L’epidemiologia e i costi degli infortuni e delle malattie...

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QUADERNO DI RICERCA 6 L’epidemiologia e i costi degli infortuni e delle malattie delle risorse umane relativi alla incidenza del fattore anagrafico Progetto di ricerca per il bando del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali dal titolo “Contributi per studi e ricerche sulle discipline infortunistiche e di medicina sociale” Paese Italia: la salute nelle organizzazioni di lavoro

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QUADERNO DI RICERCA

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L’epidemiologia e i costi degli infortuni e delle malattie delle risorse umane

relativi alla incidenza del fattore anagrafi coProgetto di ricerca per il bando del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali dal titolo

“Contributi per studi e ricerche sulle discipline infortunistiche e di medicina sociale”

Paese Italia: la salute nelle organizzazioni di lavoro

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Progetto finanziato dal Ministero del Welfare - bando G.U. 18/05/2004 “Contributi per studi e ricerche sulle discipline infortunistiche e di medicina sociale”. Alla realizzazione della ricerca “L’epidemiologia e i costi degli infortuni e delle malattie delle risorse umane relativi alla incidenza del fattore anagrafico” hanno collaborato: Giuseppe Abate, Matteo Basile, Marella Caramazza, Eliana Casella, Nicola Castelli, Alessandra Cosso, Cristina Godio, Maria Giulia Marini, Mauro Montanari, Verdiana Morando, Antonio Nastri, Luigi Reale, Francesca Rubboli, Luigi Serio. La ricerca, inoltre, è stata seguita e supervisionata dalla Prof.ssa Alessandra Marinoni e dalla Dott.ssa Anna Morandi della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Pavia. Si ringraziano tutte le organizzazioni che hanno aderito all’iniziativa e che hanno reso possibile la ricerca. Poiché alcune hanno preferito rimanere anonime, ci limitiamo a indicare qui di seguito le altre: Aziende

- Arena Italia SpA - Benetton Group SpA - Boehringer Ingelheim Italia SpA - Came Cancelli Automatici SpA - Celgene Srl - Chiesi Farmaeutici SpA - Consorzio di tutela della “Ciliegia dell’Etna” - Eli Lilly Italia SpA - Fincantieri Cantieri Navali Italiani Spa - Finmeccanica S.p.A. - F.lli Pinna Industria Casearia SpA - Fumagalli Edilizia Industrializzata SpA - Gruppo Intini SpA - Gruppo Hera - Jcoplastic SpA - IKEA - IVECO ASTRA Veicoli Industriali (Fiat Group) - Lindt & Sprüngli SpA - Medtronic Italia SpA - Società Cooperativa Agricola Produttori Olivicoli (A..P.O.) - Telecom Italia SpA - Unicredit Group SpA - Vodafone Italia

Organizzazioni della Pubblica Amministrazione:

- Associazione Tecnologia, Scienza, Scuola, Società - TSSS di cui: I.P.S.C.T. Caboto di S. Margherita Ligure (GE); I.T.I.S. I. Calvino Genova; I.T.I.S. Fermi di Frascati (RM); I.T.I.S L. Cobianchi di Verbania; I.T.I.S. J.C. Maxwell di Nichelino (TO), I.I.S. E. Majorana Piazza Armerina (PA)

- Azienda Policlinico Umberto I - Roma - Fondaz. IRCCS Ospedale Maggiore di Milano - Istituto Tecnico Commerciale Statale “Cav. Ing. ADRIANO OLIVETTI” – Lecce - Istituto Tecnico Industriale Statale “Enrico Fermi” - Giarre

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Un ringraziamento particolare agli Enti e le Società che hanno contribuito alla realizzazione della ricerca, mettendo a disposizione banche dati e conoscenze tecniche: - INAIL – DC Riabilitazione e Protesi - OD&M Consulting per aver messo a disposizione il “Rapporto sulle retribuzioni 2009”.

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Indice

PREMESSA p. 5 NOTA METODOLOGICA p. 6 RICERCA DESK p. 10

L’impatto economico della salute vs il costo della malattia: dove “investire”? p. 14 Salute e sicurezza sul lavoro p. 19 Rischio e prevenzione: probabilità e valutazione p. 23

Nuove forme di rischio: l’aumento del disagio psichico p. 25

Situazione infortunistica p. 36

La situazione Italiana nel biennio 2007-2008 p. 39 Italia: salute e sicurezza sul lavoro, tra normativa e Responsabilità Sociale d’Impresa p. 54

Vincoli normativi e/o responsabilità sociale delle imprese? p. 60

RICERCA FIELD p. 66 Risultati adesioni e campionamento p. 66 Risultati dell’indagine quantitativa: analisi dei questionari p. 74 Risultati dell’indagine qualitativa p. 78

Le evidenze raccolte attraverso le interviste p. 78 Notte, Aurora e Giorno della buona salute organizzativa p. 79

L’Aurora delle aziende del settore agricolo p. 79 Settore industriale p. 81

L’Aurora p. 81 Il Giorno – le best practice p. 83

I servizi p. 83 L’Aurora p. 83 Il Giorno – le best practice p. 85

La Pubblica Amministrazione p. 85 L’Aurora p. 86 Il Giorno p. 87

Le evidenze emerse dalla ricerca sul campo analizzate in chiave organizzativa, gestionale e ambientale: dimensioni, nazionalità, collocazione geografica p. 87

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ANALISI TEMATICA DELLE EVIDENZE FIELD p. 90

La questione dell’età p. 90 Gli infortuni p. 97 Assenza e malattia p. 100

I costi della malattia p. 103 La PA e le sue tendenze numeriche p. 106 La disabilità al lavoro p. 108 Genere e maternità p. 110

CONCLUSIONI p. 112 APPENDICE p. 114

1. Mappe di rischio (biennio 2007-2008) p. 117 2. Strumenti: questionario quantitativo e traccia intervista semi-strutturata p. 123

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“ L’epidemiologia e i costi degli infortuni e delle malattie delle risorse umane relativi alla incidenza del fattore anagrafico”

N° 1466 Paese Italia: la salute nelle organizzazioni di lavoro

PREMESSA

Il progetto di ricerca “L’epidemiologia e i costi degli infortuni e delle malattie delle risorse umane relativi alla incidenza del fattore anagrafico” risponde alle esigenze esplicitate nel decreto del 29 dicembre 2003 dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali: attuare un’intensa azione di ricerca nel campo della medicina sociale sul fenomeno della malattia e degli infortuni nel mondo del lavoro. Sviluppare la conoscenza epidemiologica e statistica del “fenomeno malattia” nel mondo del lavoro, infatti, è oggi sempre più urgente per via della crescita e del mutamento che questo fenomeno ha subito, catalizzato tanto da una maturata coscienza scientifica e normativa dei rischi per la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro quanto da forme eterogenee di malattia/disagio, correlate alle nuove espressioni della professionalità e alle ripercussioni sul mercato del lavoro delle condizioni sociali, economiche e demografiche. Studiare il fenomeno della malattia nel mondo del lavoro, pertanto, significa perseguire due direttrici di ricerca: da un lato indagare i caratteri e l’andamento delle malattie professionali e degli infortuni adottando strumenti consolidati, dall’altro approfondire i nuovi segnali emergenziali, indici della presenza di altre condizioni di salute lontane dallo stato di “Ben-Essere” delle risorse umane. Date queste premesse, il presente studio è stato condotto sorvegliando la compresenza di entrambi questi percorsi e focalizzando l’attenzione verso alcuni obiettivi cogenti: � Condurre un’analisi fattoriale delle risorse umane, rispetto all’incidenza di infortunio/malattia e

alle relative prassi gestionali, organizzata per classi d’età, genere e tipologia contrattuale;

� Valutare l’impatto economico dello “stato di salute” sia organizzativo, rispetto alla gestione delle risorse umane, che socio-sanitario, attinente alle prestazioni di cura e all’assistenza sociale e previdenziale;

� Indagare la diffusione e l’incidenza degli infortuni e del fenomeno malattia nel mondo del

lavoro, per conoscere l’epidemiologia delle “condizioni di salute” dei lavoratori ma, soprattutto, comprendere l’atteggiamento adottato da parte delle aziende rispetto alla “malattia” dei collaboratori;

L’indagine è articolata in due parti: una ricerca desk che ha indagato la letteratura disponibile sull’argomento in Italia e all’estero (con un occhio particolare all’Europa) e che è servita a evidenziare la visuale, il punto di vista, che si voleva adottare nell’impostare il lavoro di ricerca sul campo che è seguito e che costituisce la seconda parte del lavoro di ricerca. La ricerca desk ha comportato un importante lavoro di raccolta di pubblicazioni sull’argomento in questione, lavoro che ha stimolato riflessioni approfondite sul concetto di malattia e sulle sue molte accezioni nel mondo organizzativo di oggi. Poiché per motivi di spazio non era possibile riportare per intero questa parte della ricerca, abbiamo inserito la sua versione completa sul sito della Fondazione ISTUD: è consultabile all’indirizzo http://www.istud.it/attivita_ricerca/progetti/elenco_completo/progetto.aspx?PROG=PROG-42.

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NOTA METODOLOGICA

L’obiettivo generale del presente studio è stato quello di valutare lo stato di salute psico-fisica della popolazione in attività lavorativa, focalizzando l’attenzione sulle relazioni tra lo stato di salute e le caratteristiche anagrafiche. Gli obiettivi specifici, rispondenti al mandato di ricerca, possono essere così sintetizzati:

1) Stimare la diffusione delle malattie correlate al lavoro nella popolazione occupata in relazione alle caratteristiche anagrafiche (sesso, età, nazionalità);

2) Stimare la diffusione degli infortuni in relazione alle caratteristiche anagrafiche, disaggregate per settore di attività economica e collocazione geografica;

3) Esaminare possibili correlazioni tra età e infortuni e malattie sul lavoro; 4) Stimare i costi delle assenze per motivi di salute in base alle giornate di lavoro perse; 5) Conoscere la cultura e i comportamenti aziendali nella gestione delle risorse umane

rispetto allo stato di salute e alle caratteristiche socio-anagrafiche; 6) Approfondire casi paradigmatici.

Metodologia della ricerca

L’impianto metodologico

La metodologia adottata è stata di tipo quali-quantitativo. La realizzazione dell’indagine è stata scandita da tre momenti funzionalmente coordinati:

- un’indagine desk, svolta tra gennaio e luglio 2009, basata sulla raccolta e analisi della letteratura – sia ricerche esistenti di provenienza nazionale e internazionale pubblicate dai maggiori centri di ricerca in tema di salute e sicurezza sul lavoro, dal punto di vista socio-sanitario, che risorse disponibili online – e dell’apparato giuslavoristico in tema di job protection nazionale ed europeo;

- un’indagine field, realizzata tra marzo e luglio 2009, caratterizzata da un approccio quali-quantitativo attraverso lo svolgimento di interviste semi-strutturate e la somministrazione di un questionario quantitativo nelle organizzazioni aderenti;

- revisione critica di tutto il materiale raccolto per definire dei casi di best practice osservati nel campione organizzativo di riferimento, da promuovere e diffondere.

Ricerca desk

La prima fase della ricerca, l’indagine desk, ha analizzato lo scenario nazionale e internazionale in tema di job protection e predisposto un primo quadro statistico sulla diffusione di infortuni e malattie correlate al lavoro a livello nazionale. Le fonti sono state principalmente la letteratura giuslavoristica in tema di salute e sicurezza e le ricerche condotte da centri di ricerca, pubblici e privati, nazionali ed europei; per i dati statistici, invece, la fonte principale è stata la Banca Dati dell’INAIL sugli infortuni e le malattie professionali in Italia, a seguire le rilevazioni campionarie e le indagini sulla Forza Lavoro di ISTAT, mentre per i confronti con i Paesi della Comunità Europea, la Banca Dati EUROSTAT. L’indagine desk ha costituito un momento propedeutico all’indagine sul campo, poiché ha consentito di: 1. Elaborare un modello multiprospettico per interpretare il fenomeno della malattia rispetto al

lavoro, in modo da ricomprendere differenti modalità espressive di “mancanza di salute” – dalla

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malattia professionale, cronica, psichica etc., all’infortunio – da più punti di vista, anzitutto socio-sanitario, ma anche economico e politico.

2. Avanzare delle ipotesi che hanno agevolato la messa a fuoco di temi chiave da affrontare nell’indagine field: sia rispetto alla costruzione degli strumenti che rispetto ai soggetti da coinvolgere per la definizione del campione. A tal fine, sono state fondamentali la panoramica sul rischio e la raccolta dei dati sulla diffusione delle malattie professionali e degli infortuni attraverso i Rapporti di INAIL per il biennio 2007-2008.

3. Costruzione degli strumenti di indagine1 da utilizzare nel corso dell’indagine sul campo: a. Definizione di un questionario quantitativo da somministrare alle organizzazioni, per

raccogliere dati amministrativi relativi alla popolazione organizzativa (numerosità, segmentazione per età, sesso, inquadramento professionale, tipologia di contratto), alla retribuzione media giornaliera, nonché dati sull’assenza per motivi di salute e sugli infortuni occorsi - sempre secondo le stesse disaggregazioni.

b. Per approfondire la conoscenza della cultura organizzativa è stata predisposta una traccia, check-list di argomenti-guida, per condurre le interviste in presenza. Nell’approccio qualitativo, quindi, è stato prediletto comunque uno strumento controllato, l’intervista semi-strutturata, e non totalmente aperto: questo al fine di potere esaurire gli obiettivi di ricerca e poter confrontare le evidenze emerse all’interno del gruppo di ricerca, a fronte di una sostanziale eterogeneità rispetto alla tipologia, grandezza, contesto geografico delle organizzazioni coinvolte nel progetto.

Ricerca field: conoscere le organizzazioni

L’indagine sul campo è stata finalizzata a produrre uno studio epidemiologico trasversale e retrospettivo, perché ha ricostruito la situazione delle organizzazioni per l’anno 2008. Il campione di organizzazioni è di tipo “judgement sample”. Nella definizione del campione, infatti, è stata privilegiata una logica osservazionale, seguendo le indicazioni della fase precedente: è stato costruito un campione a grappolo di 30 organizzazioni, come richiesto dal protocollo di ricerca, stratificate per settore produttivo, dislocazione geografica e dimensioni. L’indagine nelle organizzazioni è stata condotta utilizzando gli strumenti predisposti, testati inizialmente con una prima conduzione guidata e monitorata da più ricercatori, per confrontare la validità degli strumenti elaborati e valutarne un possibile efficientamento.

I questionari di indagine

La rilevazione dei dati è stata effettuata attraverso la somministrazione di un questionario quantitativo alle organizzazioni aderenti. Nel questionario sono state affrontate le seguenti tematiche:

– Certificazioni di qualità e/o sistemi di gestione della sicurezza certificati: adozione e implementazione all’interno delle organizzazioni di sistemi certificati di gestione della sicurezza e della salute.

– Caratteri della popolazione occupata: ossia numero di collaboratori, per tipologia contrattuale, inquadramento professionale e nazionalità, divisi per età2 e genere; e numero di collaboratori portatori di disabilità (fascia protetta ex L. 68/99).

– Giornate perse per malattia: rilevazione delle giornate perse per malattia per tipologia contrattuale e inquadramento professionale, divise per genere ed età.

– Tipi di malattie prevalenti : il dato è stato richiesto distinto per genere e fasce d’età3.

1 Cfr. nell’Appendice sono riprodotti gli strumenti utilizzati.

2 Le fasce d’età adottate nei questionari corrispondono alla classificazione delle Forze lavoro di ISTAT e non di INAIL: la scelta è stata maturata dall’esigenza di confrontare i dati rilevati con la media nazionale della popolazione occupata.

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– Retribuzione giornaliera media secondo inquadramento professionale: aspetto economico finalizzato a valutare e stimare il costo diretto delle assenze per motivi di salute.

– Situazione infortunistica: numero di infortuni occorsi nel 2008 per genere, età, tipologia contrattuale e nazionalità.

La compilazione dei questionari, considerati i dati richiesti, non è stata immediata: da un lato, l’esautoramento di tutti i campi ha determinato l’interazione di più funzioni all’interno delle organizzazioni (responsabile delle risorse umane per la parte relativa alla popolazione organizzativa e RSPP per il monitoraggio dei dati sulla salute e sicurezza), dall’altro si è registrata una difficoltà nella stessa estrapolazione dei dati richiesti, poiché non presenti o studiati diversamente nel monitoraggio di flussi informativi interni. Per agevolarne quindi la compilazione, si è preferito anticipare lo strumento trasmettendolo online una volta ricevuta l’adesione dell’organizzazione al progetto: questa previsione ha consentito di catalizzare lo scambio informativo e utilizzare il momento delle interviste in presenza per chiarire eventuali problemi. Una volta compilati, i questionari sono stati restituiti sempre online. Oltre alla rilevazione dei dati tramite questionario, è stato chiesto alle organizzazioni coinvolte la possibilità di visionare alcuni dei documenti ufficiali, redatti per legge (D. Lgs. n. 81/2008), tra cui: Copia del Registro infortunistico compilato e aggiornato in tempo reale per l’INAIL e il documento relativo allo Stato di Salute aziendale. Quest’ultimo, in realtà, non è stato possibile averlo a disposizione per il rispetto della privacy.

Conduzione delle interviste semi-strutturate

L’incontro con le organizzazioni è stato condotto di volta in volta dai ricercatori della Fondazione ISTUD, che hanno preliminarmente approfondito la conoscenza delle organizzazioni coinvolte. Tale scelta è stata dettata dallo stesso strumento qualitativo: all’interno di ogni organizzazione, infatti, sono state condotte da un minimo di tre a un massimo di dieci interviste semi-strutturate, per un totale complessivo di 121 interviste, richiedendo quindi, ad ogni organizzazione aderente, la disponibilità per un arco di tempo consistente. Ogni intervista in profondità, infatti, è durata in media più di un’ora per ogni intervistato: la traccia semi-strutturata lasciava piena libertà all’intervistato di ampliare le risposte, uscendo da un seminato stringente, per soffermarsi su tematiche/questioni che riteneva più urgenti dal suo punto di vista. In ogni organizzazione sono state intervistate al minimo tre persone, tra cui le figure del responsabile HR, il RSPP (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione), il medico competente o il responsabile della formazione. Altre tipologie di intervistati -sebbene non siano presenti in modo uniforme in tutte le interviste condotte-, sono stati: il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS), il responsabile legale, docenti o medici (nella Pubblica Amministrazione), l’amministratore delegato (nelle PMI), top manager o altre figure segnalate dalla direzione come referenti sul tema e, infine, collaboratori appartenenti alla fascia protetta. Le aree d’interesse esplorate attraverso le interviste sono state:

– Strategie organizzative per la prevenzione dello stato di salute: presenza di prassi/percorsi di inserimento o reinserimento dei collaboratori per problemi di salute, assenze per periodi prolungati, se e quando il supporto della tecnologia viene utilizzato per sopperire ad assenze per motivi di salute, gestione e attenzione riservata ai collaboratori senior e a quelli appartenenti alla fascia protetta.

– Prevenzione e sicurezza: in questo caso, si è indagato come viene vissuto il rapporto con le autorità di controllo e la normativa in materia di sicurezza, sono state sollecitate

3 Dati i vincoli normativi sulla privacy, è stato inserito questo item nel questionario per cercare di rilevare i trend tecnopatici, quali malattie risultano più diffuse o ricorrenti in funzione dell’attività lavorativa.

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considerazioni in merito all’implementazione del nuovo TU (D. Lgs. n. 81/2008) sulla Salute e Sicurezza. Sempre in quest’area, sono state indagate le azioni messe in campo dalle organizzazioni per promuovere una cultura della prevenzione della salute, attraverso iniziative di well-ness e di prevenzione sanitaria, nonché di riconoscimento e incentivo alla proattività dei collaboratori per la tutela e gestione della sicurezza, e, infine, le azioni di formazione e informazione. In sintesi, si è cercato di capire se e come la salute è incorporata nella cultura organizzativa.

– Aspetto economico: è stato chiesto alle organizzazioni se, al di là di una valutazione economica della perdita derivante dalle assenze per motivi di salute dei collaboratori, sia stato mai impostato uno studio/stima in termini di costi-benefici, orientato a una visione più ampia che includa le assenze in una valutazione del valore capitale della salute ai fini della produttività e/o rendimento.

– Proposte: si è dedicato questo spazio alle proposte e alle sollecitazioni personali, per raccogliere la preziosa esperienza sul campo e la visione della questione salute e sicurezza sul lavoro dai molti professionisti incontrati.

Salvo qualche particolare eccezione, non sono state mai anticipate le check-list delle interviste, onde evitare risposte preparate o comunque non spontanee, rispetto alle quali sarebbe stato molto più difficile testare e conoscere il reale livello culturale organizzativo in tema di salute e sicurezza.

Best practices

La terza e ultima fase di ricerca è stata dedicata all’interpretazione e analisi di tutto il materiale raccolto nell’indagine sul campo. Il materiale raccolto è stato sistematizzato e analizzato nel dettaglio al fine di individuare i casi di best practice, le situazioni paradigmatiche da evidenziare proprio in quell’ottica di incentivare e diffondere modelli d’eccellenza che contraddistingue le indicazioni delle nuove strategie comunitarie e nazionali per la salute e sicurezza sul lavoro.

– Analisi dei questionari: è stata condotta un’analisi descrittiva mediante il calcolo delle frequenze descrittive sul globale delle risposte pervenute dai questionari, disaggregate per genere, età anagrafica, nazionalità, tipologia contrattuale, inquadramento professionale. È stata stimata la frequenza infortunistica nonché la percentuale di assenteismo per motivi di salute, sia in complesso, all’interno del campione organizzativo di riferimento, sia incrociando la frequenza infortunistica e le assenze con i fattori citati (età, genere, tipologia contrattuale, inquadramento professionale) e tenendo conto delle divisioni per settore produttivo e dimensione organizzativa. Dall’analisi dei questionari, infine, è stato possibile elaborare una stima del costo economico delle assenze per motivi di salute, incrociando i dati sulle giornate perse per inquadramento professionale con i dati sulle retribuzioni medie giornaliere per inquadramento professionale. Le frequenze descrittive calcolate, inoltre, sono state confrontate con le rispettive frequenze medie a livello nazionale.

– Analisi delle interviste: tutte le interviste condotte sono state registrate e trascritte da ogni ricercatore, in modo da predisporre una documentazione comune e condivisibile dell’indagine field. Terminata la trascrizione di tutte le interviste, il gruppo di ricerca si è riunito per condividere e confrontare i risultati. In quella sede, sono state individuate le tematiche fondamentali e le questioni aperte emerse dall’indagine da evidenziare e restituire nella divulgazione; inoltre, sono state definite di concerto le azioni di best practice, quali esperienze paradigmatiche di gestione della salute e sicurezza nel mondo organizzativo.

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RICERCA DESK

Introduzione

La pluralità e l’eterogeneità degli obiettivi del presente studio hanno reso necessaria l’acquisizione di una visione multidimensionale sulla questione della salute e del Ben-Essere delle risorse umane nel mondo organizzativo, capace di intercettare le prospettive socio-economiche, sanitarie e demografiche. In quest’ordine, sul versante metodologico, la ricerca desk ha anzitutto messo a punto un modello di lettura del fenomeno pluriprospettico, in grado di comprenderlo attraverso l’integrazione dei diversi punti di vista menzionati4. Due concetti fondamentali descrivono i caratteri del modello elaborato: una nuova alfabetizzazione della questione della salute e sicurezza sul lavoro, istruita attraverso il linguaggio della prevenzione e, conseguentemente, la necessità di mettere al cuore di tutte le strategie politiche di Welfare la salute, come bene umano ed economico – HIAP : Health in All Policies.

“Ri-alfabetizzare”: la prevenzione è un miracolo realizzabile dall’uomo

Nel 2000 la Direzione Regionale Piemonte dell’INAIL ha allestito una mostra itinerante di ex-voto pittorici, ovvero di tavolette votive raffiguranti gli infortuni sul lavoro5. L’iniziativa ha manifestato, nell’intento dei promotori, un’occasione per riflettere sulla trasformazione dei processi produttivi, sui rischi lavorativi in evoluzione, sull’andamento degli infortuni e sulle iniziative prevenzionali necessarie. Questo obiettivo è stato genialmente interpretato attraverso l’allestimento dell’esposizione: l’accostamento/contrapposizione tra due linguaggi provocatoriamente incomunicanti, il linguaggio suggestivo delle tavolette ex-voto, forma espressiva del folklore popolare, e quello imperativo della segnaletica della sicurezza. L’accostamento/contrapposizione, infatti, sollecita a riflettere sulla possibilità di un linguaggio terzo rispetto ai primi due, “suggestivo” perché diversamente evocato, come riscatto del miracolo ricevuto nell’iconografia votiva e come potenziale coercitivo nella segnaletica di sicurezza: il linguaggio della prevenzione. Questo linguaggio, interamente da reinventare attraverso immagini contrastanti, emerge in modo quasi provocatorio, sottolineando il messaggio di una nuova consapevolezza sociale: la prevenzione è un miracolo realizzabile dall’uomo. Parlare di prevenzione come di un miracolo realizzabile dall’uomo non vuole essere qui un’espressione retorica ma piuttosto una “provocazione”, uno stimolo a istruire un nuovo significato della prevenzione della salute aldilà del linguaggio metaforico in tema di sicurezza e malattia. Malattia e sicurezza, infatti, fanno parte della salute e della prevenzione, esse sono, parafrasando Susan Sontag, il loro “lato notturno”6: in altri termini, l’orizzonte semantico è unico e comune, semmai è la cultura che ne ha separato e frammentato l’integrazione funzionale e significativa originaria. Capire questo punto è quanto mai fondamentale per istruire la visuale d’indagine multiprospettica che il presente lavoro ha elaborato. Se infatti i concetti fondamentali in gioco, salute e malattia/prevenzione e sicurezza, non sono significativamente estranei tra loro, ma integrati sul piano teorico ed empirico, allora anche le pratiche sociali e politiche, ovvero culturali, ad essi finalizzati dovranno essere integrate e coerenti rispetto all’orizzonte comune. Qual è il nesso tra prevenzione e metafore culturali? Nel linguaggio della prevenzione alluso dalla mostra promossa da INAIL, l’idea di prevenzione è in qualche modo “mistificata”

4 La versione integrale di questa parte della ricerca, che è stata riassunta per ragioni di spazio in questa pubblicazione, è disponibile sul sito della Fondazione ISTUD all’indirizzo http://www.istud.it/attivita_ricerca/progetti/elenco_completo/progetto.aspx?PROG=PROG-42. 5 Cfr. Breve viaggio nella prevenzione. “Tra iconografia votiva e simbologia di sicurezza”, INAIL 2001.

6 Cfr. S. Sontag, L’Aids e le sue metafore e Malattia come metafora in Malattia come metafora. Cancro e Aids,

Mondadori, Milano 2002.

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nell’accostamento/contrapposizione tra il miracolo e l’obbligo. La forza coercitiva della segnaletica rivela come la cultura della sicurezza fino ad oggi abbia posto il suo fuoco prospettico in una normativa della sicurezza a garanzia del diritto alla salute dei lavoratori. Questo tipo di cultura in realtà se è stato fondamentale e vincente nel recente passato per la conquista e il riconoscimento di determinati diritti dei lavoratori, oggi rivela la sua debolezza. La stessa miopia infatti si riscontra nella “mistificazione” della malattia in rapporto al lavoro. Da un lato, il lavoratore si è aggrappato alla cultura garantistica del posto di lavoro senza maturare la consapevolezza che al diritto di tutela della salute corrisponde anche un dovere soggettivo proattivo e partecipativo. Dall’altro, la cultura politico-economica e manageriale, finalizzata alla massimizzazione efficientistica dei profitti, ha spesso finito col considerare la malattia come privazione, onere economico dettato dalla ridotta produttività, perdendo di vista il nesso causale originario tra malattia e salute, o meglio della malattia in quanto “lato oscuro” della salute: la malattia e l’inabilità sono diventate così uno stigma per il lavoratore, emarginandolo a livello sociale e occupazionale. Il punto di partenza del nostro lavoro quindi si è concentrato nella sollecitudine di maturare e promuovere strumenti nuovi, capaci di istruire un nuovo significato e un nuovo linguaggio della prevenzione. Quest’idea trova rappresentazione nella metafora: la malattia è la notte della salute (cioè il giorno) e la prevenzione è l’alba della sicurezza (anch’essa rappresentabile con il giorno). Il nuovo fuoco prospettico è esattamente una cultura della prevenzione incentrata e proiettata verso la salute e la sicurezza: è l’alba il ponte tra la notte e il giorno, che collega i due territori. Questo riconoscimento diviene il nuovo, aurorale, orizzonte culturale capace di attrarre e veicolare pratiche e politiche coerenti e integrate verso l’obiettivo comune.

Un nuovo approccio in materia di salute e sicurezza sul lavoro: HIAP – Health in All Policies

Il primo atto di questa maturazione culturale è stato avviato dalle nuove strategie della Comunità Europea, indirizzate a far convergere in un orizzonte comune, secondo una logica di governance sussidiaria, tanto le specifiche declinazioni politiche nazionali quanto strategie settoriali storicamente indipendenti e parallele. Nell’economia del presente studio, la strategia per la salute rinnovata dal libro Bianco, Un impegno comune per la salute: approccio strategico dell'UE per il periodo 2008-2013, costituisce un fulgido esempio di strategia politica integrata, a partire dalla definizione di un quadro coerente che orienta le attività della Comunità in ambito sanitario – in sintonia con l'articolo 152 del trattato CE che dispone che "nella definizione e nell'attuazione di

Metafore nel mondo del lavoro

Il meccanismo concettuale della metafora, ossia quello slittamento semantico che crea collegamenti, ponti tra territori originariamente distanti, una “doppia cittadinanza” come situazione in cui si è “costretti” a vivere, è fortemente radicato anche nel mondo del lavoro. Pensiamo ad espressioni come: Good to know you, freedom, forte senso di appartenenza, Better work better life, Coltiviamo talenti, A better life at work, fiducia e fair-play etc.. Esse rappresentano chiari esempi di meccanismi metaforici, che mirano a costruire analogie, a sovrapporre il “territorio” della vita professionale a quello della vita privata/intima. In questo senso, si potrebbe allora affermare che le organizzazioni “sane” sono quelle dove le metafore dichiarate trovano riscontro nella realtà; e, al contrario, sono organizzazioni “malate” quelle in cui queste dichiarazioni di grandi principi (appartenenza, lavoro migliore, etc.) non si realizzano nella vita professionale. Di nuovo, il grimaldello critico che pone Susan Sontag diventa quanto mai urgente: bisogna “sottrarre senso” a queste metafore? “Mistificano”/ “misconoscono” il problema quanto mai inevitabile che il lavoro è espressione della personalità, sua realizzazione, e al contempo il fatto che la conciliazione tra vita privata e vita professionale, life and work, rappresenta oggi uno dei nodi più delicati del mondo del lavoro?

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tutte le politiche ed attività della Comunità è garantito un livello elevato di protezione della salute umana"-.

COM(2007) 630 Libro Bianco - Un impegno comune per la salute: approccio strategico dell'UE per il periodo

2008-20137 Il ruolo di primo piano della Comunità Europea nell'ambito della politica pubblica sanitaria viene dichiarato nei seguenti principi fondamentali:

− VALORI SANITARI CONDIVISI La Commissione ha collaborato con gli Stati membri per definire un approccio ai sistemi di assistenza sanitaria basato su una serie di valori: universalità, accesso a un'assistenza di buona qualità, equità e solidarietà. In quest’ordine, la partecipazione dei cittadini costituisce un valore fondamentale. L'assistenza sanitaria deve essere sempre più orientata verso il paziente e personalizzata: il paziente è un soggetto attivo, anziché un semplice oggetto di cure. Cittadini e pazienti devono quindi poter partecipare al processo decisionale ed esercitare un'influenza a tale livello nonché acquisire le competenze necessarie al benessere, tra cui la cosiddetta "alfabetizzazione sanitaria", in linea con il quadro europeo delle competenze chiave per l'apprendimento permanente.

− LA SALUTE È IL BENE PIÙ PREZIOSO

La salute è importante per il benessere dei singoli e della società, ma una popolazione in buona salute è anche una condizione essenziale per la produttività e la prosperità economica. Nel 2005 gli anni di vita in buona salute sono stati inseriti come indicatore strutturale di Lisbona per sottolineare come la speranza di vita in buona salute, e non solo la durata della vita, sia un fattore chiave per la crescita economica. La relazione della Commissione al Consiglio europeo del 2006 ha esortato gli Stati membri a ridurre il numero di persone inattive per problemi di salute. In essa si sottolinea come in numerosi settori la politica debba intervenire per migliorare la salute a vantaggio dell'economia in senso più ampio. La spesa per la salute non costituisce solo un costo, ma rappresenta piuttosto un investimento. La spesa sanitaria può essere vista come un onere economico, ma gli effettivi costi per la società sono quelli, diretti e indiretti, legati alla cattiva salute, come pure alla mancanza di investimenti sufficienti nei pertinenti ambiti sanitari. La spesa per l'assistenza sanitaria dovrebbe essere accompagnata da investimenti nella prevenzione, nella protezione e nel miglioramento della salute fisica e mentale generale della popolazione8.

− LA SALUTE IN TUTTE LE POLITICHE (HEALTH IN ALL POLICIES – HIAP)

La salute della popolazione non è una questione che riguarda la sola politica sanitaria. Altre politiche comunitarie svolgono un ruolo importante, fra cui la politica regionale e ambientale, la tassazione dei tabacchi, la regolamentazione dei prodotti farmaceutici e dei prodotti alimentari, la salute degli animali, la ricerca e l'innovazione in materia di salute, il coordinamento dei regimi di sicurezza sociale, la salute nella politica dello sviluppo, la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro e la protezione dalle radiazioni ecc. Ai fini di una forte politica comunitaria in materia di salute è fondamentale sviluppare sinergie con questi ed altri settori, molti dei quali dovrebbero collaborare per realizzare gli obiettivi e le azioni previste nella strategia. L'integrazione della salute in tutte le politiche implica inoltre il coinvolgimento di nuovi partner nella politica sanitaria. La Commissione intende sviluppare forme di associazione per promuovere gli obiettivi della strategia, in particolare con le ONG, le imprese, il mondo accademico e i mezzi di comunicazione. L'approccio HIAP va adottato anche nelle politiche esterne, fra cui quelle relative allo sviluppo, alle relazioni esterne e al commercio. La globalizzazione fa sì che i problemi e le soluzioni in materia di salute attraversino le frontiere e presentino spesso cause e conseguenze intersettoriali.

Un’Europa in buona salute rappresenta l’idea guida, capace di sintetizzare in forma multidimensionale le molteplici strategie settoriali garantendo la cifra distintiva del modello europeo: solidarietà e inclusione sociale in una società della conoscenza. Il libro Bianco per le

7 Si veda anche il testo normativo della Decisione n. 1350/2007/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2007 che istituisce il secondo programma d’azione comunitaria in materia di salute (2008-2013) (Testo rilevante ai fini del SEE); per i testi normativi comunitari si rinvia al sito http://eur-lex.europa.eu. 8 Snapshots: Health Care Spending in the United States and OECD Countries Jan 2007 http://www.kff.org/insurance/snapshot/chcm010307oth.cfm.

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politiche sanitarie quindi consolida l'importanza della salute in politiche quali la strategia di Lisbona per la crescita e l'occupazione, sottolineando il legame fra salute e prosperità economica, e riconoscendone il ruolo cruciale per l'agenda dei cittadini. Gli stessi cittadini, infatti, sono chiamati a partecipare e cooperare alla sua realizzazione, nella misura in cui la maggior parte delle scelte che investono il raggiungimento di buoni livelli di salute è completamente affidata alla discrezionalità del singolo. Alcuni osservatori hanno iniziato a veicolare l’idea di favorire il sentimento di cittadinanza europea proprio attraverso una strategia politica europea improntata alla salute, capace di coinvolgere direttamente ogni cittadino nel policy-making volto a questo scopo9. Rispetto al modello da noi elaborato, l’impianto della ricerca desk è articolato in più tematiche in modo da mettere a sistema i diversi profili che ineriscono l’approccio multidimensionale alla questione della salute e sicurezza sul lavoro. L’impostazione metodologica e l’ordine degli argomenti riflettono la focalizzazione sul linguaggio della prevenzione e della salute: anziché riassumere e valutare fin da subito la normativa vigente, si è preferito attaccare la questione direttamente dalla prospettiva culturale. L’orizzonte culturale, infatti, dovrà assumere sempre più una collocazione sovraordinata e, al contempo, permeante il quadro politico intersettoriale che investe la materia della salute e sicurezza sul lavoro: di nuovo, l’alba (prevenzione) e il giorno (salute). Interpretare la situazione contingente, le emergenze del sistema, gli interventi intrapresi alla luce di risultati conseguiti sono operazioni fondamentali che non possono prescindere dal frame culturale e politico contestuale in ordine a due motivi. Anzitutto, come la sociologia e la psicologia sociale hanno dimostrato, il controllo e l’efficacia cui attende la statuizione normativa non possono essere raggiunti fin tanto che la normativa stessa non insedia o si traduce in valori sociali recepiti e interpretati dai comportamenti individuali. In secondo luogo, il tema della salute e della sicurezza sul lavoro è mutato in seno al cambiamento del diritto del lavoro, dell’introduzione, sempre più massiccia, della tecnologia, della mobilità territoriale, dell’immigrazione nonché della flessibilità/precarietà dei rapporti di lavoro: per tutti questi e altri motivi, associati al fatto che ogni intervento in materia è oggi subordinato all’agenda di Lisbona, evitare l’interpretazione culturale, a livello politico ed economico, costituirebbe una grave limitazione.

9 Come ha scritto David Byrne : «The recent European elections show that citizens feel Europe is far away from their

lives. We need to link Europe with its citizens. And this is where health comes in. We need to show that Europe is good for health. By increasingly putting EU policies at the service of good health, we bring Europe closer to its citizens and help them enjoy longer, happier, more productive lives» - Byrne (Commissioner for Health and Consumer Protection), Enabling Good Health For All. A reflection process for a new EU health strategy.

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L’impatto economico della salute vs il costo della malattia: dove “investire”?

Perché investire in salute nei Paesi dell’Unione Europea è ancora importante?

Se da un lato l’idea chiave di questo dirottamento culturale è che la salute è un bene che investe la condizione umana ed economica, dall’altro questo stesso riconoscimento sul piano politico-culturale, l’approccio HIAP (Health in All Policies) nonché l’intenzionalità esplicita di integrare gli investimenti finanziari verso un comune orizzonte di riferimento, si attesta oggi ad un livello prettamente programmatico che attende una maturazione in termini di efficienza ed efficacia empirica. Rispetto a questa situazione, è qui interessante mettere in evidenza i risultati del documento curato dalla Commissione Europea “For Health and Consumer Protection” nel 200510 a partire da un lavoro promosso dalla World Health Organization, in particolare dalla Commissione di Macroeconomia e Salute (Commission on Macroeconomics and Health – CMH)11 nel 2001, finalizzato a studiare il ruolo della salute per la crescita economica dei Paesi in via di Sviluppo. Lo studio della CMH, infatti, sebbene indirizzato primariamente ai Paesi in via di Sviluppo, evidenzia un cambio di paradigma fondamentale nell’interpretazione dell’impatto economico dello stato di salute della popolazione: la salute deve essere sovrastimata rispetto alla mera considerazione di prodotto-derivato dello sviluppo economico ed essere annoverata tra le sue stesse variabili-chiave in grado di ridurre la povertà. I Paesi più avanzati, tuttavia, mostrano una certa difficoltà a recepire le conseguenze di quest’acquisizione, traslate nello specifico e differente orizzonte delle loro strategie politiche. Se vi è un consolidato assenso sul fatto che lo stato di salute della popolazione contribuisce positivamente all’economia nazionale, tuttavia l’inclusione della salute nelle strategie politiche nazionali è in qualche modo frenata dall’altrettanto maturata convinzione, per questi Paesi, che lo stato di salute della popolazione ha ormai raggiunto un buon livello, tale per cui i futuri investimenti riguarderanno semmai l’ottimizzazione dei sistemi di servizio sanitario, delle prestazioni erogate, in termini di efficacia ed efficienza economica, ovvero di riduzione e contenimento della spesa pubblica sanitaria. Questa situazione si manifesta chiaramente se si guarda al contesto europeo: è evidente infatti come la strategia per lo sviluppo economico, la strategia di Lisbona, nei suoi obiettivi originari, abbia tenuto in poco conto la questione della salute. È giustificabile questa prospettiva? Perché è ancora importante preservare e accrescere il ruolo della salute nelle strategie dell’Unione Europea?

Molti sostengono che nuovi investimenti per accrescere lo stato di salute, nell’attuale condizione europea, non porterebbero guadagni significativi, ma anzi rappresenterebbero un rischio per la sostenibilità economica delle società stesse. In sintesi, se l’aspettativa di vita alla nascita registra già livelli ben superiori all’età di pensionamento, accrescere ulteriormente lo stato di salute comporterebbe un netto aumento della popolazione improduttiva, fuori dal mercato del lavoro e a carico della spesa pubblica. Al di là del piano etico di simili posizioni, esse risultano in ogni caso contraddette dal fatto che esiste una differenza significativa tra l’aspettativa di vita alla nascita e gli anni di vita in buona salute e, quindi, potenzialmente produttivi. Non solo, l’aspettativa di vita alla nascita non è una variabile potenzialmente generalizzabile nella misura in cui la sua consistenza reale dipende dalla qualità di vita di ogni singolo individuo.

Nonostante la consapevolezza sulla diretta proporzionalità tra stato di salute della popolazione e produttività delle risorse umane, in termini di capacità di crescita intellettuale, fisica ed emotiva, questa credenza è spesso sottostimata dai policies-makers che non la ritengono un fattore rilevante

10

Health and Consumer Protection – M. Suhrcke, M. McKee, R. Sauto Arce, S. Tsolova, J. Mortensen, The contribution of health to the economy in the European Union, European Communities, Lussemburgo 2005. 11

CMH, Macroeconomics and health: Investing in health for economic development, Report of the Commission on Macroeconomics and Health, presieduta da Jeffrey Sachs, Ginevra 2001.

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ai fini della ricerca sociale e delle strategie politiche. Quest’assunto è provato dalla copiosa ricerca sul ruolo del capitale umano per la crescita economica in termini di mera educazione e formazione permanente, trascurando completamente lo stato di salute dello stesso capitale umano. Questo debole riconoscimento tuttavia sembra in contraddizione con quanto promosso dall’agenda di Lisbona: l’elaborazione di politiche pubbliche, capaci di raggiungere quegli ambiziosi obiettivi, esige infatti una forte attenzione e vigilanza sulla comprensione dell’efficacia e dell’efficienza dell’investimento nel capitale umano, che non sottostimi il ruolo della sanità pubblica rispetto a politiche che mirano anzitutto a innalzare la produttività di categorie fragili e socialmente emarginate. In modo diretto, la domanda provocatoria è se sia possibile investire sul capitale umano senza considerare prioritario il fattore salute. Lo stato di salute della popolazione e il servizio sanitario, in realtà, dovrebbero giocare un ruolo cruciale nella possibilità di generare coesione sociale, forza lavoro produttiva e, di conseguenza, nel perseguire livelli di crescita economica ed occupazionale. Non va sottovalutato, infatti, che la realizzazione dell’agenda di Lisbona passa attraverso altre questioni di ordine socio-economico fondamentali e non riconducibili ai soli aspetti della produttività e dell’offerta occupazionale. L’invecchiamento della popolazione e la riduzione del tasso di fertilità imporranno cambiamenti sostanziali nelle politiche socio-economiche dei prossimi anni proprio a partire da una forte contrazione della forza lavoro disponibile. In questo senso, diventano urgenti politiche di sostegno alla salute in grado di tutelare e prevenire la diffusione di malattie croniche o di disabilità che potrebbero contrarre ulteriormente la forza lavoro attiva

Circolo virtuoso di una società sana

In questo panorama, la vera cifra innovativa è semmai porre all’attenzione tanto il ruolo della salute come componente del capitale umano quanto la relazione biunivoca tra salute ed efficienza economica. Lo schema che segue rappresenta sinteticamente il circolo virtuoso ideale tra input/output correlati all’investimento in salute di una società realmente ed economicamente “in buona salute”. La salute corrisponde sia a un bisogno che a un prodotto propriamente umano: se l’individuo riceve un certo patrimonio genetico di salute alla nascita che deperisce con l’invecchiamento, egli, tuttavia, ha la possibilità, date determinate condizioni, di investire per preservare o incrementare questo patrimonio.

Salute come componente del capitale umano

Il contributo più significato al riconoscimento della salute come componente fondamentale del capitale umano si deve alla teoria di Grossman, il quale per primo ha elaborato un modello teorico del capitale umano che include la variabile del fabbisogno di salute. Grossman distingue anzitutto tra la salute come bene di consumo e la salute come bene capitale. Nel primo caso, la salute rientra tra le funzioni di utilità individuale; mentre, come bene capitale, la salute determina il tempo di vita in buona salute vs quella in malattia, determinando la fruizione e la spendibilità dell’individuo nell’attività lavorativa e non. In questo senso, la produzione di salute non inerisce solo all’utilità individuale di godimento di un buono stato di salute, ma altresì accresce il numero di giorni in salute utili all’attività lavorativa (e quindi al guadagno) e personale.

Cfr. M. Grossman, On the Concept of health capital and the demand for health, in Journal of

Political Economy, 80(2) 1972, pp. 223-255; The human capital model of the demand for health, NBER Working Papers Series, No 7078, Massachussets 1999.

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• Esistono diversi elementi (input) che contribuiscono alla produzione e crescita dello stato di salute, come compare sulla parte sinistra della figura: patrimonio genetico, stile di vita, educazione, benessere economico, attività lavorativa, e altre condizioni generali di natura socio-economica, culturale ed ambientale. Lo stesso sistema sanitario e l’accesso alle cure rientrano tra gli input per un buon stato di salute: tuttavia, proprio il fatto di essere uno tra più fattori mostra come l’accesso e la fruizione di cure sia un bisogno derivato di salute12.

• Sul lato destro della figura, invece, appaiono i quattro canali tramite cui un buono stato di salute della popolazione influenza il benessere economico di una società avanzata (output): produttività, maggior offerta di forza lavoro, skills/professionalità elevate come risultato di alti livelli di educazione e della formazione permanente e, infine, l’opportunità di investire in modo significativo nel capitale fisico e intellettuale. Figura 1. Circolo virtuoso di una “società sana”

Fonte: The contribution of health to the Economy in the European Union, p. 21

Le tipologie e l’urgenza di investimenti in salute sono assolutamente eterogenee tra i Paesi in via di Sviluppo e i Paesi avanzati dell’UE. Per i primi, infatti, gli investimenti in salute porteranno a una netta crescita economica, preservando la vita di milioni di persone. In questo ordine, solitamente viene utilizzato come indicatore il rapporto tra l’aspettativa di vita e la crescita economica, secondo la seguente scala:

10% di crescita dell’aspettativa di vita →crescita di 0,3%-0,4% del PIL per anno

Nei Paesi in via di Sviluppo le priorità sono perlopiù le malattie infettive e trasmettibili (tubercolosi, AIDS, malaria), la cura della maternità e della neonatologia, la mortalità infantile legata a tetano, malattie respiratorie infettive, difterite, malnutrizione ecc. Tutte patologie che i Paesi avanzati hanno superato e che presentano un costo e una complessità relativamente bassa. Al contrario, nei Paesi dell’UE sono largamente diffuse le malattie non-trasmettibili, per lo più croniche, e le malattie trasmettibili correlate a infezioni più complesse (epidemie o assunzione di stupefacenti), dettate sia dall’allungamento dell’aspettativa di vita che dagli stili di vita. La diffusione di simili patologie dimostra che la questione della salute è tutt’altro che secondaria nei Paesi dell’UE, anzi si può dire che lo sviluppo economico, le nuove chance di vita sociale hanno reso ancor più complesso e

12 I fattori determinanti lo stato di salute di una società sono definiti dalla “Health and Consumer Protection DG”: cfr. http://europa.eu.int/comm/health/ph_determinants/heathdeterminants_en.htm.

