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Margherita Scarlato (Università Federico II di Napoli)
Rapporto al Dipartimento Politiche di Sviluppo e Coesione (DPS), Ministero dell’Economia e Finanze, aprile 2004
Titolo: “Agglomerazioni”
Abstract
L’obiettivo di questo contributo è discutere le politiche regionali europee orientate al sostegno delle agglomerazioni produttive assumendo come punto di riferimento metodologico i filoni di ricerca della NEG (New Economic Geography) e della NGT (New Growth Theory).
Il primo passo è quello di riassumere brevemente i principali risultati raggiunti sul piano teorico individuando i fattori che determinano la dinamica della localizzazione delle imprese e della creazione di nuove imprese, i nessi tra agglomerazione e crescita economica, l’impatto della riduzione dei costi di trasporto e dei costi della trasmissione delle idee.
Dai modelli teorici possiamo poi derivare le implicazioni di politica economica. I lavori discussi fanno emergere un trade-off tra obiettivi di equità regionale ed obiettivi di efficienza: le politiche regionali che attenuano le disparità di reddito sostenendo l’attrazione di investimenti nelle regioni povere, possono generare una localizzazione sfavorevole all’innovazione e alla crescita.
L’ipotesi di lavoro intorno a cui ruota questa breve riflessione è che le politiche di sviluppo che forniscono un sostegno indiscriminato, “a pioggia”, alle agglomerazioni produttive nelle aree dell’Obiettivo 1 rischiano di risultare scarsamente efficaci perché non permettono di superare questo trade-off.
Per raggiungere entrambi gli obiettivi, di equità regionale e crescita economica, gli interventi su un’area delimitata, su un particolare sistema locale di imprese, andrebbero inseriti all’interno di un disegno più ampio, che includa i nessi con territori contigui e che persegua anche finalità di lungo periodo quali la riduzione del costo dell’innovazione e la diffusione delle innovazioni.
In un passo successivo, l’analisi teorica viene ricondotta alla realtà del Mezzogiorno d’Italia. L’obiettivo consiste nel verificare se vi è coerenza tra le indicazioni fornite dalla teoria e il percorso seguito dalle politiche regionali “di contesto” condotte in Italia all’interno del quadro di riferimento europeo. Keywords: agglomeration, new economy, infrastructure, regional development policy JEL classification: F12, O18, O31, R58
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1. Politiche regionali, agglomerazione e crescita economica
Le politiche strutturali europee sono finalizzate ad accrescere la coesione
economica e sociale tra le regioni dell’Unione. A tale scopo, nel periodo 2001-2006
sono stati devoluti 213 miliardi di euro, una spesa che rappresenta un terzo del
bilancio europeo. Alla quota di fondi europei va sommata la spesa che i singoli Stati
europei compiono per politiche regionali e sussidi diretti o indiretti alla localizzazione
di imprese nelle regioni in ritardo di sviluppo (Dupont e Martin 2003).
In termini qualitativi, due sono i temi ricorrenti che fanno da orientamento alle
politiche regionali europee: l’attuazione di interventi che siano sempre più “di
contesto”, cioè che accrescano le esternalità sul territorio, e sempre meno
d’incentivazione diretta alle imprese e, seguendo la stessa logica, il potenziamento
delle azioni mirate alla realizzazione di infrastrutture.
Data la rilevanza della spesa in politiche di sviluppo regionale, appaiono di
grande interesse i lavori che analizzano all’interno di uno schema analitico rigoroso i
vantaggi economici prodotti da tali interventi.
Sul piano teorico, l’approccio della NEG (New Economic Geography) mostra
che il processo di integrazione comporta una tendenza verso l’agglomerazione: la
riduzione dei costi di transazione incoraggia le imprese a concentrarsi
geograficamente per sfruttare meglio esternalità localizzate, di tipo tecnologico e
pecuniario (Fujita, Krugman, Venables 1999, Fujita e Thisse 2002, Baldwin, Forslid,
Martin, Ottaviano e Robert-Nicoud 2003). Recenti modelli dinamici, che fondono i
filoni di ricerca della NEG e della teoria della crescita endogena (NGT, New Growth
Theory), fanno un passo avanti e aggiungono che l’agglomerazione accelera
l’innovazione e di conseguenza innalza il tasso di crescita dell’intero territorio
(Baldwin e Martin 2003).
