Manuale di filologia romanza (Renzi-Andreose)
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1
INTRODUZIONE
1. Cosa si intende per ‘Filologia e linguistica romanza’ ? È estremamente difficile circoscrivere adeguatamente una disciplina che attraversa
settori disciplinari molto diversi e per la quale risulta impossibile trovare un’unica
definizione.
E tuttavia, per specificarne l’ambito, gioverà richiamarsi all’etimologia della dizione:
filologia, dal greco philologos = ‘amante del discorso, della parola …’ che
immediatamente ci riconduce allo scopo principale della disciplina, vale a dire la ‘cura’ e
l’intelligenza del testo, analizzato in tutti i suoi aspetti attraverso un serio impegno
interpretativo; linguistica: lemma formato da lingua + il suffisso –istico/a (che -al
femminile- serve per formare nomi astratti) che può essere definita come la: «Scienza che
studia il linguaggio, le lingue e le loro reciproche influenze dal punto di vista teorico e
generale, storico e descrittivo»1; l’aggettivo ‘romanza’: dall’avverbio romanice ‘alla
maniera romana’, indica ciò che concerne l’area di quei popoli che parlano lingue derivate
dal latino. Dunque oggetto della ‘Filologia e linguistica romanza’ sono la letteratura
romanza dal Medioevo fino alla modernità e gli idiomi romanzi indagati nel loro sviluppo
storico.
Filologia e linguistica risultano dunque strettamente intrecciate e necessarie una all’altra:
è impossibile leggere un testo se non se ne accerta prima la correttezza testuale e se non lo
si restituisce al suo contesto storico-ricezionale, ma lo è altrettanto se non se ne
comprende l’espressione scritta e se non si è in grado di datare e localizzare un testo
servendosi dell’analisi linguistica.
Torniamo all’aggettivo ‘romanzo/a’: infatti seguirne, almeno in grandi linee, la storia2
rappresenterà la migliore introduzione alle pagine che seguiranno.
Dal III al VI secolo le espressioni lingua latina e lingua romana sono sinonimi, ma
progressivamente la documentazione mostra una progressiva divaricazione dei due
termini: latinus rimase l’aggettivo atto ad indicare la realtà culturale di maggior prestigio
e romanus il latino parlato. Per giungere però ad una più chiara specificazione: volgare
versus latino, dobbiamo arrivare al IX secolo, alla famosissima (e su cui torneremo) XVII
Deliberazione del Concilio di Tours (813), in cui si invitano gli ecclesiastici a predicare
in rustica romana lingua:
Visum est unanimitati nostrae, ut quilibet episcopus habeat omelias continentes necessarias admonitiones,
quibus subiecti erudiantur, id est de fide catholica, prout capere possint, de perpetua retributione bonorum
et aetermna damnatione malorum, de resurrectione quoque futura et ultimo iudicio, et quibus operibus
possit promereri beata vita, quibusve excludi. Et ut easdem homilias quisque aperte transferre studeat in
rusticam romanam linguam aut theotiscam, quo facilium cuncti possint intelligere quae dicuntur.
All’unanimità abbiamo deliberato che ciascun vescovo tenga omelie contenenti le ammonizioni necessarie a
istruire i sottoposti circa la fede cattolica, secondo la loro capacità di comprensione, circa l’eterno premio ai
buoni e l’eterna dannazione dei malvagi, e ancora circa la futura resurrezione e il giudizio finale, e con quale
opere possa meritarsi la beatitudine, con quali perdersi. E che si studi di tradurre comprensibilmente le omelie
medesime nella lingua romana rustica o nella tedesca affinché tutti più facilmente possano intendere quel che
viene detto.
Dunque al sintagma romana lingua si affianca l’aggettivo rustica che designa non più
due diversi livelli di latino, ma due lingue diverse. Il passaggio da una all’altra è infatti
1 Cf. Dizionario della lingua italiana curato da Tullio De Mauro, Milano, Paravia, 2000.
2 Storia descritta con grande finezza in un saggio di Au. Roncaglia, Tristano e anti-Tristano. Dialettica di temi e
d’ideologie nella narrativa medievale, testi e appunti del corso … a. a. 1980-1981, Roma, Bulzoni 1981, pp. 69-
107 (poi in ‘Romanzo: ‘scheda anamnestica di un termine chiave, in Il romanzo, a cura di M. L. Meneghetti,
Bologna, il Mulino, 1988, pp. 209-27).
2
segnata dall’azione di transferre = tradurre, mentre su un piano orizzontale la nuova
lingua volgare si definisce dall’opposizione con la lingua theotisca (parlata nei territori di
lingua germanica dell’impero).
Pochi anni dopo il sintagma lingua romana riaffora nei Giuramenti di Strasburgo, 14
febbraio 842, riportati fedelmente dallo storico Nitardo. I due nipoti di Carlo Magno:
Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, nello stringere il patto di alleanza contro il
fratello maggiore Lotario, si rivolgono prima al proprio esercito, poi a quello dell’altro
parlando rispettivamente in romana lingua e in teudisca:
«…Lodhuvicus romana, Karolus vero teudisca lingua, juraverunt. »
(=… giurarono Ludovico in lingua romana e Carlo in lingua tedesca)
Nitardo, con grande scrupolo documentario, riporta esattamente le parole del
giuramento, giunte a noi attraverso un manoscritto del X secolo3.
Accanto a romanus grande vitalità godrà anche l’aggettivo romanicus = ‘alla maniera
romana’ , da cui deriva l’espressione loqui romanice, dove l’avverbio romanice denuncia
una situazione di transizione, di crisi dell’unità linguistica. Quando la parlata non corrisponde più al latino
unitario della classicità e non s’è ancora cristallizzata in nuove unità letterarie nazionali o almeno regionali,
sulla norma oggettiva prevale la modalità soggettiva: e appunto un’espressione di modalità, l’avverbio
romanice prevale nell’uso pratico sul nome, sì da trasformarsi alla fine, quando le varietà volgari si
normalizzeranno, esso stesso in un nome: romanz4.
Da romanice, infatti, per normale evoluzione di fonetica storica, discende il francese
romanz che da aggettivo passerà ben presto a sostantivo in area gallo-romanza, come si
ritrova già nel più antico trovatore a noi noto, Guglielmo IX d’Aquitania (1071-1126), in
Pos de chantar m’es pres talenz, vv. 22-3 :
et el prec En Jesu del tron
en romans et en son lati (ed egli preghi il Signore Gesù del cielo, in lingua volgare e nel suo latino)
5.
Interessante, ancora, l’esempio, di poco posteriore, estratto da una predica rimata della
prima metà del XII sec. :
Por icels enfanz
los fiz en romanz,
qui ne sunt letré:
car mielz entendrunt
la langue dont sunt
des enfances usé (st. 128)
(Per quei fanciulli -che non sono istruiti- lo compose in lingua romanza, perché meglio capiranno la lingua
cui sono abituati sin dall’infanzia)
dove l’accento batte sulla necessità di rendere accessibile ad un pubblico di non istruiti
la predica, pena il fallimento della scrittura stessa destinata a restare inascoltata.
Il passaggio successivo riguarda lo slittamento da romanz = ‘lingua volgare’ a romanz =
‘composizione in lingua volgare’, attraverso l’espressione -frequentemente utilizzata-
3 Sul testo dei Giuramenti di Strasburgo, si veda l’edizione curata e commentata K. Gärtner- G. Holtus, Die erste
deutsch – französische “Parallelurkunde”. Zur Uberlieferung und Sprache der Stassburger Eide, in Beiträge zum
Sprachkontact und zu den Urkundensprachen zwischen Maas und Rhein, Trier 1995, pp. 97-127. 4 Cf. Roncaglia, Tristano e anti-Tristano cit. , p. 19.
5 O, come traduce M. Eusebi, Guglielmo IX, Vers, Parma, Pratiche editrice 1995, p. 84, ‘nella sua lingua’.
3
mettre en romanz, cioè ‘tradurre in lingua romanza’ (anche se nella maggior parte dei casi
non si potrà certamente parlare di vera e propria traduzione):
Benoit de Sainte Maure, Roman de Troie (1165 ca.)
E pur ço me vueil travaillier
en une estoire comencier,
que de latin, on je la truis,
se j’ai le sen et se jo puis,
la voudrai si en romanz metre
que cil qui n’entendent la letre
se puissent deduire el romanz (vv. 33-39)
(E per questo voglio sforzarmi di dare inizio ad una storia che, dal latino in cui la trovo, se ne ho la
capacità e la possibilità, la vorrei trasporre in lingua romanza, in modo che coloro che non capiscono il
latino possano divertirsi con quest’opera in lingua romanza)
ed in altri testi il riferimento alla fonte latina risulti assolutamente fittizio, un modo per
dare lustro alla propria opera attraverso il richiamo ad un modello autorevole :
Prologo del Cligès di Chrétien de Troyes (1170 ca.)
Cil qui fist d ‘Erec et d’Enide
et les comandemenz Ovide
et l’Art d’amor en roman mist
…………….
un novel conte recomance.
………………………
Ceste estoire trovons escrite
que conter vos vuel et retreire
an un des livres de l’aumeire
mon seignor saint Pere a Biauveis :
de la fu li contes estreiz
don cest romanz fist Chrestiiens…
(Colui che compose la storia di Erec e Enide e volse in lingua romanza i Comandamenti d’amore e l’Arte
di amare di Ovidio… comincia un nuovo racconto… Questa storia -che voglio raccontare e riportare-
troviamo scritta in un libro dell’armadio di Messer San Pierre di Beauvais, da lì fu estratto il racconto dal
quale Chrétien fece il suo romanzo).
Proprio l’etimologia di romanzo da romanice parabolare e il suo slittamento semantico
da ‘lingua volgare’ a ‘composizione in lingua volgare’, ci riconduce a quel nodo
strettissimo che lega le nascenti lingue e letterature latine alla matrice latina, in un
intreccio articolato ma assolutamente centrale per comprendere i successivi sviluppi dei
nuovi idiomi. Non sarà un caso che gli intellettuali più avveduti cercheranno di fondare la
nuova tradizione letteraria romanza appropriandosi e attualizzando il tesoro rappresentato
dalla cultura classica, tesoro che continuerà a rappresentare nel tempo un riferimento ed
un serbatoio inesauribile di scienza e di sapienza.
Assolutamente emblematiche in proposito le famose affermazioni di Giovanni di
Salisbury (1115 ca-1180) dove «l’autore enuncia l’idea del progresso nella tradizione,
grazie alla tradizione: ma sempre di progresso si parla, anzi la tradizione stessa sembra
divenire progresso»6:
Itaque ea, in quibus multi sua tempora consumpserunt, in inventione sudantes plurimum, nunc facile et
brevi unus assequitur; fruitur tamen etas nostra beneficio precedentis, et sepe plura novit, non suo quidem
precedens ingenio, sed innitens viribus alienis et opulenta doctrina patrum. (Metalogicon III, iv)
(E così quelle idee su cui molti consumarono la loro vita, faticando moltissimo nella loro elaborazione, ora
una sola persona consegue facilmente e rapidamente; tuttavia il nostro tempo utilizza i benefici del
6 Riprendo il brano citato da R. Antonelli, Origini, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p. 135, cui rinvio anche per il
commento al testo.
4
precedente e spesso conosce più cose non eccellendo per il suo proprio ingegno ma usufruendo di forze
esterne e della opulenta dottrina dei padri).
All’interno di questo quadro un ruolo determinante gioca lo studio del passaggio dal
latino alle lingue romanze che da questo discendono, perché il cambiamento linguistico è
sempre segno di un cambiamento sociale e culturale significativo e di contatti fra individui
e popolazioni. Inoltre le lingue neolatine si trovano certamente in una situazione
privilegiata: sono infatti l’unico gruppo geneticamente affine di cui si sia conservata la
fonte comune7. Così anche
la ricerca etimologica [cioè lo studio dell’origine di una determinata parola] nell’area romanza è (…)
privilegiata nei confronti delle altre lingue indoeuropee, dal momento che nella maggior parte dei casi, le
attestazioni latine forniscono una sicura documentata base di partenza.8
2. Cosa si intende per ‘Origini’?
Il termine ‘Origini’ evoca fatalmente l’idea di inizio assoluto con una valenza genetico-
creazionistica teorizzata da quel romanticismo che aprendosi alla riscoperta del
Medioevo- intrecciava il gusto del gotico all'ambizione di poter attingere l'Origine, la
forma primordiale.
Ma quando si volesse tentare una definizione della nozione di ‘origini’ svincolata da
queste prospettive, non potremmo che suggerire quel lungo e complesso processo di
formazione in cui si assiste alle prime manifestazioni di una lingua ed una letteratura
distinta dal latino. Ora se è facile additare alcuni testi che -con buon margine di sicurezza-
rappresentano documenti consapevolmente espressi in una lingua nuova: pensiamo -per
esempio- al famoso poemetto della S. Eulalia (IX sec.), più difficile è confinare in due
spazi separati testi non più latini e non ancora romanzi ed impossibile accertare con
sicurezza un punto di partenza.
Per muoversi su un terreno così complesso potrà allora essere utile porsi alcune
domande preliminari:
1. Quali circostanze hanno provocato la disgregazione dello spazio linguistico e
culturale latino?
2. È esistita una frattura fra latino scritto e latino parlata o di contro una lunga e
prolungata diglossia?
3. Quando e in che condizioni si è presa coscienza che l’accumulo dei cambiamenti
aveva creato una frattura insanabile fra il latino e la lingua volgare; e quando e come fra i
diversi volgari?
4. Perche le diverse lingue romanze sono sorte in tempi diversi?
Prima di provare a ripercorrere le ipotesi che gli studiosi hanno avanzato per dirimere
questioni tanto ardue, sarà bene ricordare che questo lungo processo di emancipazione dal
latino -che si snoda per ben sette secoli- non andrà concepito in direzione unilineare: ‘dal
latino alle lingue romanze’, ma come un’osmosi complessa fra lingue destinate ancora per
molti secoli a procedere affiancate.
2. Cos’era il latino? All’inizio dell’Ottocento August Schleicher propose di rappresentare le connessioni
genetiche fra idiomi diversi attraverso il modello dell’albero genealogico: la lingua madre
sarebbe stata una lingua oggi perduta: l’indoeuropeo - probabilmente parlata intorno al
7 Cosa che non vale nemmeno per le lingue neoelleniche che pure discendono da una fonte a noi nota. Questi,
infatti, non si sono frazionati in idiomi indipendenti, quanto piuttosto secondo distinzioni dialettali scarsamente
significative. 8 M. Pfister-A. Lupis, Introduzione all’etimologia romanza, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001, p. 39.
5
3000 a C.-, ma ricostruibile sulla base della coincidenza di più lingue che anticamente
dovevano coprire un’area molto estesa: dall’Europa al nord del continente indiano9.
Anche il latino appartiene alla famiglia indoeuropea, in cui partecipa al gruppo delle
lingue kentum e -com’è noto- era inizialmente il dialetto dei pastori che fondarono Roma.
La sua espansione, che durerà quattro secoli (dalla sottomissione dell’Italia centrale nel
272 a.C. fino alla conquista della Dacia nel 107 d.C.), coinciderà dunque con la capillare
penetrazione dell’Impero romano durante la quale l’idioma parlato dai vincitori ‘incontra’
le lingue diffuse sui territori conquistati.
Preliminare sarà naturalmente il rapporto/confronto con l’altra grande lingua di cultura:
il greco che costituisce rispetto al latino una lingua di adstrato (si tratta infatti di due
lingue territorialmente vicine e, da un certo momento in poi, sostanzialmente paritarie dal
punto di vista del prestigio), la cui influenza si realizza in ondate successive (età arcaica;
III sec. a. C.; diffusione del Cristianesimo).
Il greco 1. III sec a. c
Cristianesimo: chierico, monaco, befana, bestemmiare, angelo,
dall'ebraico pasqua, sabato, osanns
Anche alcune lingue germaniche dovrebbero più correttamente essere considerate lingue
di adstrato pur con i necessari distinguo. Un certo numero di termini risultano già utilizzati
nel latino imperiale: quali saponem (in origine un prodotto per i capelli); termini legati alla
vita militare: werra, riks, wardon; termini di colore (in particolare quelli legati al mantello
dei cavalli): biondo; bruno, fulvo, grigio. Il fenomeno non può stupire quando si consideri
che i romani erano in contatto con popolazioni germaniche sin dai primissimi secoli della
nostra era10
.
Diverso è il caso di quelle lingue che possono essere considerate lingue di adstrato solo
rispetto a zone circoscritte: è il caso del celtico nel territorio gallo-romanzo, come ci
documentano i molti celtismi sopravvissuti in francese, legati all’attività agricola: charrue,
charpente, chemin o all’allevamento: mouton, veautre…
Dal sostrato
Ma ancora dall'etrusco: populus, persona, catena, taberna
Osco-umbro: casa, e bufalus, lupus, scrofa, lacrima, ursus
Dunque il latino nella sua espansione si sovrapporrà ad altre lingue di cui alcune di
sicura origine indoeuropea -solo per restare in Italia pensiamo all’osco, all’umbro, al
siculo, al venetico- ed altre di diversa origine: l’etrusco, il ligure, il retico.
Nella maggior parte dei casi il latino verrà accettato dai locali in quanto lingua di
maggior prestigio e funzionale agli usi pratici, politici, amministrativi, e la sua adozione
favorita dalla fondazione delle città e soprattutto dalle istituzioni scolastiche. E tuttavia il
caso dell’Italia completamente latinizzata (salvo talune aree di conservazione del greco)
all’altezza del I sec. d. C. non rappresenta la norma. In luoghi più lontani dal contatto con
il cuore dell’Impero le lingue indigene dovettero sopravvivere per molti altri secoli: è il
caso del gallico, del punico, del libico. Come ci testimonia nel III sec. Ulpiano (Digest.
