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La storiografia delle élites nel secondo dopoguerradi Franco De Felice
Preliminarmente vorrei dichiarare quali sono i caratteri di questa mia relazione, l’ambito entro cui ho deciso di svilupparla e la definizione dell’oggetto di essa.
La prima delimitazione riguarda la storiografia: mi sono riferito alla produzione storiografica di questo secondo dopoguerra relativamente all’Italia repubblicana, escludendo quindi dall’esame la questione più ampia — significato trasformazioni e risultati della storiografia italiana del periodo postfascista come aspetto specifico degli orientamenti culturali del paese. Riferimenti a questa tematica più ampia saranno ovviamente tenuti presenti ma solo in quanto funzionali alla definizione ed approfondimento dei problemi connessi all’ambito in precedenza richiamato. Il rischio di tale intenzionale limitazione di campo è quello di una eccessiva ellitticità e mancanza di chiarezza: spero di averlo evitato e sarà compito di questo seminario evidenziarlo e superarlo.
La seconda osservazione riguarda l’oggetto indicato nel titolo di questa relazione: le élites. È evidentemente indispensabile definire l’accezione con cui tale categoria viene utilizzata. Il dibattito relativo al ruolo delle masse o delle élites nella definizione del processo storico è ormai datato e obsoleto: è ac
colto, almeno in linea di massima, il criterio che tale processo è il risultato dell’azione combinata di entrambi gli elementi. Altra questione è poi di verificare nel concreto il modo in cui tale interrelazione è ricostruita. Assunto quindi per acquisito questo dato nel patrimonio culturale della storiografia italiana del dopoguerra, ho teso in questa mia relazione a utilizzare un’accezione più ampia di quella che la categoria di élite ha avuto ed ha in rapporto a un’intera tradizione che affonda molto lontano nella cultura italiana. Mi riferisco ovviamente alla teoria della minoranza organizzata di Mosca e alla teoria dell’aristocrazia di Pareto. Senza voler qui discutere specificamente queste concezioni, l’evoluzione della loro formulazione e l’indubbio valore dissacrante — in esse implicito — di ogni ipotesi semplicistica e lineare di crescita dell’eguaglianza e della democrazia, è però necessario ricordare che questo filone culturale è inseparabile da una critica della società di massa (e dall’essere al tempo stesso un’ipotesi di organizzazione del potere in tale società) e che nel suo momento genetico tale filone, per citare Bobbio1, “procede di pari passo con una concezione essenzialmente inegualitaria della società, con una visione statica, o tu tt’al più ciclica della storia, con un atteggiamento più pessimistico che otti
1 C fr. N orberto B obbio, Teoria delle élites, in D izionario d i po litica , d ire tto da N . B obbio e N. M atteucci, T o rino , UTET, 1976, p. 364.
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mistico nei riguardi della natura umana, con una incredulità quasi totale nei riguardi dei benefici della democrazia, con una critica radicale del socialismo, come creatore di una nuova civiltà, con una sfiducia che rasenta il disprezzo verso le masse portatrici di nuovi valori” .
Non mi sembra si possa dire che tale orientamento culturale abbia avuto un accoglimento sostanziale nel rinnovamento storiografico italiano del secondo dopoguerra, né che abbia messo in discussione quello che è un asse portante della storiografia italiana, cioè il privilegiamento nell’analisi dell’etico- politico. Se mai può dirsi che la teoria elitaria sia confluita in questa categoria più ampia, contribuendo a una riduzione della sua capacità euristica: storia dell’egemonia realizzata, per ricordare un’osservazione nota di Gramsci sulla storiografia crociana, e per dirla in altri termini, storia come accentuazione della razionalità del reale, che è un dato difficilmente separabile dal privilegiamento dell’etico-politico. Il valore caratterizzante dell’etico-politico per la storiografia italiana, sia nella tradizione liberale-idealistica, sia nelle versioni, più aggiornate e culturalmente più ricche, della sinistra non è casuale. Ha radici lontane, sinteticamente individuabili nel ruolo assunto dalla cultura hegeliana nella formazione dello Stato unitario, nell’assenza del ‘nazionalpopolare’: non è separabile cioè dalla forma in cui è venuta consolidandosi l’egemonia borghese in Italia, dalla povertà di modificazioni che hanno accompagnato nella società civile la costituzione dello Stato unitario. La scelta di fondo nel secondo dopoguerra della storiografia di sinistra, prevalentemente di quella di ispirazione comunista, è stata di arricchire gli elementi costituenti dell’etico-politico: privilegiamento non tanto e non solo della storia politica e dei gruppi dirigenti, quanto delle forme organizzate di coscienza e del nesso governanti-governati. Partendo da questo approccio la tendenza era di giungere a una va
lutazione dell’organizzazione e dell’esercizio del potere.
La scelta della storiografia di sinistra di arricchire ma non di mettere in discussione l’etico-politico come canone euristico era la proiezione, in termini storiografici, di una concezione del rapporto movimento operaio- storia d’Italia non di contrapposizione o di antistoria: il movimento operaio cioè non solo come oggetto specifico d’analisi, con i suoi istituti e la sua cultura contrapposti a quelli dominanti, ma come contraddizione immanente all’organizzazione complessiva e perciò soggetto di conoscenza del presente e di tutto il passato. Tale traduzione nella ricerca storica di una forte scelta politica (funzione nazionale della classe operaia) tendeva a riaffidare alla storiografia una funzione essenziale nella formazione di una coscienza critica e civile. Detto questo rimane tutta aperta la questione della dinamicità di tale impianto storiografico, della sua capacità reale a saper registrare, comprendere e filtrare l’estrema ricchezza del sociale. Non è possibile procedere in questa sede a un bilancio: sono sufficienti credo queste osservazioni generali, funzionali alla caratterizzazione degli elementi di questa introduzione. A me pare di poter dire che la storiografia sull’Italia repubblicana nei suoi contributi più significativi abbia conservato come dominante un approccio etico-politico, tendendo però a privilegiare, nella ricerca, il ruolo dei gruppi dirigenti (del paese, dei partiti, di settori organizzati della società).
Su questo giudizio mi soffermerò più diffusamente in seguito: in questa sede introduttiva, di definizione, mi preme richiamare l’attenzione su due altre tendenze che non possono essere eluse. La prima, strettamente connessa al privilegiamento accordato all’analisi dei gruppi dirigenti, è l’affiorare dell’esigenza sempre più fortemente avvertita di assicurare una diversa attenzione e riconoscere un diverso ruolo al ‘sociale’, anche se la formula è generica. La seconda tenden
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za, che a me pare la più rilevante e carica di conseguenze, è il riproporsi — a partire dalla seconda metà degli anni sessanta e attraverso la mediazione degli elementi di conoscenza storica espressi da discipline non storiografi- che — della tematica delle élites in un significato profondamente diverso da quello originariamente elaborato da Mosca, Pareto, filtrato com’è ed anche arricchito dalle elaborazioni della sociologia e politologia statunitense2. Tale riproporsi, è un elemento importante nel panorama della cultura italiana, mette in discussione alcuni assi portanti della storiografia, che di questa cultura è stata ed è tanta parte, e non è separabile dalla più avvertita consapevolezza della complessità dello Stato contemporaneo cosi come si è venuto conformando almeno a partire dal primo dopoguerra.
È su queste tre tendenze che intendo soffermarmi nel corso della mia relazione.
I contributi storiografici complessivi sull’Italia repubblicana sono scarsi3: questo non significa che non vi siano importanti lavori su singoli periodi, momenti o settori (e questo sarà oggetto delle altre relazioni) o, ancora più, che non si siano accumulati materiali, linee interpretative, consistenti elementi di conoscenza storica, ma questi provengono da settori disciplinari non propriamente storiografici. I contributi analitici più rilevanti vengono da giuristi (amministrazione e costituzione), economisti (definizione di
un modello di sviluppo), sociologi e politologi. Personalmente ritengo questo fenomeno positivo e fisiologico, inseparabile dal processo di progressiva trasformazione e crescente complessità della società italiana dalla fine degli anni cinquanta in poi. È indubbio però che tale tendenza ponga problemi non secondari alla storiografia come strumento di conoscenza.
