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A AA LA NAZIONE È IN PERICOLO?/ CON L'ITALIANO E IL FRANCESE C'E ANCHE L'INGLESE/ SCRIVERE I TESTI UNIVERSITARI/ COME PARLA LA LEGA/ LE FRASI FAE SCRIE DA GADDA/ INTROSPEZIONI SULL'ITALIANO L2/ PARLANDO PARLANDO: VELOCITÀ A CONFRONTO/ ITALIANO ALFANUMERICO: LA BIBLIOTECA AL TELEFONO/ ITALIANO GIUDICATO: LE PRIME GRAMMATICHE PER GLI INGLESI/ ESPERIMENTI GRAMMATICALI: È PASSATO, MA SIGNIFICA ORA O DOMANI/ PAROLE IN CORSO: COLPI, PROCESSI E BARBARI/ LIBRI/ LETTERE/ NOTIZIE I TORNARE AL 'DI DENTRO' QUANTE SONO LE MEMORIE MNEMOTECNICHE DISPONIBILI IOR Periodico bimestrale Anno VIII (1993) Numero 5 novembre-dicembre

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LA NAZIONE È IN

PERICOLO?/

CON L'ITALIANO E IL

FRANCESE C'E ANCHE

L'INGLESE/

SCRIVERE I TESTI

UNIVERSITARI /

COME PARLA LA LEGA /

LE FRASI FATTE SCRITTE

DA GADDA/

INTROSPEZIONI

SULL'ITALIANO L2 /

PARLANDO PARLANDO:

VELOCITÀ A CONFRONTO/

ITALIANO ALFANUMERICO:

LA BIBLIOTECA AL

TELEFONO/

ITALIANO GIUDICATO:

LE PRIME GRAMMATICHE

PER GLI INGLESI /

ESPERIMENTI

GRAMMATICALI:

È PASSATO, MA SIGNIFICA

ORA O DOMANI /

PAROLE IN CORSO:

COLPI, PROCESSI E

BARBARI/

LIBRI/

LETTERE/

NOTIZIE I

TORNARE AL 'DI DENTRO'

QUANTE SONO LE

MEMORIE

MNEMOTECNICHE

DISPONIBILI

IOR Periodico bimestrale Anno VIII (1993) Numero 5 novembre-dicembre

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258 I N D I C E

COMMENTI

RAFFAELE SIMONE PER FAVORE SOLO IN ITALIANO! • I COLLABORA TORI DI QUESTO NUMERO

L'ITALIANO TRA SOCIETA E SCUOLA

MARISA CAVALLI MARIA TERESA SERAFINI

RUBRICHE

ALBERTO A. SOBRERO RICCARDO DEGL 1INNOCENTI E MARIA FERRARIS HARRO STAMMERJOHANN MARIA G. LO DUCA AUGUSTA FORCONI

IN QUELLE CLASSI LE LINGUE SONO TRE SCRITTURE UNIVERSITARIE/ 1

PARLANDO PARLANDO: VELOCITÀ DI PAROLA ITALIANO ALFANUMERICO: GUTENBER REPLICA. QUESTA VOLTA DALL 1 ILLINOIS L'ITALIANO GIUDICATO: L'ITALIANO ALLA CORTE INGLESE ESPERIMENTI GRAMMATICALI: PRESENTI E FUTURI IMPERFETTI PAROLE IN CORSO: RITORNI FOSCHI

IL LINGUAGGIO DELLA POLITICA

PAOLA DESIDERI L'ITALIANO DELLA LEGA/1 AUGUSTA FORCONI MENEFREGHISMO

SPECIALE SCUOLA

RAFFAELE SIMONE LA CONOSCENZA CHE VIENE 'DA DENTRO' DARIO CORNO LE MEMORIE POSSIBILI ALESSANDRO PERISSINOTTO 1

ARS MEMORATIVA1

LESSICO DI AUTORE

AUGUSTA FORCONI GUSCI GADDIANI

LI ITALIANO FUORI D

I ITALIA

ANTONIA RUBINO MA CHI HA INVENTATO IL CONGIUNTIVO?

BIBLIOTECA

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DARIO CORNO L'INTELLIGENZA DELLA RETORICA [su GIOVANNI BOTTIROLI, RETORICA. 314

MARIA CATRICALÀ

EMMA CAVALLINI BERNACCHI

LETTERE AL DIRETTORE

NOTIZIE

L'INTELLIGENZA FIGURALE NELL'ARTE E NELLA FILOSOFIA, BOLLATI BORINGHIERI. TORINO 1993] LETTERATURA TRA LINGUA E DIALETTO [ SU ALFREDO STUSSI, 31 5 LINGUA, DIALETTO E LETTERATURA, EINAUDI. TORINO 1993] PERCORSI LESSICALI [ SU SERENA AMBROSO E GIOVANNA 31 6 STEFANCICH, PAROLE, BONACCI, ROMA 1993]

«IL CALDO STAGNO DEL RIFLUSSO»

IL CORSO DELLA GIORGIO CINI

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ITALIANO

OLTRE

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I collaboratori di questo numero Maria Catricalà Ricercatrice all'Università di Siena; Ma­risa Cavalli Esperta IRR­SAE Valle d'Aosta; Emma Cavallini Bernacchi Inse­gnante di scuola media a Mi­lano; Dario Corno Vicepre­sidente del Centro di Ricer­che Semiotiche dell'Univer­sità di Torino, condirettore di «Italiano e oltre»; Riccardo

Degl'lnnocenti Insegnante di scuola media superiore a Ge­nova, ricercatore presso l'I­stituto per le Tecnologie di­dattiche del CNR di Geno­va; Paola Desideri Ricerca­trice all'Università di Urbi­no; Maria Ferraris Ricerca­trice presso l'Istituto per le Tecnologie didattiche del CNR di Genova; Augusta Forconi Lessicografa; redat­trice del Vocabolario Trecca­ni; Maria G. Lo Duca Dotto­re di ricerca in Linguistica; Alessandro Perissinotto Se­miologo, collaboratore del

Centro di Ricerche semioti­che dell'Università di Tori­no; Antonia Rubino Docente del Dipartimento di Italia­no presso l'Università di Sid­ney; Maria Teresa Serafini Coordinatrice dei Laboratori di scrittura in italiano pres­so l'Università di Torino; Al­berto A. Sobrero Professore ordinario di Dialettologia italiana all'Università di Lecce; condirettore di «Ita­liano e oltre»; Harro Stam­merjohann Professore di Lin­guistica romanza all'Uni­versità di Francoforte

AUTORIZZAZIONE DEL TRIBUNALE DI FIRENZE N° 3389 DEL 2/12/1985

Italiano e oltre Rivista bimestrale

Anno VIII (1993), numero 5 novembre-dicembre

Direttore Raffaele Simone

Comitato di direzione Monica Berretta, Daniela Bertocchi, Dario Corno, Wanda D'Addio Colosimo, Alberto A. Sobrero

Redazione Domenico Russo

Direttore responsabile Mattia Nencioni

Progetto grafico CD & V. Firenze (Capaccioli, Denti, Valeri)

Stampa Fratelli Spada Via Lucrezia Romana 00043 - Ciampino/Roma

Direzione e redazione La Nuova Italia, Viale Carso 46, 00195 Roma-Tel. 3729220 Fax 06/3251065

Amministrazione La Nuova Italia, Via Ernesto Codignola, 50018 Casellina di Scandicci, Firenze

Abbonamento biennale(1994/995) per l'Italia: L. 100.000

Abbonamento annuale 1994 Cinque fascicoli all'anno

Italia/Lire 55.000

Un fascicolo L. 14.000

Paesi della Comunità Europea L. 65.000a mezzo assegno bancario o sulconto corrente postale n. 323501intestato a:La Nuova Italia - Firenze

Altri Paesi (spedizione via aerea) $ USA 73

Per l'Australia il versamento di US $ 73 deve essere indirizzato a: CIS Educational, 24 7 Cardigan Street, Carlton (Victoria, Australia 3053)

Per il Canada il versamento di US $ 73 deve essere indirizzato a: The Symposium Press Ldt. P.O. Box 5143, Station «E» Hamilton (Ontario L8S 4L3), Canada

Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 3389 del 2/12/1985

A «Italiano e oltre» si collabora solo su invito della Direzione

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Per favore, solo in italiano!

a qualche settimana gli in­te l le tt ual i i taliani sono scossi da una polemica di sapore quasi settecentesco. L'ha lanciata, con forte pi­glio, un commentatore del «Corriere della Sera», Er­nesto Galli della Loggia (24 ottobre 1993), e riguarda, pensate un po', il rapporto tra lingua e nazione.

Molti sono convinti che l'Italia corra il rischio di cessare di essere una nazione (come ricorda an­che un bel libro di Gian Enrico Rusconi, pubblicato dal Mulino), e alcuni dubitano addirittura che lo sia mai stata davvero. Galli della Loggia ha cercato le ragioni di questo fatto, e ha trovato, se non quella principale, almeno una importante ragione accessoria. La colpa, lui pensa, è degli intellettua­li e delle organizzazioni culturali italiane.

«Come può l'Italia essere una nazione, o diven­tarlo, o continuare ad esserlo - si domanda Galli della Loggia - se per primi i suoi intellettuali, i suoi professori universitari, le sue case editrici, le sue or­ganizzazioni culturali mostrano di sentire il fattore nazionale, l'insieme di valori e significati che in es­so si esprimono come qualcosa di residuale, e alla fin fine di superfluo, se mostrano addirittura di con­siderare la lingua italiana alla stregua di un op­tional il cui uso è facoltativo?»

Di questo fatto Galli della Loggia cita alcune il­lustrazioni, che secondo lui documentano la de­bolezza e la dipendenza delle istituzioni culturali italiane di fronte alle lingue e alle culture di altri paesi, specialmente gli Stati Uniti. Ad esempio, la

Fondazione Feltrinelli ha pubblicato un grosso vo­lume sulla società ex-sovietica, tutto di autori ita­liani, ma interamente in inglese. E confronta poi la nostra situazione con quella della Francia, in cui per antica tradizione si combatte la penetrazione dell'inglese e di altre lingue straniere, fino al recente decreto del ministro della cultura, Jean-Pierre Toubon, che stabilisce che i titoli dei film, i nomi dei negozi e dei prodotti commerciali dovranno essere in francese e non in inglese.

«Se sono le stesse organizzazioni culturali ita­liane che spontaneamente rinunciano ad adoperare la propria lingua - si domanda concludendo Galli della Loggia - quando si tratta di argomenti di in­teresse o di portata internazionale, chi mai al mondo potrà essere spinto ad apprendere l'italia­no, ad averne sia pure un'infarinatura, a meno che per avventura non sia uno specialista di cose specificatamente nostre?»

La discussione lanciata da Galli della Loggia ha suscitato diverse prese di posizione (tutte contrarie, per la verità). Ma non è questo che ci interessa. E' molto importante semmai che una simile polemica abbia avuto tanta presa su intellettuali e scrittori.

Ciò mostra che il ceto intellettuale del paese è an­cora sensibile a quelle che una volta si chiamavano «le grandi battaglie civili». Ma confesso che le con­clusioni di Galli della Loggia mi sembrano un po' ingenue. Cerco di spiegare perché.

Anzitutto, bisogna rendersi conto, una volta per tutte, che la nostra è una cultura di «secondo livel­lo», che noi siamo (secondo un celebre motto di Eco, di una quindicina di anni fa) «periferia del­l'impero». Non sono italiani i-libri che gli editori di

tutto il mondo si trovano sul tavolo ogni mattina,

RAFFAELE SIMONE

Conoscere l'inglese

significa ripudiare

la propria nazione?

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non sono italiani i giornali che le redazioni inter­nazionali leggono per primi né sono italiani gli intellettuali (salvo forse Umberto Eco, ma è un

po' poco) che vengono stimolati a elaborare opinioni da diffondere in tutto il mondo.

Non siamo, bisogna ammetterlo, né gli USA, né la Francia, né l'Inghilterra, né la Germania. Siamo un paese nobile quanto si vuole, ma cultu­ralmente marginale, alla pari con la Spagna, il Messico, o il Belgio. Per questo non solo non biso­gna meravigliarsi che le idee che elaboriamo in patria non siano ricercate internazionalmente in tempo reale, ma bisogna anzi essere molto soddi­sfatti che tanta gente ( alcuni milioni di persone, per quello che ne sappiamo) abbia interesse e passione per la nostra lingua e il nostro mondo, invece che dedicarsi (tanto per fare un esempio) alla lingua neerlandese o al basco.

Le ragioni di questo fatto sono molte, affon­dano le loro radici nella storia moderna italia­na, e non posso discuterle qui dettagliatamente. Interessa di più la conseguenza che ne deriva: Ogni società dotata di una cultura di secondo li­vello ha bisogno, oltreché di una lingua nazio­nale, anche di una lingua internazionale in cui esprimersi in contesti più vasti. Abbiamo, sem­mai, il torto di averlo capito troppo tardi.

In una situazione come questa, il ceto intel­lettuale ha compiti e doveri speciali. Un intel­lettuale connesso ad una cultura di secondo li­vello, se vuole farsi capire fuori del suo paese, deve conoscere almeno un'altra lingua e avere la disinvoltura di usarla.

Se vogliamo riprendere il solito esempio, va

detto che, in mezzo a miriadi di intellettuali ita­liani assolutamente monolingui o fintamente plurilingui, Umberto Eco, che pure se lo potrebbe risparmiare, parla e scrive più lingue con asso­luta disinvoltura, ignorando (giustamente) che

qualche purista potrebbe trovare nelle sue pre­stazioni qualche dettaglio non a fuoco. Non vedo perciò niente di scandaloso nel fatto che scriva i suoi lavori, magari anche pubblicati in Italia, in una lingua diversa dalla sua.

Né c'è nulla di strano, allora, nel fatto che una casa editrice pubblichi un volume in una lingua diversa dall'italiano. Dipende tutto dal pubblico al quale mira, da cui pensa di farsi leg-

gere. Si tratta infatti di un bilinguismo stru­mentale, che non attesta affatto dipendenza, ma semmai apertura di orizzonti.

Non mi pare proprio che il bilinguismo stru­mentale degli intellettuali significhi che la na­zione è in difficoltà. Se vogliamo riprendere l'a­nalogia col latino, nell'epoca dell'impero buona

parte degli intellettuali erano bilingui, conosce­vano con ogni probabilità la propria lingua d'o­rigine, e in più il latino. Una situazione molto di­versa da quella attuale, dove semmai si registra (e da più tempo) una storica riluttanza da parte degli intellettuali ad imparare davvero le lin­

gue degli altri e a usarle in modo decoroso. Una rinuncia all'identità nazionale si avrebbe semmai solo se l'intero paese usasse un'altra lingua: se, ad esempio, i giornali fossero stampati in inglese (o in francese o qualunque altra lingua). Per for­tuna, ciò non accade; non siamo Singapore.

Non c'è dubbio che questo assetto prefiguri una asimmetria. Mentre noi ci affatichiamo per imparare a scrivere in inglese, gli anglofoni di tutto il mondo si possono limitare alla loro lin­gua madre, senza muovere un dito. Questo, cer­tamente, non è piacevole, ma il potere interna­zionale dell'inglese è un fatto talmente acquisi­to che mi pare molto difficile contrastarlo.

Il problema che abbiamo dinanzi non è quin­di quello che agita Galli della Loggia. Non stia­mo perdendo l'attaccamento ai «valori e ai si­gnificati» che si esprimono nella nostra lingua; stiamo semmai perdendo il contatto col mondo esterno. Almeno fino a quando non avremo im­piantato e risolto davvero due problemi, su cui bisogna richiamare l'attenzione di tutti: il primo è che gli intellettuali italiani non conoscono ab­bastanza lingue straniere di nessun tipo e sono per lo più soavemente monoglotti. Altro che co­municazione internazionale!

Il secondo è che occorre urgentemente portare tutti i giovani del paese a praticare una qualche lingua straniera in forma seria.

Se questi due risultati non verranno rag­giunti rapidamente, oltre che cessare di essere una nazione cesseremo anche di essere presi sul serio sul piano internazionale (come già sta ac­cadendo con il prezioso contributo della classe politica), e allora sarà un vero guaio.

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ITALIANO TRA SOCIETÀ E SCUOLA

In quelle classi le lingue sono Ire

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INTEGRAZIONI POSSIBILI

el primo numero di «Italia­

no e oltre» di quest'anno in un articolo dal titolo Tre

lingue in Valle d'Aosta:

l'insegnamento integrato di

francese, italiano e ingle­se, ho proposto una prima

riflessione sull'esperienza valdostana in relazione al-

l'armonizzazione delle di­dattiche delle lingue. Vor­

rei ora illustrare un esempio concreto di inte­grazione.

Richiamerò, anzitutto, brevemente i pre­supposti della didattica integrata delle lingue. Discipline contigue, le lingue del curricolo han­no statuti differenti a livello sociale (in Valle d'Aosta, l'italiano è lingua materna per la mag­gioranza degli studenti; il francese, istituzio­nalmente riconosciuto come lingua ufficiale al

pari dell'italiano, è, da un punto di vista di­dattico, una lingua seconda1

; l'inglese è, per ora, la sola lingua straniera della scuola me­dia), comportano livelli di competenza diversi­ficati conseguenti anche al loro statuto all'in­terno della società, quindi anche diversi livelli di motivazione rispetto al loro apprendimento, nonché, è evidente, didattiche specifiche e dif­ferenziate.

Quest'ultimo punto, la diversificazione delle didattiche, va opportunamente approfondito.

Un certo grado di diversificazione è fisiolo­gico, e sarebbe dannoso non riconoscerlo: esso dipende dallo statuto sociale di ogni lingua, dal momento in cui ognuna di esse è stata intro­dotta nel curricolo scolastico e, quindi, dal li­vello di competenza raggiunto dai discenti non­ché dalla tradizione didattica (e culturale) le­gata all'insegnamento di quella lingua specifi­ca. E' necessario tuttavia che la diversificazio­ne non diventi «divaricazione» o «divergenza». Se volessimo rendere graficamente le situazio­ni normali di insegnamento di tre lingue nel curricolo scolastico, potremmo rappresentare quanto generalmente accade come segue.

Nella migliore delle ipotesi, le tre lingue, pur ignorandosi, precedono parallelamente ver­so una direzione comune: lo sviluppo armonico delle competenze linguistiche dei discenti in

ognuna delle lingue (fig. 1). Nella peggiore del­le ipotesi, le tre lingue, seguendo didattiche non armonizzate, procedono in direzioni indi­pendenti, se non contraddittorie, creando con­fusione cognitiva e perdendo preziose occasioni di rinforzo reciproco (fig. 2).

Ora l'armonizzazione degli insegnamenti lin­

guistici può seguire strade diverse che vanno da

un minimo, rappresentato dalla conoscenza di quanto si fa nelle altre discipline, a forme di collaborazione più o meno implicanti che po­tremmo così rappresentare: il procedere pa­

rallelo, ma conscio, delle tre didattiche dà luo­go, di tanto in tanto, a momenti di incontro, di

MARISA CAVALLI

In Valle d'Aosta si

realizza una didaHica

in_tegrata di italiano,

francese e inglese ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), pp. 262-271

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ITALIANO

Fig. 1

scambio, di lavoro comune su una parte del curricolo: momenti distanziati, sporadici che rappresentano un primo livello minimo di col­laborazione (fig. 3). Si può anche pensare a una progressione a spirali parallele delle di­dattiche fondata sempre sulla conoscenza e sul procedere in armonia verso la stessa dire­zione mantenendo le specificità di ogni lingua e di ogni didattica (fig. 4). Nei casi più ambi­ziosi, si potrebbe realizzare una didattica «in­trecciata», in cui parti più o meno cospicue dei curricoli possono essere realizzate con forme di collaborazione che realizzano un'economia di­dattica: in quest'ultimo caso, si parte dal prin­cipio che non tutto debba essere fatto in una lingua e rifatto nelle altre, ma che nella co­struzione del percorso didattico ogni lingua possa assumerne una parte, una 'tappa', che sarà utilizzata (e non ripetuta) dalle altre lin­gue (fig. 5).

TRA SOCIETÀ E SCUOLA

t, 2

Fig. 2

2 I PREREQUISITI

La didattica integrata propone un approccio so­fisticato all'insegnamento delle lingue e richie­derebbe prerequisiti quali il pieno possesso da parte degli insegnanti di tutti i presupposti teorici nonché delle strategie e delle metodologie relati­vi alla didattica della propria disciplina, di una pratica stabilizzata della programmazione, della capacità di lavorare in équipe con i colleghi (che non è una 'qualità' personale che si ha o non si ha, ma è un elemento imprescindibile della profes­sionalità). Questo approccio richiede, soprattutto, che gli insegnanti condividano una stessa idea di lingua: lingua come strumento vivo, flessibile e vario, e non, come ancora troppo spesso accade, insieme statico e sclerotizzato di norme. Inoltre, la collaborazione interdisciplinare deve essere, in­nanzitutto, un état d'esprit comune. Questa lista

NOTA BENE

A partire da questa figura comporne una quinta a spirali più strette come suggerito dalla figura 5 riprodotta nel testo

Fig. 3 Fig. 4 Fig. 5

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ITALIANO TRA SOCIETÀ E

di prerequisiti può scoraggiare chiunq"ue ad av­viarsi a collaborazioni interdisciplinari all'inter­no dell'area linguistica: nella realtà dei fatti, come per ogni avvenimento innovativo che tocchi la scuola, occorre mettersi nell'ottica della speri­mentazione e della ricerca-azione che, partendo da piccole modifiche controllate, progressiva­mente portano al raggiungimento degli obiettivi più ambiziosi.

Nell'état d'esprit che deve informare l'azione de­gli insegnanti di lingua rientrano due principi già evocati nell'articolo succitato e che richiamo brevemente: nella prassi didattica occorre far funzionare ognuna delle lingue, nelle specifiche attività che vi vengono svolte, ora come antici­patrici ora come retroagenti rispetto alle altre.

Sono generalmente le lingue in cui i discenti hanno maggiori competenze che forniscono il quadro anticipatorio per le altre. Le lingue più 'giovani' del curricolo non svolgono un ruolo meno importante in quanto permettono una rivisita­zione più conscia e diversificata di acquisizioni fat­te in modo implicito nelle altre lingue. Questo apporto della terza lingua è più proficuo ancora nel caso in cui essa appartenga a un gruppo lin­guistico diverso rispetto alle altre (lingue del gruppo germanico vs lingue del gruppo romanzo). E' appena opportuno ricordare che nell'integra­zione linguistica tutte e tre le lingue giocano ruo­li, diversi è vero, ma egualmente importanti: non vi è una lingua più 'ricca' delle altre (se non per quanto concerne le competenze già acquisite da parte dei discenti), non vi sono lingue ancilla­ri.

E' ovvio che in un'educazione linguistica che vo­glia essere tale, la lingua materna dell'alunno, quando è diversa da quelle presenti nel curricolo scolastico, costituisce un altro serbatoio di com­petenze nonché di fenomeni linguistici a cui at­tingere. E questo non solo nell'intento di valo­rizzare la lingua minoritaria, ma anche in una prospettiva strettamente didattica: più numero­se e diverse sono le lingue in una classe e più fit­te e proficue possono essere le occasioni di con­fronto. La classe diventa così una creativa Babe­le, con un rovesciamento, poiché la compresenza di più lingue è vissuta come fonte di ricchezza piuttosto che come causa di confusione.

TRE LINGUE IN CIASSE

SCUOLA

Per evitare semplificazioni o generalizzazioni arbitrarie, occorre tenere a mente alcune pre­

cauzioni che dovrebbero permettere di evitare il rischio dell'indifferenziazione delle discipline: si tratta di non perdere di vista il fatto che poiché le tre lingue presentano differenze a livello nelle competenze e necessitano di didattiche, almeno parzialmente, differenziate, gli insegnanti non debbono ricercare l'omogeneità , né livellare le at­

tività basandosi sulla lingua in cui la costruzione delle competenze è ancora nella fase iniziale, né cadere nella trappola della ripetizione delle stesse attività se non addirittura degli stessi con­tenuti, né rincorrere il mito della simultaneità as­soluta.

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I SETTORI DI INTERVENTO

Tutti gli aspetti dell'insegnamento delle lingue senza distinzione possono essere oggetto di col­laborazione interdisciplinare e di integrazione: la fonetica, la morfologia, la sintassi e il sistema no­zionale, l'analisi testuale, gli aspetti pragmatici e culturali legati alle lingue. In tutti questi aspet­ti è possibile e auspicabile far agire i due principi dell'anticipazione e della retroazione combinandoli e dosandoli diversamente a seconda dell'aspetto individuato. Nella competenza pragmatica, per esempio, è, in genere, la lingua 3 ad agire in re­troazione sulle altre due. Infatti, la lingua 1 dà per acquisite determinate competenze funziona­li e pragmatiche (saper telefonare, saper saluta­re, saper scrivere una lettera formale, ecc.) di cui, in realtà, spesso i discenti sono in grado di for­nire realizzazioni povere, indifferenziate, stan­dard, nei registri più colloquiali. Il confronto po­trebbe quindi permettere alle tre didattiche di evi­denziare i rispettivi 'buchi' e di porvi rimedio in un rapporto dialettico e costruttivo.

Presento ora un percorso che si potrebbe rea­lizzare in una prima classe della scuola media val­dostana nell'anno scolastico 1993-94. Anno im­portante, poiché giungeranno alla scuola media

studenti che avranno seguito otto anni di inse­gnamento bilingue (tre anni di scuola materna e cinque anni di insegnamento elementare che pre-

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ITALIANO

vede l'uso veicolare dell'italiano e del francese in tutte le discipline).

L'ambito scelto è quello del sistema dei deter­minanti2 visti in un'ottica non semplicemente morfosintattica, ma nei loro aspetti semantici e nel loro funzionamento testuale. Si fanno quindi rientrare nella categoria dei determinanti tanto gli articoli (definiti, indefiniti e partitivi) quanto gli aggettivi ed i pronomi possessivi, dimostrati­vi, numerali e indefiniti.

L'esempio è stato scelto non perché si presti in modo particolare alla realizzazione dell'integra­zione, ma proprio per la ragione opposta. Vale a dire per dimostrare come, anche su parti di cur­ricolo in cui le tre lingue sembrano avere proble­matiche in tutto o in parte divergenti, sia possi­bile realizzare l'integrazione. Più agevole, meno tecnica, sarà la collaborazione sugli altri aspetti

che fanno parte dell'insegnamento linguistico.

4

I DETERMINANTI

Prendiamo ora in considerazione l'esempio di

cui si illustrano nel dettaglio cinque fasi. Con le

TRA SOCIETÀ E SCUOLA

frecce rivolte verso destra, si indica l'anticipa­

zione, con quelle rivolte verso sinistra la re­troazione. L'analisi partirà dalla colonna che ri­guarda la lingua straniera.

In lingua straniera, già dall'inizio dell'inse­gnamento, occorre lavorare a tre livelli.

A livello morfosintattico al momento del­l'apprendimento delle forme degli articoli defi­niti ed indefiniti. A questo punto, la lingua straniera può recuperare il funzionamento morfologico degli articoli definiti e indefiniti

delle altre due lingue per meglio far acquisire le specificità degli articoli inglesi. Tra gli ele­menti da sottoporre ad analisi contrastiva3 si potrà far notare agli studenti la povertà del si­stema dei determinanti inglesi rispetto alle al­

tre due lingue e come questa povertà derivi dal fatto che l'inglese non è una lingua flessiva co­me l'italiano e il francese.

Questa concettualizzazione dovrebbe avve­nire partendo da un mini-corpus di frasi che permetta di formulare ipotesi sul funziona­mento dei determinanti e di notare come nei si­

stemi italiano e francese questi ultimi com­portano flessioni relative al genere e al numero,

LINGUA ITALIANA LINGUA FRANCESE LINGUA STRANIERA (inglese)

livello semantico: � (fr./ls) livello semantico: � (ls) livello morfosintattico:

· riflessione metalinguistica "intuitiva" sulle nozioni di definito e indefinito a partire datitoli di articoli di giornale

· ripresa della riflessione metalinguistica "intuitiva" sulle nozioni di definitezza e indefinitezza a partire da titoli di articoli di giornale francesi + riflessione contrastiva su somiglianze o differenze di funzionamento tra le due lingue

livello testuale: � (fr./ls) livello testuale: �(ls)

· verifica del funzionamento anaforicodegli articoli definiti e del funzionamentocataforlco degli articoli indefinitiall'interno di brevi articoli di giornale (fattidi cronaca)

Schema 1 - Prima fase

· verifica del funzionamento anaforicodegli articoli definiti e del funzionamento cataforlco degli articoli indefiniti all'interno di brevi articoli di giornale (faits divers)

· apprendimento degli articoli definiti eindefiniti

+ (fr./it) riflessione contrastiva:un,una,un' il,la,I', i, gli,le un,une le,/a,I' /es a,an the

+ (fr./it) livello semantico:

· riflessione metalinguistica sulle nozioni di definitezza e indefinitezza

+ (fr./it)riflessione contrastiva: Le patate ti fanno ingrassare. Les pommes de terre te font grossir. Potatoes make you fat.

