L’azione caritativa di Santa Romana Chiesa

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L’azione caritativa di Sant Romana Chiesa L’azione caritativa di Santa Romana Chiesadi Federico Giacomini 23/02/2018 La storia del principio di sussidiarietà può essere identificata con la trama delle forme assistenziali assunte in Occidente. Anticamente infatti non esisteva un rapporto equilibrato tra l’opera di singoli e formazioni sociali da un lato e istituzioni politiche statali dall’altro. Fino dalla tarda antichità il mondo cristiano da vita ad un sistema assistenziale basato su una risposta di natura associativa, la quale traduce una pratica comunitaria diffusa, che dalla caritas evangelica, per la prima volta fa derivare uno ius hospitalis a tutti riconosciuto. Fino dal primo Medioevo (ultimo periodo imperiale) si assiste alla realizzazione di un “sistema di carità” formato da istituzioni libere ed autogestite le quali erano sostenute da decisioni personali e volontarie di chi sceglieva di far parte di una “associazione elemosiniera” o di dedicare la propria vita al servizio ospedaliero. Il rimando è alla antica visione positiva del povero, il quale era incarnazione del pauper Christi e della sua redenzione la quale si perpetua nelle membra sofferenti. L’azione caritativa rappresentava in un certo senso una possibilità concreta e privilegiata in un certo senso di salvare l’anima: gesto utile ai caritatevoli prima che ai beneficiari. Strutture permanenti di accoglienza chiamati xenodochia e poi hospitalia vennero fondate lungo le principali reti viarie e presso conventi, residenze episcopali, monasteri, sedi plebane (l’antica pieve, casa del popolo), in contesti nei quali i centri urbani rivestivano importanza minore. In queste sedi veniva praticato un ricovero largamente indifferenziato che era rivolto a malati cronici, anziani, invalidi e poveri. La figura giuridica entro la quale si collocava l’intervento caritativo, con la

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L’azione caritativa di SantaRomana ChiesaL’azione caritativa di Santa Romana Chiesadi Federico Giacomini 23/02/2018

La storia del principio di sussidiarietà può essere identificata con la trama delleforme assistenziali assunte in Occidente. Anticamente infatti non esisteva unrapporto equilibrato tra l’opera di singoli e formazioni sociali da un lato eistituzioni politiche statali dall’altro. Fino dalla tarda antichità il mondo cristianoda vita ad un sistema assistenziale basato su una risposta di natura associativa, laquale traduce una pratica comunitaria diffusa, che dalla caritas evangelica, per laprima volta fa derivare uno ius hospitalis a tutti riconosciuto.

Fino dal primo Medioevo (ultimo periodo imperiale) si assiste alla realizzazione diun “sistema di carità” formato da istituzioni libere ed autogestite le quali eranosostenute da decisioni personali e volontarie di chi sceglieva di far parte di una“associazione elemosiniera” o di dedicare la propria vita al servizio ospedaliero.Il rimando è alla antica visione positiva del povero, il quale era incarnazione delpauper Christi e della sua redenzione la quale si perpetua nelle membrasofferenti. L’azione caritativa rappresentava in un certo senso una possibilitàconcreta e privilegiata in un certo senso di salvare l’anima: gesto utile aicaritatevoli prima che ai beneficiari. Strutture permanenti di accoglienza chiamatixenodochia e poi hospitalia vennero fondate lungo le principali reti viarie e pressoconventi, residenze episcopali, monasteri, sedi plebane (l’antica pieve, casa delpopolo), in contesti nei quali i centri urbani rivestivano importanza minore. Inqueste sedi veniva praticato un ricovero largamente indifferenziato che era rivoltoa malati cronici, anziani, invalidi e poveri.La figura giuridica entro la quale si collocava l’intervento caritativo, con la

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sistemazione del diritto giustinianeo, era quella dell’opera pia. Una realtà che,pur agendo nella sfera civile, conservava in ragione della sua peculiare naturauna notevole autonomia e godeva di esenzioni in quanto beni della Chiesa,garanzie e notevole autonomia. Potevano disporre di donazioni, lasciti e usarerendite o patrimoni per i loro interventi assistenziali: forme molteplici di caritàfamiliare e personale venivano istituzionalizzate.Dopo l’ VIII-IX secolo questo tipo di organizzazioni assistenziali si inserivano inuna situazione sociale relativamente stabile: una situazione alimentare che nonera insoddisfacente ed assenza di epidemie favorirono una crescita demografica,legata verso un favorevole rapporto tra le risorse e la popolazione. La successivae straordinaria crescita delle città fu sostenuta da una rete assistenziale che siadeguò a nuove esigenze con la creazione di ospedali urbani da una parte, e unceto borghese e mercantile che sosteneva numerose confraternite elemosinieredall’altro. Gli ordini mendicanti protagonisti di tale azione furono i Domenicani,all’origine delle “misericordie” ed in molti borghi e città italiane i Francescani,con i “consorzi elemosinieri”. La povertà urbana trovò in molti casi efficacerisposta, al di fuori di un piano complessivo delle magistrature comunali, in unaprospettiva di sussidiarietà formatasi in modo spontaneo.A partire dalla metà del XIV sec., due elementi conducono ad un primocambiamento del sistema: peggioramento delle condizioni sanitarie e sociali conepidemie ricorrenti di peste, e sviluppo economico causa di ampia marginalitàsociale.La concezione della povertà si fa varia e nella letteratura umanistica (si veda il IIIcapitolo riguardante l’opera di J.L.Vives), volta ad illustrare conseguenze socialipotenzialmente pericolose e caratteristiche ambivalenti della stessa, si sottolineail bisogno di discernere le elemosine. Il contatto con idee precedenti tuttavia nonvenne perso, le stesse furono sempre riproposte da movimenti di riforma religiosae furono fatte proprie nell’epoca dell’umanesimo civile con la creazione di ufficicittadini di assistenza ed in Toscana e Lombardia vennero creati gli “ospedalimaggiori”.Tale ormai indispensabile ed inedito intervento di poteri laici ed ecclesiasticiconsentì una maggiore specializzazione, sia sociale che medica, pure collocandosiin un processo segnato da un “disciplinamento” religioso e sociale. Unacaratteristica di tale legislazione – la quale precedette in numerose città italiane,la successiva norma anglo-elisabettiana -, fu la distinzione tra poveri inabili(buoni) ed abili al lavoro (cattivi), i quali furono obbligati al lavoro in luoghi diinternamento. Fu rivolta una attenzione particolare ai poveri “vergognosi”, civili enobili decaduti.A queste categorie furono rivolte istituzioni ormai specializzate, che nel XVIsecolo si posero l’obiettivo di recludere le stesse a scopo rieducativo: vennerofondati gli “ospedali generali” in Francia, le “workhouse” in Inghilterra e Olanda,

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gli “alberghi dei poveri” nella penisola italiana. Con questi strumenti lapopolazione cittadina marginale trovò asilo e possibilità di lavoro, mentre la“reclusione”, spesso nei suoi effetti sopravvalutata e fraintesa, non esaurì lagamma degli interventi assistenzialistici in Europa e non presentò soluzioni dicontinuità con le tradizioni caritative delle comunità rurali e delle città. Leriforme cattolica e protestante offrirono un grande impulso attraverso le iniziativepromosse da gruppi legati a nuovi fermenti cristiani e all’umanesimo devoto. Icambiamenti attuati nel 500 – dall’Italia settentrionale alle Fiandre, dalla Bavieraalla Renania e alla Francia – risposero a fini morali e spirituali più che al controllosociale.Accanto alla rete di ospedali urbani, consorzi elemosinieri e monti di pietà,sorsero molteplici iniziative laiche e, negli Stati cattolici sorsero nuoveorganizzazioni religiose e nuove confraternite rivolte all’assistenza degli orfani. InEuropa si fondarono numerosi ospizi e ritiri per anziani, minori abbandonati,giovani donne, inabili, vedove, in un quadro di una sempre più viva sensibilità peri temi della famiglia e dell’infanzia. Le stesse prerogative ecclesiasticheriguardanti gli enti ospedalieri e assistenziali, affermate dal Concilio di Trento inuna continuità con la tradizione del medioevo, restarono interne ad un sistema ilquale riflesse posizioni largamente condivise, mentre furono sempre vive leautonomie legate alle corporazioni di mestiere, ai ceti, alle libertà locali. La primaaffermazione di statualità moderna si inserì in una trama di poteri articolati ediffusi, unici in grado di occuparsi dei problemi territoriali e delle sue componentiprofessionali e lavorative.

l Concilio di Trento o Concilio Tridentino fu il XIX concilio ecumenico, ovvero unariunione di tutti i vescovi del mondo, per discutere di argomenti riguardanti lavita della Chiesa cattolica. Esso avrebbe dovuto “conciliare” cattolici eprotestanti, durando ben 18 anni, dal 1545 al 1563, sotto il pontificato di tre papi.Si risolse in una serie di affermazioni tese a ribadire la dottrina cattolica che

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Lutero contestava. Con questo concilio venne definita la riforma della Chiesacattolica (Controriforma) e la reazione alle dottrine del calvinismo e delluteranesimo (Riforma protestante).

Non a caso, fra gli inizi del XVII secolo e la metà del successivo, l’Europa conobbeda una parte interventi di “ingegneria disciplinare” dell’assolutismo illuminato,ma dall’altro lo sviluppo di numerose iniziative basate sull’assistenza domiciliaree su un diretto rapporto con il povero, di perdurante ispirazione religiosa, nelsolco dell’esperienza confraternale. Alle istanze di rinnovamento diffuse nei paesiriformati, fece riscontro l’opera di san Vincenzo de’Paoli e l’azione delle religioseda lui fondate al di fuori del chiostro, mentre la spiritualità di san Francesco diSales diede un particolare impulso a una carità a sfondo sociale. Non è un casoche in quel periodo molte proposte di cambiamento giunsero da ambientireligiosi, miranti a una migliore organizzazione dei ricoveri, e più tardi, a ungenerale ripensamento del sistema caritativo. In tale prospettiva la scoperta del“sociale” – che portò a una sottolineatura della centralità del momento sanitario eospedaliero, nonché dell’importanza di un associazionismo libero da vincoli diceto – mise in discussione molte delle forme ereditate dal passato, ma non uncomune riferimento ideale.Come avvenne in Inghilterra con le “poor laws”, i tentativi di riforma si dovetteromisurare con un mutamento rispetto al quale si rese necessario un interventopubblico e i suoi caratteri di universalià e razionalizzazione. Se in Italia non sigiunse a sistemi di “carità legale”, si giunse comunque ad un ingresso dello Statoe non più solo dell’autorità cittadina nel campo della beneficienza pubblica. Difronte ad un processo sempre più rapido di crescita demografica e dimodernizzazione economica, con il conseguente aumento della povertà edisgregazione dei rapporti familiari, si imposero delle decise innovazioni.Andarono verso tale direzione molte voci di matrice illuministica, accompagnate avolte da accenti antipauperistici, anche se con Montesquieu non mancò chisostenne una estensione più coerente dei diritti nel sociale. Tale estensione furesa più urgente dai limiti imposti ai corpi intermedi, soprattutto in rapporto aidiritti tradizionali delle comunità, mentre gli ordini religiosi, le corporazioni e leconfraternite furono colpite dalla politica delle soppressioni con ricadute ovvie sultenore di vita di popolazioni rurali ed urbane.Due principali caratteristiche possiamo trovare nelle legislazioni assistenziali trala fine del 700 e gli inizi dell’800, nel tentativo, di ricreare la coesione sociale: sulpiano municipale la concentrazione degli istituti che porterà ai “bureaux debienfaisance” e in età napoleonica alle congregazioni di carità, ed in secondoluogo un intervento governativo diretto nella gestione degli enti, con nominapubblica degli amministratori e controllo diretto dei patrimoni, vistal’inadeguatezza e la diminuzione delle rendite e dei lasciti testamentari.

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Alla luce di nuovi indirizzi delle scienze sociali e mediche si crearono premesseper una nuova visione dell’ospedalizzazione, che non prevedeva più una curaindifferenziata, attraverso l’apertura di istituti per fronteggiare il problema dellapovertà. Aumentarono le possibilità di intervento e i governi se ne servironoampiamente, talora con un uso selettivo e discriminante dei sussidi elemosinieri.Soprattutto in relazione a un’inedita mentalità produttivistica, case d’industria edi ricovero allargarono notevolmente la loro capacità ricettiva ma, furonoutilizzate a fini del controllo territoriale e di polizia. In più di un’occasione,tuttavia, si arrivò a svolgere un’opera di assistenza immediata, sovente con ilricorso del lavoro a domicilio, nei confronti della povertà tradizionale e dellanuova marginalità sociale tipica delle città europee fra il ‘700 e l’800. Incertezzeteoriche si rifletterono sul piano pratico, in sostituzione delle disgregate forme disolidarietà, al dovere dello Stato di occuparsi dei bisogni non corrispose un dirittoall’assistenza se non per il breve periodo del giacobinismo nella Franciarivoluzionaria.Nel periodo della Restaurazione si cercò un diverso equilibrio, con i gruppidirigenti che mantennero il controllo dello Stato sulle istituzioni di beneficienza,ma allo stesso tempo favorirono impostazioni paternalistiche basate su unapolitica sociale fatta di lavori pubblici e sussidi familiari, mutuo soccorso, ospedalie ricoveri. Tali scelte si rivelarono del resto insufficienti, in un processo diindustrializzazione e modernizzazione economica, e questo non poté che riaprirespazi per l’iniziativa religiosa e privata. Le chiese tornarono in primo piano e,dopo le soppressioni del 700 e dell’età napoleonica, si registrò una diffusione diordini religiosi, soprattutto femminili, dediti alla rieducazione, all’istruzionepopolare, all’assistenza ospedaliera e privata.A tale fenomeno di amplia portata si accompagnò sovente un associazionismolaicale che diede vita a forme di soccorso originali soprattutto verso le forme dipovertà causate dall’urbanesimo come la devianza giovanile e il disagio familiare.Su tali basi si svilupparono ulteriori progetti nel campo del credito popolare, dellacooperazione in agricoltura, del mutuo soccorso operaio, i quali costituirono unarisposta coraggiosa ed aperta alle necessità del tempo.Tutto l’800 conobbe dunque un incremento di opere sociali, con la fondazione digradi istituti medici specializzati anche nel campo pedagogico, frutto di unanascente filantropia laica e di una rinnovata coscienza religiosa, unite neltentativo di un contenimento dei costi elevati del “progresso” celebrato da tanteparti. Diverse ispirazioni animarono una vasta gamma di iniziative, in un concettodi sussidiarietà costruita dal basso in grado di intervenire sulla politica.Sul finire del secolo furono introdotte delle prime norme legislative di rilievo nelcampo previdenziale, infortunistico, mutualistico-sanitario, di tutela dell’infanzia edella maternità coniugando seppur con tensioni le richieste dei movimenti diispirazione democratico-cristiana e socialista. Con la Lettera enciclica Rerum

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novarum del Pontefice Leone XIII (che sarà trattata nel cap.IV) si incoraggiò taleprospettiva prendendo le difese dell’associazionismo e del particolare ruolo deicorpi intermedi.

