potranno agevolmente indurre il Gratarol che mal mi conosce a bere di questo veleno, e devo usare dal canto mio di quella prudenza che questa mia nimica non ha, per impedirne gli effetti.Veduta ch'ebbi coll'occhio mentale in astratto la mina che la Ricci disegnava di

 far scoppiare, la guardai con occhio di stupore e d'orrore; indi facendo il sordo, tacqui e precipitai velocemente la mia lettura, come un uomo ristucco e stanco, sino al suo fine, fermo nel mio secreto di voler impedire con gli sforzi possibili l'ingresso dell'opera nel teatro, per strozzare una brama perniziosa. Senza dare alcun cenno della mia profetica previsione, di che nessuno della comitiva s'era sognato di sospettare di ciò che non poteva dare argomento di sospetti, gettando io il libro con disprezzo notabile sul tavolino a' coniici, replicai ch'io era sempre maggiormente certo della caduta nel teatro d'una composizione tanto debile e tanto lunga. Aggiunsi ch'io l'aveva donata, che m'era spogliato dellafacoltà di padre di quella; ma che sperava che anch'essi pensassero com'io pensava e che non l'avrebbero posta a rischio.Tenni per allora in silenzio la mia fissata volontà di proccurare con tutto l'animo d'impedirne la esposizione. Non risposi agli elogi universali che si replicaro

no a quel dramma, considerandoli comiche adulazioni e amichevoli parzialità, né m'opposi alla risoluta frettolosa brama che si mostrò di porlo in sulle scene. Fu dalcapocomico Sacchi commessa in sul fatto al copista la estrazione delle parti e la consegna agli attori com'io le aveva disposte; e sciogliendosi l'adunanza tenni lo sguardo intento alla Ricci, la quale partendo tosto e prima d'ogn'altro con gran premura e come una persona ch'era attesa, apparve agli occhi miei penetranti fornitissima di mal talento. Credei ben fatto il tener chiuso con somma gelosia il mio sospetto profetico di previsione nel mezzo a que' tanti ivi adunati, sapendo quanto vigore può avere nel pubblico sull'ali della fama una sola parola in questa materia.CAPITOLO XXIX.Mi riesce d'impedire l'esposizione nel teatro del mio dramma Le droghe d'amore.Il giorno dietro la lettura e la consegna fatta a' comici dell'opera mia, mi portai alla piazza San Marco la mattina per tempo, dov'era certo che averei ritrovato il Sacchi. M'abbattei nel signor Raffael Todeschini, gran partigiano de' miei capricci drammatici; e perch'io lo conosceva giovine saggio, onesto e mio amicissimo, gli confidai le stravaganze da me rimarcate nella Ricci alla lettura delmio dramma, né gli celai il sospetto mio sulle mosse di quella femmina delle quali aveva un interno presentimento di sicurezza. Aggiunsi ch'ero in traccia del Sacchi per fare ogn'opera d'impedimento e alle ciarle indecenti e pericolose e all'esposizione del dramma in teatro.[Il Sacchi mi trattò quasi da visionario; e a stento si lasciò persuadere che conveniva rimandare quella rappresentazione a quando la Ricci fosse a Parigi e il Gratarol a Napoli. Mi promise che avrebbe giustificata la sua risoluzione ai comici, allegando che ormai s'era alle ultime recite della stagione].

CAPITOLO XXX.Il Gratarol con le sue mosse imprudenti risveglia e stabilisce un'illusione universale a suo discapito. Spinge il dramma in iscena ch' io aveva fermato. Si rend

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ono inutili tutti i miei sforzi in di lui favore.Come aveva già preveduto, la Ricci partita dalla lettura del dramma con la facella infernale accesa, trovato il Gratarol che la attendeva, non saprei dire con qual industria comica abbia colorita la faccenda e fatto bere l'amaro calice a quel signore, ch'io esponeva alle pubbliche risa la di lui persona in un appellato don Adone ch'entrava nel mio dramma Le droghe d'amore. Prestando egli tutta la fede alla comica, infiammato ciecamente il cerebro contro di me, senza fare alcun

prudente esame sulla verità e sul mio carattere, mi proscrisse dall'animo suo, e valendosi boriosamente de' forti mezzi, si pose a far de' passi che non sono maicauti e sono sempre perniziosi in queste tali materie.Nel punto che con la cautissima e secreta mia direzione, per una pura mia delicatezza di sospetto sul mal animo d'una attrice, aveva io fermato il mio dramma innocente dall'entrare in sulla scena, il Gratarol che aveva giudicata rea l'opera mia sulla sola asserzione d' un'attrice con me inviperita, giva invasato facendo de' caldi uffizi ne' sacrari (uffizi impossibili da tener celati e ch'erano giàsuperflui) onde il mio dramma fosse impedito.Contro ogni aspettazione, quattro giorni dopo il mio stabilito impedimento per affogare tutti i discorsi alterati che potrebbero gorgogliare per la città, m'incontrai nel Sacchi, il quale mezzo tralunato mi disse: - Con mio stupore Ella è stato

 indovino. Convien dire che la Ricci abbia fatta la mala azione da lei sospettata la sera medesima della lettura del suo dramma. La sospensione da lei comandata del dramma fu fuori di tempo, o quella pettegola, vogliosa di far nascere una scena disgustosa verso la compagnia e verso lei, abbia tenuto in silenzio l'ordine mio di non più recitare in quest'anno quell'opera. Questa mattina il signor Francesco Agazi, secretario notaio revisore al magistrato sopra alla bestemmia, mi comandò di mandargli nuovamente il dramma Le droghe d'amore da rivedere, quantunque il libro fosse stato da lui letto, esaminato e licenziato per il mio teatro. Gli chiesi in grazia il perché di questa doppia revisione. Mi rispose ch'erano stati fatti de' pettegolezzi sopra a certa parte d'un don Adone ch'entrava nell'opera, e che aveva de' calzanti stimoli per avere di nuovo quel libro nelle mani.A tal riferta risi alquanto e per la compiacenza di non essere un indovino dappoco e perché il mio naturale è forzato a ridere sopra infiniti movimenti del genere u

mano. Richiamata la serietà - Ebbene - diss'io, - voi averete prontamente consegnato il dramma al signor Agazi.- Io no - rispos'egli; - mi potrebbe essere trattenuto per sempre sopra un falso ricorso, e non voglio perdere quel capitale. Ho detto al signor Agazi che m'era stato chiesto dalla tal dama da leggere per divertimento, che riavuto che l'abbia glielo consegnerò, ed egli sorrise dicendomi: - Bene, bene; letto che l'abbia quella dama, ricordatevi di riconsegnarlo al magistrato.- Infatti - soggiunse ilSacchi - per non comparire bugiardo sono corso poco fa da quella dama, ho consegnato a lei il libro, l'ho supplicata a leggerlo, informandola dell'indegno uffizio della Ricci, delle ingiuste mosse del Gratarol, del pericolo in cui io ero di perdere quell'opera senza alcun ragionevole proposito, e mi sono caldamente raccomandato alla protezione di quella dama.La riferta del Sacchi fu per me una spezie di folgore. Non potei difendermi da qualche dispetto udendo la narrazione di quell'istrionico raggiro, che mi presentava agli occhi mentali chiaramente un'estensione di solenni pubbliche ciarle perniziose. - Avete fatto malissimo - diss'io al comico con del calore. - Io non merito che la brama del vostro interesse vi orbi sul pericolo a cui esponete il mio buon nome. Conosco quella dama allegra, bizzarra e puntigliosa. Questa sera alla di lei numerosa conversazione l'argomento de' discorsi sarà il mio dramma e losaranno i passi imprudenti fatti dal Gratarol, credulo alle pettegole asserzioni inventate dalla comica con me crucciosa. Il Gratarol ha molti nimici. Domani Venezia sarà piena di strane chiacchiere sulle mie spalle e sopra quelle di quel signore. Dovevate riconsegnare al signor Agazi il libro. Siccome so ridermi delle private frascherie, sarei uno stolto se non curassi la volontà de' tribunali dal canto mio e se cercassi de' sotterfugi per non obbedirli ciecamente. Tutte le oper

e ch' io scrissi, quantunque forse un po' troppo franche, trovarono della indulgenza e della condiscendenza nel mio Principe ne' loro passaggi al pubblico. Mi rincrescerebbe moltissimo che da questo punto fossero guardate con occhio di sosp

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ezione. Ricordatevi che se ciò nasce non ho più né calamaio né penne per il teatro. Spero che ricupererete il dramma e lo darete con sollecitudine al magistrato. Vi ricordo che se ciò non farete, potranno nascere delle sciagure anche a voi. Co' tribunali non s'usano raggiri.- A dirle il vero - mi rispose il Sacchi, - ho preso il partito che le ho palesato, perché ho avuto timore che gl'ingiusti maneggi e la forza del signor Gratarolcagionassero che il dramma non mi fosse più restituito, e per delle pazze malignità

non voglio perdere quel capitale per il mio teatro.- Gran capitale! - diss'io.- Farmi d'udire la dama che mi nominaste divertirsi coll'acume suo vivace sopra a questa faccenda. La strada che avete presa, quantopiù il mio dramma è innocente, tanto più cagionerà de' susurri, e piuttosto ch'egli divenga argomento di que' tumulti che prevedo e abborrisco, sarebbe meglio che andasse le mille miglia sotterra.Il Sacchi alquanto audacemente mi rispose le seguenti grossolane precise parole: - Eh ! mi perdoni, lei ha troppi dubbi e troppi riguardi di delicatezza: convien far fronte e non lasciarsi cacar sul capo da certi sopraffattori.Averei dovuto accendermi sull'audacia del Sacchi, ma per i miei sistemi fissi icomici non ebbero mai vigore di destare in me l'irascibile. Mi contentai di dire a quel capocomico: - Voi udirete nascere de' discorsi e de' schiamazzi disgusto

si che forse a voi non dorranno e a me dorranno infinitamente. - Detto ciò, gli volsi le spalle lasciandolo.[Il signor Gratarol ebbe torto a dar fede alle vendicative referte d'una comica, ed ebbe torto a credere che restassero occulti i suoi passi per impedire che andasse in scena il dramma, in una città d'oziosi dialogatori].La dama a cui il Sacchi aveva data a leggere l'opera mia e raccomandata, prevenendola, con una imprudenza mossa dalla venalità, di quanto girava per la fantasia del Gratarol sparsa di corrotti vapori dalla Ricci, leggendo l'opera con tutta la prevenzione, non trovò niente in essa che avesse relazione a ciò che sospettava ildetto signore. Quel strepitoso dramma passò accompagnato dalle accennate nozioni e dalle risa della dama lettrice sotto la lettura d'altre darne ragguardevoli, di molti rispettabili cavalieri, e sempre con le prevenzioni d'avviso sopra accennate. Nessuno trovò in quel dramma ciò che realmente non v'era.

Le franche esagerazioni cominciarono a volare. Si accusava di stomachevole petulanza il Gratarol, perch'egli infinocchiato da una comica cercasse d'impedire undivertimento innocente alla città d'una rappresentazione teatrale nuova, di che v'era tanta scarsezza, e ch'egli avesse l'audacia di contraddire e in certo modo di correggere e di cozzare con una grave magistratura che l'aveva già esaminata, trovata morale, innocente e licenziata per il teatro.In due giorni tutta Venezia da un capo all'altro fu pienissima di cicalecci sulmio povero dramma, sugli omeri del Gratarol e sugli omeri miei. I popoli inclinano a bramare che tutte le cose sieno gigantesche e della natura de' turbini, per avere di che favellare, di che far stupire e far spalancare delle bocche e degli occhi. Se tali non sono, lascia fare ad un popolo a farle divenir tali.Si narrava che l'opera mia era una satira sanguinosa; ch'io metteva in sulla scena il Gratarol non solo, ma i tali signori e le tali signore al numero di tantie tante che in verità il palco scenario, il parterre e tutti i palchetti non averebbero potuto contenere il gran numero di persone che si nominavano, ed erano tutti oggetti conosciutissimi. Si contrastava, si disputava, si negava, si sosteneva, si argomentava, si aggiungeva, si alterava, si riferiva, si confidava negli orecchi, si narravano cagioni immaginane, aneddoti contradicenti e spropositati;e tutti sapevano tutto da un vero fonte infallibile. Il Gratarol era per la pubblica fama già stabilita il protagonista dell'opera; e l'effetto vero de' cicalariera un apparecchio immancabile d'illusione, risvegliato a pregiudizio di quell'infelice da' passi da lui fatti, timoroso ed incauto, a istigazione d'una maligna farfalla.Nell'apparato delle cose imbrogliate vedeva nascere un'idra invincibile e mi scorgeva grado grado spogliato interamente d'ogni padronanza sul mio parto, e ciò ch'è

peggio, scorgeva che i puntigli de' Grandi avrebbero cacciato in iscena in quelcarnovale medesimo il mio povero dramma, divenuto bersaglio di tutte le lingue ad onta della mia tacita, ben ordinata e fissata sospensione col capocomico. Tutt

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avia nauseato de' cicalecci che bollivano, volli tentare un uffizio verso la dama, alle mani e gli occhi di cui era passata la mia composizione colle malnate informazioni e malnate raccomandazioni del Sacchi.Benché io avessi avuto l'onore di conoscere quella dama da molto tempo, il viverea me medesimo ch'è mio costume, la alienazione ch'io ho del farmi schiavo delle etichette, delle coltivazioni, soggezioni, del cercar protezionie fortune, pago essendo delle mie limitate sostanze, mi resero sempre negligente

 nel far quelle visite che l'umanità s'è compiaciuta di intitolare "convenienze doverose", ma che per lo più non sono che adulazioni d'un artifizio da me abborrito; ed è per queste sole ragioni ch'io non visitava da qualche mese la dama accennata.La incontrava talora per la via. Faceva il mio dovere con un inchino. Ella retribuiva gentilmente, salutandomi col titolo d'orso, ed io era contentissimo di quel titolo che giustificava la mia tana solitaria. Giudicai miglior mezzo di me appresso la dama mio fratello Gasparo, quotidiano visitatore di lei e ch'ella appellava col tenero nome di padre.[Lo incaricai di pregar la dama a non impegnarsi di sostenere l'esposizione nelteatro di quel dramma. Ella mi fece rispondere ch'io non avevo più arbitrio alcuno sopra il dramma donato].Trascorsi che furono alquanti giorni dopo tenuto il ragionamento con mio fratell

o, mi vidi comparire a fronte il signor Francesco Agazi segretario notaio revisore al magistrato sopra la bestemmia. Egli era togato e mi disse in un tuono serio e magistrale: - Lei ha donata una commedia che ha per titolo Le droghe d'amore alla compagnia del capocomico Sacchi. Quella commedia fu letta, esaminata e licenziata per il teatro in San Salvatore dal magistrato a cui servo. La commedia è licenziata e deve entrare nel teatro. Lei non ha più alcun arbitrio. Si ricordi dinon opporsi e anzi di sollecitarne la rappresentazione. Il magistrato non falla.Disarmato io d'ogni facoltà da quell'ordine, non lasciai però di lagnarmi dolcemente con quel signore de' passi fatti dal Gratarol, del sospetto ingiurioso che aveva nodrito contro di me e del non essere egli venuto da me come un amico nel principio de' dubbi suoi, risvegliati in lui da una comica e da lui alimentati con una persuasione vergognosa. Protestai ch'io gli averei dato liberamente il mio manoscritto da leggere e da mutilare in tutto ciò che piacesse a lui. Dichiarai i mi

ei dispiaceri, e spezialmente quello che il Gratarol fosse disceso a credermi un suo nimico per delle puerilità indegne di lui e di me.Le proteste d'animo sincero ch'io feci al signor Agazi non solo, ma che aveva fatte a tutti gli amici miei liberamente in quella congiuntura, cagionarono poscia a me e all'onesto signor Carlo Maffei, amico del Gratarol e amico mio, de' contrattempi spiacevoli, sopraffattori e proditorii, come si vedrà con chiarezza nel progresso di queste mie ingenue narrazioni.Il signor Agazi mi rispose che non era da stupirsi delle stravaganze del cervello del Gratarol rovesciato dalle idee ch'egli aveva acquistate, le quali non erano nazionali; ch'io non doveva prendere de' pensieri superflui ed inutili; che era ben vero che un revisore d'opere teatrali non poteva essere informato di tutti gli aneddoti particolari e privati in un esame; ma che la commedia in questione era stata replicatamente esaminata in tutte le viste, anche con le sparse prevenzioni, e che nulla conteneva da poter essere giudicato precisamente allusivo al Gratarol. - Ella averà veduti - seguì il signor Agazi - dieci o dodici versi da mesegnati nella duodecima scena dell'ultimo atto della sua commedia sino dalla prima revisione, perché i comici non ardiscano di esprimerli nel teatro. Que' dieci o dodici versi contengono in vero delle dottrine dannose predicate nelle società dal Gratarol e da' molti suoi simili a' nostri giorni. Da ciò Ella intenda che ho esaminata l'opera con rigore e che il magistrato non falla.- Ma - diss'io - le protesto che non ho posti i sentimenti di que' versi se nonche con una mira alle massime rese presso che generali nelle famiglie, e che simeritano secondo la sana morale per Io meno una critica derisoria. Ella averà veduto che gli ho posti con una chiara ironia e in aspetto di derisione per renderli possibilmente spregevoli a' spettatori e per aprir loro gli occhi.

- È vero - rispose il signor Agazi; - ma noi guardiamo le opere teatrali con la cognizione che abbiamo della nostra popolazione. Ella ascolta materialmente; non ha la finezza di distinguere un'ironia critica da una massima predicata; le parol

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e presso a quella valgono per ciò che suonano, e apprende da quelle ciò che per avventura non ideava prima di udirle. Ci sono certi signori che vorrebbero comandare fuori dalla loro giurisdizione. Le replico che il magistrato non falla e le replico gli ordini. - Detto ciò, il signor Agazi salutandomi se ne andò a' fatti suoi.Mi costrinsi a obbedire vedendo troncata ogni via al mio vivo desiderio d'impedire la esposizione del dramma, massime dopo l'ordine del considerabile ministro signor Agazi. Mosso dal mio rammarico non potei trattenermi di narrare al patrizi

o Paolo Balbi, al signor Raffaele Todeschini e ad altri amici a' quali m'incontrai, l'avvenutomi col signor Agazi, con estrema amarezza dell'animo mio, prevedendo la verificazione di quanto aveva pronosticato. Oltre alla testimonianza del signor Agazi, i testimoni ch'io nomino apertamente non patiscono eccezione.CAPITOLO XXXI.Di male in pèggio. Miei riflessi appoggiati alla verità.[Mentre il Sacchi affrettava la produzione delle Droghe in teatro, la Ricci propalava stoltamente le biliose critiche del Gratarol contro i Grandi. Ciò mi facevaprevedere sciagura all'imprudentissimo Gratarol].CAPITOLO XXXII.Prove, esposizione al pubblico del dramma Le droghe d'amore. Scoperta da me fatta con sorpresa e dolore, in una parte cambiata con malizia contro la mia prima d

isposizione. Effetto del dramma. Mia predizione avverata. Susurri spiacevoli.[Andai alla prova solo per condiscendenza e per consuetudine].Trovai la novità che la parte del don Adone cugino del duca di Salerno, ch'io aveva disposta per il comico Luigi Benedetti romano, era stata consegnata al comicoGiovanni Vitalba e che la parte di certo don Alessandro gran cancelliere del duca, ch' io aveva disposta per il Vitalba, era stata assegnata al Benedetti, senza nemmeno farmi parola sopra un tal cambiamento. Puossi vedere nel mio originaleinnocente, ch'è il medesimo licenziato alla pubblica revisione e ch'è appresso di me, la disposizióne delle parti di mio pugno registrata.Io sono uno di que' spiriti pacifici che non fanno gran caso degli arbftri che si prendono, i comici sulle opere che scrivono e donano o vendono per il teatro.Ho sempre avuto pochissimo affetto alle sceniche composizioni ch'io scrissi percapriccio e donai, per l'unica compiacenza di divertire con della allegra ma san

a morale i miei compatrioti e di proccurare dell'utile a delle povere genti cheformavano in que' tempi la mia conversazione. Ho veduto moltissime teatrali opere mie esposte negli anni susseguenti al primo anno in cui furono prodotte, mutilate, difformate e guaste dalla comica virtù senza la menoma ricerca del mio consentimento, né mi sono mai disturbato o degnato di far sopra un tale arbitrio un picciolo cenno di lagnanza.Chiesi tuttavia ad alcuni de' comici ragione di quel baratto, i quali mi protestarono di non saper altro se non che il Sacchi aveva consegnate le parti disposte in quel modo ch'io vedeva. Chiesi ragione al Sacchi; ed egli mi rispose che essendo la parte di quel don Alessandro, di carattere d'un geloso furente, molto comica e teatrale, egli s'era preso la libertà, contro la mia disposizione, di darla al Benedetti come ad attore di maggior fuoco del Vitalba, persona fredda, con sicurezza che il Benedetti avrebbe sostenuto quel carattere molto bene e tenuta allegra una gran parte della commedia.Per dire il vero parvemi ch'egli non riflettesse male, e fu per avventura il mio temperamento non mai disposto a inquietarsi per frivolezze che non mi lasciò nemmeno sognare che in quel baratto di parte ci fosse una serpe velenosa e schifa celata. Ella v'era, e alimentata da' possenti nimici del Gratarol, all'udito de' quali erano forse giunte le di lui incaute biliose detrazioni. M'avvidi di quella esosa serpe soltanto alla prima rappresentazione in cui ella mi si affacciò agliocchi improvvisamente, come dirò. Che non può il desiderio di vendetta in alcuni animi e che non può la cieca e lorda brama di lucro ne' commedianti![Quel maledetto dramma, argomento di tutt'i Veneti favellari, andò in scena nel teatro di S. Salvatore il 10 gennaio 1776 (stile Veneto) 1777 (stile comune)].Entrai quella sera nel teatro potendo appena a gran fatica aprire il torrente de

lle persone affollatissime all'uscio. Vidi il vasto teatro empiuto e calcato inun modo che non ha esempio. Il fragore del popolo da più di tre ore concorso per occupare i sedili metteva spavento. Mi si disse che le chiavi de' palchetti erano

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 state comprate ad un prezzo sterminato. Tutto ciò avrebbe gonfiata di vanagloriala umanità d'un altro scrittore. La mia umanità rimase estremamente rattristata, riconfermandosi sul tristo effetto d'una illusione già stabilita e da me pronosticata.Per mio delirio e per sciagura del Gratarol v'era in apparecchio anche quel più ch'io non poteva sapere.Con la necessità di molto spingere per le genti che occupavano sino il passaggio d

egli anditi interni e stavano in quelli murate senza sapere che si facessero o che volessero, potei penetrare e salire per un momento sul palco scenario. Lo trovai imbrogliato da molte maschere supplichevoli d'aver un asilo per qualche modo.- Che diavolo è questo insolito concorso? - diss'io ad alcuni degli attori e con un poco di calore in me non consueto. La Ricci sola mi rispose con dell'impeto le seguenti e precise parole: - Oh bella ! La città è tutta piena che questa commediasia una satira particolare.Mi volsi a lei con della nausea dicendo: - Signora, è più d'un anno ch'Ella sa che l'opera mia non è una satira particolare. Io m'attengo a' generali e non fo satireparticolari. Se a questi giorni de' lordi uffizi diabolici, delle folli imprudenze, de' passi falsi e degli inopportuni puntigli averanno fatto divenire la mia

commedia una satira particolare, la colpa non sarà mia. - Ella tacque abbassando gli occhi, ed io le volsi le spalle, discesi dal palco e m'avviai ad un palchetto che aveva nel terzo ordine del teatro.Salendo la prima scala vidi la sfortunata moglie del Gratarol che mi precedeva,e udii che con una chiassata allegra ella diceva a certi signori co' quali s'era incontra: - Ho voluto venir a vedere mio marito sulla scena. - Le parole di quella infelice abbandonata spiegarono abbastanza la fama che correva e un'illusione apparecchiata. Non saprei dire la causa d'una esultanza generale che spirava per il teatro, né perché sino una moglie fosse persuasa di vedere il marito esposto alle pubbliche risa e fosse venuta per vederlo con esultanza. Posso riflettere soltanto che in un secolo abbandonato alle leggerezze e alle voluttà di Citerà, una infinità di femmine sedotte e piantate, una infinità di rivali sopraffatti, una infinità di mariti gelosi e non in tutto filosofi moderni, e delle mogli abbandonate da'

 mariti e desolate formano un complesso di spettatori pericoloso in una circostanza com'era quella della commedia Le droghe d'amore.Entrai nel mio palchetto, dove il Sacchi, che quella sera non recitava, venne atrovarmi. Giurerei che contro al mio naturale sempre risibile io era la più conturbata persona che fosse in quel vasto ricinto. Tutti coloro che mi conoscono e m'hanno veduto essere indifferente e ridere tutte le molte sere ch'io esposi al pubblico le nuove sceniche favole mie, sanno che la cagione del turbamento del mio spirito quella sera non era cagionato dal dubbio dell'incontro felice o infelice d'una composizione ch'io m'era ridotto ad abborrire.Girai coll'occhio il circolo del teatro affollatissimo di un bulicame e non maipiù per tal modo calcato. Scòrsi in un palchetto il Gratarol, che fuori di tempo e assai tardi s'era immaginato di venire a far il Socrate con una bellezza muliebre a canto. La mia previsione mi fece tremar per lui.Alzato il sipario e cominciata la rappresentazione, vidi gli attori recitare l'opera ottimamente secondo la maniera italiana, né posso per giustizia accusare la Ricci che non abbia usata tutta l'accuratezza nel rappresentare la parte sua di Leonora contessa di Nola, però con alquanta di quella affettazione che aveva adottata, ma che non disdiceva col carattere d'una capricciosa bizzarra. Tutti i caratteri da me posti in assetto trovavano sul pubblico que' vantaggi, quegli applausi e quell'allegro divertimento ch'io non m'aspettava; e dovei confessare che laparte data dal Sacchi a Luigi Benedetti romano, contro la mia disposizione, di don Alessandro geloso furente, era perfettamente appoggiata. Si rideva, si applaudiva, il dramma piaceva come una delle solite mie critiche generali sui costumi, sui caratteri e sui cuori degli uomini e delle femmine, e il tristo preludio ch'io aveva fatto scompariva.

Alla sedicesima scena dell'atto primo, ch' è la penultima di quell'atto, uscì il don Adone cugino del duca. Al presentarsi di quel personaggio, la parte di cui erastata appoggiata al comico Vitalba col baratto sopraddetto, mi avvidi tosto dell

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a serpe che mi s'era tenuta occulta con una malizia impenetrabile e ch'io non averei mai potuto né sospettare né immaginare.Ecco il fondamento d'un diabolico manupolio concertato, di cui non posso accusare che la comica abborribile venalità favorita; manupolio che, legato alle anteriori disseminazioni e con un'illusione anticipatamente fissata da' passi sconsigliati del Gratarol, ha dato corpo solido a ciò che non era nemmeno un'ombra. Il comico Vitalba, buon uomo ma cattivo attore, per sua sciagura aveva i capelli tendent

i al biondo come quelli del Gratarol e la sua statura era poco più poco meno consimile. Da ciò nacque il traditore artifizio del baratto di parte. Ma più. La pettinatura di quell'attore era affettatamente imitata da quella del detto signore. Il colore de' vestiti, il taglio, i ricami e l'attillatura erano pure imitati. E peggio. Quel comico, per se stesso persona da bene ed onesta, era stato ammaestrato non so da chi, forse con di lui cecità, ne' gesti, ne' passi marcati del Gratarol; per modo che quantunque io non abbia giammai avuta la menoma inurbana mira diporre il Gratarol in sulla scena, devo dire con mio dolore: il Gratarol si è posto e fu posto in iscena nella mia commedia Le droghe d'amore.Presentatosi appena in sul palco quel personaggio, un enorme applauso e un'universale picchiata di palme che andò alle stelle m'avvertirono abbastanza che le anteriori prevenzioni avevano stabilita un'illusione perfetta e che con l'indegno so

ccorso d'acconciatura, di vestiti, di gesti e di passi insegnati all'attore, era presentato agli occhi de' spettatori in carne ed in ossa il Gratarol.Se quanto ho prima narrato colla voce della candida verità non difende la mia innocenza su questo proposito da me abborrito, altro non mi rimane che il commettermi alle lingue delle oneste persone informate e che mi conoscono alienissimo daltener mano a tali disusate, inurbane, anzi abbominevoli azioni, sapendo ben io che non siamo ne' tempi dell'antica repubblica d'Atene né dell'audace comico scrittore Aristofane.Averei bramato in quel punto che il comico Vitalba riscuotesse, non riguardo a quel buon uomo ma riguardo al nero artifizio tramato, le urla che si meritava piuttosto che applausi. La generalità delle unanimi acclamazioni mi fecero compiangere il Gratarol come un uomo poco amato e meno considerato di ciò che per avventuraegli si considerava.

Nel vedere il personaggio in quell'apparecchio mi rovesciai all'indietro con del dispetto, dicendo con impeto al Sacchi ch'era nel palchetto giulivo: - Che figura è quella? Ora trovo la vera ragione dell'arbitrio della parte cambiata. Quantovedo mi duole e mi penetra sino all'anima. Questo è un troppo abusare della mia sofferenza e condiscendenza. Domani il dramma ragionevolmente vi sarà sospeso. Lo desidero, e solo m'increscerà che venga addotta da' pubblici parlari una falsa causa di tal sospensione a pregiudizio mio.Quel capocomico mi rispose con un sangue freddissimo: - Temo anch'io una sospensione per mio danno, essendo la faccenda molto bene avviata contro il suo svantaggioso preludio.Arrabbiai contro al mio istinto; ma vedendo inutili le doglianze serie con un comico solo sensibile alla venalità e che tentava di farmi ridere d'un proposito che a me tanto doleva, mi costrinsi e m'occupai ad osservare la rappresentazione fremendo e sperando prima della metà di quella lungaggine tanti sbadigli e tante fischiate che non ci fosse bisogno d'altre sospensioni.Tuttavia la contessa di Nola co' suoi puntigli, le sue stravaganze, le sue bizzarie; la marchesa di Taranto con la sua flemma e le sue finte semplicità; Alessandro gran cancelliere con le sue infuocate gelosie; don Carlo amico del duca collesue critiche pungenti, sincere e morali; il duca colle sue titubanze tra l'amore e l'amicizia; Garbo cameriere del duca, imbrogliato ne' capricci delle femmine, colle sue facezie satiriche; Lisa damigella della contessa di Nola colle sue zelanti prediche alla padrona, divertivano: ma veramente il personaggio del don Adone, più freddo episodio degli altri, ad ogni sua uscita cagionava una procella di acclamazioni con mio estremo rammarico.Tale fu l'esito di quel dramma la prima sera della sua produzione sino alla metà d

el terzo ed ultimo atto, dopo la qual metà il don Adone non ha più che poco o nulladi parte. Non era ancora estinta in me la speranza delle provvide fischiate. Un'opera teatrale d'una lunghezza esterminata, d'un intreccio strano, di poco inter

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esse, niente popolare, con un teatro pieno per la metà di basso popolo in quella stagione, sostenuta da' soli dialoghi, da' sali, dalla critica sul costume, e sia detto con mia pace, tediosa e cattiva, non doveva essere sostenibile nemmeno sino a quel punto; ed è cosa certa che i puntelli suoi furono le illusioni anteriormente apparecchiate, le allusioni stiracchiate in sul fatto da' spettatori sui personaggi, e specialmente sul personaggio del don Adone con lorda comica insidiaabbigliato, pettinato e ammaestrato.

Fu meraviglia che presso a duemila persone entrate a pressarsi in un bariglionedue ore e più prima del cominciare la commedia, sofferto ch'ebbero quasi sett'ored'affannoso disagio, spezialmente nella platea calcatissima, tardassero a impazientarsi sino alla metà dell'ultimo atto; né è da stupire che molti nella platea, maschi e femmine, cacciati dalla stanchezza, dal caldo, dal tedio e forse da delle necessità naturali, cercando inutilmente d'uscire dal teatro, urtassero, risvegliassero de' contrasti, de' tumulti ed un mormorio che impedisse l'udire e disturbasse il resto de' spettatori pazienti.Non è pure nemmeno incredibile che i partigiani degli altri teatri, sempre prontie mal disposti emissari alle prime rappresentazioni d'opere nuove, accrescessero il fragore lor favorevole; e che alcuni discreti, ragionevoli, d'animo ben costrutto e sensibile, nauseati alla vista di ciò ch'io fui e sono il primo a condanna

re, non appoggiassero al tumulto suscitato, per troncare la riproduzione e le repliche di quella commedia.[Il dramma terminò tra il susurro procelloso d'urla, di fischi e d'acclamazioni; e io me n'andai cheto alla mia abitazione con la speranza che quella commedia non si sarebbe più riprodotta].CAPITOLO XXXIII.Stratagemma violento del Gratarol per fermare Il corso delle recite del non più mio dramma. Susurri e puntigli maggiori.[Invece la mattina seguente vennero a casa mia alcuni de' comici annunziandomi che la città aspettava la replica quella stessa sera, e pregandomi di ridurre alquanto più breve il manoscritto. Cancellai tutto ciò che poteva assumere apparenza di particolare allusione. Ma non giovò. Anche nella seconda produzione il personaggiodi don Adone fu il sostegno per la fissata illusione. Seguirono quattro repliche

. Mi feci promettere dal Sacchi che, dopo la quinta replica, avrebbe cambiato commedia].La mattina del dì quindici di quel gennaio, uscendo di casa e passando per il Rialto, vedendo i cartelli e leggendo che nel teatro in San Salvatore era l'invito a una commedia dell'arte, mi rallegrai credendo per fermo che il Sacchi avesse esaudita la mia preghiera. Ma qual fu il mio stupore udendo tutte le genti affaccendate a narrare e ad ascoltare un caso successo la sera nel teatro San Salvadore e ad udire il nome del Gratarol in su tutte le lingue?Sull'ora che il sipario era per essere alzato alla quinta recita ad un immenso popolo radunato, era giunto al teatro non so qual nunzio a dar ragguaglio che lacomica Ricci nel punto di portarsi al teatro era caduta giù per la scala della dilei abitazione, che s'era rovinata una gamba e che non era in grado di poter trascinarsi al teatro quella sera, e non lo sarebbe per molte altre sere, per recitare. M'ingegnava a voler credere quel racconto una storiella inventata; ma giunto nella piazza San Marco, molti de' comici m'attorniarono confermandomi il casoe narrandomi la rivoluzione e lo scandalo avvenuto nel calcato teatro per aver dovuto improvvisamente cambiar commedia. Urla contro gli attori. Ammasso di persone che vollero uscir dal teatro e la restituzione del loro danaio. Spinte, baruffe, bestemmie, minacce.M'aggiunsero che per calmar la procella erano stati in necessità di spingere fuori dalle quinte il marito della Ricci ad assicurare il pubblico che l'accidente era vero ed a giurare che il dramma sarebbe riprodotto. Non vi fu nessuno che nonaccusasse il Gratarol che in accordo con la attrice amica avesse usato un così bestiale stratagemma. Questo giudizio si è poscia verificato.[Per una seconda volta io aveva fermata la commedia, e per una seconda volta il

Gratarol la spingeva sul teatro. Avesse almeno cercata l'alleanza d'un altro attore, e non dell'attrice nota per l'origine delle mie amarezze e della sciagura di lui! Per ordine de' Tribunali, il dramma doveva tornar in scena il 17].

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CAPITOLO XXXIV.Richiesta fatta/ni dall'onorato mio amico signor Carlo Maffei per parte del Gratarol. Mio ragionamento col Maffei. È fissato un colloquio in terzo.CAPITOLO XXXV.Considerazioni riflessive fatte da me e con me medesimo sopra il colloquio bramato dal Gratarol. Mia determinazione in di lui favore d'un progetto ch'io credeirunico e il possibile.