+ (fr./it) livello testuale:

esercizi sul funzionamento nel testo degli articoli definiti ed indefiniti (in brevi e semplici paragrafi o conversazioni)

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w

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ITALIANO TRA SOCIETÀ E

esattamente come altri elementi della frase (aggettivi e participi passati nei verbi intransi­tivi, passivi e riflessivi)4. In inglese, invece, i de­terminanti non veicolano il genere e, per quan­to riguarda l'articolo definito, neppure il nu­mero:

italiano: La ragazza bionda che è entrata nel negozio non è ancora uscita

Un motoscafo impazzito si è schiantato contro gli scogli Gli zii veneti di Antonio non sono ancora arr­rivati Il bandito solitario ha colpito ancora

francese: J'ai vu entrer une fille blande Un grand garçon brun nous a barré la route La voiture bleue garée devant notre maison a été emmenée à la fourrière

inglese: You have a nice dress. It's very smar.t! I saw the fine modem buildings of the new stadium

Rispetto, invece, al problema dell'eufonia, sarà interessante notare come questa sia una· preoccupazione di tutte e tre le lingue, affron­tata e risolta in modi vari, strettamente con­nessi con le caratteristiche fonetiche delle lin­gue:

italiano un libro, uno zio, uno scoglio, una mano, un'amica

francese: une amie (senza elisione), ma l'amie

inglese: a man, an eagle

A livello semantico, il diverso funziona­mento del sistema degli articoli inglesi ri­spetto alle nozioni di definito e indefinito, rende inevitabile una riflessione contrastiva:

TRE LINGUE IN CLASSE

SCUOLA

è stato scelto, come esempio, il diverso fun­zionamento dell'inglese quando il nome è uti­

lizzato con valore generale e non specifico. Questo tipo di riflessione condotta nella lingua straniera si appoggia sul patrimonio lingui­stico già in possesso degli studenti e ha rica­dute positive sulla loro maturazione lingui­stica, metalinguistica e metacognitiva in tut­te e tre le lingue.

Il terzo livello, quello testuale, è esercitato quando gli articoli vengono fatti funzionare al­l'interno di piccoli testi orali o scritti e non quindi al semplice livello della frase.

In italiano, il lavoro sui determinanti si situa subito a livello semantico e testuale. Ha obiet­tivi più ambiziosi quali la presa di coscienza dell'uso nel testo delle nozioni di definito e in­definito o il funzionamento anaforico degli ar­ticoli definiti e quello cataforico degli articoli in­definiti. La difficoltà didattica rispetto a que­sti problemi, in lingua, risiede nel trovare eser­cizi e attività semplici, graduate, alla portata dello stadio cognitivo degli studenti, ma che, al tempo stesso, li aiutino a compiere passi si­gnificativi verso l'astrazione e la concettualiz­zazione. Tutto quanto acquisito in questa lin­gua funge da anticipazione rispetto alle altre due e può essere immediatamente recuperato

in francese. Per avviare la riflessione sulla funzione

anaforica e cataforica dei determinanti, si po­trebbe partire da una serie di titoli di articoli di cronaca5

(1) L'autobomba della mala(2) Liberi i pescatori italiani(3) Torna il sabotatore.

Panico al San Carlo(4) L'ETA: vogliamo negoziare

(5) un· narco-tunnel perportare coca fra Usae Messico

(6) Genova, ammazzatoper una lite da bar

(7) Un supertestimone per l'autobomba

Si tratta, in un primo tempo, di chiedere agli studenti di classificare in due colonne:

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ITALIANO I •

➔ ➔

(titoli che rinviano a noti- (titoli di notizie completa­zie già date in precedenza) mente nuove)

Schema 2

Dopo questa prima attività completamente intuitiva, si chiederà agli studenti di esplicita­re gli elementi linguistici che hanno permesso

loro, al di là della loro conoscenza dei fatti, di classificare i titoli. L'esplicitazione dei criteri linguistici (e logici) che li hanno guidati nella classificazione potrà essere particolarmente in­teressante per titoli come (7) in cui in realtà

convivono una notizia nuova (Un supertesti­

mone) accanto ad una notizia già data (l'auto­

bomba). Incidentalmente questa attività rap­presenterà un primo avvio alla competenza in­tertestuale.

In francese, si potrà aggiungere la riflessione contrastiva rispetto al diverso funzionamento del sistema dei determinanti francesi e italiani.

Anche l'insegnante di lingua straniera può

decidere di recuperare da subito la riflessione condotta in italiano e in francese o decidere di

posticiparla a un momento ulteriore quando le conoscenze linguistiche rispetto ai determi-

livello testuale: � (fr./ls) livello testuale:

TRA SOCIETA E SCUOLA

nanti siano già state integrate e automatizza­te dagli studenti.

In lingua straniera, rispetto all'acquisizio­ne degli aggettivi numerali, i tre livelli (morfo­

sintattico, semantico e testuale) sono sempre presenti: rispetto al livello semantico la rifles­sione contrastiva potrà permettere di mettere in

evidenza il diverso funzionamento del sistema

inglese che non assimila, per l'espressione del­l'unità, l'articolo indefinito e l'aggettivo nume­rale come in italiano e francese. Il lavoro a li­vello testuale prevede che ogni nuova acquisi­

zione venga accostata in un'ottica sistemica al­le acquisizioni precedenti e con quelle fatte funzionare a livello di testo e non di semplice frase.

In italiano, il lavoro potrebbe procedere in modo più ambizioso introducendo la riflessione

sulla co-referenza e, all'interno di questa, l'a­nalisi del funzionamento dei determinanti. Ri­flessione che può essere ripresa dalla lingua francese, magari in tono minore: su testi meno lunghi o meno complessi. Parallelamente la lingua francese non deve dimenticare il lavoro

a livello morfosintattico e semantico rispetto a certe fossilizzazioni (qui sono citati il proble­ma della trasformazione dei partitivi nelle fra­si negative o davanti ad aggettivi): l'ottica con-

�(ls) livello morfosintattico:

· analisi delle co-occorrenze di un · analisi delle co-occorrenze di un · apprendimento degli aggettivi numeralireferente in articoli di giornale o testiletterari con particolare attenzione all'usodei determinanti

Schema 3 - Seconda fase

referente con particolare attenzioneall'uso dei determinanti ma su testi menolunghi e meno complessi

parallelamente: � (ls) livello morfosintattico e semantico in ottica contrastiva

sistematizzazione di alcuni determinanti e loro particolarità che inducono fossilizzazioni (per es. l'annullamento dell'articolo nella frase negativa - PAS DE - e davanti agli aggettivi che precedono unnome: DE bel/es fleurs)

+ (fr./it) livello semantico:

lavoro su nozione di quantità definita + (fr./it) riflessione contrastiva: in it.Mr. assenza d'opposizione traindefinito e numerale: it. UN/UNA(art.indef.)=UN/UNA(agg.num)fr. UN/UNE( art. indef. )=UN/UNE( agg. num)ingl. A,AN (art.indef.)# ONE (agg.num.)

+ (fr./it) livello testuale:

aggiunta progressiva delle nuove acquisizioni al sistema dei detenminanti e loro funzionamento all'interno di brevi testi o dialoghi

-

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ITALIANO TRA SOCIETÀ E SCUOLA

livello testuale: � (fr./ls) livello testuale: �(ls) livello morfosintattico:

· fase produttiva guidata: uso dei · fase produttiva guidata: uso dei apprendimento degli articoli partitivi determinanti scelti da una lista data determinanti scelti da una lista data(senza distrattori) in un testo da cui essi (senza distrattori) in un testo breve e + (fr./it) livello semantico: siano stati tolti semplice da cui essi siano stati tolti

lavoro su nozione di quantità non definita e parallelamente: �(ls) di quantità O livello morfosintattico e semantico in + (fr./it) riflessione contrastiva: ottica contrastiva: Tutti i giorni mangio pane I del pane

Tous /es jours je mange du painsistematizzazione di alcuni determinanti e Every day I eat some breadloro particolarità che inducono ma:fossilizzazioni (per es. gli aggettivi Non mangio pane/del pane possessivi e loro particolarità: un de mes Je ne mange pas DE pain amis, votre # le v6tre, essenzialità della I don't eat ANY bread determinazione francese che non prevede e ancora: abbinamenti tra determinanti del tipo il mio, Mangi pane/del pane? un mio, questo mio, uno di questi miei etc. Est-ce que tu manges du pain?

Do you eat ANY bread?

+ (fr./it) livello testuale:

aggiunta progressiva delle nuove acquisizioni nel sistema dei determinanti e loro funzionamento all'interno di testi progressivamente più ricchi e complessi

Schema 4 - Terza fase

trastiva (sia nella direzione dell'italiano che nella direzione della lingua straniera) potrà fa­cilitare certe prese di coscienza rispetto alle diversità di funzionamento dei sistemi.

grado di usare in modo appropriato tutta la va­rietà dei determinanti.

La lingua straniera continua a lavorare, ri­spetto all'apprendimento degli articoli partitivi, ai tre livelli, con l:lna accentuazione del livello morfosintattico e di quello semantico.

La riflessione contrastiva che, a livello se­mantico, occorrerà condurre avrà benefici ef­fetti retroattivi sulla lingua francese, che come abbiamo visto si dibatte in alcuni problemi di fossilizzazione rispetto ai partitivi. Non è detto che l'introduzione del funzionamento dei parti­tivi in inglese e le relative prese di coscienza non sblocchino la lingua francese là dove in­contra difficoltà.

Il livello testuale che prevede il recupero del­le nuove acquisizioni è quello che permetterà al­la lingua straniera di avvicinarsi a un uso del­la lingua più simile a quello che avviene in lin­gua italiana e lingua francese.

In francese, prosegue il recupero di quanto fatto in italiano. In francese occorrerà porre un'attenzione particolare alle specificità del si­stema francese che inducono errori: l'ottica con­strastiva permetterà di focalizzare meglio i pro­blemi e risolverli: sono citati nell'esempio i pro­blemi morfosintattici e semantici relativi all'u­so degli aggettivi possessivi.

In italiano, prosegue il lavoro sui determi­nanti in un'ottica essenzialmente testuale il cui obiettivo finale è di mettere lo studente in

TRE LINGUE IN CLASSE

La lingua straniera prosegue nella costruzio­

ne del sistema dei determinanti con l'acquisi­zione degli aggettivi possessivi: una difficoltà che il metodo contrastivo e la riflessione meta­linguistica contribuiranno a risolvere è il doppio riferimento negli aggettivi possessivi inglesi al­la persona che possiede e al suo sesso (doppio ri­ferimento che non è contemplato negli altri due sistemi). A questo punto, la lingua straniera ha acquisito un certo numero di determinanti (ar­ticoli definiti, indefiniti, partitivi, aggettivi nu­merali e possessivi). E' dunque possibile, anche per la lingua straniera, procedere a piccole at­tività, molto simili a quelle proposte nella terza fase per la lingua italiana e francese.

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ITALIANO TRA SOCIETÀ E SCUOLA

livello testuale: + (fr./ls) livello testuale: � (ls) livello morfosintattico:

ma anche, eventualmente + (it)· fase produttiva meno guidata: uso dei · fase produttiva meno guidata: uso dei apprendimento degli aggettivi possessivi determinanti scelti da una lista data determinanti scelti da una lista data (con distrattori) in un testo più complesso (con distrattori) in un testo un poco più + (fr./it) livello semantico:

da cui essi siano stati tolti complesso da cui essi siano stati tolti lavoro su nozione di possesso con doppio

parallelamente: � (fr/ls) parallelamente: �(ls) riferimento alla persona che possiede ed al livello morfosintattico e semantico: livello morfosintattico e semantico: suo sesso

+ (fr./it) riflessione contrastiva: acquisizione, a livello di comprensione, di acquisizione ed uso di alcuni determinanti il suo libro (di Maria o di Michele) alcuni determinanti appartenenti a registri (essenzialmente aggettivi e pronomi son livre (de Jean ou de Nathalie)più alti (taluni, qualsivoglia, alcunchè etc.) indefiniti: certains, plusieurs, d'autres, her book (of Jane) # his book (of Michael)

quelques-uns, de nombreux ... ) di cui gli alunni fanno un uso solo passivo + (fr./it) livello testuale:

aggiunta progressiva delle nuove acquisizioni al sistema dei determinanti e loro funzionamento all'interno di testi

Schema 5 - Quarta fase

In italiano, le attività proposte per la fase precedente sono riprese, ma su testi più ricchi e articolati. Parallelamente, in questa lingua do­vranno essere affrontati, almeno a livello di

comprensione, quei determinanti (soprattutto indefiniti) appartenenti a registri alti della lin­gua e poco frequenti nel linguaggio della quo­tidianità, ma presenti negli scritti che i di­scenti utilizzano anche per l'apprendimento

(manuali di storia, geografia, ecc.).

vità in questa lingua e un recupero dell'acqui­sito in un secondo tempo o parallelamente in

italiano. Queste due lingue, infatti, possono giocare su anticipazione e retro-azione con scambio di ruoli frequenti date le competenze linguistiche pressoché equivalenti in Valle d'Ao­sta. Anche in questa fase, e in modo più ap­

profondito rispetto all'italiano, occorrerà pen­sare all'acquisizione di certi indefiniti di largo uso in lingua francese che non sono ancora per­fettamente padroneggiati, quantomeno in pro­duzione.

Per il francese, si può prevedere lo stesso ti­po di attività che per l'italiano a livello testua­

le. Anzi in questa, come in altre occasioni, è

possibile pensare a una anticipazione dell'atti-Continua per la lingua straniera la costru­

zione del sistema dei determinanti con l'ag-

livello testuale: � (fr./ls)

· fase produttiva non guidata: uso deideterminanti (senza l'ausilio di una lista)in un testo complesso da cui siano statitolti

3chema 6 - Quinta fase

livello testuale: � (ls) ma anche, eventualmente � (it)

· fase produttiva non guidata: uso dei determinanti (senza l'ausilio di una lista) in un testo da cui siano stati tolti

parallelamente: � (ls) livello morfosintattico e semantico:

acquisizione a livello di comprensione di alcuni determinanti appartenenti a registri più alti (quiconque, quelconque, n'imporle /eque/, etc.)

livello morfosintattico:

apprendimento degli aggettivi dimostrativi

+ (fr./it) livello semantico:

lavoro sulle nozioni di deissi spaziale, di vicino e lontano e di riferimento cotestuale + (fr./it) riflessione contrastiva: questo/a (vicino)# quello/a (lontano)ce/cette ... -ci(vicino) # ce/cette ... -là (Ioni.)this (vicino) # that (lontano)

+ (fr./it) livello testuale:

aggiunta progressiva delle nuove acquisizioni al sistema dei determinanti e loro funzionamento all'interno di testi più lunghi e complessi

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r---

270 giunta a livello morfosintattico degli aggettivi dimostrativi. A livello semantico, gli aggettivi dimostrativi inglesi dovrebbero non rappre­sentare una grande difficoltà poiché essi hanno un funzionamento paragonabile a quello dei di­mostrativi italiani. Una rapida riflessione con­trastiva permetterà di ricordare la differenza di funzionamento dei dimostrativi francesi in cui le nozioni di vicino/lontano sono per lo più assi­curate da suffissi deittici e non dalla forma stessa del dimostrativo.

Anche questa nuova acquisizione va inserita nel sistema e in quello fatta funzionare, te­nendo conto del fatto che ogni nuova acquisi­zione, prima di divenire tale, rappresenta una destabilizzazione delle precedenti acquisizio­ni. La fase quindi di ripresa di un determi­nante appena appreso e il suo funzionamento si­stemico all'interno del testo permette la revi­sione ciclica dei determinanti precedentemente acquisiti e avvia a un approccio ai determinan­ti che si avvicina a quello adottato nella lin­gua italiana e francese con la possibilità di re­cupero anche in lingua straniera della rifles­sione sulla coreferenza.

In italiano, l'attività iniziata con esercizi sem­plici arriva a livelli sempre maggiori di com­plessità e senza gli aiuti precedentemente di­spensati: l'ultima attività di apprendimento pro­posta è il ritrovamento in un testo complesso di tutti i determinanti senza l'aiuto di una lista. Questa attività presuppone che si individui la no­zione veicolata dal determinante mancante uni­camente attraverso il contesto. La coreferenza as­sicurata dai determinanti viene concretamente esercitata. L'ultimo passo sarà naturalmente l'uso spontaneo e corretto da parte dei discenti nei loro scritti dei determinanti in tutta la varietà e la ricchezza delle loro sfumature.

In francese, posto che non si sia deciso di

TRE LINGUE IN CLASSE

SCUOLA

procedere per anticipazione rispetto all'italiano, si potrà proporre la stessa attività su testi di di­verso tipo. Parallelamente si provvederà al­l'acquisizione in comprensione di alcuni agget­tivi e pronomi indefiniti appartenenti a registri alti di lingua.

Per quanto concerne i tempi di realizzazione dell'esempio di attività proposta, è evidente che l'italiano e il francese potranno procedere pa­rallelamente, a velocità elevate e quindi in tem­pi piuttosto ridotti, mentre la lingua straniera, impegnata nella costruzione ex nihilo delle com­petenze linguistiche, dovrà darsi i tempi 'fisio­logici' richiesti in vista dell'acquisizione del si­stema dei determinanti.

Con questo esempio, che presenta un per­corso didattico tra tanti possibili, si è inteso soprattutto suggerire come il far «giocare in­sieme» le conoscenze linguistiche degli studen­ti e le didattiche delle tre lingue porti a una economia a livello cognitivo, a un rinforzo e un arricchimento reciproci delle tre lingue e a uno sviluppo armonico delle conoscenze linguistiche ma anche metalinguistiche e metacognitive de­gli studenti.

Tuttavia non vorrei che il tipo di esempio scelto nonché il metalinguaggio utilizzato per il­lustrarlo possano indurre l'impressione che l'in­tegrazione linguistica debba risolversi per lo più in attività di analisi contrastiva e che lo studente debba trasformarsi in un linguista provetto che maneggia con disinvoltura il gergo dotto della linguistica. Nulla di tutto questo. Gli apporti di scienze vecchie e nuove a quella, troppo spesso dileggiata, che è la didattica di­ventano fecondi e innovativi quando traducono la complessità concettuale in attività semplici, graduate, con consegne esplicite e chiare, che portano progressivamente lo studente ad ac­quisizioni fini, ma solide e operative.

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ITALIANO

NOTE

Il Nel definire così il francese in Valle d'Aosta, as­sumo la definizione che del francese lingua seconda fornisce Jean-Pierre Cuq in Le français langue se­conde, Origines d'une notion et implications didac­tiques, Collection Références, Hachette, 1991, e cioè una lingua, nel caso specifico il francese, intesa come lingua straniera a statuto privilegiato nel senso di lingua non prima che contribuisce, però, come lingua d'insegnamento, allo sviluppo psicologico e cognitivo del bambino e, in seguito, alle capacità informative dell'adulto (media, documenti professionali e am­ministrativi) e nella quale avviene una parte delle ac­quisizioni costitutive della personalità. Secondo Cuq, colui che apprende il francese lingua seconda ha in origine una competenza molto vicina a quella di un gruppo di parlanti non nativi e si avvia, general­mente, verso il bi- o pluri-linguismo.

El Definiti «attualizzatori del nome» da André Mar­tinet (Grammaire fonctionelle du français, Cré­dif/Didier, 1979) e cioè elementi che, secondo la de­finizione di Harald W einrich, hanno nel testo «la funzione di mettere i nomi in relazione con altri segni linguistici e di stabilire tra di essi una relazione di determinazione» (Grammaire textuelle du français, Alliance français, Didier-Hatier, 1989).

El Questo lavoro di analisi è particolarmente profi­cuo quando viene condotto in compresenza dai tre in­segnanti di lingua.

Il Sarà interessante far notare come nel sistemafrancese certe flessioni siano evidenti solo nello scrit­to: Lajeune fille anglaise que tu as connue l'été der­nier se promène radieuse dans le pare si differenzia nell'orale della seguente frase: Les jeunes filles an­glaises que tu as connues se promènent radieuses dans le pare, solo per il cambiamento fonetico per­cepibile nel passaggio da la a les.

El I titoli sono tratti da «la Repubblica» del 4 giugno1993.

TRA SOCIETÀ E SCUOLA

! E CICLOPEDIACAMBRIDGE DELLE SCIENZEDEL LINGUAGGIO

ENCICLOPEDIA CAMBRIDGE

DELLE SCIENZE DEL LINGUAGGIO

di DAVID CRYSTAL

Edizione italiana a cura di

Pier Marco Bertinetto

88000/ire

271

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ITALIANO TRA SOCIETÀ E SCUOLA

Scritture universitarie/ 1

1

LA SCRITTURA NELLE UNIVERSITÀ

ell'anno accademico 1992-93 sono stati attivati in quattro università italiane (Roma, Salerno, Siena e Torino) i Corsi di Laurea in Scienze della Comunicazione, che prevedono entro il terzo anno «due prove di composizione o elaborazione di testi, da so-sten ere con l'impiego diword-processor, l'uno in lin­

gua italiana e l'altra in lingua inglese» (Relazione della Commissione ministeriale per il corso di Lau­rea in Scienze della comunicazione, Roma, 1991). Per la preparazione a queste prove la Commis­sione «ha ritenuto che ogni decisione [ ... ] debba essere lasciata alle singole sedi».

Questo articolo, dopo un rapido sguardo alla di­dattica della scrittura nelle università italiane e al­la ricerca sullo sviluppo delle capacità necessarie alla costruzione di testi, descrive l'impostazione, gli obiettivi e l'organizzazione della didattica della scrittura da me progettata e coordinata al corso di Laurea in Scienze della Comunicazione dell'Uni­versità di Torino. Progetti didattici che coinvol­gono molti docenti e un gran numero di studenti co­me questo di Torino richiedono non solo la scelta di contenuti e metodologie d'insegnamento, ma anche la creazione di una struttura organizzativa com­plessa. Tra gli scopi di questo articolo c'è anche il desiderio di aprire un dibattito sulla didattica del-

la scrittura nelle università italiane, alla luce del­le esperienze già in corso.

La presenza di prove di composizione rappre­senta una novità nel panorama universitario ita­liano. Perfino in facoltà come Lettere e filosofia gli studenti raramente realizzano testi scritti prima della tesi, mentre la capacità di comporre viene da­ta per acquisita nella scuola secondaria. Tesine e relazioni trovano spazio solo nell'ambito di semi­nari frequentati da un numero limitato di stu­denti, spesso i più impegnati e capaci. Nel contesto delle tesi di laurea, i docenti correggono indivi­dualmente gli scritti, mirando alla qualità del pro­dotto più che allo sviluppo di buone abitudini di scrittura.

Non manca però qualche esempio di iniziativa didattica.

All'Università di Roma «La Sapienza», dalla metà degli anni '80, Tullio De Mauro organizza con alcuni collaboratori il seminario: «Leggibilità e comprensibilità dei testi. Tecniche di scrittura», ri­volto agli studenti di Filosofia del linguaggio. Con questi seminari sono stati anche formati i redattori del mensile «Due parole», sperimentazione di un linguaggio molto chiaro per ragazzi con lievi pro­blemi di comprensione (Piemontese 91,-AA.VV. 93). Altri corsi di scrittura, aperti a tutti gli stu­denti, vengono organizzati presso la Facoltà di Economia dell'Università di Modena dal Lend e dall'Opera Universitaria.

Diverse iniziative sono nate nell'ambito dei Cor­si di Laurea in Lingue dove, dal 1990, è obbliga­toria un prova scritta propedeutica all'esame di let­teratura italiana. Variano sia i tipi di prove scrit­te (da questionari sulla letteratura italiana a rias-

MARIA TERESA SERAFINI

Il primo dei t re

i nterventi dedicati

alla scrittura degli

studenti universitari ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), pp. 272-278

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ITALIANO

sunti e parafrasi), sia i tipi di attività preparato­

rie: alcune lezioni nell'ambito dei normali corsi di letteratura italiana (come all'Università di Po­

tenza), oppure veri e propri corsi di scrittura (come alla Facoltà di Lettere dell'Università statale di Mi­lano). Altre iniziative sorgono per la stesura delle tesi di laurea; un esempio è sempre all'Univer­sità statale di Milano: all'Istituto di Pedagogia,

vengono organizzati seminari per tutti i laurean­di sm processi della ricerca e della scrittura.

Alcune esperienze, infine, riguardano facoltà scientifiche. Ad esempio, al Politecnico di Mi­

lano sede di Como, dal 1990 al 1992 sono stati organizzati seminari sulla scrittura tecnica per gli studenti di ingegneria. Un resoconto di al­cune r1cerche ed esperienze sulla scrittura all'università si trova nella prima parte di La­vinio e Sobrero 91.

In altri sistemi universitari la scrittura è mol­to più diffusa, soprattutto perché costituisce il

principale modo per verificare l'apprendimento nelle diverse materie. Questa realtà ha contribui­to allo sviluppo della ricerca sulla realizzazione dei testi e alla maggior organizzazione e diffusione della didattica della composizione. Un esempio particolarmente articolato è quello del sistema universitario degli Stati Uniti (Serafini 82). Ri­spondendo a sollecitazioni che provengono so­prattutto dall'Associazione Nazionale degli Inse­gnanti di Inglese, il 90% delle università organiz­za corsi di composizione nei dipartimenti di in­

glese, in appositi Centri di scrittura o nell'ambito di Centri di consulenza pedagogica (Learning Cen­tre) dove la scrittura ha uno spazio primario in­

sieme alle tecniche per studiare (Study Skills) (Wallace e Simpson 91, Connolly e Vilardi 86, 01-son 84, White 89).

2

LA RICERCA SULLA SCRITTURA

La scrittura è una attività complessa: alla sua comprensione contribuiscono le scienze più diver­se. La sua didattica deve avere quindi un approc­cio eclettico: sono di aiuto le indicazioni della re­torica antica e moderna, le metodologie critiche di analisi dei testi letterari, la semiotica, la linguistica

TRA SOCIETÀ E SCUOLA

testuale. Si devono anche tenere in considerazione le ricerche interdisciplinari della psicologia co­gnitiva, per quanto riguarda l'analisi sistematica del processo di generazione di specifici tipi di testi da parte di persone diverse per stile cognitivo,

età e abilità. Altre indicazioni provengono dalla pe­dagogia, che ha studiato gli ambienti e le dinami­che che favoriscono e stimolano l'apprendimento delle tecniche compositive.

Suggerimenti si ricavano poi anche dall'intelli­genza artificiale, che ha sviluppato metafore in­teressanti sul funzionamento del cervello e sul comportamento intelligente degli uomini. Altri

spunti per la didattica sorio negli studi sui processi della lettura: per esempio, la conoscenza delle tec­niche di lettura veloce è utile nella creazione di te­sti di consultazione e di alta leggibilità.

Una rassegna della ricerca sulla scrittura si trova in Freedman e altri 87, Dyson e Freedman 90 e Dyson e Freedman 91. I primi punti fermi so­no nelle ricerche del British Council sullo sviluppo della capacità di creare testi (Britton 75, Martin 76) e nei modelli creati dagli psicologi cognitiviper descrivere il processo di generazione del testo(Hayes e Flower 80). Per gli Stati Uniti centri di

raccolta di ricerche ed esperienze sono il NationalCouncil ofTeacher ofEnglish a Urbana, Illinois, e

il Center for the Study of Writing and Literacy,all'Università di Berkeley, California; articoli im­portanti si trovano nelle collezioni di riviste come«College English», «Written Communication», «Col­lege Composition and Communication».

In Italia negli ultimi dieci anni si è sviluppata una ricca letteratura sulla didattica della scrittu­ra, limitatamente però alla scuola elementare e media (per esempio, Cortellazzo 91, Lo Duca 91,

Corda Costa 89, Formisano, Pontecorvo e Zuc­chermaglio 86, Serafini 85).

3

LA DIDATTICA DELLA SCRITTURA

Da quanto ho detto risulta evidente che l'inse­gnante di scrittura debba avere una formazione complessa, che in Italia non viene al momento

impartita da appositi corsi a livello universitario,

ma è recuperabile attraverso una paziente rac-

273

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274

ITALIANO TRA SOCIETÀ E

colta di informazioni da campi diversi. In questa sede ricordiamo solo la molteplicità de­

gli approcci più importanti alla didattica della scrittura (White 89): ciascuno evidenzia modi di­versi di affrontare il problema e porta a metodo­logie e tecniche particolari. Si sottolinea però che una buona didattica della scrittura deve utilizza­re in momenti diversi tutti questi approcci, in quanto complementari e non esclusivi, anche se tal­volta le mode portano a valorizzarne uno a disca­pito degli altri.

(a) L'Approccio imitativo sostiene che si imparasoprattutto attraverso l'esempio di buoni modelli. Questo approccio porta a leggere molto e a utiliz­zare tutte le tecniche di analisi dei testi, dalla lin­guistica alla semiotica e alla critica letteraria.

(b) L'Approccio procedurale sottolinea le ope­razioni necessarie per realizzare gli scritti, invece che le loro caratteristiche finali, ponendo l'accento sul processo invece che sul prodotto. Questo ap­proccio utilizza gli studi di psicologi, pedagogisti e scienziati cognitivi.

