L’indice dell’apocalisse finanziaria

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29/10/16, 16)50 Lʼindice dellʼapocalisse finanziaria Pagina 1 di 7 http://www.ilfoglio.it/economia/2016/10/29/pocalisse-finanziaria-bce-fed___1-v-150181-rubriche_c299.htm (foto LaPresse) L’indice dell’apocalisse finanziaria Nelle ultime settimane c’è un grafico che i teorici dell’apocalisse scrutano compulsivamente e che spiega bene perché il 2017 può essere l’anno di un nuovo disastro dei mercati azionari. Scene e numeri da una fine del mondo di Claudio Cerasa | 29 Ottobre 2016 ore 06:03 E se ci fosse un’apocalisse in arrivo? Nel 1957, una delle agenzie di rating più famose del mondo, Standard & Poor’s, realizzò un indice economico molto importante chiamato S&P 500. Attraverso questo indice, Standard & Poor’s creò un grande paniere di azioni formato dalle 500 aziende statunitensi a maggiore capitalizzazione e a poco a poco l’S&P 500 si è affermato nel mondo finanziario come l’indice più importante da osservare, non solo per misurare lo stato di salute del mercato americano ma anche per provare ad anticipare, per quanto possibile, i futuri collassi dell’economia reale. Negli ultimi vent’anni – e arriviamo alla ragione attuale di questa breve digressione storica – l’indice S&P 500 ha consegnato agli osservatori finanziari una sorta di regola non scritta: l’S&P 500 si muove con delle oscillazioni periodiche tutto sommato regolari e queste oscillazioni dicono che dopo quattro-cinque anni di crescita seguono due o tre anni di improvvisa e dolorosa decrescita.

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L’indice dell’apocalisse finanziariaNelle ultime settimane c’è un grafico che i teorici dell’apocalisse scrutano compulsivamente e che spiega

bene perché il 2017 può essere l’anno di un nuovo disastro dei mercati azionari. Scene e numeri da una

fine del mondo

di Claudio Cerasa | 29 Ottobre 2016 ore 06:03

E se ci fosse un’apocalisse in arrivo? Nel 1957, una delle agenzie di rating più famose del mondo,

Standard & Poor’s, realizzò un indice economico molto importante chiamato S&P 500. Attraverso questo

indice, Standard & Poor’s creò un grande paniere di azioni formato dalle 500 aziende statunitensi a

maggiore capitalizzazione e a poco a poco l’S&P 500 si è affermato nel mondo finanziario come l’indice

più importante da osservare, non solo per misurare lo stato di salute del mercato americano ma anche

per provare ad anticipare, per quanto possibile, i futuri collassi dell’economia reale. Negli ultimi

vent’anni – e arriviamo alla ragione attuale di questa breve digressione storica – l’indice S&P 500 ha

consegnato agli osservatori finanziari una sorta di regola non scritta: l’S&P 500 si muove con delle

oscillazioni periodiche tutto sommato regolari e queste oscillazioni dicono che dopo quattro-cinque anni

di crescita seguono due o tre anni di improvvisa e dolorosa decrescita.

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Dal 31 dicembre 1996 al 24 marzo del 2000 (poco meno

di quattro anni), il valore dell’S&P 500 è cresciuto del

116 per cento, crollando poi nei successivi due anni del

47 per cento. Dal 9 ottobre del 2002 al 9 ottobre del

2007 (cinque anni tondi) il valore dell’S&P 500 è

aumentato del 121 per cento, per poi crollare nel giro di

due anni del 55 per cento. Dal 9 marzo del 2009 al 30

settembre del 2016, eccoci ai nostri giorni, l’indice non ha mai smesso di crescere, e negli ultimi sette

anni l’S&P 500 è aumentato di una percentuale mostruosa: più 276 per cento. Di qui arriviamo al senso e

alle ragioni che giustificano la centralità della domanda iniziale, e che non è una domanda del Foglio ma è

una domanda diventata centrale nel mondo finanziario e imprenditoriale italiano, europeo e

internazionale. Problema: se a ogni crollo dell’indice S&P 500 coincide un crollo clamoroso dell’economia

reale, e se sappiamo che quell’indice difficilmente cresce per più di cinque anni, non sarà che l’economia

mondiale si trova a un passo dall’inizio di una apocalisse finanziaria?

