Lingua Materna e Lingua Matrigna

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1 Lingua Materna e Lingua Matrigna La relazione tra la lingua materna e la scrittura Barbara Cretis, Renata Puleo H. Bosch dal trittico IL GIARDINO delle DELIZIE Sì sì era questo che io volevo sempre io volevo tornare al corpo dove sono nato. Allen Ginzberg Sigmund Freud nel saggio Aldilà del principio del piacere scriveva: Disgraziatamente, si è raramente imparziali quando si è alle prese con i grandi problemi della scienza e della vita…ciascuno di noi è dominato da pregiudizi profondamente radicati, che manovrano, senza che ce ne rendiamo conto il nostro pensiero. E in chiusura aggiungeva, a giustificazione delle interpretazioni errate o imprecise, una citazione dalle Muqâmàt di Al-Hariri risalenti all’XI° sec dC: Là dove non possiamo arrivare, volando, dobbiamo arrivare zoppicando…E zoppicare, dicono le scritture, non è peccato.

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The research is related to the problems between Mother language and poetry and novel writers ( european and american writers

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Lingua Materna e Lingua Matrigna

La relazione tra la lingua materna e la scrittura Barbara Cretis, Renata Puleo

H. Bosch dal trittico IL GIARDINO delle DELIZIE

Sì sì era questo che io volevo sempre io volevo tornare al corpo dove sono nato. Allen Ginzberg Sigmund Freud nel saggio Aldilà del principio del piacere scriveva: Disgraziatamente, si è raramente imparziali quando si è alle prese con i grandi problemi della scienza e della vita…ciascuno di noi è dominato da pregiudizi profondamente radicati, che manovrano, senza che ce ne rendiamo conto il nostro pensiero. E in chiusura aggiungeva, a giustificazione delle interpretazioni errate o imprecise, una citazione dalle Muqâmàt di Al-Hariri risalenti all’XI° sec dC: Là dove non possiamo arrivare, volando, dobbiamo arrivare zoppicando…E zoppicare, dicono le scritture, non è peccato.

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L’amore per la Lingua

Qual è l’interesse che ci muove? L’amore e la cura per la Lingua Materna (LM), con attenzione ai

seguenti aspetti: la sua genesi dimenticata dal pensiero scientifico; la sua manipolazione continua ad opera dei media; la marginalizzazione delle lingue, autoctone e dialettali, sottoposte dal colonialismo economico-culturale ad un genocidio i cui effetti sono i medesimi della eliminazione della bio-diversità in natura ( anche la lingua è bios); il sacrificio costante della sua corporeità; la stupidità, l’inefficacia delle tecniche di insegnamento della testualità a scuola; la lettura, la scrittura elettroniche, vere a e proprie cesure culturali dopo l’invenzione della stampa.

L’amore per la scrittura faticosa, fratta, tanto prolifica da risultare pletorica, dolorosa sempre, di molti scrittori, per il lavoro di ricerca costante sulla forma e sul controllo dei contenuti, nei quali c’è un continuo baluginare della lalangue, alla ricerca di un contatto con il materno che è, spesso, per sempre perduto. Autori scelti con un po’ di azzardo, per gli echi che, in entrambe noi, hanno suscitato in relazione al tema, magari oltre le loro intenzioni. Famosi per meriti letterari, oppure perché il loro lavoro ha provocato uno sguardo che, andando al di là delle questioni di stile, ha colto la sofferenza della parola stessa. Per le esplicite confessioni sul lato oscuro dell’amore verso le proprie madri, per i cenni al duro apprendistato alla vita e alla lingua. David Foster Wallace, George Simenon, Carlo Emilio Gadda, Sylvia Plath, James Joyce, Virginia Woolf, e molti altri, come coro, quasi sconosciuti al grande pubblico, Luigi Romolo Carrino, Louis Wolfson, Raymond Roussel. Pensiamo siano spesso gli scrittori minori o di nicchia che consentono una più compiuta comprensione di fenomeni culturali emergenti. Negli scrittori considerati più grandi la cifra stilistica e l’universalità del messaggio li colloca fuori dal proprio tempo. Noi vorremmo prendere gli uni e gli altri dentro il nostro ragionare, assumendo come vero che l’intellettuale è sempre inattuale.

L’utilizzazione di Wolfson e di Roussel, non è una forzatura verso la follia, verso il campo della letteratura psichiatrica. Sono anche questi testi letterari, come capirono Raymond Queneau, Jean-Bertrand Pontalis, direttore editoriale di Gallimard che decise di pubblicare Wolfson, e George Perec chiosatore di Roussel. Dietro l’assurdo di certe situazioni e di un certo modo di raccontarle, c’è un narratore, magari un surrealista.

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Per tutti, un bisogno di sapere intorno allo statuto della Lingua, per sapere di sé e della propria lingua. Scrive Jean-Marie Le Clézio che esistono due tipi di letteratura, quella trionfante, a lettere maiuscole, degli uomini che sanno parlare, e quella maledetta, fitta di buchi e di omissioni di coloro che ancora non l’hanno appresa; grazie al loro faticare, noi facciamo, leggendoli, l’esperienza drammatica del passaggio del bambino alla Lingua.1 La maternità, la relazione primaria e prioritaria, è presa nel campo della scrittura praticata dai figli divenuti adulti.

Non è che non voglia riuscire. Certo che voglio. Ma non cerco il successo con la stessa disperazione di prima, che era la paura instillata che un insuccesso significasse la disapprovazione di mamma: ai miei occhi la sua approvazione e il suo affetto sono la stessa cosa, che sia vero o no. […] CHE COSA MI ASPETTO DAL SUO AMORE? CHE COS’E’ CHE NON MI DA’ E CHE MI FA PIANGERE? Penso di avere sempre creduto che mi usasse come una sua estensione… A proposito, come ha interpretato mia madre il mio suicidio? Come il risultato del mio non scrivere, ovvio. Sentivo di non poter scrivere perché lei se ne sarebbe impadronita. … Sentivo che se non avessi scritto nessuno mi avrebbe riconosciuta come un essere umano. La scrittura, allora, era la mia sostituta: se non ami me, ama quello che scrivo, amami per questo.2

Talvolta amati in modo sghembo dalle loro madri, dedicati ad una

scrittura a sua volta sempre dedicata a questo amore, alla ricerca della parola impressa come possibilità di salvezza, di riscatto, sotto la garanzia del Padre. Negli scrittori presi in esame, spesso Padre simbolico, nell’assenza del padre reale, o nella sua perifericità. Madri che hanno invaso tutto il campo della parola con il loro desiderio, mettendo in scacco quello dei figli. Basti, per tutte, il caso eclatante della madre di Foster Wallace, come vedremo. Anche semplicemente madri che, portando la loro parola, hanno creato con essa una profonda e inalienabile affezione su quella dei figli.

Malgrado le molte incursioni in scritti di psicoanalisti, non è nostra intenzione tentare una cattiva psicologia degli autori di cui ci serviamo nell’argomentare, né tantomeno, quella di fare una pessima, e irrisolta, per mancanza di mezzi – e di motivazione – critica letteraria. Vorremmo provare a rintracciare nei testi di alcuni autori la trama di una sofferenza della parola, anche nella normale ricerca di una maggior appropriatezza con un intimo sentire, inscritte entrambe nella relazione con le prime parole, della Madre e del bambino, nella magia, nera o bianca, dei suoni della LM, colti nel baluginare della vita. Si tratta, crediamo, 1 J.-M. Le Clézio, La tour de Babil, in AA.VV., Dossier Wolfson ou L’affaire du schizo et les langues , 2 S. Plath, Diari, Adelphi, Milano, 2007, pp. 334, 335

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dell’iscrizione in una sorta di destino, spesso portato come un peso, spesso come un pharmakon o un dono, che impone di scrivere, di raccontare, di narrare. La scrittura come effetto di un eccesso della memoria. Contenimento (consolazione, elaborazione del lutto?) della finitudine originaria che continuamente rompe, frammenta la costituzione della soggettività, parce qu’elle est la mémoire d’un corps qui est mortel3, la scrittura funziona come un supplemento infinitisant, potenziale infinito, perdurante, esteriorizzazione della finitudine stessa di chi scrive, e di chi legge. Farmaco della cui funzione di cura continuare a prendersi cura, nella consapevolezza che il suo aspetto curativo non può eliminare il danno che la coscienza della mortalità ha inferto agli umani. La forza e la sofferenza negli scritti di tanti scrittori è dovuta proprio alla mancanza di consolazione che esclude qualsiasi separazione dalla propria storia sentimentale.

E’ chiaro che la scelta da noi effettuata dai testi di molti autori, può apparire una sorta di inchiesta abusiva che introduce, che incista, nel nostro ragionamento ciò che serve a sostenere la validità dell’ipotesi. Ma è un rischio che vorremmo correre se, in qualche modo, apre uno spaccato sul tema che corre di sfondo a queste riflessioni: il legame primario fra Lingua e Madre, nei limiti e nelle sfaccettature culturalmente imposte.

Di sfondo a questa indagine, vorremmo si ponesse attenzione alla messa in questione della naturale predisposizione ad amare il proprio bambino da parte di ogni madre. Una madre, non per follia, ha spesso difficoltà ad accettare l’amore incondizionato richiesto dal bambino nella prima infanzia, non mostra l’attitudine istintiva e sempre benigna, come vuole il senso comune, ad introdurre il bambino nel mondo simbolico. Vuole trattenerlo e liberarsene nello stesso tempo. Il nesso rassicurante di amore e dedizione non coglie la problematicità del desiderio femminile, ben oltre il materno. Desiderio che si rivela essere un furioso tentativo di superamento del confine in cui si è voluta relegare la fenomenologia del materno. Ogni aberrazione di questa relazione è, prima di essere un comportamento eticamente censurabile, il frutto di una forclusione, nella definizione classica di ciò che sfugge al simbolico, di ciò che occupa sempre un altrove.

3 B. Stiegler, État de choc. Bêtise et savoir au XXI siècle, 2012, Mille et une nuits, p. 260

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La porta-parola

… Per una pensatrice come l’ Aulagnier, che conosce bene Klein e Lacan, il salto è ancora più radicale: la madre in quanto porta-parola, non solo trasmette al figlio il linguaggio ma in tanto può farlo in quanto è proprio lei la portatrice dell’universo simbolico che dà per primo il senso all’esperienza corporea del bambino. Noi tutti impariamo ad “avere” oltre ad “essere” un corpo nella relazione con la parola “materna” che per prima ci descrive e ci significa ancora prima che nasciamo.4

La Madre in quanto porta-parola (le porte-parole), esercita funzioni di

cura primaria che possono pervertirsi, uscire dalla rotta dell’accudimento per l’autonomia, di cui la LM è presupposto e funzione e, nei casi estremi, possono portare allo scacco dell’individuazione, oppure alla ricerca da parte del bambino divenuto adulto, di una parola, soprattutto di una scrittura, che redima la, e dalla, relazione materna. Si tratta di una ricerca che ha a che fare con una sorta di infirmité, come la definì Flaubert, quella che viene dall’essere nati in una lingua segnata dal passo di un altro, un’Altra, presenza difficile da elaborare e da cui si è continuamente affetti. Suggerisce Jacques Lacan che tale affezione si rivela nel ritorno della lalangue, come lingua della Madre, in qualche maniera infestante. Ritorno, rinascita, segnati da un godimento, attraverso gli effetti che la lalangue esercita sulla lingua: equivoci, omonimie, assonanze, polisemie. Infestazione che è nutrimento, alimento della produzione linguistica del soggetto, sia essa oralità o scrittura. 5

L’effetto comico che produssero nei lettori la struttura, i titoli dei capitoli e soprattutto il corpus delle note in ‘Infinite Jest’, e che Foster Wallace disse che non era propriamente ciò che avrebbe voluto suscitare, sono pura lisergia, frutto di un materno invasivo e inevitabile da aggirare, soprattutto nella scrittura.

Sintassi, sic, elemento che ha aiutato a guidare la Sig.ra Avril Incandenza […] ad aiutare a fondare i Grammatici Militanti del Massachusetts, da quel momento una spina nel fianco di pubblicitari, corporazioni, e chiunque si comportasse con troppa disinvoltura verso l’integrità della lingua nel discorso pubblico.

E’ superfluo ricordare la stretta attinenza di Avril con la madre dello scrittore. Il Comitato dei Grammatici è dunque ossessione, fonte di saperi

4 M. Fraire, Madre, materno, femminile, in Genealogie e formazione dell’apparato psichico, Centro

psicanalitico di Roma, (a cura di), Franco Angeli, Milano, 2007 5 J. Lacan, La cosa freudiana e altri scritti, 1972, Einaudi, Torino; Il Seminario Libro XX Ancora 1972-

1973, Einaudi, Torino, 2011

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sulla lingua e di disgusto e dispiacere verso i suoi vezzi, che di altri non sono se non di Sally Foster.

E’ necessario – chiosa Foster Wallace in un’altra annotazione – sottolineare ancora una volta che la lingua madre di Marathe non è quel buon vecchio idioma contemporaneo del Francese Parigino Europeo, bensì il Francese del Québec, che equivale al Basco in termini di difficoltà ed è pieno di termini strani e ha delle caratteristiche grammaticali sia inflesse che non inflesse, un dialetto incestuoso e indisciplinato…6 La Lingua non è mai quello che sembra, o quella a cui ambisce, ma un

gergo ingolfato, sofferente che, se scritto, guadagna nei lettori accademici solo tossettine irritate e note di merito molto basse. Vorremmo far notare quell’incestuoso: insinua un sospetto legittimo sulla natura dell’infinita ricerca linguistica di Foster Wallace.

La bulimia scrittoria fa sì che non basti mai una spiegazione, che ce ne vogliano altre in nota, e poi in note di note.

Anche in Carlo Emilio Gadda la struttura dei suoi testi, la possibilità di espansione ad infinitum di un’argomentazione, l’utilizzo continuo di note tenta di spiegare l’inspiegabile.

…..il testo conosce un prolungamento nelle note, che possono raggiungere estensione

notevolissima. Le note provvedono cioè il testo di quel contrappunto necessario che tuttavia esso non potrebbe direttamente accogliere in sé senza sollecitare troppo le strutture portanti su cui si regge…7

Perché è l’affezione, di cui disse Lacan, che resta inspiegata.

La nostra ipotesi è dunque messa alla prova della scrittura, delle scelte esistenziali ad essa legate quando la sua pratica diventa un elemento caratterizzante il progetto di vita. Nella lingua adulta rimane impigliato il balbettio infantile, una ecolalia che sembra necessario dimenticare perché, è come se l’acquisizione del linguaggio fosse possibile solo attraverso un atto di oblio, un’amnesia…8. Ma, come vedremo, di rimozione si tratta, la cui sintomatologia vibra nella LM, sia come sistema, sia quando è parole, fra potenzialità inconscia ed enunciazione.

6 D. Foster, Wallace Infinite Jest, Fandango, Roma 2000, pp. 1325 -1378 7 Emilio Manzotti, Carlo Emilio Gadda: un profilo, in The edinburgh journal, Gadda studies, Supplement

no. 5, EJGS 5/2007, http://www.gadda.ed.ac.uk/Pages/journal/supp5archivm/ragioni/ragionimanzottiprofilo.php

8 D.Heller-Roazen, Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingu,e 2007, Quodlibet Macerata, p. 12

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Personaggi: Madre, Padre

Come in ogni dramma o commedia è necessario in primis presentare i personaggi, protagonisti e deuteragonisti sulla scena, scena linguistica, nel nostro caso.

I rapporti fra i genitori e i figli non sono sempre, non sono per tutti così idillici, come certa edificazione semplificante vorrebbe darci a pur bere: e non sono tali perché il sentimento, il sentimento vero, non si fonda sulla retorica dei buoni sentimenti, ma su quell’aggrovigliato complesso di cause e concause biologiche e mentali che Freud ha tentato appunto di sgrovigliare, di portare sulla tavola e sotto il riflettore spietato dell’analisi. 9

Il fenomeno (di una certa ritenutezza verso i figli) è men raro di quanto ci diamo l’aria di

credere nelle nostre considerazioni natalizie, tanto più nel caso di una delusione narcisistica dei genitori, al riscontrare le qualità improprie o la forma difettiva della prole…10

Madre

…il demone della parola saltella a ritmo del fonema che lo annuncia, il ma-ma-ma che ripete ad ogni capriola, ad ogni giravolta spaziale e siede di fianco a me, anche lui… E’ dentro le tue vocali che tutto il mondo mio si risolve. La a dolce come il miele. Stretta tra la stessa consonante detta a labbra strette. Due a abbracciate da due emme. Due a come un urlo preciso e lungo, strette dalla emme che comincia il tuo nome, il nome più bello dell’universo11.

Nell’articolazione linguistica i fonemi sono effetto dell’espulsione e del

trattenimento. Sono tenuti nella relazione fra inclusione e esclusione:

Per Sabina Spielrein la parola mamma si articola alla suzione, al m m m , viceversa la parola papà si articola all’espulsione. Su questa dialettica inclusione-espulsione la Spielrein trova le tracce del primo fondamento del linguaggio12.

Sono tua madre, dici come una constatazione. Ma sono una donna, dici alla poltrona, come

una sfida. Sono una femmina, dici come una verità assoluta…siamo un Figlio con Madre di fronte. Siamo alla resa dei conti …

Voi volevate essere amata ma non voler bene, non volevate l’incombenza di amare me… L’infermiera avrebbe potuto lasciarti morire. Il ginecologo. Il personale dell’ospedale.

Perché non lo hanno fatto?13 9 C.E.Gadda, Psicoanalisi e letteratura, in I viaggi e la morte, Garzanti Milano, 2001 p. 40 10 C.E.Gadda. Saggi Giornali, Favole e altri scritti I, a cura di C. Vela, G. Gaspari, G. Pinotti, F. Gavazzeni,

D. Isella, M.A. Terzoli, Garzanti, Milano , 1992, p.469 11 L.R. Carrino, Esercizi sulla madre, Perdisa, Firenze-Milano, 2012, pp.15 – 104 12 cfr. Sabina Spielrein, L’origine delle parole infantili “Papà” e “Mamma”, Considerazioni sui vari stadi

dello sviluppo del linguaggio, in http://www.salusaccessibile.it, 13 L-R. Carrino, Esercizi…cit., pp. 137 -155 -23

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Relazione, sin dall’inizio, estremamente problematica e sofferta,

imparare la Lingua, imparare l’Amore, accettare la Separazione:

Credeva di non essere tagliata per fare la mamma, almeno così spiegava ai suoi amici e amanti. E ciò le permetteva di prendersi meriti in più perché non faceva mancare a suo figlio né cibo, né vestiti, nè un tetto sopra la testa, per quanto inadeguata sarebbe potuta apparire agli occhi di un assistente sociale, per esempio, o di una donna che invece era tagliata per fare la mamma.14

It was true. She couldn’t wish her daughter away now, but if she had a time machine she

would go back and erase the conception. Then there wouldn’t be this agony, there wouldn’t be the black times. She would have found other sources of love, and she wouldn’t have this gnawing emptiness. One tiny erasure and everything would be different, catastrophe avoided.15

Ma cos’è il corpo della Madre? Quel corpo che il bambino percepisce

come oggetto, spazio, habitat? Cosa desidera una madre di fare del suo corpo ospitante, reggente, e di quello del bambino? Cosa abita il desiderio di una donna oltre, prima, durante l’esperienza materna? Nel lavoro del lutto, la Madre deve elaborare il momento in cui cessa di essere una divinità porta-parola, deve accettare di immettere altri significati nei significanti del suo primo, anteriore parlare al, del, col bambino. Deve riconoscerlo portatore di un desiderio altro dal suo, così come deve riscattare il proprio dall’investimento effettuato, e sicuramente, in prima istanza, necessario. Dove necessario sta sia per inevitabile, sia per votato alla riuscita della messa al mondo delle due soggettività. Il bambino e la Madre dovranno conoscere altri oggetti di investimento al di fuori della loro biunivoca chiusura, solo allora l’Io potrà emergere nel bambino, e consolidarsi nella Madre, proprio grazie alle energie di questa esperienza unica.

La psicoanalista Manuela Fraire sottolinea che tale esperienza, non naturalizzabile, nasce come contatto fra il fantasma materno e il corpo del bambino, da un primo toccare; mattone, avremo modo di sottolinearlo ancora, delle prime percezioni che avviano alla costruzione della relazione. Esperienza pre-linguistica, eppure sottolinea la psicoanalista,

14 R. Banks, , La memoria perduta della pelle, Baldini-Castoldi, Milano, 2011, p. 216 15 M. Meloy, Demeter, in The New Yorker, novembre, 2012.Era vero. Non desiderava che sua figlia sparisse ora, ma se avesse avuto una macchina del tempo sarebbe tornata indietro e avrebbe cancellato il concepimento. Così non ci sarebbe stata quest’agonia, non ci sarebbero stati i momenti bui. Avrebbe trovato altre fonti d’amore, e non avrebbe provato questo senso di vuoto lacerante. Una sottile cancellatura e tutto sarebbe stato differente, la catastrofe evitata.

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già veicolata dalla parola. Così descrive il tocco dell’altra/o il sociologo e antropologo David Le Breton:

La pelle è rivestita di significati: Il tatto non è solamente fisico: è al tempo stesso semantico. Il vocabolario del tatto predilige metaforizzare la percezione e la qualità del ‘contatto’, oltrepassando il mero riferimento tattile per esprimere il significato dell’interazione.16

E continua la Fraire, nella sua argomentazione:

Le identificazioni, veicolate dagli enunciati identificatori della madre, sono i mattoni necessari alla futura costruzione dell’io dell’infans, in quanto primi messa-in-forma e significato attribuiti dalla madre alle sensazioni senza nome esperite dal bambino. Esse sostanziano la funzione anticipatrice della madre attiva ancor prima della nascita del bambino durante la gravidanza. […] L’infans incontra un prima di se stesso, un già-lì del suo corpo e dei suoi bisogni costituito dalla voce e dal corpo di colei che è il supporto dei suoi investimenti.17 Certo, rimarrà la cicatrice della disgiunzione, a cui la Lingua servirà

solo da lenitivo. Anzi, suggerisce Jean-Claude Milner, 18 la Lingua continuerà a muovere i corpi disgiunti l’uno verso l’altro alla ricerca di una comunicazione che non si satura, restando gli interlocutori soggetti barrati dal desiderio.

L’ostacolo rappresentato dai corpi divisi smaschera l’utopia propria della linguistica sia saussuriana, sia chomskiana, dice Milner, di farsi scienza esatta, l’una centrata sulla geometrica tripartizione del segno, la seconda sul modello ad albero, l’illusione di un funzionamento fluido della Lingua come sistema e come parola. Ciò che è in gioco è ancora la relazione fra i corpi, il mancare il ritorno alla Madre, come si manca l’atto sessuale e, in anima e corpo, l’Amore. Anche nel ‘Simposio’ di Platone si può leggere un sottotesto. Il dramma dell’androgino allude ad una separazione anteriore a quella operata da Zeus sul perfetto corpo sferico.19 Esso segnala, nella ricerca dell’altro da sé, la perdita alla nascita dell’unità. Nel corpo materno, nel breve tempo sospeso fra concepimento e nascita, nel quasi-tempo, il tempo delle cose che stanno per finire, si giocano unione e separazione. L’artificio trovato dal dio è l’invenzione del rapporto sessuale, ricerca e continuo scacco.