La concentrazione spaziale delle imprese non andrebbe dunque contrastata
poiché riflette una maggiore efficienza nell’allocazione delle risorse.
Alcuni Autori hanno però segnalato che nel caso delle regioni europee le forze
dell’agglomerazione agiscono in modo peculiare, data la bassa mobilità del fattore
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lavoro. In assenza di flussi migratori, la riduzione dei costi di transazione al di sotto di
un livello critico induce le imprese a concentrarsi nelle regioni del “core” nell’ipotesi
in cui non aumentano i differenziali salariali e i differenziali nei prezzi di input non-
tradeable (come i servizi). In caso contrario, la concorrenza per le risorse immobili
scarse e la congestione nelle regioni ricche agiscono come forze di dispersione: la
pressione al rialzo sui costi di produzione attenua la spinta verso l’agglomerazione e
innesca lo sviluppo di settori industriali nelle regioni povere, seppure in proporzioni
diverse rispetto a quelle del “core” (Krugman e Venables 1995).
Tuttavia, come nota Puga (2002), in Europa la prima ipotesi (salari vischiosi)
appare più realistica poiché la struttura dei salari riflette solo debolmente le condizioni
locali del mercato del lavoro. Questo spiegherebbe perché negli ultimi anni si sono
accentuate la disuguaglianza del reddito e le differenze della struttura produttiva e dei
tassi di disoccupazione delle regioni europee (Overman e Puga 2002, Puga 1999).
Gli interventi strutturali a sostegno dell’attrazione di imprese in aree in ritardo
di sviluppo sono allora giustificati sulla base di considerazioni di equità. I benefici
dell’agglomerazione si distribuiscono infatti in modo diseguale tra le regioni e la
bassa mobilità del lavoro impedisce ai cittadini delle regioni periferiche di godere dei
vantaggi attivati dall’agglomerazione nel “core”, rafforzando la polarizzazione tra
regioni ricche e regioni povere.
Da questi lavori emerge quindi un trade-off tra equità ed efficienza: le politiche
regionali che attenuano le disparità di reddito, sostenendo l’attrazione di investimenti
nelle regioni povere, possono generare una localizzazione sfavorevole all’innovazione
e alla crescita (Martin 1999a, Midelfart-Knarvik e Overman 2002).
I risultati teorici sono parzialmente confermati dall’evidenza empirica che
mostra che i Paesi che hanno raggiunto un elevato tasso di crescita e convergenza
verso il resto d’Europa (Spagna e Portogallo) hanno anche sperimentato un marcato
incremento della disuguaglianza regionale in termini di reddito pro capite e di tassi di
disoccupazione (Martin 1999b). Al contrario in Italia, dove i divari regionali si sono
attenuati (Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e Coesione 2004), la performance
in termini di crescita è stata deludente e si sono ampliate le differenze strutturali dal
“core” dell’Europa in termini di esportazioni (Brülhart 2001, Signorini 2004).
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Nel caso dell’Italia, una spiegazione degli scarsi guadagni di efficienza
conseguiti dalle politiche regionali può essere che l’offerta di incentivi alla
formazione di agglomerazioni nelle aree sottoutilizzate si è tradotta spesso nella
ricerca da parte degli Enti locali di un sostegno “a pioggia” per il maggior numero
possibile di settori produttivi, sistemi locali di imprese, territori.
Ad esempio, di recente si è assistito ad una proliferazione di politiche di
sviluppo locale a sostegno di aree distrettuali e Progetti Integrati Territoriali, politiche
attuate senza un chiaro disegno delle finalità di politica industriale perseguite a livello
regionale e senza una valutazione delle implicazioni sul benessere delle altre regioni o
del territorio nazionale considerato nel suo insieme.
La tesi che qui si sostiene è che la politica regionale dovrebbe invece stabilire in
modo più stringente in quali circostanze e per quali settori produttivi il processo di
concentrazione va guidato, inquadrando gli effetti delle politiche di sviluppo locale in
una cornice più ampia, che includa i nessi con i territori contigui e segua una logica di
sistema (l’intera regione, le regioni limitrofe, il territorio nazionale, i Paesi
confinanti).