XXXII, II) per alcuni istituti giuridici era ancora previsto l’uso della lingua materna:
9 Per un quadro introduttivo all’indoeuropeo si può consultare Le lingue indoeuropee, a cura di A. G. Ramat e P.
Ramat, Bologna, Il Mulino 1997. 10
I Germani erano, infatti, non solo presenti in gran numero come mercenari nell’esercito imperiale, ma
addirittura erano giunti a ruoli di comando, basti ricordare il nome del generale Silicone sotto l’impero di
Teodosio (fine del IV sec).
6
fidei commissa quocumque sermone relinqui possunt, non solum Latinum vel Graeco, sed etiam Punico
vel Gallicano vel alterius cuiuscumque gentis
=TR
Sarà tuttavia opportuno ricordare che quelle popolazioni che scelsero e favorirono la
ricezione della lingua di Roma hanno attraversato lunghe fasi di bilinguismo. Proprio il
contatto con una lingua straniera ha lasciato tracce consistenti anche sul latino: i cosiddetti
effetti di sostrato.
E se non possiamo identificare con certezza fenomeni fonetici derivati dalle lingue
indigene, però non c’è dubbio che il latino avesse subito un sostanziale arricchimento del
patrimonio lessicale, come dimostrano i cosiddetti relitti lessicali (= quegli elementi
linguistici che una lingua morta lascia nella lingua che le è subentrata nell’uso)11
, cioè
quelle parole che provenivano dal gallico o da altre varietà celtiche e che -come si può
agevolmente osservare- riguardano per la gran parte oggetti legati alla vita quotidiana:
così voci celtiche come becco, camisia, carrus; galliche come bracae, carrum; e i
toponimi composti con -dunum (= castello); -durum (= porta).
Più incerto è invece stabilire se specifiche tendenze fonetiche proprie di alcune zone
siano dovute a fenomeni di sostrato. Un caso sovente ricordato: la cosiddetta gorgia
toscana -cioè l’aspirazione delle occlusive intervocaliche sorde presente in gran parte della
Toscana- che secondo alcuni autorevoli studiosi, tra i quali Arrigo Castellani12
, può essere
ricondotta a condizioni linguistiche proprie dell’etrusco, non solo si scontra con la
«difficoltà di avere certezze sui fonemi dell’etrusco»13
, ma fino al Cinquecento non risulta
in alcun modo documentabile.
Il latino -che ci è noto con documentazione ininterrotta solo dal III sec. a. C.- presenta
nel tempo una relativa stabilità (garantita in particolare dai grandi scrittori di epoca
repubblicana) ed è quindi difficile distinguere fra un latino scritto nel I sec. ed uno nel III
d. C. E tuttavia nel tempo dovettero certamente realizzarsi dei cambiamenti, seppure non
percepiti dai parlanti e non registrati dalla lingua letteraria. Infatti, come già sapevano gli
antichi14
, una lingua fissa, immutabile nel tempo è un’astrazione. Si rilegga quanto scrive
San Girolamo (347 ca.- 420): «cum et ipsa Latinitas et regionibus cotidie mutetur et
tempore» =(La latinità stessa si trasforma continuamente nello spazio e nel tempo).
Anche la sovrapposizione del latino sulle diverse lingue dei popoli assoggettati doveva
aver creato già nel V secolo della nostra era, quando l’Impero Romano cominciava a
cedere alla pressione dei Barbari, non poche considerevoli differenze regionali -che
chiameremo diatopiche15
, destinate ad accrescersi man mano che si allentava il legame
con il centro.
11
Cf. A. Varvaro, Linguistica romanza. Corso introduttivo, Napoli, Liguori, 2001, p. 228. 12
Cf. A. Castellani, Precisazioni sulla gorgia toscana [1959-1960], ora in Saggi di linguistica e filologia italiana
e romanza (1946-1976), 3 voll., Roma, Salerno editrice, 1980, t. I, pp. 189-212. 13
Si veda da ultimo L. Renzi-A. Andreose, Manuale di linguistica e filologia romanza, Bologna, Il Mulino, 2003,
p. 171. 14
D’altra parte la consapevolezza della mutabilità della lingua era chiara già nell’Antichità, si rilegga quanto
scrive Varrone (I sec. a. C.):
Consuetudo loquendi est in motu: itaque solent fieri et meliora deteriora et deteriora meliora; verbam perperam
dictam apud antiquos alios propter poetas non modo non dicuntur recte, sed etiam quae ratione dicta sunt tum,
nunc perperam dicuntur.
(L’uso del parlare è in continua evoluzione, per cui alcune forme migliori sogliono divenire peggiori e altre
peggiori divenire migliori. Non solo parole erroneamente usate presso gli antichi ora sono usate correttamente
per opera di alcuni poeti, ma anche parole che erano secondo la norma, ora si adoperano spropositando) e
riaffiorerà nei grammatici e nei grandi intellettuali tardo antichi come Agostino e Isidoro di Siviglia. 15
Variazione tra parlate diverse che si realizza nello spazio e può oscillare da una distanza massima (tra famiglie
linguistiche diverse), ad una minima (quartieri di una città).
7
Sappiamo che Asinio Pollione (intellettuale raffinato, fondatore della prima Biblioteca
pubblica a Roma) rimproverava il grande storico romano Livio per il suo forte accento
patavino e lo storico Espartiano ci racconta l’ilarità suscitata -a causa dello spiccato
accento regionale- dal futuro imperatore Adriano, spagnolo, la prima volta in cui prese la
parola in Senato.
Ma almeno fino ad una certa data la possibilità di riconoscere dalla parlata il luogo di
provenienza di un individuo non doveva rappresentare la norma, se vogliamo prestare fede
ad un gustoso aneddoto raccontato da Plinio il giovane 16
(Epist., IX, 23) di cui lo stesso
Plinio sarebbe stato il protagonista: narrabat sedisse secum circensibus proximis equitem Romanum, post varios eroditosque sermones
requisisse: « Italicus es an provincialis? », se respondisse: « Nosti me et quidem ex studiis ». Ad hoc illum :
«Tacitus es an Plinius ? »
(=raccontava che, durante gli ultimi giochi del circo un cavaliere romano sedeva vicino a lui e che, dopo
vari e colti discorsi, alla sua domanda: ‘Sei italico o di una provincia?’, gli aveva risposto: ‘Mi conosci,
certo: dai miei scritti’. E che quello aveva ribattuto: ‘Sei Tacito o Plinio?’.)
Altre differenze potranno essere inscritte sotto l’etichetta di diastratiche, cioè
determinate dall’appartenenza a diverse classi sociali, come possiamo dedurre da un
luogo sovente citato17
di Gellio 19, 10:
Frontone domanda all’architetto che dirigeva la ristrutturazione dei bagni di casa sua
l’ammontare della spesa. L’architetto risponde ‘circa 300 sesterzi’. Allora uno degli amici
di Frontone chiosa: «et praeterpropter (…) alia quinquaginta». Frontone non capisce il
significato di praeterpropter e domanda lumi ad un grammatico presente, il quale gli
risponde:
«Tum grammaticus usitati pervulgatique verbi obscuritate motus ‘quaerimus’ inquit ‘quod honore
quaestionis minime dignum est. Nam nescioquid hoc praenimis plebeium est in opificum sermonibus quam
[…] notius» (= Il grammatico, stupito che fosse considerato oscuro un vocabolo familiare e divulgatissimo,
disse ‘Chiediamo qualcosa che non è minimamente degna di essere investigata. Non so infatti come
chiamare questo modo di dire, se del tutto plebeo o più […] noto nel parlare degli operai che della gente
colta’).
Il ruolo giocato dal Cristianesimo sarà molto importante oltre che sul piano storico-
sociale per il ruolo di coesione e di fondazione di una nuova Respublica sub Deo, anche
sul piano linguistico. Infatti non solo la nuova religione immetterà nella lingua parlata una
folta messe di neologismi, ma ponendosi come religione degli ‘ultimi’, eleggerà come
nuovo veicolo letterario il sermo humilis della tradizione cristiana18
. Emblematica, in
proposito, la famosissima frase di Agostino Melius est reprehendant nos grammatici,
quam non intelligant populi (Enarrationes in Psalmos, CXXXVIII, 20) = Meglio che ci
rimproverino i grammatici, piuttosto che non ci capiscano le genti.
3. Quali avvenimenti hanno provocato la disgregazione dello
spazio latino? «Il mondo è ormai invecchiato […] non si regge più con quelle forze su cui prima
appoggiava […] e attesta il suo tramonto con l’evidente decadenza di ogni cosa»
(Cipriano, III sec).
16
Su cui si vedano le osservazioni di E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel
Medioevo [1958], Milano, Garzanti, 1960, pp. 217-18; M. L. Meneghetti, Le origini, Roma, Laterza, 1997, pp.
37 ss. 17
Cf. G. Calboli, Latino volgare e latino classico, in Lo spazio letterario del Medioevo. Il Medioevo latino, II,
La circolazione del testo, Roma, Salerno editore, 1994, pp. 11-53, a p. 19). 18
Sul punto, cf. Auerbach, Lingua letteraria cit., in particolare il capitolo Sermo humilis.
8
In realtà la maggior parte degli studiosi sono concordi nell’attribuire a ragioni interne di
carattere storico-sociale la spiegazione profonda del cambiamento. Circa 400 anni
separano la caduta dell’Impero romano (476 d.C.) segnata dalla deposizione di Romolo
Augustolo da parte del generale erulo Odoacre dai primi monumenti della lingua volgare e
da quel Concilio di Tours dell’813 che sancirà l’avvenuto distacco fra latino e lingua
volgare.
Ma è chiaro che il 476 rappresenta una data utile a fissare l’epilogo di un lungo
processo.
Certamente infatti a partire dal III secolo la macchina imperiale è scossa da problemi
interni ed esterni strettamente connessi: infatti la pressione di popolazioni provenienti
dalle steppe asiatiche e dalle regioni nordiche, molte delle quali già in contatto con il
mondo romano, costringeva le legioni dell’esercito a lunghi stanziamenti nelle diverse
province. Inevitabilmente questo provoca la formazione di gruppi separati raccolti intorno
ad un capo, che sarà alla base di quel complesso fenomeno che gli storici definiscono
‘anarchia militare’.
Anche il rapporto tradizionale fra imperatore e classe senatoria ha subito profonde
alterazioni: nel confuso periodo che segue l’assassinio di Commodo (192 d. C) appare
chiaro che ormai detiene il potere chi controlla l’esercito, come dimostra l’elezione di un
imperatore quale il generale africano Settimio Severo (197 d.C.).
Anche il famoso editto promulgato dal figlio Marco Aurelio Antonino detto Caracalla
nel 212: la concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero (con la
sola eccezione dei dediticii, cioè i barbari ancora ribelli) rappresenta senz’altro la presa
d’atto di una trasformazione sociale ormai avvenuta. Ma essa è anche un tentativo di
fronteggiare la grave crisi economica aumentando il numero di coloro che erano soggetti a
pressione fiscale.
Lacerazioni ancora più gravi seguiranno alla fine della dinastia dei Severi: dopo
l’assassinio di Severo Alessandro (235), si succedono più di 20 imperatori fino
all’elezione del generale illirico Diocleziano, noto per le persecuzioni contro i cristiani.
Questi, detenendo il potere per circa un ventennio, riesce a riorganizzare lo stato dal punto
di vista politico, amministrativo, economico e militare.
Benché la crescente minaccia dei barbari congiunta all’aumento delle pressioni fiscali
provochi una crisi delle città, con un massiccio ritiro dell’aristocrazia nelle campagne e la
nascita di diverse forme di organizzazione economica e politica, tuttavia con l’ascesa al
trono di Costantino e fino alla morte di Teodosio I nel 395 si aprono due secoli (età
tardoantica) che attualmente gli storici della cultura tendono a valorizzare per la vitalità e
la ricchezza dell’esperienze culturali e per le novità sociali. È in questo periodo che si
assiste alla definitiva affermazione del Cristianesimo come religione di stato (nel 313
Costantino riconosce la libertà di culto e nel 380 Teodosio con l’editto di Tessalonica
promuove il cristianesimo a religione ufficiale dell’impero), affermazione non pacifica ma
anzi destinata a creare ulteriori fratture all’interno del mondo romano: così nel IV secolo
l’aristocrazia senatoria rappresenterà la roccaforte di difesa dei valori del paganesimo e di
un’identità culturale, sociale e politica ormai definitivamente destinata a vacillare.
E ancora Giuliano, detto l’apostata, imperatore tra il 361 e il 363 negherà ai maestri
cristiani l’insegnamento della retorica tacciandoli di menzogna e accusandoli di ingannare
i discepoli (Epist. 61):
E che dunque! Omero, Esiodo, Demostene, Erodono, Tucidite, Isocrate e Lisia non riconoscevano gli dei
come guide in ogni genere d’istruzione? Non si consideravano dedicati gli uni a Ermes, gli altri alle Muse?
Io trovo assurdo che commenta le loro opere disprezzi gli dei che loro hanno onorato (…) Dal momento che
essi vivono degli scritti di questi autori da cui traggono il loro salario, confesseranno che la loro cupidigia è
spudorata e che, per qualche dracma, sono capaci di tutto.
9
Determinante sarà inoltre la progressiva perdita del ruolo di Roma come centro
dell’impero, in favore di nuove città quali Milano, Treviri, Arles, fino alla fondazione da
parte di Costantino nel 330 della nuova Roma: Costantinopoli, nel luogo dove sorgeva
l’antica Bisanzio.
Questa nuova capitale accentuerà le differenze fra le due parti dell’impero, la cui
separazione verrà definitivamente sancita con Teodosio. Da questo momento in poi i due
imperi procederanno per strade diverse, con conseguenze disastrose sulla parte occidentale
sempre più esposta all’espansione dei popoli germanici: Vandali, Alemanni, Burgundi,
Svevi. fino al saccheggio di Roma da parte dei Goti guidati da Alarico (410), cui seguirà
un secondo nel 455 da parte dei Vandali.
Ecco dunque ridisegnarsi una geografia politico-sociale tutta diversa: al mondo
mediterraneo, centro della grande civiltà greco-romana, si contrappone da un lato l’impero
bizantino e dall’altro il variegato mosaico delle nuove popolazioni provenienti dalle steppe
asiatiche e dalle regioni del nord.
La consegna del capo barbaro Odoacre delle insegne imperiali nelle mani di Zenone
imperatore di Oriente non è dunque altro che l’epilogo di un lungo processo percepito in
modo diverso dagli spiriti più attenti agli eventi contemporanei.
Così San Girolamo osserva con inquietudine la disgregazione di una civiltà:
Freme il mio spirito e si riempie di orrore volendo narrare le stravaganze tutte e i disordini del nostro
tempo (…) L’impero romano, ovunque desolato, si avvicina al suo scioglimento.
E se Claudiano (370-404 d.C.) nel De Bello Gothico sembra valorizzare l’apporto di
nuove e più valorose genti contrapposte alla mollezza e alla decadenza morale dei
Romani, definiti «inesperti dei terrori, generazione svigorita dai lussi …», di contro
Ammiano Marcellino, storico nato ad Antiochia fra il 332 e il 335, non esita -in una
pagina notissima tratta dai Rerum Gestarum libri- a paragonare gli Unni a bestie selvagge:
Hanno membra robuste e salde, grosso collo e sono stranamente brutti e curvi, tanto che si potrebbero
ritenere animali bipedi o simili a quei tronchi grossolanamente scolpiti sui parapetti dei ponti. Per quanto
abbiano figura umana, sebbene deforme, sono così rozzi nel tenore di vita da non aver bisogno né di fuoco,
né di cibi conditi (…)
Ignorano profondamente, come animali privi di ragione, il bene e il male, sono ambigui e oscuri quando
parlano, né mai sono legati dal rispetto per una religione o superstizione, ma ardono di un’immensa avidità
d’oro…
All’inizio del VI sec., dunque, il territorio che apparteneva all’Impero di Roma appare
ridisegnato in diversi regni romano-barbarici: un’area iberica sotto i Visigoti, la Francia
sotto i Franchi che nel 507 avevano cacciato definitivamente i Visigoti, Angli Iuti e
Sassoni in Inghilterra e gli Ostrogoti in Italia.
Ormai il destino dell’Occidente è affidato alla sfida dell’integrazione fra romani e
barbari, integrazione diversa da zona a zona perché le nuove popolazioni non
rappresentavano gruppi compatti con abitudini e istituzioni uguali e dunque con risultati
non generalizzabili.
Così Teodorico, re degli Ostrogoti sceso in Italia nel 488 dopo aver a lungo soggiornato
alla corte di Costantinopoli sceglie di circondarsi di esponenti illustri dell’aristocrazia
romana: Cassiodoro, Simmaco, Severino Boezio. Ma l’esperimento pure importante non
sopravvive alla morte di Teodorico (526) il quale, già negli ultimi anni del suo regno,
scosso da conflitti fra i vari gruppi religiosi, aveva condannato a morte quegli stessi
uomini che lo avevano appoggiato.
Le popolazioni del settentrione d’Italia, estenuate dalla lunga guerra greco-gotica (535-
553) con il tentativo di Giustiniano di recuperare all’Impero i territori soggetti ai barbari -
10
-tentativo riuscito sia in Italia che in Spagna contro i Visigoti- subiscono una nuova
invasione: quella dei Longobardi. Questi, detenendo il potere per circa due secoli,
provocheranno una forte cesura con la parte bizantina della penisola.
Di fronte a questi crescenti turbamenti socio politici la fuga dalle città si accentua e il
fenomeno del latifondo si trasforma sempre più in un’economia autosufficiente, dove il
proprietario terriero diviene amministratore della giustizia e lo sfruttamento di coloro che
a lui erano soggetti viene almeno in parte bilanciato dalla garanzia contro le minacce
esterne.
Si assiste così alla nascita di un’ organizzazione di carattere protofeudale attraverso la
saldatura di due istituti differenti: il primo la commendatio tardo romana secondo la quale
ci si affidava ad un proprietario più ricco per sfuggire a troppo esose tassazioni; dall’altro
il legame di fedeltà personale che univa i guerrieri germanici ai loro capi.