16 D. Le Breton, Il sapore del mondo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, p.223 17 M. Fraire, Disfare la madre, rifare la madre, in Pedagogika, 2010, p. 81 18 J.C. Milner, L’amour de la langue, 1978, Ed.Du Seuil 19 S. Freud, Al di là del principio del piacere, in Opere, p. 2317

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… l’una con l’altra, per il desiderio di fondersi insieme, perivano di fame e anche, per il resto, di inazione, perché non volevano fare nulla l’una senza l’altra…E così perivano. Ma Zeus mosso a pietà appresta un altro artificio, e sposta sul davanti i loro genitali…20

L’Amore lavora sulla separazione, come la Lingua. Annota ancora

Milner, che l’impossibilità è la cifra che caratterizza la mutua comunicazione e anche il rapporto sessuale. La lalangue, luogo di ciò che fa resto, è le lieu de l’impossible du rapport sexuel.21 Il perdurare della lalangue, eco e materia reale della LM, nonché materia infestante la Lingua dei linguisti, è ambiguamente un elemento di speranza, corpo e anima hanno un altrove a cui attingere continuo nutrimento, come emerge nella scrittura poetica, un motivo di dolorosa frustrazione per un movimento che non ha approdo. La lalangue est alors une foule d’arborescences foissonantes, où le subjet accroche son désir, n’importe quel nœud pouvant être élu par lui pour qu’il fasse signe.22

Certe madri hanno bisogno, per supportare il proprio ideale narcisistico, di eleggere in seno alla loro progenie un oggetto, un figlio, che servirà loro da feticcio. Questo bambino all’interno di una famiglia, si fa carico, a propria insaputa, di rappresentare e di incarnare, nel bene e nel male, la posizione psichica materna. E’ un figurante in quanto configura questo ideale, ed è predestinato non avendo scelto egli stesso questo ruolo che tuttavia assume con una sorta di passione.23

…cercherò di convincervi che la maternità non è un ‘istinto’ non si riduce al solo ‘desiderio

di bambino’ […] da non confondere con l’onnipotenza narcisistica del diniego che riduce il bambino a un ‘oggetto cattivo’ o a un ‘oggetto parziale’, escrezione da evacuare o feticcio da mummificare.24

La psicoanalista Marie Langer pubblicò, nel 1951, il testo Maternità e

sesso in cui esprimeva la sua adesione fiduciosa nelle virtù della maternità. Molto più tardi, nel 1984, corresse il tiro, Caí en idealizar la maternidad. La dimostrazione dell’affanno che questo saggio produsse nell’autrice e nella critica femminista, fu la continua revisione in nuove edizioni e in diversi altri contributi. Un movimento, dice Langer, che stava nella contraddizione fra l’importanza attribuita alla maternità per l’equilibrio affettivo della donna, e la clinica, che smentisce la base

20 Platone, Simposio, Adelphi, Milano, 1979, p. 45 21 J.C. Milner, L’amour de la langue, 1978, Ed.Du Seuil cfr., p. 92 22 Ivi p 95 Una folla di arborescenze rigogliose, a cui il soggetto appende il suo desiderio, non importa quale

vincolo possa essere scelto perché si faccia segno. 23 P.C. Racamier, Il genio delle origini, Raffaello Cortina, Milano 1993, p. 177 24 J. Kristeva, La passione materna, in Spazio Rosenthal. Tra psicoanalisi e femminile n. 17 2012, p 2

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biologica dell’istinto e la presunta abilità materna all’esordio dell’esperienza. Se tante donne falliscono bisogna allora rivedere ciò che si chiama istinto materno. La Langer dirà che il progetto personale della donna le può garantire il desiderio di trascendenza più della stessa esperienza della maternità. Si può non-poter-essere madri anche dopo aver avuto un figlio, o partorire senza figliare.25

Esiste un destino, una genealogia del dispiacere materno, ad infinitum, di generazione in generazione. Spesso lo stesso ritardo nella comparsa del menarca si spiega con il divieto della madre all’accesso alla posizione femminile, ad avere una vita sessuale e a generare. La figlia di una madre anaffettiva, indifferente, depressa, tende ad imitare la virilità, a sedurre e ad emulare il padre, e la mascolinizzazione è per contro un tentativo di sedurre la madre e guadagnare il suo amore.

Per i figli è difficile credere al disamore materno. Nel libro di Carrino, i paragrafi sono titolati con inquietanti definizioni della madre, rotta, parlata da, rinunciata, eppure l’intero eserciziario sulla sua scomparsa, è una dichiarazione d’amore, una maniera ostinata per capirne il disamore, la ferocia, per elaborare l’orrore per essere stato quasi ingerito nuovamente nel corpo materno. Il grido infantile, mamma è tutta colpa mia, mamma non voglio che ti mangiano i vermi, e quello rivolto a Gesù, loggiuro loggiuro, ma tu fai tornare alla mia mamma, sono tentativi di disperata riparazione.26

La giornalista Maria Bustillos 27riporta le parole di un ospite di un centro di disintossicazione, dipendente dall’alcool fin dall’adolescenza, che sostiene di aver avuto una famiglia amorosa e normale. L’uomo, successivamente identificato in Foster Wallace, mostra l’assunzione in proprio, esclusiva, della responsabilità dello scacco esistenziale. I genitori non vengono assolti, semplicemente perché mai sono stati davvero processati, ma solo debolmente indagati.

I figli, questi figli di cui parliamo, conoscono in modo distorto, frutto di una elaborazione successiva mai davvero riuscita, la passione della madre. La conosce Wolfson che prova rabbia e pena quando la sente lamentarsi per le condizioni di vita con lui. La conoscono il bambino abbandonato e l’adulto schizofrenico del romanzo di Carrino, quando

25 M. Langer, Conferenza-Madrid, in Pagina 12, agosto 2002 26 L. R.Carrino , Esercizi… cit., p 45 27 cfr. M. Bustillos, Inside David Foster Wallace ‘s private self-help library , 2011, THE AWL, 2011,

http://www.theawl.com/2011/04/inside-david-foster-wallaces-private-self-help-library

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danno voce alla frustrazione di una donna non risolta nella maternità, di donna sempre altrove, in fuga da sé e dal figlio. Sono madri da cui ci si mette presto in guardia, con cui si fa un corpo-a-corpo sfinente, e sono madri potenzialmente in pericolo.

Pericolosità dell’enigma originario, del nodo del godimento e dell’incontro traumatico con l’abisso dell’altro desiderante, sia esso Dio, o la Madre e il suo bambino.

…la passione materna è una conquista, in quanto continua perlaborazione-sublimazione

della pulsione di vita e di morte, che dura tutta la vita e oltre. 28

Una delle lezioncine personali che ho imparato lavorando a questo saggio è che essere cronicamente propenso a sogghignare/sussultare per l’uso altrui della lingua tende a rendermi cronicamente ansioso per i sogghignamenti /sussulti altrui per il mio uso della lingua.

A essere sinceri, l’esempio qui ha una particolare risonanza personale per il recensore perché nella vita reale sembra sempre che mi venga difficile portare a termine una conversazione o chiedere a qualcuno di andarsene, e certe volte la situazione diventa così delicata e gravida di complessità sociale che vengo sopraffatto dal tentativo di vagliare tutti i diversi modi possibili per dirlo e tutte le diverse conseguenze di ogni opzione, finché non vado in tilt e lo dico nel modo più diretto possibile – “Voglio che finiamo questa conversazione e che te ne vai da casa mia”.

In queste formazioni rudimentali e fluide di Pensiero-di-Gruppo ideologico si racchiude la vera socializzazione dei bambini americani. Impariamo tutti molto presto che comunità e Comunità Linguistica sono la stessa cosa, è una cosa spaventosa, senza dubbio: questo ci aiuta a capire da dove veniamo Noi29.

Così Foster Wallace confessa gli inciampi linguistici e relazionali e così Gadda si descrive in un’intervista:

…temperamento piuttosto incline a solitudine, inetto a cicalare con brio, alieno dalla mondanità, io avvicino e frequento i miei simili con una certa fatica e una certa titubanza, con più titubanza e con più fatica i più virtuosi di essi. Davanti chiunque rivivo gli attimi di uno scolaro all’esame. Mi diletto invece di chiare algebre alle ore di “loisir”. Che non ti snervano quanto una conversazione di salotto; ove, a me, mi incorre l’obbligo di fingermi spiritoso e intelligente, non avendo né l’una né l’altra qualità 30

La Fraire, estendendo anche al dialogo un ragionamento della Julia Kristeva sulla parola scritta, sottolinea come nel discorso, dove è più grande il piacere della parola, riemerge il ritmo del legame fra chi parla ed il corpo materno. Aggiunge che il potere terrificante della Madre

28 J. Kristeva La passione… cit., p. 2 29 D. Foster Wallace, Autorità e uso della lingua, in Considera l’aragosta, Einaudi, Torino, 2006, pp. 73 –

105 -112 30 C.E. Gadda, Intervista al microfono, in I viaggi … cit. p 95

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primordiale suggerisce la necessità del matricidio, un fare il verso al parricidio freudiano, come unico strumento di liberazione.

Nel corpo-a-corpo con la Madre, affezione spesso ustionante, si costruisce l’immaginario maschile sulla sessualità e sul corpo femminile, mentre per le donne è in gioco la possibilità stessa di riscattare la propria sessualità, irretita dal fantasma materno.

Foster Wallace, nella lunga intervista concessa al reporter della rivista Rolling Stone, David Lipsky,31 dopo aver confessato la propria bulimia alimentare, accenna a quella relativa al sesso. Ma, Foster Wallace sa che la ricerca di riempimento calorico, in cui rientrano non solo cibi, caramelle, sesso, ma anche l’infinito intrattenimento televisivo, allude costantemente ad altro, come sempre fanno le costellazioni di sintomi. Raccontando dell’amicizia con la sua agente, dice:

E lei aveva cominciato, come dire, a parlarmi come una tipica mamma ebrea al telefono. Ed io ho questa fissazione: la prima mamma ebrea che mi capita a tiro, io semplicemente mi ci attacco, le abbraccio la gonna e non mi stacco più. Non lo so da che cosa deriva, forse carenza d’affetto da infanzia WASP o qualcosa del genere.32

Più avanti parlando del suo bisogno di avere stabilmente una

compagna, aggiunge: E’ bello vedere ridefinire i propri confini tramite il contatto fisico con un’altra persona… Sembra parlarne in termini di contenimento sia spirituale che materiale, per imparare – dice ancora – da zero cosa significa avere un corpo. 33

Corpo che non c’è, che forse si annida de-materializzato nella scrittura.

Uno struggente umorismo nero detta a Foster Wallace questa nota, a proposito di un carteggio fra la Signora Avril e il figlio:

… l’ esempio commovente del genere di posta cartacea che la signora Avril Incandenza ha

mandato al figlio…il genere di spensierata posta quotidiana che, ecco la parte commovente, sembrerebbe implicare un contesto di regolare comunicazione fra le parti, nonostante tutto.34

Nonostante: lo stile delle due lettere, la missiva materna e la risposta,

rappresentano l’elemento ostativo a qualsiasi relazione autentica. La prima, fitta di notizie futili veicolate dalla bella scrittura che occulta ogni

31 D. Lipsky, Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, Minimumfax, Roma, 2011 32 Ivi, p 148 33 Ivi, p 413 34 D. Foster Wallace, Infinite … cit.., pp 1338-1340

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sentire-sentimento, e la risposta, un modulo pre-stampato firmato dall’assistente alle pubbliche relazioni del figlio.

Anche il rapporto tra Simenon e la madre raggiunse punti di crisi e incomprensione notevoli.

Non ci siamo mai amati, tu lo sai bene. Tutti e due abbiamo sempre fatto finta - spiega l’autore nell'autobiografico Lettre a ma mère - Perché sei venuto, Georges? Queste poche parole forse sono la spiegazione di tutta una vita. C'era in te qualcosa di eccessivo che tu non sapevi controllare, ma manifestavi nello stesso tempo una estrema lucidità...Tra noi due non c'è stato che un filo. Questo filo era la tua volontà feroce di sembrare buona, per gli altri, ma forse, soprattutto per te stessa.... 35

Tutti mi ammirano - le disse una volta Simenon - tutti, meno te. 36

In Gadda, le invenzioni linguistiche per il Priapo mostrificato, si riferiscono ad un coacervo di femmine lascive, immonde, vocianti. Un’idea del femminile che pareggia i conti con la violenza dell’attacco maschile, subendolo di buon grado, anzi, provocandolo. E la madre, se non partecipa a questo scempio, è perché è la Dolorosa, la donna in lutto. Il romanzo ‘La cognizione del dolore’ ruota attorno al tema della madre amata-odiata, la donnetta impaurita e sempre troppo appenata per accorgersi dei dolori atroci del figlio.

…nell’animo della mamma e direi nei suoi visceri, il rapporto madre-figlio si era talmente

identificato col rapporto guerra-morte del figlio, ch’ella non poteva più pensare a una madre se non come a un groppo di disumano dolore superstite ai sacrificati.37 Poiché tanto dolore è consustanziale alla propria condizione ed è stato

provocato dalla perdita dell’altro figlio, il più amato, ogni attenzione è distolta dalle miserie del figlio vivo. Non potrà che finire male.

Si comprese da tutti, al riscontrare delle tracce di sangue sullo spigolo del tavolino da notte, verso il letto, che il capo così ferito doveva avervi sbattuto violentemente; forse qualcuno doveva averla afferrata a due mani, pel collo, e averle sbattuto il capo contro lo spigolo del tavolino da notte, per terrorizzarla, o deliberato ad ucciderla.38

E qualche rigo dopo, il corpo inerme, ormai inoffensivo della madre,

evoca il paradosso della vita e delle contraddizioni legate al suo dono: 35 M. Testa, Simenon, Henriette la madre insensibile, in www.simenon-simenon.com 36 Ivi 37 C.E. Gadda, La cognizione del dolore, Einaudi, Torino, 1975, p. 195 38 Ivi, p 230

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Questa catena di cause riconduceva il sistema dolce e alto della vita all’orrore dei sistemi subordinati, natura, sangue, materia: solitudine di visceri e di volti senza pensiero. Abbandono.39

Così si conclude il romanzo. Non sappiamo se l’arte medica dissimulò

l’orrore, se contribuì a salvare madre e figlio. Ma il corpo a corpo con la madre non si conclude necessariamente con

la sua uccisione, può manifestarsi nella ricerca compulsiva di altri corpi femminili, abusati, al di fuori di una relazione significativa.

Anche in Simenon l’insopprimibile appetito sessuale:

… nascondeva quell’altrettanto insopprimibile desiderio di “conoscenza” e di “contatto” con il mondo femminile così difficile da appagare in modo diverso: come l’alcool ed il fumo servivano a placare le angosce del suo vivere quotidiano, così il sesso sopiva il suo invincibile bisogno di unione con l’universo femminile.40 Precisava il romanziere: Non si tratta assolutamente di un vizio, non

sono un maniaco sessuale, ma sento il bisogno di comunicare. 41 Comunicazione di anime e di corpi difficile e tormentata, specchio inquietante del rapporto devastante con la madre che gli rimproverava di stare al mondo, al posto del figlio prediletto, morto in giovane età, e di starci nella posizione di scrittore fallito.

Se ascoltiamo in merito la voce di Foster Wallace troviamo la stessa dolorosa tensione verso un femminile che rimanda ad un’ ansia di vuoto e di riempimento continuo. Una volta parlando con Franzen – scrive il suo biografo D.T. Max – si domandò ad alta voce se il suo unico scopo sulla terra non fosse di infilare il mio pene in quante più vagine possibili.42

… io dico che la lussuria, la sessualità pura, è per l'uomo il modo di ritrovarsi nel mondo delle proprie origini... - scriveva Simenon - Nella società complessa come la nostra, dove noi non siamo che delle pedine, è il sollievo di essere nudi di fare certi gesti senza complicazioni, senza spiegazioni, senza sentimentalità... 43 Ho bisogno, per non sentirmi prigioniero della società, di accarezzare una coscia al volo, di fare l'amore senza bisogno di

39 Ivi, p 231 40 G. Protomastro, Simenon fu un irriducibile Casanova ma fece il vuoto fra le sue donne, in

www.l’occidentale.it 41 P. Di Stefano, Come respiri bene bella bionda. Simenon e le sue centomila donne, in Corriere della Sera

25/01/1995 42 D.T. Max, Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, Einaudi, Torino 2013, p. 369 43 G. Simenon Elogio della lussuria, in Dictées Quand j'étais vieux - Presses de La Cité 1972

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dichiarazioni, di praticare il sesso, da un momento all'altro, nel mio ufficio come si trattasse della foresta equatoriale o di Tahiti. E parlo con cognizione di causa...44 Donne di cui viene sottolineata l’appartenenza al continente nero, a

quell’Africa magica e terribile che sedusse scopritori, avventurieri, coloni. Terra non addomesticata, natura allo stato primigenio, incombente, tiranna minacciosa e dispensatrice di delizie. Vien di pensare alle donne nude ritratte da Manet e da Tiziano, il cui ingenuo vuoto degli sguardi, la mollezza della postura, non a caso è accostata a quelle di un gatto e di un cagnolino, animali domestici, oggetti di simbolizzazione, ma mai promotori autonomi di senso. Come abbiamo richiamato in apertura fra le obiezioni alla nostra ipotesi, la donna è la femmina della specie homo sapiens - in un tempo non definito dalla Storia - già culturalmente marcata, oggetto di segnatura. Nello stesso tempo, le donne occidentali - di loro solo possiamo dire - immerse in secoli di sottomissione, hanno rivendicato una differenza che da ontologica si fa appunto culturale. Un differire in cui il corpo, la lingua incarnata, sono rivendicati come luoghi necessari e sufficienti di uno stare al Mondo, un Mondo letto attraverso altre lenti da quelle maschili. Un Mondo, ripetiamo, non un ambiente naturalizzato, a cui dovrebbe rispondere la donna, istintivamente, secondo l’immaginario culturale maschile. Corpo materno

Un corpo è un infinito processo di composizione…Per Spinoza il male è un cattivo incontro, una cattiva combinazione tra il nostro corpo ed un altro45

Può servire a questo ragionare, provare a fare a pezzi il corpo materno,

individuando, al di là della sua complessità, le diverse funzioni biologiche e simboliche dei suoi apparati. Forse così ci avviciniamo alle prime percezioni infantili, fratte, scomposte, alle quali sarà necessaria una successiva integrazione. Ne verrà fuori anche un’anatomia del corpo del figlio: ogni parte di esso è marchiata dal tocco materno, ogni funzione è attivata o depressa da quella vicinanza, dal suo eccesso. La pelle, la voce. Dentro e fuori, tentando di capire il gioco dei due corpi.

44 ivi 45G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombre corte, Verona, 2007 pp. 50-51

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Braccia, mano

Gesti squisitamente materni costituiscono l’imprinting ad una futura percezione e reazione emotiva al toccamento, all’incontro di pelle e pelle. Che il reggere fra le braccia sia un gesto per la vita appare evidente. Prima l’ostetrica, che accompagna con le mani la fuoriuscita della testa del neonato, che lo regge, ancora legato al cordone ombelicale, un sostegno che, fattosi abbraccio, è più importante del nutrimento stesso. Contrastare per il piccolo nuotatore la forza di gravità, ridare contorni a chi ancora non sa di averli. Ma c’è un di più. La mano continuerà a svolgere un ruolo fondamentale nella crescita del bambino. La mano indica, accarezza, sposta, evita, colpisce, segna. Bisogna andare ai lavori di Henri Laborit e di André Leroi-Gourhan, o in quelli antropologici sulla tecnica come estensione della mano-strumento, e sulla contemporanea non casuale comparsa della parola, in Ferruccio Rossi-Landi, per intendere bene la posizione che la mano occupa nel corpo umano: non solo strumento per eccellenza, ma organo complesso dotato di funzioni superiori. Non solo abile nell’afferrare e nel manipolare, l’arto gemello è capace di favorire apprendimenti, di fissare le sinapsi, di dare sostanza a quei memi nella loro funzione di eredità culturali, fondamentali al parlare e al contare. Come sempre nelle ricerche scientifiche, anche quelle a carattere empirico, si dimentica – in un atto di inconsapevole oscuramento – il ruolo della mano di una donna, di una madre. Toccare il proprio bambino non solo per ciò che concerne la cura, è pratica erotica, chi tocca è toccato, il piacere è reciproco, i doni cominciano ad essere scambiati, sono gesti che dicono il legame. Il gesto-legame, sintassi della significazione affettiva, diventa linguistico nel momento in cui la mano della Madre sposta l’attenzione del bambino dal suo corpo-contenitore al contesto della realtà circostante, indicando e nominando. Il lato oscuro della gestualità si mostra quando la Madre non può toccare il bambino, quando è lei ostaggio dell’orrore per la fragilità consegnata alle sue mani. Le mani, la prensione, il toccamento possono mostrare una disposizione offensiva; chi è toccato è preso nella morsa fisica e simbolica del potere di “quelle” mani. Non a caso il significato metaforizzato del manipolare è negativo, segna la passività, la consegna di un inerme, la mancanza di autonomia nella resistenza e nella risposta. Le mani che impongono, quelle del padre e del sacerdote nel dare il nome, nel benedire, sanciscono un possesso, un’appartenenza.

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Bocca, seno

Winncott’s concept of holding and Bion’s concept of reverie (…) use a version of the pre-oedipal mother as psycoanalytic mentor…. Describing the process of ‘maternal reverie’ Bion writes: Normal development follows if the relationship between the infant and breast permits the infant to project a feeling, say, that it is dying into the mother and to reintroject it after its sojourn in the breast has made it tolerable to the infant psyche.

This is not a hermeneutic of suspicion but – as the biblical word sojourn suggests – a process of albeit difficult hospitality. In this alchemy of maternal digestion and recycling the mother (…) metabolize(s) the primitive inchoate emotionality of the infant (…) to produce meaning, what Bion refers to as usable ‘sense-data’. Interpretation becomes visceral; in a rather literal – but non less useful- analogy body-based. 46

Il pianto e il grido infantili testimoniano la sua già avvenuta

immersione in un ordine simbolico. Nella terna Madre-grido-bambino il pianto non è un segnale, nel significato attribuitogli da Sanders Peirce, ma un appello che esige una risposta, non solo di nutrimento, visto che mai esso è solo tale e parole e cibo stanno insieme nel corpo della madre. Allora, il pre-edipico, l’edipico, la castrazione, non rappresentano l’ordine degli eventi che garantisce l’accesso al simbolico mediante il terzo, il padre, responsabile della scissione dei corpi psicotici: l’avvento del terzo è già garantito da “quella” triade, in cui il grido ha svolto il ruolo mediatore. Seno e senso, mai l’uno senza l’altro, senza su-premazia del secondo sul primo. Un legame strettissimo in cui non deve perdersi il fatto che quel seno è il corpo materno e, nel contempo, la sua impronta linguistica, mentre la negazione del nesso riconsegna la madre all’oblio linguistico. Non c’è mistica, non c’è mitologia, volendo dar loro il credito che meritano nelle vicende antropologiche e culturali, non c’è fisiologia, che

46 A. Phillips, On kissing, tickling, and being bored, First Harvard University Press, paperback edition, 1994,

pp. 105,106. Il concetto di ‘holding di Winnicot e quello di ‘reverie’ di Bion utilizzano una versione del pre-edipico materno come mentore psicoanalitico…

Descrivendo il processo di ‘reverie materna’ Bion scrive: “ Lo sviluppo segue un andamento normale se la relazione tra l’infante ed il seno permette al piccolo di proiettare una sensazione, che nella madre, potremmo dire, è in via di estinzione, e di reintroiettarla dopo che il sostare al seno l’ha resa tollerabile alla sua psiche.