(e) L'Approccio retorico insiste sull'importanzadel contesto comunicativo, inteso come il com­plesso equilibrio tra le esigenze dello scrivente, del destinatario, del soggetto e dello scopo dello scritto. Particolare attenzione viene riservata alla possibilità di variare un messaggio in base alla situazione. La stilistica, la retorica e le scienze della comunicazione forniscono strumenti a questo approccio.

(d) L'Approccio esperienziale, o espressivo,mette in evidenza che la riuscita di un testo èlegata all'uso da parte dell'autore di sentimen­ti ed esperienze personali. Suo presupposto è

l'esistenza di un complesso legame tra espe­rienza, lingua e pensiero. Questo approccio sot­tolinea l'importanza di lasciare uno spazio am­pio agli scritti creativi e di far raccogliere infor­mazioni agli studenti, anche creando esperien­ze ad hoc su cui far scrivere. Vengono sfruttati strumenti e spunti teorici di tipo psicologico e pedagogico.

SCRIVERE All'UNIVERSITÀ

SCUOLA

(e) L'Approccio epistemico vede l'attività delloscrivere come uno strumento per organizzare sen­sazioni, idee e fatti e, quindi, conoscere e capire. Il suo presupposto è che la conoscenza del mondo avvenga gradatamente, in interazione con l'uso del linguaggio: scrivere di un argomento contri­buisce alla sua comprensione. Questo approccio sottolinea l'importanza di scrivere molto in ogni contesto anche come aiuto alla attenzione, com­prensione e memorizzazione: diari, verbali, tesine e relazioni, ma anche appunti e schemi.

(f) L'Approccio convers�ionale sottolinea l'im­portanza della discussione tra scrittore e lettore. Attraverso il dialogo, l'autore chiarisce le sue in­tenzioni e i suoi pensieri, raccogliendo consigli e in­dicazioni sugli aspetti problematici del suo testo; i lettori potranno essere non solo l'insegnante ma anche i compagni, attraverso la pratica di gruppi di corruzione. Questo approccio enfatizza l'impor­tanza di stimoli e gratificazione, e si realizza anche rendendo pubblici i testi, attraverso la creazione di libri e giornali.

4

ALL'UNIVERSITÀ Dr TORINO

In questo ricco quadro di ricerche e di espe­rienze è stata progettata la didattica del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione della Fa­coltà di Lettere e filosofia dell'Università di Torino.

La relazione della Commissione ministeriale per il Corso di Laurea in Scienze della comuni­cazione specifica come obiettivo delle attività di­dattiche per la composizione lo sviluppo di «ca­

pacità di organizzazione del pensiero, di chia­rezza, di precisione, di sintesi». A Torino la Commissione promotrice del corso di laurea ha evidenziato la necessità di una organizzazione della didattica per la composizione diversa da quella consueta all'università: accanto alle nor­mali lezioni ex cathedra, con un docente e mol­tissimi allievi, ha pianificato un gran numero di laboratori, ciascuno con pochi studenti, ove svolgere concrete attività di scrittura. Il lavoro di preparazione dei laboratori è partito da que­ste indicazioni ed è stato realizzato in tre fasi successive:

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ITALIANO

(a) la stesura di un progetto generale, che ha

elencato gli obiettivi e proposto una organizza­zione generale delle attività;

(b) sulla base degli obiettivi scelti, la costru­

zione di un programma che ha precisato i con­tenuti e le attività;

(e) infine, l'individuazione di un «percorso di­dattico» che ha, in un primo momento, segna­lato le tappe del lavoro, gli approcci, i materia­li, la tipologia degli esercizi e le prove, e, in un

secondo momento, scandito le attività incon­tro per incontro.

I problemi organizzativi di questo primo an­

no 1992-93 sono stati amplificati dal gran nu­

mero di iscritti (1.200 matricole) che sono stati suddivisi in 40 gruppi di 30 elementi. La scelta

di limitare a 30 la dimensione di ciascun grup­po è stata imposta dalle caratteristiche dei lo­cali disponibili, normali aule scolastiche forni­

te da una scuola sulla base di un accordo tra l'università e la provincia. In aggiunta ai la­boratori di scrittura in italiano, sono stati or­ganizzati anche laboratori di scrittura in in­glese e di informatica, coinvolgendo global­mente tre coordinatori (uno per area) e venti­

quattro istruttori, di cui nove per i laboratori di italiano.

Per quanto riguarda la didattica dell'italiano

di questo primo anno, ciascuno studente ha se­guito dieci ore di lezioni frontali e ventiquattro ore di laboratorio; in aggiunta, sono state or­ganizzate dieci ore di uso del word-processor in aule dotate di personal computer, durante le quali sono stati svolti, tra l'altro, alcuni eserci­zi impostati nell'ambito dei laboratori. Una di­

dattica della scrittura interamente con il word­processor a Torino è al momento impossibile data la disponibilità di solo quattro aule con computer.

5

IL PROGETTO

Il progetto descrive gli obiettivi del corso e dei la­

boratori (tab. 1, p. 275/276), la struttura organiz­zativa della didattica in un corso e dei laboratori

TRA SOCIETÀ E SCUOLA

coordinati (tab. 2, p. 277), i compiti dei corsi� dei la­

boratori (tab. 3, p. 277) e gli aspetti pratico-orga­nizzativi delle prove e della valutazione finali.

La Tab. 1 elenca gli obiettivi scelti a Torino. Il

punto (a) mostra che l'approccio procedurale è

centrale nell'impostazione didattica: viene rite­nuta di primaria importanza la conoscenza delle tecniche utili nelle varie fasi di generazione di un testo. I punti (b) ed (e) indicano le tipologie di testi da realizzare prestando attenzione al contesto co­

municativo (il «percorso didattico» evidenzia che per questi punti vengono utilizzati l'approccio imi­

tativo, e l'approccio retorico). Il punto (e) segnala

che uno spazio particolare occupano le tecniche di realizzazione delle prose di base (descrizione, nar­razione, esposizione e argomentazione) e gli sche­mi di ragionamento. Altro obiettivo del laboratorio è la conoscenza delle convenzioni della lingua scritta, punto (d).

6 ORGANIZZAZIONE IN MODULI

Per gli studenti immatricolati nel 1992-93 si sono organizzati due laboratori di scrittura in ita­

liano e in inglese della durata di due anni ciascu­no durante il biennio di formazione. Per gli stu­denti che si immatricoleranno nel 1993-94 si pre­vede invece una struttura organizzativa più sem-

Obiettivi del corso e dei laboratori di scrittura

Il corso e i laboratori hanno come principali obiettivi: (a) Lo sviluppo delle abilità di base legate al pro­cesso della scrittura:

- creazione di testi top-down e bottom-up- pre-scrittura (tecniche della documentazione,

grappoli associativi, mappe, scalette)- sviluppo del testo (tipi di paragrafi)- revisione e redazione

(b) Lo sviluppo della capacità di realizzare scrittidi genere particolare, tenendo presenti le loro ca­ratteristiche ed il contesto comunicativo:

- le convenzioni legate al genere testuale- lo scopo

[continuo olla pagina seguente

Tob. 1

275

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-

276

ITALIANO TRA SOCIETÀ E

segue dalla pagina precedente]

-i lettori (con individuazione delle loroconoscenze)- lo stile e il registro

(e) La padronanza di schemi, strategie e tecnicheper realizzare le prose di base: descrizione,narrazione, esposizione e argomentazione. Inparticolare, attraverso l'utilizzo di:

- elementi della retorica antica e moderna- logica informale

(d) La padronanza delle convenzioni della linguaitaliana scritta:

- revisione di aspetti della lingua italiana- uso della punteggiatura secondo diversi stili- scelta del lessico e della sintassi secondo diversi

seguita Tab. 1

plice, in cui il laboratorio di italiano sarà con­centrato al primo anno e quello di inglese al secondo, mantenendo inalterati i contenuti.

In entrambe le organizzazioni proposte, le attività didattiche sono suddivise in quattro moduli, con alcune lezioni frontali comuni a tutti gli studenti e alcuni incontri nei laboratori (tabb. 2 e 3, p. 277). Alla fine di ciascun modu­lo viene sostenuta una prova sul programma svolto: in questo modo, a un'unica prova finale si sono sostituite quattro piccole prove. L'obiet­tivo è di attirare l'attenzione sulla didattica, spingendo i ragazzi a concentrarsi sul labora­torio e non sulle prove, che essendo brevi e facili per chi ha frequentato risultano sdrammatiz­zate.

I laboratori sono obbligatori; vengono am­messi alle prove finali dei moduli solo gli stu­denti presenti ai tre quarti degli incontri e che hanno consegnato tutti i lavori previsti. La ra­gione di questo obbligo è nella ferma convin­zione che le tecniche di scrittura non possano es­sere apprese sui libri, ma solo attraverso la lo­ro sperimentazione e l'esercizio. La frequenza ai laboratori nel 1992-93 è stata molto alta per una facoltà umanistica: il 75% circa. La scelta di far fare un'unica prova alla fine del secondo anno ai non frequentati vuole essere un ulte­riore incentivo a seguire i laboratori.

SCRIVERE AU'UNIVERSITÀ

SCUOLA

registri (con uso dei dizionari italiani) - uso di stili linguistici diversi: stile coeso e

segmentato

(e) Lo sviluppo della capacità di costruire testi ditipo diverso. In particolare:

- testi espressivi, come pagine di diario, scrittiassociativi, e lettere personali

- elaborati «ausiliari», come appunti, schemi eriassunti

- testi referenziali, come verbali, articoli dicronaca, comunicati stampa, relazioni, tesine

- testi creativi, come il decalogo, l'imitazione(«scrivere alla maniera di») e «l'aggiornamentoe/o personalizzazione» di un testo

- testi argomentativi, come editoriali, pubblicitàe saggi critici

- testi con convenzioni specifiche, come il

7

TEST DI ENTRATA?

Durante le fasi di programmazione si è posto il problema di un test di entrata per stabilire le ca­pacità di scrittura degli studenti e costruire li­velli e attività didattiche adeguati. In questo primo anno tale ipotesi è stata scartata per di­verse ragioni.

Particolarmente istruttiva risulta l'esperienza del mondo universitario americano; infatti, al­cune università hanno sperimentato l'uso di una prova interna di composizione (placement test) per suddividere gli studenti tra corsi normali o

corsi di recupero (remedial writing). La realiz­zazione di questi test iniziali è però risultata as­sai costosa, e gradatamente molte università l'hanno abbandonata. In pratica, una didattica differenziata è spesso realizzata imponendo la frequenza del solo primo corso di scrittura; gli studenti migliori sono dispensati da ulteriori approfondimenti, mentre gli studenti più deboli devono frequentare corsi successivi, incentrati sul recupero di capacità di base.

Negli Stati Uniti le capacità di comporre ven­gono certificate anche con piani nazionali (l'Ad­

vanced Placement Program e il College Level Examination Program) da parte dell'Educational

Testing Service, riconosciuti su tutto il territorio

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ITALIANO

Organizzazione generale delle attività di scrittura Gli studenti seguono un corso e partecipano ad un la­

boratorio della durata di due anni. Il corso e il laboratorio sono suddivisi in quattro moduli

come si mostra nella figura accanto. Ogni anno gli stu­denti partecipano alle attività di due moduli; in ogni mo­dulo gli studenti seguono alcune ore di corso e alcune ore di laboratorio.

Al termine di ogni modulo viene sostenuta una prova sul programma svolto; alla fine del biennio viene data una valutazione dei quattro moduli.

TRA SOCIETÀ E SCUOLA

I modulo:

corso

laboratorio

VAL.1

II modulo

➔ corso ➔ laboratorio

VAL.2

III modulo

corso ➔ laboratorio

VAL.3

IV modulo

corso

laborat.

VAL.4

T ab. 2 - Distribuzione delle attività di scrittura e delle prove di valutazione nei due anni

Compiti del corso e dei laboratori Il corso e i laboratori sono coordinati in modo che

vengano trattati gli stessi argomenti contemporanea­mente.

Compiti del corso sono: (a) presentare strategie e tecniche di creazione dei te­

sti-'(b) analizzare modelli di testi;(e) giustificare comportamenti e tecniche proposte

nell'ambito della ricerca in psicologia, linguistica e scien­za cognitiva;

(d) quando possibile, coinvolgere professionisti della scrittura per descrivere aspetti specifici della costruzio­ne dei testi (per esempio, direttore o responsabile di un

Tab. 3

nazionale, oppure con test legati a una catena di università come il California State University

English Equivalency Examination (per le uni­versità pubbliche californiane). Il superamento di queste prove esonera lo studente dal seguire i

corsi più facili. Questo tipo di prove offre all'uni­versità la possibilità di creare classi omogenee, agli studenti di iniziare subito studi più avanzati, ma crea disorientamento e crisi di identità alla classe docente che vede il suo insegnamento svolto altrove (in corsi di preparazione ai test, White 91). Questa soluzione al problema è co­munque lontana dalla mentalità e dalla tradi­zione scolastica italiana.

Un altro aspetto che fa riflettere è la storia dei

test, di entrata utilizzati nelle scuole secondarie italiane negli anni '70 e '80. In quegli anni, in molte scuole, al momento della programmazione,

si sono utilizzati test di entrata per tarare oppor­tunamente obiettivi e didattica ai ragazzi presen­

ti. La mancanza di test nazionali e standardizza­ti ha stimolato nelle scuole progetti molto ricchi che hanno contribuito a una maggiore consapevolez­za del processo di apprendimento dei ragazzi. La

settore di un quotidiano per la scrittura giornalistica; responsabile di una agenzia di pubblicità per la scrittura pubblicitaria; direttore dell'ufficio del personale di una azienda per la realizzazione di un curriculum vitae).

Compiti dei laboratori sono: (a) rinforzare l'apprendimento delle metodologie di

scrittura presentate nel corso partendo dai lavori degli stu­denti;

(b) produrre con l'aiuto dell'istruttore alcuni elaborati; (e) analizzare, discutere, correggere e valutare i testi

creati dagli studenti; (d) svolgere, correggere e valutare la prova finale che

costituisce il voto finale del modulo da attribuire a cia­scuno studente.

preparazione (o rielaborazione), somministrazione e valutazione di queste prove è però risultata

spesso un onere sproporzionato rispetto alle ener­gie disponibili in seguito per creare, in base ai dati raccolti, una didattica differenziata su vari li­velli, con più gruppi che procedano parallelamen­te nell'ambito della stessa classe. In diversi casi

questi progetti non hanno avuto seguito. Alla luce di quanto ho detto e della constata­

zione che la nostra università di massa è già purtroppo spesso concentrata sugli esami (la si definisce un «esamificio» ), abbiamo concluso che

per il momento sia meno costoso e pedagogica­mente più interessante valutare l'apprendimento degli insegnamenti impartiti agli allievi piutto­sto che verificarne le conoscenze di partenza.

L'ipotesi pedagogica alla base del nostro pro­getto è che un curriculum di scrittura molto ric­co di informazioni, stimoli e tecniche possa essere di aiuto contemporaneamente a tutti gli stu­denti. Ogni studente utilizzerà elementi diversi a seconda del suo livello iniziale: chi già padro­

neggia le tecniche e il processo di scrittura rag­giungerà una maggiore consapevolezza del pro-

277

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278

ITALIANO TRA SOCIETÀ E

prio modo di generare testi, li migliorerà in base

ai suggerimenti ricevuti e svilupperà le sue ca­

pacità critiche nei confronti della scrittura nell'in­

terazione con i compagni. Chi invece ha ancora grandi incertezze sulla lingua scritta recepirà

solo alcuni insegnamenti a un livello di base.

Un esempio è costituito dalla didattica della punteggiatura. Nella prima parte dei laboratori vengono presentati esercizi sistematici sull'uso

della punteggiatura impostati sulle differenze tra

la «punteggiatura classica» e la «punteggiatura giornalistica». La distinzione, accompagnata

dall'analisi delle ripercussioni che ognuno dei due

B I B L I O G R A F I A

AA.VV., Manuale di stile di «Due parole», Tecno­did, Napoli 1993, in preparazione. J.J. Britton, The Development of Writing Abilities

(11-18), McMillan, Londra 1975. P. Connolly, T. Vilardi (a cura di), New Methods in

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M. Formisano, C. Pontecorvo, C. Zucchermaglio,Guida alla lingua scritta, Editori Riuniti, Roma1986.

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T. Fulwiler, A. Young (a cura di), Programs ThatWork. Models and Methods for Writing across theCurriculum, Boyton/Cook Publishers, Heinemann,Portsmouth, NH 1990.

J.R. Hayes, L.S. Flower, Identifying the Organization

SCRIVERE ALL'UNIVERSITÀ

SCUOLA

tipi di punteggiatura ha sullo stile, offre strumenti

di riflessione e miglioramento a chi già usa i segni di interpunzione in modo corretto. D'altra parte, gli

esercizi sistematici su tutti i segni di punteggiatura

nei due stili (per esempio, passando da uno stile

all'altro nell'ambito dello stesso testo) sono una

occasione per chi ancora commette vistosi errori di iniziare a padroneggiare le regole di base.

In futuro, con un minor numero di studenti e

maggiori risorse, sarà possibile individuare i va­ri livelli di abilità iniziali e sperimentare anche

nel contesto universitario italiano una didattica

della scrittura differenziata.

ofWriting Processes, in L.W. Gregg, e E.R. Stein­ger (a cura di), Cognitive Processes in Writing, Erlbaum, Hillsdale, NJ 1980.

C. Lavino, A.A. Sobrero, (a cura di), La lingua deglistudenti universitari, La Nuova Italia, Firenze1991.

M.G. Lo Duca (a cura di), Scrivere nella scuola mediasuperiore, La Nuova Italia, Firenze 1991.

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M.T. Serafini, Didattica dello scrivere nelle scuoledegli Stati Uniti e in quelle italiane: il tema comescrivere espositivo in E. Lugarini (a cura di), Inse­gnare la lingua. Parlare e scrivere, Bruno Mon­dadori, Milano 1982.

M.T. Serafini, Come si fa un tema in classe, Bompiani,Milano 1985.

M.T. Serafini, Come si scrive, Bompiani, Milano1992.

R. Wallace, J. Simpson (a cura di), The Writing Cen­ter. New Directions, Garland Publishing, Inc.,New York & London 1991.

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�italiano cambia

vocabolario

Pag. XXII + 2.345 L. 85.000

Informa

E. De Felice - A. Duro

sulla parola e insegna a usarla Un nuovo originale strumento di sicura conoscenza della lingua italiana

- lessico: 105.000 voci, 305.000 significati e accezioni; etimologia;- grammatica: 80.000 indicazioni fonetiche, morfologiche, sintattiche (pronuncia,

forma e costrutti);- stilistica: scelte espressive parlate e scritte.

La lingua e la civiltà italiana alle soglie del Duemila: le 20.000 parole nuove, ita­liane e straniere, che la esprimono. Un vocabolario multilingue di base (italiano, inglese, francese, tedesco, spa­gnolo). 6 appendici: funzione del vocabolario, storia della lingua italiana, forma­zione del lessico, incertezze d'uso, motti latini, i nomi personali più frequenti. 4 prontuari: sigle e abbreviazioni, etnici delle città italiane, elementi chimici, vitamine. 16 tavole illustrate a colori e 32 tavole in bianco e nero.

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w

280

Velocità di parola Alberto A. Sobrero

p;.] uando si parla dei cambiamenti di una � lingua si pensa sempre a cambiamenti nella fonetica, nella morfologia, nella sintassi, nel lessico. E gli altri livelli? Esiste, ad esempio, o si può costruire �na grammatica storica delritmo e dell'intonazione dell'italiano? Sappiamogià che questi fattori, cosiddetti paralinguistici,variano nello spazio (nessuno dubita della di­versa caratterizzazione anche prosodica dellevarietà regionali di italiano). Ma variano anchenel tempo? Certo che sì: però per studiare que­sta dimensione della lingua c'è un problemaparticolare.

La documentazione storica, com'è noto, è pressoché assente. Non solo non disponiamo, per il passato, di annotazioni scritte, ma - in as­senza di una riflessione teorica e di criteri con­venzionali di classificazione dei fenomeni - an­che le poche annotazioni fatte a suo tempo dai grammatici e dai linguisti sono praticamente inutilizzabili, perché frammentarie, soggettive e occasionali.

Non restano che le registrazioni. I materiali utilizzabili più antichi consistono nelle prime re­gistrazioni magnetiche, che risalgono agli inizi degli anni Cinquanta (magnetophon è il nome del marchio depositato in Germania nel 1950): dunque, a 40 anni fa. E un arco di tempo di 40 anni comincia a essere interessante, per uno storico.

Ebbene, io credo che sia vicino il momento in cui i linguisti riapriranno gli archivi sonori che i primi raccoglitori saggiamente organizzaro­no, rimetteranno in funzione i vecchi registra­tori a bobina, riascolteranno e analizzeranno con strumenti modernissimi vecchie registra­zioni, e scriveranno le prime pagine di una fu­tura - e necessariamente sempre più ricca -«paralinguistica storica dell'italiano».

Un primo, minuscolo assaggio. Massimo Pet­torino e altri studiosi dell'Istituto orientale di Napoli hanno analizzato e messo a confronto i dati prosodici ed elettroacustici di alcuni «Gior­nali radio» del 1953 e del 1993.

Ecco alcuni dei valori medi registrati:

fluenza durata durata media pause media della delle pause

catena fonica

1953 11,807 1,786 0,615 27% 1993 28,987 4,574 0,322 7%

Il radio-lettore degli anni Cinquanta pone una grande cura nell'assicurare l'intelligibilità di ogni singola parola: perciò pronuncia, nell'unità di tempo, un numero di parole quasi tre volte inferiore del suo collega del '93 (co­lonna fluenza), stacca ogni unità sintattica che ritiene significativa - periodo, frase, sintagma -con una pausa (infatti, fra un'inspirazione e l'altra legge una porzione di testo due volte e mezza più breve che nel '93). Inoltre usa non so­lo le variazioni di tono, di altezza e di volume, ma anche le pause e gli stacchi in funzione del significato: per questo motivo le sue pause sono più lunghe (colonna 4) e frequenti (colonna 5).

Oggi, per converso, le pause sono poche e la punteggiatura è sottoutilizzata per fini espres­sivi, perciò le catene foniche sono più lunghe (si realizzano fino a 60-70 sillabe senza 'prendere fiato', ignorando persino i punti fermi) e inoltre comprendono anche un buon numero di parole ridondanti (intercalari, ripetizioni, esitazioni, fa­tismi), banditi dai GR del '53.

E' interessante osservare che l'uso di nume­rose e lunghe pause nel parlato del '53 deter­mina un'impressione fallace di minore velocità di dizione. In realtà, le misurazioni strumentali rilevano una velocità di dizione (cioè di pro­nuncia delle parole 'al netto' delle pause) addi­rittura leggermente superiore al testo odierno.

La dizione è scandita, le parole sono ben stac­cate l'una dall'altra, le pause sono 'importanti' (alla Craxi dei tempi d'oro, per intenderci), l'en­fasi e le curve tonali hanno ancora un'imposta­zione vagamente 'di regime'.

Nel 1953 la bussola RAI aveva ancora come ago l'archetipo oratorio di Mussolini - filtrato attra­verso il modello dei cinegiornali LUCE -; oggi attraversa la tempesta magnetica dell'iper par­lato. Troverà una ragionevole strada di mezzo?

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IL LI N GUAGGIO DELLA POLITICA

L'italiano della Lega/ 1

1

ALLE ORIGINI

gni nuova espressione so­ciale e politica è inevitabil­mente anche una nuova espressione linguistica. Che la Lega Nord-Lega Lom­barda1, nell'attuale scena­rio politico italiano, sia un soggetto inedito che pro­gressivamente è venuto ad acquistare un suo peso e una sua specificità è sotto

gli occhi di tutti. Anche chi avesse scarsa fa­miliarità con problematiche di ordine semio­linguistico ha potuto infatti notare la natura e la fisionomia comunicativa «antipolitichese» di questo movimento-partito, che nella parola del suo leader carismatico si riconosce e si identifica totalmente. Umberto Bossi, segretario nazio­nale, fondatore, nonché principale attivista del­la Lega, è infatti l'autorità indiscussa di questa giovane forza politica che oggi, più di altre, sti­mola sociologi, psicologi, politologi e opinionisti a diverse considerazioni e riflessioni.

Questo articolo vuole essere un tentativo di analisi, a carattere prettamente linguistico, delle forme verbali e dei processi discorsivi che caratterizzano la comunicazione leghista e l'i­dioletto bossiano, dal primo testo ufficiale del marzo 1982 all'intervento televisivo dell'll ot­tobre 1993. Si tratta del primo articolo, firmato dal Comitato Promotore della Lega Autonomi­sta Lombarda, con cui debutta il periodico «Lombardia Autonomista»2, che costituirà per un decennio, precisamente fino al n. 36 del 30 settembre 1992, l'unico mezzo di comunicazio­ne ufficiale dei leghisti con gli iscritti e i sim­patizzanti.

«Lombardi! Non importa che età avete, che la­

voro fate, di che tendenza politica siete. Quel­

lo che importa è che siete - e che siamo - tut­ti lombardi. Questo è il fatto realmente im­portante che è giunto il momento di ricorda­

re dandogli una concretezza politica. »

Così inizia, con uno stile fortemente appel­lativo, la prima ufficiale «chiamata a raccolta» del popolo lombardo, del futuro popolo leghista,

per l'autonomia regionale. E' un esordio che palesa chiaramente, nel vocativo d'apertura e nei toni volti all'aggregazione e alla mobilita-

PAOLA DESIDERI

ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), pp. 281-285

281

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rm

282

IL LINGUAGGIO DELLA PO

zione, quelli che saranno alcuni dei tratti co­stitutivi di tale produzione discorsiva. Il noi

etnico, ben presto associato negli scritti all'e­saltazione dell'appartenenza regionale e dei va­lori della lombardità, contrapposto agli altri,

cioè allo stato centralista e ai partiti romani, fa dunque la sua comparsa nel primo articolo del­l'organo del movimento. Sempre in questo con­testo non a caso compare la parola chiave em­blematica, più volte reiterata, territorio, por­tatrice di valenze semantiche e simboliche en­fatizzanti le rivendicazioni localistiche.

«E' [la Lombardia n.d.r.] soltanto una espres­

sione geografica senza alcun valore politico, è

soltanto un territorio senza diritti di fronte al­

l'invadenza altrui. »

«Roma dispone dei nostri territori come se

fossero suoi, senza che i Lombardi possano di­

re la loro in terra lombarda. »

«La Lombardia non è una vacca da mungere

né un territorio da dominare con burocrazie

forestiere. »

Come si evince chiaramente, sono qui conte­nuti in nuce alcuni nuclei tematici - il munici­palismo, il localismo, l'etnoregionalismo, l'an­timeridionalismo, l'antistatalismo, la protesta antisistema, l'anticentralismo - che tanta par­te avranno nella formazione della mappa lessi­cale e retorica del leghismo. Finalizzata a in­crementare l'universo simbolico dell'alterità e dell'antagonismo nei riguardi delle politiche tradizionali che la rappresentano, essa costi­tuirà l'impalcatura discorsiva di tale movi­mento.

Tra i testi ufficiali, risalenti sempre agli al­bori della Lega Autonomista Lombarda (che di lì a poco, il 12 aprile 1984, si trasformerà nella

più sintetica Lega Lombarda), non può essere tralasciato il Programma politico elaborato da Bossi nel 1982 e apparso su «Lombardia Auto­nomista» (14 settembre 1983). Il progetto, mar­catamente federalista, articolato in quindici punti, si propone

«[ ... ] la conquista dell'autonomia integrale

della Lombardia con conseguente diritto al­

L'ITALIANO LEGHISTA - .

LITICA

l'autogoverno e all'autogestione dell'econo­

mia, della finanza, della scuola, della sanità

della previdenza, della giustizia e dell'ordine

pubblico. »

Questo programma iniziale, che successiva­mente con poche varianti sarà ridotto ai defi­nitivi dodici punti, regolarmente riprodotti su

ogni numero del periodico, pone come fonda­mentali le questioni etniche rafforzate da un ri­vendicazionismo lombardista, fondato sull'i­dentità regione-nazione, dalle forti tinte anti­meridionali.

2

DAL DIALETTO ALL'ETNOFEDERALISMO

Uno dei punti del primo Programma, il tre-dicesimo, propugna:

«il recupero del patrimonio culturale e lin­

guistico lombardo e la sua diffusione attra­

verso la scuola. »

Infatti la rivendicazione della centralità del dialetto, nella duplice funzione di collante et­nico-simbolico per l'autoriconoscimento delle

genti lombarde e di rottura con la lingua ita­liana standard come codice ufficiale dello sta­talismo, costituisce una delle idee-forza della prima fase (protrattasi fino al 1987) della Lega. Di qui l'uso ostentato del dialetto, con funzione trasgressiva verso il sistema, nei discorsi pro­nunciati nel 1985 da alcuni esponenti leghisti eletti in organismi amministrativi, come Giu­

seppe Leoni e Pierangelo Brivio, rispettiva­mente nei Consigli Comunali di Varese e di Gallarate.

