L'interazione del soggetto con il Cyberspazio - L'asse Lévy, Zizek, Lacan (2008)
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INDICE
Introduzione p. 3
Capitolo I°: Proprietà del pianeta virtuale p. 10
Capitolo II°: Lévy e dintorni p. 21
Capitolo III°: I veli dell’Immaginario p. 34
Capitolo IV°: Un filo d’Arianna per il cyberspazio p. 51
Capitolo V°: I fantasmi del cinema p. 67
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Introduzione
Da una certezza possiamo partire: non c’è più scelta. Forse non l’abbiamomai avuta. Di sicuro abbiamo a che fare con una scelta apparente, che
somiglia tanto ad un gesto vuoto: dobbiamo quindi negarci la possibilità di
interagire in maniera costruttiva con la realtà come oggi ci viene mostrata,
cioè sotto forma di uno smagliante schermo che ci promette un aldilà ad
alta digeribilità? Credo che la domanda sia lecita e dovrebbe infondere una
spinta inesorabile verso la ricerca di soluzioni, di linee guida per orientarcinei meandri della virtualità, cioè nel complesso di situazioni generate da
rapporti intersoggettivi mediati dalla grande rete interattiva, multimediale,
scacciando gli spauracchi dei catastrofisti e dei pessimisti cosmici.
Addirittura c’è chi pensa che siamo tuttora soggetti ad una sorta di
assuefazione coatta alla tecnologia ipermediale odierna poiché «la scienza
dell’estremo si allontana dalla sua paziente ricerca della realtà per partecipare ad un fenomeno di virtualizzazione generalizzata».1 La verità è
nel flusso che ci trascina verso lidi ignoti, luoghi in cui ci disperdiamo,
nell’altalena di promesse e speranze di cui ci inebria un’informazione
sempre più pervasiva e nelle sensazione di essere circondati da una vera e
propria crisi delle strutturazioni simboliche della cultura occidentale. Nuovi
canali ci trasmettono messaggi che invadono le nostre vite comuni, ci
condizionano a tal punto da influenzare decisioni e prese di posizione, la
cosiddetta opinione pubblica è in completa balia di questa
spettacolarizzazione del reale e la televisione domestica cede il posto alla
telesorveglianza. Si tratta di una concreta invasione della sfera privata,
questa voice over impersonale che ci offre il meglio, costruendo un castello
di sabbia sul prodotto che vuole venderci, riempiendo di significanti inutili
i contenitori degli status symbol, trattandoci come soggetti liberi ma1Paul Virilio, La bomba informatica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 2.
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inconsapevolmente legati al vero senso che ci influenza, quello dei
messaggi subliminali. Parliamo degli strumenti funzionali all’ideologia,
quelli che ormai lavorano sulla matrice e correggono le informazioni ad un
livello che non affiora più alla coscienza, eccoci chiaramente ridotti a una
sostanza informe, preistorica nella tormenta di un caos primordiale.
Regressione: una parola che spaventa, ma che per certi versi delinea
perfettamente il paradosso in atto. Siamo permeati da mezzi di
comunicazione, estensioni tecnologiche, supporti, macchine che alimentano
le possibilità intrusive dei meccanismi di potere, annichilendoci in
sostanza, ma allo stesso tempo alimentando formalmente l’illusione diconquista, di arrivo insperato, di progresso. Uno scenario su cui vorremmo
veder calare il sipario, ma fortunatamente il nostro cervello ci dà in pasto di
continuo delle considerazioni da assimilare, dacché contro quest’idea di
privato violato si dovrebbe dire a chiare note che oggi l’unica forma di
rottura delle costrizioni della mercificazione alienata si può avere
inventando una nuova collettività. Che cosa vuol dire? Chiaramente nulla.Collettività è una parola vuota, come democrazia, stato, fascismo, ma come
tutte le nostre convenzioni, una parola ci aiuta a comprendere delle
funzioni che potrebbero entrare in ballo. Se il dominio dell’uomo
sull’uomo può essere nutrito dalle nuove tecnologie, a causa della loro
indispensabilità, del costante contatto che hanno con le persone, è vero
altresì credere all’infinita moltiplicazione di momenti fruitivi utiliall’arricchimento della sfera del sapere. Per quanti di noi è diventato
davvero portante il concetto di condivisione? Vorremmo forse negare la
nostra partecipazione all’utilizzo di programmi di file sharing? Il nostro
veloce, immediato accesso a database sconfinati che, grazie alla rete, ci
permette giorno per giorno di alimentare l’esperienza personale e il
reperimento di qualsiasi tipo di materiale sembra davvero alla portata di
tutti, anche se su questo punto ci sarebbe ben altro da dire se si tiene conto
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di ciò che avviene su scala mondiale. Ci sono ancora troppe etnie, culture,
nazioni, gruppi discriminati che sono tagliati fuori da questo idillico mondo
di pantofolai, cioè i beneficiari degli insulsi aiuti umanitari, i destinatari
privilegiati della biopolitica orrendamente paternalista, gli abitanti delle
favelas in Brasile, gli afro-americani dei ghetti degli Stati Uniti, gli
“extracomunitari” in Italia, etc. (è interessante notare come sotto
quest’ultimo appellativo vengano riuniti dalla coscienza popolare anche i
cittadini romeni, nonostante siano a tutti gli effetti dei “comunitari”, una
prova della connotazione essenzialmente negativa di cui si è colorito il
termine). Molti studiosi ci insegnano come sia facile che la tecnica simanifesti come manipolazione se il sapere e la possibilità e i modi di
comunicarlo sono distribuiti in maniera disuguale. Fatta questa premessa
trovo illuminante la forma in cui il filosofo sloveno Slavoj Žižek ci illustra
il palleggio tra libertà e ideologia:
La concezione totalitaria del “mondo amministrato”, in cui la stessa
esperienza della libertà soggettiva è la forma in cui si manifesta la soggezione
ai meccanismi di disciplina, è fondamentalmente il risvolto fantasmatico
osceno dell’ideologia (e della pratica) “ufficiale” pubblica dell’autonomia
individuale e della libertà: la prima deve accompagnare la seconda,
completandola come il suo doppio osceno che rimane nell’ombra in un modo
che non può non ricordare direttamente la scena centrale di Matrix: milioni di
esseri umani che conducono una vita claustrofobica dentro loculi pieni
d’acqua, tenuti in vita solo per generare energia necessaria a Matrix.2
È ovvio quindi che un’apparenza di libertà esista solo grazie al rapporto di
verticalità che essa istaura con l’osceno supplemento ideologico
sottostante, cioè l’incubo fondamentale di essere puppets passivi nelle mani
del grande burattinaio. Ma non dimentichiamoci che, se psicologicamente
questo è il sacrificio che la storia inscena per noi cittadini agiati, il prezzo
che abbiamo già pagato per queste certezze è la messa al bando di tutti gli
2 Slavoj Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, Roma 2003, p. 100.5
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esclusi: un mezzo che il sistema utilizza per garantirci una sicurezza morale
oltre che concreta. Un meccanismo che si riassume in una frase del genere:
“stiamo facendo tutto quello che possiamo per integrarli, ma intanto ve li
teniamo lontani dal cortile”; così il nostro spirito da crocerossine viene
appagato e condito con la salvaguardia della proprietà privata. Tengo a
precisare come la riflessione cui stiamo prendendo parte, non includa la
maggior parte delle persone che vivono su questo pianeta e oltre il puro
divertimento bisognerà ricordarsi di loro al momento in cui avremo
acquisito una certa autonomia organizzativa e avremo finalmente voglia di
comprare fiammiferi ai bordi delle strade, galvanizzati da un ritrovatoequilibrio mentale. È importante affermare tutto questo dato che il “terrore”
è stato elevato oggi all’equivalente universale di tutti i mali sociali e siamo
immersi nel complicato circolo vizioso in cui tutti cerchiamo di generare
una chiara idea di nemico da espugnare lasciando esposta la nostra
vulnerabilità verso ciò che ci colpisce “davvero”, cioè il concreto incedere
delle problematiche quotidiane. Una di queste è senz’altro la proliferazioneincontrollata dei dispositivi tecnologici che, come vedremo, potrebbe
essere davvero riconsiderata sotto una chiave concettuale che garantisca un
minimo di guadagno per ognuno di noi; è vero d’altronde che visualizzare
le nuove strade del progresso scientifico in maniera apocalittica non ha mai
fornito un aiuto per la loro comprensione. Mi permetto di aggiungere
inoltre che la stampa, la radio, il cinema, la televisione non abbiano mietutocosì tante vittime rispetto al bene che hanno prodotto nell’accrescimento
dell’universo della comunicazione. E cosa sono i computer ed internet se
non degli altri media ricchi di immense potenzialità? E’ innegabile che
l’accesso a delle realtà alternative e in generale al mondo del cyberspazio,
grazie a progetti come Second Life, radicalizzi il senso di appropriazione
indebita della nostra sfera intima da parte di un’entità astratta totalmente
esteriore ai nostri bisogni e interessi. Inoltre la possibilità, ormai così
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prossima, di venire imbalsamati da un nuovo acuto stato confusionale,
condensato in un senso di realtà indistinguibile dal suo equivalente
digitale, sta generando con una velocità sconvolgente degli slittamenti
considerevoli nelle maniere di concepire e assimilare gli eventi. Può
accadere che un fatto di cronaca, seppur grave venga introiettato in modo
malsano da chi lo osserva, incarnando una fantasia ricorrente, un contesto
visivo con cui si può venire sovente a contatto. Il nodo è strettissimo:
La realtà virtuale non fa che generalizzare questa pratica di offrire un prodotto
privato delle sue proprietà: la stessa realtà è deprivata della sua sostanza,
dello zoccolo duro e resistente del Reale, […] La realtà virtuale viene vissuta
come realtà senza esserlo. Quel che ci attende alla fine di questo processo di
virtualizzazione è che cominciamo a percepire la stessa “realtà reale” come
un’entità virtuale. Per la maggior parte del pubblico i crolli delle torri gemelle
sono stati eventi televisivi, e quando abbiamo visto per l’ennesima volta le
immagini della gente terrorizzata che correva in direzione della telecamera di
fronte alla nube gigantesca di polvere che si sollevava dal crollo delle torri,
quella scena ci ha ricordato le scene spettacolari dei film catastrofici, uneffetto speciale che ha superato tutti gli altri dato che – come sapeva già
Jeremy Bentham – la realtà è la miglior apparenza di se stessa. 3
La graduale colonizzazione ideologica dell’Europa da parte degli Stati
Uniti non è forse supportata dalla volgare imposizione di una visione
unilaterale delle politiche globali? L’11 settembre è solo il culmine di
questo processo, la messa a punto di un protocollo infallibile. Non è infattiimportante cercare di dimostrare il complotto dell’auto-attacco americano,
ma focalizzare tutti gli scenari successivi, come ad esempio la produzione
da parte di Hollywood di un filone di kolossal mirati a rafforzare l’idea
mitologica di conquista da sempre radicata nell’archetipo collettivo
occidentale, (si pensi a film come Troy, Alexander , Le crociate). Ecco una
chiara manifestazione del supporto fantasmatico, in questo caso
3 Ivi, p. 15-16.7
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perfettamente espresso dal cinema, come strumento esibito al fine di
colmare a livello inconscio la pazzia etica di uno stratega militare che
pianifica un attacco su larga scala, (come in Afghanistan e Iraq) rispetto al
gesto forse meno perverso di un individuo che si suicida per un attacco al
sistema imperante. Questa intromissione subliminale è possibile ad un
livello così diffuso solo in un mondo percepito come non abbastanza reale
o eccessivamente tale, in cui insomma si sia persa la mezza misura,
l’orientamento fondamentale. Un’istanza superiore vi insegna a diffidare
del negativo, del patologico mantenendo allo stesso tempo questo punto
nell’esteriorità dell’edificio ideologico, come sua trasgressione intrinseca econdizione di esistenza. Il principio che garantisce l’accesso ad una
riflessione pulita del fatto implicherebbe invece una sorta d’identificazione
col sintomo patologico, con la fantasia che sostiene la dinamica del
desiderio attraverso un processo che Lacan definisce appunto
“attraversamento della fantasia”. Ciò vuol dire imparare ad elaborare le
fantasie aderendo interamente ad esse, camminare mano nella mano conl’immaginario invece che subirlo (abbracciando il motto consumistico “be
yourself”), evitando cioè l’imposizione esterna dell’ideologia che si nutre
dei nostri orgogli come della naturale volontà umana di dominare gli altri.
Concentrando il discorso sull’imperativo “Guidate il vostro immaginario
come più vi piace”, ci si rende conto di come tutto questo sia possibile o
perlomeno augurabile oggi più che mai. Cosa fa l’interazione col mondovirtuale se non radicalizzare la nostra esperienza di sognatori ad occhi
aperti? Non ci pone forse in una dimensione in cui venire a stretto contatto
con le fantasie più profonde? I media hanno da sempre sviluppato la
tendenza a questo limite cioè la capacità di farci aderire coscientemente alle
narrazioni che incontriamo nelle verità del testo e quindi noi stessi,
attraverso l’esperienza virtuale di mondi simulati o l’interconnessione con
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altri sé digitali, potremmo nutrire la speranza di costruire la nostra identità
in maniera ponderata ma soprattutto autonoma:
Questo non è certamente un fenomeno del tutto nuovo: i vecchi media, di tipo
verbale, continuano a svolgere efficacemente una loro funzione di
identificazione. Continuiamo a definire noi stessi attraverso le
caratterizzazioni proposte dai romanzi di largo consumo e dai magazines di
informazione svago e moda; continuiamo cioè a identificarci con le voci che
emergono in queste forme di narrazione scritta. I nuovi media offrono nuove
possibilità di definizione del sé, dal momento che possiamo identificarci con
la grafica brillante e i video digitali dei computer games come con la
vertiginosa visione in prospettiva offerta dai sistemi di realtà virtuale, dai film
e dai loghi televisivi realizzati in formato digitale. Possiamo definire noi
stessi attraverso la convergenza di tecnologie della comunicazione come il
telefono e Internet.4
Il punto cruciale risiede nell’ipotesi di incarnare altri vissuti dall’interno
con l’esigenza realizzata di manipolare attivamente le dinamiche di
slittamento costruttivo delle identificazioni, dando adito all’esperibilità didesideri repressi. Si tratta di una ricerca che mira ad abbattere alcuni dei
pregiudizi esistenti riguardo il mondo del cyberspazio con l’intento di
recidere le cime spesse che inibiscono la naturale spontaneità
nell’approccio a questi nuovi mondi. Ma il tentativo concreto consisterà nel
porre in comparazione i testi di alcuni filosofi contemporanei che riflettono
su alcune chiavi concettuali comuni, nella speranza di poter delineare imodi in cui le identità post-moderne entrano in contatto con i nuovi
universi esperienziali del “virtuale” e perseguire un’accurata comprensione
dei gradi di assimilazione di questi nuovi fardelli.
CAPITOLO Iº
4Jay David Bolter e Richard Grusin, Remediation, competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini Studio,Milano 2002, p.265.
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Proprietà del pianeta virtuale «Per corpo virtuale intendo in primo luogo un’immagine digitale
interattiva, il fenomenizzarsi di un algoritmo in formato binario
nell’interazione con un utente fruitore.»5
In questa definizione, che apre il saggio Estetica del virtuale, lo studioso
Roberto Diodato istilla nel lettore un primo quadro di riflessione.
Un’immagine digitale è certamente il prodotto di un astratto calcolo
matematico ma, dal momento in cui acquisisce lo statuto di interattività con
il soggetto, incarna una certa densità che la connota come evento, o
fenomeno sensibile avente delle potenziali stimolazioni fisiche e mentali
per chi ne fruisce. Ci avviamo dunque alla comprensione dei rapporti
generati da tali relazioni. A complemento del primo indizio ho trovato di
particolare interesse il delineamento dell’immagine digitale quale «forma
genetico relazionale che appartiene a un sistema multiplo di traduzione»6,
perché sottolinea come all’interno di questo mondo si debba trattare con i
linguaggi e i codici annessi. Quando entriamo in connessione con un
ambiente virtuale abbiamo già sottoscritto un patto legato alla condivisione
di un linguaggio, anzi di molti, stratificati l’uno sull’altro, dato che il
codice binario attraverso degli step successivi si muove da una
decodificazione all’altra fino a generare l’ultima superficiale
manifestazione di questi calcoli e traduzioni. Cioè l’immagine che il nostro
universo sensibile possa concepire come la più familiare possibile: ad
esempio l’interfaccia intuitiva dei sistemi operativi, o in generale quella
con cui poter stabilire un’interazione facile legata all’utilizzo di estensioni
tecnologiche (mouse, tastiera, visori, guanti). Entriamo quindi in una
questione relativa alla comunicazione tra l’individuo e la macchina. Due
5Roberto Diodato, Estetica del virtuale, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 5.
6 Ivi, p. 6.
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istanze che entrano in connessione attraverso una sorta di bugia
“condivisa”, cioè la completa accettazione del valore finzionale di ciò che
viene scambiato insieme alla visione di una certa trasparenza di contenuto
dell’immagine che vada ad offuscare il motore del meccanismo generatore,
cioè il computer che effettua la serie di operazioni. Post-moderno è un
aggettivo usato spesso per descrivere l’atteggiamento di coloro che abbiano
perso un chiaro senso di consapevolezza: quello radicato nella sensazione
di avere sempre e comunque a che fare con un apparato tecnologico che ha
il compito di creare una serie di meccanismi, impressioni. Se nell’era della
rivoluzione industriale il collante che legava prodotto, lavoratore emacchinario era ben saldo, consolidato da un corretto rapporto di causa-
effetto, oggi il soggetto pensante sembra completamente rapito dal dolce
naufragio che sconvolge il proprio statuto di presenza; a contatto con le
immagini digitali sentiamo la perdita dell’indizialità fisica del segno.
Inoltre nel concetto di realtà virtuale troviamo vari livelli di multimedialità
e di interattività collegati ad una certa ricchezza rappresentazionaledell’ambiente mediato. Più questi valori sono alti, più l’esperienza risulterà
immersiva nel senso che tenderà ad assomigliare a quella reale. D’altronde
un’idea irreprensibile di Diodato è ben espressa in questo passo:
L’immersività fisica e mentale, che implica la sospensione dell’incredulità
(suspencion of disbelief) e l’identificazione del corpo col medium, non
coincide e anzi per certi aspetti si oppone alla simulazione. 7
Egli sostiene così l’ipotesi di una inconfondibilità tra RV e il reale
normalmente inteso. Quindi una forte dose di “fede percettiva”
escluderebbe a suo parere il terribile teatro di un orizzonte di sostituzione,
scenario che invece viene profetizzato da Virilio e da altri teorici dello
stesso stampo. Ma il gustoso senso aggiuntivo espresso da Diodato risulterà
7 Ivi, p. 13.
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ancor più interessante esaminandolo alla luce di una considerazione: se la
RV appare come una simulazione tendenziale della realtà, che punta a
riprodurne una copia esatta senza mai riuscirvi, sarà proprio questo scarto a
mantenere intatta un’apertura artistica rilevante nei significati espressi
dall’immaginario virtuale perché tecnicamente ne uscirà indenne la
possibilità effettiva di giocare con due dimensioni parallele, operando
coscientemente su due livelli distinti ma osmotici della realtà stessa. Lo
psicologo americano Craig Broad ha coniato l'espressione Tecnostress,8 per
indicare un disturbo causato dall'incapacità di gestire le moderne tecnologie
informatiche. Il disagio è accompagnato da ansia, attacchi di rabbia e panico, depressioni e incubi notturni. Questo problema è uno dei più diffusi
in questo momento ma bisogna chiarire come la “claustrofobia da web”
venga indotta esattamente, cioè quali siano le dinamiche interne al
soggetto. Ritengo che funzioni alla stregua di una comune droga, cioè una
sostanza che, attraverso il proprio principio attivo, stimola il cervello a
riconoscere come tali delle alterazioni degli stati di coscienza. Quandoassumiamo delle droghe allucinogene abbiamo il pieno discernimento dello
statuto “ontologico” dell’esperienza vissuta in quegli istanti, cioè
continuiamo a definirla come una situazione “speciale” chiaramente
distinguibile dalla normalità. Su questo punto non credo ci siano dubbi, il
fatto è che l’uso cronico di qualsiasi sostanza dal caffè all’alcool, dalle
sigarette alla marijuana, dai cellulari ai computer ha delle conseguenzestudiate che determinano lo stravolgimento del metabolismo e delle
connessioni neuronali a tal punto da modificare la percezione di sé. Ne
deduciamo che la particolarità di questo tipo di esperienze possa fornire a
chi le vive dei raggiungimenti libidinosi molto elevati, nel senso che
un’alterità percettiva possa facilmente istaurarsi nell’ottica di amplificare i
mezzi per sostenere uno sguardo interiore più profondo del solito. Un
8 http://www.repubblica.it/2007/11/sezioni/scienza_e_tecnologia/tecnostress/tecnostress/tecnostress.html.
