Langobardia Minor / Stefania Manni
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Langobardia minor
Il termine Langobardia minor indica le regioni dell’Italia meridionale controllate dai Longobardi, in
antitesi alla definizione di Longobardia megale con cui gli scrittori bizantini del XII secolo si riferivano
al più vasto regno longobardo con capitale Pavia. Appellativi differenti per indicare territori soggetti
alla stessa dominazione longobarda in due distinte zone della penisola, le cui vicende politiche si
svolsero in maniera autonoma l’una dall’altra. Infatti il Ducato di Benevento, comprendente tutti i
territori controllati dai Longobardi meridionali, presentò sin dai primi anni di vita una spiccata
autonomia mantenendola dopo il 774, data della conquista franca del Regnum Langobardorum.
La distanza che divideva il Sud longobardo dalla capitale Pavia fu certo un fattore determinante per
lo sviluppo delle peculiarità meridionali presenti nel Beneventano la cui storia, all’indomani della
caduta del regno, fu complicata al suo interno da guerre civili e scorrerie saracene, mentre, al di fuori
dei suoi confini, le contese tra Impero franco e Impero bizantino rappresentarono una continuaminaccia.
Le rivendicazioni delle terre occupate dai Longobardi da parte dei due imperi, se da un lato
costituirono un pericolo per il ducato meridionale, dall’altro ne garantirono la sopravvivenza per oltre
tre secoli dalla cacciata dell’ultimo re longobardo. Il ducato di Benevento divenne allora, almeno in
teoria, la patria di tutti i Longobardi ed il suo duca il loro rappresentante, in nome di un sentimento
nazionalistico che da sempre aveva caratterizzato la cosiddetta Longobardia minore. Forte della sua
posizione strategica, essa seppe sfruttare a proprio vantaggio le complesse vicende politiche deltempo, inserendosi ora a fianco dell’uno ora dell’altro al solo fine di mantenere la propria
indipendenza.
Se il ducato, poi principato, beneventano riuscì a sottrarsi alla dominazione carolingia e a quella
bizantina, non fu invece in grado di frenare la frantumazione del suo territorio. Esso si divise
inizialmente in due tronconi, con la nascita del Principato di Salerno, dal quale subito dopo si
separò la Contea di Capua. In seguito, la progressiva autonomia concessa ai poteri comitali favorì
un’ulteriore frammentazione dell’antico ducato, mentre gli imperatori bizantini riorganizzavano i
territori sottratti all’occupazione longobarda in Catepanati, estendendo i più antichi Temi.
Langobardia minor di Stefania Manni è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione -
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Based on a work at http://www.storiadigitale.it/book/e-medievale/langobardia-minor .
Salerno, ricordata nel VII secolo come castrum,[1] assunse il ruolo di capitale dell’omonimo principato
dopo la divisione dell’antico ducato di Benevento nell’849.
Le notizie del castro romano prima di questa data sono poche e contraddittorie. Paolo Diacono
elenca Salerno tra le opulentissime urbes della Campania al momento della conquista longobarda,
http://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn1http://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0/http://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0/http://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0/http://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0/http://it.wikipedia.org/wiki/Catapanato_d%27Italiahttp://it.wikipedia.org/wiki/Principato_di_Capua#Contea_di_Capua_.28longobardi.29http://it.wikipedia.org/wiki/Regno_longobardohttp://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Diaconohttp://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn1http://www.storiadigitale.it/book/e-medievale/langobardia-minorhttp://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0/http://www.storiadigitale.it/book/e-medievale/langobardia-minorhttp://it.wikipedia.org/wiki/Catapanato_d%27Italiahttp://it.wikipedia.org/wiki/Principato_di_Capua#Contea_di_Capua_.28longobardi.29http://it.wikipedia.org/wiki/Regno_longobardohttp://it.wikipedia.org/wiki/Principato_di_Beneventohttp://it.wikipedia.org/wiki/Longobardo
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anche se questa era forse la situazione che si presentò ai suoi occhi quando raggiunse Benevento
con il suo signore Arechi II (758-787).[2] PD. HL TEXT Al contrario, Procopio di Cesarea disegna
un quadro drammatico della situazione di abbandono e miseria in cui versavano le campagne
dell’Italia meridionale dopo la rovinosa Guerra gotica (535-559) di cui egli stesso fu testimone.[3]
Qualche notizia più precisa si ha solo dopo il 774, anno in cui iniziarono i lavori arechiani destinati a
cambiare il volto del luogo. L’allestimento dei cantieri salernitani segue di qualche anno l’attivitàedificatoria già avviata da Arechi II nella capitale Benevento. Gli interventi nei due centri sono
analoghi: la costruzione di un palazzo, di una chiesa e di mura difensive. A Salerno per queste ultime
fu sfruttato lo scheletro dell’antica fondazione romana, all’origine forse della scelta del sito da parte
del duca beneventano. La tesi della città fortezza è inaugurata da Erchemperto, che attribuisce
l’iniziativa arechiana alla preoccupazione di un’aggressione franca contro il ducato meridionale.
Questa, infatti, secondo il cronista, determinò la scelta di un sito già dotato di difese e con una via di
fuga verso il mare.[4] ERCH. TEXT
Effettivamente tale fu la sua funzione all’indomani della caduta del regno longobardo nelle mani di
Carlomagno, quando, nel 786, Arechi II ed il suo seguito si rifugiarono nella nuova fondazione alla
notizia della spedizione meridionale del sovrano carolingio.
Nel mutato contesto ideologico e politico, dominato dalla caduta del regno e dall’assunzione della
dignità principesca da parte di Arechi, la costruzione del palatium e della chiesa di San Salvatore
potrebbero però far parte di un progetto più ampio che non il semplice restauro di una fortezza,
come conferma la stessa chiesa voluta da Arechi II nel momento in cui accolse la sua salma e quella
del suo primogenito. Una chiesa palatina, quindi, quella di San Salvatore di Salerno, che induce adattribuire ad Arechi II la volontà di dare una nuova capitale alla sua progenie, destinata nei suoi
progetti a governare il nuovo principato.[5]
Salerno capitale
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Il primo principe di Salerno, all’indomani della divisione del principato voluta da Ludovico II, fu
Siconolfo (847-849). Egli stesso chiese l’aiuto del re d’Italia tramite il cognato Guido, conte di Spoleto,
da tempo nell’orbita franca. Ludovico intervenne nell’849, ponendo fine a dieci anni di lotte interne al
principato longobardo che avevano aperto la strada alle scorrerie arabe, chiamate inizialmente dalle
due fazioni per rafforzare i propri eserciti. La perdita del controllo sulle truppe di mercenari
musulmani spinse i due contendenti a richiedere l’intervento del re franco come super partes, per
porre fine allo sfacelo causato dallo scisma politico della Langobardia minor, che nell’846, avevainvestito anche i territori soggetti all’autorità pontificia con il sacco delle chiese dei SS. Pietro e Paolo
fuori Roma.[6]
I dieci anni (839-849) in cui si consumò il conflitto per la successione al principato videro l’affermarsi
di Salerno come centro politico. Il palazzo e le mura arechiane, che avevano dato al castrum dignità
di città, furono popolate da una parte dell’aristocrazia beneventana che alla morte del principe
Sicardo (832-839) non riconobbe come proprio rappresentante Radelchi, il tesoriere del principe
defunto. Questa parte di aristocrazia, fedele al principio ereditario del potere, si rivolse allora a
Siconolfo, fratello di Sicardo, esiliato a suo tempo dallo stesso principe che vedeva in lui una
minaccia per la reggenza.
Una volta riconosciuto come principe di Salerno da Ludovico II, Siconolfo associò al potere il proprio
figlio Sicone, affermando il diritto dinastico anche nella nuova capitale.
La prematura scomparsa di Siconolfo, avvenuta lo stesso anno, lasciò il principato nelle mani del suo
giovane erede, sotto la tutela del padrino Pietro, come si legge nell’intestazione delle carte cavensi
tra il marzo dell’852 ed il maggio dell’855. In questi anni il rector Pietro, pur non usurpando il poteredel piccolo principe, manovrò abilmente, sino ad associare al trono il figlio Ademario, come dimostra
la documentazione relativa agli anni 854 e 855 in cui compaiono i nomi dei tre reggenti. Solo dall’856
figurano gli anni di governo del solo Ademario il cui principato fu riconosciuto dall’imperatore franco,
lo stesso Ludovico II che solo sette anni prima aveva legittimato il governo di Siconolfo.
Il nuovo principe di Salerno, nell’861, tentò di affermare il primato della propria famiglia anche
all’interno delle istituzioni ecclesiastiche nominando vescovo il fratello Pietro senza alcuna elezione,
scatenando così la reazione degli oppositori interni.[7] Infatti, proprio le eccessive ambizioni
accentratrici di Ademario ne dettarono l’assassinio avvenuto quello stesso anno per mano di alcuni
nobili salernitani.
[1] P. DELOGU, Mito di una città meridionale (Salerno sec. VIII-XI), Napoli 1977, pp. 36-38.
[2] PD. HL, l. II, c.17.
[3] PROCOPIO di CESAREA, La guerra gotica, a cura di D. Comparetti, voll. I-III, Roma 1895-1898
(Fonti per la storia d’Italia), l. II, c. 3.