L’opportunità di adottare politiche di sviluppo che tengano conto
dell’interdipendenza tra settori e territori diversi è del resto confermata dall’analisi
empirica che mostra l’esistenza di spillover geografici tra province e una correlazione
positiva tra i tassi di crescita delle economie locali vicine nello spazio (Pagnini 2004).
Quest’obiettivo richiede una riflessione approfondita sui criteri di selezione di
distretti potenziali/aree territoriali da promuovere. Tali criteri devono discendere sia
dall’analisi teorica, ad esempio attraverso modelli di equilibrio economico generale
che descrivono in che modo variazioni di un tassello isolato del sistema economico si
ripercuotono su più settori e territori, sia da contributi quantitativi sui vantaggi
competitivi di determinate forme di agglomerazione produttiva e sulla loro evoluzione
nel tempo e nello spazio1.
1 Si veda, ad esempio, la recente raccolta di lavori empirici sulle agglomerazioni pubblicata dalla Banca d’Italia (2004). In particolare, si rimanda al contributo di Pellegrini (2004), che testa modelli alternativi di diffusione territoriale delle attività manifatturiere in Italia e al contributo di De Arcangelis e Ferri (2004), i quali analizzano i mutamenti nella specializzazione produttiva dei distretti italiani all’interno
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Anche con riferimento alle politiche per le infrastrutture, un pilastro della
politica regionale europea, l’assenza di una visione sistemica rischia di generare
effetti indesiderati.
Ad esempio, risultati paradossali possono conseguire da politiche che
migliorano le infrastrutture di trasporto interregionale. Tali politiche sono realizzate
allo scopo di ridurre l’isolamento delle regioni periferiche, facilitando l’accesso ai
mercati di sbocco. In realtà, migliori infrastrutture accentuano gli incentivi alle
imprese a localizzarsi dove la domanda è più forte, cioè nei più grandi mercati per
beni intermedi e finali delle regioni avanzate, poiché la riduzione dei costi di
transazione stimola i flussi di scambi verso le regioni povere (Martin e Rogers 1995).
Lo spostamento di enfasi dal trasporto su strada allo sviluppo della linea
ferroviaria ad alta velocità (Trans-European Transport Network, TEN-T) nella
politica europea per le infrastrutture potrebbe accentuare ulteriormente il processo di
concentrazione, specie dei servizi strategici alle imprese, nei grandi centri urbani delle
regioni avanzate. Le grandi città europee rappresentano infatti il cuore della rete di
trasporto ferroviario ad alta velocità e da esse si diramano frequenti collegamenti
diretti con tutti gli altri punti nodali dislocati sul territorio, mentre per i piccoli centri
l’accessibilità migliora solo con riferimento a località vicine (hub effect). In termini
relativi, il divario di accessibilità tra “core” e periferia si accentua (Vickerman et al.
1999).
Lo sviluppo delle infrastrutture della comunicazione ha invece un diverso
impatto sulla localizzazione territoriale delle imprese. La migliore trasmissione di
informazioni facilita la gestione a distanza delle fasi standardizzate della produzione,
alleviando nelle regioni congestionate il vincolo costituito dalla scarsità dei fattori di
produzione poco mobili o non-tradeable: compiti di back office e fasi standardizzate
della produzione si possono delocalizzare nelle aree rurali, suburbane, o in quelle
scarsamente industrializzate.
Se da un lato viene stimolata la dispersione delle attività produttive, dall’altro si
rafforzano gli incentivi all’agglomerazione nelle regioni avanzate, ma anche nei centri
del paradigma interpretativo NEG-NGT (concorrenza imperfetta, crescita endogena, integrazione internazionale).
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urbani delle regioni in ritardo di sviluppo, per le funzioni di management e ricerca
così come per i servizi strategici alle imprese (Robert-Nicoud 2002).
Una contrazione dei costi di transazione relativi ai flussi conoscenza opera
quindi da catalizzatore delle forze centrifughe nei settori industriali e delle forze
centripete nei comparti dei servizi e delle attività ad alto contenuto di conoscenza,
conducendo alla formazione di spazi regionali pluricentrici.
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2. New economy e localizzazione delle attività produttive: verso uno spazio
policentrico
La definizione di spazi regionali pluricentrici è un tema che può essere
affrontato adottando un approccio teorico più articolato, in grado di superare alcuni
limiti dei modelli prodotti dall’intersezione tra NEG e NGT.