La domanda ha una sua logica e una sua centralità oggettiva – specie considerando il fatto che, tra crollo

del petrolio e timori sulla crescita cinese, già all’inizio del 2016 l’indice ha segnato perdite superiori al 10

per cento – ma più che rispondere alla domanda (impossibile sapere se davvero l’apocalisse è in arrivo)

• Anche la lagna dei banchieri deve finire

• La magia di Draghi non è infinita

• Un castello di carte chiamato “euro”

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occorre capire quali sono gli elementi che portano i pessimisti a dubitare fortissimamente che l’indice

S&P 500 possa galoppare a lungo. Non si può rispondere alla domanda “a che ora è la fine del mondo”

ma si può dunque provare a mettere insieme i fattori da osservare con attenzione per capire quando

potrebbe cominciare a sentirsi sui mercati finanziari la sirena della valanga imminente. Il ragionamento

va suddiviso in due filoni. Da una parte ci sono le grandi fragilità già presenti nel sistema macro

economico mondiale, dall’altra parte ci sono le variabili considerate potenzialmente pericolose.

Sul primo fronte, ovvero le fragilità già esistenti, gran parte degli osservatori di cose economiche

individua un grande filone che rischia di essere il dramma economico dei prossimi mesi: il calo del

commercio mondiale. Calo che si può meglio mettere a fuoco con alcuni dati. Le esportazioni cinesi, per

esempio, sentinella importante per capire la salute della domanda commerciale nel mondo, sono scese

del 10 per cento rispetto al 2015 e il calo registrato a ottobre è la quattordicesima riduzione negli ultimi

quindici mesi. Le importazioni verso la Cina, storicamente una sentinella importante per misurare le

potenzialità di crescita dei paesi esportatori (come l’Italia), sono a loro volta scese a settembre più delle

previsioni di inizio anno: meno 1,9, al posto di un meno 1 per cento (la stessa bilancia commerciale

italiana, parametro che serve a registrare l’ammontare delle importazioni e delle esportazioni di merci di

un paese, a settembre ha segnato un risultato positivo non tanto per l’incremento delle esportazioni,

cresciute dello 0,5 per cento, quanto per una marcata diminuzione delle importazioni, scese del 4,1 per

cento).

E uno dei riflessi della crisi del commercio mondiale è anche la crisi del trasporto marittimo e del

mercato dei container: nel 2016 11 delle 12 più grandi società del settore hanno pubblicato i loro bilanci

del secondo trimestre registrando gravi perdite entro la fine del 2016 il settore potrebbe perdere 9 dei

150 miliardi di euro che fattura ogni anno) e qualche settimana fa è fallita una delle più grandi compagnie

di trasporto marittimo di container al mondo, la coreana Hanjin Shipping (come segnalato

dall’Economist nel settembre 2015, per la prima volta in più di 60 anni, il pil del mondo è cresciuto più

rapidamente del trasporto marittimo).

Accanto alla grande fragilità presente oggi nel sistema economico mondiale ci sono poi le fragilità

potenziali. La lista è lunga e comprende anche i molti possibili scenari apocalittici legati al futuro di

cinque degli otto paesi che fanno parte del G8 (le elezioni americane, le elezioni tedesche, le elezioni

francesi, il referendum italiano, il completamento della Brexit nel Regno Unito). Ma in cima alla lista

delle preoccupazioni di chi osserva con terrore l’indice S&P 500 ci sono due passaggi chiave che

potrebbero avere un’incidenza importante (e anche pericolosa) sui titoli azionari dalle 500 aziende

statunitensi a maggiore capitalizzazione (e non solo su questi). Il passaggio più importante – le micce

sono infinite – è legato a cosa farà la Federal Reserve, la Banca centrale degli Stati Uniti, a dicembre,

quando Janet Yellen (capo della Fed) dovrebbe rialzare i tassi dei titoli di stato americani.