La povertà dei contributi storiografici complessivi dipende certo dal fatto che oggetto d’analisi sono processi ancora aperti, rispetto a cui è difficile procedere a una sistemazione dei vari elementi isolando quelli che hanno già una fisionomia definita da quelli che sono ancora sottoposti a mutamenti; altra ragione è certo dovuta alla mancanza di lavori preparatori su nodi particolarmente importanti. Credo però che le ragioni essenziali siano due: la prima è connessa al nesso storiografia-politica, la seconda, su cui svilupperò delle osservazioni in seguito, è più penetrante ed è connessa alla conoscenza della società e dello Stato contemporaneo.
Il fortissimo nesso storiografia-politica, su cui peraltro si discute4, ma la cui esistenza non può essere messa in dubbio, ha come conseguenza l’assegnazione alla storiografia di un ruolo forte di strumento di consapevolezza e di identità per ampi settori culturali — e attraverso la loro mediazione di ampi strati sociali — rispetto alla storia nazionale. Questo significa, per il periodo e il tema che ci interessa, che nella ricerca storiografica
2 C fr. com e riferim enti essenziali l’e laborazione di H arold D. Lasswell (W e gets what, when h o w , 1936), Joseph A. Schum peter (C apitalism o, socialism o, dem ocrazia, M ilano, C om unità , 1977), di W right Mills (L ’élites de!p o tere , M ilano, Feltrinelli, 1959).3 Cfr. il volum e m iscellaneo, Dieci anni dopo (1945-55). Saggi sulla vita dem ocratica italiana, Bari, L aterza , 1955; G iuseppe M am m arella, L ’Italia dopo il fa sc ism o : 1943-68, Bologna, Il M ulino, 1970; G iam piero C arocci, Storia dell’Italia da ll’unità a oggi, M ilano, Feltrinelli, 1975; C arlo P inzani, L ’Italia repubblicana, in Storia d ’Italia , voi. IV, D a ll’U nità ad oggi, T o rino , E inaudi, 1976; M assim o Legnani, P ro filo po litico d e ll’Italia repubblicana (1948-74), N apoli, M o ran o , 1976 e dello stesso la rassegna II secondo dopoguerra in Italia: orientam enti della s to r io grafia, in “ Ita lia con tem poranea” , 1974, n. 116; G iorgio A m endola, Gli anni della R epubblica , R om a, E dito ri R iuniti, 1976; L ’Italia contem poranea 1945-75, T orino , E inaudi, 1976.4 C fr. Renzo D e Felice, L a storiografia contem poranea italiana dopo la seconda guerra m ondiale, in “ S toria contem poranea” , febbra io 1979.
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sull’Italia repubblicana si riflettono la ricchezza e varietà degli orientamenti culturali della storia italiana e soprattutto il diverso grado di identificazione e di riconoscimento registrabile rispetto a questa repubblica e a questa democrazia. Una spia e una conferma di questo dato può essere rintracciato nella difficoltà tuttora esistente a giungere a una periodizzazione dell’Italia repubblicana su cui realizzare una convergenza ampia di consensi. Basterà solo ricordare, a titolo esemplificativo, che la proposta avanzata da Giorgio Amendola5, quando esortava a studiare il trentennio (periodo della ricostruzione: 1944-47; del dominio democristiano: 1948-57; dell’espansione monopolistica: 1953-60; del centro sinistra: 1960-68; della ripresa democratica: 1968-74; della ridefinizione dei rapporti tra Pei e De: 1974 in poi, ora si potrebbe aggiungere, seguendo lo stesso criterio, un altro periodo) è rifiutata da Guido Quazza sia nel suo intervento al convegno di Firenze che in quello di Palermo, perché una periodizzazione troppo politica e legata a formule di governo e alla combinazione dei rapporti tra partiti. Ad essa Quazza ne contrappone un’altra che implica un’altra ipotesi interpretativa complessiva e il privile- giamento di un’altra forma di approccio (1945-47: incontro-scontro tra guida dall’alto e spinta dal basso; 1948-59: momento del
la massima flessione della spinta dal basso, di successo delle vecchie forze e di fiacchezza delle sinistre politiche e sindacali; 1960-67: combinazione dilacerante e dilacerata del boom economico, ripresa della spinta dal basso e centrosinistra; 1968-76: vittoria della spinta dal basso sul piano sociale ma senza esiti istituzionali adeguati)6. A queste due ipotesi di periodizzazione, riportate qui a titolo esemplificativo della difficoltà in precedenza ricordata, possono evidentemente aggiungersene altre, che introducono elementi non marginali di modifica, se si assume o no come importante il rapporto tra Italia repubblicana e periodo precedente; o se si tiene presente — come a me sembra difficile non fare — il riferimento alle vicende internazionali, cogliendo in rapporto ad esse una periodizzazione delle vicende italiane.
Senza voler continuare a dilungarmi su questo aspetto, credo si possa dire che il maggior numero di contributi storiografici sia concentrato sul periodo 1943-487. In questo quinquennio si ha l’esaurimento di una forma politica (quella fascista), l’emergere faticoso di una modifica istituzionale e politica (repubblica democratica) fortemente segnata da ipoteche interne (rottura dei governi di unità nazionale e conventio ad exclu- dendum delle sinistre) e internazionali. Un periodo quindi che si presta particolarmente
5 C fr. G iorgio A m endola, G li anni della R epubblica , R om a, E dito ri R iuniti, 1976, pp. X X IV -X X V .6 C fr. l’intervento di G uido Q uazza al Sem inario di Firenze del 1977 in L ’Italia negli u ltim i tre n i’anni, Rassegna critica degli stud i, Bologna, Il M ulino, 1978, pp. 52-53. Nella relazione p resen ta ta al convegno di Palerm o del 1978, m olto lim pida ed o rganizzata, Q uazza non rip ropone puntualm ente l’ipotesi di periodizzazione avanzata a Firenze — anche se il richiam o al suo in tervento è esplicito — m a rifo rm ula con fo rza e nettezza il tem a isp irato re so tteso a quella periodizzazione (cfr. G uido Q uazza, Storia della storiografia , storia del potere, storia sociale, in Fondazione G ian G iacom o Feltrinelli, L ’Italia unita nella storiografia del secondo dopoguerra, a cura di N . T ran fag lia , M ilano, Feltrinelli, 1980, pp. 272 sgg.).7 Per ricordare solo i con tribu ti più significativi, c fr. i saggi im portan ti raccolti nel volum e Italia 1945-48. L e origini della R epubblica, T o rino , G iappichelli, 1974; S tuart J. W oolf (a cura di), L ’Italia 1943-50. L a ricostruzione, Bari, L aterza, 1974; A nton io G am bino , Storia del dopoguerra dalla liberazione al p o tere D e, L aterza, B ari, 1975; Luciano C afagna, N o te in m argine alla ricostruzione, in “ G iovane critica” , 1973, n. 37; le rassegne II dopoguerra italiano (1945-48). Guida bibliografica, Feltrinelli, M ilano, 1975; M assim o L egnani, C ontribu ti e tem i d i ricerca su l 1945-48 in Italia, in “ R ivista di storia con tem poranea” , 1974, n. 1; P ie tro Scoppola, L a pro p o sta politica d i De Gasperi, Bologna, Il M ulino, 1977.
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bene a definire collegamenti con il passato e le linee di tendenza degli anni successivi: il 1948 è l’anno della entrata in vigore della Costituzione italiana ma è anche l’anno del 18 aprile, cioè della sanzione di massa a una linea di ‘ordine’. Non è secondario sottolineare che la concentrazione della riflessione storiografica su questo periodo, la vivacità dei contrasti che la caratterizza, la forza con cui viene riproposto un giudizio critico non è separabile dalla diffusione rapidissima degli interessi storici contemporaneistici decisamente incentrati sul XX secolo e sul fascismo come esperienza complessiva: tendenza che è databile dai primi anni sessanta e ha risvolti di massa.