Proseguendo su questa linea linguistica, sul

n. 3 (febbraio 1986) di «Lombardia Autonomi­sta» compare per la prima volta un appello aigiovani, ripetuto sistematicamente nei fascico­

li successivi, per la creazione del MovimentoGiovanile della Lega Lumbarda, non a casochiamata Riaa (torrenti). Il periodico della Le­ga seguirà ovviamente questa tendenza tanto daesibire per qualche tempo come sottotitolo del-

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_,

IL LI N

la testata la denominazione La vus del popul

lumbard, o più a lungo la sua successiva tra­sformazione fonetico-grafica La vos del popol lombard. Inoltre «Lombardia Autonomista» ospiterà di frequente diversi interventi sulla questione dialettale e sulla comune identità linguistica del «popolo lombardo» (cfr. 15-16, dicembre 1983; 20, settembre 1984; 33, otto­

bre 1985; 16, settembre 1986; 5, maggio 1987; 10-11-12-13-14, luglio 1988; 15-16-17-18-19,agosto 1988; 20-21-22-23-24, settembre 1988;25, ottobre 1988; 14, 1 ottobre 1989; 38, dicem­bre 1989). Allo scopo di non recidere questopotente legame linguistico tra Lega e sosteni­tori, «Lombardia Autonomista», dal n. 7 delmaggio 1986, assegna uno spazio alla voce delcittadino qualunque, del lumbard, attraverso larubrica dei lettori denominata La vus de tucc,che nel n. 16 dello stesso anno si presenta gra­ficamente trasformata nella Vas de tucc e, cometale, sopravviverà fino al n. 38 del 21 ottobre

1992, per essere poi definitivamente sostituita

-

metà fra l'autocritica e l'autocompiaci­mento, il leader leghista Bossi ammette:

«il mio linguaggio è colorito; davanti alla fol­la bisogna usare parole a effetto» (Vento del Nord, Sperling Kupfer, Milano 1992).

Fra queste «parole a effetto» hanno un'alta frequenza d'uso le espressioni chi se ne frega,

me ne frego e simili: «Bossi ... "Chi se ne frega'� è stato il suo commento a caldo» Espr. 23.6.91, «Di questa gara non me ne può fregar di meno» Espr. 3.5.91, «Non l'hanno fatto ... chi se ne frega» St. 20.6.93, «"C'è chi vota per me?" Bos­

si: me ne frego» St. 17.9.93. Me ne frego è un modo di dire di origine ro­

manesca, come puntualizza G. Fumagalli (cfr. Chi l'ha detto?, Hoepli, Milano 1958): «Questo

poco pulito intercalare è particolarmente co­mune nella parlata dei romani i quali se ne vantano come di frase caratteristica della loro olimpica indifferenza».

Il «poco pulito intercalare», oltre a piacere al romagnolo Olindo Guerrini (1845-1916),

GUAGGIO DELLA POLITICA

dalla formula più anonima e standardizzata Lettere al Direttore. E' in questa prima fase che la Lega Lombarda, più vicino alle istanze autoctone delle confinanti Liga Veneta e Union Piemonteisa, produce slogan e scritte murali del

tipo Fora i terùn o Lumbard tas!: senza dubbio l'uso del dialetto come codice comunicativo ha aggregato e avvicinato al movimento fasce poco istruite e politicizzate dell'elettorato.

283

Verso la metà degli anni Ottanta, con la pro­gressiva evoluzione del movimento, si assiste però all'abbandono del dialetto lombardo come

strumento cardine nella lotta per l'autonomia regionale, perché, come rievoca Bossi nel di­scorso d'apertura pronunciato al 1 Congresso Ordinario della Lega Lombarda (Segrate, 8-10

dicembre 1989) qualche giorno dopo la fonda­zione della Lega Nord, «[ ... ] l'uso del dialetto non generava paura nel sistema» ( «Lombardia Autonomista», 2, 10 febbraio 1990). Così la Le­ga, facendo propria la lezione federalista di Bruno Salvatori dell'Union Valdòtaine, sceglie

alias Lorenzo Stecchetti, il quale, da quello spirito goliardico che era, pare lo usasse come intestazione della sua carta da lettere, eccitò le fantasie arditesche dell'imaginifico G. D'An­

nunzio, che se ne avvalse nel proclama Il sac­co di Fiume (1920), ove fra l'altro è detto: «Il motto è crudo. Ma ... la mia gente non ha pau­ra di nulla, neppure delle parole»; anticipan­do, nello stile retorico e sprezzante, quello che venne dopo, quando nel 1922 me ne frego di­

venne tristemente noto come motto delle ca­mice nere fasciste, scritto sui gagliardetti ne­ri che portavano il teschio come emblema.

ITLIANO E OLTRE. VIII 11993\. o. 283

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284

IL LINGUAGGIO DELLA PO

la strada dell'etnofederalismo, cioè la lotta con­tro il centralismo dello Stato, assumendo posi­zioni sempre più antimeridionalistiche e xe­nofobe. Infatti, ricostruendo didatticamente per l'uditorio l'evoluzione ideologica del movimento, Bossi così dichiara:

«Fu gioco-forza sviscerare il problema dell'i­dentità collettiva della nostra società per va­lutare quale pericolo per l'integrità della vo­lontà sociale lombarda rappresentassero le immigrazioni del passato quelle più recenti, quelle del terzo mondo» (ivi).

Poco più avanti esplicita con maggiore chia­rezza il carattere genetico del concetto di «et­nia»:

<<Accanto ad un legame etnico, che essendo legame di sangue è il principale legame di somiglianza, cioè di identità, fu facile evi­denziare altri legami che entrano a costituire

la comunanza di sentimenti che sta alla base della società in Lombardia» (ivi).

Con questa argomentazione si conclude la sequenza discorsiva:

«Poiché l'identità è un fattore dinamico che cammina con le vicende storiche dichiarammo di non essere certamente favorevoli a scelte

economiche e politiche che facilitino ulteriori flussi migratori verso la Lombardia, ma an­che che bisognava favorire l'integrazione del­le immigrazioni già avvenute e già assimi­late alla nostra civiltà. Ciò non può valere per l'immigrazione di coloro di cui non è pre­

vedibile l'integrazione forse neppure a di­stanza di secoli» (ivi).

3

VERSO L'ESTREMISMO

E' nel secondo periodo (1987-90) che si assiste a una espansione del movimento, sia grazie al­l'emergere della Lega Lombarda sulle altre le­ghe autonomiste, sia soprattutto grazie all'af-

LIT I CA

fermarsi della leadership di Umberto Bossi, che elabora il progetto politico articolandone, con ritmi sempre più incalzanti, le mire espan­sionistiche e le manovre di attacco allo statali­smo e alla partitocrazia. Unico artefice dei de­

stini e della fortuna di questa forza politica, Bossi ridefinisce l'iniziale concetto di «territo­rio», come sinonimo di identità storico-cultu­rale-linguistica, trasformandolo in «comunità di interessi» eminentemente economici e socia­li, in cui opera il popolo dei produttori, con­trapposto allo Stato centralista e al Sud assi­stito. Di qui l'enfasi posta dalla Lega sulla co­municazione di valori e stili di vita, su quell'e­tica del lavoro insita generalmente nell'univer­so assiologico degli elettori settentrionali: sono ovviamente idealizzati e iperbolizzati tutti gli stereotipi culturali presenti nell'immaginario dell'«orgoglio lombardo». Questo modello, sem­pre modalizzato semanticamente con le miglio­ri qualità possibili, è ben tradotto dalla sinteti­ca descrizione del deputato Giuseppe Leoni:

«[ ... ] noi siamo lombardi e non siamo abitua­ti a chiedere niente a nessuno. Tantomeno a Roma che vive, spende e spande con i nostri soldi» («Lombardia Autonomista», 22-36, di­cembre 1987).

Sono questi gli anni in cui si intraprende la sperimentazione di strategie linguistiche di at­tacco verso l'inefficienza pubblica, verso l'im­

migrazione meridionale ed extracomunitaria, come del resto si mettono in campo atteggia­

menti antagonistici nei confronti dell'«altro», del diverso, dello straniero. L'impianto discor­sivo della Lega degli ultimi anni Ottanta - im­

pianto che si conserverà costante anche in fu­turo - si fonda su elementari dicotomie seman­tiche espresse a forti tinte: noi I loro; amici I ne­

mici; schiavi I padroni; bene I male; produtti­

vità I parassitismo; autonomia I statalismo; e co­sì via. Comincia, quindi, sempre più incisiva­mente, a caratterizzarsi e a differenziarsi dal

consunto politichese in doppiopetto il nuovo linguaggio politico elaborato da Bossi, un tipo di

linguaggio immediato, colorito, anche brutale, appartenente al serbatoio lessicale e retorico

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IL LI N

dell'uomo della strada. E della lingua popolare,

del linguaggio della gente, esso conserva forme espressive immediatamente comprensibili e re­

gistri informali in grado da un lato di attivare nei destinatari potenti sistemi di rispecchia­mento molto efficaci per la crescita del consen­so, dall'altro di canalizzare il disagio e indiriz­zare la protesta verso un ceto politico inade­guato a risolvere le tensioni emergenti dalle realtà contraddittorie del Paese. A tale sele­zione lessicale fa riscontro un andamento sin­tattico consono alle esigenze del discorso inte­rattivo, dell'allocuzione popolare: quindi una costruzione sintattica semplificata, prevalen­temente paratattica, di agevole ricezione. Del resto la coordinazione, con l'abuso di congiun­

zione e spesso di asindeto, come in questo cor­pus, risponde maggiormente ai requisiti di una comunicazione politica più diretta, che mira a essere alternativa rispetto allo statuto lingui­stico del sistema tradizionale. In un clima di crescente distacco tra società politica e società civile, di sfiducia verso le istituzioni e di in­

soddisfazione nei riguardi delle politiche fisca­

li e della pubblica amministrazione, la Lega capta le aspettative e le frustrazioni dei ceti emergenti, convogliandole verso una sempre

più accellerata espressione del contrasto e del­la opposizione al sistema.

Lontano dalle regole comunitarie e dal gergo cifrato dei partiti tradizionali, Bossi crea una

parola politica alternativa, di cui sperimenta la forza pragmatica e manipolativa innanzitutto intramoenia. Sono cioè i raduni di Pontida, in

cui si consumano i riti collettivi di autopromo­zione del leader e di identificazione da parte del popolo leghista con la figura carismatica del capo, cui fideisticamente i presenti aderisco­

no. In questi bagni di folla, peraltro cari a Bos­

si per sua stessa ammissione, il discorso assume toni aspri e polemici3, punta all'aggressività verbale e alla provocazione, ostenta forme les­

sicali trasgressive, non senza accendere emoti­vamente, con sottile tecnica tribunizia, gli ani­

mi dei leghisti duri e puri. E' particolarmente in queste manifestazioni corali di Pontida (luogo che testimonia nella memoria collettiva il rife­rimento storico al mitico giuramento dei co-

GUAGGIO DELLA POLITICA

muni padani contro Federico Barbarossa) e ne­

gli interventi fatti in numerosissime località del Nord che soprattutto viene messa in scena la rappresentazione simbolico-semiotica del

credo leghista. Sono anni decisivi, questi, per la mobilitazione e la conquista dell'elettorato set­

tentrionale. [Continua]

D Recente:m:ente si sono succeduti diversi contributi volti

a fornire un quadro interpretativo del fenomeno leghista.

Per un'analisi delle specifiche caratteristiche politiche e

socio-economiche della Lega Nord, cfì:. soprattutto Mannhei­

mer (1991; la sezione Leghe leghisti legami (con interventi

di Belotti, Diamanti, Mazzoleni e Segatti) presente nel n. 2

(1992) di «Polis»; Diamanti (1993), molto utile per una ri­

cognizione diacronica del movimento-partitico. Alcune os­

servazioni sulla comunicazione leghista sono in Confalonie1i

(1990) e Allievi (1992).

EJ La testata, con il n. 37 del 21 ottobre 1993, cambierà la

propria denominazione per assumere quella di «Repubblica

del Nord», la quale immediatamente si trasformerà nel­

l'attuale «Lega Nord». «Lombardia Autonomista» ripro­

durrà sempre sulla facciata il simbolo leghista, cioè il profilo

della Lombardia sovrastato dall'immagine di Alberto da

Giussano con la spada sguainata.

Il Per un approfondimento semantico delle definizioni

della polemica, cfr. Kerbrat-Orecchioni (1980).

285

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286

•••••••••

La conoscenza che

viene 'da dentro' Raffaele Simone

1

LA MEMORIA 'DELEGATA'

ulla questione della me­moria gravano da secoli le previsioni che Platone ha espresso nel Fedro. Parlando dell'invenzione della scrittura, Platone osservava che essa non è affatto (come qualcuno di­ceva) «il farmaco della memoria e della cono­scenza», ma ha semmai il

valore opposto, perché scarica la memoria, e fa nascere la conoscenza «da fuori e non da dentro». La memoria sarebbe dunque il luo­go proprio in cui il sapere va accumulato, il «di dentro» dove questa deve essere imma­gazzinata per essere poi adoperata.

Nessun momento storico illustra meglio del nostro le profezie platoniche. Siamo cir­condati da miriadi di strumenti che surro­gano la memoria scaricandola: la scrittura anzitutto, alla quale affidiamo informazioni che vogliamo ritrovare, sapendo che possia­mo accedervi tutte le volte che vogliamo; e poi, l'informatica personale, da quella visi­bile (calcolatori, dischi, CD ROM) a quella meno visibile (taccuini elettronici, telematica e simili). Non c'è quasi un solo apparato tecnologico che non contenga una o più «me­morie», a cui possiamo quindi affidare infor­mazioni che altrimenti dovremmo tenere a mente. Viviamo in un'epoca di «memoria» delegata, e tendiamo per conseguenza a sca­ricare la nostra, fino in qualche caso a la­sciarla completamente vuota.

Del resto, la memoria è da tempo un em­blema negativo. Nel gergo pedagogico cor­rente, il carattere «mnemonico» è uno dei contrassegni del cattivo apprendimento. Il «sapere a memoria» è poco meno che un'in­giuria, e i mnemonisti non fanno più né cal­do né freddo. Non saprei dire quando si è

ITALIANO E OLTRE, VIII (1993}, pp. 286-287

IL VALORE

EDUCATIVO DELLA

FASE MNEMONICA

L A

prodotto questo orientamento, né perché: fino a un paio di secoli fa l'apprendimento conteneva una importante fase mnemoni­ca, anche perché si sapeva che gli exempla antichi si apprezzano meglio se ce li si ripe­te a mente in continuazione. Sta però di fatto che oggi «la memoria è l'intelligenza de­gli imbecilli» (secondo un motto famoso di André Malraux), e si corre così il rischio di buttar via con l'acqua anche il bambino. Tutto dipende, infatti, dagli usi della me­moria.

Nell'apprendimento del linguaggio, la me­moria ha un ruolo essenziale. Apprendia­mo le prime articolazioni linguistiche perché ricordiamo quel che abbiamo sentito dire attorno a noi, e sviluppiamo molto per tem­po oltre che una memoria letterale anche una memoria testuale. Il bambino a cui si racconta una favola per l'ennesima volta protesta se si cambia qualche passaggio del racconto. La sua memoria gli dice che non bisogna dire così, che la storia è diversa. Non ricorda le parole, ma ricorda i movi­menti testuali di quel che ha ascoltato tante volte. La memoria costituisce quindi per lui non soltanto un repertorio di cose che vanno ricordate letteralmente (formule mnemoni­che, frasi fatte, numeri di telefono, date di compleanno, prezzi degli oggetti), ma an­che una «libreria di modelli testuali», entro la quale si muove inconsapevolmente attin­gendovi sistemi di aspettative per capire i nuovi testi dinanzi a cui ci troviamo.

Se si può dir così, oscilliamo tra una me­moria letterale («parola per parola», anche se qualche parola non l'abbiamo affatto capita) e una testuale (meccanismi testuali, model­li, funzioni, ruoli, porzioni di fabula e simili). A quest'ultima aggregherei anche la memo­ria matematica, che è essenziale per proce­dere nella soluzione di problemi. Anche que­sta conserva, oltre che formule letteralmente apprese (e magari mal capite), modelli, pat­tern di soluzione, che poi possono essere ap­plicati a casi singoli. Chi può fare a meno di questa risorsa?

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S P E C I A L E

2

SALVARE LA MEMORIA

Il guaio è che la memoria che la scuola ci ha abituato a incoraggiare e a tenere attiva è quasi solo la memoria letterale. E l'ha en­fatizzata al punto di farcene perdere di vista anche la straordinaria importanza. La me­moria letterale serve infatti non solo come taccuino interno, ma anche per diverse altre funzioni: ad esempio, (a) come antologia per­sonale di testi che vogliamo ripetere a noi stessi, magari ripercependoli eseguiti dalla voce interna, (b) come biblioteca interna di cose lette o ascoltate, che adoperiamo per le associazioni e la combinatoria mentale, (e) co­me fonte di spunti (come «glossario», per usare un termine informatico) di cui servir­ci per elaborazioni personali ... e così via.

Per questo credo che occorrerebbe fare ogni sforzo per salvare la memoria. Ciò si­gnifica anzitutto riappropriarsi la memoria

• • • • • • • • •

Le memorie possibili Dario Corno

,

RICORDARE LE NUVOLE

è un bel racconto di Jor­ge Luis Borges che ci parla di memoria. E' la storia di Ireneo Funes, un povero gaucho argen­tino che è però dotato di una memoria prodigiosa. Dopo una caduta da ca­vallo, che lo lascerà pa­ralizzato per il resto del­la vita, Ireneo mette in

letterale, togliendo al termine mnemonico il suo significato negativo. Non sono in pochi (e tra loro c'è anche Italo Calvino) quelli che pensano che un moderato apprendimento mnemonico di testi letterari di qualità sia co­munque un investimento per la vita: la pos­sibilità di ri-eseguire un passo di poesia che ci ha colpito è una ricchezza straordinaria, che ci permette di capire anche gli aspetti for­mali di un testo raffinato. Ma accanto a que­sta va scoperta e valorizzata la memoria te­stuale, che permette al lettore e all'ascolta­tore esperto di sapere già, in qualche misura, che cosa sta per ascoltare o per leggere.

Al momento, tutte e due queste memorie sono, presso i nostri giovani, deplorevol­mente vuote. E non è detto neppure che la scrittura sembri a loro, come pensava Pla­tone, il deposito migliore per conservare le informazioni. Forse è ora di tornare a ritrovare la conoscenza «dal di dentro», vi­sto che «fuori» è forte il rischio che vada di­spersa .

A CHE PUNTO SIAMO CON

LA MEMORIA A SCUOLA

mostra una memoria che gli permette di ricordare anche il particolare più insignifi­cante: ad esempio, sa dire tutte le forme e le posizioni delle nuvole apparse in un deter­minato giorno di primavera o tutto quello che ha fatto in un giorno di un anno qual­siasi (operazione che naturalmente dura tutta la giornata). Ma, nonostante una me­moria di così prodigiosa capacità, Ireneo («el memorioso») resta pur sempre un gau­cho di modesta intelligenza (un idiot sa­vant), perché - osserva Borges - la memoria è cosa diversa dall'intelligenza in quanto pensare è dimenticare differenze, genera­lizzare, fare astrazioni: «sospetto, tuttavia,

287

ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), pp. 287-291

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288

S P E CI A L EI

le memorie possibili

che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes, non c'erano che dettagli, quasi immediati».

Le considerazioni di Borges ci permet­tono di mettere un po' d'ordine in un con­cetto così complesso e controverso, com'è la memoria, sul quale esiste una bibliogra­fia sterminata. In effetti, se si guarda alla ricerca scientifica di quest'ultimo secolo (che, per inciso, è il secolo che riscopre l'ar­te del ricordare), l'escursione permette di notare un panorama piuttosto affollato, in cui le memorie si moltiplicano: «ecoica» (quella del registro sensoriale), «a breve» o «a lungo termine», «autobiografica» ed «eco­logica», «episodica» o «semantica», «di tran­sito» o «permanente». Inoltre, le ricerche sulla memoria segnalano una particolare sensibilità di adattamento al contesto scien­tifico (o paradigma) in cui se ne offre una definizione. Questo domina il comporta­mentismo (anni '50), la memoria è sempli­cemente il registro di quelle modifiche di comportamento che sono state apprese. Per i gestaltismi (anni '60) la memoria diventa «ciò che si sa» e «si sa ciò che si ricostrui­sce».

Oggi, le ricerche in intelligenza artifi­ciale e scienze cognitive, ci dicono (Bad­deley, 1992) che la memoria è un concetto plurale perché va pensato come un insieme di sistemi che si differenziano sia per fun­zione (i ricordi su cui operano), sia per du­rata e capacità (da millesimi di secondo a una vita intera). E si conferma così un aspetto che era già noto ai pensatori anti­chi: la contrapposizione tra «fissità» e «di­namicità» dei ricordi. Ai ricordi bisogne­rebbe pensare non come a entità fisse che vengono richiamate tutte le volte che ne abbiamo bisogno, ma come a costrutti di­namici che sono parzialmente ricostituiti ogni qual volta si ricorda qualcosa. Alla memoria apparterrebbe quindi una dose di «creatività» decisamente superiore a quanto in genere è previsto dal senso co­mune.

s e u

Questo sarebbe provato dal fatto che le persone sono molto più abili nel «riconosce­re» che nel «ricordare». Si tratta di un'ipotesi (presente negli studi di Israel Rosenfield) che è confermata dalle normali esperienze quotidiane: ad esempio, com'è che noi siamo capaci di riconoscere una composizione di Chopin o di affermare che un quadro è di Raffaello senza avere mai sentito o visto prima quella composizione o quel quadro?

2

NATURALE E ARTIFICIALE

Una spiegazione potrebbe essere questa: la specificità del ricordo non consiste nel re­cupero di qualcosa (un'immagine, una pa­rola, un suono) ospitata in qualche parte del cervello, ma piuttosto nel creare categorie mentali che indirizzano il recupero del­l'informazione. Vista sotto questo profilo, la memoria assume sempre più le caratteri­stiche di una particolare «codifica mentale» (come pionieristicamente aveva osservato Vygotskij). E' la codifica mentale a rendere accessibili le jnformazioni, per poterle ri­chiamare quando serve. Più semplicemen­te, si può concludere che la memoria è lin­guaggio e che, come ogni linguaggio, essa opera secondo un serbatoio di regole e stra­tegie che le sono proprie e di specifiche unità che la caratterizzano.

Quest'ultima ipotesi sta attualmente tro­vando numerose conferme nelle neuro­scienze e in biologia. E curioso è il fatto che si recuperi in questo caso una distin­zione tipica dell'antichità: quella tra una memoria naturalis e una memoria artifi­ciosa - espressioni che si trovano nella re­torica di Fortunaziano, III-IV sec. d.C. (Mortara Garavelli, 1989). La prima indi­cherebbe la naturale disposizione, tipica­mente umana, di registrare dei ricordi. La seconda è uno strumento per la prima in quanto permette di categorizzarli secondo determinati loci (luoghi comuni) e imagines

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I

I

5 p E C I

(sfruttando il potere conservativo della tra­sformazione «parola-immagine»; si veda l'articolo sulle mnemotecniche, qui di se­guito).

· In questa direzione si muovono anche lericerche attuali. Semplificando moltissi­mo, l'idea è che si contrappongano e colla­borino due tipi di memoria che operano «in parallelo», a seconda che si compia un tra­gitto di tipo sottocorticale o corticale (A.R. Damasio e H. Damasio, 1992). Il primo tipo (sotto-corticale) individuerebbe una me­moria «per abitudine» dove la registrazione delle forme linguistiche avverrebbe attra­verso un apprendimento immediato, privo di particolari categorizzazioni e più spon­taneo (come quando si apprende a giocare a un videogioco, ad esempio). Il secondo tipo (presente a livello corticale) metterebbe in mostra invece una memoria «associativa» che comporta un controllo e un apprendi­mento più consapevoli e dunque meno spontanei delle informazioni. Nella fatti­specie, si è cercato di dimostrare che ad esempio l'apprendimento delle forme re­golari del passato dei verbi avverrebbe at­traverso l'uso del circuito «P,er abitudine», mentre la maggior parte delle persone ap­prenderebbe il sistema dei verbi irregolari «per associazione».

Una distinzione di questo tipo fa proba­bilmente parte delle conoscenze intuitive sulla memoria e l'apprendimento a scuola. E' drammaticamente noto che il problema riguarda - in particolare nell'educazione linguistica più astratta e formale - la pos­sibilità di trasformare la tendenza ad ap­prendere per abitudine in un apprendi­mento meno volatile e provvisorio (ap­prendimento associativo). Si sa che, nel ca­so della grammatica ad esempio, è in vigo­re un ti po di memoria che tende a fermarsi ai dati più superficiali e «visibili» (Simone, 1990, p. 15) dei fenomeni linguistici. Soli­tamente chi apprende è portato a definire le categorie linguistiche in termini di esem­plari, senza la capacità di approfondire le

ragioni e gli scopi delle classificazioni che guidano l'apprendimento come invece è ri­chiesto in analisi morfologica, sintattica o logica). In questo caso, il problema della memoria diventa un problema di elabora­zione delle informazioni e soprattutto del «fissaggio» di queste informazioni, di co­me cioè sia possibile richiamarle nel con­testo adeguato e al momento opportuno.

3 IMPARARE A MEMORIA?

Affrontare il problema del fissaggio del­le informazioni significa capire in che mi­sura si può aiutare la memoria naturale a elaborare una categorizzazione concettua­le adeguata al recupero del ricordo. Le stra­tegie che di solito operano in tal senso rin­viano a meccanismi il cui scopo non è tanto arrivare alla costruzione di schemi ade­guati per il ricordo, quanto alla possibilità di favorire l'immagazzinamento delle infor­mazioni nella cosiddetta «memoria a lungo termine». Al riguardo, sin dall'antichità sono noti tre procedimenti: la «reiterazio­ne», la «codifica» e l'«immaginazione».

La prima strategia consiste semplice­mente nella ripetizione dell'informazione (in vari modi, ad alta voce o subvocalizzan­do). E' noto che questa tecnica permette di ottenere qualche successo in un apprendi­mento immediato, ma non offre alcuna ga­ranzia quanto a durata e persistenza di ciò che va ricordato. La codifica consiste in un insieme di espedienti (si veda l'articolo sul­le mnemotecniche in questo stesso speciale) per cui le informazioni da ricordare sono tradotte in qualche formula capace di atti­vare spontaneamente il recupero (del tipo «ma con gran pena la reca giù», per esem­pio). Si tratta di una tecnica indubbiamente vantaggiosa, ma di tipo puramente stru­mentale. La terza strategia (immaginazione) è, come s'è già detto, una tecnica molto an­tica, che sfrutta i vantaggi pratici della «dop-

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le memorie possibili

pia codifica», per cui qualcosa che si pre­senta codificato verbalmente viene tradotto in un'unità appartenente a un altro codice: questa seconda unità 'contiene' le informa­zioni da ricordare e questo facilita notevol­mente il fissaggio e il recupero.

E' indubbio che l'uso di queste tre tecni­che (la cui praticità è secolarmente nota) of­fre numerosi vantaggi per l'apprendimento, se l'apprendimento coincide con la regi­strazione in memoria di informazioni. Ma il problema è forse un altro: serve imparare a memoria?

4

METAMEMORIA

Si può rispondere a questa domanda, sdrammatizzando il problema. Se lo scopo dell'apprendimento è il suo sviluppo natu­rale, ci sono pochi ragionevoli dubbi: impa­rare a memoria serve esattamente come può servire il correre nelle palestre. L'o­biettivo è lo sviluppo di quella che abbiamo chiamato «memoria d'abitudine» e in questo senso si offre all'individuo in crescita la grande opportunità di tenersi in esercizio (come voleva già Quintiliano, che nelle sue Institutiones - XI, 2, 40 - ricorda il valore dell'exercitatio e del labor, la tenacia del­l'esercizio e dell'impegno). Da questo punto di vista, dunque, imparare a memoria una poesia, ad esempio, è indubbiamente van­taggioso.

Tuttavia, non si può chiedere all'esercizio dell'imparare a memoria quello che non può dare e cioè un miglioramento comples­sivo nella categorizzazione delle informa­zioni in memoria. L'imparare a memoria è uno strumento il cui risultato finale non può essere che «conoscenza inerte»: si sa qualcosa perché lo si ricorda, ma quello che si ricorda non è utilizzabile al di fuori del contesto di apprendimento.

Per ostacolare la formazione di cono­scenze inerti e favorire invece un fissag-

s L

gio delle informazioni che sia meno super­ficiale, quello che conta è che chi apprende sia consapevole dei propri «sforzi di ap­prendere». E' così possibile sostenere l'esi­stenza di una nuova componente che si può chiamare metamemoria, per intendere il controllo e l'autoregolazione dei propri pro­cessi mentali (e non, banalmente, una co­noscenza diretta di questi processi). Da questo punto di vista, la metamemoria è l'insieme di quelle conoscenze consapevoli possedute intorno alle aspettative e agli scopi che regolano il flusso di informazioni, quando si è consapevoli di apprendere qual­cosa. Ma come si favorisce il monitoraggio delle strategie che operano sull'acquisizio­ne di conoscenza? Sembra ormai chiaro che in questo senso deve operare non una di­dattica «centrata sui fatti» (per cui è ne­cessario sapere soltanto che qualcosa è «co­sì e così»), ma una didattica «centrata sui problemi» (per cui è necessario sapere qua­li sono le informazioni da richiamare e met­tere in uso in un determinato contesto). Facciamo un esempio forse banale, ma chia­ro. Molti di noi - escludendo i laureati in matematica e in genere chi ha seguito cor­si di studi tecnici (come l'istituto per geo­metri) - sanno che cos'è un «logaritmo» perché potrebbero definirlo anche accura­tamente (sanno cioè richiamare con faci­lità l'informazione adeguata dalla memo­ria). Ma quanti di noi sanno a che cosa ser­ve e come si usa? Nel primo caso, si richia­ma una conoscenza orientata sul fatto (ri­cordarsi cos'è); nel secondo, la domanda rinvia a un problema (come adattare questa conoscenza a un contesto concreto).