Non si tratta di un’ermeneutica del sospetto ma, - come suggerisce la parola biblica dimora - un processo di non facile ospitalità. In questa alchimia di digestione e riciclo, la madre metabolizza la primitiva eemozionalità informe dell’infante (…) per produrre senso, ciò che Bion definisce “sense-data”. L’interpretazione si fa viscerale; in una, piuttosto letterale – ma non per questo meno utile - analogia basata sul corpo

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non sottolinei il legame fra bocca e linguaggio, fra l’organo della masticazione e della deglutizione e la facoltà di parola. La conoscenza-coscienza a cui Adamo ed Eva approdano, passa attraverso una mela, con le conseguenze che sappiamo: condanna e elevazione del tipicamente umano. Il Verbo divino si incarna, nella ritualità cristologica, mediante due alimenti, il pane e il vino. Principi nutritori rituali che non sono solo una rappresentazione ma la riattualizzazione di quel passaggio fatidico, del momento in cui un dio scende fra noi e lascia un messaggio. Paolo Virno, nel testo già citato sul potere e sui limiti della lingua, sottolinea l’importanza di questo legame fra cibo e Verbo nella mistica cristiana. Il Verbo incarnato, il Cristo la cui transustanziazione è garantita dal pane e dal vino, rappresenta un assumere e un deporre la materialità attraverso il sacrificio consumato per un avvento, l’avvento della parola che redime. Noi aggiungiamo che l’incarnazione del Dio cristiano ha come presupposto la disincarnazione e il depotenziamento della Madre, proprio mentre la si santifica. Maria è un canale, un tramite incontaminato. Il suo corpo mortale, privato della sessualità, troverà completa eliminazione nell’atto dell’assunzione al cielo. Il sacrificio è il sacrificio della madre. Chi nega il legame fra seno e senso e vede quest’ultimo solo nell’iscrizione nell’ordine dei significati paterni, sacrifica, con la madre cristiana, la prima parola.

Se la fame cessa ma la soddisfazione sensuale è mancata il bambino si sente defraudato e un buco si crea nella significazione soggettiva della sua esistenza, dice Sarantis Thanopulos, commentando in un articolo sul quotidiano il manifesto la differenza fra il nutrimento al seno e quello artificiale. Appare evidente nella riflessione dello psicoanalista l’importanza della dimensione erotica, dai due lati, quello della madre, o del nutritore supplente (il padre o altri con il biberon), e quella del bambino: se manca il ‘seno emotivo’ viene a mancare la possibilità di accogliere ed essere accolti,’le manque’ infesta la LM, ogni senso risulta sofferente e distorto. Nell’introduzione a ‘L’erotico materno’ di Hélène Parat, Adriano Purgato a proposito del timing imposto dall’allattamento, primo apprendimento del ritmo e dell’idea di tempo, e del pazientare nella soddisfazione del bisogno, nel dilazionarlo in desiderio, scrive:

Qui entrano in scena i fantasmi della madre, legati a vissuti di oralità vorace e separazioni più o meno pensabili che il bambino percepisce nella frequenza e nell’intermittenza delle

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poppate, e le comunica chiedendo quel latte che, in quanto a metà tra il corporeo e l’affettivo, altro non è che una dei modi di comunicare del corpo, al pari dello sperma e del sangue. 47.

Il mescolarsi dei fluidi del corpo descritto con voyoristico orrore da

Carrino, nella scena in cui si scanna il coniglio per la cena, il sangue della bestia è sangue che guasta, come quello mestruale, ma è anche stimolo erotico. La madre – l’orchessa di Carrino - dice al suo bambino: …non ho tempo per cucinar-ti. Il clitico dialettale inserito nel verbo è avvertito come un sintomo di ben altri appetiti:

No, sciocchino, non intendevo cucinare te. C’è ancora tempo. Non sai quanto tempo, amore mio piccolo infinito grande,ci resta da restare insieme. Il rosso del sangue, il rossetto della donna sono l’esito di un’aggressione in cui la madre che divora è sempre lì per essere divorata: Ogni tavola è mia madre…mi aveva schifato perché mangiavo di tutto, che un giorno avrei mangiato anche lei…48

Se in Carrino il dolore cade talvolta sotto l’ipoteca di un vezzo

letterario, un fraseggiare intenso ma un po’ troppo insistito e studiato, in Wolfson, la cronaca delle giornate è esistenza allo stato puro, è un distillato di angosce reali. Il cibo è condanna e delirio, un passaggio obbligato sotto le forche caudine di un nutrimento malato, inflitto dalla stessa madre che riempie gli scaffali di sconsiderate quantità di alimenti e le lascia all’opera devastante del figlio che, pur sospettando il gioco perverso, non se ne può sottrarre. …ces jours-là , dans sa feblesse et dans sa faim, il perdait non rarement la tête, commencant alors son délire ou dans sa démence une vraie orgie…49

Wolfson conosce le sue perversioni legate all’atto di nutrirsi e a quello simmetrico di evacuare. Prova piacere a liberare l’intestino mediante l’inoculazione di un irrigatore, introdotto, si badi, solo da una mano femminile, attività di manipolazione che gli causa sempre una vistosa erezione. Nulla avviene come dovrebbe, tutte le funzioni fisiche appaiono danneggiate e irreparabili. Ci facciamo la domanda-chiave posta da Thanopulos e da Parat: chi, e come, avrà allattato e accudito il piccolo Wolfson? Quale voce avrà nutrito la sua mente e avviato il suo apprendimento linguistico? Wolfson non fa che raccontare questo scacco,

47 cfr. A. Purgato, Introduzione a Hélèn Parat, L’erotico materno, Borla, Milano, 2000 48 L.R. Carrino, Esercizi… cit., pp. 33-48,49 49 L. Wolfson, Le schizo et les langues, 1970, Gallimard, p. 48 In quei giorni, nella debilitazione e nella fame, egli perdeva non di rado la testa, iniziando allora il suo delirio o nella sua demenza una vera orgia.

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del nutrimento e della parola. Scacco che ha infestato di orrori anche il suo cervello, son cerveau così simile a son intestin inférieur, entrambi oggetto dell’invasività di un tube en caoutchouc.50

Il bisogno di sapere in Wolfson, sottolinea Gilles Deleuze, è fatto di pezzi: le parole delle varie lingue, i fonemi di cui esse sono costituite, le modificazioni che deve subire l’inglese per non risultare intossicante. Sono pezzi raccolti, catalogati come in una tavola degli elementi nel tentativo di ricomporre un oggetto intero. Ma la totalità ambita, che dovrebbe tenere a bada la voracità materna, e la bulimia del figlio, non si compie. I suoi due padri non ne fanno uno, la simbolizzazione fallisce. Lo scarto, l’écart, il differenziale patogeno rappresentato dalla madre, rimane un meteorite vagante, ogni ricomposizione fallisce. Aulagnier riprende questo tema quando cita l’orgia alimentare che, svolgendosi con i libri, i vocabolari aperti, durante lo studio, è tutt’uno con l’accelerazione impressa alla ripetizione della parole e alla scrittura Il nutrimento è oralità linguistico-alimentare. Ogni abbuffata è sempre a rischio di produrre un’otturazione, una costipazione, un ingolfarsi del tubo digerente e della mente stessa51.

Nella descrizione del banchetto di Gonzalo, il protagonista della

cognizione, Gadda dà voce alla sua passione per il cibo, passione nella quale è insito anche il disgusto per l’eccesso, per lui inevitabile; contrasto che si evidenzia nel binomio, sempre presente, alimento – escremento.

…come nel corso di tutta una interminabile estate egli non avesse cibato se non aragoste in salsa tartara, merlani in bianco con fiotti di majonese, o due o tre volte il peje-rey; e piccioni arrostiti in casseruola con i rosmarini e le patatine novelle, dolci, ma non troppo, e piccolette, ma di già un po’ sfatte, inficiate, queste, nel sugo stesso venutone da quegli stessi piccioni: farciti alla lor volta, secondo una ricetta andalusa, con l’origano, la salvia, il basilico, il timo, il rosmarino, il mentastro, e pimiento, zibibbo, lardo di scrofa, cervelli di pollo, zenzero, pepe rosso, chiodi di garofano, ed altre patate ancora, di dentro, quasiché non bastassero quelle altre messe a contorno, cioè di fuori del deretano del piccione; che erano quasi divenute una seconda polpa anche loro, tanto vi si erano incorporate, nel deretano: come se l’uccello, una volta arrostito, avesse acquistato dei visceri più confacenti alla sua nuova situazione di pollo arrosto, ma più piccolo e grasso, del pollo, perché era invece un piccione. 52

Gadda combatte la noia ed il dolore di vivere con la scrittura e

mangiando, attività questa che lo seduce, gli procura un piacere intenso ed

50 Ivi, p. 117 51 AA.VV., Dossier Wolfson, cit., p. 84 52 C.E.Gadda, La cognizione….cit., pp. 43.44

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esercita su di lui un potente effetto consolatorio, e pesanti, immancabili, sensi di colpa.

Perec citando un fantomatico, alla maniera OuLiPo, esegeta dell’opera di Roussel, un tale Osvaldus Pferdli, gli fa dire:

…Si può definire l’incorporazione una fantasia di trasformazione – la più radicale possibile – del mondo, al fine di evitare ogni pur minima modificazione del soggetto. Essa raggiunge il suo scopo attraverso un’apprensione letterale e irriducibile del mondo. Laddove il processo d’introiezione scopre metafora e simbolo (l’acquisizione della LM ne è la manifestazione iniziale più singolare) l’incorporazione mette l’accento sul senso unico, <<oggettivo>> delle parole e delle cose, e ovunque trovi oggetti metaforici, li de-metaforizza sistematicamente. Così quando qualcosa è difficile da mandar giù, diventa, con un salto al piano fisiologico, un <<boccone da mandar giù>> pasti e cibi diventano ossessioni[un modo per] evitare che certe parole insopportabili vengano pronunciate…53.

La Plath, combattuta tra la lettura di un romanzo, un libro di poesie e

l’adempimento dei suoi doveri coniugali, manifesta così i suoi continui dubbi:

Ho riempito la mia borsa di vernice nera, di sherry, formaggio fresco ( per la torta di albicocche della nonna),timo, basilico, foglie di alloro (per gli stufati esotici di Wendy – di cui un fac-simile bolle in pentola proprio adesso), wafer dorati,(che modo elegante di chiamare i cracker Ritz), mele e pere verdi…..Invece di studiare Locke, per esempio, o di scrivere, mi metto a fare una torta di mele, o mi studio ‘il piacere della cucina’, leggendomelo come se fosse un romanzo eccezionale. Cavolo, mi sono detta. Troverai rifugio nella vita domestica e soffocherai cadendo a testa in giù nella terrina con l’impasto per i biscotti.54

Corto circuito dunque, fra Madre/bambino/Lingua, ripetizione come

metabolismo di vita/morte; melanconia come aspetto costitutivo della perdita. Eppure il paradigma evolutivo di distruzione e conservazione può rappresentare la maniera con cui la perdita può convertirsi in creatività.

Non diciamo mai abbastanza che l’apprendimento del linguaggio da parte dei bambini è un ri-apprendimento del linguaggio da parte della madre. Nella identificazione proiettiva della madre e del bambino, la genitrice abita la bocca, i polmoni, il tratto gastrointestinale del figlio, e, accompagnandone le ecolalie, lo conduce ai segni, alle frasi, ai racconti: l’infans diventa un bambino, un soggetto parlante. 55

Gli eventi quotidiani di cura corporea, di scambio naturale di

sostanze (latte, lacrime, ,feci, urina) e di sensazioni attraverso le aperture mucosali del corpo formano il prototipo di una possibilità di

53 G. Perec, Cantatrix …, cit., p. 72 54 S. Plath, Diari, cit., pp. 187,188 55 J. Kristeva, La passione materna, cit., p. 5

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interscambio psichico successivo tra due esseri umani di cui questi eventi intercorporei sono la premessa naturale; un’esperienza che – se ben visibile – sarà introiettata con i suoi equivalenti psicologici successivi e si costituirà anche come il modo interno del soggetto di funzionare psichicamente e di trattare il proprio Sé.56

Occhi, sguardo

Alla nascita c’è dunque un momento della parola che è di dominio assoluto dell’io materno (il porta-parola) e un momento dell’immagine, momento figurale, relativo al nostro proprio corpo – l’ancoraggio più arcaico dell’esperienza che facciamo di noi stessi – in relazione allo sguardo innanzitutto quello della madre che conferma al bambino che fissa l’immagine allo specchio che quella immagine è lui

. La conferma permette al bambino di assumere l’immagine riflessa nello specchio come

propria. Detto questo resta inesplorata l’area relativa alla conferma che lo sguardo materno occupa nella costituzione dell’Io di un uomo e di una donna, poiché non si può dare per scontato che le vicissitudini di ambedue questi Io non siano differenziate fin dalla nascita e forse anche prima della nascita.57

Ma cosa vede la Madre mentre si specchia con il bambino, si domanda

la Fraire. Quale immagine e quale rappresentazione di sé, come colei che regge, induce quel riflesso. Perché non suscita l’attenzione né in Lacan né in Winnicott il posto occupato dalla Madre? C’è in questo straordinario rimosso maschile l’eros della Madre e il suo bisogno di una identificazione non schiacciata sul materno accudente, questione aperta, insostenibile.

Si chiede Wolfson, come non mancò di notare la Aulagnier58 nel ritracciare il romanzo famigliare dello schizofrenico, che ne sarebbe stato della madre se, lui, il figlio, unico, questo figlio, non un altro, fosse scomparso. Sicuramente la madre sarebbe diventata folle au pire.

E ancora, con grande sagacia, Wolfson sottolinea come la madre, priva di un occhio, abbia sempre negato questa offesa del corpo, impossibile da simbolizzare. Forse perché allude a un non vedere quel figlio o vederlo

56 S. Argentieri, S. Bolognini, A. Di Ciaccia, L. Zoja, In difesa della psicoanalisi, Einuadi, Torino, 2013,

p.43 57 M. Fraire, Disfare la madre, rifare la madre, in “Pedagogika, 2010, p. 82 58 cfr. P. Aulagnier, Le senses perdu (Ou le “Schizo” et la signification), in Dossier Wolfson, cit.

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male, fuori campo. Contraddittoriamente, suggerisce ancora Aulagnier, l’occhio mancante è sostituito da un di più, il figlio, questo figlio eccessivo.59 L’escamotage trovato dal narratore schizofrenico, così lucido nella sua analisi della situazione famigliare, di uccidere la lingua materna per non uccidere la madre, salva una situazione estrema da un epilogo più tragico. Ma nel gioco di sguardi, chi garantisce che si esiste, che si è persone, se l’occhio materno è mancante? La mancanza negata, nella sua evidenza, continua a segnare l’eccesso e la privazione di sguardi necessari, che si sostengano, amorosi, consolanti, fa il paio con la violenza della lingua che si rompe, che scarta, che imbavaglia. Non vedere bene, non parlare bene. Ricorda la Fraire che l’incontro decisivo tra chi guarda e il suo riflesso è un incontro tuttavia che assume il suo vero significato solo se si tiene conto di quel movimento dello sguardo del bambino che si scopre nello specchio, che lo conduce verso lo sguardo della madre alla ricerca della conferma della bellezza dell’immagine, prima di ritornare allo specchio e alla sua immagine speculare. Fraire suggerisce, commentando la fase dello specchio, un’altra triangolazione, oltre il paterno: all’interno della relazione madre-figlio è già presente un terzo elemento che precede l’Edipo e che riguarda la triangolarità istituita dalla madre, dal bambino e dalla loro immagine. 60

Il trauma, dopo-la-separazione dalla madre, è costituito dall’impotenza, dal dis-aiuto, dal bisogno di protesi, di affido. Il bambino vuole essere guardato mentre succhia, gioca, prova a parlare. Nella fase dello specchio vuole che qualcuno lo guardi nel riflesso, e lo sostenga da dietro. Da qui nasce ogni possibilità di auto-rappresentazione, di appropriazione dell’ immagine.61

Già per Freud, la relazione Madre/bambino rappresenta l’epoca minoica della storia personale. Il minoico, il pre-classico del bambino e della Madre, dunque. La donna ripercorre il momento in cui ha cessato di esser figlia, figlia della Madre, si confronta nella definitiva entrata nel mondo delle madri con il lutto per una perdita, a cui spesso non ha corrisposto un vero passaggio delle insegne. Qualcosa si è perso, nel suo passato, molto si perde mentre il bambino nasce, tutto rischia di andare perduto quando il bambino inizia a parlare, camminare, esser visto e assunto come figlio del padre. Come migra il desiderio femminile nel susseguirsi delle perdite? E’ destinato sempre ad un altrove, è a-topico, inattuale sempre, non come 59ivi, p. 81 60 M. Fraire, Disfare la madre…cit pp 84,85. 61 Cfr. M.C. Lambotte Il discorso melanconico, Borla, Milano 1999

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ogni desiderio in tensione verso, ma come un moto a qualche luogo di cui non si può dire nulla.

La madre di Wolfson morì nella notte fra il 17 e il 18 maggio del 1977,

oltre dieci anni dopo il completamento delle memorie e a sette dalla loro pubblicazione. Nel 1984, ‘le schizo’ scrisse una sorta di memoria della madre. Nel titolo compare la dicitura relativa all’ospedale in cui morì la donna: au mouroir Memorial à Manhattan ou Exterminez l’Amerique. All’estremo est l’America finisce ed è sterminata.62 Nella pièce teatrale di Nelo Risi sullo studente di lingue, Wolfson parla della morte della madre come di un’esplosione termonucleare: vita e morte di una donna che avrebbe voluto esser musicista e fu solo una povera donnetta ebrea. Madre a cui rendere ad ogni modo onore con la stupefazione e l’orrore che si potrebbero provare a fronte di un’apocalissi stellare.63

Dalla fase dello specchio, il bambino può iniziare a dire Io, istanza

linguistica, può avviarsi nella ricerca di un modo di cogliersi da sé, precisa l’Aulagnier. Dal taglio del cordone ombelicale ad altri rituali, molte sono le prove culturalmente stabilite per sanzionare l’avvenuto interdetto al godimento infinito, totalizzante. Si tratta di pagare lo scotto per poter entrare nel campo dell’Altro, dove la maiuscola indica l’esistenza di un discorso in cui il moi è stato integrato. Il fallo rappresenta la possibilità, sempre frustrata, di ripristinare l’unità perduta con la Madre indirizzandosi a qualcosa che, posseduto dal Padre, è in relazione con la donna/Madre, e dunque consente di emanciparsi dal desiderio vorace della Madre, con particolare attenzione alla duplicazione semantica tipica di questo doppio genitivo. Non sempre basta la sublimazione costituita dalla tenerezza materna, di cui parla Kristeva nella corrispondenza con Jean Vanier64per evitare la ridda delle attenzioni inclusive della madre e del bambino, reciproche, e delle mosse respingenti altrettanto simmetriche. La donna, investita dal significante culturale della cura, prima fonte di seduzione, primo Altro la cui legge oscura deve essere trasgredita, pena la condanna all’afasia, questa donna 62 Nota editoriale in L. Wolfson Le schizo et les langues circa le altre pubblicazioni dello stesso autore: Ma

mère, musicienne, est morte de maladie maligne mardi à minuit au milieu du mois de mai mille977, au mouroir memorial à Manhattan ou exterminez l’Amérique, Navarin ,1984. Cfr. Louis Wolfson, Mia madre musicista, è morta di malattia maligna, a mezzanotte tra masrtedì e mercoledì, nella metà di maggio mille977, nel mortifero Memorial di Manhattan, Torino, Einaudi, 2013

63 Cfr N. Risi, Lo studente di lingue: ovvero punto finale ad un pianeta infernale, Guanda, Milano 1978 64 cfr. J. Kristeva, J. Vanier, Il loro sguardo buca le nostre ombre, Donzelli, Roma, 2011

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per non essere neutralizzata deve essere madre, unica concessione alla differenza prevista dall’ordine simbolico patriarcale. Ma se si concede completamente a questa funzione, scompare a sé stessa. Così il mantenimento in vita e l’annullamento convivono nella donna, ne sono segno-sintomo gli aborti spontanei, la cura dispensata doverosamente e distrattamente, il lavorio con cui fa e disfa la lingua insieme al suo bambino. Voce

Scrive la Aulagnier a proposito del dubbio che si insinua a ridosso della seduzione operata dalla voce materna:

...indipendentemente dal contenuto di ciò che enuncia, il porta parola vuole farmi conoscere la verità oppure ingannarmi, indurmi in errore? Momento nel qual si separerà l’investimento della voce che enuncia dall’investimento dell’enunciato, dell’informazione che si riceve …passo formidabile per Freud…65 Ma la voce, come voce di quella madre, tornerà così come è stata udita

e imitata nel lallare, continuamente, ogni volta almeno in cui si cercherà una parola autentica, originale. Ma è anche voce dell’orrore e del delirio, come testimoniano non solo Wolfson, ma Paul Celan, Jean Amery, Anne-Lise Stern, per i quali, quei medesimi suoni della prima infanzia, divennero inudibili quando pronunciati in contesti estremi. Leggiamo Celan, tornato dolorosamente a praticare la lingua tedesca, dopo essersi esiliato lungamente da essa, in un conseguito silenzio: L’altro. Più profonde ferite che a me Inflisse a te il tacere Più grandi stelle Ti irretiscono nella loro insidia di sguardi, più bianca cenere giace sulla parola cui hai creduto E ancora da Bocca di lupo cogliamo questi versi: …Madre, nessuno agli assassini ferma la voce. … Madre, essi scrivono poesie Oh 65 P. Aulagnier, I destini del piacere…cit., p. 65

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Madre, quanto Dei più stranieri campi porta il tuo frutto! …scorzati, vieni, scorzati dalla mia parola66

…l’allemand, ma langue maternelle…Quand j’ai retrouvé mes parents à mon retour d’Auschwitz, mon récit s’est fait en français, sans doute: l’accent allemande, les fautes de ma mère en français m’étaient encore plus insupportables qu’avant…parler, entendre l’allemand à cette époque me faisait horreur Cette difficulté, cet interdit à traduire par Mummel-lallen (mummeln:murmurer, lallen:balbutier), un peu comme le mamme-loschen (langue de la mère ) en yiddish…le mamme-loschen caché, oublié, immergé chez l’adulte, mais d’où peuvent surgir quelques signifiants particulièrement chargés. Ce Mummel-lallen, ce n‘est pas de l’espéranto, plutȏt le contraire: à chacun le sien. Une lalangue qui ne ressemble en rien à celle d’un autre, même si il, elle, parle la même langue. 67

Il filosofo Corrado Bologna68ricorda di Celan soprattutto il dolore

creaturale che blocca la parola. Uno spasimo che trattiene respiro e parola in un singulto, nel singhiozzo dei morti – della madre morta – perché i suoni della lingua tedesca sono stati pietrificati dagli aguzzini, e la Lingua Materna va con sforzo immenso liberata dal laccio della morte. Nadia Fusini per contro, preferisce cogliere la tensione creatrice e poetica di Celan, sottolineando che poteva esprimersi solo con quella lingua, perché, malgrado l’orrore, quello era il flatus del poetico, la sola possibilità di dire. E accosta la scelta del poeta di scrivere ancora in tedesco alla più vitale affermazione di Hannah Arendt, sulla lingua che resta, anche quando sembra dimenticata in the back of my mind, matrice, ancora e sempre, della venuta al Mondo. 69

Il piccolo umano viene dunque provvisto dal discorso e persino dall’intonazione della voce

materna delle rappresentazioni che significheranno – una volta che avrà fatto suo quel discorso – il corpo da e di cui parla, le sue modificazioni, le sue fluttuazioni segnate da cadute di senso, deformazioni, spostamenti, tutta una morfologia dell’aberrazione che trova nel discorso materno un ancoraggio.70

66 P. Celan,, Conseguito silenzio, Einaudi, Torino, 1998, pp. 14-22 67 A.L. Stern Le savoir déporté. Camps, Histoire, Psycanalyse , 2004, Ed. Du Seuil, p. 252 …il tedesco,

mia lingua materna…quando sono tornata da Auschwitz, il mio racconto è stata reso in francese, senza dubbio: l’accento tedesco di mia madre nel francese mi era ancora più insopportabile di prima…parlare, comprendere il tedesco in quel momento mi faceva orrore. Questa difficoltà, questo interdetto a tradurre con Mummel-lallen (mimmeln: mormorare, lallare:balbettare) un po’ come il mamme-loschen (lingua della madre) cacciato, dimenticato, immerso nell’adulto, ma dove poteva sorgere qualche significante particolarmente allarmante. Questo Mummel-lallen, non è un esperanto, piuttosto il contrario: a ciascuno il suo. Una lalangue che non assomiglia in nulla a quella di un altro, anche se parla la stessa lingua.

