ITALIANA CONTEMPORANEA -...

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Glenn Verhiest MEMORIA E IDENTITÀ EBRAICA NELLA LETTERATURA ITALIANA CONTEMPORANEA Analisi di due opere contemporanee: Il mio nome a memoria di Giorgio van Straten e Il gioco dei regni di Clara Sereni Masterproef tot het bekomen van de graad van Master in de Taal- en Letterkunde Engels Italiaans Promotor Prof. dr. Mara Santi Vakgroep Romaanse talen (andere dan het Frans)

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Glenn Verhiest

MEMORIA E IDENTITÀ EBRAICA NELLA LETTERATURA

ITALIANA CONTEMPORANEA

Analisi di due opere contemporanee: Il mio nome a memoria di

Giorgio van Straten e Il gioco dei regni di Clara Sereni

Masterproef tot het bekomen van de graad van

Master in de Taal- en Letterkunde

Engels – Italiaans

Promotor Prof. dr. Mara Santi

Vakgroep Romaanse talen (andere dan het Frans)

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Glenn Verhiest

MEMORIA E IDENTITÀ EBRAICA NELLA LETTERATURA

ITALIANA CONTEMPORANEA

Analisi di due opere contemporanee: Il mio nome a memoria di

Giorgio van Straten e Il gioco dei regni di Clara Sereni

Masterproef tot het bekomen van de graad van

Master in de Taal- en Letterkunde

Engels – Italiaans

Promotor Prof. dr. Mara Santi

Vakgroep Romaanse talen (andere dan het Frans)

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Ringraziamenti

Questa tesi di laurea è stata realizzata grazie al contributo di parecchie persone. Ovviamente

le prime parole di ringraziamento vanno alla professoressa Mara Santi, per i suoi consigli, le

sue osservazioni preziose e la sua pazienza. Le sono grato per le numerose ore che ha dedicato

a questo lavoro.

Vorrei anche ringraziare di cuore la mia famiglia per il grande sostegno morale che mi hanno

fornito durante la stesura di questa tesi e per non avermi mai fatto mancare le dimostrazioni di

fiducia.

Per ultimo ma non meno importante, desidero esprimere la mia sincera gratitudine ai miei

amici per il loro supporto e apporto e per l’aiuto che mi hanno sempre dato.

Grazie a tutti di tutto, o, in linea con l’argomento di questa tesi, todah rabah.

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Indice

I. Introduzione .......................................................................................................................... 7

1.1. Gli ebrei di I-tal-Jah ................................................................................................................ 7

1.2. La metodologia ...................................................................................................................... 10

1.3. Lo stato dell'arte .................................................................................................................... 11

II. Fra appartenenza e differenza: letteratura e identità ebraica nel Novecento ............. 14

2.1. La letteratura italo-ebraica prima del periodo fascista .......................................................... 14

2.2. Dall’appartenenza alla differenza: la letteratura italo-ebraico durante il periodo fascista .... 18

2.3. «Tornare, mangiare, raccontare»: la memorialistica in Italia ................................................ 21

2.4. La memoria e la diversità: la letteratura italo-ebraica nella seconda metà del Novecento .... 27

III. Il mosaico ebraico: letteratura e memoria ebraica ....................................................... 34

3.1. Introduzione: il secolo della memoria ................................................................................... 34

3.2. Zakhor: memoria ed ebraismo ............................................................................................... 36

3.3. Alla ricerca dell’identità perduta: memoria e identità ebraica............................................... 39

3.4. Letteratura e memoria............................................................................................................ 44

3.4.1. La scrittura di memoria: tra ricordare e agire ................................................................ 44

3.4.2. La scrittura di memoria: tra ricordare e immaginare ..................................................... 46

IV. «un nome, non si trattava che di un nome»: identità e memoria ebraica ne Il mio

nome a memoria ...................................................................................................................... 50

4.1. Introduzione: Giorgio van Straten ed ebraismo ..................................................................... 50

4.2. La storia del nome come una ricerca interiore ...................................................................... 52

4.3. Di ricordi e restauri ................................................................................................................ 57

4.4. La storia del nome come una responsabilità .......................................................................... 59

4.5. Conclusione ........................................................................................................................... 62

V. La tessitura dei ricordi: memoria ed identità ebraica ne Il gioco dei regni

di Clara Sereni ........................................................................................................................ 63

5.1. Introduzione: la vita a mosaico di Clara Sereni ..................................................................... 63

5.2. Il gioco dei regni per riannodare i fili dell’identità ............................................................... 64

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5.3. Il gioco dei regni in attesa del Messia ................................................................................... 71

5.4. Conclusione ........................................................................................................................... 74

VI. Conclusione finale ............................................................................................................ 76

VII. Riferimenti bibliografici ................................................................................................ 79

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7

I. Introduzione

nessun popolo è più difficile da

comprendere degli ebrei

(Elias Canetti)1

1.1. Gli ebrei di I-tal-Jah

Un’antichissima leggenda ebraica dice che il nome “Italia” è una traslitterazione delle

tre parole ebraiche “I-tal-Jah”, le quali si traducono in “l'isola della rugiada divina”.2 Questo

nome, secondo la leggenda, deriva dalla buona sorte di cui godono gli ebrei sul suolo italiano.

Infatti, secondo gli stessi ebrei, la penisola italiana fu santificata dalla «rugiada dei cieli»

(Genesi 27:28) che Isacco, il Patriarca, invocò sulle terre del figlio Giacobbe. Evidentemente,

si tratta di un'etimologia immaginosa che indica la benevolenza con cui l’Italia è considerata

dagli ebrei che vi abitano da oltre duemila anni.

Le caratteristiche più notevoli per chi studia la storia degli ebrei in Italia riguardano l’antichità

di questa comunità, la sua ininterrotta presenza nella penisola e il suo alto grado di

integrazione e di interrelazione con la cultura italiana.3 Infatti, la comunità ebraica di Roma

può giustamente essere considera la più antica della diaspora ebraica occidentale. Una prima

presenza ebraica documentata in Italia risale già al secondo secolo a.C., ancora ben prima

dell’enorme afflusso di ebrei nell’impero romano in seguito alla distruzione del Secondo

Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. da parte delle truppe dell’imperatore romano Tito.4 In

realtà, l’Italia è stata l’unico paese in cui gli ebrei hanno vissuto ininterrottamente da allora ad

oggi. Per tale ragione, gli ebrei italiani identificano un gruppo specifico all’interno dei popoli

della diaspora, perché non appartengono a nessuno dei due gruppi principali in cui è diviso

l'ebraismo della diaspora, ossia non appartengono né al gruppo di ebrei sefarditi (ebrei

1 Elias Canetti, Massa e potere, traduzione di Furio Jesi, Milano, Adelphi, 1981, pag. 189.

2 Stanislao Pugliese, Israel in Italy: Wrestling with the Lord in the Land of Divine Dew, in in AA.VV., The Most

Ancient of Minorities: The Jews of Italy, a cura di Stanislao Pugliese, Westport, Greenwood Press, 2002, pag. 1. 3 Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, Syracuse, University Press, 2008, pag. 6.

4 Henry Stuart Hughes, Prisoners of Hope: The Silver Age of Italian Jews (1924 – 1974), Harvard, University

Press, 1983, pag. 4.

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spagnoli) né agli ebrei aschenaziti (ebrei tedeschi), ma a un gruppo a sé stante di ebrei di rito

italiano (i cosiddetti Italkim).5

L’antichità della presenza ebraica in Italia è anche visibile nella tradizione letteraria del paese.