Nell’immagine: miniatura sul ritratto di Papa Leone XIII (particolare). Papa LeoneXIII (1810 – 1903) è stato il 256º Papa della Chiesa cattolica (dal 1878 alla morte).È ricordato nella storia dei Papi dell’epoca moderna come Pontefice che ritenneche fra i compiti della Chiesa rientrasse anche l’attività pastorale in campo socio-politico. Se con lui non si ebbe la promulgazione di ulteriori dogmi dopo quellodell’infallibilità papale solennemente proclamato dal Concilio Vaticano I, egliviene tuttavia ricordato quale Papa delle encicliche: ne scrisse ben 86, con loscopo di superare l’isolamento nel quale la Santa Sede si era ritrovata dopo laperdita del potere temporale con l’unità d’Italia. La sua più famosa enciclica fu laRerum Novarum con la quale si realizzò una svolta nella Chiesa cattolica, ormaipronta ad affrontare le sfide della modernità come guida spirituale internazionale.In questo senso correttamente gli fu attribuito il nome di “Papa dei lavoratori” edi “Papa sociale”, infatti scrisse la prima enciclica esplicitamente sociale nellastoria della Chiesa cattolica e formulò quindi i fondamenti della moderna dottrinasociale della Chiesa.

L’evoluzione legislativa della fine del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo costituìindubbiamente il punto d’arrivo dell’azione pubblica nel settora dell’assistenza ein molti casi gli stati si orientarono in questo senso dopo l’esempio della Germaniabismarckiana. Al tempo stesso la rete degli istituti di beneficenza e delle opere piefu ovunque posta sotto il controllo statale, come avvenne in Italia con la leggeCrispi del 1890. Fu il risultato paradossale di un intervento statale di risposta alleattese sociali e che per molti aspetti le deluse, anche se l’associazionismo non

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perse vitalità e continuò ad esercitare un ruolo fondamentale nella risposta albisogno.Alla vigilia della I guerra mondiale, la formazione della società di massa, impose ilpassaggio ad una fase ulteriore caratterizzata da un’estensione dei servizi diassistenza ai lavoratori e alle loro famiglie. Dagli anni ’30 si accompagnò unaforte crescita delle spese per i servizi sanitari e mutualistici divenuti obbligatori,mentre si delinearono i primi sistemi di welfare state in riferimento al modelloinglese, su base universalistica e fondato sul diritto di cittadinanza. I movimentipolitici sociali e le chiese cristiane sostennero con convinzione l’idea del welfarestate, pur in una varietà di proposte ed in difesa del proprio spazio d’iniziativa.I sistemi occidentali hanno in genere sviluppato tali premesse, raggiungendoinnegabili risultati di socialità e di democrazia. Il sacrificio sovente imposto alleforme autonome di organizzazione e il peso attribuito all’azione pubblica–controllata e in molti casi direttamente esercitata da istituzioni dello stato o dialtri enti territoriali- rappresentano tuttavia elementi problematici dall’iniziolatenti e palesi di fronte alla più recente crisi del welfare state. Si tratta di unacrisi certo dovuta a fattori esterni – di natura finanziaria, fiscale, demografica -,ma che è non di meno legata alla crescente difficoltà di rispondere a esigenze nonriconducibili alla sfera economica e non affrontabili da un’autorità politicacentrale e inevitabilmente lontana. Non a caso non è mai venuta meno e si è anzisempre più affermata la necessità di lasciare spazio ai soggetti della società civile,riaffermando il valore della sussidiarietà, in rapporto alle politiche dello Statomoderno, come fondamento di un intervento efficace e come espressione dellalibera iniziativa delle formazioni sociali.Per approfondimenti:

_Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est (2005);_Boezio S., Liber de persona duabus naturis contra Eutychen et Nestorium, adJoannen Diaconum Ecclesiae Romanae;_Bortoli B., I giganti del lavoro sociale, Erickson, Trento (2006);_Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano2000;_Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes (1965), AAS 58(1966);_Concilio Vaticano II, Dichiarazione Gravissimum educationis (1965), AAS 58(1966);_Dal Pra Ponticelli M., Dizionario di Servizio Sociale, Carocci Faber, Roma (2010);_Dal Pra Ponticelli M., Pieroni G., Introduzione al Servizio Sociale, Carocci Faber,Roma 2005;_Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Familiaris consortio (1981), AAS 74(1982);_Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus (1991), Libreria editrice

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vaticana (1991);_Giovanni XXIII, Lettera enciclica Mater et Magistra (1961), AAS 53 (1961);_Giovanni XXIII, Lettera enciclica Pacem in terris (1963), AAS 55 (1963);_Leone XIII, Lettera enciclica Rerum novarum (1891), AAS 23 (1890-91);_Lombo J.A., F. Russo, Antropologia filosofica. Una introduzione;_Magagnotti P., Il principio di sussidiarietà nella dottrina sociale della Chiesa,Edizioni Studio Domenicano, Bologna (1991);_Maritain J.. La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia (1963);_Paolo VI, Lettera apostolica Octogesima adveniens (1971), AAS 63 (1971);_Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio (1967), AAS 59 (1967);_Pio XII, Radiomessaggio al VII congresso internazionale dei medici cattolici(1956), AAS 48 (1956);_Pio XII, Radiomessaggio natalizio sul problema della democrazia (1944), AAS 37(1945);_Pio XI, Lettera enciclica Quadragesimo anno (1931), AAS 23 (1931);_Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della DottrinaSociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004;_Villa F., Dimensioni del Servizio Sociale, Vita e pensiero, Milano (2000);_Vittadini G., Che cosa è la sussidiarietà, Guerini e associati, Milano (2007);_Vives J.L., De subventione pauperum, Fabrizio Serra, Pisa-Roma (2008);_San Tommaso d’Aquino, Commentum in librum III Sententiarum;_San Tommaso d’Aquino, Summa Theologicae;_Vanni Rovighi S, Elementi di filosofia, vol. 2, La Scuola, Brescia (1995);_Vanni Rovighi S., Elementi di filosofia, vol. 3 , La Scuola, Brescia (1995);_Utz A.F., Die geistesgeschichtlichen Grundlagen des Subsidiaritatsprinzip, in UtzA.F.(a cura di), Das Subsidiaritatsprinzip, Kerle, Heidelberg, 1953, (trad. it. InA.F.Utz (a cura di), Il principio di sussidiarietà, a cura di P.Del Debbio, trad. it. DiG.Lacchin).

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Antropologia lavorativaAntropologia lavorativadi Gabriele Rèpaci 25/01/2018

«Una delle caratteristiche dell’èra economica secondo i suoi aspetti più squallidi e

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plebei è appunto questa specie di autosadismo, che consiste nel glorificare illavoro come valore etico e dovere essenziale, e nel concepire sotto specie dilavoro qualsiasi forma di attività». Così si esprimeva Julius Evola nella sua celebreopera Gli Uomini e le Rovine (1953).Nell’epoca moderna infatti, a differenza che nelle società antiche, il lavoro cessadi essere qualcosa che si impone semplicemente per soddisfare delle esigenzemateriali per divenire fine a se stesso: una condanna a cui l’uomo è costretto persoddisfare i propri bisogni materiali – «ti guadagnerai il pane col sudore della tuafronte» è scritto nella Genesi – esso diventa un valore intrinseco.

La storia della modernità è la storia dell’imposizione del lavoro, che ha lasciatosull’intero pianeta una lunga scia di desolazioni e orrori. Ci sono voluti diversisecoli di aperta violenza su larga scala per sottomettere gli uomini al servizioincondizionato dell’idolo del lavoro.

Nell’Antichità europea, il lavoro veniva disprezzato proprio perché eraconsiderato il luogo per eccellenza dell’assoggettamento alla necessità. Taledisprezzo lo troviamo tanto nei Greci e nei Romani quanto nei Traci, nei Lidii, neiPersiani e negli Indiani. In Grecia soprattutto esso era percepito come un’attivitàservile, che in quanto tale, era in antagonismo con la libertà, e quindi con lacittadinanza. Tanto è vero che in greco il termine ponos che sta ad indicarel’attività lavorativa era sinonimo di sforzo, fatica, pena e sofferenza.Lo stesso stato d’animo vigeva a Roma. Sul lavoro, il filosofo Seneca asserivacome «è privo d’onore e non potrebbe rivestire neppure la più sempliceapparenza dell’onestà», se l’attività si presentava manuale.Cicerone aggiunge che «il salario è il prezzo di una servitù», che «niente di nobilepotrà mai uscire da un negozio», che «il posto di un uomo libero non è inofficina». La lingua latina distingue nettamente il labor, che evoca il lavoropenoso ed oppressivo, e l’opus, l’attività creativa. “Lavorare” (laborare) ha spessoil significato di “soffrire”: «laborare ex capite», “soffrire di mal di testa”.Viceversa la parola otium non designa affatto la pigrizia o il fatto di “non fareniente”, bensì l’attività superiore orientata verso la creazione, di cui il commerciorappresenta la negazione (negotium, “negozio”).Quanto alla parola moderna francese travail, essa scaturisce dal termine

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tripalium, che in origine era uno strumento di tortura.Pur senza volere operare un’idealizzazione del passato, il sociologo francese AlainCaillé ritiene che «l’immagine del paradiso perduto e dell’Età dell’oro forse non èesclusivamente mitica come in genere si crede»: tutte le ricerche etnograficheconcordano nel dimostrare che in quel che resta delle società “selvagge” il tempodi lavoro medio non supera mai quattro ore al giorno. «La maggior parte deltempo è dedicata al sonno, al gioco, alle chiacchiere o alla celebrazione dei riti».Queste società capaci di limitare i loro bisogni, non si preoccupano affatto diaccumulare: se per caso diventano più produttive, non aumentano la produzionema il tempo dedicato agli ozi (nota 1).Sarebbe sbagliato vedere in questa svalutazione del lavoro semplicemente ilriflesso di una visione gerarchica della società e la conseguenza della “comodità”,rappresentata dall’esistenza di schiavi; essa esprime, in realtà, un concetto moltopiù importante: la libertà – come d’altra parte anche l’eguaglianza – non puòrisiedere nella sfera della necessità e che vi è autentica libertà solonell’affrancamento da tale sfera, ovverosia al di là dell’economico.L’idea contemporanea del lavoro ha origine con il capitalismo manifatturiero. Sinoa quel momento, cioè sino al secolo XVIII, il termine “lavoro” (labour; Arbeit,travail) designava la pena dei servi e dei giornalieri, che producevano beni diconsumo o servizi necessari alla vita, che dovevano essere rinnovati giorno dopogiorno, senza che nulla potesse essere dato per acquisito.Gli artigiani, che fabbricavano oggetti durevoli, accumulabili, che gli acquirenti diregola trasmettevano ai posteri, non “lavoravano” “operavano” e nella loro“opera” potevano utilizzare il “lavoro” di uomini di fatica, chiamati a svolgerecompiti grossolani. La produzione materiale non era dunque, nell’insieme, rettadalla razionalità economica.Nessun secolo più del Novecento ha fatto del lavoro il proprio idolo. Tutti iprincipali partiti politici dell’epoca moderna, incluso quello nazista, sono statipartiti dei lavoratori. Socialisti e conservatori, democratici e fascisti si sonocombattuti fino all’ultimo sangue, ma per quanto fossero nemici mortali hannosacrificato le loro divergenze per concordare sulla necessità di promuoverel’ideale che “il lavoro rende liberi” che ha trovato eco nella macabra iscrizionesopra l’ingresso del lager di Auschwitz.

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Wall Street è un film del 1987 diretto da Oliver Stone e prodotto negli Stati Unitidalla 20th Century Fox. Nel fotogramma l’attore statunitense Michael Douglasveste i panni di Gekko

Benché Marx nella sua Critica al Programma di Gotha (1875) avesse affermatocontro Lassalle che non il lavoro, bensì la natura era la fonte di ogni ricchezza,l’ideologia marxista – così come i regimi comunisti – ha sempre esaltato il lavoroquale strumento di liberazione dell’uomo dal regno della necessità. In un brevema illuminante articolo – elaborato su richiesta di Enrico Bignami, direttore de LaPlebe – dell’ottobre 1872, Sull’autorità, Engels sostenne che la fabbrica è un fattonaturale della tecnica, non un modo specialmente borghese per razionalizzare illavoro: di conseguenza, essa sarebbe dovuta esistere tanto in una societàcomunista come in quella capitalista, «indipendentemente dall’organizzazionesociale».Nella società classista e nella società senza classi, la dimensione della necessitàsarebbe stata sempre una dimensione di autorità e obbedienza, di governanti egovernati. Gli esisti funesti di tale concezione furono evidenti nell’UnioneSovietica, in particolare sotto Stalin, dove Aleksej Grigor’evič Stachanov (1906 –1907) venne celebrato quale “lavoratore modello” ed esempio per tutti gli operaisovietici.

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Aleksej Grigor’evič Stachanov (1906 – 1977) è stato un minatore sovietico. Lavorònelle miniere di carbone della regione di Donbass nel bacino del Donec (alloraappartenente all’Unione Sovietica ed attualmente in territorio ucraino), fu eroedel lavoro socialista (1970) e membro del Partito Comunista dell’Unione Sovietica(1936).

