LDP 01/2011

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Libertá di Parola 1/2011 —— IL TEMA LA TESTIMONIANZA RUBRICHE INVIATI NEL MONDO APPROFONDIMENTO Pordenone gioca Questa volta ci divertiamo! Noi della redazione di Ldp, abbiamo pensato infatti di proporre in questo numerro primaverile un approfondimento originale, diverso sì, ma pur sempre fedele al nostro obbiettivo: parlare della città e dei suoi cittadini. Ecco allora che vi proponiamo di giocare con noi. Un grande cruciverba, un rebus e ... al centro di questa inedita settimana enigmistica, il gioco dei giochi. Ovvero Ducknaonis, il gioco dell'oca costruito a partire dai luoghi della città di Pordenone. a pag. 16 Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire) L' EDITORIALE Salutami Buenos Aires di Pino Roveredo continua a pagina 2 pagine 14-15 pagine 4-8 a pagina 3 a pagina 2 PANKAKULTURA Ricordo mio padre quando, sbat- tendo contro le pareti rigide del- la precarietà, mi raccontava di quel sogno che voleva ribaltare il mondo e volare fino in Argen- tina, dove da anni viveva un fra- tello, e dove, si diceva, che non si stava male, che girava un bel cli- ma, e dove c’era la certezza ma- teriale di un posto di lavoro. Un sogno, quello di mio padre, che non trovò mai un paio d’ali che lo portassero al centro di quella sospirata verità, e tutto per via di quella benedetta malattia/nostal- gia che gli stringeva il cuore, gli immobilizzava il passo, e che per anni gli impedì anche di accen- dere la decisione di quel viaggio tanto sospirato. Il mio caro faticò una vita, sempre piantato nella sua terra, e dopo quarantacin- que anni di lavori precari tagliò il traguardo della pensione, e sen- za neanche il piacere di poterla consumare, perché venti giorni dopo l’inflessibilità della morte pretese il saldo della sua vita. Sì, se ne andò senza pensione, e col peso potente del rammarico per non aver dato movimento a un sogno e senso a un viaggio. Anch’io, a quattordici anni, senza toccare il volo alto di mio padre, ho sfiorato il sogno, disegnato il viaggio, e quasi acceso il rumore di una partenza… Come tutti quelli che nascono con l’abitudine del mare intorno alla vita, mi venne su la voglia di fare il marittimo, così andai alla Capitaneria di Porto di Trieste e avviai le pratiche per ottenere la “matricola”, o meglio, il lasciapas- sare del marinaio. Dopo aver su- perato l’esame di voga e nuoto, e ottenuto il certificato di “buona salute”, ricordo che mi ritrovai davanti a un contratto d’imbarco di dodici mesi su una petrolie- ra, con la qualifica minima del mozzo, e come un disegno del destino, con un viaggio direzio- ne Buenos Aires. Ricordo anche che a un centimetro dalla firma, quei dodici mesi mi sembrarono un’eternità, e dentro quell’eterni- tà passò il timore di dover soffrire la distanza degli affetti, sopporta- re la mancanza degli amici, e di dover rinunciare a tutta la magia, allegria, danze e canzoni che gi- ravano intorno alla mia età. Fu così che scappai dal contratto, dal viaggio, e dall’eredità di un sogno paterno che continuò a gi- rare nei giri a vuoto dell’astratto. Oggi, grazie a uno schiaffo mera- a pagina 9 Lavorare sempre con la valigia in mano Militari di pace in Afghanistan Dall'attualità al gossip, i liberi pensieri di Rdp La Thailandia e l'Ecuador, due diari di viaggio Il sound multie- tnico dell'Orche- stra di Piazza Vittorio NONSOLOSPORT Canoa. Mauro Baron, l'allenato- re dei campioni a pag. 18

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Libertò di Parola il trimestrele di informazione de I Ragazzi della Panchina di Pordenone

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Libertá di ParolaN°1/2011 ——

IL TEMA

LA TESTIMONIANZA

RUBRICHE

INVIATI NEL MONDO

APPROFONDIMENTO

Pordenone giocaQuesta volta ci divertiamo! Noi della redazione di Ldp, abbiamo pensato infatti di proporre in questo numerro primaverile un approfondimento originale, diverso sì, ma pur sempre fedele al nostro obbiettivo: parlare della città e dei suoi cittadini. Ecco allora che vi proponiamo di giocare con noi. Un grande cruciverba, un rebus e ... al centro di questa inedita settimana enigmistica, il gioco dei giochi. Ovvero Ducknaonis, il gioco dell'oca costruito a partire dai luoghi della città di Pordenone.

a pag. 16

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

L' EDITORIALE

Salutami Buenos Airesdi Pino Roveredo

continua a pagina 2

pagine 14-15

pagine 4-8

a pagina 3

a pagina 2

PANKAKULTURA

Ricordo mio padre quando, sbat-tendo contro le pareti rigide del-la precarietà, mi raccontava di quel sogno che voleva ribaltare il mondo e volare fino in Argen-tina, dove da anni viveva un fra-tello, e dove, si diceva, che non si stava male, che girava un bel cli-ma, e dove c’era la certezza ma-teriale di un posto di lavoro. Un sogno, quello di mio padre, che non trovò mai un paio d’ali che lo portassero al centro di quella sospirata verità, e tutto per via di quella benedetta malattia/nostal-gia che gli stringeva il cuore, gli

immobilizzava il passo, e che per anni gli impedì anche di accen-dere la decisione di quel viaggio tanto sospirato. Il mio caro faticò una vita, sempre piantato nella sua terra, e dopo quarantacin-que anni di lavori precari tagliò il traguardo della pensione, e sen-za neanche il piacere di poterla consumare, perché venti giorni dopo l’inflessibilità della morte pretese il saldo della sua vita. Sì, se ne andò senza pensione, e col peso potente del rammarico per non aver dato movimento a un sogno e senso a un viaggio.Anch’io, a quattordici anni, senza toccare il volo alto di mio padre, ho sfiorato il sogno, disegnato il viaggio, e quasi acceso il rumore di una partenza…Come tutti quelli che nascono con l’abitudine del mare intorno alla vita, mi venne su la voglia di fare il marittimo, così andai alla Capitaneria di Porto di Trieste e avviai le pratiche per ottenere la

“matricola”, o meglio, il lasciapas-sare del marinaio. Dopo aver su-perato l’esame di voga e nuoto, e ottenuto il certificato di “buona salute”, ricordo che mi ritrovai davanti a un contratto d’imbarco di dodici mesi su una petrolie-ra, con la qualifica minima del mozzo, e come un disegno del destino, con un viaggio direzio-ne Buenos Aires. Ricordo anche che a un centimetro dalla firma, quei dodici mesi mi sembrarono un’eternità, e dentro quell’eterni-tà passò il timore di dover soffrire la distanza degli affetti, sopporta-re la mancanza degli amici, e di dover rinunciare a tutta la magia, allegria, danze e canzoni che gi-ravano intorno alla mia età. Fu così che scappai dal contratto, dal viaggio, e dall’eredità di un sogno paterno che continuò a gi-rare nei giri a vuoto dell’astratto.Oggi, grazie a uno schiaffo mera-

a pagina 9

Lavorare sempre con la valigia in mano

Militari di pace in Afghanistan

Dall'attualità al gossip, i liberi pensieri di Rdp

La Thailandia e l'Ecuador, due diari di viaggio

Il sound multie-tnico dell'Orche-stra di Piazza Vittorio

NONSOLOSPORT

Canoa. Mauro Baron, l'allenato-re dei campionia pag. 18

Anche Marco, idraulico di 38 anni sposato e con una bambina, spesso è costretto ad allontanarsi dalla famiglia per guadagnarsi il pane. Il suo è uno di quei lavori che richiedono anche lunghi tra-sferimenti con il furgone per rag-giungere i cantieri dove lavorare. “La partenza del lunedì mattina comincia già dalla domenica - dice Marco-. Succede che con la testa, senza volerlo, si è già in viaggio dal giorno prima. Che stai per partire te lo ricorda la bor-sa da preparare, e la giornata si vive con un latente senso di ma-linconia”. All’indomani mattina l’adunata con i colleghi. “Di solito li trovo un po’ sulle loro - prosegue a raccontare - imbronciati già dal lunedì mattina. Io generalmente sono già di buon umore e pron-to a tirar sù la compagnia. Una volta in strada con alcuni si fini-

viglioso della vita, che mi conce-de la minima gloria dello scritto-re e il privilegio di una richiesta, posso concedermi un’infinità di piccoli viaggi, e tutti con la cer-tezza rigorosa del rientro. Così, gi-rando l’Italia, l’Europa, mi capita d’incrociare file di viaggiatori che si sono venduti l’origine per ac-quistare un sogno.Negli incastri sperduti del sud ho visto, per due spiccioli e un calcio in schiena, file di africani am-mazzarsi l’illusione nella raccolta delle arance, nei paraventi del nord ho visto immigrati dell’est cancellarsi il sogno precipitando dai cantieri, e intorno ho visto l’in-differenza di chi non ha bisogno di commerciare la vita con una partenza. Nelle sorprese che gi-rano oltre i confini, ho incrociato le schiene piegate dei giuliani e friulani che hanno dato senso a una speranza, e che col dolore di uno strappo, mi hanno confidato la storia di un cuore lasciato nella bellezza delle loro e nostre terre. Viaggi che partono, viaggi che non ritornano, viaggi che si delu-dono, e viaggi che si smarriscono nelle strade senza soluzione…Eppure, nonostante tutto, se oggi, dentro questo nostro Paese senza promesse e senza risorse, dovessi incrociare il sogno di mio figlio e la sua voglia di farlo volare, giu-ro, anche contro lo strazio di un distacco, gli regalerei le ali di mio padre e gli accenderei la parten-za… Salutami Buenos Aires!

L' EDITORIALE

segue dalla prima pagina

sce a parlare del fine settimana andato, mentre altri invece ne approfittano per dormire un al-tro poco”. Nel corso del viaggio, all’interno del furgone, scorrono un po’ tutti gli umori, da momen-ti di euforia generale si passa a momenti di calma piatta, e qui immancabile parte la radio, così per tutto il viaggio che a volte è proprio lungo. "Finalmente arriva-ti a destinazione - continua Marco - come prima cosa si va a mette-re le borse nei nostri alloggi, così ci si sgranchisce un po’ e dopo l’ennesimo caffè si va in cantiere”. Ma nel giorno dell’arrivo c’è, ad ogni viaggio, immancabilmente il bisogno di ambientarsi, ci si sente come in un momento di transizio-ne per la stranezza della giornata, si lavora quello che ne rimane e quasi tutto va nell’organizzazione della settimana. “Quando si è ar-

rivati a sera tuttavia - prosegue il racconto - ci si sente già calati nel solito trantran della trasferta e dal-la mattina dopo, consapevoli del motivo per cui si è li, ci si impegna in lunghe giornate di lavoro, in questo modo la settimana passa anche più veloce”. Lavorare lon-tano da casa è anche bello però. “Si cambia aria, si vede gente linguaggi e mentalità diverse - ammette Marco - può essere anche occasione di divertimento oltre che di impegno, soprattutto quando si è giovani si avverte un senso di libertà vista la mancanza di genitori o parenti a cui dover rendere conto, e alla sera dopo il cantiere se ne approfitta per divertirsi, a volte anche esageran-do”. Può accadere cioè di darsi a notti brave, ma senza avere grossi guai. “Perché questo sia possibile però - afferma - bisogna essere in buoni rapporti con i colleghi. In-dispensabile perché tocca a loro poi coprire le tue difficoltà del giorno dopo comunque presente, più o meno, sul cantiere”. Anche se il lavoro porta Marco e i colle-ghi in luoghi di divertimento e di attrazione, alla fine dopo poche settimane ci si abitua anche a questo e allora la nostalgia della famiglia e delle abitudini di tutti i giorni si fa sentire. “Il ritorno a casa è sempre bello – confessa l’idraulico - e sapendo che non durerà molto ci si organizza con cura il fine settimana in modo di viverlo intensamente, quando è così anche le cose di tutti i giorni si apprezzano di più”. Ma è solo per poco perché nel più bello è già domenica e con la testa si è di nuovo in strada.

di Guerrino Faggiani

TRA CASA E LAVORO, LA STRADA Marco, 38 anni, una famiglia e un lavoro che gli impone lunghe trasferte

Odio le bande di suonatori, non mi sono mai piaciute, eppure non potrei pensare a un carnevale boliviano senza il suono malde-stro di una banda di giovani col-legiali per la strada. Questa è la Bolivia, un paese con forti conno-tazioni, che dopotutto mi appas-

di Alessandra Ciani

In Bolivia a "buscarse la vida" Arrivata oltre oceano senza una meta, oggi

lavora per la cooperazione internazionale

sionano. Quando sono arrivata a Sucre, la “ciudad blanca”[1], or-mai tre anni fa, non pensavo cer-to che le cose sarebbero andate, come invece sono andate. Arrivai come dico sempre, a “buscarme la vida”[2]. Non che stessi male, o che fossi insofferente in Italia,

affatto, la questione è che non avevo un progetto o un’idea. Fu, molto incoscientemente, della se-rie: “Lasciamo il certo, per l’incer-to”. Spesso ricordo il primo giorno in cui ho toccato “terra boliviana”, una sensazione di spaesamento totale, il poco spagnolo conosciu-to totalmente perso nei meandri del mio cervello (adesso succede esattamente l’inverso e sembro una troglodita parlando in italia-no). I primi tempi sono stati duri, soprattutto perché mi trovavo im-mersa in una cultura diversa da quella in cui sono nata e cresciu-ta, e perché non avevo ancora un lavoro. Mi ero data tempo fino al mese di gennaio, mese nel quale se le cose non fossero cam-biate me ne sarei tornata, come Calimero col suo fagotto, a casa. Da quando ero arrivata a Sucre, sarebbero passati nove mesi. E fu giusto a gennaio, che ebbi un colloquio di lavoro, e un mese dopo iniziai a lavorare per una organizzazione spagnola che la-vora nella cooperazione interna-zionale, e che allora aveva due progetti in corso. Fu la “svolta”: immergermi nel lavoro mi ha per-messo di conoscere a fondo, con tutte le sue contraddizioni, questo

paese e la sua gente, sempre con la limitante di essere “gringa[3]”, aspetto che erge una barriera sot-tile e al contempo pesante. Non è stato facile potersi fare degli amici/amiche boliviani, in gene-rale sono persone molto timide, e secondo me, è un popolo che troppo spesso si sottovaluta. Il mio rapporto con l’Italia? I momenti di nostalgia ci sono, nostalgia delle persone amate, nostalgia degli odori, nostalgia dei sapori, nostal-gia di alcune abitudini che già non sono le stesse. Pero c’è l’altra faccia della medaglia: lo scoprire cose nuove, il fare tue abitudini che prima non avevi. Una cosa è certa, vivere fuori dal tuo paese è un continuo stimolo, perché non fi-nisci mai di saziare la curiosità per il nuovo, il diverso, e anche per quello che non riesci a capire. Mi chiedete se mi sento più italiana, o boliviana? Non lo so, dipende dai giorni! Il mio nome? Non è importante, la mia storia è di mol-to simile, a quella di centinaia di altre persone che se ne vanno a “buscarse la vida”.[1] In italiano, città bianca, così chiamata per lo

stile coloniale che la contraddistingue

[2] In italiano a “cercarmi la vita”.