Appunto, uno dei primi testi letterari scritti in Italia fu addirittura di origine ebraica. Ci

riferiamo alla cosiddetta Elegia giudeo-italiana, una elegia duecentesca scritta in dialetto

giudeo-italiano dell'Italia mediana.6 Si tratta di una Kinà, cioè una lamentazione cantata

durante il giorno di lutto e digiuno di Tisha b'Av, il nono giorno del mese ebraico di Av,

durante il quale si piange la distruzione del Secondo Tempio e la conseguente dispersione del

popolo di Israele.7

Un altro grande contributo alla letteratura italiana classica fu quello del dotto poeta

Immanuello Romano, conosciuto anche come Manoello Giudeo, il quale scrisse poesie di

vario genere sia in italiano che in ebraico e introdusse la forma del sonetto nella letteratura

ebraica.8 Ugualmente importante fu il contributo del poeta rinascimentale Leone Ebreo, il

quale scrisse poesie in ebraico e in italiano e fu soprattutto noto per i suoi Dialoghi d'Amore.9

Dunque, in questo periodo, spesso considerato la prima età d'oro della cultura ebraica in Italia,

è possibile parlare di un «cultural symbiosis» fra le due culture.10

Questa età d’oro, purtroppo, fu di breve durata e iniziò a declinare nella seconda metà del

Cinquecento, quando cominciò anche in Italia il processo di segregazione degli ebrei nei

ghetti, entro i quali furono costretti a vivere. La spinta principale alla disuguaglianza venne,

ovviamente, dalla Chiesa e cominciò con la promulgazione della bolla Cum nimis absurdum,

emanata nel 1555 da papa Paolo IV che portò alla creazione, fra altri, del ghetto di Roma

nello stesso anno.11

Sotto l'influenza dello Stato Pontificio segue la costruzione dei ghetti

nelle altre città italiane in cui furono delle comunità ebraiche, fra cui il ghetto di Firenze,

5 Raniero Speelman, Introduzione: particolarità e ricchezza della letteratura italoebraica, in AA.VV., Scrittori

italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, a cura di Raniero Speelman et al., Utrecht,

Igitur, 2007, pag. I. 6 Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, cit., pag. 6.

7 Ibidem.

8 Raniero Speelman, Introduzione: particolarità e ricchezza della letteratura italoebraica, in AA.VV., Scrittori

italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. I. 9 Ibidem.

10 Henry Stuart Hughes, Prisoners of Hope,cit., pag. 15.

11 Etimologicamente, la parola “ghetto” ha probabilmente la sua origine a Venezia e si fa risalire alla parola

veneziana “gèto” che corrisponde all'italiano “getto”. Il ghetto di Venezia, istituito nel 1516 da un Decreto del

Consiglio dei Dieci, fu infatti il primo ghetto in Italia in cui furono confinati gli ebrei. Cfr. Henry Stuart Hughes,

Prisoners of Hope, cit., pag. 7.

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istituito nel 1571, e il ghetto di Torino, istituito nel 1679.12

Questo periodo di intolleranza

perdurerà oltre tre secoli e sarà brevemente interrotto solo quando Napoleone scende in Italia.

Tuttavia, quando crollò l’Impero napoleonico nel 1815, vennero ripristinate dai regimi della

Restaurazione le condizioni in cui gli ebrei si trovarono prima del periodo napoleonico.13

Il periodo napoleonico costrinse gli ebrei a ripensare la propria identità in rapporto al mondo

esterno dei Gentili e diede così un impulso decisivo al processo di emancipazione degli ebrei,

avviatosi allo stesso tempo in molti altri paesi d’Europa. Il processo di equiparazione degli

ebrei ai loro concittadini cattolici si affermò soprattutto durante il periodo del Risorgimento.

Il processo d’emancipazione diventò realtà nel 1848, con la promulgazione dello Statuto

Albertino, e si concluse soltanto nel 1870, quando caddero anche le mura del ghetto di Roma,

l'ultimo ghetto a essere abolito nell’Europa Occidentale.14

Da questo periodo in poi, gli ebrei si sono sparsi nella penisola e la loro comunità è diventata

parte integrante della popolazione italiana tanto da passare, in quanto tale, quasi inosservata

nonostante il contributo specifico dato alla letteratura italiana moderna da scrittori di cultura

ebraica. Da questa riflessione è nata l’idea per questo lavoro: perché in un paese come l’Italia,

in cui gli ebrei sono relativamente pochi, benché presenti da secoli, si registra un così grande

contribuito alla letteratura nazionale di scrittori di origine ebraica? Chi sono poi questi

scrittori ebrei, soprattutto dell’ultimo secolo, in Italia? In che modo fanno sentire la propria

voce e in che misura tematizzano il loro essere ebrei nella loro scrittura? Si deve precisare che

questo lavoro non fornisce una risposta alla domanda “che cosa significa essere ebreo in

Italia”, piuttosto intende riflettere sulla problematicità dell’identità per gli scrittori di origine

ebraica e il ruolo che la letteratura svolge nel comprendere e descrivere tale identità. In

particolare ci proponiamo di indagare quale ruolo giochi la memoria del passato in questo

discorso identitario. Lo scopo di questa tesi è, dunque, di provare a individuare i tratti

dell’identità ebraica nella scrittura di autori italiani eredi della cultura ebraica. Si badi, infine,

che non intendiamo rilevare l’esistenza, come per esempio nel caso della letteratura america,

di “un ghetto culturale ebreo” nella storia della letteratura italiana del Novecento, ci

proponiamo, invece, di dimostrare che, come nell’età d’oro del Rinascimento appena

descritta, anche oggidì la cultura italiana e la cultura ebraica si intrecciano molto più di quanto

12

Ibidem. 13

Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia: dall’emancipazione a oggi¸ Roma, Newton e Compton editori,

2005, pag. 19. 14

Ivi., pag. 21.

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si creda e che «l’ebreo, piccolo com’è, fa notizia più che mai» nella letteratura italiana

contemporanea.15

1.2. La metodologia

Lo scopo di questo lavoro, lo ripetiamo, è dunque duplice: da un lato ci proponiamo di

indagare chi sono gli scrittori di origine ebraica in Italia e in che misura essi fanno cenno alla

loro eredità ebraica, dall’altro lato ci proponiamo di indagare in che modo essi si fanno sentire

e che cosa è tipicamente ebraico nel loro modo di scrivere.

La risposta alla prima domanda costituisce la prima fase di questo lavoro e sarà

sostanzialmente fornita nel primo capitolo, il quale funge da quadro storico. Lo scopo di

questo primo capitolo è appunto in primo luogo quello di fornire una panoramica cronologica

su chi sono gli scrittori di origine ebraica in Italia e quale è stato il loro contribuito al

patrimonio letterario del Novecento. Cerchiamo, attraverso un’indagine del loro rapporto con

l’ebraismo, di spiegare perché abbiamo, per esempio, da un lato degli scrittori come Italo

Svevo e Umberto Saba, i quali non fanno mai pubblicamente cenno alla loro eredità ebraica,

mentre dall’altro lato abbiamo degli scrittori, come Giorgio Bassani e gli scrittori ebrei

contemporanei, le cui opere sono spesso ispirate dalla loro eredità ebraica. Per affrontare tali

questioni, facciamo un breve cenno ai grandi eventi storici del Novecento – ovviamente, nel

caso italiano, un ruolo centrale sarà rivestito dalle leggi razziali fasciste– e ci proponiamo di

indagare quale sia stata l’influenza del contesto storico sul rapporto degli italiani ebrei con il

loro essere ebrei e, conseguentemente, quale sia stata l’influenza di questo rapporto sulla loro

scrittura.

La seconda fase del lavoro consiste innanzitutto in un’analisi dei temi ricorrenti che sono

emersi dalle opere degli scrittori che sono stati portati all’attenzione nel primo capitolo.

Vedremo che a collegare tra loro questi scrittori è soprattutto un’attenzione particolare

all’autobiografismo e alla ricerca identitaria svolta attraverso un’indagine a ritroso nella

memoria. Il secondo capitolo serve perciò ad approfondire alcune riflessioni sul tema della

memoria, come tema universale ma soprattutto come tema tipicamente ebraico, e ci

occuperemo soprattutto del ruolo che svolge la memoria nella tradizione ebraica e

l’importanza di essa in quanto legata al tema dell’identità sia individuale che collettiva degli

ebrei. In questo secondo capitolo, dunque, intendiamo costituire in primo luogo un quadro

15

Elena Loewenthal, Scrivere di sé. Identità ebraiche allo specchio, Torino, Einaudi, 2007, pag. 151.

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11

teorico che serve a stabilire limiti per lo studio analitico di due romanzi contemporanei, che

verranno analizzati nella fase successiva del lavoro.

Nella terza e ultima fase del lavoro ci concentreremo appunto sullo studio di due romanzi

attuali scritti da due autori italiani contemporanei. Per il nostro caso di studio abbiamo scelto

lo scrittore Giorgio van Straten e la scrittrice Clara Sereni, i cui libri affrontano una tematica

simile, cioè la storia delle rispettive famiglie ebree. Per questo, il terzo e quarto capitolo

consistono soprattutto in un'analisi testuale de Il mio nome a memoria di Giorgio van Straten

e Il gioco dei regni di Clara Sereni in base al quadro di riferimento teorico proposto nel

secondo capitolo. Il focus dell’attenzione sarà mantenuto sull’importanza del tema della

memoria e dell’identità ebraica in queste due opere, le quali, come avremo modo di vedere,

perseguono delle finalità specifiche che rendono queste due opere tipicamente ebraiche.

