121116 CANDELABRO C'E', SPECCHIO C'E', VASO C'E', CENTROTAVOLA PURE. - web-spot.it
LA NAZIONE È IN LA BIBLIOTECA AL PERICOLO?/...
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,V A ITALIA EDrrRICE
LA NAZIONE È IN
PERICOLO?/
CON L'ITALIANO E IL
FRANCESE C'E ANCHE
L'INGLESE/
SCRIVERE I TESTI
UNIVERSITARI /
COME PARLA LA LEGA /
LE FRASI FATTE SCRITTE
DA GADDA/
INTROSPEZIONI
SULL'ITALIANO L2 /
PARLANDO PARLANDO:
VELOCITÀ A CONFRONTO/
ITALIANO ALFANUMERICO:
LA BIBLIOTECA AL
TELEFONO/
ITALIANO GIUDICATO:
LE PRIME GRAMMATICHE
PER GLI INGLESI /
ESPERIMENTI
GRAMMATICALI:
È PASSATO, MA SIGNIFICA
ORA O DOMANI /
PAROLE IN CORSO:
COLPI, PROCESSI E
BARBARI/
LIBRI/
LETTERE/
NOTIZIE I
TORNARE AL 'DI DENTRO'
QUANTE SONO LE
MEMORIE
MNEMOTECNICHE
DISPONIBILI
IOR Periodico bimestrale Anno VIII (1993) Numero 5 novembre-dicembre
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258 I N D I C E
COMMENTI
RAFFAELE SIMONE PER FAVORE SOLO IN ITALIANO! • I COLLABORA TORI DI QUESTO NUMERO
L'ITALIANO TRA SOCIETA E SCUOLA
MARISA CAVALLI MARIA TERESA SERAFINI
RUBRICHE
ALBERTO A. SOBRERO RICCARDO DEGL 1INNOCENTI E MARIA FERRARIS HARRO STAMMERJOHANN MARIA G. LO DUCA AUGUSTA FORCONI
IN QUELLE CLASSI LE LINGUE SONO TRE SCRITTURE UNIVERSITARIE/ 1
PARLANDO PARLANDO: VELOCITÀ DI PAROLA ITALIANO ALFANUMERICO: GUTENBER REPLICA. QUESTA VOLTA DALL 1 ILLINOIS L'ITALIANO GIUDICATO: L'ITALIANO ALLA CORTE INGLESE ESPERIMENTI GRAMMATICALI: PRESENTI E FUTURI IMPERFETTI PAROLE IN CORSO: RITORNI FOSCHI
IL LINGUAGGIO DELLA POLITICA
PAOLA DESIDERI L'ITALIANO DELLA LEGA/1 AUGUSTA FORCONI MENEFREGHISMO
SPECIALE SCUOLA
RAFFAELE SIMONE LA CONOSCENZA CHE VIENE 'DA DENTRO' DARIO CORNO LE MEMORIE POSSIBILI ALESSANDRO PERISSINOTTO 1
ARS MEMORATIVA1
LESSICO DI AUTORE
AUGUSTA FORCONI GUSCI GADDIANI
LI ITALIANO FUORI D
I ITALIA
ANTONIA RUBINO MA CHI HA INVENTATO IL CONGIUNTIVO?
BIBLIOTECA
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DARIO CORNO L'INTELLIGENZA DELLA RETORICA [su GIOVANNI BOTTIROLI, RETORICA. 314
MARIA CATRICALÀ
EMMA CAVALLINI BERNACCHI
LETTERE AL DIRETTORE
NOTIZIE
L'INTELLIGENZA FIGURALE NELL'ARTE E NELLA FILOSOFIA, BOLLATI BORINGHIERI. TORINO 1993] LETTERATURA TRA LINGUA E DIALETTO [ SU ALFREDO STUSSI, 31 5 LINGUA, DIALETTO E LETTERATURA, EINAUDI. TORINO 1993] PERCORSI LESSICALI [ SU SERENA AMBROSO E GIOVANNA 31 6 STEFANCICH, PAROLE, BONACCI, ROMA 1993]
«IL CALDO STAGNO DEL RIFLUSSO»
IL CORSO DELLA GIORGIO CINI
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ITALIANO
OLTRE
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I collaboratori di questo numero Maria Catricalà Ricercatrice all'Università di Siena; Marisa Cavalli Esperta IRRSAE Valle d'Aosta; Emma Cavallini Bernacchi Insegnante di scuola media a Milano; Dario Corno Vicepresidente del Centro di Ricerche Semiotiche dell'Università di Torino, condirettore di «Italiano e oltre»; Riccardo
Degl'lnnocenti Insegnante di scuola media superiore a Genova, ricercatore presso l'Istituto per le Tecnologie didattiche del CNR di Genova; Paola Desideri Ricercatrice all'Università di Urbino; Maria Ferraris Ricercatrice presso l'Istituto per le Tecnologie didattiche del CNR di Genova; Augusta Forconi Lessicografa; redattrice del Vocabolario Treccani; Maria G. Lo Duca Dottore di ricerca in Linguistica; Alessandro Perissinotto Semiologo, collaboratore del
Centro di Ricerche semiotiche dell'Università di Torino; Antonia Rubino Docente del Dipartimento di Italiano presso l'Università di Sidney; Maria Teresa Serafini Coordinatrice dei Laboratori di scrittura in italiano presso l'Università di Torino; Alberto A. Sobrero Professore ordinario di Dialettologia italiana all'Università di Lecce; condirettore di «Italiano e oltre»; Harro Stammerjohann Professore di Linguistica romanza all'Università di Francoforte
AUTORIZZAZIONE DEL TRIBUNALE DI FIRENZE N° 3389 DEL 2/12/1985
Italiano e oltre Rivista bimestrale
Anno VIII (1993), numero 5 novembre-dicembre
Direttore Raffaele Simone
Comitato di direzione Monica Berretta, Daniela Bertocchi, Dario Corno, Wanda D'Addio Colosimo, Alberto A. Sobrero
Redazione Domenico Russo
Direttore responsabile Mattia Nencioni
Progetto grafico CD & V. Firenze (Capaccioli, Denti, Valeri)
Stampa Fratelli Spada Via Lucrezia Romana 00043 - Ciampino/Roma
Direzione e redazione La Nuova Italia, Viale Carso 46, 00195 Roma-Tel. 3729220 Fax 06/3251065
Amministrazione La Nuova Italia, Via Ernesto Codignola, 50018 Casellina di Scandicci, Firenze
Abbonamento biennale(1994/995) per l'Italia: L. 100.000
Abbonamento annuale 1994 Cinque fascicoli all'anno
Italia/Lire 55.000
Un fascicolo L. 14.000
Paesi della Comunità Europea L. 65.000a mezzo assegno bancario o sulconto corrente postale n. 323501intestato a:La Nuova Italia - Firenze
Altri Paesi (spedizione via aerea) $ USA 73
Per l'Australia il versamento di US $ 73 deve essere indirizzato a: CIS Educational, 24 7 Cardigan Street, Carlton (Victoria, Australia 3053)
Per il Canada il versamento di US $ 73 deve essere indirizzato a: The Symposium Press Ldt. P.O. Box 5143, Station «E» Hamilton (Ontario L8S 4L3), Canada
Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 3389 del 2/12/1985
A «Italiano e oltre» si collabora solo su invito della Direzione
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Per favore, solo in italiano!
a qualche settimana gli inte l le tt ual i i taliani sono scossi da una polemica di sapore quasi settecentesco. L'ha lanciata, con forte piglio, un commentatore del «Corriere della Sera», Ernesto Galli della Loggia (24 ottobre 1993), e riguarda, pensate un po', il rapporto tra lingua e nazione.
Molti sono convinti che l'Italia corra il rischio di cessare di essere una nazione (come ricorda anche un bel libro di Gian Enrico Rusconi, pubblicato dal Mulino), e alcuni dubitano addirittura che lo sia mai stata davvero. Galli della Loggia ha cercato le ragioni di questo fatto, e ha trovato, se non quella principale, almeno una importante ragione accessoria. La colpa, lui pensa, è degli intellettuali e delle organizzazioni culturali italiane.
«Come può l'Italia essere una nazione, o diventarlo, o continuare ad esserlo - si domanda Galli della Loggia - se per primi i suoi intellettuali, i suoi professori universitari, le sue case editrici, le sue organizzazioni culturali mostrano di sentire il fattore nazionale, l'insieme di valori e significati che in esso si esprimono come qualcosa di residuale, e alla fin fine di superfluo, se mostrano addirittura di considerare la lingua italiana alla stregua di un optional il cui uso è facoltativo?»
Di questo fatto Galli della Loggia cita alcune illustrazioni, che secondo lui documentano la debolezza e la dipendenza delle istituzioni culturali italiane di fronte alle lingue e alle culture di altri paesi, specialmente gli Stati Uniti. Ad esempio, la
Fondazione Feltrinelli ha pubblicato un grosso volume sulla società ex-sovietica, tutto di autori italiani, ma interamente in inglese. E confronta poi la nostra situazione con quella della Francia, in cui per antica tradizione si combatte la penetrazione dell'inglese e di altre lingue straniere, fino al recente decreto del ministro della cultura, Jean-Pierre Toubon, che stabilisce che i titoli dei film, i nomi dei negozi e dei prodotti commerciali dovranno essere in francese e non in inglese.
«Se sono le stesse organizzazioni culturali italiane che spontaneamente rinunciano ad adoperare la propria lingua - si domanda concludendo Galli della Loggia - quando si tratta di argomenti di interesse o di portata internazionale, chi mai al mondo potrà essere spinto ad apprendere l'italiano, ad averne sia pure un'infarinatura, a meno che per avventura non sia uno specialista di cose specificatamente nostre?»
La discussione lanciata da Galli della Loggia ha suscitato diverse prese di posizione (tutte contrarie, per la verità). Ma non è questo che ci interessa. E' molto importante semmai che una simile polemica abbia avuto tanta presa su intellettuali e scrittori.
Ciò mostra che il ceto intellettuale del paese è ancora sensibile a quelle che una volta si chiamavano «le grandi battaglie civili». Ma confesso che le conclusioni di Galli della Loggia mi sembrano un po' ingenue. Cerco di spiegare perché.
Anzitutto, bisogna rendersi conto, una volta per tutte, che la nostra è una cultura di «secondo livello», che noi siamo (secondo un celebre motto di Eco, di una quindicina di anni fa) «periferia dell'impero». Non sono italiani i-libri che gli editori di
tutto il mondo si trovano sul tavolo ogni mattina,
RAFFAELE SIMONE
Conoscere l'inglese
significa ripudiare
la propria nazione?
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non sono italiani i giornali che le redazioni internazionali leggono per primi né sono italiani gli intellettuali (salvo forse Umberto Eco, ma è un
po' poco) che vengono stimolati a elaborare opinioni da diffondere in tutto il mondo.
Non siamo, bisogna ammetterlo, né gli USA, né la Francia, né l'Inghilterra, né la Germania. Siamo un paese nobile quanto si vuole, ma culturalmente marginale, alla pari con la Spagna, il Messico, o il Belgio. Per questo non solo non bisogna meravigliarsi che le idee che elaboriamo in patria non siano ricercate internazionalmente in tempo reale, ma bisogna anzi essere molto soddisfatti che tanta gente ( alcuni milioni di persone, per quello che ne sappiamo) abbia interesse e passione per la nostra lingua e il nostro mondo, invece che dedicarsi (tanto per fare un esempio) alla lingua neerlandese o al basco.
Le ragioni di questo fatto sono molte, affondano le loro radici nella storia moderna italiana, e non posso discuterle qui dettagliatamente. Interessa di più la conseguenza che ne deriva: Ogni società dotata di una cultura di secondo livello ha bisogno, oltreché di una lingua nazionale, anche di una lingua internazionale in cui esprimersi in contesti più vasti. Abbiamo, semmai, il torto di averlo capito troppo tardi.
In una situazione come questa, il ceto intellettuale ha compiti e doveri speciali. Un intellettuale connesso ad una cultura di secondo livello, se vuole farsi capire fuori del suo paese, deve conoscere almeno un'altra lingua e avere la disinvoltura di usarla.
Se vogliamo riprendere il solito esempio, va
detto che, in mezzo a miriadi di intellettuali italiani assolutamente monolingui o fintamente plurilingui, Umberto Eco, che pure se lo potrebbe risparmiare, parla e scrive più lingue con assoluta disinvoltura, ignorando (giustamente) che
qualche purista potrebbe trovare nelle sue prestazioni qualche dettaglio non a fuoco. Non vedo perciò niente di scandaloso nel fatto che scriva i suoi lavori, magari anche pubblicati in Italia, in una lingua diversa dalla sua.
Né c'è nulla di strano, allora, nel fatto che una casa editrice pubblichi un volume in una lingua diversa dall'italiano. Dipende tutto dal pubblico al quale mira, da cui pensa di farsi leg-
gere. Si tratta infatti di un bilinguismo strumentale, che non attesta affatto dipendenza, ma semmai apertura di orizzonti.
Non mi pare proprio che il bilinguismo strumentale degli intellettuali significhi che la nazione è in difficoltà. Se vogliamo riprendere l'analogia col latino, nell'epoca dell'impero buona
parte degli intellettuali erano bilingui, conoscevano con ogni probabilità la propria lingua d'origine, e in più il latino. Una situazione molto diversa da quella attuale, dove semmai si registra (e da più tempo) una storica riluttanza da parte degli intellettuali ad imparare davvero le lin
gue degli altri e a usarle in modo decoroso. Una rinuncia all'identità nazionale si avrebbe semmai solo se l'intero paese usasse un'altra lingua: se, ad esempio, i giornali fossero stampati in inglese (o in francese o qualunque altra lingua). Per fortuna, ciò non accade; non siamo Singapore.
Non c'è dubbio che questo assetto prefiguri una asimmetria. Mentre noi ci affatichiamo per imparare a scrivere in inglese, gli anglofoni di tutto il mondo si possono limitare alla loro lingua madre, senza muovere un dito. Questo, certamente, non è piacevole, ma il potere internazionale dell'inglese è un fatto talmente acquisito che mi pare molto difficile contrastarlo.
Il problema che abbiamo dinanzi non è quindi quello che agita Galli della Loggia. Non stiamo perdendo l'attaccamento ai «valori e ai significati» che si esprimono nella nostra lingua; stiamo semmai perdendo il contatto col mondo esterno. Almeno fino a quando non avremo impiantato e risolto davvero due problemi, su cui bisogna richiamare l'attenzione di tutti: il primo è che gli intellettuali italiani non conoscono abbastanza lingue straniere di nessun tipo e sono per lo più soavemente monoglotti. Altro che comunicazione internazionale!
Il secondo è che occorre urgentemente portare tutti i giovani del paese a praticare una qualche lingua straniera in forma seria.
Se questi due risultati non verranno raggiunti rapidamente, oltre che cessare di essere una nazione cesseremo anche di essere presi sul serio sul piano internazionale (come già sta accadendo con il prezioso contributo della classe politica), e allora sarà un vero guaio.
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ITALIANO TRA SOCIETÀ E SCUOLA
In quelle classi le lingue sono Ire
1
INTEGRAZIONI POSSIBILI
el primo numero di «Italia
no e oltre» di quest'anno in un articolo dal titolo Tre
lingue in Valle d'Aosta:
l'insegnamento integrato di
francese, italiano e inglese, ho proposto una prima
riflessione sull'esperienza valdostana in relazione al-
l'armonizzazione delle didattiche delle lingue. Vor
rei ora illustrare un esempio concreto di integrazione.
Richiamerò, anzitutto, brevemente i presupposti della didattica integrata delle lingue. Discipline contigue, le lingue del curricolo hanno statuti differenti a livello sociale (in Valle d'Aosta, l'italiano è lingua materna per la maggioranza degli studenti; il francese, istituzionalmente riconosciuto come lingua ufficiale al
pari dell'italiano, è, da un punto di vista didattico, una lingua seconda1
; l'inglese è, per ora, la sola lingua straniera della scuola media), comportano livelli di competenza diversificati conseguenti anche al loro statuto all'interno della società, quindi anche diversi livelli di motivazione rispetto al loro apprendimento, nonché, è evidente, didattiche specifiche e differenziate.
Quest'ultimo punto, la diversificazione delle didattiche, va opportunamente approfondito.
Un certo grado di diversificazione è fisiologico, e sarebbe dannoso non riconoscerlo: esso dipende dallo statuto sociale di ogni lingua, dal momento in cui ognuna di esse è stata introdotta nel curricolo scolastico e, quindi, dal livello di competenza raggiunto dai discenti nonché dalla tradizione didattica (e culturale) legata all'insegnamento di quella lingua specifica. E' necessario tuttavia che la diversificazione non diventi «divaricazione» o «divergenza». Se volessimo rendere graficamente le situazioni normali di insegnamento di tre lingue nel curricolo scolastico, potremmo rappresentare quanto generalmente accade come segue.
Nella migliore delle ipotesi, le tre lingue, pur ignorandosi, precedono parallelamente verso una direzione comune: lo sviluppo armonico delle competenze linguistiche dei discenti in
ognuna delle lingue (fig. 1). Nella peggiore delle ipotesi, le tre lingue, seguendo didattiche non armonizzate, procedono in direzioni indipendenti, se non contraddittorie, creando confusione cognitiva e perdendo preziose occasioni di rinforzo reciproco (fig. 2).
Ora l'armonizzazione degli insegnamenti lin
guistici può seguire strade diverse che vanno da
un minimo, rappresentato dalla conoscenza di quanto si fa nelle altre discipline, a forme di collaborazione più o meno implicanti che potremmo così rappresentare: il procedere pa
rallelo, ma conscio, delle tre didattiche dà luogo, di tanto in tanto, a momenti di incontro, di
MARISA CAVALLI
In Valle d'Aosta si
realizza una didaHica
in_tegrata di italiano,
francese e inglese ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), pp. 262-271
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ITALIANO
Fig. 1
scambio, di lavoro comune su una parte del curricolo: momenti distanziati, sporadici che rappresentano un primo livello minimo di collaborazione (fig. 3). Si può anche pensare a una progressione a spirali parallele delle didattiche fondata sempre sulla conoscenza e sul procedere in armonia verso la stessa direzione mantenendo le specificità di ogni lingua e di ogni didattica (fig. 4). Nei casi più ambiziosi, si potrebbe realizzare una didattica «intrecciata», in cui parti più o meno cospicue dei curricoli possono essere realizzate con forme di collaborazione che realizzano un'economia didattica: in quest'ultimo caso, si parte dal principio che non tutto debba essere fatto in una lingua e rifatto nelle altre, ma che nella costruzione del percorso didattico ogni lingua possa assumerne una parte, una 'tappa', che sarà utilizzata (e non ripetuta) dalle altre lingue (fig. 5).
TRA SOCIETÀ E SCUOLA
t, 2
Fig. 2
2 I PREREQUISITI
La didattica integrata propone un approccio sofisticato all'insegnamento delle lingue e richiederebbe prerequisiti quali il pieno possesso da parte degli insegnanti di tutti i presupposti teorici nonché delle strategie e delle metodologie relativi alla didattica della propria disciplina, di una pratica stabilizzata della programmazione, della capacità di lavorare in équipe con i colleghi (che non è una 'qualità' personale che si ha o non si ha, ma è un elemento imprescindibile della professionalità). Questo approccio richiede, soprattutto, che gli insegnanti condividano una stessa idea di lingua: lingua come strumento vivo, flessibile e vario, e non, come ancora troppo spesso accade, insieme statico e sclerotizzato di norme. Inoltre, la collaborazione interdisciplinare deve essere, innanzitutto, un état d'esprit comune. Questa lista
NOTA BENE
A partire da questa figura comporne una quinta a spirali più strette come suggerito dalla figura 5 riprodotta nel testo
Fig. 3 Fig. 4 Fig. 5
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264
ITALIANO TRA SOCIETÀ E
di prerequisiti può scoraggiare chiunq"ue ad avviarsi a collaborazioni interdisciplinari all'interno dell'area linguistica: nella realtà dei fatti, come per ogni avvenimento innovativo che tocchi la scuola, occorre mettersi nell'ottica della sperimentazione e della ricerca-azione che, partendo da piccole modifiche controllate, progressivamente portano al raggiungimento degli obiettivi più ambiziosi.
Nell'état d'esprit che deve informare l'azione degli insegnanti di lingua rientrano due principi già evocati nell'articolo succitato e che richiamo brevemente: nella prassi didattica occorre far funzionare ognuna delle lingue, nelle specifiche attività che vi vengono svolte, ora come anticipatrici ora come retroagenti rispetto alle altre.
Sono generalmente le lingue in cui i discenti hanno maggiori competenze che forniscono il quadro anticipatorio per le altre. Le lingue più 'giovani' del curricolo non svolgono un ruolo meno importante in quanto permettono una rivisitazione più conscia e diversificata di acquisizioni fatte in modo implicito nelle altre lingue. Questo apporto della terza lingua è più proficuo ancora nel caso in cui essa appartenga a un gruppo linguistico diverso rispetto alle altre (lingue del gruppo germanico vs lingue del gruppo romanzo). E' appena opportuno ricordare che nell'integrazione linguistica tutte e tre le lingue giocano ruoli, diversi è vero, ma egualmente importanti: non vi è una lingua più 'ricca' delle altre (se non per quanto concerne le competenze già acquisite da parte dei discenti), non vi sono lingue ancillari.
E' ovvio che in un'educazione linguistica che voglia essere tale, la lingua materna dell'alunno, quando è diversa da quelle presenti nel curricolo scolastico, costituisce un altro serbatoio di competenze nonché di fenomeni linguistici a cui attingere. E questo non solo nell'intento di valorizzare la lingua minoritaria, ma anche in una prospettiva strettamente didattica: più numerose e diverse sono le lingue in una classe e più fitte e proficue possono essere le occasioni di confronto. La classe diventa così una creativa Babele, con un rovesciamento, poiché la compresenza di più lingue è vissuta come fonte di ricchezza piuttosto che come causa di confusione.
TRE LINGUE IN CIASSE
SCUOLA
Per evitare semplificazioni o generalizzazioni arbitrarie, occorre tenere a mente alcune pre
cauzioni che dovrebbero permettere di evitare il rischio dell'indifferenziazione delle discipline: si tratta di non perdere di vista il fatto che poiché le tre lingue presentano differenze a livello nelle competenze e necessitano di didattiche, almeno parzialmente, differenziate, gli insegnanti non debbono ricercare l'omogeneità , né livellare le at
tività basandosi sulla lingua in cui la costruzione delle competenze è ancora nella fase iniziale, né cadere nella trappola della ripetizione delle stesse attività se non addirittura degli stessi contenuti, né rincorrere il mito della simultaneità assoluta.
3
I SETTORI DI INTERVENTO
Tutti gli aspetti dell'insegnamento delle lingue senza distinzione possono essere oggetto di collaborazione interdisciplinare e di integrazione: la fonetica, la morfologia, la sintassi e il sistema nozionale, l'analisi testuale, gli aspetti pragmatici e culturali legati alle lingue. In tutti questi aspetti è possibile e auspicabile far agire i due principi dell'anticipazione e della retroazione combinandoli e dosandoli diversamente a seconda dell'aspetto individuato. Nella competenza pragmatica, per esempio, è, in genere, la lingua 3 ad agire in retroazione sulle altre due. Infatti, la lingua 1 dà per acquisite determinate competenze funzionali e pragmatiche (saper telefonare, saper salutare, saper scrivere una lettera formale, ecc.) di cui, in realtà, spesso i discenti sono in grado di fornire realizzazioni povere, indifferenziate, standard, nei registri più colloquiali. Il confronto potrebbe quindi permettere alle tre didattiche di evidenziare i rispettivi 'buchi' e di porvi rimedio in un rapporto dialettico e costruttivo.
Presento ora un percorso che si potrebbe realizzare in una prima classe della scuola media valdostana nell'anno scolastico 1993-94. Anno importante, poiché giungeranno alla scuola media
studenti che avranno seguito otto anni di insegnamento bilingue (tre anni di scuola materna e cinque anni di insegnamento elementare che pre-
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ITALIANO
vede l'uso veicolare dell'italiano e del francese in tutte le discipline).
L'ambito scelto è quello del sistema dei determinanti2 visti in un'ottica non semplicemente morfosintattica, ma nei loro aspetti semantici e nel loro funzionamento testuale. Si fanno quindi rientrare nella categoria dei determinanti tanto gli articoli (definiti, indefiniti e partitivi) quanto gli aggettivi ed i pronomi possessivi, dimostrativi, numerali e indefiniti.
L'esempio è stato scelto non perché si presti in modo particolare alla realizzazione dell'integrazione, ma proprio per la ragione opposta. Vale a dire per dimostrare come, anche su parti di curricolo in cui le tre lingue sembrano avere problematiche in tutto o in parte divergenti, sia possibile realizzare l'integrazione. Più agevole, meno tecnica, sarà la collaborazione sugli altri aspetti
che fanno parte dell'insegnamento linguistico.
4
I DETERMINANTI
Prendiamo ora in considerazione l'esempio di
cui si illustrano nel dettaglio cinque fasi. Con le
TRA SOCIETÀ E SCUOLA
frecce rivolte verso destra, si indica l'anticipa
zione, con quelle rivolte verso sinistra la retroazione. L'analisi partirà dalla colonna che riguarda la lingua straniera.
In lingua straniera, già dall'inizio dell'insegnamento, occorre lavorare a tre livelli.
A livello morfosintattico al momento dell'apprendimento delle forme degli articoli definiti ed indefiniti. A questo punto, la lingua straniera può recuperare il funzionamento morfologico degli articoli definiti e indefiniti
delle altre due lingue per meglio far acquisire le specificità degli articoli inglesi. Tra gli elementi da sottoporre ad analisi contrastiva3 si potrà far notare agli studenti la povertà del sistema dei determinanti inglesi rispetto alle al
tre due lingue e come questa povertà derivi dal fatto che l'inglese non è una lingua flessiva come l'italiano e il francese.
Questa concettualizzazione dovrebbe avvenire partendo da un mini-corpus di frasi che permetta di formulare ipotesi sul funzionamento dei determinanti e di notare come nei si
stemi italiano e francese questi ultimi comportano flessioni relative al genere e al numero,
LINGUA ITALIANA LINGUA FRANCESE LINGUA STRANIERA (inglese)
livello semantico: � (fr./ls) livello semantico: � (ls) livello morfosintattico:
· riflessione metalinguistica "intuitiva" sulle nozioni di definito e indefinito a partire datitoli di articoli di giornale
· ripresa della riflessione metalinguistica "intuitiva" sulle nozioni di definitezza e indefinitezza a partire da titoli di articoli di giornale francesi + riflessione contrastiva su somiglianze o differenze di funzionamento tra le due lingue
livello testuale: � (fr./ls) livello testuale: �(ls)
· verifica del funzionamento anaforicodegli articoli definiti e del funzionamentocataforlco degli articoli indefinitiall'interno di brevi articoli di giornale (fattidi cronaca)
Schema 1 - Prima fase
· verifica del funzionamento anaforicodegli articoli definiti e del funzionamento cataforlco degli articoli indefiniti all'interno di brevi articoli di giornale (faits divers)
· apprendimento degli articoli definiti eindefiniti
+ (fr./it) riflessione contrastiva:un,una,un' il,la,I', i, gli,le un,une le,/a,I' /es a,an the
+ (fr./it) livello semantico:
· riflessione metalinguistica sulle nozioni di definitezza e indefinitezza
+ (fr./it)riflessione contrastiva: Le patate ti fanno ingrassare. Les pommes de terre te font grossir. Potatoes make you fat.