[3] Termine generale per riferirsi agli stranieri.

Sono passati oramai più di tre mesi da quando il reparto ha pre-so la piena responsabilità nella zona di operazioni. Zona, quella di Bala Morghab, situata nel nord ovest dell’Afghanistan ai confini con l’ex repubblica sovietica del Turkmenistan, che colpisce e af-fascina. Tre mesi intensi durante i quali, in qualità di comandan-te della compagnia “Alpha” (su base 6^ compagnia del batta-glione alpini “Tolmezzo”), mi sono trovato a prendere decisioni im-portanti per far sì che tutte le atti-vità venissero svolte nel modo mi-gliore e nella massima sicurezza possibile. Ma qui, dove la calura

La prima volta che ho incontrato Seeta, l’unica giornalista donna afgha-na della redazione, mi sono preoccupata.Non riuscivo a capirla. Il suo tono basso e cantilenato mi rendeva oscuro il senso delle parole pro-nunciate. La voce dei suoi colleghi maschi era più ferma, alta e chiara. Lei, invece, parlava sommessamente quasi avesse paura di disturbare.Seeta, ha 23 anni e per gli standard afghani è già al limite della pos-sibilità di farsi sposare. E’ una delle ancora rare donne che lavora e si muove in autonomia in un paese diviso fra due realtà parallele: quella delle città dove il livello generale medio dell’istruzione rende gli abitanti meno legati alle tradizioni e quelle dei tanti villaggi dove non molto è cambiato dal termine del regime talebano. La condizione della donna è un indicatore importante di questa diversità. Nelle città alcune di loro possono studiare e lavorare. Nei villaggi la loro condizione è di assoluta inferiorità rispetto agli uomini e questo le espone a violenze di ogni tipo.

dei mesi caldi ti fa sudare fuori anche le idee, il freddo inverna-le ti congela anche l’anima e la pioggia ti impedisce di muoverti a causa del pantano, devi pen-sare bene come agire e come impiegare al meglio gli uomini alle dipendenze. Il compito prin-cipale della mia compagnia è quello di assicurare la libertà di movimento e di consentire una vita “normale” all’interno della cosiddetta “bolla di sicurezza”; questo lo si ottiene difendendo delle posizioni dominanti e fortifi-cate. Un po’ come la conquista di quota del primo conflitto, ma qui scaviamo le trincee con goretex

del Cap. Fulvio Comuzzi

NOI MILITARI DI PACELettera dal Battaglione alpini Tolmezzo: "Vi racconto il nostro Afghanistan"

Durante il regime talebano la famiglia di Seeta ha scelto di sottrarsi al terrore varcando il confine con l’Iran. Anni dopo, è tornata nella terra di origine scegliendo Farah come città in cui stabilirsi. Seeta, vestendo il burka azzurro perché a Farah le tradizioni sopravvivono più forti che in altre città, ha continuato a fare il suo lavoro, quello di giornalista. I tale-bani l’hanno minacciata apertamente di morte, se non avesse smesso. All’epoca era l’unica donna giornalista presente a Farah. Per questo, dopo un anno di attesa e di timore, Seeta e la famiglia hanno affrontato l’ennesimo trasferimento, a Herat. “L’essere giornalista - dice Seeta - mi permette di essere portavoce delle speranze e dei desideri di tutte le donne per la difesa dei nostri diritti”. Seeta, dopo il lavoro, si proietta all’Università di Herat dove segue un master di management. Torna a casa alle 20. Riposa un paio di ore per “rilassare la mente” e poi rico-mincia occupandosi dei lavori domestici in aiuto alla madre, impiegata nella polizia locale. Poi, torna a letto e alle quattro di mattina si sveglia per studiare. “In futuro – spiega Seeta - vorrei creare una organizzazione che aiuti le donne del mio paese. Ho ideato il progetto di una radio per donne a Farah ma al momento nessuno degli enti ai quali ho chiesto aiuto già da qualche mese mi ha risposto. Io continuo a sperare”.

del Sten. Monia Savioli

Seeta, giornalista afgana

e Gps. Gli uomini e parimenti le donne presidiano costantemente queste posizioni. Non solo. Tro-vano infatti anche il tempo per effettuare continui lavori di si-stemazione e ampliamento dei presidi stessi, sotto un caldo ed una polvere inimmaginabili in un ambiente non sempre sicuro. Sforzi non inutili in quanto, nelle fredde ed uggiose giornate in-vernali, assicurano maggior pro-tezione dal vento gelido e dalle minacce esterne. All’imbrunire la popolazione dei villaggi da noi controllati, rientra nelle piccole case di argilla e paglia e il silen-zio cala come un velo sulla valle. In quel momento le sentinelle de-vono acuire ulteriormente i sensi in modo da captare qualsiasi se-gnale che possa identificare una minaccia. Dopo diversi giorni, quando il turno finisce, si rientra da questi baluardi di sicurezza; l’arrivo in base è atteso con ansia da me e dai logisti che, rimasti in sede, hanno supportato a di-stanza ed hanno programmato il lavoro per il rientro del persona-le. Finalmente posso vedere tutti i miei uomini, sentirli, confrontarmi con loro e con le loro esigenze. Ma non c’è tempo per oziare: subito ci si divide tra servizi e pattuglie. La presenza sul territorio serve a garantire primariamente il con-tatto con la popolazione locale in quell’ottica civilo-centica codifica-ta dalla dottrina Petraeus. Contat-to che avviene anche attraverso un concreto aiuto a quelli che sono i loro bisogni primari, spes-so la salute, ed allora noi uscia-mo per i villaggi con distribuzioni umanitarie e visite mediche itine-

ranti. Ogni qualvolta ci si muove fuori dai presidi, tutto deve essere programmato ed organizzato nei minimi dettagli in quanto il movi-mento può celare insidie di ogni genere, per questo gli elicotteri, moderni angeli custodi, volando sopra la nostra testa, si fanno ca-rico della nostra sicurezza. Questo ci dà quella tranquillità necessa-ria per operare meglio sul terre-no, spesso in collaborazione con personale americano o afgano con cui qui si lavora “shohna ba shohna” (spalla a spalla).Finito il periodo presso la base ci si prepara a riprendere nuo-vamente il turno presso i posti di osservazione dando il cambio all’altra compagnia, proseguen-do così con il controllo della “bol-la di sicurezza”.Capita, raggiungendo questi avamposti, di pensare che, lì dove andiamo, in epoche non troppo lontane, vi si trovavano i soldati dell’Armata Rossa prima ed i mujaiddin poi! Ancora po-che settimane di queste incalzanti attività ed il nostro mandato sarà concluso e potremo finalmente rientrare in patria. Consapevo-li di aver fatto il nostro dovere, porteremo dentro di noi il ricordo dello sguardo furbo e felice dei bambini nel ricevere un biscot-to dalle nostre mani, ed il saluto dell’anziano del villaggio con cui si è degustata una fumante tazza di tè, semplice simbolo che, da queste parti, suggella i rapporti di stima e collaborazione. Personal-mente, per tutto quello che assie-me ai miei uomini siamo riusciti a fare: “Sono fiero dei miei soldati”.

Si ringrazia della collaborazione il Magg. Igor Piani della Brigata alpini Julia

A 23 anni sogna una radio per donne a Farah

DI-DARIO

Io, a parte qualche parentesi del-la mia vita, ho sempre fatto l’o-peraio metalmeccanico. Quindi come non sentirsi solidale con tutti gli operai di questo setto-re? A tal proposito mi viene in mente una vicenda accaduta poco tempo fa agli operai della Fabbrica Italiana Auto Torino, la Fiat per l’appunto. Mi riferisco in particolare a quella sorta di refe-rendum interno all’azienda, che aveva l’aria di essere piuttosto un effimero ricatto. Esso prevedeva infatti che in caso di un “no” da parte degli operai e impiegati, l’azienda sarebbe stata spostata in un altro paese dove la mano-dopera costa meno, mentre in

Caso Fiat, lavoratori con le spalle al muroQuando il posto di lavoro diventa più importante dei diritti dei lavoratoridi Dario Castellarin

caso contrario, ovvero di preva-lenza di un “si”, tutto sarebbe ri-masto al suo posto. Ebbene, quel “tutto” però si riferiva alla fabbri-ca in quanto struttura, ma non in quanto regolamenti interni. Infatti il “si” (come poi è di fatto avve-nuto) avrebbe dato carta bianca alla Fiat, che era così autorizzata a “fregarsene” dei contratti nazio-nali di lavoro e di stabilire che in un turno di otto ore si possa usufruire di una pausa anziché di tre, più lo spostamento della pausa pranzo, che di norma ve-niva a circa metà turno, a fine turno, cioè prima di tornare a casa. Inoltre questo famigerato “si” dava la possibilità all’azienda

di assumere persone con contrat-ti individuali, i quali non garan-tiscono un equa retribuzione dei dipendenti, ma fa sì che a parità di orario e di mansione un ope-raio possa essere pagato più o meno dell’altro anche solo per simpatia o antipatia. A questo – dato che non è finita - si ag-giungeva il fatto che più nessun dipendente si sarebbe potuto av-valere delle forze sindacali che non avessero firmato il nuovo accordo. Insomma, sembra es-sere tornati indietro di un secolo! Ora, penso a quegli operai che in televisione ho visto piangere come bambini, e cercando di immedesimarmi in loro, rimango

veramente sconcertato. Dobbia-mo pensare che la maggioran-za di questi operai lavorano in catena di montaggio, facendo il medesimo lavoro giorno dopo giorno come degli automi. Se in otto ore non posso fermarmi di tanto in tanto, per prendere un caffè, andare al bagno o sempli-cemente uscire dal capannone per prendere una boccata d’a-ria durante la pausa pranzo, che come è stato stabilito ora si fa a fine turno, come posso andare al lavoro con serenità e cercare di produrre bene dando il meglio di me stesso? Come posso farlo se, magari dopo anni di lavoro, mi sento tradito dall’azienda nei

Questa volta la nostra rubrica sull’ambiente cambia colore. Gino vuole parlare di sociale, vuole sollevare il tema dei dimenticati, gli ultimi, co-loro che stanno ai margini. Lo spunto viene da due fatti di cronaca che hanno tristemente occupato le pagine dei giornali italiani dall’inizio del 2011. In gennaio a Bologna un neonato, figlio di italiani senza fissa dimora, è morto di freddo in pieno centro città. Un mese dopo, a Roma sono morti quattro bambini rom a causa di un incendio scoppiato nel-la baracca dove vivevano. Sono fatti non troppo lontani dalla nostra Pordenone, che sollevano una riflessione sul ruolo dei servizi sociali e sulla necessità di recuperare un senso di comunità, allacciare nuove reti di solidarietà. Non ho voluto modificare nulla delle parole di Gino.

VIVERE AI MARGINI

di Gino Dain e Elisa Cozzarini

In questo periodo il popolo degli invisibili, persone di cui avevamo per-so il ricordo, grida la sua esistenza in modo drammatico. Col regime capitalistico e falso moralista, sempre di corsa in nome di un benessere fittizio, abbiamo compreso che non si va ancora tanto avanti. Vengono a galla oggi tutte le disuguaglianze che una società fondata sul denaro comporta. Da qui le nefandezze che ci raccontano ogni giorno e per le quali ogni giorno ci stipiamo e ci indigniamo. Però è una falsa indigna-zione pronta a svanire appena dietro l’angolo. E noi come siamo messi? Per prima cosa avremmo bisogno di assistenza psicologica perché non è facile vivere in questo mondo. Non c’è via d’uscita perché il bollo rosso che ci hanno messo addosso ricorda molto quella stella gialla che gli ebrei erano costretti a portare all’epoca del Nazismo. La gente che ti guarda lascia trasparire tutte le domande che si pone, a cui dà l’unica risposta che ritiene possibile: Colpevole! Non si sa per cosa, ma noi ci dovremmo sentire colpevoli, forse semplicemente perché viviamo. E il moralismo imperante butta benzina sul fuoco. In questa società, chi per i più disparati motivi non è abile, chi è più debole e più fragile viene relegato nel dimenticatoio e pian piano si sente addosso il peso della morte civile. Con i diritti ridotti al lumicino, anche il più forte di noi un giorno o l’altro scoppierà, rimettendo in moto la giostra delle senten-ze del: L’avevo detto! Oppure: Ecco, vedi, questi non cambiano, sono perduti, è inutile perdere tempo con loro! I servizi sociali, che in questa fase sarebbero un buon supporto, con ci sono abbastanza e tutto è sulle spalle del singolo, che si sente sempre più isolato. Da soli, si sta in piedi finché è possibile, poi… alla prossima!