1.3. Lo stato dell'arte

Oggi, in Italia come altrove, vi è un rinnovato interesse verso gli ebrei. Infatti, negli

anni recenti l’interesse per la cultura ebraica gode «una vivacità senza precedenti», e in

particolare si indaga sulla cultura ebraica come una componente fondamentale della cultura

occidentale.16

In Italia, si pensi, per esempio, alla casa editrice “La Giuntina”, specializzata in

pubblicazioni di argomento ebraico, che sta promuovendo attivamente la riscoperta della

cultura ebraica in Italia, dove l’ebraismo è ancora «tanto presente quanto sconosciuto».17

Una

delle possibili ragioni, secondo Stefano Levi Della Torre, per questa nuova attenzione nei

confronti della cultura ebraica in Italia

trova forse un suo contesto, una sua tonalità europea, nel passaggio d’epoca che

l’Europa sembra attraversare: paesi e culture abituati da secoli a sentirsi ed essere al

centro del mondo [...] hanno perduto quella centralità. Si può forse pensare che da

questa prospettiva del tutto nuova sorga un interrogativo verso una tradizione, come

quella ebraica, specializzata nel fatto di essere decentrata: come si fa a perdurare,

come identità, malgrado la perdita del centro. Questo mi sembra uno dei terreni da cui

promana il nuovo interesse nei confronti dell’ebraismo.18

16

Rita Calabrese, Dopo la Shoah: Nuove identità ebraiche nella letteratura,in AA.VV., Mosaici. Nuove

configurazioni dell’identità ebraica in Germania, Pisa, Ets, 2005, pag. 20. 17

Elena Loewenthal, La tentazione di esistere, in AA.VV., Appartenenza e differenza, a cura di Juliette Hassine,

Firenze, Giuntina, 1998, pag. 148 18

Stefano Levi Della Torre, Mosaico. Attualità e inattualità degli ebrei, Torino, Rosenberg Sellier, 1994, pag.

18.

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12

L’interesse per l’ebraismo in Italia, come sostiene Laura Quercioli Mincer, non è il frutto di

un ritrovato interesse per il passato nazionale, ma, al contrario:

una sorta di fuga da esso, al bisogno di sconfinamento, alla ricerca di elementi esotici

e mistici, cosi come anche forse al bisogno di individuare un anello in grado di mettere

in collegamento fra loro le varie identità culturali e nazioni europee.19

Tuttavia, in ambito letterario vorremmo sottolineare, come ricorda anche Raniero Speelman,

che in Italia fino a poco tempo fa gli interventi di critici letterari che hanno inteso interpretare

le opere di scrittori come, per esempio, Bassani o la Ginzburg in chiave ebraica sono stati

notevolmente pochi. Infatti, in Italia «esiste una conoscenza piuttosto limitata degli elementi

tipicamente ebraici.»20

Anche gli studi in ambito storico riguardanti la memoria della

deportazione, come avremo modo di vedere, compaiono piuttosto tardi perché «Italian

consciousness for the longest time did not have a place for a Jewish discourse.»21

Anche

Alberto Cavaglion, studioso dell’ebraismo in Italia, ha ribadito che «si ignora quasi tutto delle

vivacissime comunità ebraiche della nostra penisola.»22

Una delle prime pubblicazioni a

occuparsi della letteratura degli ebrei in Italia fu Prisoners of Hope (1983), il cui autore,

Henry Stuart Hughes, non è un italianista ma uno storico.

Negli ultimi due decenni, però, la situazione è cambiata notevolmente con la pubblicazione di

volumi miscellanei come L’ebraismo nella letteratura italiana del Novecento (1995),

Appartenenza e differenza: ebrei d’Italia e la letteratura (1998), The Most Ancient of

Minorities: The Jews of Italy (2002) e Tra Storia e immaginazione: gli scrittori ebrei di

lingua italiana si raccontano (2008). Una pubblicazione chiave nello specifico campo di

ricerca della letteratura italiana della deportazione fu quella della storica Anna Bravo, Una

misura onesta: gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993 pubblicata nel

1994. Benché a partire degli anni Ottanta possiamo parlare, come avremo modo di vedere, di

un influsso considerevole di elaborazioni letterarie provenienti da una nuova generazione di

scrittori italiani di origine ebraica, la maggioranza degli studi critici suddetti si occupa

prevalentemente degli scrittori più noti come Bassani, i due Levi, Ginzburg e Umberto Saba.

19

Laura Quercioli Mincer, Patrie dei superstiti Letteratura ebraica del dopoguerra in Italia e in Polonia, Roma,

Lithos, 2010, pag. 119. 20

Raniero Speelman, Dall’Argon al Carbonio: la letteratura italiana ebraica del dopoguerra, in AA.VV., Gli

spazi della diversità, Atti del Convegno Internazionale "Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al

1992, Leuven, 3 – 8 maggio 1993, a cura di Franco Musarra et al., Leuven, University Press, pag. 69. 21

Fabio Girelli-Carasi, Italian-Jewish Memoirs and the Discourse of Identity, in AA.VV., The Most Ancient of

Minorities: The Jews of Italy, cit., pag. 193. 22

Alberto Cavaglion, La scintilla di una fede, citato in Raniero Speelman, Dall’Argon al Carbonio: la

letteratura italiana ebraica del dopoguerra, in AA.VV., Gli spazi della diversità, cit., pag. 69.

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13

Come sostiene Speelman, «few critical analyses have been dedicated to the work of, say,

Giacoma Limentani, Lia Levi, or Alberto Lecco, each of whom has already published at least

five books.»23

In anni recenti, questo vuoto è stato colmato progressivamente con

l’organizzazione dei convegni annuali di International Conference on Italian Jewish

Literature, organizzato per la prima volta nel 2006 a Amsterdam.

Infine, di particolare importanza per questo lavoro sono stati gli studi di Sergio Parussa (2008)

e Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, pubblicato per la prima volta in inglese nel 1996,

dallo storico ebraico Yosef Haim Yerushalmi da cui prende spunto il nostro secondo capitolo

sul tema della memoria. In questo lavoro vogliamo prestare attenzione alla nuova generazione

di scrittori di origine ebraica, che costituisce un campo ancora poco esplorato. Per questa

ragione, abbiamo scelto per un’analisi delle opere di Giorgio van Straten e di Clara Sereni.

Sulle opere di Giorgio van Straten non si è ancora soffermata l’attenzione della critica – esiste

soltanto uno studio critico24

che parla soltanto in parte di Il mio nome a memoria – mentre la

Sereni, definita «la migliore esponente della giovane generazione di scrittori di origine ebraica

nati dopo la Shoah»,25

sembra ricevere più attenzione critica, però, sostanzialmente in chiave

femminista26

o in chiave politica.27

Attraverso l’analisi delle loro opere più celebri – Il mio

nome a memoria di Giorgio van Straten e Il gioco dei regni di Clara Sereni – vorremmo

dimostrare che, anche se sono meno evidenti, sono comunque presenti degli elementi ebraici

nella letteratura italiana contemporanea, più di quanto non si creda.

23

Raniero Speelman, Italian-Jewish Literature, in AA.VV., The Most Ancient of Minorities: The Jews of Italy,

cit. pag. 188. 24

Cfr. Dominique Budor, Il “romanzo genealogico” ovvero la memoria viva dei morti, in AA.VV., Scrittori

italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pp. 115 – 128. 25

Laura Quercioli Mincer, Patrie dei superstiti Letteratura ebraica del dopoguerra in Italia e in Polonia, cit.,

pag. 121. 26

Cfr. Katia Marano, “Tra i detriti della Storia”: Il gioco dei regni di Clara Sereni, in AA.VV., Scrittura

femminile, a cura di Irmgard Scharold, Tübingen, 2002, pp. 167 – 177. 27

Cfr. Giulia Po, Scrivere la diversità. Autobiografia e politica in Clara Sereni, Firenze, Cesati, 2012.