[Non riuscivo a scoprire quali intenzioni movessero il Gratarol al bramato colloquio con me. D'altra parte, cercavo il modo che la rappresentazione del 17 fosse l'ultima. E dicevo tra me:].- Griderò co' comici, li minaccerò del mio abbandono. Pregherò i Grandi impuntigliati, chiederò assistenza e grazia, bacierò contro il mio costume più mani che non ho baciato immagini e reliquie sacre, chiederò il favore sino al pubblico medesimo.Innamorato di questa idea mi compiaceva tra me d'averla immaginata. Mi raccolsia pensare a' modi di eseguirla.- Per posdimani - diceva tra me quella sera, - che deve per i rispettabili alticomandi rientrare la commedia in iscena, che posso fare? Signor sì. Scriverò un picciolo prologo in versi diretto al pubblico. Dirò allo stesso che la commedia vien sospesa dopo la sera de' diciassette alle mie preghiere, per de' maligni discorsi

 e delle bistorte interpretazioni offensive me e delle persone mie amiche. Tra tutto domani de' sedici e la notte susseguente potrò far licenziare e stampare il mio prologhetto e far tutti i miei opportuni uffizi. La sera de' diciassette dovràquel prologo esser donato alla porta del teatro con un inchino a tutte le maschere ch'entreranno. Farò più. Pregherò il signor Gratarol ad onorarmi la sera de' diciassette di venire con me ad ascoltare quella cattiva commedia in un palchetto proscenio, in cui il riverbero de' lumi ci mostrerà insieme amichevolmente a tutto ilpubblico. Siamo tutti due assai conosciuti dall'universale. Starò con lui in quelpalchetto co' movimenti marcati della più cordiale amicizia, e s'egli ch'è verbosissimo lascerà adito a me che sono laconico e di poche parole di favellare, gli farò conoscere che tutte le allusioni ch'egli traeva dall'opera mia non erano che effetti d'una fantasia mal impressa e riscaldata, che il carattere del personaggio alui sospetto non era che un carattere universalissimo a' tempi nostri. Il prolog

o, una tal pubblica dimostrazione, Le droghe d'amore che non si vedranno mai più dopo là sera de' diciassette, faranno un ottimo effetto, rovescieranno le interpretazioni dell'illusione da lui cagionata, porranno la bonaccia sulle pubbliche lingue, e quindi nasceranno il silenzio e la naturale dimenticanza delle cose avvenute.Non è spiegabile la contentezza ch'io sentiva de' miei determinati apparecchi, i quali s'accordavano possibilmente in quelle circostanze colla onestà, colla prudenza, colla urbanità, colla buona amicizia. Cenai con buon appetito e dormii quella notte tranquillamente. Errava a sperare che i miei trovati, le mie determinazioni, i miei progetti piacessero e venissero accettati da un verme orgoglioso, furibondo, collerico colla commedia, col pubblico, co' tribunali, e mio cordiale odiatore. Egli era fresco senza mia cognizione dall'aver tentata indarno con un ricorso la mia rovina, d'aver indi fatta cadere da una scala la Ricci per opporsi ecozzare colla pubblica sovrana volontà; e veniva a visitarmi costringendosi ad unipocrita amichevole estrinseco, facendosi strada col mezzo d'un innocente reciproco amico verace per cercare in me colla violenza un rifugio impossibile a' suoi stratagemmi audaci e dissonanti, per vincere un suo puntiglio, o ad ordire un tradimento alla mia buona fama affidando alla sua vendicativa cieca industria, come potrà rilevare chi è ragionevole dalla mia onorata narrazione della sua visita ch'ebbe testimonio l'impuntabile signor Carlo Maffei, e da ciò che dopo quella visita infernale e frenetica è avvenuto.CAPITOLO XXXVI.Visita e colloquio, i peggiori ch'io avessi alla vita mia.Uscito dal letto il dì sedici di quel gennaio assai per tempo, richiamai alla mente ciò che la sera aveva disposto di fare e di esibire al Gratarol guidato da me da

ll'amico Maffei, e fui scempiato a segno di trovar buoni i miei ideati apparecchi anche a mente riposata e di non sospettare che il Gratarol potesse trovarli ridicoli e rifiutabili come spazzature. Non v'era modo ch'io potessi immaginarmi c

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h'egli venisse a visitar me sulla buona fede, scortato da un degno amico, sottoil manto dell'amicizia, col più canino oscuro livore nelle viscere contro la persona mia.Non mi passava per la mente ch'egli, opponitore superbo, ostinato e instancabile a' voleri di tre de' più tremendi tribunali che avevano rispinta la sua follia, venisse a pretendere me vittima delle sue temerarie imbecillità contro al possibile, massime avendo io prevenuto il Maffei, mediatore alla visita ed al colloquio,

perché non mi fosse fatta richiesta di cosa ch'era omai resa ben lontana dall'arbitrio mio.Qual cristiano, qual onest'uomo avrebbe pensato in quel caso ch'egli, chiedentefavore d'aver meco un colloquio col mezzo d'un amico onorato nella mia propria casa, fosse in grado di doversi costringere a prendere un'"aria d'indifferenza",e nell'incontro cordiale che io feci a lui e al Maffei al loro arrivo nelle miepareti, chi avrebbe creduto ch'egli dicesse nel livido animo suo quel verso della mia commedia:  Il Catone si avanza: scatoniamolo,siccome egli riferisce senza vergogna nelle frenesie della sua fracida penna?Quanto a me, co' sentimenti d'un animo sincero e sensibile, mi chiusi quella mattina nel mio solitario stanzino e quivi scrissi in fretta i ventiquattro versi d

el mio prologhetto in favore del delirante, da essere stampato e donato all'uscio del teatro a' spettatori che entravano la sera de' diciassette alla non più miacommedia. Mi premeva di terminarlo prima che giugnesse la visita che meco "gareggiava di cortesia", come si vedrà, per esibirlo, leggerlo, correggerlo, accorciarlo, allungarlo ne' limiti dell'onestà al modo del mio "gareggiatore di cortesia".Giunto ch'io fui appena all'ultimo verso del mio prologhetto, fu picchiato all'uscio. Era il cerbero Gratarol cruccioso, guidato dal mansueto agnello Maffei. È cosa certa ch'io non aveva palesato nemmeno all'aria la visita che contro al voler mio attendeva nella mia casa, e visita che il Gratarol pretendeva non so come che stesse celata. Il mio servo m'annunziò sonoramente che v'era il signor Gratarol. Buon principio alla secretezza del nuovo recondito stratagemma di quel signore.Incontrai i miei due visitatori col cuore aperto, colla dovuta civiltà e colle poc

he parole del mio costume, e feci cenno al mio servo di partire. Il Gratarol entrò nella mia cavernetta d'applicazione co' suoi passi ondeggianti detti all'inglese e colla maschera sulla faccia, geloso di non essere conosciuto; il che non s'accordava coll'an-nunzio del mio servitore.Chiusa ch'ebbi la porta, il mio "gareggiatore in cortesia" favorì allora di levarsi la maschera. Il fummo della sua faccia salì come una nuvoletta alle travi. Scòrsil'effigie d'un invasato frenetico, una guardatura inquieta, incostante, dispettosa, addolorata, fremente, che mi ricordava Tizio roso il cuore dall'avoltoio. Compiansi nel mio interno il suo stato, ma vidi ben tosto che il buon uomo Maffeiera stato sedotto a condùrmi una mala visita e ch'era necessaria tutta la mia flemma e la mia circospezione, massime colla presenza della guida dabbene ch'io amava.Mano al colloquio, ch'io dirò in un ristretto compendio possibilmente, per attestare la pura verità del quale il Gratarol non averà mai che una penna inventrice, menzognera, millantalrice, libellatrice, mossa dal fuoco inestinguibile della disperazione, dell' ira, dell'odio, della vendetta, ed io averò un testimonio onorato, amico reciproco da lui scelto ad essere presente, nel signor Carlo Maffei.Prima di quel colloquio io non conosceva che per nome e superfizialmente il Gratarol. Il vino e l'ira scoprono la verità del fondo degli animi, e in quel colloquio ebbi la opportunità di conoscere perfettamente l'indole e il carattere di quel signore. Obbligato da lui a non mai interrompere il suo discorso, non potei trattenere la mente dal fare delle mute filosofiche riflessioni da osservatore a misura delle scoperte che andava facendo. Le mie riflessioni allungheranno questo capitolo più ch'io non vorrei, e prego il mio lettore ad essere sofferente com'io lo fui a quel fastidioso colloquio.

Levatasi il Gratarol la maschera dal volto fummoso mi disse con un sorriso sforzato ch'egli scommetteva che nessuna persona avrebbe indovinato qual visita riceveva io in quel punto. Poteva rispondergli ch'egli avrebbe perduta la scommessa,

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poiché per lo meno il mio servo era stato un franco indovino nell'annunziarlo; mami contentai di rispondere: - Nessun obbietto dal canto mio può certamente essereostacolo all'onore che in questo puntoricevo.Si ponemmo tutti a sedere, e quindi il Gratarol in un tuono di quella gravita ch'egli sperava di avere e che al mio guardo non compariva che una ridicola scompostezza d'un nano pedante procelloso per un cruccio voluto tener celato, incominc

iò dal dirmi ch'egli era venuto da me come ragionatore e non come precario. - Bella introduzione! - diss' io tra me. - Che mai vorrà dirmi quest'arrogantuzzo e fanatico ragionatore? - Risposi ch'ero "paratissimo" ad ascoltare il suo ragionamento.Siccome egli aveva apparecchiati nel gozzo de' barili di periodi d'una rettorica e d'una logica alla sua foggia, da persuadermi e costringermi ad una sua strana volontà, non mai combinabile né colla circostanza né col mio potere, come si vedrà, mipregò ad ascoltarlo e a non mai interrompere il suo ragionamento. Mi contentai dipromettergli ciò con un abbassare di capo semplicemente, per ridurre la faccenda a brevità; e perché scorgeva negli occhi suoi scintillanti e gonfi un Demostene mal disposto e un torrente d'eloquenza che stava per scaturire, pronosticai della siccità a' miei poveri genitali di ciò che per molti altri genitali sarebbe forse stato

 un delizioso confortativo. Ero tuttavia un paziente curioso d'udire a qual sostanza riuscisse il suo ragionamento.- Non è il momento questo - diss'egli - di cercare se nel personaggio di don Adone della sua commedia, che certamente non è il mio carattere, Ella però abbia studiato di voler in quello malignare la mia persona.Sentendomi tócco in sul vivo da un mal impresso, pertinace nella sua opinione offensiva fissata in lui da una cieca fede prestata a un'attrice teatrale, mi scossi alquanto dicendogli con una civile serietà: - Si ricordi, signore, ch'Ella m'ha pregato a non mai interrompere il suo discorso. Mi duole assai di vederla imbrogliata in un argomento di vergogna non meno per lei che per me mercé alle direzionida lei tenute.Fremendo egli internamente ma sforzandosi ad una calma affettata, proseguì a versare il tinaccio della sua facondia sul proposito de' casi suoi e della mia commed

ia, ch'egli volle considerar sempre "commedia vendicativa", somigliando a quella femmina la quale ostinatamente diceva ogni momento "pidocchioso" al marito, e che gettata in un pozzo da quello, stanco di soffrire una tal ingiuria, affogando ella sott'acqua, innalzava sopra l'acqua le mani unendo l'ugne delle due dita colle quali si schiacciano i pidocchi, per dirgli "pidocchioso" insino nel momento dello spirare.Per far giustizia alla robustezza de' polmoni del signor Pietro Antonio Gratarol devo fare la testimonianza in di lui favore che il suo arringo sorpassò una grossa ora di tempo. Arringo di verbosità gettato all'aria non per una mia mala volontà,ma perché la sostanza alla quale egli pretese infine d'indurmi non era sostanza proponibile. Mi ristringo all'essenziale di quel colloquio con una verità che può essere testificata dall'onest'uomo Maffei, mezzo e presente a quella visita per unadi quelle sciagure alle quali vanno soggetti i cuori teneri e compassionevoli. Siccome io non doveva interrompere la eloquenza del signor Pietro Antonio nel suo da lui creduto ragionamento, dirò soltanto ciò che rispondeva l'animo mio e il miocervello mutuamente nell'ascoltarlo, tenendo a forza chiusa la bocca che avrebbe voluto sbavigliare dugento volte.Tra un ammasso di adulazioni verso là persona mia da me abborrite, di rimproveri che non aveva mai meritati, di minacce ch'io sorpassava in un forsennato afflitto per degli effetti a danno suo da lui tessuti, rimproveri e minacce discordanticolle sue adulazioni d'astuzia infelice, il grano che vagliando io il monte della sua zizzania raccolsi, fu poco.Vantò da glorioso sublime la sua nascita, la sua nobile educazione, il suo patrimonio, i suoi impieghi, la celebrità della sua riputazione, la sua destinazione a residente alla Maestà del re di Napoli, la sua età ch'egli asserì ancora fresca, i gran

progressi a' quali volava rapidamente, la sua robustezza, la sua ascendenza successiva senza intoppi sino a quel punto, salita ad una notabile felicità da essereinvidiata "anzi che no". L'esaltazione panegirica ch'egli fece a se medesimo inc

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ominciò a darmi uno schizzo del suo carattere, e fu tanto lunga ch'io potei tacitamente in me stesso per non interromperlo ragionar lungamente.- Misero! - diceva basso il mio cuore - voi non siete il primo uomo leggero cheper de' fenomeni strani sia stato elevato ad un'altezza pericolosa. Il vostro intelletto ravviluppato in una infinità di fogliacee apparve un classico volume di fiori all'ignoranza classica d'una gran parte di quelli che presiedono al governo e danno ciecamente il voto in favore a chi cerca de' rematici uffizi. La vostra

 lunga condotta censurabile all'occhio de' saggi, di sproporzionate lussurie e prodigalità abbagliatrici, di quelle che voi chiamate "galanterie" e del frascheggiare; le puntigliose inconsiderate petulanti ragazzesche mosse che faceste senzaproposito in alleanza con una comica in questi ultimi tempi, hanno con l'aiuto de' vostri conoscitori, forse vostri nimici ma forse anche zelanti del pubblico sovrano decoro, svelata la picciolezza del vostro cervello. Non vi resta che questo snudato da ogni abbaglio, dispettoso, gonfio d'un'ambizione suscitata in luidalle spuree passate ascendenze e felicità che voi credeste legittime e doverose ad un merito infantato dall'inganno del vostro amor proprio, e vi resta soltantoquella crucciosa e dispettosa fierezza ch'è attissima a rendervi più sensibili le vostre disgrazie. Voi non siete punto filosofo. La vanità è la più assurda di tutte le umane passioni. Ella si distrugge da se medesima nel punto che agisce colla sicur

ezza di maggiormente giganteggiare.Il signor Pietro Antonio proccurò di sostenere che della sua caduta improvvisa dalla gloria al ludibrio altro non si poteva incolpare che me e la mia commedia delle Droghe d'amore. - Fosse poi - replicò egli - quella commedia innocente o rea, l'esame non era di quel momento.L'occhio mio mentale conobbe che questa incertezza dilazionata all'esame non era che una finta cortesia perch'io non interrompessi il filo del suo assassinio rettorico, per ridurmi a un impossibile ch'io non poteva indovinare; e dissi soltanto tra me: - Quando confesserà quest'uomo che le sue direzioni e non altro fecero divenire la povera mia commedia una satira sugli omeri suoi? - Chiusi gli occhi, tacqui; ed egli prosegui ch'egli era invidiato da molti, odiato da un pugno di nobiltà, perseguitato da alcuni Grandi, perché aveva assunto delle competenze con quelli per proteggere delle cause giuste e per rispingere delle sopraffazioni.

- Altro che Droghe d'amore! - dissi tra me. - Gran giudice saggio e possente daporsi in competenza co' suoi maggiori e gran prudente rassegnato e accorto semplice ministro in una repubblica!Seguì ch'egli aveva cercato di fare sforzatamente la sua corte a delle gran dame le quali avevano facoltà sul cuore de' Grandi con lui esacerbati, per tentare di disarmarli e farseli benevoli; ma che aveva trovate coteste dame tanto indiscrete, tanto stravaganti, tanto pazze, tanto insoffribili, tanto eccetera eccetera eccetera, che s'era da quelle allontanato disgustandole per necessità.- In quanti labirinti d'imbrogli - dissi tra me per non interromperlo - entra per un bisogno dell'ambizione quest'uomo che vuol grandeggiare nel secolo, che sipicca d'ingegno, d'industria, d'attività, che non sa nemmeno schermirsi da poche false parole d'una femminetta teatrale e che piantato sopra una falsa base si varavviluppando con de' raggiri per incespicare e cadere d'abisso in abisso. Beata - diceva io basso - la tenuità del mio stato, la mia ritiratezza, il mio non cercare uffizi.Avrei dovuto porre la lancia in resta per l'onore delle dame brutalmente dilapidato, ma aveva a fronte un amico nel Maffei da rispettarsi e un delirante che non voleva essere interrotto; e un'azione da paladino poteva avere un pessimo fine. Per scemare possibilmente il lago de' suoi periodi i quali mi avevano presso che affogato, passerò a dire ch'egli fece una descrizione commovitrice del caso in cui si trovava per cagione, diss'egli, della mia commedia, senza mai voler confessare per causa della di lui sconsigliata direzione.Dipinse se medesimo assai bene tragicomicamente, che togato passando per le viee nella piazza, della canaglia personificata, levandosi dalle botteghe e affollandosi, lo additava sghignazzando per il secretarlo posto in ridicolo nella comme

dia delle Droghe d'amore. A questo passo lo vidi contorcersi, agitarsi e schizzare dagli occhi qualche lagrima. Poteva forse esservi della caricatura istrionica rettorica in questa esposizione, ma lunge io da quel dannato trionfo e da quell

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a vendetta abborriti, non mai voluti dall'animo mio, ma ch'egli pertinacemente,oltre ad ogni esempio, senza proposito, a dispetto della verità, d'ogni onestà e affascinato da una attrice, aveva fissato che fossero in me, il mio cuore conturbato al suo pianto costrinse gli occhi miei a versare delle lagrime molto più delle sue sincere, perocché è certo che le mie non erano che figlie della semplice umana compassione, e le sue, come si potrà rilevare, non erano che figlie d'una crucciosasuperbia ferita e del livore e figlie d'un intempestivo artifizio mal impiegato.

lo sapeva però realmente che le sue orgogliose cieche imprudenze avevano aperto un campo fertile a' suoi nimici e ad una lorda comica venalità, e che meglio non aveva potuto cooperare per esporsi da se medesimo sopra una scena alle pubbliche risa. Ciò bastava al mio interno per commoversi sopra una sua essenziale disgrazia e per creder vero tutto ciò ch'egli mi narrava della plebe.Ripigliando il signor Pietro Antonio il lago del suo ragionamento, si lasciò uscire dì bocca che ne' giorni passati, dopo alcune repliche della mia commedia, avevaegli tentato un ricorso con una supplicazione per farla sospendere. Non mi disse a qual tribunale si fosse presentato, anzi come pentendosi d'aver tócca questa corda, il suono della quale s'opponeva direttamente sempre più alle stolte pretese che aveva da me e che spiegò dappoi, cercò di troncare il suono di quella corda colle seguenti precise parole: - Breve, mi furono chiuse le porte in faccia per ogni

dove.Alle sue sopra accennate poche parole sbarrai tanto d'occhi, e li volsi al degno Maffei quasi chiedendogli: - Che diavolo di visita m'avete condotta?- Chiamai a raccolta tutti i miei spiriti, tutta la mia cautela e la mia attenzione, e senza sapere ancora a che volesse riuscire il stucchevolissimo ragionamento dell'invasato, incominciai a contemplare la visita proccurata per un raggiro peggio cheinurbano. Non era io abbastanza sciocco da non comprendere a qual terribile tribunale un eletto ministro residente ad una real corte era ricorso ed era stato rispinto.- Ah perché - disse basso il mio cuore, - caro il mio Gratarol, non vi umiliate achiedere in grazia con de' pretesti che non offendano il vostro decoro la dimissione della vostra andata all'uffizio di residente alla real corte di Napoli? Voi avereste la grazia con pienezza di voti. Il vostro ultimo sutterfugio di far ca

dere fintamente dalla scala una comica vostra amica per opporvi a tre rispettabili tribunali che rifiutano d'ascoltare i vostri deliri, finisce di svelare la leggerezza, la incapacità e la petulanza del vostro cervello. Voi ed io saremo eternamente con-trari nelle nostre interpretazioni e ne' nostri giudizi, siccome sono contrari un cervello pacifico e mansueto e un cervello infuocato e superbo. Cosìragionava tra me per non interrompere il mio visitatore, attendendo tuttavia laconclusione del suo eterno ragionamento.Giudicando finalmente il signor Pietro Antonio d'avermi ridotto a suo senno, d'uomo in fanciullo, esagerando che egli ammetteva in me giustizia, umanità, religione, onore, nobiltà d'animo, eccetera eccetera eccetera, pretese di provarmi con delle erudizioni sempre raccolte nel libro della comica sua solita relatrice, consigliera e sibilla, ch'io "poteva" e "doveva" sospendere la riproduzione nel teatro della commedia la sera susseguente del dì diciassette di quel gennaio e per quanto durava il mondo.Maravigliai a quella proposizione ch'io non doveva attendermi avendo prevenuto abbastanza il Maffei conduttore della visita, su questo punto, anche senza sapere l'ultimo passo fatto dal Gratarol agli inquisitori di Stato e la regezione, che non spettava a me il giudicare s'ella fosse giusta od ingiusta. Volli però attendere dall'insidiatore o vaneggiatore commiserevole la prova di quel "poteva" e "doveva" ch'egli pretendeva che fossero in me, per non interromperlo.Ecco lo "strettoio" a cui egli ha sperato d'avermi posto e in cui certamente altro che un cerebro riscaldato o un insidiatore prosuntuoso poteva sperare d'avermi posto, in quelle spinose circostanze. Riduco a sostanza il suo argomento e lasua richiesta, i quali avrebbero avuto per avventura tutto l'aspetto della discrezione e della onestà ne' primi suoi sospetti in lui istillati dalla comica e inna

nzi alle prime sue mosse imprudenti, ma che nel caso in cui eravamo lui ed io in quel punto non potevano essere né più tardi né più disperati né più folli né più impossibeseguirsi di quello ch'erano.

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Io non poteva né potrò mai credere il Gratarol imbecille a segno d'avermi proposta cosa dal canto mio fattibile, e nel momento in cui finalmente espresse ciò ch'eglipretendeva da me non come "precario" ma come "ragionatore", mi determinai a guardar lui come un circui-tore maligno e a guardare il Maffei come un uomo di troppo buona fede, troppo dabbene e trappolato da un raggiratore violento. Veniamo allo sdruscito e sfasciato "strettoio" del Gratarol.- Il Sacchi capocomico - diss'egli - ha tanti vincoli con lei per le beneficenze

 ricevute d'opere teatrali donate che gli fruttarono de' tesori: deve anche avere una naturale lusinga d'averne tante altre che non può mai negare a lei la richiesta di sospendere per sempre la riproduzione in teatro della sua commedia Le droghe d'amore. So anche ch'egli ha detto che in ciò dal canto suo è per dipendere dalla di lei volontà.Ecco la seconda parte e la conclusione del non meno intempestivo che insensato ragionamento del Gratarol. - Il patrizio padrone del teatro - proseguì egli trattando quel senatore con degli epiteti che al tempo d'Esopo un rozzone sboccato averebbe avuto riguardo a proferire - è impegnatissimo, è vero, a volere che la commedia si riproduca. Ma chi è questo padrone? So ch'egli è una persona che per patto della scrittura di convenzione ch'egli ha col Sacchi non può impacciarsi nella direzione della scena e non può impedire che la comica compagnia esponga più quella rapprese

ntazione che un'altra. So anche più - soggiunse egli, - che appunto quando il padrone del teatro desidera che sia recitata una commedia, il Sacchi ne recita un'altra per mostrar noncuranza. Oltre a ciò non è possibile che nemmeno il padrone si opponga alla di lei premura per dare un disgusto a un autore che con le di lui produzioni può dare in avvenire molta utilità a' suoi ricavati teatrali. Adunque - concluse il Gratarol - se il Sacchi non può negare a lei di non riprodurre Le droghe d'amore, se il padrone del teatro non può obbligare il Sacchi a riprodurre quell'opera, sta nella di lei mano il sospenderla e il sbandirla per sempre dal teatro.Questo è ciò ch'io chiedo, ciò ch'Ella può fare e ciò che deve fare.La ruota della sua fanatica eloquenza, che posta in un rapidissimo movimento non poteva fermarsi, seguì a farmi intendere a puro fine di spaventarmi, una cosa troppo vera, da me preveduta e che amareggia l'animo mio. Mi disse che il pubblicoguardava me solo come oggetto della sua disgrazia e che cominciava a rivoltarsi,

 a compatirlo, a contemplar me con occhio differente da' tempi passati e che miavvicinava a divenire odioso alla mia patria. A tal riflesso ch'era il più giustoe il più solido ch'io avessi udito uscire dalla sua bocca e che aveva faccia d'un'amistà contraria al nero livore verso di me che Io rodeva, non aggiunse però mai, come avrebbe dovuto, ch'io ero obbligato alla stolida effemminata sua credenza prestata ad un'attrice, alla sua violente altera petulante instancabile direzione,della sciagura che m'accennava in mio danno.Fatto ch'egli ebbe punto fermo alla sua brodosa affettata perorazione, toccava a me il rispondere succintamente. Sarebbe stata facile la risposta e facile sarebbe stato l'aderire alla sua richiesta a caso vergine e differente dal suo e dalmio di quel momento. Non durai fatica ad intendere che di tutte le erudizioni riguardanti la scrittura del Sacchi e al patrizio padrone del teatro era egli stato fornito dalla comica; da quella comica che aderendo alle di lui bestialità era tombolata fintamente giù per la scala, perch'egli potesse cozzare con un supremo tribunale al cui nome ognun trema e che aveva rispinto un di lui memoriale delatore contro di me, con cui ricercava la sospensione della commedia. Aveva bisogno di tutta la mia flemma e d'una direzione assai cauta per dargli la mia risposta.Egli aveva tentato di far spezzare una gamba a una povera comica sua amica, indispettito contro gl'inquisitori di Stato, e veniva a tentare di far rompere il collo anche a me per vincere il suo puntiglio.- Mio signore - diss'io, - quand'anche fosse vero, ch'è ben lontano dal vero, quel suo ch'io "posso" e ch'io "devo" sospendere e sbandire per sempre la mia commedia dal teatro per quelle ragioni che forse saranno vere ma che sono assai tarde, ch'Ella adduce con tanta franchezza, nessuno potrebbe levare dalla pubblica opinione, ne' casi suoi e miei, che la mia commedia fosse stata sospesa e sbandita

da' tribunali di giustizia come rea dal canto mio d'un attentato di quella puerile vendetta ch'Ella con troppa facilità ha creduta e che colle sue mosse, le sue inquietezze, le sue visioni e i suoi discorsi ha fatto credere a molti, facendo c

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orpo d'un'ombra vana, armando i di lei possenti nimici che si divertono sopra le sue sventure, che le coltivano e risvegliano la sozza industria venale di alcuni comici. Rimarrei con una taccia nella mia patria d'aver fatto un'azione inonesta di cui sono assolutamente incapace e di cui con mio sommo rammarico Ella ha fissato il contrario. -A queste parole l'energumeno non mi die campo di proseguire, e credendo o piuttosto fingendo di credere che questo solo sentimento di delicatezza mi trattenesse

 dal sottomettermi al suo sconnesso "strettoio" e al suo ch'io "poteva e dovevafermare la commedia dal mai più comparire in sul teatro", si pose con un entusiasmo di apparente letizia a gridare: - Signor conte, Ella abbandoni il suo dubbio.Sarò io il primo a suonare la tromba per la città e ad esclamare ch'io riconosco dal suo bell'animo e dalla sua generosità soltanto il favore.Lessi nel suo cuore a questa esclamazione ch'egli credeva d'essere a fronte d'un uomo giudicato da lui ipocrita, a cui premesse solo di preservarsi un buon nome nella società senza meritarlo.- Si calmi, signore - diss'io con tutta la flemma; indi seguendo: - Averei forza di spirito bastante di sofferire la mortificazione de' falsi giudizi del pubblico a mio svantaggio, tanto è grande e tanto mi penetra la compassione ch'io sentode' casi suoi da me contemplati come un vero afflittivo martirio; ma se vorrà esam

inare e riflettere con giustizia alla serie de' casi avvenuti ed alle circostanze dalle quali è circondata la riproduzione nel teatro della non più mia commedia domani sera, troverà ch'Ella chiede a me cosa fuori di tempo e ch'io non ho né alcun adito né alcun arbitrio di poter aderire al suo desiderio e alla sua richiesta. Perquanto dissi iersera qui al nostro degno signor Carlo Maffei, non doveva giammai attendere da lei una tale dimanda nel colloquio amichevole da lei ricercato.Il frenetico incominciò a scomporsi con del fremito e delle contorsioni d'un cruccio segreto, ed io seguitai pacificamente la mia risposta nel modo che segue: - Al Sacchi è noto che insin dalle prime ciarle destate da' di lei passi, mosso dalla di lei credulità verso un'attrice, io aveva fermata la commedia all'entrare nel teatro in questo anno dopo averla donata.[Al Sacchi è noto d'avere risposto con insolenzà alle mie opposizioni successive, frustrate sempre dalle incaute mosse di lei; al Sacchi è noto che il signor Francesc

o Agazi m'ha imposto di non ostacolare la rappresentazione; al Sacchi sono notele sollecitudini e le macchinazioni de' di lei nemici o delle di lei nemiche, etutto ciò che fu fatto a mia insaputa; al Sacchi è noto l'ordine del tribunale per domani sera. Quindi, se il Sacchi le ha espresso ciò ch'Ella dice, mi ha usata unapessima azione].- Queste sono tutte cose inconcludenti - disse il mio ragionatore infiammato. -In forza del mio ragionamento Ella può e deve sbandire per domani e per sempre dal teatro la sua commedia. Perdio! sono un uomo ben nato, un uomo d'onore, e salvo della galanteria, null'altro si può imputare al mio carattere, né devo soffrire l'ingiuria che mi si fa.Credo di non essere in necessità di spiegare al mio lettore qual significato abbia oggidì il vocabolo galanteria, né di dimostrare quante dissensioni, quante sciagure, quanti disordini, quanti abbandoni a' propri doveri e quante nimicizie cagioni nella società, ne' coniugati e nelle famiglie il significato abusivo dato da' filosofi del secolo al vocabolo galanteria. Avrei dovuto riscaldarmi dell'aria di prepotenza che prendeva il Gratarol nel mio proprio albergo e averei dovuto dirgli: - Voi siete un miserabile impazzito: uscite dalla mia casa! - Guardai il povero Maffei non meno sacrificato di me in quel colloquio: ebbi pietà della sua effigie mortificata. Mi raffrenai ripigliando il mio discorso dicendo: - Ho detto iersera al signor Carlo Maffei che se mai rilevasse che nel colloquio da lei desiderato Ella intendesse di venire a chiedermi ciò che ora mi chiede, si dispensasse da conciliare colloqui, e gli ho detti tutti gli ordini de' tribunali e tutte leragioni legittime che mi spogliavano d'ogni facoltà sulla commedia odiosa a lei eforse più odiosa a me. Rimango sorpreso che appunto le di lei pretese sieno quelle che per tutte le mie dimostrazioni e dichiarazioni doveva io avere certezza di

non udire.Oltre a tutti gli argini che mi si oppongono e che ho ingenuamente esposti, Ella m'ha dato un cenno di volo d'aver fatto un ricorso per tal sospensione (ed io i

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ndovino a qual supremo tribunale), che il suo ricorso fu rifiutato e che le furono chiuse le porte in faccia per ogni dove. Dopo un così rimarcabile rifiuto Ella ècorsa a far cadere fintamente dalla scala una comica per cozzare anche con quelrispettabile rifiuto; e poscia s'introduce da me e pretende contro ogni mia possibilità un istrumento che puntelli de' sotterfugi inconsiderati, disperati e violenti?A me non conviene il giudicare se dovesse o non dovesse essere rifiutato il suo

ricorso. La compiango. Vedo degli arcani ch'io non so interpretare e che raddoppiano a me gli argini d'opposizione alla sua ideata pretesa ch'io "posso" e ch'io "devo" fermar la commedia e sbandirla. La commedia non è più mia: ella ritorna in iscena per un risoluto comando de' capi dell'Eccelso. Io rispetto i tribunali ch'io venero, né sono uno stolto dal credere in me quella facoltà ch'Ella vuole ch'io abbia a forza e con una nuova violenza.- Inezie, inezie - rispose il mio ragionatore con viso sprezzante. - Queste sono coglionerie indegne d'essere dette da lei e ascoltate da me. Ella può e deve sbandir dal teatro la commedia per sempre.- Inezie! - diss'io quasi abbandonato dalla pazienza a cui mi teneva stretto ilriflesso al povero amico Maffei ch'io vedeva confuso e mortificato. - La prego,signore, a proccurarsi alcun poco di tranquillità all'animo e ad ascoltare un mio

progetto, suggeritomi dall'intima compassione ch'io sento della sua disgrazia edalla considerazione che ho per l'amico Maffei che m'ha proccurato il piacere della sua visita. Il progetto a me sembra il migliore e non impossibile da eseguirsi. In obbedienza agli ordini de' tribunali vada in iscena quella commedia domani a sera.A queste parole il furente ragionatore volle alzarsi dalla sedia procelloso. IlMaffei agitato lo trattenne a forza sulla sedia dicendogli: - Ascolti, ascolti;la prego. - Io chiusi gli occhi, strinsi i denti e seguitai ad esporre il mio progetto con quel poco di calma che mi restava. Progettai di tentare con tutti i possibili sforzi di ottenere che recitata la commedia la sera de' diciassette inobbedienza de' tribunali e delle promesse fatte al pubblico, fosse sospesa e sbandita per sempre dal teatro. Progettai d'essere con lui quella sera ad ascoltare la commedia in un palchetto proscenio in vista a tutti gli spettatori ch'io pre

vedeva affollati. Proccurai di fargli conoscere che ciò avrebbe cagionato un rovescio d'opinioni nel pubblico.L'assicurai che, essendo con lui in atto amichevole e scherzevole ad ascoltare quella commedia, l'averei disingannato in tutti que' tratti satirici sul costumech'egli m'accennasse e ch'egli aveva adottati come diretti a lui solo, imbevutod'un sospetto di mala impressione, e che gli averei provato con evidenza che non erano che tratti satirici generalissimi. Gli dissi che aveva scritti ventiquattro cattivi versi in forma di prologhetto, diretti al pubblico, che averei fattilicenziare e stampare tra quella giornata e la notte vegnente e donare alla porta del teatro a tutti quelli che entrassero alla commedia, ch'io proccurerei chefosse l'ultima recita. Gli ho esibito di leggergli cotesto prologhetto, per cancellare o per aggiungere entro a' limiti della convenienza tutto ciò ch'egli mi suggerisse.Il mio ragionatore volle alzarsi nuovamente dalla sedia con dell'impeto sprezzatore. Lo sbigottito e imbrogliato Maffei lo tenne fermo con le solite parole: - Ascolti, ascolti, ascolti.Io non poteva più reggere con quel frenetico, tuttavia gli lessi il prologhetto esibito. Eccolo di stile popolare.AL RISPETTABILE PUBBLICO DI VENEZIACARLO GOZZIQuesto innocente dramma che la graziavinse de' vostri generosi applausi,Veneti liberali, alle preghiere,replicate preghiere ed efficacidell'autor che lo scrisse, or vien sospeso.

Egli non sa per quali eventi o come,ne' caratteri vari e negli attoridi quest'opera semplice, ch'ei trasse

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da Tirso de Molina autore ispanoe dell'itale scene al gusto addusse,scorga alcun falsi aneddoti e personeviventi, amiche e allo scrittor dilette.I maligni discorsi e perniziosialla sua penna ingenua ed incapaced'insidie a nomi rispettati, mosso

l'hanno a pregar che tronco il corso siaalle Droghe d'amar, ch'ei diè ad esporreper dar diletto e non per fare offese.Grazie cordiali ei rende al suo cortesepubblico eletto che un tal dramma accolsecoll'onor de'suoi plausi, e gli prometted'altri argomenti opre novelle, e giurache il divertir la patria e il possedereil cor di questa è l'unico suo scopo.- Buono, buono - disse il Gratarol rizzandosi con quella impazienza ch'io doveva avere più di lui; - ma tutto ciò ch'Ella esibisce non è che acqua, acqua ed acqua. Ricuso solennemente i suoi progetti e il suo prologo. Col mio ragionamento convinc

ente le ho provato ch'Ella può e deve impedire domani l'esposizione della sua commedia e sbandirla per sempre.- Ella s'inganna o finge d'ingannarsi - rispos'io flemmaticamente. - Il suo ragionamento è tardo, fuori di tempo e perciò privo di base.- La avverto, signore - disse il Gratarol con gli occhi torvi e rivolti ora a me, ora alle muraglie ed ora al terreno, - che se la commedia rientra nel teatro domani a sera, io non curo più nulla la mia esistenza. Certo, certo - replicò egli col guardo tralunato, - vedrà ch'io non curo più nulla la mia esistenza.- Qual razza di matto petulante e sopraffattore m'ha qui condotto il Maffei? - dissi tra me guardando quell'uomo dabbene, pallido e che mi faceva pietà. Mi levaida sedere e con animo riposato dissi al mio delirante ragionatore: - Ebbene, signore, lascio dunque da un canto tutti i progetti da me esibiti e da lei rifiutati contro la mia ragionevole aspettazione. Vorrei pure ch'Ella partisse da me per

suaso ch'io non le sono che amico. Non posso esibirle che di tentare degli uffizi e delle preghiere perché la commedia non entri nel teatro nemmeno domani a sera. È impossibile ch'io possa impegnarmi di ottenere il suo non meno che mio intento, ma Ella averà ragguaglio sincero degli sforzi efficaci ch'io farò per servirla e perch'Elia si spogli dalla falsa, offensiva e ingiusta opinione che s'è formata di me. La prego di darmi un bacio in segno ch'Ella non parte da me mio nimico. - Seguì questo bacio reciproco, e da quanto ho narrato e narrerò pontualmente, lascio giudicare al mio lettore da qual parte quel bacio sia stato quello di Giuda.Le mie visite partirono. Averei dovuto respirare, ma il martirio del mio stancocervello ch'io voleva obbligare a disporre agli uffizi e alle preghiere che aveva promesso di fare e che voleva tentare con tutto lo spirito in favore del Gratarol, e l'angustia del tempo, mi privarono anche di questo respiro.Questo capitolo è d'un'enorme lunghezza. Se avessi voluto inserire in esso tutta la scorrenza verbosa evacuata dal Gratarol in quel colloquio, il capitolo sarebbe il doppio più lungo. Ho scritto l'essenziale nella sua purità. 11 Maffei fu buon testimonio. Chiedo perdono al mio lettore della lunghezza e giuro di non scriveremai più un capitolo così lungo.CAPITOLO XXXVII.Primi passi da me tentati per aderire alla premura del sconoscente e falso ragionatore.[Mandai il mio servo con una lettera al patrizio Vendramin; corsi dal Sacelli; ma la sospensione per il 17 era impossibile, anche secondo il parere del patrizio Giuseppe Lini. Riferii la cosa al Maffei; ma soggiunsi che volevo tentare un passo sul cuore della dama nemica al Gratarol, e lo pregai di trovarsi alle tre della notte sotto le Proccuratie nuove].

