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LIBRO II: REGNO DI SATANASSO
l Regno di Satanasso, pur pieno di reminiscenze dantesche, è piuttosto originale.
Esso tratta di due luoghi distinti, l’Inferno e il Mondo, ma entrambi appaiono
singolari.
L’Inferno è molto simile a quello descritto nella Commedia, seppur
notevolmente semplificato; presenta, però, la particolarità di essere parzialmente
spopolato a causa del suo abbandono da parte Satana, che ha posto la propria signoria
nel mondo, e dei sette Vizi capitali, di cui si parlerà nel terzo libro.
Il Mondo non ha, invece, nessuno dei tratti di quello che noi conosciamo: è una
sorta di secondo inferno, seppur ambientato sulla terra, composto da un susseguirsi di
valli, dove sono punite le anime dannate degli uomini antichi e contemporanei. Ricco di
motivi tratti dall’oltretomba virgiliano, il Mondo, o meglio Inferno terrestre, se così è
possibile chiamarlo, è abitato da una variegata popolazione di personaggi e mostri
mitologici, oltre che dalle personificazioni dei mali che angustiano l’umanità. Se il
canto VI non ci informasse che siamo nel mondo, non potremmo davvero immaginarlo.
Netta è la cesura, tra il canto VI e il VII, che divide i due regni del secondo libro
frezziano, quasi che l’autore abbia scritto il Regno di Satanasso in due momenti distinti,
con ispirazioni tratte da fonti diverse. La morfologia infernale della prima parte è
decisamente dantesca; nella seconda, pur non discostandosi eccessivamente dal modello
della Commedia, emergono chiari riferimenti al sesto volume dell’Eneide.
Cala sensibilmente in questa seconda cantica l’influenza di Boccaccio, che tanto
aveva caratterizzato il Regno d’Amore.
Liberatosi da Cupido, il poeta, novello viator dantesco, s’incammina seguendo
Minerva, dea della sapienza, che lo conduce con sé nel difficile viaggio infernale. Come
Virgilio, suo compito è quello di proteggere Federico dai vari mostri, informarlo circa le
varie pene dei dannati e, con dialoghi più o meno maieutici, condurlo alla scoperta delle
verità morali e teologali. Quello della guida, indispensabile per compiere il terribile
viaggio formativo nell’aldilà, era ormai un topos, canonizzato dai celebri esempi di
Enea e Dante, accompagnati dalla Sibilla e da Virgilio. E’ notevole però, nell’incontro
di Frezzi con la sua guida, una certa indipendenza dai modelli, che non omettevano la
desolazione e il terrore di un pericolo incombente, lo smarrimento del protagonista alla
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vista dell’ombra che appare tacita e improvvisa1, la veloce confidenza e l’affannosa
richiesta d’aiuto. Minerva, invece, non appare soccorso insperato al poeta che la cerca,
tutt’altro, e se egli non la riconosce a prima vista, bastano poche parole perché
comprenda di trovarsi dinnanzi a colei che gli è stata destinata per guida. Come il
Virgilio dantesco, la dea espone una sorta di itinerario del loro viaggio futuro; come
Dante, Frezzi ha lo stesso imperioso desiderio di intraprendere il viaggio promesso,
seppur timoroso di non essere in grado di affrontarlo; senonché, mentre l’Alighieri si
scoraggia presto dall’improba fatica e, con modestia ritrosa, se ne crede indegno,
Federico, invece, ha un ardire eccessivo, tanto che Minerva è costretta a rimproverarlo,
facendolo diventare «di vergogna rosso»2. L’eccessiva baldanza del poeta e
l’ammonimento della guida sembrano esemplati sul Boccaccio personaggio
dell’Amorosa Visione3.
Terminato il primo canto, il secondo, ancora di carattere introduttivo, si apre con
Minerva che ricorda al poeta pellegrino la mitica età dell’oro, in cui sulla terra regnava
Astrea, personificazione della Giustizia:
Vergine saggia e bella il cielo adorna,
di cui Virgilio poetando scrisse:
«Nova progenie in terra dal ciel torna».
1 All’apparizione di Virgilio Dante grida: «Miserere di me [...] / qual che tu sie, od ombra od
omo certo!» (Inf. I, 65-66). 2 Gli incipit dei discorsi che i poeti pellegrini rivolgono alle loro guide sono similari, pur nel
diverso atteggiamento dei due nei confronti del difficile viaggio che si accingono a intraprendere. Dante,
pieno di timore reverenziale a causa dei sommi precedenti di Enea e Paolo, così diceva: «Poeta che mi
guidi, / guarda la mia virtù s’ell’è possente, / prima che a l’alto passo tu mi fidi» (Inf. II, 10-12);
decisamente più sicure sono le parole di Frezzi : «Tu sai la mia virtù e quant’io posso; / e, s’ella è poca, io
spero ardire, / se io mi guiderò dietro il tuo dosso. / Ma prego, o sacra dea, mi vogli dire / qual è ‘l
cammino e prego che mi mostri / chi sta in quel viaggio ad impedire» (Quadr., II, 1, 106-111). 3 Boccaccio diceva: «Adunque andiam, ché già m’affretto, / già mi cresce il disio, sì ch’io non
posso / tenerlo ascoso più dentro nel petto. / Vedi com’io mi son sicuro mosso, / vedi ch’io vegno e
trascorro di voglia, / d’ogni altra cura nella mente scosso» (Am. Vis. I A, 76-81); non dissimilmente
Frezzi: «allor allor alla briga condotto / stato essere vorrai: tanta speranza / mi die’ il suo dir e
rinfrancòme tutto. / E però dissi con grande baldanza: / - Andiam, ché nullo mostro pel sentiero / di
potermi impedire avrà possanza -» (Quadr., II, 2, 142-147). La leggera ripresa della guida boccacciana
all’autore («Ir si conviene qui di soglia in soglia / con voler temperato, ché chi corre / talor tornando
convien che si doglia», Am. Vis. I A, 82-84), nel poema frezziano diventa: «Non ti fidar di te, né sie altero
/ […] ché colui è più da lunge, / che stima esser più appresso nel pensiero. / Nessun giammai a buon
termine giunge, / se del gir poco o del tornar addietro / non fa a sé gli spron, con che si punge. / Perché di
sé presunse il gran San Pietro, / cadde, da vento piccolo commosso, / non come ferma pietra, ma di vetro»
(Quadr., II, 2, 148-157). L’episodio si conclude in tono comico realistico con il poeta pellegrino che
diviene «di vergogna rosso».
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Resse già il mondo, e sì la gente visse
sotto lei in pace, che l’età dell’oro 5
el secol giusto e beato si disse.
La terra allora senza alcun lavoro
dava li frutti e non facea mai spine;
né anco al giogo si domava il toro.
Non erano divisi per confine 10
ancor li campi, e nullo per guadagno
cercava le contrade pellegrine.
Ognuno era fratello, ognun compagno;
ed era tant’amor, tanta pietade,
ch’a una fonte bevea il lupo e l’agno. 15
Non eran lance, non eran spade;
non era ancor la pecunia peggiore
che ‘l guerreggiante ferro più fiade4.
Questi versi introducono un canto molto interessante perché dimostrano il grado
di confidenza che Frezzi aveva nei confronti dei testi classici. Le terzine riecheggiano la
descrizione dell’età dell’oro che fece Ovidio nel primo libro delle Metamorfosi5. Frezzi
cavalcherà l’episodio ovidiano per tutto il secondo canto: nei versi subito seguenti a
quelli sopra citati, non discostandosi dal modello latino, Minerva, dopo aver elencato
tutti i vizi che hanno contaminato la terra, parla dell’abbandono del mondo da parte di
Astrea. Come nelle Metamorfosi, anche l’Astrea frezziana, lasciata la terra sdegnata per
la sua corruzione, si reca nel firmamento per divenire la costellazione della Vergine:
«Vedendo Astrea il mondo esser disfatto / e ‘l viver santo, e guasto il giusto regno / dal
mostro reo, che fu d’inferno tratto, / lassò la terra prava a grande sdegno, / sì come
indegna della sua presenza, / e tornò al ciel, ov’ella è fatta segno»6. Si vedrà poi nel
Regno delle Virtù come Frezzi evolverà il racconto ovidiano ponendo Astrea,
prosopopea della giustizia, al governo di uno dei sette regni delle virtù cristiane di cui
sono composti i cieli7. Già Dante aveva fuso mito pagano e mito cristiano: Matelda
4 Quadr., II, 2, 1-18
5 Met., I, 89-150
6 Quadr., II, 2, 55-60.
7 Quadr., IV, 8-10.
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nell’Eden chiaramente affermava: «quelli ch’anticamente poetaro / l’età de l’oro e suo
stato felice, / forse in Parnaso esto loco sognaro»8.