La NEG enfatizza che il beneficio dell’agglomerazione risiede nella possibilità
di acquistare i beni, intermedi e finali, prodotti localmente. Lo svantaggio associato
all’agglomerazione consiste invece nei costi di trasporto sostenuti per vendere i beni
altrove. La tensione tra queste due forze, la prima centripeta e la seconda centrifuga,
si compone in una configurazione spaziale di equilibrio dell’attività economica.
Tuttavia la riduzione nei costi di trasporto e nell’importanza delle produzioni di
beni materiali a favore dei servizi e beni sempre più immateriali, impone di ripensare i
modelli della NEG fondati sul ruolo centrale dei costi di trasporto di beni fisici come
fattore di dispersione dell’attività economica (Glaeser e Kohlhase 2003).
Il movimento delle merci è sempre meno costoso mentre la mobilità del lavoro
non avviene a costo zero: i costi di trasporto connessi al movimento delle persone,
dovuti anche al tempo impiegato e al costo-opportunità del salario perduto, non si
riducono sensibilmente con le nuove tecnologie e infrastrutture fisiche.
Lo sviluppo di Internet e delle nuove tecnologie può sicuramente ridurre la
domanda di contatti face-to-face, ma le interazioni elettroniche non possono sostituire
rapporti personali basati sulla fiducia né consentono la diffusione di spillover di
conoscenze tacite, non codificate.
Nei settori che forniscono servizi ad alto contenuto tecnologico e servizi
personalizzati, si rafforzano gli effetti positivi dell’agglomerazione collegati al
beneficio che deriva dalla prossimità alle persone, specie quelle dotate di conoscenze
specifiche, dal risparmio di tempo necessario per attivare flussi di conoscenze.
Tutto ciò significa che il parametro che guida il cambiamento strutturale nella
dinamica di localizzazione delle imprese non è costituito dai costi di trasporto ma è
invece il costo di trasmissione delle idee o costo di diffusione della tecnologia.
Per quanto riguarda invece i settori manifatturieri tradizionali, la congestione
delle aree urbane e ad alta industrializzazione, sempre più estese grazie al
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miglioramento delle infrastrutture di collegamento e ai trasporti pubblici, può avere
un forte impatto negativo sulla produttività delle imprese.
In questo scenario, le regioni diventano policentriche: mentre i servizi e le
produzioni di beni immateriali, ad alto contenuto di conoscenza, si localizzano via via
nelle aree con elevata densità abitativa, in prossimità dei consumatori finali e dei
fornitori di input specifici, le attività manifatturiere trovano un incentivo forte a
localizzarsi nelle aree scarsamente industrializzate e quindi a disperdersi a macchia di
leopardo sul territorio.
Un altro limite della letteratura su agglomerazione e crescita endogena è che i
lavori che integrano NEG e NGT si fondano su modelli a due regioni. Le ultime
considerazioni che abbiamo avanzato possono invece essere pienamente sviluppate
solo costruendo modelli in cui lo spazio è formato da un continuum di potenziali
centri di agglomerazione/dispersione di imprese (Quah 2000, 2002).
Come sottolinea Quah (2001a), considerando la localizzazione delle imprese in
uno spazio continuo è possibile indagare il percorso di diffusione delle attività
produttive nello spazio e possono essere affrontate questioni più complesse: perché la
densità spaziale dell’attività economica presenta numerosi picchi, seguendo una
distribuzione più diseguale rispetto alla distribuzione di skill e altre caratteristiche
regionali? perché alcune localizzazioni transitano tra stati di sviluppo e stati di declino
delle attività economiche? perché in alcune regioni l’intensità dell’attività economica
declina rapidamente attraverso lo spazio mentre in altre regioni ciò accade solo
gradualmente?
Un’ipotesi interessante sui cui costruire un modello policentrico è che la
formazione di cluster industriali avverrebbe ad ondate che periodicamente vengono
generate dalla tensione tra spillover ed esternalità da domanda, che accrescono la
produttività delle imprese che si agglomerano, e le rigidità connesse alla disponibilità
di fattori di produzione specifici.