[4] Erch., c. 3, p. 243: “ et ut ita dicam Francorum territue metu, inter Lucaniam et Nuceriam urbem
munitissimam et praecelsam in modum tutissimi castri idem Arichis opere mirifico extruxit, que
propter mare contigum, quod salum appellatur, et ob rivum qui dicitur Lirinus ex duobus corruptum
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vocabulis Salernum appellatur, esset scilicet futurum praesidium principibus superadventate exercitu
Beneventum”.
[5] DELOGU, Mito, cit., pp. 36-40. Nella scelta del sito è certo da considerare la posizione di Salerno
rispetto alle strade romane, in particolare la via Annia, che attraversava tutto il principato da Eboli a
Reggio, e la strada per Agropoli, che nell’VIII secolo era un porto trafficato dalle navi greche.
[6] M. SCHIPA, Storia del principato longobardo di Salerno, in F. HIRSCH-M. SCHIPA, La
Longobardia meridionale. Il ducato di Benevento. Il principato di Salerno, a cura di N. Acocella, Roma
1968, pp. 105-108.
[7] SCHIPA, Storia del principato, cit., p. 121.
La storiografia interessata agli sviluppi politici e istituzionali della Langobardia minor ha raramente
riconosciuto un legame familiare tra coloro che occuparono la carica di duca, poi di principe, nel
potentato beneventano. Le vicende politiche interne al ducato tra VIII e IX secolo sembrerebberocosì solo un caotico susseguirsi di nomi e alleanze tra potenti, senza un filo conduttore se non
l’avidità di potere dell’aristocrazia longobarda. A ben vedere però in questi limiti temporali della storia
beneventana sono rintracciabili due distinte linee dinastiche principali che si succedono.
La prima dinastia beneventana
La prima fu quella di Arechi I (590-758) che sopravvisse alla morte di Aione, suo unico figlio,
attraverso la successione dei “figli adottivi”, i friulani Radoaldo e Grimoaldo, indicati dallo stesso
capostipite in punto di morte come suoi eredi.[1] PD. HL TEXT
Il primato della dinastia cominciò a vacillare a partire dalla morte di Romualdo II, figlio del friulano
Grimoaldo, a causa della giovane età del successore, Gisulfo, che aprì le porte alle usurpazioni del
trono da parte degli uomini di palazzo. La dinastia che faceva capo ad Arechi I, superò le crisi interne
di questi anni solo grazie agli interventi del re di Pavia Liutprando, il quale, anni prima, si era legato
alla dinastia beneventana dando in sposa la propria nipote Guntberga al duca Romualdo II.[2]
Liutprando intervenne in favore del nipote Gisulfo II una prima volta nel 733, per spodestare un tale
Audelais (731/2), che nel frattempo aveva usurpato il trono al discendente di Arechi I, e sostituirlo
con un altro suo nipote, Gregorio (732-739/40), mentre il piccolo Gisulfo veniva condotto a Pavia. Un
secondo intervento del re si ebbe alla morte di Gregorio, quando il potere fu nuovamente conteso
dalla fazione che raccoglieva i consensi dei funzionari di palazzo, ora raccolti intorno al loro
candidato Godescalco (739-740/42). Questa volta però Liutprando restituì il trono al legittimo erede
ormai in età adulta, sicuro della riconoscenza di quest’ultimo.
A Benevento, il giovane duca, godeva ancora dell’appoggio dei suoi fedeli,[3]PD HL TEXT certo gli
stessi che anni dopo appoggiarono la sua vedova, la principessa Scauniperga, nel ruolo di tutrice
del figlio Liutprando, duca di Benevento dal 751. La tenera età dell’erede del duca Gisulfo II diede
nuovamente l’occasione di interferire con la linea dinastica del primo Arechi ai cortigiani beneventani,
che sostituirono la regina madre con uno di loro, Giovanni gastaldo e referendario.[4]
La seconda dinastia beneventana
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La prima dinastia fu soppiantata definitivamente dall’intervento di un altro re longobardo, Desiderio,
il quale punì la disinvolta politica anti-pavese condotta dal referendario Giovanni, insediando il genero
Arechi II come duca di Benevento.[5]
Il nuovo duca, principe dal 774, pose le basi per la seconda dinastia utilizzando, come la prima,
uomini vicini alla famiglia in mancanza dell’erede di sangue. E’ il caso di Sicone, creatura di Arechi II,
che nell’817 si pose di fronte ai maggiorenti come alternativa al potere del palazzo, rappresentata inquel momento dal tesoriere usurpatore Grimoaldo IV, sul trono dall’806.[6]Chron. Sal.
Assassinato l’usurpatore, Sicone divenne duca proprio in ragione della familiarità con la linea
principesca di Arechi II, come è ricordato nel suo epitaffio.[7]
Nell’848, con la morte del figlio di Sicone, il principe Sicardo, cadde anche la seconda dinastia
beneventana ed il potere fu conteso da altri due uomini di corte, Radelchi ed Adelchi. La vittoria del
primo fu all’origine della guerra civile che portò alla divisione del principato. Il principio dinasticoDa
questa rapida ricostruzione dei fili principali della storia del ducato, poi principato di Benevento, ilpotere sembra legittimato dall’appartenenza ad un gruppo socialmente definito, la famiglia del
principe. La successione pare dunque regolata dal principio dinastico cui partecipano i figli adottivi
per supplire alla mancanza degli eredi diretti. Un diritto scontato quello di sedere sul trono per i
discendenti del duca, tanto da non dover essere confermato dal reggente in vita. La regola viene
tradita dall’unica eccezione rappresentata dall’episodio in cui Arechi I indica come suoi eredi i due
ospiti friulani, ma la parola del duca è in questo caso necessaria perché si tratta di scavalcare il figlio
naturale ancora in vita. Necessaria ma non sufficiente a convincere quel “popolo” che sembra
rispettare solo l’ordine di legittimità per la successione al trono e per ciò acclamò duca Aione, il figlionaturale di Arechi, nonostante fosse demente, e solo dopo la sua morte riconobbe gli uomini indicati
dal duca morente.
Dunque già dalla metà del secolo VIII sono presenti delle regole che determinano la successione al
potere nel ducato beneventano. Tale condizione favorì la creazione di un’organizzazione statale
imperniata sulla figura del duca. Intorno a lui ruotavano funzionari impegnati, a vari livelli, nella
gestione burocratica e amministrativa del ducato che sembrano entrare in scena solo quando il
potere dinastico si indebolisce, cioè quando il potere legittimo è nelle mani di bambini. Assistiamo
così alle prese di potere di agenti del palazzo, soprattutto tesorieri, una carica che consentival’accesso alle casse del ducato e che certo facilitava l’arruolamento di alleati.[8]
È evidente dunque che il potere antagonista del duca era rappresentato dal ceto burocratico, cioè da
coloro che popolavano il palazzo nell’esercizio delle loro funzioni pubbliche, uomini in grado di
raccogliere intorno a sé consensi sufficienti a governare.[9] Il potere di questi ultimi fu inizialmente
favorito dallo stesso duca che fece dei funzionari di palazzo gli unici beneficiari delle sue elargizioni,
considerandoli come gli elementi più preziosi del ducato, tanto da trasformarli in un pericolo per la
continuità dinastica ducale, almeno fino alla metà del IX secolo.[10]
Probabilmente siamo di fronte ad una prima sperimentazione dell’apparato amministrativo che lascia
troppo spazio ad alcuni individui, permettendo loro di affermare un potere personale all’ombra del
publicum. La correzione di tale meccanismo è evidente nella seconda metà dello stesso secolo,
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quando la carica di tesoriere fu assegnata ai soli consanguinei e le funzioni pubbliche ad uomini
fidati. Prassi del potere da Benevento a Salerno Ammesso il legame tra Sicone e la seconda
dinastia beneventana si dovrà riconoscere il trasferimento di questa nel nuovo principato di Salerno.
Qui, infatti, i maggiorenti beneventani che non riconoscono Radelchi come loro principe acclamarono
Siconolfo, il secondo figlio di Sicone, liberandolo dall’esilio cui lo aveva costretto il fratello. Una scelta
dettata dal diritto di sangue, tradito solo pochi anni dopo da colui che avrebbe dovuto tutelarlo, Pietro
rector del piccolo erede di Siconolfo. Questo infatti, già dall’854, cercò di imporre un proprio lignaggioassociando al trono il figlio Ademario. Intanto la bicefalia del ducato, nata in seguito all’acclamazione
di Siconolfo, vide il coinvolgimento di due famiglie beneventane destinate ad influenzare la
genealogia dell’intera Langobardia minor .
Si tratta di due stirpi discendenti da due Dauferio, distinti dai soprannomi di “il Profeta” e di “il Muto
o Balbo”, legate tra loro al tempo di Sicardo dal matrimonio di Roffrit, figlio di Dauferio il Profeta, ed
una figlia del Muto. Roffrit divenne una figura di spicco all’interno del sacro palazzo di Benevento
ricoprendo l’ambita carica di tesoriere durante la reggenza di Sicardo e trasmettendola poi al figlio
Adelchi, lo stesso che troviamo con Radelchinella contesa dell’839 per il titolo di principe diBenevento.
