LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA A.A. … · Lo so che il fascicolo è ... cercare e trovare,...
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Agli studenti
Calma, per favore!
Lo so che il fascicolo è corposo e che le sedici ore previste per il laboratorio, di cui dodici in aula e quattro occupate dallo svolgimento a casa di un compito dato, non consentiranno di prestare adeguata attenzione se non ad alcuni, pochi, dei testi qui raccolti.
E dunque sgombriamo subito il campo da un possibile equivoco: delle poesie e dei racconti che vi proponiamo non vi sarà richiesta parafrasi o riassunto, né ci aspettiamo che impariate a conoscere vita morte e miracoli dei molti scrittori ai quali si è guardato. Ci basterà che osserviate le indicazioni fornite dal conduttore durante il primo incontro, e che leggiate i materiali anche di corsa, di sfuggita, per soffermarvi su quelli soltanto che più sono stati capaci di colpirvi, di toccarvi, di accendere il vostro interesse, di suscitare un’emozione, una riflessione, una domanda. Su quelli soltanto (per ogni partecipante o gruppo di partecipanti: non meno di tre e non più di cinque poesie, tratte da due sezioni diverse, non meno di due e non più di quattro racconti) verterà il laboratorio negli incontri successivi: dove a voi spetterà di argomentare le vostre scelte, al conduttore di individuare e privilegiare le opere più apprezzate, e a tutti di condividere un’esperienza attiva di lettura, analisi, interpretazione del testo. Un’esperienza mirata, in senso stretto, a favorire la comprensione dei dati costitutivi della comunicazione letteraria, dei meccanismi che la governano e che le permettono di sopravvivere all’usura del tempo, dei termini in cui si può e si deve configurare il rapporto fra autore e lettore. E un’esperienza intesa, in senso lato, a garantire la strumentazione di base per leggere bene, secondo cuore e secondo coscienza, in silenzio e a voce alta, e per rendersi conto dell’opportunità, o addirittura della necessità, di educare sé stessi per primi, e in futuro i bambini, a familiarizzare, a fare amicizia, con le rime e con le storie.
Non sono sicura, anzi dubito molto, di avervi convinto. Ma confido, e anzi credo fermamente, che la partecipazione al laboratorio, il coinvolgimento concreto nelle sue attività, si presterà a dissipare i dubbi e le riserve che oggi, a freddo, probabilmente coltivate. E il mio invito, a laboratorio ultimato, è di conservare questo fascicolo, di tornare di quando in quando a sfogliarlo, di utilizzarlo, direi, come un servizio di primo intervento: per saggiare la varietà e la ricchezza della letteratura del Novecento, per avere accesso a opere e autori che non sempre trovano spazio nelle antologie scolastiche, per reperire materiali di qualità adatti anche, in alcuni casi, a un pubblico infantile. Perché è stato questo lo spirito con cui l’abbiamo concepito: abbondare nell’offerta, e diversificarne i contenuti, affinché ognuno potesse scegliere secondo il gusto e le esigenze, personali o professionali, del momento, affinché ognuno potesse cercare e trovare, nelle sue pagine, una ragione e uno stimolo per leggere oltre, per leggere altro, per leggere ancora.
I testi sono stati ordinati, secondo la data della prima pubblicazione accertata, sotto il nome dei relativi autori; e gli autori, a loro volta, sono stati disposti secondo la generazione di appartenenza, dai nati nella seconda metà dell’Ottocento a quelli che hanno oggi, o avrebbero se fossero vissuti, l’età dei vostri nonni o genitori. L’accorgimento adottato, nella parte dedicata alla poesia, di distinguere gli autori fra “I padri fondatori”, “I classici” e “Altri classici”, ha una funzione puramente orientativa, di contrasto rispetto allo spaesamento che la quantità e l’eterogeneità dei materiali presentati potrebbe provocare. Ma attenzione a non dare per scontato ciò che scontato non è, a non cadere nell’inganno di pensare che un autore, narratore o poeta, coltivi sempre lo stesso orticello, e che la sua vena non si modifichi, di tanto o di poco, con lo scorrere del tempo o l’avvicendarsi delle occasioni. I racconti di Italo Calvino per esempio, come del resto i suoi romanzi, si declinano in molte differenti direzioni, memorialistica, fantastica, realistica; e quelli di Primo Levi, la cui fama si associa nel sapere comune al bellissimo e tragico Se questo è un uomo, sono esemplari nel ricreare, spesso e volentieri, atmosfere incantate e rarefatte, tra fiaba e fantascienza. Per non dire dei poeti, sperimentatori instancabili, tutti o quasi tutti, di forme e
generi diversi. Alfonso Gatto, per esempio, esordisce con una raccolta di poesie per bambini, che aggiorna e rivisita nei suoi anni più maturi dopo essersi fatto conoscere prima come poeta lirico e poi come cantore appassionato, epicamente intonato, della lotta contro il nazifascismo. E perfino Roberto Piumini, firma celeberrima della moderna letteratura per l’infanzia, ha sconfinato non di rado in territori riservati, scandirebbe una didascalia televisiva, “a un pubblico di soli adulti”: per limitarmi alla produzione in versi, e per citare non più di due titoli, ricordo L’amore in forma chiusa del 1997 e L’amore morale. Sonetti erotici del 2001. Insomma state in guardia, e non cedete alla tentazione di abboccare a etichette di comodo, a definizioni che pretendano di inchiodare l’immagine di un autore, e la prospettiva del suo immaginario, a uno soltanto dei molti aspetti di cui si compongono. Sarebbe un errore di cui potreste pentirvi: leggere per credere.
L’assenza di un apparato di note, introduttive o esplicative, è puramente intenzionale, finalizzata a che la voce del testo vi arrivi forte, vi arrivi pulita, senza filtri e mediazioni preliminari. Il contributo dei conduttori, unitamente a quello delle lezioni del modulo istituzionale o della bibliografia collegata, sopperiranno comunque ai bisogni avvertiti.
Grazie per la pazienza con cui mi avete seguito. Buona lettura e buon laboratorio!
Giovanna Benvenuti
INDICE POESIE
I PADRI FONDATORI
Giovanni Pascoli 9 Dall’argine Il tuono La mia sera
Gabriele D’Annunzio 11 La pioggia nel pineto
I CLASSICI
Guido Gozzano 14 La differenza Invernale Salvezza
Umberto Saba 16 Città vecchia [Guarda là quella vezzosa] Donna
Aldo Palazzeschi 18 Chi sono? Rio Bo
Giuseppe Ungaretti 19 Veglia Sono una creatura San Martino del Carso Natale Soldati Mattina
Eugenio Montale 22 I limoni [Meriggiare pallido e assorto] [Non recidere, forbice, quel volto] [Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale]
Salvatore Quasimodo 25 Ed è subito sera Alle fronde dei salici Quasi un epigramma
Sandro Penna 26 Nuotatore [Io vivere vorrei addormentato] [Il mare è tutto azzurro] [Era fermo per me. Ma senza stile]
Leonardo Sinisgalli 27 San Babila [I fanciulli battono le monete rosse]
Alfonso Gatto 28 Consiglio spassionato Il 4 è rosso Per i martiri di Piazzale Loreto
Attilio Bertolucci 30 La rosa bianca Pagina di diario
Giorgio Caproni 31 Il mare brucia le maschere Sassate Le parole
Antonia Pozzi 32 Sera d’aprile Rifugio
Vittorio Sereni 33 [Non sa più nulla, è alto sulle ali] [Ahimè come ritorna] Dall’Olanda
Mario Luzi 35 Notizie a Giuseppina dopo tanti anni La notte lava la mente
Valerio Magrelli 36 [Essere matita è segreta ambizione] [Spesso c’è bonaccia sulla pagina]
ALTRI CLASSICI
Fosco Maraini 37 Il giorno a urlapicchio Ballo
Toti Scialoja 38 [Una zanzara di Zanzibàr] [L’ippopota disse «Mo] [La zanzara, per decenza] [Un esercito di pulci] [Oh, formica!] [La rosa non è rossa] Gianni Rodari 39 I mari della luna Alla formica Nico Orengo 40 Un uccellino Roberto Piumini 41 Lo scrittore scrive scrive Fu il gioco del solletico. All’inizio
INDICE RACCONTI Federigo Tozzi Senza titolo 46 Dino Buzzati Il colombre 47 Cesare Pavese La fine d’agosto 52 Elsa Morante Il mondo Marte è cascato 54 Primo Levi Titanio 56 La grande mutazione 58 Beppe Fenoglio La sposa bambina 62 Italo Calvino Luna e Gnac 66 Il giardino incantato 71 L’avventura di due sposi 75 Luigi Malerba La erre 78 Storia del mondo dalle origini ai giorni nostri 79 Il vermetto nero nero 80 Il gioco dello scippo 81 Stefano Benni Shimizé 85 I quattro veli di Kulala 86 Giuseppe Pontremoli Autopresentazione 89 Marco Lodoli Ghigo Alberighi 90 Aldo Nove Marta Russo 93
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I PADRI FONDATORI GIOVANNI PASCOLI (1855‐1912) Edizione di riferimento G.Pascoli, Poesie, vol. I, Oscar Mondadori 1997 Dall’argine (Originariamente in Myricae, Giusti 1891, sezione In campagna)
Posa il meriggio su la prateria. Non ala orma ombra nell’azzurro e verde, un fumo al sole biancica: via via fila e si perde. Ho nell’orecchio un turbinio di squilli, forse campani di lontana mandra: e, tra l’azzurro penduli, gli strilli della calandra. Il tuono (Originariamente in Myricae, Giusti 1891, sezione Tristezze)
E nella notte nera come il nulla, a un tratto, col fragor d’arduo dirupo che frana, il tuono rimbombò di schianto: rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo, e tacque, e poi rimareggiò rinfranto, e poi vanì. Soave allora un canto s’udì di madre, e il moto d’una culla.
La mia sera (Originariamente in Canti di Castelvecchio, Zanichelli, 1903) Il giorno fu pieno di lampi; ma ora verranno le stelle, le tacite stelle. Nei campi c'è un breve gre gre di ranelle. Le tremule foglie dei pioppi trascorre una gioia leggiera. Nel giorno, che lampi! che scoppi! Che pace, la sera! Si devono aprire le stelle nel cielo sì tenero e vivo. Là, presso le allegre ranelle, singhiozza monotono un rivo. Di tutto quel cupo tumulto, di tutta quell'aspra bufera, non resta che un dolce singulto nell'umida sera. E', quella infinita tempesta, finita in un rivo canoro. Dei fulmini fragili restano cirri di porpora e d'oro.
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O stanco dolore, riposa! La nube nel giorno più nera fu quella che vedo più rosa nell'ultima sera. Che voli di rondini intorno! Che gridi nell'aria serena! La fame del povero giorno prolunga la garrula cena. La parte, sì piccola, i nidi nel giorno non l'ebbero intera. Nè io ... che voli, che gridi, mia limpida sera! Don ... Don ... E mi dicono, Dormi! mi cantano, Dormi! Sussurrano, Dormi! bisbigliano, Dormi! là, voci di tenebra azzurra ... Mi sembrano canti di culla, che fanno ch'io torni com'era ... sentivo mia madre ... poi nulla ... sul far della sera.
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GABRIELE D’ANNUNZIO (1863‐1938) Edizione di riferimento G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, Mondadori 1982 La pioggia nel pineto (Originariamente in Alcyone, Libro terzo delle Laudi, pubblicato in unico volume con il Libro secondo, Elettra, per Treves 1903 ma in data editoriale 1904)
Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove su i pini scagliosi ed irti, piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori accolti, su i ginepri folti di coccole aulenti, piove su i nostri vólti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione. Odi? La pioggia cade su la solitaria verdura con un crepitìo che dura e varia nell’aria secondo le fronde più rade, men rade. Ascolta. Risponde
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al pianto il canto delle cicale che il pianto australe non impaura, né il ciel cinerino. E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancóra, stromenti diversi sotto innumerevoli dita. E immersi noi siam nello spirto silvestre, d’arborea vita viventi; e il tuo volto ebro è molle di pioggia come una foglia, e le tue chiome auliscono come le chiare ginestre, o creatura terrestre che hai nome Ermione. Ascolta, ascolta. L’accordo delle aeree cicale a poco a poco più sordo si fa sotto il pianto che cresce; ma un canto vi si mesce più roco che di laggiù sale, dall’umida ombra remota. Più sordo e più fioco s’allenta, si spegne. Sola una nota ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Non s’ode voce del mare. Or s’ode su tutta la fronda crosciare l’argentea pioggia che monda, il croscio che varia
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secondo la fronda più folta, men folta. Ascolta. La figlia dell’aria è muta; ma la figlia del limo lontana, la rana, canta nell’ombra più fonda, chi sa dove, chi sa dove! E piove su le tue ciglia, Ermione. Piove su le tue ciglia nere sì che par tu pianga ma di piacere; non bianca ma quasi fatta virente, par da scorza tu esca. E tutta la vita è in noi fresca aulente, il cuor nel petto è come pèsca intatta, tra le pàlpebre gli occhi son come polle tra l’erbe, i denti negli alvèoli son come mandorle acerbe. E andiam di fratta in fratta, or congiunti or disciolti (e il verde vigor rude ci allaccia i mallèoli c’intrica i ginocchi) chi sa dove, chi sa dove! E piove su i nostri vólti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri m’illuse, che oggi t’illude, o Ermione.
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I CLASSICI Guido Gozzano (1883‐1916) Edizione di riferimento G. Gozzano, Le poesie, a cura di E. Sanguineti, Einaudi 1990. La differenza (originariamente in La via del rifugio, Streglio 1907) Penso e ripenso: ‐ Che mai pensa l’oca gracidante alla riva del canale? Pare felice! Al vespero invernale protende il collo, giubilando roca. Salta starnazza si rituffa gioca: né certo sogna d’essere mortale né certo sogna il prossimo Natale né l’armi corruscanti della cuoca. ‐ O pàpera, mia candida sorella, tu insegni che la Morte non esiste: solo si muore da che s’è pensato. Ma tu non pensi. La tua sorte è bella! Ché l’esser cucinato non è triste, triste è il pensare d’esser cucinato. Invernale (originariamente in I colloqui, Treves 1911, nella prima sezione, intitolata Il giovenile
errore)
«... cri... i... i... i... i... icch»…
l’incrinatura il ghiaccio rabescò, stridula e viva. «A riva!» Ognuno guadagnò la riva disertando la crosta malsicura. «A riva! A riva!...» Un soffio di paura disperse la brigata fuggitiva.
«Resta!» Ella chiuse il mio braccio conserto, le sue dita intrecciò, vivi legami, alle mie dita. «Resta, se tu m’ami!» E sullo specchio subdolo e deserto soli restammo, in largo volo aperto, ebbri d’immensità, sordi ai richiami.
Fatto lieve cosí come uno spetro, senza passato piú, senza ricordo, m’abbandonai con lei, nel folle accordo,
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di larghe rote disegnando il vetro. Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, piú tetro... dall’orlo il ghiaccio fece cricch, piú sordo...
Rabbrividii cosí, come chi ascolti lo stridulo sogghigno della Morte, e mi chinai, con le pupille assorte, e trasparire vidi i nostri volti già risupini lividi sepolti... Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, piú forte...
Oh! Come, come, a quelle dita avvinto, rimpiansi il mondo e la mia dolce vita! O voce imperïosa dell’istinto! O voluttà di vivere infinita! Le dita liberai da quelle dita, e guadagnai la ripa, ansante, vinto...
Ella sola restò, sorda al suo nome, rotando a lungo nel suo regno solo. Le piacque, alfine, ritoccare il suolo; e ridendo approdò, sfatta le chiome, e bella ardita palpitante come la procellaria che raccoglie il volo.
Non curante l’affanno e le riprese dello stuolo gaietto femminile, mi cercò, mi raggiunse tra le file degli amici con ridere cortese: «Signor mio caro, grazie!» E mi protese la mano breve, sibilando: − Vile! −
Salvezza (originariamente in I colloqui, Treves 1911, sezione Alle soglie)
Vivere cinque ore? Vivere cinque età?... Benedetto il sopore che mi addormenterà…
Ho goduto il risveglio dell’anima leggera: meglio dormire, meglio prima della mia sera. Poi che non ha ritorno il riso mattutino. La bellezza del giorno è tutta nel mattino.
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UMBERTO SABA (1883‐1957) Edizione di riferimento U. Saba, Il Canzoniere, Einaudi 1961.
Città vecchia [1910‐1912] (Originariamente in Coi miei occhi, Edizioni della «Voce» 1912; nel Canzoniere
nella sezione Trieste e una donna)
Spesso, per ritornare alla mia casa Prendo un’oscura via di città vecchia. Giallo in qualche pozzanghera si specchia Qualche fanale, e affollata è la strada. Qui tra la gente che viene che va Dall’osteria alla casa o al lupanare, dove son merci ed uomini il detrito di un gran porto di mare, io ritrovo, passando, l’infinito nell’umiltà. Qui prostituta e marinaio, il vecchio che bestemmia, la femmina che bega, il dragone che siede alla bottega del friggitore, la tumultuante giovane impazzita d’amore, sono tutte creature della vita e del dolore; s’agita in esse, come in me, il Signore. Qui degli umili sento in compagnia il mio pensiero farsi più puro dove più turpe è la via.
[Guarda là quella vezzosa] (originariamente in L’amorosa spina, Libreria Antica e Moderna,
1921; nel Canzoniere nella sezione omonima)
Guarda là quella vezzosa, guarda là quella smorfiosa. Si restringe nelle spalle, tiene il viso nello scialle. O qual mai castigo ha avuto? Nulla. Un bacio ha ricevuto.
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Donna (originariamente in Parole, Carabba 1934; nel Canzoniere nella sezione omonima)
Quand’eri giovinetta pungevi come una mora di macchia. Anche il piede t’era un’arma, o selvaggia. Eri difficile da prendere. Ancora giovane, ancora sei bella. I segni degli anni, quelli del dolore, legano l’anime nostre, una ne fanno. E dietro i capelli nerissimi che avvolgo alle mie dita, più non temo il piccolo bianco puntuto orecchio demoniaco.
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ALDO PALAZZESCHI (1885‐1974) Edizione di riferimento A.Palazzeschi, Tutte le poesie, Mondadori 2002
Chi sono? (Originariamente come poesia d’apertura, a sé stante, in Poemi, pubblicato a spese
dell’autore nel 1909) Sono forse un poeta? No, certo. Non scrive che una parola, ben strana, la penna dell’anima mia: «follìa». Son dunque un pittore? Neanche. Non ha che un colore la tavolozza dell’anima mia: «malinconìa». Un musico, allora? Nemmeno. Non c’è che una nota nella tastiera dell’anima mia: «nostalgìa». Son dunque … che cosa? Io metto una lente davanti al mio cuore per farlo vedere alla gente. Chi sono? Il saltimbanco dell’anima mia. Rio Bo (originariamente in Poemi 1909, sezione Piccoli paesi e paesi in grande)
Tre casettine dai tetti aguzzi, un verde praticello, un esiguo ruscello: Rio Bo, un vigile cipresso. Microscopico paese, è vero, paese da nulla, ma però... c'è sempre di sopra una stella, una grande, magnifica stella, che a un dipresso... occhieggia con la punta del cipresso di Rio Bo. Una stella innamorata? Chi sa se nemmeno ce l'ha una grande città.