In questo difficile progresso di integrazione il Cristianesimo gioca un ruolo importante:
dopo una prima fase di separazione, infatti, Goti, Vandali e Longobardi abbracciano
l’arianesimo (negazione della natura divina del Cristo), ma già nel 496 Clodoveo re dei
Franchi si converte al cattolicesimo, e nel 589 Recaredo re dei Visigoti proclamerà il
cattolicesimo religione di stato.
Si afferma inoltre in questo periodo un nuovo fenomeno destinato a giocare un ruolo
essenziale nella società medievale: il monachesimo, che vedrà quelle prime isolate
esperienze -nate intorno al IV secolo- trasformarsi in un sistema organizzato e
autosufficiente e svolgere un ruolo determinante non solo per l’opera di evangelizzazione
condotta, ma anche per la funzione di organizzazione sociale svolta soprattutto nelle
campagne. Inoltre -com’ è noto- la valorizzazione nella regola monastica del lavoro,
compreso quello intellettuale, favorirà la nascita e lo sviluppo all’interno dei monasteri di
scriptoria che rappresenteranno luoghi preziosi di copia, di conservazione e di
trasmissione dei testi classici.
Questo complesso equilibrio verrà ulteriormente alterato con l’avanzata arabo-islamica
dell’VIII secolo che -secondo la famosa tesi dello storico belga Henri Pirenne19
-
rappresenterebbe la vera causa del tracollo del mondo antico.
L’antagonismo con gli arabi farà emergere nuove grandi dinastie, determinanti per il
futuro dell’Europa romanza (e non solo romanza): così quando Carlo Martello, re dei
Franchi, riuscirà a sconfiggere gli Arabi a Poitiers nel 732 fermandone l’avanzata,
comincia ad intrecciarsi sul piano ideologico e politico un rapporto con l’unico potere
universale sopravvissuto: il papato. Questo legame si stringerà ancor più con il figlio di
questi Pipino il Breve proclamato re dei Franchi alla presenza di papa Zaccaria e poi con
Carlo Magno il quale ponendosi come il difensore della Cristianità contro i pagani
Sassoni e i mussulmani, aprirà le porte a quel progetto di Sacro romano impero che rimane
legato al suo nome. Come scrive lo storico francese Marc Bloch20
(I re taumaturghi..): «I
sovrani dell’Occidente ridiventarono sacri grazie ad un’istituzione nuova, la consacrazione
ecclesiastica dell’avvento al trono e, più particolarmente, il suo rito fondamentale,
l’unzione».
Con Carlo siamo dunque giunti a quella grande rinascenza del IX sec. che segnerà una
svolta storica, politica, ma anche linguistica -ed è ciò che ci interessa- straordinaria, pur
sostanzialmente perseguendo un obbiettivo irrealizzabile: costruire un organismo
sovranazionale basato su una doppia matrice: l’eredità romana e la consacrazione
cristiana.
19
H. Pirenne, Maometto e Carlomagno [1937], Bari, Laterza, 1939.
20
Marc Bloch, I re taumaturghi : s tudi su l cara ttere sovrannatura le a t t r ibuito a l la po tenza
dei re partico larmente in Francia e in Inghil terra , prefaz ione d i Jacques Le Goff , con un
Ricordo di Marc Bloch di Lucien Febvre. (**) - 3 . ed. – Torino, Einaudi , 1996
11
Com’è noto Carlo riunirà intorno a sé gli intellettuali più prestigiosi del suo tempo in
una sorta di accademia, quella scuola palatina presieduta da Alcuino, monaco della
Britannia, e che conta tra i suoi membri personaggi del calibro di Paolo Diacono, storico
dei Longobardi, Pietro da Pisa, Paolino, Eginardo, biografo di Carlo.
Ma lo sviluppo intellettuale e artistico (che conquisterà al IX secolo la dizione di
‘rinascenza’) si estende all’architettura con la fondazione di palazzi, chiese e monasteri
destinati a divenire sede di scuole e di scriptoria dove gli autori classici vengono copiati
da professionisti della penna. Proprio questa instancabile attività di trascrizione di codici
spiega lo sviluppo di una nuova scrittura (ancora usata nei caratteri a stampa): la
minuscola carolina, caratterizzata da un modulo piccolo e da una spiccata leggibilità.
Alla luce di questi brevissimi cenni storici, sarà dunque opportuno tenere conto che se
fino al II secolo la cultura letteraria dell’età imperiale appare estremamente unitaria, nei
secoli seguenti si comincia ad assistere ad una differenziazione sul piano geografico che
consente di distinguere tre grandi spazi: 1. regno visigoto 2. regno franco 3. regno
longobardo papale e bizantino.
5. Come si realizza il cambiamento linguistico?
La filologia evoluzionistica del secolo scorso concepiva l’evoluzione linguistica come
un fenomeno continuo senza rotture da un passaggio all'altro, e se da un lato segnava il
superamento dell’idea classica del cambiamento come degrado progressivo, dall’altro
fondava quel metodo storico-comparativo che sarà fondamentale per lo studio delle lingue
romanze, ma ancora prima per la ricostruzione dell’indoeuropeo.
Questa troppo rigida fiducia nella regolarità dei cambiamenti fonetici da cui potevano
estrarsi delle vere e proprie leggi sostanzialmente prive di eccezioni (fatta salva l’azione
dell’analogia ed escludendo i cultismi e i prestiti regolati da diverse leggi fonetiche) è
stata corretta nel tempo21
. In primo luogo è stata messa in dubbio l'unità di un sistema
sincronico in favore della ricerca delle cause necessarie che condizionano i cambiamenti
linguistici in modo permanente, senza dimenticare che nessun cambiamento linguistico è
inevitabile e la lingua può sempre scegliere fra diverse soluzioni.
Tra i fattori di interferenza, grande peso è stato attribuito alle spinte di carattere storico,
sociale e culturale. Preziose in questa direzione le acquisizioni della geografia linguistica
che non solo ha mostrato, attraverso la proiezione sugli atlanti, come si realizza la
sostituzione lessicale, ma ha anche definitivamente chiarito come le differenze fra le
lingue siano segnate da confini linguistici graduali e come dunque sia necessario
valorizzare -accanto alle grandi lingue nazionali- l’importanza dei dialetti22
.
Più incline a dare peso alle rotture di continuità è stato lo strutturalismo della prima
metà del XX sec. le cui posizioni, legate in particolare alle teorie di Ferdinand de
Saussure23
, possono apparire talvolta anti-storiche, ma ciò non dovrebbe mettere in ombra
alcune acquisizioni di grande importanza: come l’opposizione fra significante e
significato, legati fra loro dall’arbitrarietà del segno linguistico; la distinzione fra
diacronia e sincronia; il concetto di struttura, che implica l’invito a non trattare i fenomeni
fonetici isolatamente, ma a tenere conto che ogni cambiamento provoca un riassestamento
del sistema complessivo. Infine la differenza fra langue e parole che verrà -seppure
21
Per un quadro generale aggiornato sulla questione si veda il III capitolo del citato Manuale di linguistica e
filologia romanza, di Renzi-Andreose: Il paradigma storico, pp. 85-103. 22
Sulla geografia linguistica, si veda C. Grassi, Die Sprachgeographie/La geografia linguistica, in Lexicon der
Romanistichen Linguistik, a cura di G. Holtus, M. Metzeltin e C. Shmitt, t. I/1, Tübingen, Niemeyer, 2001, pp.
207-235. 23
Il Cours de lingusitique générale, uscito postumo nel 1916 a cura di C. Bally e A. Sechehaye, è tradotto e
commentato in italiano da T. De Mauro, Corso di linguistica generale, Roma, Bari, Laterza, 200016
(I ed.1967).
12
attraverso termini diversi- ripresa dalla Grammatica generativa attraverso i concetti di
‘competenza’ ed ‘esecuzione’ enunciati da Noam Chomsky24
.
Attualmente grazie soprattutto al contributo di una disciplina recente come la
sociolinguistica, appare evidente che ogni comunità linguistica (dalla famiglia allo stato)
presenta una variabilità più o meno consistente determinata dalla concomitanza di diversi
fattori sociali.25
Non potendo qui ripercorrere i diversi paradigmi interpretativi attraverso i quali si è
cercato di spiegare il cambiamento linguistico, sarà bene però sottolineare come è proprio
e soltanto da diversi punti di vista che si può dar ragione della variazione diatopica, cioè la
specificità del mutamento linguistico in rapporto allo spazio geografico.
6. Il “latino volgare”: etichetta operativa?
Tra 1866-68 Hugo Schuchardt condusse un’accurata analisi sull’uso del vocalismo in
quei testi scritti in un latino svincolato dalla rigidità della norma. Giunse alla conclusione
che presentavano una serie coerente di variazioni che raccolse sotto l’etichetta latino
volgare ‘Vulgärlatein’.
Naturalmente l’aggettivo ‘volgare’ non assume alcuna valenza di carattere sociale:
‘lingua del volgo’, ma semmai quella già ciceroniana di ‘lingua d’uso’, così nella Rhet. Ad
Herennium : Gravitatem et dignitatem et suavitatem habere in dicendo poteris, ut oratorie plane loquaris, ne nuda atque
inornata inventio vulgari sermone efferatur… (4, 69)
(=Potrai mantenere nell’esposizione sia gravità che dignità e dolcezza, affinché pur parlando con
un’oratoria semplice, i concetti non vengano espressi in modo umile e disadorno in una lingua troppo
usuale).
La nozione di latino volgare ha suscitato non poche perplessità e altre etichette sono
state avanzate: per esempio ‘latino tardo’ (Varvaro)26
o semplicemente latino (Harris e
Vincent, ora Lee) 27
. Qui si sceglie di conservare l’etichetta di ‘latino volgare’ con
l’avvertenza di non interpretarla come contrapposizione tra un latino normativo -quasi
artificioso- e una lingua unica e mutevole in diacronia, dal momento che certamente latino
scritto e parlato dovettero interferire.
Un altro problema centrale è quello di riuscire a segnare il confine fra un latino sfigurato
da numerosi volgarismi e una scrittura che non può più considerarsi latina, questione resa
ancora più complessa dalla veste grafica. È ovvio infatti che chi sceglieva di esprimersi
per iscritto in una qualsiasi varietà romanza doveva necessariamente servirsi della
corrispondenza fra suoni e grafie del latino.
Per esempio in francese la u era palatalizzata, cioè veniva pronunciata /ü/. Poiché
l’alfabeto latino -che constava di 23 lettere- non prevedeva nessun suono corrispondente,
si mantenne la grafia u e, per non creare confusione con la vocale u, quest’ultima verrà
rappresentata con il grafema ou.
Un’altra tendenza è quella di usare alcuni suoni con valore diacritico cioè accostarli ad
altri segni per cambiarne il valore. Basterà ricordare un caso antico, già documentato nei
Giuramenti di Strasburgo, dove dh esprime la fricativa interdentale sonora:
24
Cf. N. Chomsky e M. Halle, The Sound Patterns of English, New York 1968. 25
Per un quadro generale, cf. G. Berruto, Fondamenti di sociolinguistica, Roma-Bari, Laterza 1995. 26
Cf. Varvaro, Linguistica romanza cit., p. 23. 27
Cf. Ch. Lee, Linguistica romanza, Roma, Carocci, 2000, p. 27.
13
Pro Deo amur et pro christian poblo et nostro commun saluament, d’ist di in auant, in
quant Deus sauir et podir me dunat, si saluarai eo cist meon fradre Karlo, et in adiudha et
in cadhuna cosa …
E potremmo ricordare anche un caso più moderno: la resa della velare davanti ad e ed i
che in toscano viene rappresentata dal digramma ch.
Appare comunque evidente che la grafia di una lingua risulta sempre molto più
conservativa rispetto alla pronuncia, con sfasature più o meno forti da lingua a lingua, per
questo fin dal secolo scorso sono stati elaborati degli alfabeti fonetici che rispettino il
rapporto biunivoco tra suono e rappresentazione grafica.28
6. Quando si smette di parlare latino?
A questa domanda -al centro di un intenso e ancora attuale dibattito- è possibile con
certezza rispondere solo attraverso quei documenti che sanciscono la presa d’atto di una
situazione come avviene nella già ricordata XVII deliberazione del Concilio di Tours
(813), consapevole espressione di una volontà di riforma volta ad evitare un eccessivo
scarto fra quadri ecclesiastici e popolo: quo faciulius cuncti possint intelligere quae
dicuntur.
Non a caso andrà di pari passo con l'esortazione a "applicarsi allo studio delle lettere"
(Antonelli p. 29)
Come osserva Roncaglia
«la tensione fra la trascendente immobilità della lingua sacra e l'immanenza della lingua pastorale è giunta
ad un punto di rottura … E finalmente il volgare si definisce come lingua intellegibile al volgo. Ma è dalla
cultura latina che questa lingua cresciuta disordinatamente prende coscienza e fornisce ordine al suo
empirismo disordinato. E si noti ancora che se l'impulso viene da chi accondiscende a parlare in volgare
tuttavia si intravedono fermenti diversi pensiamo agli accenni delle deliberazioni conciliari contro i musici e
gli istrioni.»
Gli studiosi sembrano però concordi29
nell’additare nella decadenza del latino
merovingico un punto di crisi estrema. Effettivamente già in autori come Gregorio di
Tours (538ca-594) si incontrano -oltre ad una fitta messe di neologismi lessicali- molte
innovazioni di carattere morfologico quali: i metaplasmi di coniugazione, forme
perifrastiche, un uso incerto delle desinenze e la conseguente tendenza a estendere le
funzioni oblique sull'accusativo30
. Non sarà un caso che proprio in vari luoghi della sua
Historia Francorum, Gregorio faccia riferimento al sermo rusticus o stilus rusticus per
indicare un livello della lingua comprensibile agli illetterati.
Dovrebbe risalire al secolo successivo il carmen scritto secondo l’uso volgare (iuxta
rusticitatem) cui si fa riferimento nella Vita Sancti Faronis di Ildegario, vescovo di Meaux
nell’Ile de France (seconda metà del IX sec.). Ildegario ricorda che in onore del santo
28
Si può far riferimento a The Principles of the International Phonetic Association, IPA, London 1958. 29
Si veda il contributo di A. Zamboni, Dal latino tardo agli albori romanzi: dinamiche linguistiche della
transizione, in Morfologie sociali e culturali in Europa fra tarda antichità e alto medioevo, Settimana di studio
del Centro italiano di Studi sull’alto Medioevo, XLV (3-9 aprile 1977), 2 voll. , CISAM, Spoleto 1998, II, pp.
619-698. Lo studioso, riprendendo la complessa letteratura sull’argomento, conclude: «Alla risposta
metalinguistica e socioculturale che pone l’emergere cosciente e definito di forme volgari dopo l’inizio del sec.
IX se ne può pertanto contrapporre una interna che stabilisce nell’universo latino l’esistenza di almeno due
norme e di conseguenza stratificazioni diglottiche con un anticipo di due o tre secoli». 30
E nello pseudo Fredegario (VII sec.) accanto ad esempi di futuro perifrastico, incontriamo una notevole
estensione nell’uso di quod, quia per subordinate che in latino richiedevano la costruzione infinitiva.
14
ancora vivo -quindi non oltre il terzo quarto del VII secolo- un coro di donne eseguirono
un carmen iuxta rusticitatem, accompagnandolo con danze31
.
Va tuttavia r
Per definire questo stato di lingua gli studiosi hanno proposto diverse etichette: latino
circa romançum (Avalle)32
; scripta latina rustica (Sabatini)33
; lingua romanica
(Ruggieri)34
; ‘parlato romanzo’(Braccini)35
, ‘latino della parola’ (Meneghetti)36
, che
rappresentano modi diversi di interpretare il cambiamento in atto.
La maggior parte degli studi convergono nell’identificare in alcune categorie di testi il
terreno in cui si innesta questo latino «orientato in direzione del volgare» (Meneghetti, p.
55): si tratta sostanzialmente di testi documentari, storiografici, legati alla predicazione
ecc.. e credo che si possano proficuamente riprendere le conclusioni di Maria Luisa
Meneghetti37
: … in pratica tutti i testi considerati più ‘compromessi’ in direzione del volgare rientrano, dal punto di vista
funzionale, in due precise categorie: una categoria per così dire testimoniale, legata alla necessità di
tramandare un determinato testo o costrutto garantendone l’esattezza anche linguistica, per ragioni di vario
ordine (…); e una categoria didattico-prescrittiva, dominata dalla necessità di rendere comprensibile ai
destinatari un testo dotato di forte valore pragmatico (è la categoria di cui fanno parte ovviamente le omelie
o le vite di santi merovinge appena citate, ma anche le raccolte di leggi e i glossari).
Nella maggior parte di questi documenti è proprio l’accostamento fra un latino
sostanzialmente rispettoso della norma classica ed un latino ormai minato nelle sue
strutture di fondo a denunciare la sopravvenuta e consapevole separazione fra due entità
linguistiche diverse e non più fra due strati della medesima lingua.
7. Attraverso quali fonti scritte possiamo studiare il “latino
volgare”?
Se dunque lo spazio in cui si consuma il cambiamento è l’oralità, che per definizione
non lascia traccia di sé, attraverso quali canali possiamo conoscere e verificare l’affiorare
di una serie di mutazioni della norma classica? A questo fine possono segnalarsi alcuni
ambiti privilegiati:
1. Gli autori latini quando usano espressioni della lingua parlata. Preziosi si rivelano gli
autori arcaici, perché attivi in un’età in cui la norma era meno rigida, e in particolare gli
autori di teatro. Questi, indulgendo nel gusto del comico, del dialogo, della freschezza della
battuta -come Plauto nelle Commedie (254 ca.-184 a. C.) e Terenzio (190-159 a. C)-
offrono esempi di una lingua meno sostenuta dove affiorano tendenze non entrate nella
31
Il testo è stato oggetto di animati dibattiti. Sulle varie ipotesi che si sono succedute intorno a questo testo, si
veda Meneghetti, Le origini cit., pp. 65-67. 32
Cf. D. S. Avalle (a cura di), Latino ‘ circa romançum’ e ‘rustica romana lingua’, Padova, Antenore 1970 (I ed.