Per il popolo dei dimenticati insufficiente è l'aiuto dei servizi sociali e quasi nulla la comprensione della gente

«Chi è debole e fragile sente su di sè il peso della morte civile»

CODICE A SBARRE

di Damiano Di Pierno

Era il 1975 ed io allora avevo 19 anni, mi trovavo in Francia per-ché in Italia ero ricercato. Anche se ancora non sapevo di preciso quali imputazioni mi sarebbero state mosse, pensai di andarme-ne. Dopo un certo girovagare finii in carcere anche lì, per reati mi-nori dato che in qualche modo dovevo arrangiarmi per vivere. Finii a Marsiglia, a Baumetts, un carcere duro di vecchia conce-zione, iniziato dai tedeschi in tempo di guerra e poi finito dai francesi. Aveva due muri di cinta tra cui giravano feroci cani ad-destrati a riconoscere le divise delle guardie, ma sopratutto il loro cappello. Se anche uno di loro gli si parava davanti senza averlo indosso veniva attaccato. Finii in una cella con un israelia-no, tipo robusto più o meno della

mia età, pacifista convinto. Non sapevo niente di lui se non che al mio arrivo era già li. In quel carcere tra guardie e detenuti non poteva esserci nessun dialo-go, neanche il saluto, quindi non avevo altri che il mio compagno per scambiare qualche parola. Con lui però non riuscii ad in-staurare nessun tipo di rapporto. Oltre ad un po’ di lettura il suo mondo era una radiolina ed un suo amico nella cella a fianco. Parlava solo con lui, si guarda-vano tramite uno specchietto che tenevano in mano fuori dalle sbarre, si passavano anche dei pacchetti, e per farlo usavano il sistema dello yo-yo: legavano il sacchetto ad uno spago fatto di fili da cucire intrecciati e lo face-vano roteare fino a lanciarlo al compagno che nel frattempo lo

aspettava con il braccio teso fuori dalla inferriata in modo che gli si attorcigliasse attorno. Con que-sto sistema il pacchetto arrivava anche in celle lontane in barba alle guardie e al divieto. Natural-mente, se il giochetto veniva sco-perto erano guai. Insomma con questo tipo neanche una parola che fosse una, un anno sono stato in cella con lui ma tra noi non c’è mai stata nessuna socialità. Radiolina, l’amico della cella ac-canto e qualche scrittura, questo è stato il mio compagno di cel-la per tutto quel tempo. Per que-sto suo modo di fare a volte mi scoppiava dentro un’ira rabbio-sa, ma poi tornavo alla calma e alla rassegnazione visto che non c’era niente che potessi fare, ne-anche litigare potevamo perché poi avremmo avuto entrambi

Prima del Festival di Sanremo 2010 c’è stato uno scandalo. Mi riferisco alla confessione fatta da Morgan, al secolo Marco Castol-di ex cantante dei Bluvertigo, ad un giornalista che poi ha pub-blicato le sue parole. Sono com-pletamente d’accordo con il fatto che il messaggio che traspariva da quell’intervista non fosse af-fatto educativo, anche se ritengo che Morgan non avesse nessuna intenzione di far passare un mes-saggio come quello, ovvero che far uso di droghe faccia bene. Ma se anche così fosse stato, perché allora pubblicare questa intervista, forse per aumentare la tiratura della rivista? E poi perché escluderlo dal Festival di Sanre-mo dove lui avrebbe cantato

una canzone d’amore? Sta di fatto però che dopo l’esclusione dal Festival Morgan è stato chia-mato in vari programmi televisivi, da Porta a Porta ad altri. Ora non capisco, se io sono un giornalista e facendo un intervista ad una pop star mi accorgo che le sue parole possono suonare come diseducative soprattutto per i gio-vani, o non pubblico l’intervista o quanto meno taglio i pezzi, che in coscienza, ritengo fuorvianti. Ma così facendo non farei lo scoop, giusto? A Morgan non solo non è stato concesso di partecipa-re al Festival in quanto persona sgradita, ma gli è anche stato im-pedito di far cantare ad altri la sua canzone. Tutti, dai dirigenti Rai a Maria De Filippi, dalla sua

manager Mara Maionchi al sot-tosegretario della Presidenza dei Ministri Carlo Giovanardi pas-sando per altri ancora, sono stati pronti a puntare il dito su di lui come se fosse il diavolo in per-sona. Però poi, come già detto, è stato invitato a partecipare a vari programmi televisivi dove ovviamente si rincarava la dose sull’argomento. Ma allora quello di Morgan era un messaggio ne-gativo o è stato solo un ‘occasio-ne per aumentare gli ascolti dei talk show sulla pelle di Morgan? S’è parlato dell’impatto negativo che le sue parole potevano ave-re sull’opinione pubblica. E se invece questa stessa confessione, fatta a cuore aperto, fosse stata utilizzata per aprire un dibattito costrittivo sull’uso delle droghe, senza ipocrisie e luoghi comuni, e soprattutto senza moralismi e giudizi gratuiti? Se così fosse sta-to non avremmo fatto per contro un buon servizio ai telespettatori? Come sempre la televisione ha perso una buona occasione! E’ passato un anno, Morgan va a cantare al Festival di Sanremo, il problema droga non è stato af-frontato nel modo migliore e le cose continuano come se non fosse successo niente!

miei inviolabili diritti di lavora-tore, poiché so che nell’azienda in cui lavoro mi hanno estorto un “si” perché altrimenti mi sarei trovato per strada disoccupato in tempi assolutamente non rosei per il mondo del lavoro e dell’e-conomia in generale? E se a tutto ciò aggiungiamo che l’attuale Governo, che dovrebbe tutela-re i diritti dei lavoratori, ha dato man forte alla Fiat dicendo che avrebbe fatto bene a spostare la fabbrica in altri paesi se i lavora-tori non avessero votato per il “si”, dove andremo a finire? Tornere-mo a una sorta di schiavismo? Ri-cordiamoci sempre che i dirigenti o i titolari di un’azienda hanno, come i lavoratori, dei diritti e dei doveri. Con un sistema così, dove il lavoratore si sente sfruttato, le cose non possono migliorare ma solo peggiorare con risvolti ne-gativi anche per il mercato dei prodotti, dove la qualità che una volta ci distingueva nel mondo, non farà che scendere fino a non esserci più. Perché un lavoratore frustrato, tradito e scontento del proprio posto di lavoro non può dare il meglio di sé, ma solo lo stretto necessario per mandare avanti la baracca di questa, or-mai, povera Italia.

Morgan, un'occasione persa per parlare davvero di drogaDemonizzato per fare audience, l'artista è

ora redento. Come se niente fosse successo

di Dario Castellarin

delle punizioni. Finalmente arrivò il giorno della mia scarcerazione, e lì successe quello che non mi sarei mai aspettato.Nonostante fosse vietato, lui uscì dalla cella per accompagnarmi e portarmi la borsa fino all’uscita del braccio, rischiando di essere passato per le mani e di finire in isolamento. Ancora più sorpren-dente fu che le guardie non dis-sero nulla. Io rimasi toccato da questo suo gesto. In quel momen-to capii che per un anno avevo vissuto assieme ad una persona che senza mostrarlo era un ami-co. Ci salutammo con auguri di buona fortuna e tra noi è partito anche un abbraccio di slancio. E’ stato un momento molto toccante e mi sono commosso, poi mi sono accorto che anche lui aveva gli occhi gonfi di lacrime.

Dopo il silenzio, l'abbraccio "Buona fortuna amico mio" Storia di un'amicizia che non aveva bi-sogno di parole. Trent'anni fa, nel carce-re di Marsiglia

Un urlo. Un gesto di stizza. Una portiera sbattuta. Un papà un po’ rude rivolge parole forti con toni accesi ad un altro uomo seduto in auto parcheggiata di traverso vicino al cortile della scuola e quindi poco rispettosa degli spa-zi comuni pubblici. Davanti ad altri papà. Forse anche loro un po’ rudi, perché ognuno prende le parti dell’uno o dell’altro, sen-za ricordare che è l’esempio del tutto agli occhi dei bimbi e delle famiglie ad essere poco … esem-plare, che le auto a scuola si possono parcheggiare a cinque-cento metri dall’uscita dei figli e che fare due passi aiuta entram-bi. Una espressione ruvida non proprio educata alla compagna di vita, un litigio tra colleghi all’o-ra di pranzo, un commento non benevolo tra amici nei confronti di un comune conoscente. Nei rapporti quotidiani ognuno di noi può relazionarsi più corretta-mente, mantenendo la propria personalità anche quando ade-risce ad un elemento più com-pleto, una coppia o un gruppo, con caratteristiche di sintesi del-le qualità delle singole persone. Come nella torta, gli ingredienti per la preparazione dell’impasto e quelli per la guarnitura. E’ quin-di necessario iniziare dai nostri comportamenti, dal nostro esem-pio, per promuovere il sentimento di pace, senza attendere le uffi-cialità delle istituzioni o il matura-re delle ideologie che risolvono i conflitti più ampi, come ad esem-pio le guerre nazionaliste, perché fino a quando non siamo noi a cambiare non possono esserci un giusto modo di educazione e un mondo pacifico. Si può favorire il

dialogo tra le religioni, per edu-care al riconoscimento dell’altro come uguale a sé e non diverso, dedicando in famiglia una festi-vità diversa da quella tradizio-nale, una nuova liturgia, e chie-dendo ai figli di immaginare la celebrazione delle altre religioni, con i loro simboli e le loro usan-ze (un presepe laico?). Si può favorire la donna nelle relazioni, perché biologicamente portata all’armonia, riconoscendo il suo ruolo materno di difesa dei diritti dei più deboli ed assegnando a lei responsabilità importanti nella costruzione e nel mantenimento delle relazioni, nella vita e nel lavoro. Si può promuovere l’eco-nomia della pace ricordando ad ognuno di noi, a proposito di tor-ta, di suddividere il proprio tem-po in tante fette e dedicarne ogni mese un certo numero alle buo-ne pratiche della pace: aiutare il vicino di abitazione, accompa-gnare un conoscente bisognoso, effettuare una commissione per un’associazione meritevole, scri-vere un articolo per una reda-zione “partecipata”. Si può inoltre, più efficacemente, cercare di adottare comportamenti preven-tivi di buon senso e coltivare la pace dentro di noi, nella com-prensione delle cause che go-vernano i nostri comportamenti con gli altri, unificando l’ “altro” e l’ “io” in un'unica persona, senza distinzioni o dualismi. Perché non impariamo la giusta conoscenza di noi stessi, della nostra aggres-sività, della nostra paura? Perché quando cresciamo ci dimenti-chiamo troppo facilmente dei nostri sogni di bimbo, dei nostri occhi di bimbo?

Non basta una stretta di mano per fare "pace"Al di là delle paure e della rabbia per agire con buon senso e in modo solidaledi Alberto Danesin

Pordenone, di per sé, sarebbe anche una bella cittadina, il problema è il modo in cui viene gestita e di conseguenza conservata. Vi sono, nell’ambito urbano, cantieri e opere pubbliche in fase di realizzazione di cui, “soggettivamente scrivendo”, non se ne vede tutta questa urgenza. Di contro, vi è invece la parte storica che, oltre al degrado fisiologico dovuto al tempo, presenta i segni dell’incuria da parte di chi di dovere, i quali rendono questa parte di città sottovalutata, ignorata e stravolta. Tanto per fare esempi concreti: in via Del Mercato hanno stravolto il Palazzo dei Capitani. Stravolto in modo osceno, dato che sono viste travi del Quattrocento fatte a pezzi e buttate. Per fare un garage si sono abbattuti vari metri quadrati di muro della stessa epoca, soffitto compreso. Altro esempio il vicolo San Rocco, che a quanto mi risulta potrebbe essere la viuzza più stretta del Triveneto. Anche questo punto della città, a mio parere, dovrebbe essere trattato come un’attrattiva turistica ed invece vicolo San Rocco è diventato una discarica. Stessa cosa dicasi per i vari bagni chiusi che ci sono nei diversi parcheggi cittadini. Non per allun-gare la lista delle inadempienze, ma perché i fatti sono fatti, oltre a tutto ciò voglio far notare che i vari affreschi cittadini posti principalmente nei sottotetti dei due corsi principali sono in via di un degrado irreversibile. Altro esempio importante, in via Fratelli Bandiera vi è una casetta che sembra uscita da una fiaba. E’un genere di casa di quelle di una volta, in cui al piano terra vi stavano le bestie, che con il loro calore scaldava-no le travi sovrastanti, e al piano superiore viveva la gente. Le finestrelle inferiori sono ridotte al minimo per non disperdere il calore; il soffitto è costrutto in legno così da restituire il calore sottostante. Via Fratelli Ban-diera è adiacente a Piazza Risorgimento: sarebbe uno sfregio abbattere quella casetta, che anzi andrebbe piuttosto ristrutturata. Anch’essa è una buona occasione per far conoscere ai giovani e ai bambini come funzio-navano le case “biologiche” del tempo che fu. Nonostante questo è più importante lastricare Pordenone di cubetti di porfido. Qui prodest? Al di là dei dietrismi escatologici o dei revisionismi facili rimane il fatto che in città vi è un connubio tra il nuovo e il vecchio. Altro giro altra corsa altra torta da spartire. Sono convinto che i soldi ci sono e che il problema è piuttosto come li stanno spendendo. Indi per cui al di là di queste opere “urgenti”, quando si va in Comune a “elemosinare” per sopravvivere ti rispondono che: “Non ci sono soldi”. Mentre lo stipendio dei dipendenti comunali viene aggiornato di volta in volta rispetto al tenore di vita vigente, di contro l’aiuto che un bisognoso richiede viene elargito sulla base di un regolamento che risale al 1981. Negano, quando lo richiedi, che vi sia questa disparità ma fatti alla mano, quando si arriva, al dun-que tacciono. Non voglio fare polemica, ma torno a ribadire che i fatti sono fatti tant’è che prima elargivano 200.000 lire ora ti danno 50 euro.Tanto secondo loro un invalido con 260 euro mensili deve riuscire a mantenersi a parte qualche sporadico aiuto una tantum. Per il resto ogni uno pro domo sua. A questo punto o si toglie del tutto questo fittizio aiuto o lo si aggiorna al caro vita. Fate vobis.