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GIUSEPPE UNGARETTI (1888‐1970) Edizione di riferimento G. Ungaretti, Vita d’un uomo, Mondadori 1969.
Veglia (Originariamente in Il porto sepolto, Stabilimento Tipografico Friulano, 1916)
Un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d’amore. Non sono mai stato tanto attaccato alla vita. Cima Quattro il 23 dicembre 1915
Sono una creatura (Originariamente in Il porto sepolto, Stabilimento Tipografico Friulano, 1916)
Come questa pietra del San Michele così fredda così dura così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata Come questa pietra è il mio pianto che non si vede La morte si sconta vivendo. Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916
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San Martino del Carso (originariamente in
Il porto sepolto, Stabilimento Tipografico Friulano, 1916.)
Di queste case non c’è rimasto che qualche brandello di muro esposto all’aria Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto nei cimiteri Ma nel cuore nessuna croce manca Innalzata di sentinella e che? Sono morti cuore malato Perché io guardi al mio cuore come a uno straziato paese qualche volta Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916
San Martino del Carso (originariamente in
Allegria di naufragi, Vallecchi 1919, sezione Il porto sepolto)
Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non m’è rimasto neppure tanto Ma nel mio cuore nessuna croce manca È il mio cuore il paese più straziato Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916
Natale (Originariamente in Allegria di naufragi, Vallecchi 1919, sezione Naufragi)
Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade Ho tanta stanchezza sulle spalle Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata Qui non si sente
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altro che il caldo buono Sto con le quattro capriole di fumo del focolare Napoli il 26 dicembre 1916
Soldati (originariamente in Allegria di naufragi, Vallecchi, 1919, sezione Girovago)
Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie Bosco di Courton luglio 1918
Mattina (originariamente in Allegria di naufragi, Vallecchi 1919, sezione Naufragi)
M’illumino d’immenso.
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EUGENIO MONTALE (1896‐1981) Edizione di riferimento E. Montale, L’opera in versi, Einaudi 1980.
I limoni (originariamente in Ossi di seppia, Gobetti 1925, sezione Movimenti) Ascoltami, i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi dove in pozzanghere mezzo seccate agguantano i ragazzi qualche sparuta anguilla: le viuzze che seguono i ciglioni, discendono tra i ciuffi delle canne e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni. Meglio se le gazzarre degli uccelli si spengono inghiottite dall’azzurro: più chiaro si ascolta il susurro dei rami amici nell’aria che quasi non si muove, e i sensi di quest’odore che non sa staccarsi da terra e piove in petto una dolcezza inquieta. Qui delle divertite passioni per miracolo tace la guerra, qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza ed è l’odore dei limoni. Vedi, in questi silenzi in cui le cose s’abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto, talora ci si aspetta di scoprire uno sbaglio di Natura, il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità. Lo sguardo fruga d’intorno, la mente indaga accorda disunisce nel profumo che dilaga quando il giorno più languisce. Sono i silenzi in cui si vede in ogni ombra umana che si allontana qualche disturbata Divinità. Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
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soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta il tedio dell’inverno sulle case, la luce si fa avara ‐ amara l’anima. Quando un giorno da un malchiuso portone tra gli alberi di una corte ci si mostrano i gialli dei limoni; e il gelo dei cuore si sfa, e in petto ci scrosciano le loro canzoni le trombe d’oro della solarità. [Meriggiare pallido e assorto] (originariamente in Ossi di seppia, Gobetti 1925, sezione Ossi di seppia)
Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d'orto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi. Nelle crepe dei suolo o su la veccia spiar le file di rosse formiche ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano a sommo di minuscole biche. Osservare tra frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi. E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com'è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
[Non recidere, forbice, quel volto] (originariamente in Le Occasioni, Einaudi 1939, sezione
Mottetti)
Non recidere, forbice, quel volto, solo nella memoria che si sfolla, non far del grande suo viso in ascolto la mia nebbia di sempre.
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Un freddo cala... Duro il colpo svetta. E l'acacia ferita da sé scrolla il guscio di cicala nella prima belletta di Novembre.
[Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale] (originariamente in Satura,
Mondadori 1971, sezione Xenia II)
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue.
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SALVATORE QUASIMODO (1901‐1968) Edizione di riferimento S.Quasimodo, Tutte le poesie, Mondadori 1966
Ed è subito sera (originariamente in Acque e terre (1920‐1929), Edizioni di Solaria 1930)
Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera.
Alle fronde dei salici (originariamente in Giorno dopo giorno, Mondadori 1947)
E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento. Quasi un epigramma (originariamente in La terra impareggiabile, Mondadori 1958)
Il contorsionista nel bar, melanconico e zingaro, si alza di colpo da un angolo e invita a un rapido spettacolo. Si toglie la giacca e nel maglione rosso curva la schiena a rovescio e afferra come un cane un fazzoletto sporco con la bocca. Ripete per due volte il ponte scamiciato e poi s’inchina col suo piatto di plastica. Augura con gli occhi di furetto un bel colpo alla Sisal e scompare. La civiltà dell’atomo è al suo vertice.
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SANDRO PENNA (1906‐1977) Edizione di riferimento S. Penna, Poesie, Garzanti 19971
Nuotatore [1927‐1938]
Dormiva…? Poi si tolse e si stirò. Guardò con occhi lenti l’acqua. Un guizzo il suo corpo. Così lasciò la terra.
[Io vivere vorrei addormentato] [1927‐1938]
Io vivere vorrei addormentato entro il dolce rumore della vita.
[Il mare è tutto azzurro] [1927‐1938]
Il mare è tutto azzurro. il mare è tutto calmo. nel cuore è quasi un urlo di gioia. E tutto è calmo
[Era fermo per me. Ma senza stile] [1938‐1955]
Era fermo per me. Ma senza stile forse baciai quelle sue labbra rosse. Improvviso e leggero egli si mosse come si muove il vento entro l’aprile.
1 Una prima raccolta delle Poesie di Penna ebbe edizione per Parenti nel 1939, una seconda accresciuta per Garzanti nel 1957, una terza, con il titolo Tutte le poesie, riassuntiva dei testi editi e inediti allora conosciuti, per Garzanti 1970. L’edizione Garzanti 1997 si ritiene comprensiva dell’intera produzione in versi dell’autore.
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LEONARDO SINISGALLI (1908‐1981) Edizione di riferimento L. Sinisgalli, Ellisse. Poesie 1932‐1972, Mondadori 1974.
San Babila (originariamente in L. Sinisgalli, Vidi le muse, Mondadori 1943)
Trascina il vento della sera attaccate agli ombrelli a colore le piccole fioraie che strillano gaie nelle maglie. Come rondini alle grondaie resteranno sospese nell’aria le venditrici di dalie ora che il vento della sera gonfia gli ombrelli a mongolfiera.
[I fanciulli battono le monete rosse] (originariamente in L. Sinisgalli, Vidi le muse, Mondadori
1943) I fanciulli battono le monete rosse contro il muro. (Cadono distanti per terra con dolce rumore.) Gridano a squarciagola in un fuoco di guerra. Si scambiano motti superbi e dolcissime ingiurie. La sera incendia le fronti, infuria i capelli. Sulle selci calda è come sangue. Il piazzale torna calmo. Una moneta battuta si posa Vicino all'altra alla misura di un palmo. Il fanciullo preme sulla terra la sua mano vittoriosa.
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ALFONSO GATTO (1909‐1976) Edizione di riferimento A. Gatto, Tutte le poesie, Mondadori 2005.
Consiglio spassionato (originariamente in Il sigaro di fuoco. Poesie per bambini, Bompiani 1945,
volume poi ripubblicato, accresciuto e corredato da illustrazioni e da un disco con la voce recitante dell’autore, con il titolo Il vaporetto, La Nuova Accademia 1963. L’ultima edizione del Vaporetto, con CD audio, è Mondadori 2001)
Non date retta al re, non date retta a me. Chi v'inganna si fa sempre più alto d'una spanna, mette sempre un berretto, incede eretto con tante medaglie sul petto. Non date retta al saggio al maestro del villaggio al maestro della città a chi vi dice che sa. Sbagliate soltanto da voi come i cavalli, come i buoi, come gli uccelli, i pesci, i serpenti che non hanno monumenti e non sanno mai la storia. Chi vive è senza gloria. Il 4 è rosso (originariamente in Poesie d’amore (1941‐1949), prima sezione di Poesie d’amore,
Mondadori 1973)
Dentro la bocca ha tutte le vocali il bambino che canta. La sua gioia come la giacca azzurra, come i pali netti del cielo, s’apre all’aria, è il fresco della faccia che porta. Il 4 è rosso come i numeri grandi delle navi.
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Per i martiri di Piazzale Loreto (originariamente in Il capo sulla neve (1943‐1947), raccolta di
liriche sulla Resistenza comparse in un quaderno venduto in allegato al quotidiano “Milano Sera”)2
Ed era l’alba, poi tutto fu fermo la città, il cielo, il fiato del giorno. rimasero i carnefici soltanto vivi davanti ai morti.
Era silenzio l’urlo del mattino, silenzio il cielo ferito: un silenzio di case, di Milano. Restarono bruttati anche di sole, sporchi di luce e l’uno all’altro odiosi, gli assassini venduti alla paura.
Era l’alba e dove fu lavoro, ove il piazzale era la gioia accesa della città migrante alle sue luci da sera a sera, ove lo stesso strido dei tram era saluto al giorno, al fresco viso dei vivi, vollero il massacro perché Milano avesse alla sua soglia confusi tutti in uno stesso cuore i suoi figli promessi e il vecchio cuore forte e ridesto, stretto come un pugno.
Ebbi il mio cuore, ed anche il vostro cuore, il cuore di mia madre e dei miei figli di tutti i vivi uccisi in un istante, per quei morti mostrati lungo il giorno alla luce d’estate, a un temporale di nuvole roventi. Attesi il male come un fuoco fulmineo, come l’acqua scrosciante di vittoria, udii il tuono d’un popolo ridesto dalle tombe.
Io vidi il nuovo giorno che a Loreto sopra la rossa barricata i morti saliranno per primi, ancora in tuta e col petto discinto, ancora vivi di sangue e di ragioni. Ed ogni giorno, ogni ora eterna brucia a questo fuoco, ogni alba ha il petto offeso da quel piombo degli innocenti fulminati al muro.
2 La poesia fa riferimento all’eccidio di Piazzale Loreto del 10 agosto 1944: quindici tra partigiani e antifascisti, prelevati dal carcere di San Vittore, furono fucilati per ordine dei tedeschi dai militi della legione “Ettore Muti”, che per rinforzare l’azione dimostrativa lasciarono esposti al pubblico i loro cadaveri.
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ATTILIO BERTOLUCCI (1911‐2000) Edizione di riferimento A.Bertolucci, Le poesie, Garzanti 2009
La rosa bianca (Originariamente in Fuochi in novembre, Minardi, 1934)
Coglierò per te L’ultima rosa del giardino, la rosa bianca che fiorisce nelle prime nebbie. Le avide api l’hanno visitata sino a ieri, ma è ancora così dolce che fa tremare. È un ritratto di te a trent’anni, un po’ smemorata, come tu sarai allora.
Pagina di diario (Originariamente in Fuochi in novembre, Minardi, 1934)
A Bologna, alla Fontanina, un cameriere furbo e liso senza parlare, con un sorriso, aprì per noi una porticina. La stanza vuota e assolata dava su un canale per cui silenziosa, uguale, una flotta d’anatre navigava. Un vino d’oro splendeva nei bicchieri Che ci inebbriò; l’amore, nei tuoi occhi neri, fuoco in una radura, s’incendiò.
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GIORGIO CAPRONI (1912‐1990) Edizione di riferimento G. Caproni , L’opera in versi, Meridiani Mondadori 2009
Il mare brucia le maschere ( Originariamente in Cronistoria, Vallecchi 1943, sezione E lo spazio
era un fuoco)
Il mare brucia le maschere, le incendia il fuoco del sale. Uomini pieni di maschere avvampano sul litorale. Tu sola potrai resistere nel rogo del Carnevale. Tu sola che senza maschere nascondi l’arte di esistere.
Sassate (Originariamente in Il muro della terra, Garzanti 1975, sezione Lilliput e Andantino)
Ho provato a parlare. Forse, ignoro la lingua. Tutte frasi sbagliate. Le risposte: sassate.
Le parole (Originariamente in Il franco cacciatore, Garzanti 1982 , sezione Occhiello)
Le parole. Già. Dissolvono l’oggetto. Come la nebbia gli alberi, il fiume: il traghetto.
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ANTONIA POZZI (1912‐1938) Edizione di riferimento A. Pozzi, Parole, Garzanti 2004.
Sera d’aprile (originariamente in Parole, Mondadori 1939)
Batte la luna soavemente di là dai vetri sul mio vaso di primule: senza vederla la penso come una grande primula anch’essa stupita sola nel prato azzurro del cielo. Milano, 1° aprile 1931
Rifugio (originariamente in Parole, Mondadori 1939)
Nebbie. E il tonfo dei sassi dentro i canali. Voci d’acqua giù dai nevai di notte. Tu stendi una coperta per me sul pagliericcio: con le tue mani dure me l’avvolgi alle spalle, lievemente, che non mi prenda il freddo. Io penso al grande mistero che vive in te, oltre il tuo piano gesto; al senso di questa nostra fratellanza umana senza parole, tra le immense rocce dei monti. E forse ci sono più stelle e segreti e insondabili vie tra noi, nel silenzio, che in tutto il cielo disteso al di là della nebbia. Breil, 9 agosto 1934.
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VITTORIO SERENI (1913‐1983) Edizione di riferimento V. Sereni, Poesie, Einaudi 2002.
[Non sa più nulla, è alto sulle ali] (originariamente in Diario d’Algeria, Vallecchi 1947, sezione Diario d’Algeria)
Non sa più nulla, è alto sulle ali il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna. Per questo qualcuno stanotte mi toccava la spalla mormorando di pregar per l’Europa mentre la Nuova Armada si presentava alla costa di Francia. Ho risposto nel sonno: ‐ È il vento, il vento che fa musiche bizzarre. Ma se tu fossi davvero il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna prega tu se lo puoi, io sono morto alla guerra e alla pace. Questa è la musica ora: delle tende che sbattono sui pali. Non è musica d’angeli , è la mia Sola musica e mi basta. ‐ Campo Ospedale 127, giugno 1944
[Ahimè come ritorna] (originariamente in Diario d’Algeria, Vallecchi 1947, sezione Diario d’Algeria)
Ahimè come ritorna sulla frondosa a mezzo luglio collina d’Algeria di te nell’alta erba riversa non ingenua la voce e nemmeno perversa che l’afa lamenta e la bocca feroce ma rauca un poco e tenera soltanto. Saint Cloud, luglio 1944
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Dall’Olanda (originariamente in Gli strumenti umani, Einaudi 1965, sezione Apparizioni o incontri)
Amsterdam
A portarmi fu il caso tra le nove e le dieci d’una domenica mattina svoltando a un ponte, uno dei tanti, a destra lungo il semigelo d’un canale. E non questa è la casa, ma soltanto ‐mille volte già vista – sul cartello dimesso «Casa di Anna Frank». Disse più tardi il mio compagno: quella di Anna Frank non dev’ essere, non è, privilegiata memoria. Ce ne furono tanti che crollarono per sola fame senza il tempo di scriverlo. Lei, è vero, lo scrisse. Ma a ogni svolta a ogni ponte lungo ogni canale continuavo a cercarla senza trovarla più ritrovandola sempre. Per questo è una e insondabile Amsterdam nei suoi tre quattro variabili elementi che fonde in tante unità ricorrenti, nei suoi tre quattro fradici o acerbi colori che quanto è grande il suo spazio perpetua, anima che s’irraggia ferma e limpida in migliaia d’altri volti, germe dovunque e germoglio di Anna Frank. Per questo è sui suoi canali vertiginosa Amsterdam.
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MARIO LUZI (1914‐2005) Edizione di riferimento M.Luzi, Poesie, Mondadori 1998
Notizie a Giuseppina dopo tanti anni (originariamente in Primizie del deserto, Schwarz 1952)
Che speri, che ti riprometti, amica, se torni per così cupo viaggio fin qua dove nel sole le burrasche hanno una voce altissima abbrunata, di gelsomino odorano e di frane? Mi trovo qui a questa età che sai, né giovane né vecchio, attendo, guardo questa vicissitudine sospesa; non so più quel che volli o mi fu imposto, entri nei miei pensieri e n'esci illesa. Tutto l'altro che deve essere è ancora, il fiume scorre, la campagna varia, grandina, spiove, qualche cane latra esce la luna, niente si riscuote, niente dal lungo sonno avventuroso.
La notte lava la mente (originariamente in Onore del vero, Pozza 1957)
La notte lava la mente. Poco dopo si è qui come sai bene, file d’anime lungo la cornice, chi pronto al balzo, chi quasi in catene. Qualcuno sulla pagina del mare Traccia un segno di vita, figge un punto. Raramente qualche gabbiano appare.
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VALERIO MAGRELLI (1957) Edizione di riferimento V.Magrelli, Poesie (1980‐1992) e Altre poesie, Einaudi 1996.
[Essere matita è segreta ambizione] (originariamente in Ora serrata retinae, Feltrinelli 1980)
Essere matita è segreta ambizione. Bruciare sulla carta lentamente e nella carta restare in altra nuova forma suscitato. Diventare così da carne segno, da strumento ossatura esile del pensiero. Ma questa dolce eclissi della materia non sempre è concessa. C’è chi tramonta solo col suo corpo: allora più doloroso ne è distacco.
[Spesso c’è bonaccia sulla pagina] (originariamente in Ora serrata retinae, Feltrinelli 1980) Spesso c’è bonaccia sulla pagina. Inutile girarla per cercare l’angolo del vento. Si sta fermi, il pensiero oscilla, si riparano le cose che la navigazione ha guastato.
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ALTRI CLASSICI FOSCO MARAINI (1912‐2004) Edizione di riferimento F. Maraini, Gnosi delle Fànfole, Baldini & Castoldi, 2007.
Il giorno a urlapicchio (originariamente in Le Fànfole, De Donato, 1966)
Ci son dei giorni smègi e lombidiosi col cielo dagro e un fònzero gongruto ci son meriggi gnàlidi e budriosi che plògidan sul mondo infrangelluto, ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi un giorno tutto gnacchi e timparlini, le nuvole buzzìllano, i bernecchi ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini; è un giorno per le vànvere, un festicchio un giorno carmidioso e prodigiero, è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio in cui m’hai detto «t’amo per davvero».