1964). 33
F. Sabatini, Dalla ‘Scripta latina rustica’ alle ‘scriptae’ romanze, in Id., Italia linguistica delle origini. Saggi
editi dal 1956 al 1996, a cura di V. Coletti, R. Coluccia, N. De Blasi e L. Petrucci, Lecce, Trepuzzi, 1996, t. I,
pp. 219-265. 34
R. M. Ruggieri, Romanità e ‘romanicità’, in Acta philologica della ‘Societas Academica Dacoromanica’, V
(1966), pp. 117-26. 35
Cf. M. Braccini, Latino e parlato romanzo nell’Alto Medioevo: perorazione per un divorzio non rinviabile, in
Echi di memoria. Scritti di varia filologioa, critica e linguistica in ricordo di Giorgio Chiarini, a c. di G.
Chiappini, Alinea Editrice, Firenze 1988, pp. 17-34. 36
La nozione di ‘latino della parola’ mira proprio a a proporre un’etichetta più elastica «che sottolinei, in primo
luogo, la provenienza del costrutto implicato da una situazione originaria –quand’anche puramente mentale- di
non compromissione con il codice della scrittura …» Cf. Meneghetti, Le origini cit., p. 56. 37
Cf. Meneghetti, Le origini cit., pp. 57-8.
15
norma classica. Come osserva Barbara Spaggiari38
: « … il relativo quoius, -a, -um, che non
trova cittadinanza nel latino classico, compare già in Plauto ed è alla base di varie forme
romanze (log. kuyu; sp. cuyo; port. cujo): prova questa della sua esistenza ininterrotta a
livello parlato».
Ma anche un autore ritenuto un vero e proprio modello normativo come Marco Tullio
Cicerone (106- 43 a.C.) nelle sue Epistole utilizza un linguaggio molto più sciolto,
così nell’epistola ad Attico (X, 16, I): ad te dederam litteras de pluribus rebus, cum
ad me bene
dall'ebraico mane Dionysius fuit (quando era venuto da me Dionisio, gli avevo dato epistole
per te relative a molti argomenti)* dove possiamo osservare i costrutti preposizionali ad te,
ad me in luogo del dativo e l’avverbio rafforzato da bene.
Naturalmente il genere epistolare (seppure anche nelle sue realizzazioni più modeste non
risulti immune da codificazioni) si rivela particolarmente interessante quando è costituita
da una scrittura privata, svincolata quindi dai registri alti, per esempio le circa 300 lettere
provenienti dall’Egitto scritte per lo più da militari su papiri e tavolette cerate.
Grande interesse rivestono anche autori che parodizzano il latino scritto, come Petronio
(+ 65 d.C) in un celebre episodio del Satyricon: la Coena Trimalchionis, dove mette in
bocca ad alcuni dei suoi personaggi e soprattutto a Trimalchione esponente di quei liberti
arricchiti che venivano dallo spazio greco, espressioni di carattere popolare e plebeo.
2. Gli autori di trattati tecnici: di agricoltura e allevamento, a partire dal più antico:
Marco Porcio Catone (234-149 a. C), per proseguire con Columella (I sec. d.C) e Palladio
(IV sec. d.C.); i trattati di veterinaria come la Mulomedicina Chironis (IV sec. d.C.); i libri
di cucina, come quello di Apicio.
3. Una fonte preziosa è costituita dagli autori cristiani proprio per lo sforzo di
intelligibilità che guida la scrittura. Questa scelta verso un linguaggio facilmente
comprensibile affiora già nella più antica traduzione della Bibbia: la Vetus latina (II d. C)
e verrà ripresa nella Vulgata di San Girolamo.
È merito della scuola di Nimega avere sostenuto già alla fine del XIX sec. che il latino
cristiano andava ritenuta una ‘Sondersprache’, una lingua speciale, ricca di grecismi,
semitismi, volgarismi. Come è stato osservato relativamente ad un luogo del Vangelo di
Luca, 4, 4: scriptum est quia non in solo pane uiuit homo’ «Esso contiene un grecismo
volgare, la dichiarativa con quia invece dell’infinitiva, calco di ότι (benché preparato da
alcuni sintagmi latini del tipo doleo quod) e antecedente del nostro ‘che’; e un semitismo ,
la preposizione in con valore strumentale (‘di solo pane’) …»39
.
4. I grammatici latini specialmente quando segnalano errori più comuni sia nella
morfologia che nella pronuncia.
In questa direzione, una particolare importanza rivela l’Appendix Probi (probabilmente
scritta a Roma fra III-IV sec. d. C.) 40
conservata nel ms.Vindob. 17 di Vienna, in
appendice ad una grammatica di Probo, che contiene nella III parte un elenco di 227
parole volgari da evitare: es. auris non oricla; Calida non calda; viridis, non virdis; vinea
non vinia; vetulus non veclus. E proprio quei “volgarismi” rivelano tratti che si
affermeranno nelle lingue romanze quali l’uso dei diminutivi, la monottongazione di au in
o; la sincope della postonica, la tendenza della e in iato a trasformarsi in semivocale.
38
Cf. B. Spaggiari, Il latino volgare, in Lo spazio letterario del Medioevo. Il Medioevo latino, I. La
produzione del testo, Roma, Salerno editrice, t. I, pp. 81-119, p. 83, n. 9.
39
Cf. Traina-Bernardi Perini, Propedeutica cit., p. 7, n. 5. 40
Ma secondo altri, come Renzi-Andreose, Manuale di linguistica cit., p.173 , il testo andrebbe collocato nel V-
VI sec.
16
Di grande interesse anche un glossario conservato in un codice databile al IX sec. e
proveniente dall’abbazia di Reichenau dove la voce latina viene affiancata da quella
“volgare”.
5. I lessicografi : particolarmente interessante è Isidoro, vescovo di Siviglia (570 ca.-
636), autore di 20 libri di Etimologie, vera e propria summa dello scibile del tempo,
soprattutto dove spiega alcuni volgarismi. Così (Etim., XVII, 7-9) Mella, quam Greci
loton appellant, quae vulgo propter formam et colorem fabam syriācam dicitur.
6. Le iscrizioni soprattutto quelle di carattere privato, dove per ignoranza degli
scalpellini troviamo tracce di volgarismi assenti nelle epigrafi ufficiali e che a differenza
di queste rimangono nel luogo dove furono scritte consentendoci anche una
localizzazione linguistica. Tra le più note ricordiamo quelle pompeiane di cui possediamo
un sicuro terminus ante quem nel 79 d. C. (data eruzione Vesuvio) e che sono state
protette dall’ingiuria del tempo proprio dalla cenere. Ecco per esempio l’iscrizione che si
legge all’interno di una pittura41
: Quisquis ama valia, peria qui nosci amare
Bis tanti peria, quisquis amare vota. (= Viva chi ama, muoia chi non sa amare. Due volte muoia chi impedisce di amare)
dove si può osservare la scomparsa della dentale finale t nella III persona verbale (valia,
peria invece valeat, pereat); l’esito di j da ĕ atona in iato; nosci(= non scit) invece di
nescit.
Molto interessanti, infine, sono alcune formule magiche impresse su lamine di piombo,
le cosiddette defixionum tabellae (II o III sec. d. C.)usate per difendersi dal malocchio e
provenienti per la gran parte dall’Africa.
7. Grammatica comparata e lessico delle lingue romanze Quando gli esiti romanzi convergono è possibile postulare l’esistenza di una forma non
documentata in latino. Le forme ricostruite solo su base comparativa si scrivono precedute
da un asterisco:
es: *potēre> (diverso dal lat. class. posse) it. potere; fr. pouvoir; sp. por. poder
*quagŭlare > fr. coillier; it coagulare
*pĭram (e non pĭrum): it. cat. sp. port. pera; fr. poire
Addirittura nel fondamentale dizionario di Meyer-Lübke il Romanisches etymologisches
Wörterbuch (1911-20) il 10% delle forme sono contrassegnate da asterisco, anche se quasi
un secolo di ricerche linguistiche ha ovviamente alterato queste percentuali e molte forme
sono oggi riccamente documentate.
9. Gli errori dei copisti
Infine alcune informazioni possono ricavarsi anche dalle grafie dei manoscritti
attraverso gli sbagli dei copisti, anche se si tratta per lo più di documentazione posteriore
all’età carolina, assai rari sono infatti i codici conservati anteriore a questa data.
41
Per l’iscrizione, sovente citata, cf. V. Väänänen, Introduzione al latino volgare [1963], Bologna, Pàtron 19803,
p. 69 fr.
17
PARTE II
§ 0. Premessa
Come si diceva, il confronto fra le lingue romanze rivela non solo la dipendenza
genetica da una medesima lingua madre, ma anche una folta messe di tendenze (fonetiche,
morfologiche, sintattiche, lessicali) comuni che non vengono cancellate dalle innovazioni
particolari che si realizzano nelle diverse lingue romanze. Tuttavia proprio per sfuggire al
rischio -lucidamente messo in rilievo da Alberto Varvaro- di dare l’impressione che
«questo latino volgare sia una forma diversa di latino, in cui si ritrovano in un solo sistema
pancronico tutte le scorrettezze di luoghi, tempi ed autori diversi» e che le lingue romanze
«in quanto ne riflettono in qualche modo almeno una parte delle deviazioni dalla norma,
finiscono per essere considerate discendenti esclusivamente dal latino volgare»42
, sarà
bene premettere che i cambiamenti rispetto alla norma latina qui riportati, andranno letti
come tendenze che si realizzano non contemporaneamente nell’insieme della Romània.
1. Fonetica Minima premessa glottologia ...
43
L'emissione di un suono linguistico si realizza quando l'aria emessa dai polmoni incontra
gli ostacoli costituiti dagli organi fonatori disposti in punti diversi della bocca.
Gli organi fissi coinvolti nella fonazione sono:
i denti
gli alveoli (cavità della mascella e della mandibola contenente la radice del dente)
il palato
gli organi mobili:
le labbra
il velo palatino
la faringe
Sarà anche opportuno percepire la differenza fra suoni sordi e sonori: nella pronuncia
dei suoni sordi, infatti, la glottide -cioè lo spazio fra le corde vocali- è aperta e passa più
aria, dunque il suono emesso risulta molto più energico, mentre nell’emissione dei suoni
sonori la glottide è chiusa e vibrano le corde vocali. Per il resto apparirà immediatamente
chiaro che nell’articolazione di /t/ o /d/ risultano coinvolti i medesimi organi fonatori.
Classificazione dei suoni
Tutti i suoni linguistici rientrano in due classi principali 1. la classe delle vocali44
:
quando l'aria emessa dai polmoni non incontra nessun'ostacolo da parte degli organi
fonatori. Le differenti caratteristiche delle vocali sono determinate dalla forma assunta
dalla cavità orale (posizione della lingua e forma delle labbra); 2. la classe delle
consonanti: quando l'aria emessa dai polmoni incontra diversi ostacoli da parte degli
organi fonatori.
42
Cf. Varvaro, Linguistica romanza cit., p. 203. 43
Per un buon manuale di riferimento, si veda L. Canepari, Introduzione alla fonetica, Torino, Einaudi, 1979 (III
ed). 44
Canepari, Introduzione alla fonetica cit., p. 22, preferisce l'uso di ‘vocoidi’ e ‘contoidi’.
18
I suoni vengono classificati secondo il modo di articolazione (cioè il modo in cui
bloccano del tutto o solo in parte la fuoriuscita dell'aria) e il luogo di articolazione.
Per il modo di articolazione distingueremo fra suoni
OCCLUSIVI: così detti perché bloccano completamente l'aria accostando due parti
degli organi fonatori.
FRICATIVI: poiché non bloccano l'aria completamente, essa nel fuoriuscire emette una
sorta di frizione.
AFFRICATI: sono quei suoni dove l'aria prima bloccata viene poi liberata: da
un'occlusione si passa ad una frizione. Essi quindi pur percepiti come suoni unitari
(pensiamo a zia) sono in realtà suoni composti come dimostra «l'ascolto alla rovescia
d'enunciati che li contengono incisi su nastro magnetico...»45
(), per cui [tsia] diventa
]aist].
Infine distingueremo le consonanti NASALI -realizzate attraverso il passaggio dell'aria
soltanto dal naso-, le LATERALI -articolate col sollevamento della lingua e la
conseguente occlusione del canale orale, con emissione dell’aria ai suoi lati- e le
VIBRANTI –suoni alla cui produzione concorre un organo che vibra-.
Per il luogo: cioè quei punti dell’apparato fonatorio in cui gli organi vengono in contatto,
aumentando così le possibilità di articolare suoni diversi: labbra, denti, alveoli ecc…
Si riporta in appendice la tabella secondo l'IPA
_______________________
VOCALISMO
Ora (Renzi p, 91) il punto di partenza dei cosiddetti Neogrammatici verso la fine
dell'800 è il metodo STORICO-Comparativo. Si parte dalla comparazione dell'esito delle
lingue romanze e si risale a ritroso verso la lingua madre. Il cuore del metodo è l'idea che
in una lingua gli stessi esiti si trasformano nello stesso modo in tutte le parole. Ovvero
esiste una regolarità nei cambiamenti fonetici come c'è nei fenomeni naturali,
dunque la ricerca linguistica ha carattere scientifico. Si arriva alla formulazione di
leggi fonetiche pur corrette da eccezioni per es quei casi in cui l'evoluzione vocalica è
condizionata dal contesto fonetico (renzi, p. 92) : a. ANAFONESI cioè Ē e Ĭ davanti a
gruppi palatali consonantici si chiudono in I
Meraviliam
Familiam
Tinea
b. caso del francese dove A tonica latina diventa E, es marem> mer. Ma ci sono possibili
esiti diversi, 1. Se è in sillaba chiusa resta A 2.se a è preceduta da pal. dittonga in IE
CANEM> CHIEN, caput> chief 3. se è seguita da nasale> AI riprodotto ancora nella
grafia moderna dove però il suono è monottongato MANUM> main
FAMEM> faim
c. ANALOGIA che consiste nell'attrazione che una forma subisce da parte di un'altra . Si
considerino i dativi italiani CUI/ LUI, solo cui è direttamente derivato dal latino mentre
ILLUI è forma ricostruita su analogia, in lationo sarebbe stato ILLI
d. I CULTISMI
Si tratta di forme non trasmesse per via popolare ma ripescate per via colta, es
OCULARE/ occhio ; veglia vigilia; teglia tegola
Cǐbum> cibo discum> disco/ desco
I cultismi in genere pronunciati aperti perché le vocali aperte sono le più numerose
45
Cf. Canepari, Introduzione alla fonetica cit., p. 42.
19
E. PRESTITI che possono essere fonte di irregolarità, es GIOIA <gaudium è un
francesismo
Tra i cambiamenti di maggiore rilievo che si sono realizzati sul piano fonetico andrà
ricordato il collasso del sistema quantitativo: il latino conosceva infatti la distinzione tra
vocali lunghe e brevi con valore distintivo: VĒNIT = egli venne; VĔNIT= egli viene.
La distinzione fra lunghe e brevi coinvolgeva anche le consonanti, ma mentre queste
erano rappresentate dalla grafia (per es. -Renzi, p. 193- immo= anzi e imus = il più basso)
le vocali normalmente non presentavano distinzioni ŌS= bocca ŎS= osso erano scritti
come OS. Naturalmente -anche se scarsamente percepibile- anche l'italiano presenta delle
distinzioni di lunghezza vocalica, ma sono dipendenti dalla posizione:
PANE (a: lunga e /n/ breve)
PANNE (/a/ breve e n: lunga).
Per altro da questo si capisce che in italiano la lunghezza consonantica è un tratto
distintivo, cosa che non avviene in nessun'altra lingua romanza.
Alla luce delle iscrizioni pompeiane è possibile affermare che già nel I sec. d. C. "il
sistema fonologico del latino volgare si era semplificato: l'opposizione fra vocali lunghe e
brevi non era più distintiva, ma era diventata predicibile in base al contesto sillabico. Si è
raggiunta (...) la complementarietà di vocale e consonante: se la consonante è lunga, la
vocale è breve e viceversa"(Renzi, p. 195). Cane è lunga, canne è breve.
"Si è raggiunta quella che si può chiamare la complementarità di vocale e consonante:
se la consonante è lunga, la vocale è breve e viceversa"
Secondo Roncaglia46
l’ipotesi più probabile per spiegare il collasso della quantità (che
rappresenta comunque una tendenza pan-indoeuropea) è supporre la concomitanza di un
processo interno: il prevalere dell'intensità espiratoria sull'accento melodico, e di cause
esterne: parlanti che non sono più in grado di distinguere le lunghe dalle brevi. In questo
senso si tratterebbe di un fenomeno che trova la sua spinta propulsiva dalla periferia del
mondo greco-romano. Come osserva S. Agostino: cur pietatis doctorem pigeat, imperitis loquentem, ‘ossum’ potius quam ‘os’ dicere, ne ista syllaba non ab
eo quod sunt ‘ossa’, sed ab eo quod sunt ‘ora’, intellegatur, ubi afrae aures de correptione vocalium vel
productione non iudicant? (De doctrina christiana IV , x, 24)
(Ma allora perché il maestro di pietà, parlando a gente inesperta, dovrebbe aver ritegno a dire ŏssum
piuttosto che os, per far capire che os va collegato con ossa e non con ora (bocca), dato che le orecchie degli
africani non percepiscono la lunghezza e la brevità delle vocali? ).
Come si vede la perdita della distinzione quantitativa costringe il sistema ad una
profonda riorganizzazione che solo in una parte della Romania (parte dell'Italia
meridionale e Sardegna, la cosiddetta zona Lausberg 1939) fornisce un esito semplificato
e defonologizzato, altrove le vocali lunghe cominciano ad essere pronunciate come chiuse
e quelle brevi come aperte, secondo un processo di riduzione che vede le 10 vocali
toniche latine passare alle 7 del latino volgare. Sul perché di questo passaggio è
possibile rispondere con Renzi p. 195 "Per loro natura, le vocali lunghe (e tese cioè
ottenute con un maggior sforzo muscolare) tendono ad innalzarsi e quindi a chiudersi, e
viceversa quelle brevi (e rilassate cioè ottenute con un minor sforzo) ad abbassarsi e
dunque ad essere aperte". Si pensi all'inglese sheep pecora e fish pesce.