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errore grave quindi quello di stigmatizzare in toto qualcosa senza garantire
prima una corretta informazione (come fanno diverse testate giornalistiche
di questi tempi). Invece di bombardare l’opinione pubblica con intenti
“proibizionistici” inneggiando ad una moderazione morale, la si dovrebbe
mettere al corrente delle complesse implicazioni di abitudini già diffuse a
livello endemico. In tutte le società possiamo riconoscere individui che
ogni giorno scelgono di aprire le porte a visioni di questo tipo senza che la
loro vita culturale e sociale subisca delle ripercussioni gravi, anche se
ovviamente ci sono delle eccezioni, e non poche, la cui problematicità è
attribuibile solamente alla mala gestione da parte dello Stato del livelloeducativo e divulgativo di nozioni esatte riguardo l’universo in questione.
Senza dilungarci ulteriormente sulle ripercussioni negative della
disinformazione in tema di consumo di stupefacenti, notiamo come un
parallelismo pregnante basti a demolire il catastrofismo legato al discorso
dell’utilizzo dei computer. Perché cosa fa l’esperienza tecnologica se non
offrirci un’alterazione del senso di realtà?Sembra evidente che il soggetto apprenda nel cyberspazio attraverso
l’immersività maturando la sensazione di avere a che fare con una realtà
altra, simile a un prodotto dell’immaginazione e che questo processo
produca una sorta di identificazione. È per questo motivo che i
programmatori multimediali hanno ideato una figura altamente funzionale
per la comunicazione in rete: l’avatar. Viene concepito abitualmente comela rappresentazione di un corpo umano non generico in ambiente virtuale e
facilita un senso di immediatezza nelle relazioni intersoggettive.
Sottolineandolo affermiamo che nel mondo del cyberspazio si effettua la
ricerca di una percezione non mediata, cioè più diretta possibile, al fine di
emulare una situazione simulata corrispondente ad un analogo possibile
della sfera quotidiana. In tutto questo discorso rimane però il gap
incolmabile ovvero la mancanza di congruenza assoluta tra la RV e la vita.
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Non esiste un rapporto di equivalenza tra loro. Lo ripetiamo. Del resto
siamo portati ad affermare come entrino in gioco degli effetti psicologici
significativi negli utenti-fruitori di questi spazi, effetti che influenzano la
realtà stessa, producendo un contributo stranamente rilevante al bisogno di
concretezza onnipresente.
La “presenza” avvertita in un mondo virtuale funziona solo se può entrare
in competizione con il “sentire” in ambiente non virtuale aumentando
quindi l’illusione di non mediazione capace di innescare l’accesso ad un
mondo dotato di proprietà oggettive credibili. Se la realtà, come espresso
dalle fenomenologia husserliana, è un insieme di dati contaminati da unaserie di operazioni intenzionali, cioè unità costituite che hanno una
relazione col nostro passato, con la nostra esperienza di vita, possiamo
affermare che il mondo conosciuto è un apparenza di ciò che l’ identità
culturale ci mostra generando una costante proiezione eidetica collettiva.
La percezione agisce sulla scorta di questi schemi trascendentali,
proiettando l’empirico soggettivo sulla rappresentazione che ci costruiamodella realtà. Se l’interazione è fondante nel dialogo con il mondo ma in
fondo non necessaria per l’esistenza del mondo stesso e subisce queste
dinamiche, in un luogo, la RV, in cui l’interattività è garante della sua
stessa esistenza non potrebbe essere interessante compiere un’analisi più
approfondita dei nostri dati culturali in un ambito di quasi completa
inapplicabilità di morali, leggi, violenza? Ridefiniamo la nostra società,ripuliamola dalle nefandezze, ormai “schermati” da questa Nabucodonosor,
nave sotterranea di difficile controllabilità, coacervo di menti innumerevoli
collegate in un’unica grande rete liminale, parallela. Ma non è finita.
Adesso comprendiamo l’importanza culturale della possibilità di
interazione col fluido virtuale che incarna perfettamente la dinamica del
nostro processo percettivo, nel senso della sua proprietà proiettiva
fantasmatica, passibile cioè di una costruzione interna che ci è propria: il
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corpo virtuale che vediamo generato sembra reale! E siamo stati noi a
crearlo. In ciò individuiamo la differenza sostanziale tra i due mondi. La
realtà è inemendabile, la sua immagine è intoccabile, non correggibile, al
massimo sussiste la maniera automatica di sovrascrivervi una
significazione aggiuntiva, di valenza culturale, determinante le funzioni
rituali di tutto il mondo oggettivo, che rimarrà identico al cane, al gatto, ma
non all’uomo, costantemente reso differibile dal Reale grazie a una certa
dose di finzionalità: l’eidos che filtra la nostra mente. È ovvio che non
possiamo prendere in mano una mela e farla diventare una pera, per quanto
possiamo credere che lo sia, o invertire i nomi dei due frutti, o concepirlacome un ottimo combustibile, non saremo mai in grado di farla “diventare”
oggettivamente una pera. A parte il fatto che «il corpo virtuale per la sua
interattività, scioglie la differenza tra stimolo distale e stimolo prossimale,
in quanto il corpo virtuale è, per di così, ontologicamente prossimo e
percettivamente distante»9 (cosa del resto fondante),
[…]anche supponendo che sia possibile separare una “semplice volizione” da
un movimento o una percezione, considerando che i corpi virtuali potranno
essere, per mezzo di protesi sofisticate, connessi direttamente alle sedi degli
impulsi nervosi, nulla vieta che un semplice atto di volizione possa emendare
un corpo virtuale.[…]Data la natura interattiva del virtuale non vedo
impossibilità teorica perché ciò possa avvenire, e perciò produrre una forma
di comunicazione intersoggetiva mediata dalla memoria informatica, la quale
diverrebbe, a partire da una base programmata, memoria di esperienze.[…] Il
corpo virtuale non è né esterno né interno, considerando che la sintesi non è
una somma, ma un’altra cosa, cioè una testimonianza della novità ontologica
del corpo virtuale.10
9Ivi, p. 40.10 Ivi, p.29.
15
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Proviamo allora ad estrarre un’atmosfera visionaria da questa
considerazione apparentemente asettica del visionario Pierre Lévy:
Il reale, la sostanza, la cosa sussiste o resiste. Il possibile racchiude forme non
manifeste, ancora sopite: nascoste all’interno, queste determinazioni
insistono. Il virtuale […] non è nel ci, la sua essenza risiedendo nell’uscita:
esso esiste. Infine, manifestazione di un evento, l’attuale accade, la sua
operazione è l’occorrenza.11
È come se il virtuale si manifesti in quanto attualizzazione nel momento in
cui avviene l’interazione con l’utente, ponendo così le basi ontologiche
della propria esistenza grazie a un complesso nodo di relazioni dinamiche.
La velocità è cyberspazio, o meglio il grande insieme di velocità relative
che si intersecano tra loro a partire da una preesistente configurazione di
forze la quale tende a mostrarsi in atto, fenomeno, evento. Ma cyberspazio
è soprattutto “non luogo”, soglia liminale che connette esterno e interno,
stato confusionale di elaborazione astratta di situazioni da affogare nelmondo empirico e ambiente virtuale che accetta l’intromissione di altri
corpi compenetranti in stretta osmosi tra loro. Non c’è più scelta una volta
dentro, si è sonnambuli nello slittamento da un’identificazione all’altra, in
perpetua assenza, “soggetti sbarrati” spinti a dare sfogo ai molteplici sé che
la nostra identità tiene in incubazione dall’alba dei “no” inibitori. In pratica
si verifica una riproduzione di ciò che l’individuo avverte, quando riflettesul proprio vuoto esistenziale a contatto col nulla scovato all’interno, con la
differenza che si hanno lì a portata di mano soluzioni agevoli di
riempimento da abbracciare in maniera totalmente intuitiva, alla stregua di
un magico sogno:
“Madre mia, perché fuggi mentre voglio abbracciarti, che anche nell’Ade,
buttandoci al collo le braccia, tutti e due ci saziamo di gelido pianto? O
11Pierre Lévy, Il virtuale, Raffaello Cortina, Milano 1997, p.130.16
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questo è un fantasma che la lucente Persefone manda perché io soffra e
singhiozzi di più?”
Così dicevo e subito mi rispondeva la madre sovrana: “Ahi figlio mio, fra gli
uomini tutti il più misero…non ti inganna Persefone figlia di Zeus; questa è la
sorte degli uomini, quando uno muore: i nervi non reggono più l’ossa e la
carne, ma la forza gagliarda del fuoco fiammante li annienta, dopo che l’ossa
bianche ha lasciato la vita; e l’anima, come un sogno fuggendone, vaga
volando. Ma tu cerca al più presto la luce; però tutto qui guarda, per
raccontarlo poi alla tua donna!”12
La relazione tra l’invocazione dei morti di Odisseo e il discorso che stiamo
trattando è chiaramente metaforica. L’Ade, in cui il protagonista del poema
discende per ascoltare la profezia di Tiresia, è un ambiente che riflette
proprietà oniriche, virtuali, (e ovviamente altre legate alle cosiddette Near
Death Experiences), cioè una serie di fenomeni vissuti durante stati alterati
della coscienza la cui caratteristica peculiare rimane quella della
“sensazione di presenza”. Un’ambiguità comune: nel sogno come nella RV
la memoria è ciò che è proprio o intimo del soggetto e ciò che è estraneo,
differente. Odisseo avverte delle emozioni forti nel momento in cui entra a
contatto col fantasma della madre Antìclea, ma l’aspetto intimistico
dell’esperienza non viene colmato dal desiderio esaudito di un
avvicinamento fisico. Il sogno infatti ha la capacità di stupire, affascinare,
talvolta angosciare, poiché la sua sostanza viene percepita come estranea
nonostante si tratti di un effettivo prodotto della nostra mente, cosa che del
resto non ci impedisce di viverlo come degli avatar. Esso è incoerente
infatti soltanto rispetto alla presupposizione di una regia unitaria e
soggettiva, ovvero si manifesta anch’essa come realtà non controllabile,
inemendabile. Inoltre se il corpo virtuale è il frutto di una copula tra la
macchina e l’utente-fruitore, il sogno appartiene al versante scopico
dell’inconscio, alla proliferazione di verità interiori rivelate - da e soltanto
12Omero, Odissea, libro XI, v.210- 224, Einaudi, Torino, 1989, p. 303, 305.17
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per – noi. Ecco un'altra prova dell’originalità del virtuale, soglia di accesso
intersoggettivo alla sfera del sapere universale in cui gli avatar sono
connessi all’interno di una rete potenzialmente cosmopolita, mondata dalle
discriminazioni ma perfettamente aderibile a tutte le proprietà oniriche
positive. Ma ora consideriamo per un attimo il concetto di “mimesis” come
struttura fondamentale del desiderio umano inserendo l’aspetto estetico
nell’ottica di un segno della volontà di appropriazione del mondo,
comprenderemo allora come la rappresentazione di un oggetto possa essere
vista come una sorta di virtualizzazione dell’oggetto stesso se inquadriamo
il procedimento di digitalizzazione di un’immagine all’interno del processodi creazione mimetica. Se la mimesis è così importante nella storia
dell’uomo, nell’arricchimento della vita culturale attraverso l’esperienza
dell’arte, notiamo che è l’iconografia stessa a colorire il concetto di
rappresentazione con una “sovrabbondanza d’essere”, un valore additivo
che la distacca dall’originale come prodotto analogo ad esso ma superiore
per il senso attribuito culturalmente. Ora tutto questo è presente nel mondodigitale. Ma c’è da puntualizzare una doverosa distinguibilità
dell’immagine digitale dalla semplice rappresentazione mimetica in quanto
la prima é unione di cosa e immagine, in cui copia e originale si trovano
sovrapposti dominando la dicotomia semantica degli stessi termini. E non è
detto inoltre che un’immagine digitale sia frutto della decodifica di un'altra
immagine, poiché grazie ai software di grafica si riesce a creare dal nulla,senza alcun processo mimetico, qualunque tipo di fantasma virtuale. Questa
digitalizzazione del mondo conosciuto ci appare quindi tramite una
radicalizzazione del processo mimetico, ma talmente eccedente dal
concetto di mimesis da risultare esso stesso inadeguato per definirla. In un
certo senso assistiamo ad un graduale svincolamento dal senso di
imposizione delle nozioni culturali, al nascondimento delle pratiche
convenzionali in cui risiedono alcune funzioni portanti. Parliamo di
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funzioni che però permangono, potenziate in un nuovo mezzo conoscitivo,
anzi nelle immagini prodotte da esso che ci avvengono nella coincidenza
assoluta di un originale e della sua copia, vibranti, nel recupero di un alone
luminoso, sorta di “aura” benjaminiana riacquisita autenticamente dalle
numerose creazioni delle immagini virtuali. La rappresentazione della
realtà ci aiuta a razionalizzare il mondo e a comprenderlo, allora l’apporto
del digitale, nell’oltrepassare questo limite strutturale, ci impone un
rinnovamento della conoscenza e forse un approfondimento dei riferimenti
inconsci che ritroviamo nelle immagini di tutti i giorni, sulla scorta di un
pensiero che rileva nel corpo-immagine virtuale una copiosa presenza di proprietà oniriche e di dense connessioni ai significanti culturali che
filtrano l’assimilazione della realtà stessa: un pozzo di informazioni oggi
passibile di un’emendabilità da parte del soggetto.
In seguito la nozione quadro di simulacro ha permesso di interpretare la
pervasività dell’immagine mediale e i relativi processi di estetizzazione della
realtà. Ora “Il simulacro non è un’immagine pittorica, che riproduce un
prototipo esterno, ma un’immagine effettiva che dissolve l’originale”,
[...]l’immagine di qualcosa che non esiste.[…]Per ora un guadagno, sul quale
provvisoriamente ci attestiamo, indica che per quanto le immagini digitali
sfuggono alla dinamica mimetica, esse non hanno un’essenza simulacrale.13
Il simulacro è strutturato attraverso la mimesis in un rapporto di
somiglianza in cui l’originale si ritrae all’infinito, ovvero l’originale in
quanto modello permane, insistendo sull’immagine, come assente. In
questo senso l’immagine digitale non può essere accomunata a quella
simulacrale. Se col digitale si verifica un superamento del rapporto
mimetico, attraverso l’autonomia del momento interattivo dell’immagine
inserito nella sua capacità genetico relazionale e deprivata da ogni tipo di
13Roberto Diodato, Estetica del virtuale, cit., p.85, 91.
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processo analogico, è possibile orientare queste nuove proprietà aldilà dei
concetti di indizialità fisica e di iconicità del segno, escludendo per di più
l’essenza simulacrale, che come abbiamo visto si basa su una struttura
mimetica particolare.
CAPITOLO IIº
Lévy e dintorni
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Dopo questa breve descrizione delle peculiarità relative all’universo in
questione, tentiamo di analizzare i vari feedback che le persone fisiche
ricevono una volta invischiate nella tela del ragno. Bolter e Grusin, esperti
di comunicazione, portano avanti l’idea di un mondo virtuale che utilizza le
forme strumentali di altri media per favorire l’accesso a situazioni più
complesse da vivere mouse alla mano. Nell’ottica di questo “riuso” in
ambito di programmazione, l’identità del soggetto educato agli utilizzi
sociali delle nuove tecnologie, subisce un processo di “rimediazione”
sovrapponendosi ai mezzi che comincia a padroneggiare. Nei MUD
(domini multi-utente), nelle chat, nei forum, negli spazi virtuali interattivi,nelle ambientazioni dei giochi di ruolo online, tante menti de-corporeizzate
entrano in stretto contatto, felici della scoperta di un fresco universo ludico:
Il sé rimediato si manifesta anche con grande evidenza nelle “comunità
virtuali” presenti su Internet, all’interno delle quali i singoli individui
controllano e occupano punti di vista sia visuali che verbali attraverso
manifestazioni testuali e grafiche, ma, allo stesso tempo costituiscono le loro
identità collettive come una rete di collegamenti tra questi sé mediati. La
comunità virtuale è la comunità in quanto soggetto e insieme oggetto del
processo di rimediazione; essa rimedia la nozione di comunità così come è
stata definita all’interno e attraverso i precedenti media, quali il telegrafo, il
telefono, la radio e la televisione.14
Il sipario si apre sul denso tessuto connettivo che la grande rete interattiva
propina quotidianamente ai suoi utenti. È come un grande muro di mattoni
attraverso cui l’intuizione umana abbraccia la libertà di far breccia
decomponendone gli elementi a proprio piacimento con la volontà di
ricostruirne l’insieme in maniera creativa e di condividerlo con chicchessia.
Il modo intuitivo è quindi agevolato dall’approdo verso “dimensioni
conosciute” che si ritrovano stratificate nei testi intarsiati di numerosi
14 Jay David Bolter e Richard Grusin, Remediation, competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, cit., p.267.
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vecchi media: nella cornice dell’interfaccia elettronica assistiamo al crollo
della loro solitudine funzionale, raggianti in agglomerati perfiferici di dati,
i banlieues della nuova comunicazione. Ma cosa succederà a noi, gli
abitanti di questi spazi, quando voltandoci non scorgeremo più Arianna e ci
perderemo nel labirinto? Dove andremo a cercare la carne dispersa a terra,
quando le menti vorranno scollegarsi e riacquistare il proprio legame
corporeo? Basiamoci sulla già citata espressione di Lévy: il virtuale è prima
di tutto la manifestazione di un evento, l’attuale che accade e la sua
operazione è l’occorrenza cioè la ricorrenza di un qualsiasi fatto o
fenomeno, la sua stessa evenienza. Preoccupiamoci allora delle necessitàeventuali, e non della linea temporale di sviluppo, dato che siamo “dentro”
e non ancora coscienti del senso di riaffioramento, vediamo invece se la
nostra condanna è “già” quella del solipsismo, nella percezione di sé quali
monadi isolate oppure, magari, come monadi ben connesse tra loro. Per
l’appunto Diodato ci rammenta il concetto di monade come «corpo del
tutto sui generis, un corpo fenomeno peculiarmente sottile che è insiemerappresentante e rappresentato.»15 È proprio la sua “sottigliezza” a definire
il limite dell’espressività che le è propria. E continua: «la monade è un
tutto-parziale, o una parte-totale, e la connessione intermonadica consiste
soltanto nell’armonia prestabilita dal programma.»16 Ma solleva d’altronde
l’impasse di Leibniz, cioè l’impossibilità di intendere un punto focale: se la
rappresentazione e l’espressività sono proprietà conoscitive della monadecome qualità costitutive del mondo (cioè l’essenza della monade è nel
rispecchiamento conoscitivo) e il corpo della monade esiste solo grazie ad
una riflessione interna che implica una minima istanza metafisica, cioè un
minimo di esterno, allora come possiamo identificarla al corpo-immagine
virtuale, che è il “non rappresentato” per eccellenza, nel senso che è
prodotto direttamente da una matrice immanente in esso, senza istanze
15Roberto Diodato, Estetica del virtuale, cit., p. 96.16 Ivi, p. 97.