+ (fr./it) livello testuale:
esercizi sul funzionamento nel testo degli articoli definiti ed indefiniti (in brevi e semplici paragrafi o conversazioni)
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w
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ITALIANO TRA SOCIETÀ E
esattamente come altri elementi della frase (aggettivi e participi passati nei verbi intransitivi, passivi e riflessivi)4. In inglese, invece, i determinanti non veicolano il genere e, per quanto riguarda l'articolo definito, neppure il numero:
italiano: La ragazza bionda che è entrata nel negozio non è ancora uscita
Un motoscafo impazzito si è schiantato contro gli scogli Gli zii veneti di Antonio non sono ancora arrrivati Il bandito solitario ha colpito ancora
francese: J'ai vu entrer une fille blande Un grand garçon brun nous a barré la route La voiture bleue garée devant notre maison a été emmenée à la fourrière
inglese: You have a nice dress. It's very smar.t! I saw the fine modem buildings of the new stadium
Rispetto, invece, al problema dell'eufonia, sarà interessante notare come questa sia una· preoccupazione di tutte e tre le lingue, affrontata e risolta in modi vari, strettamente connessi con le caratteristiche fonetiche delle lingue:
italiano un libro, uno zio, uno scoglio, una mano, un'amica
francese: une amie (senza elisione), ma l'amie
inglese: a man, an eagle
A livello semantico, il diverso funzionamento del sistema degli articoli inglesi rispetto alle nozioni di definito e indefinito, rende inevitabile una riflessione contrastiva:
TRE LINGUE IN CLASSE
SCUOLA
è stato scelto, come esempio, il diverso funzionamento dell'inglese quando il nome è uti
lizzato con valore generale e non specifico. Questo tipo di riflessione condotta nella lingua straniera si appoggia sul patrimonio linguistico già in possesso degli studenti e ha ricadute positive sulla loro maturazione linguistica, metalinguistica e metacognitiva in tutte e tre le lingue.
Il terzo livello, quello testuale, è esercitato quando gli articoli vengono fatti funzionare all'interno di piccoli testi orali o scritti e non quindi al semplice livello della frase.
In italiano, il lavoro sui determinanti si situa subito a livello semantico e testuale. Ha obiettivi più ambiziosi quali la presa di coscienza dell'uso nel testo delle nozioni di definito e indefinito o il funzionamento anaforico degli articoli definiti e quello cataforico degli articoli indefiniti. La difficoltà didattica rispetto a questi problemi, in lingua, risiede nel trovare esercizi e attività semplici, graduate, alla portata dello stadio cognitivo degli studenti, ma che, al tempo stesso, li aiutino a compiere passi significativi verso l'astrazione e la concettualizzazione. Tutto quanto acquisito in questa lingua funge da anticipazione rispetto alle altre due e può essere immediatamente recuperato
in francese. Per avviare la riflessione sulla funzione
anaforica e cataforica dei determinanti, si potrebbe partire da una serie di titoli di articoli di cronaca5
(1) L'autobomba della mala(2) Liberi i pescatori italiani(3) Torna il sabotatore.
Panico al San Carlo(4) L'ETA: vogliamo negoziare
(5) un· narco-tunnel perportare coca fra Usae Messico
(6) Genova, ammazzatoper una lite da bar
(7) Un supertestimone per l'autobomba
Si tratta, in un primo tempo, di chiedere agli studenti di classificare in due colonne:
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ITALIANO I •
➔ ➔
(titoli che rinviano a noti- (titoli di notizie completazie già date in precedenza) mente nuove)
Schema 2
Dopo questa prima attività completamente intuitiva, si chiederà agli studenti di esplicitare gli elementi linguistici che hanno permesso
loro, al di là della loro conoscenza dei fatti, di classificare i titoli. L'esplicitazione dei criteri linguistici (e logici) che li hanno guidati nella classificazione potrà essere particolarmente interessante per titoli come (7) in cui in realtà
convivono una notizia nuova (Un supertesti
mone) accanto ad una notizia già data (l'auto
bomba). Incidentalmente questa attività rappresenterà un primo avvio alla competenza intertestuale.
In francese, si potrà aggiungere la riflessione contrastiva rispetto al diverso funzionamento del sistema dei determinanti francesi e italiani.
Anche l'insegnante di lingua straniera può
decidere di recuperare da subito la riflessione condotta in italiano e in francese o decidere di
posticiparla a un momento ulteriore quando le conoscenze linguistiche rispetto ai determi-
livello testuale: � (fr./ls) livello testuale:
TRA SOCIETA E SCUOLA
nanti siano già state integrate e automatizzate dagli studenti.
In lingua straniera, rispetto all'acquisizione degli aggettivi numerali, i tre livelli (morfo
sintattico, semantico e testuale) sono sempre presenti: rispetto al livello semantico la riflessione contrastiva potrà permettere di mettere in
evidenza il diverso funzionamento del sistema
inglese che non assimila, per l'espressione dell'unità, l'articolo indefinito e l'aggettivo numerale come in italiano e francese. Il lavoro a livello testuale prevede che ogni nuova acquisi
zione venga accostata in un'ottica sistemica alle acquisizioni precedenti e con quelle fatte funzionare a livello di testo e non di semplice frase.
In italiano, il lavoro potrebbe procedere in modo più ambizioso introducendo la riflessione
sulla co-referenza e, all'interno di questa, l'analisi del funzionamento dei determinanti. Riflessione che può essere ripresa dalla lingua francese, magari in tono minore: su testi meno lunghi o meno complessi. Parallelamente la lingua francese non deve dimenticare il lavoro
a livello morfosintattico e semantico rispetto a certe fossilizzazioni (qui sono citati il problema della trasformazione dei partitivi nelle frasi negative o davanti ad aggettivi): l'ottica con-
�(ls) livello morfosintattico:
· analisi delle co-occorrenze di un · analisi delle co-occorrenze di un · apprendimento degli aggettivi numeralireferente in articoli di giornale o testiletterari con particolare attenzione all'usodei determinanti
Schema 3 - Seconda fase
referente con particolare attenzioneall'uso dei determinanti ma su testi menolunghi e meno complessi
parallelamente: � (ls) livello morfosintattico e semantico in ottica contrastiva
sistematizzazione di alcuni determinanti e loro particolarità che inducono fossilizzazioni (per es. l'annullamento dell'articolo nella frase negativa - PAS DE - e davanti agli aggettivi che precedono unnome: DE bel/es fleurs)
+ (fr./it) livello semantico:
lavoro su nozione di quantità definita + (fr./it) riflessione contrastiva: in it.Mr. assenza d'opposizione traindefinito e numerale: it. UN/UNA(art.indef.)=UN/UNA(agg.num)fr. UN/UNE( art. indef. )=UN/UNE( agg. num)ingl. A,AN (art.indef.)# ONE (agg.num.)
+ (fr./it) livello testuale:
aggiunta progressiva delle nuove acquisizioni al sistema dei detenminanti e loro funzionamento all'interno di brevi testi o dialoghi
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ITALIANO TRA SOCIETÀ E SCUOLA
livello testuale: � (fr./ls) livello testuale: �(ls) livello morfosintattico:
· fase produttiva guidata: uso dei · fase produttiva guidata: uso dei apprendimento degli articoli partitivi determinanti scelti da una lista data determinanti scelti da una lista data(senza distrattori) in un testo da cui essi (senza distrattori) in un testo breve e + (fr./it) livello semantico: siano stati tolti semplice da cui essi siano stati tolti
lavoro su nozione di quantità non definita e parallelamente: �(ls) di quantità O livello morfosintattico e semantico in + (fr./it) riflessione contrastiva: ottica contrastiva: Tutti i giorni mangio pane I del pane
Tous /es jours je mange du painsistematizzazione di alcuni determinanti e Every day I eat some breadloro particolarità che inducono ma:fossilizzazioni (per es. gli aggettivi Non mangio pane/del pane possessivi e loro particolarità: un de mes Je ne mange pas DE pain amis, votre # le v6tre, essenzialità della I don't eat ANY bread determinazione francese che non prevede e ancora: abbinamenti tra determinanti del tipo il mio, Mangi pane/del pane? un mio, questo mio, uno di questi miei etc. Est-ce que tu manges du pain?
Do you eat ANY bread?
+ (fr./it) livello testuale:
aggiunta progressiva delle nuove acquisizioni nel sistema dei determinanti e loro funzionamento all'interno di testi progressivamente più ricchi e complessi
Schema 4 - Terza fase
trastiva (sia nella direzione dell'italiano che nella direzione della lingua straniera) potrà facilitare certe prese di coscienza rispetto alle diversità di funzionamento dei sistemi.
grado di usare in modo appropriato tutta la varietà dei determinanti.
La lingua straniera continua a lavorare, rispetto all'apprendimento degli articoli partitivi, ai tre livelli, con l:lna accentuazione del livello morfosintattico e di quello semantico.
La riflessione contrastiva che, a livello semantico, occorrerà condurre avrà benefici effetti retroattivi sulla lingua francese, che come abbiamo visto si dibatte in alcuni problemi di fossilizzazione rispetto ai partitivi. Non è detto che l'introduzione del funzionamento dei partitivi in inglese e le relative prese di coscienza non sblocchino la lingua francese là dove incontra difficoltà.
Il livello testuale che prevede il recupero delle nuove acquisizioni è quello che permetterà alla lingua straniera di avvicinarsi a un uso della lingua più simile a quello che avviene in lingua italiana e lingua francese.
In francese, prosegue il recupero di quanto fatto in italiano. In francese occorrerà porre un'attenzione particolare alle specificità del sistema francese che inducono errori: l'ottica constrastiva permetterà di focalizzare meglio i problemi e risolverli: sono citati nell'esempio i problemi morfosintattici e semantici relativi all'uso degli aggettivi possessivi.
In italiano, prosegue il lavoro sui determinanti in un'ottica essenzialmente testuale il cui obiettivo finale è di mettere lo studente in
TRE LINGUE IN CLASSE
La lingua straniera prosegue nella costruzio
ne del sistema dei determinanti con l'acquisizione degli aggettivi possessivi: una difficoltà che il metodo contrastivo e la riflessione metalinguistica contribuiranno a risolvere è il doppio riferimento negli aggettivi possessivi inglesi alla persona che possiede e al suo sesso (doppio riferimento che non è contemplato negli altri due sistemi). A questo punto, la lingua straniera ha acquisito un certo numero di determinanti (articoli definiti, indefiniti, partitivi, aggettivi numerali e possessivi). E' dunque possibile, anche per la lingua straniera, procedere a piccole attività, molto simili a quelle proposte nella terza fase per la lingua italiana e francese.
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ITALIANO TRA SOCIETÀ E SCUOLA
livello testuale: + (fr./ls) livello testuale: � (ls) livello morfosintattico:
ma anche, eventualmente + (it)· fase produttiva meno guidata: uso dei · fase produttiva meno guidata: uso dei apprendimento degli aggettivi possessivi determinanti scelti da una lista data determinanti scelti da una lista data (con distrattori) in un testo più complesso (con distrattori) in un testo un poco più + (fr./it) livello semantico:
da cui essi siano stati tolti complesso da cui essi siano stati tolti lavoro su nozione di possesso con doppio
parallelamente: � (fr/ls) parallelamente: �(ls) riferimento alla persona che possiede ed al livello morfosintattico e semantico: livello morfosintattico e semantico: suo sesso
+ (fr./it) riflessione contrastiva: acquisizione, a livello di comprensione, di acquisizione ed uso di alcuni determinanti il suo libro (di Maria o di Michele) alcuni determinanti appartenenti a registri (essenzialmente aggettivi e pronomi son livre (de Jean ou de Nathalie)più alti (taluni, qualsivoglia, alcunchè etc.) indefiniti: certains, plusieurs, d'autres, her book (of Jane) # his book (of Michael)
quelques-uns, de nombreux ... ) di cui gli alunni fanno un uso solo passivo + (fr./it) livello testuale:
aggiunta progressiva delle nuove acquisizioni al sistema dei determinanti e loro funzionamento all'interno di testi
Schema 5 - Quarta fase
In italiano, le attività proposte per la fase precedente sono riprese, ma su testi più ricchi e articolati. Parallelamente, in questa lingua dovranno essere affrontati, almeno a livello di
comprensione, quei determinanti (soprattutto indefiniti) appartenenti a registri alti della lingua e poco frequenti nel linguaggio della quotidianità, ma presenti negli scritti che i discenti utilizzano anche per l'apprendimento
(manuali di storia, geografia, ecc.).
vità in questa lingua e un recupero dell'acquisito in un secondo tempo o parallelamente in
italiano. Queste due lingue, infatti, possono giocare su anticipazione e retro-azione con scambio di ruoli frequenti date le competenze linguistiche pressoché equivalenti in Valle d'Aosta. Anche in questa fase, e in modo più ap
profondito rispetto all'italiano, occorrerà pensare all'acquisizione di certi indefiniti di largo uso in lingua francese che non sono ancora perfettamente padroneggiati, quantomeno in produzione.
Per il francese, si può prevedere lo stesso tipo di attività che per l'italiano a livello testua
le. Anzi in questa, come in altre occasioni, è
possibile pensare a una anticipazione dell'atti-Continua per la lingua straniera la costru
zione del sistema dei determinanti con l'ag-
livello testuale: � (fr./ls)
· fase produttiva non guidata: uso deideterminanti (senza l'ausilio di una lista)in un testo complesso da cui siano statitolti
3chema 6 - Quinta fase
livello testuale: � (ls) ma anche, eventualmente � (it)
· fase produttiva non guidata: uso dei determinanti (senza l'ausilio di una lista) in un testo da cui siano stati tolti
parallelamente: � (ls) livello morfosintattico e semantico:
acquisizione a livello di comprensione di alcuni determinanti appartenenti a registri più alti (quiconque, quelconque, n'imporle /eque/, etc.)
livello morfosintattico:
apprendimento degli aggettivi dimostrativi
+ (fr./it) livello semantico:
lavoro sulle nozioni di deissi spaziale, di vicino e lontano e di riferimento cotestuale + (fr./it) riflessione contrastiva: questo/a (vicino)# quello/a (lontano)ce/cette ... -ci(vicino) # ce/cette ... -là (Ioni.)this (vicino) # that (lontano)
+ (fr./it) livello testuale:
aggiunta progressiva delle nuove acquisizioni al sistema dei determinanti e loro funzionamento all'interno di testi più lunghi e complessi
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r---
270 giunta a livello morfosintattico degli aggettivi dimostrativi. A livello semantico, gli aggettivi dimostrativi inglesi dovrebbero non rappresentare una grande difficoltà poiché essi hanno un funzionamento paragonabile a quello dei dimostrativi italiani. Una rapida riflessione contrastiva permetterà di ricordare la differenza di funzionamento dei dimostrativi francesi in cui le nozioni di vicino/lontano sono per lo più assicurate da suffissi deittici e non dalla forma stessa del dimostrativo.
Anche questa nuova acquisizione va inserita nel sistema e in quello fatta funzionare, tenendo conto del fatto che ogni nuova acquisizione, prima di divenire tale, rappresenta una destabilizzazione delle precedenti acquisizioni. La fase quindi di ripresa di un determinante appena appreso e il suo funzionamento sistemico all'interno del testo permette la revisione ciclica dei determinanti precedentemente acquisiti e avvia a un approccio ai determinanti che si avvicina a quello adottato nella lingua italiana e francese con la possibilità di recupero anche in lingua straniera della riflessione sulla coreferenza.
In italiano, l'attività iniziata con esercizi semplici arriva a livelli sempre maggiori di complessità e senza gli aiuti precedentemente dispensati: l'ultima attività di apprendimento proposta è il ritrovamento in un testo complesso di tutti i determinanti senza l'aiuto di una lista. Questa attività presuppone che si individui la nozione veicolata dal determinante mancante unicamente attraverso il contesto. La coreferenza assicurata dai determinanti viene concretamente esercitata. L'ultimo passo sarà naturalmente l'uso spontaneo e corretto da parte dei discenti nei loro scritti dei determinanti in tutta la varietà e la ricchezza delle loro sfumature.
In francese, posto che non si sia deciso di
TRE LINGUE IN CLASSE
SCUOLA
procedere per anticipazione rispetto all'italiano, si potrà proporre la stessa attività su testi di diverso tipo. Parallelamente si provvederà all'acquisizione in comprensione di alcuni aggettivi e pronomi indefiniti appartenenti a registri alti di lingua.
Per quanto concerne i tempi di realizzazione dell'esempio di attività proposta, è evidente che l'italiano e il francese potranno procedere parallelamente, a velocità elevate e quindi in tempi piuttosto ridotti, mentre la lingua straniera, impegnata nella costruzione ex nihilo delle competenze linguistiche, dovrà darsi i tempi 'fisiologici' richiesti in vista dell'acquisizione del sistema dei determinanti.
Con questo esempio, che presenta un percorso didattico tra tanti possibili, si è inteso soprattutto suggerire come il far «giocare insieme» le conoscenze linguistiche degli studenti e le didattiche delle tre lingue porti a una economia a livello cognitivo, a un rinforzo e un arricchimento reciproci delle tre lingue e a uno sviluppo armonico delle conoscenze linguistiche ma anche metalinguistiche e metacognitive degli studenti.
Tuttavia non vorrei che il tipo di esempio scelto nonché il metalinguaggio utilizzato per illustrarlo possano indurre l'impressione che l'integrazione linguistica debba risolversi per lo più in attività di analisi contrastiva e che lo studente debba trasformarsi in un linguista provetto che maneggia con disinvoltura il gergo dotto della linguistica. Nulla di tutto questo. Gli apporti di scienze vecchie e nuove a quella, troppo spesso dileggiata, che è la didattica diventano fecondi e innovativi quando traducono la complessità concettuale in attività semplici, graduate, con consegne esplicite e chiare, che portano progressivamente lo studente ad acquisizioni fini, ma solide e operative.
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ITALIANO
NOTE
Il Nel definire così il francese in Valle d'Aosta, assumo la definizione che del francese lingua seconda fornisce Jean-Pierre Cuq in Le français langue seconde, Origines d'une notion et implications didactiques, Collection Références, Hachette, 1991, e cioè una lingua, nel caso specifico il francese, intesa come lingua straniera a statuto privilegiato nel senso di lingua non prima che contribuisce, però, come lingua d'insegnamento, allo sviluppo psicologico e cognitivo del bambino e, in seguito, alle capacità informative dell'adulto (media, documenti professionali e amministrativi) e nella quale avviene una parte delle acquisizioni costitutive della personalità. Secondo Cuq, colui che apprende il francese lingua seconda ha in origine una competenza molto vicina a quella di un gruppo di parlanti non nativi e si avvia, generalmente, verso il bi- o pluri-linguismo.
El Definiti «attualizzatori del nome» da André Martinet (Grammaire fonctionelle du français, Crédif/Didier, 1979) e cioè elementi che, secondo la definizione di Harald W einrich, hanno nel testo «la funzione di mettere i nomi in relazione con altri segni linguistici e di stabilire tra di essi una relazione di determinazione» (Grammaire textuelle du français, Alliance français, Didier-Hatier, 1989).
El Questo lavoro di analisi è particolarmente proficuo quando viene condotto in compresenza dai tre insegnanti di lingua.
Il Sarà interessante far notare come nel sistemafrancese certe flessioni siano evidenti solo nello scritto: Lajeune fille anglaise que tu as connue l'été dernier se promène radieuse dans le pare si differenzia nell'orale della seguente frase: Les jeunes filles anglaises que tu as connues se promènent radieuses dans le pare, solo per il cambiamento fonetico percepibile nel passaggio da la a les.
El I titoli sono tratti da «la Repubblica» del 4 giugno1993.
TRA SOCIETÀ E SCUOLA
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ENCICLOPEDIA CAMBRIDGE
DELLE SCIENZE DEL LINGUAGGIO
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Edizione italiana a cura di
Pier Marco Bertinetto
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ITALIANO TRA SOCIETÀ E SCUOLA
Scritture universitarie/ 1
1
LA SCRITTURA NELLE UNIVERSITÀ
ell'anno accademico 1992-93 sono stati attivati in quattro università italiane (Roma, Salerno, Siena e Torino) i Corsi di Laurea in Scienze della Comunicazione, che prevedono entro il terzo anno «due prove di composizione o elaborazione di testi, da so-sten ere con l'impiego diword-processor, l'uno in lin
gua italiana e l'altra in lingua inglese» (Relazione della Commissione ministeriale per il corso di Laurea in Scienze della comunicazione, Roma, 1991). Per la preparazione a queste prove la Commissione «ha ritenuto che ogni decisione [ ... ] debba essere lasciata alle singole sedi».
Questo articolo, dopo un rapido sguardo alla didattica della scrittura nelle università italiane e alla ricerca sullo sviluppo delle capacità necessarie alla costruzione di testi, descrive l'impostazione, gli obiettivi e l'organizzazione della didattica della scrittura da me progettata e coordinata al corso di Laurea in Scienze della Comunicazione dell'Università di Torino. Progetti didattici che coinvolgono molti docenti e un gran numero di studenti come questo di Torino richiedono non solo la scelta di contenuti e metodologie d'insegnamento, ma anche la creazione di una struttura organizzativa complessa. Tra gli scopi di questo articolo c'è anche il desiderio di aprire un dibattito sulla didattica del-
la scrittura nelle università italiane, alla luce delle esperienze già in corso.
La presenza di prove di composizione rappresenta una novità nel panorama universitario italiano. Perfino in facoltà come Lettere e filosofia gli studenti raramente realizzano testi scritti prima della tesi, mentre la capacità di comporre viene data per acquisita nella scuola secondaria. Tesine e relazioni trovano spazio solo nell'ambito di seminari frequentati da un numero limitato di studenti, spesso i più impegnati e capaci. Nel contesto delle tesi di laurea, i docenti correggono individualmente gli scritti, mirando alla qualità del prodotto più che allo sviluppo di buone abitudini di scrittura.
Non manca però qualche esempio di iniziativa didattica.
All'Università di Roma «La Sapienza», dalla metà degli anni '80, Tullio De Mauro organizza con alcuni collaboratori il seminario: «Leggibilità e comprensibilità dei testi. Tecniche di scrittura», rivolto agli studenti di Filosofia del linguaggio. Con questi seminari sono stati anche formati i redattori del mensile «Due parole», sperimentazione di un linguaggio molto chiaro per ragazzi con lievi problemi di comprensione (Piemontese 91,-AA.VV. 93). Altri corsi di scrittura, aperti a tutti gli studenti, vengono organizzati presso la Facoltà di Economia dell'Università di Modena dal Lend e dall'Opera Universitaria.
Diverse iniziative sono nate nell'ambito dei Corsi di Laurea in Lingue dove, dal 1990, è obbligatoria un prova scritta propedeutica all'esame di letteratura italiana. Variano sia i tipi di prove scritte (da questionari sulla letteratura italiana a rias-
MARIA TERESA SERAFINI
Il primo dei t re
i nterventi dedicati
alla scrittura degli
studenti universitari ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), pp. 272-278
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ITALIANO
sunti e parafrasi), sia i tipi di attività preparato
rie: alcune lezioni nell'ambito dei normali corsi di letteratura italiana (come all'Università di Po
tenza), oppure veri e propri corsi di scrittura (come alla Facoltà di Lettere dell'Università statale di Milano). Altre iniziative sorgono per la stesura delle tesi di laurea; un esempio è sempre all'Università statale di Milano: all'Istituto di Pedagogia,
vengono organizzati seminari per tutti i laureandi sm processi della ricerca e della scrittura.
Alcune esperienze, infine, riguardano facoltà scientifiche. Ad esempio, al Politecnico di Mi
lano sede di Como, dal 1990 al 1992 sono stati organizzati seminari sulla scrittura tecnica per gli studenti di ingegneria. Un resoconto di alcune r1cerche ed esperienze sulla scrittura all'università si trova nella prima parte di Lavinio e Sobrero 91.
In altri sistemi universitari la scrittura è molto più diffusa, soprattutto perché costituisce il
principale modo per verificare l'apprendimento nelle diverse materie. Questa realtà ha contribuito allo sviluppo della ricerca sulla realizzazione dei testi e alla maggior organizzazione e diffusione della didattica della composizione. Un esempio particolarmente articolato è quello del sistema universitario degli Stati Uniti (Serafini 82). Rispondendo a sollecitazioni che provengono soprattutto dall'Associazione Nazionale degli Insegnanti di Inglese, il 90% delle università organizza corsi di composizione nei dipartimenti di in
glese, in appositi Centri di scrittura o nell'ambito di Centri di consulenza pedagogica (Learning Centre) dove la scrittura ha uno spazio primario in
sieme alle tecniche per studiare (Study Skills) (Wallace e Simpson 91, Connolly e Vilardi 86, 01-son 84, White 89).
2
LA RICERCA SULLA SCRITTURA
La scrittura è una attività complessa: alla sua comprensione contribuiscono le scienze più diverse. La sua didattica deve avere quindi un approccio eclettico: sono di aiuto le indicazioni della retorica antica e moderna, le metodologie critiche di analisi dei testi letterari, la semiotica, la linguistica
TRA SOCIETÀ E SCUOLA
testuale. Si devono anche tenere in considerazione le ricerche interdisciplinari della psicologia cognitiva, per quanto riguarda l'analisi sistematica del processo di generazione di specifici tipi di testi da parte di persone diverse per stile cognitivo,
età e abilità. Altre indicazioni provengono dalla pedagogia, che ha studiato gli ambienti e le dinamiche che favoriscono e stimolano l'apprendimento delle tecniche compositive.
Suggerimenti si ricavano poi anche dall'intelligenza artificiale, che ha sviluppato metafore interessanti sul funzionamento del cervello e sul comportamento intelligente degli uomini. Altri
spunti per la didattica sorio negli studi sui processi della lettura: per esempio, la conoscenza delle tecniche di lettura veloce è utile nella creazione di testi di consultazione e di alta leggibilità.
Una rassegna della ricerca sulla scrittura si trova in Freedman e altri 87, Dyson e Freedman 90 e Dyson e Freedman 91. I primi punti fermi sono nelle ricerche del British Council sullo sviluppo della capacità di creare testi (Britton 75, Martin 76) e nei modelli creati dagli psicologi cognitiviper descrivere il processo di generazione del testo(Hayes e Flower 80). Per gli Stati Uniti centri di
raccolta di ricerche ed esperienze sono il NationalCouncil ofTeacher ofEnglish a Urbana, Illinois, e
il Center for the Study of Writing and Literacy,all'Università di Berkeley, California; articoli importanti si trovano nelle collezioni di riviste come«College English», «Written Communication», «College Composition and Communication».
In Italia negli ultimi dieci anni si è sviluppata una ricca letteratura sulla didattica della scrittura, limitatamente però alla scuola elementare e media (per esempio, Cortellazzo 91, Lo Duca 91,
Corda Costa 89, Formisano, Pontecorvo e Zucchermaglio 86, Serafini 85).
3
LA DIDATTICA DELLA SCRITTURA
Da quanto ho detto risulta evidente che l'insegnante di scrittura debba avere una formazione complessa, che in Italia non viene al momento
impartita da appositi corsi a livello universitario,
ma è recuperabile attraverso una paziente rac-
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274
ITALIANO TRA SOCIETÀ E
colta di informazioni da campi diversi. In questa sede ricordiamo solo la molteplicità de
gli approcci più importanti alla didattica della scrittura (White 89): ciascuno evidenzia modi diversi di affrontare il problema e porta a metodologie e tecniche particolari. Si sottolinea però che una buona didattica della scrittura deve utilizzare in momenti diversi tutti questi approcci, in quanto complementari e non esclusivi, anche se talvolta le mode portano a valorizzarne uno a discapito degli altri.
(a) L'Approccio imitativo sostiene che si imparasoprattutto attraverso l'esempio di buoni modelli. Questo approccio porta a leggere molto e a utilizzare tutte le tecniche di analisi dei testi, dalla linguistica alla semiotica e alla critica letteraria.