Volendo tentare un bilancio complessivo dei contributi storiografici su questo periodo — e mantenendomi rigorosamente all’interno dello spazio definito dalla mia relazione, che è quello di cogliere alcune linee generali, per lasciare alle successive più specifiche relazioni l’approfondimento di problemi e aspetti che pure in questa letteratura complessiva sono presenti — a me pare si possa dire che vi è un dato comune: il privilegia- mento dell’attenzione alle scelte dei gruppi dirigenti, indipendentemente dal giudizio che sul loro operato viene formulato nelle diverse linee interpretative. Farò degli esempi. Il nucleo più consistente dei contributi sul quinquennio è riconducibile a un’area radi- cal-socialista, tutt’altro che unificata al proprio interno ma che è portatrice di una linea interpretativa molto precisa, i cui elementi essenziali sono sintetizzabili in questi termini: il vecchio stato vince contro le illusioni ri
formatrici; la De con l’appoggio determinante della Chiesa diventa il nuovo strumento politico garante del vecchio ordine borghese; le conquiste democratiche sono deboli, precarie e contraddittorie; la politica della sinistra, ed in particolare quella del Pei, è subalterna sul terreno della politica economica, vaga, generica o inesistente su quello della riforma dello Stato, dettata da un realismo e da una moderazione che vengono ‘punite’ con la fine del tripartito che segna la liquidazione dell’ultimo intralcio alla libera decisione e iniziativa delle classi dominanti. Il giudizio formulato da Foa può sintetizzare questa linea interpretativa: “La sconfitta delle sinistre fu essenzialmente sul problema della democrazia, con le sue implicazioni sociali. Il capitale comprese che non si potevano fare concessioni democratiche senza aprire un imprevedibile processo di pressione operaia sulle strutture portanti del sistema... Il vero baratto fu fra la trasformazione democratica dello Stato e l’attuazione della Repubblica”8. Questa linea interpretativa così sinteticamente riassunta ha come punto forte di riferimento l’accoglimento della categoria della continuità come più produttiva di effetti di conoscenza di quella della rottura, soprattutto in rapporto ad alcuni momenti nodali della storia italiana. ‘Continuità’ è inteso da alcuni studiosi, come Quazza, in un significato specifico, cioè come permanenza di una struttura economica e di una gerarchia di comando: tale uso specifico è reso ancora più corposo dall’assunzione della storia dell’Italia unita come punto di osservazione per una valutazione di lungo periodo9. Coerente-
8 C fr. V ittorio Foa, L a ricostruzione capitalistica e la politica delle sinistre, in A a.V v ., Italia 1945-48, c it., rispettivam ente a p. 135 e p. 132.9 “ ... è negare l’evidenza il non am m ettere che la rinuncia di M ussolini ad esercitare qualsiasi azione che incida sulle stru ttu re della econom ia e della società costituisce il pendan t necessario di u n ’alleanza nella quale il vero au to n o m o è chi quella s tru ttu ra con tinua a dom inare, non chi procede a occupare una parte dei posti direttivi, in troducendo m odifiche politiche-istituzionali che hanno conseguenze sul te rreno delle tradizionali lo tte tra i partiti, sulle procedure per giungere alle decisioni di governo, m a non incidono sull’esercizio del ‘com ando’ rea le” (cfr. G uido Q uazza, R esistenza e storia d ’Italia. P roblem i e ipotesi d i ricerca, M ilano, Feltrinelli, 1976, p. 46).
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men te a questo impianto, nel passaggio dal fascismo al postfascismo la continuità opera mettendo “al centro della ricerca storiografica” la “politica del potere economico che antepone a ogni altro l’interesse di classe” 10, senza peraltro separare mai tale analisi dal ruolo della classe operaia e dalle forze politiche antifasciste. Il secondo punto di riferimento della tesi in precedenza richiamata è un giudizio sulla immaturità, inadeguatezza soggettiva delle forze antifasciste a imporre una rottura effettiva con il passato: in questo giudizio un posto particolare è assegnato al Pei, pari al ruolo svolto nello schieramento di sinistra. Quazza è molto attento, nel ricostruire il quadro entro cui avviene la crisi del fascismo e lo sbocco armato della lotta, a evidenziare lo spessore reazionario della realtà da trasformare, l’unità compromissoria dello schieramento antifascista che non favoriva la formazione di un’ideologia propria, capace di superare quella del vecchio regime liberale: tali riferimenti sono fatti contro facili mitizzazioni dello scontro aperto nel 1943 o il ripresentarsi di tesi suggestive ma infondate come quella di potenzialità rivoluzionarie ‘tradite’. In questo quadro di riferimento tuttavia il giudizio sulla politica del Pei è particolarmente severo, in quanto ha contribuito in larga misura a ridare legittimità alle forze tradizionali. La cosiddetta ‘svolta di Salerno’ “viene certo incontro alle esigenze unitarie dello sforzo militare, proprie dei partigiani del Nord. Nello stesso tempo, tuttavia, [-...] riconosce di fatto che la priorità delle esigenze di guerra impone il rinvio dello sfor
zo per costruire in Italia una nuova democrazia e così apre la strada alla vittoria della ‘continuità’ dello Stato monarchico-fascista” 11.
Senza voler formulare un giudizio nel merito di questa linea interpretativa, che ho abbozzato in altra sede a cui mi permetto di rinviare12, nell’economia di queste osservazioni mi sembra si possa dire che questa interpretazione oscilli tra un forte richiamo alla dominanza della ‘struttura’ — che implica un ampliamento della indagine storiografica all’analisi delle forme di organizzazione del potere, che non può però essere solo quello economico — e un’attenzione critica delle forze politiche, risolte però più angustamente nella linea da esse formulata, nelle scelte dei gruppi dirigenti, quasi che la organizzazione delle forze politiche possa essere considerata separatamente dalla ‘struttura’ che pure si considera dominante. Tale divaricazione mi sembra si possa cogliere molto bene in un saggio importante di Pavone sulla continuità dello Stato13. Il ruolo, giustamente sottolineato, dello Stato-apparato nell’orga- nizzare e controllare le masse, svolto dall’Unità al fascismo, non può non essere riproblematizzato una volta che, nel secondo dopoguerra, tale compimento viene assolto non voglio dire solo ma anche dai partiti e dai sindacati. Il giudizio di precarietà con cui Pavone tende a definire una situazione con questi caratteri14 è debole e appena l’inizio di un discorso tutto da approfondire.
La ragione di questa oscillazione è a mio avviso tutta ideologica e consiste nella ripro-
10 C fr. G uido Q uazza, Storia del fa sc ism o e storia d ’Ita lia , in Fascism o e società italiana, T o rino , E inaud i, 1973, p. 32.11 C fr. G . Q uazza, L a politica della Resistenza italiana, in S tuart J . W oolf (a cu ra di), Italia 1943-50. L a ricostruzione , c it . , p. 36.12 C fr. Franco De Felice, L a fo rm a z io n e del regime repubblicano, in A a. Vv., L a crisi italiana, a cu ra di L. G raziano e S. T arrow , vol. I, T o rino , E inaudi, 1979, pp . 43 sgg.13 L a con tinuità dello Stato. Is titu zion i e uom in i, in A a.V v., Italia 1945-48, c it., pp . 139 sgg.14 “La con tinu ità del postfascism o rispetto al fascism o e al p refascism o... sa rà d a ta ... dal r ito rno a un sistem a di precario equilibrio fra o rd inam ento am m inistrativo scarsam ente m uta to nelle sue com ponenti fondam entali e restau ra to parlam entarism o” (ivi, p. 147).
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posizione dell’antinomia annosa tra politica ciellenista e politica di partito, che era come è noto un tema caro al Partito d’azione. A parte la questione della fattibilità di un’organizzazione ciellenistica del nuovo Stato, credo vadano accolte le osservazioni di Traniello sull’interna contraddizione della proposta azionista, in quanto una riforma dello Stato fondata sulla costruzione di un sistema di contropoteri germinati dal basso, del tipo ciellenista e consiliare, avrebbe richiesto una forte e dura direzione di tipo giacobino15.