Ballo (originariamente in Le Fànfole, De Donato, 1966)
Vortègida e festuglia o dulcibana e sdrìllera che sdràllero! Sul fizio la musica ci zùnfrega e ci sdrana con tròdige buriagico e rubizio. Lo sai che gli occhi gneschi e turchidiosi son come abissi vèlvoli e maligi? Lo sai che nei bluàgnoli miriosi tracàcero con lèfane deligi? Ah sdrìllera che sdràllero, mumurra parole lampigiane ed umbralìe, t’ascolto lucifuso nell’azzurra voragine d’un’alba di bugie.
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TOTI SCIALOJA (1914‐1998) Edizione di principale riferimento T.Scialoja, Versi del senso perso, Einaudi 2009; per La rosa non è rossa si veda invece T.Scialoja, Poesie (1979‐1998), Garzanti, 2002.
Una zanzara di Zanzibàr (originariamente in Amato topino caro, Bompiani 1971)
andava a zonzo, entrò in un bar, ‘Zuzzerellona!’ le disse un tal ‘mastica zenzero se hai mal di mar’”.
____
L’ippopota disse «Mo (originariamente in Amato topino caro, Bompiani 1971)
nella mota ho il mio popò!» ____
La zanzara, per decenza, (originariamente in Una vespa! Che spavento, Einaudi 1975)
ha una tunica d’organza, quando è sbronza vola senza a zig zag per la Brianza.
____
Un esercito di pulci (originariamente in La stanza la stizza l’astuzia, Cooperativa Scrittori 1976) sta passando in treno merci, quando grido: “ Arrivederci! “ fanno tutte gli occhi dolci.
____
Oh, formica! (originariamente in Ghiro ghiro tonto, Stampatori 1979)
Quanto è antica e nemica la fatica nell’ortica. Ma tu vuoi che non si dica.
____
La rosa non è rossa (originariamente in Violini del diluvio, Mondadori, 1991) è appena rosa ‐ è senza tinta se a tratti è scossa dal sussulto della tua assenza che non chiede colore non misura distanza ‐ è soltanto dolore in qualche angolo della stanza.
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GIANNI RODARI (1920‐1980) Edizione di riferimento G.Rodari, Filastrocche in cielo e in terra, Einaudi 1996
I mari della luna (originariamente in Filastrocche in cielo e in terra, Einaudi 1960)
Nei mari della luna tuffi non se ne fanno; non c’è una goccia d’acqua, pesci non ce ne stanno. Che magnifico mare per chi non sa nuotare.
Alla formica (originariamente in Filastrocche in cielo e in terra, Einaudi 1960)
Chiedo scusa alla favola antica se non mi piace l’avara formica. Io sto dalla parte della cicala Che il più bel canto non vende: regala.
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NICO ORENGO (1944‐2009) Edizione di riferimento N.Orengo, A‐Ulì‐Ulé. Filastrocche, Conte, Ninnenanne, Einaudi 1998
Un uccellino (originariamente in A‐Ulì‐Ulé, Einaudi, 1972)
Nella grande città, c’è una strada; nella strada, c’è una casa, nella casa una scala, in cima alla scala, una stanza; in mezzo alla stanza, una tavola; sulla tavola, un tappeto; sul tappeto, una gabbia; nella gabbia, un nido; nel nido, un uovo; nell’uovo, un uccellino. L’uccellino uscì fuori dell’uovo e lo rovesciò; l’uovo rovesciò il nido; il nido rovesciò la gabbia; la gabbia rovesciò il tappeto; il tappeto rovesciò la tavola; la tavola rovesciò la stanza; la stanza rovesciò la scala; la scala rovesciò la casa; la casa rovesciò la strada; la strada rovesciò la grande città. Così un uccellino rovesciò un’intera città.
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ROBERTO PIUMINI (1947)
Lo scrittore scrive scrive (in C’era un bambino profumato di latte, Mondadori 1980, poi con CD audio Mondadori 2011)
Lo scrittore scrive scrive scrive dieci cento ore ma chi scrive allo scrittore? Scrive versi scrive strofe ma dal tetto giù gli piove. Scrive in prosa scrive in rima ma nessuno gli cucina. Scrive frasi cento a cento ma di fuori gli entra il vento. Scrive a penna scrive a biro ma non ha nessuno in giro. Scrive lento scrive in fretta ma si è spenta la stufetta. Lo scrittore scrive scrive dieci cento mille ore ma chi scrive allo scrittore?
Fu il gioco del solletico. All’inizio (in L’amore morale, Il Melangolo 2001)
Fu il gioco del solletico, all’inizio: ridevi e mi sfuggivi come un gatto: era una danza fatta a precipizio, un ritmo regolare e contraffatto.
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Poi, progressivamente, tu cedesti senza tentare più quelle tue fughe: più ferma, ti chinasti, ti chiudesti come usano ricci e tartarughe. Ma io cambiai solletico, pietoso, mutando tocco e variando zone, e tu ridevi in modo più goloso, ridevi nella gola un’emozione che poi divenne rantolo gioioso e durò molto, e fu lunga canzone.
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FEDERIGO TOZZI (1883 – 1920)
SENZA TITOLO [Il lettore e l’orso]
In Bestie, Treves 1917 (qui Le Lettere 2011)
Da ragazzo, mi compravo pochi libri. Mio padre voleva ch’io non leggessi; e, con la
scusa che mi sarei sciupato gli occhi, non cavava mai un soldo in tasca. Quei cinque o
sei che avevo, li tenevo insieme con la biancheria; e m’avveniva che, quando tiravo il
cassetto per prendere una camicia o altro, ne aprivo uno e leggevo senza muoverlo dal
suo posto.
Ma, un capodanno, la mia donna si decise a comprarmi per regalo, avendo io
insistito fin da un mese prima, quel libro del Verne che si chiama Nel paese delle
pellicce. Io cominciai a leggerlo, ma non andavo mai in fondo; perché tornavo sempre
alla pagine a dietro. Finalmente, dopo un tre mesi, giunsi all’ultima pagina come se
quelle avventure fossero toccate a me.
E più d’ogni altra cosa, forse, mi rimase a mente una figura dov’era un orso che
voleva entrare dentro una capanna. Tutte le volte che ho visto orsi veri, ho sempre
pensato a quello; e come, guardandolo, per un bel pezzo mi scuotevo e mi smuovevo
tutto.
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DINO BUZZATI (1906–1972)
IL COLOMBRE (su rivista 1961)
In Il Colombre, Mondadori, 1966 (qui Mondadori 1991)
Quando Stefano Roí compí i dodici anni, chiese in regalo a suo padre, capitano di mare
e padrone di un bel veliero, che lo portasse con sé a bordo.
«Quando sarò grande» disse «voglio andar per mare come te. E comanderò delle navi
ancora più belle e grandi della tua.»
«Che Dio ti benedica, figliolo» rispose il padre. E siccome proprio quel giorno il suo
bastimento doveva partire, portò il ragazzo con sé.
Era una giornata splendida di sole; e il mare tranquillo. Stefano, che non era mai stato
sulla nave, girava felice in coperta, ammirando le complicate manovre delle vele. E chiedeva
di questo e di quello ai marinai che, sorridendo, gli davano tutte le spiegazioni.
Come fu giunto a poppa, il ragazzo si fermò, incuriosito, a osservare una cosa che
spuntava a intermittenza in superficie, a distanza di due‐trecento metri, in corrispondenza
della scia della nave. Benché il bastimento già volasse, portato da un magnifico vento al
giardinetto, quella cosa manteneva sempre la distanza. E, sebbene egli non ne
comprendesse la natura, aveva qualcosa di indefinibile, che lo attraeva intensamente. Il
padre, non vedendo Stefano più in giro, dopo averlo chiamato a gran voce invano, scese
dalla plancia e andò a cercarlo.
«Stefano, che cosa fai lì impalato?» gli chiese scorgendolo infine a poppa, in piedi, che
fissava le onde.
«Papà, vieni qui a vedere.»
Il padre venne e guardò anche lui, nella direzione indicata dal ragazzo, ma non riuscì a
vedere niente.
«C’è una cosa scura che spunta ogni tanto dalla scia» disse «e che ci viene dietro.»
«Nonostante i miei quarant’anni» disse il padre «credo di avere ancora una vista
buona. Ma non vedo assolutamente niente.»
Poiché il figlio insisteva, andò a prendere il cannocchiale e scrutò la superficie del
mare, in corrispondenza della scia. Stefano lo vide impallidire.
«Cos’è? Perché fai quella faccia?»
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«Oh, non ti avessi ascoltato» esclamò il capitano. « Io adesso temo per te. Quella cosa
che tu vedi spuntare dalle acque e che ci segue, non è una cosa. Quello è un colombre. È il
pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni mare del mondo. È uno squalo tremendo e
misterioso, più astuto dell’uomo. Per motivi che forse nessuno saprà mai, sceglie la sua
vittima, e quando l’ha scelta la insegue per anni e anni, per una intera vita, finché è riuscito
a divorarla. E lo strano è questo: che nessuno riesce a scorgerlo se non la vittima stessa e le
persone del suo stesso sangue.» «Non è una favola?»
«No. Io non l’avevo mai visto. Ma dalle descrizioni che ho sentito fare tante volte, l’ho
subito riconosciuto. Quel muso da bisonte, quella bocca che continuamente si apre e
chiude, quei denti terribili. Stefano, non c’è dubbio, purtroppo, il colombre ha scelto te e
finché tu andrai per mare non ti darà pace. Ascoltami: ora noi torniamo subito a terra, tu
sbarcherai e non ti staccherai mai più dalla riva, per nessuna ragione al mondo. Me lo devi
promettere. Il mestiere del mare non è per te, figliolo. Devi rassegnarti. Del resto, anche a
terra potrai fare fortuna.» Ciò detto, fece immediatamente invertire la rotta, rientrò in
porto e, col pretesto di un improvviso malessere, sbarcò il figliolo.
Quindi ripartì senza di lui.
Profondamente turbato, il ragazzo restò sulla riva finché l’ultimo picco dell’alberatura
sprofondò dietro l’orizzonte. Di là dal molo che chiudeva il porto, il mare restò
completamente deserto. Ma, aguzzando gli sguardi, Stefano riuscì a scorgere un puntino
nero che affiorava a intermittenza dalle acque: il "suo" colombre, che incrociava
lentamente su e giù, ostinato ad aspettarlo.
Da allora il ragazzo con ogni espediente fu distolto dal desiderio del mare. Il padre lo
mandò a studiare in una città dell’interno, lontana centinaia di chilometri. E per qualche
tempo, distratto dal nuovo ambiente, Stefano non pensò più al mostro marino. Tuttavia,
per le vacanze estive, tornò a casa e per prima cosa appena ebbe un minuto libero, si
affrettò a raggiungere l’estremità del molo, per una specie di controllo, benché in fondo lo
ritenesse superfluo. Dopo tanto tempo, il colombre, ammesso anche che tutta la storia
narratagli dal padre fosse vera, aveva certo rinunciato all’assedio.
Ma Stefano rimase là, attonito, col cuore che gli batteva. A distanza di due‐trecento
metri dal molo, nell’aperto mare, il sinistro pesce andava su e giù, lentamente, ogni tanto
sollevando il muso dall’acqua e volgendolo a terra, quasi con ansia guardasse se Stefano Roi
finalmente veniva. Così, l’idea di quella creatura nemica che lo aspettava giorno e notte
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divenne per Stefano una segreta ossessione. E anche nella lontana città gli capitava di
svegliarsi in piena notte con inquietudine. Egli era al sicuro, sì, centinaia di chilometri lo
separavano dal colombre. Eppure egli sapeva che, di là dalle montagne, di là dai boschi, di
là dalle pianure, lo squalo era ad aspettarlo. E, si fosse egli trasferito pure nel più remoto
continente, ancora il colombre si sarebbe appostato nello specchio di mare più vicino, con
l’inesorabile ostinazione che hanno gli strumenti del fato.
Stefano, ch’era un ragazzo serio e volonteroso, continuò con profitto gli studi e,
appena fu uomo, trovò un impiego dignitoso e rimunerativo in un emporio di quella città.
Intanto il padre venne a morire per malattia, il suo magnifico veliero fu dalla vedova
venduto e il figlio si trovò ad essere erede di una discreta fortuna. Il lavoro, le amicizie, gli
svaghi, i primi amori: Stefano si era ormai fatto la sua vita, ciononostante il pensiero del
colombre lo assillava come un funesto e insieme affascinante miraggio; e, passando i giorni,
anziché svanire, sembrava farsi più insistente.
Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora più
grande è l’attrazione dell’abisso. Aveva appena ventidue anni Stefano, quando, salutati gli
amici della città e licenziatosi dall’impiego, tornò alla città natale e comunicò alla mamma la
ferma intenzione di seguire il mestiere paterno. La donna, a cui Stefano non aveva mai fatto
parola del misterioso squalo, accolse con gioia la sua decisione.
L’avere il figlio abbandonato il mare per la città le era sempre sembrato, in cuor suo,
un tradimento alle tradizioni di famiglia.
E Stefano cominciò a navigare, dando prova di qualità marinare, di resistenza alle
fatiche, di animo intrepido. Navigava, navigava, e sulla scia del suo bastimento, di giorno e
di notte, con la bonaccia e con la tempesta, arrancava il colombre. Egli sapeva che quella
era la sua maledizione e la sua condanna, ma proprio per questo, forse, non trovava la forza
di staccarsene. E nessuno a bordo scorgeva il mostro, tranne lui.
«Non vedete niente da quella parte?» chiedeva di quando in quando ai compagni,
indicando la scia. «No, noi non vediamo proprio niente. Perché?» «Non so. Mi pareva...»
«Non avrai mica visto per caso un colombre» facevano quelli, ridendo e toccando
ferro.
«Perché ridete? Perché toccate ferro?» «Perché il colombre è una bestia che non
perdona. E se si mettesse a seguire questa nave, vorrebbe dire che uno di noi è perduto.»
Ma Stefano non mollava. La ininterrotta minaccia che lo incalzava pareva anzi
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moltiplicare la sua volontà, la sua passione per il mare, il suo ardimento nelle ore di lotta e
di pericolo.
Con la piccola sostanza lasciatagli dal padre, come egli si sentì padrone del mestiere,
acquistò con un socio un piccolo piroscafo da carico, quindi ne divenne il solo proprietario
e, grazie a una serie di fortunate spedizioni, poté in seguito acquistare un mercantile sul
serio, avviandosi a traguardi sempre più ambiziosi. Ma i successi, e i milioni, non servivano a
togliergli dall’animo quel continuo assillo; né mai, d’altra parte, egli fu tentato di vendere la
nave e di ritirarsi a terra per intraprendere diverse imprese.
Navigare, navigare, era il suo unico pensiero. Non appena, dopo lunghi tragitti,
metteva piede a terra in qualche porto, subito lo pungeva l’impazienza di ripartire. Sapeva
che fuori c’era il colombre ad aspettarlo, e che il colombre era sinonimo di rovina. Niente.
Un indomabile impulso lo traeva senza requie, da un oceano all’altro. Finché,
all’improvviso, Stefano un giorno si accorse di essere diventato vecchio, vecchissimo; e
nessuno intorno a lui sapeva spiegarsi perché, ricco com’era, non lasciasse finalmente la
dannata vita del mare. Vecchio, e amaramente infelice, perché l’intera esistenza sua era
stata spesa in quella specie di pazzesca fuga attraverso i mari, per sfuggire al nemico. Ma
più grande che le gioie di una vita agiata e tranquilla era stata per lui sempre la tentazione
dell’abisso.
E una sera, mentre la sua magnifica nave era ancorata al largo dei porto dove era nato,
si sentì prossimo a morire. Allora chiamò il secondo ufficiale, di cui aveva grande fiducia, e
gli ingiunse di non opporsi a ciò che egli stava per fare. L’altro, sull’onore, promise.
Avuta questa assicurazione, Stefano, al secondo ufficiale che lo ascoltava sgomento,
rivelò la storia del colombre, che aveva continuato a inseguirlo per quasi cinquant’anni,
inutilmente.
«Mi ha scortato da un capo all’altro del mondo» disse «con una fedeltà che neppure il
più nobile amico avrebbe potuto dimostrare. Adesso io sto per morire. Anche lui, ormai,
sarà terribilmente vecchio e stanco. Non posso tradirlo.»
Ciò detto, prese commiato, fece calare in mare un barchino e vi salì, dopo essersi fatto
dare un arpione. «Ora gli vado incontro» annunciò. «È giusto che non lo deluda. Ma lotterò,
con le mie ultime forze.» A stanchi colpi di remi, si allontanò da bordo. Ufficiali e marinai lo
videro scomparire laggiù, sul placido mare, avvolto dalle ombre della notte.
C’era in cielo una falce di luna.
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Non dovette faticare molto. All’improvviso il muso orribile del colombre emerse di
fianco alla barca.
«Eccomi a te, finalmente» disse Stefano. «Adesso, a noi due!» E, raccogliendo le
superstiti energie, alzò l’arpione per colpire.
«Uh» mugolò con voce supplichevole il colombre «che lunga strada per trovarti.
Anch’io sono distrutto dalla fatica. Quanto mi hai fatto nuotare. E tu fuggivi, fuggivi. E non
hai mai capito niente.» «Perché?» fece Stefano, punto sul vivo. «Perché non ti ho inseguito
attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal re del mare avevo avuto soltanto
l’incarico di consegnarti questo.» E lo squalo trasse fuori la lingua, porgendo al vecchio
capitano una piccola sfera fosforescente.
Stefano la prese fra le dita e guardò. Era una perla di grandezza spropositata. E lui
riconobbe la famosa Perla del Mare che dà, a chi la possiede, fortuna, potenza, amore, e
pace dell’animo. Ma era ormai troppo tardi.
«Ahimè!» disse scuotendo tristemente il capo.
«Come è tutto sbagliato. Io sono riuscito a dannare la mia esistenza: e ho rovinato la
tua.»
«Addio, pover’uomo» rispose il colombre. E sprofondò nelle acque nere per sempre.
Due mesi dopo, spinto dalla risacca, un barchino approdò a una dirupata scogliera. Fu
avvistato da alcuni pescatori che, incuriositi, si avvicinarono. Sul barchino, ancora seduto,
stava un bianco scheletro: e fra le ossicine delle dita stringeva un piccolo sasso rotondo.
Il colombre è un pesce di grandi dimensioni, spaventoso a vedersi, estremamente raro.
A seconda dei mari, e delle genti che ne abitano le rive, viene anche chiamato kolomber,
kahloubrha, kalonga, kalu–balu, chalung–gra. I naturalisti stranamente lo ignorano.
Qualcuno perfino sostiene che non esiste.
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CESARE PAVESE (1908–1950)
LA FINE D’AGOSTO In Feria d’agosto, Einaudi 1946 (qui Einaudi 2007)
Una notte di agosto, di quelle agitate da un vento tiepido e tempestoso,
camminavamo sul marciapiede indugiando e scambiando rade parole. Il vento che ci faceva
carezze improvvise, m’impresse su guance e labbra un’ondata odorosa, poi continuò i suoi
mulinelli tra le foglie già secche del viale. Ora, non so se quel tepore sapesse di donna o di
foglie estive, ma il cuore mi traboccò improvvidamente, tanto che mi fermai.