(b) L'Approccio procedurale sottolinea le operazioni necessarie per realizzare gli scritti, invece che le loro caratteristiche finali, ponendo l'accento sul processo invece che sul prodotto. Questo approccio utilizza gli studi di psicologi, pedagogisti e scienziati cognitivi.
(e) L'Approccio retorico insiste sull'importanzadel contesto comunicativo, inteso come il complesso equilibrio tra le esigenze dello scrivente, del destinatario, del soggetto e dello scopo dello scritto. Particolare attenzione viene riservata alla possibilità di variare un messaggio in base alla situazione. La stilistica, la retorica e le scienze della comunicazione forniscono strumenti a questo approccio.
(d) L'Approccio esperienziale, o espressivo,mette in evidenza che la riuscita di un testo èlegata all'uso da parte dell'autore di sentimenti ed esperienze personali. Suo presupposto è
l'esistenza di un complesso legame tra esperienza, lingua e pensiero. Questo approccio sottolinea l'importanza di lasciare uno spazio ampio agli scritti creativi e di far raccogliere informazioni agli studenti, anche creando esperienze ad hoc su cui far scrivere. Vengono sfruttati strumenti e spunti teorici di tipo psicologico e pedagogico.
SCRIVERE All'UNIVERSITÀ
SCUOLA
(e) L'Approccio epistemico vede l'attività delloscrivere come uno strumento per organizzare sensazioni, idee e fatti e, quindi, conoscere e capire. Il suo presupposto è che la conoscenza del mondo avvenga gradatamente, in interazione con l'uso del linguaggio: scrivere di un argomento contribuisce alla sua comprensione. Questo approccio sottolinea l'importanza di scrivere molto in ogni contesto anche come aiuto alla attenzione, comprensione e memorizzazione: diari, verbali, tesine e relazioni, ma anche appunti e schemi.
(f) L'Approccio convers�ionale sottolinea l'importanza della discussione tra scrittore e lettore. Attraverso il dialogo, l'autore chiarisce le sue intenzioni e i suoi pensieri, raccogliendo consigli e indicazioni sugli aspetti problematici del suo testo; i lettori potranno essere non solo l'insegnante ma anche i compagni, attraverso la pratica di gruppi di corruzione. Questo approccio enfatizza l'importanza di stimoli e gratificazione, e si realizza anche rendendo pubblici i testi, attraverso la creazione di libri e giornali.
4
ALL'UNIVERSITÀ Dr TORINO
In questo ricco quadro di ricerche e di esperienze è stata progettata la didattica del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione della Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università di Torino.
La relazione della Commissione ministeriale per il Corso di Laurea in Scienze della comunicazione specifica come obiettivo delle attività didattiche per la composizione lo sviluppo di «ca
pacità di organizzazione del pensiero, di chiarezza, di precisione, di sintesi». A Torino la Commissione promotrice del corso di laurea ha evidenziato la necessità di una organizzazione della didattica per la composizione diversa da quella consueta all'università: accanto alle normali lezioni ex cathedra, con un docente e moltissimi allievi, ha pianificato un gran numero di laboratori, ciascuno con pochi studenti, ove svolgere concrete attività di scrittura. Il lavoro di preparazione dei laboratori è partito da queste indicazioni ed è stato realizzato in tre fasi successive:
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ITALIANO
(a) la stesura di un progetto generale, che ha
elencato gli obiettivi e proposto una organizzazione generale delle attività;
(b) sulla base degli obiettivi scelti, la costru
zione di un programma che ha precisato i contenuti e le attività;
(e) infine, l'individuazione di un «percorso didattico» che ha, in un primo momento, segnalato le tappe del lavoro, gli approcci, i materiali, la tipologia degli esercizi e le prove, e, in un
secondo momento, scandito le attività incontro per incontro.
I problemi organizzativi di questo primo an
no 1992-93 sono stati amplificati dal gran nu
mero di iscritti (1.200 matricole) che sono stati suddivisi in 40 gruppi di 30 elementi. La scelta
di limitare a 30 la dimensione di ciascun gruppo è stata imposta dalle caratteristiche dei locali disponibili, normali aule scolastiche forni
te da una scuola sulla base di un accordo tra l'università e la provincia. In aggiunta ai laboratori di scrittura in italiano, sono stati organizzati anche laboratori di scrittura in inglese e di informatica, coinvolgendo globalmente tre coordinatori (uno per area) e venti
quattro istruttori, di cui nove per i laboratori di italiano.
Per quanto riguarda la didattica dell'italiano
di questo primo anno, ciascuno studente ha seguito dieci ore di lezioni frontali e ventiquattro ore di laboratorio; in aggiunta, sono state organizzate dieci ore di uso del word-processor in aule dotate di personal computer, durante le quali sono stati svolti, tra l'altro, alcuni esercizi impostati nell'ambito dei laboratori. Una di
dattica della scrittura interamente con il wordprocessor a Torino è al momento impossibile data la disponibilità di solo quattro aule con computer.
5
IL PROGETTO
Il progetto descrive gli obiettivi del corso e dei la
boratori (tab. 1, p. 275/276), la struttura organizzativa della didattica in un corso e dei laboratori
TRA SOCIETÀ E SCUOLA
coordinati (tab. 2, p. 277), i compiti dei corsi� dei la
boratori (tab. 3, p. 277) e gli aspetti pratico-organizzativi delle prove e della valutazione finali.
La Tab. 1 elenca gli obiettivi scelti a Torino. Il
punto (a) mostra che l'approccio procedurale è
centrale nell'impostazione didattica: viene ritenuta di primaria importanza la conoscenza delle tecniche utili nelle varie fasi di generazione di un testo. I punti (b) ed (e) indicano le tipologie di testi da realizzare prestando attenzione al contesto co
municativo (il «percorso didattico» evidenzia che per questi punti vengono utilizzati l'approccio imi
tativo, e l'approccio retorico). Il punto (e) segnala
che uno spazio particolare occupano le tecniche di realizzazione delle prose di base (descrizione, narrazione, esposizione e argomentazione) e gli schemi di ragionamento. Altro obiettivo del laboratorio è la conoscenza delle convenzioni della lingua scritta, punto (d).
6 ORGANIZZAZIONE IN MODULI
Per gli studenti immatricolati nel 1992-93 si sono organizzati due laboratori di scrittura in ita
liano e in inglese della durata di due anni ciascuno durante il biennio di formazione. Per gli studenti che si immatricoleranno nel 1993-94 si prevede invece una struttura organizzativa più sem-
Obiettivi del corso e dei laboratori di scrittura
Il corso e i laboratori hanno come principali obiettivi: (a) Lo sviluppo delle abilità di base legate al processo della scrittura:
- creazione di testi top-down e bottom-up- pre-scrittura (tecniche della documentazione,
grappoli associativi, mappe, scalette)- sviluppo del testo (tipi di paragrafi)- revisione e redazione
(b) Lo sviluppo della capacità di realizzare scrittidi genere particolare, tenendo presenti le loro caratteristiche ed il contesto comunicativo:
- le convenzioni legate al genere testuale- lo scopo
[continuo olla pagina seguente
Tob. 1
275
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-
276
ITALIANO TRA SOCIETÀ E
segue dalla pagina precedente]
-i lettori (con individuazione delle loroconoscenze)- lo stile e il registro
(e) La padronanza di schemi, strategie e tecnicheper realizzare le prose di base: descrizione,narrazione, esposizione e argomentazione. Inparticolare, attraverso l'utilizzo di:
- elementi della retorica antica e moderna- logica informale
(d) La padronanza delle convenzioni della linguaitaliana scritta:
- revisione di aspetti della lingua italiana- uso della punteggiatura secondo diversi stili- scelta del lessico e della sintassi secondo diversi
seguita Tab. 1
plice, in cui il laboratorio di italiano sarà concentrato al primo anno e quello di inglese al secondo, mantenendo inalterati i contenuti.
In entrambe le organizzazioni proposte, le attività didattiche sono suddivise in quattro moduli, con alcune lezioni frontali comuni a tutti gli studenti e alcuni incontri nei laboratori (tabb. 2 e 3, p. 277). Alla fine di ciascun modulo viene sostenuta una prova sul programma svolto: in questo modo, a un'unica prova finale si sono sostituite quattro piccole prove. L'obiettivo è di attirare l'attenzione sulla didattica, spingendo i ragazzi a concentrarsi sul laboratorio e non sulle prove, che essendo brevi e facili per chi ha frequentato risultano sdrammatizzate.
I laboratori sono obbligatori; vengono ammessi alle prove finali dei moduli solo gli studenti presenti ai tre quarti degli incontri e che hanno consegnato tutti i lavori previsti. La ragione di questo obbligo è nella ferma convinzione che le tecniche di scrittura non possano essere apprese sui libri, ma solo attraverso la loro sperimentazione e l'esercizio. La frequenza ai laboratori nel 1992-93 è stata molto alta per una facoltà umanistica: il 75% circa. La scelta di far fare un'unica prova alla fine del secondo anno ai non frequentati vuole essere un ulteriore incentivo a seguire i laboratori.
SCRIVERE AU'UNIVERSITÀ
SCUOLA
registri (con uso dei dizionari italiani) - uso di stili linguistici diversi: stile coeso e
segmentato
(e) Lo sviluppo della capacità di costruire testi ditipo diverso. In particolare:
- testi espressivi, come pagine di diario, scrittiassociativi, e lettere personali
- elaborati «ausiliari», come appunti, schemi eriassunti
- testi referenziali, come verbali, articoli dicronaca, comunicati stampa, relazioni, tesine
- testi creativi, come il decalogo, l'imitazione(«scrivere alla maniera di») e «l'aggiornamentoe/o personalizzazione» di un testo
- testi argomentativi, come editoriali, pubblicitàe saggi critici
- testi con convenzioni specifiche, come il
7
TEST DI ENTRATA?
Durante le fasi di programmazione si è posto il problema di un test di entrata per stabilire le capacità di scrittura degli studenti e costruire livelli e attività didattiche adeguati. In questo primo anno tale ipotesi è stata scartata per diverse ragioni.
Particolarmente istruttiva risulta l'esperienza del mondo universitario americano; infatti, alcune università hanno sperimentato l'uso di una prova interna di composizione (placement test) per suddividere gli studenti tra corsi normali o
corsi di recupero (remedial writing). La realizzazione di questi test iniziali è però risultata assai costosa, e gradatamente molte università l'hanno abbandonata. In pratica, una didattica differenziata è spesso realizzata imponendo la frequenza del solo primo corso di scrittura; gli studenti migliori sono dispensati da ulteriori approfondimenti, mentre gli studenti più deboli devono frequentare corsi successivi, incentrati sul recupero di capacità di base.
Negli Stati Uniti le capacità di comporre vengono certificate anche con piani nazionali (l'Ad
vanced Placement Program e il College Level Examination Program) da parte dell'Educational
Testing Service, riconosciuti su tutto il territorio
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ITALIANO
Organizzazione generale delle attività di scrittura Gli studenti seguono un corso e partecipano ad un la
boratorio della durata di due anni. Il corso e il laboratorio sono suddivisi in quattro moduli
come si mostra nella figura accanto. Ogni anno gli studenti partecipano alle attività di due moduli; in ogni modulo gli studenti seguono alcune ore di corso e alcune ore di laboratorio.
Al termine di ogni modulo viene sostenuta una prova sul programma svolto; alla fine del biennio viene data una valutazione dei quattro moduli.
TRA SOCIETÀ E SCUOLA
I modulo:
corso
laboratorio
VAL.1
II modulo
➔ corso ➔ laboratorio
VAL.2
III modulo
corso ➔ laboratorio
VAL.3
IV modulo
corso
laborat.
VAL.4
T ab. 2 - Distribuzione delle attività di scrittura e delle prove di valutazione nei due anni
Compiti del corso e dei laboratori Il corso e i laboratori sono coordinati in modo che
vengano trattati gli stessi argomenti contemporaneamente.
Compiti del corso sono: (a) presentare strategie e tecniche di creazione dei te
sti-'(b) analizzare modelli di testi;(e) giustificare comportamenti e tecniche proposte
nell'ambito della ricerca in psicologia, linguistica e scienza cognitiva;
(d) quando possibile, coinvolgere professionisti della scrittura per descrivere aspetti specifici della costruzione dei testi (per esempio, direttore o responsabile di un
Tab. 3
nazionale, oppure con test legati a una catena di università come il California State University
English Equivalency Examination (per le università pubbliche californiane). Il superamento di queste prove esonera lo studente dal seguire i
corsi più facili. Questo tipo di prove offre all'università la possibilità di creare classi omogenee, agli studenti di iniziare subito studi più avanzati, ma crea disorientamento e crisi di identità alla classe docente che vede il suo insegnamento svolto altrove (in corsi di preparazione ai test, White 91). Questa soluzione al problema è comunque lontana dalla mentalità e dalla tradizione scolastica italiana.
Un altro aspetto che fa riflettere è la storia dei
test, di entrata utilizzati nelle scuole secondarie italiane negli anni '70 e '80. In quegli anni, in molte scuole, al momento della programmazione,
si sono utilizzati test di entrata per tarare opportunamente obiettivi e didattica ai ragazzi presen
ti. La mancanza di test nazionali e standardizzati ha stimolato nelle scuole progetti molto ricchi che hanno contribuito a una maggiore consapevolezza del processo di apprendimento dei ragazzi. La
settore di un quotidiano per la scrittura giornalistica; responsabile di una agenzia di pubblicità per la scrittura pubblicitaria; direttore dell'ufficio del personale di una azienda per la realizzazione di un curriculum vitae).
Compiti dei laboratori sono: (a) rinforzare l'apprendimento delle metodologie di
scrittura presentate nel corso partendo dai lavori degli studenti;
(b) produrre con l'aiuto dell'istruttore alcuni elaborati; (e) analizzare, discutere, correggere e valutare i testi
creati dagli studenti; (d) svolgere, correggere e valutare la prova finale che
costituisce il voto finale del modulo da attribuire a ciascuno studente.
preparazione (o rielaborazione), somministrazione e valutazione di queste prove è però risultata
spesso un onere sproporzionato rispetto alle energie disponibili in seguito per creare, in base ai dati raccolti, una didattica differenziata su vari livelli, con più gruppi che procedano parallelamente nell'ambito della stessa classe. In diversi casi
questi progetti non hanno avuto seguito. Alla luce di quanto ho detto e della constata
zione che la nostra università di massa è già purtroppo spesso concentrata sugli esami (la si definisce un «esamificio» ), abbiamo concluso che
per il momento sia meno costoso e pedagogicamente più interessante valutare l'apprendimento degli insegnamenti impartiti agli allievi piuttosto che verificarne le conoscenze di partenza.
L'ipotesi pedagogica alla base del nostro progetto è che un curriculum di scrittura molto ricco di informazioni, stimoli e tecniche possa essere di aiuto contemporaneamente a tutti gli studenti. Ogni studente utilizzerà elementi diversi a seconda del suo livello iniziale: chi già padro
neggia le tecniche e il processo di scrittura raggiungerà una maggiore consapevolezza del pro-
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278
ITALIANO TRA SOCIETÀ E
prio modo di generare testi, li migliorerà in base
ai suggerimenti ricevuti e svilupperà le sue ca
pacità critiche nei confronti della scrittura nell'in
terazione con i compagni. Chi invece ha ancora grandi incertezze sulla lingua scritta recepirà
solo alcuni insegnamenti a un livello di base.
Un esempio è costituito dalla didattica della punteggiatura. Nella prima parte dei laboratori vengono presentati esercizi sistematici sull'uso
della punteggiatura impostati sulle differenze tra
la «punteggiatura classica» e la «punteggiatura giornalistica». La distinzione, accompagnata
dall'analisi delle ripercussioni che ognuno dei due
B I B L I O G R A F I A
AA.VV., Manuale di stile di «Due parole», Tecnodid, Napoli 1993, in preparazione. J.J. Britton, The Development of Writing Abilities
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J.R. Hayes, L.S. Flower, Identifying the Organization
SCRIVERE ALL'UNIVERSITÀ
SCUOLA
tipi di punteggiatura ha sullo stile, offre strumenti
di riflessione e miglioramento a chi già usa i segni di interpunzione in modo corretto. D'altra parte, gli
esercizi sistematici su tutti i segni di punteggiatura
nei due stili (per esempio, passando da uno stile
all'altro nell'ambito dello stesso testo) sono una
occasione per chi ancora commette vistosi errori di iniziare a padroneggiare le regole di base.
In futuro, con un minor numero di studenti e
maggiori risorse, sarà possibile individuare i vari livelli di abilità iniziali e sperimentare anche
nel contesto universitario italiano una didattica
della scrittura differenziata.
ofWriting Processes, in L.W. Gregg, e E.R. Steinger (a cura di), Cognitive Processes in Writing, Erlbaum, Hillsdale, NJ 1980.
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�italiano cambia
vocabolario
Pag. XXII + 2.345 L. 85.000
Informa
E. De Felice - A. Duro
sulla parola e insegna a usarla Un nuovo originale strumento di sicura conoscenza della lingua italiana
- lessico: 105.000 voci, 305.000 significati e accezioni; etimologia;- grammatica: 80.000 indicazioni fonetiche, morfologiche, sintattiche (pronuncia,
forma e costrutti);- stilistica: scelte espressive parlate e scritte.
La lingua e la civiltà italiana alle soglie del Duemila: le 20.000 parole nuove, italiane e straniere, che la esprimono. Un vocabolario multilingue di base (italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo). 6 appendici: funzione del vocabolario, storia della lingua italiana, formazione del lessico, incertezze d'uso, motti latini, i nomi personali più frequenti. 4 prontuari: sigle e abbreviazioni, etnici delle città italiane, elementi chimici, vitamine. 16 tavole illustrate a colori e 32 tavole in bianco e nero.
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280
Velocità di parola Alberto A. Sobrero
p;.] uando si parla dei cambiamenti di una � lingua si pensa sempre a cambiamenti nella fonetica, nella morfologia, nella sintassi, nel lessico. E gli altri livelli? Esiste, ad esempio, o si può costruire �na grammatica storica delritmo e dell'intonazione dell'italiano? Sappiamogià che questi fattori, cosiddetti paralinguistici,variano nello spazio (nessuno dubita della diversa caratterizzazione anche prosodica dellevarietà regionali di italiano). Ma variano anchenel tempo? Certo che sì: però per studiare questa dimensione della lingua c'è un problemaparticolare.
La documentazione storica, com'è noto, è pressoché assente. Non solo non disponiamo, per il passato, di annotazioni scritte, ma - in assenza di una riflessione teorica e di criteri convenzionali di classificazione dei fenomeni - anche le poche annotazioni fatte a suo tempo dai grammatici e dai linguisti sono praticamente inutilizzabili, perché frammentarie, soggettive e occasionali.
Non restano che le registrazioni. I materiali utilizzabili più antichi consistono nelle prime registrazioni magnetiche, che risalgono agli inizi degli anni Cinquanta (magnetophon è il nome del marchio depositato in Germania nel 1950): dunque, a 40 anni fa. E un arco di tempo di 40 anni comincia a essere interessante, per uno storico.
Ebbene, io credo che sia vicino il momento in cui i linguisti riapriranno gli archivi sonori che i primi raccoglitori saggiamente organizzarono, rimetteranno in funzione i vecchi registratori a bobina, riascolteranno e analizzeranno con strumenti modernissimi vecchie registrazioni, e scriveranno le prime pagine di una futura - e necessariamente sempre più ricca -«paralinguistica storica dell'italiano».
Un primo, minuscolo assaggio. Massimo Pettorino e altri studiosi dell'Istituto orientale di Napoli hanno analizzato e messo a confronto i dati prosodici ed elettroacustici di alcuni «Giornali radio» del 1953 e del 1993.
Ecco alcuni dei valori medi registrati:
fluenza durata durata media pause media della delle pause
catena fonica
1953 11,807 1,786 0,615 27% 1993 28,987 4,574 0,322 7%
Il radio-lettore degli anni Cinquanta pone una grande cura nell'assicurare l'intelligibilità di ogni singola parola: perciò pronuncia, nell'unità di tempo, un numero di parole quasi tre volte inferiore del suo collega del '93 (colonna fluenza), stacca ogni unità sintattica che ritiene significativa - periodo, frase, sintagma -con una pausa (infatti, fra un'inspirazione e l'altra legge una porzione di testo due volte e mezza più breve che nel '93). Inoltre usa non solo le variazioni di tono, di altezza e di volume, ma anche le pause e gli stacchi in funzione del significato: per questo motivo le sue pause sono più lunghe (colonna 4) e frequenti (colonna 5).
Oggi, per converso, le pause sono poche e la punteggiatura è sottoutilizzata per fini espressivi, perciò le catene foniche sono più lunghe (si realizzano fino a 60-70 sillabe senza 'prendere fiato', ignorando persino i punti fermi) e inoltre comprendono anche un buon numero di parole ridondanti (intercalari, ripetizioni, esitazioni, fatismi), banditi dai GR del '53.
E' interessante osservare che l'uso di numerose e lunghe pause nel parlato del '53 determina un'impressione fallace di minore velocità di dizione. In realtà, le misurazioni strumentali rilevano una velocità di dizione (cioè di pronuncia delle parole 'al netto' delle pause) addirittura leggermente superiore al testo odierno.
La dizione è scandita, le parole sono ben staccate l'una dall'altra, le pause sono 'importanti' (alla Craxi dei tempi d'oro, per intenderci), l'enfasi e le curve tonali hanno ancora un'impostazione vagamente 'di regime'.
Nel 1953 la bussola RAI aveva ancora come ago l'archetipo oratorio di Mussolini - filtrato attraverso il modello dei cinegiornali LUCE -; oggi attraversa la tempesta magnetica dell'iper parlato. Troverà una ragionevole strada di mezzo?
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IL LI N GUAGGIO DELLA POLITICA
L'italiano della Lega/ 1
1
ALLE ORIGINI
gni nuova espressione sociale e politica è inevitabilmente anche una nuova espressione linguistica. Che la Lega Nord-Lega Lombarda1, nell'attuale scenario politico italiano, sia un soggetto inedito che progressivamente è venuto ad acquistare un suo peso e una sua specificità è sotto
gli occhi di tutti. Anche chi avesse scarsa familiarità con problematiche di ordine semiolinguistico ha potuto infatti notare la natura e la fisionomia comunicativa «antipolitichese» di questo movimento-partito, che nella parola del suo leader carismatico si riconosce e si identifica totalmente. Umberto Bossi, segretario nazionale, fondatore, nonché principale attivista della Lega, è infatti l'autorità indiscussa di questa giovane forza politica che oggi, più di altre, stimola sociologi, psicologi, politologi e opinionisti a diverse considerazioni e riflessioni.
Questo articolo vuole essere un tentativo di analisi, a carattere prettamente linguistico, delle forme verbali e dei processi discorsivi che caratterizzano la comunicazione leghista e l'idioletto bossiano, dal primo testo ufficiale del marzo 1982 all'intervento televisivo dell'll ottobre 1993. Si tratta del primo articolo, firmato dal Comitato Promotore della Lega Autonomista Lombarda, con cui debutta il periodico «Lombardia Autonomista»2, che costituirà per un decennio, precisamente fino al n. 36 del 30 settembre 1992, l'unico mezzo di comunicazione ufficiale dei leghisti con gli iscritti e i simpatizzanti.
«Lombardi! Non importa che età avete, che la
voro fate, di che tendenza politica siete. Quel
lo che importa è che siete - e che siamo - tutti lombardi. Questo è il fatto realmente importante che è giunto il momento di ricorda
re dandogli una concretezza politica. »
Così inizia, con uno stile fortemente appellativo, la prima ufficiale «chiamata a raccolta» del popolo lombardo, del futuro popolo leghista,
per l'autonomia regionale. E' un esordio che palesa chiaramente, nel vocativo d'apertura e nei toni volti all'aggregazione e alla mobilita-
PAOLA DESIDERI
ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), pp. 281-285
281
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IL LINGUAGGIO DELLA PO
zione, quelli che saranno alcuni dei tratti costitutivi di tale produzione discorsiva. Il noi
etnico, ben presto associato negli scritti all'esaltazione dell'appartenenza regionale e dei valori della lombardità, contrapposto agli altri,
cioè allo stato centralista e ai partiti romani, fa dunque la sua comparsa nel primo articolo dell'organo del movimento. Sempre in questo contesto non a caso compare la parola chiave emblematica, più volte reiterata, territorio, portatrice di valenze semantiche e simboliche enfatizzanti le rivendicazioni localistiche.
«E' [la Lombardia n.d.r.] soltanto una espres
sione geografica senza alcun valore politico, è
soltanto un territorio senza diritti di fronte al
l'invadenza altrui. »
«Roma dispone dei nostri territori come se
fossero suoi, senza che i Lombardi possano di
re la loro in terra lombarda. »
«La Lombardia non è una vacca da mungere
né un territorio da dominare con burocrazie
forestiere. »
Come si evince chiaramente, sono qui contenuti in nuce alcuni nuclei tematici - il municipalismo, il localismo, l'etnoregionalismo, l'antimeridionalismo, l'antistatalismo, la protesta antisistema, l'anticentralismo - che tanta parte avranno nella formazione della mappa lessicale e retorica del leghismo. Finalizzata a incrementare l'universo simbolico dell'alterità e dell'antagonismo nei riguardi delle politiche tradizionali che la rappresentano, essa costituirà l'impalcatura discorsiva di tale movimento.
Tra i testi ufficiali, risalenti sempre agli albori della Lega Autonomista Lombarda (che di lì a poco, il 12 aprile 1984, si trasformerà nella
più sintetica Lega Lombarda), non può essere tralasciato il Programma politico elaborato da Bossi nel 1982 e apparso su «Lombardia Autonomista» (14 settembre 1983). Il progetto, marcatamente federalista, articolato in quindici punti, si propone
«[ ... ] la conquista dell'autonomia integrale
della Lombardia con conseguente diritto al
L'ITALIANO LEGHISTA - .
LITICA
l'autogoverno e all'autogestione dell'econo
mia, della finanza, della scuola, della sanità
della previdenza, della giustizia e dell'ordine
pubblico. »
Questo programma iniziale, che successivamente con poche varianti sarà ridotto ai definitivi dodici punti, regolarmente riprodotti su
ogni numero del periodico, pone come fondamentali le questioni etniche rafforzate da un rivendicazionismo lombardista, fondato sull'identità regione-nazione, dalle forti tinte antimeridionali.
2
DAL DIALETTO ALL'ETNOFEDERALISMO
Uno dei punti del primo Programma, il tre-dicesimo, propugna:
«il recupero del patrimonio culturale e lin
guistico lombardo e la sua diffusione attra
verso la scuola. »
Infatti la rivendicazione della centralità del dialetto, nella duplice funzione di collante etnico-simbolico per l'autoriconoscimento delle
genti lombarde e di rottura con la lingua italiana standard come codice ufficiale dello statalismo, costituisce una delle idee-forza della prima fase (protrattasi fino al 1987) della Lega. Di qui l'uso ostentato del dialetto, con funzione trasgressiva verso il sistema, nei discorsi pronunciati nel 1985 da alcuni esponenti leghisti eletti in organismi amministrativi, come Giu
seppe Leoni e Pierangelo Brivio, rispettivamente nei Consigli Comunali di Varese e di Gallarate.