Su questo periodo i contributi di ispirazione comunista sono del tutto assenti: si segnalano i giudizi di Paolo Spriano e di Gastone Manacorda16, espressi però aH’interno di un discorso focalizzato su temi specifici (storia del Pei e il rapporto del movimento operaio, socialista e comunista, con la storia d’Italia). Le osservazioni più interessanti sono negli scritti dei protagonisti, contemporanei allo sviluppo delle vicende del periodo, e nella rivisitazione critica che alcuni dirigenti politici comunisti hanno compiuto delle scelte fatte dal partito comunista nel periodo considerato. Mi riferisco alle riflessioni di Chiaromon- te e soprattutto di Giorgio Amendola, che va più avanti nella revisione critica, individuando nella debolezza storica dell’antifascismo e nella profondità del radicamento del fascismo nella società italiana le ragioni della limitatezza delle conquiste ottenute e della ‘continuità’ dello Stato17. Singolarmente in
questa impostazione, e non in piena sintonia con quanto Amendola aveva sostenuto in altri scritti, la stessa vittoria repubblicana viene minimizzata.
Tra i contributi storiografici di ispirazione cattolica mi limiterò a richiamare quelli forniti da Pietro Scoppola18, non perché siano gli unici ma perché più esplicitamente revisionisti di una linea interpretativa sia della De sia del periodo concluso con la rottura della unità antifascista. Le motivazioni politiche della sua ricerca sono state del resto esplicitamente dichiarate dallo stesso studioso in più occasioni19, ricollegandosi così a quello che è un dato forte e caratterizzante della storiografia italiana, sottolineando al tempo stesso la necessità per la storiografia cattolica di essere maggiormente presente. Do per nota la tesi fondamentale di Scoppola, che è in polemica aperta con l’interpretazione precedentemente richiamata sia rispetto alla categoria della ‘continuità’ sia al giudizio su De Gasperi e la rottura del tripartito. Ho già scritto in altra sede e ribadisco qui di
■concordare con il giudizio di fondo sull’operato di De Gasperi (aver lavorato a un collegamento positivo tra mondo cattolico e giovane democrazia italiana), ma credo anche che la valutazione della ‘proposta politica’ degasperiana non si possa contenere nel quadro di riferimento ricostruito e offerto da Scoppola. Il problema cioè non può essere solo o prevalentemente quello di cogliere la
15 C fr. F rancesco T raniello , S ta to e partiti, in D em ocrazia cristiana e costituente nella società italiana del dopoguerra. B ilancio storiografico e p rospettive d i ricerca, R om a, E d. C inque Lune, 1978, p. 548.16 C fr. P ao lo Spriano, Storia del p a rtito com unista italiano, vol. V ., L a Resistenza, Togliatti e il p a rtito n u o vo , T o rino, E inaudi, 1975; Idem , Sulla rivoluzione italiana. Socialisti e com unisti nella storia d ’Italia, T o rino , E inaudi, 1978; G astone M anacorda, I l socialism o nella storia d ’Italia, Bari, L aterza , 1966, il cap. V ili , Dalla Resistenza alla costituzione repubblicana (1943-47).17 C fr. G erardo C hiarom onte, R ifo rm e d i s tru ttura e direzione politica del paese, in “ Q uaderni di critica m arx ista” , 1972, n. 5; G iorgio A m endola, L a "con tin u ità ” dello S ta to e i lim iti storici d e ll’antifascism o italiano, in “ Q uaderni di critica m arxista” , n. 7; U 1943. L e origini della rivoluzione antifascista.18 C fr. L a p roposta politica d i D e Gasperi, B ologna, Il M ulino , 1977.19 C fr. l ’in terv ista rilasciata a D om enico Sassoli in “ Il P o p o lo ” , 26 m aggio 1977 e le osservazioni con tenu te nel suo lavoro più recente, P ietro Scoppola, Gli anni della C ostituente f r a politica e storia, B ologna, Il M ulino , 1980.
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divaricazione tra lo spessore reazionario del mondo cattolico uscito dal fascismo20 e la proposta politica degasperiana per misurare nella permanente tensione tra questi due elementi sia l’importanza per la democrazia italiana del successo di quella proposta sia i pesanti condizionamenti a cui fu sottoposta. Vi sono per lo meno due questioni che andrebbero sviluppate. La prima è relativa al modo in cui la proposta politica di De Gasperi opera sullo strumento politico che viene creato: in che misura, cioè, dopo l’accettazione della De come canale di mediazione politica, cambia di segno l’unità dei cattolici, diventa un condizionamento dello spazio di manovra e di iniziativa politica per la De? È un interrogativo questo sollevato anche da Ardigò nel suo intervento al seminario di Firenze: “ ...oggi sono abbastanza vicino alla linea dell’amico Scoppola, per capire la superiorità politica, non ideologica, della strategia di De Gasperi e il merito del suo successo tra il ’47 e il ’51. Ma è stato un successo politico riduttivo delle notevoli potenzialità allora esistenti, pur con rischi corporativi, per il rinnovamento delle istituzioni statali”21. Che cosa diventa questo partito: un canale di mediazione politica o di rappresentanza? Scoppola sviluppa delle osservazioni su questa questione22, ma esse hanno un rilievo secondario nell’economia del discorso. La seconda questione è ancora più ampia: l’eredità del fascismo non può limitarsi all’intreccio tra mondo cattolico e fascismo, è ben più complessa — cosa che del resto Scoppola sa benissimo — e investe la realtà statuale così co
me si è venuta configurando in tutto l’occidente capitalistico tra gli anni venti e gli anni trenta. È in rapporto a questa problematica che la ‘proposta politica’ va commisurata. Se è così, allora il giudizio stesso sulla proposta degasperiana va sfumato, ne vanno evidenziate le contraddizioni interne, e soprattutto la valutazione sulle ragioni della crisi del tripartito non può essere quella avanzata da Scoppola. Certo i limiti delle sinistre sono abbastanza acquisiti, ma questo non può modificare i dati del problema connesso alla fine del tripartito: questo era una prima esperienza di unificazione delle masse, a sanzione della rottura democratica del 1945. Tale processo per tenere e svilupparsi doveva investire l’organizzazione della società, il funzionamento degli apparati, le forme dell’accumulazione, in definitiva la gestione dello sviluppo che — almeno a partire dagli anni trenta — è il terreno fondamentale dello scontro sociale e della conquista del consenso. I limiti delle sinistre non possono mutare né l’oggetto della differenziazione né il significato generale della scelta che De Gasperi allora compì: la divisione aperta allora va ben oltre le dimensioni di una crisi di governo, accelera la dinamica di un modello di sviluppo distorto e contraddittorio, innesta deformazioni gravi nel funzionamento degli apparati statali23.
Se confrontiamo queste linee interpretative rapidamente richiamate è possibile rintracciare, al di là delle valutazioni profondamente contrastanti, singolari punti di con-
20 È però tu t t ’a ltro che irrilevante e secondario aver sgom brato il terreno da ogni ten tazione di recuperare una vocazione dem ocratica al m ondo cattolico nel suo com plesso.21 C fr. l ’intervento di A . A rdigò al Sem inario di Firenze del 1977 o ra in L ’Italia negli u ltim i tre n t’anni, c it . , p . 240. Si tengano presenti anche le osservazioni di G iovanni M iccoli, Chiesa e società civile, in L ’Italia contem poranea (1945-1975), T o rino , E inaudi, 1976, p. 228 e pp. 241-42.22 C fr. P . Scoppola, Gli anni della C ostituente, c it., pp. 146-49.23 U na ricostruzione am pia ed a tten ta del significato e delle conseguenze della ro ttu ra del tr ip a rtito nel 1947 è consegnata nel volum e di M ariuccia Salvati, S ta to e industria nella ricostruzione. A lle origini dei p o tere dem ocristiano (1944-48), M ilano, Feltrinelli, 1982, pp . 179 sgg. e so p ra ttu tto la parte terza.