Clara attese, semivoltata, che riprendessi a camminare. Quando alla svolta c’investì
un’altra folata, Clara fece per soffermarsi, senza levare gli occhi, un’altra volta in attesa.
Davanti al portone, mi chiese se volevo far luce o passeggiare ancora. Restai un poco fermo
sul marciapiede – ascoltai il fruscío d’una foglia secca trascinata sull’asfalto – e dissi a Clara
che salisse, l’avrei subito seguita.
Quando, dopo un quarto d’ora, giunsi di sopra, mi sedetti a fumare alla finestra
fiutando il vento, e Clara mi chiese attraverso la porta della stanza se mi ero calmato. Le
dissi che l’aspettavo e, un istante dopo, mi fu accanto nella stanza buia, si appoggiò contro
la mia sedia e godeva il tepore del vento senza parlare. In quell’estate eravamo quasi felici,
non ricordo che avessimo mai litigato e passavamo lunghe ore accanto prima di
addormentarci. Clara capisce tutto, e a quei tempi mi voleva bene; io ne volevo a lei e non
c’era bisogno di dircelo. Eppure so adesso che le nostre disgrazie cominciarono quella
notte.
Se Clara si fosse almeno irritata per la mia agitazione, e non mi avesse atteso con tanta
docilità. Poteva chiedermi che cosa mi fosse preso, poteva tentare lei stessa d’indovinarlo,
tanto più che l’aveva intuito – ma non tacere, come fece, piena di comprensione. Io detesto
la gente sicura di sé, e per la prima volta detestai Clara.
Quel turbine di vento notturno mi aveva, come succede, inaspettatamente riportato
sotto la pelle e le narici una gioia remota, uno di quei nudi ricordi segreti come il nostro
corpo, che gli sono si direbbe connaturati fin dall’infanzia. La spiaggia dove sono nato si
popolava nell’estate di bagnanti e cuoceva sotto il sole. Erano tre, quattro mesi di una vita
sempre inaspettata e diversa, agitata, scabrosa, come un viaggio o un trasloco. Le casette e
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le viuzze formicolavano di ragazzi, di famiglie, di donne seminude al punto che non mi
parevano donne e si chiamavano le bagnanti. I ragazzi invece avevano dei nomi come il mio.
Facevo amicizia e li portavo in barca, o scappavo con loro nelle vigne. I ragazzi delle
bagnanti volevano stare alla marina dal mattino alla sera: faticavo per condurli a giocare
dietro i muriccioli, sui poggi, su per la montagna. Tra la montagna e il paese c’erano molte
ville e giardini, e nei temporali di fine stagione le burrasche s’impregnavano di sentori
vegetali e torridi che sapevano di fiori spiaccicati sui sassi.
Ora, Clara lo sa che le folate notturne mi ricordano quei giorni. E mi ammira – o mi
ammirava – tanto, che sorride e tace quando vede questo ricordo sorprendermi. Se gliene
parlo e faccio parte, quasi mi salta al collo. È per questo che non sa che quella notte mi
accorsi di detestarla.
C’è qualcosa nei miei ricordi d’infanzia che non tollera la tenerezza carnale di una
donna – sia pure Clara. In quelle estati che hanno ormai nel ricordo un colore unico,
sonnecchiano istanti che una sensazione o una parola riaccendono improvvisi, e subito
comincia lo smarrimento della distanza, l’incredulità di ritrovare tanta gioia in un tempo
scomparso e quasi abolito. Un ragazzo – ero io? – si fermava di notte sulla riva del mare –
sotto la musica e le luci irreali dei caffè – e fiutava il vento – non quello marino consueto,
ma un’improvvisa buffata di fiori arsi dal sole, esotici e palpabili. Quel ragazzo potrebbe
esistere senza di me; di fatto, esistette senza di me, e non sapeva che la sua gioia sarebbe
dopo tanti anni riaffiorata, incredibile, in un altro, in un uomo. Ma un uomo suppone una
donna, la donna; un uomo conosce il corpo di una donna, un uomo deve stringere,
carezzare, schiacciare una donna, una di quelle donne che hanno ballato, nere di sole, sotto
i lampioni dei caffè davanti al mare. L’uomo e il ragazzo s’ignorano e si cercano, vivono
insieme e non lo sanno, e ritrovandosi han bisogno di star soli.
Clara, poveretta, mi volle bene quella notte come sempre. Forse me ne volle di più,
perché anche lei ha le sue malizie. Noi giochiamo qualche volta a rialzare fra noi il mistero,
a intuire che ciascuno è per l’altro un estraneo, e così sfuggire alla monotonia. Ma ormai io
non potevo più perdonarle di essere una donna, una che trasforma il sapore remoto del
vento in sapore di carne.
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ELSA MORANTE (1912–1985)
IL MONDO MARTE È CASCATO (su rivista 1939) In Aneddoti infantili, Einaudi 2013
Viaggiando per la città in tranvai, noi tre fratelli vedevamo ricchissimi palazzi e giardini
chiusi da alte cancellate. Decidemmo di impadronircene ed io per prima ne diedi l’esempio.
Un giorno, attirata dalla facciata gialla della Manifattura Tabacchi, gridai:
– La Manifattura Tabacchi è mia!
– E il Palazzo degli Esami è mio! – rispose il mio fratello maggiore.
Allora il mio fratello minore, tremando per l’ansia e affannando in fretta in fretta
aggiunse:
– Il Colosseo è mio.
Il giorno dopo, il fratello maggiore dichiarò che la piazza del Colosseo gli apparteneva,
e questo portò ad una zuffa sanguinosa, perché la piazza comprendeva appunto lo stesso
Colosseo, già da un giorno di proprietà del fratello minore. Grazie alla mia mediazione si
venne ad un accordo, e fu deciso che il mio fratello maggiore avrebbe restituito la piazza del
Colosseo contro la cessione della Piramide di Caio Cestio da parte del mio fratello minore.
Da allora, la nostra dichiarazione di proprietà di ogni palazzo o monumento veniva
seguita frettolosamente da una consimile dichiarazione per le piazze e le strade circostanti.
Siccome varie zuffe ebbero luogo perché spesso accadeva che uno di noi s’impadronisse di
un sito e l’altro minaccioso urlasse: «L’ho già detto io», ci avvezzammo ad elencare
scrupolosamente in un quadernetto le nostre rispettive proprietà, facendo precedere
l’elenco dal disegno di una testa di morto.
Bene. Ma che avvenne quando ci trasferimmo a Tre Ceci, paesello composto di
casacce tutte rotte e di bassi pollai? Non ci degnammo neppure di guardarlo. Ma una sera
che sopra di noi si apriva nel suo pieno respiro la volta stellata, l’orgoglio di un’idea
magnifica mi gonfiò le vene e gridai:
– Il mondo Marte è mio!
– La Luna è mia, – soggiunse subito il mio fratello maggiore.
E il mio fratello minore, pallido per lo sforzo, dichiarò:
– Il Sole è mio.
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Così ci impadronimmo pure dell’Orsa e delle principali stelle e pianeti. Ma qui
comincia il mio trionfo. Perché se i miei fratelli più svelti e robusti, possedevano un maggior
numero di stelle, neppure tutte le loro stelle riunite, dai lunghi nomi cercati sull’Atlante,
valevano il mondo di Marte. Pallidi per l’invidia mi udivano magnificare le qualità del
possedimento: nel mondo Marte le signore portavano in testa, per cappello, bei giardinetti
con piante vere, oppure girandoline che scoppiavano e facevano i fuochi d’artificio; e, al
posto della sciarpa, serpenti a sonagli. Nel mondo Marte i cavalli avevano la criniera fatta di
fuoco vero, e il cavaliere galoppando si accendeva la pipa. E mica c’erano le automobili,
perché la gente aveva un motorino nella pancia, con annesso un fornelletto per cuocere le
uova e tutto. E si poteva puntare un semplice dito della destra, e sparare una pallottola
come con la pistola. I fratelli cercavano di emularmi, dicendo che nella Luna i gatti
comprano il giornale e le guardie dormono dritte in piedi. Ma sì! Ci corre.
Allora i miei fratelli fondarono una società ai miei danni. Con finta indifferenza li
vedevo confabulare e lanciarmi occhiate bieche; finché, acquistato un quaderno di
cinquanta fogli, si accinsero a un’opera misteriosa. Nessuno poteva conoscerla o gettarvi
uno sguardo sia pure distratto; ma dal feroce atteggiamento degli autori, i quali nel
compilarla ora arrotavano i denti, ora spalancando gli occhi mostravano la lingua, ora
gettavano spaventose imprecazioni, oppure in disaccordo circa una variante del testo,
furiosamente, lottavano, si capiva che quel libro doveva contenere terribili segreti.
Un giorno, in assenza dei fratelli, furtivamente frugai nel loro cassetto e avida corsi al
quaderno. Era un’opera in vari capitoli dal titolo: Il mondo Marte è cascato.
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PRIMO LEVI (1919–1987)
TITANIO (su rivista 1948)
In Il sistema periodico, Einaudi, 1975 (qui Einaudi 2005).
In cucina c’era un uomo molto alto, vestito in un modo che Maria non aveva mai visto
prima. Aveva in testa una barchetta fatta con un giornale, fumava la pipa e dipingeva
l’armadio di bianco.
Era incomprensibile come tutto quel bianco potesse stare in una scatoletta così
piccola, e Maria moriva dal desiderio di andare a guardarci dentro. L’uomo ogni tanto
posava la pipa sull’armadio stesso, e fischiava; poi smetteva di fischiare e cominciava a
cantare; ogni tanto faceva due passi indietro e chiudeva un occhio, e andava anche qualche
volta a sputare nella pattumiera e poi si strofinava la bocca col rovescio della mano. Faceva
insomma tante cose così strane e nuove che era interessantissimo starlo a guardare: e
quando l’armadio fu bianco, raccolse la scatola e molti giornali che erano per terra e portò
tutto accanto alla credenza e incominciò a dipingere anche quella.
L’armadio era così lucido, pulito e bianco che era quasi indispensabile toccarlo. Maria
si avvicinò all’armadio, ma l’uomo se ne accorse e disse: – Non toccare. Non devi toccare. –
Maria si arrestò interdetta e chiese: – Perché? – al che l’uomo rispose: – Perché non
bisogna. – Maria ci pensò sopra, poi chiese ancora: – Perché è così bianco? – Anche l’uomo
pensò un poco, come se la domanda gli sembrasse difficile, e poi disse con voce profonda: –
Perché è titanio. –
Maria si sentì percorrere da un delizioso brivido di paura, come quando nelle fiabe
arriva l’orco, guardò con attenzione, e constatò che l’uomo non aveva coltelli, né in mano
né intorno a sé: poteva però averne uno nascosto. Allora domandò: – Mi tagli che cosa? – e
a questo punto avrebbe dovuto rispondere: “Ti taglio la lingua”. Invece disse soltanto: –
Non ti taglio, titanio. –
In conclusione, doveva essere un uomo molto potente: tuttavia non pareva in collera,
anzi piuttosto buono e amichevole, Maria gli chiese: – Signore, come ti chiami? – Lui
rispose: – Mi chiamo Felice – ; non si era tolto la pipa di bocca, e quando parlava la pipa
ballava su e giù eppure non cadeva. Maria stette un po’ di tempo in silenzio, guardando
alternativamente l’uomo e l’armadio. Non era per nulla soddisfatta di quella risposta ed
avrebbe voluto domandare perché si chiamava Felice, ma poi non osò, perché si ricordava
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che i bambini non devono mai chiedere perché. La sua amica Alice si chiamava Alice ed era
una bambina, ed era veramente strano che si potesse chiamare Felice un uomo grande
come quello. Ma a poco a poco incominciò invece a sembrarle naturale che quell’uomo si
chiamasse Felice, e le parve anzi che non avrebbe potuto chiamarsi in nessun altro modo.
L’armadio dipinto era talmente bianco che in confronto tutto il resto della cucina
sembrava giallo e sporco. Maria giudicò che non ci fosse nulla di male nell’andarlo a vedere
da vicino: solo vedere senza toccare. Ma mentre si avvicinava in punta di piedi avvenne un
fatto imprevisto e terribile: l’uomo si voltò, con due passi le fu vicino; trasse di tasca un
gesso bianco, e disegnò sul pavimento un cerchio intorno a Maria.
Poi disse: – Non devi uscire di lì dentro. – Dopo di che strofinò un fiammifero, accese la
pipa facendo colla bocca molte smorfie strane, e si rimise a verniciare la credenza.
Maria sedette sui calcagni e considerò a lungo il cerchio con attenzione: ma dovette
convincersi che non c’era nessuna uscita. Provò a fregarlo in un punto con un dito, e
constatò che realmente la traccia di gesso spariva; ma si rendeva benissimo conto che
l’uomo non avrebbe ritenuto valido quel sistema.
Il cerchio era palesemente magico. Maria sedette per terra zitta e tranquilla; ogni
tanto provava a spingersi fino a toccare il cerchio con la punta dei piedi e si sporgeva in
avanti fino quasi a perdere l’equilibrio, ma vide ben presto che mancava ancora un buon
palmo a che potesse raggiungere l’armadio o la parete con le dita. Allora stette a
contemplare come a poco a poco anche la credenza, le sedie e il tavolo diventavano belli e
bianchi.
Dopo moltissimo tempo l’uomo ripose il pennello e lo scatolino e si tolse la barchetta
di giornale dal capo, ed allora si vide che aveva i capelli come tutti gli altri uomini. Poi uscì
dalla parte del balcone, e Maria lo udì tramestare e camminare su e giù nella stanza
accanto. Maria cominciò a chiamare: – Signore! – dapprima sottovoce, poi più forte, ma
non troppo, perché in fondo aveva paura che l’uomo sentisse.
Finalmente l’uomo ritornò in cucina. Maria chiese: – Signore, adesso posso uscire? –
– L’uomo guardò in giù a Maria e al cerchio, rise forte e disse molte cose che non si
capivano, ma non pareva che fosse arrabbiato. Infine disse: – Sì, si capisce, adesso puoi
uscire –. Maria lo guardava perplessa e non si muoveva: allora l’uomo prese uno straccio e
cancellò il cerchio ben bene, per disfare l’incantesimo. Quando il cerchio fu sparito Maria si
alzò e se ne andò saltellando, e si sentiva molto contenta e soddisfatta.
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PRIMO LEVI (1919–1987)
LA GRANDE MUTAZIONE (su quotidiano 1983)
In L’ultimo Natale di guerra, Einaudi 2000 (qui Einaudi 2005)
Da parecchi giorni Isabella era inquieta: mangiava poco, aveva qualche linea di febbre,
e si lamentava di un prurito alla schiena. I suoi dovevano mandare avanti la bottega e non
avevano molto tempo da dedicare a lei: – Si starà sviluppando, – disse la madre; la tenne a
dieta e le fece frizioni con una pomata, ma il prurito aumentò. La bambina non riuscì più a
dormire; applicandole la pomata, la madre si accorse che la pelle era ruvida: si stava
coprendo di peli, fitti, rigidi, corti e biancastri. Allora si spaventò, si consultò col padre,
mandarono a chiamare il medico.
Il medico la visitò. Era giovane e simpatico, e Isabella notò con stupore che all’inizio
della visita appariva preoccupato e perplesso, poi sempre più attento e interessato, e alla
fine sembrava contento come se avesse vinto un premio alla lotteria. Annunciò che non era
niente di grave, ma che doveva rivedere certi suoi libri e che sarebbe tornato l’indomani.
L’indomani tornò, aveva una lente, e fece vedere al padre e alla madre che quei peli
erano ramificati e piatti: non erano peli, anzi, ma penne che stavano crescendo. Era ancora
più allegro del giorno avanti.
– In gamba, Isabella, – disse, – non c’è niente da spaventarsi, tra quattro mesi volerai –
. Poi, rivolto ai genitori, aggiunse una spiegazione abbastanza confusa: possibile che loro
non sapessero nulla? Non leggevano i giornali? Non vedevano la televisione? – È un caso di
Grande Mutazione, il primo in Italia, e proprio qui da noi, in questa valle dimenticata! – Le
ali si sarebbero formate a poco a poco, senza danni per l’organismo, e poi altri casi ci
sarebbero stati nel vicinato, forse tra i compagni di scuola della bambina, perché la
faccenda era contagiosa.
– Ma se è contagiosa è una malattia! – disse il padre.
– È contagiosa, pare che sia un virus, ma non è una malattia: Perché tutte le infezioni
virali devono essere nocive? Volare è una bellissima cosa, piacerebbe anche a me: se non
altro, per visitare i clienti delle frazioni. È il primo caso in Italia, ve l’ho detto, e dovrò fare
rapporto al medico provinciale, ma il fenomeno è già stato descritto, diversi focolai sono
stati osservati in Canada, in Svezia e in Giappone. Ma pensate che fortuna, per voi e per
me!
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Che proprio fosse una fortuna, Isabella non era tanto convinta. Le penne crescevano
rapidamente, le davano noia quando era a letto e si vedevano attraverso la camicetta.
Verso marzo la nuova ossatura era già ben visibile, e alla fine di maggio il distacco delle ali
dal dorso era quasi completo.
Vennero fotografi, giornalisti, commissioni mediche italiane e forestiere: Isabella si
divertiva e si sentiva importante, ma rispondeva alle domande con serietà e dignità, e del
resto le domande erano stupide e sempre le stesse. Non osava parlare con i genitori per
non spaventarli, ma era in allarme: va bene, avrebbe avuto le ali, ma chi le avrebbe
insegnato a volare? Alla scuola guida del capoluogo? O all’aeroporto di Poggio Merli? A lei
sarebbe piaciuto imparare dal dottorino della mutua: o che magari le ali fossero spuntate
anche a lui, non aveva detto che erano contagiose? Così dai clienti delle frazioni ci
sarebbero andati insieme; e forse avrebbero anche superato le montagne insieme sul mare,
fianco a fianco, battendo le ali con la stessa cadenza.
A giugno, alla fine dell’anno scolastico, le ali di Isabella erano ben formate e molto
belle da vedere. Erano intonate con il colore dei capelli ( Isabella era bionda): in alto, verso
le spalle, macchiettate di bruno dorato, ma le remiganti erano candide, lucide, robuste.
Venne una commissione del CNR, venne un sussidio considerevole dell’UNICEF, e venne
anche dalla Svezia una fisioterapista; si era sistemata nell’unica locanda del paese, capiva
male l’italiano, niente le andava bene, e faceva fare a Isabella una serie di esercizi
noiosissimi.