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14

II. Fra appartenenza e differenza: letteratura e identità ebraica

nel Novecento

2.1. La letteratura italo-ebraica prima del periodo fascista

Molto interessanti e affascinanti sono le parole con le quali Primo Levi, forse il più

noto fra gli scrittori di origine ebraica in Italia, descrive quale sia il suo atteggiamento di

fronte alla cultura ebraica in Italia:

Io sono ebreo come anagrafe, vale a dire che sono iscritto alla comunità

Israelitica di Torino, ma non sono praticante e neppure sono credente. Sono

però consapevole di essere inserito in una tradizione e in una cultura. Io

uso dire di sentirmi italiano per tre quarti o per quattro quinti, a seconda dei

momenti, ma quella frazione che avanza, per me è piuttosto importante. E

so benissimo che esistono infinite altre culture, degne di essere studiate e

seguite. Fra queste c'è anche la cultura ebraica, in Italia non molto fiorente,

per ragioni numeriche, se non altro, molto fiorente altrove, ed era molto

fiorente proprio nell'Europa orientale al tempo dello scatenamento della

seconda guerra mondiale.»28

La cultura ebraica, presente in Italia ininterrottamente per oltre duemila anni, a prima vista

non sembra, come afferma Levi, molto fiorente. Tuttavia, nonostante il numero ridotto degli

ebrei in Italia – il numero totale degli ebrei in Italia dopo l’emancipazione non superò mai le

cinquantamila unità –, sono molti gli scrittori, ed editori, di origine ebraica che hanno

contribuito significativamente all’arricchimento del patrimonio letterario d’Italia. Infatti, i

letterati di origine ebraica occupano una posizione rilevante sulla scena intellettuale del primo

Novecento.29

La presenza di scrittori ebrei è forte soprattutto nell’area di Trieste, dove

troviamo, fra tanti altri, letterati di origini ebraica come Umberto Saba30

, Italo Svevo, Carlo

Michelstaedter, Giani Stuparich, e la lista potrebbe continuare ancora. Gli ebrei furono inoltre

28

Dina Luce, Il suono e la mente, in AA.VV., Conversazioni e interviste 1963-1987, a cura di Marco Belpoliti,

Torino, Einaudi, 1997, pag. 37. 29 I dati demografici sono tratti da Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 23. 30

In 1956, stampato in Ricordi e Racconti, Umberto Saba pubblica, seguito il consiglio dell'amico scrittore ebreo

Carlo Levi, per la prima volta alcuni capitoli di prosa, scritti oltre quattro deceni prima, intitolati Gli Ebrei, in cui

racconta della propria vita di bambino nella comunità ebraica di Trieste. Per uno studio complessivo

dell’ebraismo nella scrittura di Umberto Saba, si rimanda allo studio di Dario Calimani, cfr. Dario Calimani,

Saba e la capra semita, in AA.VV., Appartenenza e differenza: ebrei d’Italia e la letteratura, cit., pp. 69 – 90.

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particolarmente presenti nel settore editoriale: si pensi, per esempio, alle case editrici La

Nuova Italia, Mondadori, a Leo S. Olschki e a R. Bemporad. Questo fatto non è sorprendente

visto il basso livello di analfabetismo fra gli ebrei: nel 1861 gli analfabeti fra gli ebrei erano il

5,8 per cento, mentre il numero totale degli analfabeti in Italia si aggira sul 64,5 per cento

della popolazione. Nel 1927 gli ebrei analfabeti scomparvero, mentre il numero totale degli

analfabeti si aggirava ancora sul 27 per cento della popolazione italiana.31

Pertanto, è lecito

dire che gli ebrei italiani, anche se sono una minoranza della popolazione, hanno contribuito

in maniera determinante alla formazione intellettuale della patria novecentesca.

Benché, come accennato nell'introduzione, esistesse già al tempo di Dante una letteratura

italiana di origine ebraica, gli scrittori di origine ebraica fanno il loro vero ingresso nella

letteratura italiana a partire dal Novecento.32

Da questo momento in poi, come ricorda Henry

Stuart Hughes, gli scrittori di origine ebraica si mettono in massa sulla scena letteraria

d’Italia.33

Va notato, però, che nonostante la loro presenza notevole, manca nelle loro opere

quasi ogni riferimento al loro essere ebrei o al tema dell’ebraismo in generale. Dunque,

nonostante la loro rilevanza gli scrittori di origine ebraica scelgono di rimanere in silenzio

rispetto alla propria eredità ebraica nei loro scritti pubblici. Per Aron Ettore Schmitz, per

esempio, nascondere il cognome ebraico dietro allo pseudonimo di Italo Svevo, l’ebraismo fu

«un affaire privé».34

Per lo scrittore triestino, come sostiene Luca De Angelis, «l’essere ebreo

risultava né più né meno che un segreto amore illecito.»35

Per quanto riguarda Alberto

Moravia, come afferma lo scrittore ebreo Miro Silvera, «non si era mai sentito nemmeno

"mezzo ebreo". Anche lui aveva cambiato cognome, assimilandosi agli altri con un senso di

liberazione. Un fatto è certo: la radice famigliare non fa certo lo scrittore "ebreo”.»36

La

mancanza di ogni riferimento all’ebraismo nella letteratura italiana dei primi trent'anni del

Novecento non sembra dunque essere dovuta al numero ridotto di ebrei in Italia, e nemmeno

corrisponde alla mancanza di letterati di origine ebraica. Le ragioni per questo vuoto,

pertanto, sono da ricercarsi altrove.

31

I numeri demografici sono sempre tratti da: Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 27. 32

Raniero Speelman, Introduzione: particolarità e ricchezza della letteratura italoebraica, in AA.VV., Scrittori

italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. I. 33

Henry Stuart Hughes, Prisoners of Hope, cit., pag. 27. 34

Luca De Angelis, Come un amore illecito. Sulla teshuvah di Zeno, in AA.VV., Scrittori italiani di

origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 16. 35

Ibidem. 36

Miro Silvera, La necessità di raccontare, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un

approccio generazionale, cit., pag. 154.

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La volontà di non attirare troppo l'attenzione sulla propria eredità ebraica è una delle possibili

ragioni per l’assenza di ogni riferimento all’ebraismo nella letteratura del primo Novecento.

Questa spiegazione viene offerta da Fabio Girelli-Carasi, secondo il quale gli ebrei in Italia,

dopo secoli di reclusione nei ghetti, non vogliono mettere troppo in evidenza la loro identità

ebraica, evitando così delle eventuali reazioni sgradite contro la comunità ebraica in Italia.37

Secondo lo stesso Girelli-Carasi, il trattamento benevolo riservato agli ebrei in Italia è più un

pio desiderio da parte dagli “italiani brava gente” che realtà.38

È vero che gli italiani non

hanno mai scatenato dei pogrom (persecuzioni violente degli ebrei) contro le comunità

ebraiche, come invece nell’Europa orientale in cui ci furono delle continue ondate di pogrom

contro le comunità ebraiche. Tuttavia, a differenza degli altri paesi europei, sia orientali che

occidentali, in cui la popolazione ebraica ha sempre continuato a crescere, in Italia il numero

degli ebrei è sempre rimasto invariato, e non ha mai superato le cinquantamila unità.39

Per

questo motivo, sempre secondo il Girelli-Carasi, non furono necessarie delle persecuzioni in

Italia, visto che gli ebrei sono sempre stati una minoranza quasi invisibile nella penisola. Non

si può escludere che ci sia qualcosa di vero nelle affermazioni del Girelli-Carasi. Anche Italo

Svevo ha ricordato che «quella dell'ebreo non è una posizione comoda».40

Storicamente, le

comunità ebraiche sono sempre state le più diffamate e perseguitate e per questo motivo, forse

anche in Italia, alcuni scrittori, per il loro merito, potrebbero aver scelto di non manifestare o

dichiarare apertamente la loro origine ebraica, tenendola nascosta nell’ambito privato.41

Un’altra ragione, più attendibile a nostro giudizio nel contesto italiano, proposta da vari autori

e in particolare da Arnaldo Momigliano, risiede nel forte grado di assimilazione degli ebrei

italiani. Lo storico ebreo Arnaldo Momigliano afferma che «la storia degli ebrei [...] è

37 Fabio Girelli-Carasi, Italian-Jewish Memoirs and the Discourse of Identity, in AA.VV., The Most Ancient of

Minorities: The Jews of Italy, cit., pp. 192 – 193. 38

Questa tesi viene condivisa da due altri studiosi: cfr. Lynn Gunzberg, Strangers at Home: Jews in the Italian

Literary Imagination, Berkeley, University of California Press, 1992 and Michele Sarfatti, gli ebrei nell’Italia

fascista, Torino, Einaudi, 2000. 39

Per avere un’idea per quanto sia limitato il numero degli in ebrei in Italia rispetto agli altri paesi europei: «In