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vergenza. Il primo è dato dal comune riconoscimento della necessità di inserire l’analisi del periodo considerato nel quadro più ampio della esperienza storica precedente. Il modo in cui questo passato opera è ovviamente diverso nelle due interpretazioni, come si è accennato, tuttavia si può dire — e cercherò di argomentarlo più avanti — che il rapporto con il fascismo porta con sé problemi più ricchi di elementi e più complessi di quelli presenti nelle due interpretazioni tali da metterne in discussione l’adeguatezza dell’approccio. Il secondo elemento comune è più difficile da cogliere, in quanto si presenta strettamente intrecciato a una tematica corposa, ma pure esiste. Nella linea interpretativa che privilegia la continuità è presente, strutturalmente connessa al discorso, l’attenzione a fenomeni, tendenze, spinte che mettono in discussione il privilegiamento del- l’etico-politico recuperando l’importanza e il significato della spinta dal basso e il ruolo del ‘sociale’. Una formulazione limpida l’ha fornita Quazza nel suo intervento al convegno di Firenze del 1977, riferendosi non solo al quinquennio 1943-48 ma anche al periodo successivo. “Vogliamo ridurre il nuovo dell’Italia repubblicana alla rinascita dei partiti? Vogliamo dimenticare che, se il problema di una democrazia, quale si vuole sia la repubblica italiana, è un problema di rapporto diverso tra governanti e governati, quindi, anche, tra partiti e masse, l’elemento dirompente nella storia dell’Italia repubblicana, per quanto non radicalmente separabile dalle scelte politiche, affonda nelle scelte del potere economico e acquista forza e significato soprattutto nel sociale e dal sociale? Che cosa può capire, chi guardi al politico soltanto, ai partiti (e spesso neppure ai sindacati!) del
cambiamento dell’Italia dopo il ’50, quando la ‘modernizzazione’... ha coinvolto quindici milioni di persone, dal Sud al Nord, dalla campagna alla città, dall’analfabetismo alla scuola, dalla cultura contadina alla cultura industriale, e ha inserito di prepotenza l’Italia nel mercato mondiale?”24. Di contro Scoppola, al di là di affermazioni e riconoscimenti metodologici sulla necessità di tener presente la pluralità di elementi che contribuiscono alla costruzione del processo storico25, compie di fatto un recupero e una difesa rigida della storia politica, intesa però in accezioni non uniformi. Nella precisazione compiuta subito dopo l’intervento di Quazza al convegno di Firenze usa ‘storia politica’ come equivalente di sintesi: “Quando dico ‘storia politica’... intendo porre l’accento su una visione di insieme, su un momento di sintesi, di tutti gli elementi della realtà”26.
Più avanti nello stesso convegno replicando agli interventi nel dibattito sposta l’accento: dopo aver ribadito di non voler riproporre i vecchi modelli di una storia di élites, di una storia fatta solo dai grandi uomini, aggiunge: “Ma dobbiamo, io credo, renderci conto che esiste anche un momento di sintesi politica e che ci sono uomini che lasciano un segno più di altri. La storia è fatta di molti fattori e mi sembra giusto, dopo che tanto si è insistito sulla storia sociale ed economica, tornare a sottolineare l’importanza decisiva della storia politica”27. La divaricazione tra Quazza e Scoppola, al di là di riconoscimenti di rito, è netta e forte: pure paradossalmente c’è un punto in comune, ed è, a mio avviso, nella concezione del ‘politico’. Quello che Quazza rifiuta non è qualitativamente diverso da quello accettato e difeso da Scoppola: ciò è certo una spia significativa dell’inade-
24 C fr. L ’Italia negli ultim i tre n t’anni, c it., p. 50.25 Iv i , p. 55.26 Ivi.27 I v i , p. 89.
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guatezza euristica dell’etico-politico rispetto alla complessità della realtà contemporanea, ma occorre anche dire che negli studi sull’Italia repubblicana l’etico-politico ha avuto un’applicazione più ristretta di quanto è possibile rilevare nei contributi più signficativi della storiografia italiana di questo secondo dopoguerra.
Le osservazioni di Quazza in precedenza ricordate sono ineccepibili come sottolineatura di una forma di approccio ai problemi dell’Italia repubblicana: non è possibile nessun giudizio senza elementi di conoscenza su di un periodo che ha visto trasformazioni profonde, rapide, convulse. Nel discorso di Quazza tale richiamo, lo si è accennato, è inserito in un quadro di riferimento che tende a rovesciare l’impianto etico-politico prevalente negli studi storiografici, aprendo una polarità tra politico e sociale che è tutta da ricomporre28.
Pur nella peculiarità della sua formulazione la tesi accennata è uno dei canali attraverso cui tende a diffondersi in Italia un indirizzo più generale della ricerca storica, che in termini approssimativi può riassumersi nella definizione generale di storia sociale. Non mi sembra che relativamente al periodo che ci interessa — l’Italia repubblicana — tali ricerche abbiano prodotto risultati di rilievo, tranne che per il pe
riodo di passaggio dalla Resistenza alla repubblica.
I contributi più rilevanti vengono da discipline non storiografiche: basterà solo accennare al saggio sulle classi sociali in Italia di Sylos Labini29. L’amplissima eco e il corrispondente dibattito che il lavoro ha sollevato30 documenta, se ce ne fosse bisogno, a quale domanda di conoscenza tendeva a fornire una risposta, pur con i limiti ad essa connessi.
Non è possibile in questa sede aprire un discorso sulla diffusione della storia sociale in Italia, sui caratteri che essa presenta, sui filoni culturali diversi che in essa confluiscono e conseguentemente sulla molteplicità di significati che ‘storia sociale’ può assumere. Vorrei però fare due osservazioni: una più generale sul fenomeno; la seconda più specifica, relativa alla difficoltà di estensione di questo approccio storiografico alla esperienza contemporanea e più particolarmente alla analisi dell’Italia repubblicana. Dando per scontata la positività e ricchezza dei risultati acquisiti là dove ricerche reali di storia sociale hanno operato, pure è da osservare che questa tendenza non è riducibile a un arricchimento metodologico. È un fenomeno di acculturazione e sprovincializzazione ma anche, indipendentemente dal grado di consapevolezza degli studiosi, una rimessa in discussione dei
28 Su questo pun to al Sem inario di Firenze il d ibattito è sta to vivace, con alcune osservazioni m olto pun tuali (mi riferisco all’in tervento di B arzanti: cfr. L ’Italia negli u ltim i tre n t’anni, c it., pp . 75 sgg.) e si possono cogliere tracce della polem ica accesa che ha accom pagnato la pubblicazione di alcuni volum i che han n o o ffe rto u n a verifica analitica di questa linea sostenu ta da Q uazza: mi riferisco agli studi di L iliana L anzardo , Classe operaia e p a rtito com unista alla F IA T . L a strategia della collaborazione, T orino , E inaudi, 1977; al volum e collettaneo Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-44, M ilano, Feltrinelli, 1974; a lla ricerca di F . Levi, P . R ugafiori e G. V ento, I l triangolo industriale tra ricostruzione e lo tta d i classe, 1945-48, M ilano, Feltrinelli, 1974. Si tra t ta na tu ra lm ente solo di esem plificazioni, a cui andrebbero aggiunti num erosi saggi e relazioni a convegni, d ibattiti, recensioni, rassegne.29 Saggio sulle classi sociali, B ari, Laterza, 1974.30 Gli interventi più significativi, unitam ente a con tribu ti na ti indipendentem ente dal saggio di Sylos L ab in i, sono raccolti nel volum e L a sociologia delle classi in Italia, a cu ra di G. R agone e Cecilia Scrocca, N apoli, L iguori, 1978. M a è un reading che dà solo u n ’idea approssim ativa dell’am piezza del m ateriale p ro d o tto : occorrerebbe tener p resente, oltre ai con tribu ti di M assim o P aci, C orrado B arberis, L a società italiana. Classi e caste nello sv iluppo econom ico , M ilano, Angeli, 1976; Filippo B arbano , S tru ttu re e classi sociali in Italia. Gli S tu d i e le ricerche, T o rino , G iappichelli, 1975; P ao lo A m m assari, Classi e ceti nella società italiana. S tu d i e ricerche, T o rino , S tudi e ricerche della F ondazione, 1977.