Apprendere qualcosa è sapere usare ciò che si apprende in una situazione concreta. Per favorire l'apprendimento è quindi ne­cessario avere una visione più dinamica della memoria, per cui le conoscenze non so­no solo apprese (e ricordate), ma sono ap­prese e applicate a un contesto concreto di attuazione (un contesto dove, cioè, si è con­sapevoli di «aver accesso» a un particolare

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5 P E C I A L E

tipo di informazioni, Schank, 1982). Sotto questo rispetto, è possibile indicare, sem­plificando drasticamente, una serie di prin­cipi che sembrano favorire la formazione di metamemoria: (a) applicazione (chi ap­prende deve imparare le strategie appli­candole); (b) valutazione (più strategie a disposizione per risolvere un problema per­mettono di valutarne direttamente l'effi­cacia); (c) controllo (il controllo operativo del modo in cui si richiamano le conoscenze favorisce la creazione di conoscenza); (d)

motivazione (l'interesse per quello che si apprende arricchisce l'apprendimento del­le strategie). In sintesi, la metamemoria va in direzione contraria rispetto a un'i­dea della memoria come «contenitore di co­noscenze», per puntare a qualcosa di più di­namico: il problema di come si rendano ac­cessibili le rappresentazioni rispetto ai da­ti con cui ci si confronta. Che è poi lo stesso problema di Ireneo, il gaucho di cui ci ha parlato Borges: si può essere bravi fin quanto si vuole a ricordare le nuvole in cielo, ma non serve a nulla se non si sa perché le si vuole ricordare.

B I B L I O G R A F I A

A. Baddeley, La memoria umana. Teoria epratica, il Mulino, Bologna 1992 (ed. orig.1990).

J.L. Borges, Finzioni, trad. di F. Lucentini,Einaudi, Torino 1955 (ed. orig. 1944).

D. Corno e G. Pozzo (a cura di), Mente, lin­guaggio, apprendimento. L'apporto dellescienze cognitive all'educazione, La Nuo­va Italia, Firenze 1991.

A.R. Damasio e H. Damasio, Cervello e lin­guaggio, in «Le scienze: edizione italiana di Scientific American», n. 291, 1992, pp. 65-72.

B. Garavelli Mortara, Manuale di retori­ca, Bompiani, Milano 1989.

R.C. Schank, Dynamic Memory: A theory ofReminding and Learning in Computersand People, Cambridge, Cambridge Uni­versity Press 1982.

R. Simone, Fondamenti di linguistica, La­terza, Roma-Bari, 1990.

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Ars memorativa Alessandro Perissinotto

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IL POTENZIAMENTO DELLA MEMORIA

ai come oggi vi è tanta memoria disponibile per l'uomo. Mentre sto scri­vendo queste righe ho a disposizione sul mio pic­colo computer una me­moria che potrebbe con­tenere tutte le parole scritte sulle pagine di 185 libri in formato ta­scabile, ma basta che

componga il numero telefonico di una ban­ca dati e che mi colleghi, per avere una memoria infinitamente superiore. Quale necessità ho allora di apprendere delle tecniche di memoria?

Non è possibile una risposta ·esauriente a questo interrogativo, né peraltro esso co­stituisce una novità. Fin dall'antichità gre­ca e romana infatti, l'esercizio della propria memoria ha avuto appassionati sostenitori, come Platone, e fieri oppositori.

Le origini delle tecniche di memoria pos­sono essere ricondotte a due grandi filoni, quello aristotelico e quello ciceroniano. Nel De memoria et reminiscentia Aristotele enuncia tre principi fondamentali di ciò che sarà in seguito l'ars memorativa. In primo luogo, egli sostiene la necessità di co­stituire «immagini» in grado di arricchire il ricordo con una componente sensoriale sia pure attenuata dall'assenza di materia. In seconda istanza viene evidenziata l'impor­tanza della «regolarità» e dell'«ordine» nel recupero delle informazioni memorizzate: richiamare i ricordi seguendo un processo ordinato e regolare facilita l'operazione. Nel terzo punto infine, Aristotele torna sulla costruzione delle immagini e affer­ma che essa deve obbedire alla «legge del­l'associazione», secondo la quale le imma­gini di aiuto alla memoria si devono legare

ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), pp. 292·295

L'AUSILIO DIDATTICO

OFFERTO DALLE

MNEMOTECNICHE

alle idee da ricordare, in base ad una qual­che forma di contiguità (ad esempio l'im­magine del «latte» può essere associata al concetto di «candore»).

Se le successive dottrine sulla «memo­ria artificiale», come vengono definite le mnemotecniche, accoglieranno completa­mente i primi due punti del dettato ari­stotelico, per quanto riguarda il rapporto tra immagini e idee, nuovi precetti sosti­tuiranno quelli del filosofo greco. Su que­st'ultimo aspetto torneremo in seguito.

Di derivazione ciceroniana è invece la notissima tecnica dei loci. Essa consiste nello scegliere una serie di «luoghi» entro i quali collocare delle immagini atte a rap­presentare i concetti che si vogliono ricor­dare. Questi luoghi devono essere tra loro in successione (ad esempio le stanze che si affacciano su un corridoio, o le case di­sposte lungo una strada): rivisitando men­talmente quei luoghi nell'ordine in cui essi sono disposti e richiamando le immagini che si erano lì collocate, ritorneranno alla mente le sequenze di concetti memorizzate. Questo, sommariamente, è quanto sugge­risce Cicerone nel De Oratore e quanto Quintiliano approfondisce nel De institu­tione oratoria.

La storia delle mnemotecniche è di straordinario interesse poiché spesso si in­terseca con quella delle «lingue perfette» e più in generale con quella della logica, coin­volgendo personaggi come Giordano Bruno, Bacone, Cartesio e Leibniz. Tuttavia, vo­lendo analizzare nella loro praticità le mne­motecniche in riferimento alla scuola, dob­biamo riconoscere che i millenni non han­no visto evoluzioni di rilievo nell'ars me­morativa, la quale ancora oggi, come di­mostra il fortunato manuale di Alberto Pozzi (1991), si fonda sull'associazione di fi­gure e idee e sulla tecnica dei «luoghi».

La conoscenza delle mnemotecniche può far conseguire risultati notevoli, consen­tendo la memorizzazione di interi libri o di elenchi di decine di nomi letti una sola

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s p E C I A L E

volta. Ma poiché non credo che la scuola ab­bia bisogno di queste mirabolanti imprese non tratterò di metodi per ottenere una memoria straordinaria. Riflettiamo inve­ce sui principi guida delle tecniche di me­moria e sulle loro possibilità di impiego da parte di insegnanti e studenti, in vista, non tanto di meccaniche ripetizioni, ma di una integrazione delle possibilità di ap­prendimento e comprensione.

Alla base della «memoria artificiale» di Aristotele e Cicerone e dei loro epigoni, vi èla scelta di privilegiare alcuni aspetti della memoria: gli aspetti sensoriali, quelli stret­tamente localizzativi e quelli associativi. Il riconoscimento della maggior efficacia della memoria sensoriale (visiva, uditiva, olfattiva, ecc.) è implicito nell'invito a co­struire immagini concrete e ben visualiz­zabili da sostituire alle idee, spesso astrat­te, da memorizzare. Su questo argomen­to, di stretta competenza della psicologia, un approccio linguistico e semiotico, come quello qui proposto, ha forse poco da dire. Più interessante dal punto di vista di una semiotica cognitiva, è invece l'aspetto lo­calizzativo richiamato dalla tecnica dei luo­ghi. Nell'insieme di luoghi ove collocare le immagini, possiamo vedere un antesignano delle strutture di rappresentazione della conoscenza (frame, script, ecc.)? Sicura­mente la distanza che intercorre tra i due concetti è notevole, ma una comune ipotesi di 'architettura' della memoria sembra ugualmente ravvisabile.

2

UNA LINGUA PER IMMAGINI

Come si è accennato, Aristotele suggeri­va di creare immagini di aiuto alla memo­ria che intrattenessero rapporti di conti­guità, o al limite di opposizione, con i con­cetti da ricordare. In Cicerone ritroviamo già un significativo scarto rispetto a questa posizione: il legame tra immagine e con-

cetto comincia a diventare convenzionale, tanto che egli può paragonare la funzione dell'immagine a quella della lettera del­l'alfabeto. Le immagini quindi non indica­no più il concetto, bensì ne prendono il po­sto e hanno il solo compito di colpire la fa­coltà immaginativa per rimanere impresse nella memoria. I trattatisti medievali e ri­nascimentali appaiono poi decisamente orientati verso questa seconda tendenza e invitano a popolare i luoghi della memoria con figure di leoni, di delfini, o addirittura di mostri, per colpire sempre più l'imma­ginazione. Particolarmente significativa per l'esemplificazione della pura conven­zionalità del rapporto immagine-idea, è

l'opera di Pietro da Ravenna, un giurista noto in tutta Europa tra la fine del Quat­trocento e l'inizio del Cinquecento, dalle straordinarie capacità di memoria. Nella sua opera Phoenix seu artificiosa memo­ria, il Ravennate svela il più segreto dei suoi «trucchi»: collocare nei luoghi non del­le immagini legate al concetto, bensì delle figure di bellissime fanciulle. Immagino che la proposta di studiare utilizzando come pro-memoria le immagini di fotomodelle o di divi del cinema, incontrerebbe il favore degli studenti, ma non credo che i risultati in termini di apprendimento sarebbero poi soddisfacenti.

Al di là della fantasiosa teoria del Ra­vennate, i cultori della memoria artificiale poterono contare, fino a tutto il Cinque­cento, su una diffusa dimestichezza con l'allegoria. Per l'uomo medievale e rinasci­mentale, memorizzare ad esempio le figure dell'orso, della civetta e del delfino, si­gnificava ricordare con facilità i concetti di ira, sapienza e precipitazione: un vero co­dice iconologico stabiliva in modo conven­zionale ma socialmente condiviso, i legami tra questi animali e i concetti astratti. Ri­trovare oggi tracce di quel codice non è cer­to facile, e questo spiega come mai le at­tuali mnemotecniche tendono a tornare al­le idee dell'antichità, vale a dire ad Ari-

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S P E CI A L E

ars memorativa

statele, e cioè alla costruzione di immagini dotate di stretti rapporti funzionali con ciò che si vuole ricordare.

La maggior efficacia di questo metodo è percepibile anche in maniera intuitiva, ma può apparire ancora più chiaro se si uti­lizzano le categorie della semiotica cogni­tiva di Peirce. Supponiamo di dover creare un'immagine per la memorizzazione del concetto di «violenza». Utilizzando il prin­cipio della contiguità non sarà difficile vi­sualizzare quest'idea attraverso un pugno che colpisce un volto. Semioticamente di­remo che il pugno, altro non è se non un «segno» dell'oggetto «violenza». Questo se­gno ha però delle caratteristiche particola­ri, esso è un «indice» in quanto «spinge l'at­tenzione verso l'oggetto» (C.S., Peirce, Col­lected Papers, I, 369).

Se avessimo optato per un'immagine al­legorica avremmo potuto, alla maniera di Dante, rappresentare la violenza attraver­so un leone. In questo caso il leone conti­nuerebbe ad essere segno dell'oggetto «vio­lenza», ma le sue caratteristiche sarebbero diverse. Esso sarebbe un «simbolo», vale a dire qualcosa che intrattiene con l'oggetto un rapporto fondato su una convenzionalità, su connessioni abituali.

Immaginiamo a questo punto di aver col­locato in un certo luogo della memoria l'im­magine del pugno: per passare dall'imma­gine al concetto ci sarà sufficiente far ri­corso a un'enciclopedia di tipo esperienzia­le e quotidiano. Nell'ipotesi di aver scelto la figura del leone, per il passaggio dovremo utilizzare invece un'enciclopedia più ricca che contenga anche il «codice» che permet­te di associare leone a violenza. Nel co­struire immagini dobbiamo allora badare che esse abbiano le caratteristiche degli indici, in quanto questi, contrariamente ai simboli, hanno il privilegio di saper addi­tare direttamente gli oggetti con i quali so­no in relazione.

Purtroppo non sempre è possibile ritro­vare un'immagine che si leghi al concetto

5 e u o L A

senza la mediazione di un codice. Le gran­di utopie di lingue perfette che permettes­sero all'uomo di entrare in contatto non con l'universo simbolico, ma con la concre­tezza delle cose, si infransero su questa ineluttabilità del codice. Non resta quindi che inserire il codice linguistico nel gioco dei rimandi. Dovendo ad esempio ricordare un episodio di «collusione» potremo crearci l'immagine di un barattolo di colla. Come si vede l'immagine stessa non manifesta con­tiguità con il concetto, bensì mostra simi­larità parziale con il significante verbale.

Queste brevi considerazioni semiotiche ci permettono di sottolineare come le mne­motecniche generino una «lingua della me­morizzazione» dotata di propri segni (le im­magini) e di una propria sintassi (la suc­cessione dei luoghi). Riconoscere l'esistenza di questa lingua della memorizzazione po­trà essere utile in futuro per studiare le tecniche di memoria con strumenti nuovi.

3 LE MNEMOTECNICHE A SCUOLA

Parlare di uso delle mnemotecniche nel­la scuola non significa certo auspicare un apprendimento puramente mnemonico da parte degli studenti. Memoria e compren­sione non possono che integrarsi vicende­volmente. Per evitare che l'allievo adotti metodi di studio troppo legati alla memo­rizzazione, converrà quindi suggerirgli di applicare le tecniche di memoria, solo in determinate fasi dell'apprendimento e in particolari campi del sapere.

Un buon compromesso tra comprensione e memoria si potrebbe ottenere consiglian­do l'introduzione della mnemotecnica so­lamente in una fase di studio abbastanza avanzata. Solo quando il materiale di studio è stato più volte sintetizzato fino a ridurlo a una successione di etichette, cioè di con­cetti fondamentali, è auspicabile l'inter­vento della moderna ars memorativa. In

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p E C I A L E

definitiva si tratta di far agire la memo­rizzazione solo dopo che le operazioni di sintesi hanno già chiamato in causa la com­prensione.

Le indicazioni appena viste possono es­sere valide per tutte le materie, tuttavia al­cuni ambiti particolari assegnano un più ampio spazio al ricordo. Lo studio della ta­vola periodica, di lunghi elenchi di nomi o di dati, di definizioni precise: ecco alcuni esempi in cui la memorizzazione può pre­cedere la comprensione, senza peraltro so­stituirla.

I principi delle mnemotecniche non sono utilizzabili solo nella fase di recepimento dell'informazione, ma anche in quella della loro trasmissione. In altre parole possiamo dire che queste regole, se ci aiutano a ri­cordare meglio, ci consentono inoltre di creare forme di enunciazione in grado di far ricordare meglio agli altri ciò che abbiamo detto. Questa precisazione chiama ovvia­mente in causa l'insegnante quale enun­ciatore privilegiato all'interno dell'aula sco­lastica.

Utilizzare i fondamentali precetti del­l'ars memorativa può significare, in primo luogo, un diverso uso della lavagna. Non più nera superficie indifferenziata sulla quale scrivere seguendo i normali criteri di­rezionali (da sinistra a destra e dall'alto verso il basso), bensì spazio da suddividere (quando l'estensione lo permette) in aree di­verse entro le quali scrivere, magari con colori differenti, in modo da educare ad una «localizzazione» delle idee. Anche le pareti dell'aula possono diventare, specie nelle classi inferiori, degli utili aiuti alla memoria. Alcuni cartelloni, diversi per co­lore e forma, potranno essere affissi sui muri per creare i differenti loci: gli inter­rogati, invece di guardare i volti dei com­pagni in cerca di suggerimenti, potranno co­sì posare lo sguardo sui vari tabelloni alla ricerca delle figure immaginarie che essi, nella loro mente, vi hanno collocato. In una scuola 'futuribile' dove un maxi-monitor

. .

S C U O L A

per computer prende il posto della lava­gna, potremo poi immaginare un'inse­gnante che accanto alle idee chiave, pone delle piccole icone atte a stimolare la me­moria visiva, così come già si fa nel softwa­re per evidenziare i comandi più impor­tanti di un programma.

Rimane ancora aperto un interrogati­vo: è necessario insegnare le mnemotec­niche a scuola? Come si sarà notato, in questo breve intervento non si accenna mai a una mnemotecnica compiuta e si­stematizzata, ma unicamente si parla di principi fondamentali di tecniche di me­moria. In questa precisazione può allora essere contenuta la risposta alla questio­ne. Si potrebbe infatti sostenere che con­durre gli studenti a compiere imprese pro­digiose con la loro memoria esuli dai com­piti dell'istituzione scolastica. Abituarli a un maggior uso della sensorialità e delle facoltà immaginative nell'apprendimento può invece essere un sistema che, oltre a migliorare i risultati, va nella direzione di una più completa formazione da opporre a una semplice istruzione. I manuali di mne­motecnica potranno così essere utili non tanto se seguiti alla lettera, quanto piut­tosto se impiegati come fonte di spunti ed esempi.

B I B L I O G R A F I A

A. Baddeley, La memoria umana. Teoria e pra­tica, il Mulino, Bologna 1992.

A. Pozzi, Le tecniche di memoria. Corso praticoper l'apprendimento, Angeli, Milano 1991.

P. Rossi, Clauis Uniuarsalis. Arti della memoriae logica combinatoria da Lullo a Leibniz,Mulino, Bologna 1983.

F.A. Yates, The Art of Memory, Routledge &

Kegan Paul, Londra 1966 (trad. it. Einaudi,

Torino).

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ITALIANO LFANUMERICO ..............................................................................

GUTENBERG REPLICA.

QUESTA VOLTA DALL'ILLINOIS Riccardo Degl'lnnocenti e Maria Ferraris

Ummaginate una bi­blioteca di migliaia di

volumi interamente dispo­nibile sulla vostra scriva­nia. Niente schedari, scaf­fali, file di libri. Solo un computer e, al più, qualche dischetto di pochi centime­tri di diametro. Vogliamo consultare un testo? Accen­diamo il computer e cer­chiamo, per via telematica o su disco, il titolo desiderato: ed ecco, in una manciata di secondi, il testo pronto sul­lo schermo, per essere stampato o letto diretta­mente. Insomma una bi­blioteca scarna a vedersi e certo priva del fascino dei libri stampati, ma portatile, manipolabile e duplicabile. Il costo? Beh, computer a parte, saranno cento, due­cento mila lire per diecimila volumi.

Stiamo forse fantastican­do? Non proprio.

Precisiamo subito che non stiamo pensando ai libri elettronici dell'editoria uffi­ciale, nell'immaginare la no­stra biblioteca da tavolo ci riferiamo piuttosto a pro­getti, nati dalla libera ini­ziativa di bibliofili ed infor­matici, che mirano a rende­re accessibile a chiunque possegga un computer la versione completa di quella miriade di testi non più vin­colati da diritti d'autore.

Parliamo, per esempio, del progetto Gutenberg, il cui animatore, Michael Hart, è professore, vedi ca­so, di electronic text al Be­nedictine College di Lisle (USA). L'obiettivo di Gu­tenberg è tanto semplice quanto incredibile: 10.000 testi elettronici entro il 2001, liberamente disponi­bili via telefono, reti tele­matiche, dischi per un pub­blico potenziale che i cura­tori del progetto valutano intorno ai cento milioni di lettori.

m er toccare con mano I.li questa realtà ci siamocollegati al computer dell'Il­linois che raccoglie e distri­buisce i materiali di Guten­berg e ne abbiamo scorso ti­toli ed autori: la Bibbia, ov­viamente, poi Melville, Car­roll, Milton, Twain ... Per ora una settantina di volu­mi ma la progressione pre­vista è micidiale: 12 testi nel '91, altri 24 nel '92, altri 48 nel '93 e così via.

Che dire? Una bibliote­ca del futuro, efficiente ed economica che, tra i tanti elementi di interesse, po­trebbe costituire anche uno strumento prezioso per l'educazione linguistica e letteraria. Già si dirà, ma i testi di Gutenberg sono in

inglese. Vero, ma anche in Italia sono disponibili ar­chi vi di opere letterarie consultabili tramite com­puter e telefono. Ci limi­tiamo a citare il progetto Manuzio promosso dall'as­sociazione culturale «Liber» e nel cui archivio sono re­gistrate le versioni elettro­niche dei Malavoglia, dei Sepolcri e di alcune opere di Pirandello. Non è mol­to, d'accordo, ma si tratta di iniziative recenti e de­stinate a crescere grazie all'entusiasmo dei volonta­ri disposti ad arricchire queste biblioteche pubbli­che, provvedendo diretta­mente, con l'aiuto di scan­ner e software per ricono­scimento caratteri, all'ar­chiviazione elettronica di nuovi testi.

La vivacità di questi pro­getti contrasta in maniera singolare con l'assenza di interventi istituzionali vol­ti a favorire la diffusione del patrimonio di opere presenti nelle biblioteche tradizionali anche attra­verso il supporto elettroni­co. Perché non aiutare con sovvenzioni pubbliche que­ste iniziative? E perché non creare un piccolo sbocco al­la disoccupazione offrendo ai giovani un nuovo lavo­ro: l'amanuense elettroni­co?

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LESSICO D'AUTORE

Gusci gaddiani

1

LE FRASI FA'ITE

crive G. Barberi Squarot­ti ne La narrativa italia­na del dopoguerra (Cap­pelli, Bologna, 1965, p. 45): «La società che Gad­da descrive ... è la società che nasconde le colpe e la morte, il dolore e l'ingan­no sotto la rispettabilità, la finzione della mansue­tudine, i gesti convenzio­

nali della pietà, del dovere. Tutta la filologia gaddiana non è che esito della ricerca acca­nita di strumenti adeguati all'irosa indagine degli aspetti abnormi, assurdi, ciechi, crudeli, grotteschi di questa società col suo fondo storico, fra la prima guerra mondiale e il fa­scismo».

Fra questi «strumenti adeguati» (cioè i dialetti e le espressioni dialettali, l'impasto di tecnicismi, forestierismi, preziosismi e neofor­mazioni, gli apporti fonosimbolici, i calem­bour, i giochi onomastici e quant'altro con­corre a formare il particolarissimo lessico

gaddiano), quindi fra i mezzi adoperati per affrontare la dimensione del reale, ovvero per «penetrare nella vera natura di un mon­do di volgarità e di orrore» (ibid.), rientra anche l'uso dei luoghi comuni, degli stereo­tipi, dei modismi, di quelle che Arbasino de­finisce le «frasi fatte della saggezza di un ceto medio completamente folle» (A Arbasi­no, C.E. Gadda, in Sessanta posizioni, Fel­trinelli, Milano 1971, p. 89).

E poiché spesso in Gadda uno stato d'ani­mo, un atteggiamento sentimentale si tra­ducono in registro stilistico, l'uso delle frasi fatte, di quelle espressioni divenute «un gu­scio senza più il lumacone di dentro», è un modo di prendere le distanze dalla realtà che esse sottintendono, una difesa che lui, l'ingegnere, il borghese logorato dagli eventi e dai rancori familiari, tormentato dal «sen­so feroce ed esclusivo della proprietà» CD511, lui che si autodefiniva «inetto a vivere, non­ché a comprendere, la piattitudine del ri­tuale quotidiano» VM439, oppone alle umi­liazioni e alle ferite che quel linguaggio, con la sua feroce banalità, è stato capace di in­fliggergli.

E volendo indagare l'humus propizio al sorgere e al diffondersi di quel linguaggio, è

AUGUSTA FORCONI

I luoghi co muni, gli

stereotipi, i modismi

n ella prosa d i

Gadda ·ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), pp. 297-302

297

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LESSICO D'AUTORE

298 Gadda stesso che dà delle indicazioni, nella Meditazione breve circa il dire e il fare (nella raccolta di saggi I viaggi la morte):

«Frasi, frasi, frasi (prive di contenuto), parole, parole, parole entrano ... "nella vita delle famiglie", si propagano da una fa­miglia all'altra ... ; e tutto procede come olio per i suoi vasi... nel tramite della bana­lità consueta. La pigrizia vestita di super­ficiale energia, la dabbenaggine addobba­ta di sopraccigli, la ottusità gocciolante di buoni sentimenti, il desiderio di non fati­care con il cervello entrano poi rapida­mente nel gioco.»

Le famiglie dunque (non si dimentichi, nella dolorosa conflittualità gaddiana, una spietata osservazione del Giornale di guerra: «prostrazioni e inebetimento e disperazione. Questa è la famiglia»), le famiglie borghesi e piccolo-borghesi, e ciò che simbolicamente esse rappresentano, il carico di significati, gratificanti e per ciò stesso falsi, che si por­tano appresso.

Famiglie, o anche (utilizzando alcune del­le forme alterate di cui abbonda La cogni­zione del dolore) «famigliuole», ovviamente «distinte», ben sistemate nelle loro «casucce», con i «doppi servissi» e il «giardinetto», «vil­lule», «villette» o «villone» rese civettuole da «vialetti», «spigolucci», «torricelle» e «cupo­lette», che le fanno parere «una via di mezzo fra l'Alhambra e il Kremlino» A112.

E in queste «illibate case» A310 dai pavi­menti lucidati a cera, fra le mura del «tinello detto office» A113 oppure in mezzo agli «ag­geggi della prudenza e della demenza dome­stica» A20, «lo schema di ogni conversazione ripercorre pedantemente ... le strutture im­mutabili della rassegnazione sventurata» (Arbasino, cit.): dove le convenzioni e le con­venzionalità del pessimo gusto borghese ven­gono portate e commentate dalle più trite frasi fatte: nella cui modalità d'uso da parte di Gadda si possono, per comodità di lettura, distinguere tre momenti.

2

LO STEREOTIPO TALE E QUALE

Gadda ben sa che le chiuse realtà esisten­ziali ch'egli rappresenta diventano ancora più meschine e ridicole se, per descriverne i tratti, fa ricorso alla cristallizzata inespres­sività degli stereotipi: e da quello «scrittore bizzoso e vendicativo», da quell'«inchiostra­tore maligno e pettegolo» (Intervista al mi­crofono, in I viaggi la morte) che è, se ne ser­ve senza risparmio, con riguardo a situazio­ni e comportamenti che, in tal modo conno­tati, appaiono spogliati di qualsiasi indivi­dualità. I gusci vuoti mandano un suono fes­so, di pura ecolalia, siano essi forme tipiche del modo familiare di raccontare («Tutt'a un tratto, che è che non è» A21, «Un bel giorno, tutt'a un tratto» CD20, «E bell'e che lì, sui due piedi» CD 206, «Inoltre, colmo dei colmi» M474, «La bambina fu allevata come Dio vuole» RE1031, «Ed era venuto un tempo, l'ira di Dio» MF97), o le consuete zeppe su cui si reggono dialoghi che potrebbero anche es­ser monologhi, tanto irrilevante appare la presenza o meno di un interlocutore: «Biso­gna arrabattarsi ... Tirare a campare» CD107, «cosa vuole ... fin che siamo qui!. .. C'è ancora da ringraziare il Signore!» CD125, «Basta che Dio ce la mandi buona» Rl1043, «gli ave­va mandato a dire che non la tenesse in bal­lo a quel modo, che si decidesse: o prendere o lasciare» CD 230, «dar tempo al tempo ... sug­geriva la padrona» AG912, «ascoltami. Gli anni fanno presto a passare ... » A265, «come quer giovedì maledetto, chi s'è visto s'è visto» P91, «Be', sarà per un altra volta» A418, «oeh! ma s'immagini! non sarà la fine del mondo ... » CDl 74, «la vedova, dopo tutto ... Meglio perderla che trovarla, quella lì» CD233, «Mbè ... Quanno ch'er diavolo ce se mette ... » P87, «mi scusi ... ma lei vuol pro­prio annegare in un bicchier d'acqua» CD205, « ... Mi vien male solo a sentirlo» CD198, «tale è il pandemonio che ... , ma è roba da sparar­si» CDl 79, «Ma allora come stai a menare il can per l'aia ... » MF90, «Non voglio dargli la

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soddisfazione ... di prendere come oro colato tutte le minchionerie che gli vengono fuori dalla bocca» A265, « ... chelle due ... c'entra-vano come i cavoli a merenda ... » PA415, «Si parlava per parlare» M542, « ... Be' ... son cose che si dicono ... » CD119, «E vedremo se man­geranno la foglia» M566, « ... Ma coi tempi che corrono ... non c'è più speranza» AG659.