Tornando alle terzine sopra citate, si può osservare come il primo verso ricordi
l’incipit dell’ultima lirica del Canzoniere di Petrarca, la celebre canzone alla Vergine; in
tutta la terzina, inoltre, è facilmente rilevabile l’esplicita citazione, volgarizzata, dei
primi versi della celebre quarta egloga virgiliana: «Magnus ab integro saeculorum
nascitur ordo, / iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna, / iam nova progenies caelo
demittitur alto»9. Il passo delle Bucoliche era dedicato al console Asinio Pollione,
consigliere dell’imperatore Augusto, per la nascita del figlio, con l’augurio che al
«nascenti puero» si prospettasse finalmente quel mondo di pace, di giustizia, di
benessere collettivo, profetizzato dalla Sibilla Cumana, a somiglianza della felice età
mitica di Saturno; Virgilio riconosceva l’artefice della nuova felice era in Ottaviano
Augusto, appartenente alla casa Giulia, che si riteneva progenie divina, discendente da
Venere; ma, a cominciare dall’apologista Lattanzio (250-325), vi si lesse una profezia
del Cristianesimo, identificando la «Virgo» nella madre di Gesù, e il «puer», figlio di
Pollione, in Gesù Cristo stesso. I versi virgiliani erano già stati utilizzati da Dante; così
Stazio si era rivolto al Virgilio personaggio, in Purgatorio XXII: «dicesti: ‘Secol si
rinova; / torna giustizia e primo tempo umano, / e progenie scenda da ciel nova’. / Per te
poeta fui, per te cristiano»10
.
Più ancora che i riferimenti a Virgilio e Ovidio, due poeti molto amati nel
Medioevo, trovo degni di attenzione, nelle terzine menzionate, alcuni riferimenti a un
autore non così frequentato al tempo, quale Tibullo. Il poeta latino, nelle Elegie, I, 3,
partito per la Grecia a seguito di Messala Corvino, lontano dall’amata e dai familiari,
ammalato e impossibilitato a tornare in patria, rievocava l’età dell’oro in cui i viaggi per
mare erano ignoti, regnava l’abbondanza, non c’erano guerre11
. Questa nostalgica
rievocazione del passato aureo è simile a quella frezziana sopra riportata. In particolare,
punti di tangenza notevoli sono l’«illo non validus subiit iuga tempore taurus» delle
8 Purg. XXVIII, 139-141,
9 Buc. IV, 5-7.
10
vv. 70-73.
11
vv. 35-50.
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Elegie12 che ricorda il v. 9 del Frezzi; il «Non acies, non ira fuit, non bella, nec ensem /
inmiti saevus duxerat arte faber» non troppo dissimile dai vv. 16-1813
.
Concluso Minerva il suo lungo discorso, il viaggio può finalmente incominciare.
L’ingresso nell’oltretomba avviene, come in Dante, con un tuono che tramortisce il
poeta14
; al risveglio Minerva lo invita a scegliere tra due strade, una in salita che porta al
Bene, una in discesa che conduce al Male. Tale bivio ricorda quello che, nell’Eneide, la
Sibilla mostrava a Enea, dove una strada portava alla città di Dite e ai Campi Elisi,
l’altra al Tartaro15
. Ancor di più, la scelta tra le due vie dalla comodità e dal destino
antitetico, in cui il protagonista sceglie la strada sbagliata, ricorda da vicino Amorosa
Visione II A, 34-5116
; ma l’immagine del crocicchio da cui si dipartono due strade, una
angusta, l’altra allettante, apparteneva già alle metafore scritturali17
, oltre a essere
utilizzata dal celebre mito di Ercole al bivio. Frezzi, scelta la via che lo conduce nel
profondo dell’inferno, «loco che Satan ha lassato vuoto», è costretto a un itinerario di
risalita, all’opposto di quello dantesco.
L’inferno frezziano, ben lontano da quello più sofisticato di Dante, è composto
da cinque gironi, ove sono puniti i peccatori con pene ottenute utilizzando lo stesso
sistema del contrappasso dantesco. Nel primo girone c’è Cocito, nelle cui gelide acque
stanno fitti i traditori; nel secondo una fumosa valle accoglie i bestemmiatori che, legati
al suolo con catene, sono colpiti da saette di fuoco; nel terzo i fraudolenti sono straziati
da demoni e da cavalli, che li trascinano; nel quarto i sodomiti sono ustionati da
precipitazioni di fuoco e zolfo; nel quinto sono presenti sette case, disabitate da quando
12 Elegie I, 3, 41.
13
Elegie, I, 3, 47-48 14
Quadr., II, 3, 4-9: «Andando come alcun che non sospetta, / subitamente un gran tuon mi
percosse, / sì come Iove il fa quando saetta. / E questo sentimento mi rimosse, / tanto ch’io caddi
quand’egli mi colse, / sì come corpo che senz’alma fosse». Così Dante all’ingresso agli Inferi: «caddi
come l’om cui sonno piglia» (Inf. III, 136); ma qui il palese modello è Inf. V, 142: «caddi come corpo
morto cade».
15
En., VI, 540-543. 16
In Quadr., III, 29-39, a Federico Minerva «mostrò due vie, e disse: - D’este due / prendi qual
vuoi, ed a tuo piacer anda. / Questa, ch’è arta e che mena alla ‘nsue, / è nel principio molto aspera e forte,
/ ma poi nel fine ha le dolcezze sue. / Quest’altra, che tu ve’, che ha sette porte / e che è lata e mena giuso
al basso, / è dolce in prima e poi mena alla morte.- / Oh semplicetto me, ignorante e lasso! / Presi la via,
che all’ingiù conduce, / perché più lieve mi parea al passo». Nel passo citato dell’Amorosa Visione,
invece: « La pia / donna mi disse: - Vedi qui la porta / che la tua alma cotanto disia -. / Nel suo parlar mi
volsi, e poi che scorta / l’ebbi, la vidi piccoletta assai, / istretta ed alta, in nulla parte torta. / A man sinistra
allora mi voltai / volendo dir: «Chi ci potrà salire / o passar dentro, che par che giammai / gente non ci
salisse? E nel mio dire / vidi una porta grande aperta stare, / e festa dentro mi parve udire. / E dissi allor: -
Di qua ha meglio andare, / al mio parere, e credo troveremo / quel che cerchiam, ché già udir mel pare -. /
- Non è così -, rispose, - ma andremo / su per la scala che tu vedi stretta / e’n su la sommità ci poseremo». 17
Luca, XIII, 24 ss; Matteo, VII, 13 ss.
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i Vizi hanno seguito Satana sulla Terra18
. Entrato in una di queste dimore, il poeta
raggiunge una città di Dite non dissimile da quella di Inferno IX, «con le mura di foco
intorno intorno, / con le torri alte e le case ignite»19
; qui sono straziati dai diavoli gli
omicidi e i predoni. Un’altra, ma simile, città di Dite comparirà più avanti, nel canto
XV.
Le torture assegnate ai peccatori non si segnalano per una particolare fantasia.
Frezzi ricopia più o meno fedelmente le pene inventate da Dante: così i traditori sono
confitti nel ghiaccio infernale; i bestemmiatori sottoposti, come Capaneo, a saette
infuocate; i sodomiti esposti a una pioggia di fuoco; la descrizione degli omicidi e i
briganti, infine, mutilati dai diavoli con «dure seghe» e con i denti si avvicina, anche per
i toni macabri, alla punizione dei seminatori di discordie di Inferno XXVIII.
Il resoconto della risalita infernale è narrato in un unico canto, il terzo:
sembrerebbe quasi che il poeta folignate, consapevole della magnifica descrizione
dipinta dal suo insigne predecessore, voglia presentarci solo un breve compendio, per
narrare subito di nuovi territori e nuovi dannati, che non troveranno riscontro nella
Commedia. Abbastanza indistinti risultano questi cinque territori infernali: sono delle
valli, incastonate tra alture, sulle cui sommità Frezzi può osservare le pene che
affliggono i dannati e commentarle con Minerva; per passare da un colle all’altro, il
poeta è costretto ogni volta ad attraversare oscure gallerie, lunghe sette miglia. Nel
veloce percorso di risalita, l’autore non trova il tempo di distinguere alcun dannato, a
parte un brevissimo accenno a Guida e Caino nella valle dei traditori. Le anime
penitenti appaiono come masse indistinte, tra cui il poeta non mette in rilievo alcuna
individualità: mancano, in questo primo tempo del Regno di Satanasso, quei personaggi
scultorei che animavano i diversi gironi dell’inferno dantesco, che parlano della propria
vita terrena, delle proprie idee, delle proprie pene.
Superato il basso inferno, Frezzi e Minerva entrano nel Limbo, al cui ingresso,
nel rispetto dell’esempio dantesco, è presente un’iscrizione prolettica. Se Dante aveva
18
La descrizione delle case dei sette Vizi può essere letta, oltre che come un’ulteriore conferma
biografica dei viaggi che il poeta-domenicano compì nell’Urbe, anche come una preziosa testimonianza
dello sfacelo in cui versavano alla fine del Trecento i monumenti dell’antica Roma: «Ell’eran grandi e
vacue rimase, / sì come a Roma sono le ruine / delle anticaglie con le mura pase: / sordide tutte e piene di
fuline, / deserte dentro e con le mura rotte, / piene di rovi, d’ortiche e di spine» (Quadr., II, 3, 133-138).