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dati costitutivi della storiografia italiana; è il segno di una deideologizzazione della ricerca storica (quando non diventa canale per la costruzione di nuove forme di ideologie) e una critica del modo in cui è avvenuta nel rinnovamento storiografico del secondo dopoguerra la riproposizione dell’etico-politico; esprime problemi propri di una società via via più articolata e domanda una specificazione del ‘politico’ che, nei moderni stati di massa non ha più le forme limpide e nette di rappresentanza generale proprie dello Stato liberale; al tempo stesso implica un’ipotesi di riorganizzazione degli intellettuali in cui il rapporto specialismo-politica è tutto squilibrato a vantaggio del primo termine, operando per tale via un riaccorpamento corporativo di ceto più solido del passato. Infatti la crescente ricchezza e raffinatezza degli strumenti di indagine elaborati dalla storia sociale (dalla demografia alla storia urbana, dall’antropologia alla psicologia sociale) nello sforzo stesso di aderire e penetrare le molteplici pieghe del reale rischia di disperdere la possibilità stessa di una sua conoscenza complessiva.
Accanto a queste osservazioni generali, che si limitano a evidenziare l’ambivalenza del fenomeno, vorrei aggiungere un’osservazione più specifica che mi riporta ai problemi trattati in questa introduzione. Se è vero che è sempre più diffusa la consapevolezza della inadeguatezza della storia politica per comprendere i processi di trasformazione, è anche vero che nell’età contemporanea le modificazioni sociali sono sempre più mediate e dirette politicamente: ciò rende impossibile a mio avviso una storia del ‘sociale’ contrapposta o avulsa dal modo in cui le forme politiche ed istituzionali hanno contribuito a formarlo. Non è sufficiente rispondere che nell’analisi occorre tener pre
senti tutti gli elementi e ricostruire i vari rapporti tra di essi: è un’esigenza metodologicamente corretta, ma che elude il problema della forma specifica di conoscenza propria a una storiografia della trasformazione (anche su questi termini bisognerebbe discutere: trasformazione non è la stessa cosa di mutamento né di modernizzazione). Credo che questo sia un nodo reale su cui si incontrano i problemi e le strozzature della ricerca storica in precedenza richiamate.
Contributi analitici importanti sono forniti da studi antropologici che, relativamente al Mezzogiorno nel dopoguerra, studiano il modo in cui va avanti un processo di modernizzazione all’interno di un contesto culturale arretrato31.
A questo punto, per rendere più proficuo il discorso che sto cercando di sviluppare, è opportuno isolare brevemente gli elementi emersi fino a questo momento: una storiografia etico-politica che si dimostra inadeguata a fornire risposte complessive soddisfacenti; una ricchezza di conoscenze storiche fornite da discipline non storiografiche; la diffusione della storia sociale che non solo è carica di una polarità antagonista con l’eti- co-politico ma lascia senza risposta i problemi specifici della conoscenza della società contemporanea. Sono elementi che documentano tutti il grande travaglio che investe la ricerca storiografica e l’esistenza di mutamenti culturali di grande portata che si possono solo segnalare. Il problema che si pone è cercare di spiegare, sia pure per grandi linee, le ragioni di questo travaglio e dei mutamenti culturali in atto, il modo in cui si ripropone o può riproporsi una storiografia delle élites, i problemi di ricerca, di fonti, di organizzazione del lavoro che a tali mutamenti sono connessi.
31 C fr. G abriella G ribaudi, M ediatori. A n tropo log ia del p o tere dem ocristiano nel M ezzog iorno , T o rino , R osenberg e Sellier. 1980.
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Credo che alla radice di questo processo, che è di ampio respiro e di lunga durata, sia la questione del fascismo, delle trasformazioni irreversibili che il paese ha subito nel corso di questa esperienza, dei problemi aperti che il fascismo lascia alla democrazia repubblicana. È certo questo il contributo generale più ricco della storiografia della ‘continuità’, una volta liberata dai suoi aspetti più immediatamente polemici e di schieramento politico-ideologico: considerare la storia dell’Italia repubblicana all’interno e in rapporto alla ristrutturazione dello Stato contemporaneo, per lo meno a partire dalla fine della prima guerra mondiale. Questa è un’impostazione produttiva di risultati: si incontra l’intero dibattito storiografico sul fascismo come si è sviluppato e anche profondamente cambiato a partire dagli anni sessanta; si incontra la questione del tipo di ‘conoscenza’ che del fascismo avevano i gruppi dirigenti dell’antifascismo e che hanno svolto un ruolo costituente nella fondazione della repubblica; si incontra infine la radice del mutamento del ruolo strategico della storiografia e specificamente della storiografia etico-politica nell’accezione in precedenza richiamata. Non è possibile evidentemente dare conto e discutere di tutti questi aspetti: mi limiterò a richiamare alcuni punti nodali, i risultati acquisiti dalla ricerca storiografica italiana e non sulle trasformazioni dello Stato capitalistico tra le due guerre e le conseguenze che ne derivano nell’analisi dell’Italia repubblicana.
Si può assumere come punto di partenza un giudizio di Pavone che a me pare molto importante anche nella duplicità di elementi che porta con sé: “ ...l’Italia, paese del fascio primogenito, e che avrebbe dovuto in conseguenza essere particolarmente sensibile a lb erisi del sistema rappresentativo parlamenta
re come problema generale posto dal capitalismo, fu invece di fatto portata ad accontentarsi, in larga parte, proprio di una restaurazione del sistema politico battuto dal fascismo, perché quella sconfitta era ormai lontana e i vincitori del ’22 si erano trasformati in vinti screditati e odiati”32. Il primo elemento è un giudizio sulla crisi della rappresentanza politica come tendenza generale del capitalismo internazionale, per lo meno a partire dalla prima guerra mondiale (ma il problema affiora prima), a cui il fascismo risponde con il corporativismo, problema che passa tutto aperto all’Italia postfascista; il secondo elemento è relativo al grado di consapevolezza che di questo giudizio avevano le forze antifasciste e il tipo di risposta da esse fornito: sarebbero prevalse le tendenze restauratrici delle istituzioni liberaldemocratiche prefasciste o, in termini ancora più precisi con riferimento ad un’osservazione di Carocci fatta propria da Pavone, “Una ‘restaurazione’ peraltro non già del sistema giolittiano bensì — come ha precisato Carocci — della ‘situazione che era emersa in Italia dopo il biennio rosso del 1919-1920’, rafforzata dalla esperienza resistenziale e da spinte democratiche agganciabili ad alcune parti della nuova costituzione, e depurata infine — aggiungerei — dall’equivoco di un partito cattolico progressista”33. Lasciando da parte per ora questo aspetto del giudizio di Pavone, credo vada sottolineato che esso individua corretta- mente una tendenza fondamentale che ha interessato l’intero mondo capitalistico tra le due guerre, ha trasformato profondamente le grandi democrazie occidentali dalPinterno senza metterne in discussione la forma politica: trasformazione che si accelera e tende a farsi più definita ed anche più consapevole intorno allo snodo storico della grande crisi. Ricerche storiche ormai numerose convergo
32 L a con tinuità dello S ta to , c it., p . 165.33 Iv i , p. 147.
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no tutte a sottolineare che la fisionomia del moderno Stato contemporaneo, come si configura dopo la grande guerra e soprattutto dopo la crisi del 1929, cambia profondamente e che la stessa comprensione di questo cambiamento richiede l’adozione di categorie analitiche più complesse. Basta appena accennare ai contributi di Rusconi su Weimar34, di Maier su Italia, Francia e Germania35, di Midlemass sull’Inghilterra36, di Hawley sugli Usa di F.D. Roosevelt37. Tendenze di fondo analoghe, anche se operanti in un contesto politico profondamente diverso, sono registrate dagli studi sulle esperienze fasciste: si pensi ai contributi di Neumann e Th. Mason e il dibattito sul totalitarismo in Germania38 e gli studi sul fascismo italiano39. Lo stesso dato, ormai comunemente accettato, della progressiva estensione della spesa pubblica in funzione di regolamentazione del ciclo (modificazione del rapporto Stato-mercato) non segnala solo un’accentuazione del ruolo della politica economica, cioè dell’erogazione di risorse pubbliche come volano essenziale della riproduzione, ma anche un’altra tendenza inscindibilmente ad essa connessa e da essa sollecitata: l’aggregazione di interessi organizzati che selezionano la domanda delle risorse pubbliche e che intervengono sulla loro distribuzione.