Il dittatore georgiano in un suo celebre discorso disse: « […] Il movimentostacanovista rappresenta l’avvenire della nostra industria, reca in sé il germe delfuturo slancio culturale e tecnico della classe operaia e ci apre la sola strada perla quale possiamo raggiungere quegli alti indici produttivi indispensabili perpassare dal socialismo al comunismo ed eliminare il contrasto tra lavorointellettuale e lavoro manuale».Il marxismo, in tutte le sue varianti, non è mai riuscito a comprendere che lafabbrica non è mai stata il regno della libertà; piuttosto è sempre stata quel regnodella sopravvivenza, della “necessità”, che svuotava il mondo umano attorno a sé.Alla sua nascita si oppose l’aspra resistenza degli artigiani, delle comunitàagricole e in genere di tutto un mondo più comunalistico e a misura umana.L’obiettivo che dobbiamo porci oggi, non è dunque rinunziare a lavorare, bensìoperare una modalità edificante di società differente, in cui non si viva più perprodurre, ma si produca per vivere. La riduzione del carico di lavoro può tuttavia,all’interno di una società consumista come la nostra, produrre effetti nefasti.Dato l’economicismo dominante, capita purtroppo molto spesso che il tempo nonlavorativo, quando non è divorato dalle costrizioni della vita moderna (trasporti,burocrazia ecc., in breve quello che Ivan Illich ha definito lavoro fantasma), èconvertito in un’attività commerciale (lavoro nero) o nel consumismo dei servizi

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commerciali.L’allungamento della durata della vita in Occidente, a partire dal 1950,corrisponde a circa tre ore in più per ogni giorno, ma questo coincide più o menocon il tempo medio che un europeo passa davanti al televisore ed è pari al doppiodel tempo che un francese passa al volante o su un mezzo di trasporto. Il buon usodel tempo liberato, guadagnato sul tempo di lavoro, non è così scontato in unasocietà logorata dal produttivismo. Se sono diventate droghe non solo il consumo,ma anche il lavoro (workaholics, dicono gli americani), questa nuova libertà puòessere causa di angoscia.L’uscita dal sistema produttivistico e lavoristico non può quindi che comportarel’edificazione di un organizzazione sociale completamente diversa, in cui sidevono organizzare – accanto al lavoro, il tempo libero e il gioco e in cui lerelazioni fra gli esseri umani vengano prima della produzione e del consumo diinutili -, dannosi prodotti a perdere.Ed è evidente che per fare ciò, l’attuale modo di produzione capitalistico deveessere rimpiazzato da una società ecologica fondata su relazioni non gerarchiche,su comunità decentralizzate, su eco tecnologie come l’energia solare, l’agricolturaorganica e industrie a misura umana, ovvero su forme di insediamento realmentedemocratiche, nonché economicamente e strutturalmente coerenti conl’ecosistema in cui si trovano collocate.Mai come oggi risultano attuali le parole di Friedrich Nietzsche il quale scrisseoltre un secolo fa : «In fondo […] si sente oggi che il lavoro come tale costituiscela migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente ilpotenziarsi della ragione, della cupidigia, del desiderio d’indipendenza. Essologora straordinariamente una gran quantità di energia nervosa, e la sottrae alriflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare».(Nota 2).

Note:_Nota 1: cfr. A. Caillé, Critica della ragione utilitaria, Bollati Boringhieri, Torino,pp. 63-64;_Nota 2: cfr. F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, 1881.© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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Sul concetto di limen-limes esull’idea d’EuropaSul concetto di limen-limes e sull’idea d’Europadi Giuseppe Baiocchi 05/12/2017

Se non arriveremo ad una società civile, nel pieno senso del temine, consapevolee intollerante verso la drammatica percentuale di giovani laureati – la più bassa inEuropa -, tale sistema sarà destinato ad una inesorabile decadenza. Il nostrosistema politico nazionale, attualmente inetto nell’apprensione di tali banalità,deve percepire queste nozioni da un grande movimento di opinione pubblica.Senza questa innovazione il nostro destino – della ricerca universitaria,dell’investimento sul diritto allo studio -, in questo paese, è segnato. Già oggi èvisibile: chi ha possibilità manda i figli all’estero o li trasferisce in struttureprivate. Sarà sempre più così se non si stabilisce che lo studio è la priorità di unpaese. Si badi bene, non un amore di “sapere”, in termini così vagamenteumanistici: il sapere è potere, ed è “potere” soprattutto per noi giovani: se nonsappiamo, non possiamo. Potere-sapere è in realtà un unicum, ma in Italia, perriprendere Machiavelli, chi può non sa e chi sa non può.Oggi il problema del luogo e del confine è la grande tematica europea, che spessonel Sud Italia ha tonalità tragiche. Oggi la questione del “confine” nel nostrocontinente appare sempre più tradursi in termine di “barriera”, “muraglia”, “filospinato”, “muro di ferro”. La paradossalità europea – la quale da tre millenni,abbatte confini, frontiere, al grido del motto “Sempre oltre” caro a Carlo V –consta nell’essere “Leone affamato”, per riprendere Hegel.

Frans Francken II, Allegoria dell’abdicazione di Carlo V.

Ora questa Europa si muraglia, si imprigiona di fronte a processi ditrasformazione epocale e globale. Quella cultura europea – la quale ha viaggiatoper tre millenni, spezzando confini, trasgredendo ogni limite, non ci trasmette

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segnali di decadente pazzia?Tuttavia bisogna riconoscere la problematicità della questione, non possiamosemplicemente contrapporre a chi vuole innalzare impotenti barriere, il discorsobuonista dell’accoglienza che genera unicamente una sarabanda: non è con la“confusione” che ci si oppone alle muraglie. Bisogna tornare a ragionare,partendo nel rimettere ordine nelle parole che usiamo. La base e fondamento diun pensiero filosofico consiste prima di tutto nel comprendere che cosasignifichino le parole. Oggi la politica afferma molti concetti, ma a vanvera, senzacapire ciò che dice.Partiamo da “limite” e “confine”: non è barriera. Il limen, in latino, è la soglia:quell’elemento della casa che si tra-duce dall’interno e dall’esterno. Il limespossiede un altro significato che crea una prima problematica al rapporto, ma siaesso soglia o limes, contiene un luogo: il confine termina con un luogo. Ma checos’è un luogo? Aristotele nella “Fisica”, suo grande libro filosofico del IV secolo,afferma come “nessun concetto è più difficile di quello di luogo”, topos (dal grecoτόπος). Questa parola che sempre crediamo di conoscere, finché non ciinterroghiamo su di essa; come il “Tempo” nelle confessioni di Agostino.Il luogo è quello spazio che noi costruiamo con il nostro movimento, l’individuonon è un primate in gabbia. Dove si trova il luogo? Dove si volge l’uomo con ilproprio movimento e sguardo, questo definisce il luogo: lo spazio dove giunge ilnostro sguardo; l’orizzonte mutevole è determinato dal moto umano. Il luogo nonha nulla di immobile, non può essere concepito come qualcosa di fermo, a meno dinon concepirlo come una scimmia all’interno di una gabbia.L’uomo si è evoluto dalla scimmia, poiché dove giunge il nostro sguardo, il nostromovimento, possiamo capire l’essenza di luogo. Ancora nel riprendere Aristotele,questo affermava che il concetto di luogo ha relazione con eschaton, dell’ultimo: ilnostro luogo è situato dove “all’ultimo” giunge il nostro sguardo, la punta. Difattiil termine tedesco per luogo è ort, ricorda esattamente questo concetto a livellotoponimo, “il paese ultimo”, “il paese che sta in punta”: lì è il luogo!

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Jacques Perrin interpreta il St.Te. Giovanni Drogo nel film “Il deserto dei Tartari”del 1976 di Valerio Zurlini.

Il luogo lo costruiamo con il nostro movimento, non è un dato, è un fatto! Lariflessione che dobbiamo porci, ci riconduce al quesito: che luogo vogliamocreare? Non il luogo in cui siamo stati collocati, come i primati nella gabbia di unozoo. Fin dove vuole giungere il nostro sguardo? Fin dove possiamo muoverci?Questo è il luogo e questa deve essere l’Europa: deve affermare con chiarezza,dove vuole andare.Vogliamo recarci sul Mediterraneo? Oppure vogliamo chiuderci? Dove vogliamoandare? Il nostro sguardo fin dove giunge? Qual è il suo ultimo? Sono duegenerazioni che l’Europa non comprende questo “essere luogo” ed è per questoche ha perso ogni politica mediterranea, per questo compie figure indecentiall’Est e al Sud del suo limen, ed è per tale motivazione che quando si sposta inaltri continenti viaggia al seguito di altri.Questa è la tragedia che stiamo vivendo: l’Europa non possiede uno sguardo chedelinea il proprio luogo. Così se il nostro luogo non viene generato muovendoverso di esso, necessariamente alla fine vogliamo imprigionarci, rendendo il luogomero contenitore. Se non sentiamo il movimento che opera il nostro luogo,automaticamente ci inscatoliamo: Tertium non datur!Questo è il discorso che l’Europa deve iniziare a comprendere, partendo dal suolinguaggio. Quando affermiamo topos, esprimiamo questo dato pensiero: questovolgersi in questo movimento, dove l’individuo definisce le proprie soglie. Quandol’uomo giunge al suo ultimo diviene cum finis, confinante, tocca l’altro.Quell’orizzonte, è il limen, la soglia, ed allora si entra in relazione con l’altro date. Questo significa distruggere il luogo? No. Questo significa non avere case?

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Non avere identità? Nient’affatto: significa – di contro – avere un’identità cosìforte, così sapiente da riuscire a svolgersi fino a quel “limite”, fino alla sua soglia,dove si entra in relazione con l’altro.Luogo diventa nomen relationis (nome delle relazione), se svolto in questi termini.Platone amava affermare, nel Simposio, che il ruolo della filosofia è oikos, non hacasa, si muove come l’eros, ma tale affermazione non deve essere letta in chiavenomadica – anche il nomade ha la sua abitazione: il tappeto, il quale è orientatocome un’abitazione e possiede disegni che ricordano il focolare domestico. Ilnomade non è senza casa, si porta dietro la casa. L’uomo occidentale non puòvivere senza la sua abitazione. Non opero un discorso sullo sbaraccamento dellacasa (la demolizione delle baracche, quelle sì), ma intendo questa proprio “sullasoglia”.Infatti Platone parlava di “oikos sulla soglia”, ma se vi è quest’ultima deve esserepresente sempre anche un’abitazione. Il luogo è proprio la casa con la sua soglia,con le sue porte e le sue finestre: lo spazio aperto per definizione è la piazza.“Open space” tanto caro agli anglofili, non può essere che “open”, lo spazio.Dunque sì alla casa, ma dove questa sarà tanto più costruita così stabilmente, dafarla giungere al suo ultimo e lì entrerà in rapporto e in relazione. Questo è losforzo che dobbiamo fare, che deve fare l’Europa e questa idea di luogo devenascere da quei “luoghi” che noi chiamiamo Università.Oggi difendiamo pateticamente le nostre eredità, senza investirle nella ricerca enella giusta ridefinizione del nostro essere europei. Siamo drammaticamentecolpiti dalla mancanza di una cultura politica, che indirettamente condannal’Europa a sopravvivere di sola moneta. E’ impossibile che il realismo politico vivadi sola moneta, assolutamente impossibile, anche se fosse gestita dai miglioribanchieri del mondo. Un organismo politico può vivere solamente in quella idea diluogo che ho appena descritto. Quale dramma ci aspetta se questa prospettivanon si apre? L’Europa, che dell’Occidente rimane cuore e cultura, rischia diconcepirsi come una casa in cui si esclude il suo essere confine e il suo essere inrelazione.Una casa che non affronta come problema strategico la relazione con l’altro, cadenella tragedia. Si è già profilata un’Europa chiusa, che non si concepisce comecasa in relazione, casa soglia, spazio-confine e “fuori” di questo spazio chiuso:l’inferno. L’Occidente è accerchiato da popolazioni assolutamente proletarizzate.O affrontiamo il problema dell’altra sponda o ci arrendiamo all’assedio versomasse di proletari non occidentali, ma di individui di altra cultura, di altra civiltà:un soverchiante doppio assedio. Tali paesi denominati “del terzo mondo” vivonouna situazione storica di epocale sconfitta. Nel rapporto con questa storicità,diventata tragico-drammatica, noi facciamo finta di dimenticare la storia.Dobbiamo riconoscere questa situazione psicologico-culturale.

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Pietro Canonica, L’abisso – 1907-1909 (particolare).

Le nostre democrazie, uscite dalla seconda guerra civile europea, promisero aqueste masse un certo sviluppo economico, un diverso sviluppo sociale, unadeterminata scuola politica, che – in una decisa prospettiva – sarebbe stata da noieuropei favorita, promossa: si era promesso questo! Abbiamo tragicamentedisatteso tutti questi progetti e ciò aggrava la situazione.Per citare il britannico Arnold Joseph Toynbee “è il fallimento degli erodiani”,ovvero di coloro che cercarono una mediazione tra civiltà romana e l’altra. Glierodiani, all’interno delle diverse culture dell’altra sponda, sono stati sconfitti emassacrati: l’Europa assisteva cieca.Dobbiamo fare metànoia, altrimenti l’Europa – senza un contraccolpo netto, unaconversione netta (laica o religiosa), un cambiamento di mente rispetto a quelloche è stata nei confronti del Mediterraneo, nei confronti dell’altra sponda e neiconfronti di se stessa (poiché ha tradito il suo concetto di luogo) –, non ha futuro.Senza tutto ciò, oggi non possiamo trovare una soluzione, poiché la situazione si èmolto aggravata sul nostro territorio nazionale in chiave migranti. Il conflitto èdivenuto ancor più tragico: l’Europa ha nella sua cultura, nel suo sapere e nellasua scienza, nelle sue Università, la soluzione. Tale discorso deve partire dall’AulaMagna di ogni centro Universitario europeo: l’Europa, nel medioevo, è nata in taliluoghi.La nuova Europa, quella veramente moderna, è ripartita da questa ambizione di“luogo europeo” e “logos europeo” filosofico-scientifico. Questo principio-speranza deve trasmetterci la scintilla per ripartire, altrimenti presto o tardisaremo tutti condannati alla decadenza. I nostri muri sono destinati ad esserespazzati via, proprio perché barriere, proprio perché albergano ragioni materiali,semplicemente demografiche. Ripetiamo la storia! E’ già accaduto: riproporre ilmodello universitario europeo del 1100 d.C. e il 1.200 d.C.. Da lì è nata l’idea diEuropa e dalle nostre Università dovrà rinascere l’Europa del domani.

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Crisi e metamorfosiCrisi e metamorfosidi Alessandro Poli e Maurilio Ginex 14/11/2017

Un tema annuale incentrato sui due termini Crisi e Metamorfosi pare naturale perun’associazione quale DAS ANDERE, legata al nome dell’architetto viennese AdolfLoos, protagonista e contemporaneo dell’architettura mitteleuropea, e spettatoredella finis Austriae. Questo momento epocale non indica però soltanto un periodostorico coincidente con lo scoppio della prima Guerra Mondiale (1914) e il crollodell’Impero asburgico, ma è la metafora della fine di un mondo, della crisi emetamorfosi del mondo di ieri caro a Stefan Zweig: la fine venne imposta dalsenso di cambiamento, dalle inquietudini e dalle perplessità che cominciavano afarsi strada dal termine dell’Ottocento e, prendendo a prestito gli studi di AldoGiorgio Gargani sull’ambito filosofico e scientifico della Fine Austria, da un saperesenza fondamenti, da una cultura che congeda definitivamente il primato dellasoggettività moderna e le sue certezze.