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multidisciplinare questo problema. Queste forme di malattia infatti esigono un intervento integrato a più livelli, non solo nelle prestazioni di cura erogate dal servizio sanitario, ma altresì negli investimenti di ricerca e sviluppo, nella promozione culturale alla prevenzione e nell’implementazione di nuovi sistemi di assistenza sociale lungo l’intero arco di vita. La maggior parte della letteratura sull’impatto economico della salute nei Paesi avanzati, e dell’Unione in particolare, si concentra attualmente sul costo della malattia (come quantità di risorse investite nella cura e nei sistemi sanitari), e correlativamente, a livello socio-economico, all’impatto negativo (guadagno perso di produttività causato dalla malattia). L’orizzonte politico-culturale proposto in questi studi assume pertanto come un dato di fatto che la malattia sia un costo.

Welfare e salute

Il valore aggiunto della visione che proponiamo, incentrata sull’investimento in prevenzione e salute, deriva dalla sua diretta incidenza sulla valutazione delle politiche di Welfare. L’approccio esclusivamente economico al Welfare determina una massimizzazione della funzione di utilità sociale e non necessariamente la creazione di beni capitali in sé. Al contrario, poiché la salute rappresenta un aspetto fondamentale del “Ben-Essere”, che inerisce la concettualizzazione del Welfare pubblico, ogni stima del Welfare ridotta a funzione proporzionale del PIL esclude automaticamente dall’orizzonte dei suoi possibili la salute, traducendola nei termini di “costo della malattia”, o, peggio ancora, “PIL perso” - trascurando cioè l’impatto potenziale della salute sulla ricchezza nazionale, secondo lo schema circolare visto sopra. Ciò che rende difficile estendere questo riconoscimento nell’orizzonte delle costruzioni teoriche dell’economia politica è l’imponderabilità del bene salute: essa è un valore senza prezzo, perché soggettivo e variabile nel tempo e nella quantità. Da qui deriva la complessità di elaborare modelli economici qualitativi in grado di valutare i ritorni/guadagni e di stimarne l’impatto positivo degli investimenti in salute. Le dichiarazioni d’intenti e le azioni positive indicizzate nelle nuove strategie europee prospettano la costruzione di piani d’azione integrati tra più settori per promuovere la salute della popolazione. In sintonia alle proposte del documento comunitario, di seguito vengono enucleati alcuni degli strumenti e delle azioni fondamentali da intraprendere per realizzare una strategia di tipo HIAP (Health in All Policies).

1. Determinare i maggiori fattori di rischio, le cause delle malattie che più colpiscono una determinata società - per l’UE le malattie più diffuse sono cancro, malattie cardiovascolari, disagio psichico e incidenti. Bisogna poi considerare da un lato, i fattori di rischio che incidono sulla salute legati a stili di vita e condizioni socio-economiche individuali (fumo, malnutrizione, scarsa attività fisica, alcolismo, accesso alle cure); dall’altro, i fattori più generali legati alle condizioni ambientali, culturali (povertà, basso livello di educazione, insalubrità degli ambienti sociali e lavorativi). Questo momento investigativo è fondamentale per determinare il fabbisogno di salute di una popolazione: esso permette di definire dei piani di intervento che, sanando la situazione attuale, portino ad evitare situazioni esplosive e insostenibili in futuro. Per realizzare una simile mappatura dello stato di salute della popolazione, ogni Paese dovrà dotare il sistema sanitario di un osservatorio in grado di monitorare la situazione sia attraverso il canale diretto del sistema sanitario sia implementando strategie intersettoriali con altri istituti e settori socio-economici. Un osservatorio dello stato di salute permanente dovrebbe essere in grado di creare una fonte confederata di dati, quale strumento conoscitivo per guidare l’azione politica.

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2. Identificare le risposte politiche in grado di sopperire al fabbisogno di salute rilevato. Queste azioni dovranno essere intersettoriali e ad ampio raggio, dalla prevenzione alla riabilitazione attraverso la cura.

3. Adottare sistemi di valutazione ante/ex-post, prima e dopo, per monitorare e correggere strategie adottate, qualora esse diano luogo a esiti non performanti o, addirittura, conseguenze devianti rispetto agli obiettivi originari. In questa prospettiva, vengono oggi sempre più utilizzati i modelli provenienti dagli studi di costo-efficacia.

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Salute e sicurezza sul lavoro

Strategia Europea per la salute e la sicurezza sul lavoro 2007–2012 13

Nel 2002 la Commissione Europea ha definito la prima strategia comunitaria in materia di salute e sicurezza sul lavoro per il periodo 2002-200614, catalizzata per lo più dall’agenda di Lisbona. Gli obiettivi prioritari attesi dall’introduzione di queste strategie riflettono esplicitamente l’interazione tra l’agenda economico-sociale e gli obiettivi di prevenzione della salute, come si legge nella dichiarazione introduttiva del rilancio della strategia per la salute e la sicurezza sul lavoro per il periodo 2007-2012. «Il nostro obiettivo dovrebbe essere una situazione in cui il lavoro rafforza la salute e il benessere personali e nella quale l'accesso al mercato del lavoro e il mantenimento del posto di lavoro migliorano globalmente la salute della popolazione. In questo contesto è importante sottolineare il contributo che una buona salute sul luogo di lavoro può apportare per quanto riguarda la sanità pubblica in generale[…]. In particolare, il luogo di lavoro rappresenta un contesto particolarmente adatto ad attività di prevenzione e di promozione della salute»15. L’obiettivo dichiarato dalla Commissione per la strategia rinnovata (2007-2012) è quello di ridurre del 25% entro il 2012 gli incidenti sul lavoro e le malattie professionali. L'applicazione del precedente piano (2002-2006), secondo i dati della valutazione finale, ha fatto registrare un significativo calo del 17% degli incidenti mortali e del 20% degli incidenti sul lavoro che comportino un'assenza dal lavoro superiore a tre giorni. Nonostante il dato incoraggiante, tuttavia, la situazione resta critica se si considerano: i 4.397 decessi avvenuti nel 2004 (negli allora 15 stati membri dell'Unione) e gli oltre quattro milioni di infortuni denunciati ogni anno nell'UE, il cui costo economico grava, seppur in misura diversa, sia sui datori di lavoro sia sui lavoratori. A tal proposito, è stato stimato un danno economico comunitario superiore ai 55 miliardi di euro all'anno, di cui un miliardo a carico dei soli lavoratori. Sempre dalla relazione finale emergono altri dati significativi che mostrano come la riduzione dei rischi professionali non sia omogenea:

– Le piccole e medie imprese risultano criticamente esposte, in esse infatti si verificano l'82% delle malattie professionali e il 90% degli infortuni mortali.

– I settori più coinvolti dal fenomeno sono quelli dell'agricoltura, delle costruzioni e dei trasporti, con percentuali superiori alla media.

– Tra le malattie in crescita si segnalano le patologie muscolo-scheletriche (lombalgie, dolori articolari, lesioni da stress fisici ripetuti) e quelle dovute a stress psicologici.

– Alcune categorie di lavoratori/trici risultano sovraesposte ai rischi professionali (i giovani, i precari, i più anziani, gli immigrati) in virtù delle nuove sfide poste dall’invecchiamento della popolazione, dalla flessibilizzazione dei rapporti di lavoro e dal forte aumento dei flussi migratori.

– La continua crescita della partecipazione femminile al mondo del lavoro è spesso accompagnata da una segregazione fra i sessi sul mercato del lavoro. Diventa a questo punto necessario prendere meglio in considerazione gli aspetti della salute e della sicurezza che sono specifici per le donne - dallo sviluppo di nuovi fattori di rischio quali violenza sul

13 Riferimenti normativi: Risoluzione del 25/06/2007 - Una nuova strategia comunitaria per la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro (2007-2012) (Gazzetta Ufficiale n. C 145 del 30 giugno 2007); Comunicazione n. 62 del 21/02/2007; Comunicazione n. 33 del 9/02/2005 ; Regolamento CE n. 1338 del 16 dicembre 2008. 14 Riferimenti normativi: Comunicazione n. 118 dell’11/03/2002 - Adattarsi alle trasformazioni del lavoro e della società: una nuova strategia comunitaria per la salute e la sicurezza 2002-2006.; Risoluzione del 3/06/2002 - Una nuova strategia comunitaria per la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro (2002-2006) (Gazzetta Ufficiale n. C 161 del 5 luglio 2002). Relazione sulla valutazione della strategia comunitaria in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro 2002-2006 (SEC(2007) 214). 15 Risoluzione del 25/06/2007 - Una nuova strategia comunitaria per la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro (2007-2012) (Gazzetta Ufficiale n. C 145 del 30 giugno 2007).

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luogo di lavoro, ivi comprese molestie sessuali e mobbing o situazioni di dipendenza, alla trasformazione del lavoro, ossia il rapporto tra forme di vita professionali più frammentate e difficoltà di conciliazione familiare.

– Il livello di attuazione concreta della legislazione comunitaria varia notevolmente tra uno Stato membro e l'altro.

Riprendiamo qui sinteticamente i capitoli fondamentali della nuova strategia comunitaria per la salute e sicurezza sul lavoro 2007-2012.

Obiettivi della strategia

Per raggiungere l'obiettivo di ridurre del 25% il totale degli incidenti sul lavoro nel 2012 per i 100.000 lavoratori dei 25 Paesi dell'Unione Europea, la Commissione propone che le politiche di prevenzione, a livello europeo e nazionale, siano incentrate su una pluralità di azioni volte a garantire una buona attuazione della legislazione dell'UE, che i contesti giuridici nazionali siano adattati e semplificati rispetto all'evoluzione del mondo del lavoro, di promuovere un mutamento dei comportamenti dei lavoratori e di predisporre metodi per l'identificazione e la valutazione dei nuovi rischi potenziali, migliorando anche il follow-up dei progressi realizzati.

Creazione di un contesto legislativo moderno ed efficace

Un'effettiva attuazione e rispetto dell'acquis comunitario viene considerata il livello minimo indispensabile per tutelare la vita e la salute dei lavoratori e, al tempo stesso, garantire condizioni di parità tra tutte le imprese operanti nel mercato europeo. Nel 2004 la Commissione ha adottato una relazione sull'attuazione pratica della direttiva quadro 89/391/CEE e delle cinque prime direttive particolari16. Per quanto attiene alle strategie nazionali, la strategia sollecita a prendere in considerazione, a titolo prioritario, l'applicazione di un insieme di strumenti che garantiscano un elevato livello di rispetto della legislazione, in particolare nelle PMI e nei settori ad alto rischio:

1. diffusione di buone prassi a livello locale; 2. formazione dei dirigenti e dei lavoratori; 3. elaborazione di strumenti semplici per facilitare la valutazione dei rischi; 4. diffusione, in un linguaggio semplice, di informazioni e linee guida di facile comprensione

e applicazione; 5. migliore diffusione delle informazioni e miglior accesso a fonti di consulenza; 6. accesso a servizi esterni di prevenzione di alto livello qualitativo e con costi ragionevoli; 7. ricorso a ispettori del lavoro quali intermediari per promuovere un miglior rispetto della

legislazione nelle PMI, in primo luogo grazie all'istruzione, alla persuasione e all'incoraggiamento, in secondo luogo, se del caso, mediante misure coercitive;

8. ricorso a incentivi economici a livello comunitario (ad esempio attraverso i fondi strutturali) e, a livello nazionale, in particolare per le micro e le piccole imprese17.

16 Cfr. COM(2004) 62 del 5.02.2004. 17 A tal fine, nel documento della Strategia vengono enumerati diversi organismi europei preposti all’attuazione di questi obiettivi quali interlocutori intermediari della sua implementazione. Nel dettaglio, il Comitato Consultivo per la Salute e la Sicurezza sul luogo di lavoro (CCSS); l’Agenzia Europea per la Salute e Sicurezza Occupazionale (OSHA): e il Comitato degli alti responsabili dell'ispettorato del lavoro (SLIC ).

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Sviluppo e attuazione delle strategie nazionali

Nella Comunicazione viene sottolineato come il successo della strategia comunitaria dipenderà dall'impegno di tutti gli Stati membri nell'adottare strategie nazionali coerenti che definiscano obiettivi quantitativi per la riduzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, mirate ai settori e alle imprese che registrano i peggiori risultati e che riguardino i rischi più comuni e i lavoratori più vulnerabili. Nell'ambito delle strategie nazionali sono identificati quattro settori prioritari di intervento:

1. Incrementare l'efficacia preventiva della sorveglianza della salute. 2. Intervenire a favore della riabilitazione e della reintegrazione dei lavoratori. Ogni anno

circa 350.000 lavoratori sono costretti a cambiare lavoro a seguito di un infortunio; fra essi 300.000 subiscono, a livelli diversi, un'invalidità permanente e 15.000 sono definitivamente esclusi dal mercato del lavoro18.

3. Far fronte ai mutamenti sociali e demografici. Le politiche di job protection ricoprono un ruolo centrale nell’ambito della sfida posta dall’evoluzione demografica nell’UE, soprattutto attraverso l’applicazione di principi ergonomici validi alla progettazione dei luoghi di lavoro e all'organizzazione del lavoro19.

4. Rafforzare la coerenza delle politiche. Per essere efficaci, la protezione e la promozione della salute e della sicurezza dei lavoratori richiedono un coordinamento effettivo, capace di sfruttare le sinergie e verificare la coerenza - in particolare, per quanto riguarda le seguenti politiche: sanità pubblica, sviluppo regionale e coesione sociale, appalti pubblici, occupazione e ristrutturazioni.

Promuovere un cambiamento culturale attraverso nuovi comportamenti

Nella strategia viene riconosciuta la variabile culturale quale elemento determinante la sua stessa efficacia. «Una strategia che mira a promuovere la cultura della prevenzione deve rivolgersi a tutte le componenti della società e andare ben oltre il luogo di lavoro e la popolazione attiva. Essa deve contribuire a creare una cultura generale che annette tutta l'importanza del caso alla prevenzione sanitaria e alla prevenzione dei rischi». Le azioni proposte nella strategia per implementare questo cambiamento “culturale” sono:

− Formazione e informazione: l'esperienza acquisita dall'attuazione della strategia 2002-2006 dimostra l'importanza della messa a punto di una cultura della prevenzione dei rischi nell'ambito dei programmi di formazione in tutti i livelli del ciclo d'istruzione e in tutti i settori, ivi comprese la formazione professionale, l'università e lo stesso insegnamento della scuola primaria, dal momento che i riflessi condizionati in materia di prevenzione si acquisiscono durante l'infanzia.

− Luoghi di lavoro più sani e sicuri: incrementare il capitale salute e favorire la sensibilizzazione dei collaboratori nell'ambito delle imprese.

18 Fonte dati Eurostat - Indagine sulle forze di lavoro 1999; modulo Infortuni sul lavoro e problemi sanitari connessi all'attività lavorativa, pubblicata su Panorama de l'Union européenne: travail et santé dans l'UE; un portrait statistique. 19

Sulle sfide dettate dall'evoluzione demografica nell'UE si veda la comunicazione della Commissione Il futuro demografico dell'Europa - trasformare una sfida in un'opportunità - COM(2006) 571.

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Strumenti di valutazione e monitoraggio

Viene predisposta l'elaborazione di nuovi strumenti destinati a misurare i progressi compiuti, sia a livello nazionale che europeo, necessari per garantire un adeguato controllo dell'attuazione della strategia. I principali sono:

– Nell’ambito del programma statistico comunitario, la Commissione ha adottato una proposta di regolamento destinata a consolidare le metodologie ESAW (European Statistics of Accidents of Work) e EODS (European Occupational Diseases Statistics) e a garantire la trasmissione sistematica, dagli Stati membri alla Commissione, di questi dati amministrativi.

−−−− Incremento della raccolta di dati statistici sulla salute e la sicurezza sul luogo di lavoro nell'ambito di indagini a campione.

−−−− Elaborazione, tramite il CCSS (Comitato Consultivo per la Salute e la Sicurezza sul luogo di lavoro), di un sistema comune che permetta la raccolta e lo scambio d'informazioni sul contenuto delle strategie nazionali, la valutazione del raggiungimento degli obiettivi fissati, nonché l'efficacia delle strutture di prevenzione nazionali e gli sforzi compiuti.

−−−− Promuove la definizione di indicatori qualitativi per arricchire i dati forniti dalle statistiche europee e dai sondaggi d'opinione.

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Rischio e prevenzione: probabilità e valutazione

Verso una definizione di rischio/rischiosità

Tra le priorità della nuova strategia per la salute e sicurezza sul lavoro europea viene promossa la ricerca di base e applicata per migliorare le conoscenze, identificare cause ed effetti di esposizioni nocive per la salute, elaborare soluzioni preventive e tecnologie innovatrici. La ricerca scientifica infatti è utile per anticipare nuovi scenari di rischio, fornire argomenti e prove sulle quali devono basarsi le decisioni politiche. In questo senso, il primo aspetto da chiarire è la nozione stessa di rischio e rischiosità, dalla quale derivano sia la possibilità e le modalità di rilevarlo che quelle di prevenirlo. Il rischio è la probabilità che si verifichino eventi che producano danni a persone o cose, per effetto di una fonte (pericolo). Esso è definito dal prodotto della frequenza di accadimento e della gravità delle conseguenze (magnitudo). Quello del rischio è un concetto connesso con le aspettative umane. Indica un potenziale effetto negativo su un bene (come la salute umana) che può derivare da determinati processi in corso o da determinati eventi futuri. Ci sono molte definizioni di rischio: ciascuna dipende dalle applicazioni e dal contesto. Più in generale, ogni indicatore di rischio è proporzionale al danno atteso, il quale è in relazione alla sua probabilità di accadimento. Le denominazioni dipendono quindi dal contesto del danno e dal suo metodo di misura - ad esempio, nella perdita di una vita umana, il rischio è focalizzato sulla probabilità dell'evento, sulla sua frequenza e circostanza. Possiamo distinguere due tipi di rischio: il primo basato su stime tecnico-scientifiche e il secondo, denominato "rischio reale", dipendente dalla percezione umana del rischio, due definizioni in continuo conflitto. In particolare, è l’accezione di rischio reale che più si attaglia alla definizione di rischiosità, ovvero alla percezione del rapporto esistente tra pericolo e rischio: essa, cioè, consiste nella percezione soggettiva del rapporto tra situazione di pericolo e possibili rischi conseguenti. Ai fini della messa in sicurezza della salute, della prevenzione e limitazione dei potenziali pericoli sul luogo di lavoro, è possibile calcolare il rischio con esattezza? In che misura la costruzione di indicatori di rischio rispetto a una determinata attività possono rendere più efficienti le procedure e i processi di sicurezza?

Risk assessment

Il rischio è definito come combinazione di probabilità e di gravità (severità) di possibili lesioni o danni alla salute, in una situazione pericolosa; la «valutazione del rischio» consiste nella valutazione globale di tali probabilità e gravità, al fine di definire adeguate misure di sicurezza. Valutare il rischio (risk assessment) significa misurare le due quantità che influiscono sul rischio R: la grandezza della potenziale perdita L(danno) e la probabilità p che la perdita effettivamente debba essere sostenuta.

Ri = Lip(Li)

Rtotal =∑Lip(Li) Da un punto di vista operativo, l’analisi di rischio è un complesso di modelli analitici e algoritmi, applicati alle matrici naturali, allo scopo di determinare in maniera deterministica eventuali scenari futuri. Tutte le procedure e gli algoritmi presi in considerazione sono riferiti a standard internazionalmente riconosciuti. L'analisi di rischio si basa sul paradigma sorgente-percorso-recettore. La precisa definizione di quest'ultimo, detto "modello concettuale", è indispensabile per procedere a qualsiasi valutazione successiva. Creare il modello concettuale di un sito contaminato consiste sostanzialmente nel parametrizzare (ovvero semplificare) tutte la variabili che lo

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compongono. Questo largo margine di semplificazione deve ovviamente essere supportato da un sufficiente livello di cautela per evitare di incorrere in rischi sottostimati. La valutazione del rischio quindi è spesso la fase più importante nel processo di risk mangement (gestione del rischio) e può anche essere la più difficile e soggetta ad errore. Una volta che i rischi sono stati identificati e valutati, le fasi per gestirli in modo appropriato possono essere più facili da individuare. Parte della difficoltà del risk management, infatti, dipende dal fatto che la misurazione delle due quantità che determinano la valutazione del rischio può essere molto difficile. L'incertezza nella misurazione è spesso significativa: il risk management infatti sarebbe più semplice se una singola metrica potesse incorporare tutte le informazioni coinvolte nella misurazione. Invece, poiché due sono le tipologie di quantità che vengono misurate, questo non è possibile. Un rischio con una grande perdita potenziale e una bassa probabilità di accadimento deve essere trattato differentemente da uno con una bassa perdita potenziale ma una alta probabilità di accadimento. In teoria ambedue sarebbero da gestire con la medesima priorità, ma in pratica questo può essere molto difficoltoso quando ci si trova ad avere a che fare con la scarsità di risorse, specialmente della risorsa tempo, assegnate al processo di gestione del rischio. La difficoltà intrinseca di una corretta valutazione del rischio, e quindi, il suo limite superiore, si insedia nella grandezza della probabilità: pur ammettendo una conoscenza pressoché esaustiva del danno e della perdita potenziale (conoscenza della tossicità di un agente, parametrazione dei livelli di esposizione, conoscenze epidemiologiche dell’incidenza del danno etc.), la dimensione casuale e l’ errore umano sono inevitabili e non ponderabili. Da qui l’importanza centrale della valutazione come momento del processo di gestione e procedimentalizzazione del rischio. Se è possibile stimare degli indici di frequenza infortunistica e delle mappe di rischio commisurate a specifiche attività lavorative e settori produttivi, esse restano comunque delle stime approssimative che poco o nulla dicono del reale contesto di rischio/rischiosità presente in un sito produttivo/organizzazione. Questo perché la grandezza della probabilità deve essere misurata tenendo conto del fattore prevenzione: ovvero, quanto la gestione del rischio è in grado di ridurre l’incidenza della probabilità/errore umano con azioni mirate. In questo modo, si avrà:

Ri =

Qui K rappresenta il fattore di prevenzione – formazione, informazione, segnalazioni interne etc. – in grado di ridurre nettamente la probabilità di incidenza. Il processo di gestione del rischio quindi si sviluppa attraverso fasi successive e altamente specifiche quali: la definizione del contesto, l’identificazione dei rischi, l’analisi dei rischi, la valutazione dei rischi, il controllo e monitoraggio in parallelo all’aggiornamento costante dei rischi stessi, e, infine, le azioni di prevenzione rivolte all’addestramento dei soggetti presenti in un sito produttivo/organizzazione. Le indagini statistiche svolte mostrano infatti che il comportamento e la responsabilizzazione di tutti i membri di un organizzazione costituiscono il primo passo verso un sistema sicuro e attento alla salute umana.

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Sistemi di gestione della sicurezza

Sulla spinta delle indicazioni comunitarie in materia di job protection, che sin dalla direttiva madre del 1989 sottolineavano l’obbligatorietà di un’attenta e organizzata gestione del rischio quale chiave di volta per rendere più efficienti le politiche di sicurezza, oggi anche la normativa italiana dà larga attenzione alla valutazione dei rischi all’interno delle organizzazioni, processandone la gestione nelle stesse indicazioni di legge. In quest’ordine, il D. Lgs. n. 81/2008 rende obbligatoria la valutazione dei rischi, allargando il campo di applicazione del precedente D. Lgs. n. 231/2001, che ha introdotto nelle aziende la cultura dei controlli interni come strumento di prevenzione dei reati e degli infortuni sul lavoro. Rispetto a queste normative, tuttavia, emerge la difficoltà di implementare efficacemente e coerentemente l’obbligo stesso. Entrambi i testi di legge richiedono di intervenire nell'organizzazione e di produrre una documentazione cartacea in merito alla mappatura e al reengenering dei processi interni, integrandovi un sistema di prevenzione e controllo del rischio operativo (Documento di Valutazione dei Rischi), senza però dare indicazioni specifiche sulle modalità di assolvimento dell’obbligo, ovvero di redazione del documento. Le leggi infatti non rendono obbligatori determinati sistemi di gestione o certificazione, lasciando alla volontà dell’imprenditore la scelta dell’assolvimento dell’obbligo. Nel testo di legge, tuttavia, vengono segnalate come indicazioni di riferimento le linee guida europee OSHA, elaborate nel 1994 a seguito della direttiva 89/391, e il Sistema di Gestione della Sicurezza sul Lavoro (SGSL), definito nelle linee guida UNI-INAIL del 2003, omologhe nell’impianto strutturale a quelle europee. La gestione della salute e della sicurezza sul lavoro (SSL), nell’ottica delle Linee Giuda UNI-INAIL, costituisce parte integrante della gestione generale dell’azienda: si applica alle attività svolte dall’azienda, comprendendo la sua articolazione organizzativa e funzionale nonché la distribuzione o dislocazione sul territorio. La procedura PS02, “Individuazione e quantificazione dei pericoli e valutazione dei rischi sul lavoro”, definisce le modalità per stimare i rischi tenendo in conto: la gravità del danno potenziale; la frequenza di manifestazione del pericolo, ovvero la durata dell’esposizione; la presenza ed efficacia delle misure di prevenzione (collettive e individuali, di tipo tecnico, organizzativo, procedurale); l’addestramento lavorativo impartito (considerando anche i lavoratori interinali, le attività temporanee o in appalto, ecc.); la formazione alla sicurezza impartita; l’esperienza aziendale sulla manifestazione del singolo rischio; la novità dell’attività in esame (ogni volta che si introduce o si modifica un rischio, valutare l'interazione con l’ambiente di lavoro); l’individuazione, se pertinente, delle quantità/concentrazioni degli inquinanti; la coerenza delle procedure lavorative con gli obiettivi di prevenzione. Nel corso degli ultimi vent’anni, inoltre, sulla spinta dell’importanza attribuita alla prevenzione e al comportamento soggettivo, è stata sviluppata una metodologia per il miglioramento della sicurezza integrando la scienza del comportamento e lo sviluppo dei principi dell’organizzazione e della qualità (Total Quality Management) con la gestione della sicurezza per ridurre gli infortuni nell’industria – noto come approccio Behavior-Based Safety (BBS). Riferimenti Linee Guida per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGSL),. cfr http://www.inail.it/cms/sicurezzasullavoro/gestionesic/sgsl_guida_operativa.pdf European Commission, Health and Safety, Guidance on Risk Assessment at Work, Luxemburg Office for Official Publication of the European Communities, printed in Germany, 1996.

Nuove forme di rischio: l’aumento del disagio psichico

Nel 2007 l’Agenzia Europea per la Salute e la Sicurezza sul Lavoro (OSHA) ha pubblicato l’esito di un’indagine previsionale sull’emergere dei rischi di natura psicologica nel mondo del lavoro, condotta attraverso una revisione mirata della letteratura frammentaria in materia e un’indagine d’opinione, mediante la somministrazione di questionari quali-quantitavi ai maggiori esperti attivi nei centri di ricerca europei che si occupano di salute e sicurezza sul lavoro. L’esito di questo studio è particolarmente interessante per comprendere sia le nuove dinamiche dei rischi per la salute, sia le possibili strategie politiche capaci di rispondervi20.

20 AA.VV. a cura di E. Brun e M. Milczarek, Expert forecast on emerging psychosocial risks related to occupational safety and health, OSHA, Lussemburgo 2007. Nell’indagine sono stati coinvolti 62 esperti raccolti tra i maggiori centri di ricerca e nominativi di spicco nel panorama dei Paesi membri dell’UE; inoltre, hanno partecipato alcuni membri dell’OSHA degli Stati Uniti e due esperti dell’ILO – International Labour Organisation. – cfr. ibid., cap. 1 e 2.

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I rischi emergenti OSH

“OSH (Occupational Safety and Health) rischio emergente” in questo caso è un termine tecnico e indica ogni rischio occupazionale nuovo o in crescita. Nuovo, significa che in precedenza non era conosciuto o studiato: esso è per lo più da ricondursi ai nuovi processi, alle nuove tecnologie, alle nuove forme di organizzazione, alle minacce della crisi mondiale attuale; oppure si può identificare come nuovo rischio per la salute occupazionale un argomento/aspetto già consolidato nel tempo ma che solo ora, in parte attraverso le nuove conoscenze scientifiche (sviluppo delle scienza psico-sociali e neurologiche), in parte in seno ai cambiamenti macro-culturali, viene interpretato come tale. In crescita, si riferisce alla circostanza per cui i pericoli potenziali per l’insorgere di determinati rischi sono aumentati, o che il livello di esposizione a questi pericoli è cresciuto sia in senso oggettivo che soggettivo (il numero di soggetti esposti); infine, si può parlare di rischio in crescita se gli effetti di tali rischi sulla salute dei lavoratori sono in peggioramento. La ricerca condotta dall’OSHA ha identificato 10 rischi emergenti. Data l’importanza di questo studio, riprendiamo qui le caratteristiche rilevanti dei nuovi rischi identificati, riassumendo i due versanti della ricerca, le conoscenze fornite dalla letteratura e l’esito dell’indagine d’opinione tra gli esperti. Secondo gli esperti intervistati, i dieci rischi più importanti sono strettamente interrelati, al punto da poter essere analiticamente raccolti in cinque argomenti chiave:

1. nuove forme contrattuali e insicurezza del lavoro 2. invecchiamento della forza lavoro 3. aumento di intensità dell’attività lavorativa 4. limitata conciliazione vita professionale/personale 5. alta domanda emotiva nell’attività lavorativa

Nuove forme di contratto e insicurezza del lavoro

Le nuove forme contrattualistiche che caratterizzano il rapporto di lavoro, tanto la diffusone del lavoro autonomo quanto di forme contrattuali precarie21, associate al trend in crescita nelle aziende verso uno snellimento del processo produttivo e all’utilizzo sempre più incisivo di personale somministrato (dipendente formalmente dall’agenzia somministratrice), costituiscono dei fattori significativi che influenzano negativamente la salute e la sicurezza del lavoro. Secondo gli esperti, infatti, i lavoratori che si identificano in contratti precari dimostrano più vulnerabilità rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato. Più in generale, si evidenzia l’influenza dell’instabilità del mercato del lavoro come tale sul sentimento di precarietà del lavoro, che, a sua volta, è causa eminente di stress da lavoro o altri sintomi che colpiscono la salute dei lavoratori. Alcune ricerche sulla salute occupazionale22 hanno dimostrato che lo stress può determinare cambiamenti permanenti sul benessere fisico e, quindi, sulla vulnerabilità/predisposizione alla malattia, così come può influenzare fattori cognitivo-comportamentali all’origine di cattive abitudini contro la salute, come il bere o il fumare. In particolare, viene messo in luce l’effetto di marginalizzazione, una forma di isolamento personale e sociale, come conseguenza del susseguirsi di contratti di lavoro a termine/precari e della discontinuità nella carriera professionale.

21 Cfr. W. Nienhueser, Flexible work = atypical work = precarious work? Introduction to the special issue, Management Revue, No 16(3), 2005, pp. 299–303. Il lavoro precario viene definito sulla base di quattro criteri fondamentali: (1) basso livello di certezza sulla continuità del lavoro; (2) basso livello di controllo individuale e collettivo sulle condizioni di lavoro (orario, ambiente, salario); (3) basso livello di protezione (sociale, previdenziale, contro la disoccupazione); (4) salari insufficienti e vulnerabilità economica. Definire cosa si intenda con “lavoro precario” è oggi sempre più importante, nella misura in cui, in virtù della sua diffusione, è facile trovare, soprattutto nella manualistica, categorizzazioni generaliste che identificano come “lavoro precario” tutto quello che rientra in forme contrattuali “non-standard”, semplificazione che, pur approssimandosi, misconosce la realtà dei fatti. 22

F. Jones and J. Bright, Stress: myth, theory and research, Pearson Education, Harlow 2001.

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L’incremento dell’utilizzo di lavoratori somministrati, invece, ha enfatizzato i problemi correlati alla salute e sicurezza: queste forme contrattuali, infatti, comportano una riduzione delle opportunità di formazione sia in tema di salute e sicurezza sul lavoro, sia formazione come aggiornamento (lifelong learning), da cui una dequalificazione della professionalità personale. Queste forme contrattuali sono poi aggravate da una netta riduzione della possibilità di “controllo”, sia da parte del singolo interessato, che detiene un basso livello di tutela, sia da parte delle autorità competenti. Inoltre, sono proprio i lavoratori precari ad espletare le attività più pericolose, a lavorare in pessime condizioni, ad essere esposti ad agenti nocivi per la salute (si pensi all’agricoltura e all’edilizia), accrescendo ulteriormente il livello di rischio rispetto a infortuni/malattie correlate al lavoro23.

Se in generale, si può affermare che i dati empirici e gli studi mostrano una relazione stretta tra maggior esposizione dello stato di salute (fisico e mentale) e alti livelli di precarietà del lavoro, condizionato da scarsa protezione sociale e forte pressione psicologica, tuttavia gli stessi dati empirici mostrano anche come gli effetti del lavoro a tempo determinato varino a seconda delle diverse tipologie contrattuali. Grafico 1. Effetti sulla salute correlati a diverse forme di rapporto di lavoro

Fonte: Expert forecast on emerging psychosocial risks, p. 32

Il grafico 1 mostra l’impatto sulla salute in relazione alle diverse forme contrattuali, su un campione di riferimento dell’UE a 15 di lavoratori dipendenti, a tempo determinato e indeterminato e lavoratori autonomi24. In questo caso, sembrerebbe che i lavoratori autonomi siano più esposti sul versante della salute, pur avendo, rispetto ai parametri usati in questi studi, un alto livello di autonomia e controllo sul proprio lavoro. Al contrario, sembra che tra contratti a tempo determinato e contratti a tempo indeterminato la differenza sia irrilevante.

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C. Mayhew and M. Quinlan, The effects of outsourcing on occupational health and safety: a comparative study of factory-based workers and outworkers in the Australian clothing industry, International Journal of Health Services, No 29(1), 1999, pp. 83–107; European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, The impact of new forms of work organisation on working conditions and health, Background paper to the European Union Presidency Conference ‘For a better quality of work’, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg, 2001 - http://www.eurofound.eu.int/publications/htmlfiles/ef0164.htm; E. McLaren, P. Firkin, P. Spoonley, A. Dupuis, A. de Bruin and K. Inkson, At the margins: Contingency, precariousness and non-standard work, Research Report Series, 2004/1, Labour Markets Dynamics Research Program, Massey University, Auckland, 2004. http://lmd.massey.ac.nz/publications/At%20the%20Margins.pdf. 24 Cfr. anche E. Bardasi and M. Francesconi, The Impact of atypical employment on individual well-being: evidence from a panel of British workers, Working Papers of the Institute for Social and Economic Research, Paper 2003-2, University of Essex, Colchester, 2003.

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L’unico dato che spicca e sollecita a riflettere è l’ insoddisfazione rispetto al lavoro, che evidentemente registra il valore maggiore proprio per i lavoratori a tempo determinato. Da qui, infatti, si potrebbe parlare di insicurezza del lavoro, dove il corsivo indica un’interpretabilità in senso oggettivo e soggettivo di questo genitivo25. Non solo il lavoro in sé è oggettivamente insicuro, ma questa insicurezza diventa una dimensione, uno status propriamente soggettivo, del soggetto che lavora, ovvero insoddisfazione. In altri termini, la vera difficoltà e insieme l’emergenza di rilevare queste nuove forme di rischio si insedia esattamente in questo punto: un’insicurezza che non è più meramente un piano oggettivo, rispetto al quale resta sempre aperta la possibilità di un intervento pragmatico, ma che si attaglia direttamente al livello soggettivo/personale nei termini di insoddisfazione, è qualcosa di inafferrabile, imprescrittibile nei modelli di studio e di azione sociale tradizionali. La questione cruciale, tuttavia, per parlare di insicurezza del lavoro è la sua stessa definizione: in assenza di un significato uniforme da attribuire alla nozione di insicurezza è impossibile avere un quadro di analisi omogeneo. Gli stessi aspetti correlati, infatti, quali l’indicazione dei soggetti maggiormente a rischio, le cause nonché le azioni di prevenzione, risultano disomogenei e persino contradditori. Queste diverse concettualizzazioni, tuttavia, possono essere ricondotte a due modelli fondamentali: da un lato, il tentativo di “misurare” l’insicurezza focalizzando due parametri soggettivi, ossia gli aspetti cognitivi (i.e. la percezione della probabilità di perdere il lavoro) oppure gli aspetti emotivi (i.e. la paura di perdere il lavoro); dall’altro, il tentativo più complesso di concepire l’insicurezza come nozione multidimensionale, che combina entrambi gli aspetti precedenti con caratteristiche oggettive legate all’attività lavorativa (opportunità di far carriera, posizione sociale e all’interno dell’organizzazione, etc.). Un esempio di questa disomogeneità è dato dallo studio del rapporto tra insicurezza/età del lavoratore. In questo vettore di studi si registrano due risultati contradditori: da un lato, c’è chi sostiene che non ci sono relazioni significative tra le due variabili, dall’altro chi afferma che all’aumentare degli anni di anzianità lavorativa decresce l’insicurezza. Se quest’ultima indicazione sembra confermata dalla media dei dati europei, alcuni Paesi rivelano trend opposti (i.e. UK, Paesi Bassi e Finlandia). Bisognerebbe forse interpretare questo dato alla luce di una nozione multidimensionale di insicurezza, prendendo in considerazione aspetti del tessuto sociale, culturale, politico nonché economico nazionale? O ancora dobbiamo riflettere sul fatto che se per un giovane la precarietà è una condizione “obbligata”, per un senior la precarietà può essere vissuta come un’opportunità, come una prova di maggior libertà e autonomia per la propria competenza professionale. In altri termini, un senior può vantare il valore aggiunto di aver maturato un certo grado di coping, la capacità di convivere, di “sapersi adattare” anche in situazioni difficili. E quindi, di nuovo la difficoltà di inquadrare la questione “insicurezza del lavoro” entro standard e metriche definite.

Invecchiamento della forza lavoro

Tra i rischi emergenti più importanti si trova l’invecchiamento della forza lavoro, quale effetto riconducibile all’invecchiamento della popolazione in generale e al ritardarsi dell’uscita dal mercato del lavoro. In quest’ordine, il rischio per la salute e la sicurezza sul lavoro deriva da due elementi interrelati: da un lato, si registrano condizioni di salute e sicurezza nell’attività lavorativa non idonee ad una popolazione senior26; dall’altro, gli stessi lavoratori senior risultano più vulnerabili rispetto alle fasce più giovani. 25 Cfr. J. Hellgren and M. Sverke, Does job insecurity lead to impaired well-being or viceversa? Estimation of cross-lagged effects using latent variable modeling, Journal of Organizational Behavior, No 24, 2003, pp. 215–236; L. Greenhalgh and Z. Rosenblat, Job insecurity: towards conceptual clarity, Academy of Management Review, No 9, 1984, pp. 438–448. 26

In letteratura non esiste un limite univoco per definire la popolazione “senior”. In generale, si seguono le indicazione dell’OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development) che definisce come lavoratori senior quanti si trovano nella seconda metà della loro vita lavorativa e non hanno raggiunto l’età del pensionamento.

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L’invecchiamento della popolazione può essere considerato da più punti di vista. Per quanto attiene alla salute e sicurezza occupazionale, si acuiscono le questioni della performance dei lavoratori senior: sono più predisposti a incidenti e malattie? Sono più fragili rispetto ai lavoratori più giovani? Per rispondere è utile ponderare gli aspetti che caratterizzano il processo di invecchiamento, quale realtà dinamica in cui alcune capacità/skill aumentano, mentre altre diminuiscono - un’oscillazione delicata in cui si gioca il valore della forza lavoro senior .

Tabella 1. Skill che aumentano/diminuiscono con l’invecchiamento

Capacità in crescita Capacità in diminuzione Esperienza Forza muscolare

Indipendenza/Autonomia Vista, udito, senso del tatto Competenza decisionale Memoria a breve termine Senso di responsabilità Rapidità di percezione

Costanza/Fermezza Reattività Fonte: Expert forecast on emerging psychosocial risks, p. 69.

I cambiamenti nelle capacità/abilità devono essere considerati attentamente con riferimento alla salute occupazionale: in letteratura27, infatti, la popolazione dei lavoratori senior è caratterizzata in generale dalle seguenti abilità/qualità, che vengono riconosciute come connaturali al “processo di invecchiamento” lavorativo:

−−−− sono più abili, grazie all’esperienza, a gestire modelli organizzativi complessi; −−−− mostrano maggior autonomia decisionale e d’azione; −−−− la percezione e l’attesa di perseguire un alto livello qualitativo delle prestazioni è

accompagnata da un forte senso di dovere e responsabilità; −−−− hanno maggior capacità di giudizio, in relazione ad un’acquisita consapevolezza di limiti e

possibilità personali. Sul versante delle difficoltà, invece, l’aspetto sicuramente più problematico, perché attiene tanto alle capacità fisiche che mentali, è la ridotta rapidità nei processi pratici e di apprendimento. Gli altri aspetti degenerativi, infatti, concernono soprattutto qualità fisiche (come vista, udito, forza): tuttavia, se da un lato oggi la maggior parte di esse può essere “corretta/curata”, dall’altro è vero anche che in molte attività lavorative non sono aspetti escludenti. Se si guarda poi alla ridotta capacità di apprendimento, molti studi oggi dimostrano che più che all’invecchiamento questa qualità sia da mettere in relazione alla biografia lavorativa e personale: la riduzione di tale capacità, infatti, si riscontra soprattutto in quanti, anche in piena età lavorativa, non sono stati impiegati in attività connotate da un profilo intellettuale e “stimolante”. Gli studi che hanno messo in relazione l’età e la diffusione di infortuni sul lavoro, inoltre, evidenziano risultati inconsistenti: in alcuni casi, a seconda delle variabili o dei settori presi a campione, il numero di incidenti cresce con l’età, in altri decresce28. Lo stesso vale per i risultati, sul versante della variabile “giorni di lavoro persi per malattia”: anche qui si registra la stessa oscillazione. Pertanto, è impossibile argomentare fondatamente un’equazione generica del tipo: invecchiamento = alto rischio di infortuni. Semmai è possibile rilevare una certa costanza nei tipi di 27

A. Walker, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, Investing in ageing workers — A framework for analysing good practice in Europe, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg, 1995; A.Walker and P. Taylor, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, Combating age barriers in employment—A European portfolio of good practice, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg, 1997 http://eurofound.europa.eu/publications/htmlfiles/ef9719.htm. 28

M. Patrickson, Reversing the trend toward early retirement in managing an ageing workforce, in M. Patrickson and L. Hartmann (eds), Managing an ageing workforce, Business and Professional Publications, Warriewood (NSW), 1998, pp. 106–120. Health and Safety Laboratory, Facts and misconceptions about age, health status and employability, Health and Safety Laboratory, Buxton, 2005- http://www.hse.gov.uk/research/hsl_pdf/2005/hsl0520.pdf.

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incidenti più frequenti per la popolazione senior rispetto a quella più giovane. In sintesi, la riflessione qui svolta sulle capacità e sui livelli di occupazione sottolinea come ogni discorso sull’invecchiamento della forza lavoro, al di là di considerazioni generaliste, deve essere calato nello specifico contesto professionale, connotato tanto da determinate condizioni ambientali e lavorative (carico fisico di lavoro, fattori psicosociali, soddisfazione, possibilità di carriera, etc.), quanto da capacità/attitudini personali, che influenzano la performance e la capacità lavorativa stessa.

Aumento di intensità dell’attività lavorativa

L’aumento dell’intensità lavorativa è correlato dagli esperti sia all’incremento del carico di lavoro che alla pressione psicologica sofferta dai lavoratori. Nell’attuale mercato del lavoro si assiste infatti a un incremento del carico di lavoro gestito e ripartito tra minori risorse: in questo contesto, i lavoratori percepiscono un forte senso di responsabilità ed efficienza rispetto al livello di produttività da conseguire, che si traducono poi in forme di stress da lavoro in forza di una serie di conseguenze concatenate – ad esempio, per raggiungere i risultati attesi si procrastina l’orario di lavoro, ma spesso il lavoro straordinario non è riconosciuto/adeguatamente remunerato (sia in termini finanziari che nel riconoscimento di maggior flessibilizzazione tra orario di lavoro/tempo libero). Non solo: spesso sono propri i lavori “precari”, cioè privi di un supporto sociale, ad essere valutati esclusivamente sui risultati conseguiti. Sotto l’indice “intensità dell’attività lavorativa” rientra anche la questione dell’orario di lavoro sempre più flessibile e irregolare29. Questo aspetto è significativo in termini di salute occupazionale, nella misura in cui incide sulla qualità di lavoro/produttività come sulla qualità di vita personale e sociale, intrecciandosi direttamente con la questione di conciliazione dei tempi. In questa direzione è importante tuttavia sottolineare alcune differenze, perché, come dimostrano gli studi condotti sull’argomento, non esiste una soluzione univoca dell’orario di lavoro che pervenga a risultati favorevoli vs nocivi per la salute e la conciliazione vita privata/vita professionale: anche in questo caso il grado di relativizzazione è elevato, in rapporto alle situazioni individuali. Le ricerche svolte, infatti, mostrano che l’orario di lavoro flessibile, connotato da un’ampia libertà di organizzazione personale del tempo lavorativo, è percepito in modo positivo dalle persone: il “flextime”, come viene definito, infatti, consente ampi margini di conciliazione tra esigenze della vita privata e lavoro. Questo dato ha trovato conferma anche in indagini svolte dal punto di vista dei datori di lavoro, in termini più strettamente efficientisti. Nelle aziende in cui la flessibilizzazione dell’orario di lavoro è stata introdotta per favorire i tempi di conciliazione delle risorse umane e meglio ripartire il carico di lavoro aziendale, si è registrata una crescita significativa della soddisfazione dei collaboratori e una maggior produttività nell’adattare l’orario di lavoro e il carico di mansioni30. Diversi, invece, sono i risultati sulle indagini del lavoro irregolare: in questo caso, si rileva una forte componente negativa, non solo in termini conciliazione vita privata e vita lavorativa, ma soprattutto per quanto attiene alle questioni della salute e della sicurezza sul lavoro. Lo stesso dato 29

Nelle ricerche commissionate dall’UE si distingue tra orario di lavoro flessibile e irregolare. Irregolare, si riferisce ad un orario lavorativo non fisso ma che varia giorno per giorno o da settimana a settimana; mentre flessibile è il caso in cui l’orario di lavoro è regolato dalla continua scelta del lavoratore stesso o del datore di lavoro, o ancora di entrambi. La diffusione del lavoro a orario irregolare è testimoniata da una ricerca condotta sull’Europa a 25 nel periodo 2004-2005: il 42% degli impiegati nel settore manifatturiero risultava con contratto di lavoro a tempo irregolare. Cfr. A. Goudswaard and M. de Nanteuil, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, Flexibility and working conditions: a qualitative and comparative study in seven EU Member States — A summary, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg, 2000 http://www.eurofound.eu.int/pubdocs/2000/71/en/1/ef0071en.pdf. 30 A. Riedmann, H. Bielenski, T. Szczurowska and A.Wagner, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, Working time and work–life balance in European companies—Establishment survey on working time 2004–05, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg, 2006. http://www.eurofound.eu.int/publications/htmlfiles/ef0627.htm.