Di lì a qualche lustro, con l’affermarsi del Rinascimento, essi saranno, per fortuna, tenuti in maggiore
considerazione.
19
Quadr., II, 3, 146-147.
39
alluso alla porta infernale senza serrame quando accennò alla mitica discesa agli Inferi
di Gesù Cristo per liberare gli spiriti eletti20
, Frezzi, dal canto suo, si sofferma sulla
descrizione della rottura delle sette porte e sulla violenza con cui Lucifero,
puntellandosi colla schiena ai battenti, aveva conteso invano a Cristo l’ingresso21
. Ne
risulta un effetto quasi parodistico.
Entrato nel Limbo, «bel paese, / di fiori e d’arboscelli e d’erbe adorno», il poeta
non esita a commuoversi per la sorte dei bambini che quivi soggiornano. Mancano in
questo luogo le anime dei grandi filosofi e letterati dell’antichità; il poeta-personaggio,
memore del racconto di Inferno IV, si stupisce di non trovarle e chiede chiarimenti a
Minerva22
; la dea gli risponde che la celebrità degli spiriti magni, benché mancanti in
vita della fede cristiana, basta ad assicurare loro una sede privilegiata dopo la morte, nel
celeste regno della Prudenza.
Nei pressi del Limbo Federico incontra il primo dannato che mostra di conoscere
e si ferma con lui a interloquire: è Batista, un perugino, suo amico d’infanzia, cui Frezzi
chiede della sorte di due compagni della «prima scola». Si tratta dell’unico, esiguo
riferimento biografico che possediamo della gioventù del poeta.
Superata un’aspra montagna23
, Frezzi e Minerva fuoriescono nel mondo dove
incontrano l’allegoria della Povertà, in sembianza di donna brutta e attempata, e la
Brevità della Vita, impersonificata in un gigante che velocemente invecchia per poi,
20
Inf. IV, 52-63; Inf. VIII, 124-126.
21
Quadr., II, 4, 103-123, 130-132: «Trovammo lì sette gran porte rotte, / tutte di rame e di ferro
il verchione, / le qua’ serravan già quelle gran grotte. / Palla mi disse: - Qui ‘n questa pregione / il drago
Satanasso già ritenne / l’anime circumcise, elette e buone, / sinché ‘l Figliol di Dio su dal ciel venne / e
per la colpa delli suoi amici / pagò il bando e la morte sostenne. / Allor ardito e con splendor felici / venne
quaggiù vittorioso e forte / contra Satan e gli altri suoi nemici, / e disse a lor: - Levate via le porte: / traete
fuor la mia turba fedele, / che menar voglio alla celeste corte.- / Allor Satan, omicida crudele, / a lui
s’oppose e cominciò la guerra, / come già fece contra san Michele. / Puse le rene là dove se serra: / ma
Cristo lui e’l catarcion d’acciaio / e queste porte allor gettò a terra. / […] / L’anime a lui amiche tutte
quante / trasse del limbo l’alto Emanuel, / vittorioso lieto e trionfante». La fonte di cui s' avvalle il nostro
autore è forse il vangelo apocrifo di Nicodemo, cap. V, 1: «Allora l’Inferno disse ai suoi demoni: Serrate
bene e saldamente le porte di bronzo e i chiavistelli di ferro, e sprangate le mie serrature»; cap. V, 3:
«subito le porte di bronzo caddero infrante e si spezzarono i chiavistelli. […] E il Re della Gloria entrò, in
figura di uomo, e tutte le tenebre dell’inferno furono illuminate». Cfr. Vangelo di Nicodemo, a c. di T.
ORLANDI, Milano 1966. Rotondi vedeva un rapporto tra il racconto frezziano e uno degli affreschi di
S.Maria Novella. Cfr. G. ROTONDI, Alcuni studi su Federico Frezzi, in «Memorie del r. istituto lombardo
di scienze e lettere», XXIII, (1917), p. 95. 22
Quadr., II, 139-140: «Li saggi e li poeti / sonno egli qui? E gli antichi romani?».
23
Quadr., II, 6, 1-5: «Non è nella riviera genovese, / […] / né trovariasi mai ‘n altro paese /
aspera tanto e repente montagna, / quant’una che trovammo sì alpestra». Gia in Purg. III, 49-51 Dante
aveva usato come termine di paragone, per indicare l’asperità della salita, la riviera ligure: «Tra Lerici e
Turba, la più diserta, / la più rotta ruina è una scala, / verso di quella, agevole e aperta».
40
come una fenice24
, rinascere: nel suo cogliere i fiori per farne una ghirlanda il gigante
ricorda la Matelda dantesca, tanto da risultarne un effetto comico-parodistico.
La salita lungo i regni infernali è terminata: a partire dal settimo canto le
avventure frezziane sono ambientate nell’Inferno Terrestre. Esso è dall’autore
immaginato come un susseguirsi di valli e gironi montani, non concentrici come quelli
danteschi, ma, ad imitazione di Virgilio, disseminati in un disordine capriccioso.
Copiosa comincia qui a diventare la materia didattica: se nel primo libro le
digressioni riguardavano soprattutto questioni meteorologiche, nel Regno di Satanasso
si entra nel campo della filosofia morale. Chi parla è quasi sempre Minerva, simbolo
della sapienza; la dea svolge svariati argomenti, dall’unione dell’anima con il corpo alla
poco invidiabile condizione dei principi, dall’importanza della volontà sull’uomo al
suicidio, dalla morte al bisogno di fuggire l’amore sensuale. Altri ammaestramenti
giungono dalla Vecchiezza sulla brevità della vita umana25
, un’Arpia si mette a
discorrere della vera essenza del nostro corpo26
, Flegias si occupa delle sciagure
umane27
, la Fortuna illustra i suoi capricci e la sua indifferenza verso chi si lamenta di
lei28
.
Come un lavoro di mosaico, molti sono i materiali ripresi dall’Alighieri, dalle
situazioni ai personaggi, dal contrappasso all’iscrizioni che preannunciano i regni dei
dannati, dai versi alle rime, persino quelle più difficili come torza : ammorza29 e
necesse : esse30. Al faro dantesco viene ad aggiungersi, in questo Inferno Terrestre, il
ricordo del sesto libro dell’Eneide di Virgilio. Molto bello, secondo me, è il fantasioso
muoversi del racconto frezziano all’interno del solco scavato dai due grandi «maestri»,
il suo ridipingere con colori nuovi le scene rese immortalate dai due «autori», non
lesinando nuovi particolari. Ne risultano immagini originali, non prive a volte di una
certa vena comica. Tra gli episodi più rilevanti in questo senso è l’incontro, nel capitolo
VII, con il celebre Caronte. Il nocchiere, come nel modello virgiliano e dantesco, fa la
spola tra le due sponde del fiume Acheronte; qui però non traghetta le anime di coloro
24
Quadr., II, 6, 91-93. Quello della rinascita della fenice è un motivo molto diffuso nei bestiari
medievali. Ne parla profusamente anche Ovidio, Metamorfosi, XV, 392-407; non manca nemmeno in
Dante, Inf. XXIV, 106-108.
25
Quadr. II, 8, 61-90.
26
Quadr. II, 10, 133-147.
27
Quadr. II, 12, 52-81.
28
Quadr. II, 13, 58-78.
29
Quadr., II, XIV, 142-144, Par., IV, 76-78.
30
Quadr., II, XV, 143-145 ; Par., III, 77-79 ; Par. XIII, 98-100.
41
che sono morti di recente, ma piuttosto una particolare tipologia di dannati, i «negligenti
alla virtude / e ratti far le cose brutte e fède»31
. Essi sono immaginati come mostri a
sette teste, una per ogni fase della vita32
; durante la traversata sulla «nave» di Caronte le
singole teste muoiono ad una ad una, a partire dalla più giovane, fino alla completa
polverizzazione del dannato, allegoria dello spietato fuggire del tempo; i dannati si
rimaterializzano poi sulla riva per ricominciare tristemente il perenne «gioco».
L’iconografia del Caronte frezziano non si discosta dall’immagine della
tradizione consacrata dai due maestri, da cui Frezzi trae il motivo dei capelli bianchi
per la veneranda età33
, così come gli occhi ardenti, che addirittura in lui «pareano come
di notte una lumiera / o un falò, quando si fa per festa»34
. Di derivazione virgiliana sono
l’accenno al manto «rappezzato e unto»35
che ricorda «sordidus ex umeris nodo
dependet amictus»36
e il diniego del passaggio con il ricordo della spedizione infernale
di Ercole e di Teseo37
. Anche il traghettatore frezziano, dopo aver, come quello di
Dante, rivolto un triste saluto alle anime adunate sulla riva d’Acheronte e averle raccolte
nella sua barca, battendole col remo38
, rivolge una minacciosa apostrofe al poeta che,
vivo, osa portare il piede sulle sponde del fiume infernale39
. Mentre il Virgilio della
Commedia manifestava al traghettatore l’irrevocabile comando di Dio, la Minerva
frezziana, non riuscendo a vincere la diffidenza del traghettatore, ancora urtato per lo
scotto che subì ad opera di Ercole e Teseo, con atteggiamento distante dalla sdegnosa
superiorità della guida dantesca, lo insulta chiamandolo «vecchio lordo» e «consumator
ingordo»40
, ricordandogli infine che a lui «non è subietta quella vita, / per la quale vive
uom sempre per ricordo»41
. Solo allora Caronte, pieno di vergogna, acconsente suo
31 Quadr., II, 7, 101-102.
32
Infante, bambino, adolescente, giovane, uomo, anziano, «vecchiaccio tristo e vile».