O anche, andando a riparare «nel grembo dell'antica saggezza», frasi proverbiali e pro­verbi, che a quel dialogo/monologo danno un tono «miseramente apodittico»: «Vivere e la­sciar vivere, sogghignava» MF86, « .. .il dia­volo, sì, difatti, insegna a far le pentole ... » CD243, «E finalmente ... testimoniano che vo­lere è potere» CD249, «Chi vuole vada, chi non vuole mandi» P57, «E poi, corna a parte, chi ci ama ci segua» P98, «Chi non fa non fal­la. E sbajanno s'impara» P163, «di carneva­le ogni scherzo vale» A189, «Chi cerca trova» P277, «Né alcuno si preoccupi ... : Dio non pa­ga il sabato» CU132, «Si cominciava a senti­re che non c'è rosa senza spine» Rl1053, «Di mamma [ ... ] ce n'è una sola nel mondo!» Rl1073, « ... Purtroppo le disgrazie non ven-gono mai sole, a questo mondo ... » AG685, «deve essere ... umile ... Chi si loda, s'imbroda» CU131, «Dio mio!. .. come passa il tempo! Ma finché c'è vita c'è speranza ... » AG788.

Volendosi soffermare sugli argomenti ai quali modismi e frasi fatte ineriscono, ecco quelli relativi all'espressione di punti di vista, giudizi e sentenze, sempre misurati unica­mente sul metro di chi parla: «Che vuole ... a quell'età ... hanno l'argento vivo addosso» CD158, «E' un fior d'un medico ... » CD165, «Eccolo qui, l'ingegnere ... quella perla di un ingegnere buono di pianger soltanto miseria» MF104, «Si trattava di una vedova ... con una cascina molto ma molto per la quale» CD 230, «In questi paesi la popolazione è come il pane» CD195, «Di notte russa come un ghiro e di giorno ... fuma sigarette che costano un occhio della testa» Rl1046, «E' una svergo­gnata ... che crede di darla a bere alla gente»

· Rl1085, «ma voi, col vostro ingegno, si sa, èun altro paio di maniche» AG788, « ... Bè,

LESSICO D'AUTORE

l'uomo, si capisce, è tutta un'altra faccen­da ... » A235, «I setti anni li ha compiuti da un pezzo» CD196, «cerca di stare un po' più at­tenta ... perché il dente del giudizio lo devi avere su da un pezzo» A326, «Al giorno d'og­gi, si può star sicuri di non trovarne più nemmen la semenza, di uomini compagni di quello» CD 127, «Cose che accadono ai figli delle migliori famiglie!» AG688, «Si dice per dire ... al giorno d'oggi la è un'altra vita ... » CD127, «Una signora come me!. .. non dico perché fusse mio marito, buon'anima!» P A282, «Ma se è un uomo come gli altri!. .. Griderà un po', di tanto in tanto, perché ha la luna in traverso ... La va a momenti, a sim­patia» CD128, «Ci sono quelli ... che vengono subito al punto: Glielo dico io, bisogna saperli prendere! Ognuno pel suo verso» P95, «Basta quindi saperli prendere per il suo verso, e si arriva ... a cavarne qualche profitto» M486, «Son buona gente: no? ... Un po' rozzi, for­se ... ma buona gente» CD195, «Questi ruf­fiani di Milanesi... a me non me la fanno» RI1037, «e poi ... una persona per bene si co­nosce dalla faccia» AG818.

Quelli riguardanti svariati comportamen­ti e modi di fare: «I Bertoloni non sapevano più che pesci pigliare per tirare avanti» CD58, «Il povero giovanotto ... Non sapeva dove andare a sbattere» A51; «il trattore ... lo mandò un bel giorno a far friggere» CD93, «è quasi certo che lo mandarono al diavolo» AG552, «gli era venuta la grama idea ... di mandare l'affezionata clientela a carte qua­rantotto» MF86; «non s'era voluto spiegar di più, dacché era uno che sapeva stare al mondo» CD396, «però poteva chiudere un occhio» CD390, «Il cliente se la può dormire fra due guanciali» P96, «il ragionier Barba­gallo colse la palla al balzo» RD991; «gli ave­vano già promesso di fargli un giorno o l'altro la pelle» CD440, «due mesi gli parvero eter­ni ... Ma ci fece il callo» CD231; «Non aveva voce in capitolo. Brontolava, brontolava ... » CU149, «E ... aveva anche la faccia ... di cercar briga ogni volta» CD92, «io ... già mi dilun­gavo a far lo gnorri» EP199, «s'era fitta in ca-

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po che il commendatore ... volesse figurare di cascar dalle nuvole» P49, «il contrario ... dell'Adalgisa, che non s'era mai lasciata met­tere nel sacco ... » A531, «il Municipio lo avreb­be preso in gobbo, stavolta» CD418, «per via ch'era accaduto non una volta l'avessero ad aver colto in castagna con qualche donna» M472, «dicevano che aveva trovato da far buona legna nel bosco, con lei, ma sì... con la sposa» M476 (il modismo, d'uso poco comune, significa «trovare un ambiente favorevole al­le proprie intenzioni»), «era seduta in un cer­to modo succinto e piccante da far venire l'acquolina in bocca a' suoi ammiratori» M579, «pareva che ... non potesse più capire nella pelle dalla voglia» CD417; «dal terraz­zo, rivide ... campane arrovesciate a menare il torrone della gloria» CD428 (menare il tor­rone) è un lombardismo che significa «infa­stidire, annoiare ripetendo sempre la stessa cosa fino alla nausea»).

E anche, più astrattamente, la manifesta­zione di umori e malumori, stati d'animo, condizioni fisiche ed emotive: «ho sbattuto i vetri, non ci vedevo più dalla rabbia» Rl1085, «Quand'è in furia, che ha perduto il suo Si­gnore, non sa più neppur lui quello che gli esce di bocca» CD126 (dove l'espressione per­dere il proprio Signore è un dialettismo che significa «perdere il controllo di sé»), «non ho neanche potuto dire il Rosario, tanto ero fuori di me» RI1085, «finì però poi per ridere a crepapelle sottovoce» Rl1067, «Siamo pro­prio rimaste di sasso ... » CU231, «quando poi si montavano la testa, nessuno più li teneva» Rl1031; « ... Dico la verità: avevo un po' perso la testa ... » PA420, « ... Basta perdere la testa un momento ... e la frittata è fatta ... » PA434; «li cronisti e il telefono avevano rotto l'anima tutta la sera» P80, «E poi ci ha fatto girare le scatole a tutti ... » M481, «la femmina ... non stia a romper le tasche» EP42, «Ma non rom­pete l'anima col mal di testa, adesso» P252, « ... E siccome me fece girà i corbelli, ... je dissi che se levasse da le scarpe ... e de nu stamme a rompe li cojioni ... » PA425; «lui, natural­mente, era un po' sulle spine, data la piega

che avevano pigliato gli avvenimenti: per­ché si trattava proprio di un'occasione e sa­rebbe stato un peccato lasciarsela scappa-re» CD231, « ... C'era solo lui ... che cascava dalle nuvole ... » PA407; «Ovvia, la prenda in-tanto un goccio di vinsanto: questo la rimet­te in palla» AG830, «le gambe gli cominciano a fare giacomo giacomo» CD392, «si ingolfò come in una diatriba ... gli si sciolse la lingua» M475.

Né possono mancare stereotipi e frasi fat­te riguardanti il lavoro e il guadagno, ar­gomento di fondamentale importanza per i personaggi gaddiani, gente attaccata al mi­to della proprietà e del risparmio, dedita, oltreché alla famiglia, al lavoro, sia che mo­destamente si tratti di «cavare un qualche quattrinuccio» CD58 o «soldino» Cd80 o «li­ruccia» CD34 dalla «botteguccia» CD34, sia nel caso di più borghesi e generici affari: «Sono gli affari del giorno: grane e gatte da pelare a bizzeffe, per esser giusti, e rospi da inghiottire da non averne un'idea» A211. «E così eccomi a dannar l'anima a mendica­re un tocco di pane» M482, «per guadagnar­si il pane, anche lui come gli altri ... » CU263, «certi operai finti, che son lì soltanto ... per portar via il pane a chi tira la carretta» M480, «il povero marchese stentava a tirar la carretta» CD389, «Si sa che si tira la car­retta ... come si può ... ogniduno la sua» CU263, «Alcuni ... dopo aver tirato la cin­ghia di mese in mese, discutevano di arruo­larsi» CD441, «Seguita pure a lavorare! Mo' hai trovato la frusta per il culo tuo» A33 (espressione piuttosto rara analoga a tro­vare pane per i propri denti), «Ma state pro­prio benone!. .. Si vede che gli affari vi vanno a gonfie vele» AG787, «Bene lo dicono quelli che mangian di grasso» M475.

E si sa che, nel mito della solidità borghe­se, qualsiasi vocazione artistica è guardata con diffidenza e sospetto: «aveva un vero e proprio "temperamento di artista" ... (Mi si ac­cappona la pelle solo a pensarci)» MF79, « ... gli artisti, ragazzo mio, è meglio perderli che trovarli ... » AG662.

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RIFARE IL VERSO AL PARLANTE

A volte, con il duplice intento di «rifare il verso al parlante, quasi per inerzia, o capric­cio, o rabbia» (P.P. Pasolini, Gadda, in Pas­sione e ideologia, Garzanti, Milano 1960, p. 319), e di allontanare da sé un linguaggio la cui volgarità lo disgusta, Gadda usa presen­tare lo stereotipo o il modismo avvalendosi di formule introduttive (come si suol dire, come si dice, dice un modo e simili), oppure me­diante l'espediente grafico delle virgolette (che Giacomo Devoto nella sua famosa anali­si stilistica al Castello di Udine - cfr. G. Pa­trizi, La critica e Gadda, Bologna 1975, pp. 83-104 - cataloga fra i «mezzi stilistici extra­grammaticali» ), le quali, oltre a mettere in risalto quanto si dice, servono ad attenuare «la responsabilità dello scrittore nell'impiego di una parola» (ivi, p. 95): «anche vulgarmente si suol dire che l'occhio è lo specchio dell'ani­ma» EP194, «il battibecco ebbe come unico effetto, di mettergli, come si suol dire, il pepe nel culo» CD229, «all'uso volgare si dice, con tutto questo, si dice tener d'occhio» A95, «non isfuggì. allo sguardo di lince (così lo chiamava lui stesso) del brigadiere» P255, «quattro o cinque saputelli ... tutti situati a un dipresso in quella regione dello spettro che si chiama "predicar bene e razzolar male"» RI1031, «do­po gli anni di guerra ... aveva saputo "rimboc­car le maniche"» AG785, «Ma "l'uomo è cac­ciatore" dice un modo da noi» RD963, «il loro fugitivo egoismo ... si esprimerebbe nei detti "cosa fatta, capo ha: passata la festa, gabbato lo santo"» EP49, «ignorava ... perché li voleva ignorare certi stanchi motti, o proverbi, come chi dica: parenti serpenti, amici nemici» AG860, «l'idea di marinare il concerto ... aveva messo l'argento vivo, se posso azzardare que­sto motto, nei lombi ... del giovane Gian Maria» A188, «si finiva per fare "quattro salti", seb­bene l'espressione sia alquanto borghese» AG656, «Anche il marito l'aveva ''lasciata so­la su questa terra", com'ella amava di sospi­rare» RI1083, «La madre ... , era "ammalata

LESSICO D'AUTORE

di un male che non perdona"» PA370, «quan­do una donna Giulia o Teresa, e moglie e ma­dre ... la si sente "sicura del fatto suo"» A86, «la contessa, che era "l'anima della sua casa"» AG664, «un cornuto in famiglia ci voleva pure, un giorno o l'altro, "coi tempi che corrono!"» A241, «entrava nello studio ... con una fac­cia ... dov'era scritto "il tempo è denaro"» M550, «talvolta ... lo pilotavano ... fino al maiolicato sa­cello dove, chi ne provi il desiderio, può ''la­varsi le mani"» AG773; «gli dissero "auguri!"; e si corressero subito: " ... cioè, in bocca al lupo", perché dicono che a dir auguri, per gli esami come pel Carso, mena d'un gramo da non averne un'idea» MF78.

4

INTERVENTO SULLO STEREOTIPO

Ma Gadda, lo scrittore «maniaco dei tec­nicismi, dei motti popolareschi, dei modi eruditi, degli archi a spiombo e delle piramidi sintattiche, dei periodi a cavaturacciolo» (In­

tervista cit.), uno che amava rielaborare an­che le più semplici locuzioni avverbiali (per esempio, usando le inversioni «giù e su» e «più mai» anziché le forme correnti su e giù e mai più), non può limitarsi alla semplice utilizzazione di materiale creato da altri, per quanto originali ne siano gli esiti: ecco quindi le varie operazioni di intervento sullo stereotipo, con risultati grotteschi e spesso co­mici: «una vita tutta dedita al bene, o per dir meglio al male, del prossimo» CD71, «benché tre, si fecero in quattro ... a depor cappelli, giornali» CU266, «una creatura venuta alla luce o meglio alla ombra o penombra del Carlo Ghezzi» AG913, «il povero giovanotto non sapeva più a che Fumagalli votarsi» A51 (dove il nome proprio sostituisce il san­to del modismo, con evidente intento ironico), «gli altri ... cascarono da tutte le lor nuvole» AG838, «il vigile prendeva un cappello da non dire» AG877, «i medici le avevano messo una spina nel cuore (il buon gusto della con­tessa aborriva dalla pulce nell'orecchio)»

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AG651, «egli ne aveva raccontato un po' a tut­ti, volenti e nolenti» CD232, «provveduti di un mezzo palmo di buon naso» CD364 (conden­sazione di due cliché avere buon naso e ri­manere con un palmo di naso), «il violoncello è uno strumento barocco: un contrabbasso, meglio che andar di notte» CD480, «c'è un vecchio modo che dice: "non c'è due senza tre". E ... non c'è tre senza quattro, non c'è quattro senza cinque» M572, «San Benedet­to, la camicia è sul letto» AG912 (evidente deformazione del proverbio San Benedetto, la rondine sotto il tetto), «levata ... la forchetta carica, aprivo la bocca senza chiudere gli oc­chi», CU199 (allusione all'espressione apri la bocca e chiudi gli occhi, che si suol dire a volte a ragazze e bambini nell'offrir loro cose particolarmente ghiotte), «l'erba che sarà cresciuta, la mangerà il cavallo, che campato sarà» CU122 (deformazione del proverbio campa cavallo che l'erba cresce).

Risultati che a volte sono decisamente ir­resistibili, come nel caso dei doppi interven­ti che seguono: «non aveva un centesimo in saccoccia e viceversa molto argento vivo ad­dosso» CD232, «incontrava uomini che lo guardavano in cagnesco e cani che lo guar­davano umanamente» M559.

5 CREAZIONE DI NUOVI MODI DI DIRE

Il geniale e instancabile coniatore di neoformazioni, il pasticheur che raggiunge «effetti di folenghiana felicità» (P. Gelli in G. Patrizi, cit., p. 74), il possessore di quellavis umoristico-grottesca che si estrinsecanell'invenzione di neologismi anfibologici,lascia il segno anche nella coniazione di nuo­vi, e personalissimi, modi di dire: come, peresempio, nella Cognizione (108), per indicareil massimo della goffaggine: «non aveva nes­sun genio per l'arrabattarsi ... , nel di cui usosi trovava più impacciato che una foca a frig­ger tortelli»; e in un'allusione al formaggiogorgonzola ( che Gadda, per motivi simbolici,

odiava tanto da non menzionarlo quasi mai con il suo vero nome): «grasso, piccante, fe­tente al punto da far vomitare un azteco» CD39, dove l'azteco (forse a causa dell'ostico gruppo consonantico -zt-) è preso come ter­mine di paragone per indicare persona dallo stomaco eccezionalmente robusto o dai gusti particolarmente barbari; e ancora nella Co­gnizione (63): «Era, il Bertoloni ... in procinto di andar al bombo del tutto», dove l'espres­sione andare al bombo è la traduzione del modismo argentino irse al bombo (bombo dal latino bombus «rumore ronzio») e significa «andare economicamente in rovina»; e nell'Adalgisa (304), accennando a una vo­lontà alfierianamente forte: «un "volere è po­tere" che avrebbe rincorso un cappero in cima al Sempione»; e infine, ancora dall'Adalgisa (806), un'immagine bizzarra e insieme poe­tica com'è nello stile del nostro, cui la coppia asidentica di aggettivi conferisce un'imme­diatezza quasi cinematografica, e la simili­tudine un effetto di dissolvenza sul quale è grato concludere queste note: «lo rimirava con una lunga, interminabile guardata ... più lunga di un tramonto estivo a Edimburgo».

L E G E N D A

A= L'Adalgisa, Garzanti, Milano 1985; L'Adalgisa, in Ro­manzi e racconti, Garzanti, Milano 1988, voi. 1°.

AG = Accoppiamenti giudiziosi in Romanzi e racconti, Garzanti, Milano 1989, voi. n° .

CD= La cognizione del dolore, Einaudi, Torino 1987.

CU = Il castello di Udine, in Romanzi e racconti, Gar­

zanti, Milano 1988, voi. 1°.

EP =Eros e Priapo, Garzanti, Milano 1967.

M = La Meccanica, in Romanzi e racconti, Garzanti, Mi­

lano 1989, voi. n°.

MF = La Madonna dei Filosofi, in Romanzi e racconti, Garzanti, Milano 1988, voi 1°.

P = Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti,

Milano 1957.

PA = Quer pasticciaccio brutto de via Merulana - Reda­

zione di «Letteratura» - in Romanzi e racconti, Garzanti, Mi­

lano 1989, voi n°.

RD = Racconti dispersi, in Romanzi e racconti, Garzan­

ti, Milano 1989, voi n°.

RI = Racconti incompiuti, in Romanzi e racconti, Gar­

zanti, Milano 1989, voi. n°.

VM = I viaggi la morte, in Saggi giornali favole, Garzanti, Milano 1991, voi I° .

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L'ITALIANO ALLA CORTE INGLESE Harro Stammerjohann

11 1 primo tentativo di sistemazionegrammaticale italiana in Inghilter­

ra», secondo quanto scrive Spartaco Gam­berini nel suo libro sullo studio dell'italiano in Inghilterra nel '500 e nel '600 (Gamberi­ni 1970), «è di John Clerk, segretario del Duca di Norfolk», il quale, in un'opera del 154 7, dà alcune tabelle dei verbi italiani, co­me anche di verbi francesi, cercando di av­vicinare l'italiano il più possibile al latino (Gamberini 1970, 58s.).

Ma la prima grammatica italiana vera e propria in Inghilterra è, sempre secondo Gamberini, del gallese William Thomas, studioso e segretario del consiglio di Eduar­do VI, che aveva già pubblicato una storia dell'Italia. La grammatica, intitolata Prin­cipal Rules of the Italian Grammar, appar­ve nel 1550 (Gamberini 1970, 60sg.) La grammatica stessa, seguita da un diziona­rio, è piuttosto breve.

In effetti, nella dedica, scritta a Padova nel 1548, il Thomas dice che, mentre il gre­co e il latino richiedono un lungo studio, «the Italian is in short space and easilie ob­teigned» [si apprende in poco spazio e facil­mente], ed è anche questo un giudizio che abbiamo già trovato, e che ritroveremo an­cora, in molti altri autori, non solo inglesi.

Il Thomas continua dicendo che la lin­gua italiana sta per diventare alla pari con le due lingue classi-

FONTI

loro lingua sarà sicuramente tanto ricca quanto ciascuna di quelle due] (ib. ).

1111 ammirazione per Italia rinascimen-111 tale era universale e ad alcuni sem­brava addirittura pericolosa. Così allo stu­dioso e professore di greco Roger Ascham, insegnante della futura regina Elisabetta, il quale, nel suo trattato pedagogico The Scho­lemaster del 1570, sconsigliava ai giovani in­glesi di andare in Italia: «not, » affermava, «bicause I do contemne, either the knowled­ge of strange and diuerse tonges, and na­me lie the Italian tange, which next the Greeke and Latin tange, I like and loue aboue all other» [non perché io condanni la conoscenza di lingue straniere e diverse, specie della lingua italiana la quale, assie­me alla greca e latina, io amo più di tutte] (Gamberini 1970, 11). Per l'Ascham (ed al­tri inglesi dell'epoca) erano gli italiani che erano corrotti, non la loro lingua.

Questa lingua, che dunque anche all'Ascham sembrava alle pari della greca e della latina, all'uomo di Stato e poeta Sir Philip Sidney sembrava inferiore alla lin­gua inglese, almeno rispetto alla sua ido­neità per la poesia. Infatti, intorno al 1583 Sir Philip Sidney in un suo trattato An Apologie far Poetrie (pubblicato nel 1595) trovò che «the Italian is so full of vowels,

that it must ever be combered with eli­che. «So that if the Ita­

lians folowe other ten­ne yeres the diligence, that in these tenne ye­res passed they haue vsed [sic]: surelie their tongue will be as plen­tifull as anie of the other» [in modo che, se gli italiani si distin­guono altri dieci anni come hanno fatto i dieci anni passati, la

P. Gamberini, Lo studio dell'italiano in In­

ghilterra nel '500 e nel '600, D'Anna, Mes-

sions» [così pieno di vocali che deve co­stantemente essere disturbato da elisioni] (Sidney 1965, 140) -un giudizio che ab­biamo già incontrato in tanti francesi e che forse esprime anche l'invidia di chi parla una lingua meno ricca di vocali.

sina-Firenze, 1970.

Ph. Sidney, Sir, An Apology far Poetry or The

Defence of Poesy, Edited by G. Shepherd,

Nelson, Edinburgh, 1965 (pubblicato per la

prima volta sotto il titolo An Apologie far

Poetrie a Londra nel 1595).

W. Thomas, Principal Rules of the Italian

Grammar 1550, The Scolar Press, Men­

ston, 1968.

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[ ESPERIMENTI GRAMMATICALi]9

PRESENTI E FUTURI IMPERFETTI Maria G. Lo Duca

0 bbiamo visto nel precedente 'esperimento' W che la simultaneità tra eventi che si svol­gono nel passato costituisce una caratteristica distintiva dell'imperfetto rispetto ad altri tem­pi del passato, in primo luogo passato prossimo e passato remoto. Infatti in:

Mentre parlava, Maria muoveva nervosa­mente il piede

la presenza di mentre che è una congiunzione temporale che instaura di per sé un rapporto di simultaneità tra eventi, rende obbligatorio l'u­so dell'imperfetto, trattandosi di due eventi che si collocano nel passato. L'uso degli altri tempi del passato è semplicemente agrammaticale:

*Mentre ha parlato, Maria ha mosso nervo­samente il piede

*Mentre parlò, Maria mosse nervosamente ilpiede

*Mentre aveva parlato, Maria aveva mossonervosamente il piede.

Abbiamo anche detto che questa interpreta­zione dell'imperfetto scatta anche in assenza di espliciti indicatori di simultaneità. In:

Maria mangiava e guardava la televisione; Maria mangiava e Francesco suonava il pia­

noi

due eventi vengono interpretati comunque come avvenuti nello stesso lasso di tempo.

Proveremo adesso a sottoporre a ulteriore verifica questa nostra scoperta dell'imperfetto come «tempo della simultaneità nel passato». Cominciamo dal caso più semplice. In:

(1) Maria mangiava e io studiavoL'insegnante leggeva il giornale e gli stu­denti facevano il compito

in cui i protagonisti degli eventi considerati, e quindi i soggetti grammaticali delle frasi, sono diversi, la lettura simultanea sembra fuori di­scussione. È anche chiaro come in questo caso l'uso del passato prossimo/remoto annullerebbe, o comunque non autorizzerebbe, questa lettura.Una sequenza del tipo:

Maria ha mangiato I mangiò e io ho studiato I stu­diai

non comporta necessariamente che i due eventi si siano svolti nello stesso lasso di tempo.

m a, domanderemo questa volta ai nostri !ll,! studenti, cosa succede se il protagoni­sta/soggetto è lo stesso? L'interpretazione si­multanea suggerita dall'imperfetto è sempre confermata? Ragioniamo sugli esempi che se­guono.

(2) Maria mangiava, fumava e guardava la te­levisione

(3) Maria prima mangiava poi fumava, e in­fine, guardava la televisione

(4) Maria si truccava, si vestiva e correva aprendere l'autobusIl professore entrava in classe, faceva l'ap­pello e cominciava a spiegareMio padre si alzava e faceva colazione

Ora, mentre per (2) l'interpretazione simul­tanea è la più ovvia, non potremo dire altret­tanto per (3), dove la semplice aggiunta di in­dicatori temporali è bastata a dare degli stessi eventi una visione sequenziale. I casi in (4) so­no ancora più difficili da far rientrare nell'ipo­tesi dell'imperfetto come tempo della simulta­neità: nonostante manchino espliciti indicatori di successione (prima, poi, dopo, in seguito, in­fine ... ), non c'è dubbio che gli eventi descritti dai diversi imperfetti di ciascuna sequenza saranno interpretati del tutto naturalmente come suc­cessivi. Come mai? Che cosa fa la differenza tra (2) e ( 4)?

Ci aspettiamo che siano gli stessi studenti a scoprire che la differenza sta tutta nel signifi­cato dei verbi adoperati nei diversi contesti. Noi tutti 'sappiamo' infatti che gli eventi descritti da truccarsi, vestirsi e correre a prendere l'autobusse attribuiti allo stesso soggetto non possono essere simultanei, così come non possono es­serlo quelli di entrare in classe, fare l'appello e cominciare a spiegare o quelli di alzarsi e farecolazione. Se è vero dunque che l'imperfetto è il tempo della simultaneità nel passato, questa sua proprietà deve poi fare i conti con la nostra profonda e radicata conoscenza di 'come vanno le cose del mondo', dalla quale ricaviamo conti­nuamente una miriade di informazioni che ado­periamo anche in chiave grammaticale. Se due o più eventi non possono essere simultanei, l'u­so dell'imperfetto non riuscirà a farcelo dimen­ticare. Ma se più eventi possono essere simul­tanei, l'uso dell'imperfetto autorizzerà proprio

ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), pp. 304-306

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[ ESPERIMENTI GRAMMATICALI ]9

questa interpretazione. Per convincersene basti osservare la differenza tra:

Mio padre si alzava e faceva colazione (even­ti successivi) Mio padre faceva colazione e leggeva il gior­nale (eventi simultanei) Quando mi faceva male la testa, prendevo una pillola (eventi successivi) Quando facevo compito in classe, avevo tanta paura (eventi simultanei)

Possiamo pertanto concludere che la nostra ipotesi dell'imperfetto come tempo della simul­taneità nel passato rimane vera, ma nei casi in cui il significato dei verbi adoperati escluda la possibilità della sovrapposizione degli eventi, l'imperfetto esprime anche rapporti di succes­sione nel passato.

0 ndiamo avanti, e scopriremo che c'è an­!iJ cora qualcosa da dire sulle caratteristichetemporali dell'imperfetto. Esiste nell'italiano parlato un uso molto frequente dell'imperfetto che potrebbe mettere in crisi tutto quanto ab­biamo detto fin qui.

(5) Maria mi ha detto che partiva la serastessa per la SpagnaMi avvertirono che Maria si sposava ilgiorno dopoNon avevo capito che Maria veniva oggi

In casi come questi l'imperfetto occupa il po­sto del condizionale passato (. .. mi ha detto che sarebbe partita, mi riferirono che Maria si sa­rebbe sposata, non avevo capito che Maria sa­rebbe venuta) ed esprime un tempo futuro ri­spetto al tempo nel quale si colloca l'evento espresso dalla frase principale. Quindi una pos­sibile rappresentazione della situazione tem­porale delle frasi in (5) potrebbe essere:

--------•➔TEMPO MA' ha detto

MN ME partiva

avvertirono si sposava avevo capito veniva

dove, lo ricordiamo, la retta orizzontale indica il fluire del tempo; ME indica il momento dell'e­nunciazione, cioè il momento in cui il parlante

formula linguisticamente il suo pensiero; MA1 e MA2 sono i due diversi momenti, entrambi pas­sati rispetto a ME, in cui si collocano i due av­venimenti di cui si parla in ciascuna sequenza.

La cosa forse più interessante di quest'uso è che esso può mettere in crisi addirittura la ca­ratteristica dell'imperfetto come tempo del pas­sato. Una frase come:

(6) Maria ieri mi ha detto che oggi alle quat-tro andava dal parrucchiere

può essere pronunciata prima delle quattro, ora in cui Maria andrà dal parrucchiere, e quin­di avremmo un caso in cui l'imperfetto descrive un'azione futura rispetto al ME. E infatti una possibile rappresentazione di (6) in questo caso sarebbe:

----•----➔ TEMPO MA1

ha detto ME MN

andava

In questo modo salta proprio quella che ave­vamo detto essere la caratteristica prima e più importante dell'imperfetto quale tempo del pas­sato. Certo, l'evento diciamo così principale de­ve in questi casi essere espresso da una ri­stretta categoria di verbi, un verbo di 'parola' (mi ha detto, mi avvertirono) o di 'pensiero' (non avevo capito), e quindi si tratta in defini­tiva di casi abbastanza marginali. Ma, possiamo ignorarli? Tanto più che esistono anche altri usi dell'imperfetto come tempo futuro.