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si registra per i casi di eccessivo orario di lavoro (più di 48 ore settimanali), che investono tutte le categorie professionali dagli operai ai top manager: l’eccessivo carico di lavoro è ritenuto uno dei maggiori agenti di stress in grado di ridurre tanto la percezione soggettiva di soddisfazione del lavoro quanto di accrescere il rischio di problemi per la salute mentale, nonché infine di ridurre la possibilità di coltivare la vita personale e sociale. Secondo il rapporto Time and Work: duration of work31,i lavoratori percepiscono l’eccessivo orario di lavoro come causa eminente dei rischi per la salute e la sicurezza. Questa correlazione trova conferma se si guardano i dati relativi a particolari problemi di salute (mal di testa, affaticamento, ansietà, insonnia, problemi muscolo-scheletrici etc.) e alla diffusione degli infortuni sul lavoro. Ci sono forti evidenze empiriche che confermano come il lavoro irregolare sia un fattore di alto rischio infortunistico: il nesso causale viene identificato nell’affaticamento e nella conseguente mancanza di attenzione durante l’attività lavorativa. L’incidenza dell’errore umano, quale fattore di rischio per gli infortuni, può essere correlato alla stanchezza dovuta all’irregolarità del normale bio-ritmo del corpo umano: la rottura di quest’armonia, associata alla fatica e alla mancanza di sonno, può causare inefficienza e disattenzione soprattutto di mattina e nei turni serali o notturni, come dimostrano i dati32.

Limitata conciliazione vita professionale/personale

Per quanto riguarda la conciliazione dei tempi di vita familiare/professionale, al di là del problema degli orari di lavoro, oggi il vero rischio emergente si attaglia direttamente a mutamenti sociali di più vasta portata, come l’aumento delle donne sul mercato del lavoro, delle famiglie monoparentali, con minor supporto nella rete sociale, nonché dei tempi di cura da dedicare anche alla componente anziana famigliare. Queste difficoltà portano sempre più all’attenzione il cosiddetto tema delle “due-carriere/vite”, sollecitando a ripensare soluzioni a partire da un punto di vista più ampio e integrale delle diverse esigenze di vita. Non è casuale, in questo caso, che proprio la rilevazione degli esperti abbia scorporato l’item “equilibrio della vita privata/vita professionale” da quello di “conciliazione della vita familiare e del lavoro”, evidenziando il trend in crescita di quest’ultimo.

Alta domanda emotiva nell’attività lavorativa

L’incremento dell’intensità del lavoro si traduce in forme di stress e pressione psicologica. Questa pressione oltretutto è spesso acuita da atteggiamenti sul luogo di lavoro che inducono forme di ricatto emotivo o vera e propria violenza psicologica. I lavoratori coinvolti in queste dinamiche rivelano oltre a forme acute di stress anche reazioni descrivibili in vere e proprie forme patologiche. Simili forme di rischio sono difficili da rilevare oggettivamente, sebbene oggi esista un’esplicita sensibilizzazione a studiare questi fenomeni per conoscerli e prevenirli, anche in termini normativi. In quest’ordine, infatti, si sono pronunciate le istituzioni politiche per il lavoro, quali il Parlamento Europeo, l’ILO (International Labour Organization), la European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions 33, la WHO (World Health Organization) e, infine, la stessa

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P. Boisard, D. C. Cartron, M. Gollac and A. Valeyre, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, Time and work: duration of work, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg, 2003 http://www.eurofound.eu.int/publications/htmlfiles/ef0211.htm. 32

Cfr. A. Spurgeon, Working time—Its impact on safety and health, Geneva, International Labour Organisation, 2003. http://www.ilo.org/public/english/protection/condtrav/publ/wtwo-as-03.htm. Uno studio condotto in Germania su un campione di un milione di operai rileva un elevato fattore di rischio infortunistico superate le otto ore di lavoro per turno: K. Hänecke, S. Tiedemann, F. Nachreiner and H. Grzech-Šukalo, Accident risk as a function of hour at work and time of day as determined from accident data and exposure models for the German working population, Scandinavian Journal of Work, Environment and Health, No 24, Suppl. 3, 1998, pp. 43–48. 33

European Parliament, Resolution on harassment at the workplace (2001/2339 (INI)), Official Journal of the European Communities, C/77E, 28/3/2002, p.138, 2001; International Labour Organisation, Code of practice on workplace violence in services sectors and measures to combat this phenomenon, Mevsws/2003/11, International Labour Organisation, Geneva, 2003; European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, Violence,

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Agenzia Europea (OSHA), attraverso una campagna per promuovere l’attenzione sulle emergenze psicosociali quali violenza e mobbing sul lavoro34. La violenza fisica o psicologica incide profondamente sulla qualità professionali e, di conseguenza, sulla qualità della prestazione lavorativa. Sul lavoro, infatti, lo stressor della violenza genera forti forme di insoddisfazione, di mancanza di motivazione così come di propensione al risultato e all’efficienza. Attualmente esistono pochi studi mirati a mettere a fuoco gli effetti della violenza e del mobbing nella stessa organizzazione professionale. Tuttavia, sempre più spesso, si iniziano a leggere fenomeni quali l’assenteismo, più o meno giustificato per malattia, la scarsa produttività, licenziamenti, frequenti turn over etc. come indicatori di possibili stressor all’interno di un’organizzazione. Per i problemi di violenza sul lavoro, soprattutto psicologica, non si può parlare di una categoria di “soggetti esposti”: essi investono quasi tutti i tipi di occupazione e settori di attività. Non esiste, quindi, un quadro chiaro sulla diffusione della violenza a causa delle diverse nozioni utilizzate, dei diversi metodi di rilevazione, come anche del livello di consapevolezza della popolazione di riferimento campionata: queste variabili rendono i risultati delle indagini incomparabili tra loro, sebbene l’accresciuta attenzione a questi fenomeni renda oggi disponibile una consistente quantità di dati35. In Europa, i dati sulla violenza nei luoghi di lavoro vengono monitorati, raccolti ed elaborati periodicamente dalla European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions (nota come Fondazione di Dublino). Gli ultimi risultati disponibili, forniti dalla Fourth European working conditions survey condotta nel 2005 nell’Europa a 27, rilevano in modo sintetico che:

−−−− il 5-6% della forza lavoro dichiara di essere soggetta a forme di violenza, mobbing o molestie; −−−− in tutti i Paesi dell’UE le donne, soprattutto giovani, sono più esposte a forme di molestie e

mobbing, mentre per gli uomini prevalgono forme di violenza fisica; −−−− la forza lavoro dei migranti risulta significativamente esposta a forme di mobbing36; −−−− la violenza in generale sul lavoro è più diffusa nell’Europa del Nord, nei Paesi Bassi e nel

Regno Unito (in media dal 10% al 12%); mentre, forme di mobbing e molestie sono più diffuse in Finlandia (17%), Paesi Bassi (12%), rispetto a Paesi come Italia e Bulgaria in cui si registrano le percentuali inferiori (2%) – è bene precisare tuttavia che l’interpretazione di queste rilevazioni è sempre distorta dal grado di consapevolezza e attenzione culturale a questi fenomeni presente nei diversi Paesi.

Burnout

Al di là di differenti metodologie di ricerca, i settori che risultano più a rischio per il manifestarsi di forme di violenza psicologica in tutti i Paesi dell’UE sono identificati nel settore dei servizi (sanitari, educativi e sociali) e del commercio. Questa osservazione ha sollecitato negli ultimi anni a studiare con maggior attenzione il fenomeno, al punto che, all’interno della categoria generale di mobbing, oggi si colloca in modo definito e distinto la sindrome di burnout. La sindrome da burnout è l'esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che esercitano professioni d'aiuto (helping profession), qualora queste non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro li porta ad assumere. Maestri, docenti,

bullying and harassment in the workplace, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg, 2006; http://www.eurofound.eu.int/ewco/reports/TN0406TR01/TN0406TR01.pdf. 34

European Agency for Safety and Health at Work, European Week 2002: Preventing psychosocial risks at work, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg, 2002 http://ew2002.osha.europa.eu. 35

S. Giga and H. Hoel, Violence and stress at work in financial services, International Labour Organisation, Geneva, 2003. http://www.ilo.org/public/english/dialogue/sector/papers/service/wp210.pdf. 36 I risultati di uno studio condotto nel Regno Unito mostrano un fenomeno allarmante: il 10% delle infermiere e il 40% delle infermiere appartenenti a minoranze etniche sono soggette a molestie razziali inferte da colleghi; mentre il 20% delle infermiere e il 60% di quelle appartenenti a minoranze etniche subiscono abusi razziali dai pazienti.

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infermieri, medici, psicologi e, in generale, chi per mestiere si occupa di “aiutare gli altri” sono caricati da una duplice fonte di stress: il loro stress personale e quello della persona aiutata. Sono figure professionali che spesso si fanno carico eccessivo delle problematiche delle persone a cui badano, non riuscendo così più a discernere tra la propria vita e la loro. Questi lavoratori, nel lungo periodo, cominciano a manifestare chiari sintomi riconducibili alla patologia: astenia, spossatezza e mancanza di energie e di capacità per sostenere e scaricare lo stress accumulato. La risposta a queste condizioni è spesso l'esaurimento emozionale, la de-personalizzazione ed un atteggiamento improntato al cinismo. Diverse ricerche psicologiche hanno dimostrato che le cause che possono portare all’insorgere della sindrome di burnout37 possono essere:

− eccesso di idealizzazione e aspettativa precedente all’entrata nel mondo del lavoro; − mansione lavorativa frustrante o inadeguata rispetto alle aspettative; − disorganizzazione del lavoro o comunque organizzazione non funzionale.

I sintomi possono essere riassunti in tre macro categorie:

− comportamento che testimonia un importante disinvestimento sul lavoro − eventi autodistruttivi (disturbi psicosomatici, distrazione e incapacità di concentrazione con

aumento del numero di incidenti) − eventi eterodistruttivi verso gli utenti (reazioni negative verso gli altri, indifferenza,

aggressività, spersonalizzazione del rapporto). Folgheraiter38 ha individuato un quarto sintomo: la perdita della capacità di controllo rispetto alla propria attività professionale, che porta a una riduzione del senso critico e quindi a una errata attribuzione di valenza alla sfera lavorativa. Nei soggetti affetti da sindrome di burnout cresce l’uso e l’abuso di alcol, sostanze psicoattive e aumenta il numero di suicidi. Esistono alcuni fattori di personalità che possono incidere sul verificarsi della sindrome. Caratteristiche demografiche: l’incidenza del burnout sembra maggiore nelle persone dai 30 ai 40 anni, non sposate e con livello culturale elevato. Tratti psicosomatici: i soggetti che affrontano le difficoltà in maniera passiva e con atteggiamenti difensivi sono più a rischio di sviluppare burnout, così come quelli nel cui tratto caratteriale predomina ansia, ostilità, depressione, vulnerabilità, o che non mostrano apertura verso il cambiamento e manifestano poco coinvolgimento nelle attività quotidiane e scarso controllo sugli eventi. Attitudine verso il lavoro: le persone che lavorano molto e duramente, perché hanno grosse aspettative nella loro professione, sia per la possibilità di successo e di guadagno sia perché vogliono rendere il loro lavoro sempre entusiasmante e soddisfacente, sono più a rischio di burnout quando non vedono realizzare i propri progetti. Due luoghi, o meglio “mondi”, paradigmatici in cui è diffusa la sindrome di burnout sono oggi rappresentati dalla scuola e dal servizio sanitario ospedaliero, accumunati da una forte presenza dei cosiddetti fattori di rischio del burnout.

37 Per misurare il burnout esistono diverse scale. Tra queste la più consolidata e utilizzata in letteratura è la scala di Maslach (MBI): un questionario di 22 item atti a stabilire se nell'individuo sono attive dinamiche psicofisiche che rientrano nel burnout. A ogni domanda il soggetto interessato deve rispondere inserendo un valore da 0 a 6 per indicare intensità e frequenza con cui si verificano le sensazioni descritte nella domanda stessa. Le scale che costituiscono questo questionario sono: esaurimento emotivo; depersonalizzazione; realizzazione personale, Cfr, C. Maslach, Maslach Burnout Inventory, Organizzazioni speciali, Firenze 1994; De Felice - Cioccolanti Barbara, Il rischio del burnout negli operatori socio-sanitari, 3 ed., Ed. Goliardiche 1999; Maggino - Mannucci - Poggesi, L'educatore di professione e i rischi di burnout, vol. I e II, 2000; Maslach C., Leiter P., Burnout e organizzazione. Modificare i fattori strutturali della demotivazione al lavoro, Feltrinelli, Milano 2000 - http://www.medicitalia.it. 38F. Folgheraiter, Introduzione all'edizione italiana, in G. Bernstein e J. Halaszyn, Io operatore sociale, Centro Studi Erickson, Trento 1994.

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Scuola e burnout

La scuola risulta un terreno fertile per il manifestarsi della sindrome di burnout: essa infatti rappresenta l'“impresa” con il maggior numero di lavoratori, unica, nel suo genere, poiché basa tutta la sua produttività sulle persone stesse - i docenti. Un’eccessiva idealizzazione della professione controbilanciata da mansioni frustranti, organizzazioni disfunzionali, scarso riconoscimento sociale sono aspetti che segnano profondamente il mondo della scuola odierno. La figura classica dell'insegnante che soffre di burnout, infatti, è quella di un giovane che si è sentito portato all'insegnamento, che ha visto il suo futuro lavoro quasi come una missione, che lo ha caricato di ideali e di aspettative, ma che poi negli anni si è trovato di fronte a un lavoro diverso da quello che si aspettava - più difficile, più stancante, retribuito poco rispetto alle energie che richiede. L’insegnante adulto, invece, che per anni ha dovuto affrontare questo sistema disfunzionale, contro le sue resistenze al cambiamento, i suoi irrigidimenti burocratici, ha maturato una capacità di coping e resistenza che gli permette, nel limite del possibile, di operare al meglio, nonostante le difficoltà, a discapito di un netto distaccamento da quell’“ideale missione” che patisce il neo-insegnante39. Esistono pochi studi in Italia sull'argomento, soprattutto per quanto attiene alla categoria professionale degli insegnanti. Recentemente è stato reso pubblico uno studio svolto dalla ASL Città di Milano che intendeva prendere in esame i lavoratori dell'amministrazione pubblica e che, a sorpresa, ha fornito dei risultati interessanti per la categoria insegnanti. Si tratta dello Studio Getsemani, che partendo dall'analisi delle domande per inabilità presentate all'INPDAP nel decennio 1992 - 2001, ha preso in esame 3.049 casi clinici e ha confrontato i dati di quattro macrocategorie professionali: insegnanti, impiegati, personale sanitario e operatori. Nonostante gli insegnanti costituiscano soltanto il 18% degli iscritti alle Casse Pensioni INPDAP, la categoria rappresenta il 36,6% delle richieste d’inabilità. Le domande riguardano in maggior misura patologie psichiatriche. I risultati hanno evidenziato che la categoria degli insegnanti è soggetta ad una frequenza di patologie psichiatriche pari a due volte quella della categoria degli impiegati, due volte e mezzo quella del personale sanitario e tre volte quella degli operatori. La frequenza di questi disturbi tra i docenti è indipendente dal loro sesso e dal tipo di scuola in cui esercitano la professione. In sintesi, è stato rilevato che quasi la metà delle domande di inabilità presentate da insegnanti riguardano patologie psichiatriche e che il 75,1% di queste vengono accolte. Questa percentuale è superiore alla percentuale di domande accolte di utenti appartenenti ad altre categorie (36%). Lo studio evidenzia inoltre come si verifichi un'anomala situazione di "mobbing atipico", intendendo con esso un processo di allontanamento che gli insegnanti in burnout subiscono da parte della struttura dove lavorano e dell'utenza, direttamente proporzionale alla gravità della patologia manifestata. Quali sono le cause di questa situazione? Crisi di motivazione, tagli alle spese, contrazione del personale, stipendi fra i più i bassi in Europa? Se si analizzano i risultati di dettaglio dell’indagine, il problema assume connotazioni del tutto inedite, di matrice per lo più psico-sociale. Il 47% dei docenti sostiene di ricavare dal proprio lavoro un "buon livello di soddisfazione", solo il 18% si dice insoddisfatto. Per gli insegnanti intervistati, il primo motivo di stress è "lo scarso riconoscimento sociale della professione" (55%). Questo significa che i professori soffrono per la perdita di prestigio socio-culturale e sono esausti di fronte alle difficoltà sempre nuove che la scuola gli mette di fronte. Solo al terzo posto si trova l’item “retribuzione insoddisfacente” (42%), subito dopo le “classi troppo numerose” (50%).

39

Avitabile, A., Scoppia il burnout tra gli insegnanti, in Rassegna sindacale, n. 39 (2000); Cherniss C.; Contessa, G., La prevenzione del burnout, in Il vaso di Pandora, Vol, III, n.3 (1995); Edelwich, J.E., & Brodsky, (a cura di) Lodolo D'Oria, V., Burnout e patologia psichiatrica negli insegnanti, Sole Scuola, n. 17 (2002); AA.VV. (a cura di Luigi Acanfora), Come logora insegnare, Edizioni Magi, Roma 2002 .

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Burnout e servizio sanitario

Nel servizio sanitario, il burnout non si presenta come un problema personale che riguarda solamente il soggetto che ne è affetto ma costituisce una "malattia contagiosa" che si propaga in modo altalenante dall'utenza all'équipe, da un componente dell'équipe ad un altro e dall'èquipe agli utenti. Le gravi conseguenze che ne derivano possono essere schematizzate in tre livelli di impatto:

a) il livello degli operatori sanitari che pagano gli effetti del burnout sul piano personale, con gravi somatizzazioni, ma soprattutto attraverso dispersione di risorse, frustrazioni e sottoutilizzazioni del potenziale;

b) il livello dell'utenza, per cui i contatti degli utilizzatori del servizio sanitario con gli operatori affetti da burnout risulta frustrante, inefficace e dannoso;

c) il livello della comunità servita in generale che vede svanire forti investimenti nei servizi del welfare.

Negli ospedali oggi è sempre più presente la necessità di studiare in modo approfondito le dinamiche interne, per individuare quelle condizioni che favoriscono situazioni di stress. Questi studi evidenziano come lo stress sia allo stesso tempo il prodotto ed il risultato di queste dinamiche: in questa situazione, quindi, è difficile definire il nesso causa-effetto senza analizzare il contesto, i metodi organizzativi e i sistemi comunicativi presenti nelle aziende ospedaliere e sanitarie. Se il lavoro in ospedale è complesso, essendo particolarmente carico di situazioni stressogene e in grado di far "star male psicologicamente" l'operatore, occorre tuttavia fare alcune osservazioni che scaturiscono da una lettura approfondita delle ricerche compiute su questo particolare argomento, poiché si è avvertito il rischio di una valutazione dello stress del personale ospedaliero direttamente legato alla natura stressante di un lavoro svolto in un ambiente nel quale ci si confronta continuamente con la malattia, la sofferenza e la morte. Un recentissimo lavoro pubblicato sulla storica rivista di medicina Lancet sembra confermare questa perplessità relativa alle metodologie di indagine che è possibile osservare nei numerosissimi lavori su stress, burnout e operatori sanitari: non di rado si fa riferimento a strumenti che hanno valutato il livello di stress sofferto con una scarsa considerazione delle condizioni biologiche, psicologiche e sociali del singolo operatore sia nella relazione all'interno che all'esterno dell'ospedale40. Un aspetto importante infatti nella relazione individuo-gruppo riguarda il livello di considerazione, gratificazione e soddisfazione presenti. La percezione d'impotenza rispetto al desiderio che il proprio impegno possa essere riconosciuto dalla realtà nella quale si opera, può determinare nell'operatore sanitario un senso di scoramento e di rinuncia, non di rado inconsapevole, rispetto ad una propria ed originale progettualità. Nel tempo, si può determinare un calo anche sensibile della fiducia in se stessi, che diviene una sorta di modalità difensiva rispetto allo svilupparsi di sentimenti d'inadeguatezza con la ricerca di un progressivo distacco emotivo da ciò che individua come fonte di una propria sofferenza41.

40

Weimberg A., Creed F., Stress and psychiatry disorder in healthcare professionals and hospital staff, in Lancet n.355,12 Febbraio 2000; cfr. www.thelancet.com. 41

Prosser D, Johnson S, Kuipers E, Szmukler G, Bebbington P, Thornicroft G., Perceived sources of work stress and satisfaction among hospital and community mental health staff, and their relation to mental health, burnout and job satisfaction, in Psychosomatic Res 43(1) July 1997. Reid ha osservato e dimostrato una correlazione significativa tra alta aspettativa nel lavoro e burnout. Cfr. Reid Y, Johnson S, Morant N, Kuipers E, Szmukler G, Bebbington P, Thornicroft G, Prosser D. (1999), Improving support for mental health staff: a qualitative study; in Soc-Psychiatry, Psychiatry Epidemiology, n. 34(6) June 1999. Reid Y, Johnson S, Morant N, Kuipers E, Szmukler G, Thornicroft G, Bebbington P, Prosser D., Explanations for stress and satisfaction in mental health professionals: a qualitative study, in Soc Psychiatry, Psychiatry Epidemiology n. 34(6) June 1999

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Situazione infortunistica

Dopo questa panoramica introduttiva sulla nozione di rischio e i nuovi filoni di studio aperti in seno alle forme emergenziali, passiamo ora a conoscerne il quadro statistico sia oggettivo - le rilevazioni empiriche sulla diffusione di infortuni e malattie professionali - che soggettivo, ovvero gli studi statistici sulla nozione di “rischio reale”.

Il quadro internazionale

Quest’anno ricorre il novantesimo anniversario dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO). Novant’anni fa, il 28 aprile 1919, infatti, durante la Conferenza di Pace di Versailles veniva redatta la Costituzione dell’ILO. L’ILO è un’organizzazione tripartita, che comprende i rappresentanti dei governi, degli imprenditori e dei lavoratori, fondata sul presupposto che una pace universale e duratura è possibile solo se basata sulla giustizia sociale: all’ILO, infatti, è stato assegnato il compito di promuovere la giustizia sociale nel e attraverso il mondo del lavoro. Questa è la missione originaria dell’ILO nonché il motivo per cui da sempre opera per la promozione di un “lavoro dignitoso” (attraverso la protezione sociale nella quale si uniscono la salute e la sicurezza sul lavoro), i diritti del lavoro e il dialogo sociale. Questioni queste che Juan Somavia, Direttore Generale dell’ILO, ha ripercorso nel recente discorso pronunciato a Ginevra durante la Conferenza Internazionale del Lavoro - in occasione della Giornata Mondiale per la Salute e la Sicurezza sul lavoro, che, come ogni anno, si è tenuta il 28 aprile. L’ILO celebra il suo novantesimo anniversario in un momento di crisi globale (finanziaria, economica ed occupazionale). Contro la crisi in corso, a Ginevra, l’ILO ha proposto un Patto Globale del Lavoro volto a promuovere la ripresa economica e la costruzione di un nuovo modello per una globalizzazione più giusta e più incisiva incentrata sull’Agenda del Lavoro Dignitoso. Anche l’Unione Europea, nella sua politica sulla sicurezza e sulla salute sul luogo di lavoro, ha promosso un rafforzamento della cooperazione con ILO, OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e altre organizzazioni internazionali per promuovere i livelli di protezione più elevati al mondo: ha invitato inoltre gli Stati membri a ratificare le convenzioni dell’ILO e ha fornito assistenza ai Paesi candidati nei loro sforzi per attuare l’acquis comunitario nel settore della salute e della sicurezza sul lavoro. Secondo le statistiche dell’ILO, ogni giorno circa 6.000 lavoratori nel mondo muoiono per incidenti e malattie professionali, un dato in continuo aumento. ILO stima infatti in 160 milioni i casi di malattie di origine lavorativa e in circa 268 milioni i casi di incidenti sul lavoro non mortali che mediamente si verificano ogni anno. I decessi per incidenti sul lavoro sono stimati pari a oltre 351.000 l’anno. La preoccupazione si acuisce se si considera che il trend è in crescita, in particolare a causa del processo di industrializzazione di molti Paesi in via di Sviluppo. Il rischio di malattie legate al lavoro è cresciuto a livello quantitativo: un milione e 700 mila decessi risultano essere causati ogni anno da malattie professionali - in pratica superano gli incidenti in un rapporto di quattro a uno. Oltre ai decessi, ogni anno si registrano 268 milioni di incidenti non fatali sul luogo di lavoro, nei quali le vittime perdono almeno tre giorni di lavoro, nonché 160 milioni di casi di assenza da lavoro sono riconducibili a nuove forme di malattia occupazionale. Tutto ciò rappresenta un costo per la società pari a circa il 4 per cento del Prodotto Interno Lordo mondiale (1.250 miliardi di dollari americani), che è assorbito dai costi diretti e indiretti determinati da incidenti sul lavoro e dalle malattie professionali. Una perdita causata da assenze dal lavoro, indennità, interruzione della produzione, cure mediche, ecc. Per quanto riguarda le malattie professionali, secondo i dati della WHO, le patologie più comuni sono i tumori causati dall'esposizione a sostanze pericolose, i disturbi muscoloscheletrici, quelli respiratori, la perdita dell'udito, le malattie circolatorie e le malattie trasmissibili. Nei Paesi industrializzati , in particolare, se il numero dei decessi sul luogo di lavoro relativamente agli

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infortuni è in diminuzione, le morti dovute a malattie occupazionali, soprattutto quelle legate all'amianto, sono in aumento: oggi causano 100 mila morti l'anno.

Un benchmark per gli infortuni con l’Europa ed alcuni Paesi Europei

L’andamento degli infortuni nel quadro europeo viene fotografato dai dati di Eurostat, basati sulla categorizzazione NACE42. Questi dati possono dare una visione generale di quale sia la magnitudine del fenomeno in Italia, rispetto agli altri Paesi con i quali sono sempre più fondamentali i confronti, in particolare Germania, Spagna, Francia, Gran Bretagna, la media dei Paesi dell’Europa a 15 e i nuovi scenari aperti dall’allargamento della Comunità Europea. Gli ultimi dati pubblicati da EUROSTAT, relativi al 2006, hanno messo in evidenza come il rischio di infortunio nell’Unione Europea prosegua nella sua tendenza al ribasso. Se si prende in considerazione l’intervallo di tempo riferito agli anni 2001-2006 (periodo omologo e simmetrico rispetto a quello successivo 2007–2012 attualmente in osservazione), la riduzione degli infortuni sul lavoro, misurata in termini di incidenza standardizzata, risulta pari a -21,6%, sia per il complesso dei 15 “storici” Paesi della UE sia per gli Stati dell’Area-Euro . Si comprende, quindi, a livello europeo, la definizione dell’obiettivo stabilito dalla strategia comunitaria della riduzione del 25% degli infortuni sul lavoro, anche se si dovrà valutare l’impatto dei 12 nuovi Paesi entrati di recente nella UE.

42

http://circa.europa.eu/irc/dsis/nacecpacon/info/data/en/index.htm.

Gli effetti della crisi economica sulla salute occupazionale

La crisi e la disoccupazione producono crisi d’identità e perdite d’autostima, che possono sfociare in disturbi del comportamento, aggressività e devianza sociale di tipo criminale. Queste considerazioni provengono dai risultati di una ricerca, realizzata da un gruppo di cinque studiosi del “Centre for crime and justice” del Kings College di Londra e della Wates Foundation dell’Oxford University, coordinati da David Stuckler, pubblicati su «The Lancet» con il titolo The public health effect of economic crises and alternative responses in Europe: an empirical analysis. I ricercatori hanno analizzato i dati della disoccupazione tra il 1970 e il 2007 in 26 Paesi dell’UE e hanno trovato che ad ogni aumento dell’1% dei senza lavoro cresceva dello 0,8% il numero di quelli sotto i 65 anni soggetti ad atti di suicidio o autori di omicidi. Nella ricerca empirica, se la disoccupazione aumentava del 3%, i suicidi raggiungevano fino al 4,5% in più e, contemporaneamente, si verificava un incremento più che proporzionale delle morti per abuso di alcol. Gli autori dello studio hanno scoperto che le morti erano state maggiori nei periodi di più alta disoccupazione ma si erano attenuate nei Paesi che disponevano di sistemi di protezione sociale, meglio rispondenti agli effetti negativi della perdita del lavoro.«Abbiamo avuto la prova che i programmi che sostengono e reintegrano i lavoratori nel ritorno in attività possono mitigare alcuni effetti negativi della crisi sulla salute mentale», si riferisce nell’articolo. A conferma dell'interpretazione citano i casi della Finlandia e della Svezia, Paesi con forti apparati di Welfare, che agli inizi degli anni ’90 hanno avuto notevoli recessioni e aumenti significativi dei disoccupati, ma non hanno sofferto di suicidi o altre forme di devianza tra i propri cittadini dovuti al lavoro. I governi quindi dovrebbero trovare forme specifiche di intervento a sostegno dei disoccupati, aprendo prospettive di ritorno al lavoro. Attività di ricollocazione e di riqualificazione risultano migliori perché «allineano la promozione della salute con gli investimenti produttivi sul terreno delle politiche del lavoro». L’effetto non è immediato, avvertono gli studiosi, «alcuni effetti della grande depressione del ’29 si trascinarono fino a cinque o sette anni dopo il crac». Lo choc del licenziamento e dell’inattività forzata comporta squalifiche pubbliche e menzogne per mascherarle, che lasciano il segno in chi ne è colpito senza nessuna causa attribuibile alla condotta personale. Cfr. http://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(09)61124-7/abstract

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Tabella 2. Tasso di incidenza standardizzato per 100.000 occupati nei Paesi UE degli infortuni in complesso (2001 – 2006)

STATI MEMBRI

2001 2002 2003 2004 2005 2006 Var. %

2006/2001 Spagna 6.917 6.728 6.520 6.054 5.715 5.533 -20,0 Francia 4.819 4.887 4.689 4.434 4.448 4.022 -16,5

UE - Euro Area

4.426 4.035 3.783 3.638 3.545 3.469 -21,6

Germania 4.380 4.082 3.674 3.618 3.233 3.276 -25,2 UE – 15 3.841 3.529 3.329 3.176 3.098 3.013 -21,6 Italia 3.779 3.387 3.267 3.098 2.900 2.812 -25,6

Regno Unito 1.665 1.632 1.614 1.336 1.271 1.135 -31,8 Fonte: EUROSTAT - Sono esclusi infortuni con assenza dal lavoro inferiore a 4 giorni e infortuni in itinere perché non registrati in tutti i Paesi

Il valore mostrato è già un tasso e quindi normalizzato per 100.000 occupati. In questo caso, si osserva come l’Italia sia in genere compresa nei valori intermedi e come la Gran Bretagna risulti invece un Paese a cui si può mirare, come caso emblematico di evidente buona pratica. Per i casi mortali, la riduzione dei tassi di incidenza (calcolati, ricordiamo, per singoli Stati membri al netto degli incidenti in itinere) è risultata nel periodo 2001-2006 più contenuta di quella registrata per gli infortuni in complesso e pari a -7,4% per l’UE-15 e -9,7% per l’Area-Euro. Da valutare è se questa tendenza, a livello europeo, sarà confermata per gli anni successivi oppure se è solo il caso di considerare il 2006 come un anno straordinariamente negativo sotto il profilo infortunistico dei casi mortali. Nel nostro Paese, come è noto, il fenomeno si è sensibilmente ridimensionato, in virtù delle tendenze di positiva diminuzione registrate nel biennio 2007-2008. Da non sottovalutare, inoltre, il fatto che i dati sugli infortuni mortali per i nuovi Stati membri dell’UE diffusi recentemente da EUROSTAT e riferiti all’anno 2005, hanno determinato un aumento del tasso medio europeo che passa da 2,3 decessi per 100.000 occupati per l’UE-15 a 2,5 per l’UE-27. Tabella 3. Casi mortali – Tassi di incidenza standardizzati per 100.000 occupati nei Paesi UE (2001 – 2006)

STATI MEMBRI 2001 2002 2003 2004 2005 2006 Spagna 4,4 4,3 3,7 3,2 3,5 3,5 Francia 3,2 2,6 2,8 2,7 2,0 3,4 Italia 3,1 2,8 2,8 2,5 2,6 2,9

UE12 - Euro Area 3,1 2,9 2,9 2,7 2,5 2,8 UE15 2,7 2,5 2,5 2,4 2,3 2,5

Germania 2,0 2,5 2,3 2,2 1,8 2,1 Regno Unito 1,5 1,4 1,1 1,4 1,4 1,3

Fonte: EUROSTAT

In questo caso si osserva che la posizione dell’Italia è superiore a quella dell’Europa a 15 e a 27, sebbene si posizioni meglio della Spagna, ma con un andamento altalenante che la avvicina molto alla situazione francese. La Germania presenta invece una situazione più favorevole rispetto al versante infortunistico, mentre il Regno Unito si conferma nuovamente una realtà d’eccellenza.

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La situazione Italiana nel biennio 2007-200843

Prospettive occupazionali

Passando dal quadro generale all’analisi della situazione italiana, si possono delineare alcuni pilastri generali in cui inserire l’analisi. La dinamica dell’occupazione totale nel 2008, secondo l’Istituto Nazionale di Statistica, ha registrato in media un aumento dell’1,5% (pari a 369.000 unità), con una crescita della forza lavoro maschile di 105.000 unità, ma soprattutto di quella femminile che è aumentata del 2,7%, ovvero 264.000 unità in più. Nella media del 2008 l’occupazione aumenta dello 0,8% grazie al significativo incremento dei primi due trimestri dell’anno. A livello territoriale essa cresce quasi analogamente sia al Nord sia al Centro (rispettivamente con aumenti dell’1,2 e 1,5%), a fronte di una flessione nel Mezzogiorno (meno 34.000 unità) dovuta soprattutto alla componente maschile che registra un decremento del -1,4%. In aumento, secondo un trend costante degli ultimi anni, l’occupazione dipendente (1,6%), mentre continua la contrazione della componente indipendente con un valore pari a -1,6%. Dopo diversi anni di persistente diminuzione, nel 2008 la disoccupazione riprende a crescere con un valore pari al 6,7%. Il risultato, solo in parte legato al livello particolarmente contenuto raggiunto nel 2007 (6,1%), sconta l’impatto del progressivo deterioramento del quadro congiunturale. Il numero delle persone in cerca di occupazione, infatti, torna a crescere ad un ritmo del 12,4%. Inoltre, l’aumento della disoccupazione, sia maschile sia femminile, è spiegata da quanti hanno perso il lavoro (73.000 uomini) e dalla crescita delle donne in precedenza inattive (88.000 donne per lo più nel Mezzogiorno) che hanno ora l’esigenza di riaffacciarsi sul mercato del lavoro. In controtendenza rispetto al dato nazionale dell’occupazione dipendente, si collocano i settori dell’Industria in senso stretto e, ancor di più, dell’Agricoltura, che registrano una flessione rispettivamente del -1,2% e -3,9%. È quindi grazie al settore dei Servizi, e in particolare ai dipendenti del terziario, che si ha una sostanziale crescita dell’occupazione, con un aumento di 260.000 unità pari all’1,7% sul territorio nazionale. L’evoluzione positiva dell’occupazione dipendente è influenzata soprattutto dalla componente a tempo parziale che continua il trend positivo del 2007 con un aumento che si attesta al 6,1% per i lavoratori dipendenti e al 7,6% per i contratti a termine. Più in generale, l’aumento del 2,4% dei contratti a termine, siano essi a tempo pieno o part-time, è lo specchio dell’attuale mercato del lavoro italiano, che vede una maggiore tendenza verso forme contrattuali “flessibili”. Ciò che colpisce della dinamica italiana è che mentre il tasso di disoccupazione nel biennio 2007-2008 è inferiore a quello europeo44, al contrario la fascia di persone inattive compresa tra i 15 e i 64 anni, entro la quale si colloca oltre il 90% della forza lavoro disoccupata, è aumentata. Questo dato dovrebbe quindi far riflettere sulla reale crescita occupazionale/diminuzione della disoccupazione in Italia: l’opposta tendenza tra l’aumento della forza lavoro inoccupata e la diminuzione di quella disoccupata, infatti, indica piuttosto che la crescita del tasso di occupazione della forza lavoro è a somma zero, ovvero essa non è stata sostenuta dalla creazione di nuovi posti di lavoro.

Andamento delle malattie professionali

L’analisi dell’andamento delle denunce di malattia professionale nel corso dell’ultimo quinquennio rivela una sensibile crescita di circa 2.000 casi (+7,4%) nel 2007 e un ulteriore incremento nel 2008, anno in cui INAIL ha registrato 29.704 denunce (+3,2% rispetto al 2007). Negli ultimi due anni, dunque, si è registrato un aumento pari a +11,7% delle denunce per il riconoscimento e l’eventuale

43 L’analisi della situazione infortunistica italiana si basa sui dati forniti dal Rapporto INAIL, pubblicato nel luglio 2009 relativo all’andamento infortunistico del 2008; cfr. www.inail.it 44 Secondo i dati OCSE ed EUROSTAT, nel 2007 il tasso di disoccupazione italiana era pari al 6,1% contro il 7,4% dell’area Euro, mentre nel 2008 è stato del 6,7% contro il 7,5%.

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indennizzo di una patologia di origine lavorativa. Questo riscontro, tuttavia, non deve essere letto in senso meramente negativo, come conseguenza di un peggioramento delle condizioni di salubrità negli ambienti di lavoro: tale crescita è più verosimilmente riconducibile ad una progressiva quanto auspicata emersione del fenomeno. I dati ufficiali sul fenomeno tecnopatico, infatti, soffrono di una storica sottovalutazione, attribuibile a una serie di motivi, tra cui i lunghi periodi di latenza di alcune patologie, le difficoltà di individuazione e accertamento del nesso causale e anche il significativo fenomeno di “sottodenuncia” da parte dei lavoratori. L’aumento delle denunce riscontrato negli ultimi due anni si può quindi ricondurre senz’altro a una più matura consapevolezza. In tale direzione, infatti, l’INAIL ha lavorato in questi ultimi anni, investendo nella sensibilizzazione e nell’informazione delle parti coinvolte (lavoratori, datori, sindacati, patronati, consulenti del lavoro e soprattutto medici). In particolare, dal 2007 è stato attivato un “Registro nazionale delle malattie causate dal lavoro ovvero ad esso correlate”, che costituisce un osservatorio nazionale in cui confluiscono tutte le segnalazioni e vengono monitorati i dati raccolti. Entrando nell’analisi di dettaglio delle denunce 2008, si osserva un diverso andamento nelle gestioni dell’INAIL che hanno adottato nuove “tabelle” di classificazione nosologica delle malattie professionali. L’Industria e Servizi, che accentra il 93% dei casi di tecnopatie, ha registrato un primo aumento nel 2007 con un ulteriore incremento (+3%) nel 2008, raggiungendo quota 27.539 denunce. Maggiore, in termini relativi, l’aumento nella gestione Agricoltura (+10,6% rispetto al 2007). Un ridimensionamento del fenomeno invece si è registrato per la gestione minore dei Dipendenti conto Stato: il 2008 ha segnato una contrazione delle denunce dell’11,2% rispetto all’anno precedente.

Aggiornamento delle Tabelle delle malattie professionali

Dal punto di vista normativo il 2008 si è distinto anche per l’aggiornamento delle Tabelle delle malattie professionali: col DM del 9.4.2008 si sono approvate le nuove Tabelle delle malattie professionali, individuando 85 voci per l’Industria e 24 per l’Agricoltura, rispetto alle 58 e 27 in precedenza identificate (1994). La riduzione delle voci in Agricoltura è da ricondurre all’esclusione di alcuni agenti chimici il cui utilizzo è stato vietato negli ultimi anni. Il DM del 14.01.2008, invece, ha riconosciuto e reso sanzionabile l’obbligo di denuncia anche da parte dei medici esterni che vengano a conoscenza di patologie lavoro-correlate. Le tabelle conservano la precedente struttura, ovvero la suddivisione in tre colonne (una per le Malattie, una per le Lavorazioni, una per il Periodo massimo di indennizzabilità) nelle quali le malattie sono disposte in ragione degli agenti causali. L’elenco prevede in sequenza le malattie da agenti chimici, quelle dell’apparato respiratorio, quelle della pelle non descritte in altre voci, e, infine, quelle da agenti fisici. Per ciascuna voce sono indicate malattie specifiche, classificate secondo la codifica ICD10 (International Classification Diseases), prevedendo altresì, per la maggior parte degli agenti, la possibilità della voce aggiuntiva “Altre malattie causate dall’esposizione professionale a…” nella quale potranno essere ricomprese eventuali altre patologie che la scienza medica, nel tempo, dovesse considerare ascrivibili allo stesso agente. Nelle nuove tabelle, inoltre, è stato ampliato il numero delle voci relative alle forme neoplastiche e sono state inserite le malattie da sovraccarico biomeccanico degli arti e l’ernia discale lombare, dovuta a vibrazioni trasmesse al corpo intero o alla movimentazione manuale dei carichi. In generale, l’impostazione delle tabelle sembra consentire una più agevole e puntuale identificazione tra lavorazioni e quadri clinici cui applicare la presunzione legale di origine. La riformulazione di nuove tabelle è stata caratterizzata dall’inserimento delle principali malattie “non tabellate” tra le “tabellate”, con la conseguente aspettativa nel prossimo futuro di un’inversione della prevalenza numerica a favore delle seconde. In quest’ordine, se da un lato si conferma il progressivo allineamento dell’Italia al quadro ormai consolidato da anni in Europa, che, ad esempio, vede le malattie muscolo-scheletriche prevalere su sordità ed ipoacusia, con quote pari rispettivamente al 42% e al 23% del totale; dall’altro, anche in questo aggiornamento restano sottostimate, per la difficoltà nel riconoscimento, le malattie di natura psichica correlate al lavoro.

Per un’analisi sintetica delle patologie, tabellate e non, che colpiscono i lavoratori, è sufficiente restringere il campo a meno di 20 tipi, rappresentanti comunque quasi il 90% di tutti i casi.

- L’ ipoacusia e sordità si conferma come prima malattia professionale per numero di denunce,

con un’incidenza che però diminuisce di anno in anno, passando dal 30% del totale nel 2004 al 20% nel 2008.

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- Oggi prevalgono invece le tecnopatie organizzative e produttive, ovvero da agente fisico che comportano sovraccarico biomeccanico e i cosiddetti Ctd (Cumulative trauma disorders - patologie muscoloscheletriche) causati da movimenti ripetuti e posture incongrue o scorrette: le denunce per tendiniti e le affezioni dei dischi intervertebrali hanno fatto registrare negli ultimi anni, sistematicamente, tassi d’incremento annuo più che raddoppiati nell’ultimo quinquennio; significative anche le denunce per artrosi e per sindrome del tunnel carpale.

- Restano ancora significative l’asbestosi (circa 600 casi l’anno), patologia che ha periodi di latenza di anche 40 anni (il picco di manifestazione è stimato intorno al 2025) e la silicosi, caratterizzata da un trend in contrazione.

- Le malattie professionali di natura psichica sono raggruppate in un’unica definizione: “disturbi psichici lavoro-correlati” . I dati relativi a tale patologia sono ancora da considerare, in una certa misura, sottostimati, sia per la difficoltà di distinguere, in fase di denuncia e prima codifica, la specifica patologia psichica, sia in virtù di confronti con quanto registrato al riguardo da altri organismi e osservatori.

- Per quanto riguarda i tumori professionali, le difficoltà di riscontro per il nesso causale (il più delle volte di natura multifattoriale), l’esistenza di agenti cancerogeni ancora poco conosciuti, la scarsa consapevolezza e, altre criticità, fanno si che i dati rilevati dall’INAIL non rappresentino appieno le dimensioni del fenomeno in termini di denunce presentate. I dati comunque rivelano come i tumori si posizionino tra i primi posti nella graduatoria delle malattie professionali denunciate all’INAIL. In generale (tumori tabellati e non), si registrano circa 2.000 denunce l’anno anche nel 2008, in crescita rispetto al 2004. Quasi la metà, 900 casi l’anno sono dovuti a neoplasie da asbesto, ma consistenze particolarmente elevate stanno assumendo anche quelli legati all’apparato respiratorio (quasi 400 casi l’anno) e alla vescica (circa 300 denunce nel 2008).

Andamento degli infortuni

Alla data di rilevazione ufficiale del 30 aprile 2009, il bilancio infortunistico per l’anno 2008 si presenta decisamente migliore rispetto a quello dell’anno precedente, sia per l’andamento generale del fenomeno, sia soprattutto per gli infortuni mortali: - L’INAIL ha registrato 874.940 denunce di infortuni avvenuti nel corso dell’anno 2008. In

pratica circa 37.500 casi in meno rispetto al 2007, con una flessione di 4,1 punti percentuali, nettamente superiore al -1,7% che si era registrato nel 2007. Il calo complessivo del 4,1% assume, comunque, maggiore rilievo se si tiene conto che nel 2008 il numero degli occupati è cresciuto dello 0,8% (fonte ISTAT); in termini relativi, il miglioramento reale è dunque di quasi il 5%

- Per gli infortuni mortali il bilancio 2008 risulta numericamente favorevole: 1.120 morti sul lavoro nel 2008 con una riduzione del 7,2% rispetto ai 1.207 dell’anno precedente.

Muovendo nel dettaglio si possono evidenziare alcuni aspetti significativi dell’andamento del fenomeno infortunistico nell’anno 2008.

Modalità dell’evento

La riduzione maggiore riguarda gli infortuni in occasione di lavoro, per i quali il numero delle denunce si è ridotto nel 2008 del 4,5%, mentre gli infortuni in itinere sono diminuiti solo dello 0,8%. Più sostenuta, per entrambe le modalità di evento, la flessione dei casi mortali: quelli in occasione di lavoro sono passati dai 903 casi del 2007 agli 844 del 2008 (-6,5%); i decessi in itinere sono scesi da 304 a 276 (-9,2%).

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Settori produttivi

Tra gli infortuni denunciati: il 6,1% si sono verificati nell’ambito dell’Agricoltura, il 90,3% nell’Industria e Servizi e, infine, il (3,6%) fra i Dipendenti dello Stato. Il calo infortunistico, in termini assoluti, è risultato più consistente in Agricoltura (-6,9%) che nell’Industria e Servizi (4,3%), mentre per i Dipendenti dello Stato si è registrato un aumento del 7,6%, sulla scia degli incrementi già osservati negli anni precedenti. In maggior dettaglio settoriale, tuttavia, la diminuzione degli infortuni sul lavoro si profila nel 2008 più sostenuta nell’Industria (pari a -8,2%) e in Agricoltura (-6,9%) , mentre resta sostanzialmente stabile nei Servizi (-0,1%). Un calo significativo infatti si registra in due settori fondamentali: Costruzioni (-12,4%) e Metalmeccanica (-10,6%). Per quanto riguarda i Servizi va segnalato l’incremento di oltre il 20% degli infortuni del personale addetto ai servizi domestici (colf, badanti, ecc.), un settore in forte e continua crescita occupazionale, nel quale è rilevante la componente di origine straniera; riduzioni, invece, si riscontrano nei Trasporti (-5,2%) e nel Commercio (-5,4%). Per quel che riguarda i casi mortali il 2008 segna una riduzione sensibile nell’Industria e Servizi (con cali di poco inferiori al 9,8%), mentre in Agricoltura si registra un aumento, che in termini relativi è del 15,2% rispetto all’anno precedente. Riduzioni importanti si registrano nelle Costruzioni (-14,5%), settore che da sempre è oggetto di attenzione sotto il profilo degli infortuni, dove peraltro l’occupazione è cresciuta nel 2008 dello 0,7%. Per quel che riguarda i Servizi va rilevata la diminuzione del 12,6% dei decessi nel settore del Commercio.