Forse con Adelchi era schierata anche la famiglia del Muto in ragione della parentela incarnata dal
giovane. Questo spiegherebbe la divisione delle due consorterie dopo la sua morte. Infatti, da quel
momento la famiglia di Dauferio il Muto pose la sua base per nuove imprese a Salerno, già residenza
preferita dell’ultimo principe Sicardo. Qui si riunì con altri consanguinei intorno a Siconolfo, mentre
Roffrit e tutta la famiglia del Profeta rimasero a Benevento. Nell’antica capitale la progenie del
Profeta sembra giocare un ruolo primario nelle lotte per il potere ancora nel 900, quando un gruppo
di partigiani discendenti da Roffrit e Pottelfrit aiutarono Antenolfo di Capua ad impadronirsi del
principato.[11] A Salerno invece la famiglia del Muto arrivò al potere con uno dei suoi cinque figli,
Guaiferio, principe nell’861, e lo mantenne fino al 977.
Guaiferio si impossessò del trono sbalzandone Ademario e, dopo un primo tafferuglio con il nipote
Dauferio, riuscì ad insediare il suo lignaggio nel palazzo di Salerno. [12]Chron. Sal.
La permanenza del potere nelle mani degli eredi del nuovo principe di Salerno è anche qui regolata
dal diritto dinastico e si mantenne nell’associazione al trono del primogenito. L’originalità dellasuccessione salernitana rispetto a quella beneventana non riguarda dunque la scelta del candidato,
che ricade sempre su di un erede maschio naturale o adottato che sia, ma l’associazione al trono dei
primogeniti. Con la primogenitura furono superate le lotte di fazione che avevano caratterizzato la
politica del ducato beneventano portandolo alla divisione dell’849 e fu affermata la continuità di una
linea dinastica che trovava consensi da parte di un’aristocrazia di nuova formazione, come era quella
salernitana all’indomani della Divisio ducatus.
La fortuna della casata di Guiferio I è inoltre da attribuire alla presenza di eredi adulti, cosa che
abbiamo visto mancare a Benevento, e dal rispetto delle regole dinastiche all’interno della famiglia
stessa, tra i figli cadetti che mai attentarono al potere politico del fratello, accontentandosi di
partecipare al potere con importanti funzioni pubbliche come quella di tesoriere.[13] Ma il successo
http://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn13http://it.wikipedia.org/wiki/Elenco_dei_principi_di_Salernohttp://www.oeaw.ac.at/gema/salerni_89.htmhttp://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn12http://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn11http://it.wikipedia.org/wiki/Radelchi_I_di_Beneventohttp://it.wikipedia.org/wiki/Sicardo_di_Benevento
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della prima dinastia salernitana è certo da attribuire in primo luogo alla complessa struttura di
solidarietà e parentele che costituì la base del potere dei Dauferidi, rappresentata dalla chiesa
privata di San Massimo Confessore.
Il seguito di Guaiferio
Dal momento in cui Guaiferio rientra dall’esilio, nell’852, sembra circondato da un gruppo di uomini a
lui legati, i quali sottoscrivono di proprio pugno i documenti che lo riguardano. Alcuni di loroappartengono all’amministrazione del rector Pietro, come Sico e Ragimberto referendari, e come
del resto lo stesso Guaiferio che ricopre la carica di conte.[14]CDC TEXT; CDC TEXT; CDC TEXT
L’attenzione si deve però concentrare su coloro che non presentano alcun titolo, ma che
continuarono a figurare tra i testimoni di Guaiferio una volta divenuto principe. Prendiamo ad
esempio Gaido e Pietro che nell’856 sottoscrivono un’offerta di terra fatta da un abitante di
Barbattiano al conte Guaiferio; o Benedetto e Sicardo, presenti al fianco del futuro principe sin dal
suo primo acquisto in territorio salernitano.[15]CDC TEXT ; CDC TEXT; CDC TEXT Questi
presenziarono anni dopo alla fondazione della chiesa privata di Guaiferio, a capo del principato da
sette anni.[16]CDC TEXT
La loro presenza alla nascita della chiesa dinastica è da interpretare come testimonianza dello stretto
legame tra Guaiferio I e questo gruppo di uomini che lo circonda. Il principe sembra non rinunciare
mai alla loro compagnia. Vediamo, infatti, che alla stipula degli atti notarili riguardanti il principe, la
presenza del gruppo più sopra individuato coincide con l’effettiva presenza di Guaiferio. Quando egli
manca, come in due transazioni private condotte in sua vece da Walfuso, figlio di Walfrido, nessuno
degli uomini visti altrove intorno a lui sottoscrive il documento.[17]CDC TEXT; CDC TEXT
Gli uomini riconducibili a questa cerchia di “accompagnatori”, sono forse da identificare con i fideles
di Guaiferio,[18]CDC TEXT che nelle fonti letterarie costituiscono il consilium del principe al fianco dei
consanguinei.[19]Chron. Sal.
Durante il governo di Guaiferio alcuni di loro ricoprirono un ufficio pubblico: I fideles
Benedetto, figlio di Attione, compare nell’868 con il titolo di gastaldo e giudice in occasione di
un’offerta di beni destinata al principe.[20]CDC TEXT Nell’869 Benedetto gastaldo, rappresenta la
principessa Landelaica in un giudicato davanti ad altri fedeli del principe, qui in veste di gastaldi e
giudici.[21]CDC TEXT
Sicardo, gastaldo e giudice, già in coppia con Benedetto nell’868, presenzia a più atti pubblici in
funzione del suo titolo e come testimone.[22]CDC TEXT, CDC TEXT; CDC TEXT
Il caso di Pietro, è più difficile da seguire per la diffusione del nome all’epoca trattata che può
facilmente indurre a confondere i tanti omonimi. Paolo Delogu propone di riconoscere il Pietro che
spesso compare tra i sottoscrittori in Pietro marephais, il cognato di Guaiferio ricordato da
Erchemperto, il che spiegherebbe ad un tempo la continuità delle sue mansioni nella pubblica
amministrazione, tra il governo di Pietro e quello di Guaiferio, oltre alla presenza tra i domini di San
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Massimo.[23]CDC TEXT;CDC TEXT; CDC TEXT; CDC TEXT; CDC TEXT
Altri uomini appartenenti alla cerchia di Guaiferio si r ipetono solo nelle file dei sottoscrittori, come
Grimoaldo, presente dall’852 all’874 e Radelchis dall’853 all’869. Gaido testimonia in alcuni
documenti riguardanti Guaiferio o la sua famiglia.[24]CDC TEXT; CDC TEXT Sebbene egli non
sembri ricoprire alcun ruolo all’interno della pubblica amministrazione, in quanto non è mai definito
gastaldo o giudice, è certa la sua vicinanza alla famiglia principesca dal momento che presenzia inalcuni documenti fondamentali per la storia della dinastia, come la ricordata fondazione della Chiesa
di San Massimo e la sua libertà dall’episcopato.[25]CDC TEXT; CDC TEXT
Alcuni, come Lando e Dauferio, compaiono più tardi rispetto ai primi, ma subito accompagnati da
titoli pubblici. Lando si firma come gastaldo nel documento che fissa le volontà di Guaiferio per la sua
chiesa. Nella stessa rosa dei sottoscrittori di questo importante atto, egli è l’unico che aggiunge il
titolo al suo nome. Probabilmente Lando è da identificare con Landenolfo gastaldo, che nel 903
sottoscrive un altro diploma, questa volta del principe Guaimario, per l’offerta fatta a San Massimo
dal presbitero Angelo.[26] CDC TEXT
Un anno dopo Landenolfo gastaldo, sottoscrive al fianco dei figli di Guaiferio la nomina del nuovo
abate di San Massimo Confessore. Quest’ultimo documento testimonia la vicinanza di Lando alla
famiglia del principe. Egli era probabilmente un consanguineo, forse un parente della consorte
capuana di Guaiferio, mentre Dauferio era il figlio del principe, come sappiamo dalla stessa carta.
Dauferio, come Lando, si firma con il titolo di gastaldo nelle file dei sottoscrittori. [27]CDC TEXT
Entrambi sono funzionari pubblici con il diritto di qualificarsi tali in ogni occasione, anche in quella
della semplice testimonianza.
Gli esempi di Lando e Dauferio non devono però indurre a credere che il seguito del principe fosse
costituito da soli parenti. I fideles, infatti, non sono da confondere con i consanguinei, seppure
entrambi ricoprano ruoli istituzionali. Essi costituiscono un gruppo di persone legate al principe da
amicizia e solidarietà, in virtù delle quali condividono con lui la quotidianità, dentro e fuori il palazzo.
Tutti insieme rientrano nell’intento del principe di consolidare e mantenere il potere appoggiandosi ad
uomini fidati, i compagni di lunga data, al fianco dei parenti più prossimi.
[1] PD. HL, l. IV, c. 43, “…quasi proprios filios…”.
[2] F. HIRSCH, Il ducato di Benevento, in F. HIRSCH-M. SCHIPA, La Longobardia meridionale (570-
1077). Il ducato di Benevento. Il principato di Salerno, a cura di N. Acocella, Roma 1968, pp. 47-53.
[3] PD. HL, l. VI, c. 57, pp. 239-240.
[4] S. GASPARRI, I duchi longobardi , Roma 1977, pp. 97-98.
[5] HIRSCH, Il ducato, cit., pp. 77-86.
[6] Chron. Sal ., c. 42, p. 42-45. Sicone esule da Spoleto, di origine nobile forse proveniente dal Friuli,
arrivò alla corte di Arechi II con l’intento di raggiungere il porto di Otranto, l’ospite lo persuase a
trattenersi nel suo ducato concedendogli il gastaldato di Acerenza.
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Il figlio di Arechi muorì un anno prima di lui.
[7] DELOGU, Il principato di Salerno, cit., p. 241.