È appena il caso di ricordare in questa sede
che Schumpeter aveva lucidamente colto il significato di questo processo rimettendo in discussione la validità e congruità della teoria della ‘sovranità popolare’, fondativa del filone democratico di tutto il pensiero politico occidentale, e riducendo conseguentemente la democrazia a procedura, alla definizione delle regole del gioco40. Più recentemente uno studioso americano, in un volume per più aspetti discutibile, riformulava un giudizio su questi processi individuando nello ‘Stato in appalto’ la forma politica prevalente della organizzazione del potere e del consenso nella società capitalistica all’uscita dalla grande crisi41.
È evidente che ciascun elemento in precedenza rapidamente richiamato andrebbe sottoposto ad analisi e discussione specifica, ma nell’economia di questa introduzione se si accetta, come io faccio, questa linea interpretativa, il modo stesso di avvicinarsi ai problemi dell’Italia repubblicana cambia compieta- mente. Risulta anzitutto più chiaro perché un approccio storiografico etico-politico risulti inadeguato, in quanto o coglie aspetti marginali dei processi o individua il momento terminale di mediazioni progressive, che vanno tutte ripercorse a ritroso, ricostruendone volta a volta le tappe e i protagonisti. Non si tratta solo di questa constatazione: in rapporto alla registrazione delle modificazioni della struttura e organizzazione della so-
34 L a crisi d i W eimar, T o rino , E inaudi, 1977.35 L a rifondazione d e ll’E uropa borghese, Bari, De D onato , 1979.36 Politcs in Industria i Society, L ondon , A ndré D eutsch, 1979.37 II N ew D eal e il prob lem a del m onopo lio , Bari, De D onato , 1982.38 C fr. F ranz N eum ann, B ehem oth , M ilano, Feltrinelli, 1977; T im othy M ason, L a politica sociale de l Terzo R eich , Bari, De D onato , 1980. U na m essa a p un to del d ib a ttito sul to talitarism o in G erm ania si ha nell’In troduzione di G iacom o M arram ao a S. Sohn-R ethel, E conom ia e s tru ttura d i classe del fa sc ism o tedesco, Bari, D e D onato , 1978.39 Si vedano, oltre ai volum i di R. De Felice, A lberto A quarone, L ’organizzazione dello s ta to totalitario, T o rino , E inaudi, 1965; A lberto A quarone, M. V ernassa, I l regime fasc ista , B ologna, Il M ulino, 1974; dove, nell’in troduz io ne alla racco lta di saggi viene sollevato il prob lem a dell’applicabilità della categoria di ‘to ta lita rism o ’ a ll’esperienza fascista italiana; A A .V V ., Fascism o e società italiana, cit.40 C apitalism o e socialism o, c it., pp. 257 sgg.41 A . W olfe, I con fin i della legittim azione. L e contraddizioni po litiche del capitalism o contem poraneo, Bari, De D onato , 1981.
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cietà e dello Stato dopo la prima guerra mondiale, la stessa definizione di élites, e anche una storiografia di esse, può riproporsi in termini nuovi rispetto alla formulazione originaria. L’attenzione si focalizza sui settori organizzati degli interessi, sul modo in cui tale organizzazione è avvenuta, su chi ne è rimasto escluso; sul rapporto orizzontale di correlazione o scontro con altri settori organizzati della società e il rapporto verticale con l’apparato amministrativo e politico, individuando le sedi, formali e più spesso informali in cui questi rapporti vengono svolti, le scelte compiute ecc. È un approccio che permette di recuperare la democrazia — la moltiplicazione di forme organizzate di interessi è un elemento di democrazia —, una dinamica processuale, in quanto il processo di organizzazione non è mai definito una volta per tutte; un rapporto con l’organizzazione e la decisione politica che ha un grado di complessità enormemente maggiore di quanto una storiografia dei gruppi dirigenti può prospettare. La teoria del pluralismo corporati- sta e le applicazioni analitiche che ne sono state tentate42 ha questo retroterra e costituisce una proposta molto solida e aderente a tendenze reali della società contemporanea con cui occorre confrontarsi concretamente.
La letteratura italiana, soprattutto negli anni settanta, si è arricchita di notevoli contributi in questa direzione: dagli studi sulla amministrazione pubblica43 a quelli sul nesso burocrazia e politica44; dall’analisi del settore pubblico dell’economia come centro di decisione e di potere45 a quella del rapporto tra gruppi di pressione, clientelismo, sottogoverno e partiti46 fino al dibattito, di grande rilievo, sui caratteri del movimento sindacale italiano, sul mutamento di ruolo in rapporto ai partiti e alla politica economica47.
Pur accogliendo, come credo sia corretto fare, la forza di questa proposta analitica, come individuazione dei problemi reali e aperti che accompagnano il passaggio dal fascismo al postfascismo, c’è però un punto essenziale che va richiamato senza il quale l’intelligenza delle vicende dell’Italia repubblicana è viziata: mi riferisco alla costituzione dei partiti di massa come tratto distintivo della democrazia postfascista. A differenza di Quazza ritengo che essi costituiscano un elemento di novità anche rispetto alla troppo rapida esperienza compiuta nell’immediato primo dopoguerra: le osservazioni molto acute sviluppate da Ruffilli e Pasquino credo siano da accogliersi compiutamente48. La registrazione di questa novità impedisce di
42 U na utile m essa a pun to dei term ini del d ibattito in ternazionale è il volum e L a società neo-corporativa , a cura di M. M araffi, Bologna, Il M ulino, 1981.43 C fr. Sabino Cassese, L ’am m inistrazione pubblica in Italia, Bologna, Il M ulino , 1974.44 C fr. la sintesi com plessiva, rap ida m a efficace di V alerio C astronovo , E conom ia e classi sociali, in L ’Italia con tem poranea (1945-1975), c it.; R affaele R om anelli, S ta to burocrazia e m o d o d i governo, in A a .V v ., L ’Italia con tem poranea 1945-75, c it.; Franco F erraresi, Burocrazia e politica in Italia , Bologna, Il M ulino, 1980.45 P ie tro Barcellona, S ta to e m ercato, B ari, D e D onato , 1976; A n ton io M utti-P ao lo Segatti, L a borghesia d i S tato. Stru ttura e fu n z io n i d e ll’im presa pubblica in Italia , M ilano, M azzotta, 1977; Eugenio Scalfari-Sergio T urone, R azza padrona , M ilano, Feltrinelli, 1974.46 E . C azzola, P artiti e so ttogoverno: no te su l sistem a po litico italiano, in “ R assegna ita liana di socio logia” , 1974; Clientelism o e m u tam en to po litico , a cura di L . G raziano , M ilano, A ngeli, 1974; Joseph La P a lom bara , Clientela e parentela. S tudio su i gruppi d i interesse in Italia, M ilano, C om unità , 1974; A lessandro P izzorno , I ceti m edi nel m eccanism o del consenso, in A a.V v., I l caso italiano, M ilano, G arzan ti, 1974.47 La le tte ra tu ra su questo tem a è ricchissima: qui basterà ricordare i saggi im portan ti di A lessandro P izzorno , I s in dacati nel sistem a po litico italiano, in “ Rivista trim estrale di d iritto pubblico” , 1971; di V ittorio Foa, Sindacati e classe operaia, in L ’Italia contem poranea, c it.; B runo T ren tin , D a s fru tta ti a p ro d u tto r i, B ari, De D onato , 1977.48 C fr. L ’Italia negli u ltim i tre n t’anni, cit., rispettivam ente pp. 81-82 e pp . 293 sgg.