68 Conversazione alla radio Radio3 04/12/1999 69 cfr. N. Fusini, Hannah e le altre , Einaudi, Torino, 2013 70 M. Fraire, Disfare…cit., pp. 81,82

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Scrive Bologna al lemma Voce per l’Enciclopedia Einaudi, che molte, moltissime sono le declinazioni della voce umana, tantissime le occorrenze. La voce è flatus, pneuma della Lingua, fin dai suoi esordi (materni, infantili, ed entrambi…) corpo della Lingua, suono umano distinto dal verso e dal grido animali, da sempre significante. Voce erotica, autorevole, amorosa, crudele, nelle sue modulazioni intenzionali e inconsapevoli. Ne esiste un’antropologia e una sociologia, come inscrizione all’interno di codici di comportamento, per modularla. Aristotele, nella ‘Retorica’, dal canto suo, dice che le articolazioni della voce umana, pur differenti nelle diverse culture, sono complementari alle operazioni logico-cognitive dell’anima. Non si poteva dir meglio l’unicità dell’esperienza umana che si offre alla voce materna in un atto di triangolazione amorosa dopo la separazione, e nella elaborazione del suo lutto, per continuare a mettere al lavoro il dubbio sulla veridicità di quella parola che accompagna il bambino mentre ascolta. Lavoro di ricerca che - ed è ancora Aristotele e non Lacan – può trovare esito nella possibilità di scrittura di quella voce, delle sue sonorità, divenute lingua materna, lingua fatta propria, mai davvero conquistata.

La voce materna, amata o detestata, è, dice Aulagnier commentando Wolfson, un tutt’uno con il suo corpo: l’organo della fonazione, la lingua-organo è un pezzo di corpo, pezzo minaccioso. La Lingua organo-funzione della madre è capace di una erezione che occupa ogni spazio di significazione, che ostruisce la ricerca di una propria espressione da parte del bambino. Uno spazio seduttivo che, indipendentemente da quel che la voce dice, può riassorbire il bambino.

Redenzione del corpo materno La Fraire, nel riconsiderare il lavoro della Klein sul bisogno di

distruttività che anima il vissuto preconscio del bambino e la necessità per la Madre di apporre una strenua difesa nei suoi confronti, afferma che all’inizio c’è la lotta, si potrebbe dire, lotta per la sopravvivenza psichica di entrambi, e solo sulla sua elaborazione si può instaurare un’affettività benigna.

Ma con la morte di tuo padre ti sei esageratamente orientata verso la personalità “umanistica” di tua madre. E ti sei spaventata quando hai sentito che la tua voce smetteva di

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parlare e c’era l’eco della sua, come se lei si esprimesse in te, come se tu non fossi veramente tu ma stessi crescendo nella sua scia, come se le sue espressioni nascessero ed emanassero dalla tua faccia…71

Concludendo, il corpo della Madre continua ad essere, per alcuni, fonte

unica di Amore. L’etimologia della parola amare e dei suoi derivati è incerta, forse di origine pre-indoeuropea arrivata alle lingue europee dell’area latina. La ridda dei suoi chiaroscuri è la spia della difficoltà a significarla. La prima lettera come l’orma di un prefisso privativo, oppure una preposizione di moto a luogo, verso l’altro da sé. Ma anche verso la morte. L’amore contro o per la morte. L’Amore, desiderio che si fa pena, meglio, dice Lacan, il penare che diventa oggetto investito. Un matricidio simbolico alla base dell’Amore e della Lingua.

Dice ancora Kristeva, che:

si verifica così, grazie all’acquisizione del linguaggio e del pensiero da parte del bambino che non ha più - o che ha meno – bisogno di godere del corpo della madre, piuttosto che del piacere di pensare, prima con lei, poi per se stesso, al suo posto. A condizione che la madre partecipi al proprio matricidio simbolico: il che implica che non solo ella abbia “spassionato” il suo legame con sua madre, ma anche il suo diniego narcisistico dell’essere altro; ma che il suo messaggio al suo bambino non sia di possesso ma un motto di spirito. E’ solo se lo “spassionamento” è in corso nella passione materna che la sublimazione si sposta dal corpo a corpo tra oggetti che soffrono al pensiero tra due soggetti, e promuove così lo sviluppo del pensiero del bambino.72 Roland Barthes scrive, alla morte della madre, uno struggente diario in

cui si confronta con l’impossibile resa in scrittura di un dolore oltre la parola, forse oltre la possibilità di farne davvero esperienza. La morte è il luogo indefinito dove vige solo la mancanza, il posto dove lei non c’è. Negli anni dal 1962 al 1980, in numerose interviste concesse a riviste, e durante trasmissioni radiofoniche, riannodò le sue riflessioni sul senso della scrittura con il desiderio, con l’amore. Citando Proust, disse che chi scrive lo fa soprattutto per il soggetto amato e che il sentimento che anima la scrittura non è quello tipico dell’innamorato romantico, nella scrittura c’è un sentimento amoroso molto più effusivo, che mira a un appagamento. La figura essenziale allora è la Madre, aggiunse, figura a cui ogni creazione artistica pare dedicata. Ancora, rispetto a Proust ne ricordava spesso la difficoltà a separarsi dalla madre. Solo

71 S. Plath, Diari, Adelphi, Milano, 2007, p. 46 72 J. Kristeva, La passione materna… pp. 6,7

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l’invecchiamento e la morte potevano aver ragione di tale sentimento, per trasformarlo in malinconia e colpa, la colpa del sopravvissuto a quell’amore. E sempre Lacan:

Il bambino nasce al linguaggio nel momento in cui il suo desiderio si umanizza. Accettandolo, il bambino non domina soltanto la sua privazione, ma eleva il suo desiderio a una seconda potenza. La sua azione distrugge l’oggetto e rende negativo il campo di forza del desiderio, per divenire a sé stessa il suo proprio desiderio. Il desiderio del bambino è diventato quello di un alter ego, il cui oggetto di desiderio è la propria pena. Così quando vogliamo cogliere nel soggetto ciò che era prima dei giochi seriali della parola e ciò che è primordiale alla nascita dei simboli, lo troviamo nella morte.73

Padre

Un padre, la cosa viva più immobile che abbia mai conosciuto….. Mio padre; chi era costui?74

Dal punto di vista spettacolare questo Padre, da un borgo che lui stesso definisce questo

fondo di oscurità, ha qualcosa di torvamente grandioso. Recanati è la Caverna, il Dirupo su cui si arrampica il Castello, è la Rocca ma anche il Labirinto del sovrano giustiziere. 75

Ancora per anni soffrii del tormentoso pensiero che mio padre, il gigante, la suprema

istanza, poteva venire quasi senza motivo nel cuore della notte a portarmi sul ballatoio, e che io dunque per lui ero meno di niente76

…la fine dei regni paterni già scritta sulle piccole mani nasciture; e le guerre paterne che mandano i figli alla strage per frodare il destino… 77

Fonda una famiglia, costruisci uno stato. L’evento garantito è pur sempre lo stesso: La materia alla fine non mitigherà mai Le sue antiche pretese brutali. 78

Essere nata donna è la mia terribile tragedia. 79

73 J. Lacan, cit. , in A.Rifflet-Lemaire, Introduzione a Jacques Lacan, Roma, Astrolabio- Ubaldini, 1972 , p.

211 74 S. Bonvissuto, Dentro, Einaudi, Torino, 2012, p.165 75 G. Manganelli, Introduzione. Il Monarca delle Indie. Corrispondenza fra Giacomo e Monaldo Leopardi,

Adelphi, Milano 1988, p. 16 76 F. Kafka, Lettera al padre, in Confessioni e diari, Mondadori, Milano, 1972, p.643 77 E. Morante, Serata a Colono, in Il mondo salvato dai ragazzini, Einaudi, Torino, 1968, p. 59 78 H. Melville, Poemetto gnostico, in Opere scelte, Mondadori, Milano, 1975 79 S. Plath, Diari, cit., p. 50

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Nella mitopoiesi fatta propria dalla psicoanalisi, le figure femminili, le grandi madri ctonie, passano sotto silenzio non appena evocate, ignorata la nascita fisica dei personaggi mitici, perduto l’incipit simbolico del mito stesso. Ce lo ricorda la psicoanalista Amalia Giuffrida a proposito di Giocasta, figura eccessiva e eccedente, intorno al cui orrore silenzioso sono giocate le genealogie femminili, sempre sotto il segno della castrazione e del mutismo. Antigone, che giganteggia nella opposizione a Creonte, ma anche figura accudente e dimentica di sé nell’ultimo viaggio da esule del padre Edipo; Ismene, amazzone a cavallo, che rimane sempre solo l’altra figlia, la sorella. Se non sono madri è perché hanno altri compiti a cui le destina il drammaturgo e, attraverso l’espletamento del compito assegnato, prendono un rilievo di sfondo o controcampo ai ruoli maschili. Dopo una guerra di maschi-fratelli, il gesto di Antigone, portavoce di una legge al femminile, è solo il negativo di una dialettica con la Legge statuita, rappresentata da Creonte. Questo loro fare da sfondo, l’essere funzione di storie tutte maschili, è tipico anche di altri racconti, apparentemente molto diversi da quelli citati, esempio del lavorio che la mitologia compie per dare conto dell’opera di ordinamento della Legge sulla coppia maschile e femminile, e del figlio fra i due. Anche gli ardori di Fedra verso il figliastro Ippolito, oppure l’uccisione della prole da parte di Medea, possono essere letti come perversi segnali dell’ambiguità del materno, monito e vendetta indirizzate alla diurna potenza maschile, al suo appropriarsi dei figli, per secoli saldatura e garanzia dell’unione coniugale e sanzione della indissolubilità della diade femminile-materno.

La fertilità femminile è una preoccupazione costante in tutte le civiltà, il parto che va a buon fine e la salute del neonato sono messi sotto il segno della protezione degli dei. Una donna che non ha figli vive la condizione della reietta, il suo mutismo si fa assoluto, oppure parla il corpo ammalato, mutato in mappa di segni, di sintomi. Un figlio è tale solo se c’è un padre, altrimenti cade sotto la stessa condanna all’invisibilità della donna che lo ha messo al mondo. Il figlio non è il dono che la donna fa a sé, come ella stessa immagina nel breve tempo che va dal concepimento alla prima infanzia, talvolta fino alla sola nascita, ma è obolo dovuto al Padre. Questa constatazione antropologica e storica poggia su un paradosso. La temibile potenza del procreare, in tutte le culture sottoposta ad esorcismo, proprio mediante la simbolizzazione operata dalle figure mitiche della Fertilità, è la cifra di una estrema

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derelizione a cui la donna viene condannata dalla sua stessa potenza. Dunque che il Padre si dia.

Così che, la presenza di un Padre è una condizione sufficiente e necessaria? Nella tradizione arcaica e greco-romana, su cui si sono fondate le istituzioni che per brevità definiamo occidentali, l’ostetrica girava intorno al fuoco domestico con il neonato, sia per consacrarlo agli dei tutelari, sia per verificare lo stato di salute. In caso di responso negativo l’esposizione era la sorte a cui la comunità lo condannava80. Ultimo riconoscimento di un sapere solo femminile sul concepimento e sulla nascita, perché successivamente era il padre, un maschio adulto, che levava al cielo il bambino e ne sanciva la salute fisica, per adeguatezza del corpo – già verificata dalla levatrice - e la salute giuridica, per sangue e patrimonio. Il gesto riuniva, in un unico evento, il semplice fatto biologico, il dato della procreazione avvenuta, e il diritto del Padre di imporre il nome, di definire la parentela, di legittimare la madre stessa. Ciò che faceva resto, un’anomalia del corpo, una madre innominata, costituivano il campo dell’ingiusto e del bandito.

Come sempre, un’altra via avrebbe potuto darsi. Non tanto un matriarcato giuridico e politico che subisce un assalto e patisce una sconfitta, privo di fondatezza storica, come insegna Eva Cantarella, storica del diritto greco, ma la Madre come figura della mediazione, la Madre che permette al padre e al figlio di dirsi reciprocamente, di conoscersi, attraverso di lei, non oltre, malgrado lei. Insomma, la Madre, e sembra quasi una blasfemia, a fare da terzo mediante seno e parola. Praticabilità di un piano non assertivo, modalità né sufficiente né necessaria, per dare conto della figura del Padre, come Padre reso possibile, perché la Madre lo nomina. Ipotesi utopica, malgrado il lavoro di approfondimento del secolo scorso sulla maternità, sullo statuto del femminile, sui ruoli parentali.

Massimo Recalcati81nel suo lavoro centrato sulla figura di Telemaco,

ultimo personaggio nell’ordine dei posti assegnati dai ruoli famigliari, dopo l’Edipo freudiano e il Narciso postmoderno, torna al tema della necessità, del ripristino della figura paterna e della sua parola. Il terzo fra due, lo abbiamo detto, è la marca che, nella nostra cultura, garantisce l’equilibrio e, malgrado esso appartenga all’ordine linguistico, Recalcati 80 Platone, Teeteto, Laterza, Bari-Roma, 2002 nota n. 87 p. 205 81 cfr. M. Recalcati ,Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli,

Milano, 2013

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non accorda alla Lingua Materna il potere di operare questa mediazione. La parola, dice Recalcati, quella che Telemaco aspetta, e con lui ogni figlio, è la parola del Padre. Telemaco, per mare mentre cerca notizie di Ulisse, o sulla riva, vuole una garanzia maschile – come è tipico di un ordine patriarcale e di un governo mondano – vuole che il ritorno del padre lo garantisca nel suo percorso di emancipazione dalla madre, per altro, se leggiamo le parole sprezzanti che le rivolge, già ampiamente avviato. Non vuole essere lo scudo interposto alla violenza dei Proci, in ostaggio per la conservazione del regno. Ma, azzardiamo un’ipotesi provocatoria: se sulla riva lo avesse autorizzato ad andare proprio la madre, dicendogli, guarda altrove, guarda oltre, lasciaMI andare!, che verso prenderebbe l’interpretazione del testo omerico? Come Giocasta, vittima inconsapevole di un gioco fatale fra Edipo e Laio, anche Penelope viene schiacciata, più che nella evidenza letterale del racconto omerico, dall’interpretazione degli epigoni (e di Recalcati), ad una sorta di negativo, di non- detto, una anomia sulla quale prende rilievo il rapporto Padre-figlio.

La lezione di Eva Cantarella, il suo inquadramento storico-culturale del racconto, sembrano andare in un altro senso. Penelope obbedisce alla prescrizione imposta ad una moglie, la fedeltà, accetta le ingiunzioni del figlio adolescente – che già interpreta l’uomo che sarà! – a starsene nelle sue stanze,82tesse e ritesse la tela per ingannare i Proci, ascolta gli ammonimenti del padre che vuole riprenda marito, eppure, dice Cantarella, tutto è molto ambiguo. Atena – non a caso la dea nata dalla testa del padre - consiglia a Telemaco di non fidarsi della madre, non tanto per una questione legata al rischio di infedeltà, ma perché ogni donna vuole favorire la casa di colui che la sposa, e dei figli di prima e del caro marito morto non si ricorda più, né li cerca.83 Ancora, il ritorno del padre è per Telemaco la garanzia del nome, della casata, visto che nessuno da solo può sapere il suo seme 84 L’ipotesi, suggerisce Cantarella, è che Penelope vorrebbe proprio esser lasciata andare. Come ogni donna dell’antichità, e non solo, inchiodata al suo ruolo di matrice-nutrice – coltiva un desiderio, alimenta un sogno, magari ancora una ripetizione, un altro matrimonio, altri figli, perché questo è l’unico movimento che le pare possibile. Ma avverte il laccio, rappresentato non 82 E. Cantarella, L’ambiguo malanno. Condizione e imma,gine della donna nell’antichità greca e romana,

Feltrinelli, Milano, 2010, p. 47 83 Ivi p 49 ; Odissea, Garzanti, Milano, 1981, L. 15,19-26 84 Ivi p 51; Odissea, cit., L. 1,215,216

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solo dal marito, a dato dal complesso di una condizione in cui, all’onnipotenza di quel breve tempo in cui le è appartenuto totalmente il figlio dell’uomo, corrisponde l’impotenza del tempo in cui le è stato tolto. Posizione sospesa fra due desideri dove il secondo – lo scioglimento del vincolo - è anche, oscuramente, un’opportunità di essere finalmente padrona del suo destino, di darsi un’altra vita.

Un accento, che sembra rimandare al rischio di una scelta definitiva e libera da parte di Penelope, si coglie pure nella preoccupata domanda di Ulisse alla madre morta. Nella postura quasi femminile della preghiera, Ulisse vorrebbe sapere cosa succede a Itaca, il tono è dimesso, è la voce di un uomo che ipotizza che la donna possa aver smesso di aver cura della casa e dei beni e se ne sente dolente e colpevole, come di cosa meritata: Dimmi di lei, di mia moglie, di come la pensa, se ancora è accanto al figlio e tiene tutto sotto chiave, o l’ha sposata un altro personaggio, in patria.85.

Proviamo a leggere la figura di Penelope attraverso la Molly Bloom di James Joyce, madre in competizione con la figlia, madre dolorosa e incestuosa, moglie infedele per spregio e per stanchezza. Una Molly-Penelope che nel monologo finale del romanzo se la ride del marito e di tutti i maschi, e di un padre che non c’è. Una Molly-Penelope che, pur ridicolizzando il marito e tradendolo, gli rimane legata attraverso un patto di cui vorrebbe essere una firmataria più consapevole. Una donna che non si perita di desiderare giovani maschi, che ragiona fra sé e sé di un desiderio che va oltre i singoli uomini, e che, come nella lezione lacaniana, è dentro e fuori la legge. Nel fluire sconnesso, fratto, dei pensieri della donna c’è il claudicare di Joyce che, nel gioco delle proiezioni con il suo personaggio, può ben dire, lasciando a lato la sua manhood, Molly Bloom c’est moi!.86

Nel significato del viaggio, di anni, o di un solo giorno, di Ulisse- Leopold Bloom, non ci sono solo la curiosità e l’audacia, ma l’attardarsi per il mondo di un adolescente-narciso, che dilaziona l’assunzione di responsabilità che quella stessa legge, sotto cui vive, gli ha destinato. Certo, ci dice Omero, Ulisse era restio a partire e solo il ricatto di Palamede lo convince a far vela verso Troia. Anche Bloom bighellona con la segreta certezza che sta solo dilazionando il ritorno alla sua Itaca, 85 Odissea( trad. di Ezio Savino) L. 11, 152-179, in a cura di A.G. Maioli Loperfido, Io sempre a te ritorno,

poesie per la madre, Crocetti, Milano, 2001, p.74 86 J.-M. Rabaté Una lingua straniata. Gli stili del modernismo, in a cura di F Moretti Il romanzo vol I

Einaudi Torino, 2001 p 756

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che desidera e teme. Allora, se lasciamo filtrare sulla vicenda epica lo sguardo di Joyce, vediamo anche noi un uomo più fragile, meno adatto al ruolo di eroe attribuitogli dal mito. Azzardiamo che, se si desse conto di questa lettura, la parola paterna risulterebbe più balbettante, forse rivelatrice di altre tonalità che non quelle imposte dalla Legge.

Ma, in ragione di un ordine che non muta, Ulisse torna con le armi, è il suo arco a mettere a posto le cose, non la sua parola. Il silenzio è pesante se si condanna all’insignificanza la voce della madre, quella che lei articola per sé e per il figlio, una voce che, se Omero e i commentatori del racconto avessero voluto ascoltare, come fa Joyce, ha molto da dire sul posto che l’ordine del discorso paterno, maschile, le ha riservato. Un padre per anni lontano, forse morto, idealizzato, chiamato al ripristino di un ordine che azzera il lavoro di tessitura – anche metaforico – svolto dalla donna, in lunghi anni di solitudine.

Recalcati commenta il lungo viaggio e il tardivo ritorno di Ulisse, come una sequenza di rinunce a cui si sottopone l’eroe: non ha goduto pienamente di nessuno degli incontri femminili, non ha condiviso la giovinezza con la moglie, non ha conosciuto le gioie della paternità. Insomma, quasi un martirologio. Allora, il nostro sospetto è che, se l’argomentazione di Recalcati ci smarca dal Narciso dei nostri giorni, dalla confusione dei luoghi, delle età e delle generazioni, ci riporta ad un Edipo riveduto e corretto, in cui ogni pedina torna a posto, nessuno uccide il padre e occupa il suo letto: Laio-Ulisse sono la voce trionfante. La Madre porta-parola ritorna al suo silenzio, il Padre, incarnazione del rispetto della Legge, passa le insegne a colui che si instaurerà in un patriarcato necessario, dopo l’orgia dei Proci. Ogni mito si presta a più letture, l’utilità delle grandi narrazioni è la doppiezza: quale padre torna a casa? Il Padre per Recalcati è il Padre dell’eredità, del radicamento malgrado l’erranza rappresentata dal viaggio, metafora educativa della vita, anche questa; un Padre del perdono, perché il figlio non sia condannato allo sradicamento, all’orfanità, un Padre per cui ogni figlio è il prodigo. La Madre in questo falso movimento operato dalla terza figura – quella di Telemaco – è destinata ad una completa sparizione: un uomo alza al cielo un neonato e dice mio figlio, gli dà l’unica parola che conta, quella sociale, lo innalza all’onore delle armi e del patrimonio.

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Nei lavori precedenti Recalcati aveva dato una lettura dell’eredità paterna come dono e non come destino, ma già si profilava come una necessità che il debito filiale dovesse essere pagato solo al padre.87

Non è un caso, contestualizzando il problema alla realtà italiana, che il libro di Recalcati abbia fortuna in un momento tragico della vita politica e etica del nostro paese, tanto che l’affanno dei recensori è stato anche quello di trovare attinenze fra un padre della patria e un padre sic e simpliciter, come ha scritto Eugenio Scalfari di recente in un editoriale su La Repubblica. Fra i recensori si è smarcato Roberto Esposito, quando, sulle stesse pagine del quotidiano, ha ricordato che ci devono, ci possono essere delle alternative al potere paterno così come lo conosciamo. Un potere che, nelle nostre società, ha fatto cortocircuito con Dio e con lo Stato, inghiottita ogni laicità dalla macchina teologico-politica. Necessità e sufficienza della figura paterna, un discorso svolto quasi esclusivamente al maschile.