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esteriori di sorta? Forse dobbiamo smetterla per un momento di paragonare
ogni concetto all’immagine corpo-virtuale, e tentare di allacciare il discorso
all’uomo reale, quello seduto costantemente davanti allo schermo; egli non
si chiede se la sua esperienza sia simile a un sogno, a una droga, a
l’immersione in un quadro, ma quali benefici concreti può trarre
dall’utilizzo del nuovo mezzo di cui dispone. Infatti a un livello concettuale
profondo non vedo soluzione, ma se trasponiamo la cosa verso un punto di
vista più sociologico notiamo il passo ulteriore. Citiamo da L’intelligenza
collettiva di Lévy:
Tenendo conto delle particolarità soggettive di ogni monade, di ogni anima
individuale, il collettivo intelligente simile al Dio di Leibniz, calcola il
migliore dei mondi possibili.[…]L’economia delle qualità umane dal canto
suo, non prevede assolutamente istanze trascendenti, seppur infinitamente
rispettose delle libertà. È una monadologia senza Dio. In essa nessuno detiene
il potere. Nessuno detiene la conoscenza assoluta del tutto. Il calcolo del
meglio è dunque viziato da un’incertezza ineluttabile ed è preferibile che siacosì. Siccome non si ha una conoscenza perfetta della totalità ed è impossibile
prevedere il futuro, il calcolo non pianifica il meglio una volta per tutte , ma
procede in una serie continua e indefinita di approssimazioni, seguendo in
tempo reale l’arrivo di nuove informazioni e il cambiamento delle situazioni.
[…]Ecco la differenza principale tra la monadologia di Leibniz e l’economia
delle qualità umane: quest’ultima non ammette un architetto esterno, un
grande calcolatore che determini il meglio per tutti. Lungi dall’esserecentralizzata, l’attività di calcolo è distribuita ovunque. Infatti esistono
almeno tanti calcolatori elementari quante sono le monadi: si tratta delle
persone.17
L’economia, infatti verterà intorno alla produzione del legame sociale,
sviluppando un ambito relazionale non gerarchico, ma questa economia
delle qualità umane rimane il vero limite utopico della sua idea. Come17Pierre Lévy, L’intelligenza collettiva, per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli Milano 2002, p. 93-94.
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potremo essere sicuri che le necessità economiche convergeranno con
l’esigenza etica? Il filosofo francese è un esperto delle ripercussioni sociali
dell’informatizzazione e vede nella nuova realtà un progetto in cui il
calcolo del meglio non può basarsi su un “bene unilaterale”, cioè non può
(e non deve) sussistere un’ istanza di potere che determini lo scioglimento
degli eventi, la produzione e la distribuzione dei beni di consumo,
includendo anche l’informazione stessa in questo insieme. Sostanzialmente
egli osserva come il “calcolo” non sia più una prerogativa di pochi, ma,
grazie alla diffusione di numerosi calcolatori, sia in costruzione una
collettività che interagisce attivamente per la creazione di una sfera delsapere comune, il vero relativismo, un concetto di pluralità che entra in
gioco nella creazione e nella gestione delle “utilities” di tutti quelli che
partecipano al gioco. Cioè il contesto del cyberspazio è una universalità
per chi ne fa parte, ma non totalizzante, perché è inseparabile dalla
particolarità degli individui e delle relazioni interpersonali. Se il testo
letterario conosce una certa universalità, esaurisce altresì la propria naturatotalizzante a causa della sua caratteristica di prodotto limitato e conchiuso,
mancante di connessioni dinamiche autonome. È chiaro come la letteratura
operi il riuso e la risemantizzazione di altre opere ma questi link, se non
sono resi espliciti da note, citazioni, non sono immediati, cioè risultano
comprensibili solo a coloro che, per istruzione, tipo di cultura, riescono a
scorgerli nella fitta rete dei rimandi impliciti. Tra l’altro a imporre i link neltesto letterario troviamo in cattedra soltanto l’autore unico. Oltre a questo è
molto facile che la lettura di un libro venga presa nell’ottica di
un’acquisizione omologante di uno o più status symbol, o come luce
sempiterna contenente delle verità dogmatiche, a causa del rapporto di
insubordinazione che si istaura facilmente con questo tipo di testo. I
giornali, le televisioni e per certi versi il cinema, proseguono nella
realizzazione di questa traccia, poiché sono forme di comunicazione di tipo
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“uno-tutti” che si propongono di diffondere messaggi che aderiscono al
minimo comune denominatore mentale dei destinatari. Sono media che
sollecitano l’utente-fruitore alla passività, utilizzano la sospensione
dell’incredulità come un’arma per infierire sul target medio in maniera
intrusiva e demagogica. A causa di questo sono stati sfruttati per gestire
l’innesco ideologico nelle società totalitarie, attraverso una certa
propaganda politica unilaterale. Gli antichi greci invece non avevano
ancora distaccato la ritualità dei loro “testi orali” dal contesto del flusso
vitale in cui erano immersi (pensiamo alla tragedia attica). La parte centrale
dell’Odissea di Omero, cioè la lunga digressione del protagonista alcospetto dei Feaci riguardo il lungo naufragio che lo ha sconvolto, è una
vera e propria captatio benevolentiae per convincerli della propria virtù
morale e fisica al fine di essere ricondotto al più presto ad Itaca. Se Omero
utilizza questo “spunto” è per definire appunto il contesto di fruizione
dell’opera antica, inserito nel complesso dei rituali sociali dell’epoca: le
regole dell’ospitalità, la teatralità del racconto, il banchetto sacro. L’usosociale veniva così ricondotto al senso pratico e comunitario indispensabile
all’esistenza civile e armonica delle antiche società orali. Il contatto diretto
tra questo medium e la vita era fondamentale, perché è stata proprio la
“distanza culturale” tra mondo intellettuale raziocinante e mondo popolare
istintuale, prodotta secondo Nietzsche da secoli di filosofia, ad aver
favorito le strumentalizzazioni delle opere testuali ai fini di controllo,indottrinamento ideologico, politico e morale. Ma vediamo come il mondo
virtuale entri nel merito di questa digressione. La rete rende pensabile
qualcosa di differente sia dalla totalità senza universale delle culture orali,
sia dall’universale totalizzante delle culture scritte e mediatiche. Al
dispositivo comunicativo del tipo uno-uno (posta, telefono) e di tipo uno-
tutti (televisione, giornale), si è aggiunta la possibilità di una
comunicazione tutti-tutti, cioè di un nuovo modo di distribuire la
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conoscenza, cui coloro che sono connessi possono partecipare
interattivamente e ove non esiste un emittente virtualmente privilegiato.
Diventa così possibile sia comunicare l’informazione in maniera
universale, come nella civiltà della scrittura, sia interagire e creare contesti
ben delimitati, come nelle culture orali. Uno scenario come questo può
senz’altro essere definito come un universale senza totalità: ce lo illustra
Lévy in Cybercultura, gli usi sociali delle nuove tecnologie. La rete, la cui
unica pretesa è la connessione in un ordine non gerarchico, esprime la
tendenza all’universalità che non è però totalizzante, poiché non racchiude
in essa un unico “senso”, ma molteplici, che si auto-determinano deprivatidell’architetto-modello trascendente: l’istanza superiore invasiva e
disciplinante. Il teorico francese propone così una visione
dell’informazione quale bene pubblico alla portata di tutti, il cui valore sta
nell’accessibilità e nell’interconnessione. Inoltre, tecnicamente
l’applicazione di questa idea potrebbe sollevare dei capovolgimenti ancora
più rivoluzionari. Per dirimere una controversia giuridica abbiamo bisognodel libro, dato che non è possibile sostenere un processo sulla base di un
contesto di universale senza totalità, poiché un codice penale per esempio
non viene redatto al fine di permettere infinite interpretazioni (e nessuna
dotata di autorità), perché non sarebbe più un testo giuridico. Se si
verificasse che un ipertesto prenda il suo posto, con l’incedere degli usi del
cyberspazio nell’incorporazione di alcune funzioni degli altri media, potremmo salutare certe forme di potere statale e ritenere che le potenziali
libertà di interazione del mondo virtuale si attualizzino anche nel mondo-
reale umano in una sorta di anarchia cooperativa. Ecco che vedremmo
realizzarsi un primo passo verso la riacquisizione diretta di libertà prima
impensabili, in uno slancio diretto verso l’empireo di questa monadologia
senza Dio. Ed è proprio Diodato a tradire le proprie aspettative teologiche
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in questi passaggi, in cui sembra tendere la mano a Lévy, sospeso nel
proprio galleggiamento teorico:
Lungi dall’essere anarchico, lo spazio dell’ipertesto (IP) è dotato diun’organizzazione così sofisticata da produrre un effetto di libertà.[…]L’IP
costituisce un’immagine teologica di un certo tipo: l’Autore plurale dell’IP è
un Deus absconditus, un Dio trascendente, più che un orologiaio
programmatore che predetermina i percorsi e le scelte costruendo attraverso la
loro quantità un effetto di libertà.[…]Che succede se oltre all’hyper text
aggiungiamo il transfert protocol nel particolare ambiente World Wide Web?
[…]Il web invece è politeista, è uno spazio pagano, in cui ci sono molti dei,ed è uno spazio sul quale non si dà uno sguardo di sorvolo: nessun iperautore
può avere uno sguardo totalizzante sul web.[…]Questo mondo ha carattere
totale: nel suo dinamismo tutti i possibili che possono attualizzarsi si
attualizzano, ma non è dotato di alcuna teleologia, in quanto non è possibile
uno sguardo esterno dominante: si tratta quindi di un’ulteriore e alternativa
metafora del mondo.18
Abbiamo allora circoscritto il discorso giungendo ad una conclusione che
ci porta ad escludere l’esistenza di un iperautore che tessi la grande tela
dell’ipertesto magari a sua immagine e somiglianza. Del resto la parola
ipertesto si riferisce ad una forma di testo elettronico strutturato attraverso
una modalità di scrittura non sequenziale e dei blocchi di testo collegati tra
loro attraverso link che generano una sembianza multilineare: in questo
senso è evidente un’esibizione delle moltiplicazioni delle possibilità, ma
soprattutto la scelta di uno dei vari collegamenti elettronici sembrerebbe a
completa discrezione dell’utente che può beneficiare così di una libera
scelta personale. Tuttavia dal momento in cui ci troviamo in un mondo, il
web, molto vasto, ma certamente ben delineato, in cui abbiamo la necessità
di orientarci, non è detto che i dispositivi all’interno della rete ci
permettano di trovare il migliore dei siti possibili secondo le nostre
18Roberto Diodato, Estetica del virtuale, cit., p.191-192-194.27
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esigenze. C’è da ricordare come ognuno di noi acceda al web secondo
pratiche comuni, per esempio attraverso l’uso di motori di ricerca come
Google, il più utilizzato nel mondo, o ricorra a Wikipedia e Youtube per
reperire informazioni di ogni tipo, foto, video. Lo spettro è quello di una
radicalizzazione ulteriore del nascondimento del controllo. Parliamo di una
mise en abîme di queste dinamiche, il cui fine è sempre stato quello di
celarsi sempre di più ai nostri occhi mantenendo allo stesso tempo
l’illusione di libertà che i nuovi dispositivi hanno offerto di volta in volta. Il
potere viene esercitato in maniera sempre più indiretta, immerso nella
tendenza perversa di illudere oltre che di manipolare. Ma non abbiamo bisogno di tutto questo delirio paranoico se verifichiamo quanto il nuovo
mezzo stia accrescendo in realtà le potenzialità dello “spazio del sapere”,
ovvero il nuovo spazio antropologico teorizzato da Lévy, in cui troviamo
realmente un arricchimento personale nell’immediata reperibilità di fonti e
dati inesauribili, qui stiamo parlando di una finestra sul mondo, un
diamante unico nell’ottica di un rinnovamento dell’educazione, del lavoro,delle agevolazioni negli spostamenti tramite trasporti, dell’elusione dai
meccanismi intrusivi della macchina statale: dai ricorsi contro le
contravvenzioni, alle associazioni no profit, dalla controinformazione ai
trucchi per agevolare le scappatoie burocratiche. Inoltre a sostegno di
un’idea ottimistica di sovvertimento delle disposizioni imposte da internet
annoveriamo l’impresa del fisico di Pisa, Federico Calzolari, esperto di gridcomputing (calcolo distribuito), il quale ha dimostrato la fallibilità del
meccanismo di ricerca di Google, arrivando in testa alla top ten delle parole
più cliccate nel novembre 2007.19 In quel mese infatti nel ranking di
Google si è classificato al primo posto “Federico Calzolari” (e il suo sito)
battendo “Natale” per il numero di ricerche registrate fatte dagli utenti
italiani. Lo studioso ha così dimostrato la fattibilità di una manipolazione
19 http://zambardino.blogautore.repubblica.it/2007/12/14/svelare-i-segreti-di-google-per-gioco/
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degli algoritmi che regolano il “page ranking” di Google ingannando il
motore di ricerca grazie ad un raffinato gioco di calcoli matematici
introdotti nella macchina che generava la ricerca ricorsiva del sito. Un
motivo in più per galvanizzare l’iniezione di fiducia positiva promossa da
questo lavoro. Del resto con internet il tempo si è fermato, viviamo nel
regno della simultaneità, nell’essenza della comunicazione, ma è
fondamentale non lasciarsi narcotizzare da questa ennesima trovata per
annichilirci, siamo posti ormai di fronte all’esigenza irrimandabile della
salvaguardia della corporeità in tutti i suoi aspetti di manualità artistica, di
contatto umano (fisico), e in generale di tutti i legami naturali: rimaniamoquindi in allerta per frenare l’intrusività di questo spazio antropologico,
dotato di nuove proprietà ontologiche così invasive grazie al fascino
discreto che esercitano sulle nostre menti. Ma lo ripetiamo ciò non elimina
la necessità di capire in quali termini tutto questo universo possa aiutarci,
dato che ormai c’è e non risulta depennabile di punto in bianco. Un tale
spazio virtuale che può essere esemplificato dalle reti telematiche, è per Pierre Lévy lo spazio della cybercultura, «lo spazio aperto
dall’interconnessione mondiale dei computer e delle memorie
informatiche»20, ed è grazie all’estensione di queste reti che i teorici hanno
potuto formulare il concetto di comunità virtuale ed una relativa
“ingegneria” del legame sociale connessa all’idea di questo centro
relazionale per eccellenza, quale è stato eletto il cyberspazio.
Oltre a un’indispensabile strumentazione tecnica, il progetto dello spazio del
sapere spinge a reinventare il legame sociale in funzione dell’insegnamento
reciproco, della sinergia delle competenze, dell’immaginazione e
dell’intelligenza collettiva.[…]È un’intelligenza distribuita ovunque,
continuamente valorizzata, coordinata in tempo reale, che porta a una
mobilitazione effettiva delle competenze[…]In questa prospettiva, il20 Pierre Lévy, Cybercultura, gli usi sociali delle nuove tecnologie, Feltrinelli, Milano 1999, p. 91.
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cyberspazio diventerebbe lo spazio mutevole delle interazioni tra le diverse
competenze dei collettivi intelligenti deterritorializzati.21
Ci ritroviamo come lastricati in una strada di mattoni d’oro in cui il valorecalpestabile è misurabile con l’umano, niente è più prezioso di esso. Ecco
perché Lévy esige che si realizzi quest’economia dell’umano partendo
proprio dallo spunto dell’evoluzione delle tecniche contemporanee e in
particolare delle tecniche di comunicazione, suggerendo approcci che
qualche decina di anni fa erano ancora inconcepibili.
All’opposto delle tecnologie “molari”, che considerano i loro oggetti in
blocco, alla cieca, in modo entropico e sommario, le tecnologie “molecolari”
si accostano in maniera molto fine agli oggetti e ai processi che controllano.
Evitano la massificazione. Ultrarapide, precisissime, agiscono sui propri
oggetti a livello di microstrutture, dalla fusione a freddo alla
superconduttività, dalle nanotecnologie all’ingegneria genetica, le tecniche
molecolari riducono al minimo gli sprechi e gli scarti.[…]L’informatica è una
tecnica molecolare perché non si accontenta di riprodurre e diffondere i
messaggi (cosa che comunque fa meglio dei media classici), essa permette
soprattutto di generarli, di modificarli a piacimento, di conferire loro capacità
di reazione molto raffinate grazie a un controllo totale della loro
microstruttura.22
Una concezione di questo tipo vuole privilegiare la sfera dell’umano in
tutto e per tutto dato che un gruppo molecolare non ha bisogno di una
mediazione trascendente, e mira alla sollecitazione dell’espressione attiva
dei singoli, ma anche alla valorizzazione della diversità, del contatto con
l’altro da sé. È evidente che l’autore utilizzi la parola “molare” riferendola
ad un approccio globale ai fenomeni, a un atteggiamento che considera i
suoi oggetti esclusivamente in rapporto alla massa che li compone senza
21Pierre Lévy, L’intelligenza collettiva, per un’antropologia del cyberspazio, cit., p. 31-34-35.22 Ivi, p.56-62.
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dar conto alle variazioni minime e alle evoluzioni specifiche delle singole
parti. Lévy inoltre non nasconde come l’amministrazione ricorra ai sistemi
informatici per gestire e perfezionare la macchina burocratica e si scosti
continuamente dal tentativo di approcciare nuove forme di organizzazione
che però inesorabilmente spifferano le potenzialità del nuovo mezzo dal
pertugio microscopico di una finestra sbarrata. Ma la vera scommessa
sembra quella di dare ai collettivi intelligenti la capacità di esprimere la
propria opinione plurale attraverso una sorta di democrazia diretta, senza il
filtro dei rappresentanti politici. Un’agorà virtuale in cui prevarrebbero i
fautori di idee e soluzioni sempre meno offensive o negligenti nei confrontidegli altri, per una vittoria dei più cooperativi e non degli arrivisti sociali.
Ormai il rappresentante politico è talmente inutile, ma essenziale alla
macchina statale, da incarnare una funzione sempre più evidente, quella di
farsi specchietto per le allodole, fantoccio da bastonare nell’espiazione
fasulla dei malesseri sociali, dei suoi antagonismi. Si tratta di riti
apotropaici che non risolvono i problemi di disintegrazione sociale, mariconducono sempre e comunque l’uomo a raccontarsi la favola del mitico
consumatore, parola che splende davvero di una luce abbagliante, presa a
mò di totem nella ricerca della realizzazione di una classica esistenza
felice. E così l’ideologia si nutre continuamente dell’irrisolto producendo
in maniera forsennata quest’epidemia dell’immaginario, cui soggiacciamo
inscatolati, rosicchiandoci, e intanto il mondo grida, là fuori.
Ora la democrazia in tempo reale concretizza non l’occhio del potere sulla
società, sulle persone (totalitarismo), non lo spettacolo del potere (regime dei
media), ma la comunicazione della comunità con se stessa, la conoscenza di
sé da parte del collettivo.[…]Ogni definizione trascendente del sapere esclude
forzatamente coloro che rifiutano di sottomettervisi o coloro la cui forma di
intelligenza non vi corrisponde.[…]Nello spazio emanato dall’intelligenzacollettiva, io incontro così l’altro essere umano, non più come un corpo di
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carne , una posizione sociale, un proprietario di oggetti, ma come un angelo,
un’intelligenza in atto – in atto per lui ma in potenza per me.[…]È così che
l’altro mondo – o il mistero – della teologia diventa il mondo dell’altro – o
l’enigma – dell’antropologia. 23
Un’apertura all’alterità, l’incontro tra gli universi fantasmatici di ognuno
di noi, ecco cosa prospettiamo. Lasceremmo volentieri libere le nostre
fantasie, in aperto dialogo tra di loro, per una fusione fatta di immagini che
non tenga più conto della molarità-moralità che confina le persone negli
spazi annessi a esaurire l’espressione di un’etichetta sociale. Pensiamo alla
“carne del sensibile” di Merleau-Ponty, tematizzata come appartenente alla
natura nell’esplosione di una chiave comunicativa dinamica: tessuto che ci
dice la comunanza corpo-mondo in un intreccio di attività e passività, per
una reversibilità di soggetto e oggetto. Se il virtuale va interpretato
nell’ambito di una certa pregnanza del possibile, nell’espressione del
chiasma dei corpi, l’idea di “carne” è aderente ai nostri propositi come un
raccoglimento della moltitudine intorno a un nucleo mai intenzionale nella
sua purezza, in rappresentanza di uno strato dell’essere precedente alla
dicotomia organico-inorganico, cioè un elemento che dà senso ai fatti
particellari, esibendo la loro plausibile attualizzazione nel cyberspazio:
luogo così tanto rassomigliante ad un giardino orientale da cui poter
drizzare lo sguardo oltre i confini del nostro corpo, in un’empatica
comunanza con l’Altro.