Proseguendo su questa linea linguistica, sul
n. 3 (febbraio 1986) di «Lombardia Autonomista» compare per la prima volta un appello aigiovani, ripetuto sistematicamente nei fascico
li successivi, per la creazione del MovimentoGiovanile della Lega Lumbarda, non a casochiamata Riaa (torrenti). Il periodico della Lega seguirà ovviamente questa tendenza tanto daesibire per qualche tempo come sottotitolo del-
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_,
IL LI N
la testata la denominazione La vus del popul
lumbard, o più a lungo la sua successiva trasformazione fonetico-grafica La vos del popol lombard. Inoltre «Lombardia Autonomista» ospiterà di frequente diversi interventi sulla questione dialettale e sulla comune identità linguistica del «popolo lombardo» (cfr. 15-16, dicembre 1983; 20, settembre 1984; 33, otto
bre 1985; 16, settembre 1986; 5, maggio 1987; 10-11-12-13-14, luglio 1988; 15-16-17-18-19,agosto 1988; 20-21-22-23-24, settembre 1988;25, ottobre 1988; 14, 1 ottobre 1989; 38, dicembre 1989). Allo scopo di non recidere questopotente legame linguistico tra Lega e sostenitori, «Lombardia Autonomista», dal n. 7 delmaggio 1986, assegna uno spazio alla voce delcittadino qualunque, del lumbard, attraverso larubrica dei lettori denominata La vus de tucc,che nel n. 16 dello stesso anno si presenta graficamente trasformata nella Vas de tucc e, cometale, sopravviverà fino al n. 38 del 21 ottobre
1992, per essere poi definitivamente sostituita
-
metà fra l'autocritica e l'autocompiacimento, il leader leghista Bossi ammette:
«il mio linguaggio è colorito; davanti alla folla bisogna usare parole a effetto» (Vento del Nord, Sperling Kupfer, Milano 1992).
Fra queste «parole a effetto» hanno un'alta frequenza d'uso le espressioni chi se ne frega,
me ne frego e simili: «Bossi ... "Chi se ne frega'� è stato il suo commento a caldo» Espr. 23.6.91, «Di questa gara non me ne può fregar di meno» Espr. 3.5.91, «Non l'hanno fatto ... chi se ne frega» St. 20.6.93, «"C'è chi vota per me?" Bos
si: me ne frego» St. 17.9.93. Me ne frego è un modo di dire di origine ro
manesca, come puntualizza G. Fumagalli (cfr. Chi l'ha detto?, Hoepli, Milano 1958): «Questo
poco pulito intercalare è particolarmente comune nella parlata dei romani i quali se ne vantano come di frase caratteristica della loro olimpica indifferenza».
Il «poco pulito intercalare», oltre a piacere al romagnolo Olindo Guerrini (1845-1916),
GUAGGIO DELLA POLITICA
dalla formula più anonima e standardizzata Lettere al Direttore. E' in questa prima fase che la Lega Lombarda, più vicino alle istanze autoctone delle confinanti Liga Veneta e Union Piemonteisa, produce slogan e scritte murali del
tipo Fora i terùn o Lumbard tas!: senza dubbio l'uso del dialetto come codice comunicativo ha aggregato e avvicinato al movimento fasce poco istruite e politicizzate dell'elettorato.
283
Verso la metà degli anni Ottanta, con la progressiva evoluzione del movimento, si assiste però all'abbandono del dialetto lombardo come
strumento cardine nella lotta per l'autonomia regionale, perché, come rievoca Bossi nel discorso d'apertura pronunciato al 1 Congresso Ordinario della Lega Lombarda (Segrate, 8-10
dicembre 1989) qualche giorno dopo la fondazione della Lega Nord, «[ ... ] l'uso del dialetto non generava paura nel sistema» ( «Lombardia Autonomista», 2, 10 febbraio 1990). Così la Lega, facendo propria la lezione federalista di Bruno Salvatori dell'Union Valdòtaine, sceglie
alias Lorenzo Stecchetti, il quale, da quello spirito goliardico che era, pare lo usasse come intestazione della sua carta da lettere, eccitò le fantasie arditesche dell'imaginifico G. D'An
nunzio, che se ne avvalse nel proclama Il sacco di Fiume (1920), ove fra l'altro è detto: «Il motto è crudo. Ma ... la mia gente non ha paura di nulla, neppure delle parole»; anticipando, nello stile retorico e sprezzante, quello che venne dopo, quando nel 1922 me ne frego di
venne tristemente noto come motto delle camice nere fasciste, scritto sui gagliardetti neri che portavano il teschio come emblema.
ITLIANO E OLTRE. VIII 11993\. o. 283
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284
IL LINGUAGGIO DELLA PO
la strada dell'etnofederalismo, cioè la lotta contro il centralismo dello Stato, assumendo posizioni sempre più antimeridionalistiche e xenofobe. Infatti, ricostruendo didatticamente per l'uditorio l'evoluzione ideologica del movimento, Bossi così dichiara:
«Fu gioco-forza sviscerare il problema dell'identità collettiva della nostra società per valutare quale pericolo per l'integrità della volontà sociale lombarda rappresentassero le immigrazioni del passato quelle più recenti, quelle del terzo mondo» (ivi).
Poco più avanti esplicita con maggiore chiarezza il carattere genetico del concetto di «etnia»:
<<Accanto ad un legame etnico, che essendo legame di sangue è il principale legame di somiglianza, cioè di identità, fu facile evidenziare altri legami che entrano a costituire
la comunanza di sentimenti che sta alla base della società in Lombardia» (ivi).
Con questa argomentazione si conclude la sequenza discorsiva:
«Poiché l'identità è un fattore dinamico che cammina con le vicende storiche dichiarammo di non essere certamente favorevoli a scelte
economiche e politiche che facilitino ulteriori flussi migratori verso la Lombardia, ma anche che bisognava favorire l'integrazione delle immigrazioni già avvenute e già assimilate alla nostra civiltà. Ciò non può valere per l'immigrazione di coloro di cui non è pre
vedibile l'integrazione forse neppure a distanza di secoli» (ivi).
3
VERSO L'ESTREMISMO
E' nel secondo periodo (1987-90) che si assiste a una espansione del movimento, sia grazie all'emergere della Lega Lombarda sulle altre leghe autonomiste, sia soprattutto grazie all'af-
LIT I CA
fermarsi della leadership di Umberto Bossi, che elabora il progetto politico articolandone, con ritmi sempre più incalzanti, le mire espansionistiche e le manovre di attacco allo statalismo e alla partitocrazia. Unico artefice dei de
stini e della fortuna di questa forza politica, Bossi ridefinisce l'iniziale concetto di «territorio», come sinonimo di identità storico-culturale-linguistica, trasformandolo in «comunità di interessi» eminentemente economici e sociali, in cui opera il popolo dei produttori, contrapposto allo Stato centralista e al Sud assistito. Di qui l'enfasi posta dalla Lega sulla comunicazione di valori e stili di vita, su quell'etica del lavoro insita generalmente nell'universo assiologico degli elettori settentrionali: sono ovviamente idealizzati e iperbolizzati tutti gli stereotipi culturali presenti nell'immaginario dell'«orgoglio lombardo». Questo modello, sempre modalizzato semanticamente con le migliori qualità possibili, è ben tradotto dalla sintetica descrizione del deputato Giuseppe Leoni:
«[ ... ] noi siamo lombardi e non siamo abituati a chiedere niente a nessuno. Tantomeno a Roma che vive, spende e spande con i nostri soldi» («Lombardia Autonomista», 22-36, dicembre 1987).
Sono questi gli anni in cui si intraprende la sperimentazione di strategie linguistiche di attacco verso l'inefficienza pubblica, verso l'im
migrazione meridionale ed extracomunitaria, come del resto si mettono in campo atteggia
menti antagonistici nei confronti dell'«altro», del diverso, dello straniero. L'impianto discorsivo della Lega degli ultimi anni Ottanta - im
pianto che si conserverà costante anche in futuro - si fonda su elementari dicotomie semantiche espresse a forti tinte: noi I loro; amici I ne
mici; schiavi I padroni; bene I male; produtti
vità I parassitismo; autonomia I statalismo; e così via. Comincia, quindi, sempre più incisivamente, a caratterizzarsi e a differenziarsi dal
consunto politichese in doppiopetto il nuovo linguaggio politico elaborato da Bossi, un tipo di
linguaggio immediato, colorito, anche brutale, appartenente al serbatoio lessicale e retorico
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IL LI N
dell'uomo della strada. E della lingua popolare,
del linguaggio della gente, esso conserva forme espressive immediatamente comprensibili e re
gistri informali in grado da un lato di attivare nei destinatari potenti sistemi di rispecchiamento molto efficaci per la crescita del consenso, dall'altro di canalizzare il disagio e indirizzare la protesta verso un ceto politico inadeguato a risolvere le tensioni emergenti dalle realtà contraddittorie del Paese. A tale selezione lessicale fa riscontro un andamento sintattico consono alle esigenze del discorso interattivo, dell'allocuzione popolare: quindi una costruzione sintattica semplificata, prevalentemente paratattica, di agevole ricezione. Del resto la coordinazione, con l'abuso di congiun
zione e spesso di asindeto, come in questo corpus, risponde maggiormente ai requisiti di una comunicazione politica più diretta, che mira a essere alternativa rispetto allo statuto linguistico del sistema tradizionale. In un clima di crescente distacco tra società politica e società civile, di sfiducia verso le istituzioni e di in
soddisfazione nei riguardi delle politiche fisca
li e della pubblica amministrazione, la Lega capta le aspettative e le frustrazioni dei ceti emergenti, convogliandole verso una sempre
più accellerata espressione del contrasto e della opposizione al sistema.
Lontano dalle regole comunitarie e dal gergo cifrato dei partiti tradizionali, Bossi crea una
parola politica alternativa, di cui sperimenta la forza pragmatica e manipolativa innanzitutto intramoenia. Sono cioè i raduni di Pontida, in
cui si consumano i riti collettivi di autopromozione del leader e di identificazione da parte del popolo leghista con la figura carismatica del capo, cui fideisticamente i presenti aderisco
no. In questi bagni di folla, peraltro cari a Bos
si per sua stessa ammissione, il discorso assume toni aspri e polemici3, punta all'aggressività verbale e alla provocazione, ostenta forme les
sicali trasgressive, non senza accendere emotivamente, con sottile tecnica tribunizia, gli ani
mi dei leghisti duri e puri. E' particolarmente in queste manifestazioni corali di Pontida (luogo che testimonia nella memoria collettiva il riferimento storico al mitico giuramento dei co-
GUAGGIO DELLA POLITICA
muni padani contro Federico Barbarossa) e ne
gli interventi fatti in numerosissime località del Nord che soprattutto viene messa in scena la rappresentazione simbolico-semiotica del
credo leghista. Sono anni decisivi, questi, per la mobilitazione e la conquista dell'elettorato set
tentrionale. [Continua]
D Recente:m:ente si sono succeduti diversi contributi volti
a fornire un quadro interpretativo del fenomeno leghista.
Per un'analisi delle specifiche caratteristiche politiche e
socio-economiche della Lega Nord, cfì:. soprattutto Mannhei
mer (1991; la sezione Leghe leghisti legami (con interventi
di Belotti, Diamanti, Mazzoleni e Segatti) presente nel n. 2
(1992) di «Polis»; Diamanti (1993), molto utile per una ri
cognizione diacronica del movimento-partitico. Alcune os
servazioni sulla comunicazione leghista sono in Confalonie1i
(1990) e Allievi (1992).
EJ La testata, con il n. 37 del 21 ottobre 1993, cambierà la
propria denominazione per assumere quella di «Repubblica
del Nord», la quale immediatamente si trasformerà nel
l'attuale «Lega Nord». «Lombardia Autonomista» ripro
durrà sempre sulla facciata il simbolo leghista, cioè il profilo
della Lombardia sovrastato dall'immagine di Alberto da
Giussano con la spada sguainata.
Il Per un approfondimento semantico delle definizioni
della polemica, cfr. Kerbrat-Orecchioni (1980).
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286
•••••••••
La conoscenza che
viene 'da dentro' Raffaele Simone
1
LA MEMORIA 'DELEGATA'
ulla questione della memoria gravano da secoli le previsioni che Platone ha espresso nel Fedro. Parlando dell'invenzione della scrittura, Platone osservava che essa non è affatto (come qualcuno diceva) «il farmaco della memoria e della conoscenza», ma ha semmai il
valore opposto, perché scarica la memoria, e fa nascere la conoscenza «da fuori e non da dentro». La memoria sarebbe dunque il luogo proprio in cui il sapere va accumulato, il «di dentro» dove questa deve essere immagazzinata per essere poi adoperata.
Nessun momento storico illustra meglio del nostro le profezie platoniche. Siamo circondati da miriadi di strumenti che surrogano la memoria scaricandola: la scrittura anzitutto, alla quale affidiamo informazioni che vogliamo ritrovare, sapendo che possiamo accedervi tutte le volte che vogliamo; e poi, l'informatica personale, da quella visibile (calcolatori, dischi, CD ROM) a quella meno visibile (taccuini elettronici, telematica e simili). Non c'è quasi un solo apparato tecnologico che non contenga una o più «memorie», a cui possiamo quindi affidare informazioni che altrimenti dovremmo tenere a mente. Viviamo in un'epoca di «memoria» delegata, e tendiamo per conseguenza a scaricare la nostra, fino in qualche caso a lasciarla completamente vuota.
Del resto, la memoria è da tempo un emblema negativo. Nel gergo pedagogico corrente, il carattere «mnemonico» è uno dei contrassegni del cattivo apprendimento. Il «sapere a memoria» è poco meno che un'ingiuria, e i mnemonisti non fanno più né caldo né freddo. Non saprei dire quando si è
ITALIANO E OLTRE, VIII (1993}, pp. 286-287
IL VALORE
EDUCATIVO DELLA
FASE MNEMONICA
L A
prodotto questo orientamento, né perché: fino a un paio di secoli fa l'apprendimento conteneva una importante fase mnemonica, anche perché si sapeva che gli exempla antichi si apprezzano meglio se ce li si ripete a mente in continuazione. Sta però di fatto che oggi «la memoria è l'intelligenza degli imbecilli» (secondo un motto famoso di André Malraux), e si corre così il rischio di buttar via con l'acqua anche il bambino. Tutto dipende, infatti, dagli usi della memoria.
Nell'apprendimento del linguaggio, la memoria ha un ruolo essenziale. Apprendiamo le prime articolazioni linguistiche perché ricordiamo quel che abbiamo sentito dire attorno a noi, e sviluppiamo molto per tempo oltre che una memoria letterale anche una memoria testuale. Il bambino a cui si racconta una favola per l'ennesima volta protesta se si cambia qualche passaggio del racconto. La sua memoria gli dice che non bisogna dire così, che la storia è diversa. Non ricorda le parole, ma ricorda i movimenti testuali di quel che ha ascoltato tante volte. La memoria costituisce quindi per lui non soltanto un repertorio di cose che vanno ricordate letteralmente (formule mnemoniche, frasi fatte, numeri di telefono, date di compleanno, prezzi degli oggetti), ma anche una «libreria di modelli testuali», entro la quale si muove inconsapevolmente attingendovi sistemi di aspettative per capire i nuovi testi dinanzi a cui ci troviamo.
Se si può dir così, oscilliamo tra una memoria letterale («parola per parola», anche se qualche parola non l'abbiamo affatto capita) e una testuale (meccanismi testuali, modelli, funzioni, ruoli, porzioni di fabula e simili). A quest'ultima aggregherei anche la memoria matematica, che è essenziale per procedere nella soluzione di problemi. Anche questa conserva, oltre che formule letteralmente apprese (e magari mal capite), modelli, pattern di soluzione, che poi possono essere applicati a casi singoli. Chi può fare a meno di questa risorsa?
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S P E C I A L E
2
SALVARE LA MEMORIA
Il guaio è che la memoria che la scuola ci ha abituato a incoraggiare e a tenere attiva è quasi solo la memoria letterale. E l'ha enfatizzata al punto di farcene perdere di vista anche la straordinaria importanza. La memoria letterale serve infatti non solo come taccuino interno, ma anche per diverse altre funzioni: ad esempio, (a) come antologia personale di testi che vogliamo ripetere a noi stessi, magari ripercependoli eseguiti dalla voce interna, (b) come biblioteca interna di cose lette o ascoltate, che adoperiamo per le associazioni e la combinatoria mentale, (e) come fonte di spunti (come «glossario», per usare un termine informatico) di cui servirci per elaborazioni personali ... e così via.
Per questo credo che occorrerebbe fare ogni sforzo per salvare la memoria. Ciò significa anzitutto riappropriarsi la memoria
• • • • • • • • •
Le memorie possibili Dario Corno
,
RICORDARE LE NUVOLE
è un bel racconto di Jorge Luis Borges che ci parla di memoria. E' la storia di Ireneo Funes, un povero gaucho argentino che è però dotato di una memoria prodigiosa. Dopo una caduta da cavallo, che lo lascerà paralizzato per il resto della vita, Ireneo mette in
letterale, togliendo al termine mnemonico il suo significato negativo. Non sono in pochi (e tra loro c'è anche Italo Calvino) quelli che pensano che un moderato apprendimento mnemonico di testi letterari di qualità sia comunque un investimento per la vita: la possibilità di ri-eseguire un passo di poesia che ci ha colpito è una ricchezza straordinaria, che ci permette di capire anche gli aspetti formali di un testo raffinato. Ma accanto a questa va scoperta e valorizzata la memoria testuale, che permette al lettore e all'ascoltatore esperto di sapere già, in qualche misura, che cosa sta per ascoltare o per leggere.
Al momento, tutte e due queste memorie sono, presso i nostri giovani, deplorevolmente vuote. E non è detto neppure che la scrittura sembri a loro, come pensava Platone, il deposito migliore per conservare le informazioni. Forse è ora di tornare a ritrovare la conoscenza «dal di dentro», visto che «fuori» è forte il rischio che vada dispersa .
A CHE PUNTO SIAMO CON
LA MEMORIA A SCUOLA
mostra una memoria che gli permette di ricordare anche il particolare più insignificante: ad esempio, sa dire tutte le forme e le posizioni delle nuvole apparse in un determinato giorno di primavera o tutto quello che ha fatto in un giorno di un anno qualsiasi (operazione che naturalmente dura tutta la giornata). Ma, nonostante una memoria di così prodigiosa capacità, Ireneo («el memorioso») resta pur sempre un gaucho di modesta intelligenza (un idiot savant), perché - osserva Borges - la memoria è cosa diversa dall'intelligenza in quanto pensare è dimenticare differenze, generalizzare, fare astrazioni: «sospetto, tuttavia,
287
ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), pp. 287-291
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288
S P E CI A L EI
le memorie possibili
che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes, non c'erano che dettagli, quasi immediati».
Le considerazioni di Borges ci permettono di mettere un po' d'ordine in un concetto così complesso e controverso, com'è la memoria, sul quale esiste una bibliografia sterminata. In effetti, se si guarda alla ricerca scientifica di quest'ultimo secolo (che, per inciso, è il secolo che riscopre l'arte del ricordare), l'escursione permette di notare un panorama piuttosto affollato, in cui le memorie si moltiplicano: «ecoica» (quella del registro sensoriale), «a breve» o «a lungo termine», «autobiografica» ed «ecologica», «episodica» o «semantica», «di transito» o «permanente». Inoltre, le ricerche sulla memoria segnalano una particolare sensibilità di adattamento al contesto scientifico (o paradigma) in cui se ne offre una definizione. Questo domina il comportamentismo (anni '50), la memoria è semplicemente il registro di quelle modifiche di comportamento che sono state apprese. Per i gestaltismi (anni '60) la memoria diventa «ciò che si sa» e «si sa ciò che si ricostruisce».
Oggi, le ricerche in intelligenza artificiale e scienze cognitive, ci dicono (Baddeley, 1992) che la memoria è un concetto plurale perché va pensato come un insieme di sistemi che si differenziano sia per funzione (i ricordi su cui operano), sia per durata e capacità (da millesimi di secondo a una vita intera). E si conferma così un aspetto che era già noto ai pensatori antichi: la contrapposizione tra «fissità» e «dinamicità» dei ricordi. Ai ricordi bisognerebbe pensare non come a entità fisse che vengono richiamate tutte le volte che ne abbiamo bisogno, ma come a costrutti dinamici che sono parzialmente ricostituiti ogni qual volta si ricorda qualcosa. Alla memoria apparterrebbe quindi una dose di «creatività» decisamente superiore a quanto in genere è previsto dal senso comune.
s e u
Questo sarebbe provato dal fatto che le persone sono molto più abili nel «riconoscere» che nel «ricordare». Si tratta di un'ipotesi (presente negli studi di Israel Rosenfield) che è confermata dalle normali esperienze quotidiane: ad esempio, com'è che noi siamo capaci di riconoscere una composizione di Chopin o di affermare che un quadro è di Raffaello senza avere mai sentito o visto prima quella composizione o quel quadro?
2
NATURALE E ARTIFICIALE
Una spiegazione potrebbe essere questa: la specificità del ricordo non consiste nel recupero di qualcosa (un'immagine, una parola, un suono) ospitata in qualche parte del cervello, ma piuttosto nel creare categorie mentali che indirizzano il recupero dell'informazione. Vista sotto questo profilo, la memoria assume sempre più le caratteristiche di una particolare «codifica mentale» (come pionieristicamente aveva osservato Vygotskij). E' la codifica mentale a rendere accessibili le jnformazioni, per poterle richiamare quando serve. Più semplicemente, si può concludere che la memoria è linguaggio e che, come ogni linguaggio, essa opera secondo un serbatoio di regole e strategie che le sono proprie e di specifiche unità che la caratterizzano.
Quest'ultima ipotesi sta attualmente trovando numerose conferme nelle neuroscienze e in biologia. E curioso è il fatto che si recuperi in questo caso una distinzione tipica dell'antichità: quella tra una memoria naturalis e una memoria artificiosa - espressioni che si trovano nella retorica di Fortunaziano, III-IV sec. d.C. (Mortara Garavelli, 1989). La prima indicherebbe la naturale disposizione, tipicamente umana, di registrare dei ricordi. La seconda è uno strumento per la prima in quanto permette di categorizzarli secondo determinati loci (luoghi comuni) e imagines
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I
I
5 p E C I
(sfruttando il potere conservativo della trasformazione «parola-immagine»; si veda l'articolo sulle mnemotecniche, qui di seguito).
· In questa direzione si muovono anche lericerche attuali. Semplificando moltissimo, l'idea è che si contrappongano e collaborino due tipi di memoria che operano «in parallelo», a seconda che si compia un tragitto di tipo sottocorticale o corticale (A.R. Damasio e H. Damasio, 1992). Il primo tipo (sotto-corticale) individuerebbe una memoria «per abitudine» dove la registrazione delle forme linguistiche avverrebbe attraverso un apprendimento immediato, privo di particolari categorizzazioni e più spontaneo (come quando si apprende a giocare a un videogioco, ad esempio). Il secondo tipo (presente a livello corticale) metterebbe in mostra invece una memoria «associativa» che comporta un controllo e un apprendimento più consapevoli e dunque meno spontanei delle informazioni. Nella fattispecie, si è cercato di dimostrare che ad esempio l'apprendimento delle forme regolari del passato dei verbi avverrebbe attraverso l'uso del circuito «P,er abitudine», mentre la maggior parte delle persone apprenderebbe il sistema dei verbi irregolari «per associazione».
Una distinzione di questo tipo fa probabilmente parte delle conoscenze intuitive sulla memoria e l'apprendimento a scuola. E' drammaticamente noto che il problema riguarda - in particolare nell'educazione linguistica più astratta e formale - la possibilità di trasformare la tendenza ad apprendere per abitudine in un apprendimento meno volatile e provvisorio (apprendimento associativo). Si sa che, nel caso della grammatica ad esempio, è in vigore un ti po di memoria che tende a fermarsi ai dati più superficiali e «visibili» (Simone, 1990, p. 15) dei fenomeni linguistici. Solitamente chi apprende è portato a definire le categorie linguistiche in termini di esemplari, senza la capacità di approfondire le
ragioni e gli scopi delle classificazioni che guidano l'apprendimento come invece è richiesto in analisi morfologica, sintattica o logica). In questo caso, il problema della memoria diventa un problema di elaborazione delle informazioni e soprattutto del «fissaggio» di queste informazioni, di come cioè sia possibile richiamarle nel contesto adeguato e al momento opportuno.
3 IMPARARE A MEMORIA?
Affrontare il problema del fissaggio delle informazioni significa capire in che misura si può aiutare la memoria naturale a elaborare una categorizzazione concettuale adeguata al recupero del ricordo. Le strategie che di solito operano in tal senso rinviano a meccanismi il cui scopo non è tanto arrivare alla costruzione di schemi adeguati per il ricordo, quanto alla possibilità di favorire l'immagazzinamento delle informazioni nella cosiddetta «memoria a lungo termine». Al riguardo, sin dall'antichità sono noti tre procedimenti: la «reiterazione», la «codifica» e l'«immaginazione».
La prima strategia consiste semplicemente nella ripetizione dell'informazione (in vari modi, ad alta voce o subvocalizzando). E' noto che questa tecnica permette di ottenere qualche successo in un apprendimento immediato, ma non offre alcuna garanzia quanto a durata e persistenza di ciò che va ricordato. La codifica consiste in un insieme di espedienti (si veda l'articolo sulle mnemotecniche in questo stesso speciale) per cui le informazioni da ricordare sono tradotte in qualche formula capace di attivare spontaneamente il recupero (del tipo «ma con gran pena la reca giù», per esempio). Si tratta di una tecnica indubbiamente vantaggiosa, ma di tipo puramente strumentale. La terza strategia (immaginazione) è, come s'è già detto, una tecnica molto antica, che sfrutta i vantaggi pratici della «dop-
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le memorie possibili
pia codifica», per cui qualcosa che si presenta codificato verbalmente viene tradotto in un'unità appartenente a un altro codice: questa seconda unità 'contiene' le informazioni da ricordare e questo facilita notevolmente il fissaggio e il recupero.
E' indubbio che l'uso di queste tre tecniche (la cui praticità è secolarmente nota) offre numerosi vantaggi per l'apprendimento, se l'apprendimento coincide con la registrazione in memoria di informazioni. Ma il problema è forse un altro: serve imparare a memoria?
4
METAMEMORIA
Si può rispondere a questa domanda, sdrammatizzando il problema. Se lo scopo dell'apprendimento è il suo sviluppo naturale, ci sono pochi ragionevoli dubbi: imparare a memoria serve esattamente come può servire il correre nelle palestre. L'obiettivo è lo sviluppo di quella che abbiamo chiamato «memoria d'abitudine» e in questo senso si offre all'individuo in crescita la grande opportunità di tenersi in esercizio (come voleva già Quintiliano, che nelle sue Institutiones - XI, 2, 40 - ricorda il valore dell'exercitatio e del labor, la tenacia dell'esercizio e dell'impegno). Da questo punto di vista, dunque, imparare a memoria una poesia, ad esempio, è indubbiamente vantaggioso.
Tuttavia, non si può chiedere all'esercizio dell'imparare a memoria quello che non può dare e cioè un miglioramento complessivo nella categorizzazione delle informazioni in memoria. L'imparare a memoria è uno strumento il cui risultato finale non può essere che «conoscenza inerte»: si sa qualcosa perché lo si ricorda, ma quello che si ricorda non è utilizzabile al di fuori del contesto di apprendimento.