CAPITOLO XXXVIII.Secondo mio tentativo in favore del mio cordiale odiatore Gratarol.Erano scorse l'un'ora e mezza della notte quando mi avviai verso il palagio dell

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a dama, e ancora digiuno. Cercava d'aver un testimonio al mio dialogo con quella signora, e non m'abbattei che al comico Luigi Benedetti romano, ch'era parentedel Sacchi e il più giudizioso e flemmatico della comica compagnia da me soccorsa. Lo pregai a seguirmi ed egli mi seguì. Salimmo le lunghe scale della dama. Chiesi ad un servo s'ella fosse in casa. Mi rispose di sì e ch'ella era nella sua stanza da conversazione attorniata da dame, da senatori e da letterati. Lo pregai ad annunziarmi, e a pregarla per conto mio di sofferire ch'io potessi dirle alcune p

arole fuori dalla adunanza sua.La dama uscì tosto dalla tumultuosa stanza, mi si fece incontro con aria allegra e con una di quelle affabilità che sono il maggior rimprovero agli uomini ben natie negligenti ne' doveri della uffiziosità fissata dal costume verso le persone ragguardevoli. Io era verbigrazia uno di quegli uomini che non fanno la corte, perché non hanno mire d'interesse e perché non vogliono essere adulatori. Ella mi salutò scherzevolmente col solito titolo d'orso allusivo al mio vizio di ritiratezza. Mi fece sedere appresso di lei, fece sedere anche il comico; indi mi chiese che bramassi.Non sarò condannato se la supplica da me esposta fu più a mio favore che a favore del Gratarol. Mi lusingai di poter ottenere la grazia, e non volli avvilire per quanto mi fu possibile il mio ragionatore, per delicatezza, con

una sua nimica. - Vostra Eccellenza - diss'io - ha protetta la innocenza e la esposizione nel teatro, anche contro le mie preghiere al contrario espostele per me da mio fratello Gasparo, della mia commedia Le droghe d'amore, e devo tuttavia professarle dell'obbligo; ma poiché cotesta commedia, né cerco le cause, è divenuta delinquente, vengo a pregarla coll'intimo del mio cuore a voler proteggere la mia volontà per quelle vie che a lei sono possibili, onde quella commedia non rientri più in sulle scene. Ho pregato di ciò il capocomico, ed egli si fa de' riguardi de' tribunali e della rivolta del pubblico in suo danno, ma tuttavolta se vengono levati gli ostacoli che lo costringono, è disposto a non più esporre quella commedia, anche col discapito del suo interesse, per aderire alla mia volontà. Ho pregato sopra ciò il patrizio Vendramini padrone del teatro, ed egli con mia sorpresa e con mio rammarico mi ha negato con risolutezza in un suo viglietto ogni favore in questo proposito. Mi lusingo di poter trovare nell'Eccellenza Vostra il mezzo eff

icace ed opportuno per superare tutti quegli obbietti che si attraversano al mio giusto desiderio che quell'opera non comparisca più in sul teatro, e la prego con tutto lo spirito a voler proteggere la mia richiesta.- Che mai chiedete ! - disse la dama. - Che vi move a fare una tale dimanda?- Mi movono - rispos'io - le ciarle che fioccano per la città, mi move esser io sulle lingue e posto in un aspetto che nulla ha che fare col mio carattere, e finalmente mi move un doveroso sentimento di passione di vedere il Gratarol, persona ben nata e secretario d'un augusto senato (comunque sia stata macchinata questa turpe faccenda), posto sopra una scena ed esposto alle pubbliche risa. Ciò mi lacera l'animo, e supplico Vostra Eccellenza a far sì ch'egli esca da una tale abborribile sciagura e ch'io sia salvo da una taccia che per nessuna ragione mi si conviene.- Lodo - disse la dama - il vostro buon animo. Se però sapeste tutto, sapreste ancora ch'egli non merita tanta compassione da voi. Ma qual colpa avete voi se un fanatico per dar retta ad una comica s'è colle sue stolide direzioni ordita un'illusione sul pubblico? se insistendo egli contro le più gravi magistrature, cadendo di bestialità in bestialità, sino a far tombolare fintamente da una scala la attricesua amante, movente di tutti i disordini, sparlando sboccatamente delle personerispettabili e operando con tutta la imprudenza e la petulanza, ha suscitata laindignazione de' tribunali?- Qualunque onest'uomo - diss'io - nel caso del Gratarol s'accenderebbe e altererebbe nella fantasia e sarebbe compatibile. Da un cervello sconvolto non si possono attendere che delle mostruosità, né si deve credere se non che egli accresca ladose de' spiacevoli accidenti, se passa ad una disperata mania a cui mi si dicech'egli è vicino. Basta per conto mio ch'egli realmente sia ridotto ad essere sopr

a una scena esposto alle pubbliche risa, anche per una falsa illusione dalla sua leggerezza fabbricata, perch'io lo compianga e tenti tutto perché non progredisca la sua sventura, massime comparendo un'opera mia la base del suo martirio. L'Ec

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cellenza Vostra ha mente grande, e vedrà che nella protezione ch'io le chiedo supplichevole chiedo una grazia relativa alla salvezza del mio buon nome e della mia riputazione. Per quanto so di certo, il Gratarol crede e pretende ch'io possa e ch'io deva fermare la riproduzione della commedia divenuta peccaminosa, e una infinità di persone crederanno agevolmente la cosa medesima. La supplico a non lasciarmi esposto ad una così perniziosa estesa opinione.La dama sempre ridendomi in faccia rispose: - Non v'è cieco che non abbia a vedere

 che voi non avete più alcun arbitrio sull'opera vostra. L'avete donata, vi sietespogliato d'autorità. Fu esaminata due volte, conosciuta innocente e licenziata due volte per il teatro da' magistrati. Fu data al pubblico che n'è in possesso e la pretende. Un entusiasta presuntuoso e superbo che con de' sospetti di leggerezza, delle stolide direzioni offende ed irrita il pubblico e i tribunali proccurandosi delle punizioni in questo proposito, vi spoglia anzi affatto d'ogni menomafacoltà e vi costringe ad un prudente silenzio. Persuadetevi, e se la mia voce non vale a persuadervi, de' senatori che sono qui vi persuaderanno che non avete piùarbitrio alcuno e che la non più vostra commedia è ornai de' soli tribunali e del pubblico.- So benissimo - diss'io - e per quanto mi fu detto e per quanto è avvenuto, ch'io non ho arbitrio alcuno e ch'io non sono né potrei né dovrei essere alla testa d'un

esercito per riacquistare cotesto arbitrio. È ben perciò ch'io venni a chiedere protezione all'Eccellenza Vostra. I saggi vedranno ch'io non posso avere autorità di fermare la commedia, ma il numero grande della popolazione non si prende la briga di pensare come i saggi, ed io rimango pregiudicato nel mio carattere nella immensità delle opinioni. Cerco dall'ottimo cuore di Vostra Eccellenza di non avere questo danno, e la supplico istantemente ad assistermi a strozzare quest'idra diperniziosi discorsi e a sollevare l'animo mio dalla pena che risente nel vederequel povero Gratarol esposto ad una berlina turpe e crudele. - A questo passo baciai cinque o sei volte la mano sommessamente alla dama contro al mio costume, per ottenere l'intento; ma ella sghignazzando ancor pili, con atto dileggiatore rispose:- Voi siete un visionario faceto. Dovreste conoscere la sensibilità del mio cuore. Non è questo il caso da esser sensibile. Voi non sapete tutti i passi fatti dal G

ratarol. Non vi dico di pili. Razzolando voi in questa materia vi esponete a delle correzioni ed a qualche precetto che vi mortifichi. Veramente non so comprendere il perché delle ombre frivole v'inducano a cercare con tanto calore un disgusto del pubblico, onde avvenga l'abbandono d'un teatro col danno inevitabile di tante povere genti che per un così lungo corso d'anni avete protette e soccorse. 11patrizio Vendramini ha palmare ragione a non aderire alle vostre inopportune ricerche, con lo scredito d'un ricinto ch'è una delle rendite maggiori della sua famiglia. Oltre a ciò non è egli condannabile di non discendere a ciò che non è più in grado di fare. Conchiudo che chiedete anche a me cosa impossibile, che i pubblici comandi in questo proposito per delle cause che voi non sapete sono insuperabili e che domani da sera un fante de' capi del Consiglio de' dieci ha precetto di condurre la Ricci in teatro al suo dovere. Obbediti che sieno i tribunali domani da sera, la commedia potrà poi non essere più riprodotta. Di ciò anche il vostro protetto Gratarol dovrebbe esser contento.Si resero inutili tutte le mie parole posteriori. La dama si levò da sedere per rientrare nella sua ricreazione; e scorgendo io ch'ella aveva bensì dette delle verità, ma anche che un puntiglio, un disprezzo e una vendetta contro al Gratarol nonla lasciavano aver riguardi né per lui né per me, per non comparire insistente, noioso e incivile senza alcun frutto, credei bene l'abbracciare la proposizione chela commedia non ricomparisse nel teatro dopo la sera de' diciassette, di raccomandarmi e d'impegnarla su questo punto, di baciarle la mano e d'andar col testimonio Luigi Benedetti su nominato.Tale è l'onorata storia degli uffizi ch'io feci il giorno de' sedici e sino alle tre della notte, sempre digiuno, verso le persone ch'io credei opportune, per aderire alla immaginaria violenta pretesa del Gratarol non mai con me combinabile.

Se i testimoni ch'io nomino, che vivono, e le carte provano maliziosa e falsa la mia narrazione, non voglio perdono.Narrerò ora gli uffizi ch'io feci verso il Gratarol, i generosi urbani puliti e ra

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gionevoli accoglimenti suoi, colla medesima onoratezza stimolando i testimoni ch'ebbi a questi uffizi, tra i quali testimoni v'entra persino un di lui amorevole congiunto, a smentirli s'io gli contamino con delle invenzioni.CAPITOLO XXXIX.Terzo uffizio da me fatto verso il flessibile e gentile mio ragionatore, con quel frutto che si vedrà.[Pregai il Maffei di riferire al Gratarol le mie fatiche gettate, e d'esortarlo

a sopportare la recita del 17, che sarebbe stata l'ultima. Ma il Gratarol mi fece rispondere ch'io poteva e doveva Impedire quella recita. Allora mi reca! dal signor Francesco Contarmi, zio di quel furioso, a pregarlo di persuadere il nipote ch'io non poteva più nulla. Aspettai la risposta ad una bottega di caffè nella calle de' fabbri, detta del Berizzi; e la risposta fu il solito ch'io poteva e doveva!].CAPITOLO XL.Ragione del Gratarol verso di me senza alcun mio torto verso di lui. Paradosso che contiene una verità innegabile.Rientrata dunque, come doveva, nel teatro la sera de' diciassette di quel gennaio la commedia Le droghe d'amore, mal contento io di quella riproduzione, amareggiato dalla amarezza medesima che amareggiava il Gratarol, compatibile com'era co

mpatibile anch'io, non ebbi cuore d'essere presente alla recita. Oltre a ciò ebbiribrezzo d'incontrarmi in quelle persone che non avevano aderito alle mie preghiere e a' mie uffizi per la sospensione d'un torrente di tante ciarle increscevoli, molte delle quali m'averebbero nauseato quella sera nel teatro medesimo.Fermo io nella certezza a me promessa che le recite non sarebbero oltrepassate quella sera, siccome per esperienza sapeva che per tenere in soggezione il capocomico non aveva arma più forte di quella di mostrare disgusto e alienazione dalla sua compagnia, credei di far buon'opera, per ribadire la promessa a me fatta, a non lasciarmi vedere quella sera da' comici. Passai al teatro in San Giovanni Crisostomo, dove con mio rammarico udiva, senza volere, da alcune persone ch'entravano che il teatro in San Salvatore era calcato di spettatori.Terminata la rappresentazione in San Giovanni Crisostomo che poco mi tenne occupato, me ne andai pacifico al mio albergo con una sicurezza che forse per quiete

del mio spirito proccurai un po' troppo di coltivare, che in quel punto fosserotronche le recite della mia romorosa commedia e delle schife dicerie. Punto nondubitando che non mi fosse mantenuta la salda promessa, cenai e mi corcai nel mio letto. Alzatomi la mattina de' diciotto, il mio servo ch'era stato fuori di casa, m! disse con aria d'uomo informato di tutto e con mia sorpresa: - Si replica di nuovo la sua commedia in San Salvatore.Non gli credei, ma mi colpì un tale annunzio. - Come sapete voi questo? - diss'io. - Lo so - rispose il servo - perché ho letto il cartello de' commedianti poco faattaccato alla ruga al Rialto.Irritato da quella asserzione, medicava il mio cruccio considerando che coloro c'hanno la incombenza prezzolati di attaccare al pubblico cotesti cartelli, avessero sbagliato, come spesso succede. Tuttavia inquieto sopra ciò che anche per un semplice sbaglio doveva inquietarmi, chiesi da vestirmi immediatamente.Mentre io m'apparecchiava a vestirmi, mi giunse improvvisamente la visita del patrizio Paolo Balbi contrad-dittore a' consigli delle Quarantie, che venne unitoal signor Raffaele Todeschini giovine cittadino di somma probità. Coteste due egregie persone, in un modo allegro e come per congratularsi meco, vennero a dirmi che si replicava la mia commedia per una insormontabile chiamata del pubblico. Aquesta certa notizia che non ammetteva più dubbietà, parve che mi si agghiacciasse il sangue.- Una tal nuova - diss'io al cavaliere - è delle più fastidiose ch' io ricevessi a'miei giorni. Vostra Eccellenza non è informato di quanto bolle nella mia pentola.Non era immaginabile una tal mancanza di parola e di fede, il delitto della quale cade tutto sulla mia innocente riputazione, impegnata sugli altrui impegni che le recite non sarebbero oltrepassate a quella di iersera.

- Eh! non si prenda pena per quel fanatico Gratarol - rispose il cavaliere. - Qual colpa ha Ella s'egli s'è fatto de' pregiudizi colle sue false immaginazioni e petulanze e se il pubblico e i tribunali vogliono la sua commedia?

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- Conosco la leggerezza e il fanatismo del Gratarol - diss'io - ed è per ciò e perchéveramente ho compassione del martirio che soffre, che mi trafigge il cuore cotesta replica di cui mi fu lasciata spendere la ferma parola che non sarebbe corsa. Il Gratarol non intenderà mai o fingerà di non intendere cotesta replica che in fatti non ci doveva essere, e potrà addossare a me con una forte ragione la colpa dimancatore, senza ch'io abbia la menoma colpa. Vostra Eccellenza mi scusi se seguo a vestirmi per uscire di casa a cercare tutte le vie che mi sia mantenuta la p

arola, che venga staccato il cartello e s'attacchi un invito al pubblico d'un'altra rappresentazione.- Ciò non è possibile - rispose il cavaliere.- Non doveva essere possibile una promessa che impegnasse la mia puntualità. Farò que' schiamazzi che mi si convengono. Il capocomico ci penserà. A' comici non devono mancare ripieghi - diss'io affibbiandomi le scarpe con della smania e con pocaciviltà.- Ma Ella sappia - soggiunse quell'ottimo signore - che i poveri comici furono imbrogliatissimi. Volevano invitare al termine dell'atto secondo a un'altra rappresentazione per questa sera, e sulla insistenza insuperabile del pubblico per la replica furono sforzati a ritirarsi. 11 patrizio Francesco Segredo, maturo senatore e che spesso presiede al supremo tribunale, com'Ella sa, sul riguardo che i

l Sacchi aveva alla sua persona, fece cercare di lei per tutto il teatro per persuaderla che né Ella né i comici avevano facoltà di fermare opere teatrali da lei donate, ammesse da' tribunali, rese pubbliche e volute dal pubblico che n'è in possesso. Le dico ancora che al terminare della recita i comici si mostravano perplessi, dubbiosi e mesti sulle pubbliche chiamate della replica, e che a de' cenni imponenti da' palchetti, fu lasciato cadere il sipario. Rifletta bene prima di esporsi in questa materia divenuta pericolosa.- Niente mi persuade e niente mi sbigottisce - diss'io lavandomi le mani, scordata affatto la creanza. - Non mi si doveva fare una promessa perch'io potessi promettere e per farmi mancare. Vado dal Sacchi a dirgli che mi mantenga la parola. Faccia ammalare un attore o trovi qual pretesto vuole, ma stacchi il cartello e ne attacchi un altro, o ch'io lo tratterò come si merita. Non potendo altro fare, lo minaccerò di divenire acerrimo nimico di lui e della

sua compagnia; che prenderò a proteggere un altro teatro a lui avverso, donando aquesto tutte le invenzioni e l'opere sceniche mie che m'ingegnerò di scrivere a furore per danneggiarlo; e manterrò ben io a lui la parola. Sono fracido de' da luitenuti garbugli a mia costrizione e a mio dispetto per una sozza sua venalità. Passerò quindi alla dama un po' troppo inconvenientemente bizzarra nimica del Gratarol e troppo protettrice d'un capocomico. Farò intendere a questa che deve proteggere, più che lui, me e la parola da me data anche sulle di lei espressioni. In somma farò e dirò quanto potrò fare e dire perché sia levato quel cartello; e se per sciagura non mi riuscirà d'avere il mio intento, il Gratarol frenetico ma che mi fa compassione e con cui sono impegnato, saprà almeno la sopraffazione che mi si fa, i miei passi, i miei dispiaceri e le mie ferme determinazioni, e li saprà il mondo tutto, con cui devo essere giustificato della mancanza d'una promessa solenne e ferma da me fatta sulle promesse altrui. Tale era la mia risoluta intenzione fermissima e sorda a qualunque prudenziale riflesso, come può essere asserito da' due incontaminabili testimoni, patrizio Balbi e signor Raffael Todeschini. Ma mentre lamia offesa e irritata deligatezza esagerava e si disponeva ad un riparo, il Gratarol era ben lunge dal pensare con delicatezza. Orbo egli e fedelissimo al livore che nutriva contro me solo, non riflettendo né a' suoi possenti nimici che per mortificar lui non si curavano d'offender me, né a' tribunali, né al pubblico, volendo in me solo la causa della sciagura che sofferiva per la commedia, sembrandogli la circostanza di quella nuova replica opportuna per vendicarsi con un suo nuovo stratagemma brutale e proditorio contro me, colla inutile speranza di screditarmi agli occhi della mia patria, guidato dalla follia della sua perspicacia iraconda, macchinò il coraggioso eroico tratto che si leggerà nel seguente capitolo.CAPITOLO XLI.

Cavalieresca ponderata urbana azione dell'eroico animo del Gratarol e coserellerelative alla di luì gentilezza.Appena era io quasi vestito per uscire di casa a' miei risoluti maneggi non meno

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 per me che per il signor Pietro Antonio, si picchiò all'uscio mio. Fui avvisato dal servo che uno staffiere aveva un viglietto da dare nelle mie proprie mani. Uscito io dalla stanza trovai quel staffiere sul limitare della scala col viglietto, che mi presentò rimanendo in atto d'attendere la risposta.Il mio cuore ha indovinato che il foglio era del sollecito Gratarol, e credeva che mi chiedesse ragione e il perché si recitava nuovamente la commedia contro la mia promessa; e per dire il vero apparecchiava anche l'animo a dover leggere qual

che amara puntura di ragionevole rimprovero ed uno stimolo a dover mantenergli la promessa. Riflettendo a' suoi casi e al suo cervello alterato, credeva anche di dover leggere qualche minaccia se non gli mantenessi la parola data. Per tal modo pensando io, ero parato a soffrire a dargli una civile risposta, ed era paratissimo a seguire i miei passi per troncare la rogna della da me e da lui maledetta commedia. M'ingannava nel mio moderato indovinare. Apersi e lessi il viglietto. Ecco il fior di virtù di Pietro Antonio Gratarol nobile padovano.Signor conte, in forza del ragionamento tenuto ier l'altro in vostra casa, il cartello di ier mattina pose in diritto il ragionatore di dirvi che mai in sua vita non ebbe a conoscere maggior ipocrisia ed impostura della vostra; e il cartello poi di stamane esprime in faccia a lui che siete un mal cavaliere e un mentitore.

Seguite pure a saziar la vendetta d'una vostra amorosa passione in parte occulta e forse anche non creduta da alcuni, a me solo conosciuta in tutta la sua estensione. Continuate pure a torreggiare mascherato alla testa di tutti quelli che m'invidiano, mi malignano, mi perseguitano e m'odiano. Oggi tocca di ridere a voi: forse non anderà sempre così; forse le umane vicende can-gieranno un di il vostroindegno trionfo e la mia ingiusta oppressione.Di casa alli 18 di gennaio 1776/77.PIETRO ANTONIO GRATAROL.[Frenai l'ira, e allo staffiere, che sembrava aspettare una risposta in iscritto, dissi: - Andate, andate: ho inteso. - Mostrai al Balbi e al Todeschini il vigliacco foglio, e volli portarlo alla dama. Il Balbi m'accompagnò].Giunto a quella signora, che accolse me e il patrizio con la sua solita scherzevole ilarità, espressi le sole parole seguenti: - Le Eccellenze Vostre si sono dive

rtite alle Droghe d'amore ed alle repliche di quell'opera infelice. A me giungono di questi divertimenti. - Le porsi il viglietto.Ella lo lesse, ed io lessi negli occhi, sulle guancie e nel tremore della sua mano la sensibilità del suo cuore. I movimenti del cuore sono da me i più osservati nelle mie espiazioni sulla umanità, ed è certo che, scordando io in quel momento tutto ciò che averei dovuto aggiungere esagerando una giusta lamentazione sui di lei vendicativi capricci che esponevano me a delle sporche peripezie, mi restarono infissi nell'animo soltanto i sentimenti di gratitudine per le commozioni cordialich'io scòrsi nell'interno di quella signora a mio riguardo. Per le mie anotomicheosservazioni, delle perniziose letture e delle pratiche de' dicentisi spregiudicati e spiriti forti che avevano guasto il cervello, non erano giunte però giammaia guastare il cuore di quella donna.Il Gratarol è un filosofo assai da me diverso. Egli non ha per sistema che la guida del suo animalesco cieco superbo amor proprio; è fisicamente incapace di fare le osservazioni, le espiazioni, le separazioni che fo io, e sopratuttoincapace d'una ragionevole pieghevolezza. Questa è l'origine principale di tutte le sue follie e di tutte le sue sciagure.La dama non altro mi disse se non che: - Lasciate a me questo foglio. - L'ho obbedita partendo.Una copia del brutale viglietto voluta fare dal signor Raffaele Todeschini prima ch'io partissi dalla mia abitazione, era già superflua. Non v'era bottega, non v'era casa che non avesse in copia il facondo cavalieresco viglietto del delirante. Egli aveva avuta la perspicace e nobile gran cura che si spargesse il suo turpe vendicativo eroismo, e alcuni suoi fautori riscaldati e ignoranti di tutta laserie delle verità e senza conoscere che danneggiavano il loro simile maggiormente

, non si vergognavano punto a sostenere, ad illustrare e ad applaudire una così sublime sicaria vendetta, senza avvedersi d'essere di que' ridicoli stizziti i quali, non potendo battere un intangibile destriere di cui hanno spavento, sfogano

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la loro pazza collera battendo la sella con un coraggio indicibile.Parecchi nel nostro secolo si credono di gran mente, di grand'anima e di gran cuore; ma se bene si esaminassero, troverebbero che cotesti loro gran mente, grancuore e grand'anima non sono che una perdita de' sentimenti salubri del rossoree della vergogna, a' quali sentimenti hanno posto il nome di pregiudizio.Averei dovuto avere qualche timoroso sospetto di violenza di sopraffazione girando solo per la città, perocché aveva briga con una persona il di cui coraggio consis

teva nelle imboscate, come si vede da quanto ho sin ora ingenuamente narrato e dalla promulgazione del suo infamatorio viglietto. Forse per una mia stupidezza non ho mai a' giorni miei compreso che sia timore, e forse i pericoli a' quali anche imprudentemente m'era esposto negli anni ohe fui nell'armata m'avevano avvezzato ancor più a non comprenderlo.Confesso una mia debolezza e stoltezza. Niente potè pormi in riguardo e niente potèspogliarmi da un vivo desiderio che tenni occulto ad ognuno, d'incontrarmi faccia a faccia col mio ragionatore e promulgatore di viglietti brutali. Girai il giorno e la notte solissimo, massime ne' contorni del di lui casino nella contradadi San Moisé dove abitava, col sopra accennato condannabile desiderio. Conveniva ch'io appiccassi il fuoco al casino per farlo sbucare, come proverò; ma io non sono un incendiario.

Il dottore Andrea Comparetti, ora pubblico eruditissimo professore nella università di Padova, mostrò de' stupori di trovarmi soletto la sera de' diciotto di quel famoso gennaio ne' vicoli più oscuri e pericolosi. Volle farmi de' riflessi prudenziali sulla mia circostanza, sulla mia incautela, e correggermi. Gli risposi delle risolute facezie che lo fecero partire ridendo. Nomino senza ribrezzo delle persone onorate che possono fare testimonianza d'una mia bestiale azione, perché ognuno possa condannarla. Non vi sia chi creda ch'io vanti il mio desiderio e il mio girar solo in quel caso il giorno e la notte, per una prodezza. Io non fui giammai millantatore parabolano. L'azione proditoria del denigratore viglietto doveva anche farmi sospettare d'una imboscata. La mia non fu che un'umana cieca debolezza e insensatezza. So benissimo separare la temerità dal coraggio.CAPITOLO XLII.Ciò che avvenne intorno al viglietto cattolico.

Il giorno diciannove del gennaio accennato uscii dal letto a niente serena, e condannando me stesso della imprudenza e del caldo del giorno anteriore, cominciava a ravvivare il mio naturale risibile. Al cicaleccio risvegliato per la città dalla pioggia de' viglietti del mio iracondo odiatore, un buon numero di signori, di parenti, d'amici si crederono in una cortese necessità d'affollarsi alla mia abitazione. Tutti amici veraci e che conoscevano il mio carattere, erano maravigliati che fosse avvenuta a me un'avventura di quella specie, e desiderosi di sapere il caso mi stimolarono a narrarlo loro. Lo narrai con ilarità; purità e con de' tratti comici in me naturali senza malizia, ed è certo che la pulcinellesca affettazione, il frasario e le attitudini del Gratarol ragionatore nel colloquio tenuto nella mia casa, da me al vivo espressi e dipinti, fecero ridere senza mia colpa la brigata.Non so ciò che passasse nel casino del mio schiccheratore d'infami viglietti. Dame si rideva sgangheratamente di lui e delle sue mosse. Le risa terminavano con delle esclamazioni unissone, delle quali io non aveva pure nessuna colpa. Il signor Carlo Maffei solo, ch'era degli astanti, aveva faccia di mortificato e d'afflitto, temendo soltanto ch'io fossi in disgusto con lui per avermi egli imbrogliato per bontà di cuore con un ente de' più irragionevoli e velenosi. Lo consolai al possibile co' miei scherzi, e gli feci comprendere che da un uomo riscaldato il cerebro, artifizioso, e per natura, per riflessione, per ostinazione e per volontà superbo e vendicativo non poteva uscire che ciò ch'era uscito; ch'egli non s'era valso del di lui mezzo per volere da me un impossibile, che per macchinare de' tranelli di vendicativa solennità; e che il contegno del signor Francesco Contarini,con cui venne a dare la risposta del nipote che l'aveva sedotto, aveva spiegataabbastanza la intenzione del Gratarol.

Giunse mio fratello Gasparo, il quale mi condusse dal senatore Paolo Renier chefu poscia doge di Venezia e ch'io non conosceva. Quel signore volle sapere dalla mia voce la ingenua serie de' fatti relativi alla commedia, al Gratarol e alla

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di lui comparsa nella mia abitazione. Gli narrai tutto colla più scrupolosa candidezza. - Ebbene - diss'egli - estendete con purità e la possibile brevità la storia de' casi che mi narraste, in forma di memoriale da presentare al tribunale supremo, supplicando d'avere risarcimento all'onor vostro annerito dal proditorio viglietto del Gratarol. Unite al memoriale il viglietto aggressore, le testimonianze che nominaste, quanto avete in quest'argomento; e recate a me ogni cosa.Ho ciecamente obbedito. Non credo che ci sia sciocco il quale possa dubitare ch'

io abbia posto in apparecchio nella mia storia, in forma di memoriale, cose cheavessero ombra di falsa querela o di menzogna da presentare ad un tribunale di cui non v'è chi non tremi. L'indole mia non farebbe ciò con la più inconsiderabile persona. Chi può immaginarsi ch'io abbia alterata la verità innanzi a tre giudici che fanno spavento a tutti e che a qualunque picciola falsità rilevata m'avrebbero folgorato? Il mio memoriale storico è quello che segue.[Nel memoriale al "serenissimo principe" e agli "illustrissimi ed eccellentissimi signori inquisitori di Stato" sono compendiati i fatti già esposti].La mattina de' dì ventitré di quel gennaio mentr'era ancora a letto, mi fu condottoil medesimo staffiere che aveva recato il foglio ingiurioso de' dì diciotto. Mi presentò un viglietto sigillato dicendomi: - Il mio padrone m'ha incaricato di dar questa carta nelle sue proprie mani. - Aperto il viglietto, lessi le parole e i s

entimenti che seguono.Signor conte, amico riveritissimo,In tutto opposti a' sentimenti espressi nel mio viglietto dell'altro giorno Ella riceva i sensi del presente; li quali niente dissimili da quelli della sinceraestimazione e benevolenza che per molti anni ho nodriti verso di lei, le dichiaro ch'io non intesi d'offenderla, e che dimenticando il passato io seguirò a professare verso di lei la stessa stima ed amicizia, con lusinga di ottenere tanto maggiore corrispondenza quanto più l'è manifesta la mia dichiarazione.Di casa a di 23 gennaro 1776/77.Suo divotissimo servo ed amico PIETRO ANTONIO GRATAROL.Letto il foglio, niente dissi al portatore se non che con un sentimento sincero, cordiale e cristiano: -Andate e riverite il vostro padrone.Ebbi delle visite. Il viglietto di ritrattazione volò in molte copie per la città ri

svegliando di que' discorsi che queste tali faccende sogliono suscitare, particolarmente negl'innumerabili oziosi. Fui a visitare il senatore che aveva protetta la mia circostanza per dargli ragguaglio di quanto era caduto e per ringraziarlo. V'erano degli astanti assennati. - Ho ricevuto - diss'io al cavaliere - questa mattina un viglietto di ritrattazione del Gratarol.- Ciò m'è noto - rispose quel signore con gravita. - Penso - diss'io - di fare una visita a quel personaggio. Egli fu due volte alla mia abitazione, io non fui giammai alla sua. Siccome non ebbi in nessun tempo alcuna amarezza dal canto mio verso di lui, mi scordo affatto gli errori della sua mente accesa e compatibile, ebramo con un bacio amichevole di persuaderlo della mia cordialità e di cancellareogn'ombra di dissapore.Devo dire ciò che mi rispose quel senatore? - Voi avete del talento e della penetrazione - diss'egli, - eppure conoscete male la natura de' superbi. Vi sconsiglio dal fare il passo che dite. Se vi incontrate col Gratarol per istrada e soltanto s'egli è il primo a salutarvi, levatevi il cappello con un semplice atto di civiltà sostenuta, ma non trascorrete con parole o con abbandonate dimostrazioni. Da un uomo ostinatamente orgoglioso possono sempre uscire delle stravaganze, ed egli potrebbe imbrogliarvi di nuovo. M'immagino già che i comici seguiteranno a replicare la vostra commedia.- Non lo so - diss'io, - ma per quanto mi fu detto, hanno sospese le repliche. - Male, malissimo - rispose egli: - l'arrogante s'ingegnerà di far credere che la sua ritrattazione sia stata combinata colla sospensione della commedia. I comicidovrebbero invitare almeno per un'altra replica, adducendo al pubblico che de' personaggi ragguardevoli l'hanno chiesta.Non potei rispondere se non che le verità: ch'io non aveva avuta giammai parte alc

una né nella produzione né nella riproduzione né nelle repliche né nella sospensione; che da molti giorni io non andava in quel teatro, passando le sere negli altri teatri; e che finalmente non era da sperare che i cornici avessero altra mira che q

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uella dell'interesse e della venalità. Quel cavaliere, ragionatore eloquente, si diffuse a favellare e a riflettere sulle cagioni della corruttela de' costumi, sul disordine de' modi di pensare introdotti e dilatati. Giammai ho udito ragionare con tanto acume, tanta erudizione, tanta precisione, tanta chiarezza, tanta estensione di lumi e tanta verità in quest'argomento. Parlo d'una mente elevata, d'una lingua espedita, e non parlo de' cuori ch'io non odo e non vedo.Partendo io da quel signore non mancai d'eseguire, quanto a me, con tutta la oss

ervanza i ricordi suoi. Tuttoché io fossi avverso alla riproduzione di nuove repliche di quella romorosa maledetta commedia, volli avvertire il Sacchi di quanto il cavaliere aveva detto, comandandogli però di non aderire se non gli venissero comandi da dover obbedire. Il Sacchi mi disse che non l'avrebbe sospesa se la comica Ricci che sosteneva la parte principale della commedia, nelle ultime due sere consecutive non avesse borbottata e snocciolata la sua lunga parte sotto voce,a segno di cagionare continue urlate nel teatro, soffrendo de' titoli obbrobriosi da' palchetti, non dando alcuna retta a' rimproveri de' compagni né alle voci di strapazzo del pubblico. - Crederei meglio - diss'egli - il fermar la commedia che il lasciar seguire quello scandalo pericoloso.Non potei trattenere le risa a questa riferta. - Veramente - diss'io - il Gratarol ha degli obblighi grandi verso quella povera donna. Ella volle cadere da una

scala e volle soffrire delle ingiurie dal pubblico a di lui riguardo. Avete fatto bene a fermare una commedia che doveva cader negli abissi la prima sera.Seppi tuttavia che il Sacchi fece chiedere per timore al cavaliere accennato seera comando del tribunale o consiglio privato, di replicare quell'opera, e che per grazia del Cielo gli fu data risposta ch'era puro consiglio privato. L'uomo giusto non potrà mai negare che la cieca credenza prestata ad un'attrice, la incautela delle mosse, la serie delle iraconde stravaganze del cervello riscaldato del Gratarol non abbiano posto in mano delle armi a' suoi troppo ingiusti nimici, aguzzata una sozza protetta comica venalità e irritati de' tribunali col suo non meno che col mio pregiudizio.Seguiti tutti i sopraddetti accidenti, mi sono incontrato faccia a faccia col Gratarol a Venezia ed a Padova infinite volte, desideroso della di lui cordialità. Non celo il suo valore. Egli ha obbedito alla sua non guaribile alterigia tenendo

 il cappello inchiodato sulla gabbia de' suoi farfalloni, ed io ho obbedito al consiglio del senatore di non essere il primo a salutarlo, senza aver sopra ciò pretensione alcuna, ma non senza sentire il ribrezzo ch'egli non sentiva, d'usare un'increanza. S'egli m'avesse detta un'ingiuria sguainando la spada, averei inteso ch'egli pretendeva che la sua ritrattazione non fosse valida. Una pretendenteinurbana albagia in lui non poteva risvegliare in me questa idea. Chi doveva immaginarsi ch'egli disegnasse di andare a Stockolm per ivi ingiuriarmi e per ivi sguainare la spada contro me che sono a Venezia? Dal canto mio, salvo un consiglio ch'io doveva rispettare come un comando, ero alienissimo dal guardare quel povero oppresso dal proprio temperamento e da' suoi troppo crudeli nimici, con guardo di nimicizia. Si leggeranno in queste Memorie delle prove ingenue di questa verità.CAPITOLO XLIII.Caso tragico di lieto fine.In questo frattempo mio fratelle Gasparo, reso spossato e infermo dallo studio e da' pensieri molesti, era passato a Padova per proccurarsi della salute dalla virtù de' medici di quella celebre università. Quel fratello che quantunque da me diviso di abitazione e di patrimonio tenni sempre per amico e maestro, cadeva d'unmale in altro male con tutta l'assistenza dell'arte medica più raffinata, e le notizie del di lui pessimo stato m'affliggevano.Una mattina un gondoliere della dama protettrice della mia troppo nota commediami recò una lettera ch'ella aveva ricevuta da Padova, del professore di botanica Giovanni Marsili, e mi recò un viglietto della dama medesima. Il viglietto conteneva una premurosa chiamata di me da lei. La lettera conteneva cosa assai maggiore. Ella dava il funesto ragguaglio a quella signora che il povero mio fratello, no

n si sapeva se per nere immagini ipocon-drìache o per il furore d'una febbre ardente da cui era stato assalito, acceso nella fantasia s'era scagliato da una finestra nel fiume Brenta, che aveva percosso col petto in un macigno, ch'egli era st

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ato ricuperato dall'acqua, ma che aveva perduta là favella, sputava continuo sangue e che, immerso in un letargo insuperabile e abbattuto da una febbre mortale, gli restava poco tempo di vita.Con tutta la mia filosofica costanza, alla lettura di quel foglio il dolore mi trasse quasi di me medesimo, e corsi velocemente mezzo balordo dalla dama. Io che fui sempre acerrimo condannatore de' capricci, delle bizzarie, delle imprudenze, delle ingiustizie, della testa leggera di quella donna; io che niente ho mai r

icercato dalla di lei protezione; io che pochi mesi prima dalla leggerezza e cattiveria del suo cervello muliebre vendicativo contro il Gratarol, con un inonesto raggiro e studio di baratti di parti in una mia commedia, in concerto con un comico, d'apparecchi di vestiario, di acconciature, di gesticolazione, di disseminazioni, ero stato posto al cimento di precipitare innocentemente, e che dovevaabborrirla; sono giusto e devo separare il guasto del capo dalla sensibilità del cuore di quella femmina. Se sono giusto, io che non ho avuto da lei che del male, molto più giusti dovrebbero essere que' molti che riceverono de' benefizi dal suo cuore sensibile. Presento un picciolo quadro, agli animi ben fatti, di quella signora.Giunto io nella sua stanza la trovai sopra un sofà immersa in un pianto dirotto. Appena mi vide, si levò e volò a precipitarsi nelle mie braccia mezzo svenuta. Quando

 potè favellare, altro non potè dirmi se non che interrotta da' singulti: - Caro amico, andate a Padova, ricuperatemi mio padre, ricuperatemi mio padre! - Ricadde nel suo sofà spargendo un fiume di lagrime. Quantunque avessi bisogno d'esser confortato, m'ingegnai a confortare quella desolata signora, promettendole di partire immediatamente e lusingandola colla mia debile lusinga che il male di mio fratello non sarebbe invincibile come si ragguagliava nella lettera.Non narrerò niente del mio viaggio veloce da me fatto per Padova. M'incontrai a Fusina nel conte Carlo di Coloredo, il quale con somma dolcezza mi chiese se vi fosse niente di nuovo a Venezia. Credo d'aver risposto - Nulla - sgraziatamente, salendo in un legno e partendo. La tetra immagine di trovare il mio povero fratello estinto, immagine che prendeva vigore crudelmente a misura ch'io m'appressava alle mura di Padova, mi tenne occupato per modo che non vidi né acqua né terra né alberi né bestie né persone in quel viaggio.