23 Ivi, p. 93- 110- 111.
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CAPITOLO IIIº
I veli dell’Immaginario
Ora che abbiamo compreso quanto oggi sia elevato il livello di pervasività
dell’immagine grazie all’evoluzione degli strumenti informatici, soprattutto
nell’ambito della sospensione dell’incredulità che si verifica grazie
all’interazione con i mondi virtuali, dobbiamo armarci per scovare
l’intrusione di un meccanismo esteriore che agisce su di noi, forte del
nostro stato di vulnerabilità accresciuta. Più possiamo, più ci esponiamo:
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questo sembra essere il paradosso. Infatti all’aumentare delle possibilità
della tecnica cresce in maniera direttamente proporzionale il livello di
manipolazione e il suo occultamento ulteriore. A questo proposito è noto a
molti l’escamotage ideato dalla cricca di Silvio Berlusconi per ottenere il
consenso alle prime elezioni del 1994: prima della nascita ufficiale del
partito, con discorso a reti mediaset unificate, le maggiori città italiane sono
state sommerse da immagini pubblicitarie “anonime” che richiamavano i
colori del nascente partito, o parte del logo; l’elettorato è stato letteralmente
bombardato da una sfilza di messaggi subliminali, che insieme a tutta la
cornice di presentazione successiva, hanno favorito il dilagare delleadesioni, con una rapidità mai verificatasi prima. Il conflitto di interessi
non dovrebbe essere visto come il motivo cercato continuamente dalla
magistratura per farlo dimettere, ma proprio come l’antagonismo
intrinseco del suo progetto ideologico: evidenziato dall’esibizione del
proprio centro di potere economico-commerciale ai fini della
strumentalizzazione politica.Ecco perché il nodo che ci proponiamo di sciogliere in questa riflessione
impone un passaggio ulteriore sulla scorta di un approccio sistematico dal
punto di vista lacaniano di Slavoj Žižek, filosofo sloveno che tratta le
implicazioni del mondo dell’immagine ad un livello psicologico, sociale e
semiotico. L’epidemia dell’immaginario è un opera in cui vengono
analizzate le complesse dinamiche di relazione tra soggetto e mondofantasmatico, cioè il luogo criptico in cui interviene l’ideologia con i suoi
adombramenti all’interno delle convenzioni simboliche umane. L’autore
intende delineare le tracce degli inserti ideologici della cultura nei testi che
essa si propone di promulgare e va ad individuare le varie ripercussioni
psicologiche sull’individuo. Il grande successo analitico della seconda parte
del novecento nasce sotto il segno dell’accomunamento nella definizione di
“testo” di tutte le opere dell’ingegno umano in cui è possibile delineare una
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“narrazione”, ma ancor meglio un linguaggio. Lacan unisce questo
bagaglio alla psicoanalisi ed ecco che viene partorita una delle metodologie
critiche più composite e affascinanti: è questa l’impronta di Žižek.
L’Immaginario è visto come una stratificazione di alcuni veli, sette per la
precisione, che intervengono senza alcun tipo di ordine temporale sui
protocolli mentali dei soggetti, ma simultaneamente attraverso vari livelli.
Questi vengono descritti in maniera consequenziale, tuttavia credo che
l’autore non intendesse colorarli di una connotazione di senso lineare, ma
operanti in maniera dinamica e dialettica senza che alcuno di essi avesse un
valore di priorità assoluta rispetto agli altri. Del resto un puntofondamentale su cui si basa tutta la costruzione žižekiana dell’Immaginario
riguarda appunto l’ideologia che si fonda sul suo antagonismo intrinseco,
manifestato proprio nell’esteriorità dell’edificio ideologico, parliamo di
tutte quelle immagini totemiche che rivelano il fulcro del meccanismo
socio-politico imperante. Gli edifici burocratici della Russia stalinista erano
sormontati da grandi statue rappresentanti l’Uomo Nuovo idealizzato:
Questa caratteristica materiale esteriore, del progetto architettonico, non
rivela forse la verità dell’ideologia staliniana, in cui gli individui reali,
effettivi, sono ridotti a strumenti, sacrificati come un piedistallo per lo spettro
del futuro Uomo Nuovo, un mostro ideologico che schiaccia gli uomini veri e
propri sotto i suoi piedi?24
Una considerazione che sembra volerci destare dal sonnambulismo,
indicandoci come la contraddizione, l’irrisolto, sia da sempre lì fuori sotto i
nostri occhi, in una lampante manifestazione esteriore, ed è ovvio che
questa funzioni sempre come “utilità” nel comportare il corretto
funzionamento dell’apparato ideologico, cioè come sua condizione
necessaria. Essa gioca proprio sulla sua funzionalità apparente, infatti
24 Slavoj Žižek, L’epidemia dell’immaginario, Meltemi, Roma 2004, p.14.
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eleggendo a scopo di vita del cittadino medio l’ideale feticizzato (cioè
inserito in un oggetto totemico), si adempie il lavoro sporco di nascondere
la stessa materia alienante ponendola semplicemente sul trono dei simboli
sociali. Il paradosso ridiede in questo: una bugia condivisa è più forte di
qualsiasi verità, infatti il potere tenta di occultare le funzioni ideologiche
delle sue costruzioni simboliche rendendole maggiormente visibili,
inserendole in uno status symbol appetitoso. Ma immergiamoci in questa
parentesi: il primo velo descritto da Žižek, inserito nello schematismo
trascendentale kantiano, ci dice che l’Immaginario media tra la struttura
formale simbolica e il reale concreto, ovvero
fornisce uno schema secondo cui alcuni oggetti che incontriamo nella realtà
possono avere la funzione di oggetti del desiderio, riempiendo gli spazi vuoti
aperti dalla struttura formale simbolica.25
Va premesso che l’impostazione lacaniana dell’autore sloveno si basa su un
processo di rispecchiamento conoscitivo molto preciso: $ (il vuoto iniziale
del soggetto) diviene S nel momento in cui entra in gioco una dimensione
fantasmatica che media tra il mondo dei simboli culturali e il Reale,
riempiendo il contenitore vuoto (quale il soggetto è) di una o più
caratteristiche significanti che lo rappresentano momentaneamente: una
visione di “soggetto” molto dinamica che vede l’individuo libero di
fluttuare da un’identificazione all’altra grazie all’opera dell’Immaginario
che crea una vasto repertorio di posizioni soggettive da incarnare. Ed è una
considerazione che evidenzia la presenza necessaria dell’Immaginario
stesso per l’esistenza effettiva del soggetto culturale: le sue fondamenta
ontologiche si basano quindi sulla forma relazionale, sull’interazione.
Concetti di cui abbiamo evidenziato la radicalizzazione nel circoscrivere le
proprietà del pianeta virtuale. Non a caso il secondo punto è
25 Ivi, p. 19.
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l’ Intersoggettivit à cioè la perpetua ricerca di una risposta alla domanda:
cosa sono per gli altri? Concretamente stiamo parlando della sfera del
giudizio, così importante per gli essere umani. Tutti abbiamo bisogno di
sentirci parte di qualcosa, cercando di ottenere un’accettazione formale
all’interno di una società, di un gruppo. Žižek si appropria di questa
semplice idea inserendo l’intersoggettività nelle caratteristiche strutturali
dell’Immaginario, una pratica determinante per l’equilibrio dell’identità del
soggetto.
Nell’ultimo Lacan l’attenzione si sposta sull’oggetto che il soggetto stesso“è”, sull’agalma, sul tesoro segreto, che garantisce il minimo di consistenza
fantasmatica all’essere del soggetto. Questo significa che: l’objet petit a, in
quanto oggetto dell’Immaginario, è “qualcosa in me più di me stesso”, per
mezzo del quale io percepisco me stesso come degno del desiderio
dell’Altro”;[…]il desiderio “realizzato” messo in scena nell’immaginario non
è proprietà del soggetto, ma desiderio dell’Altro.[…]La domanda originaria
del desiderio non è direttamente “che cosa voglio?”, ma “che cosa gli altrivogliono da me? Cosa vedono in me?”26
Questo Altro che dà corpo ad un eccesso di jouissance (godimento) è il
tipico oggetto della psicoanalisi. Il desiderio dell’Altro funge da mediatore
tra il soggetto barrato ($) e l’oggetto perduto che il soggetto è (objet petit
a). L’oggetto perduto è il senso di mancanza strutturale dell’individuo che
si traduce in una spinta verso la jouissance dell’Altro, procedimento che
ripropone il bisogno dell’Altro nell’identificazione soggettiva dei vari
“oggetti perduti” in cui ci rispecchiamo immediatamente dopo aver
ottenuto di volta in volta un raggiungimento di momentanea stabilità
emotiva: è lo slancio vitale che ci pervade di un senso di ricerca
incessante, come un nirvana dei desideri, in un circuito in cui si nota una
coincidenza di acquisizione e perdita. Dobbiamo quindi inquadrare subito
26 Ivi, pag. 21.
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il concetto di desiderio nella circolarità con cui esso si ripresenta, mano a
mano che compiamo le nostre scelte di identificazione simbolica.
In seguito, sull’onda della lezione post-strutturalista, Žižek stende un altro
velo: l’Immaginario è una “forza primordiale di racconto” che risolve gli
antagonismi intrinseci risistemandone i termini in una successione
temporale; parliamo dell’Occlusione narrativa dell’antagonismo. Tutte le
narrazioni (e le relazioni) tentano alla fine di risolvere in qualche modo un
conflitto, per esempio quello tra l’eroe e il suo antagonista, ricollocando le
loro identità-funzioni in maniera differente nell’evoluzione temporale. Ed è
automatico concepire l’antagonismo come il movente, cioè il vero “uncino”che rende la storia avvincente, che la fa sussistere. Ci sembra chiaro adesso
il motivo per cui l’ideologia utilizzi il proprio antagonismo intrinseco come
significante-padrone (Master) imponendo alla gente comune una fede
cieca: pare che il potere comprenda i mezzi per manipolarci usando la
matrice strutturale dell’archetipo collettivo, offrendoci sotto una veste
simbolica gli zuccherini narrativi che siamo soliti gustare nei prodottitestuali. Inoltre è incredibile come le rotture storiche, i capovolgimenti
rivoluzionari, sospinti dalla pretesa ideologico-politica di utilizzare-
nascondere gli antagonismi interni, generino un cambiamento nella stessa
griglia che ci permette di misurare le varie perdite e acquisizioni, cioè
operino lo slittamento della struttura dell’objet petit a, riconfigurandola
nella focalizzazione di nuovi oggetti del desiderio e di nuovi supplementiosceni ideologici (gli antagonismi stessi).
Il problema nella definizione di “totalitarismo” come eclissi della legge
simbolica neutrale, così che l’intero dominio della legge è “macchiato” dal
Super-io osceno, è: come possiamo concepire l’epoca precedente – cioè
dov’era l’oscenità del Super-io prima della venuta del “totalitarismo”?[…]la
legge è stata “sporcata”, stigmatizzata, dal godimento nel preciso istante incui è emersa come legge formale universale-neutrale. Il vero emergere di una
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legge neutrale pura, libera dal suo legame “organico” con il concreto mondo
effettuale, dà luogo all’osceno lato nascosto superegoico, poiché questo stesso
legame organico, un tempo opposto alla Legge pura, è improvvisamente
percepito come osceno.27
È non è forse vero che la pratica disciplinante della legge ci induca a
disprezzare il legame organico naturale, evidenziandolo al tempo stesso
come proprio supplemento osceno? Quest’ultimo non rappresenta soltanto
lo scoglio da cui ci allontaniamo inesorabilmente, ma la stessa causa
dell’esistenza della legge, che sussiste solo grazie alla violenta
soppressione di gran parte dell’istintualità umana: un teatro che la legge
mette in scena per ricordarci continuamente che la configurazione dei
nostri desideri (indotti) è già mutata da molto tempo in qualcosa di più
artificiale. Tutto questo ci figura l’immagine degli esclusi in coloro che
effettuano una scelta differente, magari votati ad una vita densa di un
empatica relazione con il mondo naturale, privi, nel loro contesto, di
esigenze economiche e di localizzazioni giuridiche. In seguito il velo
successivo: Dopo la cacciata dal paradiso illustra la narrazione
fantasmatica che inscena l’atto stesso della sua instaurazione e tenta di
mostrare il momento della castrazione simbolica. L’Immaginario è in
questo senso molto vicino alla perversione. Ora l’oggetto perduto del
perverso è la Legge stessa che egli cerca di recuperare emulandola nelle
pratiche sessuali del sado-masochismo. Il perverso è un trasgressoreapparente che in effetti brama esattamente la regola, come soglia che lo
proietti verso l’alterità della jouissance. La castrazione simbolica è
l’aggiunta di una X puramente potenziale, rispetto alla quale qualunque
esperienza realizzabile sembri insoddisfacente, mancante (objet petit a); è
la chiave di accesso alla struttura formale simbolica, tramite la perdita della
jouissance edenica, nella regressione ad uno stato in cui il desiderio
27 Ivi, p.24-25-26.
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determina ossessivamente le nostre azioni e i rapporti intersoggettivi .
Questo punto serve a Žižek per inserire all’interno dell’Immaginario la
dimensione psicanalitica, e nel definire il momento castrante come nodo
necessario all’universo fantasmatico per immedesimarsi nella mediazione
delle categorie simboliche culturali. Dopo ciò segue Lo sguardo
impossibile, sempre implicato dal racconto fantasmatico, si tratta di uno dei
veli meno esplicativi che si risolve nella presenza di un punto di vista
neutro che osserva la situazione-narrazione di ogni costrutto ideologico, il
terzo sguardo impersonale e mai collocabile, al massimo identificabile con
l’obiettivo della cinepresa. Esso fa pensare tutto l’universodell’Immaginario come se fosse generato per uno spettatore invisibile che
mostra d’altronde i segni della sua presenza aldilà dello schermo: cioè si
tratta di uno dei modi per descrivere lo sguardo dell’Altro. Ma il concetto
successivo, quello relativo al sesto velo rivela un pensiero molto più
interessante:
Per poter essere operativo, l’Immaginario deve rimanere “implicito”, deve
mantenere una certa distanza nei confronti della struttura simbolica esplicita
che sorregge, e deve funzionare come la sua trasgressione intrinseca.
[…]Proviamo a illustrare il divario tra struttura esplicita e il suo supporto
fantasmatico con un esempio tratto dal cinema. Contrariamente alla sua
apparenza fuorviante, MASH di Robert Altman è un film perfettamente
conformista,[…]il cliché che presenta MASH come film antimilitarista, chedenuncia gli orrori della carneficina senza senso della guerra, che può essere
sopportata soltanto attraverso una salutare dose di cinismo, di scherzi volgari,
di prese in giro dei pomposi rituali ufficiali e così via, non coglie l’essenziale
– proprio questa distanza è ideologia.28
Capiamo in questo passo fino a che punto Žižek veda con pessimismo il
potere delle immagini, e come l’Immaginario stesso si avvicini
28Ivi, p. 36.40
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pericolosamente all’Ideologia persino quando è espresso da mezzi di
comunicazione sdoganati come il cinema. Ci dimostra come l’arte stessa
sia stata vittima di questa distanza ironica durante tutta la modernità,
intorpidita dal ripetitivo crogiolarsi intorno al bello ideale, al concetto di
rappresentazione e così lontana dal Reale; la coerenza con la vita è stata
riacquisita secondo Adorno dall’arte contemporanea nell’esibire il non
senso lampante della realtà del secolo appena passato, ma soprattutto
nell’impossibilità di ricreare l’immagine figurativa, in un mondo in cui il
dinamismo tecnologico, lo spazio delle merci, la guerra, hanno preso il
sopravvento sul divertissement estetico, è allora che l’arte scende in campo,si militarizza e combatte nell’imporre una propria rivisitazione sofferta
dell’esistenza umana. Per finire il nostro autore ci spiega come l’ideologia
abbia bisogno di un nocciolo trans-ideologico per funzionare alla
perfezione. Il Nazismo ricorre ad una certa estetizzazione della politica con
il suo riferimento esterno alla mitologia, alle immagini simboliche arcaiche,
dal gesto del saluto romano all’impiego dello stendardo militare dell’aquilaimperiale. Un innesto di questo tipo funziona come diversivo fantasmatico
nell’inserire la lotta per la conquista dell’Europa in un contesto più ampio,
come se la pratica bellicosa tedesca fosse già scritta nella linea evolutiva
della tradizione culturale occidentale; la sospensione dell’ossessione
politica di conquista indiscriminata viene così istillata nella mente di un
popolo giovane tramite il riferimento a una chiave extra-ideologica. Maancora più calzante è l’esempio della comunità militare che opera in ogni
contesto sociale censurando il proprio fondamento libidinale, il
supplemento osceno, la propria trasgressione intrinseca: cioè la sottile
tensione omoerotica rimossa dalla facciata dell’istituzione militare, ma
fondamentale in quanto componente chiave del legame maschile tra soldati.
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La forma dominante di saluto fra commilitoni nel mio reparto era di dire,
invece di un semplice “Ciao!”, “Fumami il cazzo!”; questa formula era
talmente standardizzata da aver perso ogni connotazione oscena ed era
enunciata in modo talmente neutrale, come un puro segno di gentilezza. I
rimandi all’omosessualità permeavano anche gli scherzi maneschi dei soldati.
[…]Il punto chiave da non perdere qui è come questa fragile coesistenza di
estrema e violenta omofobia con una rimossa economia libidinale
omosessuale renda ragione del fatto che il discorso della comunità militare
può operare solo censurando il proprio fondamento libidinale.29
La forza che mantiene coesa ogni struttura organizzativa imposta dalla
società agisce solo grazie al suo supplemento osceno, e alla censura
pubblica di questa sua trasgressione implicita. Perciò il potere genera la
propria resistenza, per mantenere il controllo sugli sfoghi fantasmatici dei
più irritabili. Si può dire inoltre che potere e contropotere si generino
reciprocamente a causa di questo legame necessario, ed è quindi evidente
che in ogni relazione simbolica umana esista un antagonismo intrinseco
creato sulla base di una trasgressione deliberata ad un livello individuale,
introspettivo, e repressa dal sistema nell’ovattare questo supplemento
osceno tramite lo strumento divulgativo mass-mediatico.