Per ostacolare la formazione di conoscenze inerti e favorire invece un fissag-
s L
gio delle informazioni che sia meno superficiale, quello che conta è che chi apprende sia consapevole dei propri «sforzi di apprendere». E' così possibile sostenere l'esistenza di una nuova componente che si può chiamare metamemoria, per intendere il controllo e l'autoregolazione dei propri processi mentali (e non, banalmente, una conoscenza diretta di questi processi). Da questo punto di vista, la metamemoria è l'insieme di quelle conoscenze consapevoli possedute intorno alle aspettative e agli scopi che regolano il flusso di informazioni, quando si è consapevoli di apprendere qualcosa. Ma come si favorisce il monitoraggio delle strategie che operano sull'acquisizione di conoscenza? Sembra ormai chiaro che in questo senso deve operare non una didattica «centrata sui fatti» (per cui è necessario sapere soltanto che qualcosa è «così e così»), ma una didattica «centrata sui problemi» (per cui è necessario sapere quali sono le informazioni da richiamare e mettere in uso in un determinato contesto). Facciamo un esempio forse banale, ma chiaro. Molti di noi - escludendo i laureati in matematica e in genere chi ha seguito corsi di studi tecnici (come l'istituto per geometri) - sanno che cos'è un «logaritmo» perché potrebbero definirlo anche accuratamente (sanno cioè richiamare con facilità l'informazione adeguata dalla memoria). Ma quanti di noi sanno a che cosa serve e come si usa? Nel primo caso, si richiama una conoscenza orientata sul fatto (ricordarsi cos'è); nel secondo, la domanda rinvia a un problema (come adattare questa conoscenza a un contesto concreto).
Apprendere qualcosa è sapere usare ciò che si apprende in una situazione concreta. Per favorire l'apprendimento è quindi necessario avere una visione più dinamica della memoria, per cui le conoscenze non sono solo apprese (e ricordate), ma sono apprese e applicate a un contesto concreto di attuazione (un contesto dove, cioè, si è consapevoli di «aver accesso» a un particolare
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5 P E C I A L E
tipo di informazioni, Schank, 1982). Sotto questo rispetto, è possibile indicare, semplificando drasticamente, una serie di principi che sembrano favorire la formazione di metamemoria: (a) applicazione (chi apprende deve imparare le strategie applicandole); (b) valutazione (più strategie a disposizione per risolvere un problema permettono di valutarne direttamente l'efficacia); (c) controllo (il controllo operativo del modo in cui si richiamano le conoscenze favorisce la creazione di conoscenza); (d)
motivazione (l'interesse per quello che si apprende arricchisce l'apprendimento delle strategie). In sintesi, la metamemoria va in direzione contraria rispetto a un'idea della memoria come «contenitore di conoscenze», per puntare a qualcosa di più dinamico: il problema di come si rendano accessibili le rappresentazioni rispetto ai dati con cui ci si confronta. Che è poi lo stesso problema di Ireneo, il gaucho di cui ci ha parlato Borges: si può essere bravi fin quanto si vuole a ricordare le nuvole in cielo, ma non serve a nulla se non si sa perché le si vuole ricordare.
B I B L I O G R A F I A
A. Baddeley, La memoria umana. Teoria epratica, il Mulino, Bologna 1992 (ed. orig.1990).
J.L. Borges, Finzioni, trad. di F. Lucentini,Einaudi, Torino 1955 (ed. orig. 1944).
D. Corno e G. Pozzo (a cura di), Mente, linguaggio, apprendimento. L'apporto dellescienze cognitive all'educazione, La Nuova Italia, Firenze 1991.
A.R. Damasio e H. Damasio, Cervello e linguaggio, in «Le scienze: edizione italiana di Scientific American», n. 291, 1992, pp. 65-72.
B. Garavelli Mortara, Manuale di retorica, Bompiani, Milano 1989.
R.C. Schank, Dynamic Memory: A theory ofReminding and Learning in Computersand People, Cambridge, Cambridge University Press 1982.
R. Simone, Fondamenti di linguistica, Laterza, Roma-Bari, 1990.
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Ars memorativa Alessandro Perissinotto
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IL POTENZIAMENTO DELLA MEMORIA
ai come oggi vi è tanta memoria disponibile per l'uomo. Mentre sto scrivendo queste righe ho a disposizione sul mio piccolo computer una memoria che potrebbe contenere tutte le parole scritte sulle pagine di 185 libri in formato tascabile, ma basta che
componga il numero telefonico di una banca dati e che mi colleghi, per avere una memoria infinitamente superiore. Quale necessità ho allora di apprendere delle tecniche di memoria?
Non è possibile una risposta ·esauriente a questo interrogativo, né peraltro esso costituisce una novità. Fin dall'antichità greca e romana infatti, l'esercizio della propria memoria ha avuto appassionati sostenitori, come Platone, e fieri oppositori.
Le origini delle tecniche di memoria possono essere ricondotte a due grandi filoni, quello aristotelico e quello ciceroniano. Nel De memoria et reminiscentia Aristotele enuncia tre principi fondamentali di ciò che sarà in seguito l'ars memorativa. In primo luogo, egli sostiene la necessità di costituire «immagini» in grado di arricchire il ricordo con una componente sensoriale sia pure attenuata dall'assenza di materia. In seconda istanza viene evidenziata l'importanza della «regolarità» e dell'«ordine» nel recupero delle informazioni memorizzate: richiamare i ricordi seguendo un processo ordinato e regolare facilita l'operazione. Nel terzo punto infine, Aristotele torna sulla costruzione delle immagini e afferma che essa deve obbedire alla «legge dell'associazione», secondo la quale le immagini di aiuto alla memoria si devono legare
ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), pp. 292·295
L'AUSILIO DIDATTICO
OFFERTO DALLE
MNEMOTECNICHE
alle idee da ricordare, in base ad una qualche forma di contiguità (ad esempio l'immagine del «latte» può essere associata al concetto di «candore»).
Se le successive dottrine sulla «memoria artificiale», come vengono definite le mnemotecniche, accoglieranno completamente i primi due punti del dettato aristotelico, per quanto riguarda il rapporto tra immagini e idee, nuovi precetti sostituiranno quelli del filosofo greco. Su quest'ultimo aspetto torneremo in seguito.
Di derivazione ciceroniana è invece la notissima tecnica dei loci. Essa consiste nello scegliere una serie di «luoghi» entro i quali collocare delle immagini atte a rappresentare i concetti che si vogliono ricordare. Questi luoghi devono essere tra loro in successione (ad esempio le stanze che si affacciano su un corridoio, o le case disposte lungo una strada): rivisitando mentalmente quei luoghi nell'ordine in cui essi sono disposti e richiamando le immagini che si erano lì collocate, ritorneranno alla mente le sequenze di concetti memorizzate. Questo, sommariamente, è quanto suggerisce Cicerone nel De Oratore e quanto Quintiliano approfondisce nel De institutione oratoria.
La storia delle mnemotecniche è di straordinario interesse poiché spesso si interseca con quella delle «lingue perfette» e più in generale con quella della logica, coinvolgendo personaggi come Giordano Bruno, Bacone, Cartesio e Leibniz. Tuttavia, volendo analizzare nella loro praticità le mnemotecniche in riferimento alla scuola, dobbiamo riconoscere che i millenni non hanno visto evoluzioni di rilievo nell'ars memorativa, la quale ancora oggi, come dimostra il fortunato manuale di Alberto Pozzi (1991), si fonda sull'associazione di figure e idee e sulla tecnica dei «luoghi».
La conoscenza delle mnemotecniche può far conseguire risultati notevoli, consentendo la memorizzazione di interi libri o di elenchi di decine di nomi letti una sola
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s p E C I A L E
volta. Ma poiché non credo che la scuola abbia bisogno di queste mirabolanti imprese non tratterò di metodi per ottenere una memoria straordinaria. Riflettiamo invece sui principi guida delle tecniche di memoria e sulle loro possibilità di impiego da parte di insegnanti e studenti, in vista, non tanto di meccaniche ripetizioni, ma di una integrazione delle possibilità di apprendimento e comprensione.
Alla base della «memoria artificiale» di Aristotele e Cicerone e dei loro epigoni, vi èla scelta di privilegiare alcuni aspetti della memoria: gli aspetti sensoriali, quelli strettamente localizzativi e quelli associativi. Il riconoscimento della maggior efficacia della memoria sensoriale (visiva, uditiva, olfattiva, ecc.) è implicito nell'invito a costruire immagini concrete e ben visualizzabili da sostituire alle idee, spesso astratte, da memorizzare. Su questo argomento, di stretta competenza della psicologia, un approccio linguistico e semiotico, come quello qui proposto, ha forse poco da dire. Più interessante dal punto di vista di una semiotica cognitiva, è invece l'aspetto localizzativo richiamato dalla tecnica dei luoghi. Nell'insieme di luoghi ove collocare le immagini, possiamo vedere un antesignano delle strutture di rappresentazione della conoscenza (frame, script, ecc.)? Sicuramente la distanza che intercorre tra i due concetti è notevole, ma una comune ipotesi di 'architettura' della memoria sembra ugualmente ravvisabile.
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UNA LINGUA PER IMMAGINI
Come si è accennato, Aristotele suggeriva di creare immagini di aiuto alla memoria che intrattenessero rapporti di contiguità, o al limite di opposizione, con i concetti da ricordare. In Cicerone ritroviamo già un significativo scarto rispetto a questa posizione: il legame tra immagine e con-
cetto comincia a diventare convenzionale, tanto che egli può paragonare la funzione dell'immagine a quella della lettera dell'alfabeto. Le immagini quindi non indicano più il concetto, bensì ne prendono il posto e hanno il solo compito di colpire la facoltà immaginativa per rimanere impresse nella memoria. I trattatisti medievali e rinascimentali appaiono poi decisamente orientati verso questa seconda tendenza e invitano a popolare i luoghi della memoria con figure di leoni, di delfini, o addirittura di mostri, per colpire sempre più l'immaginazione. Particolarmente significativa per l'esemplificazione della pura convenzionalità del rapporto immagine-idea, è
l'opera di Pietro da Ravenna, un giurista noto in tutta Europa tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento, dalle straordinarie capacità di memoria. Nella sua opera Phoenix seu artificiosa memoria, il Ravennate svela il più segreto dei suoi «trucchi»: collocare nei luoghi non delle immagini legate al concetto, bensì delle figure di bellissime fanciulle. Immagino che la proposta di studiare utilizzando come pro-memoria le immagini di fotomodelle o di divi del cinema, incontrerebbe il favore degli studenti, ma non credo che i risultati in termini di apprendimento sarebbero poi soddisfacenti.
Al di là della fantasiosa teoria del Ravennate, i cultori della memoria artificiale poterono contare, fino a tutto il Cinquecento, su una diffusa dimestichezza con l'allegoria. Per l'uomo medievale e rinascimentale, memorizzare ad esempio le figure dell'orso, della civetta e del delfino, significava ricordare con facilità i concetti di ira, sapienza e precipitazione: un vero codice iconologico stabiliva in modo convenzionale ma socialmente condiviso, i legami tra questi animali e i concetti astratti. Ritrovare oggi tracce di quel codice non è certo facile, e questo spiega come mai le attuali mnemotecniche tendono a tornare alle idee dell'antichità, vale a dire ad Ari-
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S P E CI A L E
ars memorativa
statele, e cioè alla costruzione di immagini dotate di stretti rapporti funzionali con ciò che si vuole ricordare.
La maggior efficacia di questo metodo è percepibile anche in maniera intuitiva, ma può apparire ancora più chiaro se si utilizzano le categorie della semiotica cognitiva di Peirce. Supponiamo di dover creare un'immagine per la memorizzazione del concetto di «violenza». Utilizzando il principio della contiguità non sarà difficile visualizzare quest'idea attraverso un pugno che colpisce un volto. Semioticamente diremo che il pugno, altro non è se non un «segno» dell'oggetto «violenza». Questo segno ha però delle caratteristiche particolari, esso è un «indice» in quanto «spinge l'attenzione verso l'oggetto» (C.S., Peirce, Collected Papers, I, 369).
Se avessimo optato per un'immagine allegorica avremmo potuto, alla maniera di Dante, rappresentare la violenza attraverso un leone. In questo caso il leone continuerebbe ad essere segno dell'oggetto «violenza», ma le sue caratteristiche sarebbero diverse. Esso sarebbe un «simbolo», vale a dire qualcosa che intrattiene con l'oggetto un rapporto fondato su una convenzionalità, su connessioni abituali.
Immaginiamo a questo punto di aver collocato in un certo luogo della memoria l'immagine del pugno: per passare dall'immagine al concetto ci sarà sufficiente far ricorso a un'enciclopedia di tipo esperienziale e quotidiano. Nell'ipotesi di aver scelto la figura del leone, per il passaggio dovremo utilizzare invece un'enciclopedia più ricca che contenga anche il «codice» che permette di associare leone a violenza. Nel costruire immagini dobbiamo allora badare che esse abbiano le caratteristiche degli indici, in quanto questi, contrariamente ai simboli, hanno il privilegio di saper additare direttamente gli oggetti con i quali sono in relazione.
Purtroppo non sempre è possibile ritrovare un'immagine che si leghi al concetto
5 e u o L A
senza la mediazione di un codice. Le grandi utopie di lingue perfette che permettessero all'uomo di entrare in contatto non con l'universo simbolico, ma con la concretezza delle cose, si infransero su questa ineluttabilità del codice. Non resta quindi che inserire il codice linguistico nel gioco dei rimandi. Dovendo ad esempio ricordare un episodio di «collusione» potremo crearci l'immagine di un barattolo di colla. Come si vede l'immagine stessa non manifesta contiguità con il concetto, bensì mostra similarità parziale con il significante verbale.
Queste brevi considerazioni semiotiche ci permettono di sottolineare come le mnemotecniche generino una «lingua della memorizzazione» dotata di propri segni (le immagini) e di una propria sintassi (la successione dei luoghi). Riconoscere l'esistenza di questa lingua della memorizzazione potrà essere utile in futuro per studiare le tecniche di memoria con strumenti nuovi.
3 LE MNEMOTECNICHE A SCUOLA
Parlare di uso delle mnemotecniche nella scuola non significa certo auspicare un apprendimento puramente mnemonico da parte degli studenti. Memoria e comprensione non possono che integrarsi vicendevolmente. Per evitare che l'allievo adotti metodi di studio troppo legati alla memorizzazione, converrà quindi suggerirgli di applicare le tecniche di memoria, solo in determinate fasi dell'apprendimento e in particolari campi del sapere.
Un buon compromesso tra comprensione e memoria si potrebbe ottenere consigliando l'introduzione della mnemotecnica solamente in una fase di studio abbastanza avanzata. Solo quando il materiale di studio è stato più volte sintetizzato fino a ridurlo a una successione di etichette, cioè di concetti fondamentali, è auspicabile l'intervento della moderna ars memorativa. In
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p E C I A L E
definitiva si tratta di far agire la memorizzazione solo dopo che le operazioni di sintesi hanno già chiamato in causa la comprensione.
Le indicazioni appena viste possono essere valide per tutte le materie, tuttavia alcuni ambiti particolari assegnano un più ampio spazio al ricordo. Lo studio della tavola periodica, di lunghi elenchi di nomi o di dati, di definizioni precise: ecco alcuni esempi in cui la memorizzazione può precedere la comprensione, senza peraltro sostituirla.
I principi delle mnemotecniche non sono utilizzabili solo nella fase di recepimento dell'informazione, ma anche in quella della loro trasmissione. In altre parole possiamo dire che queste regole, se ci aiutano a ricordare meglio, ci consentono inoltre di creare forme di enunciazione in grado di far ricordare meglio agli altri ciò che abbiamo detto. Questa precisazione chiama ovviamente in causa l'insegnante quale enunciatore privilegiato all'interno dell'aula scolastica.
Utilizzare i fondamentali precetti dell'ars memorativa può significare, in primo luogo, un diverso uso della lavagna. Non più nera superficie indifferenziata sulla quale scrivere seguendo i normali criteri direzionali (da sinistra a destra e dall'alto verso il basso), bensì spazio da suddividere (quando l'estensione lo permette) in aree diverse entro le quali scrivere, magari con colori differenti, in modo da educare ad una «localizzazione» delle idee. Anche le pareti dell'aula possono diventare, specie nelle classi inferiori, degli utili aiuti alla memoria. Alcuni cartelloni, diversi per colore e forma, potranno essere affissi sui muri per creare i differenti loci: gli interrogati, invece di guardare i volti dei compagni in cerca di suggerimenti, potranno così posare lo sguardo sui vari tabelloni alla ricerca delle figure immaginarie che essi, nella loro mente, vi hanno collocato. In una scuola 'futuribile' dove un maxi-monitor
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S C U O L A
per computer prende il posto della lavagna, potremo poi immaginare un'insegnante che accanto alle idee chiave, pone delle piccole icone atte a stimolare la memoria visiva, così come già si fa nel software per evidenziare i comandi più importanti di un programma.
Rimane ancora aperto un interrogativo: è necessario insegnare le mnemotecniche a scuola? Come si sarà notato, in questo breve intervento non si accenna mai a una mnemotecnica compiuta e sistematizzata, ma unicamente si parla di principi fondamentali di tecniche di memoria. In questa precisazione può allora essere contenuta la risposta alla questione. Si potrebbe infatti sostenere che condurre gli studenti a compiere imprese prodigiose con la loro memoria esuli dai compiti dell'istituzione scolastica. Abituarli a un maggior uso della sensorialità e delle facoltà immaginative nell'apprendimento può invece essere un sistema che, oltre a migliorare i risultati, va nella direzione di una più completa formazione da opporre a una semplice istruzione. I manuali di mnemotecnica potranno così essere utili non tanto se seguiti alla lettera, quanto piuttosto se impiegati come fonte di spunti ed esempi.
B I B L I O G R A F I A
A. Baddeley, La memoria umana. Teoria e pratica, il Mulino, Bologna 1992.
A. Pozzi, Le tecniche di memoria. Corso praticoper l'apprendimento, Angeli, Milano 1991.
P. Rossi, Clauis Uniuarsalis. Arti della memoriae logica combinatoria da Lullo a Leibniz,Mulino, Bologna 1983.
F.A. Yates, The Art of Memory, Routledge &
Kegan Paul, Londra 1966 (trad. it. Einaudi,
Torino).
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ITALIANO LFANUMERICO ..............................................................................
GUTENBERG REPLICA.
QUESTA VOLTA DALL'ILLINOIS Riccardo Degl'lnnocenti e Maria Ferraris
Ummaginate una biblioteca di migliaia di
volumi interamente disponibile sulla vostra scrivania. Niente schedari, scaffali, file di libri. Solo un computer e, al più, qualche dischetto di pochi centimetri di diametro. Vogliamo consultare un testo? Accendiamo il computer e cerchiamo, per via telematica o su disco, il titolo desiderato: ed ecco, in una manciata di secondi, il testo pronto sullo schermo, per essere stampato o letto direttamente. Insomma una biblioteca scarna a vedersi e certo priva del fascino dei libri stampati, ma portatile, manipolabile e duplicabile. Il costo? Beh, computer a parte, saranno cento, duecento mila lire per diecimila volumi.
Stiamo forse fantasticando? Non proprio.
Precisiamo subito che non stiamo pensando ai libri elettronici dell'editoria ufficiale, nell'immaginare la nostra biblioteca da tavolo ci riferiamo piuttosto a progetti, nati dalla libera iniziativa di bibliofili ed informatici, che mirano a rendere accessibile a chiunque possegga un computer la versione completa di quella miriade di testi non più vincolati da diritti d'autore.
Parliamo, per esempio, del progetto Gutenberg, il cui animatore, Michael Hart, è professore, vedi caso, di electronic text al Benedictine College di Lisle (USA). L'obiettivo di Gutenberg è tanto semplice quanto incredibile: 10.000 testi elettronici entro il 2001, liberamente disponibili via telefono, reti telematiche, dischi per un pubblico potenziale che i curatori del progetto valutano intorno ai cento milioni di lettori.
m er toccare con mano I.li questa realtà ci siamocollegati al computer dell'Illinois che raccoglie e distribuisce i materiali di Gutenberg e ne abbiamo scorso titoli ed autori: la Bibbia, ovviamente, poi Melville, Carroll, Milton, Twain ... Per ora una settantina di volumi ma la progressione prevista è micidiale: 12 testi nel '91, altri 24 nel '92, altri 48 nel '93 e così via.
Che dire? Una biblioteca del futuro, efficiente ed economica che, tra i tanti elementi di interesse, potrebbe costituire anche uno strumento prezioso per l'educazione linguistica e letteraria. Già si dirà, ma i testi di Gutenberg sono in
inglese. Vero, ma anche in Italia sono disponibili archi vi di opere letterarie consultabili tramite computer e telefono. Ci limitiamo a citare il progetto Manuzio promosso dall'associazione culturale «Liber» e nel cui archivio sono registrate le versioni elettroniche dei Malavoglia, dei Sepolcri e di alcune opere di Pirandello. Non è molto, d'accordo, ma si tratta di iniziative recenti e destinate a crescere grazie all'entusiasmo dei volontari disposti ad arricchire queste biblioteche pubbliche, provvedendo direttamente, con l'aiuto di scanner e software per riconoscimento caratteri, all'archiviazione elettronica di nuovi testi.
La vivacità di questi progetti contrasta in maniera singolare con l'assenza di interventi istituzionali volti a favorire la diffusione del patrimonio di opere presenti nelle biblioteche tradizionali anche attraverso il supporto elettronico. Perché non aiutare con sovvenzioni pubbliche queste iniziative? E perché non creare un piccolo sbocco alla disoccupazione offrendo ai giovani un nuovo lavoro: l'amanuense elettronico?
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LESSICO D'AUTORE
Gusci gaddiani
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LE FRASI FA'ITE
crive G. Barberi Squarotti ne La narrativa italiana del dopoguerra (Cappelli, Bologna, 1965, p. 45): «La società che Gadda descrive ... è la società che nasconde le colpe e la morte, il dolore e l'inganno sotto la rispettabilità, la finzione della mansuetudine, i gesti convenzio
nali della pietà, del dovere. Tutta la filologia gaddiana non è che esito della ricerca accanita di strumenti adeguati all'irosa indagine degli aspetti abnormi, assurdi, ciechi, crudeli, grotteschi di questa società col suo fondo storico, fra la prima guerra mondiale e il fascismo».
Fra questi «strumenti adeguati» (cioè i dialetti e le espressioni dialettali, l'impasto di tecnicismi, forestierismi, preziosismi e neoformazioni, gli apporti fonosimbolici, i calembour, i giochi onomastici e quant'altro concorre a formare il particolarissimo lessico
gaddiano), quindi fra i mezzi adoperati per affrontare la dimensione del reale, ovvero per «penetrare nella vera natura di un mondo di volgarità e di orrore» (ibid.), rientra anche l'uso dei luoghi comuni, degli stereotipi, dei modismi, di quelle che Arbasino definisce le «frasi fatte della saggezza di un ceto medio completamente folle» (A Arbasino, C.E. Gadda, in Sessanta posizioni, Feltrinelli, Milano 1971, p. 89).
E poiché spesso in Gadda uno stato d'animo, un atteggiamento sentimentale si traducono in registro stilistico, l'uso delle frasi fatte, di quelle espressioni divenute «un guscio senza più il lumacone di dentro», è un modo di prendere le distanze dalla realtà che esse sottintendono, una difesa che lui, l'ingegnere, il borghese logorato dagli eventi e dai rancori familiari, tormentato dal «senso feroce ed esclusivo della proprietà» CD511, lui che si autodefiniva «inetto a vivere, nonché a comprendere, la piattitudine del rituale quotidiano» VM439, oppone alle umiliazioni e alle ferite che quel linguaggio, con la sua feroce banalità, è stato capace di infliggergli.
E volendo indagare l'humus propizio al sorgere e al diffondersi di quel linguaggio, è
AUGUSTA FORCONI
I luoghi co muni, gli
stereotipi, i modismi
n ella prosa d i
Gadda ·ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), pp. 297-302
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LESSICO D'AUTORE
298 Gadda stesso che dà delle indicazioni, nella Meditazione breve circa il dire e il fare (nella raccolta di saggi I viaggi la morte):
«Frasi, frasi, frasi (prive di contenuto), parole, parole, parole entrano ... "nella vita delle famiglie", si propagano da una famiglia all'altra ... ; e tutto procede come olio per i suoi vasi... nel tramite della banalità consueta. La pigrizia vestita di superficiale energia, la dabbenaggine addobbata di sopraccigli, la ottusità gocciolante di buoni sentimenti, il desiderio di non faticare con il cervello entrano poi rapidamente nel gioco.»
Le famiglie dunque (non si dimentichi, nella dolorosa conflittualità gaddiana, una spietata osservazione del Giornale di guerra: «prostrazioni e inebetimento e disperazione. Questa è la famiglia»), le famiglie borghesi e piccolo-borghesi, e ciò che simbolicamente esse rappresentano, il carico di significati, gratificanti e per ciò stesso falsi, che si portano appresso.
Famiglie, o anche (utilizzando alcune delle forme alterate di cui abbonda La cognizione del dolore) «famigliuole», ovviamente «distinte», ben sistemate nelle loro «casucce», con i «doppi servissi» e il «giardinetto», «villule», «villette» o «villone» rese civettuole da «vialetti», «spigolucci», «torricelle» e «cupolette», che le fanno parere «una via di mezzo fra l'Alhambra e il Kremlino» A112.
E in queste «illibate case» A310 dai pavimenti lucidati a cera, fra le mura del «tinello detto office» A113 oppure in mezzo agli «aggeggi della prudenza e della demenza domestica» A20, «lo schema di ogni conversazione ripercorre pedantemente ... le strutture immutabili della rassegnazione sventurata» (Arbasino, cit.): dove le convenzioni e le convenzionalità del pessimo gusto borghese vengono portate e commentate dalle più trite frasi fatte: nella cui modalità d'uso da parte di Gadda si possono, per comodità di lettura, distinguere tre momenti.
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LO STEREOTIPO TALE E QUALE
Gadda ben sa che le chiuse realtà esistenziali ch'egli rappresenta diventano ancora più meschine e ridicole se, per descriverne i tratti, fa ricorso alla cristallizzata inespressività degli stereotipi: e da quello «scrittore bizzoso e vendicativo», da quell'«inchiostratore maligno e pettegolo» (Intervista al microfono, in I viaggi la morte) che è, se ne serve senza risparmio, con riguardo a situazioni e comportamenti che, in tal modo connotati, appaiono spogliati di qualsiasi individualità. I gusci vuoti mandano un suono fesso, di pura ecolalia, siano essi forme tipiche del modo familiare di raccontare («Tutt'a un tratto, che è che non è» A21, «Un bel giorno, tutt'a un tratto» CD20, «E bell'e che lì, sui due piedi» CD 206, «Inoltre, colmo dei colmi» M474, «La bambina fu allevata come Dio vuole» RE1031, «Ed era venuto un tempo, l'ira di Dio» MF97), o le consuete zeppe su cui si reggono dialoghi che potrebbero anche esser monologhi, tanto irrilevante appare la presenza o meno di un interlocutore: «Bisogna arrabattarsi ... Tirare a campare» CD107, «cosa vuole ... fin che siamo qui!. .. C'è ancora da ringraziare il Signore!» CD125, «Basta che Dio ce la mandi buona» Rl1043, «gli aveva mandato a dire che non la tenesse in ballo a quel modo, che si decidesse: o prendere o lasciare» CD 230, «dar tempo al tempo ... suggeriva la padrona» AG912, «ascoltami. Gli anni fanno presto a passare ... » A265, «come quer giovedì maledetto, chi s'è visto s'è visto» P91, «Be', sarà per un altra volta» A418, «oeh! ma s'immagini! non sarà la fine del mondo ... » CDl 74, «la vedova, dopo tutto ... Meglio perderla che trovarla, quella lì» CD233, «Mbè ... Quanno ch'er diavolo ce se mette ... » P87, «mi scusi ... ma lei vuol proprio annegare in un bicchier d'acqua» CD205, « ... Mi vien male solo a sentirlo» CD198, «tale è il pandemonio che ... , ma è roba da spararsi» CDl 79, «Ma allora come stai a menare il can per l'aia ... » MF90, «Non voglio dargli la
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soddisfazione ... di prendere come oro colato tutte le minchionerie che gli vengono fuori dalla bocca» A265, « ... chelle due ... c'entra-vano come i cavoli a merenda ... » PA415, «Si parlava per parlare» M542, « ... Be' ... son cose che si dicono ... » CD119, «E vedremo se mangeranno la foglia» M566, « ... Ma coi tempi che corrono ... non c'è più speranza» AG659.