Quell’epoca, di contro, sembra parli ancora di noi e dell’oggi, avendo molto incomune con i timori che viviamo in quest’inizio millennio. C’è indubbiamenteun’analogia tra l’epoca di Wittgenstein, Heidegger, Musil o Kafka e la

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contemporaneità. Siamo forse ancora immersi nel temibile e atroce destino diSamsa, il protagonista de La metamorfosi, che trovandosi con le sembianze di unoscarafaggio vive l’impatto con il mondo che lo individua come un estraneo. Kafka,con Gregor Samsa, costruisce un paradigma per una società in crisi, poiché in luiconfluisce l’angoscia di fronte a un mondo che ti vede scollato dagli schemiconvenzionali, un “diverso” drammaticamente distante ed estromesso dallasocietà. Così, l’apparente naturalità del tema scelto, se messa in rapporto alladecennale crisi globale e a quella subita dal territorio Piceno, martoriato dalterremoto, diventa un dovere, un’urgenza e un bisogno riflessivo non piùprorogabile.Il concetto di crisi racchiude difatti in modo pervasivo la vita dell’individuoodierno. La crisi ha causato le innumerevoli e drammatiche storie di uomini chenell’oblio esistenziale, per mancanza di occupazione, tentennano nel perdersi ono. La crisi è il sintomo di un male collettivo, di una società con minori punti diriferimento rispetto al passato e sempre più proiettata nel calderone dell’oblio deidiritti. La crisi economico-finanziaria ha portato la società a snaturarsi dallapropria spontaneità nel condurre l’esistenza. L’economia è diventata la strutturaegemonica dell’essere umano poiché è proprio in conformità a essa che oggi sicontano le mancanze individuali. La crisi genera un cambiamento radicale, unametamorfosi dell’approccio stesso alla vita e bisogna percepirla come una forzaagente, la quale forgia le coscienze nella loro evoluzione morale, etica, sociale,tecnica e inventiva.

Di là dal fenomeno prettamente economico, la crisi ha quindi invaso lo spirito

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globale, nazionale, individuale e locale. L’autenticità dell’essere è minata ediventa un coraggioso eroe chi, di fronte a una crisi normalizzata nel suo svilupposenza soluzione, sceglie a partire da se stesso e non dall’imposizione degli stimoliesterni; è sempre lo spirito che deve cambiare, perché lo spirito veicola l’agire diuna comunità tesa al miglioramento.Le tensioni economiche e politiche nazionalie continentali sono poi diventate ancor più forti in uno specifico luogo come ilPiceno, colpito nel 2016 da forti terremoti. E oggi, a oltre un anno di distanza dalsisma, sono ancor più visibili i suoi effetti: dopo i danni strutturali, architettonici,abitativi e paesaggistici – fin da subito evidenti – sono pian piano emersi quellipsicologici, affettivi ed economici. Il deterioramento e la metamorfosi del tessutosociale, spirituale ed economico, sono ormai evidenti.

Ma se provassimo ad operare lo sforzo di intendere il concetto di crisi in terminidi cambiamento, si potrebbe riflettere sull’intento di concedere una valenzapositiva alla questione trattata. La crisi è anche da intendersi come qualcosa che,quando si manifesta, oltre a spezzare un equilibrio precedente porta in grembo lacapacità di creare un cambiamento, una metamorfosi che può imboccare duestrade: l’una quella dello “sviluppo” del male collettivo che la crisi ha generatonell’immediato, dunque senza margini di miglioramento rispetto al prima, l’altrache parla di un “progresso” rispetto a una condizione precedente e di unmutamento positivo che prevede un passo avanti della civiltà.D’altronde, l’etimologia greca e latina della parola “crisi” ci ricorda i suoisinonimi originari, che sono scelta, decisione, giudizio e per quanto nell’usocomune abbia assunto un’accezione negativa, si può ritrovare nella parola “crisi”una sfumatura positiva in quanto momento di riflessione, valutazione,discernimento, comprensione – tutti presupposti per una possibile rinascita.E la stessa metamorfosi – consequenziale alla crisi – è innata nel DNA dell’uomopiù di quanto si pensi: è la sua prima natura. La metamorfosi è la modificazionestrutturale o funzionale di un organismo vivente. In zoologia è l’insieme deicambiamenti, talora profondi e complicati, che subiscono organismi di moltigruppi animali al termine del loro sviluppo embrionale, per raggiungere la formadell’adulto. E il cambiamento metamorfico inteso come trasformazione di unessere o di un oggetto in un altro di natura diversa, è l’elemento tipico di raccontimitologici o di fantasia, già consacrato e chiaro in quell’enciclopedia dellamitologia classica che sono Le metamorfosi di Ovidio.Dunque, in un futuro prossimo ci attende un rinnovamento del sapere, forse dellatecnica (si spera), sicuramente del tessuto urbano, economico e socio-locale; ma ilmondo di ieri non va nostalgicamente rimpianto o ricostruito com’era. La crisicostringe a una revisione di programmi, ma non solo al ripiegamento; costringe auna libertà in grado di incarnare e realizzare il potere delle metamorfosi. Un

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“sistema critico” è un sistema in bilico tra ordine e caos, tra grandi potenzialità ecrollo definitivo; più importante è non precludersi e rimanere estromessidall’ambito delle ragioni, creazioni ed emozioni che caratterizzano l’essereumano, un artigiano del proprio avvenire, capace di unire la capacità tecnica conlo spirito .

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La macchina e la vita: fino a dovearriverà l’artificiale?La macchina e la vita: fino a dove arriverà l’artificiale?di Ramon Caiffa del02/11/2017

«Dio è morto: ora vogliamo che il superuomo viva». Così esclamava Nietzschenello Zarathustra. Siamo certi che la profezia nietzschiana non si sia avverata?Siamo certi di poter ancora vivere senza tenere conto di queste considerazioni?Viviamo in un’epoca dove l’essere umano appare sempre più “antiquato” e il suosuperamento sembra essere sempre più d’attualità. È proprio l’elevazionedell’uomo sull’uomo, a costituire il sogno della contemporaneità che, grazie allenuove scoperte tecnico-scientifiche, sogna di poter “migliorare” l’essere umano. Ilsogno è quello di poter elaborare un nuovo uomo più forte e resistente,instaurando una specie di ponte tra un’umanità obsoleta, fragile, antiquata elimitata dalla morte e un nuovo essere che possa raggiungere l’immortalità. Ora,questa frase è certamente vera ma solamente in parte, perché, grazie alletecniche, non si sogna solamente di allungare la vita – distruggendo la morte -, maanche di modificare l’uomo, affinché possa vivere meglio nel suo ambiente.

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Questo monumento al filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900) si trova inpiazza Holzmarkt a Naumburg (Saale).

Questo fattore viene messo in pratica sia attraverso la manipolazione delle nascite– dunque agendo all’origine della vita – sia intervenendo su noi stessi, nella nostraattualità – operando, dunque, sulla vita hic et nunc.Le tecnologie, di cui oggi l’umanità dispone, permettono di dare voce al grandiososogno della contemporaneità; sogno di cui le parole di Nietzsche sono profetiche.Possiamo finalmente sbarazzarci dell’uomo fragile e mortale, per ottenere unacondizione sovra-umana, in cui l’uomo può essere finalmente “alla moda”.Grazie alle biotecnologie, possiamo modificare non soltanto il vivente, ma ancheipotizzare e disegnare dei mondi nuovi e imprevedibili. Qual è, allora, il postodell’uomo e, dunque, della vita, così come la conosciamo, in questi nuovi mondi?Lo status del soggetto che abita la post-modernità è cambiato e sembra orientatoverso una soggettività, detta appunto post-umana, connessa e legata alletecnologie e alle biotecnologie, che permettono una modifica, ovvero unamanipolazione del “Se”. Com’è stato sottolineato «I mondi che si squadernanodavanti a noi, oggi, sono così meravigliosi, così singolari, così prodigiosi che lastruttura stessa di ciò che siamo si vede rimessa in discussione». Science-fiction orealtà?Il progetto trans-umanista è dunque quello di migliorare l’uomo. Questo progettonon è una novità assoluta. In effetti, come è stato sottolineato: «Gli uomini hannosempre agito su se stessi e sulla specie. Per il meglio o per il peggio […] Essi sisono fatti carico della loro evoluzione attraverso le differenti tecniche. Tecnichedure, degli attrezzi, mezzi tecno-scientifici[…] tecniche dure e dolci per ilgoverno, per il potere e la violenza, per il controllo della popolazione e dellademografia».

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Questa ipotesi della fine dell’umanità è una di quelle tesi spaventose e paurose.Ma, il filosofo francese Jean Michel Besnier rileva che, in questa paura, vi è unparadosso: «Perché questa prospettiva di una fine dell’umanità ci sembraspaventosa? Non l’abbiamo desiderata? Ci vogliamo decisamente moderni e, perquesta ragione, nulla era più importante ai nostri occhi dell’autonomia –rapportata agli altri, alla natura, alle tradizioni o agli Dei».Se quest’ipotesi, oggi, ci sembra più spaventosa, è solo perché l’uomo haraggiunto una maggiore potenza tecno-scientifica, talmente incredibile, da«richiedere la coscienza di una nuova responsabilità». Grazie alle biotecnologie,l’uomo possiede una maggiore potenza su se stesso, è capace di modificarsisempre meglio, di tendere la propria mano, e quella della scienza, sul misterodella vita.«Ormai è, per così dire, nell’ovulo che l’uomo è minacciato […]. È anche [ilpericolo] imminente e molto più grave di quello che gli fanno correrel’inquinamento atmosferico e il surriscaldamento climatico. La scienza hapoggiato il suo dito sul mistero della vita». L’uomo possiede una potenzaincredibile. Può, ormai, modificare, sconvolgere, mettere fine alla vita così comela conosciamo. Può operare, sempre meglio, su qualsiasi aspetto della vita: lanascita, la vita propriamente detta, o la morte. Tutto sembra possibile: controllodelle nascite e planning programmato delle stesse, gestazione “per altri” emamme “surrogato”, passando per la fecondazione in vitro».Questa strumentalizzazione della nostra discendenza è strutturalmente collegataad un certo tentativo di strumentalizzazione di sé poiché, agendo sulla nostradiscendenza, cerchiamo un beneficio per noi stessi. Sono tali, ad esempio, leazioni dei dottori-scienziati che cercano a mettere in pratica il clonaggioterapeutico oppure a continuare la ricerca sugli embrioni; cercando così di“creare” degli individui più forti e resistenti all’ambiente.Possiamo sottolineare un doppio paradosso: mentre agiamo su noi stessi,operiamo sulla nostra discendenza e, agendo su di essa, si opera verso ladiscendenza, la quale indirettamente ci procura i mezzi per agire sul nostroessere.Queste manipolazioni “faustiane”, frutto dell’egoismo degli uomini, si allargano atutte le sfere della vita: dal trattamento del corpo – al fine di cercare la bellezza ela giovinezza eterna – al controllo della morte – morte programmata o eutanasia –passando per i metodi di riproduzione – concezione programmata e planning dellenascite, interruzione delle gravidanze e aborti terapeutici, procreazione assistita,etc.Lo sconvolgimento della vita umana è dunque al centro del dibattitocontemporaneo.In questo scenario, nel quale l’uomo corre il rischio di scomparire, la sfida cheoccorre affrontare riguarda la sua definizione; chi è l’uomo?

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Secondo Ollivier Dyens: «[…] Queste nuove sfere del reale ci obbligano su ciò chevuol dire essere umano. Questa riflessione è la sfida più importante della nostraepoca». Dunque la sfida è lanciata e per confrontarsi con questa realtà, l’uomodeve assolutamente definirsi. Ascoltando le parole di Tugdual Derville, l’uomo:«Deve comprendere la sua identità per acconsentire a essa e, in questo modo,umanizzarsi di più. Questo presuppone la resistenza alle nuove sirene scientiste.Perché la loro canzone, divenuta assordante, annuncia una ridefinizionedell’uomo». Definire l’uomo, affinché possa confrontarsi alle nuove tecnologie, ènecessario, perché, come dice P. Kemp, il problema non è solo quello della qualitàdella vita che desideriamo realizzare, ma soprattutto del come. «Parliamo, oggi, dilavorare per una vita migliore, diciamo che si tratta di migliorare la qualità dellavita. Ma come vogliamo raggiungere questa vita migliore, questa nuova qualitàdella vita?».Per fare ciò, analizzeremo la fonte della vita umana, ovvero la nascita, e vedremocome la teoria trans-umanista arrivi a sconvolgerla. Definire l’uomo vuol direschematizzare le differenti tappe della vita, così come si presenta, nella suasacralità e fragilità. In effetti, se si dice che essa è da difendere, vuol dire che siriconosce, in essa, implicitamente o meno, una certa sacralità e fragilità.Ancora Jean-Michel Besnier insiste: «Da dove deriva che questa volontà dioltrepassare la condizione naturale, grazie alle nuove tecnologie, s’interpreta,ancora oggi, come un peccato contro la natura umana, come un gesto ditrasgressione? Senza dubbio è perché riconosciamo alla natura un carattere disacralità […]».

Jean-Michel Besnier, è nato il 5 aprile 1950 a Caen, ed è un filosofo francese

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contemporaneo. Professore emerito di filosofia presso l’Università della Sorbona aParigi, dove ha creato e gestito il “Comitato di redazione e gestione dellaconoscenza digitalizzata”. E ‘membro del Consiglio Scientifico dell’Istituto diStudi Avanzati in Scienze e Tecnologie (IHEST) 3, il consiglio di amministrazionedi Murs (Movimento universale per la responsabilità scientifica) e del Comitatodella ricerca scientifica e tecnica di letteratura al Centro Nazionale del Libro(CNL). Il suo insegnamento e la supervisione delle tesi di dottorato sotto la suadirezione si concentrano sulla filosofia della tecnologia. E ‘stato direttorescientifico del settore della Scienza e della Società del Ministero dell’Istruzione edella Ricerca nel 2008, fino ad aprile 2011. La sua attuale ricerca si concentrasull’impatto filosofico ed etico della scienza e della tecnologia sullerappresentazioni individuali e collettive e gli immaginari.