Seppure sottotraccia, ci sono anche voci di donne a declinare un

commento sulle difficoltà attuali della paternità. La Fraire88, se non disconosce la necessità del Padre, lavora a ridefinire il genitivo: all’uomo è necessario essere Padre per uscire dall’adolescenza, alla donna è necessario il Nome del Padre perché il bambino sappia che lei può amare anche altri oltre lui, al bambino è necessario perché la castrazione simbolica non sia solo una terribile minaccia, ma la cifra dell’impossibilità alla compiutezza del desiderio. Perché il genitivo si riempia di altre valenze, l’uomo ha un compito enorme da svolgere e non pare che lo abbia, ad oggi, intrapreso. Egli deve elaborare la propria, personale storia con la madre, dice la Fraire, deve dare corpo alla sua voce, alla sua pasta profonda come il suono dello shofar, smettere le vesti del mammo ventriloquo, tipiche dell’odierna generazione dei padri. Per affrontare questo cammino deve innanzi tutto svezzarsi dalla convinzione che il corpo, il suo, quello della donna, quello del bambino sia a- bietto dunque nè oggetto, né radice di soggettività. L’uomo, il maschio occidentale opera una continua estroflessione del suo corpo. Con il lavoro, con la parola, con gli oggetti, con le armi, egli opera 87 M. Recalcati, Cosa resta del padre. La paternità nell’epoca ipermoderna., Raffaello Cortina, Milano,

2011 88 M. Fraire, Intervento al convegno Femminicidio, organizzato dall’Istituto Freudiano, Roma, Casa

Internazionale delle Donne, 17 maggio 2013 in: http://www.istitutofreudiano.it/femminicidio-il-femminile-impossibile-da-sopportare.html

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un’ostensione del fallo. Il maschio occidentale non ripara mai nel suo corpo, ha bisogno, per rientrare e riposare, del corpo altrui, ha bisogno che qualcuno gli faccia spazio. Privo di un dentro, riparo e cambusa, tutto sembra andare da lui verso l’esterno. Pare che solo nella figura celibe del monaco, nell’ascetismo, egli possa ricondursi ad un’interiorità pienamente corporea, appropriandosi di una spiritualità che non è astrazione, ma compiuta immissione del pensiero e della parola nella materialità del corpo. Suggerisce sarcasticamente Slavoj Žižek, questa riconversione mistica è fasulla per il maschio occidentale. Commento che glossa le critiche che furono già di Nietzsche sulla deriva dell’ascetismo nel momento in cui diventa impotenza e castigo del corpo.89

Rischio concreto per un maschio tanto alieno al suo corpo da poterne violentare un altro, aggiunge Nadia Fusini. E se lo fa, se può farlo, è perché il corpo evidentemente non lo sente, né lo pensa; lo ha, lo possiede, lo usa…il suo, quello dell’altro. 90

A fronte del terrore per la perdita dello spazio concessogli dalla figura femminile che sembra ritrarsi, rinunciare ad essere il luogo del suo riposo, a fronte della perdita dei simboli fallici che dicevano il suo potere sulla donna e sul bambino, l’uomo, oggi, pare avere come unica risposta l’omicidio, la violenza, non più solo ritualizzata e simbolizzata, ma effettiva, reale. Uscirne comporta un prezzo, che non può esser pagato con il ritorno, in veste riveduta, di Ulisse. Un cambiamento nell’esercizio della paternità, dell’affettività tout-court, deve essere pagato attraverso un doloroso lavoro di ritrovamento dell’origine corporea della voce di basso dello shofar, in un differire che non si faccia tentare dal plagio, dalla imitazione della voce femminile, né da una falsa complementarietà fra i diversi. Non è possibile per l’amore erotico il completamento con l’altro, lo hanno capito le donne, sulla loro carne.

Aggiunge la Fraire, a proposito dello scacco spesso – sempre?- subito dalla relazione amorosa, che la mano che si leva a colpire la donna, ha la stessa origine degli infanticidi commessi dalle madri. Entrambi i gesti estremi rimandano alla necessità di un rapporto fra i sessi, rifondato. Le donne, sempre più sole di fronte alla propria potenza generatrice ed esposte alla violenza e alla mercificazione che di loro fa il patriarcato nella sua ultima stagione, levano a loro volta la mano sui figli: c’è una perfetta specularità fra i due gesti, l’uno rimanda all’altro. La Fraire

89 F. W. Nietzsche, Genealogia della morale, Newton Compton, Milano, 2012, p 51 90 N. Fusini Hannah e le ... ,cit., p. 11

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auspica una sorta di nuova alleanza, in cui una donna e un uomo possano concepire non solo un figlio, ma un’unione che dal figlio li distragga, dando loro uno sguardo che si fa beffe dell’onnipotenza, nelle pratiche della cura e dell’educazione. Un respiro più profondo, più libero, qualcosa di vivo che circola fra la donna, l’uomo, il loro bambino.

Scrive Amalia Giuffrida,91 riflettendo sul tema della castrazione del

desiderio della bambina, la bambina senza l’aiuto del Padre non ha scampo:

…senza un Padre reale e fantasmatico, che la seduca nel rispetto del suo corpo in crescita,

non avviene alcuna opera di restauro, se non si rimargina in fantasia la violazione che l’effrazione delle cure materne giocoforza ha compiuto. Ma, è bene ricordare che il cambiamento di oggetto che vale per la

bambina, deve valere per la madre, la donna che già è lì. L’effrazione da quest’ultima operata, avviene attraverso modalità culturali che giustificano, e sembrano necessitare, quel modo di essere Padre, anche quello benigno descritto dalla Giuffrida. Insomma, la cura che la seduzione paterna offre è tutta interna ad un paradigma. Il danno materno e la cura sono inscritti in uno stesso quadro concettuale. Il possibile, che non è a-topico, prova a rispondere alla domanda: se si fosse imboccata un’altra via? Il possibile che è alla base di ogni speranza di cambiamento, è – in questo caso - l’avvento di un altro modo di essere padre. Rendendo praticabile quel cambiamento di oggetto che è innanzitutto perdita: cambiare significa perdere per sempre; dolorosa esperienza evolutiva aggiunge la Giuffrida ricordando che si tratta di una perdita che viene risparmiata al maschietto. Il maschio a cui, per altro, non può venir risparmiato il faticoso percorso che fa di lui un padre, un compagno della donna.

Leggiamo nel Diario della Plath una citazione di Yeats, poeta da lei profondamente amato, e nella cui casa, trascorrerà, dopo la separazione, gli ultimi mesi della sua vita con i bambini.

Il rapporto sessuale è il tentativo di comporre l'eterna antinomia, destinato a fallire

perché avviene solo su un lato dell'abisso. Commenta Sylvia;92 Odiavo gli uomini perché non stavano lì ad amarmi come padri: avrei

potuto bucarli e dimostrare che non avevano la stoffa del padre. E su Joyce: ...fonte paterna

91 A. Giuffrida, L’erotico e il materno nella costituzione dell’identità della donna, 2010, in www.spi-firenze.it

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della divinità. Ed è turbata da una semplice fila di parole piene di tutta l'angoscia del mondo. Le sue parole chiudono con un verso di Joyce: Cuor mio, non hai forse giudizio per disperarti tanto? Amor mio, amor mio, amor mio, perche mi hai lasciato solo? E la Plath: Se fossi un uomo, su tutto questo potrei scrivere un romanzo; ma perché, essendo una donna, devo solo piangere e gelare, piangere e gelare?93

L'amore verso un uomo può supplire al vuoto cui la donna è esposta,

l'amore dà sostanza e consistenza a quell'apparenza di cui è fatta, apparenza che va a colpire l'inconscio dell'uomo che la incontra, ma l'amore è labile, ondivago, effimero e si incaglia nell'impossibile del rapporto sessuale, nel suo fallimento.

Sylvia cammina sui bordi di questo rischio, nell'illusione, ambivalente, di essere trattenuta,

di ottenere dalla madre l'amore mai avuto, di guadagnarsi qualcosa che la madre non ha mai potuto fare per lei. Nella disperazione di non averlo ottenuto dal padre, e nella disillusione, un giorno, per non averlo ricevuto nemmeno dall'uomo della sua vita, il poeta Ted Hughes.94

In un incontro all’interno di un ciclo di seminari, lo psicoanalista

Francesco Giglio dice:

Il padre è qualcuno che si incarica di sostenere il desiderio. Il padre è colui che sa unire e non opporre desiderio e legge. E’ l’amore del padre che permette una fissazione della libido in un punto al di fuori dell’alveo incestuoso.

Giglio attribuisce l’operazione di forclusione, che la psicoanalisi fin dai

suoi albori vede come mossa per non dire il nome della madre, alla figura stessa del Padre:

La forclusione del Nome del Padre, inoperatività del padre che è la condizione che lascia il

soggetto esposto alla psicosi, alla legge della madre, alla legge del capriccio della madre. Nostalgia sempre collegata alla madre. La funzione del padre ha il compito di spostare dallo sguardo rivolto al passato. Il rapporto padre bambino non è diretto ma mediato dalla madre. Quindi è fondamentale il rapporto che la madre ha con il significante del Nome del Padre. Il compito del padre è fornire una metafora paterna che tenga aperta la bocca della madre coccodrillo.

Voracità dentata, se alla Madre è riconosciuto solamente il ruolo materno. Continua infatti Giglio:

La metafora paterna è ciò che nomina il godimento in quanto sessuale.

92 C. Menghi, Sylvia Plath : La scrittura resta: va sola per il mondo, in www.lacanian.net/Ornicar%20online/Archive%20OD/ornicar/articles/mng0120.htm 93 ivi 94 ivi

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Un padre degno è un padre desiderante e dunque un padre castrato, capace di castrare, ma a partire da un legame con il desiderio, capace di attivare una mancanza.95

Un padre costantemente liquefatto, fluidique…un pauvre type, perfino

quando duplicato nella figura di un patrigno, spegne ogni desiderio, e ne è spento. Stiamo accennando a Wolfson e al commento che fa Deleuze del rapporto tristissimo dello scrittore con i due padri.96 Entrambi, quello naturale e il secondo marito della madre che vive con loro, sotto l’ombra minacciosa della moglie che tutto decide e stabilisce, rappresentano il perenne scacco della genitorialità: miseria dei maschi, ipertrofia della donna-madre. In casa Wolfson è il mancare e insieme l’eccedere a fare da padrone.

Scrive Simenon: Désiré è lontano, all’altro capo della città, nel suo ufficio di Rue des Guillemins, e forse lei partorirà tutta sola….

Désiré non intuisce niente, ma proprio niente, come dice Elise a Valérie e alla sorella Félicie. Lei invece, intuisce troppo e ne soffre e forse intuisce cose che non esistono. Povero Désiré ,che si spaventa subito… Désiré non capisce o non vuol capire. E’ dotato di una forza d’inerzia esasperante… Lui [Désiré] non pensa al risparmio. Non si chiede mai che ne sarebbe di lei e del figlio, se gli accadesse una disgrazia 97

Un Padre può morire dopo aver concepito. Un figlio non è mai postumo

alla Madre, qualcosa si è dato fra loro, nella gestazione, nel parto, anche dopo la morte per parto, qualcosa è marchiato sulla carne, non una eredità, ma una traccia corporea, di corpi che si sono conosciuti, che si sono parlati, non con la lingua del codice, ma con quella della notte. Scrive l’antropologo David Le Breton:

La parola della madre è il primo suono che già in utero fa entrare il bambino nell’universo

umano della significazione…. Ma la sua [della madre] voce, soprattutto, è sempre in un processo di comunicazione, richiama lentamente al senso, cioè al legame sociale, è il filo teso che avvicina il piccolo alla sua umanità, facendolo passare dal grido alla parola, alla sua stessa voce.98

95 Francesco Giglio, Dal padre alla legge e ritorno, in Frammenti di padre, Milano 2012

http://www.alidipsicoanalisi.it/Archivio-multimediale/frammenti-di-padre-seminario-di-psicoanalisi.html 96 AA.VV, Dossier Wolfson , cit., p. 19 97 G. Simenon, Pedigree, Adelphi, Milano, 2009, pp. 18,82,113,133, 111 98 D. Le Breton, Il sapore del mondo, Raffaello Cortina editore, Mlano, 2007, pp. 113,114

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Un figlio è postumo al Padre nel ricordo che di lui il figlio stesso o qualcun altro conserva e narra, che altri ragguagliano.

Ricordo che, inginocchiato al letto di mio padre morto, esclamai nel pianto:” Ho appena

quindici anni” intendendo di dire: ”Solo per questo breve periodo ti sono stato vicino, o babbo”. Questa frase fu invece interpretata, e forse ragionevolmente, nel senso egoistico:” O babbo, mi lasci in età nella quale il tuo aiuto m’era necessario”. Bisogna riconoscere che questo era il pensiero rispondente all’espressione, e che l’espressione non rispondeva invece al mio pensiero.99

Come osserva acutamente il critico letterario Elio Gioanola, per Gadda il padre è padreterno perché la sua onnipotenza, che il figlio introietta, impedisce a questi ogni possibilità di relazione autonoma con la realtà che lo circonda e con se stesso. Non ha nessuna rilevanza il fatto che il padre sia in realtà una persona debole, perché in questo caso interviene la madre a sostenere i giochi totalitari che presiedono l’infanzia del bambino.100

La madre morta è, per il figlio che non l’ha conosciuta, la radice fisica. Quando una madre muore, la parola, veicolata solo dal padre – o dall’intorno sociale – è lingua morta? Certamente è una lingua che continuamente si rompe, continuamente, nel fratturarsi, cerca qualcosa, oltre la sua levigatezza esteriore.

La Fraire ci allerta sull’impoverimento pulsionale che genera una nuova figura paterna – un Edipo casto – svuotato del contenuto pulsionale, la cui funzione non è più quella del guastafeste che interrompe l’idillio con la Madre, e che non è più dunque l’elemento differenziante, ma piuttosto un rivale che contende alla Madre onnipotente – al fantasma materno cioè – un potere che ha perduto.101

E continua:

la rottura della “solidarietà erotica “ tra madre e padre, condanna le donne all’ipertrofia della funzione di cura, estesa metaforicamente anche alla funzione sociale femminile, mentre favorisce nell’uomo un ritiro di stampo autistico. Mentre nell’immaginario collettivo cresce l’autorevolezza delle donne/madri, quello stesso immaginario si raffigura l’uomo/padre offeso, marginalizzato, castrato. La disincarnazione del padre e la diserotizzazione della figura materna – che nella sua preponderanza rischia di convogliare nel rapporto con i figli anche l’eros che un tempo si esprimeva nel rapporto con il padre di quei figli…102

99 C.E.Gadda, Saggi,giornali favole I, Opere di C.E.Gadda, Garzanti, Milano, 1991, p.789 100 E. Gioanola, Carlo Emilio Gadda. Topazi ed altre gioie familiari, Jaca Book, Milano,2004, p.238 101 M. Fraire, Tessiture di nuove relazioni nel tramonto del patriarcato, in: il manifesto 3 maggio 2008. 102 M. Fraire Madre…cit., p.

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La strenua opposizione da parte degli esseri umani, uomini e donne, ad un potere erotico che minaccia e rende indefinitamente arduo il cammino verso la distinzione di sé, l’erotico materno che allude ad uno stato di non distinzione, impegna il bambino, ma tiene in scacco, se non viene elaborato, entrambe le figure genitoriali. Leggiamo in Parat: …un gioco che aliena tutti i suoi partecipanti, che si infiltra nel tessuto familiare, senza che possa mai trovare posto l’altro o il diverso.103

La ricerca di un’identità non fantasmatica, chiusa nel vortice delle

identificazioni, starebbe nel passaggio ad un nuovo livello di rappresentazione simbolica, capace di sovvertire le serie differenziali della struttura famigliare. La critica di Fraire al femminismo italiano è mirata alla ripetitività della relazione fra i posti assegnati nelle strutture famigliari: al posto del padre viene messa un’altra donna, la Madre autorevole e capace di affido. Cambiano le serie ma non la struttura, cambia il posto relativo ma non quello assoluto.104 Qual è l’oggetto che circola fra le serie, Padre/madre; Madre/figlio, Padre/figlio? Il potere, il potere di dire Io, l’Io identificato e identificante, come misura di ogni altro io della serie. La Fraire non a caso è interessata alla ri-considerazione dei rapporti di fratria, orizzontali, proprio a partire dalle alleanze e dalle lotte per la conquista del territorio, oltre il Padre, per il Padre.

La violenza del linguaggio

Se il lavoro di Joyce sta sul versante della bulimia scrittoria, che mette a rischio di costipazione il lettore, un più colloquiale Simenon mette a punto centinaia di migliaia di pagine, in un affanno di cui darà conto nelle sue confessioni e nell’epistolario con André Gide. Wallace, Gadda, e Plath nelle poesie, mostrano lo sforzo continuo di incuneare la propria materia, il contenuto, fra corporeità fonica, corporeità grafica del significante, e la singolare, personale, fluidità dei significati. Su questo

103 H. Parat , L’inceste, PUf, Paris, 2004, p. 113 104 J. Deleuze, Lo strutturalismo, SE, Milano, 2004, pp. 47,48

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lavorio torna continuo l’interdetto materno, la ricerca spesso finisce in un estenuante gioco metaforico, inventivo, nel rifugio verso la presunta neutralità dei linguaggi scientifici, in Gadda e Wallace sostenuto dal retroterra, l’uno di ingegnere l’altro di matematico e logico, o nel balbettio autoreferenziale della poesia in Plath. La forza degli interdetti materni investe la ricerca adulta, dal lavoro scientifico si torna incessantemente al raccontare ciò che rimane inerente al lutto di sé; nella non compiuta elaborazione della relazione primaria, i passaggi topici della scrittura sono spesso degli après-coup, rielaborazione posteriore di materiali psichici e, nel caso delle scritture qui citate, come possibilità che le storie, le invenzioni narrative, possano fornire nuova efficacia alle esperienze.

L’aspetto agonico, violento nel cuore del linguaggio di cui parla Jean-Jacques Lecercle 105 è dettato dallo statuto irrevocabilmente opposto di ‘langue’ e lalangue. La lalangue è univoca nel senso di uni-direzionata, rispetto al suo materiale fonico e significante. I segni sono gli stessi della ‘parole’, ad alta voce, delle lingue sociali, ma di questi non hanno l’aspetto depurato, la neutralità e la discrezionalità tipici di un codice. Sono segni analogici, sporchi, continuamente sporcati dall’equivoco, dalle malizie del non-detto, dalla omofonia, dalla danza degli omonimi. La lalangue è gioco, essa gioca con la Lingua e il peccato che le si può attribuire –suggerisce ancora Lecercle - è l’eccesso, la mancanza di innocenza, quella che caratterizza la tecnica, quella dei linguaggi della logica e della elettronica. Nessun gioco linguistico alla Bertrand Russell per trovare i dimostrativi e i pronomi perfetti, come unici deittici che possano rivestire la funzione denotativa. La realtà della lalangue è il Reale, è la Cosa, che non si lascia prendere, nell’enunciazione dell’Io che parla, dal dito che segna e dice questo. Forse perché la realtà, come ben sa la porta-parola, non ha a disposizione termini semplici, perché gli oggetti semplici, vagheggiati dalla filosofia, non esistono. Per la lalangue tutto è descrizione, descrizione infinita delle differenze. Tutto dà notizia di esse. Le statut de chaque mot sera le méme que le mot “lalangue” lui-méme 106

Come abbiamo più su detto a sostegno della nostra ipotesi, l’accento è

posto sulla relazione di esclusione e di complicità fra la Lingua come sistema e la lalangue, perché il segno, soprattutto nella forma scritta,

105 cfr. J.-J. Lecercle, La violence du language, Paris, Presse Universitaires de France, 1996 106 Ivi, p. 47. Lo statuto di ciascuna parola sarà lo stesso che la parola lalangue essa stessa.

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scivola sull’inciampo dell’ambiguità e della presunta arbitrarietà: la pletora delle connotazioni e dei significati riposti gli fa lo sgambetto e spesso ne ride.

Il significante gioca e vince, se così possiamo dire, prima che il soggetto ne sia avvertito, a tal punto che nel gioco del Witz, il motto di spirito, ad esempio, esso sorprende il soggetto. Col suo flash ciò che illumina è la divisione del soggetto107.

Risulta preziosa la riflessione di Daniel Heller-Roazen che porta la

nostra attenzione a soglie, strati, slittamenti della nostra lingua, proprio quando la vorremmo presa nelle gabbie delle grammatiche, o capace di catturare il tempo nelle coniugazioni verbali. La questione dibattuta da Luisa Muraro e da Virno sulla presunzione di una lingua che aderisca alle cose senza scartare, è la cronaca di una costante battaglia, soprattutto intrapresa dai linguaggi scientifici, per il trionfo della denotazione sulla connotazione.

Su questo enigma del grado zero riflettevo da giorni tanto che una notte sognai di averlo risolto: il grado zero non è altro che la realtà…esso esiste…i retori hanno ragione a postularlo, anche se poi non riescono a definirlo.108

Ancora con Virno, potremmo affermare che ciò che si evince nella

scrittura, soprattutto in alcune scritture, è la problematicità fra modi di dire e modi di essere, fra le descrizioni e i fatti o gli enti. E’ nella forma modale dei verbi che si nota lo scarto, nei congiuntivi ipotetici, nei condizionali pro-fattuali o contro-fattuali, nella scelta dei tempi verbali che dovrebbero porre in esistenza i cosiddetti eventi. L’accesso alla lingua è segnato dal lutto per una duplice perdita. La prima, quando si perde la fiducia nella onnipotenza della porta-parola e nel primo mondo da lei descritto, la seconda quando, entrati nel Discorso del Padre, soprattutto praticando la scrittura, funzione segnata dalla Legge e dalla sua necessità, ci si rende conto che nulla garantisce l’aderenza alla realtà esperita dal soggetto.

Foster Wallace, nelle incredibili note del romanzo fluviale ‘Infinite Jest’, sotto la veste seriosa del glossatore, se la ride della scienza, della farmaceutica, della linguistica, dell’economia di mercato.

Dice Virno, nello svolgere la sua critica alla ragione denotativa:

107 J. Lacan, Scritti II, Torino, Einaudi 1974, p. 843 108 L. Muraro Maglia o …,cit., pp. 66,67

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….nell’immagine metafisica di un linguaggio presupposto al linguaggio trapela indirettamente, con sembianze improprie, il carattere preliminare e inaggirabile della nostra appartenenza ad un contesto sensibile, ad un mondo non-linguistico. 109

Foster Wallace fa proprio balenare quel sensibile pre-linguistico che,

appena intercettato, è già comunque lingua, parola, scrittura. Se il problema della relazione fra Lingua e lalangue è un incontro-scontro sul farsi della Lingua, in quanto Lingua della Madre, che la porta con sé verso il bambino, la soluzione non può che dar adito ad una scelta, ad una crisi, e dunque ad un lutto. Tale perdita e tale lutto sono anche della Madre, che smette di lallare con il suo bambino per far sì che emerga, come atto linguistico la potenzialità alla parola, che è evolutivamente disponibile al piccolo umano. Lutto, lutti, mai davvero compiutamente elaborati.