L’industrializzazione avverrebbe dunque attraverso fasi successive in cui si
susseguono agglomerazione e dispersione delle imprese, secondo un processo di
diffusione a macchia di leopardo, tipico dello sviluppo dei distretti industriali italiani.
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E’ dunque possibile individuare le condizioni che caratterizzano le fasi cicliche
di sviluppo del territorio cioè l’alternanza di ondate in cui ha luogo l’agglomerazione
di nuove attività economiche intorno ad alcuni centri produttivi ed ondate di
dispersione delle attività manifatturiere.
Ad esempio, Duranton e Puga (2001a, 2001b) ipotizzano una stretta
correlazione tra ciclo di vita del prodotto e distribuzione spaziale della produzione: le
attività sperimentali inizialmente nascono in grandi centri urbani dove possono
condividere processi di fertilizzazione incrociata con altre attività produttive e
successivamente, quando la produzione diventa standardizzata, le imprese
delocalizzano gradualmente gli impianti verso piccoli centri urbani ad alta
specializzazione.
Per quanto riguarda quindi i servizi e la produzione di beni nel comparto
dell’ICT, la dinamica della localizzazione opererebbe nella direzione di una
concentrazione nei grandi centri urbani di attività innovative per le quali i confini tra
produzione di beni e produzione di servizi sono molto sfumati.
Nei centri urbani la concentrazione di attività ad alta tecnologia si
accompagnerebbe inoltre ad un approfondimento della diversificazione produttiva
grazie alle esternalità di scopo trasversali a più settori. Si parla in questo caso di
esternalità tecnologiche intersettoriali o esternalità à la Jacobs (Jacobs 1969),
contrapposte alle esternalità dovute alla specializzazione settoriale, del tipo Marshall-
Arrow-Romer.
Altre possibili dinamiche della distribuzione spaziale delle imprese tra diversi
centri regionali possono essere individuate e spiegate (si veda anche Fujita, Krugman,
Mori 1999).
In conclusione, il risultato dell’interazione tra infrastrutture di trasporto,
infrastrutture della comunicazione e informazione e agglomerazione produttiva è uno
spazio regionale policentrico e la nascita di distretti plurispecializzati, accanto ai
tradizionali distretti industriali marshalliani monospecializzati.
L’analisi dei fattori che guidano questa tendenza verso uno sviluppo
policentrico permette non solo di fornire un contributo alla spiegazione del fenomeno
della diffusione territoriale dei sistemi locali di imprese ma anche di individuare
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politiche di accompagnamento e di orientamento della sua evoluzione in armonia con
gli obiettivi dello sviluppo economico.
In particolare, la diffusione della New Economy modifica profondamente la
relazione tra localizzazione produttiva e crescita economica e fa sorgere nuovi temi di
riflessione e nuovi problemi di policy: lo sviluppo di ICT e le agglomerazioni di
imprese ad alta tecnologia meritano un sostegno mirato e perché? va promossa
l’agglomerazione di imprese tradizionali o piuttosto la dispersione del settore
manifatturiero di tipo tradizionale è funzionale all’agglomerazione di imprese che
producono conoscenza?
Con riferimento alla prima domanda, l’evidenza empirica mostra
un’associazione robusta tra l’intensità di investimenti in ICT e l’attività di R&S
condotta nelle imprese. Poiché la R&S accresce la produttività totale dei fattori di
produzione, gli investimenti in ICT sono associati a settori con forti potenzialità di
crescita che fanno da traino allo sviluppo dell’intero sistema economico (De
Arcangelis, Jona-Lasinio e Manzocchi 2004).
La nostra ipotesi è che i settori high-tech sono molto sensibili alla disponibilità
in loco di imprese che domandano innovazioni e di bacini di offerta di competenze
qualificate (skill, università, centri di ricerca) in grado di dialogare con il sistema
produttivo2, condizioni che difficilmente possono emergere spontaneamente, in
assenza di incentivi adeguati.
La forte connotazione territoriale delle esternalità di conoscenza e di rete così
come la necessità per le imprese che investono in ICT di attuare una profonda
riorganizzazione dei processi produttivi e dell’organizzazione aziendale, giustifica
l’adozione di una politica regionale che concentri le risorse sulla realizzazione di
distretti digitali in un numero molto circoscritto di centri urbani in cui sono presenti
dei requisiti minimi di competenze diversificate.