Giunto in Padova, entrai nella solita cordiale abitazione dell'amico mio signorInnocenzio Massimo. Fui accolto co' modi consueti di trasporto. Vedeva della mestizia negli occhi di tutta quella famiglia. Trepidava a chiedere notizia di miofratello, temendo d'udire le fatali parole che egli era morto. Finalmente chiesi ragguaglio. Mi si rispose ch'egli era ancora vivo, ma in vero non molto lontano dalla morte.Il caso di quell'infelice era l'argomento de' discorsi di tutta quella città. Si raccontava con parecchie alterazioni. L'amico Massimo me lo narrò colle vere circostanze. Nella mia afflizione egli mi confortava con tutti i buoni riflessi e tutte le sincere esibizioni della liberalità d'un vero amico.Col cuore lacerato passai all'abitazione dell'infermo, ch'era nel Prato della Valle. Ivi trovai madama Giovanna Sarà Cenet francese, donna di circa cinquantacinqu'anni, pelle ed ossa, affaticatissima all'assistenza indefessa dell'ammalato e mezza ammazzata dal dolore, dal pianto e dalle veglie. Ella mi rese conto dello stato di mio fratello. Egli era un cadavere che ancora respirava, con una violenta febbre continua. Non favellava, non prendeva alcun nutrimento e non inghiottiva che qualche sorso d'acqua. I sputi di sangue abbondanti erano cessati e ridotti una tintura sanguigna.Chiesi chi fosse il medico: mi si rispose che i medici erano quattro. Senza sprezzare la virtù di quelli, il numero mi fece spavento. Mi si disse che in aggiuntaera stato anche ad una consultazione il quinto medico, celebre professore DallaBona, il quale aveva dati alcuni suggerimenti di medicine, ma che i quattro altri medici li avevano considerati frivolezze e che non se n'era eseguito nessuno.- Buono! - diss'io. Mi fu riferto che l'ammalato udendo la mia voce fuori dallasua stanza aveva aperti alquanto gli occhi, pronunziando con voce debile queste

uniche parole: - Mio fratello Carlo.Passai al suo letto. Proccurai di animarlo. Sprofondato egli nel suo letargo non mi rispose mai. Scòrsi però nella sua faccia dileguarsi qualche scintilla della sua

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 profonda tristezza. Uno de' quattro medici si vantava d'averlo ricuperato allor quando fu tratto dal fiume, co' suoi pronti non so quali sperimenti suggeriti e prescritti dal magistrato sopra la sanità per la risurrezione degli annegati. Locercai per rimunerarlo con alcuni zecchini. Trovai quel zelante dottore con de'testimoni da lui radunati, affaccendatissimo ad estendere un memoriale zelante da presentare al grave magistrato sopra la sanità, onde fosse intesa la sua zelante attenzione nell'usare i suggerimenti prescritti sopra la persona del conte Gasp

aro Gozzi, tratto dal fiume annegato e dal di lui zelo prodigiosamente risuscitato, chiedendo infine zelantemente la medaglia d'oro di quattro zecchini, premiodestinato dal Principe a' zelanti esecutori degli esperimenti.Egli volle narrarmi il caso, i suoi meriti e leggermi anche il suo eloquente zelante memoriale. Lo pregai a tacere e a non leggermi cose che rinforzassero nella mia fantasia anche di troppo amareggiata immagini funeste. Gli posi in mano quegli alcuni zecchini che gli aveva destinati, ringraziandolo partendo e lasciandolo occupato co' suoi testimoni a formare il suo zelante memoriale. Mi fu detto che lo aveva anche presentato e che aveva espugnata la medaglia da' quattro zecchini zelantemente, ed io scusai la necessità della dottrina zelante e povera.Mio fratello scorse alcuni giorni e alcune notti né vivo né morto, nel suo letargo e nella sua febbre infuocata, senza prendere nutrimento. La sollecita affannata m

adama Cenet schiavandogli i denti a forza, s'ingegnava a cacciargli di quando in quando nella bocca alcune pallottoline di butirro con un cucchiaiuzzo da caffè. Questo era tutto il cibo ch'egli lambendo inghiottiva senza avvedersi.1 quattro medici venivano gentilmente due volte al giorno a visitarlo, perocché avevano tutti caldissime raccomandazioni dalle lettere della dama accennata. Osservavano le orine, esaminavano gli sputi dell'infermo, gli toccavanoil polso, assicuravano ch'egli aveva una febbre micidiale e si stringevano nelle spalle partendo.Oltre al peso de' pensieri afflittivi, delle fatiche, de' passi, del bollore della stagione, aveva l'altro quotidiano di leggere lunghissime lettere di Veneziae di dover rispondere lungamente alla dama tenera per la vita di mio fratello, all'umanissimo signor Davide Marchesini secretario de' riformatori di Padova e ad altri. Al magistrato de' riformatori aveva mio fratello un uffizio d'ispezione

per cui la munificenza del Principe gli contribuiva non so se sette o ottocentoducati annuali.Mi vidi giugnere una lettera efficacissima dalla dama sopraddetta, la quale mi ragguagliava essersi suscitati molti concorrenti alla carica di mio fratello, e che sulla notizia sparsa della inevitabile di lui morte correvano de' caldi maneggi e bucheramenti per la elezione a quell'uffizio. Ella mi suggeriva, in accordo col cavaliere di lei consorte che presiedeva a quella magistratura, di spedireun sollecito memoriale supplichevole, chiedente d'essere io eletto in sostituzione al fratello. M'assicurava che tutti i concorrenti si sarebbero ritirati e ch'io sarei l'eletto. Questa lettera, in iscambio di sollevare l'animo mio, accrebbe le mie amarezze.Risposi a quella signora ch'io la ringraziava de' suoi consigli e delle sue generose promesse; ch'ella doveva conoscere il mio istinto e risovvenirsi che m'aveva alcun anno prima stimolato con fervore a concorrere all'incarco grandioso, nobile e fertile di mastro della posta di Vienna che allora era vacante, promettendo il sostegno della mia concorrenza con tutte le valide protezioni de' suoi aderenti e di quella del possente cavaliere di lei consorte, e che senza mancare dirispetto e di riconoscenza verso a' suoi stimoli liberali, aveva io con fermezza ricusate le sue grazie; ch'io ero stato indefesso sempre a proccurare del benea tutta la mia famiglia, ma che non aveva voluto giammai caricare gli omeri miei aspirando a cariche di lucro dipendenti da pesi di soggezione e di responsabilità; ch'io non era di temperamento da soffrire altre catene che le mie volontarie;ch'io non aveva né moglie né figli, né brama di grandeggiare né di adulazioni né di inchini né d'esser ricco, e ch'era contentissimo del mio tenue stato unito alla mia libertà; che il detto di Seneca "Tutto possiede chi del nulla è pago"' non era in vero c

ombinabile co' bisogni indispensabili dell'umanità, ma che riflettendo alla verità che conteneva il detto di quel gran filosofo, aveva ridotto il mio cervello ad essere moderato e contento non dirò del nulla, ma del poco e della frugalità; che per

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la ricupera di mio fratello averei volentieri dato sino alla camicia; ch' io ero riverente e buon suddito del mio principe, ma che morirei piuttosto di addossarmi la catena degli affari d'una grave magistratura circuita da' raggiri, dominata dalle private passioni, schermendomi perpetuamente da' lacci degl'insidiatori, studiando caratteri di giudici spesso cambiati, spesso tra loro discordi, sottomettendomi a delle immense fatiche con frequenza rimproverate a torto e sfortunate frequentemente; le quali cose credeva io che avessero molto contribuito allo

stato infelice in cui si trovava il mio infelice fratello. Terminava la mia risposta con quel sentimento di Francesco Berni, riguardo all'indole mia:  Voleva far da sé, non comandato.Una nuova lettera di quella dama mi trattava da eroe romanzesco. Mi stimolava con le punture a spedir tosto il mio memoriale di supplicazione per essere elettosostituto al fratello, assicurandomi che sarei rimasto al possesso di quella lucrosa ispezione s'egli mancasse di vita. M'adduceva che i molti desiderosi di quell'uffizio sollecitavano con de' forti maneggi la elezione d'un sostituto per entrare nel possesso di quello. Terminava la lettera facendo a me un debito di coscienza il dover non rifiutare un onorario che serviva di soccorso alla famigliadi mio fratello.La chiusa di quella lettera mi fece conoscere con qualche fastidio che la dama e

ra pressata a consigliarmi più da quella famiglia che l'adulava che dalla sua premura, e risvegliò i miei riflessi da osservatore sulla umanità. - Come! - diss'io tra me. - Noi siamo quattro fratelli divisi da trenta e più anni, e ognuno conosce il proprio patrimonio. Mio fratello Gasparo ebbe il suo partaggio per quelle legali divisioni. La eredità non indifferente per parte della nostra madre, per una predilezione, cadde nella famiglia del fratello Gasparo. Non basta che per più di trent'anni io mi sia discervellato e consunto in litigi per preservazione ed accrescimento del di lui patrimonio, ch'io m'abbia addossato il peso di riscuotere con mille stenti ciò che fu destinato a' comuni aggravi annuali e ad estinzione de' debiti trovati, ch'io abbia supplito per il corso di più di trent'anni e suppliscaancora con somma pena ad ogni cosa per tener lontani i disordini: si pretende in aggiunta che per debito di coscienza crepi sotto al peso degli affari d'una magistratura per corrispondere l'onorario alla famiglia di quel fratello, né potrò nemm

eno avere il libero arbitrio di rifiutare una catena che posso non volere e nonvoglio?Ammorzato possibilmente il calore che la mia umanità cominciava a risentire, risposi con la dovuta civiltà alla dama ch'io non provava alcun rimordimento della coscienza a non aspirare a ciò ch'io non meritava e non voleva; che se alcuno si prendesse la libertà di presentare memoriali per conto mio senza mio consentimento, sarei forzato con dispiacere a notare un dissenso (sia detto tra due parentesi: sapeva benissimo che la moglie di mio fratello era capace di macchinare questa poetica impresa); ch'io era a Padova disposto a dare il sangue per ricattare dalla morte l'amato mio fratello; che se per favore di Dio egli rimanesse in vita, credeva clemente abbastanza il magistrato per non privarlo d'una carica sostenuta da lui per tanti anni con un servigio indefesso; che s'egli mancasse di vita con mio dolore, egli non avrebbe avuto più bisogno di quell'uffizio, e che quel tribunale l'avrebbe potuto disporre per una persona più di me capace ed opportuna. Sperai con questa risoluta risposta d'essermi sollevato da una generosa molestia, e sperai invano.Comparve a Padova iì dottore Bartolommeo Bevilacqua rettore delle pubbliche scuole di Venezia, mio amico, spedito in poste dalla dama perch'egli mi persuadesse afare il passo consigliato e mi guarisse da ciò ch'ella giudicava follia. Risposi a questo amico con mirabile ostinazione prima le cose medesime che aveva scrittoalla signora, poscia altamente che non voleva impegni di servire a magistraturee che intendeva di rimanere un irremovibile pacifico matto. Per tal modo mi difesi e liberai finalmente da quella ostinata liberale protezione ch'io non voleva.Saprò condannare da me medesimo nella pittura ch'io darò del mio carattere e del mio temperamento, le renitenze ch'io ebbi sempre di farmi schiavo de' Grandi e dell

'interesse, e addurrò le ragioni della mia condanna. Ma abbiamo tutti qualche difetto non sbarbicabile da' nostri istinti. Tra le angustie, i pensieri, le afflizioni, le fatiche e il bollore della stagione, non potei difendermi dall'assalto d

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'una gagliarda febbre che mi sorprese e mi tenne obbligato a letto tre giorni. Bene per me ch'ella non fu che un'effimera e che potei nuovamente recarmi alla vigilanza sulla vita di mio fratello.Le notizie ch'io ebbi in que' tre giorni ch'io non potei visitarlo furono sempre maggiormente infelici. Quando fui in grado di andare a lui, trovai madama Cenet immersa nel pianto. Ella mi riferì che l'ammalato era ne' suoi ultimi momenti della vita coll'assistenza d'un sacerdote; che due de' medici visitatori esaminando

 la tazza degli sputi e trovandoli schietta marcia, avevano deciso esser già la contusione per la percossa avuta nel petto nella caduta ridotta cancrena stabilita, e ch'egli averebbe vissuto pochi momenti.Chiesi addoloratissimo se fosse mai stato il professore Dalla Bona dopo il consulto e dopo i di lui suggerimenti. Madama mi rispose di no. Vidi quel soggetto celebre passeggiare nel Prato della Valle e corsi a pregarlo di voler venire a dare un'occhiata al giudicato spirante. Si mostrò prontissimo gentilmente. Via facendo gli narrai la scoperta de' due medici e la loro funesta sentenza. Mi duole didover mescere con questa tragica narrazione, delle facezie comiche e di comparire satirico senza colpa. Quell'eccellente professore fu lungamente attento sullarespirazione dell'infermo e disse poscia: - Qui abbiamo il respiro bensì debile ma libero; dunque la sentenza della cancrena è sentenza ridicola. Dov'è questa marcia

sputata?- diss'egli. Gli fu recata la tazza degli sputi, ch'egli esaminò minutamente, dicendo infine: - Questa non è altrimenti marcia, ma è butirro.Difatto era di quel butirro che la madama assistente cacciava a forza nella bocca dell'ammalato per dargli qualche nutrimento e ch'egli sputando talora rimandava nella tazza. - Quest'uomo - seguì il professore - non perisce per altro male che per quello d'una febbre acuta che l'uccide. Gli fu fatta bere - aggiunse - quell'acqua lunga con entro della manna e gli furono posti que' frequenti serviziali di china, come aveva suggerito io nel consulto tenuto? - Non signore - risposemadama Cenet, - perché gli altri medici non ordinarono niente di ciò.- Bella ! - diss'egli. - A che dunque mi vollero ad un consulto? Veramente non sono avvezzo a far la figura d'un Truffaldino. - Rivolto a me aggiunse: - Il di lei fratello è appeso a un solo filo di vita. Io non posso prometterle nulla nella

estrema spossatezza in cui si è lasciato precipitare. Benché a caso disperato, si tentino le cose da me suggerite, con sollecitudine e con frequenza. Lo pregai a non abbandonare l'ammalato. Mi promise le sue visite diligenti. Con l'uso de' suoi ricordi a' quali invigilai, la febbre divenne più mite. Mio fratello cominciò ad aprire gli occhi, a dire qualche parola. Potè prendere qualche oncia di maggior nutrimento e qualche dramma di china mascherata per bocca. La sua infermità fece una crisi crudele. Fu coperto dall'esofago sino al fondo del tubo intestinale da unaserie di certe ulcere che i medici chiamano afte. Il professore assistente confessò che quella era una crisi, ma una crisi che poteva essere micidiale. Tuttavia,fosse effetto di qualche rimasuglio di vigore della natura o effetto de' rimediordinati dal professore, vidi in pochi giorni mio fratello rinforzato, sedere sul letto libero di febbre, barzellettare col medico; indi tra pochi altri giorniuscire dal letto, mangiare con buon appetito, comporre de' sonetti e rientrare in quella sanità di cui una macchina diroccata dalle applicazioni, dalle sventure,dall'età avanzata e da una mortale infermità era capace.Fu anche in quella mia penosa permanenza in Padova che m'incontrai molte fiate nel Gratarol. Io desideroso della sua amicizia e di disingannarlo del suo errore, egli ostinato nell'inganno suo e nel suo ingiusto livore. I nostri cappelli rimasero saldi: il suo per una mal impiegata alterigia, il mio per i consigli del senatore.Lasciai mio fratello a Padova ben raccomandato, ben provveduto, onde potesse rimettersi affatto o almeno in grado di poter venire senza disagio a Venezia a' dilui doveri verso la magistratura de' riformatori. Ringraziai il professore Dalla Bona col cuore, prima del mio partire. Volli porre un gruppetto di zecchini nella di lui mano benefica. Non devo tacere la generosità di quel gran-d'uomo. Furono

 vane tutte le mie ostinate insistenze per obbligarlo a ricevere il picciolo tributo, adducendo egli ch'era assai rimunerato dalla consolazione di veder involato alla morte un suo buon amico e che aveva troppe obbligazioni verso la dama sop

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ra accennata, che glielo aveva raccomandato con delle efficaci lettere, per nonvolere altri premii.Abbracciato l'amico Massimo da cui aveva ricevuti tutti i tratti cordiali dell'amicizia, partii da Padova trionfante d'aver ricuperato il fratello dalla morte e posto in grado di poter in breve agire nel magistrato a cui obbediva, colla contentezza di non essere più assediato perch'io chiedessi sostituzione a un uffizioch'io non voleva, e colla compiacenza di vedere i molti concorrenti a quella car

ica mortificati che mio fratello non fosse morto.CAPITOLO XLIV.Ancora delle Droghe d'amore contro la mia aspettazione. Verità sulle quali il giudizio de' lettori è da me lasciato libero.[Il Sacchi volle rappresentare anche a Milano le Droghe d'amore con nuovo pregiudizio al Gratarol, perché questi fu accusato di un'azione violenta contro il comico Giovanni Vitalba. Essendo giunto a Venezia il mio fratello Gasparo in sanità sufficiente, lo pregai che placasse la dama nimicissima del Gratarol. Abbia fine un livore che fa vergogna non meno al Gratarol che a me e anche a lei. La dama e il suo potente marito risposero con un mescuglio di mire politiche ed economichee d'aneddoti e processi sulla condotta del Gratarol. Intanto si sparse la voce che il Gratarol, irritato dalle difficoltà trovate nel Senato sulla sua commissione

 di residente a Napoli e sopra alcune somme che chiedeva per corredarsi, era fuggito dallo Stato. Questa fuga mal consigliata e precipitosa m'ha fatto ripensare ai danni dello smodato amor proprio e della "galanteria", e m'ha fatto riflettere che se quell'uomo, col suo buon intelletto, colla sua pronta facondia, la sua attività e la sua onoratezza, fosse andato soggetto a febbri, emicranie, coliche, emorroidi che lo ammansassero di quando in quando, sarebbe riuscito un fortunato ed abile ministro.La Ricci, mezza inferma e non so con qual animo, era passata a Parigi; e provaicompassione anche per lei. Chiesi al Sacchi la restituzione del mio originale edi tutte le copie delle Droghe d'amore in cambio di due drammi nuovi, Il metafisico e Bianca contessa di Melfi, che, esposti al pubblico in Venezia, mi confermarono col loro buon successo ch' io godeva la grazia universale della mia patria].

Avviso di Carlo Gozzi a' benevoli ed a' malevoli lettori delle Memorie della dilui vita. [Questo secondo tomo è trovato dallo stampatore Palese tanto maggiore del primo ch'egli mi prega di trasportare alcuni capitoli della parte seconda nelterzo tomo, ed io non fui mai scompiacente. Nella prefazione che porrò al terzo tomo dirò qualche cosa più ch'io non dico in questo avviso].CARLO GOZZI alle sue Memorie.Dilette Memorie mie, se voglio dar retta a ciò che vedo succedere, non ho preso un granchio a intitolarvi Memorie inutili. Voi non contenete che delle verità opponenti a delle menzogne, e v'è chi vuole verità la menzogna e menzogna la verità con unaforza alla quale non potete né dovete apparvi.[Contro voi, Memorie care, è stato scritto questo periodo in una relazione per "riabilitare" la memoria d'un esule sfortunato defunto: "Le furie persecutrici d'una donna orgogliosa, il talento e la passione d'un autore assai celebre lo resero, con orrore de' buoni, oggetto di scherno e di ludibrio comune su di una scenaprostituita per opera d'un mimo vile ed infame". Ha frenato le mie risa il leggere sopra a quel periodo queste due parole: "Widiman relatore". Ma il Widiman non è capace di volere una macchia al mio buon nome, e si tratta d'una soper-chieriadei fanatici "amici meridionali" del compianto Gratarol. A mia difesa stamperò qui la Lettera confutatoria, che avevo scritta sin dal giorno 25 ottobre 1780 e che pensavo di lasciare inedita. Mi crederei fortunato se riuscissi a raddrizzare gli sbilanciati cervelli che vorrebbero capovolgere la intera mappa mondiale. E voi, Memorie, state sicure che i giusti saggi vi leggeranno. Noi perdoniamo a tutti, e canterelliamo sul chitarrino l'ottava di Antonio Alamanni: Mentr'io mi stava solo e scioperato | Aspettando alla ragna i beccafichi, | La cagion del lor nome ho ritrovato | Esser solo il beccar che fan de' fichi. | Noi che li becchiam

 lor quand'han beccato, | Possiam chiamarci beccabecca-fichi. | Or se chi becca èribeccato poi, | Guardiani che un altro non ribecchi noi].Lettera confutatoria da me scritta i'anno 1780 e indirizzata a Pietro Antonio Gr

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atarol a Stockholm.Opuscolo della Parte Seconda riportato nella Parte Terza.Signor Pietro Antonio commiserabile,Venezia, 25 ottobre 1780.Leggendo la vostra Narrazione apologetica, non mi sono già maravigliato né incollerito, ma estremamente seccato.[Certo a voi furono usate ingiustizie dai vostri oppressori, nemici, ma il vostr

o peggior nemico siete voi col vostro orgoglio. Giovanni Cavalli, lo Stainer e tant'altre persone vilipese nel vostro collerico volume e molto meno la mia commedia vi dovevano indurre ad abbandonare quella che chiamate "madama Santina", e che fu la moglie vostra. Voi gridate: "Sì, pubblicamente amai moltissimo e spettacoli e giuochi e conviti e mode e bel sesso"; e non v'accorgete d'esser un poverolibero muratore sofista dicervellato. Altro v'insegnava l'amico mio e precettore vostro Natale dalle Laste. Né dovevate sfogarvi biliosamente contro i Grandi quand'eravate a Venezia bramoso d'uffizi.È vostra bugia lo stampare ch'io sono "nativo od oriundo di una terra del Friuli", perché la mia famiglia, per un privilegio firmato dal doge Cicogna, è originaria veneta cittadina. Altra bugia, ch'io fossi "un tempo gesuita", e ch'io pretenda di passare per un Tommaso da Kempis, o per un Catone austero. Tutte bugie quelle c

he dite intorno all'origine e alla presentazione e alle vicende delle Droghe d'amore. Furono i vostri pessimi principi, i vostri vizi, i vostri passi falsi quelli che vi ridussero spettacolo al popolo in un teatro. Tutto ciò nelle mie Memorie inutili è narrato e documentato; risulta perfino dalle vostre parole; e rimangono le testimonianze di onorati uomini come Giovanni Zon, Francesco Agazi, Carlo Maffei, Paolo Balbi, Raffaele Todeschini e il vostro stesso zio Francesco Contarini.Ipocrita non sono io, ma voi, membro d' una setta d' occulta istituzione, e corteggiatore delle dame da cui speravate aiuti per salire in cariche e onori].V'è una setta che per universale parere è setta d'occulta fissata istituzione di progetti esecrandi sulla augusta religione, sulla armonia delle subordinazioni conformata nell'universo, progetti tenuti nel buio da orribili giuramenti e progetti ch'io non dirò; e nondimeno cotesta setta sostiene un esterno di affabilità, si pre

dica una società d'indifferente saporito divertimento e si predica amica, consorella ed amante di tutto il genere umano. Ipocrisia infernale di terribile conseguenza.Vi ricordo che vi vantaste pubblicamente membro considerabile seguace d'una talsetta; ch'io non fui, non sono, non sarò mai seguace d'alcuna setta rivoltosa, e che non mi studio di tener celato il mio interno giammai, perché veramente non sono ipocrita.[Quando sentirete rinascere in voi la stima verso san Paolo, e nascere in voi l'abborrimento per Epicuro, sarà segno della guarigione del vostro cervello. Desidero cordialmente di sentire verificata la vostra pag. 82: "Cercherò in altro cielo l'antico onore e nuova pace e fortuna"; ed esulterò se mi verrà notizia che siete salito ad essere imperatore del Mogol].Non so nascondervi tuttavia che riflettendo all'indole vostra arrischiata, presuntuosa, ostinata, imprudente e superba, temo con mio dolore che vogliate terminare i giorni vostri come il Rodomonte dell'Ariosto:Bestemmiando fuggì l'alma sdegnosa, Che fu si altera al mondo e sì orgogliosa. A dispetto vostro io voglio essere Di voi, signor Pietro Antonioil migliore de' vostri "amici meridionali" CARLO GOZZI.CAPITOLO XLV.Mio esterno.Ho sparsa qua e là in queste mie inutili Memorie la promessa di dare un'idea puntuale del mio esterno, del mio interno e de' miei amori, ed è dovere ch' io adempisca a una parola che ho data. La mia statura è grande; e m'avvedo di questa grandezza dal molto panno che occorre ne' miei tabarri e da' parecchi colpi ch'io do col

la testa nell'entrare in qualche stanza che abbia l'uscio non molto alto. Ho lafortuna di non essere né scrignuto né zoppo né cieco né guercio. Dico ho la fortuna, tuttoché se anche avessi l'uno o l'altro o tutti questi difetti, li porterei con quel

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la stessa ilarità di spirito in Venezia, con la quale Scarron ha portate le sue imperfezioni a Parigi.Questo è quanto credo di sapere e di poter dire della mia macchina, avendo lasciata sino dalla mia giovinezza la briga alle femmine di dirmi bello per lusingarmie di dirmi brutto per farmi rabbia, senza che vincessero mai né l'una cosa né l'altra.Escluso sempre il sudicio da me abborrito, s'ebbi in dosso qualche vestito di ta

glio moderno, fu per opera del sartore e non mai della mia ordinazione. Chiedete a Giuseppe Fornace mio sarto infedele da più di quarant'anni, se gli ho mai seccati i testicoli, come fanno moltissimi su questo proposito. L'acconciatura de' miei capelli dall'anno 1735 all'anno 1780, in cui scrivo, fu sempre della forma medesima con una costanza eroica, né per forse cento simmetrie cambiate dal deliriodel detto buon gusto e della moda non creduta farfalla, avvenute da quell'anno a questo nelle pettinature, non volli giammai sviato un pelo dalla mia solita pettinatura. Non ho mai cambiato modello di fibbie alle scarpe sino a tanto che spezzate le prime fibbie dovei cambiarle per necessità, e se nel cambio ci fu qualche differenza di modello dal quadro all'ovale, lo fu per consiglio dell'orefice, che mi fece prendere le più leggere perché si rompessero più presto e che avessero più laboriosa fattura per guadagnare di pili.

I poco parlatori e assai pensatori, come verbigrazia son io, occupati ne' moltiloro pensieri, prendono il vizio di incrocicchiare le ciglia per maturarli, il che dà loro un'aria brusca, severa e presso che truce. Bench'io abbia l'animo sempre allegro, come si può rilevare da' scritti miei, gl' infiniti pensieri ch'empierono sempre la mia testa in burrasca, o per gl'imbrogli della mia famiglia, o perriflettere alle ragioni delle mie liti nel fòro, o per riparare a qualche disordine, o per architettare una mia composizione poetica o qualche prosa, mi fecero cadere nel vizio del corrugare la fronte, dell'aggrottare e incrocicchiare le ciglia, per modo che, unito questo vizio al mio passo lento, alla mia taciturnità e al mio cercare passeggi solitari, mi fece giudicare da tutti quelli che non m'ebbero in pratica un uomo serio, burbero, impraticabile e forse anche cattivo. Molti che m'hanno còlto occupato in qualcheduno de' miei molti pensieri colle ciglia brusche incrocicchiate e lo sguardo oscuro, guardandomi sott'occhio, avranno credu

to ch'io pensassi ad uccidere qualche nimico, quando pensava a comporre L'augelbelverde. Ne' crocchi di persone per me nuove comparvi sempre assonnato, stupido e muto, sino a che non giunsi a conoscere i caratteri e i pensari di coloro che formavano quelle adunanze. Studiati i caratteri e i modi di raziocinare di quelle, non fui più né sonniferoso né muto né stupido. Non posso tuttavia assicurare di nonessere stato uno sciocco. Tutte le mie sciocchezze però saranno state laconismi, che annoiano meno le società de' fioriti discorsi eterni.Ho dato un picciolo abbozzo del mio esterno; mi concentro ora per dare un altroschizzo veridico del mio interno.CAPITOLO XLVI.Mio interno.Non fui avaro perch'ebbi sempre a schifo il peccato dell'avarizia, e non fui prodigo forse soltanto perché non fui ricco. Se fossi stato opulente, non posso render conto delle idee che avrebbe potuto risvegliare e degli effetti che avrebbe potuto cagionare la ricchezza sulla mia umanità, stolida al pari di quella di tuttigli uomini e di tutte le femmine. Averei potuto trarre qualche utilità pecuniariadal diluvio de' scritti miei, ma gli ho donati ognora a' comici, a' librai o a coloro che facendoli uscire dalle stampe al pubblico hanno sperato di far quel guadagno ch'io sempre ricusai di proccurare per me. Se qualcheduno fosse eretico su questo punto, lo lascerei nella sua miscredenza senza affaticarmi a convincerlo.Alcuni a' quali era noto ch'io non era ricco mi rimproverarono di quest'azione.Giudicavano per avventura ch'ella fosse una liberalità vanagloriosa, inopportuna esciocca. Il mio interno era un giudice avverso al giudizio de' rimproveratori, e rendo una ragione che forse è un torto. I miei scritti, sempre liberi, sempre fra

nchi, sempre pungenti, sempre satirici sul costume universale, benché morali ed espressi in un modo faceto, non prezzolati, avevano il vantaggio d'un certo decoro che gli faceva soffrire, godere e applaudire nella lor verità. Prezzolati, sarebb

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ero facilmente decaduti da un tal decoroso vantaggio e degenerati, nelle opinioni e sulle lingue de' miei contrari, in una insoffribile mercenaria maldicenza che m'avrebbe forse fatto odioso universalmente.Oltre a ciò non v'è il peggiore avvilimento in Italia per i scrittori di quello dello scrivere prezzolato per i nostri librai e Io scrivere prezzolati per i teatride' nostri miserabili comici. I primi ostentano di usare una carità agli scrittori a far stampare l'opere loro, indi rimbrottano gli scrittori d'aver sacrificati

i loro danari nel farle uscire dalle stampe. Le battezzano sassi inutili nelle loro sconcerie; e una pidocchieria che contribuiscono a uno scrittore per un'opera, sopra cui egli averà stillate tre quarte parti del suo cervello, è da loro donata come s'ella fosse un'elemosina e con un maggior sforzo che non la darebbero per le anime de' defunti, le quali non hanno più bisogno di vestirsi per non tremaredi freddo né di mangiare per non morire di fame.Apollo guardi un poeta dal ridursi a scrivere prezzolato per una truppa de' nostri comici. Non v'è forzato alla galera più schiavo di lui, non v'è facchino che portiil peso ch'egli porta e non v'è asino che soffra maggiori punzecchiate e villaniegrossolane di lui, se la sua drammatica non ha fatto divenire fanatico un popolo ad affollare un teatro.Per queste ragioni nelle molte angustie nelle quali mi sono trovato per la mia f

amiglia, spezialmente nel labirinto de' costosi litigi, l'interno mio s'è indottopiù volentieri a ricevere a prestanza alcuni centinaia di ducati da' miei amici, che cordialmente me li offerirono e che onoratamente ho restituiti rimanendo coldolce peso d'un debito di gratitudine, piuttosto che immergermi nelle pozzanghere a razzolare alquanti lordi e puzzolenti zecchini rimanendo col peso d'un vergognoso avvilimento. Se nemmeno il mio affratellarmi ed il mio donare a' comici per venticinqu'anni tante opere sceniche da me scritte con tanta loro utilità potè salvarmi dalle ingratitudini e dalle fastidiose vicende che si leggono nelle Memorie della mia vita, che sarebbe stato di me se fossi stato con essi un poeta prezzolato?Nell'Italia mancano i nobili mecenati che proteggano i scrittori e i teatri; e per guarire quegli uomini che per avventura giudicano inetta boria questo tal mio donare a queste tali persone per questi tali riguardi, per non avere questo tal

e avvilimento, dichiaro che se ci fossero in Italia de' maggiori di me e mecenati liberali verso a' scrittori, i quali avessero avuta la nobile debolezza di credere in me qualche merito e avessero voluto porgermi de' premii che non m'avvilissero, non sarei stato superbo né increato nel rifiutarli, né averei avuto rossore nel riceverli. Ma perché conosco l'Italia e particolarmente la mia patria in questo proposito, tenni sempre desto l'animo mio perch'egli non sognasse delle fortune sogni.Se per altro la massima che ho tenuta di donare l'opere mie per le ragioni accennate è condannabile, non m'offenderò d'essere condannato, ma ringrazierò sempre quegli amici che co' loro soccorsi m'hanno difeso da un avvilimento mercenario, che avrebbe fatte cadere nelle opinioni di molti maligni le mie satire morali per maldicenze vendute.Sempre costante nel mio naturale risibile, non potè rattristarsi il mio interno nemmeno nello scorgere rovesciata la mia sparsa morale, ch'io credeva sana, dallasottigliezza degl'insidiosi e industri sofismi del secolo, e mi sono anzi divertito moltissimo nel vedere tutti gli uomini e tutte le donne credere in buona fede d'essere divenuti filosofi. L'udir de' parlari di colpo nuovi, tenebrosi, sforzati, raggirati e piantati sopra a delle basi di nebbia, creduti profondi ragionamenti geometrici e filosofici, espressi con de' vocaboli e de' frasari non nostri, servì al mio interno d'un sollazzo indicibile. Il vedere tutte le passioni dell'umanità sguinzagliate agire come agiscono le passioni in libertà, sbucate per opera de' celebri scopritori, come que' diavoli chiusi un tempo da Salomone sotterra per quiete del genere umano in quel gran caldaione descritto da Bonaven-tura Periers, m'ha allettato. Il contemplare donne divenute uomini, uomini divenuti donne, donne ed uomini divenuti scimmie; tutti immersi nello studio delle scoperte

e principalmente nelle invenzioni e ne' cambiamenti delle innumerabili follie della moda; in traccia come bracchetti di sedursi gli uni con l'altre, le altre con gli uni; gareggiare nelle lascivie e nel lusso per rovinarsi e per desolare le

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 loro famiglie a vicenda; ridersi de' Platoni, de' Petrarchi; lasciare la vera sensibilità del cuore inoperosa, credere la brutalità de' sensi, leggiadramente vestita, sensibilità; cambiare la indecenza in decenza; chiamare ipocriti tutti quelliche pensano diversamente ed ardere incensi con filosofica solennità al culto del dio degli orti; furono tutte cose che dovevano presentarsi agli occhi miei in unaspetto di lagrimevole tragedia, e tuttavia non furono mai che una farsa piacevole all'interno mio niente stupefatto e niente ammiratore de' capigiri dell'umani

tà. Lasciando godere a' nostri filosofi d'oggidì le loro belle scoperte sul mondo, mi sono spassato colle scoperte mie nel mio interno sopra a cotesti filosofi d'oggidì.Gli amici miei di stretta amicizia furono pochi, perché dilatando troppo l'amicizia non siamo veri amici di nessuno, ed io fui come il Berni  degli amici amator miracoloso;né tempo né lontananza né qualche sgarbo da me ricevuto hanno cagionato giammai il menomo raffreddamento nelle mie intrinseche amicizie solidissime ancora. Il mio interno s'è acceso in qualche raro momento d'irascibile per de' torti ricevuti, e i flemmatici sono più risoluti in questi tali momenti de' non flemmatici; ma pochi istanti bastarono alla mia riflessione a calmare il mio interno, che non volle giammai soffrire il fastidio di alimentare né livore né desideri di vendette.

Ho un istinto risibile tanto in sui spiriti deboli che credono tutto, quanto sui spiriti forti che ostentano di non creder nulla; ma ho giudicati spiriti più deboli i secondi de' primi, perocché i primi non cagionano né bene né male sull'umanità, e i secondi non fanno che introdurre in essa la mala fede, il sospetto, una sbrigliata voluttà, e che rovesciarla nel disordine, nella confusione e in quelle calamitàche si possono vedere senza porsi gli occhiali sul naso. Con tutte le mie risa scòrsi però nell'uomo con sicurezza un'immensa sublimità e tanto superiore all'essenzade' bruti che non mi sono mai degnato d'avvilirmi a considerarmi né letame né fangoné un porco, come si degnano di considerarsi i spiriti forti.Siccome ad onta d'una interminabile serie di sistemi dannosi, infantati dall'ambizione di molti ingegnosi seduttori intelletti, noi dobbiamo credere con fermezza e sicurezza d'essere infinitamente più nobili e più perfetti ch'essi non vogliono, e sostenere con intrepidezza ed ardire che se noi non possiamo diffinire fondat

amente ciò che siamo, sappiamo almeno con una innegabile sicurezza ciò che non siamo, e che lasciando razzolare nel letame e gruffolare nel fango i spiriti forti galline e porci, dobbiamo ridere e dileggiarli o piangere e commiserarli, ma credere fermamente ciò che ci consigliarono a credere tanti filosofi più saggi e più considerabili de' filosofi galline e porci.Le odierne novità di rovesci che ci dipingono gli Epi-curi onest'uomini, i Senecaimpostori, venerabili filosofi i Volteri, i Russò, gli Elvezi, i Mirabò, eccetera eccetera, che ci dipingono ridicoli e inetti filosofi i benemeriti nostri santi padri, e le altre empie dottrine sparse in questo secolo di voluttuosi fanatici da funi e da catene non seducono il mio interno. Guardo i funesti effetti cagionati sui popoli dalle dottrine dell'ateismo. L'animo mio si rassoda ancor più nella credenza, e sulle sue osservazioni va replicando a pro de' fanatici spiriti forti galline e porci e a pro della ingannata umanità le esemplari e sacre parole di Gesù Cristo crocefisso: Pater, dimitte illis: non enim sciunt quid faciunt. Finalmente l'interno mio tenne sempre viva la sacra immagine dell'augusta nostra religione, né mi curai d'essere considerato da' filosofi d'oggidì addormentato nel da lor detto pregiudizio. Senza diffondermi inutilmente da filosofo moralista decrepitoe non rigenerato a provare il dovere, la necessità e l'utilità de' mortali su questo punto e il vantaggio della politica di chi presiede a' governi del coltivare edel tener viva e fermala credenza e la verità d'una vita immortale sulle popolazioni, mi contenterò di avvilirmi agli sguardi affascinati degli accennati filosofi, confessando che nellemie avversità l'interno mio ha trovati de' gran conforti nella fermezza di questacredenza.Dopo aver data un'idea allo ingrosso delle stravaganze del mio interno passo a n

arrare pubblicamente, ingenuamente, senza la menoma renitenza e a costo del miorossore, le storielle promesse de' miei errori amorosi. Un poco di lascivetto, che contengono queste storielle e che la mia penna fu costretta a trascorrere per

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 dipingere e per dare tre quadri di verità e di natura, farà forse leggere con mio dispiacere più volentieri da alcuni i tre capitoli che contengono le storielle de'miei errori d'amore, di tutti gli altri capitoli contenuti nelle mie inutili Memorie. I lettori morigerati potranno rivolgere tutte le pagine che li rinchiudono e passar oltre colla lettura.CAPITOLO XLVII.Storia del mìo primo amore d'un fine inaspettato.