Il gesto vuoto è l’ultimo velo cioè la bugia condivisa che regola la struttura
stessa del patto sociale:
Il paradosso di volere (di scegliere liberamente) ciò che è in ogni caso
necessario, di nascondere (mantenendo le apparenze) che c’è una libera scelta
benché di fatto non ci sia, è strettamente co-dipendente dalla nozione di un
gesto simbolico vuoto, un gesto che deve essere rifiutato:[…]quando dopo
essere stato impegnato in una dura competizione con il mio migliore amico
per una promozione vinco io, la cosa giusta da fare da parte mia è offrire di
ritirarmi, così che prenda lui la promozione, e la cosa giusta da fare da parte
sua è di rifiutare la mia offerta – in questo modo, forse, la nostra amicizia
29 Ivi, p. 45.
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potrebbe salvarsi…Qui siamo di fronte allo scambio simbolico nella sua
essenza: un gesto fatto per essere rifiutato,[…]il risultato complessivo
dell’operazione non è zero ma un guadagno distinto per entrambe le parti, il
patto di solidarietà.30
Se per caso decidessi di accettare l’offerta del mio amico, la soluzione
diverrebbe catastrofica, il legame di amicizia si dissolverebbe, cioè la
convenzione sociale che ci vede legati da un simile rapporto di
condivisione cadrebbe distrutta da un adesione libera a un possibilità di
scelta in realtà apparente: c’è della formalità persino nel contatto umano
più confidenziale. Questo esempio ci illustra come il supporto fantasmatico
dell’ordine simbolico pubblico sia pervaso da una moltitudine di regole non
scritte che testimoniano della vulnerabilità del sistema. Žižek ci fa notare
quanto queste regole siano potenzialmente trasgressive, mostrando la
possibilità di violare le norme sociali esplicite e simultaneamente
coercitive, proibendo concretamente le possibilità che vengono permesse
apparentemente dal gesto vuoto. L’immaginario quindi chiude lo spazio
concreto delle scelte e mantiene la falsa apertura colmando il vuoto fra la
cornice simbolica e la realtà.
La lezione da trarne è che – almeno talvolta – la cosa davvero sovversiva non
è trasgredire la lettera esplicita della legge, in base alle fantasie soggiacenti,
ma aderire a questa lettera contro le fantasie che la sostengono. In altre parolel’atto di prendere alla lettera il gesto vuoto (l’offerta che deve essere rifiutata)
– ossia di trattare la scelta forzata come una scelta libera – è forse uno dei
modi di mettere in pratica ciò che Lacan definisce “attraversamento della
fantasia”.31
Questo “attraversamento della fantasia” è interpretato da Žižek come una
sorta di rassegnazione alla chiusura radicale della struttura del desiderio30 Ivi, p.49-50.
31 Ivi, p.51.
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dell’Altro, ma soprattutto la maturazione di una consapevolezza che
permetta di svelare il meccanismo fantasmatico soggiacente alla struttura
formale simbolica, nell’idea di aderire alla regola per dominarla, uscendo
dalle convenzioni, scegliendo di prendere le scelte apparenti per vere e
tentando di allargare le libertà parziali verso manifestazioni eteree di libertà
assoluta: l’Immaginario viene descritto sempre di più come un muro da
abbattere, ma c’è dell’altro da aggiungere per arrivare a delle conclusioni
soddisfacenti, nel tentativo di far aderire l’universo Žižekiano al discorso
sul cyberspazio. Proseguiamo quindi la nostra esposizione introducendo il
mondo della pulsione, oltre la soglia del nirvana del desiderio, aldilà di uncircolo vizioso ormai “attraversato” grazie a quest’ultima chiave
concettuale. Il punto è che il ruolo designato alla pulsione risiede nel
quadro di una sfera totalmente libera dall’influsso dell’Immaginario nel
senso fin qui descritto. Infatti l’Immaginario è lo schermo stesso che separa
il desiderio dalla pulsione, cioè allestisce la scena in cui la jouissance di cui
siamo privi si concentra nell’Altro che ce l’ha sottratta: e quindi neconsegue che l’intera struttura del desiderio dell’Altro emerga quando la
pulsione stessa viene presa nella ragnatela della legge-proibizione. Ma
l’accettazione della chiusura radicale della struttura del desiderio, che ci
permette di accedere a questa pulsione eterna-non-morta ci rammenta
dunque una altro circuito, o per dir meglio un nietzschiano “eterno ritorno
dell’uguale”, esso
indica la tendenza che attivamente si fa carico del confronto passivo con
l’objet petit a, oltrepassando il ruolo intermedio dello schermo
dell’Immaginario.[…]Che cosa accadrebbe se fosse l’Immaginario stesso che,
in quanto riempie il vuoto del desiderio dell’Altro, supporta la (falsa) apertura
– l’idea che c’è una radicale Alterità che rende il nostro universo incompleto?
E di conseguenza, cosa accadrebbe se “l’attraversamento della fantasia”
comprendesse l’accettazione di una chiusura ontologica radicale? L’aspetto
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insostenibile dell’ “eterno ritorno dell’uguale” è la radicale chiusura che
questa idea implica,[…]significa rinunciare a ogni apertura, a ogni fede in
un’Alterità messianica.32
Con l’accettazione della struttura perversa del desiderio, si verifica il
risucchio degli oggetti parziali, che sostengono l’apparato
dell’Immaginario, all’interno del circuito pulsionale, e perciò arriviamo a
concludere che il primordiale Altro della nostra realtà fisica spazio-
temporale non è nient’altro che una sublime materialità: una jouissance
fatta carne, ed è forse la stessa arte moderna e contemporanea a garantirci
la corretta visione di questa realtà nell’insistere sull’imprigionamento
dell’aspetto metafisico e astratto all’interno della cornice del quadro, nel
nocciolo della sostanza incorrotta dell’artista. Il desiderio dell’Altro è da
sempre inserito nella configurazione di uno schema trascendentale che
imposta un determinato “piano di lavoro” grazie al nostro cervello. Ecco lo
svelamento di un freddo meccanismo che include la percezione della
spiritualità e dell’esperienza del sublime in seno ad un protocollo mentale
che risponde alle chiavi funzionali espresse dai concetti dell’universo
Žižek. È chiaro quindi come il linguaggio stesso ci crei l’accesso a questo
ordine di idee, una convenzione che ci svela la rete dei significanti ottenuti
dalla ricerca dei processi della nostra mente. E per di più abbiamo un Lacan
di troppo:
A questo seno nella sua funzione di oggetto, di oggetto a causa del desiderio,
così come io ne presento la nozione – dobbiamo dare una funzione tale da
poterne dire il posto nella soddisfazione della pulsione. La formula migliore
ci sembra essere questa – che la pulsione ne fa il giro.[…]
L’oggetto della pulsione va situato a livello di ciò che ho chiamato
metaforicamente una soggettivazione acefala, una soggettivazione senza
soggetto, un osso, una struttura, un tracciato che rappresenta una faccia della
32 Ivi, p.54.
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topologia.[…]Il soggetto è un apparato. Questo apparato è qualcosa di
lacunare, ed è nella lacuna che il soggetto istaura la funzione di un certo
oggetto, in quanto oggetto perduto. Ecco lo statuto dell’oggetto a in quanto
presente nella pulsione.[…]le pulsioni, quali si presentano nel processo della
realtà psichica sono pulsioni parziali.33
In effetti sappiamo bene come Freud e in seguito Lacan abbiano suddiviso
le pulsioni parziali attraverso la disamina di molti stadi di apprendimento
del soggetto nell’ambito dell’appercezione della realtà: mi riferisco alla
distinzione tra pulsione orale, anale, scopica, etc. Vedremo in seguito come
a noi interessi soprattutto la pulsione scopica (relativa allo sguardo come
oggetto a), per esaurire una possibile conclusione di questo lavoro. Per il
momento consideriamo due termini che operano nella pratica psicanalitica:
la ricostruzione, cioè la fase di raccoglimento e messa in ordine degli
eventi scatenanti, che hanno avuto un’influenza rilevante nel paziente nella
gestazione di qualche patologia mentale (dati rimossi di solito a livello
inconscio) e l’interpretazione, che concerne lo svelamento di elementisintomatici all’interno degli eventi stessi. Diremo che l’interpretazione
tende alla verità del desiderio del soggetto e la ricostruzione esprime la
conoscenza della pulsione. Con l’interpretazione entra in gioco il rapporto
di fiducia comunicativa che si istaura tra analista e paziente, poiché essa
tende a scoprire la verità che si cela dietro alcune manifestazioni
dell’inconscio come i lapsus e i sogni; questi ultimi hanno bisogno diessere soggettivati dal paziente per divenire operativi ai fini del processo
terapeutico. Ma la ricostruzione è più che altro la fase “violenta” in cui
l’analista pone davanti agli occhi del paziente lo scenario diretto della
fantasia traumatica, situazione che verrà accettata difficilmente come
propria, essendo il nocciolo della patologia in esame, ma sarà assunta su di
33Jacques Lacan, Il seminario, Libro XI, I quattro concetti della psicoanalisi 1964, Einaudi Editore 1979, p.172-178-187-188.
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sé in maniera distaccata, attraverso una conoscenza desoggettivata e priva
di codifiche simboliche: uno sguardo diretto sull’insostenibile Reale. Ora
chiariamo che la scienza può essere considerata come un nucleo di ricerca
tendente ad una conoscenza acefala, cioè mancante di una soggettivazione.
Infatti la scienza dell’estremo persegue i propri fini incurante dell’esigenza
etica (pensiamo alla manipolazione genetica) e mira alla cieca
soddisfazione pulsionale della conoscenza stessa.
Ciò che Lacan ci costringe ad aggiungere è che, forse la scienza è “reale”
anche in un altro senso assai più radicale: si tratta del primo (e probabilmentedell’unico) caso di un discorso che è stricto senso non-storico, persino nel
senso più radicalmente heideggeriano di storicità delle epoche dell’Essere –
cioè il cui funzionamento è intrinsecamente indifferente riguardo a gli
orizzonti di apertura dell’Essere storicamente determinati. Proprio in quanto
la scienza “non pensa” essa sa, ignorando la dimensione della verità, ed è,
come tale pulsione allo stato puro…[…]Non vi è in essa una dimensione
“liberatoria” già percepibile? Non è forse la sospensione della Verità
ontologica nel funzionamento senza intoppi della scienza già una sorta di
“attraversamento” della chiusura metafisica? Entro la psicoanalisi questa
conoscenza della pulsione, che non può mai essere soggettivata, assume la
forma della conoscenza della “fantasia fondamentale” del soggetto, la
formula specifica che regola il suo accesso alla jouissance.34
Il senso più profondo del progresso tecnologico viene qui accostato ad una
fase della cura psicanalitica, come se entrambi mirino alla sospensione del
limite metafisico, cioè all’evasione dall’intrappolamento inconsapevole
nella struttura del desiderio dell’Altro (Altro che è Dio, lo Stato, vostra
madre, il sesso sado-masochistico, il mare etc.), con la deliberata
accettazione e metabolizzazione di essa, tramite l’attraversamento
dell’universo fantasmatico soggiacente. Non è un caso che il cinema e lo
schermo virtuale del cyberspazio, grazie alle proprietà descritte nella prima34Slavoj Žižek, L’epidemia dell’immaginario, cit., p.65-66.
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parte di questo scritto, pongano in maniera così lampante le soglie del
mondo pulsionale manifestando la più profonda materia emotiva e
relazionale dell’essere umano. Sono entrambi frutto di invenzioni
scientifiche che riproducono in varie forme l’anima dell’apporto
tecnologico. Ovviamente stiamo parlando di quella serie di prodotti
cinematografici che si possono autorevolmente considerare come opere
valide per esaurire i misteriosi scenari fantasmatici che mediano la nostra
realtà quotidiana; dobbiamo escludere tutti quei film che risultano intrisi di
ideologia o godono di un eccessivo tenore commerciale. Difficilmente
saranno questi a risucchiarci nel buio risanatore della sala cinematografica.Del resto credo fermamente che il cinema metta a disposizione una
possibilità unica, quella di accedere alla libertà di coerenza con noi stessi,
all’accettazione dei limiti che ci tartassano, allo svelamento sincero di tutto
l’irrisolto, nel porci ad esempio di fronte alle conseguenze dell’amore, così
tanto ricercato e magari rimasto inappagato fino a quel momento. È una
finestra di dialogo con la nostra interiorità fintanto che produca l’illusionedi una realtà parallela e una storia, cioè una linea narrativa seducente da
poter comparare con quella della propria vita. La tecnologia ci mette a
disposizione, da più di un secolo, un mezzo di conoscenza che agisce per
molti versi in chiave terapeutica, nella misura in cui lo sguardo gettato
nello schermo produca identificazioni forti, esperienze simulate che
appaghino qualche lacuna libidinale dello spettatore, e infine funzionacome una delle forme fondamentali di collante sociale, in linea con la
tradizione dello spettacolo antico che esplicitava questa funzione
all’interno della pratica rituale. Questo per dire che il cinema permette
un’immersione che priva lo spettatore della propria vergogna poiché
implica spesso una conoscenza distaccata di se stessi. Infatti identificarsi
non significa letteralmente abbracciare un determinato punto di vista, ma
vuol dire soprattutto ubiquità, cioè la percezione di essere in carne ed ossa
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al di qua e aldilà del quadro, senza che una delle due condizioni escluda
l’altra, entrambe fuse nella corrispondenza luminosa di uno sguardo che si
fa oggetto, e che ci de-soggetiva interamente per metonimia. Il cinema
pone davanti agli occhi degli ignari paganti un coacervo immenso di objets
petit a, di oggetti del desiderio facilmente aggirabili in modo soddisfacente,
una volta che ci si è immessi nella direzione del circuito pulsionale, cioè
dal punto di “vista” della pulsione che ne fa il giro. Ecco perché in seguito
parlerò di alcune opere in cui si rintracciano degli elementi meta-
cinematografici, che illustrano cioè un discorso sul cinema e
particolarmente un’esibizione del “raddoppiamento fantasmatico” cheopera nella fruizione di questo medium. Ma sarà interessante anche
osservare in che modo il cinema profetizzi l’avvento del cyberspazio dato
che sappiamo già come il medium informatico includa già le interfaccia dei
media precedenti, quella riflessione risulterà utile a fornire una riprova dei
concetti che leggerete nel prossimo capitolo. Intanto concludo inserendo un
accenno al prossimo desublimato di Žižek, così calzante per comprendere ilgermoglio della sua ossessione che viene proiettata, con qualche ambiguità
di fondo, sul discorso del cyberspazio :
L’elemento fantasmatico che soggiace al testo ideologico pubblico come suo
osceno supporto non-riconosciuto serve allo stesso tempo da schermo contro
l’intrusione diretta del Reale.[…]anche nel momento del più intenso contatto
fisico reciproco, gli amanti non sono soli ma hanno bisogno di una seppur
minima narrazione fantasmatica come supporto simbolico[…]Il problema,
naturalmente è che un minimo di “sintesi dell’immaginazione” (per usare un
termine dello stesso Kant) che (ri-)crei il suo oggetto è necessario alla
sessualità per funzionare normalmente. Questa “parte immaginaria” diventa
visibile in una spiacevole esperienza nota a molti di noi: nel bel mezzo
dell’atto sessuale più intenso, può capitarci all’improvviso di “staccare” –
all’improvviso può sorgere una domanda “Cosa ci faccio qui, a sudare e a
ripetere questi stupidi gesti?”[…]come nei film di David Lynch, in cui un
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oggetto diventa la disgustosa essenza della vita quando la telecamera lo
inquadra troppo da vicino. La distanza che separa la bellezza dalla bruttezza è
così esattamente la distanza che separa la realtà dal Reale.35
Perciò quel che costituisce la realtà è quel minimo di idealizzazione di cui
il soggetto ha bisogno per essere in grado di sopportare l’orrore del Reale.
La costruzione che media la conoscenza umana del mondo che esperiamo è
così posta nella direzione di un referente altro, per dirlo in un modo,
metafisico, che ci trascende attirando un senso di distacco effettivo da noi;
si tratta di un significante molto forte che definiremmo “padrone” di cui si
percepisce appunto la lontananza, che è necessaria affinché si instauri un
corretto atto di simbolizzazione-mediazione dell’intrusione insostenibile
del Reale. La grande paranoia di Žižek risiede nella sospensione di questa
istanza mediatrice, nel porci di fronte allo scenario terribile di un faccia a
faccia con l’orrore. Inoltriamoci allora nel cuore di questo percorso.
CAPITOLO IV°
Un filo d’Arianna per il cyberspazio
La prospettiva proposta dall’avvento del mondo virtuale, mediato
dall’interfaccia informatica, è paragonabile a quella di un aldilà ad alta
digeribilità. La condensa di uno schermo illuminato si dipana finalmenteevidenziando sotto gli occhi di tutti un significato incredibilmente
rivoluzionario e pregnante rispetto alle esigenze del mondo contemporaneo.
Infatti l’idea di cyberspazio è propriamente un sintomo chiave della nostra
costellazione socio-ideologica, cioè può essere assorbito entro il mondo
concettuale fin qui espresso, nell’ottica di definire ulteriormente le
problematiche in questione, per osservare se ci siano dei chiarimenti da
35 Slavoj Žižek., L’epidemia dell’immaginario, cit., p. 97-98-99.50
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fare, aggiungendo magari qualche fonte di luce da puntare sull’oggetto
analizzato. Per certi versi, Žižek guarda con sospetto la possibilità di un
annullamento totale della struttura simbolica che media l’universo
fantasmatico e lo esprime in maniera esplicita all’interno del capitolo il
cyberspazio o l’insostenibile chiusura dell’essere. Vedremo cosa vuol dire,
ma ciò che rileva in un altro momento, all’interno della prefazione del suo
libro è una costatazione molto interessante che anticipa il nucleo della
ricerca:
Ciò che la droga permette non è forse una jouissance puramente artistica, una jouissance accessibile senza passare attraverso l’Altro (l’ordine simbolico) –
una jouissance generata non da rappresentazioni fantasmatiche, ma da un
assalto diretto ai nostri centri-di-piacere neuronali? Proprio in questo senso la
droga implica la sospensione della castrazione simbolica, il cui significato più
elementare sarebbe proprio quello che la jouissance è accessibile solo
attraverso il medium di (come mediata da) una rappresentazione simbolica.
Questo Reale brutale della jouissance è l’inverso dell’infinita plasticitàdell’immaginazione, non più costretta dalle regole della realtà.