Europa, nel 1930 vi erano 3.100.000 in Polonia, 2.800.000 in Russia, 760.000 in Romania, 500.000 in Germania,

440.000 in Ungheria, 360.000 in Cecoslovacchia, 350.000 in Gran Bretagna, 300.000 in Francia, 190.000 in

Austria, 150.000 in Lituania, 110.000 in Olanda, e via discendendo (45.000 in Italia).» Tratto da Michele

Sarfatti, La Shoah in Italia, Torino, Einaudi, 2005, pag. 15. 40

Italo Svevo, citato in Enrico Ghidetti, Italo Svevo. La coscienza di un borghese triestino, Roma, Editori

Riuniti, 1980, pag. 275. 41

Per questo valgono le parole dello storico ebreo Arnaldo Momigliano in cui ricorda dalla sua infanzia che la

religione ebraica significava per lui: «una religione chiusa nella famiglia. [...] La mia vera esperienza di religione

ebraica è in questa intensa, austera, pietà domestica.» Tratto da Arnaldo Momigliano, pagine ebraiche, citato in

Giorgio Fubini, Storicismo, storia della storiografia ed ebraismo in Arnaldo Momigliano, in AA.VV.,

Appartenenza e differenza: ebrei d’Italia e la letteratura, cit., pag. 57.

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essenzialmente appunto la storia della formazione della loro coscienza nazionale italiana.»42

L’emancipazione degli ebrei, come già accennato nell'introduzione, fu contemporanea alla

formazione dell’identità nazionale italiana e costituì per questo motivo «un processo

intrinseco al Risorgimento».43

Tutti insieme, ebrei e non ebrei, ebbero in comune una forte

spinta alla costruzione dell’unità d’Italia e la volontà di diventare dei cittadini liberi di

un’Italia unita. Questa «nazionalizzazione parallela», come viene definita da Arnaldo

Momigliano nel 1933, giustifica l'alto grado di integrazione della popolazione ebraica nella

società nazionale.44

Appena acquistata l’eguaglianza dei diritti civili, vi è un cambiamento di

identità fra gli ebrei che si sentono ormai più italiani che ebrei. Gli ebrei diventano sempre più

laici, mettono sempre di più sullo sfondo la loro appartenenza religiosa e pongono sempre di

più in primo piano il senso di appartenenza alla nazione italiana.45

Alla fine, come ribadisce

anche Lynn Gunzberg, «Italian culture was just much easier to digest» e per questo motivo gli

ebrei italiani sembrano sparire, confondendosi sempre di più nel gruppo maggioritario.46

Questa assimilazione, secondo lo storico Giampiero Carocci, fu nella penisola «un fatto più

spontaneo, più legato allo svolgersi delle cose che non voluto dall’alto, da una autorità

sovrana, come avvenne invece negli altri paesi occidentali, in Francia, in Germania, in

Inghilterra.»47

Questo atteggiamento sempre più laico degli ebrei nell'Italia del primo Novecento viene

descritto molto accuratamente nel romanzo Il gioco dei regni della scrittrice Clara Sereni in

cui, come avremo modo di vedere, viene affrontata la storia della famiglia dell’alta borghesia

ebraica dei Sereni. Il passo seguente, per esempio, acquista il suo pieno significato se si tenga

conto del fenomeno di laicizzazione fra gli ebrei italiani:

Nell’ottavo giorno dalla nascita, per motivi igienici Lello circoncise suo

figlio: ma senza alcuna cerimonia né pubblicità, e il fatto no fu registrato se

non nella carne.48

Attraverso il rifiuto del carattere religioso della circoncisione, la quale viene adesso effettuata

soltanto per «motivi igienici», viene accentuata la sempre decrescente appartenenza religiosa

42

Arnaldo Momigliano, citato in Roberto Maria Dainotto, Emancipation and Jewish Literature in the Italian

Canon, in AA.VV., The Most Ancient of Minorities: The Jews of Italy, cit., pag. 132. 43

Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia: dall’emancipazione a oggi¸ cit., pag. 22. 44

Ibidem. 45

Maurizio Molinari, Ebrei in Italia: un problema di identità (1870 – 1939), Firenze, Giuntina, 1991, pp. 32 - 33 46

Lynn Gunzberg, Assimilation and Identity in an Italian Jewsih Novel, in AA.VV., The Most Ancient of

Minorities: The Jews of Italy, cit., pag. 140. 47

Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia: dall’emancipazione a oggi¸ cit., pag. 22. 48

Clara Sereni, Il gioco dei regni, con una prefazione di Alberto Asor Rosa, Milano, BUR, 2007, pag. 31.

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dei Sereni, come di molti altri ebrei in Italia. La crescente consapevolezza di parità ha fatto

che gli ebrei non siano più tanto differenti dai loro concittadini cattolici italiani. Indistinguibili

dai loro compatrioti per lingua e per aspetto fisico, gli ebrei italiani stanno perdendo anche il

loro ultimo segno distintivo, cioè la religione ebraica.

In sintesi, va detto che quanto sopra esposto non esaurisce la questione del ruolo degli ebrei

nella letteratura italiana. Per le ragioni qui sopra evidenziate, è giustificata in questo periodo

l’assenza di ogni riferimento al tema del ebraismo nella letteratura italiana. L’ebreo,

attraverso un lungo processo di assimilazione, iniziato dopo l’emancipazione degli ebrei, si

sente appartenere alla società nazionale e non vuole essere ricordato al ghetto da cui fu appena

uscito. Gli ebrei si sentono in primo luogo italiani, poi ebrei. Per questo motivo, ci sembra

lecito supporre che gli scrittori di origine ebraica nei primi trent'anni del secolo non sentano

un bisogno di elaborare il tema della tradizione ebraica nelle loro opere.

2.2. Dall’appartenenza alla differenza: la letteratura italo-ebraico durante

il periodo fascista

A partire dalla fine degli anni trenta la vita dell’ebreo italiano sta per cambiare, forse

per sempre. Appunto, alla fase di appartenenza e parità viene messa fine con la

promulgazione delle leggi razziali fasciste, arrivate come fulmine a ciel sereno, nel 1938. Gli

ebrei, credendosi da tempo perfettamente italiani e in alcuni casi perfino perfettamente fascisti

– si ricordi il caso di Ettore Ovazza – vengono spogliati dei loro diritti. Molto commovente a

proposito di questo è il racconto, intitolato Zinco, nell’autobiografia Il sistema periodico in

cui Primo Levi descrive accuratamente quale sia stato il suo atteggiamento, condiviso con

molti altri ebrei, di fronte alla cultura ebraica prima dell’emanazione delle “leggi per la difesa

della razza italiana” e quale sia stato il loro effetto sulla percezione dell’ebraismo dello

scrittore:

perché ebreo sono anch’io, e lei no: sono io l’impurezza che fa reagire lo

zinco. L’impurezza, certo: poiché proprio in quei mesi iniziava la

pubblicazione di “La Difesa della Razza”, e di purezza si faceva gran

parlare, ed io cominciavo ad essere fiero di essere impuro. Per vero, fino

appunto a quei mesi non mi era importato molto di essere ebreo; dentro di

me, e nei contatti coi miei amici cristiani, avevo sempre considerato la mia

origine come un fatto pressoché trascurabile ma curioso, una piccola

anomalia allegra, come chi abbia il naso storto e le lentiggini; un ebreo è uno

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che a Natale non fa l’alberi, che non dovrebbe mangiare il salame ma lo

mangia lo stesso, che ha imparato un po’ di ebraico a tredici anni e poi lo ha

dimenticato.49

Molto interessante è il paragone che Levi fa tra gli ebrei, impuri secondo la retorica fascista, e

l’elemento impuro, o «il granello di sale e di senape», necessario «per fare reagire lo zinco.»50

Da questa osservazione sulla necessità chimica dell’impurezza Primo Levi trae le seguenti

riflessioni filosofiche:

l'elogio della purezza, che protegge dal male come un usbergo; l'elogio

dell'impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. Scartai la prima,

disgustosamente moralistica, e mi attardai a considerare la seconda, che mi

era più congeniale. Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le

impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, come è noto,

se ha da essere fertile. Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di

senape: il fascismo non li vuole, li vieta e per questo tu non sei fascista;

vuole tutti uguali e tu non sei uguale.51

Con la promulgazione delle leggi razziali, redatte da un gruppo di «studiosi fascisti», si passa

da una fase di appartenenza e parità in cui l’ebraismo è soltanto «una piccola anomalia

allegra», ad una fase di differenza e disparità in cui tali leggi imposero agli ebrei in tutta

l’Italia un’identità inferiore. Un’identità, come viene annunciato nel Manifesto degli

Scienziati Razzisti, nemmeno più italiana.52

Le leggi razziali, e le persecuzioni naziste che

seguiranno, hanno drasticamente posto termine al lungo processo di integrazione e

assimilazione, e hanno fatto sì che gli ebrei, forse per la prima volta dall’emancipazione, si

siano resi conti del proprio essere ebrei.