Noiosi e inutili: Isabella sentiva i muscoli fremere e tendersi, seguiva il volo sicuro delle
rondini nel cielo estivo, non aveva più dubbi e provava la sensazione precisa che a volare
avrebbe imparato da sé, anzi, di saper già volare: di notte ormai non sognava altro. La
svedese era severa, le aveva fatto capire che doveva ancora attendere, che non doveva
esporsi a pericoli, ma Isabella aspettava solo che le si presentasse l’occasione. Quando
riusciva a isolarsi, nei prati in pendio, o qualche volta persino nel chiuso della sua camera,
aveva provato a battere le ali; ne sentiva il fruscio aspro nell’aria, e nelle spalle minute di
adolescente una forza che quasi la spaventava. La gravezza del suo corpo le era venuta in
odio; sventolando le ali la sentiva ridursi, quasi annullarsi: quasi. Il richiamo della terra era
ancora troppo forte, una cavezza, una catena.
L’occasione venne verso Ferragosto. La svedese era tornata in ferie al suo paese, e i
genitori di Isabella erano in bottega, indaffarati con i villeggianti. Isabella prese la
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mulattiera per Costalunga, superò il crinale e si trovò sui prati ripidi dell’altro versante: non
c’era nessuno. Si fece il segno della croce, come quando ci si butta in acqua, aprì le ali e
prese la corsa verso il basso. A ogni passo, l’urto contro il suolo si faceva più lieve, finché la
terra le mancò; sentì una gran pace, e l’aria fischiarle alle orecchie. Distese le gambe
all’indietro: rimpianse di non aver messo i jeans, la gonna sbandierava nel vento e le dava
impaccio.
Anche le gambe e le mani la impacciavano, provò a incrociarle sul petto, poi le tenne
distese lungo i fianchi. Chi aveva detto che volare era difficile? Non c’era nulla di più facile
al mondo, aveva voglia di ridere e cantare. Se aumentava l’inclinazione delle ali, il volo
rallentava e puntava verso l’alto, ma solo per poco, poi la velocità si riduceva troppo e
Isabella si sentiva in pericolo. Provò a sbattere le ali, e si sentì sostentata, a ogni colpo
guadagnava quota, agevolmente, senza sforzo.
Anche mutar direzione era facile come un gioco, si imparava subito, bastava torcere
leggermente l’ala destra e subito voltavi a destra: non c’era neppure bisogno di pensarci, ci
pensavano le ali stesse, come pensano i piedi a farti deviare a destra o a sinistra quando
cammini. A un tratto provò una sensazione di gonfiore, di tensione al basso ventre; si sentì
umida, toccò, e ritrasse la mano sporca di sangue. Ma sapeva di che cosa si trattava, sapeva
che un giorno o l’altro sarebbe successo, e non si spaventò.
Rimase in aria per un’ora buona, e imparò che dai roccioni del Gavio saliva una
corrente d’aria calda che le faceva acquistare quota gratis. Seguì la provinciale e si portò a
picco sopra il paese, alta forse duecento metri: vide un passante fermarsi, poi indicare il
cielo a un altro passante; il secondo guardò in su poi scappò alla bottega, ne uscirono sua
madre e suo padre con tre o quattro clienti. In breve le vie brulicarono di gente. Le sarebbe
piaciuto atterrare sulla piazza, ma appunto, la gente era troppa, e aveva paura di prendere
terra malamente e di farsi ridere dietro.
Si lasciò trasportare dal vento al di là del torrente, sui prati dietro il mulino. Scese,
scese ancora finché poté distinguere i fiori rosa del trifoglio. Anche per atterrare, sembrava
che le ali la sapessero più lunga di lei: le sembrò naturale disporle verticalmente, e
mulinarle con violenza come per volare all’indietro; abbassò le gambe e si trovò in piedi
sull’erba, appena un poco trafelata. Ripiegò le ali e si avviò verso casa.
In autunno spuntarono le ali a quattro compagni di scuola di Isabella, tre ragazzi e una
bambina; alla domenica mattina era divertente vederli rincorrersi a mezz’aria intorno al
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campanile. A dicembre ebbe le ali il figlio del portalettere, e subentrò immediatamente al
padre con vantaggio di tutti. Il dottore mise le ali l’anno dopo, ma non si curò di Isabella e
sposò in gran fretta una signorina senz’ali che veniva dalla città.
Al padre di Isabella le ali spuntarono quando aveva già passato i cinquant’anni. Non ne
trasse molto profitto: prese qualche lezione dalla figlia, con paura e vertigine, e si lussò una
caviglia atterrando. Le ali non lo lasciavano dormire, riempivano il letto di penne e di piume,
e gli riusciva fastidioso infilarsi la camicia, la giacca e il soprabito. Gli davano ingombro
anche quando stava dietro il bancone della bottega, così se le fece amputare.
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BEPPE FENOGLIO (1922–1963)
LA SPOSA BAMBINA (1953)
In Un giorno di fuoco, Garzanti 1963 (qui Einaudi 1988)
Catinina del Freddo era di quella razza che da noi si marchia col nome di mezzi
zingari perché mezza la loro vita la passano sotto l’ala del mercato.
Proprio sotto l’ala si trovava, a tredici anni giusti, a giocare coi maschi a tocco e
spanna, quando sua madre le fece una chiamata straordinaria.
Lasciami solo più giocare queste due bilie! – le gridò Catinina, ma sua madre fece la
mossa di avventarsi e Catinina andò, con ben più di due bilie nella tasca del grembiale.
A casa c’era suo padre e sua sorella maggiore, tra i quali vennero a mettersi lei e sua
madre, e così tutt’insieme fronteggiavano un vecchio che Catinina conosceva solo di
vista, con baffi che gli coprivano la bocca e nei panni un cattivo odore un po’ come
quello dell’acciugaio. I suoi di Catinina stavano come sospesi davanti al vecchio, e
Catinina cominciò a dubitare che fosse venuto per farsi rendere ad ogni costo del denaro
imprestato e i suoi l’avessero chiamata perché il vecchio la vedesse e li compatisse.
Invece il vecchio era venuto per chiedere la mano di Catinina per il suo nipote che
aveva diciotto anni e già un commercio suo proprio.
Sua madre si piegò e disse a Catinina: – Neh che sei contenta di sposare il nipote di
questo signore?
Catinina scrollò le spalle e torse la testa. Sua madre la rimise in posizione: – Neh che
sei contenta, Catinina? Ti faremo una bella veste nuova, se lo sposi.
Allora Catinina disse subito che lo sposava e vide il vecchio calar pesantemente le
palpebre sugli occhi. – Però la veste me la fate rossa, – aggiunse Catinina.
– Ma rossa non può andare in chiesa e per sposalizio. Perché ti faremo una gran
festa in chiesa. Avrai una veste bianca, oppure celeste.
A Catinina la gran festa in chiesa diceva poco o niente, quella veste non rossa già le
cambiava l’idea, per lo scoramento si lasciò piombare una mano in tasca e fece suonare
le bilie.
Allora la sorella maggiore disse che le avrebbero portato tanti confetti; a sentir
questo Catinina passò sopra alla veste non rossa e disse di sì su tutto. Anche se quei
confetti non finivano in bocca a lei.
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Si sposarono alla vicaria di Murazzano, neanche un mese dopo. Lo sposo dava alla
vista meno anni dei suoi diciotto dichiarati, aveva una corona di pustole sulla fronte, più
schiena che petto, e certi occhi grigi duretti.
Fecero al Leon d’Oro il pranzo di nozze, pagato dal vecchio e dopo vespro partirono.
C’era tutto il paese a salutar Catinina, e perfino i signori ai loro davanzali.
Lo sposo, che era padrone di mula e carretto, aveva giusto da andare fino a Savona
a caricar stracci, che era il suo commercio, e ne approfittava per fare il viaggio di nozze
con Catinina.
Alla sposa venne da piangere quando, salita sul carretto, dominò di lassù tutta
quella gente che rideva, ma le levò quel groppo un cartoccio di mentini che le offrì una
donna anche lei della razza dei mezzi zingari.
Alla fine partirono, ma ancora a San Bernardo avevano il tormento di quei
bastardini che fino a ieri giocavano alle bilie con la sposa. Quantunque lo sposo non
tardasse a girare la frusta.
Viaggiavano sulla pedaggera e ne avevano già ben macinata di ghiaia, e Catinina
non aveva ancora aperto la bocca se non per infilarci quei mentini uno dopo succhiato
l’altro, e lo sposo le sue quattro parole le aveva dette alla mula.
Ma passato Montezemolo lo sposo si voltò e le disse: – Voi adesso la smettete di
mangiare quei gommini verdi –, e Catinina smise, ma principalmente per lo stupore che
lo sposo le aveva dato del voi.
Veniva su la luna, e dopo un po’ fu un mostro di vicinanza, di rotondità e giallore,
navigava nel cielo caldo a filo del greppo della langa, come li volesse accompagnare fino
in Liguria.
Catinina toccò il suo sposo e gli disse: – Guarda solo un momento che luna.
Ma quello le si rivoltò e quasi le urlò: – Voi avete a darmi del voi, come io lo do a
voi!
Catinina non rifiatò, molto più avanti disse semplicemente che il listello di legno
l’aveva tutta indolorita dietro, dopo ore che ci stava seduta. E allora lui parlò con una
voce buona, le disse che al ritorno sarebbe stata più comoda, lui l’avrebbe aggiustata
sugli stracci.
Arrivarono a Savona verso mezzogiorno.
Lo sposo disse: – Quello lì davanti è il mare, – che Catinina già ci aveva affogati gli
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occhi.
Che bestione, – diceva Catinina del mare, – che bestione!
Tutte le volte che pascolava le pecore degli altri in qualche prato sotto la strada del
mare e sentiva d’un tratto sonagliere, si arrampicava sempre sull’orlo della strada e da lì
guardava venire, passare e lontanarsi i carrettieri e le loro bestie in cammino verso il
mare con grandi carichi di vino e di farine. Qualche volta li vedeva anche al ritorno, coi
carri adesso pieni di vetri di Carcare e di Altare e di stoviglie d’Albisola, e si appostava
per fissare i carrettieri negli occhi, se ritenevano l’immagine del mare.
Ora se lo stava godendo da due passi il mare, ma lo sposo le calò una mano sulla
spalla e si fece accompagnare a stallare la bestia. Ma poi le fece vedere un po’ di porto e
poi prendere un caffellatte con le paste di meliga. Dopodiché andarono a trovare un
parente di lui.
Questo parente stava dalla parte di Savona verso il monte e a Catinina rincresceva il
sangue del cuore distanziarsi dal mare fino a non avercene nemmeno più una goccia
sotto gli occhi.
Ce ne volle, ma alla fine trovarono quel parente. Era un uomo vecchiotto ma ancora
galante, e quando si vide alla porta i due ragazzi sposati fece subito venire vino bianco e
paste alla crema ed anche dei vicini, ridicoli come lui.
Mangiarono, bevettero e cantarono. Catinina in quel buonumore prese a snodarsi e
a rider di gola e ad ammiccare come una donna fatta, e teneva bene testa al parente
galante ed ai suoi soci; lo sposo le era uscito di mente ed anche dagli occhi, non lo
vedeva, seduto immobile, che pativa a bocca stretta e col bicchiere sempre pieno
posato in terra fra i due piedi.
Quando si ritirarono per la notte in una stanza trovata dal parente, allora riempì di
schiaffi la faccia a Catinina. E nient’altro, tanto Catinina non era ancora sviluppata.
Al mattino Catinina aveva per tutto il viso delle macchie gialle con un’ombra di
nero, lo sposo venne a sfiorargliele con le dita e poi scoppiò a piangere. Proprio niente
disse o fece Catinina per sollevarlo, gli disse solo che voleva tornare a Murazzano. E sì
che si sarebbe fermata un altro giorno tanto volentieri per via di quel parente così
ridicolo, ma ora sapeva cosa le costava il buonumore, e poi il mare le diceva molto
meno.
Lo sposo caricò in fretta i suoi stracci, la fece sedere sul molle e tornarono.
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La mattina dopo, il panettiere di Murazzano, che si levava sempre il primo di tutto il
paese, uscito in strada a veder com’era il cielo di quel nuovo giorno, trovò Catinina
seduta sul selciato e con le spalle contro il muro tiepido del suo forno.
Ma sei Catinina? Sei proprio Catinina. E cosa fai lì, a quest’ora della mattina?
Lei gli scrollò le spalle.
Cosa fai lì, Catinina? E non scrollarmi le spalle. Perché non sei col tuo uomo? – Me
no di sicuro!
– Perché te no?
Allora Catinina alzò la voce. – Io non ci voglio più stare con quello là che mi dà del
voi!
– Ma come non ci vuoi più stare? Invece devi stargli insieme, e per sempre. È
la legge.
– Che legge?
– O Madonna bella e buona, la legge del matrimonio!
Catinina scrollò un’altra volta le spalle, ma capiva anche lei che scrollar le spalle non
bastava più, e allora disse: – Io non ci voglio più stare con quello là che mi dà sempre del
voi. E poi che casa mi ha preparata che io c’entrassi da sposa? Una casa senza lume a
petrolio e senza il poggiolo!
L’uomo sospirò, la fece entrare nel suo forno, disse piano al suo garzone: – Attento
che non scappi, ma non beneficiartene altrimenti il mestiere vai a impararlo da un’altra
parte, – e uscì. Quando tornò, c’era con lui l’uomo di Catilina. Col panettiere testimone,
le promise il lume a petrolio per subito e di farle il poggiolo, tempo sei mesi.
Catinina il lume a petrolio l’ebbe subito, e poi anche il poggiolo, ma dopo un anno
buono, che lei aveva già un bambino sulle braccia. Perché Catinina non era la donna che
per aver la grazie dei figli deve andarsi a sedere sulla santa pietra alla Madonna del
Deserto e pregare tanto. Questo primo figlio, dei nove che ne comprò nella sua stagione,
l’addormentava alla meglio in una cesta e poi subito correva sotto l’ala a giocare a tocco
e spanna con quei maschi di prima. Dopo un po’ il bambino si svegliava e strillava da farsi
saltare tutte le vene, finché una vicina si faceva sull’uscio e urlava a Catinina:
– O disgraziata, non senti la tua creatura che piange? Vieni a cunarlo, o mezza
zingara!
Lasciatemi solo più giocare questa bilia!
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ITALO CALVINO (1923–1985)
IL GIARDINO INCANTATO In Ultimo viene il corvo, Einaudi 1949, poi in Racconti, Einaudi 1958 (qui Mondadori 1991)
Giovannino e Serenella camminavano per la strada ferrata. Giù c’era un mare
tutto squame azzurro cupo azzurro chiaro; su, un cielo appena venato di nuvole
bianche. I binari erano lucenti e caldi che scottavano. Sulla strada ferrata si camminava
bene e si potevano fare tanti giochi: stare in equilibrio lui su un binario e lei sull’altro e
andare avanti tenendosi per mano, oppure saltare da una traversina all’altra senza
posare mai il piede sulle pietre. Giovannino e Serenella erano stati a caccia di granchi e
adesso avevano deciso di esplorare la strada ferrata fin dentro la galleria. Giocare con
Serenella era bello perché non faceva come tutte le altre bambine che hanno sempre
paura e si mettono a piangere a ogni dispetto: quando Giovannino diceva: – Andiamo
là, Serenella lo seguiva sempre senza discutere. Deng! Sussultarono e guardarono in
alto. Era il disco di uno scambio ch’era scattato in cima a un palo.
Sembrava una cicogna di ferro che avesse chiuso tutt’a un tratto il becco.
Rimasero un po’ a naso in su a guardare: che peccato non aver visto! Ormai non lo
faceva più.
Sta per venire un treno, disse Giovannino.
Serenella non si mosse dal binario. Da dove? chiese. Giovannino si guardò
intorno, con aria d’intendersene. Indicò il buco nero della galleria che appariva ora
limpido ora sfocato, attraverso il tremito del vapore invisibile che si levava dalle pietre
della strada.
Di lì, disse. Sembrava già di sentirne lo sbuffo incupito dalla galleria e
vederselo tutt’a un tratto addosso, scalpitante fumo e fuoco, con le ruote che
mangiavano i binari senza pietà.
Dove andiamo, Giovannino?
C’erano grandi agavi grige, verso mare, con raggere di aculei impenetrabili. Verso
monte correva una siepe di ipomea, stracarica di foglie e senza fiori. Il treno non si
sentiva ancora: forse correva a locomotiva spenta senza rumore e sarebbe balzato su di
loro tutt’a un tratto. Ma già Giovannino aveva trovato un pertugio nella siepe. Di là.
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67
La siepe sotto il rampicante era una vecchia rete metallica cadente. In un punto,
s’accartocciava su da terra come un angolo di pagina. Giovannino era già sparito per
metà e sgusciava dentro.
Dammi una mano, Giovannino!
Si ritrovarono in un angolo di giardino, tutt’e due carponi in un’aiola, coi capelli
pieni di foglie secche e di terriccio. Tutto era zitto intorno; non muoveva una foglia.
Andiamo, disse Giovannino e Serenella disse: Sì.
C’erano grandi e antichi eucalipti color carne, e vialetti di ghiaia. Giovannino e
Serenella camminavano in punta di piedi pei vialetti, attenti al fruscio della ghiaia sotto
i passi. E se adesso arrivassero i padroni? Tutto era così bello: volte strette e altissime
di foglie ricurve d’eucalipto e ritagli di cielo; restava solo quell’ansia dentro, del
giardino che non era loro e da cui forse dovevano esser cacciati tra un momento. Ma
nessun rumore si sentiva. Da un cespo di corbezzolo, a una svolta, s’alzò un volo di
passeri, con gridi. Poi ritornò silenzio. Era forse un giardino abbandonato?
Ma l’ombra dei grandi alberi a un certo punto finiva e si trovarono sotto il cielo
aperto, di fronte ad aiole tutte ben ravviate di petunie e convolvoli, e viali e balaustrate
e spalliere di bosso. E sull’alto del giardino, una grande villa coi vetri lampeggianti e
tende gialle e arancio. E tutto era deserto. I due bambini venivano su guardinghi
calpestando ghiaia: forse le vetrate stavano per spalancarsi tutt’a un tratto e signori e
signore severissimi per apparire sui terrazzi e grossi cani per essere sguinzagliati per i
viali. Trovarono vicino a una cunetta una carriola. Giovannino la prese per le staffe e la
spinse innanzi: aveva un cigolo, a ogni giro di ruota, come un fischio. Serenella ci si
sedette sopra e avanzavano zitti, Giovannino spingendo la carriola con lei sopra,
fiancheggiando le aiole e i giochi d’acqua.
Quello, diceva Serenella a bassa voce di tanto in tanto, indicando un fiore.
Giovannino poggiava e andava a strapparlo e glielo dava. Ne aveva già dei belli in un
mazzetto. Ma scavalcando le siepi per scappare, forse li avrebbe dovuti buttar via! Così
arrivarono a uno spiazzo e finiva la ghiaia e c’era un fondo di cemento e mattonelle. E
in mezzo a questo spiazzo s’apriva un grande rettangolo vuoto: una piscina. Ne
raggiunsero i margini: era a piastrelle azzurre, ricolma d’acqua chiara fino all’orlo.