[8] Sono tesorieri Audelais, Godescalco, Grimoaldo IV e Adelchi.
[9] S. GASPARRI, Il ducato e il principato di Benevento, in Storia del Mezzogiorno, Il Medioevo, vol. II,
tomo I, diretta da G. Galasso e R. Romeo, Napoli 1988, pp. 105-106.
[10] J. M. MARTIN, Eléments préféodaux dans les principautés de Bénévent et de Capoue (fin du VIII
siècle- début du XI siècle): modalités de privatisation du pouvoir , in Structures féodales et féodalisme
dans l'occident méditeranéen (X-XI sec.), Bilan et prospectives de recherches, Roma 1980, p. 569.
Fino alla metà del IX secolo, i principi infatti conferiscono loro la piena proprietà su terre appartenenti
al fisco, come ricompensa del lavoro svolto nella pubblica amministrazione. L’importanza di questi
donativi, secondo Martin, non risiede tanto nel fondo di cui si spoglia il principe, non a caso scelto tra
i più periferici del patrimonio demaniale, quanto nel fatto che gli agenti di palazzo sono gli unici a
ricevere doni dal duca.
[11] H. TAVIANI, Pouvoir et solidarietes dans le principauté de Salerne à la fin du X siecle, in
Structures féodales et féodalisme dans l'occident mediterraneen (X-XIII siecls). Bilan et perspective
de recherches, Roma 1980, p. 592.
[12] Chron. Sal., c. 101, pp. 102-103.
[13] H. TAVIANI, Le pouvoir princier à Salerne jusq’à l’arrive des Normands, in “Rassegna storica
salernitana”, II/1 giugno 1985, pp. 12-14.
[14] CDC . vol. I, n. XXXV, anno 852; n. XXXVI, anno 853; n. XLVI, anno 856.
[15] CDC . vol. I, n. XLV, anno 852; n. XXXV, anno 852; n. XXXVI, anno 853.
[16] CDC . vol. I, n. LXIV, anno 868.
[17] CDC . vol. I, n. LII, anno 857; n. LVIII, anno 859.
[18] Questo termine non trova riscontro nelle carte cavesi se non nell’unico caso del 919 in cui
Radoaldo si definisce “nobilem et fidelem vestrum” , riferito al principe Guaimario CDC . vol. I, n.
CXXXVII, anno 919.
[19] Chron. Sal., c. 39, p. 40; c. 105, p. 105.
[20] CDC . vol. I n. LXV, anno 868.
[21] CDC . vol. I, n. LXVII, anno 869. Con il titolo di gastaldo si qualifica anche per una compravendita
dell’890 a cui partecipa in veste privata, per la vendita di una sua proprietà in Agella acquistata anni
prima da un certo Lupo. La presenza di alcuni uomini del seguito del principe, come Gaido o Lando,
tra i sottoscrittori di questa cartula privata dimostra la coesione all’interno del gruppo per la reciproca
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assistenza negli affari pr ivati.
[22] CDC . vol. I, n. XXXVI, anno 853; n. LXIV, anno 868; n. LXVIII, anno 869; n. LXXVIII, anno 874.
[23] CDC . vol. I, n. XLV, anno 856; n. LXVII, anno 869; n. LXXVIII, anno 874; n. C, anno 884; n. CVI,
anno 894. DELOGU, Il principato, cit., nota 67, p. 271.
[24] CDC . vol. I, n. XLV, anno 856; n. LXVII, anno 869.
[25] CDC . vol. I, n. LXIV, anno 868; n. LXXXVII, anno 882.
[26] CDC . vol. I, n. CXVII, anno 903.
[27] CDC . vol. I, n. CIII, anno 892.
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La Chiesa di San Massimo Confessore
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Nell’Italia meridionale del secolo VIII e IX, l’istituzione dell’ordinamento ecclesiale si sviluppò
diversamente rispetto al resto della penisola, dove la diffusione del cristianesimo fu accompagnatadalla costruzione di una rete di chiese pubbliche, le plebes o pievi, dipendenti dal vescovo. Nel
Mezzogiorno invece questa rete si presentava lacunosa, lasciando dunque spazio ad iniziative
private quali furono appunto quella dei Longobardi a partire dal secolo VIII. [1]
Il diritto dei privati di edificare chiese sul proprio suolo e di nominarne gli officianti fu sancito in un
concilio romano convocato nell’826, ma la peculiarità meridionale risiede nell’alienazione di tali edifici
dall’autorità vescovile con carte di liberazione che prevedevano un risarcimento in denaro per il
vescovo; una testimonianza della debolezza di quest’ultimo davanti ai principi e ai loro affiliati o forse
solo un consenso scontato quello di vescovi sempre più spesso nominati tra i membri della famiglia
principesca, o comunque tra persone ad essa vicine.[2]
La chiesa principesca
La chiesa di San Massimo Confessore è l’unica chiesa principesca del Mezzogiorno longobardo nel
IX secolo.[3] Fu costruita da Guaiferio I sui possessi accumulati all’interno della città nell’area
chiamata “plaium montis”, la parte più alta.[4] CDC TEXT; CDC TEXT; CDC TEXT Qui Guaiferio
aveva costruito una “casa”[5] per sé e per i suoi e presso questa costruì la chiesa,[6] CDC TEXT
Collegandola all’abitazione con un andito, forse l’ingresso per tutto il gruppo gentilizio. Di qui siaccedeva ad un ambiente sottostante la chiesa, dove era l’altare di San Bartolomeo,[7] CDC TEXT
una cappella privata, destinata ad una frequentazione più esclusiva.[8] Un altro ingresso, chiuso con
dei cancelli, era invece sulla strada che conduceva al centro della città e destinato oltre ai sacerdoti,
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presumibilmente anche alla cittadinanza.[9]
Tre ingressi quasi a simboleggiare tre rapporti differenti: un ingresso che si apriva verso il cuore della
città sulla platea proveniente dalla Porta de raspizzi, come simbolo del rapporto del principe con il
popolo di Salerno, un secondo allo stesso livello della chiesa e quindi del popolo, ma con accesso
dalla regiam, immagine del legame del principe con la consorteria, ed infine l’ingresso alla cappella,
al di sotto della chiesa, simbolo del rapporto del principe con i consanguinei, come fondamenta su cuipoggiavano gli altri due.
La chiesa intitolata a San Massimo, riconosciuta come fondazione del principe Guaiferio, compare
per la prima volta nell’861 in qualità di destinataria di un’offerta fatta da un tal Antiperto, [10] CDC
TEXT ma il diploma di fondazione del principe risale solo all’anno 868 a partire dal quale divenne un
punto cardine del progetto di affermazione dinastica di Guaiferio I.
Nello scritto, il fondatore stabilì che nella chiesa si sarebbe celebrato il servizio divino per la
consorteria a lui legata, momento concepito dallo stesso principe come un’occasione per ribadire
l’appartenenza alla famiglia regnante e rinsaldare così i vincoli familiari.
Alla sua morte poi la chiesa avrebbe partecipato alla spartizione dell’eredità accanto ai membri della
famiglia ed aggiunse che, in caso di estinzione della sua discendenza, la chiesa ne sarebbe divenuta
l’erede universale.[11] CDC TEXT San Massimo dunque, come dice Huguette Taviani, “ …n’est pas
seulement l’église d’un lignage, elle est en quelque sorte membre de ce lignage,…”. [12]
Il principe riserva per sé e per i suoi eredi il diritto di nominare il rettore della chiesa a condizione che
il patrimonio rimanga integro, pena cento solidi costantiniani, altrimenti la nomina del rettore spetterà
agli abati di San Benedetto e di San Vincenzo. Quest’ultima clausola, evidenzia la preoccupazione diGuaiferio di mantenere compatto il patrimonio fondiario della chiesa, in modo da assicurare una
solida base al potere territoriale della sua dinastia.
Le donazioni del principeNegli anni che seguirono la morte di Guaiferio I San Massimo continuò a
godere del favore della famiglia regnante con i suoi discendenti.Furono soprattutto la moglie
Landelaica ed il figlio Guaimario I a contribuire in modo considerevole all’affermazione della chiesa,
sia come simbolo della nuova dinastia che come centro di interessi economici per l’aristocrazia ad
essa legata.Quattro anni dopo la scomparsa del fondatore, la principessa vedova Landelaica ottenne dal vescovo
di Salerno, Pietro, la libertà e l’esenzione della chiesa familiare e del suo abate. Ella sottraeva così
definitivamente il patrimonio fondiario della chiesa dai confini dell’episcopio,[13] CDC TEXT mentre il
figlio, il principe reggente Guaimario I, accresceva il patrimonio della chiesa di famiglia qui dirottando,
con una serie di diplomi, beni spettanti al palatium.