Ī ĭ ē ĕ a ă ŏ ō ŭ ū
I E E A O O U
46
Cf. Au. Roncaglia, L’effondrement de la quantité phonologique latine, in «Romanobarbarica», 6 (1981-1982),
pp. 291-310.
20
Da questo schema si deve partire per spiegare poi i successivi cambiamenti sopravvenuti
nelle lingue romanze. Per esempio nel siciliano E viene a coincidere con I e O con U.
Esempi:
FĪLUM > it. filo; fr., pr. fil;
VĪNUM
VĪTAM> vita, sp. prov. vida, fr vie
AMĪCAM> amica, sp. prov amiga, fr amie
MĪLLEM> fr. mil
PILUM> it. pelo; fr. pr. Pel
SITEM
MINUS
CĒRUM> it. cero
RĒTEM
CANDĒLAM
VĒLAM> it sp. prov vela, fr. veile
DĔNTEM
FĔRRUM> it. ferro; fr. pr. fer
MĔDICUM
PĔTRAM
FŎCUM > it. foco (>fuoco) ; fr. feu; pr. foc (talvolta anche fuec)
SOLA> it sp. prov sola, fr. soule, seule
CŎRDAM
PŎRTUM
SŌLEM> it. sole
OCTOBREM
GŬLAM > it. pr. gola; fr. goule;
BŬCCAM
MŪRUM> it. muro; fr. pr. mur
LUCEM
Per comprendere le conseguenze provocate dal collasso della quantità, sarà necessario
preliminarmente ricordare le norme che regolano l’accento latino, che possono
riassumersi in tre punti fondamentali:
a. nelle parole bisillabe l’accento cade sulla prima, quindi non si hanno parole tronche:
cà-nem;
b. nelle parole di tre o più sillabe l’accento cade sulla penultima se questa è lunga:
monére, sulla terzultima se è breve: sàpere;
c. l’accento in una parola di tre o più sillabe non può cadere oltre la terzultima
qualunque sia la quantità: ad-hì-be-o.
Tuttavia l’accento è determinato non solo dalla quantità della vocale, ma anche dalla
posizione, per esempio: una vocale breve seguita da due o più consonanti era considerata
lunga per posizione, perciò se penultima portava l’accento.
Con la perdita della distinzione quantitativa queste regole non hanno più ragione di
esistere (infatti la legge della penultima è venuta a perdere il fondamento su cui poggiava)
21
e l'accento conserva -salvo eccezioni- la posizione che portava in latino assumendo un
valore pertinente e distintivo termini come
àncora< ancŏram e ancòra < hanc hōram si oppongono per la posizione dell'accento.
(vedi anche tràdito / tradìto)
"Con ciò l'accento cessa di essere accessorio (...) e si ha una fonologizzazione
dell'accento" (Renzi p. 194) cioè assume valore distintivo.
Tuttavia già al tempo di Augusto si erano verificate delle eccezioni:
1. Se una vocale breve precedeva una consonate occlusiva + r (muta cum liquida) non
era considerata lunga per posizione e dunque l’accento tendeva a ritrarsi: ÍNTĔGRUM>
intéro (íntegro è un cultismo).
Possiamo rappresentare le vocali del latino volgare anche secondo uno schema definito
triangolo vocalico nel quale vengono rappresentate agli estremi le vocali più alte: i e u
e al vertice la vocale centrale a:
anteriori o palatali posteriori o velari
i u
e o
e o
a
centrale
Una vocale si dice in sillaba libera o aperta quando è posta alla fine della sillaba stessa,
implicata o chiusa quando la sillaba termina per consonante: es: ca-ne/ cam-po.
MONOTTONGHI e DITTONGHI
La tendenza alla riduzione di oe> ē > e era già attiva nel latino classico e dunque
coinvolge le parole che ancora presentavano il dittongo:
es. POENA> it. sp. port. cat. prov.: pena ; fr. peine.
Molto precoce dovette essere anche la riduzione di ae >ĕ > ε es laetus> leto> lieto. se
vogliamo prestar fede al sarcasmo di Lucilio nei confronti di un pretore urbano del II sec. a.
C.: Caecilius, che proprio giocando sul doppio senso di urbanus (riferito a ‘pretore’ e
‘cittadino’) lo chiama Cecilius e non Caecilius e lo accusa di non essere un pretor urbanus
bensì rusticus!
Si trova inoltre documentato nei graffiti pompeiani (I sec. d.C.) sotto forma di
ipercorrettismo (=correzione erronea di una forma o pronuncia esatta, ritenuta scorretta
per apparente analogia con altre forme relativamente scorrette): AEGISSE = ‘avere fatto’ per
EGISSE; e dovette certamente precedere il grande fenomeno della palatalizzazione.
La monottongazione di au > ō -che solo alcune lingue romanze conoscono- doveva
essere una tendenza del latino ‘rustico’ come ci documentano i cosiddetti ‘allotropi’ (=
forme che provengono dalla medesima base etimologica, ma presentano esiti fonologici
diversi) : es. Claudius / Clōdius; caupo = oste / cōpa = ostessa
e si riflette in alcuni esiti romanzi quali CAUDAM> it. coda; pr. coa; fr. queue, FAUCEM
> foce ma dovette presto esaurirsi per fare posto ad una monottongazione di au> ŏ alla
quale partecipano solo alcune lingue romanze (per esempio non il prov, il port e il rumeno):
Questa monottongazione dovette realizzarsi in «età romanza abbastanza avanzata, certo
posteriore alla dittongazione di ò<ŏ dal momento che ò < au non ha seguito identica
sorte»47
.
47
Cf. Au Roncaglia, La lingua d’oïl, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1971, p. 87.
22
es. AURUM> oro; fr. cat or; port ouro; prov rom aur.
Più in generale si può osservare che le vocali toniche aperte sono state soggette al
cosiddetto dittongamento spontaneo, ma secondo criteri diversi da una lingua all’altra.
Così, per esempio in italiano dittongano solo le vocali aperte in sillaba libera
MĔLEM>miele;
in francese anche le vocali chiuse in sillaba aperta danno vita a dittonghi discendenti:
TĒLAM> teil> toil
in spagnolo anche le vocali aperte in sillaba implicata:
FĔRRUM> hierro
VOCALISMO ATONO
Diversamente dalle vocali toniche le atone si riducono a 5 vocali perché fuori
d’accento tutte le vocali sono chiuse.
Inoltre nel latino volgare si assiste spesso alla sincope della postonica (vale a dire della
vocale che segue la tonica) soprattutto in parole proparossitone (o sdrucciole, cioè
accentate sulla terzultima). I graffiti pompeiani recano masclus per masculus
(MASCULUS: it maschio; fr. masle>mâle; sp. port macho); subla per SUBǓLA (=
scalpello), ma già nel latino della Lex Agraria (111 a. C.) troviamo la tendenza alla
sincope in particolare fra una liquida e un’occlusiva o fra due nasali, es. domneis per
dominis e Quintiliano ci racconta che Augusto riteneva la pronuncia non sincopata calidus
(e non caldus) come una pedanteria. Già in Orazio troviamo soldus per solĬdus Solido era
il nome di una moneta d'oro emessa dagli antichi romani (it SOLDO; fr. SOL> sou; sp.
SUELDO; pg SOLDO)
Per altro queste forme sincopate sono già registrate nell'Appendix Probi AURIS non
ORICLA (orecchia; oreille, sp. Oreja; port. orelha
Tuttavia la sincope della vocale atona dovette realizzarsi in tempi diversi, come
suggerisce il triplice esito di FABŬLA> fola/ favola/ fiaba (con metatesi cioè alterazione
dell'ordine originario dei suoni: fabula>fabla>*flaba>fiaba) e il doppio esito di
TEGULA> tegola/teglia, e probabilmente dovettero convivere a lungo due diverse
tendenze.
Se allarghiamo lo sguardo all’insieme della Ròmania, vedremo che gli esiti della sincope
si presentano nelle diverse lingue romanze secondo modalità differenti: la forte tendenza
alla sincope dell’ area gallo-romanza si contrappone a quella meno estesa dell’area iberica
e quella assai scarsa dell’ italiano e del rumeno.
Mirabiliam> meraviglia, prov. Meravelha, fr. merveille
VOCALI IN IATO
"Nel latino volgare si assiste ad un processo di semplificazione della struttura sillabica
volto ad eliminare gli iati cioè l'incontro di due vocali contigue formati da i e brevi
+vocale": djurnum> di-ur-num> diur/ num. Infatti nello iato due suoni sono giustapposti
senza un elemento disgiuntivo (la consonante) con conseguente difficoltà articolatoria che
può essere risolta in vario modo. Così da forme come ho-di-e si è passati -già in età
imperiale ad una nuova ricomposizione e divisione sillabica: HO-DIE con l'evoluzione di Ĭ
a semivocale cioè un suono intermedio fra vocale e consonante palatale j (altrimenti detta
JOD), ter-tj-um> TER-TIUM.
La semiconsonante jod era pronunciata come /i/ (iole), ma già in epoca imperiale
tende a confondersi con dς e seguendo le sorti del nesso dj: es. IŎCUM> it. gioco; fr. jeu;
pg. jogo; sp. Juego, rom. joc e pg jogo. Fanno eccezione l'italiano centro meridionale e il
sardo nuorese dove la iod si conserva. Prove della consonantizzazione di jod si hanno, per
esempio, nelle iscrizioni, dove troviamo forme come zanuario per ianuario.Altri esempi:
23
IUNGERE> giungere
IAM> già
Si determina uno spostamento di accento dal momento che l'accento non può cadere su
una semivocale.
Parallela è la tendenza di ĕ a chiudersi in I, es vinea> viniam; lanceam> lancia, palĕam>
paliam > paglia. Nell'Appendix Probi molte sono le indicazioni in questo senso CAVEA
non CAVIA, CALCEUS non CALCIUS.
Ciò spiega perché nel latino imperiale si assista ad una serie di ricomposizioni, in
particolare:
a. nelle parole latine nelle quali la penultima usciva in ĕ o in ĭ ed era in iato
l’accento invece di cadere sulla terzultima come previsto dalle regole latine tendeva a
spostarsi perché la e e la i seguite da vocali atone sono semivocali:
FILÌOLUM> filiòlum> figliolo
MŬLÌEREM>mŭlièrem> mogliera.
b. Nelle parole latine nelle quali la penultima usciva in u ed essendo in iato si
trasformava in semivocale, l’accento tendeva invece a ritrarsi: es. BATTÙĔRE>bàttuere,
con successivo assorbimento della u in iato (incontro di due vocali che non formano
dittongo): > it. battere; fr. batre.
Il latino infatti non conosceva la consonante FRICATIVA LABIODENTALE SORDA
esempio da Dante Purg. XII, 25 ss
Dopo la velata profezia di Odoriso, Dante vede scolpito sul pavimento della prima
cornice, numerosi esempi di superbia punita. Dante come un perfetta enigmista scrive le
prime quattro terzine facendole iniziare con la lettera V, le secondo con la lettera O, le
terze con la lettera M, ad indicare l’acrostico VOM: l’ uomo e la sua superbia.
Nella grafia antica V e u minuscola indicavano sia la semivocale che la vocale. La
distinzione grafica si realizzerà solo nel 1500. E tuttavia già all'altezza del I sec d.C
abbiamo grafie che ci indicano un mutamento di suono, probabilmente vicino a quello di
una fricativa bilabiale sonora. Spagnolo saber.
Questo suono è poi passato ad una fricativa labiodentale V. Lavare> laβare > lavare, in
spagnolo questo suono se è intervocalico è fricativa bilabiale, se invece è è all'inizio di
parola passa a B anche se la grafia rimane V es VINUM> vino (pron BINO)
CONSONANTISMO
Passiamo ora alle consonanti, che organizzeremo in uno schema complessivo che dia conto da un
lato del luogo in cui un determinato suono viene articolato e dall'altro del modo
Occlusiva : une consonante è una consonante articolata bloccando completamente la fuoriuscita
dell’aria a livello della bocca, della faringe e della glottide, poi improvvisamente rilasciata
Fricative Il fono viene prodotto mediante un restringimento tra alcuni organi nella
cavità orale, che si avvicinano senza tuttavia chiudersi completamente come nelle
occlusive: l'aria continua a fuoriuscire, passando attraverso la stretta fessura formatasi
e provocando in tal modo un rumore di frizione. Si noti che una consonante fricativa,
per sua stessa natura, è una consonante continua, nel senso che può essere
prolungabile a piacere, a differenza per esempio delle consonanti occlusive.
24
Affricate Nella fonetica articolatoria, una consonante affricata (o più semplicemente affricata) è
una consonante, classificata secondo il suo modo di articolazione, prodotta in due fasi successive:
una fase occlusiva e una fase fricativa. Le consonanti affricate sono note anche con il nome (più
trasparente) di occlu-costrittive.
- L’aspirata H già al tempo di Cicerone era pronunciata soltanto nelle parole di origine greca,
dando vita ad una serie di ipercorrettismi, cioè di aspirazioni fuori luogo, come ci dice Nigidio
Figulo (I sec. a. C)48
( ‘rusticus fit sermo, si adspires perpĕram). La scomparsa dell’-h fra due
vocali dovette essersi realizzata già in epoca arcaica, infatti non impedisce la contrazione: es. ne
homo> ne hemo> nemo (non un uomo→ nessuno) e per Quintiliano la pronununcia deprendere
per deprehendere rappresenta una normale abbreviazione non diversa da vitasse per vitavisse. In
seguito dovette perdersi in posizione iniziale e a partire dal III secolo sono frequenti casi di
iscrizioni senza h o con h usata a sproposito: es abeo, hossa... Come scrive Agostino nelle
Confessioni(I, 18): ut qui illa sonorum vetera placita teneat aut doceat, si contra disciplinam grammaticam sine adspiratione primae
syllabae hominem dixerit, displiceat magis hominibus quam si contra tua praecepta hominem oderit, cum sit homo.
(= e chi ha studiato o insegna quelle antiche norme dei suoni, se, contrariamente alle regole della grammatica,
abbia pronunziato la parola homo senza l’aspirazione della prima sillaba, urta di più gli uomini che non odiando,
contro la tua legge, un uomo, uomo egli stesso).
Sarà la tradizione scolastica medievale che reintegrerà l’aspirazione dando vita a una pronuncia
quale miki invece di mihi che ha lasciato traccia in alcuni termini dotti quali annichilire,
nichilismo.
-Le velari C e K venivano pronunciate esattamente nello stesso modo, al punto che il k usato
preferibilmente prima di A, era già ritenuta da Quintiliano (I sec. d. C.) una consonante inutile.
Tuttavia a partire dal III sec. è documentato l’intacco della velare sebbene questa
palatalizzazione si realizzò in tempi diversi nei vari territori dell’Impero, così alla fine del IV
secolo San Girolamo -oriundo della Dalmazia e discepolo di Elio Donato- doveva conoscere il
suono velare di K di fronte a vocale palatale, visto che ritiene il k un doppione della –c, mentre la
paronomasia (=figura retorica che consiste nell’avvicinare parole di suono uguale o simile, ma
semanticamente differenti per suggerire un’affinità di senso) usata dal contemporaneo Ausonio
(nato a Burdigala, attuale Bordeaux) fra salo, solo, caelo sembra suggerire non solo un suono
palatale di –c, ma addirittura un’avvenuta assibilazione, come nel francese ciel (pronuncia siel).
Att
Dire meglio Dovette realizzarsi in più ondate successive, di cui la più antica - attestata dal II
sec. d. C.- si realizza di fronte a iod proveniente da vocale palatale in iato, ed è fenomeno
panromanzo: es. conscientia> consientia come si ritrova nelle iscrizioni e si ricava dai
grammatici del IV secolo: «iustitia cum scribitur, tertia syllaba sic sonat, quasi constet ex tribus
litteris t, z et i» (Papirio, ap. Keil, Gramm. Lat. VII, 216). Anche Servio ci documenta il
fenomeno: «Media: di sine sibilo proferenda est : Graecum enim nomen est, et Media provincia
est » (In Verg, Georg., II, 126 Thilo).
Qualche esempio:
Dopo il III sec. l’intacco palatale delle consonanti occlusive dentali e velari di fronte a vocali
palatali dovette diffondersi in gran parte della Romània (ad eccezione della Romània orientale) e
si ritroverà in tutte le parlate romanze (anche se non con i medesimi risultati, si pensi all’italiano
cielo dove il suono corrisponde ad un’affricata palatale sorda e al franc. ciel dove il medesimo
grafema corrisponde ad una fricativa palatale sorda = siel) fatta eccezione per il sardo e il
dalmatico che conoscono la palatalizzazione solo davanti ad i.
48
Cf. Aulo Gellio, XIII, 6, 3.
25
In particolare le consonanti che presentano modificazioni importanti sia in inizio di parola sia
all'interno sono le occlusive velari che davanti a vocale palatale si trasformano in affricate:
es. Kervum> cervo fr cerf pronuncia zerf serf
civitatem> città sité
gelum> gelo
gallum> gallo fr jal (pronuncia fino al XIII sec gial poi jal)
"In questo caso possiamo parlare dell'acquisizione di una nuova opposizione distintiva detta
FONOLOGIZZAZIONE. Per es. (p. 155) in italiano come in quasi tutte le varietà romanze a
differenza del sardo e del dalmatico si assiste alla palatalizzazione di K G davanti a vocale
palatale, forse con fase intermedia di occlusiva prepalatale ancora presente in friulano.
Assai meno estesi sono i territori coinvolti nella palatalizzazione delle velari davanti ad a,
limitata a talune zone alpine e a gran parte del dominio gallo-romanzo eccezion fatta per una
parte a nord (Normandia e Piccardia) e una a sud (Guascogna, Guyenne, Languedoc, Bassa
Provenza). Es.