Per narrare le storielle de' miei amori, mi conviene ritornare all'epoca della mia giovinezza. Dovrei arrossire nell'età in cui sono a narrarle, ma l'ho promessee le narro arrossendo con tutta la sincerità. Siccome sono un uomo, ebbi la simpatia medesima che hanno tutti gli uomini per le femmine. Appena giunsi a comprendere la differenza del sesso, differenza che si comprende assai per tempo, le donne mi parvero una specie di deità terrene. Mi trovava molto più volontieri con una donna che con un uomo. L'educazione però e i princìpi di religione erano in me freni tanto radicati, tanto efficaci, che mi facevano ne' miei freschi anni modesto e rattenuto estremamente, né so dire se queste mie modestia e rattenutezza piacessero a tutte le giovani che ho conosciuto negli anni miei giovanili.Posso giurare d'esser partito dalla casa paterna ne' miei sedici anni d'allora per andar militare nella Dalmazia1, non dirò innocente ne' pensieri, ma innocentiss

imo ne' fatti d'amore. La città di Zara fu lo scoglio in cui perì la fragile mia innocenza; e perché spero di far riderei lettori del mio carattere sul proposito delfar all'amore, e colle storielle de' miei amori, dipingerò il primo e narrerò le seconde.Il mio carattere ebbe sempre della metafisica romanzesca sull'argomento dell'amore.I sensi brutali ebbero ognora minor colpa nelle mie cadute, d'una delicata propensione e della tenerezza del cuore. Aveva un'idea tanto grande e tanto rispettosa sull'onore e sulla virtù delle donne che mi faceva abborrire tutte le faciliad abbandonarsi alle brutalità. Una donna pubblica, chiamata donna da piacere da'sensuali, era agli occhi miei più spaventosa e più schifa dell'orco descritto dal Boiardo. Non ho mai usata l'arte iniqua della seduzione co' discorsi, né mi sono mai presa la più picciola libertà stimolatrice.Languendo ne' soavi sentimenti affettuosi, pretesi in una donna una simpatia e u

na inclinazione eguali a quelle che provava io, e che una caduta dovesse dipendere da uno di que' reciprochi ciechi improvvisi trasporti che affogano la ragione reciprocamente, la cui violenza reciproca non ha più freno. Niente sarebbe statodi più delizioso all'animo mio del contemplare una donna arrossire sbigottita e tener gli occhi bassi alla terra dopo essere caduta per una cieca violenza d'affetto all'abbandono del principale errore amoroso. Averei considerato ch'ella avesse fatto per me il maggiore de' sacrifizi com'è quello dell'onore e della virtù da me tanto considerati. La averei adorata. Mi sarei sviscerato nel rassicurarla, e senza giurarle costanza sarei stato costantissimo dal canto mio nell'amare una cosiffatta amica. Per altro averei sfidati tutti gli uomini della terra a fare undistacco più subitaneo, più fermo, più insuperabile di me, per quanto fosse costato al mio spirito, qualora avessi scientemente scoperta quella donna d'un carattere diverso da quello che aveva immaginato e aveva concepito di lei, rispettando tuttavia a costo della mia vita il di lei onore e la di lei buona fama.Questa mia delicata o strana maniera di pensare sull'amore potè facilmente essereingannata ne' miei freschi anni, ne' quali il sangue bolle, l'amor proprio è più ragionevole nel lusingarsi e il grand'acquisto della esperienza è ancora da farsi. Le storielle de' miei primi amori faranno poco onore al bel sesso; ma prima di narrarle, protesto d'aver sempre considerata in me la sfortuna d'essermi male abbattuto nell'amore, senza lasciar di credere che ci possano essere molte fenici nelle quali non fui degno d'incontrarmi.Superata ch'ebbi la mortale infermità da me sofferta ne' primi giorni del mio arrivo a Zara, infermità avuta e superata in quella squallida stanza da me descritta nella prima parte di queste Memorie, passai ad abitare in uno di quegli alloggi detti "quartieroni", posti sulle belle mura di Zara sopra al mare, fabbricati ad

uso degli uffiziali. Un'ottima camera, che m'addobbai a misura della scarsezza mia pe-cuniaria, e una cucina formavano tutto il mio albergo. Mi faceva servire da un soldato per poco onorario, il quale aveva ordine da me d'andarsene al di lu

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i quartiere la sera, lasciandomi un lume acceso. Rimaneva soletto, mi coricava tenendo un lumicino con qualche libro, leggeva, indi sbadigliava, indi dormiva.Mano al mio primo amore, ch'io narrerò con accuratezza forse noiosa, ma per avvertire l'inesperienza de' giovinetti. Rimpetto alle mie finestre in qualche distanza abitavano tre sorelle, di nascita nobili ma d'una povertà che niente aveva che fare colla nobiltà. Un loro fratello uffi-ziale, ch'era anche lontano, le soccorreva di poco, e de' lavori donneschi ne' quali le vedeva occupate davano loro qualc

he sussistenza. La maggiore di quelle tre grazie non sarebbe stata brutta se gli occhi suoi, ognor scerpellini e orlati di scarlatto, non avessero offuscato ildi lei splendore. La seconda era veramente uno di que' diavoletti che devono piacere. Non alta di statura, ma ben formata, brunetta di carnagione. Le chiome sue erano nere e lunghe, gli occhi nerissimi e brillanti. Nel suo contegno modestospirava una robustezza e una vivacità seducente. La terza era ancora picciola, ragazzetta spiritosa e di fattezze di buono o cattivo preludio.Io non vedeva quelle tre ninfe che per accidente nell'aprire una finestra su cui mi lavava le mani e quando le loro finestre erano aperte, ch'erano aperte di rado. Mi salutavano con un decente abbassare di capo, ed io corrispondeva con altrettanta decenza e serietà. Notava però la seconda sorella diavoletto che, ogni volta ch'io apriva la mia finestra per lavarmi le mani, ella apriva immediatamente la

 sua per lavarsi le mani nel punto ch'io lavava le mani mie, e che salutandomi abbassando il suo bel capo fissava poscia in me i suoi begli occhi neri in un contegno come d'astrazione e con un certo languore da poter lusingare un ragazzo. Sentiva qualche solletico nel mio cuore; ma le mie riflessioni austere mi guarivano, e senza mancare di civiltà mi teneva stretto ad una grave indifferenza.Una femmina genovese, che aveva l'impiego ad un tenue prezzo di stirare la mia poca biancheria, venne a recarmi alcune camicie una mattina in un canestrino. Quella biancheria aveva sopra un bellissimo garofano. - Di chi è quel garofano? - diss'io. - Egli viene a lei - rispose la genovese - e dalle mani d'una bella ragazza che le sta vicina e ch'Ella ha la crudeltà di non curare.Quel garofano e la ambasciata, ch'io conobbi da dove partivano, accrebbero in me il pizzicore; e tuttavia risposi all'ambasciatrice ch'ella ringraziasse moltissimo la bella giovane, ma non mancasse di dirle che impiegava i suoi fiori assai

male.La mia testa incominciava a girare e il mio cuore ad ammollirsi. Riflettendo peròtra me che non avrei voluto incontrare un imbarazzo matrimoniale da cui era assolutamente astemio, né pregiudicare al decoro d'una ragazza colla mia pratica, e riflettendo pure alla scarsezza di danaio con cui non avrei potuto soccorrere alla indigenza nella quale sapeva essere quella bellezza, ammorzai in me tutta la simpatia che m'attraeva verso lei. Cominciai a non più lavarmi le mani sulla finestra per fuggire dal raggio de' suoi occhi ladroncelli. Inutile ritiratezza e d'effetto peggiore.Fui chiamato un giorno a visitare quell'amico mio uffiziale, Giovanni Apergi, che m'era stato maestro ne' militari esercizi e ch'era a letto alquanto attratto e dolente in benemerenza de' suoi passati amori. Egli era alloggiato sulle mura poco da me distante, nell'albergo d'una donna attempata moglie d'un notaio. V'andai. La donna attempata cominciò dal motteggiare la mia rusticità, passando grado grado ad una acerba correzione materna e addu-cendo che in un giovinetto di sediciin diciassett'anni, com'era io, era una caricatura ridicola la serietà d'un uomo di cinquant'anni, e che particolarmente il far disperare e piangere con delle noncuranze e quasi con de' disprezzi le ragazze civili e belle, che avevano per medella passione violente, non era saviezza ma inurbanità e tirannia.L'uffiziale amico, facendo qualche sberleffo e mettendo qualche strillo per le doglie figlie d'amore che lo pungevano, aggiunse de' rimproveri amari chiamandomi scioccherello non conoscitore delle fortune. - Oh, foss'io dell'età vostra, nella vostra salute e nella vostra circostanza ! - esclamava egli, interrotto dagli omei per le trafitte figlie di Cupido che lo assalivano.Mentre apparecchiava la mia onorata giustificazione, fu picchiato all'uscio, ed

ecco apparire la bellezza pericolosa col pretesto di venir a vedere lo stato disalute dell'uffiziale. La sua comparsa chiuse le mie parole e fece più veloce la pulsazione del mio cuore. I discorsi furono sui generali e decentissimi. Trovai i

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n quella giovane, d'un'età di circa diciannov'anni, dello spirito e dell'intelletto, non molta loquacità, ma assennata e modesta. Gli occhi suoi, che poeticamente si potevano chiamar stelle, mi dicevano tratto tratto chiaramente ch'io era un ingrato.Terminata la sua visita all'ammalato, ch'era visita concertata per il sano, ella disse d'aver rispedita a casa la serva che l'aveva accompagnata, perocché la di lei sorella maggiore era a letto colle febbri, e chiese in grazia se vi fosse ivi

 chi potesse accompagnarla. - Questo signore - rispose la donna attempata, e presto, additando me - potrà servirvi. - Oh! non voglio ch'egli s'incomodi, né sono degna di questo onore - disse l'astutella con una ironica serietà.Con la solita civiltà di parole volli accompagnarla. La strada non era lunga e per quanto è durato quel breve viaggio fummo perfettamente due muti. Tenendola io per un braccio ch'era più sodo del porfido, sentiva in lei un tremore sensibile, ed eravamo nel mese di luglio. Quel tremore mi penetrava nelle viscere e mi faceva tremare più di lei.Giunti all'uscio della sua abitazione, ella mi pregò con una amabile umiltà ad entrare e a non voler negarle qualche minuto di compagnia. Salimmo le scale e vidi un albergo spirante indigenza. Entrammo nella stanza dov'era la di lei sorella maggiore dagli occhi scerpellini ammalata, che dormiva però d'un sonno profondo in un

 letto decente e diverso dalle altre mobilie. Per non destare la inferma la conversazione fu a voce bassa. La bella prese una calzetta da lavorare e mi fece sedere sopra un picciolo cattivo soffà appresso di lei. Ella mi disse colla voce e con gli occhi bassi che da qualche mese aveva concepita per me una stima grandissima, ma che dubitava di non meritare la menoma gratitudine per il di lei vivo sentimento.Risposi con voce bassa, ma con gli occhi non bassi, ch'io la credeva abbastanzasincera per non considerarla adulatrice, ma che ero ben curioso di sapere come fosse nata in lei una tale parzialità per un giovane ch'ella non conosceva e che assolutamente non meritava di destare in lei il pregevole sentimento che m'adduceva.Ella mi disse con la voce bassa, ma con gli occhi non più tanto bassi, che mi parlava con tutta la sincerità: che dal vedermi nel teatro rappresentare la Luce, serv

etta nelle commedie, aveva avuto principio la scossa del suo cuore; che vedendomi poscia giuocare al pallone, il suo cuore era caduto in una maggior debolezza.Ascoltai con del ribrezzo le cause della sua passione, né potei trattenermi di risponderle basso e ridendo: - Veramente una giovine saggia suol prendere affetto ad un giovine dalle doti e dalle interne buone qualità di quello, e non mai dalle inezie ch' Ella mi narra.Ella abbassò i suoi begli occhi mortificata e mi disse, con una finezza ch'io nonattendeva da una dalmatina, ch'io non poteva negare che quelle pubbliche azioniapplaudite dall'universale in un giovinetto non dovessero fare della impressione sul cuore d'una ragazza; ch'ella però avrebbe difeso il suo cuore da un'inclinazione nata da tali princìpi, se non le piacesse il mio aspetto e se questo aspetto non si mostrasse fuori dalle pubbliche azioni con una diversità adorabile di contegno serio, morigerato, raccolto e prudente, della qual cosa tutta la città era edificata e faceva suonare al di lei udito de' continui elogi sul mio costume assairaro nel mezzo alla gioventù scapestrata de' militari. - Queste voci - aggiuns'ella - consolidarono la mia passione; e se la vedessi disprezzata, non so a che miriducesse la disperazione. - Vidi schizzare qualche lagrimetta da' suoi begli occhi, ch'ella proccurava di celarmi.Questo ragionamento lusingò il mio amor proprio; quelle lagrime commossero la miasensibilità, e la bellezza di quel diavoletto mi aveva già ammaliato. Chiamai però insoccorso la mia ragione, e risposi pacificamente e con della dolcezza: - Signora, sarei un mostro se negassi della gratitudine agli affettuosi e preziosi sentimenti suoi; ma siccome io sono un giovine figlio di famiglia, senza agi nella mia circostanza, lontanissimo dal voler moglie, il mio frequentare la sua società sarebbe un'azione inonesta che la pregiudicherebbe, e la tenerezza che purtroppo se

nto per lei potrebbe cagionare a me una sciagura. Appunto perché le voglio bene non devo volere un suo pregiudizio, e appunto perché Ella vuole a me del bene non deve volere una mia sciagura. Non si offenda se conservando nel mio seno una ferve

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nte affezione per lei, da questo punto fuggo ogni occasione d'essere a lei vicino, non meno per mio che per suo vantaggio.La calzetta ch'ella lavorava le cadde a terra. Prese una delle mie mani appoggiandola al suo petto. Appoggiò una delle sue belle guancie ad una mia spalla piangendo, e cambiando il "lei" nel "tu" alla dalmatina, favellando sempre basso per non destar la sorella, mi disse: - Caro amico, tu non mi conosci. Il tuo saggio ingenuo ragionamento accese maggiormente l'animo mio. Potresti sospettare che la m

ia povertà insidiasse la tua economia; potresti credere ch' io fossi una giovine viziosa e potresti credere ch'io cercassi un marito. T'inganni e perdono al tuo ragionevole inganno. Proccura di meglio conoscermi, per pietà. Concedimi qualche momento della tua a me deliziosa conversazione. Cercheremo i momenti con della cautela. Se non sei una tigre, non m'abbandonare a un dolore insoffribile al troppo acceso animo mio. - Le sue lagrime furono più abbondanti.Io rimasi commosso, sbalordito e, confesso, innamoratissimo d'una ragazza assaibella e che aveva saputo così bene spiegare un amore d'un carattere tanto omogeneo all'indole mia metafisica. Le promisi d'esser con lei qualche volta; promessa di cui aveva più bisogno io che lei. Ella mostrò del giubilo.La sorella s'era destata, e con un breve complimento, adducendo io d'aver condotta la sua sorella per un accidente, accompagnato alla scala dalla mia spasimata

con de' semplici stringimenti di mani e de' baciamani reciprochi, sono partito intabaccato e balordo.Cercammo de' momenti d'essere insieme e con minor cautela che non speravamo. Per molti giorni le nostre conversazioni furono scherzevoli, lepide, saporite. Un commercio di sentimenti d'affetto, de' sospiri che uscivano dal profondo delle viscere, de' titoli confidenziali, degli amplessi teneri e moderati, degli accarezzamenti, de' vapori infiammati, de' languori, de' pallori, de' sguardi tremoli erano le soavità ch'io credo le delizie maggiori di amore, le più delicate e le più durevoli.Dal canto mio esisteva ancora il freno del pudore. Dal canto della ragazza, questo freno appariva. Un giorno ch'io ero stato a giuocare al pallone, cambiatomi di camicia per il sudore, mi posi a passeggiare soletto in sulle mura. Il caldo era grande, e cercava refrigerio nell'aria che spirava dal mare. Passando dinanzi

 all'abitazione della donna attempata, moglie del notaio e albergatrice del mioamico uffiziale dalle doglie, m'udii chiamare. Volgendomi alla voce, vidi ad una finestra la donna attempata col mio idoletto. M'invitarono in casa, e v'andai volentieri. Si propose un passeggio al fresco per le mura. L'uffiziale, che stava un po' meglio, volle ingegnarsi ad essere della brigatella. Egli porse il braccio alla sua donna attempata, io lo porsi alla mia fresca ragazza. Egli camminava adagio perché zoppicava co' piedi gottosi. Io andava adagio perché zoppicava col cuore ferito e perché rimaneva colla mia bella in maggior libertà, stando lontano dalla prima coppia. La notte cominciava a imbrunirsi. Fatto un picciolo giro, l'uffiziale cominciò a lagnarsi delle doglie ne' piedi, e mi chiese permissione di ritirarsi colla sua attempata, dicendomi che, goduto io alquanto del fresco colla mia compagna, avrei potuto condurla a casa. La coppia partì, ed io rimasi col mio diavoletto, assorto ne' ratti d'amore. Le ore passavano come minuti. Camminavamo senza sapere di camminare, e s'ardevamo l'un l'altro con le parole e co' tratti dell'amore più sviscerato. Finalmente, perché la notte era avvanzata, risolvemmo di lasciare un fresco ch'era più caldo che fresco.Per condurre il mio bene alla sua abitazione, dovevamo passare per una calaietta vicina all'albergo mio. - Fammi una grazia - disse il mio diavoletto, - lasciami vedere il tuo alloggio. - Trassi la chiave, ed aperto l'uscio entrammo. Il mio soldato aveva lasciato il solito lume sopra un ghiridone appresso il mio letto.- Questo è il letto in cui dormi tu solo - disse la giovine sedendo sopra quello.Sedei al suo fianco, e passammo alle nostre reciproche carezze, a' nostri sospiri, a' nostri semionesti abbracciamenti deliziosi. I nostri cuori balzavano fuori da' nostri petti. Quella solitudine, la notte, quel lumicino di debile chiarore ci facevano un poco più arditi del consueto; e tuttavia la ragione, i miei dubbi,

 i miei timori mi tenevano ancora stretto alla rattenutezza, alla decenza, allavirtù.- Che sciocco ! - diranno i viziosi sensuali - quanto ci tieni tu a bada con le

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tue renitenze agghiacciate. Sbrigati, fa' ululare le ninfe negli antri, come fecero Enea e Didone. - Abbiate flemma, brutali. Voi non conoscete le vere dolcezze dell'amore, e considerate che la dolcezza dell'amore consista nell'estinguerlasoltanto come le bestie.- Tu sei più saggio e più crudele di me - disse la fanciulla appoggiando il suo belviso infiammato al mio seno, e seguendo: - Conosco la sorgente de' tuoi prudenti riguardi, e t'amo ancor più. Vorrei avere in possesso quel fiore che tanto è pregia

to, per poterlo sacrificare volontaria con tutte le viscere tra le tue braccia a te solo. Temerei d'offenderti tenendoti occulto un arcano che m'ècostato un fiume di lagrime. Sappi, due anni or sono, il tal colonnello m'ha ingannata, sedotta, violentata, indi barbaramente abbandonata tre giorni dopo la mia sciagura. Ah, perché non sono come sei tu tutti gli uomini! Tu non sai quanto grande sia lo sforzo dell'animo mio nel palesarti una vergogna che nessuna altra ragazza ti paleserebbe. Crederei una maggior vergogna a non essere ingenua con un amico che adoro. Non mi abborrire o uccidimi.Dette queste parole ella proruppe in un pianto da cui mi sentiva bagnare il petto. Una tal narrazione mi rese sospeso e m'empiè d'amarezza. Quel tal colonnello ch'ella m'aveva nominato era in fatti un famoso stupratore di ragazze e un di presso il Sinadato della mia favola allegorica teatrale La Zobeide, che, godute alqu

anti giorni le giovinette, le trasformava in giuvenche e le mandava alla pastura. Il gran potere che quel colonnello aveva sui popoli della Dalmazia lo salvavada' rigori della giustizia.La ragazza levò i suoi begli occhi lacrimosi verso me, e vedendomi sospeso e conturbato esalò un intenso sospiro, esclamando: - Ah, tu m'abborrisci, tu m'abborrisci; uccidimi, uccidimi per pietà ! - Ricadde nel suo pianto e nel mio seno. M'inchinai a confortarla e ad accarezzarla senza sapere ciò ch'io dicessi o facessi. Ellasi scagliò impetuosa al mio collo, appressando le sue labbra alle mie per la prima volta con una aspirazione affannosa. Il suo fiato era un'ambrosia che mi rapiva e m'allagava le viscere. Ella spense con un soffio il lumicino, non so se per nascondere il suo rossore o per darmi coraggio, e...... ...Ulularono le ninfe.Stendo una densa cortina sull'ebbrezza de' soavi errori d'una intera notte di du

e giovinetti affascinati dal più fervido amore. Accompagnai a casa verso l'alba l'oggetto divenuto per me una gemma inapprezzabile. Gli affetti si erano raddoppiati. Mettemmo de' concerti, che credemmo cauti, per delle nuove dolcezze. Ella ebbe della pena a staccarsi dal mio fianco. Si separammo finalmente, e me ne andai per dormire; ma, invasato da delle immagini per me nuove e punto da qualche rimorso, non potei chiuder occhio.Accecati in una tresca reciprocamente infiammata in cui per due mesi fummo immersi, tresca che noi speravamo secreta e che forse era la commedia del Pubblico secreto, devo protestar d'aver trovata in quella ragazza un'amica confacentissimaalla mia metafisica balordaggine. M'apparì sempre tenera, sempre in trasporto, sempre timorosa di perdermi, sempre ingenua. Conoscendo io la sua povertà, volli più volte dividere con lei la povertà mia colle preghiere e con della violenza. Ciò era per lei una ingiuria insoffribile, ed entrava in furore ne' suoi rifiuti, esprimendo con un bacio che attraeva l'anima mia alle sue labbra vermiglie: - Il tuo cuore è la mia ricchezza.Convien dire che un giovinetto nel suo primo amore travegga e traintenda sbalordito. La causa del fine di questo amore, che sembrava interminabile, fu ben stravagante e ben lontana dalla mia delicata metafisica.Avvenne caso che il provveditor generale fu necessario alle Bocche di Cattaro per rimediare ad alcuni disordini avvenuti tra i popoli detti pastrovicchi ed i turchi. Dovei imbarcarmi anch'io colla Corte. O Dio, quanti spasimi, quante angoscie, quante lagrime, quanti giuramenti di fedeltà al distacco crudele di due giovanotti affogati nell'amore! La mia lontananza fu di circa quaranta giorni, che miparvero quarant'anni.Appena ritornato m'apparecchiava a correre dalla mia diva, quando un conte Vilio

 da Desenzano cavallerizzo del generale, ch'era rimasto a Zara, uomo alquanto dissoluto sul fatto de' sfoghi venerei, ma buon amico e sincero, mi si fece vicino dicendomi: - Gozzi, io so che avete dell'amicizia per la tal bella ragazza. Tem

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erei di mancare al bene che vi voglio, se non vi avvertissi di ciò ch'è avvenuto nella vostra assenza e ch'io so fondatamente. Lo spenditore del generale, qui rimasto, innamorato da gran tempo inutilmente di quella giovine, colse il momento della vostra lontananza. Non vi so dire l'insidia da lui tenuta, ma so per certo ch'egli ebbe commercio essenziale con lei. Il briccone era infetto di mal francese, che naturalmente averà comunicato a quella infelice. Mi preme la vostra salute.V'ho avvertito: regolatevi.

I detti del conte Vilio furono scorpioni al mio cuore. Volli tuttavia fare il franco e l'indifferente, e sforzandomi a ridere gli risposi, forse un po' balbuziente, ch'era ben vero ch'io conosceva quella ragazza, ma che la mia pratica era stata sempre innocente e che non aveva di che temere; che l'aveva poi trovata ognora tanto modesta e rattenuta, che dubitava ch'egli fosse stato ingannato da unforfante millantatore con un troppo gran pregiudizio di quella povera giovine. - Non sono in inganno, per Dio! - disse il Vilio alla bresciana. - Siete assai giovinetto per conoscere il mondo. Ho fatto il dovere d'amico, ed a me ciò basta.Egli mi lasciò col capo intronato, collo spirito agitato e titubante. Siccome sinda ragazzo ho fatto sempre professione di costringermi e di comandare a me medesimo strozzai l'avida brama che mi stringeva ad abbracciare la mia tiranna. Sospesi la visita non solo, ma tenni chiuse le mie finestre fuggendo ogni occasione d

i vederla. Ad alcune ambasciate della genovese custode delle mie camicie risposi con de' laconismi di nessun significato, senza mai dare un cenno della causa della mia alienazione. Alcuni viglietti furono da me rifiutati con una eroica ovvero asinesca costanza.Egli è ben vero che alimentava nel seno un vivo desiderio che la mia bella fosse innocente e che le accuse d'un errore di tanta bassezza uscissero da una turpe menzognera maldicenza. Sperava di venire in chiaro del vero per qualche via attenendomi a' modi austeri e barbari. Venni pur troppo in chiaro d'una cosa strana, ch'io non averei mai immaginata e che mi lusingo che nemmeno i miei lettori possano immaginarla prima di leggerla. Chi sa ch'io non abbia il vantaggio di farli ridere nel raccontarla?Passando un giorno per le mura, la solita donna attempata albergatrice dell'uffiziale mio amico mi pregò dalla finestra di voler ascoltare da lei alcune parole e

ad entrare in casa. Entrai. Indovinava ch'ella volesse parlarmi del mio bene abbandonato. Tutto circospezione, m'apparecchiava a rispondere delle oneste scuse senza toccare la schifa piaga. Non indovinai però tutto. Ella mi condusse in una stanza, dove con mia sorpresa vidi seduta e piangente la delizia del mio primo amore.- Le parole ch'io voleva dirle - disse la donna attempata - le udirà dalla voce di quella afflitta ragazza. - Detto ciò uscì dalla stanza, ed io rimasi come una statua, incantato in quella lacrimosa bellezza che tanto m'era piaciuta e mi piacevaancora. Ella levò la fronte e incominciò dal caricarmi de' più aspri rimproveri. Non la lasciai trascorrere, e con risoluta schiettezza le dissi che una giovane, la quale nella mia lontananza s'era avvilita abbandonandosi tra le braccia dello spenditore della corte, non era più degna dell'amor mio. Ella impallidì gridando:- Chi fu quel scellerato calunniatore che... - Troncai di nuovo le sue parole dicendo: - Lei non si affatichi a giustificarsi. So tutto da una fonte infallibile, e non sono né incostante né sognatore né ingrato né ingiusto.Al franco modo con cui espressi queste parole, la giovane abbassò la faccia quasivergognandosi ch'io più la vedessi, e abbandonata ad un pianto dirotto, impedita da' singulti, andava esprimendo e gridando interrottamente:- Hai ragione... Non sono più degna di te... Quel scellerato m'ha circuita invanoper molto tempo... Egli s'è rivolto alla mia sorella maggiore perché mi seducesse alla di lui iniqua brama... Egli le esibì due staia di farina se riuscisse... Le preghiere... la insistenza... i stimoli... le minacce di quella indegna strega... Con una avversione orribile... Maledetta sorella!... maledetta indigenza!...maledetta farina!...- Ella non potè proseguire, ed ho creduto che il pianto l'affogasse.

Fui per cadere in terra d'un capogiro a quella confessione che non ammetteva più lusinghe d'innocenza. I sensi animali mi dipingevano una Venere ancora quella bellezza desolata. Il mio cuore metafisico me la dipingeva un'orrida furia infernal

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e. Rimasi muto. Aveva in una scarsella de' ducati; pochi, ma pur gli aveva. Glitrassi, e ognor taciturno gli lasciai pianamente cadere nel più bel seno ch'io abbia veduto. Volsi le spalle fuggendo, e fuori di me per il dolore, con un entusiasmo da spiritato discesi le scale come un levriere, gridando e replicando: - Maledetto spenditore! maledetta sorella! maledetta indigenza! maledetta farina!Non ho più voluto vedere l'oggetto del mio primo amore. Ho creduto di crepare sotto al peso d'una passione che mi rodeva le viscere e che, quantunque fossi ragazz

o, ho avuta la forza crudele di soggiogare. Seppi poco dopo con piacere che quella infelice giovane s'era maritata ad un uffiziale, né cercai più alcuna traccia dilei.CAPITOLO XLVIII.Storta del mio secondo amore, con meno platonismi e a' un fine più comico del primo.Fu in quel tempo che, occorrendo al provveditor generale il mio quartiere per collocare de' fornimenti della sua scuderia e della rimessa che stavano sotto a' "quartieroni", sloggiai da quello e passai ad abitare coll'amico signor Innocenzio Massimo in un casino che avevamo preso a pigione sulle mura. Potemmo abitare quel casino per poco tempo, essendo lontano dalla corte e da' nostri doveri delle guardie occorrenti, e perché nella stagione rigida le pioggie, borea terribile e

le nevi facevano quel nido impraticabile.Il Massimo aveva conoscenza con un bottegaio e commerciante, che abitava nell'interno della città e che aveva una casa con molte stanze e molti agi. Quel commerciante aveva una bella moglie grassetta e fresca; e, Dio mi perdoni, credo che ilMassimo avesse più amicizia colla moglie che col marito. Comunque fosse, egli ottenne a pigione in quella buona famiglia due camere, l'una per me, l'altra per lui, e distanti l'una dall'altra; anzi la convegna fu mensuale per le stanze e perla mensa comune co' patroni, ch'era casalinga ma abbondante e di cibi scelti.I due coniugati non avevano figli né figlie, e il commerciante aveva adottata per"figlia d'anima" una povera giovinetta per fare un'azione caritatevole e cristiana.Questa fanciulletta, che aveva appena tredici anni d'età, pranzava e cenava con noi come figlia adottiva de' padroni e con un contegno di somma innocenza. Ella aveva le chiome bionde, gli occhi grandi e azzurri, la guardatura soave e langu

ida, il viso pallidetto con qualche tinta rosea incarnata. Non aveva gran polpasull'ossa, ma la sua taglia eradritta, snella e bellissima, e la statura pendeva al grande e al maestoso.Quella ragazza veniva a vestirmi, a pettinarmi, ad accomodarmi i capelli colle zendaline da Luce servetta, sull'ora del far la commedia nel teatro della corte.Ella scherzava, ella rideva guardandomi. Io le diceva qualche onesta facezia. Ella rideva ancor pili. Una sera dopo avermi acconciate le chiome da Luce, m'appiccò improvvisamente tre o quattro de' più bei baciozzi del mondo. Mi sorpresi, ma lacredeva tanto innocente che giudicai ch'ella s'immaginasse di baciare un'altra ragazza, essend'io vestito da femmina.Questa scena si faceva ogni sera maggiore, e sentiva che i suoi baci misti con una aspirazione affannosa non erano di quella innocenza ch'io credeva. Rispettando io l'ospitalità, le feci una dolce seria correzione in un modo da non porla in malizia, ma avvertendola che que' baci tra uomo e donna erano proibiti da' confessori.Ella si pose a ridere, e mi disse sottovoce ch'io tacessi e non facessi romore.Mi pregò a lasciare l'uscio della mia camera socchiuso la notte, ché quando tutti fossero coricati e addormentati, sarebbe venuta a trovarmi, perch'ella aveva bisogno di dirmi alcune cose con secretezza. - Che mai vorrà dirmi questa piscialetto?- diceva tra me. La curiosità, e anche qualche inclinazione che sentiva per quel spiritello, che alla mensa e per la casa aveva un contegno da santa Rosa, mi fece lasciare l'uscio socchiuso.Eccola, passata la mezza notte, alla sponda del mio letto su cui io cominciava a sonniferare. Ella era mezza ignuda e mezza vestita. Cominciò da alquanti pizzicotti per farmi ben desto, e prendendomi per il collo, caricandomi d'una procella d

i baci seducentissimi, mi disse: - Chi credi tu, scioccherello, che sia questo mio padre adottivo, che mi fa tante prediche e in palese mi guarda con tanta austerità? Egli è un porco, che m'ha presa in casa sott'ombra di carità come "figlia d'ani

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ma". La buona moglie sel crede, e quest'animale ha fatto di me ciò che ha voluto e fa di me ciò che vuole in secreto. È geloso come una bestia e mi tormenta a quattr'occhi come un diavolo. Tu sei un giovinetto che mi piace; ti sono innamorata morta.Intendo di sollevarmi dal fastidio che mi dà quel porco di cinquant'anni. Spero che tu mi voglia bene. T'ho detto tutto.Ella non diè campo alle mie riflessioni, e rese debile la mia virtù ripigliando la m

usica de' suoi baci ardenti. Quella specie di folletto di tredici anni, più ignudo che vestito, bello come uno spirito celeste, spinto da un'impetuosa audacissima passione, che mi succiava l'anima dalla bocca colle sue labbra infondendomi l'anima sua, fece evaporare la mia ragione; e stendo la consueta cortina a' secondi miei errori d'amore.La mia metafisica non aveva alcuna parte in quell'affetto confidenziale ch'era tutto fisica e sbalordimento. Il trovare quella farfalletta tanto terribile nelle battaglie d'amore notturne; il vederla poscia il giorno per la casa e alla mensa, seria seria, con gli occhi bassi e con una modestia edificatrice, mi teneva allacciato. Io imitava la sua cautela e la sua serietà fedelmente. Aveva però trattotratto qualche rimorso e qualche timore che il contrabbando fosse scoperto. Ella mi dava l'ordine in secreto, non giornaliero ma con frequenza, di lasciar l'usc

io socchiuso; ed era pontuale a comparire la notte al mio letto sempre maggiormente accesa, e con nuovi trasporti a ubbriacarmi e a farmi cadere in que' soavi delitti che m'obbligano a stendere la mia cortina.Poteva mancare un mese alla partenza da Zara per Venezia del nostro provveditorgenerale Querini, essendo già giunto il suo cambio alla carica; ed io aveva fissata la partenza mia con lui per restituirmi alla casa paterna. Confesso ch'ero tanto intabaccato da' modi tenuti da quella fraschetta che, con tutta la robustezza d'animo che possedeva, il solo pensiero di doverla abbandonare mi rattristava moltissimo. Un accidente comico avvenuto tre giorni prima della mia partenza guarìil mio spirito istantaneamente e mi fece benedir l'ora del mio imbarco e della partenza.Per narrare quell'accidente comico e per me propizio, m'è necessario il descrivere la pianta e la costruzione della casa che abitavamo. Salita la prima scala di m

armo, s'entrava in una sala grande. In capo a quella sala a mano dritta v'eranodue stanze in una delle quali dormivano i due coniugati, nell'altra dormiva l'amico Massimo. Tosto salita la scala, a mano manca v'era la camera mia, e appresso la porta di quella v'era un altro uscio per cui si saliva una lunga scala di tavole di trenta e più gradini, che conduceva ad un piano di sopra. In vetta a quella scala di tavole v' era una finestrella che guardava sopra al tetto a comodo de' murai che riordinavano le tegole al caso di sconnessioni, di rotture e di pioggia che trapelasse. Da un lato di quel finestrino s'entrava in una cameretta, ch'era la casta cella in cui dormiva il mio amore.Il caritatevole padre putativo non aveva già alcun sospetto sopra di me, perché il mio contegno colla ragazza e il contegno della ragazza con me erano in palese cosìsostenuti e d'una indifferenza tanto naturale, che non davano luogo al sospettare. Ma egli era rabbiosamente geloso e sospettoso che certo giovine abitante in una casa contigua e che, camminando per il tetto di notte a imitazione d'un gatto, entrasse per il finestrino, se la figlia adottiva gli avesse aperto, e usufruttuasse sul suo terreno; di che egli aveva degl'indizi secreti.La gelosia industre gli suggerì di attaccare con secretezza, non saprei dir come,un grosso zeppo a quel finestrino con un spaghetto fragile, di modo che non erapossibile l'aprire senza spezzare lo spaghetto e senza la caduta del grosso zeppo, che rotolando giù per la scala, sopra cui era perpendicolare, avrebbe fatto ungrandissimo remore. Questa trappola doveva essere lo svegliarino del padre custode, dispostissimo a fare una feroce sorpresa agli amanti sulla tresca dell'amorazzo ch'egli sospettava.Una notte ch'io non aveva lasciato l'uscio socchiuso, per non aver avuto il cenno consueto, e ch'io dormiva saporitamente, un rumore infernale di cosa caduta giù

per la scala di tavole, ch'io aveva dietro la parete d'assiti a cui era appoggiato il mio guanciale, mi destò spaventato. Temei una caduta del mio bene, ed era il zeppo che tombolava. Balzai agitato dal letto in camicia, presi il mio lumicino

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 e accorsi per soccorrere la poveretta.Nel tempo ch'io apriva l'uscio mio, viddi il padre putativo in camicia, con un lume ed una lunga scimitarraignuda in mano, correre furibondo e salire la scala per fare una sua vendetta. La moglie in camicia gli correva dietro strillando per trattenerlo. Il Massimo in camicia con un lume e colla sua spada imbrandita sbucò anch'egli dalla stanza alromore, dubitando di ladri. Il marito correva su per la scala bestemmiando. La m

oglie lo seguiva ululando. Io seguiva la moglie sbalordito. Il Massimo seguiva me gridando: - Chi è? cos'è? datemi luogo, lasciate fare a me.Il quadro era teatrale. La finestrella era aperta. La ra-gazzetta in camicia era caduta a' piedi di quella, rannicchiata, spaventata e tremante. Il delitto eraevidente. Durammo gran fatica in tre a trattenere quel tal padre putativo, divenuto Orlando furioso, che voleva troncar la testa a quella tal figlia adottiva. Lo strepito fu grande, e ne' lunghi processi fatti, ne' quali per grazia del cielo nessuno s'è sognato di includermi, s'è rilevato che non solo quella modestina accettava delle notti il giovane per il tetto, ma che molte delle notti ella discendeva pianamente tutte le scale, apriva l'uscio della strada e si godeva non so quanti maschi in una cantina a pian terreno. Tutte le cose rimasero rappattumate con delle prediche, delle minacce, delle dimande di perdono, delle promesse, de'

giuramenti di non far più e del cambio di dormitorio destinato a quella vergine. Sono partito da Zara allegro tre giorni dopo quel terribile avvenimento, raccapricciato sul mio secondo amore con una Messalina di tredici anni.CAPITOLO XLIX.Storia del mio terzo amore, che quantunque sia storia, do licenza alle femmine di considerarla favola.[Tornato a Venezia, ebbi il terzo amore, del quale il Boccaccio avrebbe potuto formare una buona novella].Da certi stanzini nell'alto della mia abitazione di Venezia, ne' quali io dormiva e ne' quali m'occupava ne' miei frivoli studi quasi le intere giornate, udivatratto tratto una voce angelica cantare delle ariette e sempre d'armonia flebile e di parole malenconiche. Quella bella voce usciva da una casa divisa da una stretta callicella da' miei stanzini. Le mie finestre erano in faccia a quelle di

quella casa, e doveva nascere l'accidente ch'io vedessi un giorno l'oggetto dalla bella voce seduto appresso una delle sue finestre cucire de' pannilini. Appoggiandomi ad una delle mie finestre, eravamo tanto vicini che mi pareva di usare una inciviltà a non salutarla. Ella mi corrispose con una cortese gravita.Quella giovine di circa diciassett'anni e maritata aveva tutte le bellezze che può donare la natura. Era di contegno maestoso, bianchissima di carnagione, d'una grandezza mediocre, d'una guardatura soave e modesta. Non era né pingue né scarna. Il suo seno dinotava acerbezza e solidità. Le sue braccia erano ritondette e le suemani bellissime. Una fettuccia "ponsò" le circondava la fronte e terminava con unnastro dietro a' capelli, folti e lunghissimi. Nella sua fisonomia appariva unarimarcabile continua tetra mestizia. Con tutte le di lei belle qualità, ero io ben lontano dall'impegnare il mio cuore metafisico, dopo gli accidenti in amore che m'erano avvenuti e che m'avevano alquanto ammaestrato.Si sa che avendo una bella giovine così vicina, che si guarda volentieri e con frequenza, dopo averla salutata parecchie volte e dopo essere stato corrisposto gentilmente per molti giorni, si passa a qualche grado di confidenza e si lascia fuggire un "Come sta Ella?", ad un "Ha ben riposato questa notte?", a qualche lamento sui tempi sciroccali e piovosi; e si sa che dopo alquanti altri giorni di queste ricerche e dì questi discorsi comuni a tutti i sciocchi, nasce brama di non lasciare opinione d'esser sciocchi. Le chiesi un giorno perché adoperasse la sua bella voce in canzonette sempre lugubri ed una musica sempre languente. Ella mi rispose che il suo temperamento era malenconico, che cantava talora per distrazione e che non trovava sollievo che nella mestizia.- Ma Ella è giovine - diss'io; - la vedo ben corredata; conosco in lei dello spirito e dell'intelletto; dovrebbe superare gli effetti del suo temperamento con de'

 riflessi,: e tuttavia, non posso negare, vedo sempre negli occhi suoi e nella sua faccia una mestizia non confacente coll'età sua, che mi fa stupire. - Ella mi rispose con molta grazia e con un semisorriso da innamorare, che siccome ella non

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 era uomo così non poteva sapere qual impressione facessero le vicende di questo mondo sull'animo degli uomini, e che siccome io non era donna non avrei potuto sapere qual impressione potevano fare le vicende di questo mondo sull'animo delledonne.Questa risposta, che odorava alquanto di filosofia, introdusse qualche puntura nel mio cuore. Il contegno, la decenza, la serietà, la onestà, l'educazione di quella giovine veneziana me la rappresentavano infinitamente diversa dalle donne dalma

tine de' miei primi errori; e devesi aggiungere a queste doti la gioventù e la bellezza. Incominciai a lusingarmi di poter considerare che forse potesse esser quella l'amica virtuosa delizia al mio cuore metafisico, romanzesco e delicato. Una folla di riflessi vennero in mio soccorso. Mi contentai di lodare la sua risposta, e cominciai a scarseggiare nelle occasioni di vederla e di favellare con lei.Convien dire ch'ella avesse molti lavori da condurre a fine, perché ogni giorno la vedeva seduta vicina alla solita finestra a lavorare con una malenconica serietà. Benché fuggissi io possibilmente il cimento di favellare con lei per difendere il mio povero cuore, al mio povero cuore sembrava una inciviltà a non più dirle parola, e qualche rara volta seguiva tra lei e me de' brevi dialoghetti. I nostri discorsi erano sempre filosofici-morali sopra le stravaganze, sopra la costituzione

della umanità e sul costume; ed io m'ingegnava a mantenere un modo di ragionare faceto con qualche sale e qualche lecita lepidezza per scuoterla dalla mestizia in cui la vedeva sprofondata, ma appena mi riesciva di vedere la sua bella bocca ridente.Le sue risposte erano sempre assennate, morigerate, ingegnose ed acute, e nel dibattimento controverso sopra a qualche parere ella si dimenticava di lavorare: lasciava piantato l'ago, mi guardava fiso, ascoltava le mie risposte, come s'ella studiasse un libro che la obbligasse alla applicazione. Delle lusinghe m'assediavano. Voleva ammorzarle e scarseggiava ancor più il cimento de' colloqui.Era scorso più d'un mese di queste interrotte, dilettevoli, oneste, brevi conversazioncelle, quando ripigliandone una, vidi la giovane guardarmi e arrossire alquanto, senza ch'io potessi intendere la cagione di quel rossore. Corsero parecchie indifferenti parole al solito; ma scorgeva quella creatura inquieta e smaniosa,

 come se le dispiacesse che i miei discorsi stessero sui generali e non le dicessi qualche cosa ch'ella attendeva. Io non capiva e non poteva capir nulla. Avrei potuto giudicare ch'ella attendesse una dichiarazione d'amore; ma ella non mi pareva giovane da ciò, ed io non era né presuntuoso né volonteroso di far una tale dichiarazione. Era ben altro la cagione de' suoi movimenti. Mi risolvei a dirle chescorgendo io nella di lei mente de' pensieri, non voleva tenerla a tedio. La salutai in atto di partire.- Si fermi di grazia - diss'ella affannata e levandosi dalla sedia. - Non ha Ella ricevuto due giorni sono un mio viglietto di risposta ad un suo ed un ritrattino? - Che viglietto? che risposta? che ritrattino? - rispos'io attonito. - Non so niente di ciò. - Dice da vero? - diss'ella impallidendo. - La assicurai sul mioonore che niente sapeva di quanto mi ricercava. - O Dio ! - disseella con un sospiro e abbandonandosi nella sua sedia, mezza svenuta. - Me infelice ! sono tradita. - Ma che è? che fu? - diceva io basso dalla finestra, afflittodi non poterla soccorrere.Finalmente dopo una pausa di profondo dolore, levandosi mi disse che nel caso suo aveva un'estrema necessità di consiglio; ch'ella aveva ottenuta permissione dalmarito di andare quel giorno dopo pranzo a visitare una sua zia monaca alla Giudecca; e che però mi portassi alle ore ventuna nel sottoportico al Ponte storto a Sant'Apollinare, che averei veduta o ferma o giugnere una gondola con un fazzoletto bianco fuori da uno de' finestrini; che entrassi francamente in quella gondola, in cui ella sarebbe. - Ella sentirà un caso in cui la imprudenza m'ha ravvolta- diss'ella sempre agitata. - Non posso ricorrere che a lei per consiglio. Se merito la sua compassione, non manchi. La credo assai saggio per potermi affidare. - Detto ciò, salutommi involandosi rapidamente.