Per alcuni, ironicamente o drammaticamente (ma non è lo stesso?) sospesi in una ricerca di soluzioni per smarcarsi dalla LM, o di stravolgerla per disinnescarne l’aspetto perturbante. Alcuni degli scrittori da noi indagati, presi più di altri nell’ingorgo fra langue-parole-lalangue, saltano il fosso. Sono i Gadda, i Wallace, gli aderenti al gruppo OuLiPo, i veri de-costruttori alla Wolfson e alla Roussel. Per coloro di cui abbiamo potuto ricostruire un minimo di biografia centrata sulla relazione con la madre, troviamo le tracce di un apprendistato alla lingua materna segnato da un disamore. Diciamo genericamente disamore, ma potremmo dire, mettendoci dal lato della madre, impossibilità per la donna di dirsi come soggetto, di desiderare oltre, e altro, rispetto a quanto previsto dal ruolo.

Ma anche le donne hanno delle voglie. Perché devono essere relegate al ruolo di depositarie

di emozioni, custodi di bambini, nutrici dell’anima, del corpo e dell’orgoglio dell’uomo? Essere nata donna è la mia terribile tragedia. Dal momento in cui sono stata concepita sono stata condannata a sviluppare le mammelle e le ovaie piuttosto che il pene e lo scroto, condannata a una sfera di azione, di pensiero e di sentimento rigidamente circoscritta dalla mia ineluttabile femminilità.110

Così Sylvia Plath descrive nei suoi diari la profonda frustrazione che le

deriva dall’adesione emotiva e culturale a un’identità di genere che non ha scelto.

Depressione, deperimento della capacità di amare. Impossibilità a dirlo, mancata simbolizzazione, passaggio all’atto perverso o addirittura 109 P. Virno, Parole con parole. Poteri e limiti del linguaggio, Donzelli, Roma, 1995, pp IX,X 110 S. Plath, Diari, Adelphi, Milano, 2007, pp. 50,51

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mortale. Ingiunzione di morte per sé, per il figlio. E i figli lottano a furia di segni, spesso soccombono, alcuni stilisticamente, altri in senso proprio e, ripetiamo, spesso così le loro madri. Scrive Jacques-Alain Miller a proposito di Joyce: Joyce ci mostra che il trauma è quello dell’incidenza della lingua sull’essere parlante. Joyce ci mostra in modo puro l’essenza del trauma, che è il trauma della lingua.111. C’è nello scrittore la tensione traumatica del mettere in parola la scena di una visione:

Le loro voci acute gli gridavano intorno da ogni lato: le loro forme lo serravano, mentre il

sole sgargiante scialbava il miele dei suoi capelli maltinti112. Nell’’Ulisse’ si evidenzia la rottura della coerenza sintattica nelle divagazioni dei personaggi, Una coroncina di capelli grigi sul suo capo minacciato, vedimelo scendere faticosamente fino al primo scalino dell’altare (descende)113, la perdita della temporalità sequenziale come nel capitolo decimo ‘Le strade,’ l’elenco quasi protocollare dei fatti nel capitolo che volle denominare ‘Sirene,’ la purezza di haiku di alcune descrizioni, Appiccicate al vetro due mosche ronzavano, appiccicate.114 E non pare così indebito, né forse originale ipotizzare, nella ridda di citazioni sul padre della lingua, Shakespeare, e sull’inglese appreso per bocca di madre, una scaturigine del trauma di cui parla il critico lacaniano. Ebbe a dire Lacan a proposito della scrittura di Joyce, invitando chi ascoltava a leggerlo malgrado la sua illeggibilità e intraducibilità oltre i confini della cultura occidentale:

Che cosa succede in Joyce? Il significante arriva ad infarcire il significato. E’ in quanto i significanti si incastrano, si scontrano – leggete Finnegan’s Wake - che si produce qualcosa che, come significato può apparire enigmatico, ma che è quanto di più vicino a quello che, grazie al discorso analitico, sta a noialtri leggere: il lapsus.115

Sempre un gioco di sostituzioni, il lavorio continuo della

metafora, ma soprattutto, l’emergere di quell’inciampo.

111 J.A. Miller, Lacan con Joyce. Seminario di Barcellona II, in La Psicoanalisi n 23, Astrolabio, Roma, p

44 112 J. Joyce, Ulisse, cit., p. 40 113 J. Joyce, Ulisse, Mondadori, Milano, 1981, p. 55 114 ivi , p. 240 115 J.Lacan, Seminario…, cit., p. 35

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Lingua materna ?

La nostra ipotesi – ripetiamo quella che vede un rapporto strettissimo fra prime cure, messa al mondo linguistica da parte della madre e quel che diventeranno la lingua e la scrittura adulta - va interrogata con un invito a più compiute investigazioni sul tema. Il protocollo delle obiezioni o delle attenuazioni del nostro assunto, è vasto.

1. l’autonomia a cui deve condurre la cura parentale, materna in primis, prevede misure di per-versione dalla relazione duale madre-bambino; in tutte le culture la neotenia umana, come dipendenza infantile, è funzionale agli apprendimenti per l’autonomia, fra cui quello relativo alla LM è di evidente importanza perché porta alla competenza linguistica, segnando l’uscita dallo stato in-fans;

2. la locuzione LM non rende ragione della vasta portata della facoltà e della competenza linguistica, rappresenta solo una tappa iniziale all’interno del fenomeno più ampio che concerne l’apprendimento e l’uso del linguaggio; è debole, non verificabile, ideologicamente situata in un contesto di studi di genere, la tesi che sostiene che la LM avrebbe caratteristiche differenti da quella paterna socializzata, dif-fferire che si imporrebbe sul piano della significazione come predominio della metonimia sulla metafora e del legame con il corpo e le cose, prima che con i concetti;

3. il linguaggio è iscritto all’interno delle culture come lingua della collettività e, per gli aspetti sociologici e psicoanalitici, all’interno del Discorso del Grande Altro e del Padre, a cui, ovviamente, nemmeno la madre può sottrarsi; la LM, ancor prima il mother-sense116 tipico del dialogo duale/autistico fra madre e bambino, è segnata culturalmente dall’appartenenza della madre, dalla sua inscrizione, nella cultura di riferimento di cui al punto precedente;

4. la lingua è fin da subito la lingua dell’altro, è esilio; ogni lingua dell’esilio non fa che sottolineare la condizione di ogni parlante nella sua lingua, in una continua tensione verso un presunto luogo originario che non è mai il proprio. Tutte obiezioni che la linguistica classica, a partire dunque da Ferdinand de Saussure, ha raccolto, metabolizzando l’ingombro costituito dalla LM, con la distinzione fra l’atto di parola e il sistema sottostante, scheletro inconscio deputato a reggerla. Portato genetico nella grammatica 116 cfr. S. Petrilli, Su Victoria Welby.Significs e filosofia del linguaggio, ESI, Napoli, 1998

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generativa di Noam Chomsky, capace di produrre tutto quel che serve alla lingua in atto; potenzialità dell’intero sistema a cui siamo insensibili ma che consente ogni enunciazione, in Émile Benveniste; lavoro in praesentia dei legami sintattici e in absentia dei protocolli di lemmi, in Roman Jakobson. Comprensione piuttosto provvisoria, volatilità dei pensieri rispetto alle parole che dovrebbero significarli, in una presunta aderenza rappresentativa. Ne scrisse Foster Wallace con la netta consapevolezza che anche la nozione di tempo ne fosse compromessa:

Ecco un altro paradosso: nella vita di una persona la maggior parte dei pensieri e delle impressioni più importanti attraversano la mente così rapidi che rapidi non è nemmeno la parola giusta, sembrano totalmente diversi o estranei al cronometro che scandisce regolarmente la nostra vita, e hanno così pochi legami con quella lingua lineare, fatta di tante parole messe in fila, necessaria a comunicare fra noi, che dire per esteso pensieri e collegamenti contenuti nel lampo di una frazione di secondo richiederebbe come minimo una vita intera…Le parole e il tempo cronologico creano tutti questi equivoci assoluti su quello che succede per davvero a livello elementare. Eppure al tempo stesso la lingua è tutto ciò che abbiamo per cercare di capirlo e per cercare di instaurare qualcosa di più vasto o più significativo e vero con gli altri, il che è un altro paradosso.117

E sempre in Lacan, leggiamo:

Non dimentichiamo che inizialmente si è, a torto, qualificato il rapporto fra significante e significato come arbitrario. E così si esprime a malincuore, de Saussure, egli la pensava in ben altro modo, ben più vicino al Cratilo, come dimostra quel che c’è nei suoi cassetti, ossia storie di anagrammi.118

Scrittura come inciampo

D’altronde il bambino, nel ricevere la lingua dalla madre, viene preso in uno scambio che

“affetta” il suo corpo, animandolo di un godimento della lingua, appunto lalingua. […] La lingua materna, come lalingua non è dunque la lingua della cultura, né quella del maestro, né quella del padre, ma una lingua che si incista nel corpo producendo l’animazione intima e singolarissima del soggetto. Proprio qui, alcuni significanti, delle lettere, delle sonorità elementari, iscrivendosi nella carne del soggetto, “condensano” il suo godimento e divengono indice, segnale, sintomo dell’immediato rapporto tra il soggetto e il mondo. 119

117 D. Foster Wallace, Caro vecchio neon, in Oblio, Einaudi, Torino, 2004, pp. 180,181 118 J. Lacan, Seminario XX…, cit., p. 19 119 E. Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne "Il Galateo in Bosco" di Andrea

Zanzotto. Tesi di dottorato, p.83

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Godimento della Lingua nel momento in cui il significante, inteso nella sua materialità, si potrebbe dire alla lettera, prende radici nel corpo, esperienza che induce Lacan a costruire quell’efficacissimo neologismo, «motérialisme», termine che si origina lalinguisticamente condensando in sé il termine «mot» e il termine «matérialisme» per sottolineare non tanto la sola considerazione simbolica del linguaggio ma il suo risvolto reale, materico dando prova di come il «motérialisme» della lettera, del significante sia autonomo, funzioni su se stesso, e sia portatore di un godimento assolutamente singolare che esso stesso rende possibile; quello stesso godimento che la parola poetica produce agendo sulla discontinuità del significante con il significato facendo così emergere lo statuto materico della lettera. Lalingua è tutto questo. Essa ci dice che la produzione del soggetto passa attraverso il linguaggio che impregna il bambino nella relazione materna. Per questo Lacan non ha timore di affermare che lalingua è la lingua materna, lingua fuori della gerarchia dettata dalla struttura del linguaggio, fuori dalla necessità della comunicazione, fuori dalla presa del simbolico.120

Presa che non è un prendere, un catturare, ma semmai un rincorrere, un

trafelato mescolare e mescolarsi con le proprie parole. La comunicazione appare interrotta, almeno nella definizione corrente di un messaggio che dovrebbe andare dal locutore al destinatario. Niente come la scrittura del Novecento ha messo più in forse questo schema lineare, purtroppo non uscendone vincente data l’orgia comunicativa che ci investe attraverso l’etere, con le sue pretese di lingua convenzionale e di lingua intima insieme.

Snob (agg. invar.) è il soprannome à clef dato dalla famiglia nucleare del recensore a un fanatico dell’uso veramente estremo, il tipo di persona che la domenica si diverte a scovare errori nella rubrica dello stesso Safire. La famiglia di questo recensore è suppergiù al settanta per cento snob, termine che deriva da un acronimo, con la battuta storica di famiglia che S.N.O.B. può stare per “Sprachgefuehl nostra onnipotente beata” o “Saccentelli noiosi ossessionati dal blablabla” a seconda che tu sia o meno uno snob. 121 Come venire fuori dalla lettura delle invenzioni di Gadda se non

accettando la sfida del disagio che esse possono provocare, o peggio dal vezzo intellettualistico di addomesticarle ad ogni costo?

E presidenzialmente incadregatosi, dilatò le nari in una furia machiavellizzata: aspirò a lungo, fremendo, quel tramontano delle paravolanti minacce, rimenbranze passionate. E’ Gadda del Priapo. 122 Acme della flogosi verbizia, non del Bombetta, ma dello stesso Gadda che più che da leggersi è – quasi in paradosso - da ascoltare. E’ nell’oralità che la scrittura di Gadda sprigiona tutta la sua orgiastica violenza, come bene si evidenzia in teatro. L’attore Fabrizio Gifuni123,moltiplicando con 120 Ivi p 86 121 D. Foster Wallace, Autorità… , cit., p. 74 122 C.E. Gadda, Eros e Priap,o Garzanti, Milano, 2012, p. 53 123 F. Gifuni, G. Bertolucci, L’ingegner Gadda va alla guerra. Teatro Valle, Roma, 2010

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la sua voce la ridda dei significati, ha portato questa scrittura impossibile, ad assumere significanti che – quasi per paradosso – escono dalla oscurità del gioco linguistico e creano una nuova aderenza all’attualità politica.

In Gadda il mestiere dello scrittore si manifesta come un bisogno imprescindibile, come un’esigenza fisiologica.

In me la questione dello scrivere non è un’ambizioncella, ma una mania, un prepotente

bisogno.124 In una delle poche interviste concesse, l’autore descrive così il suo

rapporto con la scrittura:

Codesti giochi [di stile] sono la mia novocaina, mon opium, mon alcool à moi.. Il loro significato biologico e geminale è l’inconscio tentativo di distornarmi dal dolore e dal male.125 Ma tutto questo grandioso lavorio di cui si occupa la critica letteraria e

la psicoanalisi in un proficuo duettare, risulta estranea all’indagine linguistica. Sostiene Milner che la linguistica, in funzione immunitaria, scarta, considerandolo come difetto, o come mancanza tutto ciò che non rientra sotto il suo governo, a pretese scientifiche. Ennio Sartori, nel lavoro citato, a proposito dei saperi che non rientrano nella formalizzazione lineare, annota:

…lalingua è anche lo scarto, il resto della lingua che sta lì continuamente a segnalarci che

effettivamente l’ordine linguistico si struttura sulla rimozione di tutta una serie di fenomeni che esso non è in grado di formalizzare. Per questo motivo lalingua testimonia di un sapere che fugge all’essere parlante dandosi piuttosto a vedere nei suoi effetti…gli effetti de lalingua, per il fatto che esso presenta ogni sorta di affetti che restano enigmatici. 126

Così l’affezione, nel senso spinoziano del termine, l’affectio, esito dell’azione di un corpo su un altro corpo, dunque tocco della lalangue, non entra nella ricerca della linguistica come disciplina. Anche il filosofo del linguaggio Franco Lo Piparo127 che ragiona su una lingua prima, incorpata, che sviluppa una bio-linguistica di matrice aristotelica, non arriva ad usare la locuzione lingua materna. Nella riflessione sulla lingua embodied Felice Cimatti, mantiene una posizione molto prudente. Occorre avere qualcuno, prima di noi, che ci parli perché 124 C. E Gadda, Lettere a Gianfranco Contini, a cura del destinatario, 1934-1967, Garzanti, Milano, p.11 125 C. E. Gadda, Per favore, mi lasci nell’ombra. Interviste 1950-1972, a cura di C. Vela, Adelphi, Milano,

1993, p.37 126 E. Sartori, Tra bosco… cit., pp. 86,87 127 F. Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua, Laterza Bari- Roma, 2011

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noi, a nostra volta si cominci a desiderare di parlare. 128 E, citando Lev S.Vygotskij vede nella parola materna ciò che concettualizza e fornisce intenzione al gesto infantile. Mancano, ci pare, esplicite annotazioni sulla matrice della lingua in quanto frutto dell’inconscio materno, come stigma linguistico sul nuovo venuto al mondo, nonostante la Fraire sia stata spesso sua interlocutrice129.

La poesia è il genere letterario che più sconta questa affezione. Il verso, lo vedremo ancora, è scavo, ricerca di quel che resta della voce e – non esitiamo a dire del gesto - della Madre, nelle parole. Sartori sottolinea come riconoscere il ruolo della radice materna, gli affetti dovuti alla presenza della lalangue, siano la chiave per accostarsi alla poesia di Andrea Zanzotto. Dice Sartori:

Indubbiamente il linguaggio è costituito di lalingua. E’ una elucubrazione di sapere su

lalingua. Ma l’inconscio è un sapere, un saper-fare con lalingua. E quel che si sa fare con lalingua supera di molto ciò di cui si può render conto a titolo di linguaggio. 130 Anche Stefano Agosti,131nella prefazione alla raccolta di poesie scritte

fra il 1938 e il 1972, analizza il lavoro che Zanzotto fa, separando nell’arbitrario segno saussuriano, il significante dal significato, sminuzzando e smontando la langue, sistema grammaticale e semantico. Sembra che la protesta di Zanzotto, così la definì Pasolini, vada alla radice della costruzione poetica e lirica, scomponendo la diurna e pacificante logica del discorso, come rappresentazione della realtà. Zanzotto accetta l’eccentricità offerta dall’accesso alla lalangue, voce di quel Reale che sempre fa da inciampo, di fronte al quale ogni parola vacilla. O grumi verdi, ostile Spessore d’erompenti pieghe, terra –passato di tomba – donde la mia lingua disperando si districa e vacilla; vacilla se dal dorso attonito del monte smuove le sue lebbrose fronti il cielo. Ah passaggio mio fervido, accorato 128 Cfr. F. Cimatti, La vita che verrà. Biopolitica per Homo sapiens, ombre corte, Verona, 2011 pp 40, 112;

La scimmia che si parla, Bollati Boringhieri, Torino, 2000 p 110 passim 129 Manuela Fraire, Seminario: La Ripetizione, Uni-Calabria, Centro Studi Filosofia e Psicoanalisi, 20 ottobre 2011 130 E. Sartori, Tra bosco… cit. , p. 87 131 A. Zanzotto, Poesie 1938-1972,Mondadori, Milano, 1980.

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amoroso passaggio… (Caso vocativo)

Così, in 13 settembre 1959 (Variante), nel rimando alle liriche della classicità, il poeta spezza il verso con crudele ironia, fa esplodere il campo semantico, creando un effetto di stanchezza estrema a cui non può sottrarsi chi legge: Luna puella pallidula, luna flora eremitica, luna unica selenita distonia vita traviata, atonia vita evitata, mataia, matta morula.

La Madre, la Madre ctonia, terra, radice, la cui pasta è Lingua e corpo, ricorre in invocazioni che rendono ragione del tormento del dire, un dire che sembra venire proprio dalle viscere materne, uno spazio-tempo già condiviso, dono amoroso, imposizione, condanna. Madre, ignorai il tuo volto ma non l’ansia proliferante sempre in ogni piega in ogni bene in ogni tuo rivelarmi, ma non l’amore senza riparo che da te, mostro o spirito, m’avvolge aridamente m’accalora. (Da un’altezza nuova)

Il lavoro di Zanzotto, se appare faticoso e drammatico nella sua scomposizione, è anche frutto di una affezione di origine benigna, verso la quale il poeta prova una profonda nostalgia. La lalangue non infesta, come succede nella scrittura di altri narratori e poeti, non contamina morbosamente, ma nutre, rimanda all’innocenza del primo sguardo sul mondo. Come il paesaggio montano dell’infanzia, essa punge e trapunge e se è gabbia da cui non si esce – o non si vuole uscire – è anche immenso donativo.132

Ancora Sartori, afferma:

ogniqualvolta l’iscrizione nella lingua che produce il soggetto, producendo anche la sua lacerazione originaria non viene taciuta ma riconosciuta e perciò agita, viene vivificata da un movimento che molto ha a che vedere con quel decisivo gesto poetico che rende così feconda la scrittura di Zanzotto. Un gesto che, nell’ascolto dell’originarsi della parola, come già abbiamo avuto modo di dire, inscena l’esperienza dell’intervallo tra suono inarticolato e

132 C.Mazzacurati, M. Paolini, Ritratti: Andrea Zanzotto, Gruppo Ed. L’Espresso, 2010

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linguaggio articolato, tra significante e significato grazie appunto ad un complessivo fare lalinguistico che continuamente incespica sulla lingua e inceppa la lingua, aprendola sui propri malintesi, sui propri mancamenti interni, su quella separazione che ci riporta incessantemente al luogo di massima prossimità del dire nei riguardi dell’essere; luogo che coincide, vale la pena di ridirlo, con quello spazio potenziale in cui madre e bambino giocano simultaneamente la loro reciproca perdita e il loro reciproco ritrovarsi, spazio potenziale, «gnessulógo» in cui lalingua incessantemente fa e disfa la stessa lingua materna.133

L’effetto sovversivo nel procedimento lacaniano consiste nel dare

predominanza al significante e all’asse metaforico su quello metonimico, al sintomo, in gergo psicoanalitico, suggerisce la Muraro.

La scrittura, effetto del desiderio, come nella passione della Plath,:

La scrittura è un rito religioso: è un ordine, una riforma, una rieducazione al riamore per gli altri e per il mondo come sono e come potrebbero essere. Una creazione che non svanisce con una giornata alla macchina da scrivere o in cattedra. La scrittura resta: va sola per il mondo.134

Così la scrittura di Foster Wallace, tentativo, mai riuscito, di smarcarsi dalla madre, di effettuare una simbolizzazione necessaria ma interminabile.

La sua [di Wallace] unica religione restava il linguaggio: Nient’altro infatti aveva il potere di plasmare e controllare le masse. Il potere di Dio, in confronto al linguaggio era modesto. Ecco il perché della sua ossessione per la grammatica. In una lettera a Franzen formulò la questione in questi termini:” Se le parole sono tutto ciò che abbiamo, sono dio e il mondo, allora dobbiamo trattarle con attenzione e rigore: dobbiamo venerarle.135

Non solo però, diremo noi, un rincorrersi di metafore ma, come ebbero

a dire sia Freud che Jackobson, anche catene metonimiche, in cui si annodano per vicinanza le cose, i corpi, i loro frammenti. Materiali che non trovano pace nei segni della Lingua, annotano sempre un altrove, un riferimento non cercato, un groviglio non sciolto.

Per Silvia Plath, il grumo che viene a galla in ogni discorso con la madre è costituito dal divieto di parlare del dolore, il divieto di nominare la sofferenza. Interdetti materni dettati dalla necessità di tutelare i meccanismi di difesa della madre, ci dice Alice Miller136. Le lettere di cui era stata destinataria la madre Aurelia erano l’esempio di una Sylvia 133 E. Sartori, Tra bosco… cit pp. 86,87 134 S. Plath, Diari, cit., p. 324 135 D.T. Max Ogni storia… cit., p.266 136 A. Miller, La persecuzione del bambino. Le radici della violenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p.

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eccessiva, morbosa. L’ansia di scrittura della figlia era interpretata come una costruzione sintomatica, il segno esterno di un malessere naturalizzato, un tratto del carattere. Ma per la Plath, quel che ruota intorno ad una perdita senza elaborazione - il lutto per la morte del padre – si collega alla catena di atti del disamore materno. La comprensione negata, la sottolineatura di una eccessiva debolezza emotiva costituzionale, misero Sylvia nel binario morto del doppio vincolo. Volere l’approvazione materna e pensare che comunque sarà solo un surrogato di quella da parte del padre, per sempre perduta.

Nel lavoro di Foster Wallace la figura del padre, anche nelle vesti di James Incandenza in ‘Infinite Jest’, è quella di un assente a cui non viene rivolta nessuna richiesta di approvazione. Per contro la figura materna è incombente, e se tenta di curare dal dolore, produce intossicazione.