O anche, andando a riparare «nel grembo dell'antica saggezza», frasi proverbiali e proverbi, che a quel dialogo/monologo danno un tono «miseramente apodittico»: «Vivere e lasciar vivere, sogghignava» MF86, « .. .il diavolo, sì, difatti, insegna a far le pentole ... » CD243, «E finalmente ... testimoniano che volere è potere» CD249, «Chi vuole vada, chi non vuole mandi» P57, «E poi, corna a parte, chi ci ama ci segua» P98, «Chi non fa non falla. E sbajanno s'impara» P163, «di carnevale ogni scherzo vale» A189, «Chi cerca trova» P277, «Né alcuno si preoccupi ... : Dio non paga il sabato» CU132, «Si cominciava a sentire che non c'è rosa senza spine» Rl1053, «Di mamma [ ... ] ce n'è una sola nel mondo!» Rl1073, « ... Purtroppo le disgrazie non ven-gono mai sole, a questo mondo ... » AG685, «deve essere ... umile ... Chi si loda, s'imbroda» CU131, «Dio mio!. .. come passa il tempo! Ma finché c'è vita c'è speranza ... » AG788.
Volendosi soffermare sugli argomenti ai quali modismi e frasi fatte ineriscono, ecco quelli relativi all'espressione di punti di vista, giudizi e sentenze, sempre misurati unicamente sul metro di chi parla: «Che vuole ... a quell'età ... hanno l'argento vivo addosso» CD158, «E' un fior d'un medico ... » CD165, «Eccolo qui, l'ingegnere ... quella perla di un ingegnere buono di pianger soltanto miseria» MF104, «Si trattava di una vedova ... con una cascina molto ma molto per la quale» CD 230, «In questi paesi la popolazione è come il pane» CD195, «Di notte russa come un ghiro e di giorno ... fuma sigarette che costano un occhio della testa» Rl1046, «E' una svergognata ... che crede di darla a bere alla gente»
· Rl1085, «ma voi, col vostro ingegno, si sa, èun altro paio di maniche» AG788, « ... Bè,
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l'uomo, si capisce, è tutta un'altra faccenda ... » A235, «I setti anni li ha compiuti da un pezzo» CD196, «cerca di stare un po' più attenta ... perché il dente del giudizio lo devi avere su da un pezzo» A326, «Al giorno d'oggi, si può star sicuri di non trovarne più nemmen la semenza, di uomini compagni di quello» CD 127, «Cose che accadono ai figli delle migliori famiglie!» AG688, «Si dice per dire ... al giorno d'oggi la è un'altra vita ... » CD127, «Una signora come me!. .. non dico perché fusse mio marito, buon'anima!» P A282, «Ma se è un uomo come gli altri!. .. Griderà un po', di tanto in tanto, perché ha la luna in traverso ... La va a momenti, a simpatia» CD128, «Ci sono quelli ... che vengono subito al punto: Glielo dico io, bisogna saperli prendere! Ognuno pel suo verso» P95, «Basta quindi saperli prendere per il suo verso, e si arriva ... a cavarne qualche profitto» M486, «Son buona gente: no? ... Un po' rozzi, forse ... ma buona gente» CD195, «Questi ruffiani di Milanesi... a me non me la fanno» RI1037, «e poi ... una persona per bene si conosce dalla faccia» AG818.
Quelli riguardanti svariati comportamenti e modi di fare: «I Bertoloni non sapevano più che pesci pigliare per tirare avanti» CD58, «Il povero giovanotto ... Non sapeva dove andare a sbattere» A51; «il trattore ... lo mandò un bel giorno a far friggere» CD93, «è quasi certo che lo mandarono al diavolo» AG552, «gli era venuta la grama idea ... di mandare l'affezionata clientela a carte quarantotto» MF86; «non s'era voluto spiegar di più, dacché era uno che sapeva stare al mondo» CD396, «però poteva chiudere un occhio» CD390, «Il cliente se la può dormire fra due guanciali» P96, «il ragionier Barbagallo colse la palla al balzo» RD991; «gli avevano già promesso di fargli un giorno o l'altro la pelle» CD440, «due mesi gli parvero eterni ... Ma ci fece il callo» CD231; «Non aveva voce in capitolo. Brontolava, brontolava ... » CU149, «E ... aveva anche la faccia ... di cercar briga ogni volta» CD92, «io ... già mi dilungavo a far lo gnorri» EP199, «s'era fitta in ca-
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po che il commendatore ... volesse figurare di cascar dalle nuvole» P49, «il contrario ... dell'Adalgisa, che non s'era mai lasciata mettere nel sacco ... » A531, «il Municipio lo avrebbe preso in gobbo, stavolta» CD418, «per via ch'era accaduto non una volta l'avessero ad aver colto in castagna con qualche donna» M472, «dicevano che aveva trovato da far buona legna nel bosco, con lei, ma sì... con la sposa» M476 (il modismo, d'uso poco comune, significa «trovare un ambiente favorevole alle proprie intenzioni»), «era seduta in un certo modo succinto e piccante da far venire l'acquolina in bocca a' suoi ammiratori» M579, «pareva che ... non potesse più capire nella pelle dalla voglia» CD417; «dal terrazzo, rivide ... campane arrovesciate a menare il torrone della gloria» CD428 (menare il torrone) è un lombardismo che significa «infastidire, annoiare ripetendo sempre la stessa cosa fino alla nausea»).
E anche, più astrattamente, la manifestazione di umori e malumori, stati d'animo, condizioni fisiche ed emotive: «ho sbattuto i vetri, non ci vedevo più dalla rabbia» Rl1085, «Quand'è in furia, che ha perduto il suo Signore, non sa più neppur lui quello che gli esce di bocca» CD126 (dove l'espressione perdere il proprio Signore è un dialettismo che significa «perdere il controllo di sé»), «non ho neanche potuto dire il Rosario, tanto ero fuori di me» RI1085, «finì però poi per ridere a crepapelle sottovoce» Rl1067, «Siamo proprio rimaste di sasso ... » CU231, «quando poi si montavano la testa, nessuno più li teneva» Rl1031; « ... Dico la verità: avevo un po' perso la testa ... » PA420, « ... Basta perdere la testa un momento ... e la frittata è fatta ... » PA434; «li cronisti e il telefono avevano rotto l'anima tutta la sera» P80, «E poi ci ha fatto girare le scatole a tutti ... » M481, «la femmina ... non stia a romper le tasche» EP42, «Ma non rompete l'anima col mal di testa, adesso» P252, « ... E siccome me fece girà i corbelli, ... je dissi che se levasse da le scarpe ... e de nu stamme a rompe li cojioni ... » PA425; «lui, naturalmente, era un po' sulle spine, data la piega
che avevano pigliato gli avvenimenti: perché si trattava proprio di un'occasione e sarebbe stato un peccato lasciarsela scappa-re» CD231, « ... C'era solo lui ... che cascava dalle nuvole ... » PA407; «Ovvia, la prenda in-tanto un goccio di vinsanto: questo la rimette in palla» AG830, «le gambe gli cominciano a fare giacomo giacomo» CD392, «si ingolfò come in una diatriba ... gli si sciolse la lingua» M475.
Né possono mancare stereotipi e frasi fatte riguardanti il lavoro e il guadagno, argomento di fondamentale importanza per i personaggi gaddiani, gente attaccata al mito della proprietà e del risparmio, dedita, oltreché alla famiglia, al lavoro, sia che modestamente si tratti di «cavare un qualche quattrinuccio» CD58 o «soldino» Cd80 o «liruccia» CD34 dalla «botteguccia» CD34, sia nel caso di più borghesi e generici affari: «Sono gli affari del giorno: grane e gatte da pelare a bizzeffe, per esser giusti, e rospi da inghiottire da non averne un'idea» A211. «E così eccomi a dannar l'anima a mendicare un tocco di pane» M482, «per guadagnarsi il pane, anche lui come gli altri ... » CU263, «certi operai finti, che son lì soltanto ... per portar via il pane a chi tira la carretta» M480, «il povero marchese stentava a tirar la carretta» CD389, «Si sa che si tira la carretta ... come si può ... ogniduno la sua» CU263, «Alcuni ... dopo aver tirato la cinghia di mese in mese, discutevano di arruolarsi» CD441, «Seguita pure a lavorare! Mo' hai trovato la frusta per il culo tuo» A33 (espressione piuttosto rara analoga a trovare pane per i propri denti), «Ma state proprio benone!. .. Si vede che gli affari vi vanno a gonfie vele» AG787, «Bene lo dicono quelli che mangian di grasso» M475.
E si sa che, nel mito della solidità borghese, qualsiasi vocazione artistica è guardata con diffidenza e sospetto: «aveva un vero e proprio "temperamento di artista" ... (Mi si accappona la pelle solo a pensarci)» MF79, « ... gli artisti, ragazzo mio, è meglio perderli che trovarli ... » AG662.
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RIFARE IL VERSO AL PARLANTE
A volte, con il duplice intento di «rifare il verso al parlante, quasi per inerzia, o capriccio, o rabbia» (P.P. Pasolini, Gadda, in Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1960, p. 319), e di allontanare da sé un linguaggio la cui volgarità lo disgusta, Gadda usa presentare lo stereotipo o il modismo avvalendosi di formule introduttive (come si suol dire, come si dice, dice un modo e simili), oppure mediante l'espediente grafico delle virgolette (che Giacomo Devoto nella sua famosa analisi stilistica al Castello di Udine - cfr. G. Patrizi, La critica e Gadda, Bologna 1975, pp. 83-104 - cataloga fra i «mezzi stilistici extragrammaticali» ), le quali, oltre a mettere in risalto quanto si dice, servono ad attenuare «la responsabilità dello scrittore nell'impiego di una parola» (ivi, p. 95): «anche vulgarmente si suol dire che l'occhio è lo specchio dell'anima» EP194, «il battibecco ebbe come unico effetto, di mettergli, come si suol dire, il pepe nel culo» CD229, «all'uso volgare si dice, con tutto questo, si dice tener d'occhio» A95, «non isfuggì. allo sguardo di lince (così lo chiamava lui stesso) del brigadiere» P255, «quattro o cinque saputelli ... tutti situati a un dipresso in quella regione dello spettro che si chiama "predicar bene e razzolar male"» RI1031, «dopo gli anni di guerra ... aveva saputo "rimboccar le maniche"» AG785, «Ma "l'uomo è cacciatore" dice un modo da noi» RD963, «il loro fugitivo egoismo ... si esprimerebbe nei detti "cosa fatta, capo ha: passata la festa, gabbato lo santo"» EP49, «ignorava ... perché li voleva ignorare certi stanchi motti, o proverbi, come chi dica: parenti serpenti, amici nemici» AG860, «l'idea di marinare il concerto ... aveva messo l'argento vivo, se posso azzardare questo motto, nei lombi ... del giovane Gian Maria» A188, «si finiva per fare "quattro salti", sebbene l'espressione sia alquanto borghese» AG656, «Anche il marito l'aveva ''lasciata sola su questa terra", com'ella amava di sospirare» RI1083, «La madre ... , era "ammalata
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di un male che non perdona"» PA370, «quando una donna Giulia o Teresa, e moglie e madre ... la si sente "sicura del fatto suo"» A86, «la contessa, che era "l'anima della sua casa"» AG664, «un cornuto in famiglia ci voleva pure, un giorno o l'altro, "coi tempi che corrono!"» A241, «entrava nello studio ... con una faccia ... dov'era scritto "il tempo è denaro"» M550, «talvolta ... lo pilotavano ... fino al maiolicato sacello dove, chi ne provi il desiderio, può ''lavarsi le mani"» AG773; «gli dissero "auguri!"; e si corressero subito: " ... cioè, in bocca al lupo", perché dicono che a dir auguri, per gli esami come pel Carso, mena d'un gramo da non averne un'idea» MF78.
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INTERVENTO SULLO STEREOTIPO
Ma Gadda, lo scrittore «maniaco dei tecnicismi, dei motti popolareschi, dei modi eruditi, degli archi a spiombo e delle piramidi sintattiche, dei periodi a cavaturacciolo» (In
tervista cit.), uno che amava rielaborare anche le più semplici locuzioni avverbiali (per esempio, usando le inversioni «giù e su» e «più mai» anziché le forme correnti su e giù e mai più), non può limitarsi alla semplice utilizzazione di materiale creato da altri, per quanto originali ne siano gli esiti: ecco quindi le varie operazioni di intervento sullo stereotipo, con risultati grotteschi e spesso comici: «una vita tutta dedita al bene, o per dir meglio al male, del prossimo» CD71, «benché tre, si fecero in quattro ... a depor cappelli, giornali» CU266, «una creatura venuta alla luce o meglio alla ombra o penombra del Carlo Ghezzi» AG913, «il povero giovanotto non sapeva più a che Fumagalli votarsi» A51 (dove il nome proprio sostituisce il santo del modismo, con evidente intento ironico), «gli altri ... cascarono da tutte le lor nuvole» AG838, «il vigile prendeva un cappello da non dire» AG877, «i medici le avevano messo una spina nel cuore (il buon gusto della contessa aborriva dalla pulce nell'orecchio)»
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AG651, «egli ne aveva raccontato un po' a tutti, volenti e nolenti» CD232, «provveduti di un mezzo palmo di buon naso» CD364 (condensazione di due cliché avere buon naso e rimanere con un palmo di naso), «il violoncello è uno strumento barocco: un contrabbasso, meglio che andar di notte» CD480, «c'è un vecchio modo che dice: "non c'è due senza tre". E ... non c'è tre senza quattro, non c'è quattro senza cinque» M572, «San Benedetto, la camicia è sul letto» AG912 (evidente deformazione del proverbio San Benedetto, la rondine sotto il tetto), «levata ... la forchetta carica, aprivo la bocca senza chiudere gli occhi», CU199 (allusione all'espressione apri la bocca e chiudi gli occhi, che si suol dire a volte a ragazze e bambini nell'offrir loro cose particolarmente ghiotte), «l'erba che sarà cresciuta, la mangerà il cavallo, che campato sarà» CU122 (deformazione del proverbio campa cavallo che l'erba cresce).
Risultati che a volte sono decisamente irresistibili, come nel caso dei doppi interventi che seguono: «non aveva un centesimo in saccoccia e viceversa molto argento vivo addosso» CD232, «incontrava uomini che lo guardavano in cagnesco e cani che lo guardavano umanamente» M559.
5 CREAZIONE DI NUOVI MODI DI DIRE
Il geniale e instancabile coniatore di neoformazioni, il pasticheur che raggiunge «effetti di folenghiana felicità» (P. Gelli in G. Patrizi, cit., p. 74), il possessore di quellavis umoristico-grottesca che si estrinsecanell'invenzione di neologismi anfibologici,lascia il segno anche nella coniazione di nuovi, e personalissimi, modi di dire: come, peresempio, nella Cognizione (108), per indicareil massimo della goffaggine: «non aveva nessun genio per l'arrabattarsi ... , nel di cui usosi trovava più impacciato che una foca a frigger tortelli»; e in un'allusione al formaggiogorgonzola ( che Gadda, per motivi simbolici,
odiava tanto da non menzionarlo quasi mai con il suo vero nome): «grasso, piccante, fetente al punto da far vomitare un azteco» CD39, dove l'azteco (forse a causa dell'ostico gruppo consonantico -zt-) è preso come termine di paragone per indicare persona dallo stomaco eccezionalmente robusto o dai gusti particolarmente barbari; e ancora nella Cognizione (63): «Era, il Bertoloni ... in procinto di andar al bombo del tutto», dove l'espressione andare al bombo è la traduzione del modismo argentino irse al bombo (bombo dal latino bombus «rumore ronzio») e significa «andare economicamente in rovina»; e nell'Adalgisa (304), accennando a una volontà alfierianamente forte: «un "volere è potere" che avrebbe rincorso un cappero in cima al Sempione»; e infine, ancora dall'Adalgisa (806), un'immagine bizzarra e insieme poetica com'è nello stile del nostro, cui la coppia asidentica di aggettivi conferisce un'immediatezza quasi cinematografica, e la similitudine un effetto di dissolvenza sul quale è grato concludere queste note: «lo rimirava con una lunga, interminabile guardata ... più lunga di un tramonto estivo a Edimburgo».
L E G E N D A
A= L'Adalgisa, Garzanti, Milano 1985; L'Adalgisa, in Romanzi e racconti, Garzanti, Milano 1988, voi. 1°.
AG = Accoppiamenti giudiziosi in Romanzi e racconti, Garzanti, Milano 1989, voi. n° .
CD= La cognizione del dolore, Einaudi, Torino 1987.
CU = Il castello di Udine, in Romanzi e racconti, Gar
zanti, Milano 1988, voi. 1°.
EP =Eros e Priapo, Garzanti, Milano 1967.
M = La Meccanica, in Romanzi e racconti, Garzanti, Mi
lano 1989, voi. n°.
MF = La Madonna dei Filosofi, in Romanzi e racconti, Garzanti, Milano 1988, voi 1°.
P = Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti,
Milano 1957.
PA = Quer pasticciaccio brutto de via Merulana - Reda
zione di «Letteratura» - in Romanzi e racconti, Garzanti, Mi
lano 1989, voi n°.
RD = Racconti dispersi, in Romanzi e racconti, Garzan
ti, Milano 1989, voi n°.
RI = Racconti incompiuti, in Romanzi e racconti, Gar
zanti, Milano 1989, voi. n°.
VM = I viaggi la morte, in Saggi giornali favole, Garzanti, Milano 1991, voi I° .
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L'ITALIANO ALLA CORTE INGLESE Harro Stammerjohann
11 1 primo tentativo di sistemazionegrammaticale italiana in Inghilter
ra», secondo quanto scrive Spartaco Gamberini nel suo libro sullo studio dell'italiano in Inghilterra nel '500 e nel '600 (Gamberini 1970), «è di John Clerk, segretario del Duca di Norfolk», il quale, in un'opera del 154 7, dà alcune tabelle dei verbi italiani, come anche di verbi francesi, cercando di avvicinare l'italiano il più possibile al latino (Gamberini 1970, 58s.).
Ma la prima grammatica italiana vera e propria in Inghilterra è, sempre secondo Gamberini, del gallese William Thomas, studioso e segretario del consiglio di Eduardo VI, che aveva già pubblicato una storia dell'Italia. La grammatica, intitolata Principal Rules of the Italian Grammar, apparve nel 1550 (Gamberini 1970, 60sg.) La grammatica stessa, seguita da un dizionario, è piuttosto breve.
In effetti, nella dedica, scritta a Padova nel 1548, il Thomas dice che, mentre il greco e il latino richiedono un lungo studio, «the Italian is in short space and easilie obteigned» [si apprende in poco spazio e facilmente], ed è anche questo un giudizio che abbiamo già trovato, e che ritroveremo ancora, in molti altri autori, non solo inglesi.
Il Thomas continua dicendo che la lingua italiana sta per diventare alla pari con le due lingue classi-
FONTI
loro lingua sarà sicuramente tanto ricca quanto ciascuna di quelle due] (ib. ).
1111 ammirazione per Italia rinascimen-111 tale era universale e ad alcuni sembrava addirittura pericolosa. Così allo studioso e professore di greco Roger Ascham, insegnante della futura regina Elisabetta, il quale, nel suo trattato pedagogico The Scholemaster del 1570, sconsigliava ai giovani inglesi di andare in Italia: «not, » affermava, «bicause I do contemne, either the knowledge of strange and diuerse tonges, and name lie the Italian tange, which next the Greeke and Latin tange, I like and loue aboue all other» [non perché io condanni la conoscenza di lingue straniere e diverse, specie della lingua italiana la quale, assieme alla greca e latina, io amo più di tutte] (Gamberini 1970, 11). Per l'Ascham (ed altri inglesi dell'epoca) erano gli italiani che erano corrotti, non la loro lingua.
Questa lingua, che dunque anche all'Ascham sembrava alle pari della greca e della latina, all'uomo di Stato e poeta Sir Philip Sidney sembrava inferiore alla lingua inglese, almeno rispetto alla sua idoneità per la poesia. Infatti, intorno al 1583 Sir Philip Sidney in un suo trattato An Apologie far Poetrie (pubblicato nel 1595) trovò che «the Italian is so full of vowels,
that it must ever be combered with eliche. «So that if the Ita
lians folowe other tenne yeres the diligence, that in these tenne yeres passed they haue vsed [sic]: surelie their tongue will be as plentifull as anie of the other» [in modo che, se gli italiani si distinguono altri dieci anni come hanno fatto i dieci anni passati, la
P. Gamberini, Lo studio dell'italiano in In
ghilterra nel '500 e nel '600, D'Anna, Mes-
sions» [così pieno di vocali che deve costantemente essere disturbato da elisioni] (Sidney 1965, 140) -un giudizio che abbiamo già incontrato in tanti francesi e che forse esprime anche l'invidia di chi parla una lingua meno ricca di vocali.
sina-Firenze, 1970.
Ph. Sidney, Sir, An Apology far Poetry or The
Defence of Poesy, Edited by G. Shepherd,
Nelson, Edinburgh, 1965 (pubblicato per la
prima volta sotto il titolo An Apologie far
Poetrie a Londra nel 1595).
W. Thomas, Principal Rules of the Italian
Grammar 1550, The Scolar Press, Men
ston, 1968.
rm
303
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304
[ ESPERIMENTI GRAMMATICALi]9
PRESENTI E FUTURI IMPERFETTI Maria G. Lo Duca
0 bbiamo visto nel precedente 'esperimento' W che la simultaneità tra eventi che si svolgono nel passato costituisce una caratteristica distintiva dell'imperfetto rispetto ad altri tempi del passato, in primo luogo passato prossimo e passato remoto. Infatti in:
Mentre parlava, Maria muoveva nervosamente il piede
la presenza di mentre che è una congiunzione temporale che instaura di per sé un rapporto di simultaneità tra eventi, rende obbligatorio l'uso dell'imperfetto, trattandosi di due eventi che si collocano nel passato. L'uso degli altri tempi del passato è semplicemente agrammaticale:
*Mentre ha parlato, Maria ha mosso nervosamente il piede
*Mentre parlò, Maria mosse nervosamente ilpiede
*Mentre aveva parlato, Maria aveva mossonervosamente il piede.
Abbiamo anche detto che questa interpretazione dell'imperfetto scatta anche in assenza di espliciti indicatori di simultaneità. In:
Maria mangiava e guardava la televisione; Maria mangiava e Francesco suonava il pia
noi
due eventi vengono interpretati comunque come avvenuti nello stesso lasso di tempo.
Proveremo adesso a sottoporre a ulteriore verifica questa nostra scoperta dell'imperfetto come «tempo della simultaneità nel passato». Cominciamo dal caso più semplice. In:
(1) Maria mangiava e io studiavoL'insegnante leggeva il giornale e gli studenti facevano il compito
in cui i protagonisti degli eventi considerati, e quindi i soggetti grammaticali delle frasi, sono diversi, la lettura simultanea sembra fuori discussione. È anche chiaro come in questo caso l'uso del passato prossimo/remoto annullerebbe, o comunque non autorizzerebbe, questa lettura.Una sequenza del tipo:
Maria ha mangiato I mangiò e io ho studiato I studiai
non comporta necessariamente che i due eventi si siano svolti nello stesso lasso di tempo.
m a, domanderemo questa volta ai nostri !ll,! studenti, cosa succede se il protagonista/soggetto è lo stesso? L'interpretazione simultanea suggerita dall'imperfetto è sempre confermata? Ragioniamo sugli esempi che seguono.
(2) Maria mangiava, fumava e guardava la televisione
(3) Maria prima mangiava poi fumava, e infine, guardava la televisione
(4) Maria si truccava, si vestiva e correva aprendere l'autobusIl professore entrava in classe, faceva l'appello e cominciava a spiegareMio padre si alzava e faceva colazione
Ora, mentre per (2) l'interpretazione simultanea è la più ovvia, non potremo dire altrettanto per (3), dove la semplice aggiunta di indicatori temporali è bastata a dare degli stessi eventi una visione sequenziale. I casi in (4) sono ancora più difficili da far rientrare nell'ipotesi dell'imperfetto come tempo della simultaneità: nonostante manchino espliciti indicatori di successione (prima, poi, dopo, in seguito, infine ... ), non c'è dubbio che gli eventi descritti dai diversi imperfetti di ciascuna sequenza saranno interpretati del tutto naturalmente come successivi. Come mai? Che cosa fa la differenza tra (2) e ( 4)?
Ci aspettiamo che siano gli stessi studenti a scoprire che la differenza sta tutta nel significato dei verbi adoperati nei diversi contesti. Noi tutti 'sappiamo' infatti che gli eventi descritti da truccarsi, vestirsi e correre a prendere l'autobusse attribuiti allo stesso soggetto non possono essere simultanei, così come non possono esserlo quelli di entrare in classe, fare l'appello e cominciare a spiegare o quelli di alzarsi e farecolazione. Se è vero dunque che l'imperfetto è il tempo della simultaneità nel passato, questa sua proprietà deve poi fare i conti con la nostra profonda e radicata conoscenza di 'come vanno le cose del mondo', dalla quale ricaviamo continuamente una miriade di informazioni che adoperiamo anche in chiave grammaticale. Se due o più eventi non possono essere simultanei, l'uso dell'imperfetto non riuscirà a farcelo dimenticare. Ma se più eventi possono essere simultanei, l'uso dell'imperfetto autorizzerà proprio
ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), pp. 304-306
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[ ESPERIMENTI GRAMMATICALI ]9
questa interpretazione. Per convincersene basti osservare la differenza tra:
Mio padre si alzava e faceva colazione (eventi successivi) Mio padre faceva colazione e leggeva il giornale (eventi simultanei) Quando mi faceva male la testa, prendevo una pillola (eventi successivi) Quando facevo compito in classe, avevo tanta paura (eventi simultanei)
Possiamo pertanto concludere che la nostra ipotesi dell'imperfetto come tempo della simultaneità nel passato rimane vera, ma nei casi in cui il significato dei verbi adoperati escluda la possibilità della sovrapposizione degli eventi, l'imperfetto esprime anche rapporti di successione nel passato.
0 ndiamo avanti, e scopriremo che c'è an!iJ cora qualcosa da dire sulle caratteristichetemporali dell'imperfetto. Esiste nell'italiano parlato un uso molto frequente dell'imperfetto che potrebbe mettere in crisi tutto quanto abbiamo detto fin qui.
(5) Maria mi ha detto che partiva la serastessa per la SpagnaMi avvertirono che Maria si sposava ilgiorno dopoNon avevo capito che Maria veniva oggi
In casi come questi l'imperfetto occupa il posto del condizionale passato (. .. mi ha detto che sarebbe partita, mi riferirono che Maria si sarebbe sposata, non avevo capito che Maria sarebbe venuta) ed esprime un tempo futuro rispetto al tempo nel quale si colloca l'evento espresso dalla frase principale. Quindi una possibile rappresentazione della situazione temporale delle frasi in (5) potrebbe essere:
--------•➔TEMPO MA' ha detto
MN ME partiva
avvertirono si sposava avevo capito veniva
dove, lo ricordiamo, la retta orizzontale indica il fluire del tempo; ME indica il momento dell'enunciazione, cioè il momento in cui il parlante
formula linguisticamente il suo pensiero; MA1 e MA2 sono i due diversi momenti, entrambi passati rispetto a ME, in cui si collocano i due avvenimenti di cui si parla in ciascuna sequenza.