Gender-gap

In ottica di genere, la diminuzione non appare uniforme in generale ma molto più accentuata per gli uomini (-5,6%) che per le donne (-0,2%). Negli infortuni mortali invece la situazione è diversa: diminuiscono del 7% circa le morti bianche, in linea con l’andamento generale, per gli uomini, mentre la componente femminile fa registrare una flessione superiore al 12% (85 lavoratrici decedute nel 2008 rispetto alle 97 del 2007). Considerando che le donne rappresentano circa il 40% degli occupati, la quota scende al 28,6% per gli infortunati e “appena” al 7,6% per i morti sul lavoro: si deduce pertanto come il rischio di infortunio sia sensibilmente inferiore per la componente femminile, occupata prevalentemente nei settori a bassa pericolosità del Terziario e dei Servizi, ovvero con mansioni quasi esclusivamente impiegatizie o dirigenziali se impegnate nei settori più rischiosi (Metallurgia, Costruzioni, Legno, Trasporti, ecc.)45.

Fattore anagrafico

Rispetto ai risultati macroscopici dell’andamento infortunistico emerge che i lavoratori che hanno avuto maggiore beneficio del miglioramento dei livelli di rischio infortunistico nel 2008 sono i giovani (fino a 34 anni) per i quali gli infortuni sono scesi da 350.000 circa del 2007 a 320.000 del 2008, con un calo dell’8%; mentre per i casi mortali le flessioni più consistenti, nell’ordine del 16%, si registrano per le classi di età più anziane (50 - 64 e 65 e oltre).

45 Rilevazione Forze Lavoro ISTAT.

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Tabella 4. Infortuni per classi di età nel biennio 2007-2008

CLASSI DI ETA’

INFORTUNI IN COMPLESSO CASI MORTALI 2007 2008 Var. % 2007 2008 Var. %

Fino a 34 349.441 320.490 -8,3 334 321 -3,9 35-49 381.472 366.769 -3,9 479 457 -4,6 50-64 167.628 167.438 -0,1 332 281 -15,4 65 e oltre 10.414 10.106 -3,0 46 38 -17,4 Totale 912.410 847.940 -4,1 1.207 1.120 -7,2

Gli infortuni per tipologia di contratto

Un altro aspetto di interesse per l’analisi del fenomeno infortunistico è quello che riguarda la forma contrattuale. Le due principali forme di lavoro atipico, lavoro somministrato e parasubordinato (co.co.co e co.co.pro), hanno registrato nell’anno 200746 sensibili incrementi in termini di infortuni (+13,6% e +5,6% rispetto al 2006). Una situazione pressoché analoga si riscontra anche per quanto riguarda l’andamento degli infortuni mortali, sebbene per questi ultimi si tratta - statisticamente parlando - di piccoli numeri e, per la maggior parte, di infortuni in itinere. I collaboratori somministrati sono per lo più inquadrati come operai, adibiti a lavori manuali nei settori dell’Industria manifatturiera (soprattutto della Metalmeccanica), delle Costruzioni e dei Trasporti. Gli infortuni, in questo caso, sono concentrati prevalentemente al Nord (76% dei casi), dove questa forma contrattuale è molto diffusa. Il tasso di frequenza infortunistica per i lavoratori somministrati, valutato dall’INAIL tenendo conto che sono lavori temporanei e di durata generalmente inferiore all’anno, risulta nettamente più elevato di quello medio che si registra per gli addetti dell’Industria e Servizi impiegati a tempo indeterminato. I collaboratori parasubordinati presentano un indice infortunistico sensibilmente più basso di quello medio generale, in linea con le caratteristiche lavorative prevalentemente impiegatizie di questi lavoratori, che operano soprattutto nei settori delle Attività immobiliari, dei servizi alle Imprese, del Commercio e dei Servizi in genere. Gli infortuni in questo caso sono equamente diffusi tra Nord, Centro e Sud. Tuttavia, la frequenza degli incidenti mortali su tutti gli incidenti, risulta più bassa fra gli incidenti occorsi agli interinali rispetto alla popolazione occupata nel suo complesso, e più alta per i parasubordinati, sebbene, come detto, bisogna ricordare il basso numero assoluto di incidenti mortali in queste due classi.

46 L’analisi del quadro statistico degli infortuni rispetto al tipo di rapporto contrattuale si basa sul Rapporto pubblicato da INAIL nel luglio 2008 relativo all’anno 2007, poiché questi dati non sono ancora disponibili nel nuovo Rapporto relativo al 2008.

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Tabella 5. Frequenza infortuni mortali per tipologia contrattuale47

Tipologia contrattuale Infortuni 2007 Casi mortali Frequenza IM* x I* per

1.000 Apprendisti 26.150 26 0,994263862Autonomi 104.893 199 1,897171403Dipendenti 772.899 926 1,198086684

- di cui Interinali 18.383 13 0,707175107Parasubordinati 8.673 19 2,190706791

Totale 912.615 1.170 1,28203021I.M.*: incidenti mortali; I.*: incidenti

La situazione infortunistica nella popolazione straniera

Nella società italiana la componente straniera rappresenta una realtà imprescindibile sotto diversi aspetti: sociale, economico, produttivo. Le più recenti cifre diffuse dall’ISTAT stimano oltre 3,9 milioni di stranieri residenti, di questi circa la metà di sesso femminile e oltre 800 mila minori. L’incidenza dei migranti sulla popolazione è in continua crescita e si attesta oggi a poco meno del 7%; la stessa era stata del 6% nel 2007 e del 5% nel 2006. In Italia, le statistiche sui lavoratori immigrati diffuse da vari Enti forniscono uno scenario che descrive in maniera abbastanza completa il fenomeno della partecipazione al mercato del lavoro, nonostante la forte presenza di lavoro nero soprattutto in settori quali Agricoltura ed Edilizia. La fonte ufficiale che adottiamo in questa sede è quella dei lavoratori assicurati INAIL: pertanto, è bene precisare che i dati qui rappresentano sicuramente una sottostima essendo limitati agli stranieri assicurati INAIL. Nel 2008 gli stranieri assicurati all’INAIL hanno superato quota 3.266.000, facendo registrare una crescita rispetto all’anno precedente di oltre il 6%. Si conferma, dunque, un trend decisamente in salita, che, se si esclude il 2007, anno in cui, a seguito dell’ingresso di Romania e Bulgaria nell’UE, si è assistito a un forte aumento di assunzioni regolari, è stato superiore all’andamento osservato negli anni precedenti. Per quanto riguarda i caratteri di questa fascia della popolazione occupata: il 92% degli assicurati stranieri ha un contratto da dipendente e di questi il 4% è assunto come somministrato, i restanti si dividono tra artigiani 5% e parasubordinati 3%. La componente femminile, invece, rappresenta oggi il 42% degli assicurati e si distribuisce in maniera non omogenea tra le varie forme contrattuali. Si riconferma, inoltre, un riscontro già emerso negli anni precedenti: gli stranieri si insediano nelle aree geografiche che offrono maggiori opportunità di impiego - Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Lazio. L’andamento infortunistico per questa particolare fascia della popolazione occupata deve essere ricondotto nell’ambito di un’occupazione caratterizzata da forte dinamicità: a fronte di un aumento degli assicurati del 6% circa, nello stesso periodo l’incremento degli infortuni è stato più modesto e dell’ordine del 2%; nel 2008, infatti, le denunce sono state oltre 143mila e di queste 176 mortali . Questo andamento, in controtendenza rispetto alla riduzione complessiva del 4,1% degli infortuni sul lavoro, mostra come la contrazione delle denunce degli italiani è stata pari al 5,2% contro un aumento del 2% degli stranieri.

47Tabella elaborata su dati INAIL, Rapporto 2007, e frequenze calcolate a cura della Fondazione ISTUD. Viene qua calcolata solo la frequenza di infortuni mortali, poiché non è disponibile il dato esatto relativo alla composizione della Forza Lavoro disaggregato secondo le tipologie contrattuali.

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Nel dettaglio, sono cresciuti del 10% gli infortuni dei lavoratori di origine comunitaria, mentre sono rimasti quasi stabili, registrando un calo minimo dello 0,5%, quelli degli extracomunitari:

- Gli infortuni occorsi agli stranieri rappresentano il 16,4% del totale e quelli degli extracomunitari il 12,4%.

- Con riferimento al settore di attività si rileva un incremento su tutta la linea produttiva: +1,4%, in Agricoltura, +2% nell’Industria e Servizi e +7% per i Dipendenti del Conto Stato.

- Il numero delle morti bianche si è mantenuto stabile, intorno alle 180 unità. Per i casi mortali dei migranti, va rilevato che rappresentano il 15,7% del totale e quelli degli extracomunitari il 9,7% . Anche per i decessi si registra un aumento tra i lavoratori dell’UE e una flessione per gli extracomunitari. Rispetto al settore di attività, infine, si registra un aumento di morti in Agricoltura rispetto al 2007 e una riduzione nell’Industria e Servizi.a Geografica

2004 2005 2006 2007 2008 L’incidenza infortunistica, espressa dal rapporto tra infortuni denunciati e lavoratori assicurati INAIL, risulta più elevata per gli stranieri rispetto agli italiani: 44 casi denunciati ogni 1.000 occupati contro i 39 degli italiani; che in termini relativi si traduce in una differenza del 13% in più per gli immigrati. I motivi sono noti: gli immigrati sono impiegati in settori a più elevata rischiosità nei quali prevale l’attività manuale e sono disposti a svolgere turni di lavoro più lunghi, spesso accompagnati da stanchezza e da formazione professionale non sempre adeguata. In generale, risulta che poco meno del 96% degli infortuni degli stranieri si verifica nell’Industria e Servizi. Prevale qui il peso dell’attività Edile (dove la presenza straniera è pari al 22% della popolazione occupata in questo ramo d’attività), che conta circa il 13,7% del complesso di tutti gli infortuni riguardanti gli immigrati, primato confermato anche nei casi di decesso: nel 2008 si stima infatti un rapporto di 1 a 4 tra tutti quelli segnalati. A seguire, l’Industria dei metalli (9,5% di infortuni dove la presenza straniera è pari al 26%), i Trasporti (7,8%) e le Attività immobiliari e servizi alle imprese (7%), che inglobano anche le attività di pulizia nelle quali è elevata la concentrazione di lavoratori stranieri. La somma delle percentuali che si riferiscono ai lavoratori stranieri, nonché le differenze specifiche tra lavoratori UE e non UE, è da ricondursi all’aumento assoluto del numero di incidenti occorrenti a questo gruppo di lavoratori, come osservabile nella tabella n.6. Tabella 6. Infortuni per nazionalità nel periodo 2004-2008

Un comportamento simile si registra anche per gli incidenti mortali, quanto a numero assoluto e percentuale di occorrenza su base di provenienza geografica. Interpretando come “indicatore di gravità” degli incidenti occorsi la frequenza con cui si registrano gli incidenti mortali nei diversi gruppi e nei diversi anni, si osserva come, soprattutto per i lavoratori classificati come provenienti da Paesi UE, la frequenza di incidenti mortali (su tutti gli incidenti) stia aumentando velocemente. Questo fenomeno, infatti, avviene di pari passo con l’allargamento della Comunità Europea. Tuttavia, è bene sottolineare che, a differenza degli incrementi del numero di incidenti e incidenti mortali che avvengono nella popolazione europea, la frequenza con cui si osservano incidenti mortali sugli incidenti che avvengono nella popolazione occupata extracomunitaria, sta lentamente ma costantemente diminuendo. Questo comportamento può essere il risultato di una maggiore integrazione dei cittadini stranieri e di una maggiore attenzione da parte sia della legislazione che dei datori di lavoro stessi. i Casi mortali %

NAZIONALITÁ 2004 2005 2006 2007 2008 ITALIA 839.448 815.193 798.855 771.625 731.379

PAESI UE 9.819 12.744 12.983 32.184 35.458 PAESI Extra UE 117.462 112.084 116.320 108.484 108.103

TOTALE 966.729 940.021 928.158 912.410 874.940

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Per quanto riguarda le malattie professionali dei lavoratori stranieri, anch’esse hanno registrato nell’ultimo quinquennio un incremento costante e continuo: le denunce sono aumentate del 48,7% e, solo nell’ultimo anno, del 12,7%. L’aumento riguarda sostanzialmente il settore dell’Industria e Servizi ai quali afferiscono la quasi totalità delle denunce (97%). È lecito pensare che ad aver inciso nella crescita delle denunce sia la maggior consapevolezza dei propri diritti da parte del lavoratore straniero e una maggiore informazione anche per quanto riguarda l’aspetto della tutela nel caso di malattia professionale. Per quanto riguarda la collocazione territoriale, si rileva che nel 2008 una tecnopatia su 4 è stata denunciata in Emilia-Romagna, seguono Lombardia con circa il 13% e Veneto con l’11%, in pratica tre regioni che assommano quasi il 50% di tutte le denunce.

Analisi territoriale

Portando l’attenzione alla situazione territoriale, contestualizzando l’analisi, la riduzione degli infortuni osservata tra il 2007 e il 2008 (-4,1% a livello nazionale) ha riguardato praticamente tutte le regioni. A livello di ripartizione la riduzione ha interessato tutte le grandi aree geografiche, con maggiore accentuazione nel Nord-Est (-5,3%), mentre il calo più modesto si è rilevato nelle Isole (-0,6%). Il 61% degli infortuni è concentrato nelle aree del Nord a maggiore densità occupazionale. In particolare in tre regioni: Lombardia (150mila casi), Emilia-Romagna (124mila) e Veneto (104mila) che assommano oltre il 43% del denunciato del Paese. Le stesse Regioni, in termini assoluti, concentrando il maggior tasso di occupazione, registrano anche il 36% sul totale dei decessi sul lavoro. Le morti sul lavoro, tuttavia, sono diminuite in particolar modo nel Nord-Ovest (-14,5%) con punte ancora più elevate in Piemonte (-27%) e Lombardia (-16%); in sensibile diminuzione anche Sardegna, Molise e Marche. In controtendenza, invece, Liguria, Toscana, Abruzzo e Basilicata per le quali gli infortuni mortali sono cresciuti in misura anche relativamente consistente. Questo riferimento alla consistenza e alle dinamiche occupazionali (e quindi all’esposizione al rischio) diventa necessario per contestualizzare il fenomeno infortunistico nella realtà lavorativa del Paese e ricondurre i valori assoluti infortunistici a valori espressi in termini relativi. A tal fine sono stati elaborati, ed esposti qui di seguito, specifici indici di incidenza ottenuti dal rapporto tra il numero di infortuni e il numero di lavoratori occupati (fonte ISTAT). Osservando il fenomeno dell’infortunio a livello regionale, si dovrebbe notare come il numero di persone occupate renda conto del numero di incidenti osservati. Man mano che il numero di occupati cresce, tuttavia, sembrano esistere, al contorno di questa situazione, condizioni tali per cui questa relazione lineare tra i il numero di occupati e gli incidenti viene meno. Lo stesso rapporto INAIL suggerisce che: «Per una corretta valutazione del fenomeno a livello territoriale, qui effettuata in modo molto sintetico, occorrerebbero ulteriori approfondimenti sulle diverse condizioni socio-economiche caratterizzanti aree geografiche disomogenee, con un chiaro riferimento alla struttura occupazionale delle singole regioni e al diverso peso dei vari settori di attività economica. È necessario ricordare, comunque, che nella Banca Dati Statistica dell’INAIL (Area “Rischio”), tra gli innumerevoli altri indicatori, sono a disposizione anche tavole contenenti, per ogni regione, gli indici di frequenza distinti per settore di attività economica. Un’analisi a tale livello di dettaglio consente di realizzare confronti tra settori economici delle diverse regioni»48. Nel Rapporto dell’INAIL vengono portati alcuni esempi, come l’Umbria , dove il fenomeno viene spiegato dal fatto che il tessuto produttivo è caratterizzato perlopiù da PMI, da attività a carattere artigianale e da un maggior peso dei settori delle Costruzioni edili e delle Lavorazioni di materiali per l’edilizia e produzione di ceramica, tradizionalmente ad alta rischiosità. Mentre, tra le regioni in cui la frequenza di incidenti è più bassa si trovano la Sicilia, la Campania ed il Lazio. Per quest’ultima sola regione la spiegazione può essere dovuta all’elevato numero di occupati nel Settore dei Servizi e della Pubblica Amministrazione (settori notoriamente più sicuri). Ma, esistono

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INAIL, Rapporto annuale sull’andamento infortunistico 2007; luglio 2008; www.inail.it

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anche situazioni come la provincia autonoma di Bolzano e Trento, che hanno una frequenza di incidenti più elevata della media nazionale e addirittura doppia se non quasi tripla rispetto a regioni come Sicilia e Campania. Eppure, andando ad osservare la percentuale di occupati per macro settori, come agricoltura, industria e servizi, si osserva come sia le due province autonome che la Campania e la Sicilia abbiano una percentuale di occupati nell’industria inferiore a quella della Lombardia e che, per contro, hanno una percentuale di occupati nei servizi sensibilmente superiore a quella lombarda. Forti differenze esistono invece fra tutti e quattro i primi esempi e la Lombardia, per quanto concerne la percentuale di occupati in agricoltura (ISTAT, Forze Lavoro)49. Come è giustificabile quindi il comportamento completamente opposto rispetto alla media nazionale di quattro entità regionali in fondo non così differenti dal punto di vista occupazionale? Se la prevalenza degli incidenti tende ad aumentare in buona misura con il numero di persone occupate, la prevalenza degli incidenti mortali dovrebbe aumentare linearmente, ovvero la “fatalità” dovrebbe colpire più frequentemente con l’aumentare delle possibilità. Si registra invece un comportamento particolare nella frequenza degli incidenti mortali su tutti gli incidenti, rispetto al numero degli occupati. Per mettere in evidenza questa situazione abbiamo elaborato delle mappe di rischio per il biennio 2007-2008: calcolando la frequenza infortunistica sul numero degli occupati per regione, la frequenza di morti sul numero degli occupati e infine la frequenza di gravità infortunistica, ovvero il numero di morti sul totale degli incidenti per regione. Le mappe di rischio permettono di costruire una sorta di benchmark tra le regioni basato sul valore della media nazionale50. Di seguito riportiamo le mappe relative al 2008.

La prima mappa rappresenta la frequenza infortunistica: emerge chiaramente come il livello di rischiosità segue le distinzioni geografiche secondo le tre macro-aree. Il Nord presenta una divisione tra il Nord-ovest, mediamente al di sotto della media-nazionale, con le eccezioni della 49

ISTAT, Forze di lavoro, www.istat.it. 50 Nell’Appendice vengono riportati il processo di elaborazione delle mappe di rischio, i dati di riferimento e tutte le mappe relative al biennio 2007 -2008.

Figura 2. Incidenti sulla popolazione occupata

Valori molto al di sotto della media nazionale

Valori poco al di sotto della media nazionale

Valori molto al di sopra della media nazionale

Valori poco al di sopra della media nazionale

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Liguria e della Valle d’Aosta di poco sopra la media, e il Nord-Est invece molto al di sopra della media nazionale. Al Centro prevale una situazione di superamento della media nazionale più o meno, con l’unica eccezione del Lazio. Al Sud invece non ci sono margini di discrezionalità e prevale una situazione di rischio molto al di sotto della media nazionale. La seconda mappa di rischio relativa ai decessi sul lavoro mostra invece una situazione molto più variegata e in particolare eterogenea rispetto alla frequenza infortunistica per alcune situazioni regionali: laddove in Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Liguria, Lazio e Molise si registra una sostanziale analogia con l’incidentalità, le altre regioni presentano una variabilità significativa in chiave sia positiva che negativa. Il Nord-Est: Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli passano da una situazione molto al di sopra della media nazionale per gli infortuni a una poco al di sopra della media per quanto attiene ai decessi sul lavoro. Anche nelle regioni delle Marche e dell’Umbria alla presenza di un alto numero di infortuni corrisponde un valore minimo per i decessi. Nelle altre regioni meridionali, invece, a una più bassa prevalenza di incidenti si accompagnano alti tassi di mortalità indicando quindi la maggior gravità degli incidenti.

Figura 3. Morti sulla popolazione occupata

Valori molto al di sotto della media nazionale

Valori poco al di sotto della media nazionale

Valori molto al di sopra della media nazionale

Valori poco al di sopra della media nazionale

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La terza mappa relativa alla letalità degli incidenti conferma le precedenti osservazioni. Da essa si evince che la letalità più elevata riguarda le regioni del Sud e la Sicilia a indicare che nonostante un’apparente situazione di minore incidentalità corrispondono probabilmente situazioni lavorative più a rischio. Il fenomeno qui osservato è facilmente riconducibile ad una variabile composizione delle forze di lavoro per i diversi settori economici, per ogni regione italiana: le regioni con alta frequenza di incidenti hanno però gli incidenti meno gravi. Seppur sia possibile stratificare ancora all’interno delle diverse voci economiche, anche per fasce d’età e per sesso, tuttavia pare più plausibile che sia il contesto non solo economico, ma probabilmente gestionale e organizzativo, culturale, logistico ad influenzare la frequenza con cui accadono gli incidenti più gravi. Si profila quindi l’ipotesi o il dubbio di un limite superiore che contraddistingue un’indagine sulla salute e sicurezza sul lavoro ricondotta esclusivamente alla lettura dei dati oggettivi, statisticamente rilevabili. Al di là del denunciato, perché questi sono gli unici dati di cui si dispone, qual è la situazione reale? Cosa viene denunciato o riconosciuto come rischio/danno della salute e quanto si vuole tutelare il lavoratore, sia dal punto di vista datoriale che da quello del collaboratore? La malattia o anche una parziale inabilità sopraggiunta tanto per motivi lavorativi che anagrafici è percepita come stigma, per cui si preferisce nascondere e vivere nella percezione del rischio? E ancora qual è lo scarto tra la percezione soggettiva del rischio e le azioni di gestione e prevenzione poste in essere nelle organizzazioni: sono o meno in sintonia? Questi e altri interrogativi evidenziano l’importanza, oggi riconosciuta e prescritta dalle strategie comunitarie di job protection di conoscere e rilevare, per quanto possibile, la percezione soggettiva del rischio. 01

Figura 4. Morti sugli incidenti

Valori molto al di sotto della media nazionale

Valori poco al di sotto della media nazionale

Valori molto al di sopra della media nazionale

Valori poco al di sopra della media nazionale

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Rischio reale: la percezione del rischio

Nel rapporto annuale pubblicato da INAIL sull’andamento di infortuni e malattie professionali si trova una sezione dedicata alla misura dell’esposizione a fattori di rischio per la salute dei lavoratori a partire dalla loro percezione soggettiva. Il “modulo ad hoc”, condotto da ISTAT con la Consulenza Statistico Attuariale dell’INAIL, è nato su indicazione della Strategia Europea per la salute e la sicurezza sul lavoro 2002-2006 che invitava i Paesi membri a “Promuovere un vero benessere sul luogo di lavoro sia dal punto di vista fisico sia psicologico e sociale”. Tale rilevazione, inserita nell’Indagine Forze di Lavoro da tutti i Paesi membri nel II trimestre 2007, e quindi anche dall’ISTAT, ha degli spunti di originalità rispetto alle usuali rilevazioni INAIL51. Infatti la percezione della presenza di fattori di rischio per la salute sui luoghi di lavoro costituisce una novità: oltre agli infortuni e ai problemi di salute, per la prima volta viene rilevato il fenomeno dell’esposizione ai fattori di rischio, che possiede una connotazione del tutto soggettiva riferendosi alle condizioni di sicurezza in cui si trovano ad operare i lavoratori. In questo senso, una simile rilevazione fornisce un valore aggiunto ai dati provenienti dalle denunce dell’INAIL: comprendendo eventi di fatto non denunciati, consente di confrontare e conoscere la magnitudine del fenomeno di rischio reale. La “percezione del rischio” costituisce un elemento discriminante per l’adozione di comportamenti atti a prevenire possibili incidenti. Essa infatti è legata al pericolo di una determinata entità (ad esempio materiali o attrezzature, metodi e pratiche di lavoro), al rischio, cioè alla probabilità che sia raggiunto il livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego e/o di esposizione, e, infine, alla rischiosità, come percezione del rapporto esistente tra pericolo e rischio. Quindi, laddove sussistano tutti i migliori requisiti e le migliori condizioni di sicurezza, il rischio di infortunio permane quando la percezione del rischio è inadeguata. Strettamente correlata al rischio, è anche l’attenzione. L’errore umano è normalmente spiegato attraverso il ricorso ad una sua carenza, che si presenta durante l’esecuzione di un’azione. Lo spostamento della capacità di attenzione individuale può essere determinato anche da altri elementi, come le preoccupazioni personali, le competitività interpersonali e l’eccessiva fiducia nella tecnologia e nei sistemi di sicurezza. Quest’analisi basata sulla percezione soggettiva del rischio, per quanto descrittiva, costituisce un quadro di riferimento per approfondimenti di tipo più prettamente epidemiologico; ma soprattutto per mettere in atto più intense azioni di prevenzione e protezione in grado di ridurre le probabilità stesse di infortunio: informazione, formazione e controlli periodici rientrano nell’ambito delle azioni associate alla valutazione del rischio.

L’esposizione a fattori di rischio per la salute sui luoghi di lavoro

Per la realizzazione di questa indagine è stata determinante la somministrazione di un questionario, sottoposto a tutti gli occupati e non, che hanno svolto un’attività lavorativa in passato, e, in particolare, per l’analisi degli infortuni sul lavoro dei soli occupati e non, che hanno lavorato negli ultimi 12 mesi. Il questionario è stato articolato in più sezioni, che riprendiamo brevemente di seguito con riferimento ad alcuni findings macroscopici. I Sezione: (relativa a tutti gli occupati, pari a 23 milioni 298mila): I fattori di rischio fisici e psicologici. I fattori di rischio per la salute fisica sono raggruppati in quattro aree: la prima include l’esposizione a polveri, gas, esalazioni, fumi, sostanze chimiche; la seconda l’esposizione a rumori eccessivi o vibrazioni; la terza riguarda l’assunzione di posture dannose, spostamenti di carichi pesanti o movimenti che si ripercuotono negativamente sulla salute; l’ultima riguarda l’esposizione a un generico rischio di infortunio. Tra i vari fattori di rischio che possono compromettere l’equilibrio

51 Cfr. “Rapporto INAIL 2008”, Indagine Focus, www.inail.it.

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psicologico sono stati rilevati in particolare il carico di lavoro eccessivo, fenomeni di prepotenza o discriminazione, minacce o violenze fisiche. Risultati - Entità del fenomeno: oltre 10 milioni di occupati (pari al 44%) percepiscono, nello svolgimento

del proprio lavoro, la presenza di almeno un fattore di rischio per la propria salute. Di questi più dell’80% avverte la presenza di fattori di rischio che possono compromettere la salute fisica, mentre il 40% ritiene di essere esposto a rischi che potrebbero pregiudicare l’equilibrio psicologico.

- Chi si sente esposto a fattori di rischio? Per entrambe le tipologie di rischio, la quota più alta risiede al Centro, dato per lo più in linea con le precedenti mappe di rischio. Le classi di età più interessate dall’esposizione ai rischi risultano quelle centrali (35-44 e 45-54 anni) sia per i fattori di natura fisica sia per quelli di natura psicologica, laddove i risultati sugli infortuni denunciati mostrano che la classe più corposa è nettamente quella più giovane (fino a 34 anni). Se per il rischio psicologico si rileva una sostanziale parità fra i sessi in tutte le classi di età, i fattori che possono compromettere la salute fisica evidenziano, invece, differenze di genere molto elevate tra i più giovani (con valori più elevati per i maschi) che si vanno progressivamente riducendo nelle classi di età più anziane (dai 21,6 punti percentuali della classe 15-24 anni agli 8,7 della classe 65 e oltre). Per quanto riguarda le categorie professionali: i fattori di rischio per la salute fisica vedono maggiormente esposti gli operai (oltre la metà) e i lavoratori in proprio (42,2%), che sono le categorie più coinvolte nei lavori di tipo manuale; mentre sul fronte dei rischi che impattano sull’equilibrio psicologico sono i dirigenti quelli maggiormente esposti con il 26,4%.

- Per quanto riguarda i settori e le attività più esposte, i risultati sono in linea con le rilevazioni INAIL. La maggiore concentrazione di persone esposte a rischi per la salute fisica si registra nei settori delle Costruzioni (63,4%), dell’Agricoltura (54,3%), dei Trasporti (48,3%), della Sanità (45,5%) e delle Attività manifatturiere (44,7%). I fattori di rischio di tipo psicologico sono percepiti maggiormente fra le persone che lavorano nella Sanità (26,0%), nei Trasporti (24,6%) e nella Pubblica Amministrazione (23,0%). In particolare nella Sanità e nella Pubblica Amministrazione le donne risentono in misura maggiore rispetto agli uomini di questi problemi.

II Sezione: Problemi di salute causati o aggravati dall’attività lavorativa (relativa ai dodici mesi precedenti la somministrazione del questionario per tutti gli occupati e i non occupati con almeno una precedente esperienza lavorativa, 40 milioni 501mila).

Risultati - Entità del fenomeno: la quota complessiva di persone che hanno sofferto di problemi di salute

causati o aggravati dall’attività lavorativa si attesta al 6,9%. Anche in questo caso il Centro rimane la ripartizione con il valore più alto, pari al 7,8%, seguita dal Nord con il 7,0%.

- Chi è più esposto a rischi per la salute? Le malattie riconducibili alla professione risultano essere strettamente connesse al fattore età, mostrando un trend crescente fino alla classe 45-54 anni. Per le classi di età successive si verifica una flessione, ma i valori restano comunque elevati con il 7,8% della classe 55-64 e con il 7,1% della classe 65 e oltre. Il quadro che emerge deriva da una prolungata esposizione agli effetti dell’attività lavorativa delle classi più anziane che contribuisce all’insorgere dei problemi di salute. Tra le donne il fenomeno risulta mediamente più accentuato (7,3% contro il 6,9% degli uomini), presentandosi una percentuale superiore a quella maschile anche per la classe di età più giovane (3% contro il 2,3%).

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Nella maggior parte dei casi, i risultati indicano che i problemi di salute registrati sono multifattoriali. Tuttavia, le maggiori tipologie di problemi sono così sintetizzabili: più della metà degli intervistati dichiara di soffrire di un problema osseo, articolare o muscolare; lo stress, la depressione e l’ansietà, vengono citati dal 16,2% dei rispondenti; il 9,9% ha segnalato problemi respiratori, il 5,6% cardiovascolari, il 4,2% di udito, il 3,7% alla vista, e, infine, il 9,2% dichiara di aver sofferto di un problema di salute diverso da quelli elencati.

- Assenza per malattia: fra tutti coloro che hanno dichiarato di aver sofferto di un problema di salute, il 28,3% non ha lavorato negli ultimi 12 mesi per motivi diversi dal problema stesso (pensionamento, studio, cura dei familiari, ecc.). Ai restanti che hanno lavorato nell’ultimo anno è stato chiesto se il problema di salute rilevato abbia comportato un’assenza dal lavoro. Oltre il 50% dei rispondenti ha sofferto di disturbi che non hanno comportato assenze dal lavoro mentre, sul fronte opposto, il 12,5% ha fatto assenze per oltre un mese e l’8,1% dichiara di non essere più in grado di lavorare a causa di questo problema. In questo caso, i risultati sono piuttosto netti: i dati che saltano all’attenzione sono in particolare l’8,1% di inabilità sopraggiunta e ancor più quel 50% di lavoratori che non si assentano dal lavoro pur soffrendo di problemi di salute, evidentemente compatibili con l’attività lavorativa. Resta aperto il problema del tipo di lavoro fisso o precario.

- Professioni e rapporti di lavoro: oltre un terzo dei soggetti più esposti a malattie professionali sono gli operai e poco meno è rappresentato dagli impiegati. Tra le posizioni autonome spicca quella dei lavoratori in proprio con il 16,5%, mentre il 2% ha un contratto di collaborazione. In termini relativi, però, sono le posizioni dirigenziali quelle che accusano i maggiori disagi con il 9,5% seguiti dai lavoratori in proprio che si attestano al 7,3%. La differenza di genere fra i dirigenti e quadri è molto più marcata che fra altre categorie, con una quota maggiore per le donne. Nell’ambito delle posizioni di lavoro alle dipendenze si registra una sostanziale differenza fra coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato (7,4%), e coloro che hanno un contratto a termine (5,3%). Nei settori dell’agricoltura e alberghiero, invece, chi possiede contratti a termine denota una percentuale più elevata nei confronti dei lavoratori permanenti. Il settore della sanità è quello che mostra la quota più elevata di lavoratori che dichiarano problemi di salute con il 10,7%. A seguire troviamo l’Istruzione e la Pubblica Amministrazione, mentre nel settore del Commercio - comparto che registrava una frequenza di eventi consistente - si registra la quota più bassa pari al 5,2%.

III Sezione: Il rischio di infortunio e gli infortuni sul lavoro (relativa a occupati e non occupati che hanno svolto un lavoro negli ultimi 12 mesi - circa 25 milioni 116mila di cui il 50,1% risiede al Nord, il 20,6% al Centro e il 29,3% nel Mezzogiorno). Il rischio di infortunio è quello maggiormente percepito: oltre un quinto degli occupati ne avverte la presenza. L’indagine Focus, relativa al secondo trimestre del 2007, risulta particolarmente interessante dal punto di vista epidemiologico perché include agli incidenti indennizzati e registrati dall’INAIL quelli di lieve entità non registrati. In questo ordine, il numero di eventi infortunistici, stimato nell’indagine ISTAT52, pari a 1 milione 66mila, appare in linea con i dati INAIL. L’analisi, inoltre, è basata sul dato soggettivo e fa riferimento solo alle persone che hanno subìto almeno un infortunio e non ai singoli eventi. Risultati - Entità del fenomeno: le persone che hanno dichiarato di aver subìto un infortunio sul luogo di

lavoro o durante il tragitto casa-lavoro nell’arco dell’ultimo anno sono 937mila e costituiscono il 3,7% di coloro che svolgono o hanno svolto un’attività lavorativa negli ultimi dodici mesi. In particolare, le persone che hanno dichiarato di aver subìto un infortunio sul luogo di lavoro (escludendo quelli in itinere) sono 672mila (con una differenza di genere ancora più

52 L’indagine Focus, relativa al II trimestre 2007, mantiene come riferimento i dati sull’andamento degli infortuni diffusi da INAIL nel 2007, cioè relativi al 2006.

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accentuata, con il 77,3% di uomini e il 22,7% di donne), di questi, 59mila persone hanno subìto più di un incidente sul luogo di lavoro, pari all’8,7% del totale.

- Il modulo ad hoc ha consentito di quantificare anche la presenza di infortuni in itinere. Il numero di coloro che hanno dichiarato di essere stati vittima di un infortunio nel tragitto casa-lavoro è pari a 283mila, ovvero l’1,1% del totale, senza differenze di genere. È tra i giovani che si registra la quota più elevata di infortunati (1,3% tra i 15 e i 24 anni), con una diminuzione del fenomeno al crescere dell’età. Anche in questo caso, in termini assoluti è il Nord a registrare il maggior numero di persone infortunate (51,6%), ma in termini di incidenza sulla popolazione intervistata è nella ripartizione centrale che si registrano proporzioni più ampie (1,6% contro l’1,2% del Nord e lo 0,8% del Mezzogiorno).

- Chi percepisce un più alto livello di rischio infortunistico? Il 72,4% degli infortunati è rappresentato da uomini, il 27,6% da donne. In termini di frequenza, il fenomeno è più diffuso tra gli uomini (4,5% contro il 2,5% delle donne). Un terzo degli infortunati ha tra 35 e 44 anni, il 24,0% tra 45 e 54 anni, il 23,7% tra 25 e 34 anni e l’8,5% tra 15 e 24 anni. Oltre la metà di quanti dichiarano un infortunio risiede nel Nord ma in termini relativi, mentre come per i problemi di salute derivanti dal lavoro, è il Centro che registra il valore più alto con il 4,4%, il Mezzogiorno invece denota una proporzione più contenuta rispetto alle altre due ripartizioni (2,8%) – rilevazioni in linea con le mappe di rischio presentate.

- Assenze per infortunio: oltre un quarto dei rispondenti ha dichiarato un’assenza dal lavoro di un mese o più, il 16,1% da 2 settimane a meno di un mese e il 25,8% da 4 giorni a meno di due settimane. Gravità degli infortuni : il 14,7% ha subìto infortuni di lieve entità che non hanno costretto, chi ne è stato vittima, a giorni di assenza dal lavoro. Questa quota sale al 23,2% fra le donne: oltre a subire incidenti in misura minore, la popolazione femminile, dunque, incorre generalmente in incidenti meno gravi, a tal proposito viene ricordato che le donne lavorano in media meno ore degli uomini.

- Professioni e rapporti di lavoro: il 76,3% degli occupati che hanno subìto un infortunio nell’espletamento dell’attività principale svolge un lavoro alle dipendenze, il 22,0% un’attività autonoma, mentre il restante 1,7% ha un contratto di collaborazione. Tra le posizioni che caratterizzano il lavoro alle dipendenze è quella degli operai che denota una percentuale più elevata con il 4,2%, mentre il valore più basso riguarda chi svolge funzioni dirigenziali con l’1,3%. Tra gli autonomi, sono i lavoratori in proprio la categoria maggiormente colpita dagli incidenti sul lavoro con il 3,2% - si tratta soprattutto di lavoratori indipendenti che svolgono lavori manuali. I comparti industriali (Attività manifatturiere e Costruzioni), che raccolgono oltre il 42% delle persone che hanno subìto un infortunio sul luogo di lavoro, insieme al Commercio, con il 10,8%, e la Sanità con l’8,4%, sono i settori maggiormente interessati dagli eventi infortunistici.

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Italia: salute e sicurezza sul lavoro, tra normativa e Responsabilità Sociale di Impresa Nel quadro del presente progetto di ricerca e dell’approccio da noi intrapreso, è interessante e utile rivolgere l’attenzione alla situazione italiana in materia di sicurezza e salute sul lavoro mettendo in evidenza sia la componente normativa che quella strettamente culturale, o meglio ancora il ruolo ricoperto dalle parti interessate, dagli stakeholder, tra cui protagoniste nel panorama nostrano risultano le imprese stesse. La realtà italiana, infatti, in tema di salute e sicurezza sul lavoro ad oggi presenta ancora forti istanze contraddittorie tra il piano normativo e quello socio-culturale, nel senso di una divaricazione tra la tutela garantistica del diritto alla salute dei lavoratori, perseguita attraverso l’apparato legislativo e burocratico, e l’assenza di una cultura consolidata della prevenzione alla salute. Non solo, questa tensione è acuita sia dalla forte burocratizzazione della politica, che ha determinato per anni una vera e propria frammentazione e duplicazione delle strategie politiche tanto dal punto di vista settoriale (separazione tra i diversi ministeri) quanto dal punto di vista istituzionale e territoriale, laddove il regionalismo ha sempre più assunto i caratteri di una divisione non tanto politica, quanto culturale ed economica. Quanto detto, tuttavia, non mira ad una critica pessimista, piuttosto vuole essere una constatazione da cui prendere le mosse per comprendere realisticamente le dinamiche presenti e ragionare al loro interno. Anche in Italia, sebbene con ritardo rispetto agli altri Paesi comunitari, si registrano alcuni importanti elementi di cambiamento culturale. In questo vettore di senso, infatti, ha iniziato a lavorare il nuovo ministero del Welfare, che per la prima volta ha riunito l’organizzazione delle funzioni di indirizzo politico in materia di lavoro, salute e inclusione sociale in un unico Ministero dedicato allo sviluppo sociale. Questo rappresenta un primo segno rilevante verso quell’approccio welfaristico integrato, capace di articolare e sviluppare strategie orientate da una visione complessa e multidimensionale dei vari profili che concorrono al benessere dei cittadini. Non è casuale infatti che nel Libro Verde sul modello di Welfare (pubblicato nel luglio del 2008), il ministro Sacconi abbia richiamato proprio nell’introduzione la Strategia europea per la salute. Come si legge: «è stato il Libro Bianco della Commissione Europea per la salute a enfatizzare lo stretto legame tra salute e prosperità economica sottolineando, altresì, la centralità del benessere nelle politiche contemplate dalla Strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione. Promuovere la salute consente di ridurre la povertà, l’emarginazione e il disagio sociale, incrementando la produttività del lavoro, i tassi di occupazione, la crescita complessiva dell’economia. Allo stesso modo un aumento della qualità dell’occupazione e delle occasioni di lavoro per un arco di tempo più lungo si traduce in maggior salute, prosperità e Ben-Essere per tutti. Una rifondazione del nostro modello sociale sarà più agevole e potrà consentire al tempo stesso soluzioni più avanzate e durature se una omogenea direzione politica si dimostrerà in grado di definire il complesso di tutele e delle opportunità di persone lungo l’intero ciclo di vita offrendo risposte unitarie e non settoriali o, peggio, segmentate in corrispondenza dei diversi bisogni nel momento in cui si manifestano»53.

53 Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, La vita buona nella società attiva. Libro Verde sul futuro del modello sociale, Documento per la consultazione pubblica, 25 luglio 2008, www.lavoro.gov.it.

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D. Lgs. n. 81/2008

Con il decreto n. 626 del 1994 la legislazione italiana ha iniziato a recepire gli orientamenti e le indicazioni della normativa comunitaria n. 89/391, uniformando così gli strumenti e gli istituti vigenti nel panorama nazionale a quelli europei. Questo processo di adeguamento all’acquis comunitario è proseguito con correzioni e implementazioni fino alla promulgazione del Testo Unico per la sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro, il D. Lgs. n. 81/2008, che riassume e completa questo iter legislativo. L’innovazione più significativa apportata alla legislazione italiana dal recepimento della normativa comunitaria investe direttamente la gestione programmata dell’obbligo di sicurezza – come viene spiegato di seguito.

Programmazione e procedimentalizzazione dell’obbligo di sicurezza

Il decreto 81/2008 prevede una procedura stringente e importanti strumenti per garantire l’effettiva tutela della sicurezza: a) Programmazione della sicurezza: l’art. 15, 1° comma, lett. b) prevede «la programmazione

della prevenzione, mirata ad un complesso che integri in modo coerente nella prevenzione le condizioni tecniche produttive dell'azienda nonché l'influenza dei fattori dell'ambiente e dell'organizzazione del lavoro»54. Tale norma generalizza l’obbligo di programmazione della sicurezza, che ha carattere “globale”, poiché comprende sia i rischi generici che specifici e coinvolge tutti i soggetti operanti nell’impresa.

b) Procedimentalizzazione dell’obbligo di sicurezza: la procedura è articolata in una serie di formalità, finalizzate a garantire la trasparenza dell’operato del datore di lavoro e la serietà della programmazione, sia per il tramite dell’intervento di esperti qualificati, sia per la possibilità di controlli di carattere pubblico e sindacale. In altre parole, si intende stabilire una serie di sottoadempimenti funzionali all’adempimento dell’obbligo di sicurezza, semplificando l’accertamento di eventuali responsabilità del datore di lavoro in ordine alla mancata predisposizione delle misure di sicurezza. Gli atti procedurali sono i seguenti: a) elaborazione di un documento custodito presso l’azienda (art. 28). Esso deve contenere una

relazione valutativa, correlata alla natura dell’attività dell’azienda ovvero dell’unità produttiva, di «tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l'attività lavorativa, nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa; l'indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate e dei dispositivi di protezione individuali adottati, a seguito della valutazione; […] le misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza; l'individuazione delle procedure per l'attuazione delle misure da realizzare, nonché dei ruoli dell'organizzazione aziendale che vi debbono provvedere, a cui devono essere assegnati unicamente soggetti in possesso di adeguate competenze e poteri; […] l'individuazione delle mansioni che eventualmente espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono una riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione e addestramento». Il datore di lavoro deve inoltre formulare il piano di emergenza, cioè le misure di prevenzione in caso di incendio o di pericolo grave. Il datore di lavoro deve poi tenere un registro degli infortuni nel quale annota, entro un giorno (escluso quello dell’evento), l’infortunio accorso al dipendente (art. 18, 1° comma, lett. r)).

b) riunione periodica di prevenzione e protezione (art. 35) indetta almeno una volta all’anno nelle unità produttive con più di 15 dipendenti dal datore di lavoro direttamente o per il

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L’art. 2, 1° comma, lett. dd) definisce come «"modello di organizzazione e di gestione": modello organizzativo e gestionale per la definizione e l'attuazione di una politica aziendale per la salute e sicurezza, ai sensi dell'articolo 6, 1° comma, lettera a), del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, idoneo a prevenire i reati di cui agli articoli 589 e 590, 3° comma, del codice penale, commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela della salute sul lavoro».

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tramite del servizio di prevenzione (art. 18, 1° comma): tale riunione serve ad esaminare il documento sulla valutazione dei rischi, l’idoneità dei mezzi di protezione individuale, i programmi di formazione e informazione dei lavoratori.

La procedura esposta viene semplificata con riferimento alle piccole e medie imprese, per le quali vigono appositi decreti ministeriali, e alle imprese familiari o con meno di dodici addetti – fatta eccezione in entrambi i casi per quelle soggette a particolari fattori di rischio. Queste ultime sono esonerate dall’obbligo di redazione del piano di sicurezza e dalla sua conservazione sul luogo di lavoro. Tali datori di lavoro sono comunque tenuti ad autocertificare per iscritto l’effettuazione della valutazione dei rischi e l’adempimento dei conseguenti oneri di prevenzione e protezione su strutture, macchine e impianti. L’autocertificazione, inoltre, deve essere inviata al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. La proceduralizzazione dell’obbligo di sicurezza con riferimento ai soggetti individuati come responsabili dalla normativa viene riassunta dalla seguente tabella.

SOGGETTO OBBLIGHI/FUNZIONI

DATORE DI LAVORO

• Valutazione dei rischi • Elaborazione del piano di sicurezza • Nomina del medico competente e del responsabile del servizio di

prevenzione e protezione

MEDICO COMPETENTE Funzione di sorveglianza sanitaria per l’elaborazione del piano di sicurezza e la valutazione dei rischi

RAPPRESENTANTE DEL SERVIZIO DI PREVENZIONE E PROTEZIONE

Funzione consultiva per l’elaborazione del piano di sicurezza e la valutazione dei rischi

DIRIGENTI E PREPOSTI Nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze adottano misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori

RAPPRESENTANTE PER LA SICUREZZA

• Funzione consultiva sulle misure di prevenzione e formazione • Funzione di controllo sull’adozione delle misure di sicurezza

LAVORATORI

• Osservano disposizioni e istruzioni • Utilizzano correttamente macchinari e dispositivi di protezione • Segnalano situazioni di pericolo • Si sottopongono ai controlli sanitari

PROGETTISTI, FABBRICANTI, VENDITORI NOLEGGIATORI

Rispetto dei principi generali e delle disposizioni in materia di sicurezza con riferimento alle attrezzature di lavoro, ai macchinari e agli impianti

Gestione concertata della sicurezza

Un’ulteriore profilo innovativo del decreto D. Lgs. n. 81/2008 rispetto alla gestione della sicurezza è l’introduzione di una logica di partecipazione attiva dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti alla tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro. A tal fine il decreto prevede:

- obblighi di informazione (art. 36): essi riguardano anzitutto i lavoratori, in riferimento ai rischi generali e specifici per la sicurezza e la salute e le misure adottate;

- obblighi di informazione sufficiente e adeguata (art. 37) in materia di sicurezza e salute con particolare riferimento al posto di lavoro e alle mansioni svolte dal lavoratore. La formazione, di cui sono definiti i contenuti minimi, deve avvenire in occasione dell’assunzione, del trasferimento o del mutamento di mansioni, nell’introduzione di nuove attrezzature di lavoro, di nuove tecnologie o di nuove sostanze e preparati pericolosi. Essa deve poi avvenire periodicamente ed essere ripetuta in relazione all’evoluzione dei rischi o all’insorgenza di nuovi rischi; deve essere effettuata nell’orario di lavoro e non può comportare oneri economici a carico del lavoratore; infine, deve svolgersi in collaborazione con organismi paritetici dei datori di lavoro e dei lavoratori;

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- obbligo di consultazione preventiva dei lavoratori in ordine alla valutazione dei rischi, all’individuazione, alla programmazione, alla realizzazione ed alla verifica della prevenzione nell’azienda o nell’unità produttiva. Quest’attività di consultazione è svolta per il tramite del rappresentante della sicurezza dei lavoratori, che ha facoltà di esprimere proposte in merito all’attività di prevenzione.