FIABE DI VITAZIO FRANCO

Urbanistica: è questione di punti di vista"In città il problema non è la mancanza di soldi, ma come li stanno spendendo"di Franco de Marchi

PERLE DI VITA

Youkl Vakhlakhlakes, nipote del celebre cantore di Khelm, non ne poteva più. Decise di andare a chiedere consiglio a Reb Yankl Schmune, il nuovo grande rabbi-no della città.-Rebbe! Esclamò. Mi va molto male in questo momento, e le cose non fanno che peggiorare! Siamo poveri, così poveri che la mia povera moglie, i miei sei figli, i miei suoceri e io stesso siamo co-stretti a condividere una squallida casetta che ha una sola stanza. Siamo pigiati come sardine. Ab-biamo i nervi a fior di pelle. E non smettiamo di bisticciare. Credete-mi, rebbe, casa nostra è l’inferno! Preferirei morire anziché continua-re vivere in questo modo!Il rabbino considerò il problema con tutta la serietà del caso.-Figliolo, finì col dire al povero

Potrebbe essere peggioTratto dalle Parabole del Maggid di Dubno,

in“Racconti dei saggi Yiddish” (Ed. L'ippocampo)

Yukl, promettimi di fare ciò che ti dirò, e ti assicuro che la situazione migliorerà.-Te lo giuro, rebbe! Esclamò il povero Kukl. Farò qualsiasi cosa! Dimmi che cosa devo fare!-Dimmi, chiese il rebbe, hai degli animali?-Ho una vacca, un caprone e qualche gallina.-Benissimo! Ottimo! Rientra subi-to e prendi tutti questi animali in casa. D’ora in poi vivranno al vo-stro fianco.Il povero Kukl, smarrito, sconcer-tato dal consiglio del rebbe, non potè non abbedire. Rientrò e pre-se in casa la vacca, il caprone e le galline. Inutile dire che la loro presenza non fece che peggio-rare mille volte le cose! Già l’in-domani Yukl tornava a trovare il rebbe.

-Rebbe, rebbe! Sbottò. Non hai fatto che aggravare le nostre di-sgrazie! Ho eseguito quanto mi hai detto, ho portato in casa gli animali. E con quale risultato? Le cose sono peggiorate ulterior-mente! La mia vita è un vero in-ferno, e la casa è diventata una stalla! Salvami, rebbe, ti supplico.-Figliolo, gli disse il rabbino con tono sereno, rientra e fa’ uscire le galline da casa.Ma, già l’indomani, era di ritorno dal rabbino.-Rebbe, rebbe! Aiutami, salvami! Ho fatto uscire le galline. Ma la capra rompe tutto in casa. E ci appesta con il suo fetore! La mia vita è un inferno a casa sua!-Rientra, disse il rebbe con dol-cezza, e fa’ uscire la capra. E bada che non torni in casa! Dio ti verrà certamente in aiuto!

Yukl rincasò e fece sloggiare la capra. Ma, già l’indomani, era di ritorno dal suo rebbe, lamentan-dosi a gran voce:-Rebbe, rebbe, come siamo di-sgraziati! Mi sono finalmente sba-razzato della capra, ma la vacca! La vacca ha trasformato la mia casa in una stalla! Sterco dapper-tutto! Come può vivere decente-mente un essere umano davanti un animale? Ti supplico, rebbe, devi fare qualcosa per noi!-Hai ragione, figliolo, hai per-fettamente ragione! Esclamò il Rebbe. Torna a casa immediata-mente e fa’ uscire la vacca! Vada al diavolo!Yukl corse a casa a gambe leva-te e fece sloggiare la vacca. Già l’indomani mattina era di ritorno dal suo rabbino.-Rebbe, rebbe! Esclamò contento. Che buon consiglio mi hai dato! La mia vita è finalmente paradi-siaca, così paradisiaca!-Ora che tutti gli animali se ne sono andati, la casa è tornata ad essere così tranquilla, così spazio-sa, così pulita! E tutto ha un così buon profumo! Che piacere! Che piacere!

Nell'anno 1987 gli italiani si espri-mevano democraticamente, tra-mite un referendum, contrari al ricorso al nucleare come approv-vigionamento energetico. Da allora non tutte le centrali sono state chiuse, alcune sono parzial-mente ancora attive, il problema

delle scorie è rimasto quello di sempre e qualcuno ancora par-la della costruzione di nuove centrali. Nell’anno 2009 da in-tercettazioni telefoniche si scopre il dispiacere provato da un affi-liato di una cosca calabrese al pensiero di seppellire in fondo al

mare l'ennesima nave carica di scorie: "Ma non ci pensi al nostro mare?" avrebbe detto uno degli intercettati. Nello stesso anno un pentito delle stesse cosche rivela l'affondamento fraudolento di una trentina di navi tutte con-tenenti scorie (metalli pesanti, scorie radioattive, liquami indu-striali). Per due settimane le tele-visioni, i giornali e tutti gli orga-ni di informazione non parlano d'altro. Il Governo si fa avanti con molte promesse, il recupero dei vascelli, la bonifica delle situazio-ni a rischio e via dicendo. Molti ricorderanno ad esempio la Jolly Rosso, nave della ditta Messina spiaggiata di fronte alle coste ca-labre, il cui carico scomparve mi-steriosamente in una notte, il suo capitano mori dopo una cena il giorno prima che iniziassero le interrogazioni sul caso, fu chia-mata ad intervenire una ditta olandese che si occupava con competenza di naufragi dove c'era un pericolo di esposizione a radiazioni. Questo uno dei casi, quello più eclatante, comunque sia il Governo rispose, subito in-tervenne cercando, da quello che si apprese dai telegiornali, chi potesse scovare le navi affon-date cariche di veleni. Si pensò allora alla Guardia costiera, che però fece sapere di non avere mezzi idonei al caso, la soluzione alternativa fu un amico armatore del premier. Risultato si ritrovò il Catania, nave affondata duran-te la prima guerra mondiale che nulla aveva a che spartire con le navi di cui parlava il pentito. Nell'anno 2011 nessun paese al

mondo, ne il più evoluto, ne il più occidentale, nessuna centra-le al mondo neanche quelle di quarta generazione conosce un sistema per stoccare e rendere inoffensive per l'uomo le scorie derivanti dalle centrali nucleari.Nell'anno 2011 non si sono avu-te risposte per quanto riguarda il ritrovamento di relitti carichi di veleni, nessuna risposta sul moni-toraggio della salubrità delle ac-que o del pescato, unica certezza è l'aumento esponenziale dei tu-mori a carico degli abitanti della zona dove è avvenuto lo spiag-giamento della Jolly. Il Gover-no ha a cuore l'economia della zona interessata e dichiara che fare dell'allarmismo inutile, nuo-ce alle pesca ed al turismo della Calabria. La ditta Messina, quel-la della Jolly Rosso, denuncia il giornalista che si occupa delle inchieste sulle navi scompar-se: "getta fango sul buon nome della ditta" dice. Impossibile trac-ciare la radioattività di qualcosa che sta in fondo al mare sotto centinaia di metri d'acqua. Chi affonda queste navi lo sa. Ave-te mai visto nelle centrali dove vengono stoccate le scorie per renderle inoffensive al personale che ci lavora. Enormi piscine pie-ne d'cqua. Conoscete forse una piscina più grande del mare? Ho un' altra perplessità, se è vero che le cosche calabresi si occu-pavano di questi lavori sporchi, da chi veniva la domanda di smaltimento? Solo i governi si oc-cupano di nucleare, quelli di de-stra come quelli di sinistra, quelli occidentali come quelli asiatici.

Nucleare, tutti i gialli di casa nostra dal 1987 ad oggiNonostante gli italiani abbiano detto no alle

centrali, ancora si continua a produrre scorie

di Andrea Zanchetta

EL CANTON DE GUERI

SU PAR L'ARMADURA-Toni me buto fora a sbalso co la tola che ghe dago na spenela-da a quel toc de linda li che no l’è vignua ben, te sa che dopo i paroni i se mete sotto a cercar i difetti- -Iii para via dai, noi sta mia sempre li a vardar el muro, i va anche a magnar a mesogiorno- -Dai semo monta sora la tola e fame da contrapeso, ta fermo li e!- -Siori pitori voleo qualcosa da bever?- -Mah, perché no, si grasie signo-ra- -Vignì ta la l’altra finestra alora, ta quela de la cusina che ve meto su un caffè- -Bon a ste ore, dai che andemo Piero, Zipo ara che la signora del sesto la ne fa el caffè, mola tut- -Qua qua, vignì ta questa fine-stra. Ma no gavè paura a star cussì in alt?- -Noo cossa vola che sia, semo abituai noi vero Zipo?- -E ostia.. gaven lavorà anca più in alto signora, te ricorditu a Mo-linella Piero, che se caminava su pa le capriate piene de brosa

ingelada? La si che no l’era da ciaparse indormensai- -Madona ma no gavessi pau-ra?- -Ee l’era da star atenti cio, ma noi semo così, semo spericolai- -Beati voi, mi go paura solo a vardar fora da la finestra. Ma quando penseo de finir?- -Ee ghe vorà ancora un po’ de tempo, ristrutturar l’esterno de un palasso no l’è roba da poc, bisogna prima che l’impresa la tiri via le malte vecie e dopo i le rifasi nove, poi vignimo noi co stuc e pitura che fa sempre bela figura. Ma se i mureri noi va avanti.. me sa che qua no i ha tanta voia de lavorar. Lori i dise che noi pitori semo tutti mati, ma me par che lori invece iè tutti curti de bras. Comunque co finimo sta man qua tiremo via el ponteggio da sta facciata così almeno liberemo l’ingresso- -Aaa manco mal, che se fa fa-diga a entrar co le biciclete. Ma chi che l’è el capo qua, quel co la pansa grossa?- -Si quel li l’è el geometra del cantier- -E quel’altro grando vestio ben?- -Quel alt par nient? Quel l’è el geometra contrario- -Eco qua meteve el suchero. Per-chè contrario cossa volo dir?- -Vol dir che invece de farne pa-rar via coi lavori come el nostro,

el ne rallenta tirando fora tutti i difetti immaginabili, l’è el geo-metra del committente, de quel ch’el paga insoma- -A ho capio, e l’ora l’è el geome-tra giust quel a bas che’l ve sta vardando--Ei voi tre lassù, voleo un caffè?- -No grasie i ne lo ha pena fat la signora- -Cossa?? Me ciapeo anche in giro?? Ste schersando come al vostro solito. Me par che tirè el cul indrio ta quela parete li, ogni volta che buto l’ocio s’è sempre li che ridè! Ma vardè che ho pena telefonà al vostro paron, ghe ho dita che i so operai i me some-ia a “QUELLI DELLA NOTTE” ve-darè che bela incarnada che ve ciapè- -Va la va la, dove trovitu pitori come noi?- -L’è meio che no te me fae pen-sar satu, anca i primi che pasa par strada. E no sè neanche boni de lavorar, vara la un toc de linda che no l’è vignua ben- -L’è perché le malte nove no l’è ancora secche e l’ora vien fora la macia, se i mureri no i se cia-pa avanti..- -Bisogna lasar sugar ben el color tra na man e l’altra invece, altro che mureri- -Eee qua geometri ingegneri.. tutti inteligenti tutti che sa tut, ma varda se un el ciapa in man un

atresso el fa veder come che se fa. Sol che boni de parlar e de far disegni sbagliai voi altri, e dopo se no semo noi a sistemar le robe vien fora na scarpa e un socol- -Lo digo sempre mi che voial-tri s’è l’ossatura del cantier. E quel’altro vostro compare dov’e-lo, no l’è vignuo oggi?- -L’è a casa, ghe ha mort na zia- -Ancora?! Che fameia sfortuna-da che l’ha, na disgrasia drio l’altra. Ma mai come la mia ad averve voialtri come operai. Ades faseme pensar se lasar-ve lavorar o mandarve a casa, intanto andè avanti co quela parete- -Geometra, se metemo subito o fasemo prima na cantadina in-sieme?- -Vardè che se vegno su ve buto a bas tutti quanti- -Chi vien su, ti? Co quela pan-sa li? Ti neanche par le scale te vien su- -Peta peta che ciamo ancora el vostro paron, ve faso pasar mi la voia da rider.. ve denuncio tutti- -Se vedemo a Forum alora, bon fioi dai che andemo avanti a far qualcossa va, grasie del caffè signora. Ou la saveo quela de la femena che la dise al mario: “Ti te ga un’altra!” E lu: “Cossa? Son sposà co ti da vinti anni e go un’altra???”-

Ore 10.30: Bari, Bergamo, Boston, Cagliari, Catania, Napoli, Veneziaore 12.00: Atene, New York, Portland, Francoforte, Barcellona, Bruxellesore 14.00: Firenze, Londra, Roma, Stoccolma, Tokyo, Verona, Vicenzaore 14.30: Bolzano, Milano, Parigi, Pisa, Torino, Bologna, Viareggioore 15.00: Brescia, Fermo, Lisbona, Modena, Genova, Orvieto, Padovaore 16.00: Arcore, Empoli, Olbia, Ragusa, Rieti, Urbino, Cesenaore 17.00: Alghero, Trento, Agrigento, Foggia, Madrid, Perugia, Reggio Calabria. E’ un semplice elenco, incompleto: sono 230-250 le città che in varie ore di domenica 13 febbraio hanno visto la protesta delle donne italiane, scese nelle piazze per difendere la loro dignità in un Paese che qualcu-no ormai senza mezzi termini definisce un bordello. Trasversale a partiti e schieramenti, il gruppo “Se non ora quando?” formatosi grazie al web, ha raccolto in poco tempo le firme di 28 mila persone e molte di più sono scese in corteo, a dire il malessere anche di tante altre. Molti uomini hanno manifestato con loro; le agenzie parlano di un milione di persone solo in Italia. I telegiornali si sono tappati le orecchie, ma è stata forse la più grande mobilitazione popolare nella storia della Repubblica. Non è una questione di bunga-bunga, il problema è dove va l’immagine del-la donna, dove va l’Italia. A preoccupare non è villa Arcore, è palazzo Chigi: la corruzione offre a ragazze povere o straniere rapide scorciatoie

per avere soldi e successo, proponendo un modello di degradazione e di ipocrisia che si insinua attraverso i media, e fa scuola. Scavalca le meritevoli, porta a cariche pubbliche persone incompetenti e pilotate; e il prezzo lo paghiamo tutti… Nei cortei a dire “basta” c’erano le donne di “Popolo viola”, “Indecorose e libere”, “Ombrelli rossi” con sciarpe bianche al collo e c’erano perfino delle suore, con il velo o in borghese. Tra que-ste suor Rita Giarretta di Caserta, che a Casa Rut gestisce il reinserimento di prostitute che vogliono liberarsi dalla schiavitù della strada, suor Euge-nia Bonetti responsabile del settore Tratta delle donne e minori dell’Usmi. Presenze che mi fanno sperare: chissà che anche nella chiesa siano le donne e in generale i laici, a compiere segni concreti per manifestare ad alta voce quel malessere che pervade la base nei confronti dei ver-tici. La protesta delle donne italiane, come le rivoluzioni di questi giorni lungo le sponde del Mediterraneo, mostrano che la gente è stanca di sopportare, vuole prendersi in mano la sua vita; e ha capito che questo non avverrà mai ad opera dei potenti. C’è oggi da parte dei popoli una presa di coscienza del proprio peso nella storia: il nostro è davvero un tempo di speranza. No, non lamentiamoci del tempo presente, che ci re-gala infiniti mezzi, infinite possibilità di informazione e comunicazione: sta a noi usarli nel modo migliore. E poi non molliamo, il bello viene adesso! Bisogna che la protesta si trasformi in proposte, che usi ogni mezzo per farsi ascoltare e avere un seguito.