Ci tuffiamo? chiese Giovannino a Serenella. Certo doveva essere assai
pericoloso se lui chiedeva a lei e non diceva soltanto: Giù! Ma l’acqua era cosi
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limpida e azzurra e Serenella non aveva mai paura. Scese dalla carriola e vi depose il
mazzolino. Erano già in costume da bagno: erano stati a cacciar granchi fino allora.
Giovannino si tuffò: non dal trampolino perché il tonfo avrebbe fatto troppo rumore,
ma dall’orlo.
Andò giù giù a occhi aperti e non vedeva che azzurro, e le mani come pesci rosa;
non come sotto l’acqua del mare, piena d’ombre informi verdi‐nere. Un’ombra rosa
sopra di sé: Serenella! Si presero per mano e riaffiorarono all’altro capo, un po’ con
apprensione. No, non c’era proprio nessuno ad osservarli. Non era bello come
s’immaginavano: rimaneva sempre quel fondo d’amarezza e d’ansia, che tutto questo
non spettava loro e potevano esserne di momento in momento, via, scacciati.
Uscirono dall’acqua e proprio lì vicino alla piscina trovarono un tavolino col ping‐
pong. Giovannino diede subito un colpo di racchetta alla palla: Serenella fu svelta
dall’altra parte a rimandargliela. Giocavano cosi, dando bòtte leggere perché da dentro
alla villa non sentissero. A un tratto un tiro rimbalzò alto e Giovannino per pararlo fece
volare la palla via lontano; batté sopra un gong sospeso tra i sostegni d’una pergola,
che vibrò cupo e a lungo. I due bambini si rannicchiarono dietro un’aiola di ranuncoli.
Subito arrivarono due servitori in giacca bianca, reggendo grandi vassoi, posarono i
vassoi su un tavolo rotondo sotto un ombrellone a righe gialle e arancio e se ne
andarono.
Giovannino e Serenella s’avvicinarono al tavolo. C’era tè, latte e pan‐di‐spagna.
Non restava che sedersi e servirsi. Riempirono due tazze e tagliarono due fette. Ma non
riuscivano a stare ben seduti, si tenevano sull’orlo delle sedie, muovendo le ginocchia.
E non riuscivano a sentire il sapore dei dolci e del tè e latte.
Ogni cosa in quel giardino era così: bella e impossibile a gustarsi, con quel disagio
dentro e quella paura, che fosse solo per una distrazione del destino, e che presto
sarebbero chiamati a darne conto. Quatti quatti, si avvicinarono alla villa. Di tra le
stecche d’una persiana a griglia videro, dentro, una bella stanza ombrosa con collezioni
di farfalle alle pareti. E in questa stanza c’era un pallido ragazzo. Doveva essere il
padrone della villa e del giardino, lui fortunato. Era seduto su una sedia a sdraio e
sfogliava un grosso libro con figure. Aveva mani sottili e bianche e un pigiama accollato
benché fosse estate.
Ora, ai due bambini, spiandolo tra le stecche, si spegneva a poco a poco il
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69
batticuore. Infatti quel ragazzo ricco sembrava sedesse e sfogliasse quelle pagine e si
guardasse intorno con più ansia e disagio di loro. E s’alzasse in punta di piedi come se
temesse che qualcuno, di momento in momento, potesse venire a scacciarlo, come se
sentisse che quel libro, quella sedia a sdraio, quelle farfalle incorniciate ai muri e il
giardino coi giochi e le merende e le piscine e i viali, erano concessi a lui solo per un
enorme sbaglio, e lui fosse impossibilitato a goderne, ma solo provasse su di sé
l’amarezza di quello sbaglio, come una sua colpa.
Il ragazzo pallido girava per la sua ombrosa stanza con passi furtivi, accarezzava i
margini delle vetrine costellate di farfalle con le bianche dita, e si fermava in ascolto. A
Giovannino e Serenella il batticuore spento riprendeva ora più fitto. Era la paura di un
incantesimo che gravasse su quella villa e quel giardino, su tutte quelle cose belle e
comode, come un’antica ingiustizia commessa.
Il sole s’oscurò di nuvole. Zitti zitti Giovannino e Serenella se ne andarono.
Rifecero la strada pei vialetti, di passo svelto, ma senza mai correre. E traversarono
carponi quella siepe. Tra le agavi trovarono un sentiero che portava alla spiaggia, breve
e sassosa, con cumuli d’alghe che seguivano la riva del mare. Allora inventarono un
gioco bellissimo: battaglia con le alghe. Se ne tirarono manciate in faccia uno con l’altra
fino a sera. C’era di buono che Serenella non piangeva mai.
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ITALO CALVINO (1923–1985)
LUNA E GNAC (su «L’Unità » 1953) In Marcovaldo ovvero le stagioni in città, Einaudi 1963 (qui Mondadori 1991)
La notte durava venti secondi, e venti secondi il GNAC. Per venti secondi si vedeva il
cielo azzurro variegato di nuvole nere, la falce della luna crescente dorata, sottolineata da
un impalpabile alone, e poi stelle che più si guardavano più infittivano la loro pungente
piccolezza, fino allo spolverio della Via Lattea, tutto questo visto in fretta in fretta, ogni
particolare su cui ci si fermava era qualcosa dell’insieme che si perdeva, perché i venti
secondi finivano subito e cominciava il GNAC.
Il GNAC era una parte della scritta pubblicitaria SPAAK–COGNAC sul tetto di fronte,
che stava venti secondi accesa e venti spenta, e quando era accesa non si vedeva
nient’altro. La luna improvvisamente sbiadiva, il cielo diventava uniformemente nero e
piatto, le stelle perdevano il brillio, e i gatti e le gatte che da dieci secondi lanciavano
gnaulii d’amore muovendosi languidi uno incontro all’altro lungo le grondaie e le cimase,
ora, col GNAC, s’acquattavano sulle tegole a pelo ritto, nella fosforescente luce al neon.
Affacciata alla mansarda in cui abitava, la famiglia di Marcovaldo era attraversata da
opposte correnti di pensieri. C’era la notte e Isolina coi suoi diciott’anni si sentiva
trasportata per il chiar di luna, il cuore le si struggeva, e fino il più smorzato gracchiar di
radio dai piani inferiori dello stabile le arrivava come i rintocchi d’una serenata; c’era
il Gnac e quella radio pareva pigliare un altro ritmo, un ritmo jazz, e Isolina si stirava nella
vestina stretta e pensava ai dancing tutti luci e lei poverina lassù sola.
Daniele e Michelino, otto e sei anni, sgranavano gli occhi nella notte e si lasciavano
invadere da una calda e soffice paura d’esser circondati da foreste piene di briganti; poi,
il Gnac! e scattavano coi pollici dritti e gli indici tesi, l’uno contro l’altro: – Alto le mani!
Sono Superman! – Domitilla, la madre, a ogni spegnersi della notte pensava: «Ora questi
ragazzi bisogna ritirarli, quest’aria può far male. E Teresina affacciata a quest’ora è una cosa
che non va!» Ma poi tutto era di nuovo luminoso, elettrico, fuori come dentro, e Domitilla
si sentiva in visita in una casa di riguardo.
Fiordaligi, invece, ragazzo quindicenne precocemente sviluppato, vedeva ogni volta
che si spengeva il GNAC apparire dentro la voluta del «g» la finestrina appena illuminata
d’un abbaino, e dietro il vetro un viso di ragazza color di luna, color di neon, color di luce
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71
nella notte, una bocca ancor quasi da bambina che appena lui le sorrideva si schiudeva
impercettibilmente e già pareva aprirsi in un sorriso, quando tutt’un tratto dal buio
risaettava quello spietato «g» del GNAC e il viso perdeva i contorni, si trasformava in una
fioca ombra chiara, e della bocca bambina non si sapeva più se aveva risposto al suo
sorriso.
In mezzo a questa tempesta di passioni, Marcovaldo cercava di insegnare ai figlioli la
posizione dei corpi celesti.
– Quello è il Gran Carro, uno due tre quattro e lì il timone, quello è il Piccolo Carro, e la
Stella Polare segna il Nord.
– E quell’altra, cosa segna?
– Quella segna «ci». Ma non c’entra con le stelle. È l’ultima lettera della parola cognac.
Le stelle invece segnano i punti cardinali. Nord Sud Est Ovest. La luna ha la gobba a ovest.
Gobba a ponente, luna crescente. Gobba a levante, luna calante.
– Papà, allora il cognac è calante? La ci ha la gobba a levante!
– Non c’entra, crescente o calante: è una scritta messa lì dalla ditta Spaak.
– E la luna che ditta l’ha messa?
– La luna non l’ha messa una ditta. È un satellite, c’è sempre.
– Se c’è sempre, perché cambia di gobba?
– Sono i quarti. Se ne vede solo un pezzo.
– Anche di COGNAC se ne vede solo un pezzo.
– Perché c’è il tetto del palazzo Pierbernardi che è più alto.
– Più alto della luna?
E così, ad ogni accendersi del GNAC, gli astri di Marcovaldo andavano a confondersi coi
commerci terrestri, ed Isolina trasformava un sospiro nell’ansimare d’un mambo
canticchiato, e la ragazza dell’abbaino scompariva in quell’anello abbagliante e freddo,
nascondendo la sua risposta al bacio che Fiordaligi aveva finalmente avuto il coraggio di
mandarle sulla punta delle dita, e Daniele e Michelino coi pugni davanti al viso giocavano al
mitragliamento aereo, – Ta–ta–ta–tà… – contro la scritta luminosa che dopo venti secondi
si spegneva.
– Ta–ta–ta–tà…Hai visto, papà, che l’ho spenta con una sola raffica? – disse Daniele,
ma già, fuori della luce al neon, il suo fanatismo guerriero era svanito e gli occhi gli si
riempivano di sonno. – Magari! – scappò detto al padre, – andasse in pezzi! Vi farei vedere
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il Leone, i Gemelli…
– Il Leone! – Michelino fu preso d’entusiasmo. – Aspetta! – Gli era venuta un’idea.
Prese la fionda, la caricò del ghiaino di cui sempre aveva in tasca una riserva, e tirò una
sventagliata di sassolini con tutte le forze contro il GNAC.
Si sentì la gragnuola cadere sparpagliata sulle tegole del tetto di fronte, sulle lamiere
della gronda, il tintinnio dei vetri d’una finestra colpita, il gong d’un sassolino picchiato giù
sulla scodella d’un fanale, una voce in strada: – Piovono pietre! Ehi lassù! Mascalzone! – Ma
la scritta luminosa proprio sul momento del tiro s’era spenta per la fine dei suoi venti
secondi.
E tutti nella mansarda presero mentalmente a contare: uno due tre, dieci undici, fino a
venti. Contarono diciannove, tirarono il respiro, contarono venti, contarono ventuno
ventidue nel timore d’aver contato troppo in fretta, ma no, il GNAC non si riaccendeva,
restava un nero ghirigoro male decifrabile intrecciato al suo castello di sostegno come la
vite alla pergola. – Aaah! – gridarono tutti e la cappa del cielo s’alzò infinitamente stellata
su di loro.
Marcovaldo, interrotto a mano alzata nello scapaccione che voleva dare a Michelino, si
sentì come proiettato nello spazio. Il buio che ora regnava all’altezza dei tetti faceva come
una barriera oscura che escludeva laggiù il mondo dove continuavano a vorticare geroglifici
gialli e verdi e rossi, e ammiccanti occhi di semafori, il luminoso navigare dei tram vuoti, e le
auto invisibili che spingono davanti a sé il cono di luce di fanali. Da questo mondo non saliva
lassù che una diffusa fosforescenza, vaga come un fumo.
E ad alzare lo sguardo non più abbarbagliato, s’apriva la prospettiva degli spazi, le
costellazioni si dilatavano in profondità, il firmamento ruotava per ogni dove, sfera che
contiene tutto e non la contiene nessun limite, e solo uno sfittire della sua trama, come
una breccia, si apriva verso Venere, per farla risaltare sola sopra la cornice della terra, con
la sua ferma trafittura di luce esplosa e concentrata in un punto.
Sospesa in questo cielo, la luna nuova anziché ostentare l’astratta apparenza di
mezzaluna rivelava la sua natura di sfera opaca illuminata intorno dagli sbiechi raggi d’un
sole perduto dalla terra, ma che pur conservava – come può vedersi solo in certe notti di
primavera – il suo caldo calore.
E Marcovaldo, a guardare quella stretta riva di luna tagliata là tra ombra e luce,
provava una nostalgia come di raggiungere una spiaggia rimasta miracolosamente
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soleggiata nella notte.
Così restavano affacciati alla mansarda, i bambini spaventati dalle smisurate
conseguenze del loro gesto, Isolina rapita come in estasi, Fiordaligi che unico tra tutti
scorgeva il fioco abbaino illuminato e finalmente il sorriso lunare della ragazza. La mamma
si riscosse: – Su, su, è notte, cosa fate affacciati? Vi prenderete un malanno sotto questo
chiaro di luna!
Michelino puntò la fionda in alto. – E io spengo la luna! – Fu acciuffato e messo a
letto.
Così per il resto di quella e per tutta la notte dopo, la scritta luminosa sul tetto di fronte
diceva solo SPAAK–CO e dalla mansarda di Marcovaldo si vedeva il firmamento. Fiordaligi e
la ragazza lunare si mandavano baci sulle dita, e forse parlandosi alla muta sarebbero
riusciti a fissare un appuntamento.
Ma la mattina del secondo giorno, sul tetto, tra i castelli della scritta luminosa si
stagliavano esili esili le figure di due elettricisti in tuta, che verificavano i tubi e i fili. Con
l’aria dei vecchi che prevedono il tempo che farà, Marcovaldo mise il naso fuori e disse: –
Stanotte sarà di nuovo una notte di GNAC.
Qualcuno bussava alla mansarda. Aprirono. Era un signore con gli occhiali.
– Scusino, potrei dare un’occhiata dalla loro finestra? Grazie, – e si presentò: – Dottor
Godifredo, agente di pubblicità luminosa.
«Siamo rovinati! Ci vogliono far pagare i danni – pensò Marcovaldo e già si mangiava i
figli con gli occhi, dimentico dei suoi rapimenti astronomici. – Ora guarda dalla finestra e
capisce che i sassi non possono essere stati tirati che di qua».
Tentò di mettere le mani avanti: – Sa, son ragazzi, tirano così, ai passeri, pietruzze, non
so come mai è andata a guastarsi quella scritta della Spaak. Ma li ho castigati, eh, se li ho
castigati! E può star sicuro che non si ripeterà più.
Il dottor Godifredo fece una faccia attenta. – Veramente, io lavoro per la «Cognac
Tomawak», non per la «Spaak». Ero venuto per studiare la possibilità d’una réclame
luminosa su questo tetto. Ma mi dica, mi dica lo stesso, m’interessa.
Fu così che Marcovaldo, mezz’ora dopo, concludeva un contratto con la «Cognac
Tomawak», la principale concorrente della «Spaak». I bambini dovevano tirare con la fionda
contro il GNAC ogni volta che la scritta veniva riattivata.
– Dovrebb’essere la goccia che fa traboccare il vaso, – disse il dottor Godifredo. Non si
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sbagliava: già sull’orlo della bancarotta per le forti spese di pubblicità sostenute, la «Spaak»
vide i continui guasti alla sua più bella réclame luminosa come un cattivo auspicio. La scritta
che ora diceva COGAC ora CONAC ora CONG diffondeva tra i creditori l’idea d’un dissesto; a
un certo punto l’agenzia pubblicitaria si rifiutò di fare altre riparazioni se non le venivano
pagati gli arretrati; la scritta spenta fece crescere l’allarme tra i creditori; la «Spaak» fallì.
Nel cielo di Marcovaldo la luna piena tondeggiava in tutto il suo splendore. Era l’ultimo
quarto, quando gli elettricisti tornarono a rampare sul tetto di fronte. E quella notte, a
caratteri di fuoco, caratteri alti e spessi il doppio di prima, si leggeva COGNAC TOMAWAK, e
non c’erano più luna né firmamento né cielo né notte, soltanto COGNAC
TOMAWAK, COGNAC TOMAWAK che s’accendeva e si spegneva ogni due secondi.
Il più colpito di tutti fu Fiordaligi; l’abbaino della ragazza lunare era sparito dietro a
un’enorme, impenetrabile vu doppia.
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ITALO CALVINO (1923–1985)
L’AVVENTURA DI DUE SPOSI
In I racconti, Einaudi, 1958 (qui Mondadori 1991)
L’operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte, quello che finisce alle sei. Per
rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione, in tram nei
mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette, cioè alle volte un po’
prima alle volte un po’ dopo che suonasse la sveglia della moglie, Elide.
Spesso i due rumori: il suono della sveglia e il passo di lui che entrava si
sovrapponevano nella mente di Elide, raggiungendola in fondo al sonno, il sonno compatto
della mattina presto che lei cercava di spremere ancora per qualche secondo col viso
affondato nel guanciale. Poi si tirava su dal letto di strappo e già infilava le braccia alla cieca
nella vestaglia, coi capelli sugli occhi. Gli appariva così, in cucina, dove Arturo stava tirando
fuori i recipienti vuoti dalla borsa che si portava con sé sul lavoro: il portavivande, il termos,
e li posava sull’acquaio. Aveva già acceso il fornello e aveva messo su il caffè. Appena lui la
guardava, a Elide veniva da passarsi una mano sui capelli, da spalancare a forza gli occhi,
come se ogni volta si vergognasse un po’ di questa prima immagine che il marito aveva di
lei entrando in casa, sempre così in disordine, con la faccia mezz’addormentata. Quando
due hanno dormito insieme è un’altra cosa, ci si ritrova al mattino a riaffiorare entrambi
dallo stesso sonno, si è pari.
Alle volte invece era lui che entrava in camera a destarla, con la tazzina del caffè, un
minuto prima che la sveglia suonasse; allora tutto era più naturale, la smorfia per uscire dal
sonno prendeva una specie di dolcezza pigra, le braccia che s’alzavano per stirarsi, nude,
finivano per cingere il collo di lui. S’abbracciavano. Arturo aveva indosso il giaccone
impermeabile; a sentirselo vicino lei capiva il tempo che faceva: se pioveva o faceva nebbia
o c’era neve, a secondo di com’era umido e freddo. Ma gli diceva lo stesso: – Che tempo fa?
– e lui attaccava il suo solito brontolamento mezzo ironico, passando in rassegna gli
inconvenienti che gli erano occorsi, cominciando dalla fine: il percorso in bici, il tempo
trovato uscendo di fabbrica, diverso da quello di quando c’era entrato la sera prima, e le
grane sul lavoro, le voci che correvano nel reparto, e così via.