33
Cfr. En. VI, 299; Inf. III, 83. Quadr., II, 7, 37: «avea il capo di canuti bianco».
34
Quadr., II, 7, 32-33.
35
Quadr., II, 7, 38.
36
En., VI, 301
37
Quadr., II, 7, 58-63: «Su la mia nave non verrete vui / […] / ché altre volte già ingannato fui. /
Un trasse Cerber fuor del nostro regno, / l’altro la moglie; or simil forza temo: / però voi non verrete sul
mio legno». Cfr. En. VI, 392-396. Anche se il riferimento alla moglie potrebbe anche, in luogo di Teseo,
far pensare a Orfeo, in cerca di Euridice.
38
Quadr., II, 7, 49-51: «Dava col remo suo tra testa e ‘l collo / a mostri, che mettea dentro alla
cocca; / e forte percotea chi facea crollo».
39
Quadr., II, 7, 52-54: «Poscia rivolto a me, colla gran bocca / gridò: - Or giunto se’, o tu, che
vivi, / venuto qui come persona sciocca».
40
Quadr., II, 7, 65 e 67.
41
Quadr., II, 7, 68-69.
42
malgrado a trasportare i due viaggiatori sull’altra riva42
. Originale, umanistica si
potrebbe definire, questa chiusa dell’episodio: Caronte cede non già alla forza magica
del ramo d’oro43
, né all’onnipotente volere del cielo44
, bensì all’affermazione solenne di
Minerva in merito alla sovranità della gloria sul tempo. Singolare davvero, infine, che,
in caso di rifiuto ostinato, Minerva minacci d’impugnare essa stessa i remi: «Io chiedo
ora il tuo remo, / ch’io vo’ menar costui»45
.
Preso commiato da Caronte, si apre davanti a Frezzi un paesaggio abitato da
esseri usciti dal sesto dell’Eneide, tra cui spicca Tizio, il gigantesco figlio della Terra
punito per aver tentato di violare Latona, madre di Diana e Apollo; come nel poema
virgiliano46
, il gigante è soggetto alla famelicità di un avvoltoio che ogni giorno gli rode
il fegato. Memore del modello, Frezzi ci informa che il fegato del gigante si ricrea di
notte, per poter essere nuovamente divorato dal rapace il mattino seguente47
. Si osservi
come Frezzi traduca il «rostroque immanis vultur obunco di Eneide VI, 597, con «un
gran voltore […] che ‘l becco torto avea come un uncino»48
. Attorniano Sisifo le
prosopopee della Vecchiaia, della Morte e dei Morbi49
, che già comparirono a Enea nel
vestibolo infernale50
: tali personaggi allegorici sono rappresentati con un’efficacia
descrittiva che ha fatto pensare a influenze delle arti figurative51
. L’apparizione della
Morte e del suo triste corteo, inoltre, presenta affinità con il terzo capitolo dei Trionfi di
Petrarca.
Superate nuove terre e visti altri dannati, Frezzi e Minerva giungono alla palude
Stige: «quanto più m’appressava, maggior puzzo / sentiva al naso e tanto n’era offenso,
42 Quadr., II, 7, 70-72: «Ratto ch’egli ebbe esta parola udita, / si vergognò ed abbassò le ciglia, /
e senza più parlar ne die’ la ita». Cfr. Inf. III, 97-99.
43
En. VI, 405-410.
44
Inf. III, 94-96.
45
Quadr., II, 7, 64-65. 46
En. VI, 594-600.
47
Curiosa qui la significazione allegorica che assume l’episodio mitologico. Il gigante infatti
così spiega al poeta «Simile a me, che m’hai chiamato “mostro”, / in ciascun uomo è la parte mortale; /
[…] / Come vòltore, il caldo naturale / l’umido radicale in voi dimora, / poi rinasce nel cibo, ma non tale,
/ però che sempre la lega peggiora; / oltre la gioventù putrido fasse; / per questo l’uomo invecchia e
discolora. / […] quel ch’è in voi consumato dal caldo, / se si rifà per prandio ovver per cena, / non sempre
è sì perfetto, né sì saldo. / E questo alla vecchiezza e morte mena, / e fame e sete; sì che vostro stato / vien
meno ed ha a questa simil pena» (Quadr., II, 8, 22-42).
48
Quadr., II, 8, 6-7.
49
Quadr. II, 8-9. 50
En. VI, 273-281.
51
A proposito dello stretto rapporto che ebbe il poeta con le arti figurative, Faloci Pulignani
attribuiva a Frezzi le didascalie della Sala dei Giganti del palazzo di Foligno. Cfr. M. FALOCI PULIGNANI,
Le arti e le lettere della corte dei Trinci di Foligno, «Giornale storico della letteratura italiana», II,
(1883), pp. 31-49.
43
/ che soffiando io facea dell’aerea spruzzo»52
. Qui dimorano le Arpie: facile ravvisare
nelle «facce umane», nei «lamenti», nelle «smorte querce», l’eco dei «colli e visi
umani» delle arpie dantesche, dei «lamenti» che queste fanno sugli alberi, delle fronde
«di color fosco» della triste selva dei suicidi53
. E’ reminiscenza virgiliana, invece,
l’accenno a Fineo, il crudele re di Tracia che aveva fatto accecare i propri figli, cui, per
punirlo, Giove aveva mandato le Arpie a sottrargli le vivande imbandite a tavola,
sporcando ciò che rimaneva sulle mense54
. Le scatologiche parole pronunciate da una
delle rapaci sulla miseria della condizione umana si chiudono con un’ardita e stridente
similitudine: «Tu sai che l’uomo […] è un sacco pien di vittupero, / e tra gli altri
animali che son nel mondo, / vuole in nettarsi maggior mistero. / Tu sai ch’e’ per la
cima e per lo fondo / e dello corpo suo per nove fori / sparge il fastidio, più che noi
immondo. / Al sudiciume e suoi corrotti umori / per delicanza concorron le mosche, / sì
come l’api sopra belli fiori»55
.
Il cammino del poeta pellegrino prosegue in un’atmosfera funesta, dove
«discorrono i Mal sogni e’l Mal presagio, / l’upupa, il gufo e’l corvo con lor canti»56
. Si
tratta di una delle prime attestazioni poetiche in cui compare l’uccello reso immortale
dai versi dei Sepolcri di Ugo Foscolo57
e di cui un famoso osso montaliano58
lamentava
la calunnia poetica di cui fu vittima, considerandolo un animale lugubre e notturno59
.
Variazione sul tema classico è anche l’incontro di Frezzi con Flegias, l’antico re
dei Lapiti che, adirato con Apollo che gli aveva sedotto la figlia, ne incendiò il tempio a
Delfi. Virgilio descriveva il dannato nel Tartaro, infelicissimo, errante tra le ombre
52
Quadr., II, 10, 121-123. Cfr. Inf. XI, 4-5.
53
Quadr., II, 10; Inf. XIII.
54
Quadr., II, 10, 130-132: «[Le arpie] facean lamenti su le smorte querce, / e ‘l misero Fineo
mangiava sotto / vivande, ch’eran di lor sterco lerce». Cfr. En. III, 212. 55
Quadr., II, 10, 137-147.
56
Quadr., II, 12, 32-33. 57
Dei Sepolcri, 81-86: «e uscir dal teschio, ove fuggia la Luna, / l’upupa, e svolazzar su per le
croci / sparse per la funerea campagna / e l’immonda accusar col luttuoso / singulto i rai che son pie le
stelle / alle obbliate sepolture». L’atmosfera foscoliana in cui è protagonista quest’uccello non differisce
molto da quella descritta da Frezzi.
58
«Upupa, ilare uccello calunniato dai poeti».
59
La tradizione dell’upupa come animale funereo, che grande fortuna avrà in epoca romantica,
sembra risalire a Isidoro di Siviglia che nelle Etimologie, XII, 7, 66 scriveva: «semper in sepulcris et
humano stercore commorans»; ma già compariva, priva di ogni connotazione negativa, citata nel Teseo di
Sofocle e occupava una parte rilevante tra gli Uccelli di Aristofane, che per primo ne riprodusse il grido:
«epopòi» (v. 59 e 227). Nel Corano l’upupa addirittura considerata «uccello di Dio» (cfr. Il Corano, trad.
A. BAUSANI, Firenze 1955, p. 275). La sfortuna letteraria dell’uccello fu forse dovuta al suono
onomatopeico del suo significante, con la suggestione di ùlula, l’allocco, uccello davvero notturno e
rapace. Cfr. S. ZANOTTI, Ùpupe e upùpe, «Lingua nostra», XXV, fasc. 1, (1964), pp. 41-43.