LA DIFESA DELLA DIGNITÀ CHE STA ANIMANDO LE PIAZZEIn Italia il movimento per l'emancipazione

delle donne. In Africa quello dei popoli

di Franca Merlo

L'ANGOLO DELLA FRANCA

L'APPROFONDIMENTO

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ORIZZONTALI: 1. Corpi celesti - 7. É simile allo struzzo - 10. Quella di Pordenone è stata istituita nel 1968 - 13. A noi - 14. Lo sono il" Messaggero Veneto" e "Il Gazzet-tino" - 15. Un centimetro… corto - 16. Sporca, insudiciata - 17. Egre-gio sulla busta - 18. Reggono le bandiere - 20. Dea che fu scac-ciata dall'Olimpo - 21. Segno mu-sicale - 23. Preposizione semplice - 24. Sud-Ovest - 25. Può essere fuggente - 27. Scherzi, beffe - 30. Nascosta - 32. Piuttosto audace - 34. Può essere rosso o bianco - 35. Lo sono "quelli" della Pan-china - 37. Il pordenonese che canta "Furia" - 39. Dentro - 40.

Inutile - 42. Via! - 43. Rettile simi-le al coccodrillo - 46. Albero dal legno chiaro - 48. Il Santo che protegge la Città di Pordenone - 50. Aeronautica Militare - 51. La-vorare la terra con l'aratro - 52. Parte di una pianta in grado di emettere radici - 53. Incitamento rivolto a cavalli - 54. Voce al po-ker - 55. Suona in fabbrica - 57. Iniz. di Tolstoj - 58. Si festeggia il 25 dicembre - 59. Da 11 anni è la "Festa del Libro" in città - 63. Banca vaticana - 64. Un tipo di farina - 65. In modo non profes-sionistico - 66. Iniz. della Estrada

VERTICALI: 2. Operazione conta-

bile di verifica - 3. Pesci d'acqua dolce - 4. La "Sacra" è un tribu-nale ecclesiastico - 5. In quel luo-go - 6. Ermetica, sibillina - 7. Uno in tedesco - 8. Emettono grugniti - 9. Il Gigi della Tv locale - 11. É bene averle chiare - 12. Pia-ce molto ai conigli - 13. Un titolo di Stato (sigla) - 14. Fascicolo di fogli per alunni - 19. Prodotto in-termedio della macinazione del grano duro - 21. Il primo cittadi-no di Pordenone dal 2001 - 22. Targa di Latina - 24. Steven at-tore… marziale - 26. Nelle cose - 27. Poggia su traversine - 28. Articolo indeterminativo - 29. Ha scritto "Capriole in salita" e "La

PORDENONE GIOCA

melodia del corvo" - 30. Iniz. della Gerini w- 31. La prima e l'ultima dell'alfabeto - 33. Uscire con violenza, traboccare - 34. Sei antichi romani - 36. Targa di Aosta - 37. Il nome di Schuma-cher - 38. Uncino per pesci - 41. Teatri all'aperto - 44. Finisce af-fumicata - 45. Materia plastica sintetica - 47. Veicolo trainato da animali - 48. Pratica salutistica di origine finnica - 49. La… madre di Catilina - 51. Strumento simile all'arcolaio - 54. Club Alpino Ita-liano - 56. Parità delle dosi nelle ricette mediche - 60. Iniz. della Muti - 61. Congiunzione telegra-fica - 62. Mezzo giro

Perché costruire da zero una sorta di settimana enigmistica dedicata, in-teramente, alla città di Pordenone? Perché l’idea, lanciata alla redazio-ne di Ldp da zio Franco, questa volta più che una semplice provocazio-ne delle sue ci è sembrata l’idea originale, divertente e al tempo stesso “costruttiva” per dare come sempre il nostro punto di vista. “Facciamo

un gioco dell’oca partendo dalla cartina di Pordenone”, ha proposto Franco … aggiungiamoci un cruciverba che sfrutti storia, cultura e gos-sip pordenonesi, un rebus, e poi mettiamoci del colore con le spigolature made Rdp ... insomma a suon di idee il gioco è stato fatto. E a questo punto non ci resta che augurare ai nostri lettori un buon divertimento.

Casella n°6: Sede dei Ragazzi della Panchi-na“La Pankina cambiando posto è divenuta un discorso tosto” Avan-za tirando ancora con un dado Casella n°10: Stadio Bottecchia “Al Bottecchia, anche stasera fe-sta Verde – Nera” Avanza tirando ancora con un dado Casella n°12: Stazione dei treni e delle corrie-re“Nella stazione vi è troppa confu-sione, quindi aspetta (forse) com-prensione” Stai fermo un turno Casella n°16: Fiera nuova“Quando c’è la Campionaria non si trova solo aria” Avanza di due caselle Casella n°21: Parcheggio Marcolin“Al Marcolin non puoi fare pipi, perché di acqua ce n’è tutti i dì” Stai fermo un turno Casella n°24: Piazza Risorgimento“Piazza Risorgimento, è tutto un disfacimento” Torna alla casella 21

Casella n°27: Ex Cotonificio “Cotonificio di Ponte De Marchi, tra poco crolleranno anche gli ul-timi archi” Torna alla casella 23 Casella n°33: Parco San Valentino“Parco San Valentino verde, oche e pisolino.. goditi il relax un atti-mino!” Vai alla casella 38 Casella n°37: Fiera Vecchia“Mens sana in corpore sano… Vecchia fiera, fieri nuovi” Avanza tirando ancora con due dadi Casella n°39: Casa dello Studente “Alla casa dello studente, si man-gia, si studia e non ci si rompe il dente” Avanza di quattro caselle Casella n°46: Ser.T via Montereale“Ser.T. di via Montereale è solo una schiaffo psichico e morale” Tira due dadi e con il risultato ot-tenuto indietreggia. Casella n°51: Ospedale Santa Maria degli Angeli “L’ospedale vale, ma con pa-zienza statale” Stai fermo un turno Casella n°56: Cinemazero“Al Cinemazero, cultura per inte-ro” Avanza tirando ancora con un dado e raddoppiando il risul-tato

Casella n°61: Biblioteca civica“La Biblioteca nuova ti saprà sorprendere, mettila alla prova” Avanza tirando ancora con due dadi Casella n°64: Teatro Verdi“Teatro Verdi da Busseto, non sa-prebbe se applaudire o fare un peto” Torna alla casella 61 Casella n°67: Mediateca “La mediateca non è un ogget-to, ma sta diventando indispen-sabile anche per chi soggettiva-mente non è abile” Avanza di tre caselle Casella n°72: Carcere“Carcere o galera sei sempre in-catenato o in cella o in coscienza non ti allentano la lenza…”Tira due dadi e con il risultato ot-tenuto indietreggia. Nella casella in cui arrivi, stai fermo un turno. Casella n°75: Municipio “HAI VINTO!!! Nel Municipio che ora ci comanda, c'è una bella banda”

DI

FRANCO DE MARCHI E STEFANO VENUTO

FOTO DI MICAELA HAREJ

Il Gioco dell’Oca ha origini an-tiche: le prime testimonianze ri-salgono infatti agli antichi egizi e cinesi. La prima stampa che ne cita il nome è invece dell’epoca dei Medici, del 1580. Esso rap-presentava il concetto del bene (le oche) e del male (le avversi-tà, gli ostacoli) e un po’ per tutti, giovani o vecchi, fa parte di quei giochi da tavolo in cui prima o

poi ci si è cimentati nella propria vita. Tradizionalmente, il gioco si svolge utilizzando due dadi, un contrassegno diverso per ciascun giocatore (massimo 6) e una ta-vola dove sono disegnate a spi-rale 60 o 90 caselle alcune delle quali contengono delle regole. Ciascun giocatore tira i dadi a turno e procede lungo il percorso di tante caselle quanto è la som-

ma dei punti usciti dal tiro. Vince chi arriva primo al traguardo. Se però i punti superano il numero finale, dovrà tornare indietro di tante posizioni quanto sono i punti in eccesso. Quella che qui propo-niamo è una versione inedita del Gioco dell’oca, riadattata per Ldp utilizzando in luogo delle caselle gli angoli, quelli buoni e quelli meno buoni, di Pordenone.

IL VISIONARIO La vita è un giocoUn nostro affezionato lettore di Recanati, G. L., ci segnala un’originale iniziativa promossa dal comune di Nubiana, in Val-divento. Per far fronte ai numero-sissimi episodi di depressione che colpiscono la popolazione locale, con ogni probabilità dovuta al fatto che in quel paese non batte mai il sole, la locale amministra-zione ha obbligato l’intera cittadi-nanza adulta tre ore al giorno di gioco alla maniera dei bambini. Pertanto, Sindaco in testa, si ve-dono nella palestra della città, quarantenni gattonare, cinquan-tenni giocare con i coperchi delle

pentole e qualche sessantenne con i mestoli di legno. Alla richi-esta di quale teoria scientifica stesse alla base di una così originale soluzione ai problemi degli adulti, il Primo cittadino, dopo aver ricordato che è idea di molti savi che la vita sia un gioco, ha candidamente am-messo di essersi ispirato al suo concittadino più famoso, Filippo Ottonieri, secondo il quale per sconfigger la noia bisognereb-be fare “alla maniera dei fan-ciulli, che trovano il tutto nel nulla, mentre gli uomini il nulla in tutto”.

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Soluzione: LDP è facile da leggere

Le soluzione del cruciverba di pagina 9

Il Rebus. Da una idea di Guerrino Faggiani Le spigolature. Dalla bacheca dei Ragazzi della Panchina

«L'unico modo per vedermi lucido è passarmi la cera» Walmi

«Durante il concorso di Miss Muretto ho rischiato un mega attacco di pedo-filia acuta» Dario

«Mi sono fatto il culo come un negro dell'Ottocento» Gigi

«Se non te tien la bala ... va a casa a dormir» Franco

«Sono truzzo anche perchè mi vesto come un truzzo e visto che ci sono miei amici truzzi con tante amiche carine ho deciso di diventarlo anch'io» Luca

«Cesco, mi sembri lanciato oggi!» Ada «Si, devo aver dormito troppo ieri»Cesco

santiago

È FA DA

È UGUALE PER TUTTI

FRASE 1-6-2-7

L'ObiettivoLDP apre una nuova rubrica dal nome “L’Obiettivo”. Questo spazio vuole essere la voce dei lettori di LDP riportando fatti, proposte, in-giustizie e varie situazioni di quotidiana attualità, per dare notizia a tutti nella dovuta trasparenza. In questa associazione si lavora quoti-dianamente con il dolore del vivere e a tratti si rischia di diventare faziosi. Mai si potrebbe incorrere in un errore più grave di quello di giustificare. L’intento di questa rubrica è raccogliere le “voci altre”, che vivono la città “normalmente”e che si scontrano con normali situazioni che “obiettivamente” sono da porre in evidenza, arrabbiandosi ma soprattutto proponendo, verso il meglio. Vi invitiamo a contattarci alla nostra mail [email protected]. Altrimenti telefonateci al numero 0434.363217 dal lunedì al venerdì dalle 14 alle 19.

Pordenone, città industrializzata del Nord est, ha avuto un notevole af-flusso di extracomunitari, molti con permesso di soggiorno regolare, ma molti altri clandestini, senza lavoro e senza domicilio. Questo ha pro-vocato un accavallarsi di disperazione con altra disperazione, di fame con fame, di panchine con panchine. Con queste considerazioni il dato rilevante è l’inesistenza di una mensa cittadina, avvero c’è la Casa dello Studente, ma l’utenza di studenti, impiegati e qualche fortunato che ha dei buoni pasto erogati dal Comune non lascia spazio a quella fascia di persone con estremo bisogno del pasto caldo della mensa. Non di-menticandoci che sabato e domenica la mensa è chiusa. Oltre a questo non c’è un posto che dia da dormire a chi ne ha bisogno. Le associa-zioni di volontariato tipo Caritas in primis dove sono? E’ possibile mai che nel 2011 si possa morire in una centrale elettrica abbandonata? E’ possibile morire bruciati in una casa abbandonata? Molto è stato scritto e spesso la cronaca è stata impietosa, non rispettando la verità dei fatti accaduti. Ora più che mai, visti i momenti di crisi generalizza all’interno di una società multietnica, in ogni angolo della città c’è gente che chie-de l’elemosina ed in questo marasma qualcuno ha veramente fame. In questa campagna pro-mensa e pro-posti letto vorremmo essere in prima linea, perché aiutare il prossimo in difficoltà è già una nostra prio-rità, ma la vita è molto più difficile che facile. Mi risulta che in altre città, anche vicinissime a noi, ci sono delle realtà molto efficienti per arginare questi problemi, ma a Pordenone il problema non si pone. Io non credo che l’assistenzialismo curi o risolva il disagio, ma dando dei supporti di prima necessità non si aiuta solamente chi è in difficoltà ma, se mensa popolare e posti letto vengono strutturati nel giusto modo, a giovarne è la comunità cittadina intera. Spero che questo scritto abbia un ritorno sul fronte del “fare qualcosa per”. Noi dell’associazione i Ragazzi della Pan-china diamo già qualche aiuto a chi ne ha bisogno grazie al supporto del Comune, ma chiaramente i nostri mezzi sono limitati. Auspico perciò per il futuro maggior impegno ed interesse da parte di chi di dovere.