Enti pubblici che hanno compiti in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e organi di vigilanza

L'ISPESL (Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro), l'INAIL e l'IPSEMA, per i lavoratori del settore marittimo, sono enti pubblici nazionali con competenze in materia di salute e sicurezza sul lavoro che esercitano le proprie attività in una logica di sistema con il Ministero della Salute, del Lavoro e della Previdenza Sociale, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano (art. 9). Essi svolgono in forma coordinata, per una maggiore sinergia e complementarietà, le seguenti attività:

- elaborazione e applicazione dei rispettivi piani triennali di attività; - interazione, per i rispettivi ruoli e competenze, in logiche di conferenza permanente di

servizio, per assicurare apporti conoscitivi ai programmi di intervento, per verificare l'adeguatezza dei sistemi di prevenzione e assicurativi e per studiare e proporre soluzioni normative e tecniche atte a ridurre il fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali;

- consulenza alle aziende, in particolare alle medie, piccole e micro imprese, anche attraverso forme di sostegno tecnico e specialistico finalizzate sia al suggerimento di mezzi, strumenti e metodi operativi efficaci alla riduzione dei livelli di rischiosità per la salute e la sicurezza sul lavoro, sia all'individuazione degli elementi di innovazione tecnologica in materia con finalità prevenzionali, raccordandosi con le altre istituzioni pubbliche operanti nel settore e con le parti sociali;

- progettazione ed erogazione di percorsi formativi in materia di salute e sicurezza sul lavoro; formazione per i responsabili e gli addetti ai servizi di prevenzione e protezione;

- promozione e divulgazione della cultura della salute e della sicurezza del lavoro nei percorsi formativi scolastici, universitari e delle istituzioni dell'alta formazione artistica, musicale e coreutica, previa stipula di apposite convenzioni con le istituzioni interessate;

- partecipazione, con funzioni consultive, al Comitato per l'indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza del lavoro;

- consulenza alla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza del lavoro; - elaborazione, raccolta e diffusione delle buone prassi; - contributo al Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro.

Il ruolo dell’INAIL

L’attività dell’INAIL 55 si caratterizza nei seguenti compiti: a) raccogliere e registrare, a fini statistici e informativi, i dati relativi agli infortuni sul lavoro che

comportino un'assenza dal lavoro di almeno un giorno; b) realizzare studi e ricerche sugli infortuni e sulle malattie correlate al lavoro, coordinandosi con

il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali e l'ISPESL;

55L’INAIL, Istituto Nazionale Assicurazione contro Infortuni sul Lavoro, rappresenta l’assicurazione universale e obbligatoria per gli infortuni e le malattie professionali, ai sensi del D. Lgs. n. 38 del 23/02/2000 Disposizioni in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, a norma dell'articolo 55, 1° comma della legge 17 maggio 1999, n. 144 - e nonché di ogni altra disposizione previgente.

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c) partecipare alla elaborazione, formulando pareri e proposte, della normazione tecnica in materia;

d) erogare, previo trasferimento delle necessarie risorse da parte del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, le prestazioni assicurative.

Il D. Lgs. n. 38 del 23 febbraio 2000 prevede l’obbligo del datore di lavoro di assicurare i lavoratori presso l’INAIL contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. L’assicurazione obbligatoria riguarda i lavoratori manuali che siano adibiti direttamente a macchine, ad apparecchi a pressione, ad apparecchi ed impianti elettrici o termici (cosiddetto rischio specifico derivante direttamente dall’adibizione alle macchine) o che comunque operino nell’ambito di uno stabilimento che utilizzi simili apparecchiature (c.d. rischio ambientale). L’assicurazione obbligatoria, pertanto, è estesa anche ai lavoratori intellettuali addetti all’uso delle macchine ovvero che frequentano in modo stabile o normale lo stesso ambiente di lavoro o risultano comunque esposti a rischio professionale. Lo stesso obbligo è inoltre allargato, ai sensi del D. Lgs. n. 38/2000, ai lavoratori dell’area dirigenziale, agli sportivi professionisti, ai lavoratori italiani operanti in Paesi extracomunitari, ai lavoratori parasubordinati. Per quest’ultimi è previsto l’obbligo assicurativo oltre che per l’esposizione al rischio anche nel caso in cui l’attività, o in via occasionale, richieda l’utilizzo di un’autovettura condotta personalmente. L’infortunio sul lavoro si caratterizza per i seguenti elementi: lesione dell’integrità psicofisica, causa violenta e occasione di lavoro. L’indennizzabilità dell’infortunio sussiste anche in ipotesi di rischio improprio, cioè non intrinsecamente connesso allo svolgimento delle mansioni tipiche del lavoro svolto, ma insito in un’attività prodromica o strumentale allo svolgimento delle mansioni e quindi funzionalmente collegato alle prestazioni lavorative. È invece estranea all’occasione di lavoro l’ipotesi di rischio generico, quando appare collegato in modo esterno o meramente marginale rispetto all’attività lavorativa, o elettivo, quando si verifica una particolare situazione di pericolo non correlabile o spiegabile alla luce dell’attività lavorativa, ma determinata da mere scelte personali. L’infortunio in itinere viene subìto dal lavoratore nel recarsi sul luogo di lavoro ovvero fra due diversi luoghi di lavoro o nel normale tragitto di andata e ritorno rispetto al luogo dove il lavoratore consuma il pasto in assenza di un servizio mensa aziendale. L’assicurazione opera anche nel caso in cui si utilizzi un autoveicolo privato sia per motivi di natura oggettiva che soggettiva, di carattere sociale o familiare. L’unica clausola per cui l’assicurazione non opera, ai sensi della legge, è il caso in cui il conducente abusi di alcolici o psicofarmaci o non abbia abilitazione alla guida.

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Le prestazioni assicurative

A seguito delle modifiche introdotte dal D. Lgs. n. 38/2000 le prestazioni erogate dall’INAIL si distinguono a seconda che gli infortuni o le malattie professionali si siano verificati prima o dopo il 25/7/2000 (data di entrata in vigore del decreto del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale di approvazione delle tabelle e dei relativi criteri applicativi). Le principali prestazioni per gli infortuni verificatisi dal 25/07/2000 sono:

i. L’indennità per inabilità temporanea assoluta: si tratta di una indennità giornaliera che viene corrisposta nei casi di inabilità assoluta che comporti l’astensione dal lavoro per più di tre giorni. E’ finalizzata a risarcire il lavoratore della concreta perdita di capacità economica, causata dall’astensione effettiva dall’attività. Essa corrisponde al 60% del guadagno medio giornaliero, determinato dalla retribuzione complessiva dei 15 giorni immediatamente precedenti l’infortunio, per i primi 90 giorni e al 75% a partire dal 91° giorno (anche in caso di periodi non continuativi). L’indennità per inabilità temporanea assoluta decorre dal 4° giorno successivo all’infortunio. La legge n. 15/63 impone al datore di lavoro di corrispondere all’infortunato l’intera retribuzione, per la giornata in cui si è verificato l’infortunio e il 60% della stessa per i successivi tre giorni. Tale istituto è rimasto immutato anche dopo la riforma ex D. Lgs. n. 38/2000.

ii. Indennizzo per danno permanente: per i casi dal 25/7/2000 in poi i criteri adottati sono quelli stabiliti dal D. Lgs. n. 38/2000 e vanno ricondotti al c.d. “danno biologico”. In questi casi l’INAIL corrisponde un indennizzo in capitale, se si tratta di infortunati con postumi di grado compreso tra il 6% e il 15% calcolato senza alcun riferimento alla retribuzione. Indennizzo in rendita, se si tratta di infortunati con postumi di grado compreso tra il 16% ed il 100%. La rendita è costituita da una quota di indennizzo del danno biologico, calcolata secondo apposite tabelle (c.d. Tabella delle Menomazioni e Tabella indennizzo danno biologico), e una quota di indennizzo per le conseguenze patrimoniali della menomazione, calcolata sulla base delle retribuzione e di apposite tabelle, c.d. “Tabella dei coefficienti”.

Organi di vigilanza: AA.SS.LL. e Ispettorato del Lavoro

La legge di riforma sanitaria n. 833 del 1978 ha trasferito alle Aziende Sanitarie Locali le funzioni di vigilanza in materia di prevenzione infortuni e igiene del lavoro, che prima spettavano alla Direzione del Lavoro, all’ENPI e all’ANCC. Tale attribuzione è confermata dall’art. 13 del D. Lgs. n. 81/2008, che precisa come l’attività di vigilanza sull'applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è svolta anche e in sinergia con il personale ispettivo del Ministero del Lavoro, della Salute e della Previdenza Sociale. Ne deriva quindi che in alcuni settori alla competenza di carattere generale riconosciuta alle Aziende Sanitarie Locali si affianca quella dell’Ispettorato del Lavoro, ovvero del Servizio Ispezione del Lavoro facente capo alla direzione provinciale del lavoro. I poteri spettanti agli addetti dell’A.S.L. e agli ispettori della Direzione del Lavoro, nell’ambito delle rispettive competenze, sono i seguenti:

1. diritto di accesso ai luoghi di lavoro: diritto di visitare in ogni parte, a qualunque ora del giorno e della notte, i laboratori, gli opifici, i cantieri etc. nonché i dormitori e refettori annessi agli stabilimenti.

2. potere di denuncia: in virtù dell’art. 331 c.p.p. i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio devono fare denuncia per iscritto al p.m. o a un ufficio di polizia giudiziaria dei reati perseguibili d’ufficio di cui vengono a conoscenza nell’esercizio o a causa delle proprie funzioni o del proprio servizio. In tal modo si verificano delle sovrapposizioni fra la prevenzione di tipo amministrativo e l’attività giudiziale di repressione dei reati, che il legislatore dovrebbe invece mantenere distinte.

Queste difficoltà/inefficienze dettate dalle sovrapposizioni si acuiscono ulteriormente. Occorre rilevare, infatti, che per quanto di specifica competenza delle ASL, la vigilanza sull'applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro è attribuita anche alle autorità

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marittime a bordo delle navi ed in ambito portuale, agli uffici di sanità aerea e marittima, alle autorità portuali ed aeroportuali, per quanto riguarda la sicurezza dei lavoratori a bordo di navi e di aeromobili nonché ai servizi sanitari e tecnici istituiti per le Forze armate e per le Forze di polizia e per i Vigili del fuoco; i predetti servizi sono competenti altresì per le aree riservate o operative e per quelle che presentano analoghe esigenze. L'Amministrazione della giustizia inoltre può avvalersi dei servizi istituiti per le Forze armate e di polizia, anche mediante convenzione con i rispettivi Ministeri, nonché dei servizi istituiti con riferimento alle strutture penitenziarie. Il personale delle pubbliche amministrazioni, a qualsiasi livello, infine, se assegnato ad uffici che svolgono attività di vigilanza di salute e sicurezza sul lavoro, non può prestare, ad alcun titolo e in alcuna parte del territorio nazionale, attività di consulenza.

Vincoli normativi e/o responsabilità sociale delle imprese?

Evoluzione e riordino della normativa

Le strategie comunitarie per la salute e sicurezza sul lavoro hanno avviato un rinnovamento significativo rispetto all’impostazione originaria in materia di job protection della normativa italiana, in cui il fulcro del sistema era rappresentato dal carattere sanzionatorio. Questo carattere fortemente innovativo del nuovo approccio così delineato si basa espressamente su alcuni aspetti:

- un’impostazione globale del benessere sul luogo di lavoro, che prenda in considerazione le trasformazioni del mondo del lavoro e l’insorgenza di nuovi rischi mirando, per ciò solo, a migliorare la qualità del lavoro stesso;

- la concezione secondo cui un’ambiziosa politica sociale sia elemento di competitività e, di converso, la mancanza di strategia comporti costi sull’economia e sulla società;

- il consolidamento di una cultura di prevenzione dei rischi, attraverso una legislazione adeguata, il dialogo sociale, l’utilizzo di incentivi economici ed un’adeguata cultura della responsabilità sociale.

L’analisi europea riconosce pertanto la necessità di elaborazioni e proposte che siano volte ad assicurare il benessere psicofisico di ogni lavoratore e siano idonee a combattere i nuovi rischi sociali derivanti dai macrocambiamenti nell’organizzazione del lavoro: maggiore flessibilità e una gestione delle risorse umane maggiormente orientate al risultato. In tale prospettiva, da un lato viene sollecitata l’adozione di un sistema di vigilanza e sanzionatorio omogeneo, proporzionato e applicato in maniera efficace, dall’altro vengono valorizzati il dialogo sociale e le “buone prassi”. In questo contesto, sotto il primo profilo, l’emanazione di un Testo Unico è divenuta negli ultimi anni sempre più emergente proprio in vista di un riordino della normativa previgente, di una sua razionalizzazione e soprattutto di un’attualizzazione del precedente D. Lgs. n. 626/94. In questa prospettiva, il nuovo Codice per la Salute e Sicurezza sul Lavoro, D. Lgs. n. 81/2008, è riuscito a rispondere a queste attese? La risposta allo stato attuale non può che essere indicativa e provvisoria data la recente entrata in vigore della norma. In primis, l’aspetto più critico del decreto 626/94 che ha catalizzato l’emanazione di un nuovo decreto era rappresentato dall’area di applicazione della norma stessa: in esso, infatti, non erano considerate le nuove tipologie di lavoro, alternative al modello tradizionale dell’impiego a tempo pieno e indeterminato. Tipologie per cui la questione della salute e della sicurezza sul lavoro è ancor più emergenziale, come riconosce la stessa analisi comunitaria, in virtù di una maggior esposizione al rischio ascrivibile proprio alla temporaneità/precarietà della prestazione lavorativa, come alla mancanza di formazione e informazione. Non solo: un’altra delle questioni irrisolte del precedente decreto era rappresentata dai processi di scorporo e decentramento della grande impresa, controbilanciata dall’utilizzo di lavoratori somministrati, che alimentano fenomeni di esternalizzazione del rischio56. Rispetto a questa lacuna, è evidente come il grado di attualizzazione 56

Cfr. M. Biagi, B. Maiani, P. Pispisa, M. Tiraboschi, Tipologie di lavoro atipico e tutela dell’ambiente di lavoro, I.I.M.S. 2001.

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della nuova normativa non sia pervenuto a risultati rilevanti nell’ottica di un rinnovamento strategico del mondo del lavoro. Se confrontiamo i due decreti, infatti, non si nota un rinnovamento semantico sul piano soggettivo di applicazione della norma: l’inclusione delle nuove tipologie di lavoro, infatti, è ottenuta attraverso l’introduzione di alcuni commi che estendono le disposizione anche alle tipologie di lavoro regolate dal D. Lgs. n. 276/2003 (attuativo della c.d. Legge Biagi). In altri termini, manca un rinnovamento del linguaggio proprio nella misura in cui la modifica è di carattere accessorio e non sostanziale. L’uso della semantica estensiva di “lavoratore”, come viene definita nell’art. 257, non sembra pienamente giustificabile nel rispetto del contenuto particolare e significativo di ogni attività (si pensi solo al volontariato o al tirocinio formativo): quest’appiattimento e omologazione è in contraddizione sia con le nuove dinamiche del mondo del lavoro, in cui sempre più si afferma la parola “collaboratore”, rispetto al termine “lavoratore”, che con la logica di proattività che innerva le nuove strategie di gestione delle risorse umane e la questione della salute e sicurezza in particolare (si vedano gli “obblighi dei lavoratori” di cui sopra). Non solo l’ambiguità sull’uso della parola “lavoratore” si accresce se pensiamo che nelle aziende né i tirocinanti, né gli stagisti rientrano nelle logiche di computo del personale (l’organico) previste dalla normative, pur “collaborando” con l’organizzazione. Sul versante del riordino della normativa previgente e dello snellimento delle procedure, ritroviamo le stesse logiche contraddittorie espresse in un linguaggio obsoleto, lontane dalle indicazioni espresse nella nuova Strategia per la salute e sicurezza sul lavoro (2007-2012) – in cui viene fatto esplicito riferimento a un’attività di semplificazione delle norme, di facilitazione dell’attività di consulenza e sostegno (anche economico alle imprese) per assicurare la messa in sicurezza e la promozione della prevenzione nelle organizzazioni (vedi sopra). Sicuramente il Codice sulla sicurezza (D. Lgs. n. 81/2008) ha riordinato la normativa previgente abrogandola, ma non per questo ha armonizzato completamente la materia della sicurezza né tanto meno ha snellito il corposo impianto normativo e procedurale. La materia della sicurezza sul lavoro, infatti, non è ordinata nella misura in cui essa resta in capo a più attori normativi e attuativi. Non solo resta aperto il problema del riparto delle competenze tra Stato e Regioni, ma gli stessi Enti pubblici, preposti all’attuazione, alla promozione e alla vigilanza della sicurezza, sono molteplici. Questo fatto è all’origine di inefficienze attuative causate dalla sovrapposizione di ruoli, così come dalla proliferazione di leggi, decreti e provvedimenti per normare l’attività di ciascun ente. Agli enti pubblici nazionali e agli enti di governo territoriale, si sommano poi, ad appesantire la procedura, tutti gli organismi imprenditoriali e sindacali; nonché, infine, le stesse logiche decisionali di comitato e conferenze58 che sovraccaricano, rallentano e bloccano l’iter normativo. Entriamo nel dettaglio, per fare solo qualche esempio di questo profilo critico della normativa:

- L’integrazione degli enti e delle istituzioni di ricerca, formazione e informazione è solo parziale: le possibili sovrapposizioni tra INAIL, ISPSEL e IPSEMA sono demandate a logiche di coordinamento inter-conferenziale.

- Non è prevista un’azione normativa mirata a favore delle piccole e medie imprese, frammentariamente affrontate nel decreto, con rimandi a provvedimenti ad hoc successivi all’entrata in vigore della normativa (in dissonanza rispetto all’attenzione alle PMI presente nelle direttive comunitarie).

- Manca la previsione di un’organica e strutturata attività di controllo e vigilanza, a dispetto delle indicazioni europee.

57 "Lavoratore": persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un'arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari. 58 Cfr. art. 5 e 6: Comitato per l'indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro e la Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro, nonché la previsione di Comitati regionali di coordinamento (art. 7).

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- Le rappresentanze sindacali mantengono ruoli già riconosciti nell’ambito della contrattazione collettiva, non sono previste logiche di cogestione della sicurezza in chiave effettivamente partecipativa all’interno delle imprese, come previsto dalle direttive europee. La figura stessa del rappresentate dei lavoratori in quest’ottica non viene valorizzata in vista di sostenere azioni di positiva partecipazione tra i lavoratori e la dirigenza aziendale.

Buone prassi e Responsabilità Sociale d’Impresa

La Strategia Comunitaria per la Salute e la Sicurezza sul Lavoro mostra chiaramente come il rinnovamento auspicato nella prevenzione e sicurezza sul lavoro trovi il suo punto di ancoraggio nell’evoluzione di modelli comportamentali che contribuiscano a creare una cultura generale, nei termini comunitari. In quest’ottica, viene a più riprese ribadita, quasi come prassi attuativa delle strategie stesse, la promozione e diffusione di buone prassi, in quanto veicolo di sensibilizzazione e rafforzamento culturale. Il passaggio da un approccio meramente sanzionatorio a una strategia integrale, infatti, mette in questione la stessa capacità della legislazione di modificare/influenzare nuovi modelli comportamentali: nella strategia integrale così prospettata, il piano normativo è insufficiente senza la complementarità di azioni/pratiche positive capaci di coinvolgere e intercettare la volontarietà/la responsabilizzazione degli attori coinvolti verso nuovi approcci “strategici”. Da qui si evince l’importanza di portare l’attenzione al significato delle buone prassi che nascono e si sviluppano volontariamente a livello micro, nelle stesse organizzazioni, che ne riflettono autenticamente la cultura, il sentire, i valori che innervano l’organizzazione del lavoro al loro interno. Nel contesto della Strategia Europea, fin dalla prima programmazione, il ruolo centrale delle buone prassi è stato collocato nell’orizzonte più ampio della Responsabilità Sociale d’Impresa.

Responsabilità Sociale di Impresa e strategie per la salute e sicurezza sul lavoro

Il concetto di Responsabilità Sociale d’Impresa (d’ora in poi CSR, Corporate Social Responsability) è ampio e attraversa in modo trasversale l’idea di approccio gestionale strategico, includendo la relazione/interscambio tra l’organizzazione e il suo “ambiente”: la questione della salute e sicurezza si attaglia direttamente alla CSR. L’investimento nel capitale umano, infatti, rappresenta uno degli aspetti più qualificanti delle strategie e delle politiche di CSR, con riferimento alla dimensione interna. Al riguardo, il progetto italiano CSR-SC 59 da un lato sottolinea che nelle politiche del lavoro “le norme ILO costituiscono un global framework”60, che le imprese devono soddisfare nel campo della tutela dei diritti dei lavoratori; dall’altro, nel progetto sono stati individuati un’ampia serie di indicatori - a carattere qualitativo, quantitativo o economico - riferiti alle risorse umane, in relazione a cui effettuare la valutazione della rispondenza del comportamento aziendale ai principi della responsabilità sociale. Tra questi figurano quelli riferiti alla salute e sicurezza sul lavoro, focalizzati non solo sulla frequenza e sulla gravità degli infortuni e delle malattie, ma anche su eventuali progetti specifici innovativi nel settore (volti ad adeguarsi nonché ad andare oltre le prescrizioni normative) oltreché sull’adozione di appositi sistemi di gestione, in cui siano formalizzati la struttura organizzativa, le attività di pianificazione, la programmazione e il

59 Nell’ambito del semestre di presidenza Italiana dell’Unione Europea, l’Italia ha predisposto uno specifico progetto denominato CSR-SC (Corporate Social Responsability e Social Commitment). Cfr. Progetto CSR-SC – Il contributo italiano alla campagna di diffusione della CSR in Europa, a cura del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, presentato a Milano il 13 dicembre 2002; documento disponibile su www.welfare.gov.it. 60 Le quattro norme fondamentali del lavoro individuate dal Vertice mondiale per lo sviluppo sociale di Copenhagen del 1995, recepite poi nelle otto convenzioni ILO: Libertà di associazione ed effettivo riconoscimento della contrattazione collettiva (Convenzioni n. 87 e 98); Abolizione di tutte le forme di lavoro forzato o obbligatorio (Convenzioni n. 29 e 105); Effettiva abolizione del lavoro minorile (Convenzioni n. 138 e 182); Eliminazione della discriminazione in materia di impiego e professionale (Convenzioni n. 100 e 111).

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controllo, le responsabilità, le prassi, le procedure, i processi e le risorse per sviluppare, attuare e mantenere attiva la politica aziendale in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Emerge pertanto con evidenza il ruolo significativo attribuito alla salute e alla sicurezza sul lavoro nell’ambito complessivo delle strategie e delle politiche di gestione delle risorse umane. Il modello di impresa “comunitaria” socialmente responsabile risulta essere quello di un’impresa aperta al dialogo, disponibile alla consultazione e alla informazione con le controparti contrattuali anche in assenza di specifici obblighi di legge o negoziali.

Il tema della Responsabilità Sociale d’Impresa negli ultimi anni è venuto ad assumere un rilievo sempre più strategico, fino ad essere riconosciuta ufficialmente tra gli indirizzi normativi nazionali e comunitari. La prima definizione ufficiale di responsabilità sociale d’impresa si deve al Libro Verde61 del 2001 che ha definito la Corporate Social Responsability,come “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. Nella definizione si specifica altresì che le imprese devono “non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là investendo di più nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate”. Nonostante lo sforzo della Commissione Europea si sia identificato nel riconoscimento di conoscenze comuni e codici definiti in sede internazionale, per raggiungere un quadro standard di parametri e di trasparenza delle pratiche di CSR, queste azioni sono sempre state controbilanciate dall’interesse a salvaguardare la caratteristica peculiare della stessa CSR: il principio della volontarietà. Nel Libro Verde, si esprime la preoccupazione di “garantire una valutazione efficiente e una verifica indipendente delle procedure di responsabilità sociale delle imprese”. Lungi dall’imporre soluzioni normative omologanti e rigide, le istituzioni comunitarie hanno rispettato la logica del self restraint, lasciando agli Stati Membri e alle imprese la facoltà, rispettivamente, di dettare una regolamentazione al riguardo, di autolimitarsi e di procedimentalizzare le proprie iniziative anche in funzione delle logiche di mercato.

CSR nella normativa italiana in materia di salute e sicurezza sul lavoro

La CSR si propone come fenomeno protagonista, riconosciuto anche a livello normativo, del nuovo approccio gestionale auspicato per la diffusione e l’efficacia di una cultura della prevenzione. Tuttavia, il ruolo centrale che la CSR dovrebbe svolgere, sotto questo riguardo, nelle pratiche e nella gestione della salute e sicurezza sul lavoro trova degli ostacoli, o per lo meno delle contraddizioni nell’orizzonte normativo italiano. Nonostante le dichiarazioni programmatiche, il richiamo alle buone prassi e alla stessa CSR siano presenti nel nuovo Codice della Sicurezza (D. Lgs. n. 81/2008), è inevitabile qui considerare i limiti di esercizio effettivo di buone prassi che si insinuano nella contrapposizione tra il carattere volontaristico della CSR e la corposità e complessità della normativa italiana. In altri termini, la capillarità, l’articolazione e la proliferazione di attori, enti ed istituti presenti nel Codice della sicurezza sembrano avallare l’idea che l’intenzionalità del legislatore sia rimasta ancorata all’approccio sanzionatorio: è la normativa che veicola e promuove le prassi comportamentali.

61 Libro Verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”, Bruxelles, 18/7/2001, COM (2001), 366 def.; per una lettura critica si veda Massaini, La responsabilità sociale delle imprese, in Dir. prat. lav., 2004, n. 23. In relazione alle aree di intervento nel Libro Verde sono individuate tra le priorità: formazione e riqualificazione; conciliazione lavoro-famiglia (work-life balance); pari opportunità; interventi per la salute e sicurezza sui luoghi di lavoro con particolare attenzione ai processi di “esternalizzazione” dei lavori; gestione equilibrata delle ristrutturazioni; controllo e riduzione delle ripercussioni dell’attività dell’impresa sull’ambiente.

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Nei Paesi o nei settori in cui il tasso di normazione è particolarmente basso la CSR può trovare la sua maggiore esplicazione. Negli ambiti, infatti, in cui i comportamenti degli operatori commerciali non siano limitati alla inderogabilità legale, vi è più spazio per condotte volontariamente dirette a soddisfare esigenze etico-sociali. È lo stesso principio della volontarietà, in realtà, ad escludere che pratiche socialmente responsabili possano essere concepite ed attuate in termini di doverosità giuridica. In questo senso, principi, criteri, direttive e linee-guida della CSR sembrerebbero da ricondursi ai caratteri delle soft laws62: esse sono pratiche frutto di un’elaborazione spontanea che nasce e si autoregolamenta direttamente attraverso gli imprenditori, caratterizzate da grande flessibilità per essere adattate rapidamente alla continua evoluzione a cui sono soggetti taluni settori e idonee a favorire il recepimento delle best practices, rilevate in ambito nazionale, comunitario e internazionale. La formalizzazione di codici di condotta, pertanto, sarà più agevole in aree in cui alle lacune normative si supplisce con la forza regolamentare attribuita, in chiave eterointegrativa del contenuto negoziale e delle reciproche obbligazioni, ai principi di correttezza e buona fede.

Una forte spinta verso un atteggiamento più collaborativo da parte delle imprese e maggiormente attento alle problematiche sociali potrebbe venire da una disciplina legislativa che premi quelle imprese che decidano di adottare politiche socialmente responsabili. In quest’ultima prospettiva, i meccanismi di agevolazione finanziaria e di moral suasion messi a punto dal Governo Italiano nel progetto CSR-SC sono indubbiamente uno dei possibili strumenti con cui perseguire e promuovere comportamenti socialmente responsabili. Di converso, il meccanismo approntato nel Testo Unico sulla Sicurezza ai destinatari del rispetto di prassi socialmente responsabili desta qualche perplessità. Più in particolare, le buone prassi sembrano considerate come misure attuative della norma-cardine dell’art. 2087 c.c: le “buone prassi” vengono definite ai sensi dell’art.2 come:

«soluzioni organizzative o procedurali coerenti con la normativa vigente e con le norme di buona tecnica, adottate volontariamente e finalizzate a promuovere la salute e sicurezza sui luoghi di lavoro attraverso la riduzione dei rischi e il miglioramento delle condizioni di lavoro, elaborate e raccolte dalle regioni, dall'Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (ISPESL), dall'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) e dagli organismi paritetici di cui all'articolo 51, validate dalla Commissione consultiva permanente di cui all'articolo 6, previa istruttoria tecnica dell'ISPESL, che provvede a assicurarne la più ampia diffusione».

L’art. 6, sulla Commissione Consultiva permanente, nel comma 8° esplicita questo punto, laddove indicizza i compiti della commissione:

«[…] (lett. (g) definire criteri finalizzati alla definizione del sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi di cui all'articolo 27. Il sistema di qualificazione delle imprese63 è disciplinato con decreto del Presidente della Repubblica, acquisito il parere della Conferenza per i rapporti permanenti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, da emanarsi entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto; (lett. (h) valorizzare sia gli accordi sindacali sia i codici di condotta ed etici, adottati su base volontaria, che, in considerazione delle specificità dei settori produttivi di riferimento, orientino i comportamenti dei datori di lavoro, anche secondo i principi della responsabilità sociale, dei lavoratori e di tutti i soggetti interessati, ai fini del miglioramento dei livelli di tutela definiti legislativamente;[…] (lett. (m) indicare modelli di organizzazione e gestione aziendale ai fini di cui all'articolo 30».

62 Cfr. Il dialogo sociale per la tutela della Salute sul Lavoro, intervento del dott. Giovanni Maria Pirone al forum della P.A. 2003 sul sito dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale: www.iims.it. Cfr. anche V. Casamassa, Nuove prospettive metodologiche nel diritto civile. Il tramonto dell’esperienza giuridica tradizionale e il declino delle antiche categorie dogmatiche, fra soft law e Codice civile europeo, www.filodiritto.com 63

Per quanto concerne i possibili modelli di qualificazione e certificazione legittimati dalla normativa, l’art. 30, 5° comma fornisce come indicazioni, già citate, le Linee guida UNI-INAIL e le British Standard OHSAS 18001:2007.

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Sennonché, affermare che le “buone prassi” certificate da organismi super partes costituiscano, per l’imprenditore, attuazione dell’art. 2087 c.c., includendole nel contenuto dell’obbligo di sicurezza, se può in qualche modo giustificare richieste risarcitorie da parte del lavoratore, tuttavia lascia altrettanto spazio al soggettivismo giudiziale e, comunque, comporta un uso distorto e, come tale, pericoloso della generale norma protettiva contenuta nell’art. 2087 c.c.. Tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore non significa, del resto, legittimare forme di eteroimposizione del voluto negoziale, con l’avvallo di soggetti esterni e privi del potere di vincolare le imprese sino ad imporre, al di là del mero rispetto delle leggi vigenti, nuove logiche e strategie comportamentali. Il passaggio dall’etica del profitto all’etica del sociale e, nel caso della salute e sicurezza sul lavoro, al riconoscimento della salute come bene capitale, necessita di un percorso complesso, il cui traguardo è rappresentato da uno scenario nel quale le imprese non guardano solo agli interessi economici in gioco nell’immediato e non perseguono unicamente la logica del profitto nel breve periodo, ma prestano sempre più attenzione anche alle ragioni della società, intesa in senso ampio. La responsabilità sociale, applicata all’ambito della salute e sicurezza del lavoro, peraltro faciliterebbe i processi di coesione interna, mentre all’esterno risponderebbe alle attese di immagine sociale dell’organizzazione, oggi sempre più importante, influendo positivamente sul profitto di lungo periodo e assicurando un incremento delle performances.

Lo sviluppo della CSR come promozione della cultura della prevenzione in Italia può forse esaurirsi in un “marchio” di eticità obbligatorio? In questo modo, non verrebbe depauperato l’orizzonte culturale della prevenzione della salute, rientrando nelle logiche sanzionatorie/garantistiche del diritto alla salute del lavoratore? Certamente negli ordinamenti di common law è più agevole, in assenza di quell’eccesso di normazione tipico dei sistemi di civil law, attribuire efficacia vincolante alle autoregolamentazioni etiche, uti singoli o per settore merceologico o produttivo, che il mercato potrebbe imporre agli operatori commerciali. È la stessa evidenza empirica che sollecita a riflettere attentamente. In Paesi come il Regno Unito, come messo in evidenza nelle tabelle di benchmark europee, o gli USA, entrambi a regime di common law, si registrano infatti forti culture della prevenzione, bassi livelli di diffusione infortunistica, alti livelli di programmazione della vigilanza sulla normativa, monitoraggio e cura per la riduzione delle malattie correlate al lavoro, nonché un’attenzione matura per le nuove forme di rischio psicosociale e le patologie connesse e, infine, quale conseguenza, un alto tasso di partecipazione della forza lavoro al mercato del lavoro (comprese donne e lavoratori senior).

In ogni caso, al di là dei diversi impianti giuridici, qualunque sia la soluzione prescelta dai legislatori nazionali per assicurare l’osservanza di prassi socialmente responsabili, sta di fatto che l’introduzione e la diffusione di pratiche di CSR potrebbe, di certo, contribuire alla metabolizzazione delle norme stesse da parte delle imprese, così da favorirne l’introiezione spontanea nei loro codici di condotta e rafforzarne così l’effettività. Del resto, la stessa Costituzione all’art. 41, sancisce che la funzionalizzazione dell’iniziativa privata all’utile sociale costituisce un limite esterno ad una arbitraria ricerca del profitto, con particolare riguardo alla tutela della sicurezza, libertà e dignità umana: ciò rappresenta pertanto un forte incentivo allo sviluppo di prassi imprenditoriali conformi a canoni di buona fede e trasparenza. In un simile contesto, i doveri imputabili all’imprenditore non possono essere ricostruiti in termini di mere obbligazioni naturali, ma si situano in un’area di confine tra la doverosità giuridica e la correttezza comportamentale. Da comportamenti socialmente responsabili imposti, cui conseguirebbero malcelati tentativi elusivi, si può, invero, passare ad una cosciente e coscienziosa “responsabilizzazione” delle imprese? Di nuovo si invita a riflettere sul leit-motiv delle prime battute: la prevenzione è un “miracolo” realizzabile dall’uomo - aurora del giorno nuovo.

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RICERCA FIELD

Risultati adesioni e campionamento

Per raggiungere il campione di 30 organizzazioni disposto dal protocollo di ricerca sono state contattate 341 organizzazioni, distribuite in tutto il territorio nazionale, appartenenti a tutti i settori produttivi (agricoltura, industria e costruzioni, servizi – in cui è compresa anche la Pubblica Amministrazione) nonché di diverse dimensioni (PMI, grandi, nazionali e multinazionali)64. La percentuale di rispondenza delle organizzazioni al progetto è stata dell’8,8%.

La ricerca delle aziende è avvenuta sia estraendo i contatti da un database interno della Fondazione ISTUD sia attraverso una ricerca mirata su Internet. Lo studio svolto, infatti, è di natura osservazionale: la numerosità limitata del campione scelto (30 organizzazioni) è stata dettata dall’esigenza di mappare longitudinalmente la situazione delle organizzazioni in vista di uno studio puntiforme del territorio capace di intercettare le molteplici variabili indicate (settori, dimensioni e collocazione geografica). La rispondenza rispetto allo studio rappresenta un indicatore significativo dell’atteggiamento e della cultura delle organizzazioni in tema di salute e sicurezza sul lavoro, della chiusura/diffidenza rispetto alle istituzioni e della eterogeneità dei tessuti produttivi del nostro Paese. In questo senso, gli assenti, le organizzazioni che non hanno risposto, sono il rovescio della medaglia dei presenti: le “non adesioni” come le adesioni sono indicatori rilevanti nella misura in cui entrambe sono manifestazioni di situazioni contraddittorie rispetto al livello di maturità culturale o all’effettiva ed efficace gestione interna della salute e sicurezza sul lavoro. La non adesione va interpretata come chiusura/diffidenza rispetto a professionisti terzi o al controllo normativo? O piuttosto deve sollecitare considerazioni più radicali, ovvero pensare che gli assenti in qualche modo non hanno voluto esporsi a possibili critiche? O ancora esistono effettivamente delle motivazioni interne, gestionali, che hanno impedito una partecipazione diversamente bene accetta? E i presenti, invece, hanno aderito perché consapevoli di poter rendere pubblica una situazione premiabile, matura in termini di cultura della salute e sicurezza sul lavoro?

Costruzione del campione di organizzazioni contattate

La ricerca delle organizzazioni è stata condotta sulla base dell’osservazione dei settori a maggior frequenza di rischio infortunistico, della collocazione geografica e delle dimensioni aziendali. Per mostrare l’impianto ipotetico della ricerca, di seguito si procederà all’analisi del campione scomponendolo secondo queste variabili.

64 La definizione è stabilita, a livello comunitario, nella raccomandazione pubblicata sulla GUCE del 30/04/1996 ed è stata aggiornata al 1° Gennaio del 2005 in cui sono entrati in vigore i nuovi parametri. La normativa comunitaria e, di riflesso anche la normativa italiana, identifica l'appartenenza a queste categorie attraverso tre criteri, valutati in modo "cumulativo", nel senso che almeno due devono rientrare nelle soglie stabilite. In sintesi sono considerate grandi imprese quelle che abbiano almeno 2 dei 3 requisiti: dipendenti (maggiore di 249 unità); fatturato (maggiore di 50 ML di euro); attivo patrimoniale (maggiore 43 ML di euro). Se sussiste solo un requisito allora rientra nella definizione di PMI . Multinazionale, invece, è qualsiasi impresa, di norma una società, che organizza la sua produzione in almeno due Paesi diversi. La multinazionalità riguarda due aspetti. Nel primo caso, la dispersione geografica delle attività dell'impresa: le multinazionali svolgono attività, anche molto varie tra loro (lavorazione, assemblaggio, commercializzazione) in Paesi diversi. In secondo luogo, la concentrazione della proprietà, o internalizzazione di tali attività. Un'impresa è multinazionale quando l'attività estera non è delegata ad un'impresa locale (esternalizzata) ma è svolta direttamente da una controllata dell'impresa stessa.

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La natura osservazionale e non probabilistica dello studio esplicita le differenze rilevabili tra un’analisi della segmentazione settoriale dell’occupazione in Italia rispetto alla segmentazione perseguita nella costruzione del campione (341 organizzazioni contattate). I dati riportati di seguito mettono a confronto la media nazionale rispetto al campione costruito.

Tabella 7.

Fonte: Forze Lavoro ISTAT 2008

Questa fotografia sull’occupazione italiana del 2008 è perfettamente in linea con l’ormai consolidata tendenza alla terziarizzazione dei mercati del lavoro nei Paesi Europei, come nelle economie avanzate in genere. Tuttavia, rispetto alla questione della salute e sicurezza sul lavoro, il benchmark tra i settori è esattamente capovolto: i servizi, infatti, sul versante dell’infortunistica (e non della malattia professionale), risultano il settore più “sicuro”. Nella tabella seguente, sempre sulla base dei dati del 2008, si riporta un benchmark tra i settori, costruito calcolando una stima della frequenza percentuale di infortuni e di infortuni mortali, ovvero della pericolosità/gravità degli stessi. Tabella 8. Frequenze infortunistiche e frequenze di infortuni mortali sugli occupati per settore (dati 2008)

Dati elaborati da ISTUD su fonti INAIL e ISTAT

Date queste informazioni, si può ora analizzare il campione di aziende contattate. Poiché il mandato della ricerca prevedeva la costruzione di un campione di minimo 10.000 occupati e 30 organizzazioni, inizialmente abbiamo studiato l’andamento generale del fenomeno infortunistico rispetto alla popolazione occupata complessiva per capire su quali settori far convergere la ricerca delle aziende. Tuttavia, al di là di questa fase iniziale, l’unità di base statistica e d’indagine sono state le organizzazioni: per questo da qui in poi la nostra ricerca avrà come riferimento l’unità organizzativa e non il numero di addetti.

Occupati per settore di attività in Italia – valori assoluti

Agricoltura 895.000

Industria e costruzioni

6.955.000

Servizi (inclusa PA)

15.555.000

TOTALE 23.405.000

Settore Occupati Nr.

Infortuni Nr. Casi mortali

Nr. Infortuni /Nr. Occupati

Nr. Morti/Nr. Infortuni

Agricoltura 895.000 53.278 121 5,96% 0,23% Industria e costruzioni

6.955.000 367.132 554 5,28% 0,15%

Servizi (inclusa PA)

15.555.000 454.530 445 2,92% 0,098%

4%

30%

66%

Occupati per settore di attività

2008

Agricoltura Industria e costruzioni

Servizi (inclusa PA)

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Il campione di aziende contattate è così rappresentabile:

Tabella 9.

Settore Organizzazioni

Contattate Agricoltura 10 Industria e costruzioni

235

Servizi Di cui PA

96 -20

Totale 341 Per mostrare il rapporto tra media nazionale e popolazione organizzativa di riferimento, in merito alla scomposizione dei settori produttivi, è necessario premettere una considerazione sull’attuale contesto economico di crisi. Lo scouting delle aziende, infatti, inizialmente programmato tra gennaio e aprile 2009, è stato procrastinato fino a luglio 2009: la fase di implementazione dello studio, infatti, ha coinciso con il periodo in cui è esplosa la crisi economica e le prime ricadute sul versante occupazionale. Questa precisazione è fondamentale per capire la difficoltà ad avere accesso ai settori più colpiti, così come il “coraggio” da premiare e riconoscere di adesioni legate a settori attualmente fragili.

Grafico 2. Andamento dell’occupazione totale per settori in Italia

Fonte CNEL: Tratto da Mercato del Lavoro – Notiziario trimestrale, Apr. 2009, n. 3

Il grafico realizzato dal CNEL evidenzia la disomogeneità settoriale dell’andamento occupazionale nel IV trimestre 2008: se alcuni settori hanno subito un’inflessione negativa, altri invece hanno registrato crescite rilevanti. In questo quadro economico, pertanto, la crisi ha rappresentato un’esternalità negativa dell’ambiente organizzativo, condizionando in parte la pesatura del numero di aziende da contattare per incontrare adesioni al progetto. Come si può vedere nella tabella di sintesi seguente.

3%

69% 22%6%

28%

Campione organizzazioni

contattate

Agricoltura Industria e costruzioni Servizi Pa

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Tabella 10. Rappresentazione dei settori nel campione costruito (%) rispetto alla media nazionale e alla frequenza di infortuni (%) Il confronto tra le variabili focalizza il disegno della ricerca svolto nella costruzione del campione. Nel settore agricolo, che presenta il più alto livello di rischio, la numerosità della popolazione di organizzazioni prese in considerazione risulta allineata con la media occupazionale nazionale. I settori dell’industria e costruzioni presentano invece valori pressoché speculari rispetto alla variazione percentuale tra media nazionale e organizzazioni contattate: questa situazione si spiega in parte per il livello di rischio infortunistico presente nell’industria e nelle costruzioni, quasi doppio rispetto ai servizi, in parte proprio come riflesso della crisi economica che ha ostacolato molte realtà manifatturiere ed edili, in particolare le PMI, rispetto all’interesse/possibilità di partecipare allo studio. Bisogna sottolineare inoltre che il settore dei servizi include la Pubblica Amministrazione, che sul campione costruito incide in modo significativo (6%), se confrontato ad esempio con i valori assoluti dell’Agricoltura. Questa scelta trova la sua ratio nell’indagine complementare agli infortuni sulla malattia del lavoro e le nuove forme di rischio per la salute, che si attagliano eminentemente alla dimensione psichica. Come presentato nella ricerca desk, il settore dei servizi risulta il più esposto a fattori stressogeni e a forme di malattia/disagio diverse dall’evento infortunistico, ma egualmente lesive sul piano patologico. Data la complessità e soprattutto la difficoltà di rilevare oggettivamente queste nuove forme di rischio, si è scelto di concentrare l’attenzione su una manifestazione specifica dello stress-da-lavoro-correlato: la sindrome di burnout nelle helping professions. Scuole e Aziende Ospedaliere, infatti, rappresentano il 6% del campione di organizzazioni contattate.

Rispondenza delle organizzazioni per settore, collocazione geografica e dimensione

Settori

La scomposizione per settore delle 30 organizzazioni aderenti e le percentuali di adesione riflettono i caratteri e le difficoltà di implementare lo studio osservazionale sopra descritto. Tabella 11. Percentuale di rispondenza delle organizzazioni per settore produttivo

Settore Valore

Nazionale

Valore del campione di riferimento (341

organizzazioni)

Variazione %

Freq. di Infortuni

(%) Agricoltura 3% 3% - 5,96 Industria e costruzioni

30% 69% +39% 5,28

Servizi 66% 28% -38% 2,92

Settore Organizzazioni

contattate Organizzazioni

aderenti %

di rispondenza Agricoltura 10 1 10 Industria e costruzioni

235 17 7,2

Servizi Di cui PA

96 -20

12 -6

12,5 30

TOTALE 341 30 8

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- Il settore Industriale, pur avendo il primato in rappresentazione nel campione costruito, registra la più bassa percentuale rispondenza. Il dato in questo caso deve essere letto da due punti di vista. Il denominatore elevato, l’alto numero di aziende contattate, è condizionato dalla crisi e determina un abbassamento della rispondenza. Tuttavia, lo stesso risultato è significativo, in termini assoluti (17 organizzazioni/30), e costituisce un indice di come la crisi abbia colpito anche il manifatturiero in modo disomogeneo: su 17 organizzazioni 5 provengono dall’industria farmaceutica e biomedicale, che non ha subito inflessioni negative; mentre si trovano due organizzazioni dall’industria alimentare, due dall’industria dell’abbigliamento, una dall’arredamento e complementi, una dall’industria dei mezzi di trasporto, tre industrie metalmeccaniche, un’industria di cantieristica navale, una legata alla lavorazione di minerali non metalliferi e una dalle costruzioni. Sotto questo riguardo, quindi pur riflettendo l’impatto della crisi, il campione non ne è stato interamente condizionato e persistono presenze esemplari del settore Industriale, specialmente in quelle lavorazioni e produzioni ad alto livello di rischio infortunistico e per la salute, derivanti dall’esposizione ad agenti tossici.

− L’Agricoltura, invece, in termini assoluti ha una rappresentanza debole: questo perché le

organizzazioni che effettivamente rientrano in questo settore, che cioè non si occupano di lavorazione e trasformazione del prodotto, come emerge dai dati precedenti sull’occupazione nazionale, sono poche e per la maggior parte piccole o medie imprese a conduzione familiare, realtà nelle quali è ancora presente una certa diffidenza/chiusura.

− Nei Servizi, e nella Pubblica Amministrazione in particolare, si rileva il più alto gradiente di

rispondenza al progetto, con un valore quasi tre volte superiore per la Pubblica Amministrazione. Vale qui precisare, sempre rispetto all’incidenza della crisi, che tra le organizzazioni aderenti si trovano: due organizzazioni delle telecomunicazioni, due di servizi alle imprese, una organizzazione bancaria.