44
ammonendo di non violare il giusto ed esortando a riverire gli dèi60
; Dante faceva di lui
un demone, simbolo dell’ira e custode degli iracondi, che cerca di contrastare il passo al
poeta fiorentino61
. Frezzi, invece, colloca il re lapita tra i timorosi, anzi è tra loro «il
primaio / del gran timor con pallido visaggio»62
; ma a differenza dei suoi compagni di
sventura, egli solo «’n sempiterno questo tremor porta» non perché fu poco audace, ma
come contrappasso per la superbia che esercitò in vita. Il poeta-personaggio, osservando
Flegias, lo rimprovera per la sua codardia: «tremi vieppiù forte / che ‘l vecchio can nel
freddo di gennaio»63
. Il lapita, in maniera pacata e saggia, risponde ricordandogli la
precarietà della condizione umana; Federico, dispiaciuto, si pente dell’offesa gratuita:
«Ahi quanto di vergogna il viso accende, / quando alcun riprendente è poi ripreso / di
quel medesimo, del qual e’ riprende! / Così io feci, quando l’ebbi inteso; / e però dissi: -
Prego mi perdoni, / se, Fleias, col mio dir t’avessi offeso»64
.
Dopo aver attraversato un fiume su un filo sottile, scena favolistica frequente in
molte leggende medievali65
, il pellegrino giunge ai piedi delle mura infuocate di una
città di Dite che ricorda da vicino quella della Commedia66. E come intorno a questa
scorre lo Stige, così attorno a quella del Frezzi scorre il Flegetonte. Arrivati davanti alla
porta di Dite, un ostacolo attende il protagonista: come a Dante e alla sua guida, così
anche a Frezzi e a Minerva viene contesa l’entrata. Mentre però nel divin poema il
messo celeste scende con la miracolosa verghetta a schiudere i battenti della porta
invano difesa dai demoni, qui Minerva deve affrontare la resistenza del portinaio
Mamone, con cui inizia una lunga discussione: la dea lo convince ad aprire
promettendogli in cambio del denaro, il portinaio apre ma rimane deluso del mancato
premio; lei dice che il dono che porta è la scienza, Mamone risponde che in quel luogo
60
En. VI, 618-620: «Phlegyasque miserrimus omnis / admonet et magna testatur voce per
umbras: / discite iustitiam moniti et non temnere divos».
61
Inf. VIII, 13-24. 62
Quadr., II, 12, 35-36.
63
Quadr., II, 12, 38-39.
64
Quadr., II, 12, 76-81. 65
Cfr. A. GRAF, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, I, 1892, pp. 155-156. Il motivo del
ponte costituito da un esile filo è un motivo frequentissimo nella letteratura ascetica medievale, dove il
devoto riesce ad attraversarlo, mentre i rei precipitano. Lo stesso espediente fu utilizzato anche dalla
letteratura cavalleresca: Lancillotto, per togliere Ginevra dagli artigli di un rapace, è costretto a varcare un
fiume di fuoco su un ponticello sottile come il filo di una spada (G. PARIS, La litterature francaise au Moyen Age, Parigi 1914, p. 108); Tristano, intrappolato, fugge raggiungendo un’isoletta mediante un
ponticello largo meno di mezzo piede (P. RAJNA, Le fonti dell’Orlando Furioso, Firenze 1900, p. 309).
66
Quadr., II, 15, 1-39.
45
la scienza non è apprezzata; l’infido portinaio, infine, indica la destra per raggiungere il
tempio di Plutone, ma Minerva non gli dà retta e va a sinistra67
.
Non si discosta molto dalla figura consacrata dalla tradizione classica la maga
Circe del canto XV, seppur descritta con toni più disprezzevoli: «maledetta maga, / che
fa che l’uomo in bestia si converta. / Con gli occhi putti e con la faccia vaga / losinga
altrui e con ridente grifo, / acciò che l’alme a sue malie attragga»68
.
Poco lontano appaiono le Furie. Enea ne aveva incontrata una sola69
; Dante tutte
e tre70
; il Frezzi ricalca l’esempio dantesco, con la stessa scena della guida che gli indica
chi è Megera, chi Aletto e chi Tesifone e con l’invocazione delle tre fiere a Medusa71
.
Bizzarra, ma efficace, è in Frezzi la descrizione delle feroci Erinni: «figura avea di
donna, a cui iniurie / un’altra donna pel tolto marito, / quando si turba che con lei
lussurie»72
.
Singolare è l’episodio narrato nel canto XVII dove Federico, insieme alla fida
Minerva, entra nel tempio di Pluto. Frezzi, sulla scorta di Dante, sovrappone alla figura
di Pluto, dio della ricchezza, quella di Plutone, re dell’Averno, con la medesima
commistione favorita dal De natura deorum di Cicerone (II, 26). Il re infernale, lungi
dal «maledetto lupo» dantesco, è qui descritto come capo di una folta schiera di fedeli,
tra cui si distinguono i greci Radamanto, Minosse e Eaco. Spettacolo prediletto
nell’infernale corte è l’assistere ai sacrifici umani compiuti da un rettile dalla sembianze
mostruose, figlio del serpente che tentò Eva nell’Eden. Tali immolazioni sono dedicate
al Nummo, idolo tutelare della ricchezza di origine medio-latina, «che da Pluto e da’
suoi era onorato / vieppiù che Dio assai per ognun cento. / Plutone in prima a lui
inginocchiato, / poi tutti gli altri gli offersero un core, / il don che al sommo Dio saria
più grato. / E come Ignazio «Iesù Salvatore», / così tra quelli cori io vidi scritto /
“denar”, “denar”, “denar” dentro e di fuore»73
. Da rilevare nell’ultima terzina citata, il
riferimento alla leggenda agiografica di sant’Ignazio, che compare anche nel
Dittamondo, II, 7, 91-93: «E morto seco Ignazio, ancor fu visto, / là dove sparse furon le
sue membra, / iscritto d’or per tutto “Gesù Cristo”». Nella reggia di Plutone è presente
67 Quadr., II, 15, 40-85.
68
Quadr., II, 15, 86-90.
69
En. VI, 555-6.
70
Inf. IX, 45-52.
71
Quadr. II, 16.
72
Quadr. II, 16, 52-54.
73
Quadr. II, 17, 59-66.
46
anche sua moglie, Proserpina: essa perde, nei versi frezziani, quella maestosità regale
che la tradizione le attribuiva e ogni connotazione primaverile. Nel Regno di Satanasso
Proserpina, «reina infernale, / adulterata spesso dal suo sposo», viene degradata a una
sorta di meretrice infernale «ché, non guardando chi, come, né quale, / purch’al marito
suo si dica: - Io pago - / la ‘spone ad adulterio e ad ogni male»74
.
Prima di incontrare Satana, i due protagonisti itineranti giungono nella valletta
dove sono puniti dai centauri i capitani di ventura75
. L’imitazione di Dante è evidente
sia nell’apparire dei centauri armati da saette, sia nella saggezza di Chirone che,
riconosciuta Minerva, dea della sapienza, le fa riverenza e obbliga tutti i suoi «vassalli»
a fare altrettanto76
. I mitologici semi-uomini, nella loro veste dantesca di aguzzini
infernali, non si limitano alla guardia del fiume di sangue, ma succhiano essi stessi
quello delle loro vittime, gli ingordi e sanguinari capitani di ventura. Tra costoro
Ambrogiolo Visconti si rivolge al poeta e lo prega, quando tornerà tra i vivi, di ricordare
le sue pene a Giovanni Acuto e a Giovanni d’Azzo perché si ravvedano in tempo77
. Se
l’esortazione può ricordare quella del Maometto di Inferno XXVIII per fra Dolcino78
,
qui l’ammonimento del Visconti è giustificato dall’inasprimento delle loro sofferenze
che l’arrivo di nuovi penanti comporta: «non per ben ch’io lor voglia / ma come su in
ciel di più consorti / è più letizia, qui è maggior doglia»79
.
Il Regno di Satanasso non può che concludersi che con la visione di Satana. A
prima vista, il Lucifero del Quadriregio appare all’autore di aspetto maestoso e
piacente80
; ma guardatolo attraverso il magico scudo di Minerva, il poeta può vederlo in
tutta la sua spaventosa mostruosità: di color nero, con occhi di fiamma, serpenti al posto
dei capelli e dei peli, fornito di artigli e, come il Lucifero dantesco, di prodigiosa statura
e dotato di sei grandi ali81
. Non accontentandosi di essere uscito dall’inferno e aver
conquistato il mondo, Satana è descritto dal poeta nel tentativo di costruire torri per
raggiungere il cielo e contenderne il primato a Dio82
; inoltre, guidato dalla sua stolta
superbia, tenta di levarsi a volo sulle sue alacce smisurate, grandi più di qualsiasi vela di
74 Quadr. II, 17, 94-96.
75
Quadr. II, 18.
76
Quadr. II, 18, 1-42.
77
Quadr. II, 18, 106-114.
78
Inf. XXVIII, 55-60.
79
Quadr. II, 18, 121-123.