GAUDIUM
CAVALLUM
CAPUT
Per la labiovelare -qu la tendenza già in epoca classica all’eliminazione dell’appendice labiale
davanti alla vocale u è chiaramente documentata da un luogo di Velio Longo: «Si fa questione
se equus si debba scrivere con una u o con due (…) all’orecchio bastava che si scrivesse con
una sola u, ma l’analogia ne richiede due». E anche nell’Appendix Probi si raccomanda: “equus
non ecus”.
Ma più in generale le grafie delle iscrizioni documentano largamente la tendenza alla caduta di
u di fronte a vocali diverse da a: conda invece di quondam; cis per quis; e ipercorrettismi quali
quiesquit per quiescit.
Esempi: quid> che/ que
Laqueus> laccio
quaerere
Quadrum> quadro/ carré
Qualem> quale, ma il rumeno care postula una base analogica *calem
Parallelamente si assiste alla palatalizzazione e alla spirantizzazione di dj e tj .
Durante il II e III secolo la semivocale jod venne ad intaccare l’occlusiva dentale t che
assunse il medesimo valore di cj e pronunciata come una fricativa sorda /ts/. Da qui la
pronuncia ecclesiastica e postclassica di tj come fricativa dentale sorda /ts/ es. PLATĔA>
piazza, fr. place; sp. haz, port. face; rom. faţă; e di /dj/ in /dz/ , evoluzione identica a
quella di /j/: es. hodie> oggi.
diurnum> giorno
V equivaleva alla semivocale u, poiché era espressa da un medesimo segno. E la grafia
manterrà a lungo questo doppio valore, si pensi a UOM dantesco
LENIZIONE INTERVOCALICA
In posizione intervocalica, le consonanti possono essere soggette ad un processo di
lenizione: le consonanti doppie tendono a scempiarsi e le consonanti semplici
intervocaliche ad indebolirsi di uno o più gradi a seconda delle varie lingue. Lenizione
significa 'ammorbidimento' o 'indebolimento' (dal lat lenis, come nella radice di 'lenire'), e
si riferisce al cambio da una consonante considerata dura ad una considerata morbida
(fortis → lenis). Il criterio per decidere se una consonante è di un tipo o dell'altro è
26
variabile, ma in generale, la scala è la seguente: consonanti sorde (/p t k/) → consonanti
sonore (/b d g/) →fricative sonore (/v D G/).
La lenizione diacronica si trova, ad esempio, nel passaggio dal latino allo spagnolo, dove le
consonanti intervocaliche sorde a metà parola (/p t k/) vengono cambiate nelle loro controparti
sonore (vita → vida, caput → cabo, caecus → ciego).
v
Si tratta di un fenomeno in cui il francese spinge molto più avanti l’innovazione (da
sorde a sonore, da occlusive a fricative, giungendo talvolta fino al dileguo), mentre
l’italiano, per esempio, si presenta più conservativo.
Fata
Vita
caballus
esempio, i dialetti gallo-italici attestano una sistematica lenizione, o sonorizzazione,
delle consonanti sorde in posizione intervocalica, mentre l'italiano standard, derivato dal
toscano (specialmente fiorentino) che territorialmente si trova al di sotto dell'isoglossa La
Spezia-Rimini, non presenta che eccezionalmente il fenomeno (la parola luogo, da lat.
locus, è uno dei pochi esempi). La stessa assenza è riscontrata nei dialetti italiani
meridionali. Ebbene, la lenizione intervocalica è un fenomeno riscontrabile in tutte le
lingue attuali che hanno come sostrato una lingua celtica, cioè in tutta la cosiddetta
Romania (pron. Romània) occidentale, che comprende, per indicare soltanto le lingue
maggiori, lo spagnolo, il portoghese, il francese e, appunto, i dialetti gallo-italici del nord-
Italia. Molti studiosi attribuiscono pertanto la lenizione dei dialetti gallo-italici proprio al
sostrato gallico.
Certamente antica -e documentata già dal I sec. d. C. attraverso le frequenti confusioni
fra b e v/ nelle iscrizioni- la spirantizzazione dell’occlusiva labiale sonora b che, in
posizione intervocalica, veniva ad assumere un valore simile a quello della fricativa
bilabiale /β/.
L’evoluzione ulteriore a fricativa labiodentale v si realizza in gran parte delle lingue
romanze:
es. CABALLUM> fr. cheval ; it. cavallo; pg. cavalo. In rumeno giunge al dileguo: cal
mentre in spagnolo e catalano mantiene il valore della fricativa bilabiale /β/: sp. caballo.
I casi di mantenimento di di b sono cultismi NOBILEM o forme tarde ROBERTUM
Qualche esempio da Varvaro:
-PP- cuppam> coppa/ fr. coupe/ sp. Copa
-ripa/ rive/ribe
sapere/saveir /sabere
cavallo/ cheval/ caballo, pg. cavalo, rom. cal
vaccam/ vache/ vaca
vitam/vie/vida
LACUM
AMICUM
STRATAM
CONSONANTI CHE SI TROVANO IN FINALE ASSOLUTA.
27
La sparizione di m finale è documentata fin dall’epoca più arcaica, come si evince dalle
iscrizioni e dalla metrica latina dove è elisa dinanzi a vocale. Inoltre concordemente i grammatici:
Quintiliano, Velio Longo, Pisciano, ci informano sul fenomeno di m caduca49
. "La m serviva ad
indicare con la vocale precedente gran parte degli accusativi singolari: fabulam ed alcune
terminazioni verbali della I pers sing. Audiam futuro del vb audire."
Anche per -s è possibile documentare -fin dall’epoca arcaica- una tendenza all’instabilità (alla
quale seguirà in epoca classica una reazione), per esempio l’esametro di Ennio (Ann. 377):
Nos sumŭs Romani qui fūimus ante Rudini per rispettare la scansione metrica prevede che non
si tenga conto della s di sumŭs50
.
Le iscrizioni, inoltre, ci documentano una debolezza della s al nominativo singolare
(amicus). Questa s -che dunque svolgeva una importante funzione di marcare il soggetto-
scomparirà completamente in Italiano e Rumeno per sopravvivere invece, più a lungo,
nella Romània occidentale, vale a dire nelle lingue gallo-romanze e in quelle iberiche
(portoghese, catalano, sardo).
_____________________________
2. Morfologia
0. Premessa:
La morfolgia è quella parte della grammatica che studia il modo in cui i morfi cioè
elementi dotati di significato si combinano fra di loro per formare i lessemi e le parole
della lingua. Il morfo è dunque l'unità minima di espressione della parola:
es. PAROL → morfo lessicale (significato principale della parola) A → morfo che
contiene il valore grammaticale quindi il singolare e il femminile.
Il latino era una lingua sintetica nel senso che gran parte delle funzioni sintattiche erano
indicate attraverso i casi (che servivano ad esprimere anche il numero singolare o plurale-
ed il genere: maschile, femminile o neutro) e le desinenze (cioè quei morfemi variabili
che aggiunti al tema di un verbo o di un nome servono a modificare le varie forme del
nome o del verbo), mentre le lingue romanze tendono a forme e costruzioni analitiche, sia
sul piano nominale che verbale.
Alla base del processo di cambiamento morfologico (v. Renzi , pp. 150 ss) vi sono tre
processi: 1. Analogia 2. Rianalisi 3. Grammaticalizzazione. L'analogia tende a sopprimere
gli allomorfi cioè diverse realizzazioni del medesimo morfemo in presenza, ad esempio,
di fm rizotoniche e rizoatone (es siede, sediamo)> nego / neghiamo
Grammaticalizzazione per esempio il suffisso mente per la formazione degli avverbi .
Mens mentis all'ablativo con valore di 'atteggiamento', 'stato d'animo', e con aggettivo ad
esso accordato. Viene reinterpretato come morfema grammaticale.
1. NOMI
Il latino, essendo una lingua sintetica esprimeva le sue funzioni sintattiche dai CASI
attraverso i quali si indicavano a. funzione b. numero c. genere e le DESINENZE utili a
modificare le forme del nome e del verbo.
Il sistema della flessione nominale latino è stato sottoposto nel tempo a importanti
modificazioni dovute -almeno in parte- alla perdità della quantità e alla caduta delle
consonanti finali, che possono essere così sintetizzate:
a. Riduzione delle declinazioni da 5 a 3 : infatti la IV (che -come la V-conteneva meno
parole) viene assimilata alla II (es. fructŭs, manŭs ecc…il cui genitivo non è più fructus,
49
Cf. M. Niedermann, Précis de phonétique historique du latin, Paris 1906, trad. it. Elementi di fonetica storica
del latino, Bergamo 1948, pp. 101-102. 50
Cf. A. Traina - G. Bernardi Perini, Propedeutica al latino universitario, Bologna, Patron 1982 (3 ed), pp. 105-
106.
28
ma fructi ) e la V alla I ( es. facies diventa facia)51
. Si giunge così a tre tipi: un femminile
in A: tipo rosa; un maschile in O: tipo muro; una classe maschile e femminile in E: botte,
cane…
b. Nella categoria del genere vale a dire (masch., femm., neutro) il cambiamento più
significativo è rappresentato dalla graduale scomparsa del neutro (salvo in rumeno)
assorbito dal maschile: es. caelum diventa caelus (nel neutro infatti nominativo e
accusativo singolare uscivano infatti in um, con la perdita delle consonanti finali, la
confusione con il maschile era quasi inevitabile) o dal femminile: infatti la desinenza in -a
del neutro plurale, tipo folia induce a reinterpretare questi termini come singolari
collettivi.52
c. riduzione dei casi della flessione desinenziale da 6 a 2 (nominativo e accusativo),
con conseguente sviluppo di un ricco sistema di preposizioni per indicare gli altri casi. In
particolare grande spazio conquistano costrutti con il de per indicare il genitivo e con ad
per indicare il dativo, che in latino venivano adoperati per indicare rispettivamente il
complemento di materia (de + ablativo): es. pocula de auro = coppa d’oro e il
complemento di moto a luogo (ad + accusativo, ad indicare un moto di avvicinamento).
Le preposizioni, cioè quelle parti invariabili del discorso che fungono da raccordo fra i
diversi elementi della proposizione o due diverse proposizioni, non possono essere
considerate un’innovazione del latino volgare. Alcune infatti erano usate nel latino
classico, in particolare per indicare le azioni di movimento: ad, de, cum, contra. in, supra.
Alcune prevedevano sia l'accus. che l'abl. come per es. IN, SUB, SUPER
Tuttavia secondo Renzi, p. 188 erano assenti nell'indoeuropeo… Altre sono delle
neoformazioni, così ad+abante> avanti; de + intro> dentro ecc..
Renzi richiama l’attenzione sulla possibile concomitanza di due fattori: la tendenza alla
caduta delle consonanti finali e il fatto che la presenza di alcune preposizioni latine che
servivano ad indicare precise funzioni (es. cum + ablativo = complemento di compagnia, o
in+ accusativo= compl. di moto a luogo) rendevano ridondante e perciò inutile l’uso dei
51
La IV e la V declinazione erano infatti quelle meno rappresentate. Lo slittamento dalla IV alla II si spiega
facilmente, basti considerare l’identità dei sostantivi della II e della IV al nominativo e all’accusativo: murus/
fructus e murum/fructum. A facilitare l’assorbimento della V nella I avrà certo contribuito il fatto che i nomi della
V sono tutti femminili (tranne il sostantivo DIES = giorno, che è maschile salvo quando indica: un giorno fissato;
la data di una lettera; il valore generico di tempo).
52 Alcune lingue hanno un solo genere e trattano tutti i sostantivi nella stessa maniera da un punto di vista
grammaticale. La maggior parte delle lingue indoeuropee ha da uno a tre generi, tradizionalmente chiamati generi
grammaticali piuttosto che classi nominali, ma la maggior parte delle lingue BANTU (africane) ne ha da dieci a
venti.. Il sistema delle classi nominali è sempre accompagnato da apposito gruppo di suffissi o prefissi che
modificano determinate parole mostrando contemporaneamente il genere del nome alle quali si riferiscono.
Criteri comuni per distinguere i generi nominali includono:
animato e inanimato
razionale e non razionale
umano e non umano
maschile e altro
umano maschile e altro
maschile e femminile
maschile, femminile e neutro
forte e debole
aumentativo e diminutivo
29
casi. L’affiorare già nei graffiti pompeiani di taluni errori conferma non solo come la
garanzia dell’espressione del complemento fosse affidata alla preposizione più che al
morfema casuale, ma anche una chiara tendenza ad estendere l’uso dell’accusativo per
l’espressione di qualsiasi caso obliquo (cioè diverso dal soggetto che compie l’azione).
Non si può escludere -almeno per alcune lingue romanze- un passaggio intermedio
attraverso una declinazione tricasuale (cioè nominativo, dativo, accusativo) come
parrebbero suggerire i cosiddetti pronomi personali clitici (cioè formati da monosillabi
atoni preposti o posposti ad un’altra parola):
NOMINATIVO: it. egli / fr. il : egli mangia; il mange
DATIVO: it. gli/ fr. lui gli parlo; lui parle
ACCUSATIVO: it. lo / fr. le lo guardo; je le regarde
Tuttavia non ne abbiamo alcuna documentazione, mentre è evidentissimo il punto
d’arrivo: la totale scomparsa dei casi.
Per la gran parte -inoltre- le parole romanze derivano dall’accusativo, anche se non
mancano rari casi di nomi derivati dal nominativo, o doppi esiti che nel tempo possono
aver assunto significati non del tutto coincidenti. Per esempio l’imparisillabo della III
sérpens – serpéntis recava all’accusativo serpéntem, da cui abbiamo un doppio esito
SERPENS > serpe SERPENTEM> serpente
1. b. La formazione del plurale
L’alternanza di numero (cioè la differenza fra singolare e plurale) è rappresentata in due
modi diversi nelle lingue romanze: 1. La Romània occidentale (lingue ibero romanze,
gallo romanze, retoromanze e sarde) con il plurale sigmatico: -s. La -s deriva
dall’accusativo plurale latino:
es. murus-i : acc. pl. muros > murs ; rosa-ae : acc. pl rosas > fr. roses; cat. sp. rosas
2. La Romània orientale (dalmatico, rumeno, italiano) con il plurale vocalico – cioè con
alternanza vocalica o/i; a/e.
Per spiegare la formazione di questo secondo plurale possono avanzarsi due ipotesi
diverse:
a. i morfemi –e –i deriverebbero rispettivamente dal nominativo della I declinazione: es.
rosae> it. rose; rum. e dalla II declinazione MURI> muri e il morfema in -i si sarebbe
esteso per analogia ai nomi della III: VULPES> volpi.
b. Oppure anche per la Romània orientale il punto di partenza sarebbe l’accusativo:
es. rosas che attraverso una vocalizzazione della -s (come quella che avviene in POST>
poi) diventerebbe rosai>rosae. Analogamente per il maschile partiremmo dall’accusativo
plurale dei nomi della III in es> is >i.
2. Aggettivi
Per gli aggettivi (l’aggettivo è quella parte variabile nel genere e nel numero che
‘aggiunge’ una parte del discorso) sopravvivono solo due classi: il tipo bonus e il tipo
fortis, con una spiccata tendenza però ad impoverire la seconda a vantaggio della prima.
2.1. comparativi- superlativi
Un’altra caratteristica del latino volgare è la scomparsa del comparativo organico che
lascia poche tracce in aggettivi di grande frequenza (es. it. migliore, peggiore) ed un
numero più alto di comparativi in ior in franc. antico, cf. bellezour<*BELLATIOREM, o
graigno(u)r <GRANDIOREM), mentre si fa sempre più strada nel latino comune il
comparativo formato per mezzo degli avverbi magis, plus. Già Ennio (fine del III sec. a.
C.) usava plus miser e negli scrittori cristiani sono numerose le forme plus onerosus ecc. Il
30
territorio della Romania presenta magis nelle aree laterali (Spagna, Portogallo, Romanìa) e
plus nelle centrali (Italia, Rezia, Gallia).
3. Articolo
Ignoto al latino classico l'articolo ha la funzione di attualizzare il nome ed è uno degli
aspetti più importanti di quella tendenza analitica che caratterizza le lingue romanze
rispetto al latino. "Il greco ha sviluppato l'articolo definito relativamente presto, ma
comunque dopo Omero e quello indefinito nel periodo medievale (...)" p. 191 Nel caso
delle lingue romanze dobbiamo immaginare un cambiamento avvenuto per gradi.
I due articoli determinativo e indeterminativo servono a precisare:
a. quello determinativo la classe di individui nel loro complesso (es. il bambino non si
può picchiare) e quello indeterminativo un rappresentante della classe (es. in quel giardino
c’è un bambino).
b. Inoltre si usa l’articolo determinativo quando ci si riferisce a qualcosa di noto a chi
parla o a chi ascolta (es. voglio aggiustare la televisione), o di contro, quello
indeterminativo quando si introduce un elemento non conosciuto (es. voglio comprarmi
una televisione).
Nel latino volgare si assiste ad un fenomeno di indebolimento del pronome dimostrativo
ille e ipse all'articolo determinativo assente in latino, (il sardo e in parte il catalano ed il
guascone lo sviluppano da ipse). La nascita dell'articolo dai pronomi dimostrativi si può
seguire abbastanza bene nei testi basso latini, per esempio nella Peregrinatio Aeteriae ad
loca sancta (IV sec)53
, dove serve ad indicare un elemento noto:
Per valle illa, quam dixi ingens =per quella valle che dissi grande
La funzione di indicare la classe probabilmente rappresenta un’evoluzione successiva
che può dirsi compiuta intorno al IX secolo. Per rimediare allo squilibrio del sistema
verranno inseriti pronomi dimostrativi rafforzati dal deittico ecce: ECCE HOC> pr . so; it.
ciò ; ECCE +ISTE >fr. iceste; ATQUE+ ICESTE+HIC> pr. Aquest.