(7) (Bambini che giocano) Tu eri un ladro emi rubavi la bicicletta, ma io ti vedevo emi mettevo a gridare

(8) - Vieni al cinema stasera?-Ma, veramente andavo fuori a cenaiDomani c'era una mezza idea di andare asentire PavarottiL'estate prossima volevo andare in Sar­degna

In tutti questi casi l'imperfetto descrive degli eventi che nel ME non si sono ancora verifica­ti. Quindi le voci all'imperfetto sono sul piano temporale dei futuri, ma con sfumature di sen­so diverse, tanto è vero che la prova della so­stituzione dell'impefetto con altri tempi dà in ciascun caso esiti diversi.

305

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w

306

[ ESPERIMENTI GRAMMATICALI ]9

Abbiamo già visto che nei casi esemplificati da (5) e (6) l'imperfetto 'occupa' il posto di un condizionale passato. Non così in (7), dove l'im­perfetto usato dai bambini serve a stipulare un patto, a fissare ruoli e modalità di gioco, e de­scrive sequenze di gioco, personaggi ed eventi immaginari che dovranno essere 'simulati' su­bito dopo, in un futuro imminente. È un im­perfetto quindi che, sul piano temporale, corri­sponderebbe a un futuro, e potrebbe in teoria (ma attenzione, solo in teoria, perché i bambini non lo fanno mai) essere sostituito dal futuro semplice:

Tu sarai un ladro e mi ruberai la bicicletta, ma io ti vedrò e mi metterò a gridare

Anche gli esempi in (8) sono dei futuri, se non proprio imminenti certo prossimi al ME; so­no però anche dei futuri attenuati, non peren­tori, cortesi, in qualche caso lievemente dubi­tativi, e potremmo infatti sostituirli con dei condizionali presenti:

Vieni al cinema stasera? - Ma, veramente andrei fuori a cena! Domani ci sarebbe una mezza idea di andare a sentire Pavarotti L'estate prossima vorrei andare in Sardegna

Il che dire, infine, di questi altri casi?:

(10) (Dal salumiere) Volevo un etto diprosciutto - Come mai sei qui?- Venivo per parlare con te

Questi imperfetti sono temporalmente dei presenti, e la loro rappresentazione sull'asse del tempo potrebbe essere questa:

----•-------TEMPO ME MA volevo, venivo

Tuttavia il confronto con le stesse sequenze trasportate al presente (Voglio un etto di pro­sciutto; Come mai sei qui? Vengo per parlare con te) ci dice che in questi usi l'imperfetto è più cortese, più sfumato del presente, quasi che il parlante dicesse: «voglio un etto di prosciutto» o «vengo per parlare con te sempre che ciò sia possibile».

Tiriamo le somme. Alla fine di questo nostro percorso di scoperta delle proprietà temporali dell'imperfetto dovreino forse concludere che èvero, l'imperfetto è soprattutto un tempo usato per descrivere eventi passati. Ma in parecchi casi, per lo più limitati a contesti informali e col­loquiali, l'imperfetto viene usato anche per esprimere eventi presenti ed eventi futuri. Al punto che anche gli 'autori', ne fanno uso, specie quando vogliono simulare il parlato:

«Ma non so ... dice che veniva qui con un si­gnore» (Calvino) «Be' parla allora - Prima di tutto volevo dir­ti che vado a stabilirmi a San Donato» (Cas­sola) Leone sorprende l'amico Guido in casa di sua moglie «[Guido]: Oh, Leone ... Ero qua, a bere un bicchierino di 'Chartreuse'» (Pirandello)1

Il Gli esempi letterari sono citati da L. Serianni con la

collaborazione di A. Castelvecchi, Grammatica italiana.

Italiano comune e lingua letteraria, Utet, Torino 1989, p.

470.

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LI

I T A LIANO FUORI D'ITALIA

Ma chi ha inventato il congiuntivo?

,

PREMESSA

n questi ultimi anni gli stu­di sull'acquisizione dell'ita­liano L2 sono cresciuti no­tevolmente, sia in termini quantitativi, sia per le aree linguistiche analizzate.

Questi studi si sono sof­fermati per lo più sul pro­cesso di apprendimento1

delle strutture morfosin­tattiche, dell'area tempora-

le, della modalità o della formazione di parola (si vedano, ad esempio, Giacalone Ramat 1988, e Bernini e Giacalone Ramat 1990), così come vengono rilevati nelle produzioni orali - e più raramente scritte - degli apprendenti l'italiano in contesto spontaneo (come gli immigrati) o scolastico.

Esiste però un filone di ricerca che, per quel che mi risulta, non è ancora ben rappresentato nel campo dell'italiano L2. Si tratta di quegli studi che prendono in considerazione il proces­so di apprendir�ento non tanto dal punto di vi-

sta del sistema linguistico (o «interlingua») che si costruisce gradualmente, quanto «dalla par­te dell'apprendente», studiandone variabili af­fettive quali la motivazione o gli atteggiamenti linguistici. E' il campo di studi definito da Lar­sen-Feeman e Long (1991:37) «interpretazio­ne focalizzata» (focused introspection) cui è l'ap­prendente stesso a registrare (e analizzare) i momenti e gli aspetti più salienti del proprio processo di apprendimento. In genere questi lavori si occupano di apprendenti che studiano la lingua in contesto guidato, e l'assenza nel campo dell'italiano è forse da attribuirsi al fat­to che l'attenzione in Italia si è finora rivolta principalmente all'apprendimento spontaneo degli immigrati.

Lo studio che presentiamo rientra per certi aspetti nell'ambito della «introspezione», in quanto agli studenti viene chiesto di riflettere sul proprio processo di apprendimento. Tuttavia si differenzia da studi precedenti poiché la no­stra attenzione è rivolta soprattutto a quelle aree della L2 con cui gli studenti hanno mag­giori difficoltà, mentre gli atteggiamenti nei confronti della lingua, dell'apprendimento o anche del tipo di insegnamento emergono indi­rettamente attraverso la riflessione sulle aree più specificamente linguistiche.

ANTONIA RUBINO

Percezioni linguisti­

che di chi studia l'i­

taliano all'estero

ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), pp. 307-312

307

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----

308

L'ITALIANO FUORI D'I

2

LO STUDIO

Lo studio è stato condotto con un gruppo di studenti di italiano a livello avanzato, che fre­quenta il terzo anno del corso di laurea nel Di­partimento di Italiano dell'Università di Sydney in Australia.

La ricerca si proponeva di dare una rispo­sta alle seguenti domande:

(1) Quali sono le aree di studio dell'italianoche risultano di maggiore difficoltà per studen­ti a livello avanzato?

(2) Le aree che gli studenti considerano par­ticolarmente difficili sono anche quelle che ri­sultano di difficile acquisizione dalle ricerche?

(3) Le aree linguistiche che gli studenti diorigine italiana considerano difficili sono le stesse degli studenti di origine anglo-celtica o di altro background linguistico?

Abbiamo deciso di scegliere studenti a livello avanzato poiché, avendo già studiato la lingua per almeno tre anni (in realtà diversi studenti l'hanno studiata anche al liceo), si pensava fos­sero in grado di analizzare le loro difficoltà lin­guistiche con maggiore acume dei principianti. Inoltre alcuni studenti avevano frequentato un corso semestrale di glottodidattica in cui ave­vamo discusso alcuni studi sull'acquisizione dell'italiano e i problemi incontrati dagli stu­denti stessi.

Agli studenti è stato chiesto di scrivere un componimento, in inglese o in italiano, dal se­guente titolo: «Identificate alcune aree della lingua italiana che avete padroneggiato con difficoltà o che ancora non padroneggiate. Pre­sentate le vostre difficoltà tramite esempi trat­ti dai vostri compiti o dalle vostre produzioni orali, e provate a darne una spiegazione».

E' da notare che si è usato il termine aree poi­ché non si voleva indirizzare gli studenti verso un particolare livello linguistico. Inoltre si è cer­cato di ampliare la prospettiva facendo riferi­mento sia allo scritto che all'orale. Bisogna dire che per molti studenti questa è stata la prima volta che riflettevano sui propri lati deboli in modo esplicito, mettendoli per iscritto e con­fessandoli, per così dire, ad altri. Il testo è sta-

TAL I A

to distribuito a 50 studenti e hanno consegnato il compito in 37.

I compiti sono stati analizzati tenendo conto dei seguenti fattori: (a) background linguistico dello studente; (b) aree linguistiche identificate; (e) spiegazioni delle difficoltà; (d) altre osser­vazioni, ad esempio, a proposito del processodi apprendimento, di strategie personali messein atto, e così via. Per quanto riguarda il back­ground linguistico, peraltro abbastanza rap­presentativo della composizione tecnica deglistudenti del terzo anno nel nostro Dipartimen­to, il campione era così ripartito:

origine anglo-celtica origine italiana altra origine* totale

14 16 7

37

(38%)

(43%)

(19%)

(100%)

* Studenti con le seguenti Ll: greco, maltese,croato, tedesco e francese.

Tab. 1: Background linguistico degli studenti

Inoltre nel nostro campione sono presenti 33 ragazze (89%) e 4 ragazzi (11 %), una distribu­zione anche questa rappresentativa della norma dipartimentale.

3

L'ANALISI DEI DATI

La tabella 2 presenta in ordine di frequenza le aree linguistiche identificate dagli studenti come aree dell'italiano non ancora padroneggiate.

Origine degli Tot. studenti

37 Uso dei tempi 20 Congiuntivo 18 Preposizioni 16 Pronomi 8

Sceltaausiliari 5

Conc. nominale 5

Art. definito 3 Si impersonale 2

anglo-celtici 14 11 6 7 4

2 2 1 2

italiani altri

16 7 6 3 9 3 6 3 4

3 3 1 1

Tab. 2: Aree linguistiche di maggiore difficoltà

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I T A

Alcuni chiarimenti a proposito della tabella e delle categorie usate. Per prima cosa è da notare che si sono incluse solamente quelle aree men­zionate da almeno due studenti. Sono così rima­ste escluse le seguenti aree citate da uno stu­dente soltanto: la costruzione causativa, la posi­zione degli avverbi, il passato remoto, il gerundio, l'ortografia e la produzione orale. In secondo luo­go, la categoria «uso dei tempi» si riferisce in pratica alla consecutio temporum, indicata da­gli studenti con diverse etichette: uso dei tempi, il periodo ipotetico, il futuro nel passato e il di­scorso indiretto. E' da notare però che, poiché il congiuntivo viene sempre menzionato a parte, anch'io l'ho tenuto separato.

La prima osservazione da fare a proposito dei risultati è che, sebbene nella domanda si parlasse di «aree dell'italiano», in realtà gli stu­denti hanno nominato quasi esclusivamente il livello morfosintattico della lingua.

Come abbiamo visto prima, sono stati pochis­simi quelli che hanno accennato ad altri livelli lin­guistici.

Questa attenzione alla morfosintassi potrebbe essere il risultato del tipo di insegnamento e del curricolo del Dipartimento. Nel programma del terzo anno si dà infatti ampio spazio ad argo­menti grammaticali. Ma è anche da notare che non si trascurano affatto altre aree specifiche, quali il lessico, o abilità più generali, quali la lettura, che invece non vengono citate quasi per niente dagli studenti. Inoltre, alle due lezioni settimanali di insegnamento grammaticale, si aggiunge una lezione specificamente dedicata all'orale, in cui si discutono e commentano testi di vario genere, si guardano dei video o si fanno attività di drammatizzazione. Gli studenti sono quindi abituati a soffermarsi su livelli diversi della lingua e sono esposti a una varietà di ap­procci didattici. Ci sembra perciò che le risposte solo in parte possano essere spiegate con il cur­ricolo, mentre tradiscono invece le percezioni de­gli studenti a proposito della L2 e del proprio apprendimento linguistico.

L'elemento che trapela dalla maggioranza dei componimenti è infatti una grande esigenza di ri­flessione grammaticale, di capire come funzioni il sistema di regole sottostante alla lingua. Ne è

LIANO FUORI D'ITALIA

prova il richiamo costante alle regole, che ovvia­mente costituisce per questi studenti un impor­tante punto di riferimento (si veda anche più sotto).

La seconda osservazione concerne più specifi­camente le strutture che vengono nominate. Co­me si vede, per tutti e tre i gruppi l'area verbale è considerata di gran lunga la più difficoltosa, se­guita dall'uso delle preposizioni (in particolare do­po certi verbi).

Per quanto riguarda l'uso dei tempi, non c'è da stupirsi. E' noto che si tratta di un'area di gran­de complessità, in cui bisogna tenere conto di diversi fattori, quali la semantica del verbo, l'aspettualità di elementi quali gli avverbiali, la deitticità e l'anaforcità dei tempi verbali o la di­versità delle frasi subordinate (Cfr. Bertinetto 1991). Considerazioni di carattere semantico e sintattico, che non si prestano certo a riduzioni schematiche a uso didattico, rendono l'area estre­mamente complessa.

Per quanto concerne poi il congiuntivo, è chia­ro dagli elaborati che questo rappresenta una vera e propria bete noire (il titolo di questo articolo è una citazione tratta da uno dei compiti); ciò è sottolineato anche dal fatto che, come ho già det­to, viene sempre nominato a parte. Anche in que­sto non si può dar torto agli studenti. E' pur vero che si tratta di un mezzo che «arricchisce la lin­gua di sfumature soggettive ed estimative altri­menti male esprimibili» (Nencioni 1987: 179), ma sono proprio la dimensione soggettiva e la complessa casistica che lo rendono «sfuggente» agli studenti. Non è un caso che tanto l'uso dei tempi quanto il congiuntivo siano anche le aree dell'italiano che stanno subendo o che hanno subìto profonde ristrutturazioni - e in direzione di una semplificazione - non solo in alcune va­rietà diastratiche dell'italiano, come l'italiano popolare, ma anche in varietà diafasiche, come l'italiano parlato colloquiale (cfr. Berruto 1987: 70-73; Bozzone Costa 1991).

A proposito delle preposizioni, invece, le con­siderazioni da fare sono di altro genere. Da una parte è innegabile che anch'esse siano un'area complessa, poiché «una stessa preposizione può esprimere, a seconda del contesto e del tipo di co­struzione sintattica, relazioni del tutto diverse»

309

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r--

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L'ITALIANO FUORI D'I

(Seriarmi 1988: 280). Anche Rizzi (1988:511) ri­conosce che è difficile indicare un nucleo di si­

gnificato costante per le preposizioni monosilla­

biche quali a, con, da, ecc. Come l'area verbale,

quindi, anche le preposizioni rappresentano un'area di «estensione» e «sostituzione» nell'ita­liano popolare (Berruto 1983: 50). Dall'altra, però, sorprende che gli studenti si preoccupino tanto delle preposizioni, e cioè di elementi strutturali che spesso giocano un ruolo marginale rispetto ad altre aree linguistiche, in particolare dal punto di

vista della comunicazione. Si veda ad esempio quel che dice la studentessa in (1).

(1) «Non posso ricordare ne quali preposizioni diusare ne se la costruzione è una che è con osenza gli articoli. Per esempio: "Non ho fa­miliarità con il sistema di Australia oggi"».2

Inoltre sembra che gli studenti non si rendano conto che la difficoltà è dovuta anche al fatto che si tratta di elementi poco sistematizzabili, dove è possibile identificare solo alcune tendenze generali nell'uso sulla base della semantica del verbo che precede (cfr. Vincent 1988: 306-307).

Una terza osservazione sui dati è che tutti e tre i gruppi di studenti selezionano le stesse aree di

maggiore difficoltà. Da ciò possiamo desumere che, almeno al livello avanzato, è la complessità

della lingua di arrivo a prevalere sui diversi back­ground. All'interno della stessa area, però, pos­sono esservi alcune differenze: ad esempio, men­tre lo studente anglofono ha problemi soprattut­to con l'uso dell'articolo, lo studente italiano ha

problemi con gli allomorfi di il. Infine stupisce la scarsa menzione di alcune

aree che sono state considerate di grande com­

plessità e di difficile acquisizione, come l'area pronominale (cfr. Simone 1983). Tale assenza

può essere forse spiegata con il fatto che nell'area

pronominale è possibile mettere in atto strategie

di evitamento e ricorrere ad esempio alla ripeti­

zione del sintagma nominale. Inoltre si tratta di un'area che viene evidenziata maggiormente nel­le produzioni orali, mentre gli studenti hanno

preso in considerazione soprattutto le loro pro­duzioni scritte.

Passando adesso al secondo punto dell'analisi,

TAL I A

in che modo vengono spiegate le difficoltà lin­guistiche? La prima cosa da dire è che troviamo li­

velli molto disparati di spiegazione, da poche ri­

ghe in cui tutti i problemi vengono attribuiti

all'inglese, a discussioni articolate e documenta­te, specialmente da parte di quegli studenti che hanno frequentato corsi di linguistica o di glot­

todidattica. La spiegazione più frequente è di ti­

po contrastivo, per cui le difficoltà sono spiegate in termini di differenze tra la propria Ll e l'italiano,

come in (2):

(2) «Pronomi diretti I indiretti: la distinzionenon è sempre molto chiara in inglese ( ... ) e ilsignificato dei verbi inglesi non corrisponde

esattamente al significato di quegli italiani.»

Gli studenti italo-australiani come fonte di er­rori spesso citano il dialetto dei genitori o la fos­silizzazione di certe abitudini linguistiche nell'am­biente domestico.

Un secondo tipo di spiegazione si riferisce alla L2. Gli studenti linguisticamente più 'raffinati' ci­tano alcune caratteristiche del sistema dell'Ita­liano, quali la polisemia dei verbi, la comples­sità delle flessione italiana, la mancanza di indi­catori e la scarsa chiarezza nei confini tra i tem­

pi verbali. Viene citata anche la bassa frequenza della struttura. Così conclude ad esempio una

studentessa, dopo aver discusso tempi verbali e

clitici: (3) «( ... ) the fundamental difficulties with both

verbs and pronouns is their intrinsic complexity.

This combines negatively with the fact that their usage has hazy boundaries, the important parts of the constructions are often unstressed, and they

are both so different to their English counter­

parts . »

Alcuni studenti attribuiscono invece le difficoltà

al modo in cui l'italiano viene insegnato, in par­

ticolare all'ordine di presentazione delle strut­ture: ad esempio, aver presentato tardi il con­giuntivo avrebbe causato una fossilizzazione di

abitudini linguistiche 'errate'. Secondo altri, i problemi dipendono dalla mancanza di spiega­

zioni chiare fin dall'inizio della presentazione

della struttura; gli studenti anglofoni in partico­lare si lamentano del fatto che le spiegazioni sia-

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LI

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no avvenute in italiano, rendendo così difficile una piena comprensione.

Infine, l'ultimo tipo di spiegazione è quella 'personale'. In pratica, per un certo numero di stu­denti le difficoltà sono dovute alla loro disatten­zione o pigrizia, alla ignoranza delle regole o a strategie di evitamento, com'è affermato in (4):

(4) « ... mi sono confusa soprattutto con il con­giuntivo. Prima di quest'anno non l'ho maistudiato a lungo e non l'ho mai capito. Hosempre cercato di evitarlo. Quest'anno, no­nostante avendolo studiato in classe, non loso usare senza creare delle traume psicolo­giche .per me (e gli altri) e di conseguenzacontinuo ad evitarlo quando possibile».

Un elemento che colpisce nei componimenti di tutti e tre i gruppi di studenti è il riferimento costante alle regole, come detto prima. Molti ten­gono a sottolineare la loro conoscenza delle regole, che citano nel componimento per dimostrare co­me, ciò nonostante, non riescano ancora ad ap­plicarle. Le regole appaiono quindi rassicuranti, in quanto punto di riferimento importante, ma anche frustranti in quanto non si riesce ad ap­plicarle sebbene le si conosca.

4

CONCLUSIONE

Che tipo di riflessioni possiamo fare a proposito delle percezioni linguistiche di questi studenti? Si ha l'impressione che la maggior parte degli stu­denti concepiscano l'apprendimento in termini comportamentisti, come stimolo-risposta. E' si­gnificativo a questo riguardo che, come detto pri­ma, diversi di loro continuino ad asserire quasi con sgomento che, sebbene sappiano le regole, non riescono ad applicarle! Inoltre, nel proporre stra­tegie per migliorare la propria conoscenza della lin­

gua, una studentessa propone «practice,practice, practice», un motto che ci ricorda l'esercitazione «a martellamento» propugnata dagli strutturalisti negli anni '50 e '60, un'altra suggerisce di studia­re meglio le regole o di cercare più spiegazioni. Manca quindi la consapevolezza che l'apprendi-

LIANO FUORI D'ITALIA

mento è un processo graduale, di interiorizzazione del sistema linguistico in tutti i suoi aspetti.

Ci sembra questo il risultato di un tipo di in­segnamento dove la lingua viene presentata come sistema «finito», da apprendere pezzo per pezzo finché la si è conquistata tutta e perfettamente. Ciò ha risvolti positivi e negativi insieme. Positivi, perché l'applicazione corretta della regola e l'eser­cizio eseguito senza errori danno un «sense of achievement», come afferma una studentessa stessa. Negativi, perché la ripetizione degli stes­si errori, le aree linguistiche che non si riescono a padroneggiare nonostante gli innumerevoli eser­cizi, sono vissute in modo sofferto, come qualcosa che continua a sfuggire invece che come qualcosa che ha i suoi tempi di maturazione e la cui diffi­coltà può anche dipendere da elementi «intrinsi­ci» al sistema. Con la conseguenza che si svilup­pano negli studenti sensi di colpa, ansie e scarsa fiducia in se stessi; tutti fattori che, com'è noto, non favoriscono l'apprendimento.

Questo ci induce a fare alcune considerazioni a proposito del curricolo.

Sebbene si debba spesso per necessità e con­venienza, adottare un sillabo di tipo lineare, è im­portante che gli studenti capiscano che il pro­cesso di apprendimento segue un iter diverso. Pur senza sminuire il valore dell'esercitazione scritta, guidata, in cui si ha il tempo e la possi­bilità di applicare con successo la regola anche nel caso di strutture complesse, è necessario far ca­pire che il vero apprendimento è molto più com­plesso e che ha tempi più lunghi.

Sarebbe essenziale quindi inserire nel curricolo universitario degli elementi di riflessione esplicita sul processo di apprendimento, o come corsi spe­cifici dedicati all'acquisizione della L2 o anche semplicemente come parte dell'insegnamento linguistico. Questo ci sembra particolarmente importante nel caso in cui gli studenti procedano nell'insegnamento, poiché nozioni sull'acquisi­zione dovrebbero oggi far parte della formazione di base di ogni insegnante di lingua. Ma, anche a prescindere dallo sbocco professionale, tale ri­flessione può essere uno strumento utile per ca­pire meglio la natura delle proprie difficoltà lin­guistiche e per poter sviluppare nuove strategie per affrontarle.

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312

TAL I A

B I B L I O G R A F I A

G. Bernini e A. Giacalone Ramat (a c. di), Latemporalità nell'acquisizione di lingue se­conde, Franco Angeli, Milano 1990.

G. Berruto, L'italiano popolare e la semplifica­zione linguistica, «Vox Romanica», 42 (1983),pp. 38-79.

G. Berruto, Sociolinguistica dell'italiano con­temporaneo, La Nuova Italia Scientifica, Ro­

ma 1987.P.M. Bertinetto, Il verbo, in L. Renzi e G. Salvi

(a c. di) Grande grammatica di consultazione,il Mulino, Bologna 1991, pp. 13-161.

R. Bozzone Costa, Tratti substandard nel par­lato colloquiale, in C. Lavinio e A.A. Sobrero

(a c. di) La lingua degli studenti universitari,La Nuova Italia, Firenze 1991, pp. 123-163.

A. Giacalone Ramat (a c. di), L'Italiano tra le al­tre lingue: strategie di acquizione, il Mulino,Bologna 1988.

D. Larsen-Freeman e M. H. Long. An Intro­duction to Second Language Acquisition Re­search, Longman, Londra 1991.

G. Nencioni, E' antica, ma funziona, «Italiano eoltre», 2 (1987), pp. 162-181. ·

L. Rizzi, Il sintagma preposizionale, in L. Renzi (ac. di), Grande grammatica italiana di consulta­zione, il Mulino, Bologna 1988, pp. 507-531.

L. Serianni (con la collaborazione di A. Castel­vecchi), Grammatica italiana, UTET, Torino1988.

R. Simone, Punti di attacco dei clitici in ita­liano, in F. Albano Leoni et al. (a c. di), Italialinguistica: idee storia struttura, il Mulino,

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c. di), The Romance Languages, Croom Helm,Londra 1988, pp. 279-313.

Il I due termini "acquisizione" e "apprendimento" sono quiusati in modo intercambiabile, senza tener conto della di­stinzione postulata, ad esempio, da Krashen.

El Le citazioni degli elaborati vengono riportate senz'al­cuna correzione.

Il Ne è prova il Convegno della Società di LinguisticaItaliana tenutosi a Siena nel settembre 1992, dedicato ap­punto all'italiano L2.

Stefania Nuccorini

LA PAROLA CHE NON SO

Dizionari: contenuti, tipologia, caratteristiche. L'uso del dizionario nella didattica dell'inglese, del francese, del te­desco, dello spagnolo e dell'italiano come lingua madre.

Lire 29.000

Marisa Ceragioli

LA PROGRAMMAZIONE DIDATTICA

NELL'INSEGNAMENTO DELLA

LINGUA STRANIERA

In che modo la programmazione, la stesura degli obiet­tivi, la descrizione delle competenze linguistico-comuni­cative hanno inciso sui comportamenti didattici e rela­zionali dei docenti di lingua straniera?

Lire 20.000

Tzvetan Todorov

I GENERI DEL DISCORSO

a cura di Margherita Botto

La definizione di discorso, il superamento della distin­zione fra letterario e non letterario, il concetto di genere.

Lire 33.000

Hermann W. Haller

UNA LINGUA PERDUTA

E RITROVATA L'italiano degli italo-americani

Cosa accade a una lingua come la nostra quando l'emi­grazione la porta in altri mondi e le impone dinamiche di sviluppo e di conservazione assolutamente. particolari?

Lire 26.000

Cristina Bragaglia

IL PIACERE DEL RACCONTO

Narrativa italiana e cinema (1895-1990)

Una singolare storia del cinema, osservata e narrata at­traverso l'ottica inedita della letteratura.

Lire 35.000

La Nuova Italia

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Usi barbari - «Io ringrazio quei barbari ... » il titolo del­l'articolo di Giorgio Bocca sul­la Repubblica (8.6.93) ha inaugurato l'uso giornalistico del termine barbari per indi­care, con tono marcatainente polemico, la formazione poli­tica denominata Lega Nord; l'uso è stato ripreso, come si vede dagli esempi che seguo­no: «i mezzi riformisti e i bar­bari di Bossi» (Re. 11.6.93), «i barbari e gli snob» (A. Arba­sino su Re.13.6.93), «i nuovi barbari della Lega» (St. 15.6.92), «quei barbari della Lega» (Re.19.6.93), «quando Bossi si mette a parlare ai suoi "barbari"» (Es. 10.10.93).

«Barbaro» è stato definito dall'Osservatore Romano il teorico della suddetta forma­zione ( «il commento del sena­tore leghista Miglio ... E' il commento di un barbaro» 22.7.93), e L'anno dei barbari è il titolo nel recente libro di Giampaolo Pansa, in gran parte dedicato all'«incognita leghista» (Re. 26.9.93).

Barbaro, derivante dal la­tino barbarus, a sua volta dal greco barbaros «che parla in modo incomprensibile, che balbetta la lingua greca, quin­di straniero», per i Greci e poi per i Romani era chiunque non fosse greco o romano ( «Barbari dicebantur anti­quitus omnes gentes exceptis Graecis», scrive il grammatico latino P. Festo nel 2° sec. d.C.). Barbari nel medioevofurono denominati «i popoliche dal settentrione si river­sarono sull'Italia e l'Europacivile» (Tommaseo), cioè, se­condo la narrazione dell'uma­nista quattrocentesco Cri­stoforo Landino; «le genti bar­bare e strane, le quali vengo­no delle parti settentrionali, le

Parole

Corso

Colpo su colpo

Ma il colpo di spu­gna che ogni tanto viene minacciato o invocato allo scopo di sistemare i danni causati dai ripetuti e riprovevoli colpi di mano, dai dissen.:.

nati e rovinosi col­pi di vita, dagli im­provvisi e inspiega­bili colpi di fortuna, oltre che di preve­nire indesiderati colpi di coda, non rischierà di dimo­strarsi per taluni versi un colpo di forza e in un certo senso un colpo di grazia?

RITORNI

FOSCHI

quali Elice, id est, l'Orsa mag-giore chiamata trainontana, copre ogni giorno col suo fi-glio, id est, l'Orsa minore»; i comportamenti delle quali genti furono tali da far acqui-sire al termine l'uso estensivo di «incivile, rozzo, incolto e si-mili», come attesta, con un espressivo esempio al femmi- 313

nile. Leon Battista Alberti nel trattato Della famiglia: «una [donna] barbara, scialacquata, uncta e briaca potrà nelle fat-tezze essere formosa, ma sarà mai chi la stimi bella mo-glie»; l'ulteriore uso estensi-vo di «crudele, inumano» è do­cumentato da Benedetto V ar-chi, fiorentino, che ne L'Er­colano, dialogo nel quale si ragiona della lingua (post. 1570) prende in considerazio-ne, con rara capacità di sinte-si, l'intera gainma semantica della parola: «Barbaro ... si­gnifica più cose: quando si ri­ferisce all'animo, un uomo barbaro vuol dire un uomo crudele, un uomo bestiale, e di costumi efferati. Quando si riferisce alla diversità e lon­tananza delle regioni, barbaro si chiaina chiunque non è del tuo paese: ed è quasi quel me­desimo che strano, o stranie-ro. Ma quando si riferisce al favellare ... barbaro si dice di tutti coloro i quali non favel-lano correttamente, non os­servano ... gli ammaestra-menti de' Grammatici». Ma forse qui può essere interes-sante notare l'uso spagnolo, soprattutto parlato, della pa-rola barbaro. In Argentina e in altri paesi dell'America del Sud significa «stupendo, me­raviglioso, fenomenale». Qué barbaro! vale «Che fenome-no!». Che il significato spa-gnolo abbia influenzato Boc-ca?