Significativamente, l’esperienza della droga racchiude entrambi questi
estremi: da una parte, il Reale della jouissance noumenica (non
schematizzata) che oltrepassa le rappresentazioni; dall’altra la selvaggia
proliferazione di fantasmi. 36
E abbiamo già visto come ci sia una connessione tra l’utilizzo delletecnologie e le droghe, entrambi generanti dipendenze più o meno forti a
seconda della frequenza con cui se ne viene a contatto. Non solo, notiamo
come un’esperienza di alterazione dello stato di coscienza sia accomunabile
all’immersione totale in un ambiente virtuale che tende ad una simulazione
tendenziale della realtà, così come vengono a contatto con essa la
dimensione onirica e in qualche modo il concetto di rappresentazione
36 Ivi, p. 1051
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mimetica. Ma Žižek afferma che la droga ci pone in contatto con la
jouissance in maniera diretta, in una comunione che rimane a suo parere
insostenibile o per lo meno incompleta, cioè egli si limita a dire che non
possiamo aspirare alla visione diretta della jouissance nell’Altro, ma
avremo sempre bisogno della strutturazione simbolica per gioirne
momentaneamente e in maniera inappagante all’interno del circuito
incessante del desiderio (aggiungo) mai esaudito. Inoltre credo volesse
intendere che l’effetto delle droghe provochi una proliferazione di fantasmi
totalmente incontrollata, priva di schematismi, il che ci porta al di fuori
della struttura formale simbolica, oltre la realtà mediata metodicamentedall’Immaginario. Il cyberspazio comprende, sempre secondo lui, sia la
promessa di una falsa apertura, quella di gettare via la consistenza futile dei
nostri corpi per gioire di una comunicazione del tutto mentale, eterea, sia
quella di un’aspettativa di azzeramento radicale dell’intrusione ossessiva
del potere statale, una piazza utopica da cui Lévy ci spedisce messaggi
crittografati di sapore anarcoide. Insomma se ci sono delle possibilità per accomunare l’esperienza informatica e le droghe, c’è forse un potenziale
condiviso di distruzione delle strutture formali simboliche, o perlomeno
così piace pensarla a Žižek, ma ci torneremo a breve. Per il momento un
primo giudizio prudente è quello sulla “trasparenza” dell’era postmoderna
che occulta la macchina che effettua le operazioni, implicando
l’instaurazione di una fiducia ingenua nello schermo. «Il prezzo di questaillusione è l’ “assuefazione” dell’utente all’ “opaca tecnologia” – il
meccanismo digitale “oltre lo schermo” si ritira nella più totale
impenetrabilità, persino invisibilità.»37 E’ proprio in questo punto che la
“sospensione dell’incredulità” di Diodato si traduce in una sorta di fiducia
ingenua nello schermo, la quale riflette tutta la problematica di Žižek, un
uomo che sa bene quanto l’oggetto in discussione sia delicato e
37 Ivi, p.188.
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potenzialmente devastante per la cultura di massa. Ma su questo possiamo
dire tutto e niente, poiché in realtà stiamo sperimentando da pochissimo
tempo le ripercussioni socio-culturali dell’uso delle tecnologie
informatiche, cioè non siamo ancora riaffiorati col senno di poi. Inoltre
stiamo forse parlando di un possibile ritorno al pensiero concreto pre-
moderno, in cui la pura apparenza rimane irriducibile alle sue cause fisiche
e per certi versi è proprio così; dato che l’immagine digitale perde ogni
collegamento con la propria matrice indiziale, da ciò l’evidente sentimento
di dispersione generato da una nave evanescenente di cui non si scorge né
àncora né corpo morto. Ciò che manca è appunto il senso dell’approdosulla terraferma, come se ci si trovasse in una dimensione X, di cui non si
avverte tangibilità, e proprio l’apparenza, questa proliferazione di fantasmi
che ci avviene ormai giorno per giorno è sostenuta da una credenza
insostituibile, quella del suo statuto “illusorio”, essendo generata
“consapevolmente” da un meccanismo artificiale, da un esercito di
macchine. Ma questa è solo un'altra convenzione per principianti, per chi silimita a viverla superficialmente, o perlomeno una proposta naif per la
cultura occidentale in risposta ai cambiamenti sociali legati alla marcia
delle nuove tecnologie. Ecco perché penseremmo facilmente che il mondo
stesso sia solo un'altra illusione di cui non si conosce la vera paternità
d’opera, infatti è lo schermo elettronico che assorbe l’Altro al cospetto di
una nuova natura illusoria producendo consapevolezze simili a questa:«Non c’è una realtà esterna, la vita reale è solo un'altra finestra.»38, in una
parola, Matrix. Ma abbiamo qui un pensiero che illumina il lettore,
nell’avvistamento di un orizzonte da poter bramare, se solo
potessimo reinventare uno spazio nel quale poterci abbandonare del tutto a
piaceri fisici liberandoci dei nostri corpi concreti. In breve, questa visione è
38 Ivi, p.189.
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quella di una condizione di libero galleggiamento nello spazio virtuale nel
quale il desiderio nondimeno sopravvive…39
Credo che il tipo di percezione attiva dello spettatore cinematografico,tramite cui ci si affaccia al mondo delle pulsioni, sia un aspetto che
profetizza in qualche modo la credibilità del medium informatico, grazie ad
entrambi infatti sopravvive il desiderio, non come struttura ingabbiante cui
ci rivolgiamo passivamente, ma come mondo pulsionale in cui si afferra il
pugnale dalla parte del manico, nella piena comprensione della sua
struttura, se ricordiamo come la scienza sia pulsione allo stato puro e latecnologia appartenga ad essa. Quindi è molto probabile che la scienza
produca dei mezzi di comunicazione che tendano a palesare sempre di più
il motore iniziale che la stimola, questa volontà di conoscenza acefala,
desoggettivata, che è pulsione. Nel nostro caso il fatto unico risiede nel
connubio indivisibile tra scienza e immagine, cioè tra scienza e arte, perché
l’immagine deriva il proprio percorso dalla rappresentazione artistica, e da
molto tempo protende i propri tentacoli verso la sperimentazione scientifica
con i suoi tentativi di realizzare prospettive, illusioni ottiche, camere
oscure, macchine da presa, etc. L’immagine è ormai nello schermo,
all’interno di una cornice che radicalizza tutto il significato attribuibile alle
visioni da dare in pasto allo sguardo, essa è “per noi”, in quanto potenziale
banco di analisi di traumi, desideri repressi, bisogni incessanti.
Ricorderemo come alcuni media propongano una sorta di simulazione
virtuale di possibili identificazioni soggettive da incarnare nella nostra vita.
In queste sedi è come se avessimo a che fare con una dimensione che ci
permette di testare i modi che più odiamo o amiamo essere, in vista
dell’esame finale nella realtà, una volta sconnessi dall’ipnotica immersione
in questo spazio mediato e trasparente allo stesso tempo. Uno spazio del
genere estremizza tutto il contenuto di concetti dinamici come
39 Ivi, p.190.
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l’Immaginario e la struttura formale simbolica, aumentandone le possibilità
di relazione e la messa in atto delle varie possibilità di concatenamento di
molti dei loro aspetti contingenti. Una parola chiave di questo nodo
relazionale è l’indeterminatezza del soggetto che si pone ormai come polo
dinamico, nel ricreare continuamente il proprio universo, nell’adattare se
stesso a ogni nuova condizione, secondo Žižek, è Lacan a completare
questa idea inserendovi il suo esatto rovesciamento:
è a livello dell’Immaginario, che – come è noto - Lacan colloca l’emergere
dell’Io nell’atto della subitanea identificazione con l’alienata ed esteriore
immagine-allo-specchio che fornisce l’unità ideale del Sé in contrapposizione
all’effettiva debolezza e mancanza di coordinazione del bambino. La
caratteristica che qui va sottolineata è che ci stiamo occupando di una sorta di
“congelamento nel tempo”: lo scorrere della vita è sospeso, il Reale del
processo vitale dinamico è rimpiazzato da un’immagine “morta”, immobile –
Lacan stesso usa la metafora della proiezione cinematografica e paragona l’Io
all’immagine fissa che lo spettatore percepisce quando la pellicola si inceppa.
Così, già a questo livello elementare bisogna invertire il luogo comune
secondo cui un animale è preso nel suo ambiente circostante, nell’auto-
conchiusa totalità organica di Innenwelt e Aussenwelt [mondo interno ed
esterno], mentre l’uomo può superare questa chiusura, sovvertire
dialetticamente i confini del suo ambiente, costruire un nuovo ambiente
artificiale, e così via – cioè, sì, può farlo, ma ciò che rende possibile questo
superamento è proprio un’eccessiva fissazione sull’immagine-allo-specchio.40
Secondo me la fissazione di cui parla Žižek tenderebbe ad eliminare la
linea divisoria che separa le due dimensioni dello specchio, in vista di una
sorta di attraversamento di questo, cioè portando il soggetto a dimenticare i
confini definiti del proprio corpo in una fusione con le dinamiche emotive e
psicologiche che solitamente lo manipolano violentemente. Immergersi
nello specchio significa “attraversare la fantasia” e non è un caso che il
40 Ivi, p.137
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filosofo sloveno collochi l’atto di formazione e autocoscienza dell’Io
(l’identificazione con l’alienata ed esteriore immagine-allo-specchio)
insieme alla possibile creazione di un ambiente artificiale (come il
cyberspazio), luogo deputato all’estremizzazione dei processi di
costruzione e conoscenza del Sé, creato solo ed esclusivamente alla
condizione di un’ “eccessiva fissazione” sul significato attribuito allo stadio
dello specchio. Ora l’Io per Lacan è in origine il luogo dei misconoscimenti
e ciò a partire da un riconoscimento, quello della propria immagine allo
specchio, evento situato in un tempo (tra i sei e i diciotto mesi) nel quale la
propria immagine biologica viene confrontata ad un’immagine intera di sénella quale l’Io si aliena, si oggettiva, diventando Me (pronome personale
complemento indicante l’Io contrapposto al soggetto). Il bambino, che
inizialmente ha esperienza di un corpo in frammenti, in pezzi, osserva la
propria immagine riflessa e vede se stesso, in seguito si volta verso la
madre e quelli che lo circondano (persone che percepisce come esseri
unitari) e guarda nuovamente l’immagine davanti a sé. Queste azioni gliconferiranno la sensazione che anche lui è un essere integrato. Questa non è
tanto una fase di riconoscimento quanto una fase di costruzione vera e
propria dell’unità del soggetto. In seguito al primo sguardo “traumatico” di
scissione tra Io e Me, l’unità del soggetto si ricompone subito dopo aver
gettato un secondo sguardo verso le persone intorno e di nuovo allo
specchio, ma l’individuo conserverà per sempre memoria di questa primavisione scissa di sé. la madre, indicando lo specchio con il dito, aЀ
rinforzare il “falso riconoscimento” che conduce il bambino a percepire
l’immagine riflessa come la somma fedele del suo intero essere, unità che
per Lacan è totalmente illusoria poiché non si riferisce ad una condizione
interna e preesistente all’immagine, ma si forma proprio grazie
all’identificazione con essa. Infatti l’identità del soggetto altro non è che
una funzione narcisistica che mantiene coesi i vari frammenti del soggetto.
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Ne deduciamo che lo stadio dello specchio esprime un meccanismo di
costruzione in cui l’Io non si costituisce come soggetto, ma come oggetto
composto dall’unione delle varie identificazioni e tutto il processo viene
veicolato dallo sguardo. Inoltre Lacan individua qui l’incipit della storia
dell’Io secondo quel registro chiamato Immaginario che regola la relazione
intersoggettiva (originariamente quella madre-figlio), la quale si basa sulla
struttura del desiderio dell’Altro; in pratica è la chiave d’accesso al mondo
simbolico che ci permette di sostenere il peso del Reale. Ma l’eccessiva
fissazione di cui parlavamo prima non è forse una sorta di incremento di
questo processo? O magari addirittura un’ “attraversamento” di esso?Abbiamo fatto accenno al concetto di narcisismo, vediamo come potrebbe
entrare nel merito di questo discorso. Il mito raccontato da Ovidio nelle
Metamorfosi ci parla di Narciso, fanciullo che usava porsi in maniera
scontrosa nei confronti di coloro che bramavano i piaceri del suo bellissimo
corpo, egli infatti rifiutò ogni spasimante, essendo troppo innamorato di sé
per potersi cedere a qualcun altro. Sua madre, la ninfa Liriope, alla nascitadel figlio, si recò da Tiresia per ottenere una predizione sull’avvenire e il
veggente le comunicò che Narciso sarebbe vissuto fintanto che avesse
evitato di conoscere la propria immagine. Per quanto la madre mise in
guardia Narciso, il fatto avvenne un giorno in cui il ragazzo si trovava nei
pressi di una fonte e, specchiandosi in essa, si innamorò talmente del
fanciullo che vide, da tentare di abbracciarlo, finendo inesorabilmente per affogare. Si tratta di un caso eccessivo di dipendenza dalla propria
immagine (Narciso viene da Narkè, da cui narcosi), di un innamoramento
di sé talmente forte da generare l’esperienza di una scissione nell’identità
speculativa, attraverso la creazione di un doppio. E’ uno dei modi per
raccontare lo stadio dello specchio, ma nel senso del rifiuto di esso, poiché
Narciso, escludendo gli altri dalla propria esperienza, manca l’accesso alla
struttura formale simbolica, alla relazione intersoggettiva. Quindi il mito,
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attraverso la fine tragica che propone ci comunica che non dovremmo
imitare Narciso, se vogliamo partecipare al gioco completamente, ed
includere gli altri nella nostra vita: la società, la religione, il lavoro,
l’amore. Ma come poniamo questo mito nei confronti del cyberspazio? I
mondi virtuali rappresentano la radicalizzazione del rifiuto narcisistico?
Credo di no, piuttosto andando per gradi, possiamo farlo aderire all’ottica
della percezione di sé come doppio, nel rapporto con l’avatar, il vero e
proprio alter ego virtuale. E possiamo anche aggiungere che l’esperienza
dell’avatar, come doppio virtuale, viene avvertita come se fosse quella di
un essere integrato, infatti tra le sue proprietà ricordiamo quella di essereun corpo-immagine, rispecchiante cioè una fusione ideale, la quale viene a
mancare proprio durante lo stadio dello specchio che sancisce l’integrità
del soggetto tramite la fondazione di una delicata dicotomia tra Io-soggetto
e immagine di sé. Il dramma di Narciso è il dramma dell’ “uno”, dell’
“uno” del corpo, corpo unificato per diventare l’oggetto del desiderio
dell’Altro. Egli non può “separarsi” da sé stesso e quindi neanchedall’Altro. Invece il bambino è separato dalla sua immagine allo specchio:
l’Io-soggetto non fa parte dell’immagine riflessa, resta al di fuori dello
specchio, quindi non fa “uno” con la sua immagine: egli può incontrare
l’altro. Invece Narciso è prigioniero della sua immagine e non può
conoscere che un amore narcisistico: soggetto e immagine corrispondono
perfettamente, l’altro è ancora lui stesso. Se il mito di Narciso indica ilconsiglio di non rinchiudersi eccessivamente nel proprio mondo interiore,
professando l’abbattimento di un certo egotismo, a favore della
considerazione dell’Altro e del suo desiderio, il mondo del cyberspazio
sembra riprodurre lo stesso tipo di schema formale, escludendo però il
precetto morale che inebria il racconto. Infatti finora i computer ci
insegnano l’introspezione più assoluta, rinchiudendoci nelle nostre stanze
di fronte agli schermi, o perlomeno promuovono l’illusione di una
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comunicazione diretta, veloce, multipla in cui tante menti de-corporeizzate
vengono a contatto in un’esperienza di simulazione tendenziale della realtà.
In questo senso credo ci sia una differenza sostanziale sul significato
espresso a livello di struttura simbolica. Ovvero sarebbe interessante capire
in che modo il cyberspazio si pone nei confronti della struttura formale
simbolica che regola l’accesso alla norma del desiderio dell’Altro: esso la
rifiuta o continua ad includerla? Innanzitutto, Žižek pensa che questa
esperienza si basi su tre linee di separazione tra la vita reale e la sua
simulazione meccanica:
a) La biotecnologia mina la differenza tra realtà di vita “naturale” e realtà generata
“artificialmente”: già con la tecnologia genetica di oggi, la natura vivente si pone
come qualcosa di manipolabile tecnicamente; cioè di principio la natura in quanto tale
coincide con un prodotto tecnico.[…]
b) In quanto l’apparato della Realtà Virtuale (VR) è potenzialmente in grado di generare
l’esperienza della “vera” realtà, la VR mina la differenza tra “vera” realtà e
apparenza.[…]c) La tecnologia dei Domini Multi Utente (MUD) nel cyberspazio minano l’idea di Sé, o
l’auto-identificazione del soggetto percipiente.[…]La morale è che si dovrebbe
appoggiare questa “dispersione” del Sé singolare in una moltitudine di agenti
concorrenti, in una “mente collettiva”, una pluralità di immagini-di-sé priva di un
centro globale coordinatore, e disconnetterlo dal trauma patologico: giocare nello
Spazio Virtuale mi permette di scoprire nuovi aspetti di “me”, una ricchezza di
mutevoli identità, di maschere senza dietro una persona “reale”, e così di esperire ilmeccanismo ideologico della produzione del Sé, la violenza e l’arbitrarietà intrinseche
di questa produzione/costruzione.41
Abbiamo già delineato grazie all’apporto di Pierre Lévy, l’importanza
teorica dell’impiego di tecnologie “molecolari” (biotecnologie, ingegneria
genetica, informatica) che operano un controllo attivo a livello di
microstrutture, di contro alle usurate tecnologie “molari” che considerano
41 Ivi, p.190-191.
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gli oggetti in blocco, a livello di massa, senza tenere conto dei singoli
elementi che li compongono. Il secondo punto invece, che rappresenta la
paranoia fondamentale, potrebbe essere bypassato grazie ai concetti di
Diodato che ho analizzato nel primo capitolo; le sue riflessioni ci portano
infatti ad escludere che il cyberspazio rappresenti un orizzonte di
sostituzione della realtà “vera”, proprio a causa, lo ripetiamo, del suo
carattere di simulazione tendenziale, nel senso che ricostruisce la realtà in
maniera incompleta. Per quanto riguarda il terzo punto, notiamo come
Žižek faccia riferimento in maniera indiretta proprio a un pensiero de
L’intelligenza collettiva di Lévy e della capacità presente nei MUD dicostruire uno spazio interattivo in cui deflagrino molteplici identificazioni
del Sé, con l’esaudirsi della possibilità di analizzare approfonditamente le
dinamiche emotive e psicologiche, per una attenzione verso la loro
costruzione ed evoluzione. Quindi aldilà delle preoccupazioni, il nostro
filosofo sembra comprendere a pieno alcune potenzialità del mezzo.
D’altronde afferma che
con la Realtà Virtuale e le biotecnologie, abbiamo a che fare con la perdita
della superficie che separa l’interno dall’esterno. Questa perdita mette a
repentaglio la nostra più elementare percezione del “nostro stesso corpo” in
quanto relazionato al suo ambiente.[…]Da una parte, l’interno è sempre
esterno: con il progressivo impianto e sostituzione dei nostri organi interni, le
protesi tecno computerizzate (bypass, pacemaker…)[…]Dall’altra, l’esterno èsempre interno: quando siamo immersi direttamente nella Realtà Virtuale,
perdiamo il contatto con la realtà – le onde elettromagnetiche bypassano
l’interazione dei corpi esterni e attaccano direttamente i nostri sensi.42
Come per le droghe si tratta di una stimolazione diretta dei centri neuronali,
ed è questo secondo Žižek, il punto fondamentale che determina il distacco,
la perdita del senso di realtà. Mettere in scena nella realtà virtuale una
42 Ivi, p.192
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fantasia ci permette di oltrepassare il punto morto della dialettica del
desiderio e il suo rifiuto intrinseco. E questo punto ci chiarisce la possibilità
di un attraversamento della fantasia tramite l’immersione nello schermo
virtuale, ma il filosofo sloveno continua decretando che in linea di massima
ciò che si perde all’interno delle comunità virtuali è proprio l’abisso
dell’Altro, del resto credo che invece di svanire, questa componente si trovi
cristallizzata nel nuovo mondo del cyberspazio. L’Altro non può perdersi,
dato che, sebbene le relazioni intersoggettive istaurate nelle comunità
virtuali, potrebbero essere interpretate come inautentiche o funzionali, nulla
ci può sottrarre del tutto l’illusione di questo contatto, e con esso laconsapevolezza di essere sottoposti ad un giudizio, un dialogo. Si tratta di
un contesto di indecidibilità che Žižek osserva sparire, mollare gli ormeggi
e naufragare verso altri lidi, verso centri di interesse che non ci
appartengono più. Ma, ecco l’ambiguità espressa dal nostro autore, egli non
si astiene dal definire in modo preciso la dinamica dello slittamento delle
identificazioni all’interno della RV, cioè il plausibile sviluppo di unadinamica costruttiva a livello psicologico, supportato da Lacan anche
nell’ennesimo passo che presento qui:
Sarebbe a dire: “i molteplici Sé” esternati sullo schermo sono “ciò che voglio
essere”, il modo in cui mi piacerebbe vedere me stesso, le rappresentazioni
del mio ego ideale;[…]il “soggetto decentrato” di Lacan non è semplicemente
una molteplicità di buoni vecchi “Sé”, di centri parziali; il soggetto “diviso”
non significa che ci sono semplicemente più Ego/Sé in uno stesso individuo
come nei MUD. Il “decentramento” è il decentramento di $ (il vuoto del
soggetto) rispetto al suo contenuto (il “Sé”, in nodo dell’identificazione
immaginaria e/o simbolica).43
Il decentramento rileva l’oscillazione tra identificazione simbolica e
immaginaria, fino all’indecidibilità su dove sia realmente la mia essenza,
43 Ivi, p. 201.
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nella maschere simboliche che mi attribuisco o nel mio “sé reale”, è per
questo che ora ci beviamo un po’ di Lacan, quando parla di questo contesto
in rapporto al transfert psicanalitico:
Ecco ciò che ci porta alla funzione del transfert. Infatti questo indeterminato
di puro essere che non ha alcun accesso alla determinazione, questa posizione
primaria dell’inconscio che si articola come costituito dell’indeterminazione
del soggetto – ecco ciò cui il transfert ci dà accesso, in modo enigmatico. Ѐ
un nodo gordiano che ci conduce a questo – il soggetto cerca di avere la sua
certezza.44
Ebbene oggi non trovo uno strumento migliore per vivere questo
meccanismo sottile, una chiave di accesso all’indeterminatezza più assoluta
che mantenga aperto e vivo il limite da ricercare incessantemente: una
chiara e delineata percezione della propria identità. La prima conclusione di
Slavoj Žižek per questo non-luogo insondabile è: «il cyberspaziosemplicemente radicalizza la scissione costitutiva dell’ordine simbolico: la
realtà (simbolica) era già-sempre “virtuale”».45 Infatti ogni accesso alla
realtà simbolica prescinde il supporto di un implicito ipertesto
fantasmatico, ma è proprio il concetto, troppo aperto, di ipertesto a
conferire lo scettro della paranoia nelle mani di Žižek. Cioè il fatto è che
nell’ipertesto elettronico non c’è più una versione definitiva, ogni opera,ricerca, è effettivamente aperta a qualsiasi tipo di modifica in ogni
momento, a nulla si può mettere un punto. questo che determina laЀ
sospensione della funzione del Master, il collasso dell’argine del
Significante-Padrone, che secondo lui porrebbe il soggetto di fronte ad un
ambiguità nei confronti del desiderio. La preoccupazione è molta proprio
perché il bisogno del Master sorge in risposta alla confusione del soggetto,
44 Jacques Lacan, Il seminario, Libro XI, I quattro concetti della psicoanalisi 1964, cit., p. 131.
45 Slavoj Žižek., L’epidemia dell’immaginario, cit., p.204.
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confusione di cui ci pervadono i media di oggi, ma soprattutto la pubblicità
che ci bombarda visivamente da decenni con il suo motto “fai la scelta
giusta”. I nuovi media privano continuamente il soggetto della cognizione
di ciò che vuole, rivolgendosi ad un individuo estremamente malleabile che
necessita di una spinta, un’iniezione di fiducia per convincersi delle proprie
scelte, ecco l’attaccamento al Grande Altro, al Master, che subiamo
solitamente e in linea inferiore da sempre, grazie alla presenza confortante
di Dio. Tutto ciò comporta, secondo Žižek, delle libertà impensabili, che
sono chiaramente quelle di Lévy, ma per lui rappresentano un impedimento
poiché quando tutto il peso della scelta, della libertà di azione, è su di te, ilGrande Altro ti domina completamente, sei totalmente manipolato.