80
Quadr. II, 19, 7-39.
81
Quadr. II, 19, 40-75.
82
Quadr. II, 19, 76-105.
47
nave, «ma non atte a volar troppo alla ‘nsue, / se non come l’uccello infermo e stanco, /
che tenta volar alto e cade in giue»83
: perciò ogni volta cade riverso al suolo e, come
atto di vendetta « biastima la Maestà divina» e «fa le fiche a Dio»84
. Il Satana frezziano,
nella sua spavalda baldanza, è ben lontano da «lo’ mperador del doloroso regno»
dantesco, definitivamente sconfitto e rassegnato alla perdita di ogni potere. Il racconto
dei vani tentativi di Satana di raggiungere il cielo, e quello delle gigantesche torri
costruite dai suoi Giganti con la stessa finalità, fonde, in maniera originale, le vicende
mitologiche della battaglia di Flegra e dell’assedio di Tebe con il racconto biblico della
torre di Babele.
Oltre all’interessante sviluppo allegorico che Frezzi compie cavalcando celebri
episodi letterari, in primis virgiliani e danteschi, il Regno di Satanasso è caratterizzato
anche dalla presenza di numerosi personaggi dell’epoca, sui quali il poeta svolge amare
riflessioni. Questi incontri sono degni di rilievo perché ci trasmettono un vivo spaccato
storico, politico e sociale sul secondo Trecento, uno dei periodi più turbolenti e
sanguinari della storia d’Italia.
Ragguardevole, in questo senso, il canto XIII, dove Frezzi incontra l’allegoria
della Fortuna, donna falsa e capricciosa che, «ghignando con un riso pien d’inganno, /
volgea con una man sette gran rote», provocando gli alti e i bassi dei massimi uomini
politici di quegli anni. Sue illustri vittime sono, innanzitutto, i Visconti: Bernabò85
, che
«ride e securo esser crede / [...] / ma tosto mostra Fortuna il gioco, / com’ella sole e
s’apparecchia mò»86
; Gian Galeazzo87
, perfido e ambizioso usurpatore della signoria
83 Quadr. II, 19, 70-72.
84 Quadr. II, 19, 95-96. Lo stesso osceno atto che rivolse Vanni Fucci a Dio, in Inf. XXV, 1-3.
85
Nato a Milano nel 1323. Deceduto nel 1354 lo zio arcivescovo Giovanni Visconti, il suo
dominio venne diviso tra i tre fratelli: Galeazzo II ottenne la parte occidentale della Lombardia; Matteo II
la zona subpadana; Bernabò Bergamo, Brescia, Cremona, Crema e la Valcamonica, e fu co-signore di
Milano insieme ai fratelli. Nel 1355, alla morte di Matteo II, Bernabò spartì col fratello i territori lasciati
liberi. Conquistata Reggio, nel 1371, entrò nel 1378 in guerra con gli eredi di Cansignorio Della Scala.
Alla morte del fratello Galeazzo, avvenuta nello stesso anno, Bernabò iniziò una serie di alleanze e accasò
le proprie figlie con i rampolli delle famiglie regnanti in Europa, mentre la figlia Caterina la diede in
sposa al cugino Gian Galeazzo Visconti, figlio di Galeazzo, allo scopo di consolidarne l’alleanza e
rallentarne le pretese al titolo. Nonostante ciò fu, nel 1385, fatto prigioniero dallo stesso Gian Galeazzo e
rinchiuso nel castello di Trezzo, dove morì nel 1385.
86
Quadr. II, 13, 99-102.
87
Gian Galeazzo è considerato il massimo personaggio politico dell’epoca e molte sono le
vicende dei personaggi che compaiono nel Quadriregio, più o meno direttamente riconducibili a lui. Il
Visconti nacque a Pavia nel 1351, da Galeazzo II e Bianca di Savoia. Nel 1385, con un colpo di mano,
imprigionato lo zio Bernabò, Gian Galeazzo riuscì a unificare tutti i vastissimi domini familiari di
Lombardia, Emilia, parte del Piemonte e del Veneto. Nel 1387 la figlia Valentina sposò Luigi d’Orléans.
Nel 1395 ottenne dall’imperatore Venceslao il titolo di duca. Iniziò, a partire dal 1387, una campagna
48
milanese, che sognava l’ingrandimento del suo dominio con la conquista dell’intera
Toscana: «suo nipote [di Bernabò], il qual de reggimento / il caccerà e sederà in suo
loco. / E quanto ad una cifra cresce il cento, / cotanto accrescerà il biscion lombardo / e
di Toscana fie in parte contento; / se non che ‘l giglio roscio, c’ha lo sguardo / sempre a
sua libertà, contro lui opposto / farà che ‘l suo pensier verrà bugiardo»88
. Un terzo
Visconti, Ambrogiolo89
, sarà più avanti collocato da Frezzi tra le anime dannate dei
capitani di ventura.
Nella seconda ruota della Fortuna gira il celebre Cola di Rienzo90
, il cui ardito
tentativo di riforma ebbe come avversari politici quegli stessi Colonna con i quali
espansionistica che portò all’annientamento delle signorie dei Della Scala e dei Da Cararra: vide così
estendersi il suo dominio su Verona, Vicenza, Padova, Belluno, Feltre. La repubblica di Firenze, che si
sentì minacciata da questa espansione, si alleò con Bologna e prese al soldo Giovanni Acuto (cfr. Quadr.,
II, 18, 109-114) e Giovanni da Barbiano. Il Visconti trovò alleati in Siena, negli Estensi, nei Gonzaga, nei
Malatesta e nei signori di Urbino. Una furiosa battaglia venne combattuta il 28 agosto 1397 a Governolo,
alla confluenza del Mincio e del Po; qui le truppe viscontee subirono una grave disfatta nella quale
persero la vita ottomila tra fanti e cavalieri. Gian Galeazzo riuscì comunque a estendere il suo dominio in
Toscana, comprando, nel 1399, Pisa e il suo territorio da Gherardo d’Appiano (cfr. Quadr., II, 16, 106-
108; II, 17, 160-165). Messo così stabilmente piede in Toscana, ottenne anche Siena, che sfinita dalle
guerre e dalle discordie intestine si diede al Visconti nel novembre del 1399, e Perugia, che si sottomise
spontaneamente a Gian Galeazzo nel gennaio del 1400, spossata dalle discordie interne e dai saccheggi
degli avventurieri; occupò poi anche Assisi e Spoleto, e nell’ottobre dello stesso anno un suo devoto,
Paolo Guinigi, venne proclamato signore di Lucca. I fiorentini, preoccupati, si rivolsero al neo imperatore
Roberto di Wittelsbach e lo invitarono, promettendogli denaro, a scendere in Italia contro il duca di
Milano. Nel 1401 l’esercito imperiale scese in Italia al comando di Giacomo Dal Verme, ma, sbaragliato
a Brescia, tornò mestamente in Germania. Sbarazzatosi dell’Imperatore, nel 1402 Gian Galeazzo si
rivolse contro Bologna, sottraendola a Giovanni Bentivoglio. Non restava al Visconti che debellare
Firenze, la sua grande nemica; poi sarebbe stato padrone di quasi mezza Italia, vicino a raggiungere
quello che si crede fosse il suo sogno: l’unificazione della penisola sotto il suo scettro. La repubblica di
Firenze, rimasta isolata, non volendo perdere l’indipendenza, spedì ambasciatori a Bonifacio IX, per
indurlo a sostenere la lotta contro Gian Galeazzo, ma non fu necessario: all’apice della sua potenza, Gian
Galeazzo morì di peste il 3 settembre 1402 nel castello di Melegnano, dove si era vanamente rifugiato per
sfuggire al contagio. Sulla figura del Visconti nel poema, cfr. E. FILIPPINI, Federico Frezzi e l’Italia politica del suo tempo, «Giornale storico della letteratura italiana», LXXV (1920), pp. 153-208; E.
FILIPPINI, I Visconti nel poema frezziano, in ID., Studi frezziani, Foligno 1922, pp. 131-145.
88
Quadr. II, 13, 103-111.
89
Figlio illegittimo di Barnabò, visse come mercenario al suo servizio. Tra le varie imprese,
assunse la direzione della Compagnia di San Giorgio, conducendola a devastare varie regioni d’Italia, tra
cui l’Umbria. Condotto da Bernabò nel Bergamasco per sedare una rivolta di contadini, morì in questi
tumulti del 1373, quando non aveva ancora compiuto trentanni. Nel poema è dannato fra i capitani di
ventura straziati da assetati centauri che gli bevono il sangue. Interessante è l’esortazione del Visconti a
Frezzi: «Se tra li vivi perverrete vui, / dite a color che vanno a saccomanno, / che faccian sì ch’e’ non
vengan fra nui. / Dite a Ioanni Aguto il nostro affanno, / a Ioan d’Azzo, agli altri compagnoni, / che per
centauri su nel mondo stanno, / che la lor crudeltà li fa pregioni, / ed e’ si fan la corda che li mena, / ove
stan questi del sangue ghiottoni» (Quadr., II, 18, 106-114). Vi è qui un fondamentale dato cronologico,
che informa come nel 1390 già Frezzi attendesse al suo poema: in questi versi è infatti annoverato tra i
viventi Giovanno d’Azzo, morto in quell’anno; l’altro personaggio citato, Giovanni Aguto, nome
italianizzato di John Hakwood, morirà nel 1393.