La cosa forse più interessante di quest'uso è che esso può mettere in crisi addirittura la caratteristica dell'imperfetto come tempo del passato. Una frase come:
(6) Maria ieri mi ha detto che oggi alle quat-tro andava dal parrucchiere
può essere pronunciata prima delle quattro, ora in cui Maria andrà dal parrucchiere, e quindi avremmo un caso in cui l'imperfetto descrive un'azione futura rispetto al ME. E infatti una possibile rappresentazione di (6) in questo caso sarebbe:
----•----➔ TEMPO MA1
ha detto ME MN
andava
In questo modo salta proprio quella che avevamo detto essere la caratteristica prima e più importante dell'imperfetto quale tempo del passato. Certo, l'evento diciamo così principale deve in questi casi essere espresso da una ristretta categoria di verbi, un verbo di 'parola' (mi ha detto, mi avvertirono) o di 'pensiero' (non avevo capito), e quindi si tratta in definitiva di casi abbastanza marginali. Ma, possiamo ignorarli? Tanto più che esistono anche altri usi dell'imperfetto come tempo futuro.
(7) (Bambini che giocano) Tu eri un ladro emi rubavi la bicicletta, ma io ti vedevo emi mettevo a gridare
(8) - Vieni al cinema stasera?-Ma, veramente andavo fuori a cenaiDomani c'era una mezza idea di andare asentire PavarottiL'estate prossima volevo andare in Sardegna
In tutti questi casi l'imperfetto descrive degli eventi che nel ME non si sono ancora verificati. Quindi le voci all'imperfetto sono sul piano temporale dei futuri, ma con sfumature di senso diverse, tanto è vero che la prova della sostituzione dell'impefetto con altri tempi dà in ciascun caso esiti diversi.
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w
306
[ ESPERIMENTI GRAMMATICALI ]9
Abbiamo già visto che nei casi esemplificati da (5) e (6) l'imperfetto 'occupa' il posto di un condizionale passato. Non così in (7), dove l'imperfetto usato dai bambini serve a stipulare un patto, a fissare ruoli e modalità di gioco, e descrive sequenze di gioco, personaggi ed eventi immaginari che dovranno essere 'simulati' subito dopo, in un futuro imminente. È un imperfetto quindi che, sul piano temporale, corrisponderebbe a un futuro, e potrebbe in teoria (ma attenzione, solo in teoria, perché i bambini non lo fanno mai) essere sostituito dal futuro semplice:
Tu sarai un ladro e mi ruberai la bicicletta, ma io ti vedrò e mi metterò a gridare
Anche gli esempi in (8) sono dei futuri, se non proprio imminenti certo prossimi al ME; sono però anche dei futuri attenuati, non perentori, cortesi, in qualche caso lievemente dubitativi, e potremmo infatti sostituirli con dei condizionali presenti:
Vieni al cinema stasera? - Ma, veramente andrei fuori a cena! Domani ci sarebbe una mezza idea di andare a sentire Pavarotti L'estate prossima vorrei andare in Sardegna
Il che dire, infine, di questi altri casi?:
(10) (Dal salumiere) Volevo un etto diprosciutto - Come mai sei qui?- Venivo per parlare con te
Questi imperfetti sono temporalmente dei presenti, e la loro rappresentazione sull'asse del tempo potrebbe essere questa:
----•-------TEMPO ME MA volevo, venivo
Tuttavia il confronto con le stesse sequenze trasportate al presente (Voglio un etto di prosciutto; Come mai sei qui? Vengo per parlare con te) ci dice che in questi usi l'imperfetto è più cortese, più sfumato del presente, quasi che il parlante dicesse: «voglio un etto di prosciutto» o «vengo per parlare con te sempre che ciò sia possibile».
Tiriamo le somme. Alla fine di questo nostro percorso di scoperta delle proprietà temporali dell'imperfetto dovreino forse concludere che èvero, l'imperfetto è soprattutto un tempo usato per descrivere eventi passati. Ma in parecchi casi, per lo più limitati a contesti informali e colloquiali, l'imperfetto viene usato anche per esprimere eventi presenti ed eventi futuri. Al punto che anche gli 'autori', ne fanno uso, specie quando vogliono simulare il parlato:
«Ma non so ... dice che veniva qui con un signore» (Calvino) «Be' parla allora - Prima di tutto volevo dirti che vado a stabilirmi a San Donato» (Cassola) Leone sorprende l'amico Guido in casa di sua moglie «[Guido]: Oh, Leone ... Ero qua, a bere un bicchierino di 'Chartreuse'» (Pirandello)1
Il Gli esempi letterari sono citati da L. Serianni con la
collaborazione di A. Castelvecchi, Grammatica italiana.
Italiano comune e lingua letteraria, Utet, Torino 1989, p.
470.
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LI
I T A LIANO FUORI D'ITALIA
Ma chi ha inventato il congiuntivo?
,
PREMESSA
n questi ultimi anni gli studi sull'acquisizione dell'italiano L2 sono cresciuti notevolmente, sia in termini quantitativi, sia per le aree linguistiche analizzate.
Questi studi si sono soffermati per lo più sul processo di apprendimento1
delle strutture morfosintattiche, dell'area tempora-
le, della modalità o della formazione di parola (si vedano, ad esempio, Giacalone Ramat 1988, e Bernini e Giacalone Ramat 1990), così come vengono rilevati nelle produzioni orali - e più raramente scritte - degli apprendenti l'italiano in contesto spontaneo (come gli immigrati) o scolastico.
Esiste però un filone di ricerca che, per quel che mi risulta, non è ancora ben rappresentato nel campo dell'italiano L2. Si tratta di quegli studi che prendono in considerazione il processo di apprendir�ento non tanto dal punto di vi-
sta del sistema linguistico (o «interlingua») che si costruisce gradualmente, quanto «dalla parte dell'apprendente», studiandone variabili affettive quali la motivazione o gli atteggiamenti linguistici. E' il campo di studi definito da Larsen-Feeman e Long (1991:37) «interpretazione focalizzata» (focused introspection) cui è l'apprendente stesso a registrare (e analizzare) i momenti e gli aspetti più salienti del proprio processo di apprendimento. In genere questi lavori si occupano di apprendenti che studiano la lingua in contesto guidato, e l'assenza nel campo dell'italiano è forse da attribuirsi al fatto che l'attenzione in Italia si è finora rivolta principalmente all'apprendimento spontaneo degli immigrati.
Lo studio che presentiamo rientra per certi aspetti nell'ambito della «introspezione», in quanto agli studenti viene chiesto di riflettere sul proprio processo di apprendimento. Tuttavia si differenzia da studi precedenti poiché la nostra attenzione è rivolta soprattutto a quelle aree della L2 con cui gli studenti hanno maggiori difficoltà, mentre gli atteggiamenti nei confronti della lingua, dell'apprendimento o anche del tipo di insegnamento emergono indirettamente attraverso la riflessione sulle aree più specificamente linguistiche.
ANTONIA RUBINO
Percezioni linguisti
che di chi studia l'i
taliano all'estero
ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), pp. 307-312
307
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308
L'ITALIANO FUORI D'I
2
LO STUDIO
Lo studio è stato condotto con un gruppo di studenti di italiano a livello avanzato, che frequenta il terzo anno del corso di laurea nel Dipartimento di Italiano dell'Università di Sydney in Australia.
La ricerca si proponeva di dare una risposta alle seguenti domande:
(1) Quali sono le aree di studio dell'italianoche risultano di maggiore difficoltà per studenti a livello avanzato?
(2) Le aree che gli studenti considerano particolarmente difficili sono anche quelle che risultano di difficile acquisizione dalle ricerche?
(3) Le aree linguistiche che gli studenti diorigine italiana considerano difficili sono le stesse degli studenti di origine anglo-celtica o di altro background linguistico?
Abbiamo deciso di scegliere studenti a livello avanzato poiché, avendo già studiato la lingua per almeno tre anni (in realtà diversi studenti l'hanno studiata anche al liceo), si pensava fossero in grado di analizzare le loro difficoltà linguistiche con maggiore acume dei principianti. Inoltre alcuni studenti avevano frequentato un corso semestrale di glottodidattica in cui avevamo discusso alcuni studi sull'acquisizione dell'italiano e i problemi incontrati dagli studenti stessi.
Agli studenti è stato chiesto di scrivere un componimento, in inglese o in italiano, dal seguente titolo: «Identificate alcune aree della lingua italiana che avete padroneggiato con difficoltà o che ancora non padroneggiate. Presentate le vostre difficoltà tramite esempi tratti dai vostri compiti o dalle vostre produzioni orali, e provate a darne una spiegazione».
E' da notare che si è usato il termine aree poiché non si voleva indirizzare gli studenti verso un particolare livello linguistico. Inoltre si è cercato di ampliare la prospettiva facendo riferimento sia allo scritto che all'orale. Bisogna dire che per molti studenti questa è stata la prima volta che riflettevano sui propri lati deboli in modo esplicito, mettendoli per iscritto e confessandoli, per così dire, ad altri. Il testo è sta-
TAL I A
to distribuito a 50 studenti e hanno consegnato il compito in 37.
I compiti sono stati analizzati tenendo conto dei seguenti fattori: (a) background linguistico dello studente; (b) aree linguistiche identificate; (e) spiegazioni delle difficoltà; (d) altre osservazioni, ad esempio, a proposito del processodi apprendimento, di strategie personali messein atto, e così via. Per quanto riguarda il background linguistico, peraltro abbastanza rappresentativo della composizione tecnica deglistudenti del terzo anno nel nostro Dipartimento, il campione era così ripartito:
origine anglo-celtica origine italiana altra origine* totale
14 16 7
37
(38%)
(43%)
(19%)
(100%)
* Studenti con le seguenti Ll: greco, maltese,croato, tedesco e francese.
Tab. 1: Background linguistico degli studenti
Inoltre nel nostro campione sono presenti 33 ragazze (89%) e 4 ragazzi (11 %), una distribuzione anche questa rappresentativa della norma dipartimentale.
3
L'ANALISI DEI DATI
La tabella 2 presenta in ordine di frequenza le aree linguistiche identificate dagli studenti come aree dell'italiano non ancora padroneggiate.
Origine degli Tot. studenti
37 Uso dei tempi 20 Congiuntivo 18 Preposizioni 16 Pronomi 8
Sceltaausiliari 5
Conc. nominale 5
Art. definito 3 Si impersonale 2
anglo-celtici 14 11 6 7 4
2 2 1 2
italiani altri
16 7 6 3 9 3 6 3 4
3 3 1 1
Tab. 2: Aree linguistiche di maggiore difficoltà
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LI
I T A
Alcuni chiarimenti a proposito della tabella e delle categorie usate. Per prima cosa è da notare che si sono incluse solamente quelle aree menzionate da almeno due studenti. Sono così rimaste escluse le seguenti aree citate da uno studente soltanto: la costruzione causativa, la posizione degli avverbi, il passato remoto, il gerundio, l'ortografia e la produzione orale. In secondo luogo, la categoria «uso dei tempi» si riferisce in pratica alla consecutio temporum, indicata dagli studenti con diverse etichette: uso dei tempi, il periodo ipotetico, il futuro nel passato e il discorso indiretto. E' da notare però che, poiché il congiuntivo viene sempre menzionato a parte, anch'io l'ho tenuto separato.
La prima osservazione da fare a proposito dei risultati è che, sebbene nella domanda si parlasse di «aree dell'italiano», in realtà gli studenti hanno nominato quasi esclusivamente il livello morfosintattico della lingua.
Come abbiamo visto prima, sono stati pochissimi quelli che hanno accennato ad altri livelli linguistici.
Questa attenzione alla morfosintassi potrebbe essere il risultato del tipo di insegnamento e del curricolo del Dipartimento. Nel programma del terzo anno si dà infatti ampio spazio ad argomenti grammaticali. Ma è anche da notare che non si trascurano affatto altre aree specifiche, quali il lessico, o abilità più generali, quali la lettura, che invece non vengono citate quasi per niente dagli studenti. Inoltre, alle due lezioni settimanali di insegnamento grammaticale, si aggiunge una lezione specificamente dedicata all'orale, in cui si discutono e commentano testi di vario genere, si guardano dei video o si fanno attività di drammatizzazione. Gli studenti sono quindi abituati a soffermarsi su livelli diversi della lingua e sono esposti a una varietà di approcci didattici. Ci sembra perciò che le risposte solo in parte possano essere spiegate con il curricolo, mentre tradiscono invece le percezioni degli studenti a proposito della L2 e del proprio apprendimento linguistico.
L'elemento che trapela dalla maggioranza dei componimenti è infatti una grande esigenza di riflessione grammaticale, di capire come funzioni il sistema di regole sottostante alla lingua. Ne è
LIANO FUORI D'ITALIA
prova il richiamo costante alle regole, che ovviamente costituisce per questi studenti un importante punto di riferimento (si veda anche più sotto).
La seconda osservazione concerne più specificamente le strutture che vengono nominate. Come si vede, per tutti e tre i gruppi l'area verbale è considerata di gran lunga la più difficoltosa, seguita dall'uso delle preposizioni (in particolare dopo certi verbi).
Per quanto riguarda l'uso dei tempi, non c'è da stupirsi. E' noto che si tratta di un'area di grande complessità, in cui bisogna tenere conto di diversi fattori, quali la semantica del verbo, l'aspettualità di elementi quali gli avverbiali, la deitticità e l'anaforcità dei tempi verbali o la diversità delle frasi subordinate (Cfr. Bertinetto 1991). Considerazioni di carattere semantico e sintattico, che non si prestano certo a riduzioni schematiche a uso didattico, rendono l'area estremamente complessa.
Per quanto concerne poi il congiuntivo, è chiaro dagli elaborati che questo rappresenta una vera e propria bete noire (il titolo di questo articolo è una citazione tratta da uno dei compiti); ciò è sottolineato anche dal fatto che, come ho già detto, viene sempre nominato a parte. Anche in questo non si può dar torto agli studenti. E' pur vero che si tratta di un mezzo che «arricchisce la lingua di sfumature soggettive ed estimative altrimenti male esprimibili» (Nencioni 1987: 179), ma sono proprio la dimensione soggettiva e la complessa casistica che lo rendono «sfuggente» agli studenti. Non è un caso che tanto l'uso dei tempi quanto il congiuntivo siano anche le aree dell'italiano che stanno subendo o che hanno subìto profonde ristrutturazioni - e in direzione di una semplificazione - non solo in alcune varietà diastratiche dell'italiano, come l'italiano popolare, ma anche in varietà diafasiche, come l'italiano parlato colloquiale (cfr. Berruto 1987: 70-73; Bozzone Costa 1991).
A proposito delle preposizioni, invece, le considerazioni da fare sono di altro genere. Da una parte è innegabile che anch'esse siano un'area complessa, poiché «una stessa preposizione può esprimere, a seconda del contesto e del tipo di costruzione sintattica, relazioni del tutto diverse»
309
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r--
310
L'ITALIANO FUORI D'I
(Seriarmi 1988: 280). Anche Rizzi (1988:511) riconosce che è difficile indicare un nucleo di si
gnificato costante per le preposizioni monosilla
biche quali a, con, da, ecc. Come l'area verbale,
quindi, anche le preposizioni rappresentano un'area di «estensione» e «sostituzione» nell'italiano popolare (Berruto 1983: 50). Dall'altra, però, sorprende che gli studenti si preoccupino tanto delle preposizioni, e cioè di elementi strutturali che spesso giocano un ruolo marginale rispetto ad altre aree linguistiche, in particolare dal punto di
vista della comunicazione. Si veda ad esempio quel che dice la studentessa in (1).
(1) «Non posso ricordare ne quali preposizioni diusare ne se la costruzione è una che è con osenza gli articoli. Per esempio: "Non ho familiarità con il sistema di Australia oggi"».2
Inoltre sembra che gli studenti non si rendano conto che la difficoltà è dovuta anche al fatto che si tratta di elementi poco sistematizzabili, dove è possibile identificare solo alcune tendenze generali nell'uso sulla base della semantica del verbo che precede (cfr. Vincent 1988: 306-307).
Una terza osservazione sui dati è che tutti e tre i gruppi di studenti selezionano le stesse aree di
maggiore difficoltà. Da ciò possiamo desumere che, almeno al livello avanzato, è la complessità
della lingua di arrivo a prevalere sui diversi background. All'interno della stessa area, però, possono esservi alcune differenze: ad esempio, mentre lo studente anglofono ha problemi soprattutto con l'uso dell'articolo, lo studente italiano ha
problemi con gli allomorfi di il. Infine stupisce la scarsa menzione di alcune
aree che sono state considerate di grande com
plessità e di difficile acquisizione, come l'area pronominale (cfr. Simone 1983). Tale assenza
può essere forse spiegata con il fatto che nell'area
pronominale è possibile mettere in atto strategie
di evitamento e ricorrere ad esempio alla ripeti
zione del sintagma nominale. Inoltre si tratta di un'area che viene evidenziata maggiormente nelle produzioni orali, mentre gli studenti hanno
preso in considerazione soprattutto le loro produzioni scritte.
Passando adesso al secondo punto dell'analisi,
TAL I A
in che modo vengono spiegate le difficoltà linguistiche? La prima cosa da dire è che troviamo li
velli molto disparati di spiegazione, da poche ri
ghe in cui tutti i problemi vengono attribuiti
all'inglese, a discussioni articolate e documentate, specialmente da parte di quegli studenti che hanno frequentato corsi di linguistica o di glot
todidattica. La spiegazione più frequente è di ti
po contrastivo, per cui le difficoltà sono spiegate in termini di differenze tra la propria Ll e l'italiano,
come in (2):
(2) «Pronomi diretti I indiretti: la distinzionenon è sempre molto chiara in inglese ( ... ) e ilsignificato dei verbi inglesi non corrisponde
esattamente al significato di quegli italiani.»
Gli studenti italo-australiani come fonte di errori spesso citano il dialetto dei genitori o la fossilizzazione di certe abitudini linguistiche nell'ambiente domestico.
Un secondo tipo di spiegazione si riferisce alla L2. Gli studenti linguisticamente più 'raffinati' citano alcune caratteristiche del sistema dell'Italiano, quali la polisemia dei verbi, la complessità delle flessione italiana, la mancanza di indicatori e la scarsa chiarezza nei confini tra i tem
pi verbali. Viene citata anche la bassa frequenza della struttura. Così conclude ad esempio una
studentessa, dopo aver discusso tempi verbali e
clitici: (3) «( ... ) the fundamental difficulties with both
verbs and pronouns is their intrinsic complexity.
This combines negatively with the fact that their usage has hazy boundaries, the important parts of the constructions are often unstressed, and they
are both so different to their English counter
parts . »
Alcuni studenti attribuiscono invece le difficoltà
al modo in cui l'italiano viene insegnato, in par
ticolare all'ordine di presentazione delle strutture: ad esempio, aver presentato tardi il congiuntivo avrebbe causato una fossilizzazione di
abitudini linguistiche 'errate'. Secondo altri, i problemi dipendono dalla mancanza di spiega
zioni chiare fin dall'inizio della presentazione
della struttura; gli studenti anglofoni in particolare si lamentano del fatto che le spiegazioni sia-
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LI
I T A
no avvenute in italiano, rendendo così difficile una piena comprensione.
Infine, l'ultimo tipo di spiegazione è quella 'personale'. In pratica, per un certo numero di studenti le difficoltà sono dovute alla loro disattenzione o pigrizia, alla ignoranza delle regole o a strategie di evitamento, com'è affermato in (4):
(4) « ... mi sono confusa soprattutto con il congiuntivo. Prima di quest'anno non l'ho maistudiato a lungo e non l'ho mai capito. Hosempre cercato di evitarlo. Quest'anno, nonostante avendolo studiato in classe, non loso usare senza creare delle traume psicologiche .per me (e gli altri) e di conseguenzacontinuo ad evitarlo quando possibile».
Un elemento che colpisce nei componimenti di tutti e tre i gruppi di studenti è il riferimento costante alle regole, come detto prima. Molti tengono a sottolineare la loro conoscenza delle regole, che citano nel componimento per dimostrare come, ciò nonostante, non riescano ancora ad applicarle. Le regole appaiono quindi rassicuranti, in quanto punto di riferimento importante, ma anche frustranti in quanto non si riesce ad applicarle sebbene le si conosca.
4
CONCLUSIONE
Che tipo di riflessioni possiamo fare a proposito delle percezioni linguistiche di questi studenti? Si ha l'impressione che la maggior parte degli studenti concepiscano l'apprendimento in termini comportamentisti, come stimolo-risposta. E' significativo a questo riguardo che, come detto prima, diversi di loro continuino ad asserire quasi con sgomento che, sebbene sappiano le regole, non riescono ad applicarle! Inoltre, nel proporre strategie per migliorare la propria conoscenza della lin
gua, una studentessa propone «practice,practice, practice», un motto che ci ricorda l'esercitazione «a martellamento» propugnata dagli strutturalisti negli anni '50 e '60, un'altra suggerisce di studiare meglio le regole o di cercare più spiegazioni. Manca quindi la consapevolezza che l'apprendi-
LIANO FUORI D'ITALIA
mento è un processo graduale, di interiorizzazione del sistema linguistico in tutti i suoi aspetti.
Ci sembra questo il risultato di un tipo di insegnamento dove la lingua viene presentata come sistema «finito», da apprendere pezzo per pezzo finché la si è conquistata tutta e perfettamente. Ciò ha risvolti positivi e negativi insieme. Positivi, perché l'applicazione corretta della regola e l'esercizio eseguito senza errori danno un «sense of achievement», come afferma una studentessa stessa. Negativi, perché la ripetizione degli stessi errori, le aree linguistiche che non si riescono a padroneggiare nonostante gli innumerevoli esercizi, sono vissute in modo sofferto, come qualcosa che continua a sfuggire invece che come qualcosa che ha i suoi tempi di maturazione e la cui difficoltà può anche dipendere da elementi «intrinsici» al sistema. Con la conseguenza che si sviluppano negli studenti sensi di colpa, ansie e scarsa fiducia in se stessi; tutti fattori che, com'è noto, non favoriscono l'apprendimento.
Questo ci induce a fare alcune considerazioni a proposito del curricolo.
Sebbene si debba spesso per necessità e convenienza, adottare un sillabo di tipo lineare, è importante che gli studenti capiscano che il processo di apprendimento segue un iter diverso. Pur senza sminuire il valore dell'esercitazione scritta, guidata, in cui si ha il tempo e la possibilità di applicare con successo la regola anche nel caso di strutture complesse, è necessario far capire che il vero apprendimento è molto più complesso e che ha tempi più lunghi.
Sarebbe essenziale quindi inserire nel curricolo universitario degli elementi di riflessione esplicita sul processo di apprendimento, o come corsi specifici dedicati all'acquisizione della L2 o anche semplicemente come parte dell'insegnamento linguistico. Questo ci sembra particolarmente importante nel caso in cui gli studenti procedano nell'insegnamento, poiché nozioni sull'acquisizione dovrebbero oggi far parte della formazione di base di ogni insegnante di lingua. Ma, anche a prescindere dallo sbocco professionale, tale riflessione può essere uno strumento utile per capire meglio la natura delle proprie difficoltà linguistiche e per poter sviluppare nuove strategie per affrontarle.
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312
TAL I A
B I B L I O G R A F I A
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G. Berruto, Sociolinguistica dell'italiano contemporaneo, La Nuova Italia Scientifica, Ro
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c. di), The Romance Languages, Croom Helm,Londra 1988, pp. 279-313.
Il I due termini "acquisizione" e "apprendimento" sono quiusati in modo intercambiabile, senza tener conto della distinzione postulata, ad esempio, da Krashen.
El Le citazioni degli elaborati vengono riportate senz'alcuna correzione.
Il Ne è prova il Convegno della Società di LinguisticaItaliana tenutosi a Siena nel settembre 1992, dedicato appunto all'italiano L2.
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Usi barbari - «Io ringrazio quei barbari ... » il titolo dell'articolo di Giorgio Bocca sulla Repubblica (8.6.93) ha inaugurato l'uso giornalistico del termine barbari per indicare, con tono marcatainente polemico, la formazione politica denominata Lega Nord; l'uso è stato ripreso, come si vede dagli esempi che seguono: «i mezzi riformisti e i barbari di Bossi» (Re. 11.6.93), «i barbari e gli snob» (A. Arbasino su Re.13.6.93), «i nuovi barbari della Lega» (St. 15.6.92), «quei barbari della Lega» (Re.19.6.93), «quando Bossi si mette a parlare ai suoi "barbari"» (Es. 10.10.93).
«Barbaro» è stato definito dall'Osservatore Romano il teorico della suddetta formazione ( «il commento del senatore leghista Miglio ... E' il commento di un barbaro» 22.7.93), e L'anno dei barbari è il titolo nel recente libro di Giampaolo Pansa, in gran parte dedicato all'«incognita leghista» (Re. 26.9.93).
Barbaro, derivante dal latino barbarus, a sua volta dal greco barbaros «che parla in modo incomprensibile, che balbetta la lingua greca, quindi straniero», per i Greci e poi per i Romani era chiunque non fosse greco o romano ( «Barbari dicebantur antiquitus omnes gentes exceptis Graecis», scrive il grammatico latino P. Festo nel 2° sec. d.C.). Barbari nel medioevofurono denominati «i popoliche dal settentrione si riversarono sull'Italia e l'Europacivile» (Tommaseo), cioè, secondo la narrazione dell'umanista quattrocentesco Cristoforo Landino; «le genti barbare e strane, le quali vengono delle parti settentrionali, le
Parole
Corso
Colpo su colpo
Ma il colpo di spugna che ogni tanto viene minacciato o invocato allo scopo di sistemare i danni causati dai ripetuti e riprovevoli colpi di mano, dai dissen.:.
nati e rovinosi colpi di vita, dagli improvvisi e inspiegabili colpi di fortuna, oltre che di prevenire indesiderati colpi di coda, non rischierà di dimostrarsi per taluni versi un colpo di forza e in un certo senso un colpo di grazia?
RITORNI
FOSCHI
quali Elice, id est, l'Orsa mag-giore chiamata trainontana, copre ogni giorno col suo fi-glio, id est, l'Orsa minore»; i comportamenti delle quali genti furono tali da far acqui-sire al termine l'uso estensivo di «incivile, rozzo, incolto e si-mili», come attesta, con un espressivo esempio al femmi- 313
nile. Leon Battista Alberti nel trattato Della famiglia: «una [donna] barbara, scialacquata, uncta e briaca potrà nelle fat-tezze essere formosa, ma sarà mai chi la stimi bella mo-glie»; l'ulteriore uso estensi-vo di «crudele, inumano» è documentato da Benedetto V ar-chi, fiorentino, che ne L'Ercolano, dialogo nel quale si ragiona della lingua (post. 1570) prende in considerazio-ne, con rara capacità di sinte-si, l'intera gainma semantica della parola: «Barbaro ... significa più cose: quando si riferisce all'animo, un uomo barbaro vuol dire un uomo crudele, un uomo bestiale, e di costumi efferati. Quando si riferisce alla diversità e lontananza delle regioni, barbaro si chiaina chiunque non è del tuo paese: ed è quasi quel medesimo che strano, o stranie-ro. Ma quando si riferisce al favellare ... barbaro si dice di tutti coloro i quali non favel-lano correttamente, non osservano ... gli ammaestra-menti de' Grammatici». Ma forse qui può essere interes-sante notare l'uso spagnolo, soprattutto parlato, della pa-rola barbaro. In Argentina e in altri paesi dell'America del Sud significa «stupendo, meraviglioso, fenomenale». Qué barbaro! vale «Che fenome-no!». Che il significato spa-gnolo abbia influenzato Boc-ca?
ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), p. 313
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• •
B I B
L'INTELLIGENZA
DELLA RETORICA
GIOVANNI BOTTIROLI
Retorica. L'intelligenza figurale nell'arte e nella filosofia
BOLLATI BORINGHIERI, Torino 1993,
pp. 340, L. 38.000
Dario Corno
l!I a retorica, come Giano, ci offre due sguardi. Il primo punta al continente lin
guaggio e ne svela la mappa, indicando percorsi, province, regioni. A questo filone appartiene una tradizione secolare che ha resistito al cambio delle mode e ci consegna un sapere - ristretto o allargato che sia - ricco di una straordinaria capacità classificatoria (come è ben dimostrato dal recente e prezioso Ma-
1iuale di retorica di Bice GaravelliMortara). Il secondo sguardo passainvece attraverso la lente del filosofo e, in questo caso, la retorica diventa una corrente di pensiero chescruta il linguaggio per svelarnel'identità profonda così ben espressanell'arte di realizzazione verbale (letteratura). E così mentre il primosguardo sembra dirci che la retoricaè soprattutto un modo di parlare e diargomentare, il secondo ci fa sapereche la retorica è soprattutto un modo di pensare. A questo secondo filone appartiene il libro di GiovanniBottiroli (professore associato di storia della critica all'Università di Milano) che l'editore Bollati Boringhieri
L I o T
ha di recente edito. Si tratta di un testo molto ricco, denso, problematico che attraversa tutte le principali questioni legate alla retorica come principio di conoscenza e filosofia del linguaggio. Intanto (cap. 1) affronta il problema delle «province figurali» ridisegnandone la mappa intorno a quattro capoluoghi (sineddoche, metafora, metonimia, negazione/rovesciamento) ai quali corrispondono altrettante operazioni di strategia discorsiva e cognitiva (inclusione, intersezione, contiguità, rovesciamento). E poi, dopo aver riletto e criticato i principi della semiotica strutturalista di Algirdas Julien Greimas (cap. 2), entra nella cittadella letteraria per discutere di personaggi (cap. 3), di denotazione e coerenza (cap. 4), dei regimi di senso nei percorsi di letteratura (cap. 5) e dell'antica inimicizia «testo letterario/testo filosofico» (cap. 6). Infine, nei capitoli conclusivi, discute - come conseguenza naturale del tragitto -di «verità>, (cap. 7) e di stili semantici in filosofia (cap. 8). Detto così, il libro offre una quantità di centri di interesse davvero notevole e per questo sembrerebbe coinvolgere un lettore che si occupi per professione di filosofia o di critica letteraria. In realtà, pur ammesso che sia così, la prospettiva che lo pervade dimostra una sua limpida utilità anche per chi può avere a cuore i problemi dell'apprendimento e dell'educazione linguistica (secondo una tradizione della stessa retorica che risale, come è noto, al pensiero di Giambattista Vico). Il problema è: come sta il linguaggio? Cioè, in altri termini, come si presenta oggi il linguaggio dopo un secolo di dibattiti accesi e insistiti, di teorie e modelli così diversi, di grammatiche e semiotiche splendidamente isolate nella loro accesa individualità? A queste - e a molte altre - domande il libro sembra voler dare una risposta secondo un percorso ragionato che vale la pena di
• •
E e A
ridisegnare, sia pure nei limiti di un inquadramento necessariamente sintetico. Gran parte del Novecento è, e sarà probabilmente ricordata come, «un'epoca felice» per il linguaggio. È l'epoca in cui il linguaggio trascina il pensiero nelle proprie avventure e si vede garantito dalle scienze umane e sociali un posto di assoluto privilegio e di forza egemone. Quest'epoca felice ha il suo culmine tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '70. Sono gli anni in cui si assiste al trionfo della fonologia e, di conseguenza, della linguistica che regala i suoi paradigmi metodologici alle scienze antropologiche (Claude Lévi-Strauss), per estendersi poi a tutte le scienze sociali fino a celebrarsi nella nota affermazione di Jacques Lacan secondo cui «l'inconscio è linguaggio». L'epoca felice del linguaggio è un'epoca di certezze: le cose hanno un'identità perché hanno un contrassegno che le certifica (le legittima). Possiamo chiamare quest'epoca di centralità del linguaggio, «modernità». Nella modernità lo stratagemma della «riduzione al linguaggio» trova il suo supporto teorico nello strutturalismo e nella semiotica: è lì che il senso sembra darsi con eleganza e semplicità; è lì che operano le «grandi narrazioni» della storia (Lyotard), compresa la narrazione didattica della centralità della regola. Ma, come tutte le epoche felici, anche quella della centralità del linguaggio ha fine, perché si affaccia un'alternativa che comincia a dubitare delle sue certezze e non solo delle sue narrazioni. Il paradigma alternativo si presenta per la verità in vesti dichiaratamente modeste. Sono le vesti della rinuncia a ogni tipo di centralità 'globale': alla creatività linguistica si sostituisce il meccanismo della citazione; alla grande narrazione, la piccola narrazione, meglio se personale e privata; al 'Testo' come unità centrale di comunicazione lo zap-
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B I B • • • • • • • • • • • • • • •
ping del frammentismo; allo stile come principio di unificazione epocale la diffusione di più stili locali e marginali. Insomma il linguaggio sembra sempre di più frantumarsi in una serie di lingue, se non di dialetti (idioletti?), via via più semplici e contestuali. Questa nuova epoca può essere chiamata «post-modernità» proprio per indicare il prosciugamento delle risorse di potere del linguaggio, compresa la rinuncia a una didattica sociale delle regole (sostituite dagli «esempi»). È fra queste due tensioni che si muove lucidamente il libro di Bottiroli, che cerca di coglierne il movimento della retorica, forse la più seria tra le candidate a rappresentare queste svolte epocali. Non è la prima volta - nella sua storia millenaria - che alla retorica tocca di dover accettare i rivolgimenti della storia, così da ridursi, per lo più, al catalogo dell'elocutio. Contro questa tesi, che è contemporaneamente una tesi di letture semplificate, parziali e riduttive del pensiero testuale letterario, il libro avanza una prospettiva di sicuro interesse. Il problema non è tornare all'intelligenza figurale come depositaria di sensi assolutizzati del paradigma teorico; e non è, ovviamente, nemmeno quello di cedere alle lusinghe della semplice contestualizzazione dichiarata delle letture. Il problema, come per la didattica, è quello di sviluppare una teoria del linguaggio che non sia né semplice «arte della persuasione» (persuasione ad apprendere, ad esempio, via exempla), né una ridefinizione grammaticale fine a se stessa delle figure, ma una visione strategica e cognitiva della contrattualizzazione testuale che ogni forma di comunicazione pone in essere. Insomma, a una logica del significato può subentrare una «teoria degli stili» in quanto uso del linguaggio. Di questa teoria, il libro di Bottiroli ha gettato le fondamenta.
LETTERA TURA TRA
LINGUA E DIALETTO
ALFREDO STUSSI
Lingua, dialetto e letteratura
EINAUDI, Torino 1993, pp. 260, L. 24.000
Maria Catricalà
A lfredo Stussi ripubblica novedei migliori saggi che ha scritto nell'arco di quest'ul
timo ventennio, per occasioni e sedi diverse. Il primo testo della raccolta, quello che dà il titolo al libro, è anche il più noto: si tratta della limpida sintesi che l'autore pubblicò nel volume su I caratteri ori
ginari della Storia d'Italia Einaudi.
Vi si traccia un profilo sulle più significative vicende linguistico-letterarie del nostro paese, mostrando come dall'originario stato di diglossia e di interferenza della «scripta latina rustica» (p. 7) e dei più antichi documenti in volgare, si passò precocemente a uno stato di consapevole bilinguismo e all'«uso riflesso» dei dialetti, che secondo la tradizione crociana, invece, sarebbe stato proprio del Seicento barocco. Nella poesia e nella prosa d'arte 'italiane', in realtà, le forme vernacolari furono impiegate fin dalle origini a scopo di mimesi intenzionale (come nel Contrasto di Cielo D'Alcamo) o «spontaneamente» (come nel caso di Francesco di Vannozzo) e poi per connotare ver-
• •
E e A • • • • • • ■ • • • • • • • •
si propri della tradizione comica (come per esempio le frottole, i gliommeri, i mariazi, ecc.) oppure per schernire personaggi più o meno stereotipati di commedie, rime e novelle (come il villano pavano, il facchino bergamasco o il cafone di Napoli). Ovviamente, l'uso letterario delle parlate locali divenne contrappunto tanto più marcato, quanto più obbligatorio e indiscutibile fu ritenuta l'adesione al modello monolinguistico dei petrarchisti e poi, dal Rinascimento in avanti, alla rigida norma di stampo bembesco. Ma in realtà per Stussi, come già per Dionisotti e Contini, la produzione letteraria dialettale e pluriforme è tutt'uno con quella italiana, ne è una parte originariamente costitutiva e inscindibile.
Lo confermano oltre a questo primo bel saggio, che è una sorta di regata fra i tanti «robusti arcipelaghi dei minori» che secondo Contini avrebbero «contornato» gli autori dialettali più noti (come Ruzzante, Basile, Maggi, Goldoni, Belli e Porta), anche gli altri sei interventi successivi, in cui si analizzano più da vicino alcuni temi specifici. Si tratta in prospettiva sociolinguistica della letteratura veneta (cap. Il) e si evidenziano i problemi storiografici e filologici posti da quella romagnola (cap. VII). Si riproducono luoghi e paesaggi propri della «filologia mercantile» e in particolare della «babele linguistica» della ricca e viziosa Venezia che tra Due e Cinquecento ebbe tutti i «caratteri della città cosmopolita» (cap. III). Si distinguono i «connotati» linguistici di un genere (la novella nel cap. IV) e si inizia il lettore ai misteri dell'idioletto di singoli autori, passando al vaglio l'«impasto linguistico» della prosa di Luigi Capuana (cap. V) e i versi del poeta Albino Pierro, già molto noto tra gli esperti (cap. VI). La sua «grammatica poetica» viene deco-
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B I B L ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■
dificata attraverso un raffinato esame jakobsoniano delle «incorniciature» sintattiche e metriche della poesia Stanotte, scritta nel dialetto di Tursi (Matera) e costruita su una serie di «simmetrie speculari» e di latenti iterazioni frasali, lessicali e fonetiche.
Negli ultimi due saggi, invece, Stussi affronta questioni più generali, dibattendo in termini teorici del complesso rapporto fra critica letteraria, filologia e linguistica. E visto che il bello di libri come questo è pure che non si deve rispettare rigorosamente l'ordine sequenziale e che si possono trovare molte chiavi di accesso alternative, è proprio da quest'ultimo tema trattato da Stussi, che suggerirei di partire, invertendo la lettura dei saggi. Infatti, grazie a queste riflessioni 'finali' su metodologie e prospettive teoriche si può avere una chiara idea su quanto si è fatto e sulle strade che rimangono da percorrere in questo apibito. Le stesse pagine permettono di misurare anche l'esatta portata della «rivoluzione metodologica» che negli ultimi decenni avrebbe coinvolto, secondo Stussi, gli studi filologici e avrebbe offerto «un efficace antidoto» al loro «conservatorismo immanente» (p. 229).
E' ovvio, infine, che nella piena consapevolezza fti ciò che uno storico della lingua come Stussi pensa oggi sulla genesi del «lircuito filologia-critica-linguistica» (p. 224) e sulle possibilità di coniugare proficuamente «stilistica spitzeriana» e scienze del linguaggio» (p. 247), si potrà cogliere pure tutta la modernità degli altri suoi saggi ricordati prima, che sono concreta proposta scientifica e continua verifica di un rapporto dinamico fra polimorfismo linguistico e caratteristiche strutturali, fra variabili sociolinguistiche e costanti diasistemiche, fra diacronia in sincronia e viceversa.
• •
I o T E e A ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■
PERCORSI
LESSICALI
SERENA AMBROSO E
GIOVANNA STEFANC/CH
Parole
BONACCI, Roma 1993,pp.149, L. s.i.p,
Emma Cavallini
Bernacchi
A livello di studi teorici, laconsiderazione del lessico come sistema, e cioè come
insieme coeso di elementi in cui il tutto e le parti sono reciprocamente connessi e solidali, è ormai da tempo attestata. La semantica strutturale - la cui data di nascita può essere ricondotta al Cours di Saussure, e quindi alla seconda decade del secolo - è infatti venuta puntualizzando, via via, tutta una serie di rapporti semantici ben specifici (sinonimia, iponimia, autonimia, solidarietà, polisemia, omonimia) che introducono, nel vastissimo mondo delle parole, dei principi di regolarità e d'ordine.
La scuola, e assieme alla scuola i testi di utilizzo scolastico, sono invece rimasti un po' in coda. L'attenzione rivolta al lessico è per lo più occasionale: sia per quanto riguarda i tempi che per quanto riguarda le modalità (o l'ottica) degli interventi. Non c'è quasi mai l'«ora di lessico» fissa, così come invece, da sempre, c'è !'«ora di grammatica». E l'ora di lessico occasionale e
frantumata è, spesso, insegnamento sporadico di una nuova parola, o chiarimento di un significato frainteso, o suggerimento di un sinonimo grazie a cui ovviare a una ripetizione, o di un termine più specifico con cui sostituire un termine troppo generico ...
Mancano l'attenzione al sottofondo teorico e la sistematicità degli esercizi giocati sulle parole, benché la competenza lessicale sia, accanto a quella testuale, una delle poche competenze linguistiche passibili di un potenziamento illimitato.
Parole, di Serena Ambroso e Giovanna Stefancich, può essere considerato un punto di partenza per colmare questa lacuna nella glottodidattica. E' infatti una proposta di percorsi lessicali sistematici che, secondo l'intento dichiarato dalle autrici, «si propone di guidare nei meandri abbastanza inesplorati del lessico italiano». I percorsi in questione sono dieci, ed esauriscono, nel loro complesso, la considerazione dei fenomeni lessicali più significativi. Le aree prese in esame sono, nell'ordine, le seguenti: 1. Antonimia (rapporti di opposizione fra le parole), 2. Sinonimia (identità di significato in parole diverse), 3. intensità (i diversi gradi di forza semantica), 4. Collocazione (i modi obbligati in cui le parole si associano), 5. Polisemia (più significati in una stessa parola), 6. Inclusione (rapporti fra parole generiche e specifiche), 7. Connotazione (le parole possonoavere colorazioni emotive), 8. Metafora (il significato figurato che leparole possono assumere), 9. Derivazione (il meccanismo che consente di formare parole da altre),10. Residui e prestiti (parole ereditate o importate da altre lingue).
Giova notare che i vari filoni sono completamente interdipendenti così che l'approccio al sistema lessicale può prendere avvio
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• •
B I B L ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■
da uno qualunque di essi, e così
che l'esplorazione del lessico può
seguire un qualsivoglia percorso.
Per quanto riguarda la strut
turazione interna, invece, ogni fi
lone è scandito in un momento
teorico (un inquadramento felice
mente sintetico e chiaro di un paio
di pagine) e in una quindicina di
esercizi, con grado di difficoltà vo
lutamente non omogeneo e con
chiave autocorrettiva alla fine.
Quanto ai destinatari, vengono
ipotizzati dalle autrici «studenti
di italiano come L2 con compe
tenze diversificate». La voluta non
omogeneità degli esercizi, infatti,
fa sì che alcuni di essi siano util
mente proponibili anche a princi
pianti, e che altri siano indirizza
bili solo a soggetti con conoscenze
linguistiche più sviluppate.
Anche lo studente di Ll, peral
tro, affiora come utente seconda-
•
I o T E e A ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■
rio: l'inquadramento teorico preli
minare ad ogni settore di esercizi fa sì che questi siano utilizzabili
non solo per produrre un amplia
mento qualitativo del lessico, ma
anche un suo arricchimento qua
litativo. Mettere a punto, ad esem
pio, che concentramento e concentrazione da un lato, o che lacrimevole e lacrimoso dall'altro, pur
avendo significati differenti, de
rivano da una stessa radice, può non produrre incremento quanti
tativo del lessico, se lo studente di Ll padroneggia già i vocaboli di
entrambe le coppie. Ma genererà
comunque un atteggiamento di
maggiore consapevolezza nei con
fronti delle parole: le farà cogliere
come somma di «pezzi» variamen
te smontabili e combinabili, sug
gerendo una valida strategia in
terpretativa da utilizzare nei con
fronti delle parole «nuove», ma ri-
conducibili a «pezzi» già noti.
Ma ci sono - oltre allo studente
di L2 e di Ll - perlomeno altri
due tipi di utente che potranno
proficuamente far uso del testo:
l'insegnante e il generico parlante
italiano. L'insegnante potrà tro
vare, nel testo, una serie di pun
tualizzazioni teoriche sistema ti
che e chiare nei confronti del les
sico; e una serie di esercizi (o di
prototipi di esercizi) direttamente
proponibili in classe.
Il parlante italiano - utilizzan
do le chiavi di soluzione finali -
potrà invece, a seconda dei casi,
percorrere un curricolo da auto
didatta, o misurare il grado della
propria padronanza lessicale, o
anche semplicemente cimentarsi
con una serie di esercizi linguisti
ci produttivi con cui, probabil
mente, non ha mai avuto a che fa
re sui banchi di scuola.
-------------------
Lettere al direttore
«IL CALDO STAGNO DEL RIFLUSSO»
La domanda di Raffaele Simone sul n. 3 I 1993 di «Italiano & Oltre» (pp. 141-144) - La lin
guistica è da buttare? - e le osservazioni che le tengono dietro attivano la memoria: riaccendono entusiasmi e delusioni. Tentando di dare ordine ad annotazioni sparse qua e là, vien fatto dire subito, preliminarmente, che - se la domanda
di Simone non fosse retorica e la risposta non fosse automatica - la risposta esplicita, istituzionale, non potrebbe non essere: no. Certo non è il «linguistese» (tanto meno se «tribale»)
che può davvero incontrarsi con la scuola. Ma il «ponte» c'è, sussiste oggettivamente, ed è «speciale».
Quel che ancora non è chiaro è il modo di renderlo transitabile (pena il continuare a traghettare, a zig zag, dalla sponda della linguistica alla sponda della scuola, e viceversa). Eppure il modo c'è. Ed è già stato indicato. Fin dalla «belle épo
que» - nel cuore, cioè, degli anni Settanta. Lo aveva indicato, tra gli altri, Tullio De Mauro. Quando invitava la scuola ad un uso critico della linguistica, tracciava - credo -, con forza, un percorso preciso. Uso critico della linguistica vuol dire,
prima di ogni altra cosa, tanta - tantissima - linguistica pergli insegnanti, ma poca - pochissima - per gli alunni.
Il problema diventa allora quello di interrogarsi su quel che la linguistica ha da dare (o, meglio per spazzar via tutti gli equivoci, - da dire) alla scuola. Il percorso intrapreso ( dagli editori e dagli insegnala ti, ma, anche, talvolta, dai linguisti) è stato, non di rado, opposto. Si è continuato a proporre grafi ad albero, o «formulette» di funzioni, a «incollare a freddo», a vecchi testi, «lastroni di linguistica». E, soprattutto, a non porsi seri problemi di continuità tra ordini
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diversi di scuola, o di omogeneità di sistemi di riferimento tra lingua materna e lingua straniera.
L'altra strada, meno vistosa, senza scorciatoie, con effetti solo in tempi previdibilmente lunghi, è stata, per lo più, evitata come una lunga fatica, senza profitti immediatamente visibili.
Occorreva, al contrario, la pazienza di percorrere - senza riceverne, nell'immediato, strumenti o ricette - tutti i gradini della scala offerta dalla linguistica. Con l'acquisita consapevolezza, magari, che almeno in un primo momento, la linguistica, a scuola, serva più a rimuovere che a costruire, più a «falsificare» che a confermare: non di rado si tratta, infatti, anche di rimuovere - sulla lingua e sul linguaggio - convinzioni quasi native, tanto profonde quanto inverificate. Eppure, solo così si raggiunge una nozione meno confusa di che co
s'è una lingua, dei rapporti che intercorrono tra 'parlato' e 'scritto', dei rapporti che la lingua intrattiene con il dialetto, o di come si può identificare un «errore» linguistico, o, ancora, di come la grammatica sia davvero un «pannello di strumenti», e non altro.
La presa di coscienza della nozione scientificamente corretta di queste idee e di questa rete di rapporti non saccheggia senza criterio il «magazzino» della linguistica (da questo punto di vista la linguistica non ha proprio niente da dare alla scuola), ma abilita al dominio teorico e operativo insieme, del veicolo stesso dell 'insegnare, al dominio dell'aspetto trasversalmente centrale dell'insegnamento, e insieme evi-
ta - oltre al saccheggio - il disordine e i guasti che solitamente l'accompagnano. Questo percorso include naturalmente altro. Include, per esempio, quel che Simone indica - nel medesimo numero della rivista - in un altro intervento (pp. 132-33). Quanto può aiutare la linguistica a «diffondere modi di co
municazione civili e sostenere argomentazioni articolate»: quanto ha da dirci, cioè, a partire dalle «regole semiotiche», sull '«articolazione del dicibile».
Ma parole molto precise su quel che la linguistica ha da dire alla scuola possiamo tornare a prenderle anche in un antico Libro di Simone: «il nostro problema è quello di imparare bene la nostra lingua, di vedere com'è fatta e come funziona, e soprattutto di capire come possiamo servircene». E' capitato sopra di usare - per questo percorso tracciato dall'uso critico della linguistica -l'immagine della scala: continuando la metafora, si potrebbe dire che la linguistica, per la scuola, è un po' come la scaletta dell'aereo, senza la quale l'accesso all'aereo - il transito - è impedito.
Senza la scaletta della linguistica un insegnante, un insegnante, cioè, di qualsiasi disciplina, transita comunque nella scuola, ma passando sopra, non attraverso, la scala, e saltando passaggi preziosi: senza la consapevolezza, cioè - e la relativa attrezzatura intellettuale e operativa - di quel che Simone indica, puntualmente alle lettere (a) (b) (c) (d) del 2 ° paragrafo.
Quanto alle direzioni di ricerca, molto può venire alla scuola da quello che Simone chiama il «partito trasversale»,
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E e A ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■
il partito, cioè, della linguistica testuale. Il problema della scuola è sempre, in vario modo, problema di «testi», e, in questo senso, - a scuola - la linguistica è davvero a casa sua.
Resta la domanda sui «luoghi» dell'incontro: i luoghi dove la linguistica può «dire» alla scuola. Certo, l'università; forse, gli IRRSAE; ma soprattutto, ancora una volta, la scuola, all'interno delle «attività didattiche» (nella accezione allargata - ormai impostasi - che co
n i uga insegnamento e programmazione). Lì, nella programmazione, quando un Collegio elabora il proprio progetto educativo, occorre davvero intendersi su quelle «idee» e quella «rete di rapporti» di cui sopra si diceva, pena la perdita di significato di tutto quel che si conviene. Su quel terreno, in quel luogo, nascono direttamente le domande da porre alla linguistica (come, del resto, ad altre scienze). E la linguistica può dare anche lì - sul campo -in vario modo e in varie forme, le sue risposte.
Quando, nella scuola media, un Consiglio di Classe affronta il «Quadro l» e il «Quadro 2» della nuova scheda di valutazione adottata, ormai, sull'intero territorio nazionale - senza nulla dire, qui, del «Quadro 3» e del suo sistema di valutazione a cinque lett_ere - si trova davanti ai medesimi problemi (ci si aggiunge quello della continuità di riferimenti e di significati con la scuola elementare). In questo senso, la rilevazione delle risorse e dei bisogni («Quadro l») non meno del progetto educativo e le articolazioni dell'intervento didattico («Quadro 2») costringono a intese concettuali, ancor prima che terminologiche: una neces-
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sità che porta nuovamente a porre alla linguistica (e alle altre scienze) domande significa
tive. Il luogo privilegiato resta, in
somma, quello diretto. L 'indi
viduazione dei bisogni di formazione in servizio da parte dei singoli Collegi, preliminare alla definizione dei propri piani
annuali di aggiornamento crea
le condizioni per portare in primo piano l'esigenza di porre domande corrette alla lingui
stica. Il linguista che torni -
in altro modo e con diversa funzione - a scuola, nella singola
scuola, per rispondere alle domande specifiche che la singola
scuola ha incontrato nel suo
percorso, non solo può - con
qualche sasso ben mirato - impedire che lo stagno diventi pa
lude, ma può davvero interve
nire nel luogo fisico delle do
mande «linguistiche» che un collegio necessariamente si pone,
e trovare ad esse risposte oneste
- _di quell'onestà, s'intende, chechiamiamo intellettuale
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IL CORSO
DELLA GIORGIO CINI
La fondazione Giorgio Cini di Venezia dedica il suo XXVIII Corso di aggiornamento e perfezionamento per italianisti, che si svolgerà tra il 2 e il 22 luglio del prossimo anno, al tema «Il salto delle generazioni» individuato come normale momento ritmico dell'evolvere storico sottostante al susseguirsi degli eventi che hanno scandito la storia e dato vita al difficile problema delle periodizzazioni. Il corso affronterà la tematica scelta esaminando quali atteggiamenti, nel passare dei secoli, le diverse generazioni abbiano maturato nei riguardi delle generazioni che le hanno precedute e quali progetti abbiano predisposto per le successive. Parte essenziale del corso sarà l'esame dei riflessi che di tali atteggiamenti le diverse generazioni hanno lasciato anzitutto nei pensieri, nelle azioni e nelle opere che fanno la storia della letteratura, quella dell'arte e quella della lingua italiana, ma non verranno trascurati i riflessi che il dibattito tra le generazioni ha sedimentato nel corso di altri importanti itinerari storici, come quello della storia politica o quello della storia sociale e economica dell'Italia unita.
Vittorio Landucci
■ ■ IE
Il Corso è diretto dal vice Presidente dell'Accademia della Crusca, professor Carlo Alberto Mastrelli e sarà articolato in una quarantina di lezioni, due cicli seminariali, una attività di tutorato per quanti abbiano necessità di approfondire i vari aspetti della lingua italiana e una serie di incontri con scrittori, critici e artisti.
Le iscrizioni al Corso sono aperte fino al 30 giugno 1994 e gli studenti che desiderino frequentare il Corso dovranno dichiarare - e se necessario documentare attraverso la dichiarazione di un docente - la buona conoscenza della lingua italiana.
Per concorrere alle borse di studio del Ministero degli Affari Esteri italiano, gli interessati dovranno rivolgersi al più presto agli Istituti Italiani di Cultura - oppure alle Ambasciate d'Italia - nel paese diresidenza. Le domande dovranno essere inoltratedagli Istituti Italiani di Cultura o dalle Ambasciateal Ministero il 30 ottobre 1993.
Il programma delle lezioni e dei seminari sarà inviato a chi ne farà richiesta entro il mese di aprile.
Per altre informazioni ci si può rivolgere alla Fondazione Giorgio Cini, Segreteria dei Corsi per Italianisti, Isola di San Giorgio Maggiore, 30124
Venezia - tel. (041) 5289900 - telefax (041)
5238540
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VOLGAR FAVELLA Percorsi del pensiero linguistico italiano da Robortello a Manzoni
VOLGAR FAVELLA
Stefano Gensini
Percorsi del pensiero linguistico italiano da Robortello a Manzoni. Uno studio che ricostruisce il formarsi, in Italia, di un'autonoma tradizione di pensiero linguistico, nel quadro degli sviluppi della filosofia del linguaggio nell'Europa occidentale.
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Le lingue d'Europ. 1.n1 la� del [cdd D millauuo
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DELL'EUROPA
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