Dimensioni

Tabella 12. Percentuale rispondenza organizzazioni per dimensione

DIMENSIONI Organizzazioni

Contattate Organizzazioni

Aderenti %

di rispondenza PMI 164 8 4,8

GRANDI 110 6 5,5 MULTINAZIONALE 47 6 12,8

La dimensione delle organizzazioni rappresentate nel campione, che in questo caso non tiene conto della pubblica amministrazione, registra un risultato netto: le PMI, nonostante l’alto numero di realtà contattate, mostrano una forte resistenza a partecipare. Lo stesso risultato, sebbene con valori percentuali di rispondenza lievemente superiori (+0,7%), si incontra nella rappresentazione delle grandi imprese: in questo senso, è bene precisare che in questa categoria rientrano tutte le realtà superiori a 250 u.l.a. (unità lavorative autonome) che non abbiano attività produttive all’estero. Quest’aspetto è significativo: nella fattispecie “grande impresa” vengono a confronto organizzazioni con capacità produttive e gestionali, soprattutto in termini di investimenti in salute e sicurezza, assolutamente eterogenee - solo per fare una esempio, nel presente campione coesistono imprese di circa 300 addetti con altre che superano gli 8.000. Le multinazionali, infine, si confermano come le organizzazioni che si sono mostrate più aperte e disponibili al progetto di ricerca.

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Collocazione geografica

È interessante infine studiare la dispersione geografica delle aziende aderenti, a due livelli: in generale, ovvero rispetto all’intero campione, e nel dettaglio, esaminando ogni area geografica secondo le stesse variabili adottate (settore e dimensioni). Tabella 13. Percentuale di rispondenza delle organizzazioni per area geografica

Collocazione Geografica

Organizzazioni Contattate

Organizzazioni Aderenti

% di rispondenza

NORD 170 14 8,2 CENTRO 125 9 7,2

SUD 46 7 15,2

Sul campione di 30 aziende il Sud del Paese registra il più alto livello di rispondenza. È evidente quindi che questo risultato non ha alcuna rispondenza con il tasso di produttività delle aree geografiche a livello nazionale. Se questo tipo di confronto risulta qui inutile e fuorviante, al contrario è interessante leggere all’interno di questi risultati per interpretarli: quali organizzazioni hanno risposto al Sud, al Nord e al Centro? E di quali dimensioni?

Livello di apertura nelle zone d’Italia per settore e dimensione

1. NORD: - Rispondenza per settore

Tabella 14. Nord: Percentuale di rispondenza per settori

Settore Organizzazioni

contattate Organizzazioni

Aderenti %

di rispondenza Agricoltura 6 0 0 Industria e costruzioni

115 10 8,6

Servizi Di cui PA

49 5

4 2

8,1 40

- Rispondenza per dimensione

Tabella 15. Nord: Percentuale di rispondenza per dimensioni

DIMENSIONI Organizzazioni

Contattate Organizzazioni

Aderenti %

di rispondenza PMI 48 1 2

GRANDI 79 4 5 MULTINAZIONALE 38 7 18

Incrociando ora le due variabili, settore e dimensione, emerge il tessuto produttivo che ha risposto al progetto nel Nord del Paese: il 50% delle rispondenti sono multinazionali, cui segue la rispondenza della pubblica amministrazione (40%), le aziende, inoltre, risultano per lo più concentrate nel settore Industriale. La tabella seguente esplicita nel dettaglio queste analisi.

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Tabella 16. Dati riassuntivi adesioni al progetto nel Nord: settori e dimensioni

2. CENTRO: - Rispondenza per settore

Tabella 17. Centro: Percentuale di rispondenza per settori

Settore Organizzazioni contattate

Organizzazioni Aderenti

% di rispondenza

Agricoltura 3 0 0 Industria e costruzioni

94 6 6,3

Servizi Di cui PA

28 6

3 1

10,7 16

- Rispondenza per dimensione

Tabella 18. Centro: Percentuale di rispondenza per dimensioni

DIMENSIONI Organizzazioni

Contattate Organizzazioni

Aderenti % di

rispondenza PMI 85 4 4,7

GRANDI 24 1 4,1 MULTINAZIONALE 10 3 30

In generale, come già visto, il Centro registra la più bassa rispondenza per settore rispetto alle altre aree. Soprattutto se confrontiamo il Centro e il Nord, emerge una scomposizione per settori diversa, con una netta prevalenza per i servizi rispetto all’industria, che si attesta ad una percentuale inferiore nonostante il numero di contatti sia tre volte maggiore. Il dato più interessante, sul campione di 30 organizzazioni, è la bassa rispondenza della Pubblica Amministrazione rispetto alle altre zone. Sul versante dimensionale, invece si conferma quanto visto per il Nord: le multinazionali mostrano un livello di rispondenza più alto delle altre. Qui, infine, diversamente dal Nord, l’adesione delle PMI è più alta delle grandi, questo dato, tuttavia, deve essere letto alla luce del tessuto produttivo più che in termini diretti di rispondenza: il Centro infatti è caratterizzato dalla presenza di distretti industriali costituiti da PMI, per questo i contatti hanno privilegiato questa direzione. Per avere maggior chiarezza dei dati, anche qui incrociamo le variabili dimensioni/settore.

SETTORE DIMENSIONI

PMI GRANDI MULTINAZIONALI Contattate Aderenti Contattate Aderenti Contattate Aderenti

Agricoltura 1 0 5 0 0 0 Industria e costruzioni

33 1 57 3 25 6

Servizi 14

0 17 1 13 1

PA Scuole: 3 contattate, 1 aderente Ospedali: 2 contattati, 1 aderente

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Tabella 19. Dati riassuntivi adesioni al progetto nel Centro: settori e dimensioni

3. SUD

- Rispondenza per settore

Tabella 20. Sud: Percentuale di rispondenza per settori

Settore Organizzazioni Contattate

Organizzazioni Aderenti

% di rispondenza

Agricoltura 1 1 100 Industria e costruzioni

27 1 3,7

Servizi Di cui PA

18 9

5 3

27,8 33,4

- Rispondenza per dimensione

Tabella 21. Sud: Percentuale di rispondenza per dimensioni

DIMENSIONI Organizzazioni

Contattate Organizzazioni

Aderenti %

di rispondenza PMI 29 3 10,3

GRANDI 7 1 14,2 MULTINAZIONALE 0 0 0

L’analisi dei dati evidenzia come tra le organizzazioni aderenti al Sud ci sia una forte componente legata alla Pubblica Amministrazione (3 organizzazioni su 7 aderenti), nonostante il valore di rispondenza sia comunque inferiore che al Nord. Positiva è la presenza dell’Agricoltura; mentre la percentuale di rispondenza dell’Industria è dimezzata rispetto alle altre aree. Sotto il profilo dimensionale, scompare la variabile “multinazionale”, anche qui il dato è riflesso del tessuto produttivo, mentre è lievemente superiore la rispondenza delle grandi imprese rispetto alle PMI. La tabella seguente esplicita nel dettaglio queste analisi. Tabella 22. Dati riassuntivi adesioni al progetto nel Sud: settori e dimensioni

SETTORE DIMENSIONI

PMI GRANDI MULTINAZIONALI Contattate Aderenti Contattate Aderenti Contattate Aderenti

Agricoltura 3 0 0 0 0 0 Industria e costruzioni

69 4 16 0 9 2

Servizi 13

0 8 1 1 1

PA Scuole: 5 contattate, 0 aderenti Ospedali: 1 contattati, 1 aderente

SETTORE DIMENSIONI

PMI GRANDI MULTINAZIONALI Contattate Aderenti Contattate Aderenti Contattate Aderenti

Agricoltura 1 1 0 0 0 0 Industria e costruzioni

21 1 7 1 0 0

Servizi 7

1 1 1 0 0

PA Scuole: 5 contattate, 2 aderenti Ospedali: 4 contattati, 1 aderente

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Risultati dell’indagine quantitativa: analisi dei questionari

L’indagine field, come descritto nella Nota metodologica introduttiva, è stata condotta attraverso due strumenti: la somministrazione di un questionario quantitativo e le interviste semi-strutturate in presenza rivolte ai responsabili organizzativi coinvolti nella gestione delle risorse umane e della sicurezza. Prima di entrare nel dettaglio dei risultati e nella loro interpretazione, ci soffermeremo ora a descrivere la metodologia di rilevazione statistica e la qualità delle informazioni pervenute attraverso i questionari. È importante infatti sottolineare che non essendo il campione da noi costruito rappresentativo in chiave probabilistica del tessuto organizzativo nazionale, bensì osservazionale e puntiforme, i risultati che possiamo qui presentare trovano il vero valore aggiunto nell’approccio qualitativo dell’indagine. Dopo aver mostrato come i dati quantitativi da noi registrati sulla popolazione occupata di riferimento siano allineati con i trend relativi alla media nazionale, il dato numerico servirà da supporto all’interpretazione e conoscenza delle reali tendenze e comportamenti in tema di salute e sicurezza delle risorse umane rinvenute nell’indagine qualitativa, in profondità.

Premessa metodologica

Le informazioni contenute nel questionario65 somministrato sono insiemi aggregati di dati in cui compaiono informazioni diverse a seconda della tipologia dell’unità e più precisamente:

– Aziende private e organizzazioni ospedaliere - numero dei collaboratori - numero dei collaboratori di fascia protetta - collaboratori stranieri (comunitari ed extracomunitari) - numero dei contratti - numero giornate perse per malattia - tipi di malattie - retribuzione giornaliera - numero infortuni

– Scuole

- numero dei collaboratori - numero docenti - numero alunni - numero alunni stranieri (comunitari ed extracomunitari) - numero giornate perse per malattia - tipi di malattie - retribuzione giornaliera - numero infortuni

I dati sono stati inseriti in un file Excel composto da due fogli, uno per le aziende private e l’altro per la Pubblica Amministrazione (scuole e aziende ospedaliere), a cui è seguito un controllo da parte di un altro operatore. Il file Excel finale è stato quindi convertito ed analizzato in SAS versione 9.1 (Statistical Analysis System). La stragrande maggioranza delle analisi riportano tabelle di frequenza assoluta e relativa eccetto per la retribuzione giornaliera sulla quale si è operato il calcolo della media, deviazione standard,

65

Lo strumento è descritto anche nella Nota metodologica e riportato per intero nell’Appendice.

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mediana, minimo e massimo e per la proporzione di infortuni calcolata come numero di infortuni sul numero di collaboratori. I missing sono stati sostituiti con il valore zero presupponendo che l’azienda non abbia compilato quel valore perché, su indicazione delle stesse organizzazioni che hanno compilato il questionario, esso non era disponibile in quanto non monitorato nel flusso informativo interno oppure perché non estraibile direttamente dal database aziendale senza modificarne i parametri di elaborazione. Il tasso di missing dei questionari restituiti ha costituito il parametro di qualità dei questionari, vale a dire che laddove il tasso di campi non compilati risultava troppo elevato si è deciso di escludere l’unità campionaria, cioè l’organizzazione, da quelle analizzabili al fine di contenere entro livelli di soglia accettabili il valore dell’errore standard del campionamento. In particolare, considerando i valori minimi e massimi dei tassi di missing dei questionari restituiti, compresi in un intervallo tra un minimo di 37,7% e un massimo di 92, 1%, si è stabilita come soglia di accettabilità il 65%. Sulla base di questo valore di esclusione, alcune unità organizzative sono state escluse dall’analisi, poiché il questionario restituito presentava un elevato tasso di missing. L’analisi sul tasso di missing è stata inoltre effettuata nel dettaglio per ogni campo/informazione richiesta nel questionario: anche i questionari con un tasso inferiore, più “informativi”, infatti, non hanno esaurito la compilazione di tutti i campi. Tra i dai mancanti è importante segnalare che l’informazione sulle “Tipologie di malattie prevalenti” non è stata compilata da alcuna unità organizzativa: la spiegazione risiede nel fatto che la direzione aziendale, compreso il medico competente, nella redazione della cartella sanitaria, per il rispetto della privacy, non fornisce informazioni sensibili sui collaboratori. La doverosa privacy della malattia, di qualsiasi tipo, tranne quelle professionali, recuperabili delle denunce INAIL, è mantenuta e questo è un segnale di rispetto delle risorse umane. Il dato originale riporta, in generale, una stratificazione per sesso e per classe di età per cui, per ogni analisi, è stato necessario calcolare la sommatoria coerente con il contesto.

Valutazioni analitiche: la popolazione statistica

Il campione di organizzazioni coinvolte nella ricerca, come si è visto, è costituito da 30 organizzazioni. Rispetto allo studio quantitativo, tuttavia, bisogna precisare alcuni aspetti:

– In primis, se le organizzazioni coinvolte sono state 30 i questionari attesi erano 35. Nel campione, infatti, è presente l’Associazione Tecnologia, Scienza, Scuola, Società - TSSS che costituisce un partenariato di Istituti Scolastici diffusi sul territorio nazionale, di cui hanno aderito sei scuole: pertanto, se a livello di indagine qualitativa è stata considerata l’Associazione singolarmente, per l’indagine quantitativa è stato somministrato un questionario ad ogni scuola – per un totale quindi di 35 questionari

– Non tutte le organizzazioni aderenti hanno restituito il questionario. Il campione analizzato è composto da un totale di 29 questionari su 35, provenienti da 19 aziende private (65,5%) e 10 organizzazioni della Pubblica Amministrazione (34,5%) - di cui 3 aziende ospedaliere (10,3%) e 7 scuole (24,4%). Come si è detto, inoltre, alcune organizzazioni sono state escluse per l’elevato tasso di missing: 8 unità (6 aziende e 2 scuole) sono state escluse dalle analisi

– Il campione analizzato pertanto è costituito da 21 unità organizzative: 13 aziende private, 8 organizzazioni della Pubblica Amministrazione – di cui 5 scuole e 3 aziende ospedaliere.

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Il numero di collaboratori che appartengono alle unità incluse nelle analisi sono risultate pari a 137.652 (93,2% del totale collaboratori campionati), mentre 10.071 sono quelli che appartengono alle unità escluse (6,8% del totale collaboratori). Nel campione dell’indagine quantitativa, i settori produttivi risultano rappresentati come segue: Tabella 23. Unità incluse per settore

SETTORE UNITA’ INCLUSE % Agricoltura 0 0 Industria 10 47,6 Servizi 3 14,3

PA 8 38,1 Totale 21 100

Le aziende private incluse nell’analisi appartengono principalmente al settore economico secondario (61,5%), sebbene ad esso corrisponda un minore apporto in termini di numero di collaboratori (10,9%): Tabella 24. Unità incluse delle aziende private per settore e numero addetti

Settori Unità / numero Aziende Numero addetti

numero % numero % Industria 8 61,5 14.257 10,9 Servizi 5 38,5 117.138 89,1 Totale 13 100,0 131.395 100,0

La maggior parte delle aziende sono multinazionali (61,5%), seguite dalla grande azienda (30,8%) e dalla PMI (7,7%). La corrispondenza, rispetto al numero di collaboratori, registra un livello lievemente più alto nella grande azienda (52,2%) rispetto alla multinazionale (47,7%) – in questo l’apporto, in termini percentuali, della PMI è minimo (0,1%). Tabella 25. Unità incluse delle aziende private per dimensione e numero addetti

Dimensioni aziendali

Unità / numero Aziende Numero addetti numero % numero %

PMI 1 7,7 133 0,1 Grande 4 30,8 68.567 52,2

Multinazionale 8 61,5 62.695 47,7 Totale 13 100,0 131.395 100,0

Rispetto alla collocazione geografica delle imprese, infine, il campione dell’analisi quantitativa, ridimensionato dal numero di questionari restituiti e dalle esclusioni per tasso di missing troppo elevato, risulta fortemente penalizzato. In riferimento alle 13 unità aziendali private incluse, il campione quantitativo non consente un’analisi affinata al dettaglio della collocazione geografica (tabella 26): per questo, nonostante gli obiettivi iniziali posti nell’ipotesi di ricerca e di costruzione del campione, in sede di analisi statistica e interpretativa, non è stata considerata questa variabile, né tanto meno è stato possibile evidenziare dei trend comportamentali contestualizzati a livello geografico. Va precisato inoltre che i dati da noi richiesti nel questionario quantitativo sono aggregati sulla base dell’unità organizzativa: alcune grandi aziende o multinazionali hanno compilato il questionario a livello di corporate, estrapolando i dati dal database interno, quindi non tenendo conto della differenziazione per unità aziendali diffuse sul territorio nazionale. Nell’indagine qualitativa, nelle interviste in presenza, infatti, è emerso che la collocazione geografica, e spesso l’autonomia delle

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singole unità aziendali, incide profondamente nella gestione e nei comportamenti culturali in tema di salute e sicurezza: a livello di corporate vengono elaborate le linee guida, mentre l’implementazione della gestione della sicurezza è lasciata all’autonomia delle unità. In alcuni casi, inoltre, la difficoltà di compilare il questionario ha coinciso precisamente con l’assenza di un sistema di monitoraggio dei flussi informativi - capilarizzati alle realtà dislocate sul territorio e centralizzati a livello di corporate. Tabella 26. Unità incluse delle aziende private per area geografica e numero addetti

Area geografica

Unità / numero Aziende Numero addetti numero % Numero %

Nord 7 53,8 19.131 14,5 Centro 5 38,5 109.756 83,6

Sud 1 7,7 2.508 1,9 Totale 13 100,0 131.395 100,0

La variabile geografica, tuttavia, non è stata sottovalutata. Sebbene non sia stato possibile includerla nell’analisi del campione quantitativo, quanto raccolto nelle interviste in presenza ha messo in evidenza l’importanza strutturale di questa condizionante contestuale, soprattutto sul versante della cultura imprenditoriale in tema di salute e prevenzione sui luoghi di lavoro. Per questo, l’affinamento della ricerca a livello di collocazione geografica si è concretato nell’elaborazione delle mappe di rischio, di cui sopra, sulla base dei dati nazionali (INAIL).

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Risultati dell’indagine qualitativa

Le evidenze raccolte attraverso le interviste

Trenta organizzazioni professionali su 341 aziende o luoghi di lavoro contattati hanno accolto la richiesta di partecipare allo studio. Ha risposto e si è reso disponibile l’8,8% di tutte le aziende contattate, questo, come si è detto, in un anno estremamente difficile. Di fatto quello che è stato sondato, proprio nei mesi turbolenti della crisi, attraverso la nostra ricerca qualitativa (quella quantitativa si è concentrata sui dati del 2008) è stato il grado di SALUTE o meglio di Ben-Essere riscontato nelle aziende del 2009. E le evidenze che sono state raccolte attraverso le interviste in profondità sono testimonianze di come i collaboratori del mondo del lavoro, vuoi del settore Agricolo, Industriale o dei Servizi (includendo la Pubblica Amministrazione) abbiano vissuto o convissuto con la crisi. Le interviste in profondità hanno avuto luogo con alcuni “referenti” del mondo aziendale, spesso manager di Risorse umane, addetti alla Sicurezza, addetti alla Responsabilità Sociale d’Impresa; ma abbiamo anche chiesto di avere testimonianze di collaboratori, per conoscere la loro percezione di quanto l’azienda avesse messo in campo per proteggere la loro salute, prevenire i rischi di infortuni e di malattie professionali, e nei casi migliori, per farli star bene. Recependo il senso pieno della definizione della World Health Organization, per cui Ben-Essere è stato di salute psico-fisico-sociale, Health in All Policies, (letteralmente, salute in tutte le politiche) è lo slogan che abbiamo voluto mettere alla prova in questa indagine. Abbiamo cioè voluto indagare sull’idea di salute che le aziende italiane hanno: si limita all’incolumità fisica da incidenti e da malattie o riguarda anche il benessere psicologico dei collaboratori? Tiene conto delle ricadute del proprio operato sul tessuto sociale? Delinea il confine dei doveri aziendali all’interno della normativa vigente o va oltre, espandendosi nella valutazione dell’idea di “stare bene” sul luogo di lavoro?

Scopo della presente ricerca è stato quella di identificare non tanto quello che “non va”, quanto, piuttosto, “quello che va bene”. Pensiamo anche, e non abbiamo paura di dirlo, che la maggior parte delle aziende che non ci hanno risposto, lo hanno fatto perché in questi mesi (gennaio – luglio 2009) lo stress organizzativo, vuoi per la crisi economica, vuoi per l’arretratezza sistemica in termini di sicurezza, era talmente elevato che erano ben poche le “buone pratiche” da diffondere. E su questo punto ci preme sottolineare che sono non solo le azioni più classiche sistemiche, come gli asili nido per le mamme, le palestre convenzionate per i dipendenti, che debbono ispirarci, ma anche soprattutto le idee intelligenti e innovative come, ad esempio, la messa a punto di un registro sugli incidenti in itinere, la richiesta e la ricerca di fornitori nel settore edile con infortuni “zero”, l’inserimento nelle riunioni di lavoro di piccole pillole di informazione dedicate a stili di vita corretti e salutari. Senza grandi investimenti, ma con un pensiero dietro.

Guardiamo alle buone pratiche, perché possano servire da stimolo.

Le aziende che hanno risposto sono tutte meritevoli di encomio, ma in alcuni casi rappresentano veramente delle best practice in termini di attenzione alla qualità di vita dei propri collaboratori; in altri casi hanno semplicemente aperto le porte, ci hanno dato i loro dati e ci hanno detto cosa stanno realizzando, compatibilmente con i limiti per la sicurezza, la salute e il benessere dei propri collaboratori. A volte si trattava di piccoli atti, attenzioni, poco impegnative se parametrate alla potenza economica dell’organizzazione professionale; in altri casi erano azioni sistematiche in promozione del concetto best place to work, con un’ampia gamma di iniziative a favore della salute dei dipendenti.

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Abbiamo qualitativamente suddiviso le organizzazioni coinvolte secondo un gradino evolutivo rispetto alla triade: 1. assenza di prevenzione sia per la sicurezza che di tutela della buona salute; 2. prevenzione standard della sicurezza ma assenza di buone pratiche per la prevenzione della

salute; 3. prevenzione standard della sicurezza accompagnata da buone pratiche per la prevenzione della

salute (Health in all Policies). Riprendendo la metafora iniziale, che abbiamo utilizzato per introdurre la ricerca desk, dove la prevenzione è l’Aurora del “giorno nuovo”, quello vissuto in piena salute, e la Notte, ovvero l’oscurità con la sua cecità del vedere, è la condizione per cui vi è assenza di “prevenzione sia del rischio infortunistico che del rischio di ammalamento”, abbiamo suddiviso le aziende nei tre gradini evolutivi di cui sopra, che abbiamo quindi definito come Notte, Aurora e Giorno.

Notte, Aurora e Giorno della buona salute organizzativa

Questa suddivisione andrà ulteriormente declinata rispetto ai settori indagati: il primario (il settore dell’Agricoltura e dell’Artigianato) pone interrogativi di sicurezza e di salute molto diversi dal secondario (l’Industria) e dal terziario (Servizi e Pubblica Amministrazione). Fermiamoci un momento su questa suddivisione in Notte, Aurora e Giorno e capiamo cosa è emerso dalla nostra ricerca: su 30 aziende intervistate solo due, a detta del board scientifico della Fondazione ISTUD, navigano ancora nell’oscurità notturna, seppur con vaghi segnali di possibile chiarore aurorale: sono aziende dell’Industria, una del Nord e una del Sud Italia. La prima, una quasi start up, al momento delle interviste ancora era nel buio in quanto non aveva messo mano a programmi sistematici e strutturati per la salute dei propri collaboratori; la seconda, recuperata a vita quando era già sull’orlo del fallimento e dopo anni di gestione a tratti mercenaria delle risorse umane, sta faticosamente risalendo la china, in un sistema culturale in cui è prevalsa per anni una logica strategica che ha fatto investimenti sbagliati, con un management continuamente in ricambio e pochi soldi investiti in sicurezza, tanto è vero che la risultante è l’alto tasso di assenteismo tra i dipendenti. Ma le altre 28 aziende, seppure con sfumature più o meno graduate tra i colori dell’Aurora (la maggioranza) e i colori solari del Giorno (la minoranza), hanno saputo affrontare le criticità legate alla questione della sicurezza e della salute nel luogo di lavoro. In tutte queste aziende vi è una buona pratica applicata, o comunque una vision verso le buone pratiche: certo gli spazi di miglioramento sono molteplici, in alcune realtà enormi, ma le aziende sono state tutte accolte tra Aurora e Giorno.

L’Aurora delle aziende del settore Agricolo

Malgrado le richieste ripetute da parte di Fondazione ISTUD per conto di un progetto finanziato dal Ministero del Welfare, quindi una ricerca a valenza nazionale, a diverse aziende agricole in tutta Italia - dal riso del Vercellese all’olio e al vino in Toscana, alla raccolta delle mele nel Trentino alla coltivazione dei pomodori in Campania - attraverso lettere dettagliate che spiegavano quale era l’obiettivo della ricerca, con un fine assolutamente non sanzionatorio né punitivo, hanno aderito all’iniziative solo due consorzi del settore Agricolo della Sicilia che fanno parte dello stesso territorio: Catania e l’Etna. Pertanto il resoconto è localizzato alle problematiche contestuali della Sicilia orientale. Gli infortuni sul lavoro ci sono in agricoltura e rappresentano, nel 2006, il quarto posto (dati dell’Unione Europea), dopo il settore delle costruzioni, industria manifatturiera e i trasporti, come rischio infortunistico: ma negli ultimi anni, grazie alle nuove tecnologie, ai continui corsi di formazione

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sulla qualità e sulla sicurezza della potatura, usando in modo utile i fondi dell’Unione Europea, gli incidenti sono in fase calante. Tra le prospettive, accanto a una costante formazione che va oltre la tradizione del sapere familiare trasmesso “di padre in figlio”, si stanno prendendo in esame nuove colture che intrinsecamente presentano minore rischio infortunistico: le piante di ciliegio ben potate, possono in alcuni casi permettere la raccolta a terra delle ciliegie, o comunque attraverso l’uso di scale più basse e più resistenti. Ma la regola è “non mandare sulla pianta in raccolta” una persona che soffre da “disabilità d’altezza”: per questa persona possono essere identificate altre mansioni come la separazione dei frutti a terra, il loro confezionamento e il loro smistamento. Dato che il lavoro è spesso stagionale, la malattia cronica non impatta molto su questo tipo di contratto: è auspicabile fare contratti chiari e trasparenti relativi al tempo necessario d’impiego. Le persone disabili non sono assunte in quanto impossibilitate a svolgere, con le attuali tecnologie, il lavoro nei campi: ma nulla toglie che in uno scenario futuro sarà possibile assumere anche disabili nelle debite proporzioni per lavori più di pensiero e di ufficio. Non c’è, secondo la nostra opinione, un aumento assoluto di malattie croniche nel settore dell’agricoltura, l’aumento già citato delle richieste di risarcimento al contrario è il sintomo di una più corretta segnalazione. La tecnologia va protetta e salvaguardata, molteplici sono i furti di attrezzi agricoli in Sicilia, forse a opera di criminalità organizzata e l’imprenditore è messo a dura prova dal continuo riacquisto delle attrezzature rubate. L’Unione Europea inoltre dovrebbe velocizzare i processi di riconoscimento dei prodotti DOP (Denominazione di Origine Protetta) in modo da marchiare la qualità reale dei prodotti agricoli, e favorire il vero decollo dell’economia agricola della Sicilia Orientale. Basti pensare che l’80% dell’olio prodotto nella zona è venduto all’estero presso ristoratori d’èlite, perché il prezzo di questo olio è troppo elevato per poter competere quello del largo consumo italiano. Maggiori ricavi significa avere la possibilità di migliorare l’intera gamma di presidi che proteggono i collaboratori, e soprattutto poterli seguire in modo continuativo per controllare se, una volta comprati elmetto, occhiali e scarpe adatte, sono poi realmente indossati. I “vecchi”, vale a dire i lavoratori senior sono importanti in questo settore - tanto è vero che i contratti stagionali prevedono l’assunzione di pensionati - perché sono esperti conoscitori dell’arte agricola. Tuttavia questo loro stesso sapere può costituire un limite: infatti le normative sulla sicurezza e le nuove strumentazioni agricole sono per loro un non semplice campo di apprendimento. Non facilitano il compito alcuni antichi pseudo-riti “di iniziazione” in cui i bambini si arrampicavano sulle piante a raccogliere seguiti dagli sguardi dei loro genitori. In parte il rischio era connaturato alla professione che diventava anche una sorta di mestiere “eroico”. Purtroppo, soprattutto al Nord, il lavoro dei campi non rappresenta più un’alternativa per i giovani che tendono ad abbandonare la campagna per vivere in città: ciò ha causato un massiccio impiego di stagionali immigrati anche non regolari e, probabilmente, questa è stata la principale ragione della non adesione alla ricerca di molte aziende agricole.

Il tentativo di conciliare la tradizione dell’agricoltura, legata più ad aspetti di fatica, sforzo e rischio, con l’innovazione data dalla sicurezza può essere la sfida possibile dell’Aurora di questo settore.

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Settore Industriale L’Aurora Le aziende del settore industriale sono al secondo posto cumulativo per numero di incidenti, mettendo al primo posto le imprese di costruzioni66. Stiamo quindi riferendoci a un settore dove il rischio infortunistico, per incidenti non traumatici come per casi mortali, è molto elevato. Il dovere all’attenzione della sicurezza dei collaboratori è primario, e l’incolumità (etimologicamente, la “non mutilazione”) è il primo bene da raggiungere.

In questo comparto è il lavorare in condizioni di sicurezza che di per sé già condiziona le persone verso il Ben-Essere.

Ma la varietà delle aziende del settore è enorme e quindi è variabile il rischio infortunistico. Nella nostra ricerca abbiamo intervistato aziende produttrici di navi, di farmaci, di costumi da bagno, arredo, vestiti, cioccolato e prodotti dolciari, formaggi; alcune aziende erano grandi o multinazionali con sede in Italia, altre erano Piccole Medie Imprese italiane. Generalmente le aziende intervistate erano del Nord e Centro Italia. Nessuna azienda manifatturiera ha aderito nel Sud Italia. In generale, tutte le aziende intervistate si sono dimostrate sensibili e aperte a condividere il tema della sicurezza e della malattia. Anche in questo caso, così come nel settore Agricolo, le strade che portano al miglioramento della qualità, le vie del Total Quality Management, includono il tema della gestione del rischio: le certificazioni di qualità sono entrate nella cultura aziendale non soltanto a garantire la qualità dei prodotti per i consumatori ma anche per tutelare le persone che lavorano sui processi di produzione interni. Diversi sono i sistemi di qualità, ma la matrice è sempre il sistema Toyota, che ora in maniera sfidante si è posta non solo il traguardo “0 errors” ma “0 incidents”. Le lezioni del passato sono state in alcuni casi tragiche: si pensi ai tumori causati da esposizione all’amianto nei cantieri navali o alle esplosioni nel settore chimico. Ma le aziende ora sono più coscienti, in senso morale, dei danni del passato e si adoperano perché i propri dipendenti, sia italiani che extracomunitari, stiano bene. I controlli medici sono abitudinari, regolari, e le persone che devono compiere attività rischiose (ad esempio, salire su un ponte di costruzione, entrare in uno stabilimento chimico) sono sottoposte a un “tagliando” di screening regolarmente. Questo lo stato delle cose nelle aziende che ci hanno aperto le porte e che, verosimilmente, sono più in regola di altre. Le normative sulla sicurezza, anche se inserite in un quadro di qualità, stanno dando buoni frutti: le malattie professionali sono lievemente cresciute nel quinquennio tra il 2004 e il 2008 ma il tasso di mortalità per incidente è sceso dal 2008 all’anno precedente del 8% e del 31% rispetto alla situazione del 2001: quindi in termini assoluti la situazione è in netto miglioramento. La stampa coinvolgendo l’opinione pubblica e dando risalto alle “morti bianche”, quelle in cui non c’è un diretto responsabile che aggredisce la vittima, sta contribuendo molto a sensibilizzare gli imprenditori e i manager delle multinazionali come delle piccole medie imprese. Ma nelle aziende dove abbiamo fatto le interviste, il ricordo delle persone che sono morte - vuoi per malattie conseguenti ad agenti nocivi, per infortuni o per incidenti in itinere - ha sempre ricondotto gli intervistati a un grande dolore, un grande senso di colpa e un’impressionante volontà affinché

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Fonte dati EUROSTAT 2006, riportati nel §4 “Quadro internazionale” in Rapporto INAIL 2008, p. 62.

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questo non si ripeta più. La vittima sul lavoro o negli incidenti in itinere ha dato origine a iniziative nei luoghi da noi intervistati che diventano buone pratiche.

In sintesi, sistematizzando le esperienze, questi gli strumenti veramente innovativi: • Osservatorio sugli incidenti in tutte le filiali delle multinazionali (Medtronic Italia), in aggiunta

all’adempienza alle normative locali • Percorsi di formazione non solo sulle norme di sicurezza generiche ma declinati al campo di

appartenenza • Turnazione e carico di lavoro intelligente e percorsi di consegna dei prodotti a domicilio al di

fuori degli orari di punta per abbassare il rischio infortunistico e aumentare l’efficienza • Punti di reclami e di segnalazioni di anomalie che vengono registrate, decodificate e per i quali

sono messi in programma fattori di correzione • Linee guida interne, protocolli redatti con INAIL e/o con gli Istituti di Medicina del Lavoro di

diverse Università (Fincantieri Cantieri Navali Italiani).

Le aziende sono fervide di iniziative volte alla sicurezza dei propri collaboratori: gli incidenti mortali e le condizioni di disabilità permanenti non sono dimenticati dal management delle risorse umane, dalla direzione, come dai colleghi di lavoro. Il campo d’azione di promozione della sicurezza è però più rivolto verso la propria realtà organizzativa che verso l’ambiente esterno: poche sono le indagini a oggi effettuate che mettano in correlazione un fattore nocivo non solo con il rischio per i propri collaboratori, ma con la cittadinanza di chi vive vicino ai luoghi di produzione. La CSR che pone la sua forte attenzione sull’impatto ambientale, può essere un “movimento” che finalmente metta in correlazione il sito produttivo con l’ambiente che lo accoglie e quindi con la popolazione che lo abita. Survey di valutazione dello stato di salute della popolazione che vive attorno a un sito produttivo sono ancora rare, anche perché non è ben chiaro di chi sia la competenza responsabile nel sostenerle dal punto di vista economico: è l’azienda produttrice o la ASL che si deve preoccupare, ad esempio attraverso i controlli routinari di vivibilità dell’aria e di potabilità dell’acqua per le condizioni ambientali in cui vive la popolazione?

Il tema dell’ambiente è oggi quanto mai al centro dell’attenzione e le aziende si stanno attrezzando con una nuova figura professionale: l’Environmental, Health & Safety Manager (EHS), un professionista che deve finalmente tenere insieme il quadro non solo della sicurezza interna e della salute ma anche dell’impatto ambientale. A oggi però, mentre questi professionisti sono molto attivi all’interno delle organizzazioni e responsabili rispetto all’impatto ambientale toutcour non sono frequenti le esperienze di collaborazione di tutti gli enti e gli esperti che in un territorio si occupano, spesso separatamente, di ambiente e di salute – tecnici dell’ARPA, dell’ASL, delle Province, dei Comuni, delle Regioni, esperti medici del lavoro, igienisti, epidemiologi, genisti delle Università e del SSN. Manca un possibile passaggio che è il coinvolgimento attraverso indagini di salute e, perché no, anche di co-costruzione dell’impresa produttiva, con il territorio dove l’impresa è sita. Solo un approccio multidisciplinare di competenze specifiche altamente qualificate potrà portare a significativi successi nello studio delle relazioni tra i nuovi fattori di rischio ambientale e patologie, così da mettere a punto modalità di convivenza con essi nel modo migliore possibile.

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Il Giorno – le best practice

Giorno, abbiamo detto, significa Health in all policies: attenzione alle persone con condizione di disabilità, alla questione delle differenze anagrafiche e di genere, alla cura della persona nella sua interezza anche nel luogo di lavoro. Malgrado il clima di crisi in cui sono state effettuate le interviste, molte delle testimonianze raccolte sono ben lontane dagli stereotipi dominanti nella descrizione degli ambienti aziendali attuali e che parlano di mobbing, esclusione dei disabili e violenza verbale, come lo stalking. Anzi, in un’azienda farmaceutica abbiamo trovato uno sportello di aiuto legato alle difficoltà possibili nel mondo del lavoro, al cosiddetto dis-agio psicologico e funzionale. E in un’altra azienda abbiamo incontrato un sistema di mentoring, per cui i giovani hanno un riferimento interno che non è il loro responsabile, che fa da mentore, da guida. Gli incontri di mentoring sono fasi utili per la crescita del junior all’interno dell’organizzazione e di valorizzazione delle risorse anziane, con il loro sapere e la loro esperienza. Molte sedi italiane di aziende multinazionali di prodotto sono capofila di progetti innovativi legati alla sicurezza e alla prevenzione.

I servizi L’Aurora Le aziende che producono i servizi: dalla telefonia, alle banche, le assicurazioni, le società di consulenza, sono quelle che in questo momento stanno vivendo con grande intensità e drammaticità la crisi. Hanno aderito all’iniziativa sia aziende del Nord come del Centro e una del Sud Italia. Di fatto sono aziende che hanno sedi centrali e poi centinaia di filiali, punti vendita periferici. Dal punto di vista infortunistico, a parte gli incidenti in itinere, sono aziende a basso rischio di incidenti anche per settori come luce, gas, elettricità e telefoni. In particolare nel settore della telefonia, i rischi della telefonia fissa, delle comunicazioni via cavo, sono molto più elevati per gli installatori e i manutentori che non quelli della telefonia mobile. Con analogia paragonabile a chi nel settore agricolo si occupa della raccolta delle olive, anche in questo campo l’attività richiesta è quella di arrampicarsi per riparare le interruzioni, in condizioni climatiche spesso difficili. E come per il settore agricolo, anche qui è premiata l’esperienza, la maturità “si arrampicano meglio le ‘scimmie’, i collaboratori che hanno più di cinquant’anni, i giovani ci provano ma non sono atleticamente così preparati”.

Il settore Health Care come best practice È interessante notare che le imprese produttrici di farmaci o dispositivi medici e/o comunque prodotti che migliorano le condizioni di salute sono aziende molto attente alla salute dei propri collaboratori: come se ci fosse un filo invisibile tra le missioni dichiarate nei tabloid aziendali “la nostra missione è di contribuire alla ricerca e alla cura delle malattie…” e la salute dei propri collaboratori. A parte il caso evidente della Eli Lilly Italia, scelta come best practice, le abbiamo identificate in molti casi come luoghi dove non solo “il permesso di malattia” è concesso ma ci si informa sulle condizioni di salute della persona ammalata. La cultura del dare e fornire salute si radica proprio nel DNA del settore aziendale e per coerenza si trasmette ai collaboratori.

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Lasciando un ambito professionale molto rischioso dal punto di vista dell’incolumità fisica, ora andiamo a vedere cosa succede in un campo che ha grande attenzione mediatica e che rappresenta un nuovo ambito professionale: il lavoro nei call center. Entrambe le aziende che si occupano di telefonia mobile intervistate, i major players del settore in Italia, sono ben consapevoli del rischio di burnout dovuto al lavoro nel call center, connotato dalla ripetitività del lavoro, dal basso livello di gratificazione, dalla pressione fronteggiata dal cliente a distanza. Tre sono le mansioni degli operatori dei call center: la promozione delle vendite, la risoluzione di problemi tecnici del cliente, la parte contabile amministrativa. Lavori molto difficili, data la difficoltà di instaurare un rapporto “umano” con il cliente, lavori che “depersonalizzano”. I players intervistati danno lavoro a disabili fisici, organizzano spazi di relax come decompressione, hanno asili nidi per le neomamme che possono lasciare il figlio vicino al luogo del call center, pensano i turni sulla base di ritmi fisiologicamente umani. Nonostante questo è chiaro che ci sono due gravi problemi, il primo forse superabile, ma il secondo molto complesso da risolvere. Il primo problema è un middle management effettivamente presente a “coordinare, per non dire comandare” le persone che ora lavorano nel call center e che di solito proviene dalla base (ex-callcenteristi), oppure dall’interno dell’azienda. È a questo livello che si verificano casi di mobbing nei rapporti capi–collaboratori. Malgrado gli sforzi del top management, infatti, la pressione alla vendita disumanizza i rapporti tra le persone. Il secondo problema, oggi ancora del tutto irrisolto, è invece la necessità di assegnare un diverso valore simbolico al proprio lavoro, riposizionandolo su un percepito di maggiore utilità e servizio per sé e per la collettività.

Emerge un filo ombroso comune che origina dal settore delle grandi aziende nei servizi e che trattiene parte delle aziende nell’oscurità: trattare il collaboratore come un numero, soprattutto quando ha un’età che prima o poi entrerà nello scivolo di mobilità della pensione. E allora abbiamo casi in cui da un lato viene premiata la fedeltà dei collaboratori con i venticinque anni di seniority aziendale, dall’altro nella stessa organizzazione, sono proprio i collaboratori “anziani” quelli maggiormente in fase di dismissione. Ci è apparso evidente che verrà presto a mancare un salutare mix generazionale in molte delle aziende intervistate: la crisi, con la falce in mano, ha causato l’apertura di uscite incentivate per i più anziani.

In alcuni casi di buona cultura imprenditoriale, si sono pensati invece dei percorsi di retraining per tentare di non dimettere la persona ma per riallocarla su possibili nuove mansioni. Questo significa un grande sforzo sia per l’azienda che intraprende l’iniziativa sia per la persona che dopo vent’anni si chiede come mai con un breve preavviso e dopo un corso di formazione non farà più il lavoro che ha sempre svolto. E la sfida per l’azienda in questo caso è insegnare e fare entrare nei “riflessi neuronali” delle persone che tutto scorre. Senza farne un dramma.

Per citare un caso esemplare l’azienda principe della telefonia in Italia ha anticipato le norme sulla sicurezza del mondo del lavoro, nel cinquantennio scorso: o meglio, quando era uscita la norma di riferimento l’aveva messa a punto qualche anno prima, non perché fosse più visionaria, ma perché purtroppo gravi incidenti erano occorsi e alcuni collaboratori erano rimasti gravemente traumatizzati se non vittime del lavoro. L’azienda quindi ha saputo imparare dall’errore e continua una collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità per riuscire a contenere il rischio di legionellosi nelle centraline telefoniche interrate. Anche in questo caso l’iniziativa è nata dopo che un collaboratore purtroppo aveva perso la vita per infezione da legionella contratta in una centralina telefonica.

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Il Giorno – le best practice Rispetto all’attenzione alla salute in generale per i propri collaboratori, poche aziende hanno aperto polizze assicurative sanitarie rivolte non solo alla classe dirigente ma a tutti i collaboratori e alle loro famiglie, includendo ogni livello professionale. Perché polizze assicurative private in un contesto dove il Servizio Sanitario è pubblico? Perché alcuni test di screening, le cure dentarie e oculistiche non sono rimborsate dal nostro Servizio Sanitario. E questo è un limite perché la prevenzione dovrebbe essere resa più accessibile: curarsi prima comporta anche avere meno spese di cura dopo, e la cure degli occhi e denti dovrebbero essere considerate allo stesso livello di altre cure per le malattie croniche.

La Pubblica Amministrazione

Sebbene nella classificazione dei servizi, dal punto di vista infortunistico (INAIL), è inclusa la Pubblica Amministrazione, in questa ricerca abbiamo desiderato tenerla separata dalle imprese private. In particolare ci siamo soffermati su due settori fondamentali della Pubblica Amministrazione, le aziende ospedaliere (Nord, Centro e Sud Italia) e le scuole nel Nord e Sud Italia. Il rischio infortunistico sia negli ospedali che nelle scuole è molto basso: in particolare, il rischio infortunistico secondo i dati dell’Unione Europea è il più basso nel settore della Pubblica Istruzione.

Unicredit Group: un esempio di eccellenza La migliore best practice, quella che fa riferimento alla salute in tutte le sue politiche è stata trovata nel gruppo Unicredit, attraverso l’organizzazione della Giornata della Salute. L’idea nasce dalla fatalità di un’esperienza: una donna, che ricopre un ruolo importante, con ampi spazi di “poter fare” che ha avuto una malattia grave, un tumore al seno curato con successo. In questo caso, l’esperienza di una persona sola ha saputo mettere in moto una campagna di diffusione di buone pratiche di prevenzione, scegliendo ogni anno un settore dedicato (il 2009 il tema è la prevenzione in oncologia, il 2010 il tema sarà quello della prevenzione delle malattie cardiache…), che si esplicita in una giornata della salute al mese, itinerante nelle diverse città italiane e in gemellaggio con una sede in una città straniera. A parte la Giornata della Salute, la practice istituita all’interno del gruppo bancario è quella che fa riferimento al gruppo Take Care, prenditi cura. Il gruppo è molto attivo all’interno dell’organizzazione nel promuovere buone pratiche di salute, pillole di prevenzione circa lo stile di vita salutare. Nei corsi di formazione interna dei collaboratori sono sistematicamente inseriti dei momenti di riflessione sul proprio stile di vita, sulla responsabilità di come si mangia, come ci si cura, quanta attività fisica si svolge. Questo percorso di auto-responsabilizzazione della persona è, secondo noi, una vera best practice da diffondere nei luoghi di lavoro. Il Giorno, Health in All Policies, va oltre la prevenzione della salute, addirittura cambia la produzione dei servizi: la crisi, per il gruppo bancario intervistato, ha comportato una vera rivoluzione della tipologia di prodotti bancari e i nuovi prodotti scaturiti dalla crisi sono più “puliti”, più trasparenti verso il cliente. Questo ha determinato un senso di maggiore etica morale nel lavoro svolto: e questo è considerato, a ragione, un valore che condiziona in senso positivo il proprio Ben-Essere all’interno dell’organizzazione. Vendere prodotti più “puliti” fa sentire meglio.

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L’Aurora

Negli ospedali, per protocollo, è monitorata e vigilata la salute dei professionisti che vi operano: visite mediche periodiche, controlli di routine a cui gli operatori sanitari hanno l’obbligo di sottoporsi. Questi sono fattori di garanzia di un’adeguata prevenzione: anche perché i “clienti” in questo caso sono i pazienti, persone a maggiore rischio infettivo. “Medico, cura te stesso” è quindi un imperativo spesso rispettato negli ospedali. Negli ultimi anni poi si sono inseriti negli ospedali anche dei protocolli per vigilare il rischio di cadute, punture, esposizione a materiale radioattivo: questo insieme di eventi possibili rientra in quello che si chiama “risk management clinico” che si occupa della gestione degli eventi indesiderati e imprevisti non solo per i pazienti ma anche per gli operatori sanitari.

In tutti e tre gli ospedali analizzati sono in essere dei protocolli di gestione del rischio clinico. Dal punto di vista dell’accessibilità alla disabilità invece, rimane un’ombra (per non dire Notte) rispetto alla questione delle barriere architettoniche, presenti in modo quasi imbarazzante, anche là nei padiglioni dove i disabili devono rivolgersi per le questioni amministrative. Gli ospedali più moderni per fortuna sono meglio attrezzati e più accessibili.

Le questioni più rilevanti emerse dagli ospedali sono la grande mole di carico di lavoro svolto da pochi, a fronte di un abuso di assenteismo da parte di tanti (soprattutto in Centro e nel Sud): la popolazione che lavora in ospedale è “invecchiata”, stanca di fare turni molto pesanti di notte dopo molti anni di quella che è percepita come una “gavetta” per giovani. Gli infermieri cercano di farsi trasferire su attività amministrative e, nella grande parte dei casi, ci riescono. E allora il vero problema diventa la penuria di giovani medici e giovani infermieri, accompagnata da un esubero di persone che risiedono negli uffici amministrativi. Negli ospedali c’è anche il cattivo costume di offrirsi certificati medici per richiesta di malattia tra colleghi: questo condiziona l’assenza per malattia degli operatori, in alcuni casi stratificata indifferentemente tra medici, infermieri e altri operatori sanitari e amministrativi, in altri casi invece più marcatamente vistosa nelle categorie di infermieri, ausiliari e amministrativi. Non bisogna poi dimenticare i carichi di lavoro percepiti dagli operatori come sbilanciati (spesso affidati basandosi su indicatori non sufficientemente raffinati), i pazienti sempre più esigenti che minacciano denuncie, il forte rischio di burnout per gli operatori.