Questo rendersi conto di essere diversi significa per tanti ebrei, in Italia come altrove, un

bisogno di riprendere alcune tradizioni ebraiche e di riappropriarsi, dopo averla tenuto per

lungo tempo nell'ombra, della propria identità ebraica. In quanto a questo recupero

49

Primo Levi, Zinco, in Id., Il sistema periodico, Torino, Einaudi, 1975, pag. 37. 50

Ibidem. 51

Ivi, pag. 35. 52

Il manifesto dei dieci scienziati razzisti, reso pubblico per la prima volta nel 14 luglio 1938 stabilisce nel nono

punto che «gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul

sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha

lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in

Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da

elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.»

Tratto da Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia: dall’emancipazione a oggi¸ cit., pag. 151.

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dell’ebraismo rimosso, Luca De Angelis parla di «ebrei di ritorno.»53

La riscoperta

dell’identità ebraica non fu una conseguenza passiva delle persecuzioni, ma fu invece una

risposta attiva degli ebrei, un primo atto di ribellione contro il progetto nazista di estinguere

l’identità e la memoria del popolo ebraico. Il rinnovato interesse per l’ebraismo non fu

limitato all’Italia, ma, come ha ribadito lo storico Henry Stuart Hughes, questo recupero di un

legame con l’ebraismo ebbe in Italia un impatto maggiore perché mai prima gli ebrei della

penisola non si hanno sentito diversi dai loro compatrioti.54

Nelle sue Réflexions sur la

question juive Jean-Paul Sartre afferma nel 1946 che «è l’antisemitismo che crea

l’ebraismo.»55

Tale citazione, pur discutibile come sostiene anche Giampiero Carocci perché

«l’ebraismo esiste indipendentemente dall’antisemitismo», contiene comunque qualcosa di

vero.56

Viene dunque riscoperta una cultura ancora più antica di quella italiana e per questo

gli ebrei iniziano ad avvertire una certa forma di fierezza dell’essere ebrei, dell’essere diversi

e, come scrive Primo Levi, dell’essere «l’impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla

vita.»57

La discriminazione rinforza, dunque, la fierezza del loro essere ebrei cosicché viene

coltivata una strana volontà di trasformare questa identità ebraica «da fatto privato a fatto

pubblico.»58

Ad esempio, Primo Levi ha ricordato, come lui, essendo un buon esempio

dell’ebreo laico ed assimilato, viene richiamato alla propria identità ebraica soltanto dopo le

leggi razziali:

Se non ci fossero state le leggi razziali e il lager, io probabilmente non sarei più

ebreo, salvo che per il cognome: invece, questa doppia esperienza, le leggi

razziali e il lager, mi hanno stampato come si stampa una lamiera: ormai ebreo

sono, la stella di Davide me l’hanno cucita e non solo sul vestito.59

Questa presa di coscienza della propria identità ebraica e la volontà di trasformarla da un fatto

privato a fatto pubblico non è però tanto notevole nel campo della letteratura. Mentre, come

già detto, manca quasi ogni riferimento all’ebraismo nelle opere di Alberto Moravia, una

tematica ebraica compare in misura molto limita nelle opere di Carlo Levi. Cristo si è fermato

53

Luca De Angelis, «Qualcosa di più intimo». Alcune considerazioni sulla differenza ebraica in letteratura, in

AA.VV. L’ebraismo nella letteratura italiana del Novecento, a cura di Marisa Carlà et al., Palermo, Palumbo,

1995, pag. 12. 54

Henry Stuart Hughes, Prisoners of Hope, cit., pag. 65. 55

Traduzione mia. Versione originale: «Le Juif est un homme que les autres hommes tiennent pour Juif ; voilà la

vérité simple d'où il faut partir [...] c'est l'antisémite qui fait le Juif.» Jean-Paul Sartre, Réflexions sur la question

juive, citato in Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia dall’emancipazione ad oggi, cit., pag. 120. 56

Ibidem. 57

Primo Levi, Zinco, in Id., Il sistema periodico, Torino, Einaudi, 1975, pag. 37. 58 Giampiero Carocci, Storia degli Ebrei in Italia, cit., pag. 120. 59

Ferdinando Camon, Conversazione con Primo Levi, citato in Nadia Castronuovo, Natalia Ginzburg:

Jewishness as a moral identity, Leicester, Troubador Publishing, 2010, pag. 116 – 117.

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a Eboli, il libro capolavoro di Carlo Levi, è infatti quasi privo di elementi ebraici. Questa

assenza di elementi ebraici in Cristo si è fermato a Eboli può tuttavia essere spiegata dal fatto

che la storia è ambientata nel Sud d’Italia, da cui, sotto il dominio aragonese, gli ebrei

vennero espulsi nel Quattrocento. Un altro romanzo di Carlo Levi, L’orologio, invece,

presenta due personaggi minori di origine ebraica ma sembra, come ha notato Henry Stuart

Hughes, che allo scrittore manchi ogni punto di contatto con essi.60

Nonostante il ravvivarsi della memoria dell’identità ebraica, non cambia dunque molto

nell’ambito letterario. Rimane assente una tematica ebraica nella letteratura negli anni che

seguono la promulgazione delle leggi razziali. Alla lista di scrittori italiani con eredità ebraica

si possono aggiungere alcune voci nuove, fra cui le più note sono Giorgio Bassani, Natalia

Ginzburg61

, Giacomo Debenedetti e Alberto Vigevani, ma anche loro rimangono, per ora, in

silenzio sul tema della tradizione ebraica

Sono in questi anni, però, che nacque, come sostiene Raniero Speelman, «un periodo aureo o

argenteo della letteratura italo-ebraica, grazie a scrittori come (in ordine alfabetico) Giorgio

Bassani, Natalia Ginzburg, Carlo Levi, Primo Levi, Elsa Morante, Alberto Moravia, che

furono annoverati giustamente fra i maggiori scrittori italiani (e, in qualche caso, europei).»62

Tuttavia, questo «periodo aureo o argenteo della letteratura italoebraica» è ancora ai suoi

esordi: anche se le leggi razziali ebbero come risultato immediato la riscoperta della cultura

ebraica fra gli ebrei italiani, bisogna aspettare ancora qualche anno, anzi decennio, prima che

il riflesso sul proprio appartenere all’ebraismo diventa un tema centrale nelle loro opere.

2.3. «Tornare, mangiare, raccontare»: la memorialistica in Italia

La parte meglio conosciuta e studiata della letteratura scritta dagli ebrei del Novecento

è probabilmente la narrativa concentrazionaria e la memorialistica. Infatti, in questo periodo

non mancano delle testimonianze, scritte dai deportati sia ebrei che non ebrei, ed esse

assumono subito delle forme molte diverse fra di loro. «La letteratura sui campi di

concentramento nazionalsocialisti», scrive Primo Levi nella prefazione all’edizione italiana di

Uomini ad Auschwitz di Hermann Langbein, «si può grossolanamente dividere in tre

60

Henry Stuart Hughes, Prisoners of Hope, cit., pag. 67. 61

In quanto a Natalia Ginzburg, anche in lei le persecuzioni hanno suscitato un nuovo senso di appartenere,

almeno parzialmente, all’ebraismo. In un’intervista la Ginzburg ha dichiarato che: «I feel profoundly Jewish

because Jews have been exterminated. I felt at that time just how much Jewishness there was in me. I also felt

Catholic. I couldn’t explain.» in Natalia Ginzburg, It Hard to Talk About Yourself, citato in Sergio Parussa,

Writing as Freedom, Writing as Testimony, cit., pag. 65. 62

Raniero Speelman, Introduzione: particolarità e ricchezza della letteratura italoebraica, cit., pag. II.