Occorre difendere l’uomo e la vita, dunque, contro quelle forze destrutturantiderivanti dalle nuove biotecnologie: questo sarà il nostro compito. Occorrerà,partire dal principio.Alla base vi è la vita. Più precisamente, nelle fondamenta di questo misteroinestinguibile, c’è un evento particolare: la nascita. La difesa della vita passa, inprimis, dalla salvaguardia e dall’elogio di quell’evento particolare che è il parto.L’essere umano nato da una donna, deve necessariamente porre la tutela dellamaternità che è, oggi, sempre più minacciata. Il professor Derville Tugdual mira aprecisare: «Che siamo uomini o donne, abbiamo tutti soggiornato a lungo nelcorpo di un altro. Questo fatto incontestabile è ormai contestato. La maternità èminacciata».Il problema che tormenta la contemporaneità è, così sembra, la natura nondemocratica della maternità. Unicamente l’essere femminile può dare alla luce unfiglio. Questa verità è vista, dai fautori del post-umano, come un irritanteprivilegio. Essi, infatti, sognano di poter finalmente dare anche all’uomo questaprerogativa femminile. Tale scopo è, o vorrebbe essere, compiuto tramite quellache chiameremo la decostruzione del sesso che, sottolineiamolo, è ciò che si cercadi fare promuovendo le teorie gender.«Maschio e femmina li creò» (Gn. 1, 27). Quest’evidenza è divenuta, ormai,contestata e contestabile. Non vogliamo, qui, prendere una posizione netta controqueste teorie, ovvero contro quelle persone che risentono un forte disagiopsichico a causa del loro sesso biologico, ma sottolineare che, in questa nuovacolonizzazione del pensiero, anche i fautori delle suddette teorie gender devonoarrendersi all’evidenza: solo le donne, e unicamente loro, possono partorire.Prendiamo, ad esempio, il caso di una donna che ha deciso di “cambiare” ilproprio sesso, per diventare uomo. Ora, questa donna, anche se divenuta uomo,può, nel caso conservi il suo utero, avere un bambino, provando così, attraverso la

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procreazione, il suo status femminile.Ancoira Derville Tugdual ci spiega come: «In materia di procreazione, il corpo nonsa mentire: né la comparsa artificiale della barba […], né l’asportazione volontariadei seni potrà fare di una partoriente un uomo». Il sesso biologico non sa mentire:lo status civile è sempre secondario. Controllo delle nascite, mamme “in affitto”,legame e aggroviglio della carne alle macchine: il sogno post umano è all’opera.Non viviamo in un mondo controllato dalle macchine, anche se quest’ultimo ècontrollato e, in gran parte, creato da esse. Ciò vuol dire che le macchine,prodotte, dalla tecnica degli uomini, non soltanto possono mantenere in vita unbimbo, nato prematuramente, ma anche di generarlo; sono le sfide cui cisottopone la fecondazione in vitro o la programmazione delle nascite. Ma ecco ilparadosso: generare è peculiarità dell’umano.Ancora Ollivier Dyens afferma come: «Ogni giorno, dovunque in Occidente, lemacchine ci proteggono dal freddo della canicola, dalla fame, dalla sofferenza edalla malattia. Ma, soprattutto, ogni giorno, ovunque in Occidente, delle macchineautorizzano la nascita di bimbi straordinari e partoriscono letteralmente […]» eprosegue asserendo che la società sta scivolando verso un mondo che non è,certo, dominato dalle macchine ma che è creato sempre di più a sua immagine esomiglianza: «l’uomo, la donna, il bambino di questa era sono umani per la lororelazione alle macchine».Le macchine che generano il nostro mondo non sono né dei robot né dei grandiautomi, ma sono nientemeno che le scoperte tecno-scientifiche applicate alla vita.Si dovrà, dunque, parlare della procreazione assistita e della conseguenza diquesta pratica sulla vita.Con questo termine, ci riferiamo, generalmente, a un insieme di pratiche, clinichee tecniche, grazie alle quali l’uomo può intervenire sulla procreazione e, dunque,sulla nascita; esse comprendono un ampio ventaglio di possibilità: fecondazione invitro, bambini-provetta, dono dei gameti, inseminazione artificiale, madri“surrogato”.La potenza tecnica degli uomini può, al giorno d’oggi, ottenere molteplici risultati,anche nel campo biomedico e della procreazione. Tuttavia, quando l’atto tecnicosi sostituisce in toto al dono coniugale, la nostra riflessione deve mobilitarsi. Lesfide che la procreazione medicalmente assistita ci sottopone sono molteplici: inprimis il significato delle maternità si trova mutato nel suo significato,secondariamente essa concerne la relazione madre-figlio e, infine, la relazioneconiugale strictu sensu.Innanzitutto occorre enunciare una definizione. La gestazione per altri – o ciò chevolgarmente chiamiamo “mamme surrogato” o “mamme in affitto” – è una praticamedica che permette alle coppie, che non possono averne, di avere figli,ricorrendo a un terzo elemento, esterno alla coppia: la cosiddetta mamma “inaffitto”. Ella ha il compito di portare e partorire il bambino di una coppia, che ha

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fornito il materiale genetico.Ora questa pratica solleva delle domande e degli interrogativi.Per cominciare, essa annulla quel significato intimo della maternità, che abbiamocercato di enunciare, espandendola su tre o addirittura più persone. In genere, lagenitrice e la coppia che vuole il bambino. Questo fatto sconvolge la maternità,perché si fonda sulla negazione di essa. La maternità non è semplicemente unarelazione biologica, ma istituisce un legame ontologico tra i due poli dellarelazione; ivi madre-figlio. Riflettiamo ancora.

Tugdual Derville è una personalità francese del mondo associativo noto per la suaimplicazione nell’accoglienza dei bambini in situazione di handicap, nella lottacontro l’eutanasia, contro l’aborto e contro il matrimonio e l’adozione da partedelle coppie dello stesso il sesso. È il delegato generale dell’associazione AllianceVITA, portavoce di La Manif per tutti e co-iniziatore del Courant pour un EcologieHumaine.

Che cosa significa desiderare un figlio? E cosa vuol dire per una donna, o unpadre, avere un bimbo? Essa implica un’apertura all’Essere; un’apertura generosadell’uomo ad un altro “io”. Ma, questo significa che lo scopo della maternità, odella paternità, non è la produzione di bambini perché, in effetti, l’uomo non è unprodotto. Ora, in base a quanto detto prima, capiamo perché la maternità nonpuò, in nessun caso, essere né una produzione, né uno scambio di qualsiasi tipo;in effetti, c’è sempre qualcosa che eccede, di sovrabbondante.Il professor Derville afferma come nel dono della vita, la maternità resta unmistero, perché non può, in nessun caso, ridursi a uno scambio di naturamateriale: a un do ut des. «La mamma surrogato anche se ha deciso,intellettualmente, di non “investirsi”, è dotata di un cuore di madre».

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La relazione di una madre a suo figlio è, dunque, più profonda di quello che non sicreda. La maternità non può ridursi ad una relazione “carnale”, ma c’è, in essa,un qualcosa di più profondo; il legame che la nuova madre instaura con suo figlioe che non può essere ridotta ad una semplice relazione biologica, sanguigna ocarnale, ma implica un legame misterioso che non può essere concettualizzato.All’interno di queste pratiche, possiamo rintracciare, dunque, una dupliceriduzione. In primis, vi è una “sottomissione della donna” e, in seguito, unariduzione della maternità, come avvenimento.In effetti, esse sfruttano il corpo della donna, che non solo è prestato a terzi, ma èridotto a un semplice mezzo per raggiungere un fine; per soddisfare i desideri diqualcun altro. La decostruzione dell’essere umano è qui duplice: da un lato,abbiamo, certo, la riduzione del corpo femminile a una sorta di merce, madall’altro, ancora peggio, la riduzione del nuovo nato, del bambino a prodotto. Ineffetti, cosa viene ad essere il bambino frutto di queste pratiche? Nient’altro cheun prodotto; oggetto del nostro desiderio e che può essere, sotto pagamento,ordinato e scelto. Come ogni prodotto, poi, ci sono i prodotti ben riusciti, e cherispondono pienamente ai desideri dei compratori-genitori, e quelli mal riusciti oimperfetti: i bambini malati o portatori di handicap. Essi sarebbero, solo, deglierrori di cui sarebbe meglio non parlare.Tuttavia, di fronte alla richiesta legittima, di un padre, che si rifiuta di avere unbimbo malformato e che chiede alla donna portatrice di abortire, può avvenireche la donna si rifiuti. Perché? Non è forse l’emblema di ciò che abbiamo detto inprecedenza, ovvero che il legame madre-figlio è più forte di ogni tecnica?In effetti, questo dimostra non solo che il legame affettivo è molto più forte diquello tecnico, ma, soprattutto, che la maternità non può ridursi a una pratica dicommercio. Diremmo allora che questa riduzione della «ricchezza della maternitàbiologica» è una trasgressione. Ma se questa trasgressione è uno sconvolgimentodella vita è perché si ha la tendenza a negare quella complessità che caratterizzal’umano, assumendone dei tratti caricaturali.Ora, pretendendo d’imitare il reale, la tecnologia si sforza di negarne lacomplessità, cancellando il mistero dell’imprevedibilità. E’ lo stesso Derville aricordarcelo: «quando si tratta di ridisegnare la vita, ne facciamo unacaricatura!».In effetti, dal momento che la tecnica si trova incapace a riprodurre ogni sferadella vita umana, la quale è troppo complessa e articolata, e che vuole comunqueriprodurla, si trova costretta a semplificarne gli avvenimenti. È così, però, chequello che si chiamava vita, diventa, ipso facto, un’altra cosa, perché lacomplessità è caratteristica primaria della vita.In effetti, come abbiamo affermato, la maternità è ridotta ad una semplicerelazione “esteriore”, che nega il surplus della gioia proprio alla relazione madre-figlio; un surplus che la tecno-scienza, pretendendo d’imitare il reale, non

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riconosce.In questo contesto, la procreazione è vista, sempre più spesso, come “produzione”di bambini ed è per questo che queste pratiche ci invitano a riflettere meglio sullostatuto del matrimonio, ovvero sulla relazione coniugale. Che cosa diviene larelazione coniugale all’epoca della tecno-scienza? In questo contesto, essa non èpiù il luogo dell’accoglienza, ma della produzione volontaria. Occorrerà spiegaremeglio questo passaggio.La relazione tra i coniugi è una di quelle relazioni che, nel mondo dominato dallatecnica, ha subito il peso di ciò che abbiamo chiamato riduzione. In effetti, oggi,pensiamo che essa sia il luogo della creazione, quando invece è il luogo dellaprocreazione. Qual è la differenza?Con il termine di creazione, ci riferiamo a un atto d’invenzione o di produzione.Per questo motivo diciamo che scopo della tecnica è inventare o creare strumentie prodotti. Ma, come abbiamo affermato, un bambino non può essere in alcunmodo il risultato di una produzione e, dunque, a fortiori, nemmeno di unacreazione.Procreare significa donare la vita, essere aperti ad essa e accettare il donogratuito di una nuova vita. Ora, ciò che ci urge sottolineare è che se la tecnica ciillude di poter creare la vita, e il bimbo in particolare, è la vita stessa che ciricorda quest’impossibilità: né la madre, né il padre creano il bambino, maaccolgono una vita che non solo non hanno prodotto, ma che possono alle voltenemmeno avere desiderato.L’amore è dunque, apertura alla vita; al dono gratuito e, ipso facto, laprocreazione è l’atto attraverso il quale questo amore si offre e si dona.Per concludere, ci piace citare le pacate parole pronunciate da Giovanni Paolo II,in cui si afferma che il rischio, sempre più elevato, è che le tecnologie possanoarrivare a sostituire la maternità o la paternità:«[esse sono] sostitutive della vera paternità e maternità e, ipso facto, nocive perla dignità sia dei genitori, che dei figli. [l’atto coniugale] non può essere sostituitoda un semplice intervento tecnologico […]».

Per approfondimenti:_Besnier, J-M. (2012). Demain les posthumains. Le futur a-t-il encore besoin denous ? Paris : Pluriel;

_Derville, T. (2016). Le temps de l’homme. Pour une révolution de l’écologiehumaine. Paris : Plon;_Dyens, O. (2007). La condition inhumaine. Essai sur l’effroi technologique. Paris :Flammarion;_Michaud, Y. (2006). Humain, inhumain, trop humain. Réflexion sur lesbiotechnologies, la vie et la conservation de soi à partir de l’œuvre de Peter

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Sloterdijk. Castelnau-le-Lez : Climats.Nietzsche. F. (1883). Also sprach Zarathustra. Ein Buch für alle und keinen.Chemnitz : Verlag von Ernst Schmeitzner.

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Questa insostenibilità nell’essereQuesta insostenibilità nell’esseredi Davide Bartoccini 15/09/2017

Quando capirà il mondo che nulla è sostenibile nel futuro se non si vuolecambiare davvero rotta alla base?Viviamo costretti in un limbo di rimorso latente e perenne sotto l’indice mai pagodell’utopia del sostenibile. Dubbiosi se sia giusto acquistare quel succulentofiletto di manzo argentino mentre riflettiamo sulle flatulenze che secondo alcunisono la prima causa d’ingrandimento del Buco dell’Ozono; in delirio da stressdavanti ai quattro secchielli colorati imposti dal comune per la ‘differenziata’ –con la paura di commettere lo sbaglio irrimediabile e il terrore che il portierefaccia la spia; praticamente fermi a trenta chilometri orari, in ritardo cronico sumacchinine elettriche uscite direttamente da Paperopoli per andare in centroquando c’è il blocco del traffico per la ‘Domenica Ecologica’.Siamo noi a volerlo davvero? No. È il rimorso che ci fa sentire in dovere di farlo. Ela ragione è sempre la stessa: il sogno di un mondo migliore.

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Riempirsi la bocca di buoni auspici e rosee prospettive è da decenni hobbypreferito di tutto quell’entourage rampante, elitario, e rivoluzionario di post-capitalisti redenti con il pallino per la green economy e commercio equo e solidaleche picchettano al grido di : “Salviamo il mondo riciclando le bottiglie di plasticafiniscono nell’Oceano in scarpe da ginnastica per le nostre maratone ecologiche,che butteremo nella differenziata”. Tutto molto freak. Tutto molto bello. Tutto molto dolce.. e onanistico, e sterile, efine a se stesso. La popolazione mondiale – che secondo il World Population Clockdello United States Census ammonta a 7,477220 miliardi – da sempre bilanciatanei grandi numeri da guerre, epidemie e stermini, vive nei falsi miti di progressoche auspicano e promettono il giorno in cui pace e prosperità regnerannoindisturbate sul tutt’uno sociale, che soave e solidale, si moltiplicherà a dismisurasenza tenere conto, nel futuro come nel presente, del collasso del sistema.Una contraddizione in termini ahimè, che non tiene conto delle capacità già allostremo di un pianeta, il quale non può più sopportare – in alcuno modo – lapresenza ulteriore della piaga biblica dell’essere umano consumista: colui che piùdel petrolio (in esaurimento) è carburante per il capitale (sempre attivo nelsoggiogare nuove tipologie di schiavi).La mancanza di equilibrio logico nella stragrande maggioranza nell’ideale delsostenibile – estirpata pure la pigrizia figlia dell’egoismo o della disillusionedell’essere – è proprio quella del ‘numero’: come non arrivare al risultato della piùprosperità tradotta in più consumismo? Quest’ultimo si materializzerebbe in piùemissioni nocive, come fabbriche, allevamenti, automezzi e nella produzione dipiù rifiuti, i quali sono già ovunque ed infestano il mondo senza posa e senzasoluzione.Se si tiene conto di una vecchia stima fatta da Ericsson, nel mondo ci dovrebberoessere all’incirca 5 miliardi di telefoni cellulari, che negli Stati Uniti vengono

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sostituiti dal 44% di chi ne possiede ogni 2 anni. Quanti ne verranno gettati ognianno nel 2050, quando secondo le stime saremo 9,7 miliardi? E quante autoverranno accese con connesse emissioni? Quante accartocciate e stipate indiscariche a cielo aperto? Quanti chilogrammi di carne proveniente daallevamenti intensivi per garantire ad un nucleo familiare occidentale ilfabbisogno minimo? Quante flatulenze in aumento dunque? Con checonseguenze?