Ma c’è una salvezza che protegge e previene dal burnout: il rapporto stesso con i pazienti, che nella maggioranza dei casi è buono, ed è la motivazione che fa affrontare la fatica dei turni di notte, delle continue chiamate, delle emergenze. Si dovrebbe recuperare e rafforzare questo senso di servizio per l’utenza, perché è proprio il significato di “servizio” che, a detta di alcuni intervistati, è andato perduto o si sta perdendo: il salvare la vita a un infartuato o far risvegliare un paziente in coma, ma più semplicemente il miglioramento dello stato di salute e della qualità della vita di un paziente, rappresenta una forte motivazione ai molti sacrifici del personale medico e paramedico, anche se purtroppo la valorizzazione delle attività sanitarie non si basa sugli esiti ma per lo più solo sui processi. La Pubblica Amministrazione è stata interpretata come un luogo che fornisce “posti di lavoro garantiti” prima di fornire “servizi alla cittadinanza”. Cultura del servizio in primis. Di questo ha bisogno la sanità pubblica.

Nelle scuole intervistate del Nord, Centro e Sud la situazione di Ben-Essere è meno logora che negli ospedali: contrariamente agli studi effettuati nella città di Milano e pubblicati che insistono sul burnout degli insegnanti, le scuole che hanno accolto l’intervista erano tutte molto lontane da un senso di burnout generalizzato. Certo, le questioni di crescita degli adolescenti poco seguiti dal contesto familiare o seguiti in modo scorretto pesano sulle scuole e i professori si trovano a dover

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bilanciare il ruolo di trasmettitori di materia tecnica e di educatori. E questo per molti insegnanti non è visto come un carico di lavoro in più ma come una sfida. Pochi sono i casi di assenza nelle scuole, confinati a sporadici episodi che solo in condizioni estreme hanno richiesto vie legali; in generale il clima è sereno e le persone vanno a lavorare con motivazione. Il Giorno Le scuole intervistate pullulano di iniziative volte al Ben-Essere degli studenti e, di riflesso, degli insegnanti: accanto ai corsi base legati al TU sulla sicurezza, si tengono presso le classi degli studenti dei corsi sulla prevenzione degli incidenti di strada e si insegna la guida prudente del motorino, della moto e dell’auto per i ragazzi di maggiore età. Ci sono poi degli osservatori aperti sul fenomeno del bullismo nelle scuole (che ha delle analogie con il mobbing) e del bullismo al femminile, una tendenza dove non conta tanto la violenza fisica quanto quella psicologica. Collaborazioni strutturate con professionisti psicologi e counselor esperti si stanno insediando nelle scuole dal Nord fino al Sud.

La presenza di un centro di aiuto e sostegno valido all’interno dell’organizzazione è una buona prassi che dovrebbe essere traslata più spesso ad altri settori organizzativi, in primis l’ospedale che fa sì le indagini per comprendere il burnout dei propri collaboratori ma poi non struttura un sistema permanente di centro di aiuto e sostegno per medici e operatori che stanno a contatto con malattia e dolore. Ma in generale, nelle organizzazioni professionali, bisognerebbe mandare a sistema un centro di sostegno e aiuto che, indipendentemente dal management di linea, svolga attività di prevenzione e terapia del possibile disagio psicologico. E questo in parte rientra nella buona prassi del mentoring.

Rispetto alle esperienze più evolute, che noi abbiamo metaforicamente chiamata Giorno, abbiamo riscontrato che si possono costruire edifici scolastici molto accoglienti e molto luminosi: la scuola visitata in Sicilia a Giarre era piena di luce, rinverdita da piante all’interno con luoghi di ritrovo gradevoli per docenti e studenti: questo sicuramente aiuta il benessere degli insegnanti, degli amministrativi e degli studenti.

Le evidenze emerse dalla ricerca sul campo analizzate in chiave organizzativa, gestionale e ambientale: dimensioni, nazionalità, collocazione geografica Le evidenze raccolte con le interviste hanno stimolato riflessioni e osservazioni che tengono conto di altri due aspetti: da una parte le dimensioni delle aziende intervistate e la loro presenza commerciale a livello nazionale o internazionale, dall’altra la collocazione geografica all’interno del territorio italiano. Tra le tante domande che ci siamo posti nel leggere i risultati delle interviste ci sono senza dubbio quesiti come: quanto influiscono sulla cultura della salute organizzativa le risorse economiche a disposizione? E quanto la numerosità dell’organico? E l’orizzonte operativo? Quanto conta il fatto che un’azienda sia una piccola impresa locale o la filiale di una multinazionale americana? E ancora: esiste una differenza caratterizzante tra come Nord, Centro e Sud Italia trattano l’idea di salute nelle aziende?

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Non è stato possibile dare una risposta certa a tutte le domande, ma alcuni dei risultati che abbiamo raccolto ci hanno sorpreso. Per esempio scoprire che in multinazionali straniere in più di un caso la filiale italiana è all’avanguardia nelle iniziative di prevenzione e cura della salute dei collaboratori, sino a divenire un modello per la stessa casa madre. E ancora, ci siamo resi conto che se pure la limitatezza delle dimensioni ha un suo peso (che più avanti sarà evidenziato) anche piccole imprese locali possono essere degli “apripista”, dei casi di best practice che con intelligenza e sensibilità attuano iniziative nell’ottica della Health in All Policies.

Come già evidenziato nella parte relativa all’analisi del campione, questo era caratterizzato per provenienza geografica e dimensione. Le aziende che hanno risposto al Nord sono per lo più multinazionali dell’industria o dei servizi (con una buona quota nella Pubblica Amministrazione); quelle del Centro sono multinazionali dei servizi (che hanno la sede centrale in quell’area) o PMI (non quante ci aspettassimo, a dire il vero visto che in Centro Italia sono molto numerose); al Sud nessuna multinazionale, alcune grandi, qualche PMI e una forte presenza di esponenti della Pubblica Amministrazione. Questa distribuzione, a parte il dato della scarsa risposta delle grandi e PMI del Centro in termini assoluti (e vale la pena ricordare quanto già visto che, secondo i dati raccolti dall’INAIL è questa l’area geografica in cui si registrano il maggior numero di incidenti sul lavoro) corrisponde a grandi linee alla geografia del tessuto produttivo italiano. Possiamo quindi procedere con alcune riflessioni sull’immagine che emerge relativamente a come è praticata la Health in All Policies in questo scenario.

Pensare la salute… in grande

Contano le dimensioni? A vedere quanto è emerso dalle interviste, parrebbe di sì. Le best practice in tre casi su quattro sono state riscontrate in aziende multinazionali. La disponibilità di risorse da allocare sul tema salute e la diffusione di una cultura dell’attenzione a questo tema sono sicuramente da mettere in conto quando pensiamo ad aziende che hanno già una struttura organizzativa con sedi in varie parti del mondo e, nella maggior parte dei casi, hanno già indicate nelle linee guida organizzative l’allineamento ai parametri di sicurezza e salute della casa madre. Soprattutto se questa è di origine anglosassone (Usa, Regno Unito) di solito i protocolli e i processi di controllo della qualità e del rischio sono molto sviluppati, così come le azioni di prevenzione e assistenza alla cura della salute dei collaboratori. Ma va detto che abbiamo anche riscontrato casi opposti, di multinazionali in cui la consapevolezza e l’attenzione per questi temi era molto carente nonostante la disponibilità di organico e risorse da dedicare. Quello che mancava era la valorizzazione del tema della salute organizzativa come prioritario per l’azienda, la conseguenza era l’assenza di una politica interna che lo trattasse anche solo nei minimi termini previsti dalla legge.

Abbiamo invece avuto dei riscontri che non ci aspettavamo: in molti casi le buone pratiche messe in atto in queste corporation non sono nate all’estero, dalla casa madre americana o europea che sia. La ricerca ha evidenziato che spesso invece le esperienze più interessanti vedono la luce nella sede italiana (che in alcuni casi, ma non tutti, è la casa madre) e poi sono esportate in tutte le altre sedi all’estero. Come dire che nel nostro Paese si fa cultura della salute organizzativa “allargata”, Health in All Policies, appunto, e la si esporta. Non male come scoperta.

Così abbiamo riscontrato casi come quello di IKEA che è diventata un modello grazie al sistema che ha implementato di sicurezza e prevenzione per IKEA mondiale. L’azienda svedese può contare

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su una cultura di Responsabilità Sociale molto avanzata, eppure l’iniziativa della filiale italiana di sviluppare dei sistemi di safety management molto articolati e strutturati, di compiere uno studio per valutare le modalità di diffusione delle assenze per malattia del personale, nonché iniziative come quella di studiare la turnazione tenendo conto delle ore di punta del traffico vanno oltre i protocolli già previsti dalla casa madre. Sono quel “pensiero in più” che dà una visuale diversa e diventa modello. Perché, di fatto, noi crediamo che parta da una visione diversa della salute organizzativa – Health in All Policies, appunto. Diverso il caso in un’altra multinazionale che sta costruendo un database con la tracciatura di tutti i sinistri: la casa madre (americana) lo ha disposto mettendo in competizione le varie filiali. Per il comparto delle vendite, che ha un maggiore rischio in questo senso, sono stati organizzati corsi di guida sicura e nella scelta delle auto aziendali si devono rispettare degli standard di sicurezza e sulle emissioni. Si è anche pensato di prendere le auto elettriche, ma le liste di attesa sono ancora molto lunghe. Un’altra multinazionale americana, Eli Lilly Italia, è un nuovo caso di best practice evidenziato dalla ricerca. Non ci sono stati episodi di incidenti sul lavoro di particolare gravità (come è invece avvenuto per altri comportamenti virtuosi che questa ricerca ha raccolto) che hanno spinto a rafforzare le politiche in tema di sicurezza. Ma tutta l’azienda parte da un’idea di protezione del Ben-Essere, della salute a 360° dei collaboratori: a fronte di una completa riconversione di produzione che ha richiesto quattro anni di inattività produttiva, nessuno è stato licenziato: i collaboratori hanno seguito corsi di formazione per riqualificarsi e ripartire presto con la nuova produzione. Da parte di questa azienda l’approccio alla salute dei collaboratori è più di tipo filantropico, di tutela delle persone, che non con l’obiettivo di ottenere dei vantaggi in termini costo/beneficio. Un esempio? Esiste il programma antinfluenzale gratuito per tutti ma non è stato valutato il tasso di assenteismo. Il check up (personalizzato) è offerto gratuitamente per tutti i dirigenti ma c’è l’idea di estenderlo anche alle altre fasce, la copertura assicurativa antinfortuni è estesa a tutte le famiglie (anche quelle di fatto). Non è stata fatta una campagna contro il fumo ma sono stati chiusi gli spazi per i fumatori, creati menu ipocalorici e vegetariani in mensa e ultimamente si sta valutando se offrire frutta gratis. Questi i casi che abbiamo scelto come modello, ma ricordiamo anche la multinazionale (tedesca) che, nella sede italiana, ha previsto un servizio di counseling per i propri dipendenti o quella che implementa - nella propria filiale italiana prima che all’estero - un sistema di controllo della sicurezza e del rischio estremamente all’avanguardia.

Quando le dimensioni organizzative diminuiscono si trovano comunque casi interessanti da segnalare (sempre catalogati come Giorno): come un’azienda, italiana, che appartiene al gruppo IVECO ASTRA Veicoli Industriali (stabilimento di Piacenza) e che ha deciso autonomamente dalla capogruppo di implementare il WCM (world class manifacturing), un sistema brevettato dalla Toyota che mira a portare a 0% l’errore.

Eli Lilly Italia ci ha colpito anche per una riflessione, che ci ha suscitato su cosa può volere dire Health in All Policies quando si traduce anche in Responsabilità Sociale, intesa come attenzione alle conseguenza dell’operato aziendale nel mondo, sulla società: i contratti di appalto sono concessi da Eli Lilly Italia solo alle aziende che hanno uno standard di incidenti bassissimo (400.000 ore di cantiere senza incidenti).

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C’è un’altra grande azienda italiana, tra quelle analizzate, che ha dedicato molta attenzione alla salute di una fascia di collaboratori particolarmente a rischio di burnout: li osserva, ha riprogettato gli ambienti di lavoro per il loro benessere, ha stipulato convenzioni con centri termali. Unico caso di Giorno tra le PMI è un’azienda familiare che però si è sviluppata a livello internazionale. Per concludere la riflessione sulle dimensioni come variabile influenzante dobbiamo convenire che in effetti queste contano, e non poco, sul livello di attenzione che viene dato al tema della salute. E non solo per le risorse economiche che possono esservi dedicate. In molte delle aziende più piccole ci è stato spiegato che le relazioni tra il personale e la direzione sono più strette, frequenti, immediate: una difficoltà, un malessere, uno stato di malattia può essere gestito con maggiore facilità. Ben diversa è la situazione in aziende che contano migliaia di dipendenti e in cui la politica organizzativa che viene implementata su questi temi può davvero fare la differenza nel quotidiano professionale di molte persone che altrimenti rimarrebbe lontano e misconosciuto dai vertici aziendali. Bisogni diversi, soluzioni differenti.

Una piccola grande scuola: dalla Sicilia un modello da esportare

La scuola di Giarre ci porta al passo successivo: le riflessioni sul fattore della provenienza geografica come influenzante delle politiche aziendali osservate. In effetti da questo punto di vista i risultati dell’indagine field sono piuttosto equanimi: un caso di best practice, rispettivamente, al Nord e al Sud e due nel Centro. Quest’ultimo fatto, considerata la bassa rispondenza delle aziende del Centro (in alcuni casi il rifiuto a partecipare si è accompagnato a insulti ai nostri ricercatori che chiamavano per un appuntamento) non è di facile interpretazione. Certamente i due casi riportati sono di multinazionali che hanno la loro sede italiana in quella zona geografica per cui non ci è possibile collegare la buona cultura organizzativa in termini di salute direttamente all’influenza del territorio. Il quale, lo ricordiamo, rimane quello con il più alto tassi di incidenti sul lavoro di tutto il Paese. Se analizziamo invece la numerosità delle aziende catalogate come “giorno” dalla ricerca, questa è senz’altro preponderante al Nord, con 7 casi, contro i tre riscontrati sia nel Centro che nel Sud. Un'altra osservazione interessante la si ottiene incrociando la provenienza territoriale con le dimensioni: i sette casi virtuosi del Nord contano 4 multinazionali, due grandi aziende e una PMI. I tre casi del Centro sono in due casi multinazionali (i due casi di best practice citati) e una grande impresa, mentre i casi del Sud sono tutte scuole.

Unico caso di “azienda” piccola che si è distinto come best practice è quello di una scuola, quella già citata di Giarre in Sicilia. Il caso è particolare, perché la Pubblica Amministrazione ha problematiche diverse rispetto all’industria e alle altre aziende che rientrano nella categoria “servizi”. Tuttavia l’alto tasso di sindrome da burnout che è registrato dagli osservatori INAIL nel Servizio Sanitario e nella Pubblica Istruzione rendono anche questo comparto, come si diceva, un importante punto di osservazione. In questo caso, tuttavia, le dimensioni non hanno avuto peso, anzi: i grandi ospedali che abbiamo intervistato sono ben lontani dall’idea di implementare politiche improntate sul concetto di Health in All Policies come è stato declinato dalla piccola scuola siciliana.

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Ci pare quindi di potere concludere che le dimensioni (oltre che l’ambito operativo, come osservato in precedenza) contano, quantomeno perché creano le pre-condizioni per lo sviluppo di una buona cultura della salute organizzativa. Le risorse economiche e il fatto di pensare in “grande” (inteso come numerosità dell’organico) sono fattori influenzanti positivamente le politiche aziendali sulla sicurezza. Tuttavia questo non è sufficiente all’implementazione di politiche virtuose, poiché abbiamo riscontrato casi di multinazionali ancora molto arretrati su questo fronte. In secondo luogo, ed è questa la scoperta più interessante, non sempre l’iniziativa di implementare politiche intelligenti e utili in questo ambito arriva da stimoli esterni (dall’estero). Anzi, in più di un caso lo stimolo, il pensiero, l’idea è partito dall’Italia ed è stato poi mutuato dalla casa madre.

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Analisi tematica delle evidenze field67

La questione dell’età

Il primo interrogativo che ci siamo posti nell’incontrare le aziende sul campo è stato “qual è l’età media del lavoratori nelle aziende?” Capire qual è il rischio per la salute di un collaboratore senior, se e in che misura risulta più esposto, se è più o meno performante, sul versante della produttività, non può prescindere da una prima mappatura del fattore anagrafico della popolazione aziendale campionata. Tabella 27. Numero collaboratori nelle aziende private per età anagrafica

ETÀ ANAGRAFICA

NR. COLLABORATORI %

15-24 2.070 1,6 25-34 23.321 17,9 35-44 51.612 39,5 45-54 48.678 37,3

55 e oltre 5.714 4,4 TOTALE 131.395 100,0

Rispetto al dato numerico complessivo è evidente come la popolazione aziendale si concentri tra i 25 e i 54 anni, con un picco del 39,5% nella classe 35-44. Questa concentrazione verticale risulta quanto mai evidente se si considera il netto divario rispetto alle due classi marginali, 15-24 e i 55 e oltre. Laddove per la prima classe d’età (15-24) si possono addurre diverse spiegazioni: quali l’ingresso ritardato nel mercato del lavoro dovuto all’allungamento del periodo di formazione, o ancora la presenza di contratti in alternanza scuola-lavoro, dall’apprendistato al tirocinio formativo, oggi sempre più diffusi sia a tutti i livelli d’istruzione, anche universitario, sia in quasi tutte le professioni (dall’artigiano, all’operario fino al neo-ingegnere). Se guardiamo all’ultima fascia (55 e oltre), invece, questo appiattimento non trova spiegazioni, tanto più che le politiche attuali spingono ad innalzare l’asticella anagrafica di uscita dal mercato del lavoro a 65 anni, come indicato nell’Agenda di Lisbona. I dati del presente studio sono retrospettivi e fanno riferimento all’anno solare 2008: in questo ordine, è difficile capire se sia stata o meno la situazione economica congiunturale di crisi a influenzare questi risultati, registrando in parte la tendenza di questi ultimi mesi. Il fronteggiamento della crisi da parte delle aziende, infatti, ha comportato un netto taglio delle risorse sul versante dei precari e, attraverso pratiche di prepensionamento, dei collaboratori senior. Una riflessione ulteriore, rilevante ai fini di qualsiasi studio sull’età anagrafica nel mondo del lavoro, investe direttamente il campionamento per fasce d’età adottato e consolidato negli studi statistici: a ben vedere le due classi estreme (15-24 e 55 e oltre) che compaiono in questa classificazione sono alquanto contraddittorie e lasciano aperti ampi spazi di discrezionalità interpretativa del dato raccolto. La classe 15-24 dovrebbe essere suddivisa tra 15-18 e 18-24: le nuove regolamentazioni del mercato del lavoro (L. 30/2003 cd. Legge Biagi e successive) prevedono che fino alla maggior età (18 anni) si possano sottoscrivere solo contratti in formazione-lavoro, tirocini formativi e/o apprendistati. Adottando una classe più ampia nel campionamento (15-24), si rischia di non potere registrare fenomeni diversi di inserimento nel lavoro e, soprattutto, di assimilare rapporti lavorativi eterogenei, sia dal punto di vista datoriale che del soggetto che lavora.

67 In questa sezione, dove non viene indicato diversamente, tutti i dati derivano dall’elaborazione dell’analisi statistica condotta attraverso i questionari quantitativi.

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La stessa difficoltà, in termini di rilevazione statistica dei fenomeni, si trova nella classe “55 e oltre”: se oggi l’età di pensionamento è collocata a 60 anni per le donne e 65 per gli uomini, con una tendenza a ridurre questa diseguaglianza di genere, la classe rilevata è troppo ampia per mettere in evidenza i fenomeni caratteristici di questa popolazione. Verrebbe quasi da dire, che oggi sarebbe più corretto indicare una classe “65 e oltre” , in cui dovrebbero confluire tutte le forme di lavoro indipendente, a progetto, o altro ancora che fotografano l’attività di molti senior, i quali, raggiunta la pensione, continuano a far fruttare l’esperienza professionale maturata in altro modo. Un fenomeno questo rispetto al quale ad oggi non esistono rilevazioni numeriche significative che permettano di quantificarlo e conoscerlo: piuttosto, anche nella nostra ricerca, i dati ufficiali rilevano una quasi assenza di senior nelle imprese e ancor più un totale inutilizzo delle nuove forme contrattuali per questa fascia d’età. Ma guardiamo più nel dettaglio la ripartizione dei collaboratori rispetto all’età, al settore produttivo e al dimensionamento aziendale, per sviluppare con più perizia le evidenze raccolte nel nostro studio. Tabella 28. Frequenza del numero di addetti in funzione dell’età anagrafica disaggregata per settore produttivo

La tabella mostra chiaramente come, al di là della netta preponderanza del numero di addetti del settore dei Servizi (89,2%) rispetto all’Industria (10,8%), prevalga la concentrazione anagrafica nella fascia 25-54 anni. È inoltre possibile mettere in evidenza alcuni trend che caratterizzano la distribuzione anagrafica per settore:

• Nel settore Industriale, dove l’attività, per lo meno nelle fasce non impiegatizie o dirigenziali, richiede uno sforzo e una capacità fisica più sostenuta, si evince una maggior concentrazione tra i 35 e i 44 anni, in particolare il 30,1% dei collaboratori si colloca tra i 25-34 anni e il 37,8% nella fascia successiva (35-44). Questo dato ha trovato riscontro anche nelle interviste in profondità, la maggior parte delle aziende del settore manifatturiero ha dichiarato un età media dei propri collaboratori tra i 35-40 anni, salvo ruoli dirigenziali che coinvolgono anche fasce superiori.

• Nei Servizi, caratterizzati da attività meno onerose sul piano fisico, il picco dell’età anagrafica degli addetti si distribuisce tra le fasce 35-44 (39,5%) e quella successiva 45-54 (38,5%).

Un altro aspetto significativo per studiare l’età anagrafica degli occupati delle aziende deriva dal dimensionamento aziendale: studiando la distribuzione anagrafica delle aziende private aderenti abbiamo notato come la dimensione aziendale incida sia sulla presenza di collaboratori senior sia su quella di genere (vedi approfondimento di seguito).

Settore

15-24 25-34 35-44 45-54 55 e oltre Totale

Nr. % Nr. % Nr. % Nr. % Nr. % Nr. %

Industria 207 1,5 4.277 30,1 5.365 37,8 3.626 25,5 782 5,5 14.207 100,0

Servizi 1.863 1,6 19.044 16,3 46.247 39,5 45.052 38,5 4.932 4,2 117.138 100,0

Totale 2070 1,6 23.321 17,7 51.612 39,3 48.678 37,0 5.714 4,3 131.395 100,0

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Tabella 29. Frequenza del numero di addetti in funzione dell’età anagrafica disaggregata per dimensione aziendale

Settore 15-24 25-34 35-44 45-54 55 e oltre Totale

Nr. % Nr. % Nr. % Nr. % Nr. % Nr. %

PMI 6 4,5 55 41,4 53 39,8 19 14,3 0 0,0 133 100,0

Grande 1.138 1,7 8.695 12,7 29.000 42,3 24.246 35,4 5.488 8,0 68.567 100,0

Multinazionale 926 1,5 14.571 23,2 22.559 36,0 24.413 38,9 226 0,4 62.695 100,0

Totale 2.070 1,6 23.321 17,7 51.612 39,3 48.678 37,0 5.714 4,3 131.395 100,0

I dati rappresentati nella tabella 29, escludendo il caso delle PMI che nelle nostra unità di analisi risulta inconsistente, ci permettono di evidenziare un trend particolare in merito alla distribuzione anagrafica rispetto al dimensionamento aziendale. Il dato che risalta è la “giovinezza” delle multinazionali, dove il picco d’età si concentra nelle stesse fasce 35-54, con una caduta repentina dopo i 54: la fascia “55 e oltre” rappresenta lo 0,4% sul totale degli occupati nelle multinazionali. Al contrario, nelle grandi imprese italiane si evidenzia una distribuzione più omogenea nelle due fasce estreme 25-34 (12,6%) e “55 e oltre” (8%), sebbene quest’ultima sia sempre più esigua. Questa panoramica sull’età anagrafica del campione di aziende incluse nell’analisi è allineata con la rilevazione delle forze lavoro nazionali di ISTAT (2008): la forza lavoro occupata, come si vede nella tabella 30, si concentra nella fascia 35-44 (31,6%) e 45-54 (25,7%) Tabella 30. Occupati in Italia 2008 per età anagrafica68 (in migliaia di unità)

Fascia d’età Nr. Occupati %

15-24 1.478 6,3 25-34 5.631 24 35-44 7.418 31,7 45-54 6.017 25,7

55 e oltre 2.860 12,2 Totale 23.404 100

Quanto osservato nel nostro campione d’indagine, pertanto, risulta in linea con la media nazionale. Data questa situazione di relativa giovinezza delle imprese, per studiare la relazione tra fattore anagrafico e stato di salute delle risorse umane dovremo guardare la questione da più angolature per poter rilevare correlazioni significative. Infatti, diversamente dagli studi in letteratura riportati nella ricerca desk, in questo caso non abbiamo un campione di riferimento della popolazione senior significativo che permetta di trattarlo come sottopopolazione, in cui rilevare dei trend o delle evidenze particolari. Ma partendo dagli esiti di quegli studi, si delinea l’opportunità e la correttezza di affrontate la questione dell’età nel mercato del lavoro a partire da un approccio dinamico e non statico: la crescita professionale, l’anzianità di lavoro, è un processo personale caratterizzato da più fasi, ognuna delle quali è contraddistinta da fragilità e punti di forza specifici, sia fisico-psicologici che relazionali e sociali. Se quindi non emergono evidenze empiriche ed epidemiologiche di una relazionalità lineare tra invecchiamento, assenteismo per motivi di salute e performance delle risorse umane, ma si evince piuttosto che queste relazioni trovano giustificazione nel tessuto personale, professionale e sociale dei lavoratori, ci sembra che la questione dell’età nel mondo del lavoro debba essere osservata da un punto di vista più ampio, che includa il versante gestionale, organizzativo ed economico – in sintesi dal punto di vista del Ben-Essere delle risorse umane. 68 I Dati sulle forze lavoro sono consultabili all’indirizzo : http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20090427_01/Media_2008.zip

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Nelle aziende da noi intervistate abbiamo raccolto risposte/osservazioni da parte dei professionisti che ci hanno guidato in questa lettura dinamica, di bilancio delle capacità, potremmo dire. Tra gli argomenti d’intervista era stata volutamente posta una domanda sui collaboratori senior, sul come sono valorizzate in azienda “l’esperienza e la fragilità”: sorprendentemente, questa domanda ha riscontrato un certo imbarazzo. Da un lato, la stragrande maggioranza dei senior presenti in azienda occupano posti di rilievo, dirigenti o quadri, rispetto ai quali non sembrano doversi porre problemi di salute o benessere; dall’altro, i collaboratori senior sono diventati “delle mosche bianche” nelle organizzazioni: non solo sono pochi, ma, salvo casi particolari di conflittualità interna, costituiscono anche le risorse migliori dal punto di vista della responsabilità, senso di appartenenza e condivisione dei valori aziendali. Al contrario, invece, abbiamo raccolto diverse testimonianze che spostavano problemi e questioni di assenteismo e malessere delle risorse sulle fasce più giovani di collaboratori, adducendo spiegazioni di natura sociale e gestionale.

Valorizzare fragilità ed esperienza

Le testimonianze e i dati raccolti sembrano quindi indicare un valore aggiunto nell’interpretare la questione dell’età in un’ottica distributiva, ovvero mettendo a confronto i comportamenti delle diverse fasce d’età, e organizzativa, portando contemporaneamente l’attenzione alle diverse variabili indagate: frequenza infortunistica, assenteismo per motivi di salute, costo delle assenze, tipologie contrattuali. Il punto di partenza di questo approccio dinamico alla questione dell’età si esplicita in una lettura focalizzata prioritariamente sulle capacità distintive o residue che caratterizzano ogni fase anagrafica. Riprendendo la tabella in merito alle capacità in crescita/diminuzione per i collaboratori senior, presentata nella ricerca desk, possiamo sviluppare alcune considerazioni importanti alla luce delle testimonianze raccolte durante le interviste. Le capacità indicizzate in tabella per i collaboratori senior potrebbero essere lette in modo speculare per i junior: in questo modo, avremmo un capovolgimento delle due colonne, per cui ad esempio le capacità in diminuzione per i senior sarebbero quelle in crescita per i giovani. Tuttavia, nelle testimonianze raccolte durante le interviste abbiano riscontrato sia che una simile schematizzazione è troppo rigida e non riproduce la varietà delle situazioni reali, sia di come le aziende oggi si rendano conto del valore aggiunto derivante da un mix generazionale, capace di preservare una certa stabilità e cultura organizzativa. In controtendenza all’opinione diffusa sul valore dei senior, abbiamo raccolto diverse testimonianze: - Non è vero, o comunque non è detto, che i giovani abbiano più forza fisica degli

ultracinquantenni: in attività in quota non solo si preferisce mandare il senior perché ha più esperienza, ma spesso mostra anche maggior resistenza allo sforzo fisico e più preparazione atletica.

- Il problema dell’assenteismo non è una questione da incasellare entro fasce d’età: le classi più giovani oggi mettono in luce una difficoltà inedita sinora sottovalutata, il riconoscimento sociale

Capacità in crescita Capacità in diminuzione Esperienza Forza muscolare

Indipendenza/Autonomia Vista, udito, senso del tatto Competenza decisionale Memoria a breve termine Senso di responsabilità Rapidità di percezione

Costanza/Fermezza Reattività

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della professione: essere un operaio o un tecnico, soprattutto in grandi aziende metalmeccaniche che hanno fatto la storia del nostro Paese, non è più considerata una “professione di valore sul piano sociale”. Questo tipo di considerazione è stata raccolta in grandi aziende che registrano un tasso di assenteismo elevato nelle frange più giovani, assenteismo apparentemente non giustificato da motivi macroscopici: oggi questi collaboratori possono godere di tutte le sicurezze e garanzie sul versante delle protezioni sociali e normative, sul versante della sicurezza sul lavoro sono molto più tutelati e protetti che in passato, godono di molte iniziative e benefit messi in campo dall’azienda, soprattutto dalle Risorse umane e dall’Area formazione. Eppure è proprio tra i giovani operai, che si riscontrano tassi di assenteismo elevati: ma, sorprendentemente, sono assenze che cadono a ridosso dei giorni di riposo o delle ferie. Come spiegarle allora? Le uniche spiegazioni raccolte sono state in questo caso di natura sociale: non solo il lavoro di operaio oggi non gode più di stima sociale all’esterno, ma, ancor più radicalmente, tra i giovani sta venendo meno il senso di appartenenza e partecipazione alla stabilità aziendale, alla sua cultura, un valore diffuso invece nei lavoratori senior. Queste forme di assenteismo, giustificate da perdita di rilevanza sociale della professione, si notano in forme e modi diversi anche nei call-center o ancor più drammaticamente nelle scuole. Per i giovani, soprattutto per i giovani insegnanti, è demotivante e frustrante anzitutto la consapevolezza di non accedere più a professioni che godano di un riconoscimento e apprezzamento più ampio nella società. Forse questo problema dovrebbe aprire discorsi di natura sociologica e sfociare in considerazioni su quali siano oggi le professioni “di punta”: al contrario, preme qui mettere in evidenza il ruolo della compresenza di un mix generazionale nelle aziende. I lavoratori più anziani sono portavoce di esperienza e attaccamento alla professione e all’impresa: per questo, rappresentano una risorsa fondamentale per guidare e accompagnare i giovani, mettendo a frutto le capacità caratteristiche di ogni età – fragilità e capacità degli uni e degli altri.

- Valorizzare l’esperienza dei senior non è una novità nel mondo aziendale: abbiamo incontrato molte realtà in cui esistono premi per l’anzianità di carriera. Ma la domanda è quanto siano veramente efficaci questi rimedi o se piuttosto, al di là della manifestazione esterna, non nascondano profonde contraddittorietà. Valorizzare chi raggiunge i vent’anni di carriera in azienda per poi ammortizzare i momenti di crisi e cambiamento con prepensionamenti e mobilità, non è forse un comportamento ambiguo? Da premiare sembrano piuttosto quelle iniziative meno spettacolari e più sostanziali come il mentoring: l’affiancamento di un senior al collaboratore giovane per accompagnarne l’ingresso in azienda, condividerne valori e attaccamento attraverso l’esperienza personale di una vita, vent’anni, in quel luogo di lavoro.

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Gli infortuni

Nei questionari somministrati alle aziende è stato chiesto il numero di infortuni disaggregato per fascia d’età anagrafica, nazionalità e tipo di contratto. Vediamo nelle tabelle riassuntive i dati raccolti. Tabella 31. Frequenza degli infortuni69 (Nr. Infortuni/Nr. Addetti) per settore produttivo

Settore Nr. Infortuni Nr. Addetti Frequenza (%) Industria 1.386 14.257 9,7 Servizi 2.786 117.138 2,37

Questo dato trova conferma anche nelle medie nazionali registrate dall’INAIL: la frequenza infortunistica complessiva per settore produttivo vede al primo posto il settore Agricolo, seguito dall’Industria e costruzioni (5,28%) e dai Servizi (2,92% - dato che include anche la PA). Tabella 32. Frequenza degli infortuni (Nr. Infortuni/Nr. Addetti) per età anagrafica

Età Anagrafica Nr. Infortuni Nr. Addetti Frequenza (%) 15-24 119 2.070 5,7 25-34 530 23.321 2,3 35-44 1474 51.612 2,8 45-54 1996 48.678 4,1

55 e oltre 53 5.714 0,9 TOTALE 4172 131.395 3,1

Prendendo come parametro di riferimento la frequenza media di infortuni del campione analizzato (3,1%), si può vedere che le classi più esposte siano anzitutto i giovani (15-24), che registrano in assoluto il livello più alto di rischio, seguiti dai lavoratori compresi nella fascia d’età tra 45 e 54; al contrario, i lavoratori senior (over 55) mostrano il livello di rischio e il numero di incidenti più basso in assoluto (0,9%). I dati rilevati nel nostro campione, quindi, evidenziano un trend che smentisce ogni associazione tra invecchiamento e aumento di rischio infortunistico. L’unico aspetto che in realtà sembra più difficile da interpretare è il tasso relativo alla classe 45-54: rispetto all’andamento medio trans-generazionale infatti si attesta un picco di crescita della rischiosità in questa fascia. Perché? Sono infortuni in itinere o meno? Per interpretare i dati da noi rinvenuti, proviamo a confrontarli con i dati sull’andamento nazionale.

Tabella 33. Frequenza degli infortuni (Nr. Infortuni/Nr. Addetti) a livello nazionale (dati INAIL e ISTAT) per età anagrafica70

Età anagrafica Nr. Infortuni

2008 Nr. Occupati

2008 Frequenza. %

Fino a 34 320.490 7.109.000 4,5 35-49 366.769 10.685.000 3,4 50-64 167.438 5.216.000 3,2

65 e oltre 10.106 394.000 2,6 Totale 847.940 23.404.000 3,6

69

Si precisa che il numero di infortuni da noi rilevato è complessivo: include gli infortuni in itinere e sul luogo di lavoro, inoltre registra il numero di infortuni e non il numero di addetti infortunati – quindi include anche i casi di più infortuni occorsi allo stesso soggetto. 70 Dati elaborati a cura della Fondazione ISTUD: il numero degli addetti è tratto da ISTAT, rivelazione sulle Forze Lavoro 2008 già cit., il numero di infortuni per fattore anagrafico da INAIL, Rapporto 200, già cit..

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Anche i dati nazionali evidenziano che la fascia più giovane dei collaboratori è più esposta al rischio infortunistico, ben al di sopra della media (3,6%). Se guardiamo poi la questione infortunistica in ottica di genere, sempre in linea con i dati nazionali (INAIL), anche nel campione di analisi si evince che gli uomini (Freq.=3,6%) si infortunano di più delle donne (Freq.=2,2%). Per capire in quali casi aumenta l’esposizione al rischio e, soprattutto, se sia possibile descrivere il soggetto-tipo di lavoratore più fragile, sotto questo riguardo, nel questionario è stato chiesto di specificare il numero di infortuni rispetto al tipo di rapporto contrattuale (a tempo determinato, indeterminato o di collaborazione) e alla nazionalità. Purtroppo, non è possibile rendere conto esaustivamente di questi dati, neppure sul campione di unità incluse nell’analisi quantitativa a causa dell’alto tasso di missing registrato nella compilazione di questi campi informativi. In particolare, per quanto riguarda la nazionalità, i dati restituiti sono insignificanti a livello generale, tanto se consideriamo la componente straniera sul totale dei collaboratori campionati quanto più rispetto al numero di incidenti che investono questa fascia. Delle 13 aziende private incluse nell’analisi solo 8 hanno risposto sul numero di stranieri che rientrano nel computo dell’organico: in tutto, secondo questi dati, i collaboratori stranieri sono 843 (0,6% sul totale dei collaboratori) - di cui 228 comunitari e 615 extracomunitari. Sui dati degli infortuni per gli stranieri, invece, il tasso di missing è troppo elevato per elaborare alcun dato o osservazione. Per studiare gli infortuni per inquadramento contrattuale e reperire eventuali correlazioni, invece, il problema analitico è stato più complesso: per raggiungere questo obiettivo euristico non era sufficiente conoscere il numero totale di infortuni per tipo di contratto, bensì era necessario poter calcolare la frequenza infortunistica secondo le differenti forme contrattuali. Tuttavia, per calcolare la frequenza infortunistica per contratto si è dovuto individuare un campione di unità d’analisi contraddistinto dal fatto che per ogni unità risultassero compilati tutti i campi necessari al calcolo: numero di collaboratori disaggregato per forma contrattuale e numero di infortuni disaggregato secondo le stesse variabili. Date queste premesse, il fenomeno infortunistico per tipologia contrattuale è stato stimato creando una sottopopolazione del campione di analisi – 6 unità organizzative sulle 13 incluse nell’analisi. I risultati di tale elaborazione sono rappresentati di seguito. Tabella 34. Frequenza degli infortuni (Nr. Infortuni/Nr. Addetti) per tipologia contrattuale

Tipo di contratto

Nr. Infortuni Frequenza. %

Tempo indeterminato

406 4,2

Tempo determinato

17 2,4

Co.co.co co.co.pro

1 2,5

Totale 424 4,19

Nei limiti euristici di questo studio esplorativo su un campione ridotto di unità aziendali, sembrerebbe che il tipo di contratto non influisce direttamente e linearmente sulla frequenza infortunistica: i contratti a tempo indeterminato risultano quelli con una frequenza infortunistica più alta, quasi doppia rispetto alle altre forme contrattuali, ma comunque in linea con la media generale. Come interpretare questi dati, se non riconoscendo che non sembra esservi alcuna relazione tra anzianità e rischio infortunistico? Anzi la classe più giovane risulta la più esposta, le fasce intermedie registrano un livello allineato alla soglia media di rischio infortunistico, mentre la classe più anziana si presenta come la meno esposta. Se da un lato, questi dati sono parziali perché non forniscono alcuna informazione sul tipo di infortunio, se in itinere o in attività lavorativa, né sulle conseguenze in termini di gravità dell’infortunio, dall’altro possono aiutarci a capire come la

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gestione del rischio, quindi un’attenzione a livello gestionale, sia quanto mai importante e necessaria per ridurre la percentuale di rischiosità.

Prevenire gli infortuni

Il profilo di soggetto più esposto potenzialmente all’infortunio, dalle aziende campionate, sembra essere l’uomo giovane per lo più occupato nel settore dell’Industria e in attività manuali (dall’operaio addetto al reparto produzione ai tecnici della manutenzione). In questo caso, dunque, escludendo il fenomeno degli infortuni in itinere o su strada (per i commerciali), rispetto al quale possiamo dire di aver riscontrato in quasi tutte le aziende da noi intervistate una programmazione di corsi di guida sicura o, addirittura, la messa disposizione di vetture che garantiscano massimi livelli di sicurezza, l’aspetto più importante su cui tenere la massima sorveglianza risulta proprio una corretta gestione e valutazione del rischio. Come si è visto, il rischio è proporzionale a una buona conoscenza delle sue caratteristiche, e delle variabili di contesto che lo possono influenzare, e inversamente proporzionale alle azioni di prevenzione messe in campo per evitarlo. Tanto più è alto il livello di attenzione, tanto più diminuisce la probabilità dell’evento dannoso, di rischio. Questo in parte è indicativo di come i giovani operai e tecnici siano più esposti degli anziani, nella maggior parte dei casi: poca esperienza, turni di lavoro più stressanti e meno regolari, minor consapevolezza e altro ancora sono spesso all’origine di incidenti durante l’attività lavorativa. Al contrario, una nota positiva che abbiamo riscontrato nelle interviste, i giovani tendenzialmente accettano più facilmente e repentinamente l’utilizzo di nuove tecnologie di lavorazione e i DPI (Dispositivi di Protezione Individuale). Queste evidenze sottolineano l’importanza di una corretta e ripetuta formazione e addestramento del personale che opera in siti o lavorazioni a rischio non basato su lezioni teoriche ma sulla simulazione di situazioni di rischio, sull’esigenza di un affiancamento tra senior e giovani: un mix generazionale quanto mai fecondo in questo tipo di professioni, in cui l’esperienza pratica riveste un ruolo cruciale. La valutazione e la gestione del rischio sono oggi rivalutate e incentivate dalla stessa normativa in materia di job protection, e in alcune aziende abbiamo raccolto testimonianze di veri e propri studi sull’evento infortunistico molto interessanti. Ad esempio, una multinazionale italiana ci ha fornito uno studio fatto sulla tempistica degli infortuni rispetto alla calenderizzazione della settimana lavorativa e delle ferie, i risultati sono quanto mai indicativi. Durante la settimana lavorativa, il livello di rischio infortunistico è di un terzo superiore il lunedì e ancor più il giovedì, entrambi giorni in cui il livello di attenzione è ridotto: nel primo caso perché a ridosso del riposo settimanale, mentre il giovedì è preponderante la stanchezza, accumulata da più giorni di turnazione continuativa. Nell’arco dell’anno solare invece il picco degli infortuni si registra nel mese di luglio, doppio rispetto agli altri, mentre il livello minimo nel mese di febbraio: anche in questo caso incide sicuramente la capacità di attenzione e il benessere sul luogo di lavoro. Questo è solo un esempio, molto interessante, che richiederebbe uno studio più ampio a livello nazionale e per tipo di attività lavorativa, se consideriamo che la numerosità della fascia di occupati che lavora a turnazione.

Rispetto agli orari di lavoro, abbiamo registrato e raccolto diverse iniziative nelle imprese: la maggior parte è oggi orientata a rendere sempre più disponibili orari flessibili che agevolino le esigenze personali dei collaboratori. Nel caso specifico della turnistica è da segnalare un caso di buona prassi. Eli Lilly Italia ha messo in campo un esperimento innovativo per modificare la settimana lavorativa negli impieghi a turnazione: una settimana basata su 4 giorni di lavoro e due di riposo, scanditi da una turnistica progressiva nell’arco del mese.

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Un ultimo dispositivo innovativo nei processi di gestione della sicurezza rinvenuto nell’indagine qualitativa è quello delle segnalazioni e della gestione della sicurezza attraverso la responsabilizzazione del team di lavoro: uno strumento premiante perché veramente capace di “mettere a sistema l’idea di prevenzione”. Ci sembra opportuno tuttavia concludere queste considerazioni con un’idea: non esiste una best practice nella gestione del rischio, esistono tante best practice: la gestione del rischio, infatti, è fondamentalmente contestualizzata al sito produttivo, al tipo di lavorazione, alle variabili di contesto, ma soprattutto ai lavoratori, veri protagonisti e co-autori di ogni possibile modello o sistema di gestione elaborato. Qualsiasi modello elaborato non eliminerà mai la componente soggettiva di gestione del rischio: il “sistema” quanto più perfetto possibile non assolverà mai a una de-responsabilizzazione di ciascun collaboratore partecipe del processo lavorativo.

Assenza e malattia

Relativamente alle cause specifiche di malattia e malattie professionali, data la legge sulla privacy non è stato possibile accedere alla diagnosi puntuale dei collaboratori: anche i medici competenti, nell’attività di sorveglianza sanitaria, hanno a disposizione solo i dati relativi all’idoneità fisica al lavoro e non un quadro clinico complessivo delle risorse umane, a meno che non sia l’individuo stesso a denunciare particolari problemi di salute. Ciò costituisce una grave carenza rispetto al ruolo del medico competente che dovrebbe conoscere lo stato di salute e di malattia di tutti i lavoratori a lui affidati. Nella nostra indagine, attraverso il questionario, abbiamo però chiesto, le giornate di lavoro perse per motivi di salute, disaggregate sia per fascia di età che per tipo di contratto.

IVECO ASTRA Veicoli Industriali, del Gruppo FIAT, ha implementato un sistema di gestione della sicurezza sul lavoro includendolo nella gestione della qualità del prodotto, sul modello consolidato da Toyota: l’obiettivo è 0 errors, 0 accidents. Un aspetto centrale di questo sistema consiste nella segnalazione da parte dei collaboratori degli eventuali problemi, dei mancati incidenti, per monitorare e migliorare costantemente il livello produttivo e la sicurezza. La gestione delle segnalazioni è organizzata secondo i reparti produttivi, ognuno dei quali è gestito da un responsabile per il controllo della sicurezza. L’aspetto da premiare di questo sistema, al di là dell’impatto positivo in termini di riduzione degli eventi rischiosi associato a un alto livello di qualità della produzione, si colloca eminentemente nell’aver individuato nella responsabilizzazione e nella pro-attività dei lavoratori il nesso cordiale per un’effettiva e efficace gestione della sicurezza. Non solo, quest’attenzione al coinvolgimento diretto del lavoratore ha un positivo effetto di ritorno: il collaboratore oltre a sviluppare un alto livello di attenzione e comportamenti improntati alla prevenzione, gode di maggior soddisfazione, senso di appartenenza e riconoscimento nella sua attività – quindi maggior benessere sul luogo di lavoro e miglior livello di produttività.

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Tabella 35. Giornate procapite perse per motivi di salute (2008) e disaggregate per fascia d’età

Età

anagrafica Nr. Giornate

perse % Nr. Collaboratori

2008 %

Nr. Giornate perse procapite

15-24 10.709 1,5 2.070 1,6 5,2 25-34 139.976 19,7 23.321 17,9 6,0 35-44 297.304 41,9 51.612 39,5 5,8 45-54 215.926 30,4 48.678 37,3 4,4

55 e oltre 46.089 6,5 5.714 4,4 8,1 La percentuale di giornate perse per motivi di salute è superiore nelle persone proporzionalmente con fascia di età tra i 25 e i 34 anni, rispetto al totale della popolazione impiegata in quella fascia: lo stesso fenomeno si identifica nella classe di età che va dai 35 ai 44 anni. Invece, dato interessante, è che la popolazione tra i 45 e 54 anni usa meno i giorni di assenza, rispetto alla popolazione impiegata nella stessa classe di età. La malattia poi torna a essere presente nell’età superiore a 55 anni, registrando un valore superiore in proporzione alla numerosità della classe. Gli stessi fenomeni individuati dall’assenteismo in proporzione alla numerosità della classe si evidenziano nella stima delle giornate perse procapite: il dato minimo 4,4 si registra proprio per la classe 45-54, a seguire la classe più giovane con 5,2 giornate procapite perse. Nelle classi centrali, invece, si osserva che la classe con più alto rischio di assenza per motivi di salute è quella tra 25-34; confermato infine il dato per cui la malattia e i problemi di salute tornano ad incidere sugli over 55, con una differenza netta rispetto alle due classi precendenti (8,1). Da questi dati, seppur indiretti, in quanto si confrontano le percentuali di ripartizione del numero di giornate perdute tra le differenti classi di età e la ripartizione tra i collaboratori tra le età, nonché la stima di giornate procapite perse, si evince che non c’è una correlazione diretta tra evolvere dell’età e evolvere dell’assenza per “malattia”. Per quanto la classe senior (over 55) registri il valore più alto di giornate perse procapite, questo fenomeno non identifica un trend o una linearità diretta: altrimenti come spiegare il fenomeno disomogeneo delle altre classi d’età? Prende luce quindi la possibilità di sbaragliare uno stereotipo abbastanza diffuso nelle culture aziendali per cui un’età superiore ai 45 anni significa invecchiamento e quindi rischio di assenza dal luogo del lavoro: da questa ricerca, su 131.395 soggetti delle aziende private, emerge che è proprio la classe tra i 45 e i 54 ad essere più presente, forse anche perché è quella che comincia a temere di più di invecchiare, di non essere più utile aziendalmente e quindi presto dimissionabile. O forse perché tra i 45 e i 54 si raggiunge la vera pienezza dell’epopea professionale. Si è sufficientemente giovani per non soffrire di condizioni croniche e sufficientemente saggi e esperti sul proprio posto di lavoro. Esaminando se vi sia un effetto di genere rispetto all’uso dello strumento malattia, dalla ricerca emerge che:

Tabella 36. Giornate procapite perse per motivi di salute (2008) disaggregate per sesso dei collaboratori

Genere Nr.