Dove vanno a mangiare i poveri? A Pordenone mancano una struttura po-polare di ristoro e un dormitoriodi Giuseppe Micco

L'OBIETTIVO

Sono passati quasi trent’anni ma non è cambiato molto. Del virus Hiv, quello che causa l’Aids, si sa tutto, è stato fotografato, si sa come si replica, quali sono le vie di trasmissione, si sa quanto vive, si conoscono i danni che fa e soprattutto si sa benissimo come evitarlo e ucciderlo. Nonostante ciò l’ignoranza delle persone resta sempre tanta, ed è ancora più scon-fortante quando capita con persone che lavorano nell’ambito medico-sanitario. Da anni ho problemi ai denti e in tutto questo tempo ho sempre cercato di tamponare alla meglio con dei dentisti compassionevoli che cercavano di sistemare la mia bocca in modo da permettermi di masti-care senza farmi spendere molti soldi. Questa volta avevo deciso di pren-dere in mano la situazione e di rivolgermi al meglio che offre la piazza e affrontare finalmente l’investimento necessario per trasformare la mia bocca in una Ferrari del nutrimento. Il sogno è durato poco: mi sono scon-trata con i pregiudizi di sempre. Mio marito ha preso un appuntamento con un noto studio dentistico della zona rassicurandomi che la conoscen-za, che lui aveva, lo portava a pensare che i sanitari dello studio fossero delle persone intelligenti e preparate. Io, titubante e alquanto ansiosa, mi sono fidata. Lui è entrato per primo, anche lui con dei lavori in bocca da fare, e ha eseguito la visita e pianificato il lavoro con il dentista, poi è arrivato il mio turno. Vista la mia agitazione, mio marito si è premurato di prendersi l’onere di avvisare il dentista. Si è sentito rispondere: “Ma sai, noi non siamo attrezzati per questo”. Naturalmente, mio marito, che ormai sa tutto sul virus, gli ha chiesto: “Ma scusi, non siete attrezzati addirittura per il virus dell’epatite, che è ben peggiore?”. La risposta del medico, a quel punto, è stata vaga: “Si…. ma… però”. “Ho capito – ha chiuso mio marito - fammi il preventivo del mio lavoro e ci risentiamo”. Mi ha raggiunta in sala d’attesa e, dal suo sguardo, ho capito tutto. Ora mi chiedo: “Questa è discriminazione o veramente non sono attrezzati questi dentisti?” La cosa mi spaventa perché ormai sappiamo che con la semplice varechina, o facendolo bollire in acqua per pochi minuti il virus si annienta. E’ nota da tempo la sua debolezza, altrimenti avrebbe fatto dei danni alquanto superiori a quelli che ci sono stati. Ma se così fosse, che i medici non sono davvero attrezzati, quanto siamo sicuri quando andiamo dal dentista? Quanti virus passano da bocca in bocca che non sono Hiv? Ciò anche considerando che non tutti sanno di essere infetti, visto che delle 4000 nuove infezioni che ci sono ogni anno in Italia il 60% vengono diagnosti-cate in fase conclamata della malattia in persone insospettabili che non hanno mai fatto il test? Voglio pensare che sia discriminazione e la cosa è ancora più triste, perché mi fa concludere che, mentre la tecnologia e la scienza, fanno passi da gigante e ci consegnano nelle mani prodotti e saperi sempre nuovi e innovativi, noi ancora oggi abbiamo un cervello che non è mai riuscito a fare quello scatto in avanti che ci permetterebbe di usare tutta questa conoscenza per il meglio. E finiamo, invece, inesora-bilmente ad usarla nel peggiore dei modi.

Cosa dice la leggeLa legge 5 giugno 1990 n.135 (Piano degli interventi urgenti in ma-teria di prevenzione e lotta all’AIids) prevede, all’art.7, che il Mini-stro della Sanità emani un decreto recante norme di protezione dal contagio professionale da Hiv nelle strutture sanitarie ed assistenziali pubbliche e private, cosa che il Ministero ha puntualmente fatto con l’adozione del Decreto Ministeriale 28 settembre 1990. Il Decreto det-ta norme precauzionali, generiche e di specie, per tutti gli operatori sanitari. Lo scopo di dette norme è proprio quello di scongiurare il possibile rischio di contagio sia del paziente da parte dell’operatore sanitario, sia di quest’ultimo da parte del paziente, partendo dalla considerazione che non è possibile individuare con certezza i pazienti affetti da virus. Si è dunque ritenuto che, laddove l’applicazione del-le cautele sia scrupolosa e costante, il rischio di trasmissione venga ad essere ridotto al minimo. Con ciò il Ministero ha voluto affermare il principio che la professionalità nell’espletamento delle funzioni di operatore sanitario costituisce una garanzia sufficiente a tutela della salute collettiva, risiedendo la pericolosità non già nella professione in sé, ma semmai nei comportamenti dei singoli che deviano dall’os-servanza delle norme precauzionali. Tutto ciò premesso le motivazioni che, nel caso in questione, il professionista avrebbe adotto a giustifi-cazione del suo diniego a prestare cure odontoiatriche risultano di difficile comprensione. Un diniego per di più che non tiene conto del fatto che un paziente sieropositivo che dichiara apertamente il proprio status sierologico sta compiendo un atto di responsabilità nei confronti dell’operatore sanitario. (Avv. Matteo Schwarz NPS Italia)

Ha l'Hiv? Non posso operarla di Ada Moznich

Caldo umido, spezie e smog. La prima sensazione è di soffoca-mento, poi inizio a respirare. Apro gli occhi. Eccomi, sono dall’altra parte del mondo, in una guest house nei dintorni dell’affollatissima Khao San road. Bangkok ha dieci mi-lioni di abitanti, con grattacieli altissimi, fino agli 88 piani del Baiyoke. Sotto corrono la metro-politana, lo skytrain (una sorta di tram sopraelevato), un traffi-co incredibile di taxi dipinti di rosa, giallo, verde fluorescente, auto, tuk tuk (tricicli a motore che hanno preso il posto degli anti-chi risciò), motorini e carretti dei venditori ambulanti, sempre in viaggio, giorno e notte, da e ver-so le decine di mercati della città. Diluvia. Cade pioggia calda. Passa tutto in mezz’ora, il tempo di una doccia che rinfresca solo per un istante. Il cielo dopo il tra-monto è blu elettrico.Quello di Khao San road è il quartiere dei viaggiatori zaino in spalla, un rettangolo di bar, pub, ristoranti, una libreria con libri per farang (che vuol dire straniero, bianco, in lingua thai), strade in-vase da baracchini di vestiti, cibo, CD, ciabatte, cinture, merce di tut-ti i tipi, roba da far girare la testa alla più incallita amante dello shopping. Scrive il giornalista americano Lawrence Osborne: «I baracchini di Bangkok sono i mi-gliori del pianeta. Quello che si consuma sui marciapiedi è come un pasto nomade nel bel mez-zo di un urbanesimo occidentale

THAILANDIA, ESPLOSIONE DEI SENSISapori e colori decisi come il sole tropicale e le piogge monsonichedi Elisa Cozzarini

sedentario, partorito dalle menti di architetti punitivi e incapaci di immaginare che le persone, là sotto, potrebbero anche volersi divertire».Divertimento, piacere, vacanza.Nel cuore di questo rettangolo di estremo Occidente, circondati da un muro bianco alto circa tre me-tri, sorgono un monastero, templi buddisti, i wat dalla classica for-ma appuntita e una palestra di muay thai, la boxe tailandese. I monaci indossano tuniche aran-cione o zafferano, sono rasati, hanno gli stessi occhi delle statue del Buddha. Il loro sguardo sa vedere oltre questo mondo, ol-tre i farang che si sbronzano o si fanno fare massaggi più o meno equivoci, in una costante ricerca del piacere.

Qualche giorno dopo, alla ricer-ca di una Thailandia più vera e quotidiana, sbarco a Same San, un villaggio di pescatori a sud di Pattaya, a casa della mamma di un’amica thailandese che vive a Udine da vent’anni. Samrit, la madre, è piccola e cicciotella, ca-pelli corti quasi tutti ancora neri e qualche ruga. Deve avere al-meno settant’anni, ma non li di-mostra. Il benvenuto è spoglio di tutti i cerimoniali che si seguono in Italia. A me sembra strano, an-che perché Samrit non guarda nemmeno il piccolo regalo che ho portato. Ma per lei sarebbe segno di maleducazione se lo aprisse davanti a me. Di fronte c’è una gigantesca mac-china tritaghiaccio che serve tutti i pescatori del porto. L’odore di pesce invade ogni cosa a Same San. Di fronte alla macchina trita-ghiaccio siede un uomo con gli stivali di gomma, che passa tutto il giorno seduto su un motorino, in attesa che arrivi qualcuno a comprare il ghiaccio. Dalla stra-da salgono suoni di continuo: il clacson di un furgone che fa da autobus e avverte così del suo passaggio; il rumore dei motorini scassati con sidecar di legno per trasportare uomini, pesci o ghiac-cio; la trombetta di un omino che vende frittelle piccanti con pollo e verdure. Suoni e rumori di una vita in continuo movimento.A Same San sono l’unica turista. La gente mi indica dicendo: “Fa-rang! Farang!”. Tutti sanno chi sono. La mattina al porto è pie-no di pescherecci colorati, con file di lampadine, specifici per la pesca dei calamari. Ci lavo-rano solo immigrati da Birmania, Laos, Cambogia, Bangladesh. I thailandesi non fanno questo mestiere. Un gruppo di pescatori scarica il pescato da una barca per caricarlo su un camion. È un lavoro massacrante, sotto il sole che brucia, dopo una notte in mare aperto. Prendo la macchi-na fotografica e li fotografo. Mi sento fuoriluogo, ma lo faccio lo

stesso, perché voglio documenta-re quello che vedo. Un ragazzo mi sorride e mi chiede da dove vengo. Si mette in posa per farsi fotografare, sfoderando un sor-riso smagliante. Viene dal Ban-gladesh e forse con quel lavoro riesce a sfamare tutta la famiglia nel suo paese.La cucina thailandese mi fa impazzire. La mia amica è una cuoca fantastica, che ha saputo adattare i piatti della sua cultu-ra ai gusti degli italiani, trovando una mediazione che accarezza i palati. Samrit invece cucina thailandese al cento per cento. Piccante da piangere. Prepara un pentolone di granchi gigan-ti che lei stessa sguscia a uno a uno a mani nude, passandomeli e osservando con soddisfazione quanto mangio di gusto. In que-sto è uguale alle mamme e non-ne di tutto il mondo. L’insalata di mango, peperoncino, cipolla, calamari, guarnita di arachidi, accosta magicamente dolce, piccante e salato. Sono gusti for-ti e decisi, come il sole tropicale e le piogge monsoniche, senza mezze misure. Ride Samrit, sen-tendomi ripetere i nomi dei piatti in lingua thai, con una pronun-cia evidentemente improbabile. Le sembro buffa, chissà cosa sto dicendo. Rido anch’io, perché io stessa mi sento buffa e perché pure lei, ridendo, fa ridere. Arriva il giorno della partenza. Samrit è triste. Io e lei un po’ ri-usciamo a capirci, a gesti e con qualche parola imparata a fati-ca. - Quando torni in Tailandia, que-sta è la tua casa.

INVIATI NEL MONDO

Eccomi qui, a raccontare, a pro-varci, a riassumere, a conden-sare un viaggio. Uno dei miei viaggi, che sono orami malattie; più che viaggi, sono bisogni ine-stinguibili. Uno bello, un viaggio bello, Ecuador e Galapagos. Uno lontano, pur se non è la lon-tananza che fa il viaggio, ma a renderlo indimenticabile sono le sensazioni, le esperienze, gli odori, le facce. Quelle cose che restano in mente, che non si di-menticano, che non si confondo-no. Eccomi, dunque, a parlare di Ecuador, di un viaggio affronta-to da solo, per scelta e solo par-zialmente per costrizione. Di un viaggio facile - ogni viaggio lo è - e iniziato a Guayaquil. Che dell'Ecuador è la città più popo-losa. Che è la faccia più brutta di quest'America Latina che mi ha stregato. Definitivamente. Ci abitano le donne più belle del mondo, dicono. Di certo c'è un traffico assurdo, ci sono mil-le motivi per scappare. E infatti scappo, pur sapendo che avrei potuto tirarci fuori qualcosa di buono, a guardare bene. Ma un viaggio è anche scegliere, e io ho scelto. Montañita, para-