Questa osservazione presuppone che il processo di agglomerazione di imprese
innovative sia trainato principalmente dalle esternalità dovute alla varietà produttiva,
cioè da esternalità à la Jacobs3.
2 Al riguardo, si rimanda a Pagnini (2002) per un’analisi empirica sulle determinanti della localizzazione delle imprese relativa alle regioni italiane. 3 Con riferimento alle esternalità di urbanizzazione, si rimanda a Duranton e Puga (2004) per un’analisi teorica, Rosenthal e Strange (2004) per una rassegna sull’evidenza empirica. Si veda inoltre Usai e Paci
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La piccola dimensione delle imprese e la loro limitata esperienza manageriale
rendono questo tipo di esternalità, anche dette “economie di urbanizzazione”,
particolarmente rilevanti per le imprese innovative meridionali.
Per quanto riguarda invece i settori manifatturieri di tipo tradizionale, le
politiche regionali dovrebbero basarsi su forme indirette di sostegno, come le
politiche per l’emersione e le politiche di integrazione all’interno del territorio
regionale (infrastrutture infraregionali, di connessione con i centri urbani, e
infrastrutture ICT a rete, per la diffusione di conoscenze) piuttosto che frammentarsi
nella promozione di una miriade di sistemi locali di imprese o puntare sugli effetti
benefici dovuti alla realizzazione di infrastrutture pesanti interregionali, effetti che
non sono affatto automatici e che potrebbero non materializzarsi mai.
Ciò perché, adottando un’ottica globale che tiene conto delle conseguenze
dinamiche, spaziali e temporali, delle modifiche sul territorio che si intende
promuovere, la dispersione del settore manifatturiero appare come l’altra faccia della
medaglia del processo di concentrazione di attività ad alto contenuto di conoscenza e
della nascita di spazi regionali policentrici.
(2001), Mion (2003), Cingano e Schivardi (2004), Pagnini (2004) per un’analisi empirica sulla rilevanza delle esternalità spaziali nelle regioni italiane.
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3. New economy, agglomerazione e sviluppo economico locale: opportunità e
rischi per il Mezzogiorno
Lo studio della dinamica delle strutture produttive nelle regioni italiane in
ritardo di sviluppo, le regioni del Mezzogiorno, fa da complemento all’analisi teorica.
L’esperienza dell’Italia, un Paese caratterizzato da forti e persistenti divari territoriali,
costituisce infatti il laboratorio ideale di verifica degli effetti dell’integrazione europea
e delle politiche regionali europee e nazionali sulla localizzazione delle imprese e la
crescita economica.
I lavori discussi mostrano che il trade-off tra obiettivi di equità ed obiettivi di
efficienza può essere risolto attraverso politiche regionali che tengano conto:
degli effetti di lungo periodo, quali la diffusione delle nuove tecnologie e le fasi
cicliche delle relazioni tra dinamica produttiva e crescita;
degli effetti di contagio tra territori contigui;
delle esternalità trasversali tra settori diversi;
Possiamo ora compiere un passo ulteriore e domandarci se un’area arretrata,
come il Mezzogiorno, presenta vantaggi specifici ad ospitare distretti tecnologici.
L’evidenza empirica sulla localizzazione delle imprese utilizzatrici di ICT e
imprese high-tech in Italia è ancora limitata e lacunosa, ma numerosi contributi
mostrano come l’evoluzione di cluster di imprese ad alta intensità di conoscenza non
debba necessariamente rafforzare il divario Nord-Sud.
Mentre le industrie tradizionali del Made in Italy (come quelle del tessile-
abbigliamento, gioielli, gomma, mobilio) appaiono fortemente concentrate in aree
territoriali delimitate, cioè nei distretti industriali, con punti di forza storicamente
rappresentati dalle regioni del Centro-Nord, le province italiane che presentano tracce
di agglomerazioni nei comparti dell’ICT non sono localizzate esclusivamente nelle
aree avanzate del Paese (Maignan, Pinelli e Ottaviano 2003, Bellini, Ottaviano e
Pinelli 2003, Viesti 2003).