90
Il popolano Cola di Rienzo era nato a Roma nel 1313. Ispirato da ideali mistici e dal desiderio
di riportare Roma all’antica grandezza repubblicana, sostenuto dal papato avignonese, nel 1347 si oppose
al potere della nobiltà cittadina e si proclamò tribuno di Roma, esautorando i ceti nobiliari e invitando le
49
Francesco Petrarca ruppe i rapporti con l’intenzione di partire per la nuova repubblica di
Roma; ma la brutta piega che presero gli eventi romani, costrinsero il cantore di Laura a
fermarsi a Parma. Così Cola viene giudicato da Frezzi: «è stato troppo folle e troppo
ardito, / c’ha presa la milizia su nel sangue / de’ principi roman tanto gradito, / per che
Colonna ed altri ancor ne langue; / ma tosto Roma a lui trarrà il veleno, / c’ha nella
lingua il malizioso angue»91
.
Della terza ruota è vittima Antoniotto Adorno92
, un ambizioso che in vita si fece
eleggere più volte doge di Genova, in seguito alle sanguinose lotte con la famiglia rivale
dei Fregoso; infine privò la sua città della libertà, ponendola sotto il giogo protettivo del
re di Francia. Così lo ricorda Frezzi: «Genova bella, nella quale è nato, / metterà ne’
malanni e nel mal giorno»93
.
Nella ruota successiva è collocata l’unica peccatrice donna, su cui Frezzi
sofferma il suo severo sguardo all’interno del Quadriregio: si tratta della regina di
Napoli, Giovanna I d’Angiò94
, «col capo di Sicilia incoronato», contro cui il papa aveva
fatto sollevare suo cugino: «la Fortuna, che ridendo inganna, / mostrerà a lei ed a quel
che sal poi [Carlo di Durazzo] / che in chi lei fida, sta in baston di canna»95
.
città d’Italia a unirsi per eleggere un imperatore italiano. Scacciato dai fautori di Clemente Vi, che allora
era ad Avignone, nel 1350 fu accolto a Praga dall’imperatore Carlo IV, che però nel 1352 lo arrestò come
eretico, inviandolo ad Avignone. Liberato, ebbe da papa Innocenzo VI il titolo di senatore, e nel 1354 fu
mandato a Roma per appoggiare l’Albornoz nell’opera di restaurazione del potere pontificio; ma dopo
due mesi di potere dispotico e stravagante fu ucciso sul Campidoglio da un asommossa nel 1365.
91
Quadr. II, 13, 115-120.
92
In lui ben si addice il saliscendi della ruota della Fortuna perché per ben quattro volte fu eletto
e poi deposto dal dogato di Genova, a causa delle lotte con la famiglia rivale dei Campofregoso. Il 17
giugno 1378 dovette rinunciare alla carica la sera stessa della nomina; seguirono tre doganati dal 1384 al
1390, dal 1391 al 1392 e dal 1394 al 1396.
93
Quadr. II, 13, 128-129.
94
Nata a Napoli nel 1326, divenne regina della città nel 1345, alla morte del nonno Roberto I.
Nel 1347 fu trovato ucciso il marito, Andrea di Calabria, e la regina venne fortemente sospettata di
esserne la responsabile. Risposatasi con Luigi d’Angiò di Taranto, nel 1348 fuggì ad Avignone a causa
dell’invasione del re di Ungheria Luigi, fratello del primo sposo; ritornata a Napoli nel 1352, mortole il
secondo marito, sposò Giacomo d’Aragona e poi Ottone di Brunswick. Rimasta senza eredi per la morte
prematura dell’unico figlio Carlo, avuto dal primo marito Andrea, Giovanna designò suo erede il cugino e
nipote Carlo di Durazzo; ma i due si trovarono contrapposti durante lo Scisma d’Occidente. Mentre la
regina appoggiava l’antipapa avignonese Clemente VII, Carlo, che aspirava al trono, sosteneva il papa
napoletano Urbano VI. Nel 1380 Urbano VI dichiarò Giovanna eretica e istigò contro di lei Carlo di
Durazzo. Sconfitta e catturata, morì nel 1382, fatta strangolare da sicari del cugino, divenuto nel
frattempo re Carlo III di Napoli. fu una donna di cultura e mecenate lodata da Petrarca e Boccaccio
95
Quadr. II, 13, 131-135.
50
Nella quinto cerchio girano gli Scaligeri, «novelli Caini / consumator de’ fratelli
suoi / […] spiatati Mastini / e più crudeli che rabbioso cane; / ma tosto abbasso
calaranno chini»96
.
Nell’ultimo ruota, infine, è punito Giovanni dell’Agnello97
, uomo amante del
lusso e dell’apparenza: «farà il salto, / mutando il fasto e le sembianze vane. / E proverà
quant’è duro lo smalto / del suol di Lucca, quando la percossa / egli averà, cadendo su
da alto. / Romperagli quel caso l’anche e l’ossa; / ed in un punto le terre, ch’egli ha, / e
Pisa del suo iugo sarà scossa; / ed ei saprà s’è duro: e ben gli sta»98
.
L’immagine della Fortuna che emerge dai versi frezziani, più che alla «general
ministra e duce» di Inferno VII, sembra rifarsi all’Amorosa Visione: «colei che muta
ogni mondano stato, / tal volta lieta, tal con trista cera, / […] / E legge non avea né
fermo patto / negli atti suoi volubili e incostanti, / ma come posto talor l’avea fratto: /
volgendo sempre ora indietro ora avanti / una gran ruota sanza alcun riposo, / con la
qual dava or gioia e talora pianti. / “Ogni uom che vuol montarci su sia oso / acender lì,
ma quando io ‘l gitto al basso / inverso me non torni poi cruccioso”»99
. Il motivo della
ruota è tuttavia tradizionale, caro alla fantasia medievale, spesso raffigurato nei fabliaux
o nei fregi delle cattedrali romaniche100
.
Molto interessante è anche il canto XVI, che si sofferma sulla condizione dei
bugiardi; essi, in apparenza onesti, guardandoli attraverso lo scudo di Minerva si
manifestano nelle loro vere sembianze di demoni e animali mostruosi. Tra di essi
Minerva indica al poeta Iacopo d’Appiano101
, descritto come simulatore e falso amico,
96 Quadr. II, 13, 137-141.
97
Riuscito a diventare, da semplice cittadino qual’era, signore di Pisa, per mantenere quella
carica si alleò con il più forte signore del tempo, Bernabò Visconti, che lo aiutò a conquistare anche
Lucca. Quando l’imperatore Carlo IV, su invito del papa, scese in Italia per combattere contro il milanese,
Giovanni dell’Agnello, per paura di perdere entrambi i propri domini, essendo stato in passato un alleato
dei Visconti, gli offrì in dono la città di Lucca; durante i festeggiamenti per la venuta dell’imperatore, nel
1368, il balcone su cui era affacciato crollò, sfigurandolo e rendendolo storpio. Dell’infortunio che
minava la potenza del signore, approfittarono subito i pisani per insorgere e proclamare la repubblica.
98
Quadr. II, 13, 142-151.
99
Am. Vis., A, XXXI, 16-33
100
Per esempio nella chiesa di San Zeno, a Verona.
101
Divenuto segretario del signore di Pisa Pietro Gambacorti, fu lasciato libero di esercitare
grandi libertà. Acquisita così una certa autorità, iniziò una lotta armata contro i Lanfranchi, famiglia
nobile e potente di Pisa, accattivandosi le simpatie di molti con promesse di doni e terreni. Cavalcando il
disordine popolare creatosi, promosse una sollevazione popolare contro lo stesso Pietro Gambacorti.
Convintolo a uscire dalla casa in cui si era barricato dicendogli che se avesse parlato alla folla
l’insurrezione sarebbe cessata, lo fece trucidare dai suoi sicari e non risparmiò nemmeno i suoi figli.
L’astuta perfidia di Iacopo d’Appiano lo portò, nel 1392, a diventare signore di Pisa.
51
esecutore di uno dei più neri delitti che Pisa ricordi102
: «colui che pace / mostra nel
volto e par soave e piano, / e dentro al cor come un diavol giace / [...] / de’ traditor di
Pisa / [...] egli sopra tutti è il più sovrano. / ‘Nanti che fusse l’anima divisa / dal corpo
suo, tal era nel pensiero: / però è trasmutato in questa guisa. / Egli tradì il nobile messer
Piero / de’ Gambacorti e fe’ dei figli preda, / mentre a lor si mostrava amico vero. / E
lasciò dopo lui l’avaro ereda [Gherardo d’Appiano103
] / colui che fe’ la bella Pisa
schiava / e per dinar la die’, che si posseda»104
.