Ecuador e Galapagos zaino in spalla"Le mille facce di un'America Latina che mi ha stregato"di Piero Della Putta

diso ecuadoriano del surf, dove arrivo dopo ore di corriere, di sbalzi, di salti, di improperi. “Go fame de coriera”, era solito dire un carissimo amico, gran viag-giatore: la fame la sazio, perso tra freak, tra alcool e tra fumi più o meno leciti, tra i mille colori di un oceano troppo in vendita per i miei gusti, che mi impongono un altro addio, un'altra tappa, casuale come sono solito fare. Puerto Lopez e i suoi pochi turi-sti, Puerto Lopez e don Giuseppe, che lasciata un'Italia che gli sta stretta assiste chi diventa ma-dre a tredici anni, e vede il suo uomo scappare inevitabilmente poco dopo. Non ci sono certezze, a Puerto Lopez, non c'è lavoro, in sostanza non c'è futuro: a saper-lo, cosa sia il futuro... Non lo so io, a quarant'anni suonati da un pezzo; non lo sa il ragazzino che mi affianca nel bus per Bahia e quindi per Atacames, le mie successive destinazioni. Ha un gallo in mano, unico suo avere. Non se ne separa, non si separa dalla sua fierezza, mal celando un'invidia che, in fondo, è an-che mia. Perché se non si vede una abitazione per chilometri, se la strada è fatta di asfalto che si alterna impietosamente alle bu-che, e non viceversa, in lui c'è qualcosa che mi manca. Pur se ho tutto. Non gioco – per esem-pio - sulla strada, non ci giocano i miei nipoti. E non è cosa da poco, anche se ad Atacames le cose cambiano. Ci sono i grin-gos, ci sono gli italiani, c'è Giulio, che di Atacames è uno dei tanti,

piccoli, mafiosi. C'è una serata da passare, c'è del whisky da bere, c'è una proposta, quella di diventare l'assessore italiano di Atacames, da rifiutare. C'è l'America Latina da respirare, e io respiro, arrivando poi di not-te a Quito, la capitale. Immen-sa, buia, affascinante anche al primo sguardo: ci tornerò, alleg-gerito, dopo qualche giorno. Al-leggerito, perché a Quito se ne va la mia macchina fotografica. Con una settimana di immagini, di ricordi, portandosi via anche la fiducia in chi mi ha gabbato. Se ne va mentre aiuto a sistema-re la valigia di un vecchio, se ne va mentre sto per arrivare da Chiara, che da Pordenone è fi-nita a Ibarra, sul confine, ad aiu-

tare i rifugiati colombiani, quelli che scappano dalla Farc, dal governo, da qualcosa o qual-cuno. Poco male, ciò che si può comperare, in fondo, non vale nulla. Lo so, e mi distraggo, men-tre la mia ospite mi spiega cosa sia Ibarra, mi fa visitare la città e i dintorni. Mi fa scoprire Otavalo e il suo fantastico e coloratissimo mercato, mi fa scoprire Cotaca-chi, mi fa scoprire l'Inti Raymi, la festa del solstizio. Mi porta su un treno magico, che colleghe-rebbe, teoricamente, la città alla costa. Ma che funziona solo in parte, pur regalandoti panorami mozzafiato. Mi abbraccia, Chia-ra, quando me ne torno a Qui-to, e mi abbraccia Jairo, il suo compagno. Saremo destinati a rivederci, qualche anno dopo, a Pordenone, dove queste due splendide persone tutt'ora vivo-no. Passando a fianco di mille vulcani, torno a Quito, con le sue chiese, patrimonio dell'umanità, con i suoi scorci magici, con la

Mitad del mundo, con gente che ti muore a fianco, e non è un eu-femismo. Con - a Quito - il vol-can Pichincha, che scalo a dorso di mulo, pur con un salto di oltre mille metri a fianco. Morirò, lo so, prima o poi. Morirò facendo queste cose. E sarò felice. Voglio morire a Mindo, paradiso del birdwatching, voglio morire a Baños, voglio morire sul volcan

Cotopaxi, che sfioro appena, vo-glio morire guardando il Cimbo-razo. Voglio morire mi ripeto fe-lice, dopo aver visto el nariz del diablo ed essere arrivato prima a Cuenca, quindi alle Galapa-gos. Che sono le ultime tappe di un viaggio che vi consiglio. Come consiglio le Galapagos, che non sono anche il nome di una pizzeria. O meglio, forse lo saranno. Sono tutto, e il suo op-posto. Sono storia, sono cenere, sono natura, sono Lonesome Ge-orge, sono mille tartarughe, sono squali, delfini, pinguini. Sono sula, fragate, leoni marini. Sono le cave dei pionieri, sono pie-tre vulcaniche e lapilli, sono la splendida Isla Isabela, sono una barca che salta, salta, salta, che mi devasta e mi fa capire cosa sia il terrore. Sono cactus e snor-keing, pellicani e mangrovie, uc-celli sconosciuti e sono Darwin. Dal quale siamo partiti tutti, e al quale torneremo. Eccolo, il mio Ecuador. Indimenticabile.

Nell’ambito del circuito degli editori di medio calibro, il “feno-meno” degli ultimi mesi, sapien-temente sospinto da un battage pubblicitario crescente e mirato (compresi l’anticipazione di un in-tero capitolo sul periodico “Il libra-io” e un video di presentazione online in stile trailer cinematogra-fico), è un’opera prima leggera e ben scritta, un giallo tinto (molto) di rosa di una giovane dottores-sa messinese, Alessia Gazzola. Ambientato a Roma, “L’Allieva”

(Longanesi, 2011) racconta le vi-cende di una specializzanda in Medicina legale, Alice Allevi, ra-gazza goffa e insicura che, pur amando alla follia la carriera in-trapresa, mal sopporta l’ambiente altamente competitivo dove si è trovata a lavorare: un ambiente in cui, in sovrappiù, la si consi-dera forse inadeguata, a causa della sua incapacità a mantene-re il dovuto distacco nei confronti dei veri “strumenti del mestiere,” i cadaveri che ogni giorno vengo-

no sezionati nelle sale dell’Istituto. Sarà invece proprio questa sorta di empatia post-mortem (non preoccupatevi, niente di sopran-naturale, non siamo dalle parti di Voyager), unita ad una forza di volontà che cresce piano lungo le pagine del romanzo e porta Alice ad affermare le sue ragioni e le sue capacità professionali, a farla giungere (contro tutto e tutti, già l’avete intuito) a ricostruire la verità sulla sfortunata vicenda di Giulia Valenti, tormentata ragaz-za dell’alta borghesia capitolina, all’apparenza vittima di un’over-dose accidentale. Mentre si batte per giungere al fondo di questa triste storia, Alice si tira dietro un sacco di guai: rischia il posto, la carriera e forse la sua salute psi-chica, ma riesce pure a trovare una sorta di anima-gemella (ri-cordate, però: in amor vince chi

RUBRICA LIBRI

L'Allieva, giallo tinto di rosa

recensione di Andrea Russo

E' l'opera prima della messinese Gazzola

PANKAKULTURA

fugge), che per colmo di sfortuna è il figlio giramondo del Supremo, il suo capo. Romanzo scorrevole, che si legge velocemente e pia-cevolmente senza impegnare, “L’allieva” riesce soprattutto come ritratto di quello strano microco-smo sempre in penombra rappre-sentato dalle facoltà di Medicina, con certe argute e fresche descri-zioni di personaggi quasi archeti-pici che chiunque abbia bazzica-to un po’ l’ecosistema universitario riconoscerà immediatamente in suoi compagni o superiori. Per il resto, delle due linee narrative principali la trama gialla ha una sua coerenza e un suo sviluppo compiuto (pur se non ci sono in-venzioni degne di nota), soprattut-to nel dipanarsi del rapporto tra Alice e Bianca, la sorella di Giulia; più fiacca e prevedibile, invece, la componente “rosa” : a parere

L’Orchestra di Piazza Vittorio il 3 febbraio scorso ha fatto tappa a Pordenone per presentare al tea-tro Giuseppe Verdi “Flauto Magi-co”, un’opera liberamente tratta dallo Zauberflöte di W.A.Mozart. L’orchestra aveva in programma anche un incontro con il pub-blico a cui noi non potevamo mancare. A rappresentarla sul palco in quell’occasione c’erano Pino Pecorelli e Leandro Piccioni, rispettivamente contrabbassista e arrangiatore dell’orchestra sin dal primo minuto. Non era pre-sente, invece, Mario Tronco ide-atore della “creatura” assieme ad Agostino Ferrente, in quanto colpito da un grave incidente fi-sico che lo terrà a lungo lontano dalle scene. L’Orchestra di Piazza Vittorio è nata nel 2002 in seno all’associazione Apollo 11, una associazione culturale composta da cittadini del rione Esquilino, a Roma, dove gli italiani sono

in minoranza etnica. Mario as-sieme ad alcuni musicisti italiani che già conosceva grazie ai suoi trascorsi musicali (una su tutte l’esperienza fatta con gli Avion Travel) si è ad un certo punto chiesto quanti musicisti ci fossero in queste comunità di immigrati che popolavano Piazza Vittorio Emanuele II, punto nevralgico del quartiere, e se sarebbe sta-to possibile farli suonare assie-me. “Noi del gruppo originario di musicisti, amici tutti di nazio-nalità italiana che a tutt’oggi continuiamo a suonare nell’Or-chestra - racconta uno di loro, Pino Pecorelli - abbiamo deciso di assecondare questa sua paz-zia, pur nella convinzione che in qualche modo sarebbe stato un fallimento. Sembrava, all'epoca, una operazione mastodontica mettere assieme venti musicisti con strumenti e culture dalle pro-venienze più disparate”.

“È stato difficile trovare l’armo-nia?”, chiediamo a questo pun-to.“All’inizio di confusione ce n’era moltissima, le componenti musi-cali erano le più disparate, c’e-ra chi proveniva dalla musica classica dal rock dal jazz, c’era chi veniva dalla strada – rispon-de Pecorelli - Quindi mondi mol-to distanti tra loro. Ma devo dire che è stato proprio il caos libe-ro verso cui Mario ci ha spinto che ha risvegliato in tutti noi la curiosità di conoscere altra mu-sica. Questa voglia di conoscen-za e curiosità è stata la base ed ancora lo è del nostro percorso quotidiano”.

Con Leandro Piccioni che da sempre collabora con l’orchestra come arrangiatore, vogliamo invece ripercorrere l’origine di un idea, così importante, come quella del “Flauto Magico”.

“La Genesi – dice il musicista – risale ad alcuni anni fa, quando Daniele Abbado direttore artisti-co dei teatri di Reggio Emilia, ha proposto a Mario di realizzare con l’orchestra qualcosa di at-tinente al Flauto Magico. Ma-rio mi ha subito contattato per girarmi questa, chiamiamola pure, proposta indecente. Ma con grande entusiasmo ci siamo messi subito ad identificare quel-lo che del Flauto Magico potes-se stare nelle corde di questa orchestra e siamo partiti. È stato un work in progress, non ci sia-mo tenuti solo ad una traduzio-ne ma l’abbiamo modellata e via via aggiunto materiale fino al risultato finale” .

Ed ora una domanda a tutti e due, dalla nascita dell’orche-stra guardando alla sua storia c’è qualcosa che non rifareste?Dopo alcune occhiate tra di loro

"È la curiosità per ciò che è diverso che ci tiene insieme"La straordinaria esperienza di una band che sa fondere artisti e generi musicali di tutto il mondo. L'Orchestra di Piazza Vittorio a Pordenone

di Guerrino Faggiani

““Abituali vincitori di concor-si jazz, i Weather Report sono considerati il gruppo più creati-vo della fusione tra jazz e rock, guadagnando accoliti e un se-guito considerevole in entrambi i mercati” . Così recitava, alla voce Weather Report, l’Enciclo-pedia del rock di Nick Logan e Bob Woffinden scritta nel 1976, vero punto di riferimento per chi era interessato ad approfondire (internet non esisteva ancora) il panorama rock. La ricerca era partita dopo aver ascoltato il loro “sweetnighter”, stupendo Lp dai suoni magici, eleganti e dagli effetti elettronici nuovi e accattivanti che lo rendevano sofisticato e piacevole, Renzo, un amico con qualche anno in più che studiava la tromba me lo fece ascoltare a casa sua elo-giando le loro capacità tecni-che e soprattutto sottolineando la portata innovativa delle loro scelte musicali. Fu uno di quegli innamoramenti “musicali” che durano una vita e il gruppo, che era agli esordi ( “sweetnighter” era il loro terzo lavoro inciso nel 1973), non mi deluse mai inci-dendo un gran numero di dischi sempre di ottimo livello e pro-muovendo uno stile, un “sound” che andava oltre il rock ed il jazz, fondendoli assieme con un crite-rio compositivo ed estetico asso-lutamente godibile. Erano anni di grande fermento sociale e il rock, mai così prolifico e creativo, era la naturale colonna sonora per milioni di giovani in tutto l’oc-cidente. Ma anche il mondo del jazz, soffocato dalle culture domi-nanti in patria e seguito da una minoranza (a volte anche snob) qui da noi, stava dando voce alla rabbia di chi per anni non aveva avuto la giusta considera-zione. A fornire un nuovo “cam-po da gioco” è l’elettronica, vera novità degli anni Settanta che mette a disposizione spazi assolu-tamente vergini e sconfinati per entrambi gli stili. Con l’indole del-la rock star il mitico Miles Davis, nel 1969, dopo aver amplificato e distorto la sua tromba, “parto-risce” un disco epocale “Bitches Brew” considerato un manifesto programmatico del jazz/rock, al suo fianco il nucleo centrale dei

Weather Report, quando il jazz incontrò il rock Grazie a genialità e creatività negli anni '70 inventarono il genere "fusion"di Caludio Pasin

PANKAROCK

di chi scrive, è alle volte po’ stuc-chevole, ma del resto chi scrive è maschio, cinico e pedante, quindi non dateci eccessivo peso.

futuri Weather Report, Joe Zawi-nul e Wayne Shorter. Malgrado il successo, anche tra i più gio-vani, la prospettiva da cui parte questa nuova alchimia musicale è da jazz classico ma ci pense-ranno nel 1971 i Weather Report, appena formatisi, a ripensare to-talmente il modo di fare jazz e ad introdurre un’ulteriore innova-zione, che è racchiusa nelle pa-role dello stesso Miroslav Vitous che fu protagonista con Joseph Zawinul e Wayne Shorter del nu-cleo iniziale dei Weather Report : “Perseguire la conversazione di-retta e la parità tra gli strumenti, lasciandosi alle spalle la schia-vitù rappresentata dai vecchi ruoli della sezione ritmica”. In altre parole, l’improvvisazione e la narrazione vengono affidate contemporaneamente al grup-po piuttosto che ai singoli musi-cisti. Jazzisti sperimentali, quindi, che ben presto verranno uni-versalmente riconosciuti come capiscuola di questo genere de-nominato “fusion” che racchiude influenze etniche, jazz, rock, soul e funky il tutto fuso, appunto, con genialità e grande tecnica.Tale e tanta è la qualità profu-sa nella intera discografia come pure l’ elevata statura artistica e le storie personali dei fondatori e di tutti i musicisti che negli anni ruotarono attorno al gruppo che meriterebbe di essere approfon-dita oltre i limiti di una rivista.