Teoricamente si tratta della paranoia di un controllo celato ulteriormente
trasposto in termini diversi, nel linguaggio gergale zizekiano, che rende in
maniera inopinabile il senso devastante dell’imposizione senza precedenti
di una chiusura radicale. Inoltre, sempre seguendo la sua particolare ottica
pessimistica, la velocità con cui si viene a contatto con l’esperienzadell’Altro nel cyberspazio, compresa la sua prossimità, richiama un senso
di vicinanza della jouissance stessa che è, come sappiamo, insostenibile,
nauseante, claustrofobica se si avverte la mancanza della struttura
simbolica che dovrebbe fare da spessore distanziandoci dall’orrore del
Reale. Ma come? In che modo devo prendere le tue parole se prima affermi
che il cyberspazio semplicemente radicalizza la scissione costitutivadell’ordine simbolico, e che la creazione di un ambiente artificiale possiede
determinate proprietà così tanto estraibili da un eccessiva fissazione
sull’immagine allo specchio? Penso che una contraddizione derivi dal
dubbio, ma tendo a dare meno peso a considerazioni pessimistiche poiché
in questo caso le ritengo maggiormente superficiali, le attribuisco al frutto
di un’aria malsana, alla doxa che in questo periodo non fa altro che vedere
le cose in maniera negativa, assillandoci con le sue considerazioni
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distruttive e apocalittiche. Invece ripongo fiducia nella ricerca e nello
studio, cioè nella visione costruttiva che Žižek ha di questo nuovo mezzo
comunicativo, opinione che esprime in maniera lampante in diversi passi
del suo testo. A sostegno di questa ipotesi aggiungo che è proprio Lacan,
nell’affermare che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, a
permettere al filosofo sloveno di operare le proprie anamorfosi sui prodotti
culturali e di effettuare parallelismi con la psiche dell’uomo che ne
usufruisce. A mio parere il Significante-Padrone, che regola i modi di
intrusione dell’Altro nelle coscienze individuali, può essere facilmente
percepito come “cristallizzato” nello schermo-specchio, un Grande Altroche radicalizza ulteriormente le strutture formali simboliche, una presenza
che si sente, ma estremamente finzionalizzata dal mezzo, grazie a questo
scarto l’illusione che crea la sospensione dell’incredulità si adagia a
strumento analizzabile ed emendabile. In questo senso possiamo creare una
dimensione meno ossessiva della questione, nel vedere questo nuovo
universo come una “virtualità” in senso stretto, cioè una “possibilità” plausibile di esternare il nostro lato represso, una sorta di transfert salvifico
che ci lasci esternare le difficoltà della vita reale nella RV elaborando nel
modo più funzionale le componenti delle nostra identificazione soggettiva.
Ritornare indenni alla vita normale potrebbe scagionare il cyberspazio da
quel senso di eccessiva pienezza, il vero pericolo della vicinanza dell’Altro
in agguato col suo modo di jouissance troppo intrusivo, claustrofobico.Forse l’Altro è veramente e soltanto oggetto di rappresentazione nello
schermo, il che ci porta a desublimarlo, portando sulla terra l’Idea la quale,
ormai immanente al mondo sensibile, riduce quella distanza concettuale
che rende difficoltose le ricostruzioni, le elaborazioni e le scelte del
soggetto. Secondo la concezione più costrittiva di Žižek, la consapevolezza
che l’Altro non esista imporrebbe al soggetto una schiavitù ancor più
radicale, ma scongiuriamo del tutto questo vicolo cieco eleggendo il nostro
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nuovo “Altro miniaturizzato” nello schermo virtuale a qualcosa di
misurabile, correggibile digitalmente, cioè come un’ “Altro emendabile”.
Se l’idea di cyberspazio è un “sinthome” della nostra costellazione socio-
ideologica, ma sembra sfuggire alle dinamiche del controllo, del diritto
d’autore, siamo portati a rifiutare il pensiero di essere assoggettati
unicamente alla paranoia della pervasività indiscriminata, di un dominio
ulteriore delle nostre esistenze (o perlomeno non superiore a quello già
esistente). Anche se i prodotti culturali degli ultimi tempi ci portano a
queste inflessioni mentali pessimistiche, è possibile ritrovare in altri lavori
delle simboliche più vantaggiose verso possibili equilibri mentali come incerti spunti di P. Dick, di E. A. Poe, di W. Gibson. Tutto questo potrebbe
significare la reinvenzione di uno spazio nel quale poterci abbandonare ai
piaceri fisici in una condizione di libero galleggiamento, alla stregua di un
“dolce naufragar” leopardiano, se lo si capta nell’ambito di un riuso di
natura quasi letteraria.
La prospettiva della digitalizzazione completa di tutte le informazioni (di tutti
i libri, i film, i dati… computerizzati e disponibili istantaneamente) promette
la quasi completa materializzazione del Grande Altro: là fuori nella macchina,
“ogni cosa verrà scritta”, avrà luogo un completo raddoppiamento simbolico
della realtà.[…]forse, la virtualizzazione radicale - il fatto che l’intera realtà
verrà presto “digitalizzata”, trascritta, raddoppiata nel “Grande Altro” del
cyberspazio – redimerà in qualche modo la “vita reale”, aprendola a unanuova percezione, proprio come Hegel aveva già presentito che la fine
dell’arte (in quanto “apparenza sensibile dell’Idea”) – che si verifica quando
l’Idea si ritira dal mezzo sensibile entro la propria più diretta espressione
concettuale – avrebbe liberato allo stesso tempo la sensibilità dalle costrizioni
dell’Idea?46
46 Ivi, p.234-235.
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Slavoj Žižek chiude così il capitolo Il cyberspazio, o l’insostenibile
chiusura dell’essere lasciando aperto uno spiraglio che impone un ulteriore
analisi, nell’ottica di uno sforzo di ricerca che andrebbe alimentato per far
chiarezza sui significati contenuti da questo argomento così inafferrabile. Il
motivo della sua imperscrutabilità risiede nel fatto che è difficile
comprendere un ambito dal quale siamo tuttora narcotizzati e per cui siamo
costretti a sperare in un riaffioramento completo, per sondarne l’aspetto
una volta in superficie, sulla scorta di una lucida cognizione di causa.
CAPITOLO V°
I fantasmi del cinema
Sembra ormai chiaro come il fine ultimo di questo lavoro sia stato quello di
rispondere ad un esigenza ben precisa, quella di reagire ad uno stimolo, lo
zampillo che ha permesso lo sviluppo della tensione creativa, è stato, nel
mio caso, un banco di analisi ancora fresco e in pieno sviluppo, perciò unariflessione di questo tipo potrebbe esservi sembrata prolissa in alcuni punti
e abbastanza lacunosa in altri. I tentacoli di uno scrittore alle prime armi
sono desiderosi di ogni cosa e tendono ad abbracciare elementi che vanno a
comporre mano a mano un insieme sempre più grande, spinto ai limiti
percepibili da un orientamento dei più acuti, perciò spero di non essere
biasimato per aver tentato di tracciare un percorso così vasto, seppur
incorniciato in un ambito concettuale ben delineato e preciso. Concludo
esaminando alcuni film che credo possano entrare nel merito, e magari
gettare degli spunti anche in relazione al dialogo tra i media su cui il mio
ambito di studi si propone di far luce, dato che oggi proprio i mezzi di
comunicazione del passato si trovano praticamente tutti nell’ immane
Cariddi dello schermo informatico. Nella raccolta di saggi Dello sguardo e
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altri oggetti47 , Žižek compie un’analisi dettagliata di film che
richiamerebbero l’attenzione su alcuni punti che fanno parte dei suoi studi
sull’Immaginario, la dialettica desiderio-pulsione, il doppio e il Reale in
tutte le sue forme. La prima digressione interessante è quella su Alfred
Hitchcock e sui “sinthomi” rilevabili all’interno delle sue trame, sorta di
leitmotiv che non hanno un preciso significato da decodificare, ma, con la
loro ripetitività, danno corpo a un elementare matrice di jouissance: ad
esempio la “vertigine” in Vertigo (Hitchcock A.,Usa,1958 ). Nel compiere
le sue analisi Žižek elimina qualunque forma di gerarchia tra cinema e
teoria, operando un passaggio fondamentale di svincolamento, affermandoche
il cinema non rispecchia la realtà ma la produce: non solo nel senso
ideologico per cui il cinema influenza direttamente i nostri modi di
comportarci, di vestire e di parlare, spostando nel contempo sempre più in là
la linea che separa il vero dal falso, ma anche e soprattutto nel senso per cui
nel cinema ne va di un’esperienza particolare che cambia lo statuto soggettivo
dello spettatore.[…]Anzi, proprio il suo rapporto fondamentale e particolare
con una diversa concezione dello sguardo è, per Žižek, ciò che rende il
cinema più reale della realtà: il cinema è il luogo in cui, attraverso lo sguardo
inteso come oggetto, emerge il Reale.48
L’esperienza ci insegna che un certo tipo di cinema ha la capacità di
trasportarci in un luogo illuminante, dove l’apparire dello sguardo apre la
prospettiva ad un’esperienza del sublime talmente forte da risultare diretta
e immediata: percepiamo situazioni bizzarre che sono totalmente aliene
rispetto alla realtà conosciuta; infatti quest’ultima nasconde il senso di
queste visioni imprigionandolo nel risvolto fantasmatico implicito, e tutto
47
Slavoj Žižek., Dello sguardo e altri oggetti, Saggi su cinema e psicanalisi, Campanotto Editore, Pasian di Prato (UD)2004.
48 Ivi, p.13-14.
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ciò avviene grazie alla barriera dell’Immaginario che garantisce un
efficacia simbolica, volta a bilanciare un certo equilibrio all’interno di un
dato ambiente culturale. Ma qual è lo statuto dello sguardo di cui stiamo
parlando? Ecco una serie di connotazioni di stampo lacaniano:
Lo sguardo non “appartiene” al soggetto che vede né all’(altro) soggetto dal
quale il soggetto viene visto[…]lo sguardo si situa “dietro” l’immagine – che
invece appartiene al soggetto, visto che è da lui introiettata e proiettata;[…]lo
sguardo è cieco, ovvero, lo sguardo non corrisponde all’occhio del soggetto
né a quello dell’altro;[…]lo sguardo sta quindi dalla parte dell’oggetto (reale),
di un vuoto non assoggettabile – lo sguardo corrisponde all’oggetto non
oggettivato che mi “guarda” (senza vedermi).49
L’impressione che si avverte nello star seduti in una sala cinematografica, è
effettivamente quella di manipolare ma soprattutto lasciarsi agire da uno
sguardo che si fa oggetto, in termini concreti si ha a che fare con una
visione particolare, un punto di vista necessariamente neutro, cieco, unasorta di sguardo impossibile che Žižek non a caso pone tra i veli strutturali
dell’Immaginario. Ma la dimensione più significativa è per l’appunto
questa addomesticazione del Reale pulsionale, del recesso più profondo
delle nostre verità interiori, che permette allo spettatore di giocare con le
immagini e i sentori che scaturiscono dalla fruizione di esse. Parliamo di
occhio e sguardo, due termini operanti tra loro grazie a una certa schisi, in
cui si manifesta la pulsione a livello del campo scopico.
Fin di primo acchito, noi vediamo, nella dialettica tra occhio e sguardo, che
non c’è affatto coincidenza, ma fondamentalmente inganno. Quando
nell’amore, domando uno sguardo, quel che c’è di radicalmente
insoddisfacente e di sempre mancato è che - Tu non mi guardi mai là dove io
ti vedo.[…]A livello della dimensione scopica, in quanto in essa gioca la
49 Ivi, p.19.
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pulsione, si ritrova la stessa funzione dell’oggetto a reperibile in tutte le altre
dimensioni.[…]In modo generale, il rapporto dello sguardo con ciò che si
vuole vedere è un rapporto di inganno. Il soggetto si presenta come altro da
ciò che è, e quello che gli si dà da vedere non è ciò che vuole vedere. Per
questo l’occhio può funzionare come oggetto a, vale a dire a livello della
mancanza (-φ). 50
Tornando ad Hitchcock, i “sinthomi” o leitmotiv dei suoi film condensano
un certo investimento libidico dal momento che lo sguardo sta dalla parte
dell’oggetto che rappresenta il punto cieco nel campo del visibile; grazie a
questa dinamica, è l’immagine stessa a fotografare lo spettatore, a porlo difronte all’insondabile abisso della propria impossibilità. Si tratta di oggetti
chiave come la vertigine, la scala, gli stessi uccelli, che rappresentano la
materializzazione della “schiavitù” simbolica umana, l’apparizione del
desiderio dell’Altro. sotto questa luce che i sinthomi hitchcockianiЀ
appaiono ripetutamente dando corpo ad un matrice di jouissance smodata.
Il punto è che l’impossibilità di determinati sguardi, sorge soprattutto dalmomento in cui ad irradiarli sono oggetti veri e propri, materia inorganica
che pulsa una vibrante energia, nel ripercuotersi violentemente scuotendo
la pelle dei personaggi, e degli spettatori in sala.
Ci troviamo qui di fronte all’antinomia tra occhio e sguardo presa allo stato
puro: l’occhio del personaggio – il soggetto – vede la casa, ma la casa –
l’oggetto - sembra poter ritornare lo sguardo,[…]questo sguardo, in effetti è
mancante, il suo status è puramente fantasmatico.51
Il discorso vale per Mulholland Drive (Lynch D.,Usa,2001), in cui le due
protagoniste, immerse nella ricerca dell’identità della bruna, si ritrovano di
fronte ad una casa, dove reputano ci possano essere degli indizi importanti.
Lynch gioca qui con un campo-controcampo nel mostrare prima le due50 Jacques Lacan, Il seminario, Libro XI, I quattro concetti della psicoanalisi 1964,cit., p 104-105-106.
51 Slavoj Žižek., Dello sguardo e altri oggetti, Saggi su cinema e psicanalisi,cit., p.34.
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donne, dallo sguardo impaurito, sondare la facciata della casa, e in seguito
la casa stessa, in un’immagine tendente al deforme, che sembra davvero
ritornare lo sguardo incutendo loro timore. Un espediente di suspence cui
solo il cinema può far ricorso e che viene impiegato per anticipare un
momento tragico: la scoperta di un cadavere che ricorda fortemente la
figura di una delle due protagoniste, momento che si eleva a climax
psicologico, per il grande effetto di orrore provocato. In effetti secondo la
teoria cinematografica lo sguardo è il motore che dà luogo
all’identificazione, nel senso di ricognizione da parte dello spettatore delle
immagini che gli scorrono davanti, cioè egli si appropria letteralmente diesse riconoscendole come proprie.
L’immagine non sembra soltanto rappresentare il soggetto in modo perfetto,
essa sembra anche essere un’immagine della perfezione del soggetto. Questo
rapporto pare basarsi su una definizione comune del narcisismo: il soggetto
s’innamora dell’immagine di se stesso in quanto immagine del suo io ideale
[ideal self ]. Definizione comune, salvo poi rendersi conto che, secondo questa
analisi, il narcisismo costituirebbe la struttura che orchestra un rapporto
armonioso tra l’io [self] e l’ordine sociale[…], mentre invece la teoria
psicoanalitica sostiene che il rapporto narcisistico del soggetto con se stesso
entra in conflitto con e disturba i rapporti sociali.52
Premesso che, al cinema il soggetto assume l’immagine come una
rappresentazione piena e convincente di se stesso e del suo mondo, ed ha
imparato, con l’accumularsi degli anni, a metabolizzare coscientemente il
carattere di costruzione illusoria di questo meccanismo, imprimendo su di
sé la cornice cinematografica, come un doppio effettivo della realtà
conosciuta, vi illustro il mio pensiero a riguardo. Ciò che vorrei aggiungere
sul rapporto tra cinema e narcisismo, è intanto, l’inequivocabile proprietà
della settima arte di vampirizzare letteralmente la vita, donando nuova
52 Ivi, p.223.
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fragranza ad un antropocentrismo, minato da rivoluzioni copernicane,
darwinismo e via dicendo. In questo vi è un recupero formale della
centralità auto-esibita dell’essere umano. Ma soprattutto, se pensiamo al
narcisismo tout court, la riflessione ci traghetta verso una rivisitazione del
mito antico. L’Altro emendabile del cyberspazio, che abbiamo cercato di
delineare nel capitolo precedente, si mostra qui come un accenno, un
sospiro, se il mito di Narciso riproduce in un certo senso la struttura
formale del cyberspazio, nella ricerca di un’introspezione che includa sì
l’altro, ma in forma miniaturizzata, cristallizzata, e correggibile
“digitalmente”, abbiamo compreso come la finestra virtuale abbia lacapacità di manipolare le matrici delle dinamiche psicologiche. Ma il
cinema cosa ci insegna, in quanto doppio? Che la realtà carpita entro la
cornice è strutturata secondo delle regole meccaniche (il cinematografo), e
semiotiche (i cinemi pasoliniani) ben acquisite dallo spettatore. come seЀ
l’immagine perfetta di sé, da cui ci lasciamo catturare quando siamo in
balia di un film, richiami un necessario potenziamento del mito. Cosasarebbe successo se Narciso fosse stato fin da subito al corrente della
profezia di Tiresia, cioè conoscesse già le regole che strutturavano la sua
realtà? Ciò gli avrebbe permesso di affacciarsi ogniqualvolta avesse voluto
alle sponde dello specchio lacustre che altrimenti avrebbe sancito la fatale
unità col suo io-ideale. Il cinema ci propone così un assaggio del rifiuto
della struttura del desiderio dell’Altro, con la sicurezza di non affogare inquesto abisso, proprio a causa della nostra piena consapevolezza di cosa c’è
dentro e dietro lo schermo, ma principalmente ci offre una chiave di lettura
di questo schema sotteso, proponendo la possibilità di giocare con la
pulsione scopica e trasgredire, incarnare, volare, auto-analizzarsi. Mi
ricorda la parola di conforto di mia madre quando da piccolo osservavo
delle scene crude: “Non avere paura, è tutto un gioco, tutto finto!”. Con il
conseguente messaggio implicito: “Goditi questa finestra sulle tue fantasie,
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ora non potrai subirla a tal punto da perderti nel suo abisso di orrore!”. Una
dimensione così profonda ed elaborata dello sguardo, che si sviluppa a
pieno nell’ambito della pulsione acefala, è presente in tutti quei film
d’autore che evidenziano scene bizzarre, conturbanti in strutture narrative
insolite attraverso trovate totalmente innovative che mirano a produrre
nuovi modi per trasferire e comunicare il senso, imponendo d’altronde una
riflessione individuale ed escludendo cioè il vacuo nonsense presente in
tante altre opere. Infatti il dato più rilevante, che certo cinema regala al
mondo, è dichiarato apertamente da Žižek in queste righe:
Questa caratteristica ci permette di inserire Hitchcock in una schiera di artisti
la cui opera ha anticipato l’universo digitale odierno, gli storici dell’arte
hanno spesso notato il fenomeno per il quale delle forme artistiche ormai
vecchie cominciano a forzare i propri limiti usando procedure che, almeno dal
nostro punto di vista retroattivo, sembrano puntare verso una nuova
tecnologia; soltanto quest’ultima sarà capace di servire da “correlato
oggettivo” più “naturale” e appropriato alle esperienze di vita che le vecchieforme artistiche tentano di rendere attraverso le loro sperimentazioni. Un
intero insieme di procedure narrative usate nei romanzi del diciannovesimo
secolo non solo preannuncia così gli stili narrativi standard del cinema (si
pensi all’uso complesso del “ flashback ” in Emily Brontë o a quello del
“montaggio incrociato” e dei “primi piani” in Dickens) ma, a volte anche
quelli del cinema modernista (si pensi al “fuori campo” in Madame Bovary).