Tra le anime dei bugiardi il poeta pellegrino incontra anche Cansignorio Della
Scala105
, considerato il prototipo della delinquenza principesca. Uomo falso per natura,
ha «faccia benigna» e animo velenoso; alla crudeltà più spietata associa la viltà e
l’ingratitudine più vergognosa: profitta freddamente della debolezza e della bontà dei
fratelli per liberarsene e dominare da solo, uccide senza essere stato offeso o ingiuriato
da alcuno, si compiace cinicamente della vista delle sue vittime: «il suo fratel maggior
uccise pria / e poi fu del minor ancor Caino. / Morto il primaio, ed ei sen fuggì via / per
la paura, ed allor di Verona / l’altro fratel pigliò la signoria. / Mandò pel fratricida e a
lui perdona; / e tanto amor inver’ di lui accese, / che la bacchetta signoril li dona. /
Costui il donator ligato prese / e stretto il fece mettere in prigione: / così fu grato a chi
fu a lui cortese. / E poi ‘n quell’ora ch’ognun si dipone / in su l’estremo, e contrito e
confesso / si rende a Dio con gran divozione, / costui mandò il dispiatato messo, e fe’
mozzare al suo fratel la testa, / e di vederla contentò se stesso / Or fu mai crudeltà
maggior che questa? / Non quella che a Tieste fece Atreo, / quando i figli mangiar gli
die’ per festa»106
. L’accenno che l’ultima terzina fa di Tieste è interessante perché può
102 Già da sant’Antonino definito «ingratissimus, et perfidus proditor, et omicida», Storie, tit. I,
cap. 21, 17.
103
Nel 1398, alla morte del padre Iacopo, Gherardo d’Appiano ne ereditò la signoria sulla città di
Pisa, ma, passato poco più che un anno, che la vendette per duecentomila fiorini a Gian Galeazzo
Visconti.
104
Quadr. II, 16, 94-108.
105
Nel 1359 Cansignorio fece uccidere, per avidità di dominio, il fratello Cangrande II. Temendo
però una sollevazione popolare, fuggì da Verona e si ritirò a Padova presso Francesco di Carrara, parente
della madre. Il potere a Verona passò nelle mani del terzo fratello, Paolo Albino, che richiamò
Cansignorio e lo riammise a far parte del governo; ma egli ne approfittò per imprigionare il fratello a
Peschiera e farlo poi uccidere. Addirittura, novello Salomé, si fece, secondo Frezzi, portare la testa del
cadavere «e di vederla contentò se stesso».
106
Quadr. II, 16, 122-141.
52
far pensare che l’autore conoscesse l’omonima tragedia di Seneca107
, autore che nel
Trecento era soprattutto noto per le sue opere morali108
.
L’invettiva contro Cansignorio continua con il ricordo di uno dei suoi perfidi
figli, Antonio, che in vita aveva imitato il padre in tutto: «O doppio fratricida, se tu lasse
/ la doppia prole, il tuo paterno esempio / degno è ch’ancor da lor si seguitasse; / ché
l’uno uccise l’altro crudo ed empio, / e della Scala fu l’ultima feccia, / che sen fuggì dal
veronese tempio / dietro a colei che solo in fronte ha treccia». Sarà proprio Antonio,
crudele uccisore del fratello Bartolomeo, l’ultimo esponente al potere della prestigiosa
famiglia veronese, prima della conquista e il dominio dei Visconti sullo stato scaligero,
nel 1387.
Tra le infelici anime del Regno di Satanasso che il pellegrino Federico incontra
nel suo viaggio di formazione vi è anche Uguccione della Faggiola109
, di cui il poeta
deplora la pigrizia, che gli aveva fatto dimenticare i suoi doveri. Con queste parole il
pisano rievoca il suo fatale errore: «Oh lasso me! L’indugio quanto nòce! / E quel, che
si de’ fare, averlo fatto, / oh quanto acquista del tempo veloce! / Io perdei Pisa e poi
Lucca in un tratto; / e questo il fe’ la mia pigrizia sola, / ché non soccorsi, com’io potea,
ratto»110
.
Altro dannato, esponente di primo piano dell’Italia del tempo, è Forteguerra da
Lucca111
, che si lamenta di aver troppo sperato nella fortuna, avendo assunto un’impresa
107 Quando Frezzi, nella cantica successiva, parlerà delle risse fra gli avari, scriverà: «turbar li
vidi inseme, / sì come quei fratelli fen la guerra, / in Tebe nati dal serpentin seme, / e come nel teatro alla
gran terra / ne’ giuochi salii disviatati e crudi, / sì come dice Seneca e non erra, / stavano disarmati senza
scudi / li condannati, chiusi in poco spazio, / colli coltelli in mano, a petti nudi, / e di lor carne facean
tanto strazio», (Quadr., III, 8, 97-106), dove il v. 102 è calco di Inf. XXVIII, 12: «come Livio scrive, che
non erra». 108
Cfr. Inf. IV, 141.
109
Insigne capitano di ventura, Uguccione della Faggiuola diventò signore di Forlì (1297),
podestà e signore d’Arezzo (1308 e 1310), vicario del re Enrico VII di Lussemburgo (tra il 1311 e il
1312); chiamato a Pisa nel 1313 per esercitarvi la signoria, l’anno successivo conquistò anche Lucca. Si
racconta che, mentre stava pranzando nella città di Lucca, Uguccione venne a sapere di un’insurrezione
dei pisani contro di lui, ma non volle alzarsi da tavola finché non ebbe terminato il pranzo, sino ai dolci.
Tale lentezza gli fece perdere tanto la città di Pisa quanto quella di Lucca, poiché i lucchesi, venuti a
conoscenza della rivolta dei pisani, presero anch’essi le armi. Fu così costretto a rifugiarsi presso
Cangrande Della Scala, che lo nominò podestà di Vicenza, incarico che mantenne fino alla morte nel
1319. Se sembra caduta l’ipotesi di una identificazione di Uguccione con il «veltro» dantesco, appare
comunque probabile un breve soggiorno dell’Alighieri in Lucca, durante gli anni che seguirono la
delusione per la morte di Arrigo VII di Lussemburgo. 110
Quadr., II, 9, 118-123.
111
Punito tra gli spiriti timorosi, Forteguerra Forteguerri e i suoi compagni sono costretti a
portare sulle spalle pesanti some, sul modello degli ipocriti di Inferno XXIII e i superbi di Purgatorio X.
Appartenente a una delle famiglie più nobili di Lucca, nel 1392, mentre deteneva la carica di
Gonfaloniere di giustizia, Forteguerra fu barbaramente ucciso durante il saccheggio del suo palazzo da
53
superiore alle sue forze: «a far la grande impresa / m’indusse spem, che fa che spesso
uom erra. / Ella mi fece far la molta spesa / e posemi l’incarco della parte, / che sempre
chi n’è capo troppo pesa»112
. Nel rimproverarlo di non aver chiesto aiuto alla sua scorta,
Minerva, che lo avrebbe consigliato opportunamente, Frezzi ci presenta questo
personaggio lucchese come l’esponente modello dei capipartito dell’epoca, le cui
capacità politiche erano di gran lunga inferiori all’importanza della loro condizione.
Anche il pisano Gualterotto Lanfranchi113
rappresenta assai bene le condizioni
dei partiti locali alla fine del sec. XIV: spregiudicato uomo di fazione, candidamente
confessa: « Perché da me fu rotto / nel mondo ogni statuto e li decreti, / però tra questi
uncini io son condotto. / Leggi iustiniane e que’ de preti / non usa il mondo se non per
guadagno: / però lassù son fatte come reti. / Come rompe il moscon la tela al ragno, / e
non la mosca, così gli uomini grandi / straccianle leggi e danvi del calcagno»114
. Si può
osservare come già all’epoca i potenti potevano disinteressarsi delle leggi, corrompendo
giudici o cavillando per mezzo di abili avvocati; quest’ultimi non destavano di certo
grande simpatia al poeta, tanto da dire che essi si fanno «legisti […] per vender le parole
e far contrasto»115
.
una sollevazione popolare, capitanata da Lazzero di Francesco Guntigi della fazione alla sua famiglia
avversa.
112
Quadr., II, 11, 143-147.
113
Personaggio pisano appartenente alla nobile famiglia dei Lanfranchi, detenne la signoria di
Pisa fino al 1392, quando fu ucciso da sicari di Iacopo d’Appiano, che gli successe nel governo della città.
Frezzi ce lo presenta intrappolato tra le reti e i lacci tesi da alcuni demoni che puniscono coloro che in
vita calpestarono ogni legge. Segue la domanda di Gualterotto sulle sorti di Pisa, con il poeta che lo
informa del tradimento dei d’Appiano, che prima uccisero Pier Gambacorti per impossessarsi della città,
poi, nel 1399, la vendettero a Gian Galeazzo Visconti.
114
Quadr., II, 17, 142-150.
115
Quadr., II, 11, 50-51. E più avanti le leggi con le loro numerose chiose sono paragonate a
corde tese e gravate da enormi pesi, per cui si assottigliano sempre più finché si stroncano: «son tante
chiose poste, / che già si troncan: sì si fan sottili» (Quadr., IV, 11, 119-120).