A quell’ora, la casa era sempre poco scaldata, ma Elide s’era tutta spogliata, un po’
rabbrividendo, e si lavava, nello stanzino da bagno. Dietro veniva lui, più con calma, si
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spogliava e si lavava anche lui, lentamente, si toglieva di dosso la polvere e l’unto
dell’officina. Così stando tutti e due intorno allo stesso lavabo, mezzo nudi, un po’ intirizziti,
ogni tanto dandosi delle spinte, togliendosi di mano il sapone, il dentifricio, e continuando a
dire le cose che avevano da dirsi, veniva il momento della confidenza, e alle volte, magari
aiutandosi a vicenda a strofinarsi la schiena, s’insinuava una carezza, e si trovavano
abbracciati.
Ma tutt’a un tratto Elide: – Dio! Che ora è già! – e correva a infilarsi il reggicalze, la
gonna, tutto in fretta, in piedi, e con la spazzola già andava su e giù per i capelli, e sporgeva
il viso allo specchio del comò, con le mollette strette tra le labbra. Arturo le veniva dietro,
aveva acceso una sigaretta, e la guardava stando in piedi, fumando, e ogni volta pareva un
po’ impacciato, di dover stare lì senza poter fare nulla. Elide era pronta, infilava il cappotto
nel corridoio, si davano un bacio, apriva la porta e già la si sentiva correre giù per le scale.
Arturo restava solo. Seguiva il rumore dei tacchi di Elide giù per i gradini, e quando non
la sentiva più continuava a seguirla col pensiero, quel trotterellare veloce per il cortile, il
portone, il marciapiede, fino alla fermata del tram. Il tram lo sentiva bene, invece: stridere,
fermarsi, e lo sbattere della pedana a ogni persona che saliva. “Ecco, l’ha preso”, pensava, e
vedeva sua moglie aggrappata in mezzo alla folla d’operai e operaie sull’”undici”, che la
portava in fabbrica come tutti i giorni. Spegneva la cicca, chiudeva gli sportelli alla finestra,
faceva buio, entrava in letto.
Il letto era come l’aveva lasciato Elide alzandosi, ma dalla parte sua, di Arturo, era
quasi intatto, come fosse stato rifatto allora. Lui si coricava dalla propria parte, per bene,
ma dopo allungava una gamba in là, dov’era rimasto il calore di sua moglie, poi ci allungava
anche l’altra gamba, e così a poco a poco si spostava tutto dalla parte di Elide, in quella
nicchia di tepore che conservava ancora la forma del corpo di lei, e affondava il viso nel suo
guanciale, nel suo profumo, e s’addormentava.
Quando Elide tornava, alla sera, Arturo già da un po’ girava per le stanze: aveva acceso
la stufa, messo qualcosa a cuocere. Certi lavori li faceva lui, in quelle ore prima di cena,
come rifare il letto, spazzare un po’, anche mettere a bagno la roba da lavare. Elide poi
trovava tutto malfatto, ma lui a dir la verità non ci metteva nessun impegno in più: quello
che lui faceva era solo una specie di rituale per aspettare lei, quasi un venirle incontro pur
restando tra le pareti di casa, mentre fuori s’accendevano le luci e lei passava per le
botteghe in mezzo a quell’animazione fuori tempo dei quartieri dove ci sono tante donne
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che fanno la spesa alla sera.
Alla fine sentiva il passo per la scala, tutto diverso da quello della mattina, adesso
appesantito, perché Elide saliva stanca dalla giornata di lavoro e carica della spesa. Arturo
usciva sul pianerottolo, le prendeva di mano la sporta, entravano parlando. Lei si buttava su
una sedia in cucina, senza togliersi il cappotto, intanto che lui levava la roba dalla sporta.
Poi: – Su, diamoci un addrizzo, – lei diceva, e s’alzava, si toglieva il cappotto, si metteva in
veste da casa. Cominciavano a preparare da mangiare: cena per tutt’e due, poi la merenda
che si portava lui in fabbrica per l’intervallo dell’una di notte, la colazione che doveva
portarsi in fabbrica lei l’indomani, e quella da lasciare pronta per quando lui l’indomani si
sarebbe svegliato.
Lei un po’ sfaccendava un po’ si sedeva sulla seggiola di paglia e diceva a lui cosa
doveva fare. Lui invece era l’ora in cui era riposato, si dava attorno, anzi voleva far tutto lui,
ma sempre un po’ distratto, con la testa già ad altro. In quei momenti lì, alle volte
arrivavano sul punto di urtarsi, di dirsi qualche parola brutta, perché lei lo avrebbe voluto
più attento a quello che faceva, che ci mettesse più impegno, oppure che fosse più
attaccato a lei, le stesse più vicino, le desse più consolazione. Invece lui, dopo il primo
entusiasmo perché lei era tornata, stava già con la testa fuori di casa, fissato nel pensiero di
far presto perché doveva andare.
Apparecchiata tavola, messa tutta la roba pronta a portata di mano per non doversi
più alzare, allora c’era il momento dello struggimento che li pigliava tutti e due d’avere così
poco tempo per stare insieme, e quasi non riuscivano a portarsi il cucchiaio alla bocca, dalla
voglia che avevano di star lì a tenersi per mano. Ma non era ancora passato tutto il caffè e
già lui era dietro la bicicletta a vedere se ogni cosa era in ordine. S’abbracciavano. Arturo
sembrava che solo allora capisse com’era morbida e tiepida la sua sposa. Ma si caricava
sulla spalla la canna della bici e scendeva attento le scale.
Elide lavava i piatti, riguardava la casa da cima a fondo, le cose che aveva fatto il
marito, scuotendo il capo. Ora lui correva le strade buie, tra i radi fanali, forse era già dopo
il gasometro. Elide andava a letto, spegneva la luce. Dalla propria parte, coricata, strisciava
un piede verso il posto di suo marito, per cercare il calore di lui, ma ogni volta s’accorgeva
che dove dormiva lei era più caldo, segno che anche Arturo aveva dormito lì, e ne provava
una grande tenerezza.
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LUIGI MALERBA (1927–2008)
LA ERRE
In Storiette, 1978 (qui Einaudi 1994)
Un giorno mentre Ugone stava parlando con un amico arrivò una ventata e gli portò
via la erre. Stava dicendo: – Ti voglio vedere presto – e gli uscì dalla bocca –Ti voglio vedere
pesto. L’amico si offese moltissimo e andò via, senza salutarlo. Un altro giorno Ugone andò
dal macellaio per comprare un – chilo di carne – e disse invece – Un chilo di cane. Ugone
era disperato perché, quando parlava, voleva dire una cosa e gliene usciva un’altra. Diceva
«gratto» e gli usciva «gatto», diceva «bruco» e gli usciva «buco», diceva «corto» e gli usciva
«cotto» e così via. I suoi amici cominciarono a pensare che Ugone si ubriacasse e qualcuno
disse invece che era diventato matto.
Ugone andò in giro per la città a cercare la sua erre e fece mettere anche un’inserzione
sul giornale, promettendo una mancia, ma nessuno si fece vivo. Allora decise di rubare una
erre da una iscrizione di marmo che diceva «Via del Corso». Rubò la erre e la scritta diventò
«Via del Coso». Quelli che la leggono non capiscono e, se capiscono, si mettono a ridere.
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LUIGI MALERBA (1927–2008)
IL VERMETTO NERO NERO
In Storiette, 1978 (qui Einaudi 1994)
Un vermetto di campagna lungo lungo e nero nero decise che avrebbe fatto uno
scherzo al contadino del podere dove viveva. Sapeva che i vermi fanno schifo agli uomini e
aveva deciso di vendicarsi.
Durante la notte il vermetto si arrampicò a fatica su per le scale della casa e arrivò
nella camera da letto del contadino. Sotto il letto c’erano le sue scarpe. Il vermetto sfilò il
legaccio nero di una scarpa e si mise al suo posto infilandosi dentro ai buchi, e già si fregava
le mani immaginando le smorfie di disgusto del contadino la mattina dopo quando si
sarebbe accorto della cosa.
Il contadino si svegliò molto presto e, con gli occhi ancora chiusi per il sonno si infilò le
scarpe fece un nodo doppio al vermetto nero nero che sembrava proprio un legaccio. Poi
uscì di casa e andò nei campi a lavorare. Il vermetto così annodato non riuscì più a liberarsi
per tutta la giornata.
La sera, quando il contadino sciolse il nodo per levarsi la scarpa, il vermetto aveva un
terribile mal di schiena. Riuscì con molta fatica a uscire dai buchi, rotolò malamente giù per
le scale e a fatica raggiunse il prato dove rimase disteso al sole per tre giorni di seguito
prima di riuscire a camminare e cioè a strisciare per terra come fanno i vermi.
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LUIGI MALERBA (1927–2008)
STORIA DEL MONDO DALLE ORIGINI AI GIORNI NOSTRI In Storiette, 1978 (qui Einaudi 1994)
Andate tutti lontano che il mondo incomincia a scoppiare. Tutti si trovarono un
posticino ben riparato e il mondo fu sconvolto da una grande esplosione dove si formarono
le stelle come il sole e i pianeti come la terra.
Da principio l’uomo viveva nell’acqua, aveva le pinne e la coda come un merluzzo, era
amico dei pesci. Poi uscì dall’acqua e si mise a strisciare sulla terra come un serpente. Poi
imparò a stare in piedi e il serpente invidioso gli fece mangiare la mela e lo fece cacciare dal
Paradiso Terrestre. L’uomo si offese e diventò suo nemico. Fece amicizia con la scimmia e
da lei imparò tante cose come arrampicarsi sugli alberi, mangiare le noci e mettersi i diti nel
naso.
L’uomo, con il passare dei secoli imparò a leggere e a scrivere e a andare in bicicletta.
Scrisse molti libri di storia vera e di storia inventata, ma tutti volevano essere la storia del
mondo dalle origini ai nostri giorni, cioè dalle origini alla fine. Dopo la bicicletta e i libri
vennero l’automobile e l’aeroplano e la bomba. Il mondo diventò insopportabile e l’uomo si
preparò a ridiventare un merluzzo. Tutti incominciarono a cercarsi un posticino ben riparato
in vista della prossima esplosione.
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LUIGI MALERBA (1927–2008)
IL GIOCO DELLO SCIPPO
In Dopo il pescecane, Bompiani, 1979
I quindici anni sono una età molto incerta e confusa, lo vedo da mio figlio. Sempre
agitato, e sempre distratto come se vivesse in mezzo alle nuvole. Certi giorni si mette
davanti al televisore spento e resta lì per delle ore, chissà che cosa pensa, dico, e chissà che
cosa immagina di vedere su quello schermo nero senza immagini. Sono preoccupato per lui
e mi sembra di avere tutte le ragioni. Non so mai per quale verso prenderlo perché ogni
volta che provo a parlargli mi risponde a vanvera, oppure, se l’argomento non gli piace, si
innervosisce e va a chiudersi nella sua camera e non lo vedo più fino alla mattina dopo
quando esce per andare a scuola.
Ho parlato con i genitori di alcuni suoi compagni e mi è parso che più o meno con i loro
figli si trovino nelle mie condizioni, c’è la stessa incomprensione, lo stesso distacco e
indifferenza che ci sono tra me e mio figlio. Non capisco che cosa hanno in testa questi
ragazzi. Ho perfino provato a spiarli quando stanno insieme e ho scoperto che si dicono
delle gran parolacce, ma un vero discorso filato non l’ho sentito. Insomma non sanno
parlare nemmeno tra di loro.
Mi preoccupa soprattutto il vuoto in cui vivono. Mi preoccupa che mio figlio guardi la
televisione spenta, mi preoccupa che non abbia un dialogo con nessuno, la sua mancanza di
interessi e di entusiasmo, i suoi silenzi. Non legge i giornali, non va al cinema, non va a
ballare. Io ero molto diverso, ma si sa che oggi è tutto cambiato. Qualcuno mi dice prova
con le sberle, ma io sono contrario alla maniera forte, sono un genitore moderno e non me
la sento di prendere a sberle mio figlio solo perché guarda il televisore spento o perché fra
noi non c’è dialogo. Senza contare che, a quindici anni, è già alto un metro e settantacinque
e non vorrei che gli venisse in mente di mettermi le mani addosso, non si sa mai.
È un po’ di tempo che gli dico tròvati un hobby tanto per distrarti, oppure un gioco
come il tennis o il calcio o il salto con l’asta, insomma uno sport divertente e che faccia
bene alla salute. Mi andrebbe bene anche il biliardo piuttosto che niente, ma lui si è messo
a ridere come se avessi detto una cosa molto strana e ridicola. Se non ti piace il biliardo
perché non provi con il bowling, lo skateboard, il frisbee? E così gli ho fatto vedere che sono
più aggiornato di quanto lui creda e che non c’è mica tanto da ridere. Io so che quando un
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ragazzo prende passione a un gioco, anche se trascura la scuola almeno ha la testa
occupata da qualcosa e non corre rischi peggiori. Sto pensando alla droga naturalmente. La
droga è l’incubo di tutti i genitori come un tempo le malattie veneree. Oggi si cura anche la
sifilide ma pare che con la droga, quella pesante, non c’è niente da fare.
Sarà passato un mese da quando mio figlio mi ha chiesto di comprargli la lambretta. A
tutta prima sono rimasto sorpreso, ma mi sono detto meglio la lambretta che la droga. Con
una certa cautela per non irritarlo, gli ho fatto qualche domanda. Mi ero ricordato di una
mia cugina che qualche anno fa aveva comprato la motocicletta a suo figlio e quello era
partito e non si era visto più. Ogni tanto manda una cartolina da Baden Baden, da Amburgo,
da Marsiglia, da Amsterdam e tutto finisce lì. Tanti baci e basta. Un mese fa è arrivata una
cartolina da Helsinki. Che cosa farà a Helsinki? Non vorrei che succedesse qualcosa di simile
anche a me con mio figlio, mi sono detto, e così gli ho comprato una lambretta usata,
piuttosto malridotta come motore anche se di fuori era stata rimessa a nuovo. Con questa
può andare poco lontano, ho pensato.
Non aveva nessuna intenzione di scappare da casa. Anzi, da quando gli ho comprato la
lambretta si direbbe che ha superato lo schifo di parlare con me, ogni tanto mi rivolge la
parola. Mi ha anche spiegato a che cosa gli serve la lambretta, mi ha raccontato che fa il
gioco dello scippo insieme a un suo amico. Meno male, mi sono detto, se gli prende la
passione per un gioco finalmente potrò stare tranquillo, forse gli passa questo
atteggiamento negativo, forse sarà più sereno, forse forse finirà per farmi le sue confidenze
come usava un tempo fra padri e figli.
Una sera è arrivato a casa tutto sudato e con uno strappo nella giacca. Si è seduto di
fronte a me e mi ha raccontato che si era divertito come un pazzo. Così sono venuto a
sapere in che cosa consiste il gioco dello scippo. Mi ha spiegato che si fa in due: uno si
mette alla guida della lambretta e l’altro dirige il gioco. Vanno in giro per le stradine intorno
a Campo dei Fiori dove non c’è mai la polizia e strappano la borsetta alle donne che
passano da quelle parti. Da principio per esercitarsi hanno incominciato a portare via la
borsa alle vecchiette che non possono correre e quindi il rischio è ridotto al minimo. Dopo
un mese di esercizio si sono buttati sulle turiste, di preferenza le turiste straniere.
Ho domandato che cosa ne fanno delle borsette e lui mi ha spiegato che le
restituiscono per posta quando nei documenti trovano l’indirizzo, altrimenti le vanno a
gettare nel Tevere. Dice che ne hanno spedita una a Minneapolis negli Stati Uniti e ne
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hanno spedite altre nel Canada, nel Brasile e perfino in Australia e in Giappone. E i soldi,
che cosa ne fate dei soldi? Quelli ce li teniamo noi, mi ha risposto, altrimenti il gioco perde
ogni senso e non ci divertiamo più. E poi i soldi servono anche per le spese, la miscela per la
Lambretta, le riparazioni, la spedizione delle borsette alle legittime proprietarie e via
dicendo. Tieni conto, mi ha detto, che spesso troviamo soldi esteri e ci perdiamo molto con
il cambio clandestino.
Spesso le donne scippate si mettono a strillare e a inseguire e questo è molto
emozionante, ha detto mio figlio. Quando finalmente arriviamo in un posto sicuro e lontano
ci facciamo delle gran risate e poi andiamo in pizzeria o al cinema. I soldi ce li dividiamo
sempre a metà io e il mio compagno, anche le spese le dividiamo a metà. Alla guida ci
stanno una volta per uno e la vittima viene scelta da quello che sta dietro e deve strapparle
via la borsetta, questa è la regola del gioco. Insomma pare che si divertono moltissimo,
beati loro.
Da quando gioca allo scippo mio figlio è molto migliorato. La mattina va a scuola,
ritorna a casa dopo l’una a mezzo, fa i compiti e poi esce con la Lambretta. Qualche volta
porta a casa anche il suo amico e fanno i compiti insieme prima di uscire. Altre volte è mio
figlio che va a casa sua, soprattutto quando hanno i compiti di matematica perché il padre è
ingegnere e li aiuta a fare le equivalenze, le equazioni e a risolvere i problemi. Io di
matematica non me ne intendo, ma gli ascolto volentieri le poesie che devono imparare a
memoria, Valentino del Pascoli, "Oh! Valentino vestito di nuovo, come le brocche dei
biancospini!", Pastori d’Abruzzo di D’Annunzio, "Settembre, andiamo. È tempo di migrare",
L’infinito di Leopardi, "Sempre caro mi fu quest’ermo colle", bellissimo. A me sono sempre
piaciute le poesie e molte le ricordo ancora dal tempo della scuola, così posso aiutarli nel
ripasso senza nemmeno guardare il libro.
Spesso mio figlio ritorna a casa molto tardi la sera, quando io sono già a letto, ma se
torna presto ci mettiamo davanti al televisore e guardiamo insieme uno spettacolo e alla
fine ci scambiamo le nostre impressioni. Sono lontani i tempi che restava per ore davanti
allo schermo spento. Se alla televisione non c’è niente di interessante mi parla del gioco
dello scippo, sempre con molto entusiasmo. Una sera mi ha detto che erano riusciti a
scippare cinque borsette, lui e il suo amico. Ogni tanto gli faccio qualche raccomandazione
perché ho sempre paura che durante le fughe in quei vicoletti pieni di traffico possano
cadere o investire qualcuno. Mi sono fatto promettere che con i soldi del prossimo scippo si
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pagano l’assicurazione. Mi hanno detto che la faranno senz’altro, sono due bravi ragazzi e,
da un po’ di tempo, anche allegri e spensierati come devono essere alla loro età.
L’altra sera sono arrivati a casa più allegri del solito e mi hanno annunciato che hanno
comprato una Kawasaki. Ho dovuto scendere nel cortile per vederla. Mi hanno detto di
stare tranquillo che avevano già sistemato tutto sia per l’assicurazione che per la patente.
Io su una Kawasaki non ci salirò mai, però devo ammettere che è proprio un bell’oggetto.
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STEFANO BENNI (1947)
SHIMIZÉ
In Il bar sotto il mare, 1987
In nessuna lingua è difficile intendersi come nella lingua propria.
(Karl Kraus)
C’era un oshammi shammi che viveva in una wesesheshammi in cima a una wooba.