Foster Wallace credeva che il comportamento della madre, quella stolida insistenza a proposito del fatto che tutto andasse bene e il desiderio di proteggere il figlio , avesse insomma favorito in lui l’insorgenza di quell’atteggiamento di negazione del dolore che soggiaceva all’abuso di droga e alcol. La relazione tre le due cose era così ovvia[…] che sua madre avrebbe benissimo potuto insegnargli direttamente “come miscelare i drink e togliere i semini all’erba. 137

Nel film ‘Sylvia’, diretto nel 2003 da Cristine Jeff, il dialogo in cucina

con la madre rappresenta una sorta di climax della sospettosa accoglienza che la donna fa alla figlia e al nuovo marito. L’antipatia mostrata di primo acchito dalla madre, appena smorzata dalla cordialità borghese, la sfiducia verso le scelte di Sylvia, si mostrano evidenti quando le viene chiesto di esplicitare un giudizio sull’uomo. La risposta della madre è un capolavoro di elusione e di spostamento: sì, è preoccupata, ma l’intento è proteggere Sylvia da un’avventatezza, un’altra, ancora. Un gesto, un’esperienza, questo matrimonio avventato, che non rientrano nel mondo dei significati materni, dalla Plath sempre elusi, delusi. Eppure terribilmente presenti, in un costante agone.

Anche Foster Wallace è preso nelle maglie di un’approvazione materna

sempre mancata e dalla comparsa continua, anche sotto la competenza linguistica espressa in buone performances, di qualcosa che storce, rompe, guasta:

137 D.T. Max, Ogni storia… cit., p. 271

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Nel mio caso, la mamma è una professoressa di Composizione e ha scritto più di un manuale sull’uso della lingua ed è una snob del tipo più accanito e intrattabile. Il motivo per cui sono uno snob è, almeno in parte, che per anni mia madre ci ha fatto il lavaggio del cervello usando ogni possibile sottigliezza. Eccovi un esempio: se uno di noi figli commetteva un errore grammaticale, mamma faceva finta di avere un accesso di tosse che continuava finché il figlio in questione non identificava l’errore e lo correggeva. Era fatto tutto con molta autoironia e leggerezza; tuttavia a ripensarci ora, sembra un po’ eccessivo fingere che se tuo figlio parla in modo scorretto vuol dire che ti sta negando l’ossigeno. La cosa veramente raggelante, però, è che adesso ogni tanto mi riscopro a fare lo stesso “gioco” con i miei studenti, (completo di finta pertosse.) …Sono quasi certo che “Harper” lo taglierà, ma vorrei aggiungere che avevamo anche una divertente, ma a pensarci ora raggelante canzoncina di famiglia che la mamma e noi piccoli snobini cantavamo nei lunghi viaggi in macchina, mentre papà alzava gli occhi al cielo e guidava in silenzio138

Intercettare il gioco infinito di avvicinamento ad un significato primo,

ad un grado zero della lingua che la liberi dal ricatto della lalangue, che la sposti sulla denotazione ad effetto scientifico, sembra lo scopo delle esilaranti ed estenuanti note di Foster Wallace in’Infinite Jest’. L’effetto umoristico è dato proprio dalla consapevolezza che il tentativo fallisce sempre, e torna efficacemente solo sotto la forma del witz, del gioco. Nella nota esplicativa del nome Bob Hope si legge:

termine gergale bostoniano, sub dialettale – di origine sconosciuta – per cannabis, fumo,

marijuana…Bin Crosby designa la cocaina...E ancora: l’idrolisi è un processo metabolico per mezzo del quale la cocaina organica viene suddivisa in benzolecgonina, metanolo…139 Scrive la psicoanalista Colette Soler che non c’è sapere assoluto

possibile e che il discorso non può esercitare la sua presa su qualcosa che sia una totalità del sapere perché l’Altro, come luogo della parola, è sempre mancante, sempre altro. In sintesi: nell’Altro c’è un buco. E’ proprio questo il limite interno all’ordine simbolico.140 La Lingua della scienza è infelicemente costrittiva, ma l’insidia operata dalla lalangue non è meno terribile. Non resta che giocare sul limite, rendendole entrambe grottesche.

D’altra parte ricorda la giornalista Maria Bustillos, il gioco era anche ambiguamente giocato in complicità indiretta con la madre, professoressa di linguistica. Sally Foster Wallace scrisse, ricorda la Bustillos, una grammatica, ‘Practically Painless English’, in cui gli esempi che dovrebbero illustrare un approccio facile alla lingua sono tutti affidati ad una serie di manicomiali vicende di mostri, gorilla, e distrazioni fatali per 138 D. Foster Wallace, Autorità e uso della …cit., pp. 76,77 139 D. Foster Wallace, Infinite…,cit., p. 1322 140 C. Soler, Quel che Lacan diceva delle donne, Franco Angeli, Milano, 2005, p.228.

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le protagoniste. Sotto la lingua delle classificazioni e delle sistematizzazioni occhieggia un sottofondo poco governabile. La lingua scientifica si trasfigura nel gioco degli strati sotterranei, crea l’equivoco in chi legge: sta leggendo un testo di grammatica inglese o un macabro gioco a cui la lingua è sempre esposta? Dunque, il gioco svela il suo lato d’ombra, lo scherzo che si giocano i due non è mai paritario, è un gioco da cui non si esce; se non si può smettere di giocare, si sta facendo altro, si lotta, si sta in una schermaglia.

Il biografo Max riporta che pur nel lungo periodo in cui, su indicazione dello psicoterapeuta, Foster Wallace non frequentava più la madre, ciononostante continuava ad interpellarla ogniqualvolta, nell' insegnamento, si trovava di fronte ad un problema grammaticale di difficile soluzione.

Scrive Milner:

Lalangue est,en toute langue, le registre qui la voue à l’équivoque. Nous savons comment y pervenir: en déstratifiant, en confondant systématiquement son et sens, mention et usage, écriture et représenté, en empêchant de ce fait qu’une strate puisse servir d’appui pour démêler une autre.141

La specificità della LM, nell’oralità dell’enunciazione, nella grana della

voce, è quella di impregnare lo spazio affettivo e relazionale

La Madre parla e parlando fornisce i significanti che organizzeranno il corpo pulsionale, mette in opera, con la dimensione della domanda, quella del desiderio e del significante fallico, quella dunque dell’enigma stesso dell’Altro….Possiamo così dire che la cosa materna è il luogo di tutte le metafore, che è ciò che tutte le metafore hanno di mira.142 Mentre si mantiene vivo il problema, il dramma secondo Derrida, di

dover lasciare segni nella stessa evenienza del momento comunicativo, le parole arrivano stratificate, fuori da una sequenza, oltre la linearità, creano il territorio in cui si colloca la parola altrui, dell’AltrA. La LM, la prima Lingua fra Madre e bambino, fronteggia Godimento e Legge in una continua, estenuante, convivenza con i vocalizzi, le fonie aperte ad ogni possibilità, con il suo stesso lallare e stare al gioco del baby talk, con le metonimie, le allegorie e i tentativi di normalizzazione. Il bambino non è 141 J.C. Milner, L’amour … cit., p. 20 Lalingua è, in ciascuna lingua, il registro che la destina all’equivoco. Sappiamo come arrivarci: destratificando, confondendo sistematicamente suono e senso, menzione e uso, scrittura e rappresentato, impedendo dunque che uno strato possa fare da appiglio per districarne un altro.

142 C. Soler, Quel che…, op. cit., p.230

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mai davvero in-fans, qualcuno parla per lui; il dramma del rapporto fra simbolo e oggetto-realtà-letteralità-cosalità si può esprimere con la metafora della pittura: vedere, disimparare a vedere per far apparire il retro, …occorre che l’immagine, nella sua presenza obnubilante, si cancelli e al tempo stesso rimanga nella sua assenza.143

Nella relazione fondativa Madre-bambino la LM consente a due creature di trovare, espandendosi, i propri confini; la LM non è solo l’incontro fra la differenza somatico-psichica donna/bambino, è frutto, è funzione e risultato, di un pre-esistente universo simbolico: la funzione materna appare così non separabile da quella femminile, che preesiste e rivendica la propria esperienza.

Secondo Jean Laplanche, 144 la Madre è l’agente della seduzione generalizzata e la sua neutralizzazione avviene mediante la parola adulto; la neutralizzazione comporta una depurazione del desiderio materno e la sua traduzione in cura materna. Ma, se l’ipertrofia della funzione materna può venir neutralizzata, coperta, dal Nome del Padre, il corpo parlante continua a manifestare il suo primato, proprio nella scrittura.

In Wolfson, la madre, la sua voce, la sua stessa presenza fisica, sono l’origine dell’odio viscerale che l’invalide, l’homme schizophrénique, come egli si definisce, nutre per la lingua inglese, giustificano la fuga verso altre lingue, il francese soprattutto. La madre è anche chi lo cura. Cura ambivalente, di sostegno e di attacco, sempre doppio-vincolante: lamenta la magrezza del figlio, ne disprezza gli attacchi bulimici, si preoccupa perché mangia disordinatamente, ma riempie la credenza di cibi tossici. Eppure, molto spesso, Wolfson ne ha compassione. Forse anche la donna è una povera alienata. Kid, kid! tradotto in mon petit, riportato fra le righe, mantiene inalterata la tenerezza dell’invocazione materna. Wolfson ha le idee chiare, la madre dà continuamente prova di indifférence fondamentale, sinon de vrai antipatie, eppure l’odio viene spostato sulla Lingua, un oggetto che si interpone fra lui e la madre, a suo dire, sempre manipolabile, emendabile, mediante il confronto e la sostituzione con le altre lingue. Forse, conclude l’invalide, verrà un tempo in cui la lingua inglese potrà essere riportata a nuova vita simbolica. Sarà il tempo della guarigione.

143 cfr. J.B. Pontalis Perdere di vista , Borla, Milano 1993 144 cfr. J. Laplanche, Tra seduzione e ispirazione:l’uomo. La Biblioteca, Bari-Roma, 2002

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Sotto il nuovo regime dell’allegria, scrivere diventa un modo per scendere in profondità dentro te stesso e accendere una luce precisamente sulla roba che non hai voglia di vedere o che vuoi che nessun altro veda. E questa roba si rivela (paradossalmente) proprio la roba che accomuna scrittori e lettori in ogni parte del mondo, e da cui tutti si sentono chiamati in causa. La narrativa diventa uno strano modo per accettare te stesso e per dire la verità, invece che un modo per sottrarti e presentarti nella maniera che credi più attraente.145

Nella mia vita di ‘umiliato e offeso’ la narrazione mi è apparsa, talvolta, lo strumento che mi avrebbe consentito di ristabilire la ‘mia’ verità, il ‘mio’ modo di vedere, cioè: lo strumento della rivendicazione contro gli oltraggi del destino e de’ suoi umani proietti: lo strumento, in assoluto, del riscatto e della vendetta. Sicché il mio narrare palesa, molte volte, il tono risentito di chi dice rattenendo l’ira, lo sdegno.146

Anche per le donne, soprattutto per loro, esiste il paradosso di cui ci dice Foster Wallace: la roba interiore emerge nella scrittura e nella lettura, malgrado i tentativi per tenerla a bada. E le donne leggono moltissimo, sono l’idealtipo del lettore, scrive l’argentino Ricardo Piglia nel suo testo di critica letteraria147. Le donne scrivono molto, da sempre. Anche quando sono state escluse dalla cultura ufficiale, hanno tenuto diari, inventato scritture segrete. Esemplare il caso delle donne cinesi di etnia Yao che inventarono un codice per scrivere sulle stoffe, il Nu Shu. Scrittura fonico-sillabica, non per ideogrammi, risalente al periodo fra il 1000 e il 1500 dC, veniva praticata nelle cosiddette brigate femminili e trasmessa dalle madri alle bambine. I quaderni sono di carta, rilegati in stoffa, e la brigata femminile, o una sorella, o la madre, li donavano in occasione delle nozze alla donna che, in ragione della norma della patri-viri-località, doveva lasciare il suo villaggio e raggiungere la casa del marito. Una forma di ribellione contro la lingua ufficiale e un modo per serbare i racconti, le filastrocche, le canzoni, il patrimonio femminile, una maniera per elaborare il lutto della perdita del legame materno e filiale. Come non vedere, più in generale, un modo per elaborare la perdita di secondo livello che ogni figlia subisce nel distacco dalla madre, quando il padre è ostile e reinterpretato dal marito-padrone? Oggi la Nu Shu è considerata una specie protetta, un oggetto culturale arcaico, ma la domanda è: le donne hanno oggi una loro scrittura? Ne hanno ancora bisogno?

145 D.T. Max Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. Vita di David Foster Wallace Einaudi Torino,

2013, p. 281. 146 C. E. Gadda, Intervista al microfono, in I viaggi e …cit. p 94 147 cfr., R. Piglia, L’ultimo lettore, Feltrinelli, Milano, 2005

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Posso smembrare tutti i nomi e ricomporli a caso, creandone mostri più strani delle chimere e dei centauri. Posso abolire i linguaggi usati e inventarne altri inauditi. Depredare le necropoli e i barbari dei loro nomi. Posso ordinare gerarchie di nomi certuni venerandoli come sacri, altri schifandoli come immondi, e dopo sovvertirne gli ordini: mischiare le voci di tutti i vocabolari a un corale di bestemmia e implorazione, o meditare su un solo nome riducendone gli altri al silenzio. Posso straniarmi da ogni significato verbale. Vociferare in una lingua dei misteri come gli ossessi e le sibille. O emettere sillabe senza senso. O proferire soltanto dei numeri. Posso, rigettando per sempre le voci articolate, urlare come i muti, abbaiare come i cani o fischiare contro il vento…148

Cosa c’è nella scrittura di una parola? Regole di costruzione, sintassi, come solidarietà fra le parti, nata nella relazione originaria come voce, testo vocale prima ancora che orale in senso proprio. Per dirla con Lacan, si tratta di sapere che cosa, in un discorso, si produce per effetto dello scritto.149 Lacan prosegue evidenziando il ruolo del significante come quel che veramente si intende. Anche noi sottolineiamo – come si è detto - negli scrittori che abbiamo scelto per questo percorso di riflessione, la centratura del loro lavoro sul significante.

La lingua acquista per il poeta una duplice valenza: da un lato è la lingua come codice, come luogo del rimosso, del sapere e della storia, luogo dell’etica, griglia che articola la realtà, ma dall’altra parte è la lingua come il luogo stesso della mancanza-a-essere del soggetto, il luogo di una presenza strutturalmente perduta, di un mancamento radicale e incurabile, un mancamento che si aggira in modo radiale su tutto il campo del vissuto.150

Nella parola scritta, nel saggio, nel lavoro di riflessione scientifica, è depositato l’universo dei significati del Discorso Paterno e del Grande Altro: razionalizzazione, rappresentazione codificata mediante segni e segnature del dato percettivo; la descrizione e la spiegazione frutto di una visione condivisa della realtà in una comunità che lavora dentro tautologie e paradigmi culturali dominanti. Ma la Lingua mostra il lato d’ombra, sicuramente nel modernismo, fra le due guerre.

Scrive Rabaté, concludendo il suo saggio sullo stile:

Ho parlato di tre stili diversi ipotizzando che la loro combinazione ci consenta di definire uno stile modernista: lo stile isterico, dominante in poesia (Pound, Eliot) ma presente anche in Joyce e Woolf; lo stile paranoico, latente in Joyce e evidente in Lewis; lo stile ossessivo di Stein e Beckett con le loro ripetizioni seriali. Queste definizioni non sono frutto di un’improvvisata esercitazione psicoanalitica, ma piuttosto strumenti per individuare diverse reazioni alle condizioni sociali […]Dietro lo stile isterico sta la questione della donna, o

148 E. Morante, Il mondo… cit., p. 61 149 J. Lacan, Seminario XX…cit., p. 31 150 A. Di Ciaccia, Andrea Zanzotto o il mancamento radiale, in Ornicar,

http://www.lacanian.net/Ornicar%20online/Archive%20OD/ornicar/articles/dcc0112.htm

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piuttosto della femminilità, intesa come apparenza o verità, vistoso travestimento o più profonda interiorità, capace di provocare il panico tanto negli uomini quanto nella donne. […] lo stile paranoico tocca la questione del grande Altro, sia esso il nemico che Lewis ama creare per poterlo continuamente esecrare, o quell’Altro che, come in Joyce, costringe la scrittura a penetrare nei più intimi recessi della schizofrenia femminile.151

Ricorda ancora Rabaté che, lo scrittore amato da Foster Wallace, Pynchon si dedicò, soprattutto in ‘Incanto del lotto 49’, alla descrizione della paranoia americana. Ma, in ogni scrittore analizzato, il martellamento linguistico, si incarica di mostrarci la Cosa in tutto il suo orrore. Non tanto strategia è il modernismo, afferma, ma confronto diretto con la lingua in sé.152

Per Giorgio Agamben, è nella lingua poetica che emerge lo scarto di cui abbiamo detto. Cita Dante: parlar materno che esso uno e solo è prima ne la mente. Ancora, aggiunge, questa Lingua è intesa come una sorta di destino ma rimane in realtà una promessa, il ricordo di un vuoto che la poesia avrà il ruolo di riempire. 153

Nel corso del secolo scorso le ibridazioni di ispirazione surrealista fra i registri della scrittura e fra i generi della letteratura, hanno mostrato la fragilità dei confini fra orale e scritto, stili e maniere espressive e, insieme, una sorta di preoccupazione per questa fragilità. La ricerca della precisione nelle descrizioni di tipo realista si è accompagnata, nello stesso tempo, all’uscita di senso della scrittura che, forzando il segno e il suo significato, è scivolata consapevolmente verso l’ironia, in una versione ampia del motto di spirito, potremmo dire. Pensiamo al gruppo dell’OuLiPo già citato, alle invenzioni di Perec, sperimentazione linguistica, lavoro sulla temporalità verbale e su tutto ciò che nutre le cose, ciò che noi instilliamo in loro, e ricerca scientifica semi-seria, parodistica, come nella raccolta ‘Cantatrix sopranica L. e altri scritti scientifici’, già citata. Una ricerca intorno allo spazio non saturabile fra le cose e le parole che le dicono. E, nello stesso tempo, la terribile evidenza che esse acquistano fuori da ogni nominazione, come presenze ossessive, intrattabili simbolicamente. Ancora, nel pensicchiare, nel thinkating di Ignacio Matte Blanco, nel linguaggiare di Humberto Maturana, nelle vivide intuizioni nell’aura del dormiveglia che Albert Einstein considerava la fonte di molte sue scoperte, negli appunti su provvisorie 151 J-M. Rabaté, Una lingua straniata…cit,, p. 773,774 152 J-M. Rabaté Una lingua straniata…cit, pp. 772,773 153 G. Agamben, L’idea della prosa, Quodlibet, Macerata, 2002, pp. 29,30,31.

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rappresentazioni, nell’elenco disordinato dei dati raccolti, lavora il materiale inconscio. In ogni ricerca, qualsiasi sia il suo scopo ultimo, c’è la passione di sapere, c’è il bisogno/desiderio di un bambino di conoscere, attraverso la storia sulla sua venuta al mondo, le storie sul Mondo, magari smarcandosi proprio dalle interpretazioni materne.

In-capacità di narrarsi, mancata educazione al racconto famigliare, inappropriatezza del racconto delle origini: tutto ciò nutre la fantasmatizzazione su una presunta realtà, che si vorrebbe autoevidente, fondata, inequivocabile. Saperi e conoscenze sono legati al voler sapere e conoscere intorno all’origine, cosa ne è stato fatto, nella relazione con la Madre, di questo racconto, come la Madre lo ri-novella, lo censura e lo tabuizza. Tale racconto è un modello, è il calco di ogni indagine e racconto successivi. Il desiderio si muove fra dubbio e certezza della fondazione, ogni investigazione rappresenta un investimento su di sé e sull’altro da sé, oltre la relazione primaria.

Anche la Madre è attraversata dal dolore e dalla meraviglia che suscita un sapere. Lei sa di essere responsabile, in quanto interlocutrice unica, della tensione pulsionale del bambino, sa, lo apprende subito, che sta a lei trasformarla in potenzialità di investimento su altri oggetti, movimento che anche per sé deve compiere. La Madre sa, fin dall’inizio, la forza distruttiva degli elementi pulsionali non elaborati. In nessuna altra esperienza umana costruire e distruggere hanno lo stesso passo iniziale, mai la morte è così vicina alla vita come quando un bambino è attaccato al seno. La scrittura si fa piacere del testo se ha buone impronte originarie, altrimenti si converte in ricerca ossessiva, passione dolorosa per la pagina bianca, altrimenti imbrattata da segni mai davvero adeguati. L’oggetto, i segni stessi come oggetto di investimento, sfuggono costantemente ad ogni presa. Nella narrativa e nella poesia, gli elementi che hanno caratterizzato la prima parola e la sua portatrice, tornano, tornano come guizzi, ri-membrati, ri-memorati, passati al setaccio della rimozione, mai dell’oblio. Non scevra dall’operazione razionalizzante, di controllo sulla relazione forma/contenuto, la narrazione di storie sposta il peso della significazione sul significante, la forma è condizione del contenuto, diventa ciò che si definisce uno stile, quel che Barthes collocò sulla soglia fra lingua, corpo di norme, scrittura come etica della forma, e quel luogo, quasi extralinguistico, verticalità biologica, infisso

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nell’inconscio. Nella prima lingua, si potrebbe dire. Lo stile, scrive la saggista Nadia Fusini,

…come un logos letterale fa presa su un corpo animale, segnandolo con una iscrizione che, dal modo in cui quel corpo la riceve o la contraddice, a me pare che mostri così, nel modo, appunto dell’assunzione, un sapere della differenza difficilmente articolabile in un contenuto, come del resto sempre ogni fatto di stile. Perché il sapere che trapassa in uno stile che altro è se non rinuncia ai grandi sistemi discorsivi, e invece incarnazione nell’evidenza concreta di un gesto, o di una scelta? Esaltazione cioè della singolare esperienza che mette così in scacco quei significanti più generali che quell’unicità non sono in grado di comprendere.154

Dunque, avere uno stile, inventarlo, è andare verso una radicale differenza, mancando il genere, donna/uomo, secondo la Fusini, e insieme i generi, le tendenze, il mood, la maniera.

Come nel gesto del tiro con l’arco, dello schioppo per Gregory Bateson, nel movimento mistico del tennista di Foster Wallace, esso è un gioco di calibrazione, modalità tipica di una tecnica, che non è mai solo tale, che non si descrive in sequenze di singoli atti, ma vive in una gestalt. Lo stile è dunque, come ogni invenzione, questione di sottrazione dall’Ordine del Discorso, di destituzione di tale ordine, in cui siamo stati inscritti. Provando a parafrasare ancora Foster Wallace, esso è una questione di lucentezza, di luminosità, di riflessi che la parola può prendere. E’ persistente manipolazione, dello scrittore, e reciprocamente, di chi legge. Foster Wallace ne fornisce un esempio indiretto, raccontando la maestria del tennista Federer, un esempio di scrittura che vuole esprimere una mistica del gesto, per un atleta soprannaturale:

La spiegazione metafisica è che Roger Federer è uno dei rari, soprannaturali atleti che sembrano esser stati esentati, almeno in parte, dalle leggi della fisica…è una creatura dal corpo fatto di carne sia, in un modo o nell’altro, di luce….la sua capacità di interpretare e manipolare gli avversari, di mescolare effetto e velocità, di sviare e mascherare…155.