Similmente, a livello europeo, Paesi periferici quali Finlandia, Irlanda e Svezia
risultano tra i principali produttori e utilizzatori di beni ad alto contenuto di
conoscenza (Quah 2001).
Poiché allo stato attuale in Italia non sono presenti segnali di specializzazione
produttiva in ICT né sono emerse chiare differenze territoriali nell’utilizzazione e
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dinamica degli investimenti delle imprese in ICT, in questo settore le regioni
meridionali non partono da una posizione di svantaggio comparato rispetto alle altre
regioni del Paese.
Ciò significa che la creazione di cluster digitali nel Mezzogiorno rappresenta
un’opportunità concreta di sviluppo, in linea con l’obiettivo della creazione di uno
spazio europeo pluricentrico individuato dalla Commissione Europea (European
Commission-Commitee on Spatial Development 1999).
Sulla base dell’analisi della distribuzione spaziale delle imprese che producono,
o meglio che utilizzano ICT, appare utile verificare in che misura i nuovi strumenti di
sviluppo locale (Patti Territoriali, PIT-Progetti Integrati Territoriali, Contratti di
localizzazione ecc.) rispondono o potrebbero rispondere alla necessità di sostenere le
agglomerazioni spaziali innovative.
L’approccio di sistema promosso dalla nuova “progettazione integrata”, il suo
carattere intersettoriale e il dichiarato orientamento prioritario a favore della
“creazione di beni collettivi e di condizioni di contesto ad essa favorevoli”, appaiono
aspetti che rendono questi strumenti particolarmente adatti ad affrontare un obiettivo
complesso quale la creazione e la diffusione di conoscenze sul territorio.
Quest’obiettivo richiede infatti un forte coordinamento delle decisioni di agenti privati
(imprese, lavoratori) ed istituzioni pubbliche (Enti Locali, Università, centri di
ricerca).
Un discorso analogo vale con riferimento ai Contratti di localizzazione, sia
perché si tratta di contratti che affiancano la concessione di incentivi alla
realizzazione di infrastrutture materiali e immateriali, sia perché rientrano nella
cassetta degli attrezzi della Società Sviluppo Italia come strumento di attuazione di
una più vasta strategia di marketing territoriale ed attrazione di IDE (Investimenti
Diretti Esteri).
Di particolare rilievo è la valutazione dei risultati potenzialmente conseguibili
attraverso la realizzazione di PIT dedicati all’area tematica delle innovazioni.
Nel V Rapporto DPS 2001-2002 (DPS 2003b) si legge che i PIT nascono non
come nuovo strumento di politica di sviluppo ma come “modalità operativa di
attuazione” di un Programma regionale, che consente di integrare e collegare
interventi eterogenei finanziati dalla Regione. L’obiettivo è far convergere molteplici
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interventi regionali su pochi obiettivi e fabbisogni del territorio. A differenza dei Patti
Territoriali, i PIT prevedono inoltre una maggiore allocazione di risorse a iniziative
infrastrutturali e di servizio.
Nella nuova programmazione dei Fondi europei, i PIT possono dunque svolgere
un ruolo cruciale per il conseguimento di obiettivi regionali quali Formazione,
Ricerca, Società dell’Informazione.
Allo stato attuale, sono necessari ancora molti aggiustamenti nella gestione della
progettazione integrata territoriale, data anche la breve storia nell’esperienza delle
Istituzioni e nei soggetti economici coinvolti.
I PIT sono stati avviati dalle Regioni nel triennio di programmazione
comunitaria 2000-2001 attraverso modelli diversi che variano per l’intensità di risorse
assegnate, le modalità di raccolta delle proposte (procedure a bando o negoziali) e i
meccanismi di selezione, il grado di delega delle responsabilità dei progetti ai livelli
subregionali.
L’interpretazione generale che le Regioni hanno adottato è comunque orientata
verso una parziale “territorializzazione” di una quota delle risorse dei Programmi
regionali. Ciò appare in netta contraddizione con le finalità stesse dei PIT
(realizzazione di progetti che, per la loro complessità, richiedono una gestione
integrata).