Rimasi come un uomo di stucco, col cervello che mulinava, senza poter indovinarnulla, ma determinatissimo di andare al sottoportico al Ponte storto e alla gondola. Pranzai in fretta quasi affogandomi, e adducendo che aveva un interesse di

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somma premura volai al Ponte storto. Viddi la gondola pontuale, col fazzoletto bianco esposto, ferma ad una riva. V'entrai frettoloso, non saprei dire se condotto dalla brama d'essere vicino alla bella giovine o dalla curiosità d'intendere la rischiarazione de' viglietti e del ritrattino. Trovai quella bellezza risplendere sotto un nero zendale e con molte gemme di prezzo alle orecchie, al collo e alle dita, seduta; che facendomi luogo mi fece sedere appresso di lei, comandando al gondoliere di chiudere la cortina e d'avviarsi verso la Giudecca al tal conv

ento di monache.Ella cominciò co' modi i più soavi dal chiedermi scusa dell'incomodo che s'era presa l'ardire di darmi e dal pregarmi di non formare nessuna sinistra opinione del suo carattere per avermi fatto quell'invito, il quale aveva tutto l'aspetto d'uninvito non lecito a una donna d'onore e maritata, aggiungendo ch'ella mi confessava d'aver formata una assai vantaggiosa stima della mia saviezza, prudenza, morigeratezza e delle mie riflessioni.Mi disse d'essere in una grande agitazione di spirito per un imbarazzo in cui si trovava. Mi chiese s'io conoscessi una donna ed un uomo, marito e moglie poveri, i quali il di lei marito teneva in casa, concedendo loro una stanza e una cucina a pian terreno. Risposi colla franchezza dettata dalla verità, di non avere lamenoma conoscenza delle persone che mi accennava, e anzi di non sapere non solo

che abitassero nella sua casa, ma nemmeno che abitassero il mondo. Alla mia risposta la giovine chiuse gli occhi e le labbra con un atto di dolore, indi mi disse: - Eppure quell'uomo mi assicurò di conoscerla perfettamente e d'aver secolei tutta la confidenza, e anzi egli mi recò per sua parte con molta secretezza questo viglietto ch'Ella può leggere e conoscere. - Detto ciò si trasse dal seno il viglietto e me lo porse.Io dicervellava. L'apersi con stupore e conobbi tosto che non era mio, come nondoveva essere. Lo lessi e trovai un'affettazione da Caloandro sviscerato, pienad'elogi alle bellezze della signora, d'un'adulazione stomachevole e con qualcheverso del Metastasio. Mi sono quasi abbandonato alle risa. La morale concludente di quel foglio era che essendo io (che non era io) estremamente innamorato di lei e prevedendo una impossibilità di poter esserle appresso, se avessi almeno potuto avere un suo ritratto da contemplare e da tenere vicino al mio cuore lacerato

 da Cupido, ciò sarebbe stato un gran refrigerio alla mia intensa passione. - E potrà darsi, signora - diss'io, - ch'Ella abbia concepita della inclinazione gentile verso me a cagione della mia saviezza, della mia prudenza, della mia morigeratezza e delle mie riflessioni, e ch'abbia poscia potuto credere questo mio viglietto, ridicola e stolida frascheria?- Tant'è - rispose ella. - Noi donne non possiamo spogliarsi in tutto da una certa vanità che ci fa sciocche e cieche. In aggiunta al viglietto, le parole che mi disse per suo conto colui che me l'ha recato m'indussero ad una imprudenza ch'io temo che m'abbia a costare molte lagrime. Risposi al viglietto con qualche sentimento civile, ma anche cordiale; e siccome aveva appresso di me un mio ritrattino in miniatura gioiellato, fattomi fare dal marito mio, lo consegnai col viglietto a quell'uomo da recare a lei, ben certa che qualora fossi stata in necessità difarlo vedere al marito, Ella me lo avrebbe dato. Adunque non ebbe né viglietto né ritratto?- Come! - diss'io - e può Ella essere ancora in dubbio ch'io sia capace di questaazione? - No, no - rispose ella; - vedo purtroppo che lei non è capace. Me meschina, a che mai mi vedo esposta ! Un viglietto di mio pugno-quel ritratto... nellemani di quell'uomo!... Mio marito!... Mi consigli per carità. - Ella si abbandonò apiangere.Dovei rimanere maravigliato della arguta sottigliezza del ladro. Proccurai di calmarla possibilmente; quindi le dissi che per darle consiglio conveniva che mi desse una diligente e sincera informazione delle due persone, moglie e marito, che teneva in casa e con qual domestichezza ella vivesse con quelle. Mi rispose che il marito pareva buon uomo e che faceva qualche guadagno con un suo battello da trasporti. - La moglie poi - proseguì ella - è ottima povera creatura e divota cri

stiana. Sono due anni ch'io sono maritata, e la trovai in casa. Ella mi s'è affezionata ed io mi sono affezionata a lei. Mi tiene compagnia con frequenza. L'ho soccorsa molte volte nella sua povertà e si mostra gratissima. Si sa che tra donne c

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i confidiamo degli aneddoti che agli uomini non si confidano. Ella è a parte di qualche mia sventura, che a lei non dico, e mi commisera. Ella m'udì discorrere dalla finestra con lei e scherzò meco su questo proposito. Le palesai la mia inclinazione, aggiungendo però ch'io sapeva i doveri d'una maritata e che averei superata una illecita debolezza. Ella mi derise e mi diede anzi del coraggio su questo punto. Questo è quanto posso dirle con ingenuità, e le averò detto anche troppo - disse la giovane abbassando gli occhi.

- Ella non m'ha detto abbastanza - diss'io. - Quella ottima donna divota cristiana sua confidente ha mai veduto il suo ritrattino gioiellato?- Oh sì, glielo feci vedere molte volte - rispose la giovane.- Or bene - diss'io, - la buona donna cristiana divota ha palesato ogni cosa all'ottimo marito, e in concerto con quello fu macchinata la ingegnosissima trufferia col viglietto per ghermirle il ritrattino gioiellato. 11 peggio è che quella eccellente coppia ha seco qualche forfante secretano, scrittore nel conciliabolo iniquo.- Possibile ! - gridò la giovane incantata. - Ella sia più che certa - diss'io, - efra non molto Ella verrà in chiaro di questa infallibile verità. - Ma che posso fare? - diss'ella. - Mi dia un cenno sul carattere del di lei marito e de' modi co'quali è da lui trattata - diss'io.

- Mio marito m'adora - rispos'ella. - Vive con me di buonissima fede. È austero, e non vuol visite domestiche per casa; ma qualunque volta gli chiedo licenza di andar io a visitare parenti o amiche, egli mi concede la permissione senza alcuna difficoltà.- Non nego - diss'io - che la sua facile incautela non l'abbia fatta cadere in una circostanza delicata e pericolosa. Tuttavia le darò il consiglio ch'io credo l'unico nel suo caso scabroso. La buona donna cristiana divota sua confidente sa forse che oggi io doveva essere con lei in questa gondola?- Nossignore - rispose la giovane, - perch'ella era fuori di casa.- Ciò mi piace - diss'io. - Eccole il mio consiglio. Si scordi affatto il suo ritrattino gioiellato, come se mai lo avesse avuto, e porti con pazienza una tal perdita, perché a questa non v'è più rimedio. S'Ella volesse cercar conto, l'iniquo truffatore ingegnoso, scoperto, unito alla divota di lui moglie ed al secretario, pot

rebbe cagionarle delle sciagure grandissime. Se al marito venisse brama di vedere il ritratto, a una donna non deve mancar l'astuzia di cercarlo, di non trovarlo, di mostrarsi disperata e di colorire un furto. Non si lasci più vedere alla solita sua finestra a favellare con me, e anzi a quella buona donna sua confidentefaccia intendere di voler soggiogare una inclinazione inopportuna. Tratti co' modi soliti di benevolenza que' due scellerati, e guardi bene di non mostrar loroil menomo sospetto e il menomo raffreddamento. Quando avvenisse caso che quel forfante portatore di viglietti infantati le recasse qualche altro viglietto colla solita secretezza, il che succederà certamente, riceva il viglietto e lo trattenga; ma dica a quell'uomo iniquo con tutta la dolcezza ch'Ella non vuoi dare risposta, e lo preghi anzi a dirmi per parte sua ch'io cessi d'importunarla co' mieiviglietti, che ha fatti de' sani riflessi, che s'è ravveduta conoscendo il dovereverso al marito d'una moglie onorata. Aggiunga a colui d'aver saputo ch'io sonoun giovane discolo d'un pessimo carattere e che si pente d'avermi affidato il suo ritrattino. Faccia di me con quel forfante una obbrobriosa pittura, ch'io gliela concedo; e se quel briccone s'ingegnasse a battere per giustificarmi e difendermi, per volerla sedurre, come farà, si mostri costante e ferma nel suo proposito, senza mostrare mai nessuna collera verso lui e pregandolo sempre di voler troncare il filo ad una tale molestia. Se occorre, sacrifichi anche qualche ducato con quel manigoldo, purch'egli le prometta di non ricevere più da me né parole né viglietti. Questo è il consiglio ch'io posso darle, ch'io credo l'unico nel suo caso di sommo pericolo all'onor suo e che deve eseguire con avvedutezza e maestria, perocché la sua riputazione è tra mani diaboliche, capaci di annerirla col di lei marito per la propria difesa. Mi lusingo che tra pochi giorni Ella deva conoscere che il mio consiglio non fu cattivo.

La giovane si mostrò persuasa e penetrata dal mio consiglio. Promise di eseguirloa puntino. Mi giurò che la sua stima per me era divenuta maggiore; e perché eravamogiunti alla Giudecca dov'ella doveva arrivare, mi strinse modestamente una mano

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con una delle sue mani, morbidissima, ringraziandomi del disturbo ch'io m'era preso a suo riguardo, pregandomi a tener viva la mia amicizia verso lei e protestando che certamente dal canto suo, ne' confini dell'onestà, avrebbe coltivata cotesta amicizia mia come una sua grandissima ventura. Io smontai da quella gondola passando a Venezia in un'altra, alquanto più innamorato e colla mente confusa e travagliata tra l'amore e il caso che aveva udito.Erano passati otto e più giorni ch' io non vedeva la giovane e tuttavia bramava di

 vederla e di sapere come fosse passata la sua faccenda con que' truffatori. Ungiorno finalmente la vidi nella sua stanza da lavoro; e perché la mia finestra era aperta, vedendomi ella passare, mi scagliò una cartuccia legata ad un sassolino e disparve. Raccolsi la carta e lessi che dovendo ella visitare una di lei amicadopo pranzo con la permissione del marito, mi pregava ad essere alla solita oraal solito Ponte storto, che avrei veduta la gondola col solito segno del fazzoletto bianco: ch'entrassi, perché aveva una gran necessità di parlarmi. Vi andai e trovai la giovane ancor più bella per una certa insolita ilarità ch'ella aveva sul volto. Ella commise al gondoliere, il quale non era quello della prima volta, che facesse un giro per il gran canale e poscia la conducesse nel tal rio a Santa Margherita.Disse a me ch'io era un indovino da farne gran conto. Si trasse dal seno un altr

o viglietto, me lo porse, ed io lessi. Il carattere era lo stesso del primo. Lecaricature amorose dello stile medesimo. Io, che non era io, la ringraziava delritratto giurandole che lo teneva sempre o sotto agli occhi o appoggiato al miocuore. Io, che non era io, mi lagnava altamente di non vederla più alla consueta finestra e d'essere afflittissimo, che tuttavia giudicava per mio conforto che ciòavvenisse per i di lei prudenti riguardi. Io, che non era io, non dubitava però della sua costante amicizia: tanto era vero quanto, attendendo una cambiale per supplire ad un pagamento e che non era ancora giunta, io, che non era io, la pregava d'una prestanza di venti zecchini per non mancare di pontualità, che dentro a quel mese averei fatta la restituzione religiosamente; che poteva consegnarli allatore del mio viglietto, persona da me conosciuta e fidatissima, eccetera.Ebbi qualche sdegno su quella lettura. La giovine si pose a ridere del mio sdegno. - Come s'è Ella diretta con quel forfante? - diss'io. - Appunto com'Ella m'ha c

onsigliata - rispose la giovine, seguendo: - Mi perdoni, ma ho detto del gran male di lei a colui. Il furbo rimase sorpreso e voleva insistere, ma vedendomi risoluta tacque mortificato. Gli commisi di non più parlarmi di lei e di non ricevere più né parole né viglietti. Gli ho regalato un zecchino col patto fermo che non mi ragionasse molto né poco di lei, non volendo più la menoma relazione con lei; la qualrelazione è poi troncata, com'Ella vede orain questa gondola, e terminerà soltanto allorquando Ella abborrisca la mia amicizia, la qual cosa sarebbe per me una sciagura grande, le giuro.- Devo dirle anche un evento favorevole - proseguì ella. - Mio marito ha sorpresoquel forfante nell'atto che gli rubava alcuni ducati ch'erano nel ripostiglio del suo scrittoio. Gli ha comandato di sloggiare tosto colla moglie, minacciandolo di farlo porre prigione se non partiva.- Ella avrà avuta l'arte di dimostrare un gran dispiacere per que' poveri ladri scacciati - diss'io.- Mi sono ingegnata - rispos'ella - a dimostrare un dispiacere grandissimo; anzi ho fatto creder loro di aver proccurato di calmare il marito con le preghiere più ferventi, ma che lo aveva trovato irremovibile. Donai loro qualche elemosina, e da tre giorni sono sloggiati.- Bravissima! - diss'io; - la cosa va a maraviglia. Ora se anche il marito chiedesse di vedere il ritratto, è facile il fargli credere il furto senza far peccato, perché infatti que' due ladroni glielo hanno ghermito.- Ah, perché non poss'io - seguì ella - avere in casa la domestica conversazione frequente d'un amico com'Ella è ! Quanti sollievi avrebbe il mio spirito oppresso e quanto minore sarebbe la mia mestizia! Ciò non è possibile. Mio marito è troppo rigidosu questo punto, e però devo sbandire un tal desiderio. Ella tuttavia mi voglia be

ne e creda che il mio sentimento per lei oltrepassa il sentimento di stima. Può star certo ch'io cercherò de' momenti con tutta la cautela d'esser con lei, se però questi momenti non le sono di noia. La sua modestia e la sua rattenutezza mi fanno

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 ardita, e dovrà sempre credere ch'io so i doveri d'un matrimonio e che morrei prima di contaminarli.Eravamo arrivati al luogo determinato a Santa Margherita. Ella teneva stretta una delle mie mani colla più bella mano che donna avesse. Volli baciar quella mano:ella la trasse a sé. S'umiliò a voler baciare la mia, ch'io trassi a me. Uscii dalla gondola tordo impaniato e balordo. La giovane passò a fare la sua visita. Una tal bellezza di diciassett'anni eroina aveva accesa una gran fiamma nel mio cuore,

donchisciottesco sull'argomento amoroso e cuore d'intorno a vent'anni. - Sarebbe un delitto - diceva tra me - il difendere lo spirito dal non abbandonarsi ad amare questa specie di Lucrezia, tanto confacente a' modi miei di pensare. Ecco, ecco la fenice che il mio cuore cercava.Pochi giorni dopo la vidi scagliarmi la carta legata col sassolino nella mia finestra. Lo scritto conteneva Ponte storto, gondola e visita a una cugina in puerperio. Chi avrebbe mancato? V'andai. Non sono esprimibili il giubilo, la vivacità e la grazia con le quali quella ragazza m'accoglieva. La nostra conversazione era gaia, affettuosa, un commercio di sentimenti e de' tratti di spirito. Tutte lenostre carezze consistevano in un tenersi per la mano, in un stringersi la manoreciprocamente a qualche detto arguto che ci piaceva. Non v'era pericolo ch'ella esprimesse una parola smoderata o mi desse il più picciolo indizio di immodestia.

 Eravamo due innamorati morti, rispettosissimi l'uno per l'altro, e tuttavia paghi de' nostri rapimenti d'affetto.La carta col sassolino, il Ponte storto e la gondola erano spesso a campo. Io non so quanti e quali pretesti di visite trovasse quella giovine col marito, ma in vero la maggior parte di queste visite s'erano ridotte in un passare uniti alla Giudecca o a Murano, dove ci fosse un orto e qualche casupola solitaria, in cui mangiavamo una insalatina, alcune fette di prosciutto o altro, sempre scherzando, sempre ridendo, sempre giurando che ci volevamo un gran bene, sempre modestie sempre sospirando nel separarsi. Notava che in quelle frequenti nostre onestecontraffazioni ella aveva ogni volta cambiata gondola e gondoliere. Ciò era per una di lei giudiziosa cautela.Eravamo giunti ad una perfetta e sempre innocente amicizia. Parlo quanto all'esterno, ché de' lavori interni della fantasia e de' desideri non fo alcuna fede. Il

"lei" s'era cambiato nel "voi" e il "voi" s'era cambiato nel "tu", e tuttavia inostri amori consistevano nell'esser vicini l'uno all'altro, nella delizia delle espressioni vocali, nel tenersi presi l'un l'altro per le mani, in qualche stringimento di mano e nell'appoggiarsi reciprocamente talora le nostre mani a' nostri cuori che pulsavano come martelli.Un giorno le chiesi la storia del suo matrimonio. Ella mi rispose scherzando: -Tu riderai, ma sappi ch'io sono una contessa. Mio padre, ch'è il tal conte, avevame e un'altra mia sorella uniche figlie. Egli è un scialacquatore che ha consuntotutto il suo patrimonio ne' vizi. Non avendo modo di dotare le figlie die' in moglie la mia sorella maggiore ad un mercante di biade. Un assai agiato commerciante, in età di cinquant'anni circa, s'è invaghito di me, e mio padre me gli concesseper moglie senza un soldo di dote. Aveva io in quel tempo quindici anni, e sonodue anni che sono moglie d'un marito, il quale, salva l'austerità dell'antico costume, è ottimo uomo, mi fa vivere nella dovizia e m'idolatra.Io sapeva benissimo chi era quel conte suo padre desolato da' vizi, e tal qualeella me lo aveva dipinto. - E in due anni che sei maritata - diss'io - non facesti mai figli?Parve che la giovane sentisse con dispiacere questa ricerca. Il suo viso si fece color di rosa arrossendo, e rispose con una seria sostenutezza: - Tu t'inoltriun po' troppo colle tue curiosità.La sua serietà mi trafisse. Tacqui mortificato, chiedendole scusa dell'aver fattaquella domanda, quantunque a me paresse che la mia ricerca non fosse offensiva.Chi ama teme soverchiamente. Ella si commosse alla mia mortificazione e stringendomi una mano seguì dicendo: - Ad un amico qual sei tu non devo tener occulta unasciagura ch'io soffro volentieri, ma per la quale averai veduta della mestizia n

egli occhi miei. Sappi, il mio povero marito è tisico dichiarato, sempre febbricitante e impossente del tutto. Egli piange amaramente quasi le notti intere, chiedendomi perdono d'avermi legata ad un sacrifizio. Le sue parole sono tanto ingenu

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7/21/2019 Memorie Inutili - Carlo Gozzi (Venezia, 13 dicembre 1720 – Venezia, 4 aprile 1806)

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e e cordiali che fanno piangere anche me, più per la sua che per la mia sventura.Cerco di confortarlo e di lusingarlo di guarigione. T'assicuro che se il mio sangue potesse giovare, lo darei tutto per ricuperarlo. Egli ha voluto farmi una scritta confessionale d'aver avuto da me ottomila ducati in dote. Cerca di non farsi abborrire da me, con de' doni quasi giornalieri. Or mi getta nel grembo gruppi di ducati, or di zecchini, or di grosse medaglie d'oro, or di qualche anello o d'altro lavoro di brillanti; or mi reca de' tagli d'abiti, or de' gran fardelli

 di finissime biancherie, e sempre dicendomi: -Metti in serbo, cara la mia figlia. Presto rimarrai vedova. Desidero che tu possa nell'avvenire condurre de' giorni più felici di quelli che ora t'annodano ad unmatrimonio fatale. Eccoti la storia fedele del mio matrimonio e la mia circostanza che hai voluto sapere, lo temo - seguì ella guardandomi con della sostenutezza- che da questa mia confessione, che mi strappasti, tu possa formare qualche immagine indecente di me. Non ti lasciar sorprendere da un malizioso sospetto ch'io abbia accolta la tua amicizia per cercare de' turpi risarcimenti. Se scoprissiil menomo indizio in te che sei capace di concepire un così ingiurioso lordo sospetto sulla mia persona, perderei tosto quel sentimento che mi ti fa amare, e la nostra amicizia sarebbe tronca per sempre.L'aver trovata Penelope che mi amava era per il mio cuore metafisico una specie

d'estasi soavissima. Questo cosiffatto amore e queste nostre gite erano durate ben sei mesi. Gli affetti in iscambio di calmarsi bollivano ognor più. Qualche sonettino platonico e tenero, ch'io componeva diretto a lei e ch'ella intendeva benissimo e assaporava, era per lei una gemma. Me lo strappava di mano e lo mettevanel suo bel seno, più gemma del mio sonetto. Le scriveva qualche affettuosa canzonetta d'un metro che calzasse bene sulla musica ch'ella sapeva. Ella la apparavaa memoria e me la faceva sentire, cantandola dalla sua abitazione senza ch'io la vedessi, vincendo colla sensibilità delle aspirazioni e co' sospiri la più famosa sirena teatrale dell'opera.Temo che i miei lettori sieno annoiati di questo lungo mio amore semiplatonico,e credo che gran parte di questi mi chiamino scimunito e non vedano l'ora di leggere che il platonismo sia terminato. Sono al punto di confessare la degenerazione di questo amore. Bramo ancora che non si fosse degenerato, a costo d'esser gi

udicato scimunito da' sensuali, perché il mio spirito non avrebbe sofferto per unlungo tempo il crudele martirio che narrerò.Mi rattristo di dover solleticare de' brutali colla narrazione d'un errore, ma gli storici devono essere fedeli. Convien ammettere la impossibilità che in una giovine di diciassett'anni e in un giovane di vent'anni, amanti sviscerati, possa resistere perpetuamente la rigida virtù.Un giorno, col solito invito, entrai nella gondola. Correva il mese d'aprile, mese che mi restò fitto nella memoria. L'idoletto mio era vestito con una mirabile negligenza in un manto color di rosa. Credo che un pittore avrebbe dipinta la più bella Venere dipingendo la sua figura. Passammo a Murano in un orto a capo del quale v'era un casino ben addobbato, in cui si davano delle merende a chi le chiedeva. Chiedemmo la nostra colezione. Mangiammo e bevemmo facendoci l'un l'altro de' brindisi vivacemente affettuosi. Aveva io in quel giorno della insolita loquacità, non so come, e m'uscirono parecchie arguzie facete che fecero molto ridere la mia compagna.Consumata la merenda, un morbido pulito soffà ci invitava a sedere, e vi sedemmo presi per mano. Fummo muti per un momento, e vidi quella bellezza impallidire, indi accendersi in viso. Non so dire s'io fossi pallido o rosso, ma il mio sangueera in rivolta. Ella volle levarsi e staccarsi da me. La trattenni con poca fatica. Ella ricadde sopra al soffà con un profondo sospiro appresso di me. Fosse effetto d'un cocente amore, d'una gioventù fervida, del mese d'aprile o d'un'attrazione omai resa insuperabile, si trovammo ad un tratto impetuosamente con le nostrelabbra unite, lambendo lo spirito l'uno dell'altro, strettamente abbracciati e abbandonati dalla ragione e dalla virtù. Degl'impeti naturali dell'avida voluttà; un"no" spossato, ch'era il più bel "sì" che s'udisse mai; un misto di pudore, di trasp

orti, di sospiri, de' ratti inesprimibili e infine un reciproco soave languore posero il termine ad un virtuoso platonismo di sei mesi.La giovine si rimise a sedere ricomponendosi, e tutta vergognosa con gli occhi b

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assi mi disse: - O amico, son io la colpevole d'aver sedotta la tua virtù: perdonami. Non scemare la tua stima per me. - No, mia cara - risposi, - son io il malfattore che ha sedotta la tua. Non m'odiare.Ella voleva esser la rea ed io voleva essere il reo. Sembravamo Sofronia ed Olindo in Gerusalemme sulle accuse del sacro furto. Gli eroici bei contrasti sull'errore commesso non fecero altro che innamorarci, inebriarci maggiormente e farcicadere in una replica dell'errore con una dolcezza più assaporata e più contemplativ

a, la qual delizia non è intesa da' carnalacci viziosi, privi di lume per contemplarla e indegni di assaporarla.A sei mesi di platonico amore furono sostituiti altri sei mesi di abbandonato cieco amore sensuale. La gondola, Murano, l'orto, il casino, la colezione, il morbido soffà dagli errori erano con frequenza la nostra consolazione.Avrei dovuto estendere la mia cortina e non dipingere tanto vivamente i miei errori con quella giovane. Mi rimasero così fitti nell'animo che non seppi trattenere la penna rammentandoli. Mi costarono poscia tanto dolore che gli ha puniti, e possono servir di scuola alla gioventù, se leggeranno il fine impensato d'un amoreche a me pareva interminabile. Anche gli errori possono essere istruttivi.Un giorno vidi l'amica mia assai malenconica dalla finestra. Le chiesi che avesse. Ella mi disse con voce bassa che aveva delle gran cose da confidarmi e che no

n mancassi d'essere al Ponte storto e alla gondola. Non altro mi disse, e partì. Tremai immaginando ch'ella volesse confidarmi d'aver scoperto d'essere prolificatrice. Con un marito tisico, impossente e austero, l'imbroglio era ben grande. Il mio sospetto era falso. Ella mi narrò d'essere afflitta perché il di lei marito stava assai male e che, consigliato da' medici a recarsi nell'aria temperata di Padova e sotto la medicatura de' professori di quella università, era partito piangendo, lasciandola sola con una vecchia serva dormigliona. M'increbbe la causa della sua mestizia, ma mi sarebbe molto più incresciuto che la causa fosse stata quella ch'io sospettava.Dopo aver ella esagerato sul dolore che provava sulla funesta circostanza e sull'allontanamento del marito, anche con gli occhi molli di lagrimette, si ridussea farmi un discorso serio, che fu una miscellanea di giudizioso, d'affettuoso ed'artifizioso. - Amico - diss'ella, - è inevitabile la mia vedovanza tra pochi gio

rni. Una giovine vedova dell'età mìa non può per prudenza vivere isolata e in balia di se stessa. Nel caso lugubre non averei altro asilo decente che quello di mio padre. Egli è un uomo rotto; ché tra i debiti che lo assediano e i scialacqui che sono il suo vizio, colla soggezione ch'io dovrei avere d'un padre, le mie sostanze sarebbero presto consumate e rimarrei giovine, vedova e miserabile. Non ho persona a questo mondo a cui possa fidarmi a chius'occhi fuor che alla tua, in cui hodepositato il mio cuore, la mia virtù e la mia riputazione. Ho in serbo nel mio armadio una somma di danari non picciola, molte gioie, degli ori e degli argenti;voglio che tu riceva tutto e tenga tutto in diposito appresso di te, perché al caso della mia disgrazia ch'io vedo vicina, mio padre, che colla facoltà di padre volerà a por gli artigli sopra a quanto possiedo con aria di padre assistente e zelante, sono certa che in capo a due mesi avrà fatta volare ogni cosa. Non mi negherai già questo favore. Poco a poco porterò meco con cautela quanto possiedo, e tu mi porrai tutto in salvezza. Ti con segnerò anche la carta autentica di confessione dotale, che non è nota a mio padre, e all'amara perdita del mio marito, col consiglio ed aiuto di qualche tuo forense, farai que' passi che vagliano a preservare lamia sussistenza. Tu m'ami, e condiscenderai a quanto ti chiedo nella mia circostanza dolorosa.Vidi chiaramente in questo suo discorso ch'ella cercava in me una sostituzione di marito senza dirlo. Io era alienissimo da un matrimonio, perché ho sempre abborrita una indissolubile catena, e perché aveva de' fratelli ammogliati con molti figli, e sentiva del ribrezzo a pregiudicarli, obbligando il mio patrimonio ad unadote e facendo nascere de' nuovi figli, procreando un drappello di cugini Gozzitutti poveri. Nulla ostante amava assai quella giovane, aveva per lei una cordiale gratitudine e, ad onta degli errori giovanili ch'erano avvenuti tra lei e me,

 la credeva virtuosa e capace d'essermi fedele e ottima moglie. Il cuor mio si andava assoggettando in secreto e superava l'avversione ad un nodo matrimoniale.Un avvenimento stranissimo, ch'io narrerò e che averò maraviglia se i miei lettori n

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on maraviglieranno sulla lettura, venne a sciogliere la mia gratitudine, la miasecreta condiscendenza e a farmi quasi scoppiare con una sorpresa dolorosa.Calmai possibilmente quella bellezza afflitta, lusingandola che forse la infermità del marito non era al grado ch'ella temeva. Ricusai con risolutezza di ricevere i suoi capitali in diposito, prima perché io non aveva in casa un opportuno ripostiglio secreto e sicuro da poterli tener celati, poscia perché l'amava troppo peraderire ad una tal sua brama incauta, adducendo che il marito ancora in vita ave

rebbe potuto un giorno voler fare un esame sul di lei stato e sopra que' mobilich'erano a lui noti; il che averebbe posto a cimento la sua e la mia riputazione. La ringraziai della buona fede che aveva in me e le giurai che al caso della sua disgrazia averebbe trovato in me quel vigile assistente, quell'amico e infine quell'uomo che ella avesse desiderato. Ella rimase persuasa, e i nostri solitiabbandonati affetti la calmarono interamente.Non è spiegabile la fiamma del nostro amore, che cresceva ognor più in iscambio di diminuirsi, come suol succedere naturalmente dopo i sfoghi sensuali. La giovane era perfettamente bellissima. Aveva una miniera di grazie e di tratti novelli. Nelle cadute medesime conservava sempre un certo pudore che sembrava dall'amor soggiogato; ingrediente che inebbriava il mio spirito. I suoi riflessetti saggi, il suo abbassar gli occhi vergognosetta, i suoi timori ragionevoli, che terminavan

o con una procella di baci dolcissimi, avrebbero innamorato Catone.Vorrei essermi sostenuto nella delizia di sei mesi d'amor platonico e non essergiammai caduto nel sensuale, perché all'inaspettato caso, che ha troncato ad un punto il platonico e il sensuale, non averei provato un acerbissimo laceramento di spirito per qualche mese.Venne un mio amico a Venezia condotto da alcune faccende, e fu ad alloggiar meco. Egli mi vidde dire qualche parola alla giovine, e incominciò a motteggiarmi sull'amore, lodando molto la mia scelta. Volli fare il ragazzo serio, esagerando sulla saviezza e sulla modestia della persona ch'io conosceva per accidente dalla finestra come vicina, e protestando ch'io non aveva mai posto piede nella di leicasa, la qual cosa era vera.L'amico, ch'era assai scaltro e assai gallo sul proposito delle femmine, si mostrò non persuaso della mia asserzione, e volle a forza sostenere ch'io era intrinse

co amante di quella bellezza, perocché aveva ciò letto negli occhi dell'uno e dell'altra. - Tu mi sei vero amico onorato e sincero in tutte le cose - diss'egli, - ma sul fatto de' tuoi amori non ho mai potuto strapparti il secreto. Tra gli amici niente deve essere occulto, ciò che sa l'uno deve saper l'altro, e mi fai un'ingiuria facendo arcani su queste inezie amorose.- Non ho assolutamente nessuna di quelle confidenze, che tu da malizioso sospetti, con quella giovine rispettabile - rispos'io; - ma per farti vedere ch'io sono sincero con gli amici, ti dico che se anche avessi delle confidenze mi lascerei tagliare la lingua piuttosto di palesarle ad un uomo vivente, perché l'onore delle donne è per me una specie di tabernacolo. Sono sincero e fedele amico in tutto ciò che le leggi della amicizia comandano; ma non credo che l'amicizia comandi chesi palesi a un amico la fragilità e la vergogna d'una povera donna, che può aver sacrificata la sua virtù colla fiducia che il suo errore rimanga secreto tra lei e il depositario favorito dal di lei abbandono; né credo che il tener ferma questa secretezza, doverosa persino all'amico, possa offendere questo amico.Disputammo alquanto pro e contro su questa massima, e tenni sempre illesa la mia proposizione, ch'egli onorò infine delle sue risa, dileggiandomi e dicendo ch'ioaveva un'opinione da antico romanzo spagnolo. Egli fu attentissimo per vedere la mia diva e per favellare con lei qualche momento dalla finestra. Sentiva che ne' suoi discorsi, oltre ad un lago di smisurate adulazioni alla di lei bellezza,grazia e saviezza, innestava sempre la grand'amicizia che avevamo stretta lui ed io da parecchi anni e ch'eravamo più che fratelli. Scorgeva ch'ella cominciava ad ascoltarlo volontieri e a domesticarsi ne' discorsi con lui. Io mi sentiva morire, ma mi costringeva a mostrare indifferenza. Conosceva lui per amico onorato,impunta bile e cordialissimo coll'amico, ma sul fatto delle femmine lo conosceva

 per il maggior pirata, più attivo e più sollecito, che solcasse i mari di Venere. Aveva egli maggior età della mia, era però bell'uomo, facondo, acuto, vivace, risoluto e spacciativo.