Il genio non è riproducibile. L’ispirazione, però, è contagiosa e multiforme, e anche soltanto vedere, da vicino, la potenza e l’aggressività rese vulnerabili dalla bellezza significa sentirsi ispirati e (in modo fugace, mortale) riconciliati.156

Anche in poesia, lo diciamo solo in rapido e superficiale accenno, la questione della metrica è questione di stile, dato culturale, ma soprattutto dato personale, bio-grafico. Le regole formali che governano un verso

154 N. Fusini, Il sapere della differenza, in Alfabeta/supplemento n. 89 ottobre 1986, p. 11 155 D. Foster Wallace Federer, il mutante e il segreto del tennis perfetto, in La Repubblica, 3 settembre 2006 156 D. Foster Wallace, Il tennis come esperienza religiosa, Einaudi, Torino, 2012 p.75

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sono messe alla prova del ritmo interno: il tempo si frange, si rompe, indugia o accelera sull’urgenza del materiale interiore già affetto da un proprio ritmo, in cui il fenomeno della latenza è fondamentale; le increspature del discorso versificato rispecchiano, forse più che nella prosa, il fatto che l’espressione ha una sostanza e non solo una forma codificata dall’uso. 157 L’accentazione, il trascinamento a cui una determinata parola costringe la voce, il fonema che si riempie di sostanza, sono la sua cifra. Come dice Giorgio Agamben, è proprio nell’uso del verso, mediante l’enjambement, limite sintattico nel rigo della scrittura, che la poesia paga la differenza fra sé e la prosa. Il verso scava. Esita la parola sulla soglia dell’a-capo, esita il significato sul limite del suono.

I tipi sottili Sono sempre con noi, i tipi sottili Poveri di dimensione come le figure grigie Sullo schermo del cinema. Non sono Veri, diciamo: fu solo un film, fu solo una guerra che riempiva di titoli paurosi i giornali quando eravamo bambini, che nella fame dimagrirono tanto e non rimpolparono più le membra sparute…158

Uno stile nasce dall’esperienza interiore di chi scrive, dall’avvicinamento ai temi della totalità e della disgregazione, dell’unità simbiotica, della scissione arcaica, della ricomposizione soggettiva, della divisione costituente. Questi aspetti centrali nel processo di identificazione, mettono in mostra l’insopportabilità di tale vicinanza e della, inevitabile, censura. Il campo in cui muove uno stile, è quello del Reale, ciò che deve essere continuamente ri-scritto. Ma, come ricorda Žižek,

…l’arte moderna e la scrittura oppongono non già la realtà oggettiva, ma l’oggettivamente soggettivo che soggiace al fantasma…. nell’arte contemporanea incontriamo spesso tentativi brutali di tornare al reale - a lettera minuscola - di ricordare allo spettatore e al lettore che quel che percepisce è finzione…come quando gli attori o lo schermo si rivolgono a noi direttamente…quando lo scrittore interviene direttamente nella narrazione con commenti ironici.159

157 Cfr L.Hjelmslev,I fondamenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino,1968 158 S. Plath, Opere, Mondadori, Milano, 2002, p. 151 159 S. Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere quotidiano, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 76

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Nel lavoro di scrittura della Plath è evidente il bisogno di pareggiare i conti con la madre, con il marito, con i figli. Ricorda la Fusini che i fantasmi di queste figure aleggiano oppressivi, la pesantezza che Simone Weil oppone alla Grazia, a cui l’Io cerca di resistere. Nella poesia della Plath i vocaboli liberi da vincoli, e quelli presi nel nesso sintattico oppure nell’enjambement, sono scene, significanti-cose, cristalli a più facce, rotanti su un senso evocato o evocabile da chi scrive e da chi legge. Autoreferenziali, eppure capaci di scheggiare l’ascolto, la lettura, magari provocando estraneità, disgusto, orrore o empatia. Neologismi, hapax, condensazioni fonematiche, formule incantatorie, acting-out che non possono che parlarci con la prima lingua, con il balbettio, la lallazione della madre e del bambino, incatenati nel mother-sense. Dall’orlo della ferita, scrive Fusini, qualcosa insorge, un significante che si presenta indipendente dal significato. Anzi lo spezza. Negli ultimi lavori la tessitura di Sylvia Plath si straccia, e queste poesie spaventano, perché in esse il mondo è morto.160 Limite La donna ora è perfetta Il suo corpo Morto ha il sorriso della compiutezza, l’illusione di una necessità greca fluisce nei volumi della sua toga, i suoi piedi nudi sembrano dire: Siamo arrivati fin qui, è finita. (5 febbraio 1963)161

Le madri degli scrittori qui in esame inducono i figli ad uscire dallo spazio di cura, per astio, per delusione, per deviazione del desiderio ma, nella stessa mossa, ne favoriscono gli studi come promozione sociale. Fu così per Gadda e per Simenon, fu inevitabile lascito famigliare borghese in Plath, e per Foster Wallace, come ebbe a dire, imperativo WASP. Ma la nevrosi, spesso la psicosi, si palesa nell’inutile, sempre respinta, azione di dono della propria scrittura alla madre. Nelle dediche della Plath, nei risentimenti di Simenon per l’indifferenza della madre verso la sua produzione e la sua fama, si evince il fallimento di questo donare perverso, pervertito. Dono che vuole una restituzione non qualsivoglia,

160 N. Fusini, Introduzione in S. Plath , Opere, cit, p L 161 Sylvia Plath, Opere, cit., p. 809

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ma quella inscritta nel tipo di dono stesso: una Lingua condivisa, un’intimità ritrovata, una complicità perduta.

Anche in Virginia Woolf il mondo della lalangue e della scrittura mantengono la drammaticità di un luogo necessario, eppure impraticabile. Leggiamo le parole di Stella Harrison e quelle della scrittrice:

Affermiamo che il simbolico di Woolf è reale perché si risolve nel legare questo annodamento: casa, linguaggio scrittura. Né il linguaggio né lalingua le permettono, da soli, l’avvento e l’uccisione della Cosa. Luglio 1937. In modo martellante lei ripete questo stesso grido, nel mezzo della conferenza (il documento è inedito) :’ I am so composed that nothing is real until I write it.’ Aprile 1939 ‘E’ la testimonianza di una cosa reale, al di là delle apparenze, e io la rendo reale traducendola in parole. E’ solo traducendola in parole che le do la sua intera realtà. Questa intera realtà significa che essa ha perduto il suo potere di ferirmi.’ 162

Contraddizione, paradosso dunque, nella parola scritta degli autori

analizzati, perché vige il desiderio di autonomizzarsi dalla Madre proprio mediante la Lingua, quella comune, veicolare, veicolante significati, ma è proprio questa lingua, usata con precisione chirurgica, che non può evitare la ri-caduta nel vicolo cieco, nel pozzo dell’unicum materno, autistico, autoreferenziale, cosale, carnale. La trama ritmica di origine fisiologica e inconscia sembra stare alla base della scrittura.

Scrive Barthes:

la lingua è dunque al di qua della letteratura: lo stile è quasi al di là: le immagini, il lessico,il fraseggiare di uno scrittore, nascono dal suo corpo e dal suo passato e a poco a poco diventano automatismi stessi della sua arte. 163

Un automatismo è qualcosa che ha a che fare con un’abilità, un saper-

fare, saper-dire inconsapevole, che ogni volta emerge come un gesto consueto, ma la lingua di chi scrive non ha di quel gesto o quel detto la sicurezza, resta come spogliato dall’ingenuità di ciò che è, appunto, automatico.

Nel saggio su Proust, Barthes suggerisce in incipit che ‘Alla ricerca del tempo perduto’ è la storia di una scrittura, un libro che annuncia se stesso, per scriverlo lo scrittore si aliena dal mondo reale e si immerge in quello del flusso narrativo, del suo tempo. Continua Barthes: 162 Stella Harrison, “Virgina Woolf, battaglia verso un sinthomo”, in Papers, Bulletin Electronique du Comité

d'Action de l'École-Une Version 2009-2010 n. 5, Nov-Dic. 2009, http://2010.congresoamp.com/it/textos/papers/papers_05_it.pdf, p. 19. Sono fatta in modo tale che niente è reale finchè non lo scrivo

163 R. Barthes, Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino 1982, p. 10

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La storia che viene raccontata dal narratore ha dunque tutti i caratteri drammatici di una

iniziazione; si tratta di una vera e propria mistagogia, articolata in tre momenti dialettici: il desiderio (il mistagogo postula una rivelazione), l’insuccesso (egli si accolla i pericoli, la notte, il nulla), l’assunzione (proprio quando il fallimento sembra essere completo, egli ottiene la vittoria).164

Sempre dramma, comunque. Scrive David Grossman, raccontando la

singolare biografia di Bruno Schulz:

…solo quando era seduto in solitudine nella sua stanzetta così nuda, accanto alla sua tavola nuda, e scriveva in quaderni da scolaro, solo allora poteva sentire come il suo corpo si tendeva tutto piano piano, come veniva incatenato, come veniva incatenato alle ruote del supplizio di un’Inquisizione la cui crudeltà e il cui piacere erano inauditi…e la penna di Bruno correva allora come impazzita a tratteggiare i disegni frettolosi che questo mondo segreto gettava sulla cartapecora del suo corpo, e ad appiccicarli a ciò che era concreto e visibile, e così si strappavano da Bruno le sue storie e le sue elegie…Bruno Sìchulz. architetto geniale di un’essenza linguistica esclusiva, il segreto del cui grande fascino sta nell’essere un’innovazione, nella sua sovrabbondanza quasi marcescente per troppi succhi parolistici…il dongiovanni che fa l’amore con il linguaggio con una passione sfrenata, quasi immorale, il turista più ardito della geografia linguistica…165

Sempre in Grossman, uno dei sopravvissuti all’olocausto, Markus,

inventa il sentimese, la nuova lingua del sentimento. La trova all’incrocio con altre lingue, è la parola atta ad esprimere sentimenti duttili come le note di un brano musicale, prive di significazione linguistica certa, univoca. Grossman, nel suo gioco di incisi, cita il termine litost, attribuendolo a Milan Kundera, parola senza corrispondenza in altre lingue, che rimanda ad una sensazione infinita, di fisarmonica aperta, insieme di afflizione, pietà, rimorso, nostalgia.166

La ricerca di una scrittura immacolata, per citare Barthes, non ci pare

un problema alla base delle scelte degli scrittori dei quali parliamo. Piuttosto, lo stile appare un modo di macchiarla, nel senso di moltiplicarne i riflessi e le sollecitazione percettive. Come le chiazze su un tessuto, o le deformazioni in un quadro surrealista o cubista, questa scrittura ci obbliga ad uno sforzo della visione. Lo stile allora è solo, ed è tanto, un modo per dire che abbiamo trovato la base inconscia, materna della loro scrittura, e chissà come, chissà se veramente, o per riflesso del nostro desiderio di lettori. 164 Ivi, pp. 118,119 165 D. Grossman , Vedi alla voce:amore, Mondadori, Milano, 1988, pp. 176 - 208. 166 Ivi, p. 502

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Sulla scrittura come pratica che paga uno scotto alla sua presunta

origine paterna, scrive Alessandro Portelli, commentando ‘Beloved’ di Toni Morrison:

La storia materna è intrisa di oralità: il flusso della voce di Sethe narrante, la ‘ buona voce’

di Amy, narrata. La storia paterna è invece connessa con la scrittura: ‘Lui sapeva fare i conti sulla carta’. Denver, l’altra figlia, compie con l’alfabeto il salto nel simbolico, partorisce di nuovo se stessa- continua Portelli- proprio nella separazione dalla madre, dal suo mondo uterino, intimo, stringente, ‘You are mine’: questa è la modalità dell’amore materno. La scrittura entra in scena in nome dello stupro, della pietrificazione, ma anche dello scambio, aggiunge Portelli. 167 Essa rappresenta la mano maschile sulla donna, sul suo corpo, come

nella compravendita degli schiavi, ma, in una torsione paradossale, è anche fonte di emancipazione, e la questione allora diventa non tanto saper scrivere, ma chi scrive chi. Dunque, la scrittura è connessa al potere, il potere di chi è titolare del Discorso.

Così, non sappiamo se, parlando di stile della scrittura, ha veramente

ragione la Fusini quando afferma che non saprebbe criticamente individuare una caratteristica che accumuni la scrittura femminile. Ci chiediamo come sia possibile che qualcosa non segni, non vada a marchiare il testo delle donne, dopo un passaggio così stretto fra la lalangue e la Lingua.

Ma forse, lo stile lo crea il lettore come vero enunciatore del testo, ecco il punto. Dice Stiegler che nell’atto, nelle pratiche di lettura, l’azione avviene attraverso tre momenti. Nel primo, delle ritenzioni primarie, siamo ricettivi a quello che leggiamo come presunta testualità oggettiva; nel secondo, delle ritenzioni secondarie, la nostra adesione al testo dipende dall’emersione della trama dei nostri ricordi, impressioni, opinioni, saperi personali; infine, nel terzo atto, mettiamo al lavoro il testo, lo ri-leggiamo, lo interroghiamo, siamo speculatori, dunque, soggetti che enunciano ciò che stanno leggendo. La complessità sistemica dei tre atti rende ragione della presunzione di oggettività di qualunque lettura che, se speculativa, fa di chi legge un protagonista e un inventore a sua volta. 168 167 A. Portelli, Figlie e padri, scrittura e assenza in Beloved di Toni Morrison, in Rivista internazionale di

studi nord-americani – Acoma, http://www.acoma.it/volumi/vol05_ea95.htm, pp.74,82 168 B. Stiegler État de choc…cit. p. 162

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Quand’ero più giovane – dichiarò Foster Wallace in un’intervista al Boston Phoenix - vedevo il mio rapporto con il lettore come una relazione sessuale. Ma adesso sembra più una conversazione a notte fonda fra buoni amici, quando si smette di cazzeggiare e ci si toglie la maschera.169

L'opera d'arte, allora, come trasformazione di un godimento nell'uso di questo stesso

godimento, che perderebbe la sua sostanza di ripetizione nel momento in cui l'artista si lancia nella contemplazione e nell'accettazione del mistero e del vuoto e va, con l'operazione artistica, a incidere tale godimento, a farne il marchio della sua opera, nonché il proprio nome.170 La scrittura, tra le espressioni artistiche, è forse lo strumento per eccellenza attraverso cui tentare di dire quel punto intimo e inafferrabile dell'essere che è al cuore della Cosa, quel punto che confina con la morte. 171

Nei diari Sylvia Plath scrive:

...questa è la mia missione, il mio lavoro. Questo dà un nome, un senso alla mia esistenza: rendere l'attimo eterno…E ancora: La scrittura spalanca le tombe dei morti e i cieli che gli angeli profetici nascondono dietro di loro172

Se seguiamo la lezione di Lacan, troviamo un soggetto sempre diviso,

la divisione è nel soggetto un fattore costituente. Tale stato viene dalla sottomissione all’ordine del linguaggio, senza il quale semplicemente il soggetto cesserebbe di essere umano. Ma la barra, nella donna, è anche un barrare la sua scrittura, è moltiplicata per tre, sul sé, sull’altro da sé, e sulla scrittura. Servirebbe un altro simbolo algebrico, un simbolo per un vuoto troppo pieno, che rappresenti qualcosa della donna che è un paradosso terminologico e quando si fa discorso, un paralogismo. Si tratta di un surplus che non si spiega e non si piega alla logica della non-contraddizione e del tertium-non-datur. Nel caso della donna, della donna che scrive alla potenza tre, tale eccedenza è jouissance, il godimento vittimistico del sacrificato che si sacrifica.

La scrittura è consanguinea di una irriducibile sofferenza, un anelito, e, forse, la scrittura femminile in particolare, poiché è la donna ad essere toccata da quel godimento in più, poiché è lei ad avere a che fare con una duplice mancanza.

169 D.T. Max, Ogni storia… cit., p. 353 170 C.Menghi, Sylvia Plath…, cit. 171 Ivi 172 Ivi

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E' proprio la sensazione d'intralcio che provo io quando mi metto a scrivere: le grinfie di mia madre". E' evidente nella Plath il valore di supplenza della sua scrittura… cuore della Cosa… inafferrabile e in lei, per lei, nella sua stessa scrittura: "Lavorare sulla scrittura mentre mi sento l'anima sconnessa, svitata, vistosa?...la scrittura mi è insostenibile...” Lavoro, fatica dell’anima a cui pare adeguata la metafora freudiana del vampiro che dissangua l'ego. 173

Slavoj Žižek dice qualcosa di oscuro e affascinante sulla ferita traumatica operata dalla differenza sessuale, che disturba il regolare funzionamento dei corpi. Essa è l’esito della transustanziazione culturale del corpo biologico attraverso la sua sessuazione. 174

Se la differenza dei corpi, fra i corpi, è nei corpi, operata da un travalicare la loro sostanzialità mediante un rituale linguistico che ne fa altro, che dà loro altra natura, come nell’interpretazione di Žižek, allora si può concludere con Lacan: Non c’è rapporto sessuale perché il godimento dell’Altro, preso come corpo, è sempre inadeguato.

E ancora:

…del partner l’amore può realizzare solo quello che con una qualche poesia, per farmi intendere, ho chiamato il coraggio di fronte a questo destino fatale.. Il ragionamento di Lacan approda al problema della scrittura, e compare la formula: il rapporto sessuale cessa di non scriversi.175

L’elemento di contingenza, è racchiuso nel cessa di NON scriversi,

non si nega alla scrittura. Ma se la necessità è la scrittura, dunque il NON cessa di scriversi ha come deriva una qualche tensione di certezza, di obiettività del discorso scritto. Il dramma dell’amore verso altri – ma anche della, per, la scrittura – amore differito, spostato, smarcato rispetto alla lalangue, al motérnale, alla parola materna, sta in questo labirinto delle negazioni creato da Lacan. In una prima fase, illusoria, l’amore, e la sua parola, tenta di essere scritto e chi fa il tentativo ha quasi conseguito la certezza di sapere l’amore. Ma l’esito è inevitabilmente uno scacco, racchiuso nella doppia negazione: Non cessa di Non scriversi.

Ci sarà, necessariamente da tentare ancora. Che rilevanza ha ai nostri

fini questa labirintica questione? Un rilievo notevole, proprio perché

173 Ivi 174 J. Butler, E. Laclau, S. Žižek, Dialoghi sulla sinistra. Contingenza,egemonia, universalità. Laterza, Bari-

Roma, 2010, p. 260 175 J. Lacan, Seminario XX, p.138

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cerchiamo di operare un corto circuito fra scrittura e lalangue su cui essa inciampa.

Leggiamo a proposito della Plath:

La maternità è desiderata, ma così spesso sentita come una minaccia alla scrittura. Il matrimonio è il ‘matrimonio letterario’, con l'uomo dell'ideale, l'uomo padre, l'uomo della scrittura. Sylvia sente, oltre che necessaria, anche pericolosa la vicinanza con Ted, sente il rischio di diventare ‘un semplice accessorio ’. …La scrittura è il ‘toccasana’, cosi la chiama, ma è anche il suo male, oltre che unità di misura con Ted, è scrittura per la madre. La scrittura è ‘necessaria per la sopravvivenza’…Sylvia non accetta quel ‘non cessa di non scriversi’, né la contingenza dell'amore: quel ‘cessa di non scriversi’, vorrebbe infinitizzarsi. Cessa di scrivere e di vivere. ‘La scrittura resta: va sola per il mondo’, perpetuando il ‘non cessa di scriversi’. 176

Come posso dire a Bob che la mia felicità scaturisce dall’essermi separata da una parte della mia vita, una parte di dolore e bellezza, per trasformarla in parole scritte a macchina su un foglio? Come può sapere, lui, che io giustifico la mia vita, le mie forti emozioni, le mie sensazioni, trasferendole sulla carta stampata?177

Scrivere. Ogni giorno. Non importa quanto male. Qualcosa arriverà.178

Chi scrive vuole, deve volere, l’originalità, nella sua estenuante ricerca.

E come sfuggire all’etimo del lemma originalità, proprio rispetto all’origine? Lo strenuo tentativo di chi scrive è, paradossalmente, di non cadere nella ripetizione, quella che porta a tornare ai medesimi oggetti (o all’Oggetto per eccellenza), anche quando ormai irrappresentabili. L’accesso ad una origine della lingua, oppure verso il nucleo di quello che è avvertito come il vero sé negato, contiene il rischio dell’ossessione per la creazione di uno stile, che è una maniera, o un manierismo comunque elusivo.

Donald Winnicott e Gregory Bateson diedero molta importanza al mondo intermedio, quello di un terzo livello, contenuto nella locuzione mantrica questo è un gioco, che consente di praticare un campo di illusione che non è né inganno, né delirio. Vale per la scrittura? Sì, se serve quel che abbiamo detto sull’intrigo creato da Lacan fra amore e scrittura. Scrittura che funziona come le illusioni salutari, suscitate dagli oggetti transazionali.

Nel saggio di Rabaté già citato, troviamo, a proposito della ricerca stilistica con cui si tenta di dare forma letteraria alle cose, agli oggetti, che

176 C. Menghi, Sylvia Plath…, cit. 177 S. Plath ,Diari .. cit p 35 178 Ivi, p. 203

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l’obiettivo di scrittori che appaiono oscuri, difficili è quello di costringere il lettore ad una diversa percezione del mondo.

Lo straniamento, scrive utilizzando il lavoro di Viktor Sklovskij, serve a

contrastare il peso letale dell’abitudine, nella letteratura ogni descrizione è visione, non riconoscimento. 179 Anche perché, aggiungiamo noi, troppo spesso gli oggetti ci appaiono come non sono, irriconoscibili al nostro percepire disturbato dall’emozione, e chi scrive ce lo segnala.

La realtà implacabilmente autonoma e immutabile degli oggetti intorno incominciò a renderla depressa. Con invidiosa reverenza, il suo sguardo spaventato, paralizzato quasi, registrava il tappeto orientale, la tappezzeria azzurro Williamsburg, i draghi dorati del vaso cinese sopra il caminetto, il motivo a medaglioni azzurro e oro della fodera del divano sul quale era seduta. Si sentiva strangolata, soffocata da quegli oggetti, la cui corposa pragmatica esistenza sembrava minare le radici più profonde e più segrete del suo effimero essere.180

La Plath, nel film citato, vive oppressa in una casa dall’arredamento

scuro, spigoloso, ostile, la casa coniugale. Ed è il lampadario del pianerottolo, l’ultimo guizzo di luce, l’ultimo oggetto tra il reale e il già soprannaturale che Sylvia osserva, affascinata, prima del suicidio.

Un arresto del tempo ‘mondano’ in cui la mente è già trapassata:

…il tempo di balenare come il neon in forma di lettere corsive unite come quelle che le insegne e le vetrine amano tanto usare tutte insieme nella tua mente nell’istante letteralmente incommensurabile fra l’impatto e la morte, proprio mentre muovi incontro al volante a una velocità che nessuna cintura al mondo potrebbe frenare. FINE.181

179 180 S.Plath, La scatola magica, in Opere, Mondadori, Milano, 2002, p.1134 181 D. Foster Wallace, Caro vecchio neon, cit. p. 213

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INDICE

L’amore per la lingua ……………………...............................p. 1 La porta-parola………………………………………………..p. 5 Personaggi: padre, madre……………………………………..p. 7 Madre…………………………………………………………p. 7 Corpo materno……………………………………………...p. 16 Braccia, mano………………………………………………p. 17 Bocca, seno…………………………………………………p. 18 Occhi, sguardo……………………………………………...p. 23 Voce………………………………………………………..p. 26 Redenzione del corpo materno……………………………….p. 28 Padre………………………………………………………….p. 30 La violenza del linguaggio……………………………………p. 42 Lingua materna?........................................................................p. 47 La scrittura come inciampo…………………………………...p. 48