Infatti qualche anno più tardi il principe concesse alla chiesa tutti i beni di Benenati e Ademario, morti
senza eredi, ricordando che tali beni per legge sarebbero spettati al fisco, ma nel diploma giustifica
l’eccezione attribuendo tale volontà alla madre, che lo esortò a donarli in perpetuo alla chiesa e a
sottrarli all’autorità di giudici, conti, gastaldi e qualsiasi altro agente.[14] CDC TEXT
Questa sorta d’immunità, riservata ai beni destinati alla chiesa, trova conferma in un altro diploma di
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Guaimario I, che concede a San Massimo tutti i beni e le pertinenze di tal Lupo, servo di palazzo,
figlio di Ragimperto, e di tutti i suoi familiari. Lupo fu riconosciuto colpevole di essersi alleato con i
Saraceni quando assediarono la città; anche qui fu fatto divieto di entrare e di imporre angarie a
qualsiasi agente, fosse longobardo come un gastaldo o sculdascio, oppure bizantino come un
protospatario o uno spatario, insomma qualsiasi reipublice hactionarii .[15] CDC TEXT
Dunque con Guaimario I (880-901) e la madre Landelaica si assiste ad una più decisa politica dipotenziamento della chiesa, che incamera beni destinati al palazzo, preoccupandosi di sottrarli alla
giurisdizione di pubblici agenti, in una sorta di autoimmunità che il principe concede alla sua chiesa
privata.
La via indicata da Guaimario I fu seguita anche dal figlio Guaimario II (901-946) che con il diploma
del 903 dona alla chiesa di famiglia le proprietà dislocate tra Nocera, Agella e Nobara, ricevute dal
defunto abate di San Massimo, Angelo;[16] CDC TEXT su queste lascia i due diaconi Odelchiso e
Liotardo, a cui probabilmente l’abate Angelo aveva concesso la terra dove ora risiedevano, a patto
però che non abbandonino il monastero.[17] CDC TEXT
L’abate era proprietario delle mura dell’edificio della chiesa e custode dei suoi beni, quindi in qualche
modo un dominus, e la metà ora ceduta dal principe alla chiesa potrebbe rappresentare la quota
dell’abate. In questo modo, il ritorno delle quote degli abati di San Massimo nelle mani del principe e
da lui girate nuovamente alla chiesa potrebbe essere la pratica che permetteva di mantenere
compatto il patrimonio della chiesa privata, così come indicato dal fondatore.
L’ultima donazione destinata alla chiesa da parte della famiglia dei Dauferidi fu quella del principe
Gisulfo. Anche lui, come i predecessori, dirotta verso la chiesa i beni del fisco, questa volta si tratta di
proprietà rimaste senza eredi congiunte all’edificio della chiesa.[18] CDC TEXT
Se durante i regni dei due Guaimari la chiesa e la dinastia sembravano un corpo unico che
perseguiva lo stesso fine, sotto il governo di Gisulfo l’ente ecclesiastico cominciò ad apparire come
una potenza autonoma non più legata al palazzo, o almeno ai membri della dinastia che lo abitava.
Infatti, nonostante i discendenti di Guaiferio siano riconosciuti come domini fino al 988 per essere poi
sostituiti dai parentes dell’abate Maione e più tardi da quelli di Adelferio,[19] le avvisaglie di un
cambiamento si avvertono già un ventennio prima: esattamente nel 966, quando la famiglia del
fondatore si scontra con la chiesa davanti a Pietro e Gaido giudici, per alcuni beni inclusi neltestamento di Dauferio figlio di Guaimario che la chiesa rivendica come propri.
La causa è intentata dal marito di una delle due sorelle di Dauferio che denuncia la sottrazione di
alcuni oggetti preziosi dall’eredità lasciatagli dal fratello. Questo aveva disposto che le sue sostanze
spettassero alle sorelle dopo la morte della madre Rodelgrima, aggiungendo che il patrimonio
doveva rimanere integro. Secondo il difensore della chiesa fu proprio Rodelgrima a non rispettare la
volontà del figlio donando una parte delle sue sostanze alla chiesa prima di morire. Proprietà che
viene riconosciuta all’ente dalla sentenza dei due giudici.[20] CDC TEXT
Un fatto anomalo questo, visto che la famiglia di Dauferio e Rumelgaita era certamente legata alla
cerchia dei Dauferidi, come indicano i richiami onomastici ed il titolo di gastaldo rivestito da più
membri della stessa famiglia.[21] CDC TEXT ; CDC TEXT
http://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/447A7FD5C33ACC80C1257240006878F1!opendocumenthttp://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/6CDE3F6A33ECD592C125723F0070A7B6!opendocumenthttp://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn21http://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/B82CB98973AEA4DDC125732F00392785!opendocumenthttp://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn20http://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn19http://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/47B92EA18B0B6AE8C125724000736EC4!opendocumenthttp://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn18http://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/9862BA29156D3138C125723F007249D4!opendocumenthttp://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn17http://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/9862BA29156D3138C125723F007249D4!opendocumenthttp://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn16http://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/A10E9E31D000FBB9C125723F007045EC!opendocumenthttp://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn15
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Indice del cambiamento avvenuto nella politica della chiesa è certo rappresentato dalla
contemporanea apparizione di nuovi nomi nella schiera dei domini della chiesa accanto a quelli dei
discendenti del fondatore, che tendono invece a scomparire negli anni seguenti.[22]Le offerte dei
privati
Rispettando la tradizione delle chiese private alto medievali, San Massimo al momento della
fondazione fu dotata dal proprietario di un vasto patrimonio, frutto degli acquisti fatti da Guaiferio
negli anni precedenti l’incarico di principe, destinato al sostentamento di “debiles et pauperibus et viduis”.[23] CDC TEXT Da questo primo nucleo di base, la chiesa dinastica estese il suo patrimonio,
grazie alle donazioni principesche, e a numerose offerte di beni provenienti da privati, desiderosi di
salvare la propria anima.[24] CDC TEXT; CDC TEXT; CDC TEXT; CDC TEXT; CDC TEXT; CDC
TEXT; CDC TEXT
La minaccia saracena.Le offerte dei privati si concentrano soprattutto nell’ultimo trentennio del IX
secolo e all’inizio del successivo e coincidono con gli anni in cui il principato fu più colpito dalle
invasioni saracene, mentre tendono a diradarsi nel periodo seguente.
Ad esempio, nell’872 Walfa, rimasta vedova e in fin di vita, offre alla chiesa le proprietà che aveva
dentro e fuori la città di Salerno, ormai assediata dai Saraceni, come lei stessa testimonia,
lamentando l’impossibilità del fratello di entrare in città per rappresentarla come mundoaldo.[25] CDC
TEXT; CDC TEXT
È naturale pensare che nel suo caso i Saraceni alle porte rappresentino un incentivo per assicurarsi
la pace dell’anima, ma è certo che con questa si otteneva anche la protezione di un importante ente
ecclesiastico, atto a difendere terra e uomini nelle proprie pertinenze grazie alla protezione accordata
dalla casata principesca. D’altra parte bisogna considerare che l’invasione musulmana dell’872 fu più
cruenta delle precedenti. I principi longobardi si trovarono soli e in disaccordo ad affrontare il comune
nemico all’indomani del sequestro dell’imperatore Ludovico II da parte del principe di Benevento,
Adelchi.
La partenza dal Mezzogiorno dell’esercito franco, che per anni aveva combattuto al fianco dei
Longobardi, creò una falla nella difesa salernitana. Gli stessi proprietari fondiari non erano in grado di
difendere i propri patrimoni dall’interno delle mura dei centri abitati dove solitamente risiedevano;[26]
è naturale dunque che la chiesa di San Massimo si presenti come un rifugio sicuro per coloro che
cercavano di mantenere intatti i propri possessi. In fondo per gli offerenti la vita quotidiana non nerisentiva, visto che quasi tutte le cessioni prevedevano l’usufrutto in vita per i proprietari ed i loro
eredi o per chiunque vi abitasse.[27]
La seconda ondata saracenaDopo un decennio di relativa stabilità politica, che permise di difendere
meglio i territori del principato con l’aiuto dei Bizantini, l’ennesimo episodio della guerra tra Capua e
Napoli, nell’882, portò nuovamente le bande mussulmane a scorrazzare per le campagne
salernitane.[28]
Il ritorno dei Saraceni è accompagnato dalla ripresa delle offerte alla chiesa di Salerno, assentiinvece nei dieci anni precedenti. Il tenore delle due offerte, redatte nel medesimo anno, è lo stesso di
quelle viste più sopra: offerta di tutti i beni per la salvezza dell’anima e usufrutto della terra donata.
[29] CDC TEXT ; CDC TEXT Di queste, l’offerta di Grisepergo, figlio di Lupo, stabilisce la proprietà
http://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/54F1786588238BE3C125723F006E1FFC!opendocumenthttp://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/F65628283A57B0A8C125723F006B7478!opendocumenthttp://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn29http://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn28http://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn27http://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn26http://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/06E66C1559F78A07C125723F005F21D9!opendocumenthttp://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/6D3D9BDF788B1BECC125723F005EDA04!opendocumenthttp://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn25http://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/2A6BAFA463F057D4C125723F00702AF7!opendocumenthttp://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/267F5D06A73ABB4AC125723F006FE51D!opendocumenthttp://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/FBF091BB1F402720C125723F006F8281!opendocumenthttp://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/54F1786588238BE3C125723F006E1FFC!opendocumenthttp://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/F65628283A57B0A8C125723F006B7478!opendocumenthttp://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/6D3D9BDF788B1BECC125723F005EDA04!opendocumenthttp://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/063D51DF5AA03141C125723F005E2323!opendocumenthttp://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn24http://www.uan.it/Notarili/alimnot.nsf/(TestiPID)/6A7A01AD0E0001EAC125723F005708D0!opendocumenthttp://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn23http://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn22
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della chiesa anche sui beni del figlio Pietro in caso questo muoia senza eredi; Pietro è probabilmente
uno dei tanti dispersi di guerra, quasi tutti destinati al mercato di schiavi, e le sue proprietà in caso di
non ritorno sarebbero spettate al patrimonio pubblico, come stabilito dalla legge, ma l’assoluzione del
principe permise invece di cambiare il destinatario a favore della chiesa.[30] CDC TEXT
Un caso simile è quello presentato dall’offerta dei beni appartenenti a Teoperga destinati alla chiesa
di San Massimo. Anche la donna, infatti, lo stesso anno, chiede l’assoluzione del principe per procedere alla spoliazione del suo patrimonio, altrimenti di proprietà del fisco per assenza di eredi.