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considerare la democrazia repubblicana una restaurazione di istituti liberaldemocratici, sia pure con una base di massa più ampia, come sostengono sia Pavone che Carocci. Non c’è dubbio che questa ipotesi era presente tra settori non marginali dello schieramento culturale e politico antifascista49, è continuamente presente nel dibattito storiografi- co50 e anche più strettamente giuridico sulla costituente. È certo vero, come è stato osservato, che De Gasperi è portatore di una lettura della democrazia più come “restaurazione di certi istituti formali della democrazia di tipo liberale così come funzionavano prima della rottura che portò al fascismo” che “come una realtà nuova in cui si doveva coniugare un contenuto sociale... e certe urgenze di rinnovamento istituzionale”51; non va nemmeno dimenticato che autentici padri fondatori della Costituzione italiana, come Piero Calamandrei, davano del fascismo un giudizio non solo fortemente venato da moralismo ma segnato da una vera e propria incomprensione del significato di scelte istituzionali (per esempio la costituzionalizzazione del Gran Consiglio del fascismo che sanciva la simbiosi partito-Stato) confondendo la forma specifica con il problema generale di cui essa era la spia52. Sono, quelli qui rapidamente richiamati, riferimenti non esaustivi delle pluralità di forme in cui quel giudizio di Pavone si ripresenta ma sufficienti credo a documentare l’ampiezza di consensi, diversamente motivati, che sostiene quel giudizio. Una messa a punto estremamente lucida del
le ragioni forti della permanenza di questa lettura del postfascismo, ma anche della sua difficoltà a interpretarlo compiutamente, può trovarsi nelle osservazioni di Ruffilli sui due modelli di organizzazione del potere per cambiare la società (giacobino e liberaldemo- cratico) presenti ai tre grandi filoni culturali dell’Italia degli anni quaranta (cattolico, liberale e d’ispirazione marxista)53.
Se dunque questi elementi sono presenti e operanti, non implicano però né una marginalizzazione della novità dei partiti di massa né, conseguentemente, la possibilità di riproduzione, magari su basi più allargate, del modello dell’alternanza proprio del sistema liberal democratico. Cosa significa infatti ‘di massa’, o almeno cosa ha significato nell’esperienza italiana? Il dato quantitativo è certo importante ma solo in quanto spia di un 'fenomeno più profondo e significativo. È appena il caso di ricordare, in questa mia relazione e in questo seminario, che la riflessione sul partito politico è estremamente ricca ed ha fornito, accanto ai contributi classici di Ostrogorski, Weber e Michels, una tipologia molto sofisticata, dal modello di democrazia partitica a quello razionale-efficiente fino al partito ‘pigliatutto’ — per citare solo i riferimenti più noti54. In rapporto a questa riflessione internazionale si è venuto sviluppando un robusto filone italiano che unitamente alla messa in circolazione di tale tematica nella cultura italiana fornisce anche linee interpretative dell’esperienza politica della de-
49 C fr. al sem inario di Firenze il d ibattito tra M atteucci, A rdigò e Scoppola (L ’Italia negli u ltim i tre n ta n n i, c it., pp. 254 sgg.; pp. 263 sgg.; pp. 277-80).50 P . Scoppola, G li ann i della C o stituen te , cit.51 In tervento di B arzanti nel sem inario di Firenze: c fr. L ’Italia negli u ltim i tre n t’ann i, c it., p . 75.52 C fr. P iero C alam andrei, L a fu n z io n e parlam entare so tto il fa sc ism o , in A. A quarone, M . V ernassa, l i regime fasc is ta , cit.53 C fr. L ’Italia negli u ltim i tre n t’anni, c it., pp . 260 sgg.54 U na m essa a pun to dei term ini in ternazionali del d ibattito sono in Sociologia dei p a rtiti politic i. L e trasform azion i nelle dem ocrazie rappresentative, a cu ra di G . Sivini, B ologna, II M ulino , 1979.
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mocrazia repubblicana55. Senza voler entrare nel merito di questi contributi — sarà compito delle altre relazioni — a me preme sottolineare, in rapporto al partito di massa, alcuni elementi che mi sembrano importanti. Il carattere di massa del partito sta nel suo essere saldamente insediato e ramificato nelle giunture essenziali della società civile, tendendo a organizzare direttamente o a porsi come espressione politica di interi settori sociali. Il partito di massa cioè è un vero e proprio blocco sociale. Quando Scoppola ripropone l’interclassismo come denominatore comune delle forze politiche contemporanee sulla base della constatazione che in uno Stato di massa l’azione di governo e l’azione politica non possono che esprimere un blocco largo e articolato, formato da classi e ceti sociali diversi56, individua una tendenza con cui non si può non concordare, con l’aggiunta però di alcune precisazioni che ne rovesciano il significato. Anzitutto non può confondersi la individuazione di una tendenza dei moderni partiti di massa con il significato e il ruolo specifico che l’interclassismo ha svolto nello sviluppo della De; in secondo luogo la fungibilità che viene in quel giudizio stabilita tra interclassismo e blocco sociale è possibile solo emarginando un dato che invece è essenziale e contribuisce a dare il segno a quella tendenza comune rilevata: cioè che l’aggregazione di un blocco sociale ha sempre come fondamento un rapporto — dato o da modificare — tra queste classi e ceti sociali diversi con il processo di produzione e di riproduzione. Il partito di massa è portatore di un rapporto tra produzione e politica che passa
attraverso l’organizzazione del sociale. Certo, l’essere di massa dei partiti assume forme diverse (rapporto dirigenti-diretti, processo di formazione della decisione, rapporto tra l’organizzazione-apparato e l’insieme delle forze sociali che tendono a riconoscersi in un partito) che vanno storicamente puntualizzate anche nella loro variazione temporale.
Se il partito di massa è questo qui rapidamente richiamato, allora un elemento fonda- mentale dell’esperienza liberaldemocratica viene meno: l’attività delegata a un gruppo di specialisti e in sedi specificamente deputate a questo compito.
La stessa lotta politica cambia anche carattere e dimensioni, essendo scontro tra blocchi sociali: non si sviluppa solo sull’intero arco dell’organizzazione della società, ma è molto penetrante, intervenendo sul blocco sociale contrapposto per scomporlo. Le osservazioni note di Gramsci sulla guerra di posizione e sulla reciprocità dell’assedio57 forniscono più di un suggerimento in questa direzione e un criterio di analisi dell’intera vicenda italiana postfascista. Una storia dell’Italia repubblicana che assumesse questi soggetti collettivi nella loro specificità di organismi complessi che in forme diverse penetrano il sociale, contribuiscono a plasmarlo e ne sono a loro volta modificati, offrirebbe, di per sé, risultati di grande rilievo e costituirebbe un primo tentativo di superamento della polarizzazione, in precedenza richiamata, tra politico e sociale.
Ma non è tutto. Per restituire alla storia dei partiti di massa la ricchezza problematica che le è propria, occorre fare interagire questo forte elemento di novità con quel dato
55 P artiti e partecipazione politica in Italia , a cura di G . Sivini, M ilano, G iuffrè , 1969; P ao lo F arneti, I l sistem a p o litico italiano, B ologna, Il M ulino, 1975; Franco C azzola, Il sistem a po litico d e ll’Italia contem poranea, T orino , Loescher, 1978.56 C fr. l ’in terv ista c ita ta di Scoppola a “ Il P o p o lo ” il 26 m aggio 1977.57 C fr. A nton io G ram sci, Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V alentino G erra tan a , T orino , E inaudi, 1975,pp. 801-802.
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sinteticamente definito come ‘eredità del fascismo’, cioè con le modificazioni nell’organizzazione dello Stato e della società intervenute tra le due guerre. Il modo di essere di massa di un partito non è separabile dal modo in cui volta a volta intreccia rapporti con gruppi di interesse, settori organizzati, apparati dello Stato; interviene su di essi e ne è condizionato: in che misura funziona come camera di compensazione, di filtro mediatore o come agente di ricomposizione. Gli elementi di conoscenza molto ricchi presenti nei contributi politologici e sociologici possono essere tutti recuperati in una ricostruzione
storica capace di farli interagire con una pluralità di piani, sfumando o risolvendo in specificazione e determinazione quanto di tipi- co-astraente è ancora in questi contributi (riflesso dei caratteri propri dello statuto disciplinare da cui provengono). È un lavoro tut- t ’altro che facile, richiede il concorso di una pluralità di competenze ma è fattibile: senza voler sminuire altri, a me sembra che il recentissimo volume della Salvati58 costituisca il più significativo contributo espresso fino ad ora nella direzione indicata.
Franco De Felice
58 S ta to e industria nella ricostruzione, cit.