Nel complesso, i punti critici emersi nella progettazione dei PIT riguardano: la
difficoltà delle Regioni di individuare specifiche priorità territoriali, l’assenza di
progetti diretti ad intere filiere regionali coerenti con i contenuti di una chiara
strategia di sviluppo, gli intoppi nel raccordo del Governo Regionale con il proprio
territorio. Debolezze molto simili erano state già riscontrate con riferimento ai Patti
Territoriali, gli interventi di sviluppo territoriale integrato che hanno fatto da
battistrada ai PIT (Dipartimento delle Politiche per lo Sviluppo 2003a)
Queste inefficienze potrebbero ridursi se le Regioni svolgessero un ruolo più
forte di stimolo e di coordinamento per indirizzare la progettazione integrata verso la
realizzazione di azioni articolate inserite all’interno di un disegno ampio, che includa i
nessi con territori contigui e le finalità di sviluppo di lungo periodo.
Al riguardo, vale la pena citare il rapporto di ricerca sull’efficacia dei Patti
Territoriali del DPS con riferimento all’innalzamento dell’efficienza delle iniziative
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centrate sul manifatturiero: “ esso è (…) probabilmente connesso alla presenza di
investimenti imprenditoriali in attività nuove per l’area (che non è facile suscitare), ad
esempio in attività connesse alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione,
che possono avere connessioni con il tessuto economico preesistente O ancora, in
iniziative volte a suscitare imprese in settori con barriere all’entrata normative o
conoscitive, come nelle attività di servizio alle persone ed in genere in attività che
possono essere condotte da imprese no-profit. O ancor più, in iniziative collettive
miranti alla diretta generazione di economie esterne, quali centri per la diffusione
dell’innovazione o consorzi per la qualità o marchi territoriali. Una possibile
implicazione riguarda ad esempio la necessità di qualificare ulteriormente i progetti
da sostenere, anche in campo manifatturiero, limitando o escludendo l’uso degli
incentivi a singole aziende che siano svincolati da progetti specifici di cooperazione
tra imprese, o tra imprese e soggetti pubblici, per interventi a forte contenuto
innovativo e ad elevata interdipendenza” (DPS 2003a, pp.36-37).
Assumendo i criteri richiamati come punto di riferimento, sembrano esserci
ampi margini di miglioramento nell’attuazione delle politiche regionali territoriali
nella direzione di un rafforzamento delle attività produttive manifatturiere ad alto
valore aggiunto, della formazione, della realizzazione di infrastrutture a rete e, infine,
della ricerca e innovazione tecnologica.
Alla luce di queste riflessioni, il primo argomento da sottoporre ad un esame
approfondito è come catalizzare, in particolare attraverso i PIT, le esternalità collegate
all’accumulazione di capitale umano e alla produzione di nuove idee all’interno di
realtà industriali dominate da imprese di piccole dimensioni, con vocazioni produttive
di tipo tradizionale.
Il secondo tema di rilievo è la valutazione degli interventi territoriali e di
sviluppo locale realizzati di recente in relazione all’obiettivo, a nostro avviso
rilevante, di colmare i salti che impediscono l’attivazione di esternalità non solo
intrasettoriali ma anche e specialmente intersettoriali.
Negli ultimi anni la politica economica svolta dalle Regioni e da altre Istituzioni
locali delle aree sottoutilizzate ha affiancato misure di sostegno delle agglomerazioni
produttive nei comparti tradizionali (turismo, cultura, tessile-abbigliamento e
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calzature), alla promozione di cluster digitali, al potenziamento di infrastrutture, poli
logistici e di trasporto.
Tali interventi andrebbero esaminati verificando la coerenza rispetto al Quadro
Comunitario di Sostegno di ciascuna regione e agli obiettivi dichiarati, individuando
la relazione tra strumenti di sviluppo diversi che agiscono sullo stesso territorio,
eventualmente proponendo criteri più stringenti di selezione delle agglomerazioni
spaziali e delle infrastrutture in corso di programmazione così come dell’ordine di
priorità da assegnare ai progetti presentati.
Infine, non andrebbe trascurato che uno sviluppo locale qualificato, ad alto
contenuto di conoscenza e innovazione tecnologica, richiede l’integrazione tra
politiche attuate su scala diversa: locale, regionale e nazionale. Sarebbe dunque
auspicabile un maggior coordinamento tra soggetti responsabili della politica
economica che agiscono ai differenti livelli di competenza4.
4 Al riguardo, si veda Sforzi (2004).
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