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Janet Yellen (foto LaPresse)

La decisione di rialzare i tassi viene considerata molto probabile da un gran numero di analisti, in quanto

in America sono presenti da mesi ormai le due caratteristiche che la Fed aspettava da tempo per

considerare in salute l’economia: la piena occupazione (la disoccupazione è al 4,9 per cento, sotto il tetto

del 5 per cento considerato dalla Fed come piena occupazione) e l’inflazione ha raggiunto l’obiettivo che

la Banca centrale americana si era prefissata, ovvero il 2 per cento. Piccolo problema: i sette anni di

prosperità dell’indice S&P 500 (2009-2016) coincidono con gli anni in cui la Fed ha lasciato i tassi di

interesse sui titoli di stato prossimi allo zero. E secondo molti analisti un rialzo dei tassi di interesse più

robusto rispetto a quello minimo registrato nel dicembre del 2015 (+0,25 per cento) potrebbe portare alla

famosa scintilla. La ragione può sembrare tecnica ma in realtà è facile da comprendere: se i titoli di stato

rendono quasi zero, investire nei titoli di stato non è conveniente, non è redditizio, e porta a considerare

più conveniente e più redditizio investire in azioni sul mercato (equity).

Negli ultimi sette anni l’indice S&P 500 (equity) è cresciuto in modo esponenziale (+276 per cento) anche

grazie alla politica particolarmente accomodante della Fed, che ha rimesso in movimento il mercato e

l’economia americana rendendo più vantaggioso acquistare equity. Se questo incantesimo dovesse

interrompersi – è questo il timore degli apocalittici – il risultato potrebbe non essere facilmente gestibile

(in gioco ci sono 12.000 miliardi di dollari di investimenti in equity dei fondi pensione) e si

spiegherebbero anche così alcuni dati minacciosi registrati negli ultimi giorni dagli osservatori di cose

finanziarie. Uno su tutti è quello comunicato due giorni fa da una società specializzata in investimenti sul

mercato azionario, l’Investment Company Institute, e in base a questi dati risulta che tra il 10 ottobre e il

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19 ottobre è stato registrato il più alto volume di vendita di azioni sul mercato dall’agosto 2011 (valore

16,3 miliardi).

Il secondo fattore considerato dai teorici dell’apocalisse come elemento di potenziale e incontrollabile

instabilità riguarda le scelte future di un’altra grande banca centrale, ovvero quella europea. Il

ragionamento è simile a quello fatto per la Fed: riuscirà l’indice S&P 500 a non registrare un crollo

improvviso in caso di revisione del Quantitative easing (acquisto di titoli di stato) da parte della Banca

centrale europea? Nulla lascia intendere che la Bce interrompa bruscamente a marzo l’operazione QE

(acquisto di titoli di stato) e lo stesso governatore italiano Ignazio Visco ha ammesso, proprio su questo

giornale, che non c’è motivo per cui il programma della Bce dovrebbe fermarsi. Eppure, i teorici del

moriremo tutti intravedono un rischio concreto: ovvero sia che a dicembre la Bce annunci una

diminuzione nell’acquisto dei titoli di stato. Nessuno conferma e nessuno smentisce naturalmente questa

possibilità ma ieri i mercati hanno offerto un indizio che potrebbe portare acqua al mulino degli

apocalittici.

Nel corso della giornata, i rendimenti dei titoli di stato europei hanno fatto segnare un balzo significativo

(il più alto degli ultimi sei mesi) e il tasso del Bund (il titolo di stato tedesco) si è spinto fino allo 0,22. Il

meccanismo dei titoli di stato è banale e funziona sempre in base al rapporto tra domanda e offerta.

Proviamo a semplificare. Se tutti vogliono un paio di stivali, il prezzo degli stivali va su e il tasso di

interesse scende. Se nessuno vuole più gli stivali, il prezzo va giù e il tasso di interesse sale. Se i mercati

capiscono che la Bce non vuole più comprare gli stivali, il prezzo degli stivali scende e il tasso sale. Bene.

Ieri il tasso è salito e se l’indicazione è che la Bce potrebbe rivedere il suo piano di acquisti di titoli di stato

(comprando meno stivali) di sicuro da qui a dicembre gli apocalittici cominceranno a osservare l’indice

l’S&P 500 consapevoli che il prossimo anno quella linea che da sette anni non ha mai smesso di salire

improvvisamente potrebbe cominciare a scendere. E, come si dice, qualcuno potrebbe farsi male.PUBBLICITÀ

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