[31] CDC TEXT
L'impresa del GariglianoQualche anno più tardi, in coincidenza dell’attacco longobardo alla fortezza
araba del Garigliano, assistiamo all’aggiunta di particolari clausole nelle carte di donazione.
La chiesa offre un’ulteriore attrattiva ai proprietari terrieri: la possibilità di recedere dal contratto in
caso di ritorno degli eredi dispersi. E’ ciò che mostra una carta redatta dallo stesso Giovanni notaio
nel 912, che offre metà dei suoi beni alla chiesa preoccupandosi di garantire al figlio Merdulo,
catturato dai Saraceni, la sua parte in caso di ritorno, parte comunque destinata all’ente in mancanza
degli eredi di Merdulo.[32] Quindi un modo per evitare che il fisco incamerasse definitivamente le
proprietà di Merdulo, ma soprattutto un accorgimento per mantenere compatto il patrimonio di
famiglia ancora gestito da Giovanni sotto la tutela dell’ente salernitano.
Evidentemente, gli anni trascorsi avevano visto il ritorno di molti uomini dati per dispersi nella
confusione che regnava allora su tutto il territorio, e la sorpresa di questi di ritrovarsi senza proprietà
da ereditare, perché ormai appartenenti alla chiesa del principe o al palazzo, aveva spinto San
Massimo a trovare nuove formule per mantenere il ruolo di sicuro custode. Le offerte degli ecclesiastici
Molte delle offerte destinate alla chiesa di San Massimo provenivano da coloro che indossavano
l’abito monacale all’interno dell’ente. Ne è un esempio l’offerta di Pietro che al momento di entrare
nel monastero donò i beni posseduti in una località chiamata Terme, vicino Nocera, inclusa la parte
della moglie consenziente, Anghelsenda; a questi aggiunse cinquanta solidi, forse l’equivalente del
resto del patrimonio non compreso nella donazione.[33] Si trattava probabilmente della dote da
consegnare alla chiesa al momento dell’entrata nel monastero a seconda delle possibilità di ognuno.
Un documento mostra addirittura un’intera famiglia composta da tre elementi, padre e madre
monaci, e il figlio Giovanni chierico, offrire tutti i beni che avevano nella città di Salerno e ad Agella,
vicino Nocera, ereditati dai nonni di Giovanni, per un ammontare complessivo di trenta solidi. In
realtà questa donazione segue di qualche mese un contratto d’affitto che i tre, già membri del
monastero, avevano stipulato con l’ente per una terra nella stessa Agella. Ciò dimostra che la
famiglia di Giovanni mantenne i propri possedimenti privati al di fuori del patrimonio di San Massimo
pur facendone parte, e solo più tardi decise di offrirla alla chiesa perché non vi erano discendenti che
potessero ereditarla.[34] Non era dunque una dote questa, ma una vera e propria spoliazione di tutti
beni, per una famiglia già legata all’ente dinastico da un contratto d’affitto.
Il patrimonio in questione è una parte del lascito dei discendenti di Leone figlio di Selberamo, di cui il
chierico Giovanni rappresenta l’ultimo erede. Tale patrimonio è frutto di svariate transazioni
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economiche fatte da Leone ed i suoi fratelli prima, e dai loro figli poi, nel corso del IX secolo. La
proprietà dei beni offerti dalla famiglia di monaci però sarà oggetto di numerosi processi che
impegneranno la chiesa nel corso del X secolo.
Le proprietà controverse
Nel 947 Pietro, franco di nascita, rivendica la proprietà dei beni situati ad Agella, appartenuti allafamiglia di Iohannelgari, padre del chierico Giovanni. Presentatosi a palazzo, con il suo avvocato
Guaiferio, mostra ai giudici ciò che rimane di un precetto del principe Guaimario con cui entrava in
possesso delle suddette proprietà. Dal canto suo l’abate mostrò il documento con cui la famiglia di
Iohannelgari offriva alla chiesa le proprie sostanze, aggiungendo che queste pervennero integre
entro i confini del patrimonio di San Massimo perché gli offerenti non avevano eredi. La sentenza cui
pervennero i giudicanti in questa occasione fu favorevole alla chiesa, in quanto non fu riconosciuta la
potestà del principe di donare una terra già offerta.[35]
Cinque anni dopo a palazzo fu discussa un’altra causa per stabilire la proprietà degli stessi beni ad
Agella. Questa volta li rivendica Giovanni, fratello del franco Pietro, che ricorda di essere già andato
in giudizio contro il presbitero Maraldo, beneficiario della terra per conto della chiesa, in questa
occasione rappresentata dal gastaldo Maione in veste di avvocato. Allora i giudici avevano stabilito la
proprietà della chiesa come frutto della donazione dello stesso Iohannelgari. La sentenza conferma
ora la precedente, attribuendo la proprietà alla sola chiesa, che pone come mediatori sette sacerdoti.
[36] Il numero dei mediatori, che rappresenta un’eccezione, in questo caso è certo dovuto
all’importanza del patrimonio, la cui entità si può ricostruire dall’esame delle numerose
compravendite portate a termine dal gruppo parentale di Selberamo e dallo stretto legame che
legava la famiglia di Agella alla chiesa di San Massimo dal tempo dell’abate Angelo.[37]
Tutti i giudizi che impegnano la chiesa sembrano standardizzati, sia per le accuse mosse all’ente, sia
per le sentenze finali. Vale a dire che nei giudizi le sentenze non riconoscono mai i contratti
precedenti l’offerta alla chiesa. In questo modo molti piccoli proprietari, a cui non furono riconosciuti
acquisti o eredità, si ritrovarono nella condizione di continuare a risiedere nella terra contesa come
semplici contadini dipendenti.
Un’altra proprietà controversa è quella dei beni appartenuti ad Urso del fu Rademprando residente in
Nobara, vicino Nocera.[38] Questi furono dati in custodia ad un certo Ermeperto con altre proprietà
all’interno della città di Salerno, affinchè fossero donati alla chiesa salernitana in cambio di messa e
orazioni per la famiglia del donatore.[39]
Circa venti anni dopo, la figlia di Ermeperto, Erchensenda, si presentò con l’abate Angelo davanti ai
giudici per confermare la delega del padre da parte di Urso che lei stessa aveva firmato e quindi la
piena proprietà della chiesa.[40] Il fondo in Nobara nel 902 fu rivendicato dall’atraniese Giovanni,
come proprietà ricevuta dal palazzo, tramite un breve che mostrò ai giudici.[41] La causa finalmentesi concluse l’anno seguente con la wadia, simbolo del raggiunto accordo tra le parti sancito dal diritto
longobardo,[42] scambiata tra Giovanni e l’abate davanti ai gastaldi Landenolfo e Pandone.[43]
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I giudizi
I giudizi in cui fu coinvolta la chiesa si moltiplicano nella metà del X secolo. In quel tempo il suo
patrimonio si era già esteso per tutto il territorio salernitano facendone una potenza economica. Ma
questa data coincide anche con la perdita di fiducia tra la cerchia dei piccoli proprietari che non
sembrano più interessati a salvare la propria anima offrendole i loro beni.
In effetti la stagione della chiesa come sicuro rifugio è tramontata da tempo, sostituita oradall’immagine di una chiesa che avida di terre estende i propri confini a danno dei piccoli proprietari.
Gli esempi sono costituiti da tutti quelle controversie nate tra la chiesa ed i proprietari delle terre
confinanti.[44] San Massimo insomma si conferma come l’unico caso di grande proprietà fondiaria
presente nel panorama salernitano, fatta eccezione per il patrimonio fiscale, seppur quest’ultimo sia
mal documentato nelle fonti cavensi. I contrattiI benefici dei presbiteri Tra la fine del IX e l’inizio del X
secolo il patrimonio di San Massimo si estende in modo incoerente per larga parte del territorio
salernitano. Le donazioni del principe e le offerte di privati disegnano una proprietà frammentaria, a
macchia di leopardo. Più il detto patrimonio si allargava, più la gestione affidata alla consorteria
risultava complessa.
Fu quindi necessario avere un controllo diretto sulle terre più lontane, per questo nei documenti si
ritrovano spesso dei benefici personali concessi dall’ente ad alcuni suoi presbiteri, come avviene tra
l’abate Adelferio ed il presbitero Urso, che riceve in beneficio un appezzamento di terra con vigna e
alberi da frutto, confinante con la chiesa di San Genuario in un luogo detto Balle; il beneficio, si legge
nel documento, rimarrà agli eredi di Urso se questi entreranno nel monastero, altrimenti spetterà loro
solo la metà della terra e dei proventi ed il resto sarà coltivato da un missus della chiesa.[45] Una
proprietà concessa in perpetuo dunque a patto che il fondo rimanesse entro il patrimonio della chiesa
e gestito da suoi affiliati.