Nel mondo del restyling cronico che induce il consumatore ad avere semprel’ultima novità, ogni anno, ovunque, si getta il vecchio per il nuovo senza averancora trovato una soluzione adeguata allo smaltimento dei rifiuti (oltre 4 miliardidi tonnellate di rifiuti ogni anni). Nel mondo della bugia del progresso, ogni annoil 71% della popolazione mondiale continua a vivere sotto la soglia di povertàsenza alcuna speranza di miglioramento a breve termine. Nel mondo reale perogni piccola sensazionalistica crociata sulla sostenibilità del riciclo dei boilerdell’acqua o delle scarpe passate di moda sponsorizzata da una comunità divegani molisani, il presidente di una super potenza mondiale non ratifical’accordo sulle emissioni globali per favorire la propria industria pesante esopperire alle richieste del consumo e ai prezzi del mercato (se non si vuoletenere conto dei paesi che producono al di fuori dei controlli e da sempre ne sonoestranei).Insomma.. Io potrei continuare per molti più caratteri di quanti ne abbia adisposizione in questa pagina: nel Mondo reale, la verità, è che la verasostenibilità si può ottenere solo con la riduzione della popolazione. Piaccia o noai fanatici terrorizzati per il calo demografico.

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Essere ancora un cittadino dellaMitteleuropa: l’anarca PiendlbachEssere ancora un cittadino della Mitteleuropa: l’anarca Piendlbachdi GiuseppeBaiocchi del 15/06/2017

Quando si analizza la figura dell’Anarca si deve parlare imprescindibilmentedell’uomo in quanto tale. L’Anarca: «ossia colui che riesce a far coesistere laribellione allo stato puro con un senso aristocratico della vita, in cui l’estetica siala motivazione più alta, più morale, più incline alla salvezza dello spirito».Il termine, creato dal filosofo tedesco Ernst Jünger per lo scritto di Eumeswil(1977), riprende i caratteri di unicità della figura umana, già citati da Max Stirnernella sua opera maggiore L’Unico e la sua proprietà.Nella nostra epoca, questa figura – creata nel dopoguerra, ma ispirata ai valorimitteleuropei – è stata spazzata via. Oggi alcuni “scogli” rimangono aggrappati adun idealità di vita spirituale ed estetica che il comunismo del proletariato da unaparte, e il pensiero liberal borghese/massonico dall’altra hanno estirpato, neglianni del 1916 e 1918. Dunque, le monarchie illuminate cessano di esistere e ilgran disegno capitalista si compie. Nella prima metà del Novecento si chiude unpotere e se ne crea un altro, un nuovo pensiero (se si esclude il ventennio deltotalitarismo) che ha portato l’uomo al nichilismo, all’annullamento di se stessi.Giampiero Celani Piendlbach è uno dei sopra citati scogli di marmo, risiede aVienna. Nei suoi Literaturcafé viennesi dipinge e conversa. Possiede un telefoninomonolitico e ancora riesce, nonostante il lavoro, a staccarsi dalla vita virtuale cheormai permea il sistema e isola costantemente l’uomo privandolo spesso delleforme educative più basiche.

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Giampiero ama viaggiare alla maniera del Grand Tour, i viaggi che nel XVII secoloservivano per perfezionare il sapere del singolo con partenza e arrivo nella stessacittà. Una settimana, un mese o addirittura un anno: il tempo ancora scanditodagli orologi a polvere permetteva di realizzare un viaggio senza fretta e diapprezzare la vera essenza del luogo, che in parole povere è la vita stessa. Genteche passeggia, ride, conversa. Il Piendlbach osserva il tutto e vicino ad unavetrina di un antico caffè in stile liberty ritrae i soggetti, li materializza nel suodiario utilizzando colori naturali come il caffè. Il pittore ricerca una sovranitàassoluta dell’individuo, ma rifiuta il potere. Si sottomette controvoglia alle leggiche la società capitalistica gli impone, ricercando un idealità naturale o cosmica.Ricerca la padronanza eroica del mito di se stessi, ponendo come fine ultimo diogni azione: la libertà. Nei suoi lavori traspare tutto questo: a differenza di undisegno freddo che non comunica calore, il tratto è di fattura antica e l’utilizzo deicolori non richiede l’uso dei computer grafici.

Ma se pensavate che questo individuo sia rimasto in un epoca passata, cadetetragicamente in errore. Giampiero lavora per una ditta italiana di occhiali, creatiartigianalmente, progettando attraverso i suoi schizzi prototipi, fino ad arrivare alpiù fine dettaglio.

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Schizzo progettuale di Giampiero Celani Piendlbach

Continuando la nostra analisi sull’anarca, per mantenersi puro rispetto alleinfluenze esteriori è sempre opportuno un distacco con una visione della realtàmolto obiettiva, simile a quella dello storico. Difatti la storia è istruzione:permette di storicizzare ogni attualità e considerarla in maniera neutra, così comesi rivela con le regole, i meccanismi politici e le loro leggi. Infatti, tornandosempre a Jünger, l’Anarca è ben differente dall’anarchico: quest’ultimo èimpegnato politicamente e socialmente, e pur disprezzando le norme dellasocietà, egli riconosce l’autorità, dal momento che vi lotta contro; di fatto,l’anarchico è bloccato dai pregiudizi e dai valori cui aderisce. Ben diversamente,l’Anarca mantiene una serena adesione e una costante vigilanza, tali da poterpartecipare in maniera libera nella società, ma senza legami o costrizioni di sorta.Così come l’anarca è la conseguente prosecuzione del Waldgänger (archetipodell’Uomo Selvatico). Giampiero Celani Piendlbach è molto legato alla natura etutti gli uomini dovrebbero riavvicinarsi a questa: osservare la natura è comeosservare la massima espressione dell’essere, ovviamente dopo l’uomo. L’essereumano è la natura che guarda se stessa, la creazione di Dio che si osserva e chepossiede l’aesthetica (dal greco αἴσθησις) ovvero la sensazione, il percepireattraverso la mediazione del senso.Giampiero ha ritrovato questo contatto che l’uomo sta gradualmente perdendo.

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Nell’antica Islanda il Waldgänger (letteralmente, colui che passa al bosco), è ilproscritto che si dà alla macchia e conduce una vita solitaria, libera e rischiosa.Lo scrittore tedesco si rifà a questa tradizione nordica per tracciare la figura delRibelle, un tipo d’uomo che sceglie di resistere al nichilismo desertificante delnostro tempo.

da sinistra a destra: Bosco, neve (presso Riegersburg, Steiermark, Austria), ilsegreto delle Rune, das Geheimnis der Runen, Bruma_ nelle foreste della Stiria(Hohentauern, Steiermark, Austria).

Il Piendlbach dunque conosce le «teorie che tendono ad una spiegazione logica erazionale del mondo», e il «progredire della tecnica». Conosce l’originedell’assedio all’uomo moderno e cerca di salvarsi da questa realtà che anniental’essere cercando di nasconderlo sotto identità artificiali. Tornando al filosofo diHeidelberg bisogna «Incamminandosi lungo la Via del Bosco».Giampiero esercitando l’autorità su se stesso non entra in conflittualità con ilsistema e possiede la stessa auctoritas dell’Imperatore Adriano, descritto connovizia di particolari dalla Yourcenar nel suo Memorie di Adriano. L’anarcacomprende di avere ogni diritto, compreso il massimo dell’esserci del possibile: ilsuicidio.Ma grazie all’analisi storica ha appreso come governare il proprio io e come potergovernare gli uomini, se occorre. Così egli accetta la società, ben sapendo che lasua libertà non dipende dalle libertà materiali.Il Piendlbach vive, forse, nella città più Mitteleuropa: Vienna. Passeggia, degusta,conversa dove gli stessi Wittgenstein, Loos, Schönberg, Kokoschka, Musil,Schnitzler, Rilke, Kafka, Svevo, Roth, Von Hofmannsthal, Singer, Canetti, Lernet-Holenia, Von Rezzori, Magris hanno vissuto. La cultura della Mitteleuropa è stata

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espressione della crisi epocale dell’Occidente, del senso di perdita d’identitàdell’individuo che cerca di differire la fine e strapparle qualche momento dipiacere e d’abbandono, proprio come i piccoli capolavori prodotti dal nostropittore anarca.

Per concludere, chiudo con una citazione di Marguerite Yourcenar – Memorie diAdriano: «Ma altre orde sarebbero venute, altri falsi profeti, i nostri deboli sforziper migliorare la condizione umana saranno continuati con scarso impegno dainostri successori; il seme di errore e di morte che anche il bene contiene in sècrescerà mostruosamente nel corso dei secoli. Il mondo, stanco di noi, si cercherànuovi padroni; quel che ci era parso saggio, apparirà vano, quel che ci eraapparso bello apparirà orribile. Il gioco stupido, osceno e crudele continuerà, e laspecie umana invecchiando vi aggiungerà senza dubbio nuove raffinatezzed’orrore. La nostra epoca di cui conoscevo meglio di chiunque altro leinsufficienze e le tare, forse un giorno sarà considerata, per contrasto, come unadelle età dell’oro dell’umanità. – Natura deficit, fortuna mutatur, deus omniacernit – L’incivilimento dei costumi, il progresso delle idee durante l’ultimosecolo è opera d’una minoranza esigua di spiriti illuminati; la massa resta ignara,feroce quando può, sempre egoista e gretta, e si può scommettere fondatamenteche tale resterà sempre».

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Per approfondimenti:_Ernst Jünger, Sulle scogliere di marmo – Guanda, 2002_Ernst Jünger, Heliopolis – Guanda, 2006_Ernst Jünger, Eumeswil – Guanda, 2001_Ernst Jünger, Trattato del Ribelle – Edizioni Adelphi 1990_Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà – Edizioni Adelphi 1999_Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano – Edizioni Einaudi 2014

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Eichmann: il processo del secolo ela banalità del maleEichmann: il processo del secolo e la banalità del maledi Miriana Fazi 20/05/2017

Nel dopoguerra, il governo del nuovo stato israeliano, si trovò di fronte ad undilemma: la Procura Federale dell’Assia chiese l’estradizione del colonnello delleSchutzstaffel (SS) Otto Adolf Eichmann; tuttavia le prospettive di un processotedesco non si profilavano verosimili. D’altro canto, l’opinione pubblica delladivisa Germania sembrava poco incline a rimarcare l’infausta responsabilitàconnessa alle atrocità naziste. I tempi non erano ancora maturi per un mea culpacollettivo. Si correva così il rischio di dar luogo a un processo, che avrebbe finitoper spaccare il Paese e rianimare vecchi conflitti, prospettando un secondoproblema, in vista di tale processo: la condanna sarebbe potuta non arrivare omostrarsi particolarmente lieve rispetto alle aspettative del Governo Israeliano.

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Otto Adolf Eichmann (Solingen, 19 marzo 1906 – Ramla, 31 maggio 1962) è statoun paramilitare e funzionario tedesco, considerato uno dei maggiori responsabilioperativi dello sterminio degli ebrei nella Germania nazista.

Nel 1961, la filosofa Hannah Arendt segue le centoventi sedute processuali,inviata dal settimanale statunitense New Yorker a Gerusalemme. Il tedesco OttoAdolf Eichmann, classe 1906, è stato responsabile della sezione IV-B-4, ovverol’apparato competente sugli affari ebraici, dell’ufficio centrale per la sicurezza delReich (RSHA), organo nato dalla fusione – voluta da Himmler – del servizio disicurezza delle SS con la polizia di sicurezza dello stato, unita alla polizia segretao Gestapo.Il nazista non era mai andato oltre il grado di tenente-colonnello, ma per l’ufficioricoperto ha svolto una funzione di grande rilievo nella politica del regimenazionalsocialista: aveva coordinato – a livello europeo – l’organizzazione deitrasferimenti degli ebrei, verso i campi di concentramento e di sterminio.Rifugiatosi nel dopoguerra in Argentina, nel maggio 1960 viene catturato dagliagenti israeliani, i quali lo scortano sotto sequestro a Gerusalemme.Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, infondo, si era occupato “soltanto di trasporti“. Fu condannato a morte medianteimpiccagione e la sentenza fu eseguita il 31 maggio del 1962. Il resoconto di quelprocesso e le considerazioni che lo concludevano furono pubblicate sulla rivistaamericana e successivamente furono riunite nel 1963 nel saggio “La banalità delmale” (Eichmann a Gerusalemme).In questo scritto la Arendt analizza come le modalità del pensiero umano,possano evitare azioni malvagie. La banalità del male ha accentuato la relazionefra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, lafacoltà di giudizio e le loro implicazioni morali, compiti che sono statiestremamente significativi nel lavoro della filosofa ebrea fin dai primi scritti della