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categorie: i diari o memoriali dei deportati, le loro elaborazioni letterarie, le opere

sociologiche e storiche.»63

In Italia, accanto a Primo Levi, forse il testimone più noto al

mondo, sono soprattutto delle donne ebree, tutte sopravvissute di Auschwitz, che si mettono a

scrivono le loro testimonianze. Si ricordi fra le testimonianze femminili Il fumo di Birkenau di

Liana Millu (1947), Fra gli artigli del mostro nazista: la più romanzesca delle realtà, il più

realistico dei romanzi di Frida Misul (1946), I ricordi della casa dei morti di Luciana Nissim

(1946), Questo povero corpo di Giuliana Tedeschi (1946), A.24029 di Alba Valech Capozzi

(1946), e, qualche anno più tardo, Edith Bruck, con il suo Chi ti ama così (1959).64

Appena tornati a casa, i deportati sentono la necessità impellente di raccontare e di fissare

subito la memoria. L’atto di raccontare diventa per i reduci un bisogno primario come

mangiare e respirare. Nel racconto Cromo Primo Levi fa un paragone letterario,

identificandosi con il Vecchio Marinaio di Samuel Coleridge, con cui condivide la volontà

impellente di raccontare per strada la propria «storia di malefizi»:

Ma io ero tornato dalla prigionia da tre mesi, e vivevo male. Le cose viste e

sofferte mi bruciavano dentro; mi sentivo più vicino ai morti che ai vivi, e

colpevole di essere uomo, perché gli uomini avevano edificato Auschwitz, ed

Auschwitz aveva ingoiato milioni di esseri umani, e molti miei amici, ed una

donna che mi stava nel cuore. Mi pareva che mi sarei purificato raccontando, e

mi sentivo simile al Vecchio Marinaio di Coleridge, che abbranca in strada i

convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi.65

Il prodotto fu Se questo è un uomo e scrivendo questo libro, continua Levi, «mi sentivo

ridiventare uomo, uno come tutti, né martire né infame né santo, uno di quelli che si fanno

una famiglia, e guardano al futuro anziché al passato.»66

Alcuni scrivono per liberarsi

dall’incubo del passato e per sfogo del dolore. In questo senso, come commenta Primo Levi,

la scrittura acquista una funzione catartica e diventa «un equivalente della confessione o del

divano di Freud.»67

63

Primo Levi, Prefazione a Hermann Langbein, Uomini ad Auschwitz. Storia del più famigerato campo di

sterminio nazista, citato in Anonimo, Introduzione a Primo Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 2005,

pag. 1. 64

Anna Bravo, Una misura onesta: gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993, a cura di

Anna Bravo et al., Milano, Franco Angeli, 1994, pag. 35. 65

Primo Levi, Cromo, in Id., Il sistema periodico, cit., pag. 155 66

Ibidem. 67

Primo Levi, Perché si scrive in Id, L’altrui mestieri, Torino, Einaudi, 2006, pag. 33.

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Per raccontare le loro esperienze, i testimoni hanno dovuto sopravvivere, ma, come afferma

Dori Laub, anche lui sopravvissuto alle stragi naziste, l’opposto è ugualmente vero: hanno

dovuto scrivere per sopravvivere, per provare a dare un senso alla loro esperienza.68

“Far

sapere” significa impedire che si dimentichi ed è proprio questo il motivo, “l’imperativo

etico”, per cui i deportati si sono messi a scrivere le loro storie. La vendetta è il racconto dice

il titolo dello studio del critico Pier Vincenzo Mengaldo sulle testimonianze

concentrazionarie, e, infatti, la scrittura fu un atto di resistenza da parte degli ebrei: scrivono

per opporsi a coloro che vogliono dimenticare e per salvare la memoria dal tempo, dall’oblio

e perfino dalla negazione. 69

Elie Wiesel, scrittore rumeno anche lui sopravvissuto alla Shoah,

ha ricordato che «to forget would be an absolute injustice in the same way that Auschwitz was

the absolute crime. To forget would be the enemy’s final triumph.»70

Tuttavia, la realtà è ben più complessa e quasi paradossale: mentre vi è un’impellente

necessità di raccontare, tanti superstiti non riescono a dare voce a questa necessità. Moltissimi

sono gli altri che cercano rifugio nel silenzio, “l’afasia protettiva”, per non rischiare di

risuscitare il ricordo del trauma appena vissuto e «perché richiamarlo duole o almeno

disturba: chi è stato ferito tende a rimuovere il ricordo per non rinnovare il dolore».71

Alcuni

altri, spesso sotto la spinta della famiglia, si mettono a scrivere le loro esperienze dopo aver

taciuto anni anzi decenni. Ad esempio, questo fu il caso della scrittrice austriaca naturalizzata

italiana Elisa Springer, la quale, a distanza di oltre cinquant'anni, schiacciata dal peso del

ricordo, ha «finalmente capito che doveva parlare» e pubblica così il suo primo libro Il

silenzio dei vivi nel 1997 in cui si legge:

Come tanti altri sopravvissuti, mi ero imposta di non parlare, di soffocare le mie

lacrime nello spazio più profondo e nascosto della mia anima, per essere io sola,

testimone del mio silenzio. [...] Ho taciuto e soffocato il mio vero ‘io’, le mie

paure, per il timore di non essere capita o, peggio ancora, creduta. Ho soffocato

i miei ricordi, vivendo nel silenzio una vita che non era la mia.72

68

Traduzione mia. Versione originale: «The survivors did not only need to survive so that they could tell their

stories; they also needed to tell their stories in order to survive. There is, in each survivor, an imperative need to

tell and thus to come to know one’s story, unimpeded by ghosts from the past against which one has to protect

oneself.» La citazione è stata presa da: Dori Laub, Truth and Testimony: The Process and the Struggle, in

AA.VV., Trauma: Explorations in Memory, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2004, pag. 63. 69

Pier Vincenzo Mengaldo, La vendetta e il racconto. Testimonianze e riflessioni sulla Shoah, Milano, Bollati

Boringhieri, 2007. 70

Elie Wiesel, From the Kingdom of Memory: Reminiscences, New York, Schocken Books, 1990, page 187. 71

Primo Levi, La memoria dell’offesa, in Id., I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 2007, pag. 14. 72

Elisa Springer, Il silenzio dei vivi, Venezia, Marsilio, 1997, pag. 13.

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Con queste parole Elisa Springer ci fa notare le due ragioni principali per cui i sopravvissuti si

nascondono nel silenzio. Vi è, in primo luogo, fra i superstiti ai campi di sterminio, la

consapevolezza che l’argomento è difficilmente credibile per coloro che non sono stati

“nell’universo concentrazionario.” Ne I sommersi e i salvati Primo Levi avverte che «la gente

dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti: dirà che sono

esagerazioni della propaganda alleata».73

Questa incertezza della credibilità, come afferma

Carlo De Matteis, è un tema che ritorna in quasi ogni testimonianza concentrazionaria. «La

non credibilità», prosegue De Matteis, «annienta il testimone, vanifica la sua sofferenza,

rende inutile la morte di innumerevoli essere umani».74

Per paura di non essere creduti tanti

sono i sopravvissuti che non riescono a parlare della propria sofferenza.

Alla paura di non essere creduti e all’impossibilità della comprensione si aggiunge la

consapevolezza dell’impotenza della lingua e dell’intrasmissibilità del ricordo. Il ricordo del

Lager sembra infatti trascendere le capacità linguistiche: per descrivere la realtà indescrivibile

“dell’universo concentrazionario” occorrerebbe oltrepassare i confini del linguaggio.

L’impossibilità di tradurre la propria esperienza in un discorso che rimane fedele alla realtà

storica è un altro fattore che ha trattenuto dal parlare molti reduci. Sulla difficoltà di esprimere

con un linguaggio convincente l’esperienza del Lager riflette ancora una volta Primo Levi, il

quale dichiara, in un passo molto famoso di Se questo è uomo, che «la nostra lingua manca di

parole per esprimere quest'offesa, la demolizione di un uomo.»75

Tuttavia, vi è ancora un altro incubo, come anche segnalato nelle parole sopraccitate di Elisa

Springer, che tormenta i sopravvissuti: quello di non essere ascoltati. È un tema che hanno

angosciosamente rappresentato molte delle testimonianze concentrazionarie: i sopravvissuti

sognano di essere ritornati a casa e di raccontare le loro esperienze ai loro cari, ma questi si

dimostrano del tutto indifferenti al racconto dei superstiti. Nella prefazione a I sommersi e i

salvati Primo Levi ha ricordato che:

Quasi tutti i reduci, a voce o nelle loro memorie scritte, ricordano un sogno che

ricorreva spesso nelle notti di prigionia, vario nei particolari ma unico nella sostanza:

dì essere tornati miracolosamente a casa, di raccontare con passione e sollievo le loro

sofferenze passate rivolgendosi a una persona cara, e di non essere creduti, anzi,

73

Primo Levi, Prefazione a Id., I sommersi e i salvati, cit., pag. 3. 74

Carlo De Matteis, Dire l’indicibile: la memoria letteraria della Shoah, Palermo, Sellerio, 2009, pag. 19. 75

Primo Levi, Se questo è un uomo, cit., pag. 23.