I presbiteri, cui erano affidate portiones del patrimonio ecclesiastico, avevano piena libertà di
amministrarle, purché corrispondessero i tributi dovuti alla chiesa tramite suoi missi inviati in
occasione della vendemmia. Vediamo infatti, in un documento precedente quello di Urso, un altro
beneficio in Montoro affidato dalla chiesa al presbitero Maghenolfo che a sua volta, con
l’approvazione dell’abate Maione e del suo avvocato il conte Pietro, un dominus della chiesa, lo affitta
a Maraldo per dieci anni in cambio di un terzo della legna proveniente dal castagneto qui piantato.
[46]
Contratti di questo genere si fanno più frequenti intorno alla metà del X secolo. [47] Le zone
interessate sono Montoro, vicino Rota, e Puteum regente nelle pertinenze di Nocera, ai confini
settentrionali del principato. Tutte le transazioni prevedono un canone in natura per il rappresentante
della chiesa, cioè chi manteneva il beneficio. Questo poteva variare dalla metà ad un terzo dei
prodotti secondo la pratica agricola cui era destinato il luogo. Le più frequenti in questa metà di
secolo sembrano la viticoltura e l’essiccazione delle castagne, solo più tardi si affermò l’olivicoltura.
[48]
Le quote dei canoni sembrano standardizzate in metà dei prodotti della vendemmia e dei frutti,
mentre è richiesto un terzo delle castagne. A queste si aggiunge solo nel X secolo il terraticum,
http://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn48http://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn47http://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn46http://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn45http://www.storiadigitale.it/drupal-6.22#_edn44
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“secundum consuetudine ipsius loci”.[49]
Per la zona di Montoro invece, nel 968, ancora il presbitero Maraldo offrì agli affittuari la possibilità di
sostituire il canone annuale con quattro tarì in coincidenza della festa di San Martino, evidentemente
il patrono locale.[50]
Più elastici sembrano i contratti, che variano da tre a dieci anni, legati sicuramente ai cicli agricoli,
presenti nella documentazione relativa alla seconda metà del secolo X.[51]
I benefici individuali o prebende sono, secondo la condivisibile analisi di Bruno Ruggiero, un
correttivo alle numerose locazioni a tempo indeterminato che offrivano spesso ai concessionari la
possibilità di sottrarre alla chiesa i territori coltivati. Da soluzione vantaggiosa per la gestione del
patrimonio, i benefici però divennero presto attrazioni esclusivamente economiche per interi gruppi
familiari che si radicarono sul fondo trasmettendolo di padre in figlio, come abbiamo visto per la carta
del 901 riguardante il beneficio concesso ad Urso.
L’introduzione delle prebende ai presbiteri, secondo lo studioso, portarono questi nuclei, verso la fine
del X secolo, ad assomigliare più a degli intraprendenti piccoli proprietari che non a membri
dell’ecclesia, quasi a sottolineare il carattere economico della fondazione dinastica che in poco più di
un secolo si era trasformata in una complessa azienda fondiaria.[52]
Le locazioni Le terre più vicine alla capitale invece erano gestite tramite normali contratti, di durata
variabile, stipulati dalla chiesa con uomini liberi.
All’inizio del X secolo le transazioni dovevano essere molto vantaggiose per gli affittuari che si
impegnavano in nuove colture, almeno a giudicare da quella fatta, nel 913, dall’abate Giovanni a
Benedetto, figlio di Adelferio. Questo non prevedeva nessun tributo da versare alla chiesa per i primitre anni e solo allo scadere di questi Benedetto aveva l’obbligo di cedere la metà del vino prodotto.
[53]
Tre anni era il periodo di tempo necessario alla vite piantata di crescere, quindi la chiesa rinuncia al
canone per agevolare le condizioni degli affittuari che si impegnavano a migliorare la sua terra.
D’altronde lo stesso affittuario avrebbe goduto dei frutti della nuova coltura per i sette anni successivi.
Tutti gli affittuari erano tenuti a risiedere e a lavorare l’appezzamento loro assegnato ed in qualche
caso a costruirvi l’abitazione di residenza.[54]
I canoni concordati variano nelle stesse proporzioni di quelli visti sopra, così come le colture
sembrano le stesse per tutto il territorio in questione. Le principali erano la coltura dei cereali, molto
sfruttata in pianura per dissodare i terreni paludosi, perché offriva contemporaneamente più stagioni
produttive grazie alla rotazione di frumento e maggese, la coltivazione di vari alberi da frutto un po’
ovunque, la viticoltura a livello collinare, ed infine a quote più alte si coltivavano i castagneti.[55]
Le diverse colture potevano coesistere, ma certo i vigneti sembrano onnipresenti nel X secolo e lì
dove non ve ne fossero ancora venivano stipulati contratti di pastinato, cioè veniva stabilito l’obbligo
per l’affittuario di piantare viti. E’ il caso di due appezzamenti nei pressi di Nocera che sono affidati ad Amato, figlio di Adelgrimo, per nove anni affinchè pianti sulla terra vacua alberi da frutto e viti. Un
terzo dei prodotti delle nuove piantagioni ed il consueto terratico, si legge, sono destinati al cellarium
di San Massimo.[56]
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Un secondo contratto di pastinato riporta le stesse condizioni per la durata di dieci anni.[57] Ciò che
accomuna i due contratti oltre alle finalità cui sono preposti, è la posizione delle terre affittate in zone
limitrofe, ancora Puteum regente e Montoro, tra Rota e Nocera. Proprio gli stessi luoghi che la chiesa
credeva meglio gestire direttamente attraverso un presbitero, come abbiamo visto più sopra. In effetti
i contratti di pastinato sono i più adatti a luoghi non vigilati dai proprietari come potevano essere
questi, in quanto era nell’interesse dell’affittuario far produrre una terra che lui stesso aveva piantato
dopo i primi anni di sacrifici senza frutti.
Infine in tutti i contratti, si legge, l’annuale riscossione dei canoni era affidata ad agenti della chiesa, i
missi , che i detentori della terra erano obbligati ad alloggiare e mantenere nella propria casa. I
vertici della chiesaGli avvocati Nei giudizi che vedono coinvolta la chiesa e nei contratti da questa
stipulati figurano sempre degli avvocati che con l’abate la rappresentano. I contratti scritti in loro
presenza potrebbero indicare un ruolo più attivo nella gestione del patrimonio dell’ente, anche se dai
documenti non è possibile stabilire quali. Tra questi solo alcuni sono definiti “domini ipsius ecclesie” ,
cioè rappresentano i proprietari di una parte del patrimonio di San Massimo accanto agli eredi di
Guaiferio.
Il primo dominus-avvocato che incontriamo è il conte Pietro, che con l’abate Maione concede al
presbitero Maghenolfo l’assoluzione per affittare la terra che quest’ultimo teneva in beneficio per
conto della chiesa.[58] Più tardi troveremo un altro Pietro con il titolo di gastaldo a rappresentare la
chiesa come dominus e avvocato.[59] Infine un altro difensore è indicato con i due termini, si tratta
del gastaldo Truppoaldo.[60]
Ciò però non è sufficiente per identificare gli avvocati con i domini , gli stessi esempi presentati ne
sono la dimostrazione proprio perché l’essere dominus della chiesa viene specificato chiaramente
all’interno dei tre documenti, mentre in tutti gli altri viene taciuto. Ciò non avrebbe senso se i due
termini fossero solo sinonimi. Si potrebbe pensare invece che la carica di avvocato fosse rivestita a
rotazione da più persone di fiducia dell’abate e dell’ecclesia, e solo in rari casi intervengano
direttamente i proprietari, i domini , nello svolgere questa funzione puramente giuridica.[61] In questo
caso si dovrebbe rivedere l’identificazione tra avvocato e dominus avanzata dalla Taviani, la quale
sostiene che l’avvocato fosse scelto in base alla consistenza del suo patrimonio nel fondo comune di
San Massimo.[62]
I "domini" di San Massimo
I domini della chiesa dinastica oltre che nella cerchia dei familiari del principe sono rintracciabili nelle
file degli ufficiali pubblici, come indica il titolo di gastaldo che compare al posto del patronimico di
Pietro e Truppoaldo, gli stessi ufficiali che vediamo in altre occasioni comparire con il titolo di giudice
in giudizi tenuti nella capitale. Essi sono dunque da identificare con gli uomini fidati del principe, con
quella burocrazia di palazzo, in formazione durante il governo della prima dinastia salernitana, che
avrebbe dovuto sostenere il potere del principe slegandolo dall’aristocrazia radicata nei distretti delprincipato. La partecipazione di questi uomini alla gestione della chiesa del principe come domini
potrebbe così indicare l’attenzione rivolta alle disposizioni del fondatore da parte dei suoi eredi, che
fece della chiesa di San Massimo un centro di coesione e di raccordo di tutto il gruppo parentale dei
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Dauferidi e delle famiglie su cui si basava il loro potere.