Venne una notte un oogoro e disse all’oshammi shammi:
– Shimì non voglio né la tua corona né il tuo bastone, voglio la tua shammizé.
– De shimite deé – rise l’oshammi shammi – cerca pure. Se vedi qua nella weseshe la
mia shammizé, prendila pure.
– L’oogoro frugò in lungo e in largo tutta la wesesheshammi e alla fine vide una
woolanda e trionfante gridò:
– Shimì, eccola qui, l’ho trovata.
– Sei furbo come il tsezehé dalle lunghe orecchie – disse l’oshammi shammi – l’hai
trovata ed è tua.
L’oogoro corse giù dalla wooba cantando e ridendo:
– Ho una shammizé! Per tutta la vita shimideé, avrò una shammizé!
Sulla strada incontrò un vecchio woorogoro.
– Shimì woro, ti piace? – disse l’oogoro – guarda, ti piace la mia shimmizé?
– Woof – disse l’orogoro – stupido come uno tsezehé! Non vedi che quella che tieni tra
le braccia è una woolanda?
– Alla luce della luna l’oogoro guardò bene, vide il suo errore e se ne andò tzuke
shimite no scimé, triste come chi ha perso il nome delle cose.
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STEFANO BENNI (1947)
I QUATTRO VELI DI KULALA In Il bar sotto il mare, 1987
SONNO! … spazzino di rancore! (Tristan Corbière)
In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto
fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore
e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia.
E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì
gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra
maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire.
Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella
luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere
l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli
alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare.
Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo
Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe
morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era
al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva
per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio.
Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era
una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le
montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e
arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala.
Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli
alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del
sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i
serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la
casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si
svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna
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nell’angolo della sua casa.
– Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato.
– Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno
a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo.
– E perché mai dovrei dartelo? –
Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata,
eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza.
– E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni
sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli
riavrà il sonno perduto. Ma sta attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda.
– Non ho paura – disse Oda.
Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli.
– Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori
della notte. Scegli.
Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò
sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se
lo mise sul capo.
– Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei
sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli
incubi balzeranno su di te e ti uccideranno.
Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da
uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro.
– Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del
buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò.
Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò
per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma
ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme
agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno
eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai.
Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul
capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le
porgeva una tazza di hakarà caldo.
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– Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno,
il più misterioso di tutti?
– Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so
riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante
notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola.
Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i
quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo.
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GIUSEPPE PONTREMOLI (1955–2004)
AUTOPRESENTAZIONE
In Rabbia Birabbia, Nuove Edizioni Romane, 1991
A me piace molto il mare. E mi piace anche se a Milano, dove lavoro, il mare proprio
non c’è – non ce n’è nemmeno l’ombra, e neppure il sudore. E anche a Sesto S. Giovanni,
dove abito, e a Parma, dove sono nato, sempre la stessa storia; mare niente, né qui né lì né
là. E comunque il mare mi piace. Però c’è un problema; io non so nuotare, e così tutte le
volte che vado al mare combino qualche guaio. Una volta, per esempio, al mare ho
conosciuto un uomo una donna e una bambina e, parlando parlando, ho detto loro che di
mestiere faccio il maestro. A sentire questa notizia l’uomo e la donna erano allegri e
incuriositi; la bambina invece ha detto « Ecco, rovinata la serata ». A me è dispiaciuto
molto; da allora, dato che non voglio rovinare a nessuno né le serate né le giornate, non
dico più che faccio il maestro, e così non lo dirò nemmeno qui. No, non lo dirò, mi terrò la
notizia come un imbarazzante segreto.
Il mare, però, non è la cosa che mi piace di più. Più di tutto mi piacciono il vento, la
musica e le storie. Storie ne leggo proprio tante; le leggo e le rileggo e poi le racconto anche
in giro. E quando ce n’è qualcuna che mi sembra bellissima ne parlo e ne scrivo. Così,
leggendo leggendo, in una storia raccontata da un bravissimo narratore che si chiama Isaac
Bashevis Singer, ho trovato alcune parole di cui mi piace servirmi per dire come sono io: « Si
avvicinava ormai ai trentacinque anni, ma la sua irrequietezza non accennava a calmarsi ».
Basta, mi fermo qui, perché non vorrei che vi venisse una barba come la mia. Ah,
dimenticavo di dire che certe poche volte porto gli occhiali, e forse me ne dimenticavo
perché spesso dimentico di infilarli; e forse me ne dimentico perché non mi piace metterli;
e forse non mi piace metterli perché… No, no, avevo già detto “basta” e poi, tra l’altro,
questa è un’altra storia.
LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI
90
MARCO LODOLI (1956)
GHIGO ALBERIGHI
In I professori e altri professori, Einaudi 2003
«Giò ti ama, Giò ti ama»: solo questo Ghigo era riuscito a insegnare al suo merlo
indiano. Mille volte aveva inciso su un nastro frasi più belle e appassionate, e per giorni le
aveva fatte ascoltare all’uccello, sperando che d’improvviso le cantasse. Avrebbe dato un
occhio della testa per sentirsi annunciare dalla gabbietta: «Oggi no, ma un giorno Giovanna
vorrà sposarti». Oppure: «Giovanna è più bella di Marilyn».
Finiva che era Ghigo a ripetere quelle frasi, di notte, o mentre rastrellava le foglie
secche in giardino, o quando, da solo, si preparava da mangiare.
D’altronde Ghigo aveva tanto tempo vuoto, tanto da poterlo sciupare in quegli
esperimenti un po’ stupidi. Se lo avessero visto, i suoi compagni di una volta, quelli che per
anni avevano vissuto e tirato righe infinite grazie alle sue feste e alla sua prodigalità, se
avessero osservato da dietro un angolo la cura con cui puliva la gabbietta del merlo, o il
modo in cui offriva un verme a fior di labbra a quel becco giallo, di certo avrebbero
sghignazzato di lui. «È diventato matto, – avrebbero detto, – l’amore prima gli ha svuotato
il portafoglio e poi il cervello».
E un po’ era vero: d’altronde per qualcosa bisogna perdersi, e senza rimpianti Ghigo
s’era perso per un amore. Certe sere si domandava: chissà dov’ è adesso Giovanna, se in
America o a Parigi, e cosa fa, quanti amanti ha, che cosa sogna. Oppure, se pioveva e si
sentiva triste, si domandava: chissà se l’ho amata davvero, o se avevo solo voglia di farmi
del male prima che me lo facessero gli altri.
Giovanna era stata sua compagna al ginnasio, e poi insieme a lui all’università, a non
studiare mai. Per lei Ghigo da ragazzino aveva rubato gioielli alla madre, per regalarglieli
incartati nelle pagine dei giornali sportivi. Unicamente per lei, anni dopo, aveva dato
ricevimenti con mille persone, uomini e donne importanti e molti sciacalli che contavano di
uscire dalla villa a pancia piena e con le forchette d’argento nelle tasche. Per lei aveva
comprato nello stesso giorno una casa e una barca.
Giovanna rideva sempre, godeva a essere la più bella, ad avere ogni sera in dono il
vestito più caro delle vetrine del centro. A volte diceva: «Grazie Ghigo», altre se ne
dimenticava e andava via dalla festa con qualche ragazzo conosciuto davanti al buffet e il
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portacipria pieno di cocaina.
L’unico lavoro di Ghigo era amare Giovanna e farla ridere. I suoi genitori erano morti
presto lasciandogli una fortuna. Ci volevano diecimila vite per spendere tutti quei soldi,
oppure bisognava impazzire per una come Giovanna.
Ora Ghigo aveva cinquant’ anni e viveva con il suo merlo indiano in una casetta vicino
a Nemi. Il pomeriggio dava qualche ripetizione di matematica e fisica ai somari della zona, e
la mattina si alzava tardi, l’ultimo lusso che poteva permettersi. Era bello sentire il sole sulle
palpebre ancora pesanti, e il merlo che ossessivamente ripeteva: «Giò ti ama, Giò ti ama»
sopra i versi inutili di tanti altri uccelli.
Forse tanti anni fa avrei dovuto mettermi in ginocchio e dichiararmi, pensava Ghigo,
ma non sarebbe bastato lo stesso, e poi io non so parlare bene, sono come il mio caro
merlo, una creatura da gabbia e da una sola frase. E ormai è inutile rimpiangere ciò che non
è stato.
Ma una mattina aprì la porta e Giovanna era lì. Era ancora bella, aveva gli stessi occhi
luminosi di cattiveria.
Lei parlò veloce, come sempre. Viveva con un produttore australiano, aveva una figlia
bionda, faceva ginnastica due ore ogni mattina, mangiava e beveva troppo, passava per
caso l’estate in una villa lì vicino, sul lago.
Ghigo la fece accomodare sul divano sfondato, e poi trepidante andò in cucina.
Temeva che il merlo cominciasse a ripetere la sua cantilena: «Giò ti ama, Giò ti ama» e che
Giovanna si mettesse di malumore a sentire dopo tanti anni quella bugia. Era disperato,
Ghigo, era fuori di sé. Non la posso offendere in questo modo, ora che è qui, a casa mia. Per
un attimo pensò di tacitare il merlo chiudendogli la testa in un cassetto. Poi ebbe pena del
suo compagno di giochi e di solitudini: aprì la gabbietta e lo fece volare via. Un istante dopo
era un punto invisibile nel cielo.
Quando tornò da Giovanna, lei gli raccontò sbuffando che sua figlia aveva sentito dai
ragazzini del posto, quelli a cui Ghigo dava ripetizioni, che lui possedeva un merlo capace di
parlare. «Lo voglio, – aveva preteso la bambina, capricciosa come la madre, – se non ho il
merlo non mangio più». E Giovanna era venuta a chiederlo. «Me lo devi dare, Ghigo,
assolutamente. Tanto ti ho preso tutto, un merlo in più non fa differenza».
Allora Ghigo cominciò a piangere e a ridere in silenzio. «Tutto ti ho dato, ma il merlo
non te lo posso più regalare, l’ho appena lasciato libero per non farti sentire le sciocche
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frasi d’amore che gli ho insegnato, le mie speranze su di te».
Giovanna sentì in quell’uomo il miracolo di una cascata inesauribile, una forza che
precipita e non finisce mai di venir giù, e in un secondo decise di vivere insieme a lui,
abbandonando ogni cosa: marito, figlia, libertà. O forse scelse quella vita nuova, quella
povera casa, nello stesso modo in cui sceglieva un paio di scarpe inverosimili in una vetrina,
lasciando le vecchie e preziose nella spazzatura.
Si lasciò carezzare e baciare le rughe da Ghigo, permise che lui le cedesse una parte
dell’armadio, che passasse ore a contemplarla malinconicamente, come un’immagine in
uno specchio d’oro. «Il resto l’ho già vissuto e non era niente, – pensò Giovanna, – ora
posso riposarmi».
Il merlo non tornò più, anche se a volte la sera, seduti davanti alla macchia scura del
bosco, nel silenzio di chi non ha nulla da dirsi, lo sentivano ripetere: «Giò ti ama, Giò ti
ama».
Erano gli unici momenti belli della loro vita. Il bosco, la casa, il tempo presente e il
tempo passato, loro due giovani e vecchi, e quella voce lontana, e la morte che volando ci
cerca, tutto sembrava soltanto il sogno leggero di un uccello.
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ALDO NOVE (1967)
MARTA RUSSO1
In Superwoobinda, Einaudi 1998
Io sono una ragazza che per un anno ero sempre sui giornali. Sono una fotografia che
avete visto tutti. Sono la notizia che aspettavate. Sono stata meritoria della vostra
attenzione. Sono stata la notizia che avete consumato.
Sono stata un giallo irresolubile.
Ho abitato nei vostri pensieri un poco al giorno. Un poco ogni tanto. Vi siete interessati
a me. Vi siete interessati alla mia testa. Vi siete occupati di quello che avevo dentro. Di chi
ce l’avesse messo. Dell’esplosione che a un certo punto ha messo nella mia testa quello che
è entrato, che dentro la mia testa è entrato. Che spezzato in più frammenti ha sbriciolato
un pezzo del mio cervello.
Camminavo, e dopo basta.
Dopo rumore metallico di sangue la mia vita nella cronaca la leggete, la mia morte.
Come un fiore fragile mi sono accasciata senza un gemito.
Mi chiamo Marta Russo.
Sono una studentessa di giurisprudenza e cammino.
Sono un caso chiuso dal procuratore aggiunto.
1 Il racconto attinge a un terribile fatto di cronaca, oggetto di molte polemiche e di una vasta attenzione mediatica. Marta Russo era una studentessa ventiduenne iscritta alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università La Sapienza di Roma; la mattina del 9 maggio 1997, mentre passeggiava con un amica in un vialetto interno all’Università, fu centrata alla testa da un proiettile sparato a distanza e morì pochi giorni più tardi al Policlinico Umberto I. Le indagini si mostrarono subito delicate e complesse, per la particolarità della scena del delitto e per il sospetto che potesse trattarsi di un omicidio politico, da collegarsi a una ripresa della strategia della tensione e più in particolare alla vittoria della destra nelle elezioni delle rappresentanze studentesche dell’Ateneo. Sulla base degli accertamenti eseguiti, gli inquirenti giunsero poi alla conclusione che il colpo fosse partito da una finestra dell’Istituto di Filosofia del diritto della Facoltà di Giurisprudenza. Le testimonianze rese, non senza ambiguità e contraddizioni, dal personale docente e non docente dell’Istituto e da alcuni studenti portarono infine all’incriminazione di due ricercatori, Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, con l’accusa rispettivamente di omicidio colposo e di favoreggiamento. Entrambi non hanno mai smesso di proclamarsi innocenti, e non sono poche le ombre che gravano tuttora sul quadro probatorio.
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Sono la fidanzata di Luca.
Sono una folla che si raduna.
Sono il rumore di uno sparo.
Sono ancora viva.
Sono trasportata in ospedale.
Sono l’oggetto di un’intervista a Laura Grimaldi. Sono un ronzio che non finisce. Sono
quello che nessuno ha visto. Sono chiusa nel box. Sono nella sezione nell’occhiello nel
palinsesto nell’intervista nell’intervento nella didascalia. Sono un caso irresolubile. Sono
l’impiego di ottanta poliziotti 70 telefoni sotto controllo decine di intercettazioni ambientali
sono la richiesta del Sisde di collaborare al caso. Sono assimilabile, dal punto di vista
giornalistico, a Simonetta Cesaroni. Sono l’oggetto di una discussione sul garantismo. Sono
queste parole che state leggendo. Sono un vocabolo che si trova con il motore di ricerca
digitando marta + russo. Sono nella Rete. Sono un caso. Sono stata ricostruita da Corrado
Augias. Sono stata soccorsa da un impiegato della ditta di pulizie. Sono delle grida
nell’androne. Sono sul piano emotivo meno coinvolgente di Alfredino Rampi. Sono nove
pagine prima dello sport. Sono impaginata sopra l’impiego dei militari a Napoli. Sono 128
interviste 122.000.000 di battute. Sono ricoverata al Policlinico. Sono lo sconforto di Luca
che rompe il silenzio che dice che potevamo fare tante cose insieme e invece non le
abbiamo fatte, che con me ha passato due anni bellissimi. Sono sorella di Tiziana Russo che
intervistata dal settimanale «Oggi» ha detto che a cinque anni nostro padre che era
maestro di fioretto mi aveva iscritta a un corso di scherma. Sono figlia di un maestro di
scherma.
Sono stata l’oggetto delle dichiarazioni di una donna sui trent’anni, meridionale, già
laureata ma che continua a studiare Statistica in Università. Sono la morte silenziosa che ha
fatto incriminare i due assistenti di Filosofia del diritto Salvatore Ferraro e Giovanni
Scattone. Sono la condanna dei media a Salvatore Ferraro e a Giovanni Scattone. Sono
l’intervista a Jolanda Ricci sul «Corriere della Sera» dell’11 luglio 1997. Sono uno strascinato
momento di riflessione collettiva. Sono l’insidia mentale di una motivazione che sfugge.
Sono una rassegna stampa. Sono due ragazzi che dopo l’attentato sono usciti dalla parte di
Scienze politiche correndo via. Sono un via vai di risoluzione e riaperture.
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Sono morta dopo quattro ore di coma il 12 maggio dell’anno scorso alle ore 22.
Sono la causa dell’arresto del direttore dell’Istituto di Filosofia del diritto Bruno
Romano, accusato dall’assistente Maria Chiara Lipari di aver coperto i colpevoli del mio
delitto. Sono la causa dell’arresto per reticenza dei dipendenti dell’università in cui mi
hanno ucciso Maria Urilli e Maurizio Basciu. Sono la protagonista di una canzoncina scritta
sulla sua agenda da Salvatore Ferraro, allegata alle prove giudiziarie. Sono l’elemento che
ha fatto cadere l’attenzione sull’elenco di donne con accanto particolari sulla loro
biancheria intima ritrovato in casa di Giovanni Scattone.
Sono la perizia balistica ripetuta dai periti.
Sono un vuoto incolmabile.
Sono la fame di mostri dei lettori.
Sono la vostra fame.
Sono una nota in cronaca sempre più esile.
Sono il movente della dichiarata volontà di suicidio di Salvatore Ferraro. Sono il
possibile soggetto per un film. Sono il trambusto nella redazione dei giornali le due colonne
che stanno per arrivare. Sono un indagato messo in prigione con la speranza che confessi.
Sono l’ombra inquieta di un paese civile. Sono un caso giudiziario risolto in quattro e
quattr’otto rivelato poi sbagliato sono una sequenza di innocenti messi alla gogna sono la
riabilitazione che non trova spazio.
Se avessi vissuto di più mi sarei dedicata al Telefono azzurro.
Se avessi vissuto avrei continuato a frequentare Luca. Se avessi vissuto di più non mi
sarei occupata di politica.
Se avessi vissuto di più avrei continuato a praticare la scherma.
Se avessi vissuto di più avrei progettato delle gite insieme a Francesca Zurlo,
accompagnatrice del Club scherma di Roma e mia amica intervistata da «Repubblica».
Sono Marta Russo.
Sono l’ombra inqueta di un paese civile.
Sono la ragazza innocente uccisa da un folle forse da qualcuno esaltato della vittoria
delle destre, un individuo dissennato che ha agito da solo un fantasma forse qualcuno che
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mi amava perché ero una bella ragazza per fare qualcosa per provare il brivido di un’azione
inconsulta per vedere scorrere il sangue per vedere un corpo crollare per vedere la scienza
la conciliazione per sentire parlare al telegiornale per studiare l’effetto dei giornalisti per
continuare la tensione degli inquirenti per stimolare i giornalisti a scrivere articoli
interessanti per spingere i giallisti di fama nazionale a intervenire sul caso per fare piangere
i lettori per tenere aggiornati gli ascoltatori per fare intervenire i sociologi per fare
intervistare i sociologi per continuare a parlare per considerare per occupare spazio.
Sono Marta Russo
Sono morta il 12 maggio del 1997.