Nelle lingue romanze si assiste anche allo sviluppo di un articolo indeterminativo dal
numerale unus54
. Sostanzialmente unus prende il posto di quidam che viene considerato un
aggettivo indefinito
In tutte le varietà romanze esso precede il nome, tranne in romeno dove segue come
enclitico lupul
Probabilmente anche lo sforzo di tradurre testi greci (durante i primi anni del
Cristianesimo) nei quali l'articolo era presente, dovette spingere alla formazione
dell'articolo nel latino volgare.
4. VERBO
Ci sono sei tempi (latino: tempora) nella lingua Latina. Sono:
Presente, (Latino: praesens) che indica azioni che stanno avvenendo nel momento in
cui si parla: Lo schiavo porta la brocca di vino.
53
Si tratta del resoconto del pellegrinaggio in Terrasanta compiuto - alla fine del IV sec. d. C.- da una monaca,
Egeria, probabilmente originaria della Galizia, chiamato Itinerarium (o Peregrinatio) Egeriae ad loca sancta. Il
testo è tradito da un codice dell’XI sec. proveniente da Montecassino, ma attualmente conservato alla Biblioteca
Comunale di Arezzo (n. 405). 54
Che sostituisce presto quidam a norma di grammatica un aggettivo indefinito con il valore di “un solo”.
31
Imperfetto, (Latino: imperfectum): descrive le azioni che stavano accendendo per un
periodo di tempo: La folla stava incoraggiando i gladiatori.
Futuro semplice, (Latino: futurum simplex) usato per azioni che non sono ancora
iniziate, ma che lo saranno in un certo momento: Egli scriverà la lettera domani.
Perfetto, (Latino: perfectum) descrive azioni del passato che sono concluse: Egli
insegnò al ragazzo.
Piuccheperfetto, (Latino: plusquamperfectum) descrive azioni più in là nel passato: Egli
ebbe insegnato al ragazzo.
Futuro anteriore, (Latino: futurum exactum) usato per azioni che saranno completate in
un certo momento nel futuro: Per domani, egli avrà inviato la lettera.
Ci sono tre modi grammaticali (Latino: modi):
Indicativo, (Latino: indicativus) che afferma fatti indiscutibili: Lo schiavo sta portando
le botti di vino
Congiuntivo, (Latino: coniunctivus) usato per esprimere possibilità, necessità,
intenzioni: È necessario che il centurione sconfigga i barbari.
Imperativo, (Latino: imperativus) usato per fare ordini: "Tu, schiavo, porta le botti di
vino!".
Ci sono cinque forme verbali nominali, dette anche modi verbali indefiniti:
Infinito
Gerundio
Participio
Supino (questi tre sono nomi verbali)
Gerundivo (questi due sono aggettivi verbali).
Ci sono due diatesi (Latino: genus):
Attiva, (Latino: activum) in cui il soggetto compie l'azione: lo schiavo porta le botti
Passiva, (Latino: passivum) in cui il soggetto subisce l'azione: la botte è portata dallo
schiavo.
Andrà in generale considerato che l'analogia è "la prima responsabile delle eccezioni
alle leggi fonetiche. Gli elementi morfologici all'interno dello stesso paradigma tendono
infatti ad influenzarsi reciprocamente. In particolare l'analogia opera attraverso due
processi: il quarto proporzionale e il livellamento. Per es amabam>amavA passa ad O per
livellamento sul tema del presente amo.
Le sostanziali modificazioni subite dal sistema verbale possono sintetizzarsi in alcune
tendenze di massima: la spinta alla regolarizzazione con la eliminazione di ciò che non
rientra immediatamente in una norma riconoscibile ed applicabile e la spinta a sostituire
forme complesse con perifrasi composte attraverso l’accostamento di più forme semplici.
Nel primo gruppo possiamo collocare:
1. Tutti i verbi deponenti (forma verbale passiva, ma con significato attivo, si tratta di
verbi che esprimevano azioni che operavano sul soggetto stesso o : "i grammatici li hanno
chiamati verbi deponenti, pensando erroneamente che avessero "deposto", quindi perduto,
la forma attiva, conservandone però il significato" wikipedia.) vengono assorbiti nella
forma attiva (es. nasci, mori sostituito da nascere, morire):
Hortor io esorto
32
Sequor io seguo
Vereor io temo
Largior io dono
Esistevano anche VERBI SEMIDEPONENTI
I verbi semideponenti hanno forma attiva nel presente e derivati, ma forma passiva con
significato attivo nel perfetto e derivati:
- audeo, -es, ausus sum, audēre osare
- gaudeo, -es, gavisus sum, gaudēre godere
2. Gran parte dei verbi irregolari vengono regolarizzati: in particolare verbi di larga
frequenza come esse, posse, velle. Il primo diventa *essere, pur conservando il presente
atematico, gli altri saranno rifatti partendo dal perfetto (potui; volui), sul modello habui :
habere = potui : x, onde x = potére.
Qui agisce il principio del IV proporzionale p. 151 che "si fonda sulla tendenza di una
lingua ad assegnare forme uguali a significati uguali" nel caso particolare ai due infiniti
Nel secondo gruppo rientrano:
1. Il passivo organico 1° Coniugazione 2° Coniugazione 3° Coniugazione 4° Coniugazione
am-or mon-ĕor leg-or aud-ĭor
scompare e viene sostituito da perifrasi con l’infinito presente seguito dall’ausiliare
essere (amor →amatus sum)
.Tanto più che il latino conosceva sia forme sintetiche che analitiche (amatus sum= sono
stato amato, che con la perdita delle fm sintetiche diverrà sono amato)
2. Il futuro semplice organico 1° Coniugazione 2° Coniugazione 3° Coniugazione 4° Coniugazione
am-ābo mon-ēbo leg-am aud-ĭam
scompare e viene sostituito da perifrasi con l’infinito presente seguito dal presente
dell’ausiliare avere (amabo → amare habeo), perifrasi già esistente in latino classico del
tipo scribere habeo (cf. partir m’ai al verso 24) che però aveva in sé un’idea di necessità,
idea che si perde a favore di una più generica nozione temporale proiettata nel futuro. Il
rumeno realizza il futuro aiutandosi con il verbo volere: voiu cânta. Varie sono le ragioni
che possono avere contribuito a questo disfacimento, intanto le forme del futuro si
prentavano estremamente disomogenee per cui si incontrava es. amabo accanto a timebo,
dicam, audiam. Inoltre la tendenza alla spirantizzazione di B>V crea confusioni ulteriori
con l'imperfetto.
Scompaiono in quasi tutta la Ròmania i seguenti tempi:
1. futuro anteriore (amavero= io avrò amato);
2. perfetto congiuntivo (amaverim=che io abbia amato);
3. imperfetto congiuntivo (amarem=che io amassi) sostituito dal piucheperfetto
(amavissem= ‘che io avessi amato’);
4. supino (amatum= a amare);
5. infinito perfetto (amavisse, sostituito da habere amatum, avere amato);
6. participio futuro (amaturus= che amerà);
7. imperativo futuro (amato= amerai).
Si crea invece una nuova serie perifrastica di tempi del passato formata dal participio
passato seguito dalle forme dell’ausiliare avere (habeo amatum, habebam amatum, habui
amatum ...).
33
Renzi p. 150: Riporta sotto la denominazione di "cambiamento sintattico" il passaggio
secondo il quale il verbo habere dal valore dio "possedere" passa a svolgere un ruolo di
verbo ausiliare. Punto di partenza dovrà essere una perifrasi del tipo habeo epistulam
scriptam in cui il vb è seguito da 2 complementi di cui il secondo è un predicativo
dell'oggetto e dunque si comporta come un aggettivo e non vi è relazione tra habeo e
scriptam (il sogg può essere diverso). In questo caso il cambiamento si realizza in forza di
uno svuotamento semantico del vb habeo, dunque il perno della predicazione si sposta sul
participio e epistulam diviene l'oggetto di scriptam.
Appare inoltre un nuovo modo del verbo: il condizionale sconosciuto al latino dove
invece l’espressione del dubbio o dell’ipotesi veniva rappresentato tramite il modo
congiuntivo. Il condizionale viene formato mediante perifrasi formate dall’infinito del
verbo + le forme del perfetto o dell’imperfetto dell’ausiliare avere (amare habebam,
amare habui):
cantare habet > cantar ha > canterà (futuro)
cantare habuit > cantar ebbe > canterebbe (condizionale)
È utile ricordare che in francese e spagnolo e in diversi dialetti italiani, il condizionale si è
originato in maniera diversa, risultando dalla combinazione tra l'infinito e le forme
all'IMPERFETTO del verbo avere. In questi idiomi si avranno così delle forme del tipo
partiria (o partirait) al posto di partirebbe. Quest'ultima è comunque la forma - di origine
toscana - in uso nell'italiano moderno, dato che ha soppiantato quella del tipo partiria.
Tutto ciò non ha impedito il successo secolare di forme del tipo avria oppure dovria al posto di
avrebbe e dovrebbe.
Le due parti che costituiscono il condizionale erano ancora distinti in spagnolo e portoghese
antico (e ancora port moderno) VENDE^ LOS-IAMOS
Altri spostamenti interni alle coniugazioni sono i seguenti:
1. Fusione tra II e III coniugazione salvo che all’infinito (per es. in italiano
distinguiamo fra tenére parossitono e crédere proparossitono) dove pure si erano verificati
numerosi scambi (metaplasmi): es. sàpere, càdere dalla III alla II, o viceversa dalla II alla
III ridére, respondére
2. I verbi in -io della III vengono attratti nella IV coniugazione (es fùgere> fuggire)
o in -eo della II (es. floreo, da florére a florire).
3. La sintassi Sarà innanzi tutto opportuno ricordare che le tre parti in cui si divide la grammatica
difficilmente possono essere separate, perché mutamenti fonetici, morfologici e sintattici
si condizionano e si implicano necessariamente.
Il latino aveva una costruzione sostanzialmente libera per ciò che concerne la
disposizione del soggetto e dell’oggetto: es. Petrus ama Paulum, anche se con una più
accentuata tendenza a collocare il verbo in posizione finale, preceduto dal complemento
oggetto. Finché le desinenze casuali si mantennero salde e almeno fino a quando almeno
la -s segnacaso del nominativo non scomparve, confusioni erano difficili. Ma quando55
nella parte orientale della Romània (compresa l’Italia) la -s cessò di essere pronunciata,
divenne obbligatorio mantenere un ordine fisso, che nelle lingue romanze è di solito:
55
La –s finale aveva già in età Repubblicana subito un notevole indebolimento, ma era stata ripristinata dai
grammatici, cfr. Wartburg, Ausgliederung der romanischen Sprachräume, Bern 1950, pp. 20-31 (tr. it. La
frammentazione linguistica della Romania, con introd. di A. Varvaro, Roma 1980).
34
soggetto + verbo + complemento oggetto, anche se sono ammesse altre soluzioni,
salvo in francese dove il rispetto dell’ordine SVO è -prescindendo da casi particolari-
obbligatorio56
.
In questa direzione si osservi che tutte le lingue romanze possiedono caratteristiche
tipologiche diverse dal latino ma simili fra di loro, non solo in questa tendenza/necessità a
porre il verbo alla fine, ma più in generale nella tendenza ad invertire l'ordine latino
MODIFICATORE-MODIFICATO a favore dell'ordine MODIFICATO
MODIFICATORE. Questo appare in una serie di esempi a cominciare dai nomi composti:
vexilli/fer =porta bandiera (anche eccezioni v. Terrae-motus) ,o aggettivo+ sostantivo
come pinguis puer= bambino grasso arte astringere= legare strettamente ecc
Inoltre la tendenza ad una struttura del periodo più lineare, conduce al sopravvento della
paratassi (cioè una sequenza di frasi fra loro coordinate) sull’ipotassi preferita dal latino
(uso delle proposizioni subordinate).
4. Il lessico del latino volgare
Come è noto, il lessico è il luogo maggiormente soggetto a influssi esterni, ma anche a
trasformazioni legate al mutare dell’ideologia, della mentalità, del costume. Scrive von
Wartburg57
: Chi si è proposto la meta di esplorare il vocabolario di un popolo, deve studiare anche tutta la sua vita, i
suoi metodi di lavoro, i suoi attrezzi, le sue concezioni etiche e religiose, i suoi usi e costumi, il suo
abbigliamento con i relativi cambiamenti di moda».
È possibile distinguere all’interno del patrimonio lessicale di una lingua tre diverse
sezioni:
1. Forme ereditarie cioè le parole ereditate per tradizione ininterrotta, alle quali
andranno aggiunte le derivazioni e composizioni.
2. Le forme dotte cioè riattinte direttamente dal latino attraverso una filiera dotta. Il
latino continuerà, infatti, a rappresentare nel tempo un serbatoio sempre attivo: davvero
«quell'altro Vocabolario dal quale tutti gli scrittori classici italiani, prosatori e poeti ..., dal
padre Dante fino agli stessi compilatori del Vocabolario della Crusca, incessantemente e
liberamente derivarono tutto quello che parve loro convenevole»58
.Di solito è l’aspetto
fonetico che rivela il latinismo, come mostrano i seguenti casi: VĬTIUM> vezzo (fm.
ereditaria) / vizio (fm. dotta); DĬSCUM> desco (fm. ereditaria) / disco (fm. dotta), ma
un’utile spia può venire dall’aspetto morfologico, come nel caso dei derivati dal
nominativo, es. carme, certame, imago ecc... o comparativi organici come priore, seriore,
ulteriore.
3. I prestiti. Si parla di prestiti quando una lingua trae un vocabolo da un’altra per
ragioni non sempre facili da rintracciare (talvolta la parola indigena si perde perché aveva
perso il suo carattere espressivo o perché sono sopravvenute ragioni di ordine sociale). I
prestiti possono essere assimilati o meno al sistema linguistico proprio di una determinata
lingua: per es. per la lingua italiana si pensi a guerra, guanto contro computer, tram.
Presenza precoce di germanismi guerra, wardor, wartjan
Naturalmente la maggior parte del lessico delle lingue romanze deriva dal latino, pur
attraverso un certo numero di innovazioni che soprattutto quando vanno ad investire la
sfera semantica rappresentano «indizi interessanti sulle condizioni sociali e sulla
56
Sui cambiamenti dell’ordine delle parole dal latino alle lingue romanze, cf. L. Renzi, La tipologia dell’odine
delle parole e le lingue romanze, in «Linguistica», XXIV (1984), pp. 27-59. 57
Grundfragen der etymologischen Frorschung, in «Neue Jahrbücher für Wissenschaft und Jugendbildung», 7
(1931), p. 145. Cito dalla traduzione riportata da Pfister e Lupis, Introduzione all’etimologiacit., pp. 140-41 58
Così Leopardi nella prima delle Annotazioni alla canzone ad Angelo Mai.
35
psicologia collettiva dell’ambiente in cui quei fenomeni hanno avuto origine»59
: valga per
tutti l’esempio della scomparsa di domus in favore di casa = capanna, che sottolinea un
fenomeno sociale di grande entità: la tendenza all’abbandono delle città in favore delle
campagne. Secondo Renzi (p. 160 ma io non concordo) i fattori socio culturali sono meno
importanti di
1, omofonia cioè tendenza a sostituire forme monosillabiche con altre dotate di maggior
corposità , rimpiazzare lessemi semanticamente neuti con altri più marcati MANDUCARE
e non EDERE
Quando vi è necessità di creare una nuova parola si può ricorrere al cambiamento
semantico che funziona per ASSOCIAZIONE METAFORICA: gru
CONTIGUITA' o metonimia Bucca
CONTIGUITA' TRA SIGNIFICANTI iecur ficatum
Volendo tuttavia mettere a fuoco alcuni specialissimi caratteri del lessico latino volgare
potremmo rilevare queste tendenze:
1. la tendenza a far prevalere le forme concrete su quelle astratte, come dimostra il caso
di lemmi con doppio significato: per es. pŭtare ‘ritenere’ e ‘potare’, di cui sopravvive solo
la seconda accezione.
Per comprendere le caratteristiche particolari del latino volgare sarà preliminarmente
opportuno tenere conto che per la latinità la differenza stilistica si gioca in gran parte sul
piano lessicale, come si evince dalle serie sinonimiche dove la tendenza è quella ad
eliminare termini esclusivamente letterari: così della serie equus (cavallo da sella), sonĭpes
(‘destriero’) caballus (ronzino, cavallo castrato, usato come cavallo da tiro) l’unica voce
che sopravvive per via ereditaria è il termine di uso quotidiano: caballus.
2. La tendenza ad estendere lo spettro semantico di termini dell’uso quotidiano. Per
esempio per designare il fuoco, il latino aveva una voce indoeuropea: ignis che viene
sostituita con focus (voce di etimo malsicuro)= focolare domestico (it. fuoco; fr. feu; sp.
fuego; port. fogo; rum. foc), contrapposto ad ara che era quello della divinità. Così un
glossario tardivo spiega focus enim ignis est e le lingue romanze non conservano tracce
di ignis, se non in termini di derivazione dotta, quali ignifugo ecc…
3. Sovente termini più espressivi sembrano sovrastare altri percepiti come meno
significativi: così l’irregolare edere ‘mangiare’ se in area iberica viene sostituito da
comedere (sp. e port. comer), altrove viene soppiantato da manducare (intensivo di
mandere denominale dal nome del buffone da farsa ‘Manducus’) che significava
‘dimenare le mascelle’. O ancora plorare viene messo in ombra da laniare se ‘lagnarsi’
che significava graffiarsi e da plangere ‘graffiarsi il petto’.
Interessanti anche alcune sostituzioni che si realizzano nella sfera corporea vanno nella
direzione di privilegiare il vocabolo corposo di forte espressività i termini afferenti alla
sfera corporea come bŭccam ‘gota’ che prende il significato di ‘bocca’ e viene
rimpiazzato da gotam (dal gallico *gauta); ‘gamba’ dal lat. tardo gambam = zampa,
all’origine un termine di veterinaria; pancia ‘pantices’ = intestini.