I domini , dunque, coincidono con l’entourage del principe e con lui partecipano alla fortuna del
patrimonio della chiesa che viene così ad assumere una valenza ideale oltre che economica. San
Massimo Confessore rappresenta quindi il centro di raccolta dell’aristocrazia principesca e allo stesso
tempo il simbolo della continuità dinastica, come voluto da Guaiferio I. [63]
La prova dell’importanza simbolica della chiesa è evidente dopo l’estinzione della dinastia del
fondatore, quando tra i domini appaiono i nuovi principi, prima Pandolfo Capodiferro, poi Giovanni II
e Guido, i fondatori della seconda dinastia. Il primo è legittimo erede della chiesa essendo stato
associato al trono da suo figlio Pandolfo, adottato precedentemente dall’ultimo discendente di
Guaiferio I, mentre i secondi sembrano cercare una legittimazione del loro potere attraverso i simboli
della dinastia precedente, come indicherebbero anche i nomi dei loro successori: Guaiferio e
Guaimario.[64]
Il ruolo di simbolo dell’unità dinastica, mantenuto dalla chiesa per oltre un secolo, testimoniaindirettamente l’integrità del vasto patrimonio di proprietà dell’ente. Probabilmente non tutti i domini
che compaiono all’interno dei documenti partecipavano alla spartizione del patrimonio, destinato ai
soli discendenti come voluto da Guaiferio. Essi forse, detenendo una quota maggioritaria del
patrimonio, evitarono il frantumarsi di questo in tante sortiones, più o meno grandi, come avveniva
per gli altri patrimoni di famiglia. Solo in questo modo si sarebbe potuta mantenere l’unità della
massa dei fondi di pertinenza della chiesa ed averne così un indubbio vantaggio economico per la
consorteria che li gestiva in comune, oltre al prestigio di appartenere alla cerchia del principe.
Come l’affermazione del potere della prima dinastia fu simboleggiata dalla chiesa privata, così inessa si rispecchiò il suo declino, al tempo del principe Gisulfo I. L’ultimo dei Dauferidi non fu in grado
di presentarsi alla compagine come capo indiscusso a causa dell’opposizione interna alla sua stessa
famiglia e alla pressione del Capodiferro; il suo trono traballa e con lui i patti di solidarietà tra i
maggiorenti che si rinnovano con alleanze matrimoniali al di fuori della cerchia già collaudata. Ecco
allora comparire i parentes di Maione, così potenti da ordinare abate uno di loro fino a fondersi con
un’altra famiglia di domini della chiesa, quella dell’abate Adalferio attraverso un’alleanza
matrimoniale.[65]
Gli abati L’abate era preposto alla conduzione spirituale ed economica della chiesa di San Massimo.
L’officiatura spettava esclusivamente ai proprietari della chiesa, cioè a Guaiferio e ai suoi eredi come
voluto dallo stesso fondatore. Proprio quest’ultimo dà chiare indicazioni per la scelta del sacerdote
che doveva possedere qualità morali largamente condivise e non essere il frutto di una scelta
arbitraria dei proprietari, magari intenzionati a sottrarre parte del ricco patrimonio che Guaiferio
aveva destinato all’ospizio.
Nel 903 erano ancora gli eredi di Guaiferio I a scegliere l’abate come dimostra il memoratorium fatto
al presbitero Madelgaro dai figli del principe fondatore, Arechi e Dauferio.[66] Madelgaro diviene il
nuovo abate della chiesa della famiglia principesca dopo la scomparsa dell’abate Angelo,[67] e come
tale giura di reggere e dominare la chiesa, il clero e gli uomini, di reggere e governare oro e argento,
codici, ornamenti e ogni sostanza ad essa appartenente, inclusi case, mobili e servi, inoltre è tenuto
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a comprendere nel patrimonio della chiesa la metà dei suoi beni, mentre del rimanente può farne ciò
che vuole.[68]
Le carte non permettono di stabilire esattamente la durata del suo mandato, ma è certo che il suo
posto nel 909 era ricoperto da Giovanni, anch’egli presbitero, che lo terrà fino al 918.
Tra gli obblighi di Madelgaro, e con ogni evidenza di tutti gli abati, c’era quello di resedere et habitare
in ecclesia, probabilmente in una delle case costruite intorno alla chiesa, e dunque al palazzo, dallostesso Guaiferio.[69] Del resto la figura dell’abate fungeva da anello di congiunzione tra la famiglia
del principe ed il clero della chiesa costituito da presbiteri, chierici e diaconi di varie estrazioni sociali.
Alcuni infatti erano schiavi liberati come i primi ecclesiastici designati da Guaiferio, altri invece
provenivano dal ceto dei possesores come Iohannelgari e la sua famiglia.
Per quanto riguarda l’estrazione sociale dell’abate le carte non forniscono sufficienti elementi per
trarre delle conclusioni certe. Il primo abate nominato da Guaiferio, Arniperto presbiter , secondo
Ruggiero è da identificare con “amiperto clericus de liburie filius carunci” che figura tra i servi già
avviati alla carriera ecclesiastica e liberati dal principe nell’868.[70] Un’origine umile dunque quella
del primo abate della chiesa principesca, dettata forse dalla fedeltà dovuta all’ex padrone oltre che
dalle qualità morali così importanti per Guaiferio, mentre negli anni successivi gli abati furono scelti
tra le file dei soli presbiteri.
Qualche notizia in più è possibile rintracciare per l’abate Angelo (894-903) che potrebbe essere
riconducibile ad uno dei gruppi parentali meglio documentati dalle carte salernitane, quello dei
discendenti di Selberamo, già ricordati nell’ambito delle offerte da parte dei nuovi monaci.L’abate
AngeloInfatti l’abate Angelo si potrebbe identificare con Angelperto figlio di Leone, nipote dunque di
Selberamo. A confermare l’identificazione potrebbe essere il testamento dello stesso Angelperto, che
si definisce presbitero e abate, in cui lascia la metà delle sue proprietà, nella località detta Agella, alla
cognata Sicha, vedova di Giovanni e al fratello Leomperto, mentre l’altra metà è destinata alla chiesa
ubi ego habitare debuero. Che si tratti della chiesa di San Massimo è chiaro in un secondo
documento, il quale riporta un giudizio avvenuto dopo la morte di Angelperto in cui si ricorda la sua
volontà di aggiungere al lascito fatto ai familiari e alla chiesa un’offerta di cinquanta solidi a
quest’ultima per la salvezza della sua anima; offerta che un breve dimostra essere stata consegnataa Dauferio, figlio del principe Guaimario I, un dominus della chiesa di San Massimo come abbiamo
visto nella nomina di Madelgaro.[71] Un’ulteriore prova ad avvalorare la tesi che Angelperto e Angelo
sono la stessa persona potrebbe provenire dalla coincidenza dei due patrimoni in Agella, che
riportano gli stessi confinanti. Lo si legge in un diploma del principe Guaimario I che, nel 903, offre
alla chiesa privata i beni dell’abate Angelo elencandone i confini, gli stessi riportati nel testamento di
Angelperto. Questo confermerebbe quindi che si tratta della base fondiaria degli eredi di Selberamo
di Agella, la quale nel 923 fu inglobata interamente nei confini di San Massimo tramite un’offerta fatta
dal nipote di Angelperto-Angelo, il monaco Iohannelgari.
Se tale ricostruzione è veritiera, essa dimostrerebbe la connessione tra la chiesa della dinastia di
Guaiferio ed i maggiori proprietari fondiari del principato, dai quali probabilmente provenivano gli
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abati della chiesa. Se così fosse e se il memoratorium di Madelgaro costituisse la regola per gli
obblighi del rettore, ad ogni nuova nomina vi sarebbe un considerevole incremento del patrimonio di
San Massimo, ma soprattutto una forte interazione tra possessores e palazzo. In questo modo la
chiesa privata, fondata dal principe Guaiferio nei primi anni del suo principato, costituirebbe il simbolo
e la base dei legami intessuti dalla prima dinastia ai livelli più alti dalla società salernitana,
costituendo il perno su cui ruotavano gli interessi di fideles e consanguinei , i domini , e dei
possessores, gli abati.[1] B. RUGGIERO, Principi, nobiltà e Chiesa nel Mezzogiorno longobardo. L’esempio di San Massimo
di Salerno, Napoli 1973, pp. 29-31.
[2] Ivi , pp. 31-32.
[3] Unico precedente di fondazione principesca è il monastero di S.Pietro fondata dalla principessa
Teoderata fuori le mura di Benevento il secolo precedente: PD. HL, l. VI, c. 1, p. 211.
[4] CDC. vol. I, n. XXXIII, anno 849; n. XLIV, anno 856; n. LXV, anno 868.
[5] A. MELUCCO VACCARO, I Longobardi in Italia, Milano 1988, p. 208. Secondo la studiosa si tratta
di un nuovo palazzo costruito dal principe.
[6] CDC . vol. I, n. LXIV, anno 868, nel diploma di fondazione si parla di chiesa, di monastero, di
ospizio e di cappella. Negli anni seguenti i termini chiesa e monastero si alternano nelle fonti,
indicando sempre lo stesso ente privato dei Dauferidi, e solo più tardi sarà utilizzato quello di
cappella, più facile da identificare come separata dalla chiesa e indicante certo l’ambiente sottostante
la chiesa, lì dove era l’altare di San Bartolomeo.
[7] Ibidem
[8] DELOGU, Mito, cit., pp. 144-145.
[9] Ivi, p.145. Secondo Paolo Delogu la chiesa di San Massimo si pone come fattore di
urbanizzazione della zona indicata dall’autore intorno ad uno dei principali assi della circolazione
urbana, in collegamento con le vie esterne.
[10] CDC . vol. I, n. LXI, anno 865. Antiperto concede alla chiesa, retta all’epoca da Arniperto, l’uso
dell’acqua che passava attraverso la sua terra per alimentare il mulino precedentemente donato alla
chiesa da Ioseb medico.
[11] CDC . vol. I, n. LXIV, anno 868.
[12] TAVIANI, Le pouvoir princier, cit., p. 15.