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fine dell’anno 1940, sul fenomeno del totalitarismo.La prima reazione è più che sinistra: lei sostenne che “le azioni erano mostruose,ma chi le fece era pressoché normale, ne demoniaco ne mostruoso“. Lapercezione dell’autrice su Eichmann, sembra essere quella di un uomo comune,caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità che la lasciarono stupita nelconsiderare il male commesso da lui, che consiste, nell’organizzare ladeportazione di milioni di ebrei nei campi di concentramento.Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann non era neppure stupidità ma qualcosa dicompletamente negativo: l’incapacità di pensare. Il tedesco ha sempre agitoall’interno dei ristretti limiti permessi dalle leggi e dagli ordini. Questiatteggiamenti sono la componente fondamentale di quella che può essere vistacome una cieca obbedienza. Dunque se gli alti burocrati potevano apparire dei“mostri”, egli in apparenza era persona comune, normale, ma nella sua vitaregolare e monotona – nell’eseguire ordini – i suoi atti erano terribili. Inquesta “mostruosa normalità” della burocrazia, capace di commettere la piùgrande atrocità che l’umanità avesse mai visto, la Arendt rintraccia la questionedella “banalità del male“. La “normalità” espressione di atteggiamenti comuniripudiati dalla società – in questo caso i programmi della Germania nazista – trovail suo elemento all’interno del comportamento del cittadino comune, il quale nonriflette sul contenuto delle regole, ma applica queste in maniera incondizionata. Ilnazista ha introdotto il pericolo estremo della irriflessività. Può apparireincredibile che queste atrocità commesse, non arrecavano al carnefice nessunpentimento morale o ammissione di colpa, poiché le circostanze normali dellaquotidianità, rendevano le operazione routine da lavoro.Dunque le analisi delle interrelazioni fra la facoltà di pensare, la capacità didistinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazionimorali rappresentano il nucleo tematico dell’opera. A questo proposito la Arendtsi è chiesta se la facoltà di pensare, nella sua natura e nei suoi attributi intrinseci,coinvolge la possibilità di evitare di “fare il male“.La banalità del male non è sembrato incorniciare gli standard soliti di male, comepatologia di condanna ideologica di chi lo compie: in questo senso la filosofa sidomanda se la dimensione del male sono una condizione necessaria di “operare ilmale“. Si plasmava un nuovo fenomeno del male, le cui radici non sono stateancorate negli standard filosofici, morali, religiosi tradizionali, al meno si apriràuna prospettiva nuova sul comprensione del male.La stessa, riprende la tematica nelle prime pagine dell’introduzione de “La Vitadella Mente“: assistendo al processo Eichmann la Arendt disse: ” mi sono sentitascioccata perché tutto questo contraddice le nostre teorie sul male“.Un accenno alle sue tesi sulla banalità sono presenti ne “Le Origini diTotalitarismo” (1951), il suo primo saggio, nel quale sosteneva che l’aumento ditotalitarismo, era dovuto all’esistenza di un nuovo genere di male, il male

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assoluto, che, “non poteva essere a lungo spiegato e capito con malvagie ragionidi egoismo, avidità, bramosia, risentimento, sete per potere, e codardia“. Nascevaun “hostis generis humani“, tradotto dal latino nemico del genere umano.Come può dunque la capacità di pensare muoversi in modo da evitare il male? Perprima cosa – secondo la Arendt – gli standard etici e morali basati sulle abitudini esulle usanze hanno dimostrato di poter essere cambiati da un nuovo insieme diregole di comportamento dettate dall’attuale società. La filosofa si interrogasul come sia possibile che pochi individui, non aderiscano al regime malgradoogni coercizione. A tale domanda risponde in maniera semplice: i nonpartecipanti, chiamati irresponsabili dalla maggioranza, sono gli unici che osanoessere “giudicati da loro stessi“; e sono capaci di farlo non perché posseggano unmiglior sistema di valori o perché i vecchi standard di “giusto e sbagliato” sianofermamente radicati nella loro mente e nella loro coscienza, ma perché essi sidomandano fino a che punto, un individuo può vivere in pace con sé stesso, dopoaver commesso certe azioni.

Hannah Arendt (Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975) è statauna filosofa, storica e scrittrice tedesca naturalizzata statunitense. La privazionedei diritti civili e la persecuzione subite in Germania a partire dal 1933 a causadelle sue origini ebraiche, unitamente alla sua breve carcerazione, contribuironoa far maturare in lei la decisione di emigrare. Il regime nazista le ritirò lacittadinanza nel 1937; Hannah Arendt rimase quindi apolide fino al 1951, anno incui ottenne la cittadinanza statunitense.

La Arendt chiaramente presuppone alla facoltà del pensare questo tipo digiudizio. Questa presupposizione non necessita di una elevata intelligenza, masemplicemente l’abitudine di vivere insieme, e in particolare con se stessi, il

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ché significa, essere occupato in un dialogo silenzioso tra l’io e l’io, che daSocrate è stato chiamato “pensare“.L’incapacità di pensare non è stupidità: può essere presente negli individui piùintelligenti e la malvagità non è la sua causa, ma è necessaria per causare grandemale. Dunque l’uso del pensiero previene il male. Una delle questioni principaliconsiste nel fatto che un’intera società può sottostare ad un totale cambiamentodegli standard morali, senza che i suoi cittadini emettano alcun giudizio circa ciòche sta accadendo. La Arendt sceglie Socrate come suo modello di pensatore. Unamaniera per prevenire il male è come detto sopra rintracciabile nel processo delpensare. Questo pensare per Socrate provoca essenzialmente la perplessità cheha il potere di dislocare gli individui dalle loro regole di comportamento.La capacità di pensare, ha dunque la potenzialità di mettere l’uomo di fronte adun quadro bianco annullando il bene o il male, ma semplicemente attivando in luila condizione per stabilire un dialogo con se stesso e permettendogli dunque dideliberare un giudizio circa tali eventi. La Arendt sta cercando di evitare l’aderiredegli uomini a ogni tipo di standard morale, sociale o legale senza esercitare laloro capacità di riflettere, basata sul dialogo con se stessi, circa il significato degliavvenimenti, ovvero la manifestazione del pensiero, il quale è capace di provocareperplessità e obbliga l’uomo a riflettere e a pronunziare un giudizio.La banalità del male che appare attraverso Eichmann, rende evidente come ilfenomeno del male può mostrare la sua faccia. In un trattato scritto per undibattito su “Eichmann a Gerusalemme” nel Collegio Hofstra nel 1964, la Arendtha affermato che “banalità” significa “senza radici”, non radicato nei “motivicattivi” o “impulso” o forza di “tentazione“.La Arendt asserisce inoltre: “la mia opinione è che il male non è mai ‘radicale’, masoltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensionedemoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce insuperficie come un fungo. Esso sfida come ho detto, il pensiero, perché il pensierocerca di raggiungere la profondità, andare a radici, ed nel momento in cui cerca ilmale, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”… solo il beneha profondità e può essere integrale.”Tornando al processo, archiviata l’ipotesi di matrice tedesca, venne consideratauna seconda opzione per avviare il procedimento. Si pensò quindi allaconvocazione di un tribunale internazionale ad hoc, che presupponesse l’utilizzodel c.d. Codice di Norimberga (un insieme di principi giuridici scritti e utilizzatiper la prima volta nel 1945, ndr).Un simile approccio, tuttavia, avrebbe comportato la violazione del principio diretroattività della norma penale sostanziale. Un ipotetico tertium genus daconsiderare, invece, sarebbe stato un processo tutto israeliano.Al di là dei problemi, sorti dopo l’operazione del Mossad, si poneva una questionesquisitamente giuridica: qual era la norma da applicare? Le possibilità facevano

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capo a tre modelli alternativi. In primo luogo si considerò un rito penale ordinario,che concedesse di processare Eichmann per omicidio plurimo. Tale ipotesi non fuaccolta con favore, giacché sembrava svilire la carica simbolica e politica che quelprocesso sembrava essere destinato ad assumere.Si considerò un’alternativa incentrata sul modello processuale italiano, mediantel’audizione di un Tribunale Militare. Eppure un impedimento intrinseco allafattispecie impedì di procedere in tal guisa. Eichmann non era un militare:facendo parte delle SS, era considerato un paramilitare. Peraltro il concorso inomicidio – capo d’imputazione riferito ad Eichmann, era alquanto difficile daprovare nel novero dei sei milioni di omicidi commessi.Di fatto soltanto in un’occasione emerse la partecipazione diretta di Eichmannall’uccisione di un ebreo: si trattava di un ragazzino, sequestrato da Eichmann eucciso da questi a bastonate, in concorso con la propria guardia del corpo.Pertanto, al fine di evitare un tortuoso processo penale ordinario, si decise diprocedere ad una soluzione ibrida, destinata a diventare un precedente giuridicorivoluzionario.Il paradosso consisteva nel fattore, che uno dei maggiori responsabili dei crimininazisti della questione ebraica, infine sfociata nella “soluzione finale” rischiasse diavere una pena lieve, per i crimini contro l’umanità commessi.Si decise di celebrare il processo a Gerusalemme, davanti ad un tribunaleordinario, ma applicando i capi d’ imputazione ricavati dall’esperienza delprocesso di Norimberga.Il Parlamento d’Israele aveva infatti recepito i principi giuridici fondamentali,coniati per il processo di Norimberga con un’apposita legge ordinaria: “La leggesulla punizione dei Nazisti e dei loro collaboratori” del 1950.La normativa introduceva il reato di “crimini contro il popolo ebraico”, una chiarainterpretazione estensiva dei “crimini contro l’umanità” previsti dal Codice diNorimberga.Tale disciplina adottata dal Tribunale distrettuale di Gerusalemme, costituì unapotente arma contro la difesa di Eichmann. La legge infatti prevedeva un forteinasprimento delle pene e una fattispecie abbastanza aperta e idonea acondannare qualunque nazista, che fosse stato dotato di un incarico diresponsabilità.Di fatto, sul solco di tali premesse, Eichmann venne condannato dalla propriainappuntabile precisione. Avendo egli annotato ogni operazione con pedanteriamaniacale, venne accertata la sua responsabilità solo in ordine all’eliminazionedegli ebrei.

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Col grado di SS-Obersturmbannführer era responsabile di una sezione del RSHA;esperto di questioni ebraiche, nel corso della cosiddetta soluzione finale organizzòil traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei ai vari campi di concentramento.Criminale di guerra, sfuggito al processo di Norimberga, si rifugiò in Argentina,ma venne poi catturato dal Mossad, processato e condannato a morte in Israeleper genocidio e crimini contro l’umanità.

Per questa ragione Eichmann, pur volendo, non avrebbe potuto addurre a propriascusante il fatto di essere un criminale di guerra ordinario. L’ultimo barlume disperanza per Eichmann sarebbe potuto provenire dal fronte del dirittointernazionale. Questo perché L’Argentina contestò aspramente l’operazioneillegale condotta da Mossad.Il Tribunale Internazionale delle Nazioni Unite, l’organismo arbitrale specializzatonella risoluzione delle controversie fra gli stati, riconobbe un risarcimentoall’Argentina, ma allo stesso tempo decise di non ingerirsi nel Processo diGerusalemme.Eichmann venne quindi processato e condannato a morte in tempi relativamentebrevi. Il processo in quanto tale, fu di risonanza mondiale, ma la questionegiuridica che sorreggeva la sua impalcatura non venne risolta definitivamente convoci assonanti sul piano dottrinale.Si creò in questo modo un precedente giuridico, che finì per riaprire vexataequestiones mai sopite: era legittima la deroga al principio di irretroattività dellalegge penale? Molti giuristi blasonati del calibro di Kelsen risposeronegativamente. Anzitutto, in base al rilievo che all’epoca dei fatti non esisteva loStato di Israele, né di riflesso il Codice penale di Israele, in base al quale il nazista

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venne alfine condannato.Secondo altra parte dei commentatori, in caso di gross violations di simile portatasarebbe stata legittima anche una deroga al principio di irretroattività della leggepenale. La questione resta teoreticamente ancora aperta e irrisolta. Ai posteril’ardua sentenza, dunque, con la consapevolezza che “il processo del secolo” si èconsumato anche su un terreno di battaglie giuridiche, di cavilli e codici.

Per approfondimenti:_Hannah Arendt, La banalità del male – Edizioni Feltrinelli_Deborah E. Lipstadt, Il processo Eichmann – Edizioni Einaudi

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L’origine del Cavallino Rampante:il binomio Baracca-FerrariL’origine del Cavallino Rampante: il binomio Baracca-Ferraridi Davide Bartoccini14/05/2017

«Caro Ferrari, lo metta sulle sue macchine da corsa. Le porterà fortuna». E’ il 17giugno del 1923 , Enzo Ferrari ha 25 anni, è un giovane squattrinato con unpassato infelice, ma ha appena vinto la prima competizione della sua vita: il GranPremio del Circuito del Savio volando su di un’Alfa Romeno Rltf che porta ilnumero 28.La contessa Paolina de Biancoli, assiste alla gara e ne rimane entusiasta, notaun’affinità, prova un nostalgico senso materno e gli porge un “cavallinorampante” nero dipinto su un pezzo di tela.

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Enzo Anselmo Ferrari (Modena, 20 febbraio 1898 – Modena, 14 agosto 1988) èstato un imprenditore, dirigente sportivo e pilota automobilistico italiano,fondatore della omonima casa automobilistica, la cui sezione sportiva, la ScuderiaFerrari, conquistò in Formula 1, con lui ancora in vita, 9 campionati del mondopiloti e 8 campionati del mondo costruttori.

La tela proviene da uno SPAD S.XIII, un biplano da caccia, quello ch’era di suofiglio, Francesco Baracca, l’asso degli assi. Lo aveva fatto dipingere sulla fusolieraalla sua quinta vittoria, quando divenne asso nel 1916 durante la Grande Guerra,volando per la 91^ Squadriglia, detta “Squadriglia degli Assi”, dove erano statiriuniti tutti i migliori piloti del Regio Esercito.Francesco Baracca è stato il più importante pilota italiano del primo Novecento.Aviatore abile e coraggioso, idolo delle folle e sogno di moltissime donne, Baraccadivenne presto un mito: “Quando volo, soprattutto quando sto duellando con ilnemico, la mia mente è vuota, libera, non pensa. Agisco d’istinto, rovescio l’aereo,lo faccio scivolare d’ala, lo metto in vite, lo richiamo“.A Pinerolo, dal 1909 al 1910, Francesco Baracca frequenta la scuola di cavalleriapresso il 2° Reggimento “Piemonte Reale” fondato nel 1692 dal duca di Savoia colmotto “Venustus et Audax”. Si tratta di uno dei più prestigiosi reparti dell’esercitoitaliano e come stemma araldico porta il cavallino rampante argenteo su camporosso, guardante a sinistra e con la coda abbassata. Francesco Baracca sceglie di

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adottare, apportando delle varianti, lo stesso stemma del “Piemonte Cavalleria”quale emblema personale per rivendicare le personali origini militari e l’amoreper i cavalli. Il cavallino non appare sui primi aerei pilotati dall’Asso degli assi, masolo a partire dal 1917 quando viene costituita la 91^ Squadriglia Aeroplani,reparto che avrà in dotazione i più recenti caccia forniti dall’alleato francese: ilNieuport 17 ed alcuni SPAD VII e XIII.Sul lato destro della fusoliera di questi velivoli i piloti usano applicare le loroinsegne personali e Baracca adotta come proprio questo cavallino rampantemutandolo da argenteo in nero per farlo spiccare maggiormente rispetto al coloredella fusoliera. E’ ormai provato che il cavallino è sempre stato nero, peròguardante verso destra, come è testimoniato da un pannello multistrato dipinto,esistente nelle collezioni, sicuramente antecedente la morte di Baracca.Rientrato in Italia nel luglio del 1915, esegue voli di pattugliamento ed ottiene laprima vittoria il 7 aprile 1916 ai comandi di un Nieuport con il quale abbatte unAviatik austriaco. Per le sue azioni di guerra, riceve una medaglia di bronzo, tred’argento, la croce di cavaliere dell’ordine militare di Savoia, la croce di cavaliereufficiale della Corona Belga, ed infine la medaglia d’oro, con la quale vienepremiato per l’abbattimento del trentesimo aereo nemico sul monte Kaberlaba,sull’altopiano di Asiago.