Due note sui fondatori:Joe Zawinul (tastiere). Nasce a Vienna nel 1932, a 7 anni è già iscritto al conservatorio della stes-sa città dove studia pianoforte, violino e clarinetto. A 12 anni sco-pre il jazz e negli anni Cinquanta ne frequenta gli ambienti nella sua città. Nel 1958, grazie ad una borsa di studio, si trasferisce in America per studiare al famoso Berklee College di Boston e dopo essersi guadagnato il rispetto dei più grandi, vedi Miles Davis, mette in piedi il progetto Weather Report. Sciolto il gruppo, dopo 15 anni, Zawinul segue le sue incli-nazioni per le musiche etniche e la sperimentazione elettroni-ca continuando a confezionare ottimi lavori sino alla sua morte avvenuta sempre a Vienna nel

2007 dopo solo un mese dall’ul-timo concerto tenuto in Ungheria.Aveva 75 anni.Wayne Shorter (sassofono). Na-sce nel New Jersey nel 1933. Di origine afro-cubana inizia a suo-nare il sassofono a 16 anni. Non solo un ottimo strumentista ma anche fine compositore e capa-ce organizzatore di suoni. Anco-ra in attività vanta collaborazio-ni con i maggiori esponenti del jazz e pure del rock quali: Joni Mitchell, Carlos Santana, Rolling Stones, Herbie Hancock, Miles Davis e altri ancora.Miroslav Vitous (basso e con-trabbasso). Nasce a Praga nel 1947, studia violino già a 6 anni, il pianoforte a 10 e il contrab-basso a 14. Dopo aver frequen-tato il conservatorio di Praga ot-tiene una borsa di studio per la Berklee College Of Music di Bo-ston. Ideatore e membro iniziale dei Weather Report lascia presto il famoso gruppo per dissensi con Joe Zawinul. Nel 1988 torna in Europa dove si dedica alla com-posizione.Jaco Pastorius (basso elettrico). Nasce in Pennsylvania nel 1951. Una vera star del rock , conside-rato uno dei più grandi bassisti di tutti i tempi, ha rivoluzionato il modo di suonare il suo strumento “trattandolo” come una chitarra (strumento solista) e non più solo come supporto ritmico, un vero virtuoso. Fu con Jaco Pasturius che il gruppo raggiunse la mag-giore notorietà. Trova la morte per mano di un buttafuori di un bar malfamato di Fort Lauderda-le in Florida nel 1987. Se ne va così il più innovativo ed influente bassista di tutti i tempi, uno che a 36 anni era già una leggenda vivente.

ed un tacito consenso finale Pino Pecorelli è partito: “C’è stato un periodo in cui si era corteggiati da enti e personaggi politici ita-liani che si offrivano di reperire fondi e finanziamenti per rende-re stabile l’orchestra. Ma questo ci ha fatto solo perdere molto tempo e risorse perché delle milioni di promesse che ci sono state fatte nessuna è arrivata in porto, anzi è stato deleterio per-ché ha gettato una strana luce sull’orchestra. Alcuni politici veni-vano dove noi si suonava e si at-teggiavano come se l’orchestra fosse loro, e c’era chi diceva che si andava avanti grazie all’aiuto di qualcuno di loro. Mario dice che i problemi per l’orchestra sono iniziati quando ha comin-ciato a chiamare per nome i po-litici. Sento di poter rispondere a nome di tutti dicendo che dare del tu ad un politico sicuramen-te è una cosa che non rifaremo più”.

Tante persone dicono che sono un talento, che qualunque sport avessi scelto sarei stato un cam-pione. Io penso che ci sono voluti anni di scuola e un buon mae-stro per costruire corpo e mente dell’atleta che sono diventato. Quel buon maestro io l’ho avuto e si chiama Mauro Baron.Mi è stato chiesto di parlare di Mau-ro dal punto di vista umano e sportivo e ora che sto battendo sulla tastiera del computer sto trovando la cosa più difficile del previsto. Potrei raccontare quel-

Grazie maestro!Il ricordo più bello fu l'oro euro-peo 2001 quando Mauro entrò in acqua per abbracciarmidi Daniele Molmenti

lo che mi ha insegnato, ma son segreti e trucchi che tengo per me. Potrei scrivere cosa è stato e cosa è ora per me, ma sarebbero pensieri personali che non posso condividere. E allora cosa dire di Mauro? Potrei cominciare de-scrivendo cosa ha fatto per me: ho conosciuto Mauro quindici anni fa, lui era il maestro di ca-noa che allenava i forti del club e mi dava qualche consiglio per pagaiare dritto. Da ragazzo ho passato estati intere con i ragazzi del club, Mauro ci ha portato a

pagaiare in tutta Italia, a nuotare, a fare immersioni e tuffi da pon-ti su laghi gelidi o nei caldi mari del sud. Mi ha insegnato a sciare, i fondamenti dell’allenamento in palestra e soprattutto mi ha inse-gnato a stare al mondo: dormire in tenda, cucinare alla buona, adattarsi a quello che si trova, aggiustare quello che di solito si butta via e ricavare sempre il massimo anche quando sembra tutto perduto. Sono ricordi emozio-nanti ed una scuola di vita che ho compreso molto tempo dopo: Mauro ci faceva giocare e intanto imparavo i rudimenti dello sport e cominciavo a costruire il fisico da atleta. E’ stato tutto “step by step” e tutta la conoscenza sportiva ne-cessaria per vincere è arrivata al momento di mostrarlo e infat-ti abbiamo vinto. La vittoria più bella con Mauro è certamente il titolo Europeo nel 2001 quando ero junior e il ricordo di Mauro in acqua fino alla vita per abbrac-ciarmi rimarrà sempre nel cuore. E’ passato un decennio da quella medaglia e a vederci ora ci sia-

mo tutti e due evoluti: io sono un professionista e corro per il Grup-po Sportivo Forestale, e Mauro è il direttore tecnico della squadra nazionale. Continuiamo a lavora-re per lo stesso obiettivo, vincere, ma con responsabilità diverse. Mauro è stato per me l’ esempio del personaggio, forse “testardo”, che non scende mai a compro-messi. Lui sa cosa deve essere fat-to e se vuoi vincere deve essere fatto così, punto. Mauro crede nel metodo e nel lavoro duro e dal Noncello ha portato molti atleti ad indossare la maglia azzurra e domare le acque del mondo. Mi ha insegnato che a volte bisogna rischiare per le proprie convinzio-ni, migliorarsi dopo le sconfitte e credere fino in fondo che davve-ro volere è potere! Mauro mi ha dato tutto questo e dopo esser arrivato sul tetto del mondo, lo ringrazio e ne condivido i meriti. Da lui ho appreso gli ideali spor-tivi per cui ogni giorno mi alleno e che alla fine della gara fanno la differenza tra l’atleta ed il cam-pione.

NONSOLOSPORT

Dalle prime incerte pagaiate in Meduna a commissario tecnico della Nazionale canoa slalom ce n’è di strada, ma è proprio quella che ha fatto Mauro Baron, corde-nonese doc di 53 anni, fondato-re nel 1976 del gruppo sportivo Centro Attività Motorie, un grup-po senza fini agonistici. Varie le discipline in cui si cimentava, su tutte lo sci, il nuoto e la canoa. Poi come Baron stesso dice “Visto che i ragazzi si mostravano predispo-

sti abbiamo pensato di far fare loro qualche gara e i risultati sono stati incoraggianti”. Da li è partita un’avventura che ancora non è finita. Sempre senza perdere di vista il senso del gioco, Baron e compagni hanno insegnato ai ragazzi lo spirito del sacrificio e la mentalità dell’agonismo sano. “Insegnamo ai giovani - dice il Ct - ad usare i propri punti di forza e la caparbietà per superare gli ostacoli. E a saperli distinguere

dalle distrazioni, perché le distra-zioni sono più pericolose, fanno perdere di vista i propri sogni magari per rincorrere quelli degli altri”. Migliaia i ragazzi che sono passati alla “scuola di Baron” nel corso degli anni. Anche le scuole stesse si sono affacciate al mondo della canoa attraverso il gruppo sportivo cordenonese.“In particolare - continua Baron - col-laboriamo con le scuole elemen-tari di Borgo Meduna e l’istituto Vendramini di Pordenone. Ma anche tanti punti verdi estivi ci chiedono di fare delle giorna-te di canoa”. Il gruppo procede spedito dunque e anche i gran-di risultati sportivi non mancano. “Abbiamo sfornato dei bei cam-pioncini nelle varie specialità - sottolinea il ct - solamente nel settore canoa abbiamo qualcosa come oltre cento titoli italiani, due partecipazioni olimpiche, abbia-mo titoli mondiali europei e me-daglie d’oro in coppa del mon-do”. E’ stato proprio in seguito a questi risultati che la Federazione si è interessata all’allenatore di Cordenons.“Già in passato c’era-no state delle pressioni perché io entrassi nello staff tecnico della nazionale, però in quegli anni non ero ancora in condizioni di accettare, ho preferito aspettare

che la famiglia si sistemasse. Anzi le devo un grazie per aver condi-viso questa scelta, perché costa a tutti. Almeno 200 giorni all’anno sono lontano da casa, adesso ad esempio sono appena tornato dall’Australia, tra poco parto per la Grecia sempre con la squadra nazionale, e poi a Londra a visio-nare ed organizzare la location per le olimpiadi del 2012”. Gran-di preparativi per le olimpiadi, ma è proprio una gara diversa dalle altre? “E si, a Pechino 2008 che è stata la mia prima olimpia-de, mi son reso conto che è una gara completamente diversa, e poi in Cina è stato unico. Per darti un’idea, la canoa ad un mondia-le ha tre quattromila spettatori, a Pechino c’erano 120.000 perso-ne”. Impressionante! Ma, dopo tanti traguardi, oggi un sogno nel cassetto Mauro Baron ce l’ha? “Vincere una medaglia d’oro alle Olimpiadi e dedicarla a mia moglie”. Bene, e allora appunta-mento a Londra 2012, quando avremo qualcuno in più per cui tifare. Grazie Mauro.

Da allenatore per il club cordeno-nese a Ct della squadra azzurradi Guerrimo Faggiani

Mauro Baron, una vita dedicata alla canoa

LDP - LIBERTÁ DI PAROLAGiornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi

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Hanno collaborato a questo numero

——————————————Guerrino FaggianiRinasce nel maggio 2006 all’ospe-dale di Udine. Da lì in poi è blog-ger (www.iragazzidellapanchina.it/gueriblog ), attore, ciclista.. Come giornalista, o gli date 5000 battute oppure non si siede neanche da-vanti al computer. “Cosa? Taglia-re?!? Piuttosto non sta neanche metterlo..”

——————————————Claudio PasinIn porta a calciobalilla è pratica-mente insuperabile: le sfide con Andrea contro Gigi e Diego sono impresse nella memoria del calcet-to della sede. Con Andrea condivi-de anche un mito, Zulù, per tutti e due esempio inimitabile.

——————————————Milena BidinostIl direttore non si discute, si ama. perchè si è ripresa la vita (www.milenabidinost.blogspot.com) e oggi, come un trionfo, il direttore " vive, parla, ride, si arrabbia, com-muove, annoia, risveglia…"

——————————————Franca MerloO Francesca, non lo capiremo mai… Altra colonna portante dei RdP, ha recentemente pubblicato un libro, “Noi!! Viviamo", sulla sua esperienza nel gruppo prima come volontaria e poi come Presidente dell’Associazione. Ha un blog molto frequentato: http: //rosaspina_mia.ilcannocchiale.it

——————————————Pino Roveredo"La melodia del corvo" è il suo ulti-mo regalo letterario. Capriole in sa-lita, Caracreatura: Attenti alle rose, nei suoi romanzi più che scrivere dipinge. Con l'associazione ha da poco aviato un laboratorio di scrit-tura creativa coraggioso

——————————————Gino DainUn medico un giorno gli ha detto: se continui cosi non duri più di sei mesi. Era il 1980. Da allora per sca-ramanzia non è cambiato di una virgola. É la dimostrazione vivente che la medicina non è una scienza esatta

——————————————Elisa CozzariniÈ riuscita a far scrivere a Ginetto un articolo intero, impresa non da poco. Giornalista in bici da corsa e zainetto, è una tipa che vedresti meglio sfrecciare a NY piuttosto che nella pista ciclabile di PN. In-somma, Freelance Amstrong

——————————————Andrea RussoA vederlo sembra un talebano ma se lo si conosce si scopre che è più dolce di uno cioccolatino. Laureato da poco in medici con 110 e lode sotto gli occhi increduli degli amici, ma il suo cuore batte per la lette-ratura e ha implorato la redazione per poter scrivere su LDP. Intabto si sfoga su: www.paleozotico.it

——————————————Giuseppe MiccoBepi: secco come un terno, Mon-sieur Le Bepo è il lottologo della compagnia. Dategli la vostra data di nascita e ne farà una fonte di reddito. Una volta all'anno da Monsieur diventa Mister: dei leoni indomabili, i Kullander United.

——————————————Stefano VenutoIl nuovo operatore che si è insedia-to a febbraio, ha ricevuto il batte-simo da "Zio Franco" che appena visto lo ha insultato e lui gli ha ri-sposto: "un attimo che appoggio la borsa e poi ne parliamo" da quella volta sono amiconi.

——————————————Dario CastellarinÈ il re del gadget. Volete la pen-na che piange? il portachiavi che ride? Lui li ha. E dietro la scorza da duro del Roadhouse ha anche una grande sensibilità

——————————————Franco De MarchiFrate mancato, tra i fondatori de-gli RdP, poeta cambusiere per sua stessa ammissione si è lavato qual-che volta il viso con gli occhiali da sole su. Oltre agli occhiali c'è una cosa da cui è inseparabile: la... po-lemica

——————————————Micaela HarejUna giovane donna passionale con due occhioni che incantano, ma non fatevi ingannare dal suo sguardo: vi darà filo da torcere. Da poco nominata fatografa ufficiale della redazione Ldp, oltre alle foto la sua passione è cambiare colore ai capelli.

A ridosso dello scadere del mandato, l'associazione I Ra-gazzi della Panchina e l'inte-ra redazione di LDP ringra-ziano l'amministrazione del sindaco uscente, Sergio Bol-zonello, per il sostegno dato al nostro progetto editoriale.

——————————————Alberto DanesinGentile, cortese ed educato come pochi. Inizialmente ci ha deliziato con delle marmellate biologiche, come ogni buon salutista. Ora si presenta in redazione con vassoi di paste alla crema e frittelle. Che voglia attentare alla nostra salute?

——————————————Andrea PiccoSu Fb alla voce orientamento reli-gioso ha scritto integralista juventi-no. Ora stiamo pensando di scrive-re a "chi l'ha visto?" per sapere che fine a fatto sia lui che la Juve. Ogni tanto ci arriva una mail che confer-ma la sua esistenza, come le poche vittorie della Juve.

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