ITALIANO E OLTRE, VIII (1993), p. 313

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314

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• •

B I B

L'INTELLIGENZA

DELLA RETORICA

GIOVANNI BOTTIROLI

Retorica. L'intelligenza figurale nell'arte e nella filosofia

BOLLATI BORINGHIERI, Torino 1993,

pp. 340, L. 38.000

Dario Corno

l!I a retorica, come Giano, ci of­fre due sguardi. Il primo punta al continente lin­

guaggio e ne svela la mappa, indi­cando percorsi, province, regioni. A questo filone appartiene una tradi­zione secolare che ha resistito al cambio delle mode e ci consegna un sapere - ristretto o allargato che sia - ricco di una straordinaria capa­cità classificatoria (come è ben di­mostrato dal recente e prezioso Ma-

1iuale di retorica di Bice GaravelliMortara). Il secondo sguardo passainvece attraverso la lente del filo­sofo e, in questo caso, la retorica di­venta una corrente di pensiero chescruta il linguaggio per svelarnel'identità profonda così ben espressanell'arte di realizzazione verbale (let­teratura). E così mentre il primosguardo sembra dirci che la retoricaè soprattutto un modo di parlare e diargomentare, il secondo ci fa sapereche la retorica è soprattutto un mo­do di pensare. A questo secondo fi­lone appartiene il libro di GiovanniBottiroli (professore associato di sto­ria della critica all'Università di Mi­lano) che l'editore Bollati Boringhieri

L I o T

ha di recente edito. Si tratta di un te­sto molto ricco, denso, problematico che attraversa tutte le principali questioni legate alla retorica come principio di conoscenza e filosofia del linguaggio. Intanto (cap. 1) af­fronta il problema delle «province fi­gurali» ridisegnandone la mappa in­torno a quattro capoluoghi (sined­doche, metafora, metonimia, nega­zione/rovesciamento) ai quali corri­spondono altrettante operazioni di strategia discorsiva e cognitiva (in­clusione, intersezione, contiguità, rovesciamento). E poi, dopo aver ri­letto e criticato i principi della se­miotica strutturalista di Algirdas Julien Greimas (cap. 2), entra nella cittadella letteraria per discutere di personaggi (cap. 3), di denotazione e coerenza (cap. 4), dei regimi di senso nei percorsi di letteratura (cap. 5) e dell'antica inimicizia «testo lettera­rio/testo filosofico» (cap. 6). Infine, nei capitoli conclusivi, discute - come conseguenza naturale del tragitto -di «verità>, (cap. 7) e di stili semantici in filosofia (cap. 8). Detto così, il libro offre una quantità di centri di inte­resse davvero notevole e per questo sembrerebbe coinvolgere un lettore che si occupi per professione di filo­sofia o di critica letteraria. In realtà, pur ammesso che sia così, la pro­spettiva che lo pervade dimostra una sua limpida utilità anche per chi può avere a cuore i problemi dell'apprendimento e dell'educazione linguistica (secondo una tradizione della stessa retorica che risale, come è noto, al pensiero di Giambattista Vico). Il problema è: come sta il lin­guaggio? Cioè, in altri termini, come si presenta oggi il linguaggio dopo un secolo di dibattiti accesi e insi­stiti, di teorie e modelli così diversi, di grammatiche e semiotiche splen­didamente isolate nella loro accesa individualità? A queste - e a molte altre - domande il libro sembra voler dare una risposta secondo un per­corso ragionato che vale la pena di

• •

E e A

ridisegnare, sia pure nei limiti di un inquadramento necessariamente sintetico. Gran parte del Novecento è, e sarà probabilmente ricordata come, «un'epoca felice» per il lin­guaggio. È l'epoca in cui il linguaggio trascina il pensiero nelle proprie av­venture e si vede garantito dalle scienze umane e sociali un posto di assoluto privilegio e di forza egemo­ne. Quest'epoca felice ha il suo cul­mine tra la fine degli anni '50 e l'ini­zio degli anni '70. Sono gli anni in cui si assiste al trionfo della fonologia e, di conseguenza, della linguistica che regala i suoi paradigmi metodologi­ci alle scienze antropologiche (Clau­de Lévi-Strauss), per estendersi poi a tutte le scienze sociali fino a cele­brarsi nella nota affermazione di Jacques Lacan secondo cui «l'incon­scio è linguaggio». L'epoca felice del linguaggio è un'epoca di certezze: le cose hanno un'identità perché hanno un contrassegno che le certifica (le legittima). Possiamo chiamare que­st'epoca di centralità del linguaggio, «modernità». Nella modernità lo stratagemma della «riduzione al lin­guaggio» trova il suo supporto teori­co nello strutturalismo e nella se­miotica: è lì che il senso sembra dar­si con eleganza e semplicità; è lì che operano le «grandi narrazioni» della storia (Lyotard), compresa la nar­razione didattica della centralità della regola. Ma, come tutte le epo­che felici, anche quella della centra­lità del linguaggio ha fine, perché si affaccia un'alternativa che co­mincia a dubitare delle sue certezze e non solo delle sue narrazioni. Il paradigma alternativo si presenta per la verità in vesti dichiarata­mente modeste. Sono le vesti della rinuncia a ogni tipo di centralità 'globale': alla creatività linguistica si sostituisce il meccanismo della ci­tazione; alla grande narrazione, la piccola narrazione, meglio se perso­nale e privata; al 'Testo' come unità centrale di comunicazione lo zap-

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B I B • • • • • • • • • • • • • • •

ping del frammentismo; allo stile come principio di unificazione epo­cale la diffusione di più stili locali e marginali. Insomma il linguaggio sembra sempre di più frantumarsi in una serie di lingue, se non di dia­letti (idioletti?), via via più semplici e contestuali. Questa nuova epoca può essere chiamata «post-moder­nità» proprio per indicare il prosciu­gamento delle risorse di potere del linguaggio, compresa la rinuncia a una didattica sociale delle regole (so­stituite dagli «esempi»). È fra queste due tensioni che si muove lucida­mente il libro di Bottiroli, che cerca di coglierne il movimento della reto­rica, forse la più seria tra le candi­date a rappresentare queste svolte epocali. Non è la prima volta - nella sua storia millenaria - che alla re­torica tocca di dover accettare i ri­volgimenti della storia, così da ri­dursi, per lo più, al catalogo dell'elo­cutio. Contro questa tesi, che è con­temporaneamente una tesi di lettu­re semplificate, parziali e riduttive del pensiero testuale letterario, il li­bro avanza una prospettiva di sicuro interesse. Il problema non è tornare all'intelligenza figurale come depo­sitaria di sensi assolutizzati del pa­radigma teorico; e non è, ovviamen­te, nemmeno quello di cedere alle lusinghe della semplice contestua­lizzazione dichiarata delle letture. Il problema, come per la didattica, è quello di sviluppare una teoria del linguaggio che non sia né semplice «arte della persuasione» (persuasio­ne ad apprendere, ad esempio, via exempla), né una ridefinizione gram­maticale fine a se stessa delle figure, ma una visione strategica e cogniti­va della contrattualizzazione te­stuale che ogni forma di comunica­zione pone in essere. Insomma, a una logica del significato può su­bentrare una «teoria degli stili» in quanto uso del linguaggio. Di questa teoria, il libro di Bottiroli ha gettato le fondamenta.

LETTERA TURA TRA

LINGUA E DIALETTO

ALFREDO STUSSI

Lingua, dialetto e letteratura

EINAUDI, Torino 1993, pp. 260, L. 24.000

Maria Catricalà

A lfredo Stussi ripubblica novedei migliori saggi che ha scritto nell'arco di quest'ul­

timo ventennio, per occasioni e sedi diverse. Il primo testo della raccol­ta, quello che dà il titolo al libro, è anche il più noto: si tratta della limpida sintesi che l'autore pub­blicò nel volume su I caratteri ori­

ginari della Storia d'Italia Einaudi.

Vi si traccia un profilo sulle più si­gnificative vicende linguistico-let­terarie del nostro paese, mostrando come dall'originario stato di di­glossia e di interferenza della «scripta latina rustica» (p. 7) e dei più antichi documenti in volgare, si passò precocemente a uno stato di consapevole bilinguismo e all'«uso riflesso» dei dialetti, che secondo la tradizione crociana, invece, sa­rebbe stato proprio del Seicento ba­rocco. Nella poesia e nella prosa d'arte 'italiane', in realtà, le forme vernacolari furono impiegate fin dalle origini a scopo di mimesi in­tenzionale (come nel Contrasto di Cielo D'Alcamo) o «spontaneamen­te» (come nel caso di Francesco di Vannozzo) e poi per connotare ver-

• •

E e A • • • • • • ■ • • • • • • • •

si propri della tradizione comica (come per esempio le frottole, i gliommeri, i mariazi, ecc.) oppure per schernire personaggi più o me­no stereotipati di commedie, rime e novelle (come il villano pavano, il facchino bergamasco o il cafone di Napoli). Ovviamente, l'uso lettera­rio delle parlate locali divenne con­trappunto tanto più marcato, quan­to più obbligatorio e indiscutibile fu ritenuta l'adesione al modello monolinguistico dei petrarchisti e poi, dal Rinascimento in avanti, al­la rigida norma di stampo bembe­sco. Ma in realtà per Stussi, come già per Dionisotti e Contini, la pro­duzione letteraria dialettale e plu­riforme è tutt'uno con quella ita­liana, ne è una parte originaria­mente costitutiva e inscindibile.

Lo confermano oltre a questo primo bel saggio, che è una sorta di regata fra i tanti «robusti arcipe­laghi dei minori» che secondo Con­tini avrebbero «contornato» gli au­tori dialettali più noti (come Ruz­zante, Basile, Maggi, Goldoni, Bel­li e Porta), anche gli altri sei inter­venti successivi, in cui si analizzano più da vicino alcuni temi specifici. Si tratta in prospettiva sociolin­guistica della letteratura veneta (cap. Il) e si evidenziano i problemi storiografici e filologici posti da quella romagnola (cap. VII). Si ri­producono luoghi e paesaggi pro­pri della «filologia mercantile» e in particolare della «babele linguisti­ca» della ricca e viziosa Venezia che tra Due e Cinquecento ebbe tutti i «caratteri della città cosmo­polita» (cap. III). Si distinguono i «connotati» linguistici di un genere (la novella nel cap. IV) e si inizia il lettore ai misteri dell'idioletto di singoli autori, passando al vaglio l'«impasto linguistico» della prosa di Luigi Capuana (cap. V) e i versi del poeta Albino Pierro, già molto noto tra gli esperti (cap. VI). La sua «grammatica poetica» viene deco-

315

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316

• •

B I B L ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■

dificata attraverso un raffinato esa­me jakobsoniano delle «incornicia­ture» sintattiche e metriche della poesia Stanotte, scritta nel dialetto di Tursi (Matera) e costruita su una serie di «simmetrie speculari» e di latenti iterazioni frasali, lessi­cali e fonetiche.

Negli ultimi due saggi, invece, Stussi affronta questioni più gene­rali, dibattendo in termini teorici del complesso rapporto fra critica letteraria, filologia e linguistica. E visto che il bello di libri come questo è pure che non si deve rispettare ri­gorosamente l'ordine sequenziale e che si possono trovare molte chia­vi di accesso alternative, è proprio da quest'ultimo tema trattato da Stussi, che suggerirei di partire, invertendo la lettura dei saggi. In­fatti, grazie a queste riflessioni 'fi­nali' su metodologie e prospettive teoriche si può avere una chiara idea su quanto si è fatto e sulle strade che rimangono da percorre­re in questo apibito. Le stesse pa­gine permettono di misurare an­che l'esatta portata della «rivolu­zione metodologica» che negli ultimi decenni avrebbe coinvolto, secon­do Stussi, gli studi filologici e avreb­be offerto «un efficace antidoto» al loro «conservatorismo immanente» (p. 229).

E' ovvio, infine, che nella piena consapevolezza fti ciò che uno sto­rico della lingua come Stussi pensa oggi sulla genesi del «lircuito filo­logia-critica-linguistica» (p. 224) e sulle possibilità di coniugare profi­cuamente «stilistica spitzeriana» e scienze del linguaggio» (p. 247), si potrà cogliere pure tutta la moder­nità degli altri suoi saggi ricordati prima, che sono concreta proposta scientifica e continua verifica di un rapporto dinamico fra polimorfismo linguistico e caratteristiche strut­turali, fra variabili sociolinguisti­che e costanti diasistemiche, fra diacronia in sincronia e viceversa.

• •

I o T E e A ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■

PERCORSI

LESSICALI

SERENA AMBROSO E

GIOVANNA STEFANC/CH

Parole

BONACCI, Roma 1993,pp.149, L. s.i.p,

Emma Cavallini

Bernacchi

A livello di studi teorici, laconsiderazione del lessico come sistema, e cioè come

insieme coeso di elementi in cui il tutto e le parti sono reciproca­mente connessi e solidali, è ormai da tempo attestata. La semanti­ca strutturale - la cui data di na­scita può essere ricondotta al Cours di Saussure, e quindi alla seconda decade del secolo - è in­fatti venuta puntualizzando, via via, tutta una serie di rapporti se­mantici ben specifici (sinonimia, iponimia, autonimia, solidarietà, polisemia, omonimia) che intro­ducono, nel vastissimo mondo del­le parole, dei principi di regola­rità e d'ordine.

La scuola, e assieme alla scuola i testi di utilizzo scolastico, sono invece rimasti un po' in coda. L'at­tenzione rivolta al lessico è per lo più occasionale: sia per quanto ri­guarda i tempi che per quanto ri­guarda le modalità (o l'ottica) degli interventi. Non c'è quasi mai l'«ora di lessico» fissa, così come invece, da sempre, c'è !'«ora di grammati­ca». E l'ora di lessico occasionale e

frantumata è, spesso, insegna­mento sporadico di una nuova pa­rola, o chiarimento di un signifi­cato frainteso, o suggerimento di un sinonimo grazie a cui ovviare a una ripetizione, o di un termine più specifico con cui sostituire un termine troppo generico ...

Mancano l'attenzione al sot­tofondo teorico e la sistematicità de­gli esercizi giocati sulle parole, ben­ché la competenza lessicale sia, ac­canto a quella testuale, una delle poche competenze linguistiche pas­sibili di un potenziamento illimitato.

Parole, di Serena Ambroso e Giovanna Stefancich, può essere considerato un punto di partenza per colmare questa lacuna nella glottodidattica. E' infatti una pro­posta di percorsi lessicali siste­matici che, secondo l'intento di­chiarato dalle autrici, «si propone di guidare nei meandri abbastan­za inesplorati del lessico italiano». I percorsi in questione sono dieci, ed esauriscono, nel loro complesso, la considerazione dei fenomeni les­sicali più significativi. Le aree pre­se in esame sono, nell'ordine, le seguenti: 1. Antonimia (rapporti di opposizione fra le parole), 2. Si­nonimia (identità di significato in parole diverse), 3. intensità (i di­versi gradi di forza semantica), 4. Collocazione (i modi obbligati in cui le parole si associano), 5. Poli­semia (più significati in una stes­sa parola), 6. Inclusione (rapporti fra parole generiche e specifiche), 7. Connotazione (le parole possonoavere colorazioni emotive), 8. Me­tafora (il significato figurato che leparole possono assumere), 9. De­rivazione (il meccanismo che con­sente di formare parole da altre),10. Residui e prestiti (parole ere­ditate o importate da altre lingue).

Giova notare che i vari filoni sono completamente interdipen­denti così che l'approccio al siste­ma lessicale può prendere avvio

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• •

B I B L ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■

da uno qualunque di essi, e così

che l'esplorazione del lessico può

seguire un qualsivoglia percorso.

Per quanto riguarda la strut­

turazione interna, invece, ogni fi­

lone è scandito in un momento

teorico (un inquadramento felice­

mente sintetico e chiaro di un paio

di pagine) e in una quindicina di

esercizi, con grado di difficoltà vo­

lutamente non omogeneo e con

chiave autocorrettiva alla fine.

Quanto ai destinatari, vengono

ipotizzati dalle autrici «studenti

di italiano come L2 con compe­

tenze diversificate». La voluta non

omogeneità degli esercizi, infatti,

fa sì che alcuni di essi siano util­

mente proponibili anche a princi­

pianti, e che altri siano indirizza­

bili solo a soggetti con conoscenze

linguistiche più sviluppate.

Anche lo studente di Ll, peral­

tro, affiora come utente seconda-

I o T E e A ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■

rio: l'inquadramento teorico preli­

minare ad ogni settore di esercizi fa sì che questi siano utilizzabili

non solo per produrre un amplia­

mento qualitativo del lessico, ma

anche un suo arricchimento qua­

litativo. Mettere a punto, ad esem­

pio, che concentramento e concen­trazione da un lato, o che lacri­mevole e lacrimoso dall'altro, pur

avendo significati differenti, de­

rivano da una stessa radice, può non produrre incremento quanti­

tativo del lessico, se lo studente di Ll padroneggia già i vocaboli di

entrambe le coppie. Ma genererà

comunque un atteggiamento di

maggiore consapevolezza nei con­

fronti delle parole: le farà cogliere

come somma di «pezzi» variamen­

te smontabili e combinabili, sug­

gerendo una valida strategia in­

terpretativa da utilizzare nei con­

fronti delle parole «nuove», ma ri-

conducibili a «pezzi» già noti.

Ma ci sono - oltre allo studente

di L2 e di Ll - perlomeno altri

due tipi di utente che potranno

proficuamente far uso del testo:

l'insegnante e il generico parlante

italiano. L'insegnante potrà tro­

vare, nel testo, una serie di pun­

tualizzazioni teoriche sistema ti­

che e chiare nei confronti del les­

sico; e una serie di esercizi (o di

prototipi di esercizi) direttamente

proponibili in classe.

Il parlante italiano - utilizzan­

do le chiavi di soluzione finali -

potrà invece, a seconda dei casi,

percorrere un curricolo da auto­

didatta, o misurare il grado della

propria padronanza lessicale, o

anche semplicemente cimentarsi

con una serie di esercizi linguisti­

ci produttivi con cui, probabil­

mente, non ha mai avuto a che fa­

re sui banchi di scuola.

-------------------

Lettere al direttore

«IL CALDO STAGNO DEL RIFLUSSO»

La domanda di Raffaele Si­mone sul n. 3 I 1993 di «Italiano & Oltre» (pp. 141-144) - La lin­

guistica è da buttare? - e le os­servazioni che le tengono die­tro attivano la memoria: riac­cendono entusiasmi e delusio­ni. Tentando di dare ordine ad annotazioni sparse qua e là, vien fatto dire subito, prelimi­narmente, che - se la domanda

di Simone non fosse retorica e la risposta non fosse automati­ca - la risposta esplicita, isti­tuzionale, non potrebbe non es­sere: no. Certo non è il «lingui­stese» (tanto meno se «tribale»)

che può davvero incontrarsi con la scuola. Ma il «ponte» c'è, sus­siste oggettivamente, ed è «spe­ciale».

Quel che ancora non è chiaro è il modo di renderlo transita­bile (pena il continuare a tra­ghettare, a zig zag, dalla spon­da della linguistica alla sponda della scuola, e viceversa). Ep­pure il modo c'è. Ed è già stato indicato. Fin dalla «belle épo­

que» - nel cuore, cioè, degli an­ni Settanta. Lo aveva indicato, tra gli altri, Tullio De Mauro. Quando invitava la scuola ad un uso critico della linguisti­ca, tracciava - credo -, con for­za, un percorso preciso. Uso cri­tico della linguistica vuol dire,

prima di ogni altra cosa, tanta - tantissima - linguistica pergli insegnanti, ma poca - po­chissima - per gli alunni.

Il problema diventa allora quello di interrogarsi su quel che la linguistica ha da dare (o, meglio per spazzar via tutti gli equivoci, - da dire) alla scuola. Il percorso intrapreso ( dagli editori e dagli insegna­la ti, ma, anche, talvolta, dai linguisti) è stato, non di rado, opposto. Si è continuato a pro­porre grafi ad albero, o «for­mulette» di funzioni, a «incol­lare a freddo», a vecchi testi, «lastroni di linguistica». E, so­prattutto, a non porsi seri pro­blemi di continuità tra ordini

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diversi di scuola, o di omoge­neità di sistemi di riferimento tra lingua materna e lingua straniera.

L'altra strada, meno vistosa, senza scorciatoie, con effetti so­lo in tempi previdibilmente lun­ghi, è stata, per lo più, evitata come una lunga fatica, senza profitti immediatamente visibi­li.

Occorreva, al contrario, la pazienza di percorrere - senza riceverne, nell'immediato, stru­menti o ricette - tutti i gradini della scala offerta dalla lingui­stica. Con l'acquisita consape­volezza, magari, che almeno in un primo momento, la lingui­stica, a scuola, serva più a ri­muovere che a costruire, più a «falsificare» che a confermare: non di rado si tratta, infatti, anche di rimuovere - sulla lin­gua e sul linguaggio - convin­zioni quasi native, tanto profon­de quanto inverificate. Eppure, solo così si raggiunge una no­zione meno confusa di che co­

s'è una lingua, dei rapporti che intercorrono tra 'parlato' e 'scritto', dei rapporti che la lin­gua intrattiene con il dialetto, o di come si può identificare un «errore» linguistico, o, ancora, di come la grammatica sia dav­vero un «pannello di strumen­ti», e non altro.

La presa di coscienza della nozione scientificamente corret­ta di queste idee e di questa re­te di rapporti non saccheggia senza criterio il «magazzino» della linguistica (da questo punto di vista la linguistica non ha proprio niente da dare alla scuola), ma abilita al do­minio teorico e operativo insie­me, del veicolo stesso dell 'inse­gnare, al dominio dell'aspetto trasversalmente centrale del­l'insegnamento, e insieme evi-

ta - oltre al saccheggio - il di­sordine e i guasti che solita­mente l'accompagnano. Questo percorso include naturalmente altro. Include, per esempio, quel che Simone indica - nel mede­simo numero della rivista - in un altro intervento (pp. 132-33). Quanto può aiutare la lingui­stica a «diffondere modi di co­

municazione civili e sostenere argomentazioni articolate»: quanto ha da dirci, cioè, a par­tire dalle «regole semiotiche», sull '«articolazione del dicibile».

Ma parole molto precise su quel che la linguistica ha da dire alla scuola possiamo tor­nare a prenderle anche in un antico Libro di Simone: «il no­stro problema è quello di impa­rare bene la nostra lingua, di vedere com'è fatta e come fun­ziona, e soprattutto di capire come possiamo servircene». E' capitato sopra di usare - per questo percorso tracciato dal­l'uso critico della linguistica -l'immagine della scala: conti­nuando la metafora, si potrebbe dire che la linguistica, per la scuola, è un po' come la scaletta dell'aereo, senza la quale l'ac­cesso all'aereo - il transito - è impedito.

Senza la scaletta della lin­guistica un insegnante, un in­segnante, cioè, di qualsiasi di­sciplina, transita comunque nella scuola, ma passando so­pra, non attraverso, la scala, e saltando passaggi preziosi: sen­za la consapevolezza, cioè - e la relativa attrezzatura intel­lettuale e operativa - di quel che Simone indica, puntual­mente alle lettere (a) (b) (c) (d) del 2 ° paragrafo.

Quanto alle direzioni di ri­cerca, molto può venire alla scuola da quello che Simone chiama il «partito trasversale»,

• •

E e A ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■

il partito, cioè, della linguistica testuale. Il problema della scuo­la è sempre, in vario modo, pro­blema di «testi», e, in questo senso, - a scuola - la linguisti­ca è davvero a casa sua.

Resta la domanda sui «luo­ghi» dell'incontro: i luoghi dove la linguistica può «dire» alla scuola. Certo, l'università; for­se, gli IRRSAE; ma soprattutto, ancora una volta, la scuola, al­l'interno delle «attività didat­tiche» (nella accezione allarga­ta - ormai impostasi - che co­

n i uga insegnamento e pro­grammazione). Lì, nella pro­grammazione, quando un Col­legio elabora il proprio progetto educativo, occorre davvero in­tendersi su quelle «idee» e quel­la «rete di rapporti» di cui so­pra si diceva, pena la perdita di significato di tutto quel che si conviene. Su quel terreno, in quel luogo, nascono diretta­mente le domande da porre alla linguistica (come, del resto, ad altre scienze). E la linguistica può dare anche lì - sul campo -in vario modo e in varie forme, le sue risposte.

Quando, nella scuola media, un Consiglio di Classe affronta il «Quadro l» e il «Quadro 2» della nuova scheda di valuta­zione adottata, ormai, sull'inte­ro territorio nazionale - senza nulla dire, qui, del «Quadro 3» e del suo sistema di valutazione a cinque lett_ere - si trova da­vanti ai medesimi problemi (ci si aggiunge quello della continuità di riferimenti e di significati con la scuola elementare). In questo senso, la rilevazione delle risor­se e dei bisogni («Quadro l») non meno del progetto educativo e le articolazioni dell'intervento di­dattico («Quadro 2») costringono a intese concettuali, ancor prima che terminologiche: una neces-

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sità che porta nuovamente a porre alla linguistica (e alle al­tre scienze) domande significa­

tive. Il luogo privilegiato resta, in­

somma, quello diretto. L 'indi­

viduazione dei bisogni di for­mazione in servizio da parte dei singoli Collegi, preliminare alla definizione dei propri piani

annuali di aggiornamento crea

le condizioni per portare in pri­mo piano l'esigenza di porre domande corrette alla lingui­

stica. Il linguista che torni -

in altro modo e con diversa fun­zione - a scuola, nella singola

scuola, per rispondere alle do­mande specifiche che la singola

scuola ha incontrato nel suo

percorso, non solo può - con

qualche sasso ben mirato - im­pedire che lo stagno diventi pa­

lude, ma può davvero interve­

nire nel luogo fisico delle do­

mande «linguistiche» che un col­legio necessariamente si pone,

e trovare ad esse risposte oneste

- _di quell'onestà, s'intende, chechiamiamo intellettuale

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IL CORSO

DELLA GIORGIO CINI

La fondazione Giorgio Cini di Venezia dedica il suo XXVIII Corso di aggiornamento e perfeziona­mento per italianisti, che si svolgerà tra il 2 e il 22 luglio del prossimo anno, al tema «Il salto delle generazioni» individuato come normale momento ritmico dell'evolvere storico sottostante al susseguir­si degli eventi che hanno scandito la storia e dato vita al difficile problema delle periodizzazioni. Il corso affronterà la tematica scelta esaminando quali atteggiamenti, nel passare dei secoli, le diver­se generazioni abbiano maturato nei riguardi delle generazioni che le hanno precedute e quali proget­ti abbiano predisposto per le successive. Parte essenziale del corso sarà l'esame dei riflessi che di tali atteggiamenti le diverse generazioni hanno lasciato anzitutto nei pensieri, nelle azioni e nelle opere che fanno la storia della letteratura, quella dell'arte e quella della lingua italiana, ma non ver­ranno trascurati i riflessi che il dibattito tra le gene­razioni ha sedimentato nel corso di altri importanti itinerari storici, come quello della storia politica o quello della storia sociale e economica dell'Italia unita.

Vittorio Landucci

■ ■ IE

Il Corso è diretto dal vice Presidente dell'Acca­demia della Crusca, professor Carlo Alberto Mastrelli e sarà articolato in una quarantina di lezioni, due cicli seminariali, una attività di tutorato per quanti abbiano necessità di approfondire i vari aspetti della lingua italiana e una serie di incontri con scrittori, critici e artisti.

Le iscrizioni al Corso sono aperte fino al 30 giu­gno 1994 e gli studenti che desiderino frequentare il Corso dovranno dichiarare - e se necessario documentare attraverso la dichiarazione di un docente - la buona conoscenza della lingua italia­na.

Per concorrere alle borse di studio del Ministero degli Affari Esteri italiano, gli interessati dovranno rivolgersi al più presto agli Istituti Italiani di Cultura - oppure alle Ambasciate d'Italia - nel paese diresidenza. Le domande dovranno essere inoltratedagli Istituti Italiani di Cultura o dalle Ambasciateal Ministero il 30 ottobre 1993.

Il programma delle lezioni e dei seminari sarà inviato a chi ne farà richiesta entro il mese di aprile.

Per altre informazioni ci si può rivolgere alla Fondazione Giorgio Cini, Segreteria dei Corsi per Italianisti, Isola di San Giorgio Maggiore, 30124

Venezia - tel. (041) 5289900 - telefax (041)

5238540

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