[…]Oggi giorno non stiamo forse per avvicinarci a una simile soglia? Unanuova “esperienza di vita” è nell’aria, una percezione della vita che fa
esplodere le forme narrative centrate e lineari rendendo l’esistenza un flusso
multiforme;[…]Si potrebbe obiettare che l’ipertesto del cyberspazio
costituisca già il nuovo mezzo in cui questa nuova esperienza di vita trova il
suo “naturale”, appropriato “correlato oggettivo”; perciò è solo con l’avvento
dell’ipertesto del cyberspazio che possiamo effettivamente intendere ciò a cui
puntavano registi come Altman, Kieslowski e, implicitamente, lo stesso
Hitchcock.53
53 Ivi, p.40-42.
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In questo modo il filosofo sloveno ipotizza il potere profetico di opere
testuali che hanno segnato in qualche maniera delle cesure particolari nel
sovvertire le regole narrative classiche, esponendo il fruitore moderno adambiguità interpretative ed a sforzi di comprensione non indifferenti.
Autori come Lynch, Hitchcock, Bergman, Buñuel, Tarkovski, ci indicano
delle strutture che si immettono sui tracciati impostati dal progresso
culturale. Un ragionamento del genere segue la logica in cui ogni mezzo di
comunicazione anticipa il successivo esprimendosi grazie ad opere che
mostrano, ad esempio, scenari fantasmatici duali, e posti in sequenza, iquali si risolvono in un finale che sintetizza entrambi. Oppure il criterio si
adatta alle rappresentazioni, su livelli differenti, dei momenti di verità
subiti da identità disintegrate e moltiplicate a seconda del grado di
scompaginamento della realtà. Se l’essere umano è tale e quale al suo
“milieu”, cioè tende a rispecchiare l’ambiente che lo circonda, basterà
dotare un personaggio di una serie di qualità bizzarre, insolite, che potranno risultare congrue a quelle del luogo in cui si muove e comunica.
Un po’ come in Eraserhead (Lynch D.,Usa,1977), il cui mondo morboso, si
allinea, mormora, ci restituisce le inquietudini del protagonista a tal punto
da non farci mai uscire dal surreale, donandoci la sensazione di esplorare
fino alla fine le viscere della mente, tanto che la realtà ci sembra essere
unicamente la proiezione eidetica del soggetto presente sull’azione. E in
molti film di Lynch la realtà asettica viene presentata in maniera lineare
rispetto al suo osceno supplemento fantasmatico, osserviamo quindi una
realtà cosiddetta “normale” insieme al suo risvolto implicito, che spesso
corrisponde ad un lato oscuro o traumatico: si pensi a opere come Blue
Velvet (Usa,1986), Strade Perdute (Usa,1997) e Mulholland Drive
(Usa,2001). Il parallelismo con le tecniche innovative presenti nel mondo
del cyberspazio è relativo soprattutto alla presenza ingente
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dell’Immaginario in molte delle sue manifestazioni tanto qui quanto nelle
opere che corrispondono ai criteri citati poc’anzi. Anche se a molti
potrebbe sembrare un legame troppo forzato, tendo ad essere d’accordo con
Žižek dal momento che sostiene, in un libro così incentrato sul dialogo
teorico, e non vincolante, tra critica cinematografica e psicanalisi lacaniana,
un parere a sostegno dell’idea che certe opere anticiperebbero le tematiche
del digitale, della rete, della cybercultura. bizzarro, ma mentre leggevo laЀ
sua raccolta di saggi ero come convinto, che la parola cyberspazio sarebbe
saltata fuori da un momento all’altro, perché si trattava di una connessione
che stavo covando proprio mentre cercavo di entrare nel suo universoconcettuale. C’era come un sentiero che mi portava irrimediabilmente
verso quello che stavo ricercando, e per di più, non potevo pensare che
Žižek escludesse il nuovo mezzo dalle proprie riflessioni sul cinema,
essendo queste puntate potenzialmente verso ulteriori accenni, spunti di
riflessione. Sul tema onirico del doppio, c’è ad esempio qualcosa da dire su
Mulholland Drive, infatti la trama a mio parere dispiega lo svelamento diun rimorso, quello da parte di Diane, per aver commissionato l’omicidio
della sua amica attrice Camilla: sentimento che si sviluppa in maniera
estremamente articolata, nella realtà onirica creata dalla protagonista. In
questa realtà è evidente lo slittamento delle identificazioni, lo scambio di
identità, operato dalla mente di Diane. La cosa interessante è che Lynch
non utilizza dei segni di punteggiatura chiari per delimitare il passaggio dauna soglia all’altra, però le pone consequenzialmente, in maniera arbitraria
ma non sregolata, operando quindi una sorta di passaggio dalla struttura
naturalmente verticale delle due realtà, ad una struttura appunto
orizzontale, lineare, creando i propri segni particolari di accesso: uno di
questi è il buco, luogo deputato all’attraversamento della fantasia fin dal
suo primo lungometraggio Eraserhead . Questo buco, può essere
tranquillamente rapportato allo schermo elettronico, un oggetto che
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effettivamente ci risucchia nella sua instabile e profonda realtà che obbliga
continuamente il fruitore ad effettuare le sue carrellate ottiche per
immedesimarsi nei dispositivi utilizzati al fine di appagare i propri bisogni.
Tornando al film, la Diane di Mulholland Drive cerca di instaurare un
circuito alternativo, che diremmo pulsionale, in cui accalappiare le funzioni
dei personaggi del suo mondo, per poterli regolare, manipolare a suo
piacimento: nel sogno diviene infatti un’attrice apprezzata, una donna
sicura di sé, e generosa nei confronti degli altri. Inoltre non si astiene,
all’interno della propria fantasia, ad aiutare Rita (la trasfigurazione di
Camilla), che, vittima di un’amnesia, cerca la propria identità. E non èforse questo l’aiuto che lei stessa vorrebbe nella vera realtà? Cioè quella di
trovare un posto, un volto tra i volti di Hollywood? Non è un caso che
l’amnesia di Rita, avvenga a causa di un incidente automobilistico su
Mulholland Drive, la strada che idealmente divide Hollywood dal resto del
mondo. Essendo probabilmente un sogno, la realtà creata da Diane si
dissolve nel momento della presa di coscienza di un’impossibilità, quella dioperare una volizione su di essa; del resto il sogno darà sempre un’illusione
di passività, e ci farà esperire comunque il senso di alterità di una visione
prodotta realmente da noi, una visione che raffigura simbolicamente tante
sfaccettature della nostra identità. Diane ricerca un luogo in cui i
misconoscimenti operati nel sogno seguano delle regole emendabili, un
approdo per uscire dal flusso vorticoso che la annega nella propria apatiaquotidiana. Se Lynch non ha mai voluto operare una decodifica dei propri
film, è proprio perché raffigurano delle verità uniche, inoppugnabili,
l’interpretazione ci porterà sempre verso una soluzione del genere, forte
dell’evidenza di uno schema strutturale, che si avvicina paurosamente al
minimo comune denominatore di tutti gli spettatori possibili. Ecco lo sforzo
di Lynch, metterci in contatto con una dimensione parallela di analisi,
quella operata dall’attraversamento della fantasia, che svela la struttura del
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desiderio dell’Altro: una chiave d’accesso alla “lamella” lacaniana, il
nucleo condensato e malleabile della libido. Rivedendo Eraserhead, mi ha
impressionato quell’oggettino, l’esserino che Henry deposita dentro il suo
armadietto totemico nella propria stanza. Quando l’uomo è in preda alle
sue ossessioni, relative alla paternità e alla completa spersonalizzazione che
essa comporta, il mobiletto si apre e il nucleo della libido, inizia a danzare
in maniera forsennata passando da un foro all’altro della terra, e finendo in
un grido stilizzato, un vuoto in cui veniamo risucchiati improvvisamente: è
il segnale che porta lo spettatore ad identificarsi col protagonista, nel
compiere il passo finale della propria cura, l’uccisione del neonatomostruoso, o fallo castrante simbolico, dopo che il piccolo lo ha deriso per
la sua disfatta nelle questioni sentimentali. Eliminato il blocco mentale, il
trauma castrante, il protagonista sarà libero di godersi l’abbraccio angelico
con la ragazza del termosifone, lo spirito metafisico, ma già presente nel
palco, già miniaturizzato nello schermo, che lo spinge a compiere il gesto
svincolante, liberatorio. Ora capiamo qualcosa in più che va a collimare colnostro discorso. Vediamo ora qual è lo sconvolgimento primario di
Vertigo:
La furia omicida che investe Scottie quando scopre infine come Judy – che lui
stesso aveva cercato di trasformare in Madeleine – sia in realtà (la donna che
riteneva essere) Madeleine, rappresenta alla perfezione la furia caratteristica
di un platonico il quale si rende conto che l’originale che vuole ricostruire
[remake] in una copia perfetta è già, in se stesso, una copia. In questi casi, lo
shock non è causato tanto dal fatto che l’originale si rivela essere una
semplice copia – inganno contro il quale il platonismo ci mette costantemente
in guardia – ma piuttosto dal fatto che (ciò che supponevamo fosse) la copia
è in realtà un originale.54
54 Ivi, p.68.
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La copia è in realtà un originale: è la riproducibilità tecnica, l’avvento del
digitale, la maschera opaca ma eterea della tecnologia.
Judy travestita da Madeleine non era una sua copia, ma una delle proprie
identificazioni, forma che ha dovuto incarnare per portare a termine il suo
compito delittuoso insieme ad Elster, l’uomo che le ha commissionato il
lavoro. Una volta messa in scena la morte accidentale di Madeleine, i due
hanno potuto sbarazzarsi della vera moglie. E il testimone inconsapevole
della finta morte accidentale, è proprio Scottie che viene strumentalizzato
per condurre a buon fine il vero assassinio della moglie di Elster, il cui
corpo verrà fatto sparire subito: egli è vittima di un teatro costruitoappositamente per lui. E per di più, Scottie si innamora perdutamente di
questo personaggio, reale, emulato, finto, doppio. Tutto ciò non ha molta
importanza, ma il senso è quello di un amore che si instaura grazie
all’inganno, condizione necessaria al dialogo amoroso, secondo Lacan. Un
amore esperito in una dimensione parallela, eterea che grazie a
Judy/Madeleine, mira ad una simulazione tendenziale del carattere dellamoglie di Elster. Infatti Scottie si immergerà sempre di più in questa
finzione, quest’amore sotto forma di inganno, non contingente ma
addirittura paradigmatico. La delusione verrà quando Judy/Madeleine le
rivelerà il trucco e la circostanza criminale che li ha fatti conoscere ed
innamorare l’uno dell’altro. la visione del Reale brutale a determinare loЀ
shock di Scottie, il quale trascina la donna sul luogo del delitto,determinandone la morte accidentalmente. Judy precipita dal campanile,
spaventata dall’arrivo improvviso di una suora, dopo che la tensione fra lei
e Scottie si era accesa incredibilmente. Sarà solo allora, dopo una fuga in
questa scioccante realtà parallela, che Scottie potrà finalmente affacciarsi
dal campanile per osservare la cruda fine della sua amata multiforme. Sarà
una visione così forte da abbattere il sinthome del film, l’acrofobia di cui il
protagonista soffre. Così è l’ultimo fotogramma, così è la guarigione
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subliminale cui siamo testimoni, una nodo pulsionale, sottolineato per di
più dal famigerato “effetto Vertigo”: movimento di macchina ideato da
Hitchcock per l’occasione. Vediamo come l’esperienza del protagonista si
chiude su una catarsi magica che suggella definitivamente un ritrovato
potere sul circuito pulsionale: tema formale anticipato dalla bellissima
carrellata circolare che abbraccia i due protagonisti innamorati, facendoli
viaggiare da un luogo all’altro della loro storia, sognanti. proprio qui cheЀ
letteralmente, la pulsione ne fa il giro. Un film bellissimo, che si allinea
perfettamente con la tendenza, la voglia di varcare la soglia del
cyberspazio, con tutta la sua opacità, tale alla dimensione vaporosa in cuiScottie incornicia l’artificialità sublime di Madeleine. Ecco un altro
esempio calzante, la scena del ristorante:
la coppia è seduta a un tavolo, uno di fronte all’altro, ed è chiaro che la
conversazione langue. Tutto d’un tratto, lo sguardo di Scottie fissa un punto
dietro Judy: vediamo che si tratta di una donna vagamente simile a
Madeleine, che indossa un vestito da sera grigio identico al suo. Quando Judy
nota ciò che attrae lo sguardo di Scottie, ne viene ovviamente ferita. qui diЀ
fondamentale importanza il momento in cui vediamo le due donne nella
stessa inquadratura, dal punto di vista di Scottie: Judy sulla destra, vicina a
lui; la donna in grigio sulla sinistra sullo sfondo.[…]Il breve istante in cui
Scottie pensa di vedere Madeleine coincide con il momento in cui l’ Assoluto
appare, in quegli istanti sublimi in cui una dimensione soprasensibile
“splende” nella nostra realtà di ogni giorno, l’Assoluto appare “in quanto
tale” proprio nella sfera delle apparenze [appearances].55
Vi sono delle opere artistiche che testimoniano di queste apparizioni e
richiamano direttamente le ripercussioni mentali che la tecnologia e i
cambiamenti sociali ci stanno fornendo. Penso che sia necessario iniziare a
55 Ivi, p.71-72.
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dialogare direttamente con i nostri fantasmi o perlomeno cercare di capire
quali siano i livelli di dipendenza strutturale e psicologica verso l’ideologia,
le dinamiche del desiderio e i veli dell’Immaginario, perché siamo sempre
più a contatto con dispositivi e macchine che ci permettono di affrontare
esperienze di vita simulate tali da sciogliere il nodo che tiene separata la
soglia interna da quella esterna, tanto da rendere così labile il confine tra
Reale e Virtuale. Sembra di avere a che fare sempre di più con un Reale
radicalizzato in piena comunicazione con l’imo della nostra interiorità,
cercheremo di capire come gestire le nostre emozioni e come evitare il
senso claustrofobico di queste nuove sollecitazioni, in breve come fare usodi queste nuove droghe senza cadere nel vortice delle dipendenze croniche.
Resta purtroppo il problema del controllo cui ho riservato un solo accenno
in questa ricerca insieme al dubbio dell’effettiva produttività di un
Villaggio Globale che riuscirà forse un giorno a mollare gli ormeggi verso
il dolce naufragar dell’intelligenza collettiva magari annullando
l’occlusione e l’oscurantismo dei centri di potere interessati a mantenereuna maggioranza ingabbiata nell’ignoranza, nella disinformazione. Ai
posteri l’ardua sentenza.
Quando Platone rigetta l’arte in quanto copia di una copia, dimentica che
l’idea può emergere unicamente dalla distanza che separa la nostra comunerealtà materiale dalla sua copia, cioè in seno al processo creativo stesso,
tanto che l’oggetto artistico entrerebbe in diretta competizione con l’Idea,
reificata nell’Apparenza in quanto Apparizione. L’idea che dapprima si
scorge col telescopio, Altra. Registi come Hitchcock tentano
d’incorniciarla, miniaturizzarla, sperando che un giorno, il polo energetico
che regge lo scettro del nostro equilibrio mentale e relazionale, sarà
finalmente correggibile, magari digitalmente. La Madeleine del film, è
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l’Idea che dimezza le distanze ed era destino dell’arte, grazie al suo
graduale avvicinamento alla scienza, quello di dettare le condizioni e le
possibilità in cui ce l’avremmo finalmente fatta, noi tutti, a scioglierci, a
capirci, ad amare senza preoccupazioni. Perché capire l’inganno, le
dinamiche di questo abisso insondabile che chiamiamo amore, ci porta
forse a dominarne le ripercussioni più sofferenti, a renderci più
comprensivi. Ecco sono convinto che l’arte, in quanto attività che obiettiva
in forme il ritmo del vissuto, abbia innalzato a proprio fine la piena
comprensione del patrimonio fondamentale delle nostre vite, che per me è
sempre l’amore. In partenza cercò di sublimarlo, sostituendolo, ma era solouna forma di emulazione, un apprendistato in vista dell’esame finale, entro
la cornice, in cui la densità emotiva si sarebbe tagliata con un coltello, e ci
saremmo equipaggiati per sostenere una problematica più grande e
pervasiva, quella dell’invasione: l’artificialità entro i nostri corpi, entro i
nostri pensieri e nervi. Una mediazione forse non tanto oppressiva, magari
potenziante, una lente. Credo che dovremmo prenderla così. E per questoauguro la fine dei pessimismi perché aspiro alla continuità del tutto, alla
clemente accettazione del cambiamento, alla fiducia nella specie.
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Bibliografia:
Opere di Pierre Lévy:
- L’intelligenza collettiva, per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli Milano
2002- Cybercultura, gli usi sociali delle nuove tecnologie, Feltrinelli, Milano 1999
Opere di Slavoj Žižek:
- Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, Roma 2003
- L’epidemia dell’immaginario, Meltemi, Roma 2004
- Dello sguardo e altri oggetti, Saggi su cinema e psicanalisi, CampanottoEditore, Pasian di Prato (UD) 2004
Opere di Jacques Lacan:
- Il seminario, Libro XI, I quattro concetti della psicoanalisi 1964,
Einaudi Editore 1979
- Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Scritti,Einaudi, Torino, 1966
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Altre opere:
- Paul Virilio, La bomba informatica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000
- Jay David Bolter e Richard Grusin, Remediation, competizione e integrazionetra media vecchi e nuovi, Guerini Studio, Milano 2002
- Roberto Diodato, Estetica del virtuale, Bruno Mondadori, Milano 2005
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