Collaboratori % Nr. Giornate perse %

Nr. Giornate perse

procapite Maschi 85.008 64,7 448.673 63,2 5,3

Femmine 46.387 35,3 261.331 36,8 5,6 Totale 131.395 100 710.004 100 5,4

Il tasso di assenza (giornate perse procapite) è globalmente di circa 5.4 giornate perse per lavoratore dove le donne presentano un tasso di assenza maggiore (5.6%) rispetto agli uomini (5.3%). Vi è quindi una leggera tendenza da parte del mondo femminile a usare di più l’assenza per malattia:

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poiché abbiamo chiesto alle aziende di dare i dati di assenza escludendo il congedo per maternità, queste giornate dovrebbero essere proprio legate esclusivamente a malattia.

Assenze e rapporti contrattuali

Se valutiamo il peso delle giornate perse rispetto all’inquadramento contrattuale (tempo indeterminato e tempo determinato)71 possiamo vedere che chi è a tempo determinato ha un tasso minore (3,0%) rispetto al tempo indeterminato (5,8%). Registrando quindi come l’insicurezza del rapporto di lavoro possa essere un deterrente all’assenza per motivi di salute - l’interrogativo che si apre è quanto questo deterrente agisca a discapito del Ben-Essere dei collaboratori. Tabella 37. Giornate perse per motivi di salute (2008) disaggregate per tipologia contrattuale

Età anagrafica

Nr. Giornate perse per

contratti a tempo indeterminato

%

Nr. Giornate perse contratti

a tempo determinato

%

15-24 5.592 0,8 4.617 45,7

25-34 136.286 18,3 3.769 37,3 35-44 296.023 39,8 1.281 12,7 45-54 259.697 34,9 438 4,3

55 e oltre 46.171 6,2 0 0 Totale 743.769 100,0 10.105 100,0

Il tasso assoluto delle giornate perse dei contratti a tempo determinato rispetto al totale delle giornate perdute a tempo indeterminato a pari all’1%. Ciò nonostante è evidente dalla ricerca come lo strumento del contratto a tempo determinato è usato per le fasce più giovani, mentre è quasi assente nella fascia ultra degli quarantacinquenni, per poi sparire oltre i 55 anni di vita. Nel questionario, infatti, è stato chiesto il dato relativo alla tipologia contrattuale di inserimento dei collaboratori (determinato, indeterminato o a collaborazione a progetto o coordinata e continuativa), disaggregato per fascia d’età. I risultati, sebbene esigui sul versante dei contratti di collaborazione, mostrano come l’uso dei contratti a tempo determinato, nelle 13 aziende private incluse nell’analisi, sia comunque più diffuso per le fasce più giovani. In particolare si osserva che i contratti di collaborazione sono ambito esclusivo dei più giovani mentre non vengono registrati i dati di assenza dei liberi professionisti e consulenti senior.

71 In questo caso, il dato sui contratti di collaborazione a progetto e coordinata e continuativa sono inconsistenti.

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Tabella 38. Collaboratori nelle unità campionate per età e tipologia contrattuale

Tipo di contratto

Età anagrafica 15-24 25-34 35-44 45-54 55 e oltre Totale

Nr. % Nr. % Nr. % Nr. % Nr. % Nr. % Tempo

indetermi-nato

867 0,7 21.010 16,5 51.198 40,3 48.425 38,1 5.685 4,5 127.185 100,0

Tempo determi-

nato 1.134 33,4 1.853 54,5 254 7,5 116 3,4 42 1,2 3.399 100,0

Co.co.pro/ 4 4,7 40 46,5 19 22,1 12 14,0 11 12,8 86 100,0

co.co.co

Totale 2.005 1,5 22.903 17,5 51.471 39,4 48.553 37,2 5.738 4,4 130.670 100,0

Ad eccezione della fascia più giovane 15-24 in cui le due principali tipologie contrattuali si bilanciano nell’uso (43,2% contratto a tempo indeterminato e 50,6% con contratto a tempo determinato), per tutte le altre classi vi è un netto ricorso al contratto a tempo indeterminato. È interessante inoltre notare che rispetto ai tre tipi di rapporti contrattuali, nel nostro campione di analisi, l’unico che presenta un comportamento influenzato dalla variabile anagrafica è il contratto a tempo determinato: in questo caso, si rileva chiaramente un’alta concentrazione nelle classi di età più giovani 15-24 (33,4%) e, soprattutto, 25-34 (54,5%), mentre va via scomparendo a macchia di leopardo nelle classi più adulte.

I costi della malattia

Se non esistono evidenze circa una relazionalità diretta tra l’invecchiamento della forza lavoro e l’incidenza di infortuni o malattie per problemi di salute in genere, la relativa giovinezza delle aziende sembra trovare qualche spiegazione sul versante economico: al crescere dell’età, infatti, aumenta il livello retributivo nonché le protezioni e garanzie sociali del posto di lavoro a tempo indeterminato. Per capire quanto i livelli retributivi possano incidere sull’età anagrafica delle aziende possiamo guardare al grafico72 seguente: vengono schematizzati gli incrementi retributivi per fasce anagrafiche secondo i quattro livelli di inquadramento professionale – dirigenti, quadri, operai, impiegati.

72 Tutti i dati sui livelli retributivi medi nazionali sono tratti dal Rapporto sulle retribuzioni 2009, redatto da OD&M Consulting, cit.; qui in particolare, pp. 95-6.

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Grafico 3. Incrementi di retribuzione nel passaggio da ciascuna classe di età a quella successiva in base all’inquadramento contrattuale (2008)

Questo grafico offre interessanti spunti per considerare l’assenza della popolazione senior nelle aziende campionate, assenza che come si è visto investe direttamente gli incarichi non dirigenziali- impiegai e operai.

– Le retribuzioni degli impiegati conoscono una notevole accelerazione, passando da meno di 24 anni a 30 anni e poi fino a 40 anni (+23,0 e +20,2%), vale a dire nella fase iniziale della vita lavorativa; dopo di che, passando da 31-40 a 41-50 anni presentano incrementi più contenuti (+6,9% e +5,8%), fino all’ultima fascia d’età in cui lavorare comporta un guadagno inferiore alla stessa pensione maturata. In questa situazione, da un lato, è il lavoratore stesso che, in assenza di incentivi economici aziendali o, soprattutto, quando non percepisce un buon livello di Ben-Essere sul luogo di lavoro, preferisce uscire dal mercato del lavoro; dall’altro, per l’azienda anche questo sforzo di trattenimento e attenzione diventa un onere in più che catalizza, qualora necessario, l’avviamento al prepensionamento.

– Per gli operai invece esiste un buon incremento retributivo per tutti i passaggi di classe d’età: passando dalla classe inferiore ai 24 anni a quelle successive a 24-30 anni l’incremento è dell’10,4%, e all’aumentare dell’età si hanno degli incrementi tra fasce sempre inferiori ma comunque significativi. Il gap minimo si riscontra nel passaggio da 31-40 anni a 41-50 anni, con un aumento retributivo del 6,8%. In questo caso, l’assenza di senior trova per lo più spiegazione nell’alto livello di rischio e logoramento cui il fisico è sottoposto in queste lavorazioni.

– I dirigenti , invece, a ogni fascia di età presentano, rispetto alla fascia precedente, un

incremento delle retribuzioni medie molto diverso: passando da 31-40 a 41-50 anni di età si

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ha la crescita retributiva più significativa (+12,3%), mentre passando da 41-50 a 51-60 anni si ha la crescita più bassa (+5,7%).

– I quadri presentano un comportamento simile a quello degli impiegati, ma in misura più

attenuata: le loro retribuzioni aumentano in misura particolarmente significativa (+12,3%) passando dai 24-30 ai 31-40 anni, mentre nei successivi passaggi da una classe di età all’altra le variazioni sono molto meno marcate (in particolare nel passaggio da 50enni a 60enni le retribuzioni restano praticamente invariate).

Per studiare i costi delle assenze per motivi di salute, abbiamo chiesto la retribuzione media giornaliera e le giornate perse secondo i quattro profili professionali indicati. Il dato registrato nella nostra unità campionaria, almeno sul livello retributivo, risulta in linea con la media nazionale. Il Rapporto sulle retribuzioni 2009 di OD&M Consulting73 presenta come valore assoluto delle retribuzioni medie annuali delle 4 categorie professionali (per il 2008): Tabella 39. Retribuzioni medie a livello nazionale per categorie professionali

Professione Retribuzione media annua Dirigenti 103.424€ Quadri 51.018€

Impiegati 25.679€ Operai 21.626€

Confrontando i dati raccolti, esiste una correlazione sufficientemente diretta tra il numero di giornate perse per assenza e il costo per l’azienda rispetto alla fascia di riferimento. Il fenomeno più evidente infatti è la grande quantità di giornate perse, e quindi dei costi aziendali, relativa alla fascia impiegatizia, sebbene il costo non lievita come nel caso delle assenze di quadri e dirigenti, in proporzione ben più onerose. Tabella 40. Costo per assenza medio per il totale delle giornate perse secondo inquadramento professionale

Inquadramento contrattuale

Nr. Giornate perse

% Retribuzione

giornaliera media Euro

Costo per l’assenza %

DIRIGENTI 5226 0,7 374,48 1.957.032,48 2,3

QUADRI 89.928 11,4 175,22 15.757.184,16 18,7

IMPIEGATI 596.929 75,6 99,85 59.603.360,65 70,7

OPERAI 97.184 12,3 72,09 7.005.994,56 8,3 Totale 789.267 100 180,41 84.323.571,85 100

Nell’indagine qualitativa abbiamo chiesto alle aziende quali fossero le prassi aziendali in caso di assenza per motivi di salute prolungati - come viene gestita l’assenza del collaboratore sia rispetto al carico di lavoro che rimane scoperto, sia rispetto ad un possibile “accompagnamento” del collaboratore nel periodo di assenza e al suo ritorno in azienda. In generale, abbiamo osservato due trend piuttosto distinti e omogenei: nelle grandi aziende o multinazionali, soprattutto di matrice anglosassone, si possono identificare dei percorsi “standard”, una gestione organizzata e strutturata dall’area delle risorse umane; nelle piccole aziende, ma anche nelle grandi aziende italiane, invece, non vi sono prassi predefinite: in questo caso, e questo è un dato interessante, prevale un’attenzione personalizzata al collaboratore, alla gestione dell’evento one to one, privilegiando e mettendo a frutto i canali relazionali più informali. In questo quadro, nelle grandi aziende e multinazionali, 73

Ibi, pp. 11 e segg..

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l’assenza per malattia viene nella maggior parte dei casi gestita attraverso nuove risorse tratte dal mercato istantaneo (collaboratori somministrati o a progetto) per ripartire il carico di lavoro, una scelta quindi che determina un costo aggiuntivo di gestione dell’assenza. Nelle PMI o nelle grandi imprese italiane, invece, si cerca per lo più di ripartire il carico di lavoro sulle altre risorse. Un aspetto da sottolineare, perché sicuramente indice di una cultura in evoluzione che mira a riconoscere la malattia non come un momento di interruzione della vita professionale ma, al contrario, cerca di metterne a frutto ogni potenzialità, sono le attività di formazione al rientro dalla malattia o in fase di reinserimento, per lo più a seguito di infortuni, in cui può verificarsi il caso di non una non-idoneità temporanea a rientrare nella precedente attività/postazione lavorativa. Questa buona prassi è un modello da diffondere, anche se al momento resta appannaggio delle grandi aziende o multinazionali a causa delle risorse necessarie.

La Pubblica Amministrazione e le sue tendenze numeriche

Sulla base di quanto emerso nella ricerca desk, abbiamo cercato di costruire un campione a grappolo che includesse i settori più a rischio e organizzazioni di tutte le dimensioni. All’interno dei settori, in particolare si è deciso di distinguere come sottogruppo la Pubblica Amministrazione per evidenziarne eventuali comportamenti paradigmatici. Scuole e Ospedali hanno rappresentato le organizzazioni professionali coinvolte nel progetto, nell’intento di conoscere la rischiosità del tutto particolare di questi settori, per lo più di natura psichica e sociale: il burnout. Il campione dell’analisi quantitativa è costituito da tre Aziende Ospedaliere e cinque Istituti Scolastici Superiori. Il totale di collaboratori inclusi nell’analisi è di 6.257 addetti: se il campione, quindi, è inconsistente per dedurre evidenze o confrontare i dati della popolazione della Pubblica Amministrazione (da qui in poi PA) con quelli delle aziende private, piuttosto, possiamo osservarne alcuni comportamenti macroscopici, mettendo in relazione le rispettive proporzioni. Anzitutto, osserviamo i caratteri, la composizione del sottogruppo della PA dal punto di vista dell’età anagrafica e del genere dei collaboratori. Tabella 41. Percentuale dipendenti PA e aziende private per fasce d’età

Età anagrafica % sul numero di dipendenti

in PA

% sul numero dipendenti in

impresa 15-24 1,2 1,6

25-34 12,1 17,9 35-44 36,6 39,5 45-54 44,3 37,3

55 e oltre 5,8 4,4 Totale 6.257 131.395

E’ evidente, seppure i numeri hanno bisogno di essere validati in altri studi nazionali, come la popolazione che forma la Pubblica Amministrazione rispetto alla popolazione aziendale sia

L’assenza per motivi di salute oggi può essere gestita anche attraverso l’uso della tecnologia, creando postazioni domestiche che agevolino l’attività lavorativa sia di chi si assenta temporaneamente, sia per gestire i casi di disabilità. Oggi le aziende iniziano ad attrezzarsi per utilizzare questa risorsa, laddove possibile. In Chiesi Farmaceutici il sistema delle “docking station” è nato inizialmente proprio per gestire le assenze per malattia: ora la postazione domestica è stata estesa a tutti i collaboratori che ne richiedano, come una risorsa per agevolare problemi di flessibilità e di armonia tra esigenze professionali e di vita privata.

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costituita da una quota più significativa di collaboratori senior. I dati da noi raccolti, mostrano una massiccia presenza del mondo femminile nelle “professioni di cura” (ospedali) e nella professione dell’insegnamento.

Tabella 42. Presenza di genere (%) nella PA e nelle imprese private

Se passiamo ad analizzare il dato relativo alle giornate perse nella PA (tabella n.43), si osserva anzitutto che il tasso di assenza (giornate perse) è globalmente di circa 13 giornate perse per lavoratore dove le femmine presentano un tasso di assenza maggiore (14,1) rispetto ai maschi (11,1) – contro un tasso di 6,06 giornate per lavoratore nelle aziende private. Dalla nostra indagine risulta quindi che il rischio di assenza nel settore della PA è almeno doppio rispetto alla popolazione campione delle imprese private. Questi dati si rifanno al 2008, prima dell’applicazione del decreto Brunetta che ha modificato il comportamento delle assenze nel settore pubblico74. Osservando come si distribuisce l’assenza per malattia rispetto all’età, si osserva come i dati più interessanti e significativi riguardano le classi estreme. Tra i giovani in particolare (25 – 34 anni) si evince un dato di “assenteismo” molto più elevato nella PA rispetto alle aziende, con un tasso di rischio di ammalamento sei volte superiore nella PA (35,9 giornate procapite vs 6 giornate procapite nell’impresa privata). Sapendo anche che i giovani sono meno presenti nella PA, questo dato è indicativo di una tendenza che richiede un analisi più approfondita per essere correttamente interpretata e corretta all’interno del settore. Gli ultacinquantacinquenni, invece, si ammalano meno nella PA in proporzione alle imprese private (4,6 giornate perse procapite contro 8,1). Al contrario, la classe 45-54 anni, che nelle imprese risultava la più “presente”, nella PA registra un tasso di assenza più alto della stessa classe più senior (9,7 giornate procapite perse contro 4,6 giornate procapite perse per gli over 55). Tabella 43. Tasso di giornate perse per dipendenti PA e delle aziende private per fattore anagrafico

Età anagrafica

Nr. Giornate

perse dipendenti

in PA

% di giornate perse sul

totale dipendenti

in PA

Nr. Giornate

perse procapite dipendenti in PA

Nr. Giornate

perse dipendenti in impresa

% di giornate perse sul

totale dipendenti in impresa

Nr. Giornate perse

procapite dipendenti in

impresa

15-24 400 0,5 5,2 10.709 1,5 5,2

25-34 27.061 33,2 35,9 139.976 19,7 6,0

35-44 25.490 31,3 11,1 297.304 41,9 5,8

45-54 26.835 32,9 9,7 215.926 30,4 4,4

55 e oltre 1.658 2 4,6 46.089 6,5 8,1

Totale 81.444 100 13,0 710.004 100 5,4

74 Il Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’innovazione ha avviato da un anno una rilevazione mensile delle assenze nel pubblico impiego, finalizzata alla valutazione dell’impatto dei provvedimenti emanati per contrastare gli abusi nel ricorso alle assenze per malattia (L. 133/08) il dato macroscopico di tali rilevazioni stima una riduzione delle assenze per malattia pari al 36,4%, a un anno dall’entrata in vigore del decreto (maggio 2008-maggio 2009); cfr. rilevazioni e documenti normativi http://www.innovazione.gov.it.

Genere % sul numero

dipendenti in PA % sul numero dipendenti in

impresa Maschi 36,1 64,7

Femmine 63,9 35,3 Totale 6.257 131.395

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Per quanto concerne gli infortuni, infine, valutati come proporzione rispetto al numero di addetti, osserviamo una maggiore propensione tra le femmine (4,1%) rispetto ai maschi (3,5%) - con una media infortunistica nella PA pari a 3,9%, superiore rispetto alla media infortunistica del settore dei servizi in genere (2,9%). Tuttavia il campione da noi osservato, non è particolarmente adatto a studiare il fenomeno infortunistico nella PA: scuole e ospedali, infatti, presentano un situazione rispettivamente agli estremi. Secondo i dati INAIL, infatti, nella PA la Sanità risulta l’attività con l’indice di frequenza infortunistica più alto in assoluto (24,7%), di contro, invece, l’Istruzione rappresenta l’attività più sicura (9,2%). Se osserviamo lo stesso fenomeno disaggregato per fasce d’età, si vede che nella PA il valore più alto di rischio infortunistico si concentra nella classe più anziana (over 55) con 5,8%, mentre quello più basso nella classe 25-34 anni (3,1% circa). Sembrerebbe quindi che l’andamento infortunistico, rispetto alle fasce d’età, è pressoché inverso rispetto a quanto visto nelle aziende private. Tabella 44. Confronto tra la frequenza infortunistica nella PA e nelle imprese private per fattore anagrafico

Età anagrafica Tasso di infortuni specifici per classi di età dipendenti in PA

Tasso di infortuni specifici per classi di età dipendenti in impresa

15-24 3,9 5,7 25-34 3,1 2,3 35-44 4,3 2,9 45-54 3,5 4,1 55 e oltre 5,8 0,9 Totale 3,9 3,1

La disabilità al lavoro

Come prima evidenza, in alcune aziende private ci hanno direttamente messo in contatto con persone disabili per le interviste. Queste erano le aziende in regola, ottemperanti alla L. 68/99 per l’assunzione dei disabili, legge che ha di fatto sensibilizzato ai criteri di “non discriminazione” rispetto a questa categoria. Le grandi aziende, spesso multinazionali, quelle che hanno una struttura di gestione delle risorse umane in forte relazione con le persone che si occupano di CSR, sono culturalmente evolute nella gestione dei collaboratori disabili. Non solo le persone disabili vengono assunte regolarmente in proporzione alla quantità di collaboratori aziendali, ma si cerca anche di facilitare il loro inserimento attraverso la rimozione di barriere architettoniche, partendo dal semplice accesso alla “timbratura” al pian terreno e non più al primo piano, per arrivare ad aiutare gli altri collaboratori a convivere con la “diversa abilità della persona disabile”. Una volta risolta la questione degli spazi (e questi sono investimenti che le grandi aziende si possono permettere), per i colleghi spesso rimane di fondo la difficoltà umana a relazionarsi con un collega disabile sul lavoro: facilmente, scatta un senso di iperprotezione che poi rischia di esplodere perché il collega ha svolto delle attività al posto del disabile, che era spesso in grado di fare. Ed è qui che va fatta cultura, per spiegare quali sono i limiti e le potenzialità delle persone disabili nel luogo di lavoro. Vi sono stati casi nelle aziende intervistate di persone rimaste disabili in seguito a incidenti sul luogo di lavoro o in itinere: le grandi aziende si sono comportate con senso di Responsabilità Sociale, cercando di ricollocare queste persone in ruoli adatti alla nuova disabilità. Persone che prima svolgevano funzioni di commerciali itineranti hanno avuto la possibilità di lavorare in sedi fisse, oppure utilizzando il telelavoro.

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Tabella 45. Collaboratori fascia protetta e totale dei collaboratori aziende private rispetto all’età anagrafica

Età anagrafica

Nr. Collaboratori fascia protetta

% Nr. Totale dei collaboratori

%

15 – 24 50 0,6 2.070 1,6 25-34 849 10,4 23.321 17,9 35-44 2.680 32,7 51.612 39,5 45-54 4.194 51,1 48.678 37,3 + 55 561 6,8 5.714 4,4

Totale 8.200 100 131.395 100

Per la fascia protetta, purtroppo, non abbiamo informazioni sul sesso, mentre sull’età i dati presentano un’anzianità anagrafica più elevata rispetto ai collaboratori non della fascia protetta con la classe 45-54 anni maggioritaria (51.1%). I lavoratori disabili rappresentano il 6.2 % sul totale di 131.395 collaboratori aziendali, esclusa la PA. É interessante notare come l’andamento della presenza della disabilità in azienda sia direttamente proporzionale all’evolvere dell’età, con un picco nella fascia tra i 45 e i 55 anni. Le categorie in fascia protetta sono quindi di età maggiormente senior che non i collaboratori non disabili: ciò è atteso essendo il rischio di disabilità maggiore al crescere dell’età. Un caso interessante è quello riscontrato in IKEA, dove la persona disabile è chiamata a testare l’idoneità di una cucina pensata per i disabili. In questo caso la cucina diventa non più solo pensata per i disabili ma progettata con i disabili. Due casi, uno in una multinazionale e uno in una scuola italiana, in cui l’inserimento della diversità è andata meno bene sono stati quelli rappresentati dall’assunzione di un gruppo di disabili sordomuti. Mentre questi comunicavano bene tra loro e formavano un piccola enclave all’interno del gruppo organizzativo, il resto dell’organizzazione ha fatto grande fatica a mettersi in collegamento con loro. Ora queste due organizzazioni seppure nel pieno rispetto della 68 del 99, sono molto più calibrate nella scelta delle persone disabili da inserire, cercando di avere ben chiaro in mente il sistema organizzativo: evitando la costruzione di gruppi segmentati di diversamente abili all’interno dell’organizzazione. Ma la questione rilevante, emersa dalla nostra ricerca, è che le PMI spesso non assumono disabili e preferiscono pagare la penale per non impegnarsi a dare il lavoro a un disabile. In alcuni casi (in settori come quello edile e solo in alcune Provincie ove questo è previsto) il disabile viene “adottato a distanza” in modo da ottemperare alla legge senza creare difficoltà operative in seno all’organizzazione. Questa difficoltà dell’inserimento dei disabili nelle organizzazioni private è confermata da una ricerca svolta su disabili e lavoro da Fondazione ISTUD per l’istituto degli Affari Sociali75: solo il 50% dei disabili che cercano lavoro, effettivamente, e solo dopo qualche anno riesce ad avere accesso a una soluzione lavorativa. Non solo: il lavoro assegnato è percepito come di qualità scadente, un po’ come testimoniato nelle pagine precedenti, nelle evidenze del settore dei servizi: i centralinisti che ora sono diventati “callcenteristi”.

75 Cfr. Progetto di ricerca Bisogni e costi delle persone con lesione midollare e dei nuclei familiari di riferimento http://www.istud.it/attivita_ricerca/progetti/elenco_completo/progetto.aspx?PROG=PROG-35.

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Genere e maternità

Il mandato della ricerca non includeva l’analisi di differenziazioni relative al genere, di conseguenza non sono state raccolte evidenze specificamente su questo tema. Tuttavia alcune considerazioni possono essere fatte, partendo da due dati: la frequenza di collaboratori maschi e femmine a seconda delle dimensioni dell’azienda e le testimonianze spontanee (perché non stimolate dalla check list delle domande delle interviste) offerte dalle aziende sulle politiche che hanno implementato a favore delle donne, in genere nel frangente della maternità. L’aspetto che ci è premuto indagare è il modo in cui il periodo di maternità era concepito dalle aziende, se come un periodo di malattia (per cui l’aspetto più evidente da affrontare era l’assenza della persona) o se come un momento importante della vita della donna che si assentava dal lavoro per svolgere un compito fondamentale per se e per la società, la procreazione. D’altra parte è anche vero che il periodo di maternità è molto ben regolamentato dalla legge e poco viene lasciato all’iniziativa delle aziende in questa direzione. La nostra attenzione allora è andata a quelle iniziative che in qualche modo andavano oltre gli obblighi di legge in questo ambito, oppure che ci hanno colpito per l’attenzione al caso specifico. Naturalmente, poiché sono dati raccolti non in modo sistematico, si tratterà più di impressioni che di deduzioni supportabili da evidenze. Nella tabella che segue appare chiaro un punto importante di cui è necessario tenere conto quando si analizza la risposta delle aziende: la presenza femminile e maschile è molto diversa per peso nelle grandi aziende e nelle multinazionali. Per dare un’idea di questa diversità, potremmo riassumere il dato dicendo che oltre il 62% dei lavoratori delle multinazionali è donna, mentre più o meno lo stesso dato (60,2%) nelle grandi imprese è appannaggio della popolazione maschile. La stessa discrepanza non è riscontrabile nei diversi settori anche se nei Servizi la presenza femminile è sicuramente maggiore.

Tabella 46. Collaboratori nelle aziende private in funzione del sesso, disaggregato per settore

Settore Maschi % Femmine % Industria 11.398 13,4 2.859 6,2 Servizi 73.610 86,6 43.528 93,8 Totale 85.008 100,0 46.387 100,0

Tabella 47. Collaboratori nelle aziende private in funzione del sesso, disaggregato per dimensione

Dimensione Maschi % Femmine % PMI 107 0,1 26 0,1

Grande 51.163 60,2 17.404 37,5 Multinazionale 33.738 39,7 28.957 62,4

Totale 85.008 100,0 46.387 100,0 E così ci è parso interessante evidenziare i progetti dedicati alle madri che rientrano al lavoro, che in alcuni casi vanno oltre la norma di legge, allungando di fatto il periodo di “allattamento” (un part-time a 6 ore) oltre i 6 mesi previsti dalla normativa. Un altro modo in cui l’attenzione all’universo femminile può evidenziarsi è il check up personalizzato che quindi viene incontro alle necessità di genere. E ancora, la presenza di un asilo nido aziendale, che in alcuni casi c’è stato segnalato anche in PMI a conduzione familiare, davvero un sintomo di sensibilità per l’universo femminile e per i problemi che ha di conciliazione tra vita privata e professionale.

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Una osservazione può essere utile su tutte: in generale i percorsi di reinserimento dopo un’assenza prolungata dal lavoro erano imputabili all’assenza per maternità. Che, pur resa obbligatoria e prevedibile per legge, ha il pregio di avere “allenato” le aziende al reinserimento delle persone dopo un periodo di assenza che va ritenuto “fisiologico” e non eccezionale. Perché imputabile alla funzione biologica di riproduzione della specie.

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CONCLUSIONI

Dal Libro Bianco del Ministero del Welfare, sul futuro del modello sociale – La vita buona nella società attiva - maggio 2009: «la Costituzione tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni. In particolare tre diritti appaiono fondamentali per la piena espressione della persone attraverso il lavoro in condizioni di parità delle opportunità e indipendentemente da formalismi e qualificazioni giuridiche. Il diritto ad ambienti di lavoro sicuri, innanzitutto. E il diritto a un compenso equo non solo in quanto idoneo a garantire una esistenza libera e dignitosa ma anche perché proporzionato ai risultati dell’impresa. A questo si deve aggiungere un diritto di nuova generazione, ancora poco effettivo nel nostro Paese, quello all’incremento delle conoscenze e delle competenze lungo tutto l’arco della vita quale vera garanzia di stabilità occupazionale e di espressione delle proprie potenzialità». Abbiamo desiderato che le conclusioni della nostra ricerca si inserissero, ora più che mai, nel contesto di riferimento politico del Ministero del Welfare: i tre diritti dei collaboratori alla salute e sicurezza, equa remunerazione e formazione continua ci sembrano estremamente uniti e tesi a realizzare la parola che significa appunto “well fare”, ovvero un buon viaggio. Salute e sicurezza sono inscindibili, dove sicurezza è prevenzione per una buona salute, ma è anche vero che un’equa remunerazione - si noti, anche parametrata ai risultati aziendali - impatta sulla salute, come l’aggiornamento continuo che in un movimento di perenne apprendimento evita il logorio delle professioni e il fatto che le persone dispongano di saperi obsoleti e quindi che si sentano inutili. Una società che guarda avanti saluta come Giorno, quasi la metafora creazionistica “e la luce fu”, proprio la realizzazione di questi tre obiettivi: la luce porta via l’ansia della tenebra, che significa disordine, incidenti, malattia, povertà, ignoranza. La luce porta ordine e nuove prospettive. Nei sistemi di lavoro, però, non si passa dalle tenebre notturne alla piena luce in brevi momenti: è necessario attraversare l’Aurora per cominciare a intravedere le strade da compiere, imparare a adeguarsi a normative esistenti, liberarsi da furbizie (ad esempio pagare la penale pur di non assumere una persona disabile, abusare delle giornate di malattia…), comportamenti che creano danni gravi alla nostra società. Lo scopo del nostro lavoro è stato quello di comprendere per divulgare, diffondere, fare da cassa di risonanza alle buone pratiche, quelle che ci sono sembrate per l’appunto illuminate: in alcuni casi erano il frutto di importanti investimenti economici, ma in altri casi sono nate da educazione, rispetto, buon senso e genialità. Luce per noi sono gli osservatori sugli incidenti e sullo stato di salute dei collaboratori, Luce sono costruzioni di partnership intelligenti con chi da sempre in Italia si occupa delle tematiche di sicurezza come l’INAIL o ISPESL, Luce è prevenire il burnout degli operatori attraverso un sistema di mentoring e di tutoraggio all’interno di un impresa, Luce è ascoltare per tempo le persone che vedono i difetti negli impianti, Luce è provvedere attraverso i sistemi di formazione al continuo aggiornamento. Il continuo aggiornamento può andare oltre la mera “vita di quella organizzazione dove l’impresa lavora”: può essere invece un retraining perché la persona non più giovane possa comunque trovare una nuova occasione di lavoro. Luce significa sapere essere sanzionatori quando è l’ultima delle soluzioni possibili, ma in generale passare dalla cultura della sanzione alla cultura dell’accompagnamento delle organizzazioni di lavoro verso la responsabilità: non solo la sanzione, ma anche la formazione che porta al cambiamento.

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Su circa 130.000 soggetti esaminati in questo studio, una considerazione specifica deriva dai numeri: l’assenza per malattia o per infortunio, al di sotto dei 55 anni dei collaboratori, non sembra essere in relazione diretta con l’età dei collaboratori. E questo vale nella Pubblica Amministrazione come nelle imprese private, dove comunque l’assenza per malattia e infortunio è minore. E anche per le donne – esclusa la “partita della maternità”- non si intravede una assenza sensibilmente maggiore che per gli uomini. Certo, va considerato che le aziende che hanno aderito in questa indagine sono quelle che si sentivano sufficientemente sicure di sé: è anche possibile che siamo andati a esplorare quegli universi professionali, e questo vale soprattutto per le imprese private, dove le persone stanno generalmente bene, indipendentemente dall’età, e per le donne, le politiche di genere funzionano perché altrimenti si assisterebbe a un abuso dell’assenza per malattia. Sono organizzazioni con asili interni per i bambini, che danno la possibilità di effettuare il telelavoro, ma accanto a questi classici strumenti di conciliazione tra vita e lavoro, abbiamo sentito in molte realtà imprenditoriali, un senso di fierezza e di orgoglio nell’esserci e nel lavorare per la propria organizzazione. E nel battersi soprattutto quest’anno, il 2009, un anno memorabile per la storia economica e professionale mondiale: seppure stanchi e affaticati, abbiamo respirato il desiderio di superare questo tempo difficile e la volontà di mettere in campo azioni che fanno stare bene i propri collaboratori e collaboratrici ai quali, ancor più quest’anno, è oggettivamente chiesto di esserci e di fare di più. Alle organizzazioni di lavoro che dall’Aurora si stanno muovendo verso il giorno…

AURORA

Il sonno è ritenuto Dalle anime di buonsenso

chiudere gli occhi….

…Il mattino è giudicato Da persone di valore

l’irrompere del Giorno!

Ma non è arrivato il mattino!

Quella è l’Aurora …

Ha una bandiera allegra, ed è colorata di rosso –

Aurora è l'inizio del Giorno!

Emily Dickinson

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APPENDICE

1. Studio ed elaborazione delle mappe di rischio per l’andamento degli infortuni i Italia nel biennio 2007-2008

Calcolo: calcolo delle frequenze statistiche nr. Infortuni (dati INAIL)/nr. Occupati (ISTAT), calcolo delle frequenze statistiche nr. Morti (INAIL)/sul nr. Occupati e calcolo delle frequenze statistiche di gravità degli incidenti, nr. Morti/nr. Incidenti.

• Procedura di elaborazione: la media regionale, calcolata come nr. infortuni/nr. occupati all’ultima rilevazione del 4° trimestre per quella regione, è stata messa a confronto con la media nazionale e il suo intervallo di confidenza al 95% con la relazione.

Dove: media nazionale

t di Student al 95% per n-1 df

st.err. errore standard calcolato sulla base dei valori ricavati dai dati r regionali

Dati: le fonti dati sono state INAIL, Rapporti del biennio 2007/2008, per il numero di infortuni e morti sul lavoro, e l’ISTAT, per le rilevazioni sulle Forze Lavoro nel biennio 2007/2008.

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Tabella 48. Numero infortuni, Numero morti, e Numero occupati per regione nel biennio 2007-2008

Nr. Infortuni Nr. Morti Nr. Occupati 2007 2008 2007 2008 2007 2008 Piemonte 73.129 69.669 105 77 1.856.252 1.903.843

Aosta 2.391 2.484 4 2 56.748 57.316

Lombardia 155.480 149.506 214 179 4.337.463 4.338.546

Liguria 29.559 28.507 16 32 652.350 637.452

Trentino 29.992 29.079 28 25 461.531 463.101

Veneto 109.894 104.134 124 113 2.145.195 2.176.876

Friuli 28.051 25.929 27 26 524.068 520.570

Emilia Romagna 130.545 123.661 113 116 1.969.740 1.975.902

Toscana 72.212 69.118 70 82 1.561.850 1.570.274

Umbria 18.184 17.088 19 16 382.586 379.586

Marche 32.178 30.415 34 25 656.268 666.483

Lazio 57.994 57.924 100 81 2.188.620 2.243.643

Abruzzo 22.730 21.842 26 35 507.926 509.661

Molise 3.805 3.584 11 4 114.424 113.593

Campania 30.099 28.719 75 75 1.702.841 1.659.484

Puglia 41.315 39.425 79 78 1.267.994 1.263.697

Basilicata 6.493 6.206 13 21 198.836 194.337

Calabria 14.459 14.094 35 28 636.308 609.546

Sicilia 35.514 35.590 77 79 1.508.525 1.482.573

Sardegna 18.386 17.966 37 26 605.232 582.829

ITALIA 912.410 874.940 1.207 1.120 23.334.757 23.349.312

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Tabella 49. Frequenze per regione

Regioni Nr. Infortuni / Nr. Occupati Var. %

Nr. Morti / Nr. Occupati Var. %

Nr. Morti / Nr. infortuni Var. %

2007 2008 2008 - 2007 2007 2008

2008 - 2007 2007 2008

2008 – 2007

Piemonte 0,0394 0,0366 -7,11 0,000057 0,000040 -28,50 0,0014 0,0011 -23,02

Aosta 0,0421 0,0433 2,86 0,000070 0,000035 -50,50 0,0017 0,0008 -51,87

Lombardia 0,0358 0,0345 -3,87 0,000049 0,000041 -16,38 0,0014 0,0012 -13,01

Liguria 0,0453 0,0447 -1,31 0,000025 0,000050 104,67 0,0005 0,0011 107,38

Trentino 0,0650 0,0628 -3,37 0,000061 0,000054 -11,02 0,0009 0,0009 -7,91

Veneto 0,0512 0,0478 -6,62 0,000058 0,000052 -10,20 0,0011 0,0011 -3,83

Friuli 0,0535 0,0498 -6,94 0,000052 0,000050 -3,06 0,0010 0,0010 4,18 Emilia Romagna 0,0663 0,0626 -5,57 0,000057 0,000059 2,33 0,0009 0,0009 8,37

Toscana 0,0462 0,0440 -4,80 0,000045 0,000052 16,51 0,0010 0,0012 22,39

Umbria 0,0475 0,0450 -5,28 0,000050 0,000042 -15,12 0,0010 0,0009 -10,39

Marche 0,0490 0,0456 -6,93 0,000052 0,000038 -27,60 0,0011 0,0008 -22,21

Lazio 0,0265 0,0258 -2,57 0,000046 0,000036 -20,99 0,0017 0,0014 -18,90 Abruzzo 0,0448 0,0429 -4,23 0,000051 0,000069 34,16 0,0011 0,0016 40,09

Molise 0,0333 0,0316 -5,12 0,000096 0,000035 -63,37 0,0029 0,0011 -61,39

Campania 0,0177 0,0173 -2,09 0,000044 0,000045 2,61 0,0025 0,0026 4,81

Puglia 0,0326 0,0312 -4,25 0,000062 0,000062 -0,93 0,0019 0,0020 3,47

Basilicata 0,0327 0,0319 -2,21 0,000065 0,000108 65,28 0,0020 0,0034 69,01

Calabria 0,0227 0,0231 1,76 0,000055 0,000046 -16,49 0,0024 0,0020 -17,93

Sicilia 0,0235 0,0240 1,97 0,000051 0,000053 4,39 0,0022 0,0022 2,38

Sardegna 0,0304 0,0308 1,47 0,000061 0,000045 -27,03 0,0020 0,0014 -28,09

ITALIA 0,0391 0,0375 -4,17 0,000052 0,000048 -7,27 0,0013 0,0013 -3,23

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117

MAPPE DI RISCHIO

Mappa 1. Incidenti sulla popolazione occupata Anno 2007

Valori molto al di sotto della media nazionale

Valori poco al di sotto della media nazionale

Valori molto al di sopra della media nazionale

Valori poco al di sopra della media nazionale

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118

Mappa 2. Numero incidenti sulla popolazione occupata

Anno 2008

Valori molto al di sotto della media nazionale

Valori poco al di sotto della media nazionale

Valori molto al di sopra della media nazionale

Valori poco al di sopra della media nazionale

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119

Mappa 3. Numero morti sulla popolazione occupata Anno 2007

Valori molto al di sotto della media nazionale

Valori poco al di sotto della media nazionale

Valori molto al di sopra della media nazionale

Valori poco al di sopra della media nazionale

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120

Mappa 4. Numero Morti sulla popolazione occupata

Anno 2008

Valori molto al di sotto della media nazionale

Valori poco al di sotto della media nazionale

Valori molto al di sopra della media nazionale

Valori poco al di sopra della media nazionale

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121

Mappa 5. Numero morti sugli incidenti

Anno 2007

Valori molto al di sotto della media nazionale

Valori poco al di sotto della media nazionale

Valori molto al di sopra della media nazionale

Valori poco al di sopra della media nazionale

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122

Mappa 6. Numero morti sugli incidenti Anno 2008

Valori molto al di sotto della media nazionale

Valori poco al di sotto della media nazionale

Valori molto al di sopra della media nazionale

Valori poco al di sopra della media nazionale

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L’epidemiologia e i costi degli infortuni e delle malattie delle risorse umane relativi alla incidenza del fattore anagrafico (NR. 1466)

123

Strumenti d’indagine

Questionario quantitativo

IN ……… CI SONO

Certificazioni di qualità

1. Numero dei collaboratori (2008)

Totale dei collaboratori

Totale dei collaboratori per genere e fattore anagrafico

15-24: uomini donne totale

25-34: uomini donne totale

35-44: uomini donne totale

45-54: uomini donne totale

65 e oltre: uomini donne totale

Totale collaboratori appartenenti alla fascia protetta (ex. L. 68/99 e successive

modifiche):

15-24

25-34

35-44

45-54

65 e oltre

Totale collaboratori stranieri: comunitari

Extracomunitari

Numero collaboratori per forma contrattuale e fattore anagrafico

- Numero contratti a tempo indeterminato:

15-24

25-34

35-44

45-54

65 e oltre

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L’epidemiologia e i costi degli infortuni e delle malattie delle risorse umane relativi alla incidenza del fattore anagrafico (NR. 1466)

124

- Numero contratti a tempo determinato:

15-24

25-34

35-44

45-54

65 e oltre

- Numero contratti di collaborazione coordinata e continuativa o a progetto:

15-24

25-34

35-44

45-54

65 e oltre

2. Giornate perse per malattia:

− Totale per genere e fattore anagrafico:

15-24: uomini donne totale

25-34: uomini donne totale

35-44: uomini donne totale

45-54: uomini donne totale

65 e oltre: uomini donne totale

− Per tipologia di rapporto contrattuale per genere e fattore anagrafico:

Tempo indeterminato

15-24: uomini donne totale

25-34: uomini donne totale

35-44: uomini donne totale

45-54: uomini donne totale

65 e oltre: uomini donne totale

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L’epidemiologia e i costi degli infortuni e delle malattie delle risorse umane relativi alla incidenza del fattore anagrafico (NR. 1466)

125

Tempo determinato

15-24: uomini donne totale

25-34: uomini donne totale

35-44: uomini donne totale

45-54: uomini donne totale

65 e oltre: uomini donne totale

Collaborazione coordinata e continuativa / a progetto

15-24: uomini donne totale

25-34: uomini donne totale

35-44: uomini donne totale

45-54: uomini donne totale

65 e oltre: uomini donne totale

− Tipi di malattie prevalenti per genere e fattore anagrafico:

15-24: uomini

donne

25-34: uomini

donne

35-44: uomini

donne

45-54: uomini

donne

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L’epidemiologia e i costi degli infortuni e delle malattie delle risorse umane relativi alla incidenza del fattore anagrafico (NR. 1466)

126

65 e oltre: uomini

donne

− Giornate perse secondo inquadramento professionale:

dirigenti

quadri

impiegati

operai

collaboratori (co.co.co e co.co.pro.)

Altro (es. liberi professionisti)

Retribuzione giornaliera media secondo inquadramento:

dirigenti

quadri

impiegati

operai

collaboratori (co.co.co e co.co.pro.)

Altro (es. liberi professionisti)

3. Situazione infortunistica:

Numero infortuni 2008 per genere e fattore anagrafico:

15-24: uomini donne totale

25-34: uomini donne totale

35-44: uomini donne totale

45-54: uomini donne totale

65 e oltre: uomini donne totale

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L’epidemiologia e i costi degli infortuni e delle malattie delle risorse umane relativi alla incidenza del fattore anagrafico (NR. 1466)

127

Per tipologia di rapporto contrattuale:

Tempo indeterminato

Tempo determinato

Collaborazione coordinata e continuativa / a progetto

Numero infortuni collaboratori stranieri:

comunitari

extracomunitari

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L’epidemiologia e i costi degli infortuni e delle malattie delle risorse umane relativi alla incidenza del fattore anagrafico (NR. 1466)

128

Traccia intervista semi-strutturata

INTERVISTA IN PROFONDITÁ

Lo stato di salute delle risorse umane è un valore per ………?

1. Strategie aziendali per la prevenzione dello stato di salute aziendale

o Esistono prassi aziendali che individuino percorsi di inserimento o reinserimento dei

collaboratori per problemi di salute (patologie croniche, disagio psichico, inabilità

permanente o sopravvenuta)?

� Come e in quali casi?

� Riflessioni sui collaboratori senior, con un’attenzione privilegiata alla

questione di genere: curare e valorizzare esperienza e fragilità

� Riflessioni sulle assunzioni ex l. 68/99.

� Per assenze da malattia che superino il mese l’azienda come si comporta?

(distribuisce il carico di lavoro mancante tra gli altri collaboratori? Ricorre al

“mercato istantaneo”?)

� Utilizzo della tecnologia (i.e. telelavoro o postazioni domestiche) per

garantire e favorire l’attività lavorativa dei collaboratori assenti per malattia?

In questi casi incide il fattore anagrafico?

� Rispetto al tipo di attività svolta è effettivamente possibile il reinserimento o,

data l’incidenza del fattore di rischio, prevale la scelta di dimissione

supportata da assicurazione e in questi casi l’azienda finanzia forme di

outplacement?

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L’epidemiologia e i costi degli infortuni e delle malattie delle risorse umane relativi alla incidenza del fattore anagrafico (NR. 1466)

129

2. Prevenzione e sicurezza

• Considerazioni sull’implementazione e realizzazione delle procedure di sicurezza e

prevenzione messe in campo dalla normativa vigente: valutazione in termini di efficienza ed

efficacia vs elefantiasi burocratica, eccesso e dispendiosità inefficiente e inefficace della

procedura

• Aspetto positivo e innovativo della normativa: promozione e partecipazione per la

realizzazione della sicurezza

� Come viene promossa in azienda la prevenzione e la cura della salute? (i.e.

l’azienda promuove la lotta al fumo o la prevenzione ai tumori, attraverso

quali iniziative?; promuove stili di vita salutari – i.e. presenza di impianti

sportivi aziendali, mensa, soggiorni di cura, etc. );

� L’azienda contribuisce a spese medico/sanitarie del collaboratore? (i.e. stipula

convenzioni con Istituti/enti di cura che eroghino prestazioni medico/sanitarie

per favorirne l’accesso dei collaboratori e loro familiari etc.);

� Corsi formativi di sicurezza/prevenzione (ogni quanto? Come sono “vissuti in

azienda”?);

o Viene riconosciuto un ruolo e una responsabilità attiva al collaboratore in tema di

sicurezza e prevenzione?

� È mai stata valutata la percezione del rischio sul posto di lavoro da parte del

collaboratore?

o La cura della salute delle risorse umane è parte della cultura dell’azienda (cultura

come valore e pratica/prassi)?

3. Valutazione economica

• È stato mai stimato il versante economico del valore dello stato di salute delle risorse?

4. Proposte

• Sgravi, incentivi economici che favoriscano un’effettiva cultura della salute intesa come

sicurezza e cura delle risorse