Francesco Baracca (Lugo, 9 maggio 1888 – Nervesa della Battaglia, 19 giugno1918) è stato il principale asso dell’aviazione italiana e medaglia d’oro al valormilitare nella prima guerra mondiale, durante la quale gli vengono attribuitetrentaquattro vittorie aeree.

Purtroppo, il 19 giugno del 1918, rimase ucciso durante una missione dimitragliamento a bassa quota delle trincee austro-ungariche nei pressi diMontello, lungo la linea del Piave, forse da un cecchino, forse da se stesso, con uncolpo di rivoltella alla tempia, come era abitudine dei piloti da caccia per non

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morire bruciati nei loro aerei una volta abbattuti. Aveva 30 anni.Tornando al giovane Ferrari, questi accettò, anche non sapendo ancora benecome impiegare il cimelio. A quel tempo correva come gentleman-driver, eguidava le Alfa Romeo, che uno stemma già lo avevano.Questo non lo dissuase però. L’anno seguente fondò una società con lo scopo dicomperare automobili da competizioni Alfa, modificarle e competervi nelcalendario nazionale delle gare sportive. Il 9 luglio del 1932 il cavallino rampantetrovò nuovamente il suo posto, sfrecciando alla 24 ore di Spa-Francorchamps suun fondo giallo – colore modificato dall’originale bianco in onore della sua cittànatale: Modena. Ferrari fonderà su di esso il suo emblema.La conoscenza dei telai automobilistici e il suo sconfinato amore per le auto dacorsa porteranno alla nascita la ”Scuderia Ferrari” solo nel 1947 – ormai spostasia Maranello per paura dei bombardamenti – dando inizio ad una leggendadell’automobilismo.

La scuderia competé al Gran Premio di Monaco nel 1950 e al primo Gran Premiodi F1 l’anno seguente. Il resto è storia che conoscerete meglio di me.Riguardo all’origine dello stemma, che Baracca scelse, e che oggi grazie a Ferraritutto il mondo conosce e ci invidia, ci sono due ipotesi. La prima che sia unastilizzazione dello stemma del 2′ Reggimento Cavalleria “Piemonte Reale”, alquale Baracca apparteneva. A quel tempo infatti i primi aviatori, come i primi

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carristi, erano inquadrati nella cavalleria. La seconda invece sarebbericonducibile alla cavalleria nella pura accezione del virtuosismo del termine. Iprimi aviatori divenivano assi al quinto avversario abbattuto, e come segno dirispetto per onorare l’avversario dipingevano l’insegna dell’ultimo sul proprioaereo. L’ultimo avversario di Baracca fu un Albratros B.II e le origini di Stoccardadel suo pilota avrebbero motivato l’utilizzo del simbolo della città: la giumenta.Questo ricondurrebbe anche alle iniziali presenti sotto il cavallino S. F. StuttgartFerrari.Come molti grandi legati a doppio filo dalla storia, Francesco Baracca ed EnzoFerrari non si sono mai conosciuti. Chissà se avrebbero legato. Eppure qualcosain comune lo avevano: con le macchine inventate dall’uomo “volavano” forte,abbastanza forte da rendere tutta la nazione, che in tempi non sospetti sichiamava patria, fiera di loro, per sempre.

Note: si ringrazia il giornale online “Storie di Guerra”

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Wallis Simpson: la donna che sfidòun ImperoWallis Simpson: la donna che sfidò un Imperodi Liliane Jessica Tami del27/04/2017

Di origini modeste Bessie Wallis Warfield, viene al mondo negli Stati Uniti il 19giugno 1896, presto orfana di padre e con la madre costretta a crescere la figliacontando sugli introiti che le venivano da umili impieghi e dall’elemosina deiparenti. Tuttavia scelse di far studiare la ragazza nelle migliori scuole, certa checosì potesse incontrare coetanei ricchi pronti a sposarla. Bessie invece siinnamorò del pilota Winfield Spencer, convolò a nozze con lui e durante la luna dimiele scoprì che il marito era violento, sadico e alcolizzato. Il divorzio fu unascelta obbligata e pochi mesi più tardi fece amicizia a New York con ErnestSimpson, il futuro secondo coniuge, un agente di assicurazione. Il matrimonio fucelebrato a Chelsea e in seguito andarono a vivere a Londra dove a una festa

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viene presentata al futuro sovrano che non tarda a corteggiarla.Per tutti i primi mesi della loro relazione, la stampa britannica mantiene il silenziosul legame: nessuna immagine esce delle numerose crociere a bordo dello yachtin navigazione nel Mediterraneo, nessuna notizia viene data sulle udienze in corsosul secondo divorzio di Wallis. Giorgio V, padre del principe di Galles, muore il 20gennaio 1936, Edoardo gli succede e pochi mesi dopo è il vescovo di Bradford adabbattere il muro del silenzio, dichiarando ai giornali che il re ha un assolutobisogno della grazia divina per poter ricoprire con questa donna al fianco l’alto egravoso compito al quale è stato chiamato.

Wallis Simpson, nata Bessie Wallis Warfield (1896 – 1986), duchessa di Windsor.

I tabloid popolari iniziano così a titolare il comportamento poco consono per ladignità di un membro di casa Windsor e gran parte dell’opinione pubblica è dellostesso avviso, nonostante a fianco di Edoardo si schierino politici di forte caraturacome Churchill, ma anche imbarazzanti appoggi pubblici da Edward Mosley, capodell’ultradestra filo-nazista inglese.Gli eventi precipitano quando il premier Stanley Baldwin afferma che il paese“non è pronto per una regina Wallis” asserendo come questa non nutrapreoccupazioni di ordine morale. I motivi sono politici, legati al passato dellasignora e ai rapporti con la destra europea. I servizi segreti avevano fornito aDowning Street nei mesi precedenti all’abdicazione del 1936 rapporti nei quali sisostiene che Wallis a Londra manteneva “una affettuosa amicizia” conl’ambasciatore nazista e risultava coinvolta in un vasto traffico internazionale diarmi. Troppo, in effetti, per una possibile regina. C’era poi anche altro: grazie aWallis il sovrano nel 1936 stava maturando l’idea di schierare il paese al fianco diHitler e del Terzo Reich. Edoardo aveva in animo un vertice ufficiale a Berlino perspartirsi con il Fuhrer le zone di influenza ed era pronto a offrire ai nazisti manolibera in Europa in cambio della salvezza dell’Impero.

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Sposando in terze nozze il duca di Windsor, Edoardo VIII, dopo alla suaabdicazione al Trono del Regno Unito, è divenuta Duchessa di Windsor. Accantoal marito, celeberrimo per il suo impeccabile guardaroba e per il buon gustotipicamente british, Wallis è stata una gentildonna colta, raffinata, dolcementescandalosa, ma soprattutto è stata il modello estetico per tutte le giovani donnedegli anni 30-40 che volevano coltivare l’arte del buon gusto.A parer suo – che era alta solo un metro e 57 – la bellezza della donna, nondipende esclusivamente dal fisico, bensì dalla cultura e dalla capacità di abbinarei capi più belli ed idonei “Non sono bella, ma quello che so fare è vestirmi megliodi chiunque altro!” asseriva lei, modesta ed inconsapevole musa di interegenerazioni. Il gossip su di lei più chiacchierato, oltre le presunte relazioni con ipiù important i uomini del mondo, sarebbe la s impatia verso alpartito Nazionalsocialista.La moglie del duca di Windsor mal sopportava gli oggetti brutti: elementi scaturitiper causa della mediocrità estetica degli individui, e – nonostante il matrimonioregale – non nutriva simpatie per la monarchia per la causa dello smembramentodella società in classi sociali. Altro elemento discordante con il suo pensiero erariferito al sistema dei titoli nobiliari: questi – difatti – erano tramandati non permerito, bensì per linea di sangue, come è stato sancito da Clodoveo I – Re deiFranchi – nel codice conosciuto con il nome di “Legge Salica” presentato nel 503.Tale sistema adottato delle monarchie europee era mal sopportato da tutti iregimi totalitari, compreso quello nazista di Adolf Hitler, tramite il quale WallisSimpson – non conoscendone gli sviluppi ideologici definitivi -, stimava essendoanche lei – come il Führer tedesco – una “figlia del popolo“, salita agli onori graziead una rigorosissima scalata sociale.A spingere il Re del Regno Unito Edoardo VIII, nel dicembre 1936, ad abdicarerispettando le regole di successione al trono britannico varate nel 1701 dalparlamento inglese – in seguito alla fuga del re Giacomo II in Francia – in favoredella figlia Maria e del marito Giglielmo d’Orange, non poteva infatti che esserviuna donna di simpatie popolari e spregiudicata.

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L’undici dicembre 1936, il re del Regno Unito Edoardo VIII abdicò a favore di suofratello, il principe Alberto, che diventò re con il nome di Giorgio VI. La suadecisione, la prima volontaria rinuncia al trono da parte di un sovrano britannicoin oltre mille anni, fu motivata dalla relazione con Wallis Simpson, una donnadivorziata di 40 anni nata in un paesino della Pennsylvania e che l’ex sovranosposò pochi mesi dopo. Fu un evento storico drammatico per la Gran Bretagna eseguitissimo in tutto il mondo, per ragioni ugualmente distribuite di politica epettegolezzo. La foto di destra mostra un’immagine di Fort Belvedere, il palazzodel XVIII secolo nel parco di Windsor che fu la residenza di re Edoardo VIII.

Wallis Simpson, moglie di Edoardo Ottavo, divenuto duca di Windsor dopoall’abdicazione a lei imputabile, è stata l’unica persona al mondo infatti apermettersi di criticare pubblicamente la Regina d’Inghilterra per il suo gustoestetico: disse, infatti, che la Regina si vestiva come una cuoca.Amare all’estremo il bello, aborrire l’arte degenerata, bramare gli oggettipreziosi, esser pronti a sacrificare tutto in nome di un rigido piacere estetico e diun’ideale superiore di bellezza ed armonia, sono infatti caratteristiche che hannoplasmato il suo mito. Una cura del dettaglio che – per paradosso – porterà ladonna statunitense ad avvicinarsi al gusto adottato dal terzo Reich, con l’austeraeleganza delle divise delle SS disegnate dallo stilista Hugo Boss, fino allemagnifiche architetture di Albert Speer. Per capire la bramosia di bellezza diWallis Simpson bisogna andare a vedere nel suo coffret à bijoux che, dopo alla suamorte avvenuta il 24 aprile 1986, contava più di 214 preziosi tra anelli, collier espille, realizzati apposta per lei dalle più famose maison orafe; Cartier, Van Cleef& Arpels tra i tanti. Grazie ai regali del duca di Windsor, in 20 anni di matrimonio,Wallis ha raccolto una delle più grandi collezioni di gioielli al mondo, battutaall’asta da Sotheby’s a Ginevra, nel 1987, alla cifra record di 53 milioni e mezzo didollari. Grazie a quest’asta Liz Taylor, che cercava di competere con Wallis, elettadal Time donna dell’anno del 1936, riuscì ad accaparrarsi la tanto desiderata

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spilla a forma di piume tempestata di diamanti disegnata proprio da Edoardo VIIInel 1935. Molto spesso il bijoux portava con sé un messaggio d’amore di Edoardo.Uno su tutti, l’anello con smeraldo che lui le regalò per festeggiare il lorofidanzamento e la separazione dal secondo marito di Wallis, Ernest AldrichSimpson, direttore di un’agenzia di trasporti.All’interno, il gioiello portava la dedica che sanciva l’inizio ufficiale della storiad’amore tra il principe del Galles e la donna più ambita del momento: adessosi appartenevano. La coppia, infatti, dopo essersi liberati dalle responsabilità dellacorona a favore del fratello si sposa il 3 giugno del 1937 Château de Candé inFrancia.Nonostante tutte le opposizioni politiche e sociali allo scandaloso matrimonio tral’erede al trono ed una ragazza divorziata – per ben ben due volte e appartenenteal ceto medio -, Edoardo VIII, primogenito del Re , non tornerà mai sui suoi passi,e per 35 anni, sino alla sua morte – avvenuta il 28 maggio 1972 nella VillaWindsor di Parigi -, la coppia più elegante del secolo, resterà unita e indivisibile.

Una foto del tanto celebre matrimonio fra i due. A destra, il castello di Château deCandé: il castello è localizzato nel comune della cittadina francese di Monts,nell’Indre-et-Loire, a 10 km dal sud di Tours.

Su Wallis Simpson vi sono una quantità incredibile di dicerie, sia per ciò cheriguarda la vita privata, che per quella pubblica e politica: alcune fonti affermanoche, prima del matrimonio con l’elegante duca Edoardo III, abbia avuto unarelazione con Johachim von Ribbentrop, ministro degli esteri tedeschi, ed altripettegoli asseriscono che abbia imparato in Asia i trucchi di seduzione sensualedelle Geishe. La storia però, sulla sua simpatia per il Partito Nazionalsocialista deiLavoratori tedeschi parla chiaro: nel 1937, Adolf Hitler ricevette la coppia aBerchstesgaden in pompa magna ed il principe del Galles assistette alle paratedelle Schutz-staffeln (squadre di protezione).

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Secondo un documento della polizia segreta portoghese, la PVDE (Polícia deVigilância e Defesa do Estado), Edoardo e Wallis in quegli anni cercarono diaiutare la Germania a vincere la guerra, mediante un’attività di divulgazione didocumenti segreti, affinché il popolo inglese non adottasse i democratici valoriamericani. Il governo inglese, per disfarsi di Edoardo, lo mandò alle Bahamasnominandolo governatore sino alla fine della guerra, che si godette sullo yatch travini prelibati e feste in grande stile. Franklin Delano Roosevelt temeva che laduchessa potesse riferire troppe informazioni belliche importanti all’amicoRibbentrop e, come riporta un documento dell’FBI divulgato dal The Guardian, lafece sorvegliare costantemente. La coppia, anti-democratica ed anti-monarchica –nella sua apparente dissolutezza – visse sino alla fine con una ferrea disciplina,seguendo l’amore per il bello e tentando di abbattere le barriere tra le classisociali, ma non sempre i due riuscirono correttamente ad esprimere nella pratica iloro ideali.

Per approfondimenti:_Caroline Blackwood, La duchessa – Editore Codice_Gilbert Sinoué, Le storie d’amore che hanno cambiato il mondo – Editore NeriPozza_Juan Vilches, Ti regalo il mio regno – Editore Imprimatur

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