4. Tendono inoltre a sparire parole ritenute troppo esili per es. ōs = bocca (che oltretutto rischiava
di trovarsi in collisione omofonica con ŏssum variante popolare di os-ossis, variante difesa da
Agostino (De Doct. Christ. IV, 3): «Cur pietatis doctorem pigeat imperitis loquentem, ossum
potius quam os dicere?, ne ista syllaba non abe eo quod sunt 'ossa', sed ab eo quod sunt 'ora'
intellegatur, ubi aufrae aures de correptione vocalium vel productione non iudicant?» (=Ma allora
perché il maestro di pietà, parlando a gente inesperta, dovrebbe aver ritegno a dire ossum
piuttosto che os, per far capire che os va collegato con ossa e non con ora(bocca), dato che le
orecchie degli africani non percepiscono la lunghezza e la brevità delle vocali? ).
59
Cf. B. Migliorini, Storia della lingua italiana, (1958) Milano, Bompiani 1995, p. 42
36
Deboli si rivelano inoltre le parole che non rientrano in una determinata famiglia
lessicale, è il caso di pera sostituito da bisaccium= doppio sacco; di uber= mammella, su
cui prevale: mammĭllam, la forma diminutiva di ‘mamma’, affiancata da forme espressive
quali: pŭppam e tĭttam.
5. Anche il grandissimo sviluppo dei termini costituiti dalle derivazioni per mezzo di
suffissi (in particolare diminutivi e vezzeggiativi che vengono a sostituirsi alla forma
piena come avis/ avicellum; fratrem/ fratellum; nucem/ nuceolam) sottolineano la
tendenza verso una lingua di carattere familiare affettivo. Si noti che -anche in questo
caso- molte lemmi formati sul diminutivo indicano parti del corpo:
‘orecchia’ <auricula < auris
‘cervello’ <cerebellum < cerebrum
‘spalla’ < spatulam dim- di spatha ‘spatola’
‘unghia’ < ungula
neoformazioni quali *genuculum.
6. (da Asperti) Alla diffusione del Cristianesimo è riferibile la trasformazione semantica di termini:
per esempio, VIRTUTEM passa da "coraggio (specialmente guerriero)" a "virtù
morale", il grecismo MARTYREM da "testimone" a "martire", cioè chi è innanzitutto
"testimone della fede"; inoltre il verbo del latino classico LOQUI viene sostituito con
PARABOLARE e il termine PARABOLA (dal greco PARABOLÉ = comparazione,
similitudine) passa a indicare estensivamente "parola" in generale, in relazione alla
predicazione di Gesù.
Da internet
Per motivi analoghi al verbo semplice di preferisce talvolta il verbo iterativo, es.:
prima fase seconda fase italiano
salire = saltare
saltare = continuare a saltare saltare = saltare saltare
pinsere = pestare
pistare = continuare a pestare pistare = pestare pestare
Un settore importante è quello dei mutamenti di significato.
Si ricorda ancora, ad-riparare significava in origine ‘giungere alla riva (lat. ripa) e poi
significò genericamente ‘giungere in qualsiasi luogo’, cioè arrivare.Ma si ha anche il
fenomeno inverso, da un significato generico si va ad un significato specifico, per es.:
cognatus da ‘parente’ a ‘fratello della moglie’ e ciè cognato; necare da ‘uccidere’ a
‘uccidere nell’acqua’ (ad necare = annegare). Vi sono poi mutamenti di significato che
dipendono da un uso metaforico del vocabolo, per es.: caput ‘testa è sostituito da testa,
che in origine significava ‘vaso di coccio’; papillio (papillionem) ‘farfalla’ prende il
significato di ‘tenda di un accampamento’, cioè padiglione (le tende dell’accampamento
con i loro colori e forme facevano pensare a grandi farfalle).
Per i contatti che Roma ebbe con la Grecia fin dai primi tempi, molti grecismi erano
entrati già nel latino classico, per es.: schola ‘scuola’; cathedra ‘cattedra’; calamus ‘penna
per scrivere’; camera ‘soffitto fatto a volta’; basilica ‘complesso di edifici con varie
destinazioni pubbliche’. Con il Cristianesimo entrarono dei nuovi grecismi, per es.:
ecclesia = chiesa; episcopus = vescovo; angelus = angelo; martyr = martire. La nuova
religione adattò ai nuovi significati antichi grecismi (per es.: basilica prese il significato
attuale). Un mutamento di significato avvenuto in ambienti cristiani è all’origine di parola
37
e parlare, il grecismo parabola (dal greco parabolé ‘comparazione, similitudine’) era usato
dai traduttori latini delle Sacre Scritture per indicare le brevi storie, gli esempi allegorici
citati da Gesù nelle prediche, il termine indicò poi la ‘parola’ di Gesù, la parola di Dio, e
quindi con un’estensione del significato, la ‘parola’ in generale; a questo punto il termine
del latino classico verbum ‘parola’ cadde dall’uso; da parabola si sviluppò parabolare =
parlare.
PARTE III
LE LINGUE NEOLATINE
Si chiama Romània il territorio in cui si parla una delle lingue romanze e viene
abitualmente distinta in Romània nuova (dove la lingua neolatina è stata importata più
tardi) e Romània perduta. Per il primo caso pensiamo allo spagnolo parlato in America
latina e per il secondo all’Albania o all’Africa del nord. A queste distinzioni di massima
andranno aggiunte i massicci spostamenti delle recenti immigrazioni che modificano un
quadro stabile fino a un ventennio fa.
Come si è visto la progressiva trasformazione del latino, sarà certamente stata il risultato
di processi complessi, di carattere sociale, storico, politico. Varrà comunque la pena
accennare alle ragioni più frequentemente addotte per spiegare il frazionamento del latino
in diverse lingue romanze60
:
A. La differenza cronologica nella colonizzazione delle varie Provinciae: Secondo Gustav Gröber (1884)
61 infatti le differenze linguistiche fra gli idiomi romanzi
potrebbero spiegarsi con lo stato di evoluzione del latino nel particolare momento in cui
una regione è stata latinizzata. Come osserva Varvaro: "Così il sardo sarebbe più
conservatore del francese ed ambedue più conservatori del romeno, perché il sardo
continuerebbe un latino piuttosto arcaico, quale era attorno alla metà del sec. III av. Cr.,
quando la Sardegna fu conquistata e se ne cominciò la latinizzazione; il francese
continuerebbe il latino quale era nella metà del sec. III av. Cr., quando la Sardegna fu
conquistata e se ne cominciò la latinizzazione; il francese continuerebbe il latino quale era
nella seconda metà del sec. I av. Cr., quando cominciò la latinizzazione delle Gallie
conquistate da Giulio Cesare; il romeno infine rappresenta il latino quale era diventato
all'inizio del sec. II d. Cr., quando Troiano conquistò la Dacia."62
In verità lo stesso Grober osservava che òa Sicilia non presentava una lingua
conservatrice pur essendo una delle più antiche province romane. Inoltre questa
spiegazione non tiene conto della mobilità delle persone e delle influenze linguistiche fra
comunità di indiviui in contatto.
B. I veicoli di latinizzazione: ci si è chiesti infatti se le differenze non possano essere
riconducibili alle particolari modalità della latinizzazione. In particolare alcuni studiosi
hanno distinto una Romània occidentale latinizzata dall’alto (dalla scuola) ed una orientale
dove la latinizzazione è stata mediata da soldati e contadini.
C. La differenza fra le lingue del sostrato: Come si è detto, nell’apprendere la nuova
lingua è possibile che un parlante mantenga nella pronuncia alcuni tratti dell’idioma di
appartenenza, tratti che riemergerebbero nel momento di crisi dell’unità linguistica latina.
D. Il superstrato: L’influsso dei popoli che si sono venuti a sovrapporsi alle genti che
parlavano latino .
60
Sul punto si veda la limpida sintesi offerta Varvaro, nel cap. 40 Teorie ed ipotesi sul passaggio dal latino al
romanzo, in Linguistica romanza cit., pp. 215-223. 61
Cfr. G. Gröber * 62
Varvaro, Linguistica romanza cit., p. 217,
38
2. Classificazione delle lingue romanze
La classificazione delle lingue romanze solleva una serie di problemi e il numero stesso
si presenta oscillante a seconda che gli studiosi attribuiscano o meno ad un certo idioma la
dignità di lingua. Qui considereremo 9 lingue divise in 4 sottogruppi63
:
1Balcano romanzo Rumeno
2Italo-romanzo
Italiano
Sardo
Latino
3. Gallo-romanzo
Francese
Provenzale e Guascone
Catalano
4. Ibero-romanzo
Spagnolo
Portoghese
Sarà opportuno, per riepilogare, rivedere alcuni tratti distintivi che ci consentono almeno
di distinguere fra un testo italiano, uno francese ed uno provenzale.
1. Vocalismo: il francese palatalizza a tonica in sillaba libera.
- il francese elide tutte le vocali finali / il provenzale tutte tranne A
- il francese e l'italiano monottongano AU
Lenizione
BIBLIOGRAFIA
Si forniscono qui (organizzati in ordine di pubblicazione) solo i titoli di manuali di
riferimento generali utilizzabili anche da studenti. Chi volesse approfondire specifiche
questioni potrà trovare- soprattutto nei più recenti- utili e ricchi rinvii bibliografici:
C. TAGLIAVINI, Le origini delle lingue neolatine, [ 1949], Bologna, Patron 1972.
A. VARVARO, Storia, problemi e metodi della linguistica romanza, Napoli, Liguori,
1980.
Lexicon der romanistichen Linguistik, a cura di G. Holtus, M. Metzeltin, Ch. Schmitt,
Tübingen, Niemeyer, 1988 ss. (degli otto volumi previsti ne sono attualmente usciti
sette);
CH. LEE, Linguistica romanza, Roma, Carocci, 2000.
A. VARVARO, Linguistica romanza. Corso introduttivo, Napoli, Liguori, 2001
L. RENZI-A. ANDREOSE, Manuale di linguistica e filologia romanza, Bologna, Il Mulino,
2003
Sulle “Origini” delle letterature romanze:
R. ANTONELLI, Origini, Firenze, La Nuova Italia, 1978;
L. PETRUCCI, Il problema delle Origini e i più antichi testi italiani, in Storia della lingua
italiana, t. III. Le altre lingue, a cura di L. Serianni e P. Trifone, Torino, Einaudi 1994, pp.
5-73.
A. VARVARO, Origini romanze, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato,
Roma, Salerno, 1995, t. I, pp. 137-74.
63
A queste potrebbe aggiungersi il dalmatico il cui ultimo parlante, Antonio Udina, è morto nel 1898 e il franco-
provenzale, cfr Renzi e Varvaro**. Ma pensiamo al fatto che uno dei padri della linguistica romanza Friedrich
Diez considerava solo sei lingue: portoghese, spagnolo, francese, provenzale, italiano e rumeno.
39
M. L. MENEGHETTI, Le origini, Roma, Laterza, 1997.
INDICE
PARTE I 1. Cosa si intende per ‘Filologia e linguistica romanza’ ?
2. Cosa si intende per ‘Origini’?
3. Cos’era il latino?
4. Quali avvenimenti hanno provocato la disgregazione dello
spazio linguistico latino?
5. Come si realizza il cambiamento linguistico?
6. Il latino volgare: etichetta operativa?
7. Attraverso quali fonti scritte possiamo studiare il “latino
volgare”?
PARTE II
§ 0. Premessa
Parte III
LEGENDA
Le sbarrette oblique indicano trascrizione fonologica, cioè quando
si voglia indicare il FONEMA=cioè quell’elemento dotato di
carattere distintivo, tale da distinguere due forme di significato
diverso, es. tane e pane.
___
Testi
I giuramenti di Strasburgo (Les serments de Strasbourg) Ergo XVI kal marcii Lodhuvicus et Karolus in civitate que olim Argentaria
vocabatur, nunc autem Strazburg vulgo dicitur, convenerunt et sacramenta que subter notata sunt, Lodhovicus romana, Karolus
vero teudisca lingua, juraverunt. Ac sic, ante sacramentum, circumfusam plebem alter teudisca, alter romana lingua,
alloquuti sunt. Lodhuvicus autem, quia major natu, prior exorsus sic coepit: "Quotiens Lodharius me et hunc fratrem
meum,
post obitum patris nostri, insectando usque ad internecionem delere
conatus sit nostis. Cum autem nec fraternitas nec christianitas nec
quodlibet ingenium, salva justicia, ut pax inter nos esset, adjuvare
posset, tandem coacti rem ad juditium omnipotentis Dei detulimus, ut suo
nutu quid cuique deberetur contenti essemus. In quo nos, sicut nostis, per
misericordiam Dei victores extitimus, is autem victus una cum suis quo
valuit secessit. Hinc vero, fraterno amore correpti nec non et super
populum christianum conpassi, persequi atque delere illos noluimus, sed
hactenus, sicut et antea, ut saltem deinde cuique sua justicia cederetur
40
mandavimus. At ille post haec non contentus judicio divino, sed hostili
manu iterum et me et hunc fratrem meum persequi non cessat, insuper et
populum nostrum incendiis, rapinis cedibusque devastat. Quamobrem nunc,
necessitate coacti, convenimus et, quoniam vos de nostra stabili fide ac
firma fraternitate dubitare credimus, hoc sacramentum inter nos in
conspectu vestro jurare decrevimus. Non qualibet iniqua cupiditate illecti
hoc agimus, sed ut certiores, si Deus nobis vestro adjutorio quietem
dederit, de communi profectu simus. Si autem, quod absit, sacramentum quod
fratri meo juravero violare praesumpsero, a subditione mea necnon et a
juramento quod mihi jurastis unumquemque vestrum absolvo". Cumque Karolus
haec eadem verba romana lingua perorasset, Lodhuvicus, quoniam maior natu
erat, prior haec deinde se servaturum testatus est: "Pro Deo amur et pro
christian poblo et nostro commun salvament, d'ist di in avant, in quant
Deus savir et podir me dunat, si salvarai eo cist meon fadre Karlo et in
aiudha et in cadhuna cosa, si cum om per dreit son fadra salvar dift, in o
quid il mi altresi fazet et ab Ludher nul plaid nunquam prindrai, qui,
meon vol, cist meon fadre Karle in damno sit". Quod cum Ludhovicus
explesset, Karolus teudisca ligua si hec eadem verba testatus est: "In
Godes minna ind in thes christianes folches ind unser bedhero gehaltnissi,
fon thesemo dage frammordes, so fram so mir Got geuuizci indi mahd
furgibit, so haldih thesan minan bruodher, soss man mit rehtu sinan bruher
scal, in thiu thaz er mig so sama duo, indi mit Ludheren in nohheiniu
thing ne gegango, the, minan uuillon, imo ce scadhen uuerdhen".
Sacramentum autem quod utrorumque populus, quique propria lingua, testatus
est, romana lingua sic se habet: "Si Lodhuuigs sagrament que son fadre
Karlo jurat conservat et Karlus, meos sendra, de suo part non l'ostanit,
si io returnar non l'int pois, ne io ne neuls cui eo returnar int pois, in
nulla aiudha contra Lodhuuuig nun li iu er". Teudisca autem lingua: "Oba
Karl then eid then er sinemo bruodher Ludhuuuige gesuor geleistit, indi
Ludhuuuig, min herro, then er imo gesuor forbrihchit, ob ih inan es
iruuenden ne mag, noh ih noh thero nohhein, then ih es iruuenden mag,
uuidhar Karle imo ce follusti ne uuirdhit". Quibus peractis Lodhuwicus
Renotenus per Spiram et Karolus juxta Wasagum per Wizzunburg Warmatiam
iter direxit.
Si dibatte se si tratti di una zona di transizione tra dominio d'oc e d'oil, ma come osserva
Renzi, p. 241 "il suo aspetto conservativo ed arcaizzante non riflette uno stadio aurorale
del francese (...) ma dipende probabilmente dal ricorso a grafie e a forme della scripta
latina merovingica ... unico riferimento per gli scriventi"
Cfr Deus, populum sapere, fratrem ecc
Collegamenti
Il sito dell'Accademia francese: www.academie-
francaise.fr
Il sito dell'O.I.F. (Organisation Internationale pour la
Francophonie):
www.francophonie.org
Giornale elettronico sulla francofonia: www.voxlatina.com
ABC de la langue française: languefrancaise.free.fr
Testi della Bibliotheca Augustana:
www.fh-augsburg.de/~harsch/gallica/Auteurs/f_alpha.html
La bibbia in francese:
www.gospelcom.net/ibs/bibles/french/index.php
41
CURIOSITA'
Perché S in inglese
La ragione perché si usa la –s come desinenza plurale in inglese risale all’antenato di tutte le
lingue indoeuropee, il protoindoeuropeo, che si parlava in Europa circa 12-15mila anni fa,
prima che partorisse il latino, il greco e il protogermanico (quest’ultimo il bisnonno
dell’inglese).
In inglese, abbiamo conservato il plurale indoeuropeo in –s, il quale già andava emarginandosi
nel dominio romanzo durante l’epoca classica, ma nonostante ciò, è sopravvissuto nello
spagnolo, il catalano, il ladino e il sardo, le quali come l’inglese sono “lingue sigmoidali”
(hanno il plurale in –s).
Insomma, l’inglese come lo spagnolo ha semplicemente ereditato quella parte del patrimonio
indoeuropeo, mentre l’italiano ci ha rinunciato, con la “lenificazione” progressiva della
desinenza plurale, partendo da –s e finendo in –i.
Il tedesco è una delle lingue germaniche moderne con la grammatica più complessa,
a causa della presenza dei casi e della conseguente declinazione dei sostantivi (però
molto ridotta nella lingua moderna) e degli aggettivi. I casi in tedesco sono quattro:
nominativo, accusativo, dativo e genitivo. I sostantivi (che come le parti del discorso
sostantivate si scrivono sempre con l'iniziale maiuscola, ad esempio: das Ich, l'Io
oppure das Essen, il mangiare) presentano tre generi: maschile, femminile e neutro.
1 mesi fa