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Erano passati alcuni giorni di que' passeggeri dialo-ghetti, ne' quali era sempre rammemorata la grand'amicizia e fratellanza che correva tra lui e me, e mancavano tre o quattro giorni alla sua partenza, che in altra circostanza mi sarebbespiaciuta: in quella era da me ardentemente desiderata. Un di que' giorni ho udito ch'egli le narrava d'aver una chiave d'un palchetto nel teatro a San Luca e che andava quella sera alla commedia col suo caro amico. Aggiungeva di scorgere in lei della mestizia, e la consigliava efficacemente a unirsi con noi e a venire

 a respirare un poco d'aria e a divertirsi al teatro. Ella rifiutava e negava quella unione con de' modi civili e prudenti. Egli batteva forte su questo punto per persuaderla e mi chiamò perch'io soccorressi la di lui persuasione.La giovine guardava me quasi dicendo: - Che pare a te?- L'amico mi teneva gli occhi sbarrati addosso per vedere se le faceva qualche cenno che significasse un no. Io voleva tener celata la mia debolezza, ed era imbrogliato. Credei bastanteil dire ch'io giudicava la signora prudente, e che s'ella negava, doveva avere delle fondate ragioni per negare, e ch'io non poteva che lodare la sua negativa.- Come! - gridò l'amico, - tu hai cuore di non animarla a fugare alquanto di quella sua mestizia! Non siamo forse noi due persone oneste con le quali può fidarsi avenire? Rispondi.- Ciò non posso negare - rispos'io. - Ebbene - disse la fraschetta e presto con mi

a sorpresa, - attendo una giovane mia amica, che viene ogni sera a tenermi compagnia e a dormir meco la notte sino che mio marito sta fuori. Veniremo insieme mascherate. Ci aspettino verso le due della notte in capo a questa calle.- Brava! - esclamò l'amico esultante. -Voglio che stiamo allegri. Dopo la commedia intendo di volere che passiamo in un'osteria ad una cenetta, e vogliamo brillare.Io non era vivo, e non era morto; ma m'ingegnava a sostenere il contegno della indifferenza. - Possibile - diceva tra me - che poche ore bastino a far cadere una giovine che io conobbi così virtuosa per un lungo tempo, e che poche ore bastino a involarmi una amante, che tanto apprezzo, che m'ama tanto e che cerca di voler divenire mia moglie?L'accordo era posto. Detto fatto. All'ora fissata ecco le due mascherette in capo alla calle. L'amico s'avventò come un falcone al braccio del mio bene, ed io rim

asi servendo, mal in corpo, l'altra giovine, ch'era una biondina, grassetta, non brutta, ma che in quel punto non mi ricordava nemmeno s'ella fosse femmina o maschio. Vedeva l'amico dire delle gran cose a voce bassa alle mie viscere senza mai rifinire, e l'udiva tratto tratto esalare de' gran sospiri. Io sospirava più di lui e replicava tra me e fuori di me: - E potrà mai avvenire che quella eroina si lasci sedurre? - Entrammo nel teatro e nel palchetto. La biondina si pose ad ascoltare con attenzione la commedia. L'amico non lasciava ascoltar commedia allamia colonna, e le soffiava continuamente non so quali parole ammaliate nell'orecchio. Io la vedeva accesa e sbalordita. Fremeva internamente, ma fingeva d'ascoltar la commedia, di cui non so dir altro se non che ella mi pareva eterna.Passammo dopo all'osteria della Luna, e sempre accoppiati, l'amico col mio amore, io colla biondina. Giammai potei intendere una del torrente di parole che l'amico snocciolava nell'orecchio alla compagna. Dato l'ordine per la cenetta, ci fu aperta una camera e ci furono posti de' lumi. L'amico non si stancava mai di fioccare parole basse nell'orecchio alle carni mie, e senza dare una retta al mondo né a me né alla biondina, sempre inchiodato al braccio della mia cara, passeggiava su e giù per la camera con quella. Le vedeva la faccia rossa come una bragia, edio ardeva più di lei. Così passeggiando su e giù come due invasati, passarono in una camera contigua all'oscuro, in cui aveva scorto un cattivo letto.Non li vedeva più uscire. La mia immaginazione era annuvolata e sconvolta. Caddi a sedere appresso alla biondina senza sapere dov' io mi fossi. La biondina era muta per temperamento: io era muto per il dolore. La coppia uscì quasi un quarto d'ora dopo entrata in quella maledetta camera e in un disordine che palesava chiaramente il per me terribile avvenimento.Quella crudele volle venirmi appresso con un atto amichevole. Uno di quegl'impet

i ciechi che non si possono frenare me la fece rispingere con un urto tre passiin dietro. Ella rimase mortificata. L'amico rimase sorpreso. La biondina tiravagli occhi e stava con la bocca aperta. Io mi scossi, feci forza a me stesso, pen

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tito d'aver dimostrato sdegno; e come se niente fosse avvenuto, mi lagnai dell'oste che tardava a portare la cena, adducendo che non era decenza il tenere fuori di casa quelle signore ad una notte troppo avvanzata.M'avvidi che cadeva qualche lacrima dagli occhi della bella sdrucciolata nel delitto. L'oste venne opportuno a fornire la mensa d'una cenetta da osteria. Sedemmo alla cena, che per me fu la cena di Tieste. Tuttavia m'ingegnava a dir male della commedia ch'io non aveva ascoltata, a dir male dell'oste e delle vivande, in

ghiottendo qualche morselletto che mi pareva arsenico. L'amico si mostrava alquanto confuso, ma mangiava senza avversione al cibo. La amica era mesta e si metteva alla bocca qualche bocconcello con la mano tremante. La biondina mangiava con buon appetito e gustava ogni cosa.Pagato l'oste, accompagnammo le signore all'uscio loro e le lasciammo coll'augurio della notte felice. Appena fummo soli, l'amico mi si volse dicendo: - Tuo danno. Tu mi negasti d'aver intrinsichezza amorosa con quella giovine. Se avessi confessata la verità all'amico, egli avrebbe rispettato il tuo amore. Tuo danno. - Ho detta la verità - rispos'io; - non ho la confidenza che la tua malizia sospettacon quella giovine, ma soffri ch'io ti dica un'altra verità. Sono certo che quella giovine venne con noi guardando me e ascoltando la conferma, che tu mi facestifare, che siamo due oneste persone alle quali poteva affidarsi; né so vedere onestà

in un amico che costringe con arte un altro amico a servirgli da ruffiano.- Eh ! che queste sono freddure che tra amici non si pesano colla tua romanzesca bilancia - rispos'egli. - L'amicizia vera non ha che far nulla co' diletti passeggeri che si prendiamo con questi diavoletti femmine. Tu hai un'immagine troppo sublime d'un sesso di cui io non fo che un conto solo. Non v'è abachista che potesse sommare il numero delle mie soggiogate. Fredde, calide, prudenti, caste, sul punto della sensualità le trovai tutte simili, e un poco della mia destrezza fu sufficiente a sconfiggerle tutte. Godo e lascio godere, senza lasciarmi prenderedalla passione faceta di Caloandro fedele.- Se un montone avesse la favella - rispos'io - e lo interrogassi sul fatto dell'amore colle sue pecore, egli mi risponderebbe co' tuoi medesimi sentimenti.- Bene, bene - diss'egli; - tu sei giovine, e coll'andare degli anni comprenderai che, quanto al tuo venerabile bel sesso, io sono miglior filosofo che tu non s

ei. Quella biondina non mi dispiacque - seguì egli. - Mi sono informato dall'altra dov'ella sta d'abitazione. Domani vado all'assalto della piazza e ti narrerò la mia vittoria.- Va' dove vuoi - rispos'io; - ma tu non mi beccherai più con femmine né alla commedia né all'osteria.Egli andò a letto e a sognare la biondina; ed io v'andai con un rancore e un combattimento di spirito che non mi lasciarono chiuder occhio. La mattina per tempo l'amico se ne uscì di casa, e ad ora del pranzo venne a dirmi con del stupore che la biondina era una tigre spietata e che con tutti i di lui tentativi artificiosi non aveva potuto espugnarla. - Ella può ringraziare il cielo - seguì egli - che devo partire questa sera. Sono impuntigliato con quella pudica pettegola. Vorrei che non passassero due giorni all'espugnazione e a renderla mia vittima. - Egli partì, ed io rimasi roso l'animo dal mio tormento.Aveva già fissato di non voler più vedere colei ch'era stata la mia delizia per il corso d'un anno intero. Si affacciavano poscia agli occhi della mia mente la suabella effigie, le sue tenerezze, i suoi trasporti, i suoi vezzi, i momenti soavi reciprochi, i pudori, la sua virtù. Il mio cuore s'ammolliva e cominciava a desiderare di sollevarsi col caricarla di rimproveri. L'immagine dell'atto nefando in cui ella era caduta, posso dire alla mia presenza, veniva in mio soccorso e m'induceva quasi ad odiarla.Erano scorsi ben dieci giorni che il mio spinto combattendo distruggeva la mia carne, e tuttavia aveva io fuggita ogni occasione di vedere la causa del mio martirio, quando vidi volare per la mia finestra la solita carta legata al sassolino. La raccolsi senza lasciarmi vedere. La lessi, ed ecco il contenuto di quel foglio che, tra i molti altri fogli che ho dati alle fiamme, non ebbi mai cuore di

ardere per la nuova e bizzarra giustificazione ch'egli contiene. Salva qualche correzione d'ortografia, egli è l'originale.Hai ragione, il mio errore non merita perdono. Non pretendo d'averlo espurgato c

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on dieci giorni di lagrime ch'io spargo. Queste mie lagrime sono giustificate dal caso in cui si trova mio marito, giunto da Padova e ridotto agli ultimi estremi della sua vita. Tu vedi che il mio pianto può essere interpretato per ragionevole da chi lo vede. Ah, fosse il mio pianto tutto per il povero mio marito agonizzante! Non posso dirlo, ed ecco in me un doppio delitto che mi fa odiare me stessa.Tu hai per amico un dimonio che m'ha sbalordita; egli mi fece credere d'essere t

anto tuo amico che farei a te un affronto se non condiscendessi a consolarlo. Non mi credere ciò che sembra incredibile, ma giuro a Dio ch'egli m'ha tanto fatto girare il cervello ch'io stordita m'abbandonai ciecamente, credendo di fare a teuna finezza, senza comprendere ciò ch' io mi facessi, né di cadere nel spaventevoleabisso in cui mi vidi con orrore appena caduta.Abbandonami nella mia miseria e fuggimi. Sono indegna di te, lo confesso. Mi merito di morir disperata. Addio... Terribile addio! Addio per sempre.Io non aveva idea d'una tal sorta di giustificazione, e quantunque non mi persuadesse, leggendo quel foglio il cuor mio si commosse. Rifletteva alla acerba circostanza di quella giovine col marito moribondo. Pensava che averei potuto fare almeno la parte d'amico senza far più la parte d'amante; ma il veder quell'oggetto, per cui aveva provato un anno intero di cocente amore, mi faceva tremare del pe

ricolo di ricadere, e a costo della vita non voleva più affetti con una donna resa antipatica al mio pensare metafisico e alla mia delicatezza d'animo. Sospettava anche ch'ella caricasse un po' troppo lo stato di moribondo del marito per ammollirmi. Mi vinsi, e non volli né rispondere né vederla.Fatto sta ch'io vidi passare sotto le mie finestre il funerale e il di lei marito sulla bara, e dovei prestar fede al foglio. La immaginazione mi dipingeva quella infelice bellezza desolata senza conforti. Il mio cuore mi spingeva a visitarla ed a esibirmi in quanto potessi. Il timore di riaccendermi mi tratteneva; quando m'incontrai in un prete da me conosciuto, il quale mi disse che andava a fare un dovere di condoglianza con quella giovine rimasta vedova. - Ella dovrebbe venire con me - diss'egli. - Si tratta d'un atto di pietà con una sua vicina. - Colsi la congiuntura e m'accoppiai col prete. La trovai addolorata, pallida e lagrimosa. Appena mi vide abbassò la fronte abbandonandosi al pianto. - Con la scorta d

i questo sacerdote - diss'io - sono venuto a condolermi della sua sciagura cordialmente e ad esibirmi con sincerità in quanto Ella mi credesse capace di servirlanella sua funesta circostanza.Ella raddoppiò il suo pianto e, senza mai levare gli occhi a me, rispose: - Io non merito nulla da lei... - Un pianto maggiore e de' singulti le impedirono di proseguire. Il mio cuore era intenerito, ma la ragione o la crudeltà lo soccorse; e fatti alquanti de' consueti riflessi morali che si fanno all'occasione de' morti, rinnovellando le mie esibizioni, sono partito col prete.Era scorso ben un mese ch'io non la vedeva, né voleva vederla, per le mie austereriflessioni e per fuggire i pericoli del mio cuore lacerato e combattuto spessodalle soavi reminiscenze de' momenti felici. Aveva dato a una sartorella da fare un mio farsettino, e incontrata cotesta sartorella per la via, ella mi disse che aveva perduta la misura, pregandomi che quella sera nell'andar io a casa andassi da lei per ripigliare quella misura. V'andai, ed ella mi accennò di entrare inuna camera, in cui entrato vidi con sorpresa la mia tiranna vestita d'un raso nero da lutto. Assolutamente Andromaca vedova d'Ettore era men bella di quella vedovetta. Ella si levò da sedere dicendomi: - Conosco la sua ragionevole sorpresa sull'audacia ch'ebbi di ordire un momento di poter essere con lei. Titubai se dovessi o non dovessi riferirle una cosa. Finalmente credei di mancare se non gliela dicessi. Un mercante onorato mi esibisce di sposarmi. Lei sa ciò che le ho dettoriguardo a mio padre, che purtroppo si affaccenda per trascinarmi appresso di lui colle mie poche facoltà. Cercai questo momento soltanto per poterle giurare sopra a quanto v'è di più sacro che non v'è fortuna ch'io non rifiutassi per aver quella di morire nel seno d'un amico com'Ella è. So d'essermi demeritata questa fortuna, non saprei dir come e non saprei di chi sia stata la colpa. Non voglio offendere

lei né l'artifizioso di lei amico, e voglio essere io sola la colpevole. Ella accetti almeno il mio sincero giuramento e m'abbandoni poi ne' miei rimorsi afflittivi. - Detto ciò si pose a sedere piangendo.

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Tuttoché la ragione e l'austerità dell'indole mia mi soccorressero, il discorso, ilpianto di quella bellezza e un anno di soavità che avevamo avuta insieme, mi fecero quasi vacillare. Me le sedei appresto e prendendo una delle sue belle mani ledissi con tutta la dolcezza: - Non crediate, o cara, che la vostra afflizione non mi penetri sino all'anima. Vi sono obbligato anche del stratagemma che teneste per darmi i ragguagli che m'avete dati. Il vostro tenero discorso contiene nonsolo la vostra proposizione, ma contiene pure quella risposta che dovrei darvi.

Vi ringrazio che m'abbiate levata la pena di darvela. Lasciamo nel numero degliaccidenti che accadono nel mondo, da qualunque fonte sia nato, l'accidente fatale accaduto, di cui non so quanto tempo mi voglia a guarire dal dolore che m'ha cagionato e che mi sta fitto nell'animo. È però vero che, nel modo mio di pensare, non potrei vedervi coll'occhio che vi guardava prima. La nostra unione farebbe divoi e di me due persone infelici. La vostra buona fama è con me in un sacrario. Accettate i consigli che vi dà un giovine che morrà vostro buon amico. Rassodate la mente e state in guardia se vi si avvicinano seduttori. La congiuntura che vi si presenta è ottima. Non tardate a dare la promessa di sposa al mercante onorato chemi diceste, e ponetevi in salvezza. Non aspettai risposta, e baciandole affettuosamente la mano, con uno sforzo eroico m'involai partendo, senza parlare colla sartorella della misura. Pochi mesi dopo quel colloquio ella ha sposato il mercan

te da vero. La vidi per la via alcune volte col marito e sempre bella. Nel vedermi cambiò ognora di colorito le guancie e abbassò gli occhi alla terra. Questo è quanto posso dire di quella mia terza amante, di cui non volli più cercar traccia. Seppi tuttavia, senza cercar di saperlo, ch'ella fu morigerata, saggia, esemplare ed ottima moglie di quel marito.Ad onta dell'aver espresso di non voler più scrivere capitoli lunghi, le storielle de' miei amori trattennero la mia penna più che non avrei voluto. Queste tre storielle, ch'io volli narrare minutamente in tutta la loro estensione, mi ammaestrarono sul fatto dell'amore.Passate le dette vicende amorose in età di ventun anno, divenni un argo vigilantissimo sul carattere del bel sesso, e perché il mio cuore era d'una pasta non comune ed aveva provati de' gran tormenti nelle scoperte d'incostanza e ne' distacchidell' indole mia robusta, determinata, risoluta e ferma, mi guardai bene dall'al

lacciarlo nell'avvenire con intero abbandono dello spirito.Non lussurioso per istinto e non vizioso per costume, fornito di riflessiva facoltà per frenare gli stimoli naturali, mi piacque bensì la società delle donne che mi ricrea; ma sino in qualche umana debolezza, non mai di gran conseguenza, in cui sarò certamente caduto nel trascorrere degli anni d'età virile, fui più amico ed osservatore che cieco ed appassionato amante.Parvemi di rilevare colle mie osservazioni che dell'amore dimostrato agli uomini da una gran parte delle femmine sieno i moventi o la vanità d'avere un corteggio, o un'ambizione di soggiogare de' cuori e de' cervelli d'uomini ragguardevoli, per poter dominare, vincere de' puntigli, de' tributi, usare delle sopraffazionie delle ingiustizie; o per allacciare de' serventi lor schiavi, debili e liberali condottieri a' teatri, alle feste, a' casini, a' stravizzi, alle villeggiature, che suppliscano a tutti gl'infiniti capricci della moda vaneggiatrice, ch'esse non hanno il modo di provvedere, per far eclissare 1' appariscenza di tutte leloro simili, per guadagnarsi de' novelli amanti e per tradire l'amore del medesimo servente corrivo dabbene; o per tendere delle reti che ravviluppino e lor piglino un marito condiscendente d'appoggio.Io non era nato per corteggiare. Non era ragguardevole per far trionfare una donna colla mia possanza. Non era né ricco né prodigo per appagare i capricci delle donne, per far loro fare di quelle comparse che parecchie femmine, inebbriate dalla vanità, credono decorose e che sono il bersaglio della satira e de' libelli. Nonvoleva rovinarmi nelle sostanze e nella salute. Aveva un pensare sublime e un cuore metafisico sull'argomento dell'amore. Era alienissimo dall'accomodarmi ad un matrimonio. Sicché dopo i miei tre primi abbandonati affetti, trattai il bel sesso più da filosofo osservatore che da spasimato perduto.

Ebbi familiarità con molte femmine private e teatrali, vezzose e bellissime, con questi princìpi, e le trovai contente de' modi miei di trattare, onorate, grate edottime amiche per lunghissimo tempo costantemente; perocché infine delle stravagan

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ze e delle cadute muliebri la colpa principale è sempre de' maschi adulatori e tentatori d'una mollezza e d'una leggerezza inseparabili da quel sesso.Protesto altamente, senza negare d'esser caduto in qualche ben rara e non essenziale debolezza umana passeggera, di non aver giammai guastati cervelli muliebricon de' sofismi, col distruggere gli elementi delle sane educazioni, col porre in ridicolo i riguardi e i doveri di quel sesso, col vestire la sfrenatezza da lecita libertà, col dare a' vincoli della religione, de' nodi coniugali, della modes

tia, della castità, del pudore, il titolo di pregiudizio, rovesciando il vero significato di quel vocabolo, come fanno i dicentisi filosofi contagiosi dell'età nostra. Ecco la sincera e pubblica confessione de' miei amori.Ho narrato la mia nascita, la mia stirpe, la mia educazione, i miei viaggi, le mie amicizie, le mie occupazioni, le mie controversie, i miei accidenti, il mio esterno, il mio interno, i miei amori, guidato dalla pura verità. Crediamo noi chenessuno bramasse di saperli o brami di leggerli? Nol credo. Sono inutili ed io li pubblico soltanto per umiltà.FINE DELLA PARTE SECONDA.PARTE TERZACAPITOLO I.Stravaganze e contrattempi a' quali la mia stella mi volle soggetto.

Scrissi le Memorie inutili della mia vita l'anno 1780 sino all'età che aveva in quel tempo; e perché dall'anno 1780 all'anno 1797 m'avvedo d'essere vivo ancora, avendo il vizio insuperabile di scrivere, logoro alcuni fogli di inutili memorie posteriori e pubblico anche queste per umiltà.S'io volessi narrare tutte le stravaganze e tutti i contrattempi a' quali la mia stella mi volle soggetto, averei lunga faccenda. Furono frequentissimi e quasigiornalieri. Le stravaganze ch'io soffersi mansuetamente co' successivi miei servi pro tempore potrebbero darmi argomento di formare un volume di parecchi fogli d'aneddoti, che farebbero arrabbiare e ridere. Narrerò la sola stravaganza, molesta, pericolosa e ridicola insieme, ch'io fui preso con somma frequenza da infinite persone in iscambio di chi io non era, con una insistenza ostinata; e ciò che ha di vago questa stravaganza è ch'io non somigliava punto agli uomini per i qualiera preso.

Un giorno m'incontrai in un vecchio artefice a San Pavolo, che vedendomi mi corse incontro inchinato, e badandomi un gherone del vestito piangendo, mi ringraziò svisceratamente ch'io avessi colla mia protezione liberato il di lui figlio dalle carceri. Sostenni ch'egli non mi conosceva e che mi prendeva per un altro. Egli sostenne vivamente francamente di conoscermi e ch'io era il suo caritatevole padrone Paruta. Vidi ch'egli mi prendeva per un Veneto patrizio Paruta. M'affaticai invano per disingannarlo. Quel buon uomo, forse giudicando ch'io negassi d'essere il Paruta per non volere ringraziamenti, m'accompagnò un buon tratto di strada con una tempesta di benedizioni e di promesse di voler pregare Iddio, sino cheavesse vita, per la mia felicità e per quella di tutta la mia famiglia Paruta. Chiesi a chi conosceva quel patrizio Paruta se mi assomigliasse. Mi si disse ch'egli era un signore scarno, alto, sottilissimo di taglia e di gambe, col viso spunto e che non aveva con me la menoma somiglianzà.Non v'è chi non conosca o non abbia conosciuto Michele dall'Agata noto impresariodell'Opera, né chi non sappia ch'egli era un palmo più basso di me, due palmi più grosso e differentissimo da me ne' vestiti e nella fisonomia. Ho dovuto soffrire per un lungo corso d'anni, e sino ch'egli visse, la seccaggine d'essere fermato per la via per Michele quasi ogni giorno da canterini, da canterine, da ballerini,da ballerine, da mastri di cappella, da sartori, da pittori, da dispensieri di lettere; e di ascoltar lunghe doglianze, lunghi ringraziamenti, ricerche d'alloggi, richieste e preghiere di danari in anticipazione, querimonie sulle scarse decorazioni e sulla povertà de' vestiari; e co' dispensieri di lettere di voler rifiutare replicatamente lettere e fardelli diretti a Michele dall'Agata, gridando, protestando e giurando ch'io non era Michele; le quali persone tutte, partendo astento, si volgevano a me tratto tratto guardandomi fiso smemorati e dimostrando

 di credere ch'io fossi un Michele che non volesse esser Michele. Giunto a Padova una state, seppi essere a letto da un parto la signora Maria Canziani, valente e saggia danzatrice mia ottima amica. Volli farle una visita, e chiedendo a una

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 donna nel di lei alloggio se potessi entrare nella sua stanza, ella entrò ad annunziarmi con queste parole: - Signora, è qui fuori il signor Michele dall'Agata che brama di riverirla. - Nel mio entrare ho avuto timore che la povera Canziani scoppi dal ridere sul franco sbaglio di quella femmina. Uscito da quella visita m'incontrai sul ponte San Lorenzo nel celebre professore d'astronomia Toaldo. Egli conosceva me perfettamente, com'io conosceva perfettamente lui. Lo salutai, edegli guardandomi si trasse il cappello con gravita e dicendomi: - Addio, Michele

, - e passando oltre pe' fatti suoi.La eterna insistenza di questo sbaglio m'aveva quasi ridotto a credere d'essereMichele. Se quel Michele avesse avuti de' nimici brutali vendicativi, averei avuto occasione di non ridere d'esser preso per Michele. Una sera che faceva gran caldo, splendeva una luna bellissima a tal che la notte pareva giorno. Passeggiava cercando fresco e discorrendo col patrizio Francesco Gritti nella piazza San Marco. Ho udita una voce gridare dietro di me dicendo:- Che fai tu qui a quest'ora? che non vai a dormire, pezzo d'asino? - Il dir ciò e il darmi due calzanti pugni nella schiena fu tutta una cosa. Mi volsi per fareuna mia vendetta e scòrsi il patrizio cavaliere Andrea Gradenigo, il quale, guardandomi prima attentamente, mi disse poscia:- Scusi, avrei giurato ch'Ella fosse Daniele Zanchi.

Ci fu qualche ceremonia sulle pugna e sul titolo d'asino che aveva ricevuti peresser stato creduto un Daniele, con cui il cavaliere doveva avere una confidenza da potergli dire asino e di dargli de' cazzotti per usargli una finezza domestica.Né meno stravagante fu il caso che m'avvenne sulla mia considerata somiglianzà. Essend'io con Carlo Andrich mio buon amico discorrendo sulla piazza San Marco un giorno serenissimo, vidi un greco co' baffi, vestito alla lunga, con una berretta rossa in capo, il quale aveva seco un ragazzo vestito alla sua stessa maniera. Quel greco vedendomi corse allegro verso me, e dopo avermi abbracciato e baciato con gran trasporto, si volse al ragazzo dicendogli: - Via ! ragazzo, baciate la mano qui al vostro zio Costantino. - Il ragazzo mi prese la mano baciandola. Carlo Andrich guardava me, io guardava l'Andrich; eravamo due simulacri. Finalmentechiesi al greco per chi mi prendesse. - Oh bella ! - diss'egli - non siete voi i

l mio caro amico Costantino Zucalà? - L'Andrich si stringeva le coste per non crcpare dal ridere ed io ebbi fatica sette minuti a persuadere il greco ch'io non era il signor Costantino Zucalà. Fatta ricerca sulla mia somiglianza col signor Zucalà a chi lo conosceva, fui assicurato che quel signore, onorato mercante, era un uomo di bassa statura, pingue e che non aveva grano di somiglianzà con me.Avrò tediato soverchiamente narrando la centesima parte delle stravaganze che annoiarono me sulle mie giudicate somiglianze: darò ora un cenno sulla centesima parte de' contrattempi che mi colsero. Fosse di verno, fosse di primavera, fosse di state, fosse d'autunno, ad una pioggia dirotta improvvisa che mi colse fuori di casa, per quante ore mi fermassi o sotto un porticale o in qualche bottega ad attendere che quella pioggia cessasse per andarmene a casa asciutto, non v'è esempioch'io avessi giammai la consolazione di veder cessato il diluvio, anzi lo vidi infuriare sempre maggiormente. Spinto alfine dalla ricadìa d'attendere invano, dalla impazienza e dalla brama d'andarmene a casa, mi sottomisi mansueto al diluvio, giungendo al mio albergo molle e grondante d'acqua. Giunto a casa con quella miseria addosso, appena aperto l'uscio e postomi in salvezza, cessò tosto la pioggia, le nuvole si diradarono e si mostrò il sole, ridente forse del mio fastidio.Delle dieci le otto volte per tutto il corso della mia vita, quando sperai di rimaner solo e di potermi occupare leggendo o scrivendo per appagare il mio genioe per distrarmi da' pensieri molesti, delle lettere o delle persone inaspettate, più moleste de' miei pensieri e delle lettere, vennero a interrompermi e a porrein crucciolo la mia pazienza.Delle dieci le otto volte per tutto il tempo da che incominciai a radermi la barba, per delle persone giunte nel punto di raderla, le quali vennero frettolose adducendo di aver bisogno di parlar tosto con me, o furono persone di qualità da no

n poter fare attendermi, ho dovuto nettare in fretta la saponata dal viso e talora uscire colla barba mezza rasa e mezza da radere per ascoltare le persone frettolose o per non mancare di creanza colle persone di qualità.

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Parrà indecente il narrare un altro contrattempo mio persecutore; ma lo narro perch'egli è una verità. Presso che ogni volta, ad una mia furiosa necessità di orinare essendo fuori di casa e cercand'io qualche viottola solitària per sgravarmi con modestia, appena sbottonato, eccoti aprirsi un uscio appresso di me e uscire da quello due signore che mi fanno sospendere il mio bisogno. Passo in fretta ad un altro cantuccio ch'io credo disabitato, ed eccoti delle altre signore da un uscio.Questo frequente contrattempo d'intoppo, il violente prurito mi fanno correre qu

a e colà e scompisciar spesso le brache per necessità e per modestia.Ma questi sono piccioli contrattempi e mosciolini fastidiosi soltanto. Chi ha la sofferenza di leggere la seconda parte di queste scipite Memorie troverà che il mal influsso de' contrattempi mi fu sempre sul capo, e certamente i contrattempine' quali m'involse il povero Pietro Antonio Gratarol, da me commiserato, collesue strane direzioni non furono inconsiderabili.Parmi che non sia indegno d'esser narrato un comico contrattempo che mi sorprese, e voglio narrarlo. Abitava io nella casa paterna posta in calle della Regina,contrada di San Cassiano, ed ero rimasto solo abitatore d'una casa grande, perocché i miei due fratelli Francesco ed Almorò, ammogliati e accasati nel Friuli, attenti a' loro interessi in quella provincia, avevano lasciata nel mio partaggio lapaterna abitazione. Ne' tempi delle villeggiature mi portava anch'io nel Friuli,

 lasciando le chiavi e la custodia del mio albergo ad un mercante di biade mio vicino onestissimo.Avvenne per caso che un autunno, per uno de' miei contrattempi fedeli, le pioggie e i torrenti caduti mi trattennero lungo tempo nel Friuli e sino al novembre in-noltrato. Quelle nevi alla montagna e que' venti che ristabiliscono il serenoavevano anche fissato un grandissimo freddo. M'avviai verso Venezia ben impellicciato, e superando pantani, buche profonde e fiumi gonfiati, vi giunsi verso l'un'ora di notte metà vivo e metà morto per la noia, per la stanchezza, per il freddoe per il sonno.Smontai dalla barca che mi condusse alle poste a San Cassiano, e fatto prenderead un facchino il mio baule in collo e al mio servo una cappelliera sotto il braccio, indirizzai i passi verso la mia abitazione, ben ravvolto nel pelliccio e tutto brama e necessità d'andarmene a letto ben caldo. Giunto col facchino ed il se

rvo carichi alla calle della Regina, quella via era così affollata e calcata di maschere e di gente d'ogni sesso, che il voler fendere la piena per giugnere all'uscio mio con le some de' miei due seguaci era cosa affatto impossibile.- Che diavolo è questa calca? - chiesi ad uno che m'era presso.- Fu oggi creato patriarca di Venezia il patrizio Bragadino, che ha il suo palagio nel fondo di questa calle - rispose quell'uomo. - Si fanno fuochi, feste; silargisce pane, vino e danari al popolo per tre giorni. Queste sono le cause della pressa enorme.Riflettendo io che l'uscio della mia casa era vicino al ponte per cui si passa al campo di Santa Maria Materdomini, credei, facendo un giro per la calle detta del "ravano" e per la contrada di Sant'Eustacchio, di poter riuscire nel detto campo e passando il ponte di aver libertà di ficcarmi nel mio albergo a dormire. Feci il lungo giro co' portatori del mio corredo, e giunto nel campo di Santa Maria Materdomini rimasi uno stupido nel vedere spalancate le mie finestre, e la miacasa, tutta fornita di ciocche di cristallo e illuminata da cere, ardere come la casa del Sole.Dopo essere stato mezzo quarto d'ora con la bocca aperta a mirare tanta maraviglia, mi scossi, e facendo cuore passai il ponte, picchiando forte all'uscio mio.Aperto l'uscio mi si affacciarono due militi urbani, i quali presentandomi due spuntoni al petto gridarono con viso fiero: - Per di qui non si passa.- Come! - disss'io ancor più sbalordito e mansuetamente. - Perché non poss'io passare?- Non signore - risposero que' terribili, - per quest'uscio non s'entra. Ella vada a porsi in maschera ed entri per quel portone che vede qui a mano diritta, ch'è del palagio Bragadini. Mascherato la lasceranno per di là entrare alle feste.

- Ma se fossi il padrone di questa casa, e giunto stanco da un viaggio, agghiacciato e assonnato, non potrei entrare nella mia casa per pormi nel mio letto? - diss'io con tutta la flemma.

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- Ah, il padrone? - risposero que' feroci. - Ella si fermi ed avrà qualche risposta. - Detto ciò mi chiusero impetuosamente la porta in faccia.Io guardava come un smemorato il facchino ed il servo, ed il facchino oppresso dalla soma ed il servo guardavano me incantati. S'apri finalmente di nuovo l'uscio e mi si presentò un mastro di casa tutto trinato d' oro, il quale con molti inchini mi fece l'invito d'entrare. V'entrai, e salendo la scala chiesi a quella riverente persona che fosse l'incantesimo ch'io vedeva nel mio albergo.

- E lei non sa nulla? - rispose quell'uomo. - 11 mio padrone patrizio Gasparo Bragadino, prevedendo che il di lui fratello sarebbe eletto patriarca, trovandosiristretto di fabbricato per fare le consuete feste pubbliche, desiderò di unire con un ponticello di passaggio dalle finestre questa casa alla sua, per aver maggior agio. Tanto fu eseguito con la di lei permissione. Qui si fanno parte delle feste e si getta dalle finestre al popolo pane e denari. Lei non abbia però alcun dubbio che la stanza dov'Ella dorme non sia stata preservata e chiusa con diligenza. Venga meco, venga meco e vedrà.Rimasi ancor più attonito sentendomi dire d'una permissione che nessuno m'aveva chiesta e ch' io non aveva data. Non volli però far parole con un mastro di casa sopra ciò, e giunto nella sala restai abbagliato dalle gran cere che ardevano e stordito da' servi e dalle maschere che facevano un gran girare e un gran bisbigliare

. Il romore che si faceva nella cucina m'attrasse a quella parte, e vidi un grandissimo fuoco a cui bollivano paiuoli, pignatte, tegami, e girava un lungo schidone di polli d'India, di pezzi di vitella e d'altro.Il mastro di casa cerimonioso voleva pure ch'io vedessi la mia stanza, preservata chiusa con diligenza, e ch'entrassi in quella. - Mi dica di grazia, mio signore - diss'io, - sino a qual ora dura questo tumulto?- Ma veramente - rispose il mastro di casa, - per tre notti consecutive egli dura sino a giorno.- Ho ben piacere - diss'io - d'aver avuta cosa al mondo ch'abbia potuto accomodare alla famiglia Braga-dino. Ciò m'ha cagionato un onore. Riverisca le EccellenzeLoro. Vado in traccia tosto di trovarmi un alloggio per i tre giorni e le tre notti consecutive, avendo somma necessità di riposo e di calma.- Oibò ! - rispose il mastro di casa. - Ella deve riposare nella sua casa e nella

sua stanza serbata con tutta l'attenzione.- No no, certamente - diss'io. - La ringrazio della cortese sua diligenza. Comemai vorrebb'Ella ch'io dormissi con questo fracasso? Il mio sonno è alquanto sottile.Ordinai al facchino ed al servo che mi seguissero, e passai ad abitare pazientemente per i tre giorni e le tre notti consecutive in una locanda.Alleggerito dalla stanchezza la notte, volli andare a congratularmi col cavaliere Bragadino dell'esaltazione al patriarcato del di lui fratello. Quel cavalierem'accolse con somma affabilità. Si mostrò amareggiato per quanto aveva inteso dal suo mastro di casa. Mi narrò con una candidissima ingenuità che il patrizio conte Ignazio Barziza lo aveva assicurato d'aver spedito un messo con una lettera a me nel Friuli, chiedendomi licenza di valersi del mio albergo per le feste del patriarca, e ch'io gli aveva colla mia risposta dato ampiamente l'assenso. Gli risposiche in vero non aveva veduto né messi né lettere, ma ch'egli m'aveva fatto un sommopiacere a valersi della mia povera casa; ch'io desiderava maggiori esaltazioni alla di lui famiglia, e che se ciò avvenisse, senza cercare il mezzo del patrizio conte Ignazio Barziza, facesse spalancare le porte e le finestre e si valesse liberamente dell'albergo mio. Comunque sia stata quella faccenda, ella m'ha fruttato la pregiabile benevolenza del patrizio Bragadino, m'ha fatto albergare tre giorni e tre notti in una locanda e m'ha dato argomento di narrare uno de' mei innumerabili contrattempi.CAPITOLO II.Scioglimento della compagnia del Sacchi e fine del mio corso poetico comico.Dopo venticinqu'anni della mia eroicomica assistenza prestata alla truppa del Sacchi, era omai tempo che avvenissero de' casi i quali mettessero fine alla mia r

idicola protezione. Il Sacchi, eccellente comico ma antico d'anni e presso che rimbambito, insidiato nel cuore, nella niente e nelle sostanze, addormentato ne'suoi amori faceti nell'età sua di oltre agli ottant' anni, fu l'origine vera del s

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cioglimento d'una compagnia valente, accreditata e fortunata, che forse sussisterebbe ancora e ancora averebbe forse la mia assistenza a vantaggio degl'ipondriaci e degli oppressi da' pensieri afflittivi, senza la diversa e strana natura di quell'uomo.Assai fornito di danari, d'ori, d'argenti e di gemme, la di lui figlia comica, che senza desiderare la morte del padre attendeva però la eredità di quello, vedendoinsidiate le di lui sostanze, malignava con imprudenza le sue debolezze amorose.

 Le di lei parole giugnevano alle orecchie del vecchio, che, iracondo d'indole,entrava sulle furie e s'era ridotto ad odiare la propria figlia e a perversare contro lei cordialmente. I di lui compagni non meno della figlia dileggiavano ledi lui leggerezze d'affetti, e perché egli s'era eretto come dispotico della compagnia e degli utili di quella con danno considerabile de' sozi, essi non frenavano le loro giuste lagnanze.Il vecchio, preso da una dispettosa vergogna di vedersi scoperto nelle sue debolezze, ostinato, impuntigliato in quelle e irritato dalle ragionevoli censure d'una ingiusta direzione e amministrazione, era divenuto una specie di demonio. Tutte le sue parole verso la figlia, verso i sozi e verso tutta la truppa erano morsi canini. Le risposte non erano dolcezze. Si piantavano dialoghi ch'erano strapazzi. Non si vedevano che visi ingrognati. Una società, ch'era prima la stessa arm

onia, era divenuta un inferno di dissensioni, di sospetti, di cruccio e d'odio.I compagni si guardavano l'un l'altro in cagnesco, e talora le ingiurie erano tanto gagliardamente trascorse che si videro delle spade e de' coltelli sguainatie trattenuti a gran fatica da' circostanti.Viddi l'aere divenuto feccioso e incominciai ad allontanarmi. Credei di fare qualche buon effetto legando in un fastellaccio molti libri spagnoli e molti scartafacci ch'io aveva appresso di me del Sacchi, rispedendoglieli per mostrare una alienazione; ma il canchero era già formato e mortale. Petronio Zanerini, il miglior comico che abbia l'Italia; Domenico Barsanti, comico valente; Luigi Benedetticolla moglie, utilissimi comici; Agostino Fiorilli, Tartaglia portento dell'arte, s'erano già levati dalla compagnia nauseati, legandosi a miglior partito con altre compagnie. La truppa del Sacchi per le di lui stravaganze era ridotta un carcame scarnato.

Il patrizio padrone del teatro in San Salvatore condotto dal Sacchi, in cui io lo aveva posto con tant' arte e in cui da molti anni aveva fatte grandissime ricolte, essendo il teatro da commedia più comodo e più favorito, vedendo la compagnia Sacchi resa spossata, in pericolo la utilità padronale, e avendo anche ricevuti dal Sacchi de' sgarbi e delle parole pungenti e grossolane, diede in condotta il di lui teatro ad un'altra comica compagnia, escludendo quella del Sacchi.Atanagio Zannoni di lui cognato, valentissimo comico, onest'uomo e d'indole dolcissima, ferito dalle stravaganze del vecchio inviperito, trattava di sottrarsi dalla compagnia vedendola desolata, e d'unirsi co' suoi figli alla comica compagnia del teatro in San Giovanni Crisostomo, quando comparve da me una mattina.il Sacchi unito al signor Lorenzo Selva, ottico rinomato, mio amico.Egli esagerò contro tutti i suoi compagni e i suoi parenti con delle invettive bestiali, trattando ognuno da ingiusto, da strano e da ingrato. Discese a pregarmidi indurre il di lui cognato Atanagio a non staccarsi dalla compagnia, adducendo che averebbe preso in condotta il teatro in Sant'Angelo, rinforzata la compagnia possibilmente, e che colla mia assistenza sperava di poter sussistere.Sciolsi il guinzaglio alla mia sincerità con quell'uomo, e concedendo qualche macchia d'ingratitudine ne' suoi parenti a' quali, per dire il vero, egli aveva fatti de' benefizi ne' tempi andati, mi diffusi molto sulle seduzioni alle quali lasua debolezza era soggetta, sui lacci che erano tesi alle di lui sostanze, sui suoi imprudenti trasporti di collera, sugl'ingiusti livori suoi, sui sbilanci de' fondi della compagnia, non potendo egli di sua volontà disporre de' ricavati senza l'assenso de' compagni soggetti a' danni, sulla disordinata arbitraria amministrazione; e finalmente gli feci intendere che dalla testa incominciava a puzzare il pesce e che da lui medesimo era scaturita la dissensione della compagnia e l

a fonte di tutti i mali.Egli mi concesse qualche ragione freddamente e co' denti stretti, replicando lapreghiera ch'io parlassi al di lui cognato Atanagio. Gli promisi di parlare, ed

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egli partì. Parlai col buon uomo Atanagio, il quale dopo avermi addotte molte delle sue ragioni legittime e de' suoi riflessi fondati sul pericolo della compagnia, promettendogli io che farei firmare al Sacchi una scrittura di piano economico, da eseguirsi inviolabilmente e con la chiara proibizione che niente potesse risolvere né disporre il Sacchi nella compagnia senza il consentimento di tutti i compagni interessati, Atanagio mi dié la parola di rimanere, ridendo però sulla scrittura da me disegnata. - Perocché - diss'egli - lei vedrà che con mio cognato le scrit

ture non vagliono un fil di paglia.Il Sacchi firmò la scrittura che lo spogliava del despo-tismo bestemmiando e coll' animo vendicativo. La compagnia passò nel teatro in Sant'Angelo scarsa di danari, scarsa di attori e ch'erano anche attori infelici.Aveva io scritte due sceniche rappresentazioni per soccorrerla, l'una intitolata Cimene Pardo, l'altra La figlia dell'aria. Non si poterono mai esporre al pubblico da quella truppa per mancanza di modi alle necessarie decorazioni e per mancanza di personaggi.Il Sacchi, sempre burbero e sempre stizzito con tutti, seguiva a soverchiare col suo despotismo sulle ricolte ridotte meschine. Alcuni de' stipendiati non soluti ricorsero a' tribunali per il lor pagamento, indi piantarono la compagnia. Non si sentivano che grida, che lamenti, che ingiurie, che minacce, che miserie, ch

e pretese, che sequestri e che bolli. Finalmente, dopo due anni di diabolico trambusto, una compagnia comica, che per lungo corso di anni era stata il terrore di tutte le altre comiche truppe e la delizia de' nostri teatri, si sciolse miseramente. Il Sacchi, disposto a partire per Genova, prima di porsi in viaggio venne a salutarmi e piangendo mi disse queste parole precise: - Lei è l'unica visita ch'io fo a questa mia secreta e dolorosa partenza. Non mi scorderò mai i favori che da lei ho ricevuti. Lei solo m'ha parlato con sincerità. Mi faccia degno d' un suo bacio, del suo perdono e della sua compasssione.Gli concessi il bacio. Egli partì piangendo, rapidamente; ed io, il confesso, rimasi contaminato.CAPITOLO III.Ciò che avvenne delle mie due composizioni teatrali Cimene Pardo e Figlia dell'aria.

Erano scorsi parecchi anni dopo le fastidiose vicende cagionatemi dall'infeliceGratarol, ch'io non aveva nessuna notizia della comica Ricci, passata nel teatro italiano di Parigi. Seppi che dopo esser stata a Parigi alcuni anni, essendo passato quel teatro in possesso de' comici francesi, gl'italiani avevano dovuto partire, e che la Ricci era tornata a Venezia e accettata nella compagnia comica in San Giovanni Crisostomo.Passata quella truppa nella primavera a recitare a Torino, mi pervenne una lettera della Ricci da quella parte. Dopo il titolo di compare, lessi in quella lettera ch'ella sapeva pur troppo di non meritare alcun favore da me, ma che conoscendo l'animo mio s'arrischiava di chiedermi in dono per la di lei compagnia l'opera ch'io aveva scritta, intitolata Cimene Pardo, poiché già la compagnia del Sacchi,ch'io era solito a beneficare, non esisteva più. Prometteva diligenza e decorazione decente.Un altr'uomo nel caso mio si sarebbe maravigliato nel ricevere quella lettera. Protesto di non aver avuta nessuna maraviglia, perocché, oltre alla stima ch'io aveva della eccellente attrice, m'era scordato del tutto le strane peripezie ch'ella m'aveva cagionate e le aveva ampiamente e sinceramente perdonato. Era certo che qualche principio di falsa educazione, qualche pernizioso esempio, una leggerezza naturale muliebre, e soprattutto l'adulazione e la seduzione l'avevano fatta cadere negli errori da me perdonabili senza il menomo sforzo dell'animo mio. Nessuno potrà credere a qual segno mi sia doluto il vedermi posto alla necessità da alcuni fanatici ingiusti di pubblicare in questi ultimi tempi le Memorie ingenue della mia vita, da me scritte sin dall'anno 1780 e pubblicate per rintuzzare i solenni, ostinati, indiscreti e increati tentativi d'annerire la mia riputazione.Se quella valente attrice, la di lei figlia mia buona figliuoccia, oggidì monaca i

n Rovigo, il di lei marito, dal tempo ch'io li conobbi sin oggi trovarono in mealcun indizio di livore vendicativo e se ne troveranno nell'avvenire, gli eccito a pubblicarlo. Ma lasciamo le inutili digressioni.

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Risposi civilmente alla comare che volontieri donava alla di lei compagnia Cimene Pardo, che l'opera portava con sé però il peso d'una decorazione di costo, e che non potendosi mai assicurare il buon incontro d'un'opera scenica, rimarrei con della mortificazione d'aver donato un danno in iscambio d'un utile a' di lei compagni, al caso d'una caduta di quella rappresentazione.Breve. Ripregato dalla Ricci, donai l'opera. Fu esposta in San Giovanni Crisostomo, decorata e recitata con squisitezza, ed ebbe un avvenimento fortunato.

Fui circuito per parte del capocomico della compagnia in San Salvatore, Perelli, per avere in dono La figlia dell'aria, e siccome dopo il scioglimento della truppa Sacchi da me sostenuta per cinque lustri non voleva avere parzialità più per uno che per un altro teatro, donai al Perelli l'opera, che fu rappresentata con quella buona fortuna e quegli accidenti che sono palesi nella prefazione a quell'opera già data alle stampe.Se fossi suscettibile di impressione a' dispiaceri che danno i comici, un attore di quella truppa non ha mancato di darmene un buon numero, facendo dell'opera mia, di cui aveva involata una copia, uno strano mercimonio. Ho perdonato anche a quello, ma quantunque avessi qualche apparecchio d'ossature d'altre opere teatrali, accorgendomi dopo venticinqu'anni ch'io mi dicervellava, donava e non riceveva che sgarbi e amarezze, diedi un calcio alle mie ossature e mi determinai a n

on voler più scrivere una sillaba per i teatri. Sono costante nelle mie determinazioni, e molti comici, che mi tentarono invano, possono essere testimoni della mia costanza in questo proposito.CAPITOLO IV.Non si può sempre ridere. Moralità.Il patrizio Paolo Balbi, uomo giusto, attivo e raro amico de' suoi amici, mi onorava di una fervida parzialità. Una domenica ascoltand'io la messa nella chiesa di San Moisé, mi si fece a fianco certo signor Marini chiedendomi se sapessi la fatalità avvenuta al patrizio Paolo Balbi. - Qual fatalità? - diss'io sbigottito. - Questa notte egli è mancato di vita - rispos'egli. - Come! - diss'io più atterrito. - Se iersera fui con esso più di tre ore, ed egli era allegro e gagliardo? - Tant'è - rispos'egli, - quel povero signore è morto. Perdoni se le ho data una funesta notizia ch'Ella non sapeva.

Terminata la messa che ascoltai senza ascoltarla, corsi all'abitazione di quel patrizio ch'io amava assai. Coltivava per la via una fievole speranza che la notizia non fosse verità. Lusinga vana! Trovai purtroppo la tragedia avverata e risuonare la casa d'ululati. Chiesi della moglie e de' figli: mi fu risposto che s'erano ricoverati da' patrizi Malipiero loro parenti. Volai a condolermi e a mescere colle loro le mie lagrime.Non passarono molti giorni ch'ebbi il mesto ragguaglio che mio fratello Francesco stava assai male d'una specie di cachesia nel Friuli, e pochi altri giorni passarono ch'ebbi la dolorosa nuova ch'egli era spirato. Quel poveruomo aveva lasciati tre figli maschi e la moglie vedova assai agiati, ma con una perfetta inclinazione e disposizione al disagiarsi, ad onta di tutte le prediche e di tutti i sani consigli, essendo sciolti dalla provvida soggezione del marito e padre.Una mattina ebbi la visita dell'amico mio signor Raffaele Todeschini, il quale con viso spaventato mi disse: - Devo darle una notizia afflittiva. Iersera alla bottega del caffè al ponte dell'Angelo è morto l'onorato signor Carlo Maffei.Il colpo della morte d'un mio tanto amico fu crudele al mio cuore. Egli aveva rogato il suo testamento poco tempo prima del morire, in cui sostituiva nella suapingue eredità il degno signor Giuseppe Maffei di lui cugino, e in cui aveva esagerato degli elogi di me e da me non meritati, con ordine di dovermi consegnare la di lui tabacchiera d'oro per una memoria: unica eredità ch'io abbia avuta nel corso della mia vita. Avrei rinunziato tutto l'oro del mondo, la tabacchiera e, sono per dire, il naso, per ricattare alla vita un amico tanto illibato e cordiale.Una lettera di Bergamo, molle di pianto, scrittami dall'ottima signora Lucia Muletti, m'annunzio la morte per un fiero male di petto del di lei marito mio amicissimo, che la aveva lasciata vedova afflitta e con un buon numero di figli masch

i e femmine.Passai a Padova e fui chiamato al letto di mio fratello Gasparo, il quale era infermo di male pericoloso. Egli mi raccomandò piangendo lo stato di madama Giovanna

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 Cenet, passata ad essere seconda sua moglie in benemerenza d'averlo assistito nelle di lui lunghe infermità mortali. Egli si riebbe alquanto in quel tempo, ma pochi mesi dopo con mio rammarico terminò di vivere. Feci il possibile per lo statodella sua vedova sfortunata e vorrei aver potuto far più.Il cordialissimo, costantissimo e beneficentissimo mio amico Innocenzio Massimo, dopo alcuni tocchi di apoplesia, mi fu rubato da un ultimo fiero colpo insuperabile. Piansi la di lui morte, e piansi quella della di lui consorte poco dopo, d

onna esemplare, prudente e novella Esterre de' nostri giorni. Trovai dell'alleviamento alla mia afflizione nel bell'animo del di lui unico figlio Innocenzio, che unito alla dama sua consorte, Elena Raspi, grave, ingegnosa, affabile e soavissima, mi guardò sempre coll'occhio del di lui padre e come persona a lui stretta e di lui consanguinea.Anche l'annunzio della morte in età fresca d'una mia sorella nominata Laura, a meaffezionatissima, maritata in Adria, venne a combattere il mio spinto.Potrei aver alterata l'epoca delle sopra accennate mie perdite lugubri; ma la verità è che in un breve giro d'anni vidi mietere alla morte un buon numero de' miei congiunti e un grosso numero de' miei amici, ch'io non nomino tutti per non tener più a lungo i miei lettori in un cimitero.Non dirò che la serie de' furti fattimi dalla morte avesse cambiata la mia natura,

 né che m'abbia spogliato di quel poco di filosofia ch'ebbi sempre in soccorso; ma dirò solo che i miei riflessi filosofici s'accostavano alquanto a quelli di Young. È per ciò che, pregato in quel tempo a comporre un sonetto per una raccolta nell'occasione che una dama della famiglia Cappello si chiudeva monaca in San Zaccaria, m'uscì dalla penna questo sonetto: Pallide guancie, infossati occhi e spenti che palesano il vizio, effigie astrettea mentir sempre e stanche, odii, vendette,falsi amor passeggeri e tradimenti; freddi vecchi, attillati amanti ardenti;sessagenarie liscie e vezzosette;da' sofismi scomposte idee scorrette;famiglie desolate, orbe e dolenti;

 e feretri lugubri e tombe aperte, che c'involano ognor congiunti e amici,lasciando l'uomo irresoluto e inerte; son, tra mill'altri oggetti aspri e nimici,quelli, o fanciulla, che fuggite; e incerteson l'alme ancor sui vostri di felici?Avvenne in quella stagione ch'io fui assalito da una febbre terribile. Venne ilmedico dottore Giorgio Cornaro, che oltre all'essere amico mio affettuoso, vigile sugli ammalati suoi, uomo pieno d'onestà e di sincerità, la qua! onestà e sincerità (sia detto tra parentesi) gli cagionarono delle vessazioni, era fornito di tutte le cognizioni che può dare l'arte sua. Mi toccò il polso e m'assicurò che la mia febbre era gagliarda. Aggiunse con la solita medica prudenza che conveniva stare a vedere se la detta febbre potesse essere una semplice effimera. Era ben altro che effimera. Quella febbre mi colse di nuovo la notte con una ferocia e con una doglia interna nel basso ventre, tanto atroce ed acuta ch'io tenni per fermo d'essere in sulle mosse per seguire i miei parenti ed i miei amici defunti.Soffersi l'incendio della febbre e i crudi morsi della doglia sino verso al giorno per non disturbare inutilmente il mio servo ne' sonni suoi, ma desto ch'eglifu, gli comandai di chiamarmi tosto un confessore. Egli non voleva ubbedirmi, elo feci ubbedire con una voce più da sgherro che da penitente. Mentre ch'io mi confessava, giunse il medico che, partito il confessore, entrò dicendomi: - Com'è? chefu? - Niente - diss'io scherzando. - Farmi d'avere del male a sufficienza per dover confessarmi, e mi sono confessato. Ho adempiuto al debito e alla necessità d'un cattolico, ed ho levata a lei la pena di studiare una dolce maniera di dirmi ch'io mi confessi, se la mia febbre richiedesse un tal passo. - Eh bene - rispos'

egli, toccando il mio polso e aggrottando le ciglia, - qui non è da attendere il terzo termine di questa febbre, e conviene opporre una spezieria di china per proccurare di troncare il suo corso, perocché ella è una perniziosa violente.

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Non so quante libbre di china abbia ingoiata, e mi ricordo solo che di due in due ore me ne recavano un gran peccherone. La febbre più non venne, ma ebbi tre mesi d'una convalescenza rabbiosa, ch'io superai colla mia sobrietà e col mio coraggio.Alcuni di coloro che si dicono spiriti forti, sapendo ch'io aveva chiamato un sacerdote e che aveva voluto fare la mia confessione in quella malattia, deciserosghignazzando ch'io non era filosofo; e il bello è ch'essi speravano che la loro m

ateriale, ridente, viziosa ed empia ignoranza fosse sublime filosofia. Io non so chi avesse maggior ragione di ridere, se essi di me o io di loro, e soltanto so che alcuni loro simili in punto di morte mi fecero intendere che aveva ragionedi ridere io.Pochi anni dopo ebbi un'altra febbre giudicata acuta infiammatoria e mortale dal dottor Cornaro. Protesto di non aver concepito che quella febbre fosse mortale, e mi ricordo ch'ero curioso e chiedeva alle visite che mi giugnevano come fosse riuscito un ballo nell'opera intitolata La figlia dell'aria, di cui aveva io data l'idea al Viganò famoso danzatore. Due salassi mi guarirono perfettamente, e andai a vedere il ballo della Figlia dell'aria, che mi piacque moltissimo.CAPITOLO V.Fortune de' non ricchi possidenti di beni.

Sino dal tempo in cui seguirono le divisioni del patrimonio della nostra fraterna, che non era il patrimonio di Creso, i due miei fratelli Francesco ed Almorò pensarono di ben fare a ritirarsi nel Friuli ad usare industre vigilanza sul partaggio de' loro beni. Ivi pensarono anche di ben fare a provvedersi una moglie peruno, e le lor mogli pensarono di ben fare a partorire loro de' figli. Quantunque io non abbia giammai voluto provare la soavità d'un matrimonio, vidi sempre con occhio allegro una tale soavità in tutti i fratelli miei e in tutte le cognate mie, ed amai tutti i figli procreati da quelle coppie.Rimasto soletto in Venezia ad agire agl'interessi di tutti, a pagare gli aggravi per tutti, a piatire per tutti, per preservare dalle rapine e per accrescere il patrimonio di tutti, come ho narrato addietro nelle mie Memorie; credei di farbella cosa a cedere una porzione de' miei beni nel Friuli a' due detti miei fratelli Francesco ed Almorò, togliendo in iscambio in mio capo le rendite delle parec

chie case di Venezia appigionate, per aver più comode le riscossioni al mio mantenimento e col debito di supplire a spese mie a' bisogni de' restauri delle fabbriche dette.M'avvidi presto d'aver fatta una pessima permutazione. I lagni perpetui e le richieste perpetue di ristauri de' pigionali mal disposti al pagamento del fitto; i murai, i legnaiuoli, i finestrai, i fabbri, i terrazzai, i vuotacessi, colle loro ingorde polizze continue, m'ingoiarono ogni anno il terzo della rendita. Il costo degli atti forensi necessari verso i molti affittuali che non pagavano mi rosero ogn'anno buona parte degli altri due terzi. I fitti non pagati e perduti,le abitazioni rimaste vuote, le dovute decime pagate al Principe lasciarono perconto mio appena la quinta parte di quella rendita, e buon per me ch'ella non era la sola. E perché i bei lumi filosofici del secolo accrebbero sempre maggiormente vigore alla libertà di pensare, d'operare e all'acume, e scemarono il sentimento dell'onorezza e della buona fede negli uomini, germogliendo e propagandosi i vizi tutti, poco a poco i miei pigionali divennero con me più bestie creditrici cheuomini debitori.Se volessi narrare tutti gli avvenimenti fastidiosi che la mia pacifica natura sofferse co' pigionali delle mie case, averei lunga faccenda. Sperando di far ridere i miei lettori, di cento ne scriverò due che al parer mio tengono del comico.Una femmina di buon aspetto mi chiese a pigione una mia casa ch'era rimasta vuota alla Giudecca. Le feci l'affittanza, e pagò pontualmente la prima rata del fitto. Dopo quella prima rata, le mie domande, le mie grida, le mie minacce furono parole al vento. Ella abitò quella casa tre anni colla sua famiglia, pagandomi di lusinghe, di promesse e talora d'ingiurie.Le ho esibito di donarle il debito purch'ella mi lasciasse la casa libera. Una t

ale esibizione era per lei un insulto. Entrava nelle furie, gridando ch'ella era una donna d'onore, pontuale e che non voleva doni. Finalmente per levarmi quella rogna ricorsi da un avvogadore, il quale, intesa la mia ragione e il dono ch'i

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o intendeva di fare, fece chiamare la femmina al suo tribunale. Egli durò fatica con quella gazza ciarliera a farsi promettere che, tempo otto giorni, la casa sarebbe libera. Scorsi gli otto giorni, andai alla Giudecca sperando d'entrare nelpossesso della mia casa. Furono tutte favole. La casa non era più mia, e quella femmina colla sua famiglia la abitava con una calma maravigliosa.Replicai il mio ricorso, e l'avvogadore sdegnato spedì i suoi ministri a far porre quella famiglia colle sue mobilie fuori dall'albergo non suo. I ministri mi con

segnarono le chiavi con una polizza delle loro mercedi che pagai volontieri. Passai alla Giudecca con quelle chiavi per rilevare lo stato della mia povera casa, di cui credeva finalmente di poter considerarmi padrone. La mia gita fu vana. Quell'ardita femmina colla sua famiglia aveva fatto le scalate alla fortezza ed era rientrata per una finestra a ripigliare il possesso dell'alloggio ! La mia maraviglia fu grande, ma le mie risa furono maggiori.Un terzo ricorso all'avvogadore mi liberò finalmente da quella mosca culaia; ma ebbi la casa mostruosa, senza catenazzi, senza toppe, senza porte, senza finestre, in un guasto indicibile. Dovei spendere molto danaio per porla in istato di poterla fittare a de' pigionali poco migliori della femmina diavolo.Non meno comico, a mio credere, fu il secondo caso avvenutomi per una mia casa nella contrada di Santa Maria Materdomini, rimasta vuota per i molti fitti non so

luti e da me donati. Comparve da me una mattina un uomo che a' vestiti pareva un gondoliere. Egli m'addusse che serviva di gondoliere un cittadino di casato Colombo, il quale abitava nella contrada di San lacopo dall'Orio, e che abitava egli nella contrada di San Geremia; che per la gran lontananza le mattine talora non poteva essere pronto a' servigi del padrone; che avendo io una casa da appigionare a Santa Maria vicina a San lacopo, mi pregava dell'affittanza e di dargli le chiavi, mostrandomi il danaio pronto al pagamento della rata anticipata.- Qual nome è il vostro? - diss'io.- Domenico Bianchi - rispos'egli con franchezza. - Ebbene - diss'io, - chiederò informazione di voi al padron vostro Colombo, perché io sono uno di que' cani pelati dall'acqua bollente che temono l'acqua fredda. -Ma, signore - rispos' egli, - non posso perdere gran tempo, perché ho la moglie gravida vicina al parto. Le sue doglie sono già incominciate, e vorrei tosto adagiar

la onde partorisca nella nuova abitazione, per non dover tardare i molti giornidel puerperio.- Possibile ch'ella partorisca oggi? - diss'io. - Dopo il pranzo anderò dal signor Colombo, e ritornate da me domattina quanto per tempo volete.- Bene, bene - risposagli, - Ella ha ragione, e quantunque io sia un uomo d'onore, non nego ch'Ella prenda informazione di me; ma per carità non tardi, perché la mia urgenza non ammette tardanza. - Detto ciò, partì.Appena egli mi die' tempo di pranzare che picchiò all'uscio mio con gran furore, e mi comparve disperato dinanzi con la moglie, che infatti aveva il ventre alla gola. - Perdoni, signore - diss'egli quasi piangendo, - ecco qui la mia povera moglie co' dolori del parto che incalzano. Per l'amore di Gesù mi faccia tosto l'affittanza. Io temo di non essere in tempo e ch'ella partorisca per la via.Osservai quella moglie, ch'era una giovinetta non brutta, che si teneva le pugna a' fianchi, faceva de' sberleffi, si rannicchiava e divincolava come una biscia. Tutto compassione e tutto timore ch'ella non mi partorisse in casa, corsi allo scrittoio, vergai la affittanza a Domenico Bianchi, che pagò la sua rata d'un mese, come sogliono pagare le povere genti, gli feci consegnare le chiavi dal servo, e la coppia se ne andò con Dio.Scorse alcune settimane, venne al mio albergo il piovano di Santa Maria, e tutto accèso mi disse: - A chi diavolo ha Ella affittato la tal sua casa? - A un Domenico Bianchi gondoliere, che serve la famiglia Colombo e che aveva la moglie gravida, vicina al partorire - rispos'io. - Che Domenico Bianchi? che Colombo? che gondoliere? che moglie gravida? - disse il piovano più riscaldato. - Colui non è altrimenti Domenico Bianchi: è un ruffiano. Colei è una zambracca, che s'è posta un coscino sulla pancia per farsi credere gravida. La sua casa è abitata da tre puttane che

assediano gli uomini che passano. Ivi si vende vino, si fanno baruffe e bordelli. I vicini molestati e incolleriti vengono a rompere il capo a me. Lo scandalo è grande nella contrada ed è suo debito di cristiano il rimediare a tanto disordine.

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Rimasi stordito a quella narrazione. Chetai il piovano. Narrai la storia a mia giustificazione. Lo feci ridere. Promisi il rimedio, e partì. Feci degli esami prima di cercare il rimedio, e trovai che il piovano m'aveva detta una spiacevole verità. Mi recai tosto a cercare dalla giustizia un sollecito sommario effetto della giustizia, e informando del caso mio un patrizio che mostrava per me della cordialità e che aveva un fratello avvogadore, egli mi promise di far ardere il fratello del desiderio di farmi giustizia. La risposta ch'ebbi fu questa: che fatto ma

turo riflesso dal fratello, egli aveva deciso che, trattandosi di puttane e di scandalo, la materia era per il tribunale della bestemmia e non per quello dell'avvogaria; che mi consigliava a indurre il piovano di Santa Maria a presentare una supplicazione al magistrato della bestemmia perché fosse sbandito quello scandalo dalla sua contrada; che rilevata con un processetto e con testimoni la verità, io sarei stato consolato da quel tribunale.- Perdoni - diss'io, - la materia è dell'avvogaria, perocché essendo la mia fittanza fatta ad un nome da-tomi con inganno d'uomo supposto, que' scellerati abitano la mia casa illegittimamente, con usurpo, con violenza di fatto e propria autorità. Il vendicarmi spetta a un avvogadore. Per carità non mi voglia assoggettato a lungaggini di processi e mi faccia far ragione sommariamente. - Indurrò mio fratello- disse il patrizio - a far chiamare quelle femmine per domattina al di lui trib

unale. Ella si trovi all' avvogaria domattina, tre ore innanzi la terza, esponga le sue ragioni in faccia alle avversarie. Ascoltate ambe le parti, naturalmente l'avvogadore condannerà quelle femmine a sloggiare dalla sua casa. - Bella! - rispos'io. - Vostra Eccellenza vuole ch'io sbuchi dal letto all'aurora per correreall'avvogaria a tener controversia, arringo e disputazioni a fronte d'un ruffiano e d'un branco di bagascie? La ringrazio della buona disposizione. Scusi l'incomodo che le ho dato. Piuttosto tenterò che il piovano presenti un memoriale di supplicazione alla bestemmia, ch'io appoggerò colla mia informazione del caso. - Bravissimo! questo è il miglior consiglio: così va fatto - disse il patrizio mio benevolente piantandomi.Non tardai a trovare il piovano, chiedendo l'assistenza sua del memoriale al magistrato della bestemmia, promettendo d'appoggiare al di lui ricorso. Quel piovano guardandomi con fiero ciglio si pose a gridare come un castrato: - Come! Ella

vorrebbe indurmi a fare una tale bestialità? A quel tribunale niente si determinasenza prima formare un processo, per rilevare se la istanza sia giusta o calunniosa. Le puttane in questa città hanno de' protettori tremendi e tanti testimoni falsi sotto al loro dominio, che colle loro deposizioni e i loro giuramenti fannodivenire la verità calunnia. Ho fatto ancora la castroneria di presentare a quel tribunale una supplicazione per liberare la mia contrada dallo scandalo che davauna sfacciatissima conosciutissima sgualdrina. Dopo un lungo processo e lunghi esami di testimoni, fui chiamato ex offitio da que' giudici, e dovei subire uno lunga intemerata di correzione, in cui i titoli di calunniatore, d'insidiatore la buona fama d'una povera innocente colomba, di persecutore vendicativo, e le minacce di castigo se non avessi giudizio nell'avvenire, mi mandarono sbalordito escorticato ad essere miglior pastore delle mie pecore. Non sarò più beccato a presentar memoriali a quel tribunale, se la mia contrada divenisse il ricettacolo di tutte le pubbliche prostitute. Ella ha fatto l'errore. Tocca a lei il liberare la sua casa da quel scandaloso bordello, e deve farlo sotto pena di mortalissimo peccato.Confuso tra l'imbarazzo in cui mi trovava e tra il timore di commettere il mortalissimo peccato, me ne andai trasognando dal patrizio Paolo Balbi contraddittore alla Qua-rantia, che mi amava, e narrandogli da capo a fondo la storia, ridemmo insieme. Indi egli mi disse ch'io averei dovuto andare da lui prima di fare i passi che aveva fatti; che un altro de' tre avvogadori di lui amico averebbe sommariamente fatta la giustizia di liberarmi da una sopraffazione, ch'era scelleraggine vera punibile sommariamente. - Ella però ha fatto bene - soggiunse egli - a non andare all'avvogaria ad arringare in controversia con que' bricconi. La sentenza sarebbe stata in di lei favore, ma forse quella canaglia avrebbe notato un a

ppello alla Quarantia, e lei avrebbe avuto spesa, tardanza d'anni e molto fastidio a uscire dalla pozzanghera.- Ella dunque mi favorisca di parlare all'altro avvo-gadore suo amico - diss'io.

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 - Non è più tempo - ri-spos'egli; - non farà più nulla, sapendo che l'altro av-vogadore non ha fatto nulla. Temerà di dare un rimprovero all'indolenza dell'altro operando. Tra avvogadori si rispettano per politica. - Bella politica ! E la giustiziadove alberga? - diss'io. - Lasci a me la briga - rispose il cavaliere. - Farò ricorso a tal tribunale che spaccerà immediatamente questa scelleraggine.Infatti il giorno dietro, un servo di quel patrizio mi recò le chiavi della mia casa e la fausta notizia ch'ella era vuota alla mia disposizione. Corsi a ringrazi

are il cavaliere, e anche pieno di curiosità di sapere i modi da lui tenuti per favorirmi. - Breve - diss'egli, - ho informato "messer grande", che comanda a tutta la masnada de' sbirri, della faccenda e l'ho pregato a trovar maniera di dar la fuga alla canaglia abitatrice della sua casa. Egli ha spedito uno de' suoi satelliti conoscente di quelle bagascie, che sotto aria d'amicizia, di carità e secretezza le avvertisse che "messer grande" aveva avuto comando di farle legar tutte colle funi e condurre prigioniere.Un tal secreto caritatevole avviso artificioso aveva spaventato per modo quel nefando drappello, che raccogliendo in fretta le masserizie era schizzato e fuggito. Dopo aver riso alquanto del caso, chiedendo al cavaliere qual debito avessi a pagare verso i satelliti di "messer grande" per il benefizio ricevuto, e rispondendomi egli che niente doveva pagare, ringraziando io del grandissimo favore, s

ono partito riflettendo per via sull'avvenutomi co' tribunali di giustizia e sopra "messer grande", generoso e ingegnoso giudice spacciativo.S'io volessi narrare tutte le sciagure ch'io soffersi e che soffro co' miei pigionali di Venezia, potrei formare una lunga filza di novellette piacevoli per chi non fosse ne' panni miei. Di tutti cotesti miei pigionali forse tre soli sentono lo stimolo del debito e dell'onore.Possedo quattro case nella contrada di Santa Marta, appigionate per cinquantaquattro ducati di rendita annuale. Non fo che donare il credito non riscosso di tre in tre anni, cambiare affittuali, ridonare il credito, rifare questo giuoco ditempo in tempo con somma rassegnazione; e va a pennello il titolo ironico di questo capitolo Fortune de' non ricchi possidenti di beni.CAPITOLO VI.Piato fastidioso che ha interrotto per qualche momento il mia costume di ridere

sulle umane vicende.[In un nostro podere di campi con fabbriche, suburbani alla città di Bergamo, erano puntuali fittaiuoli i Fumegalli; ma, morto un loro vecchio zio, i tre nipoti si divisero in tre parti il nostro podere, e una delle tre parti andò divisa in otto porzioni per gli otto figli d'uno di loro. Per quanto tempestassi, non pagavano più affitto di sorta, accusandosi l'un l'altro delle mancanze. A me restava di pagare anche tutti gli aggravi. E perciò mossi causa contro tutti; ed essi fecero un subaffitto a gente raggiratrice, che si dava l'aria di proteggere i Fumegalli. Seguirono anni di cause e controcause. Ottenni finalmente una giornata alla Quarantia].I raggiratori usurpatori sempre coll'aspetto d'un'ipocrita protezione fecero giugnere a Venezia una truppa di vecchi, di vedove, di figlie Fumegalli, loro antimurali, scalzi e laceri, da esporre al tribunale il giorno delle di-sputazioni.Posti in ordine i miei avvocati in parecchi giorni, rimasi attonito nel sentirmi dire la sera della penultima sessione da quelli: - Mio signore, Ella ha una ragione palmare. La lite che le vien fatta non è che una forfanteria mascherata. Noitratteremo la sua causa con quanta forza averemo, ma è cosa agevolissima il perderla. Siamo al laudo d'una sentenza, e gli avversari suoi sono al taglio di quella. Essi godono un grandissimo vantaggio.- Che taglio? che laudo? - diss'io. - Che vantaggio? che non vantaggio? Chi ha la ragione e chi il torto?- La ragione sta dal suo canto - risposero, - ma i giudici veneziani sono di pasta tenera. Una schiera di miserabili scalzi sulla panca, che furono fittaiuoli della sua famiglia da tanti gran anni, che finalmente fecero de' miglioramenti sulle sue campagne, che esibiscono una pie-geria per i fitti nell'avvenire... È diff

icile che uno "spazzo di laudo" della Quarantia li scagli esuli sopra una strada. La avvertiamo che perdendo questa causa con uno "spazzo largo", Ella corre rischio di perdere la proprietà de' suoi beni, salva una contribuzione mal pagata, e

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fa un danno notabile alla sua famiglia. Per altro noi disputeremo... La causa è onesta... Si vede chiaro che i Fumegalli non sono che bambocci fatti giuocare da delle persone usurpatrici, e la lite si può anche vincere, ma difficilmente.Questa esposizione onorata de' miei difensori accrebbe il mio imbroglio e mi pose in un grave pensiero. Io che per tutto il corso della mia vita m'era affaticato a far de' vantaggi alle famiglie di miei congiunti, che aveva spese più di cinquemila lire in quella lite in cui sapeva d'aver ragione, che m'era consunto per s

upplire agli aggravi, vedendomi esposto, ad onta delle mie ragioni palmari, al cimento di rovinar me e di rovinare i miei parenti, sarò scusato se in quella duracircostanza le mie risa si sospesero per qualche momento.Tuttavia ripigliandole sui giudici veneziani di pasta molle, dissi a' miei avvocati che non voleva esporre la mia famiglia ad un danno tanto considerabile; ch'era ben vero ch'io aveva data una parola, però condizionata, ad un onorato fittaiuolo di affittargli que' beni ch'io credeva nostri, con l'accrescimento d'un terzo d'affitto; ma che rimetteva ne' miei difensori il levarmi da un pericolo desolatore.Uno de' miei avvocati mi riferì che un avvocato degli avversari gli aveva detta qualche parola per accomodare la faccenda. Entrai in trattato e troncai la briga col modo seguente: che i Fumegalli accrescessero dugento ducati all'affitto; che

rimanessero affittuali con una affittanza semplice de' beni per altri anni dieci; che dessero una piegeria per la sicurezza del fitto in Venezia; che si facesse un novello esame sui miglioramenti e si trattenessero i detti affittuali centoducati all'anno dell'affitto al pagamento di quelli, salva sempre la comminatoria di decaduta affittanza al caso che mancassero a' patti. Un talaccordo fu confermato in iscritto colle necessarie firme e con uno "spazzo di laudo" da' voti della Quarantia, e sperai d'aver acquistata la mia quiete con utilità a' miei parenti.Il primo anno fu pagato l'affitto, nel secondo incominciò a cadere in difetto, nel terzo e nel quarto a difetto peggiore. Il chiedere pagamento e la piegeria esibita era favola. Gli atti forensi ricominciarono per parte mia. Finalmente un signore di Bergamo, di stato solido, mi fece esibire che se volessi fare a lui l'affittanza in anticipazione di que' beni e di quelle fabbriche, trasfondendo in lu

i le mie ragioni contro i Fumegalli, egli mi pagherebbe l'affitto ogn'anno della sua borsa, assumerebbe il fastidio d'ogni contesa con quegli ostinati, e che al termine dell'affittanza Fumegalli accrescerebbe di fitto altri ducati dugento,vale a dire pagherebbe ottocento bei ducati all'anno mondi da ogni aggravio. M'avvidi allora che il capitale de' nostri beni di Bergamo, non mai veduto da nessuno della famiglia, era cosa di qualche conseguenza. Parvemi di toccare il cielocol dito a questa esibizione. Feci concorrere alla scrittura tutti i fratelli ei nipoti. Sono tre anni che riscuoto il fitto con pontualità e che non mi struggoil cervello in piatire co' falliti e co' raggiratori. Ho la consolazione d'averridotta un'affittanza ch'era di quattrocento quarantatré ducati a ducati ottocento. Spero di giugnere a fare un maggior benefizio alla mia famiglia con la vendita di que' beni lontani e coll'acquisto di beni vicini. Termino questo capitolo, ch'io scrissi sbavigliando non meno di quelli che l'avranno letto.CAPITOLO VII.Fardelletto di avvenimenti. Do fine alle mie inutili Memorie pubblicate per umiltà.Erano scorsi molti anni che i miei fratelli Francesco ed Almorò co' loro figli erano nel Friuli e ch'io ero rimasto solo a Venezia abitatore della casa paterna, nella calle della Regina a San Cassiano, di mio partaggio. Questa casa vasta eraper me solo un diserto. Nel verno tremava dal freddo. Le nevi, le piogge e il ponte al Rialto mi disturbavano, specialmente la notte partendo da' teatri, ch'erano lontani da quella abitazione. L'età mia si avvanzava e mi faceva parere quel viaggio sempre maggiormente più greve.Possedeva un casino nella calle lunga a San Mosè, contrada di Santa Maria Zobenigo, vicino a San Marco, affittato per sessanta ducati all'anno. La storia di quel

casino mi sembra degna di qualche menzione nelle mie inutili Memorie. Io l'aveva appigionato da molti anni ad un mastro di casa d'un cavaliere. Questo mastro di casa, che aveva dovuto seguire il padrone ad un'ambasceria, senza darmi alcun a

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vviso l'aveva affittato ad una concubina non so di chi, vendendo a quella le sue mobilie. Questa concubina partendo l'aveva affittato ad un'altra concubina conun somigliante contratto. Il mio casino era passato nella terza e nella quarta concubina, e passava di concubina in concubina senza ch'io mai sapessi nulla. Vedeva recarmi le mie rate del fitto puntualmente, e il bello è che per lo più quelle rate m'erano recate da alcuni preti che mi facevano elogi sull'eroismo delle miepigionali successive.

L'ultima eroina mi fece intendere che il mio casino aveva necessità d'alcuni ristauri. Andai per la prima volta a vedere quell'albergo per rilevare il bisogno de' ristauri, e vi trovai una signora ristaurata con molto belletto, che m'accolsecon abbondanza di cortesia e che nel dirmi le necessità del casino intrecciava con frequenza un "ben mio", un' "anima mia", un "viscere mie".Osservando io più l'alloggio che la signora, vidi che essendo solo con poca servitù, spendendo qualche somma di ducati averei potuto ridurlo un comodo asilo per mee levarmi dalla lontananza della contrada di San Cassiano. Dissi dunque con civiltà alla mia pigionale imbellettata che la casa in vero aveva bisogno di moltissime fatture e ch'ero dispostissimo a ordinarle, perché voleva abitarla io.Le melate parole del "ben mio", "anima mia" e "viscere mie" si cambiarono in "cospetti", in "sangui", in minacce e in giurare che non sarebbe giammai uscita da

quelle pareti. Le dissi con flemma ch'io non era indiscreto e ch'ella si prendesse un tempo di alcune settimane a sloggiare, perch'ella non aveva affittanza dame, ma la aveva soltanto da chi non aveva alcuna facoltà di sostituire pigionali,e che finalmente la casa era mia e voleva abitarla io.Si sa che nelle mie disposizioni non ho trovata facilità giammai. Ebbi qualche controversia, ma infine, comperando alcuni mobili logori e sdrusciti da quella ninfa di Cocito per quel prezzo ch'ella ha voluto, ebbi libera la mia casa. Spesi circa mille ducati a ridurla decente, e pigionando la casa lontana, abitai quattordici anni nel mio casino ristaurato.Abiterei ancora in quello, se non mi giugneva una lettera di mio fratello Almorò col seguente tenore: - Che stanco egli di abitare nel Friuli, essendo rimasto vedovo con una figliuola ed un figliuolo, volendo mandare a Padova agli studi cotesto suo maschio per far d'esso un dottore e avviarlo a qualche esercizio, desider

ava di venire a Venezia ad abitare con me.Siccome amai sempre i fratelli miei, condiscesi a questa sua ottima brama, e non essendo il mio picciolo nido capace per tutti, l'abbandonai e presi insieme col detto mio fratello un'abitazione maggiore nella contrada di San Benedetto. Vidi giugnere il fratello, che da molli anni non vedeva, fatto più vecchio, com'egli avrà veduto fatto più vecchio me, e vidi la di lui prole, ch'io aveva veduta picciolina, divenuta gigantesca. Non scorse un anno che fu chiesta la di lui figliuola,in vero casalinga, valente e d'indole dolce, per moglie da un giovine d'una famiglia civile, onorata e agiata del Friuli; e il matrimonio fu tosto concluso. Misi narra ch'ella abbia partorito un maschio in capo all'anno e che sia amata e felice in quella buona famiglia. Discorrendo del figliuolo, che non è senza intelletto, il povero padre suo spese non pochi danari a mantenerlo a Padova agli studi ad apparare ragione, in iscambio di farlo studiare perch'egli apparasse la forza.Questo giovine dopo aver studiato quattr'anni ragione, essendo in sul punto di fare il grand'acquisto della laurea dottorale, fu dalla forza, ch'egli non avevastudiata, obbligato ad allontanarsi improvvisamente dalla celeberrima università di Padova, datrice della corona di lauro.Quella terribile ondulazione, che dilatandosi va rovesciando colle rivoluzioni presso che tutto il mondo abitato, giunse anche a Padova, e per un ordine della forza tutti gli alunni aspiranti al serto di lauro doverono abbandonare quella città e lasciare il lauro a'rocchi d'anguilla nello schidione ed alla gelatina. Venezia non restò illesa dall'essere còlta nel cerchio di quella tremenda ondulazione, e qui s'aperse un bello brutto campo a' filosofi osservatori sui movimenti degliumani cervelli. Il dire "un bello brutto campo" è una contraddizione, ma ne' tempi

 in cui siamo di rivoluzione sono classici anche i paradossi.Un dolce sogno della tisicamente impossibile democrazia organizzata e durevole fece urlare, ridere, ballare e piangere. Gli ululati de' sognatori, esprimendo li

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bertà, eguaglianza e fratellanza, assordarono, e i desti furono alla necessità di fingere di sognare per poter difendere l'onore, le sostanze e la vita.I non obbligati ad intendere gli effetti naturali delle scienze seminate ne' secoli non scorgono che degli arcani e de' prodigi in ciò che succede e che non intendono.Nel mezzo a' miei pensieri scritti e stampati, vestiti col mantello della facezia, e specialmente nel mio poema della Marfisa bizzarra d'aspetto burlesco, da me

 composto trentott'anni or sono, si troverà che ho sempre predette e temute le afflittive conseguenze naturali d'una scienza sconvolgitrice e inebbriatrice, lasciata liberamente seminare nel nostro secolo sulle teste degli uomini e delle femmine. Tutto doveva essere inutile, come le Memorie della mia vita e come le ricette del medico ad un uomo ch'abbia ulcerati e guasti i polmoni dal mal francese.Al dolce sogno della fisicamente impossibile democrazia noi vedemmo sviluppare...Ma lo stampatore Palese mi prega far punto fermo alle Memorie della mia vita, perocché la terza parte di quelle, unita alla sciocca romorosa commedia Le droghe d'