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neppure ascoltati. Nella forma più tipica di questo sogno, l'interlocutore si voltava e se

ne andava in silenzio.76

Infatti, in Se questo è un uomo Primo Levi racconta anche lui di essere tormentato, già durante

le notti ad Auschwitz, da questo incubo dell’ascoltatore indifferente:

Qui c'è mia sorella, e qualche mio amico non precisato, e molta altra gente. Tutti mi

stanno ascoltando, e io sto raccontando proprio questo: il fischio su tre note, il letto

duro, il mio vicino che io vorrei spostare, ma ho paura di svegliarlo perché è più forte

di me. Racconto anche diffusamente della nostra fame, e del controllo dei pidocchi, e

del kapo che mi ha percosso sul naso e poi mi ha mandato a lavarmi perché

sanguinavo. È un godimento intenso, fisico, inesprimibile, essere nella mia casa, fra

persone amiche, e avere tante cose da raccontare: ma non posso non accorgermi che i

miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano

confusamente d'altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda, si alza

e se ne va senza far parola.77

«Allora prendo carta e penna e scrivo quello che non posso dire a nessuno» ha scritto Primo

Levi poi in Se questo è un uomo. Questo sogno del fallimento nell’essere ascoltato, come

annota Anna Rossi-Doria, diventò realtà quando ritornano i deportati in Italia.78

Le loro

esperienze, continua Rossi-Doria, furono davvero accolte dal mondo con indifferenza, «che

lascia tracce profonde e di lunga durata non solo nel dolore e nel silenzio dei singoli, ma

anche nella successiva assenza di una memoria collettiva.»79

Tanto è vero che il processo di

rimpatrio fu molto più difficile e lento in Italia che negli altri paesi.80

Dopo la liberazione si è

subito diffusa in Italia, come ha criticato il deportato, benché non ebreo, Piero Caleffi, «la

fretta non solo dell’indulgenza, che poteva essere nobile, ma anche dell’oblio, che era ed è

delittuoso.»81

La solitudine degli ebrei deportati e «la fretta dell’oblio» è anche visibile nelle opere

letterarie, e perfino storiografiche, sulla deportazione: l’ebraismo e la sua recente tragedia non

furono un tema centrale né negli ambienti della cultura e neppure a livello

76

Primo Levi, Prefazione a Id., I sommersi e i salvati, cit., pag. 4. 77

Primo Levi, Se questo è un uomo, cit., pag. 53. 78

Anna Rossi-Doria, Una memoria solitaria, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, Catanzaro,

Rubbettino, 1998, pag. 27. 79

Ibidem. 80

Il problematico viaggio di ritorno in Italia costituisce la trama del secondo libro autobiografico di Primo Levi,

La tregua, in cui lo scrittore descrive come «ogni ora passata in esilio gli pesava come piombo; anche di piú gli

pesava l’assoluta mancanza di notizie dall’Italia.» in Primo Levi, La tregua, cit., pag. 115. 81

Piero Caleffi, La personalità distrutta nei campi di sterminio, citato in Anna Rossi-Doria, Una memoria

solitaria, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, cit., pag. 27.

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dell’amministrazione pubblica.82

In uno studio dettagliato sugli scritti della deportazione,

Anna Bravo ribadisce che l’indicibilità dell’esperienza della deportazione non è unicamente

dovuta a chi parla, ma anche a chi ascolta. L’indicibile, continua la Bravo, è quindi anche

«frutto di una scelta politica e ideologica da parte di individui e istituzioni, che adottano il

silenzio e ne fanno scivolare la responsabilità da se stessi ai protagonisti»83

In tal senso,

l’indicibile è divenuto “l’inaudibile” perché la storia della deportazione va oltre quello che si

vuole ascoltare. «È una menzogna diventata luogo comune» – conclude Anna Bravo – «che i

superstiti non abbiano scritto e parlato.»84

Infatti, come già detto, molti dei superstiti si sono

messi subito a scrivere le loro memorie e non mancano quindi delle testimonianze scritte, ma

gli editori spesso ne rifiutarono la pubblicazione tanto da poter parlare piuttosto di «un vuoto

di pubblicazioni.»85

Basta ricordare la storia editoriale tutt’altro che trionfale di Se questo è un

uomo, la cui pubblicazione è stata rifiutata da Einaudi nel 1947, a opera di un’altra scrittrice

di origine ebraica, Natalia Ginzburg.86

Il libro fu pubblicato dalla piccola casa editrice De

Silva per intervento di Franco Antonicelli, il quale ne comprende subito l’importanza, non

solo come testimonianza, ma come testo letterario, e ne furono stampate 2500 copie di cui

circa seicento resteranno invendute.87

Inizialmente il libro fu un piccolo successo critico, però

non ebbe la risonanza che avrebbe meritato. Nel 1958 Einaudi rivaluta la propria posizione e

da allora non cessa di ristampare il libro. Certamente che Primo Levi non fu un caso unico, la

stessa sorte colpisce l’ebrea sopravvissuta ad Auschwitz Liana Millu, al cui libro, Il fumo di

Birkenau, viene negata a lungo la pubblicazione.

L’assenza di pubblicazioni trova tuttavia la sua giustificazione nel contesto storico. Sono gli

anni della ricostruzione della patria in cui si è dimostrata una tendenza generale «a

considerare chiuse le vicende della guerra e archiviate le sofferenze.»88

In Italia ciò che

attirava l’attenzione degli intellettuali non era tanto la tragedia degli ebrei quanto la

82

Ad esempio, in Italia, al contrario della Francia, non veniva fatto niente per avviare un censimento dei

deportati. 83

Anna Bravo, Una misura onesta, cit., pag. 35. 84

Ivi, pag. 36. 85

Ivi, pag. 64. 86

Sul rifiuto di Se questo è un uomo: «In fact Levi was devastated—his pride and young ambition badly

dented—by Ginzburg’s rejection. The shunning of his book was like an intimation of the literary scrap heap, yet

Ginzburg’s reluctance to publish Levi was part of a larger, collective reluctance among Italians in general to face

their brutal and regrettable past [...] Cesare Pavese had also judged, correctly as it turned out, that the time was

not right to publish Levi. Italians had other things to worry about, such as finding work and building a better

world for their children, than to read of the German death camps. Italians wanted to say, “It’s all over. Basta!

Enough of this horror!”» In Ian Thompson, The Genesis of If This is a Man, in AA.VV., The Legacy of Primo

Levi, a cura di Stanislao Pugliese, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2005, pag. 54. 87

Enrico Mattioda, Levi, Roma, Salerno Editrice, 2011, pag. 36. 88

Anna Bravo, Una misura onesta, cit., pag. 65.

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Resistanza e la guerra civile. Lo stesso vale per la letteratura in cui è iniziata la grande

stagione del neorealismo, si pensi per esempio a Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino

(1947), in cui l’accento viene messo sull’esperienza resistenziale del popolo italiano. Le storie

partigiane ebbero più risonanza delle storie di prigionia e al centro di esse sta l’italiano

combattente, che si oppone al fascismo, mentre l’ebreo, “la vittima passiva” del razzismo

nazista, rimane un elemento marginale nelle rappresentazioni letterarie della sofferenza

appena patita in Italia.89

Tale “ideologia della Resistenza” è anche visibile nella natura stessa

delle testimonianze. Sebbene non manchino degli ebrei, anche se in minor misura, fra gli

autori delle testimonianze, è soprattutto nella loro attività partigiana, piuttosto che nel loro

ebraismo, che si raccontano. Gli ebrei, quindi, come ha osservato anche Anna Rossi-Doria,

consapevolmente non elaborarono «una loro memoria specifica» perché «essi tacciono la

specificità del loro destino di deportati ‘razziali’, e piuttosto diventano patrioti e resistenti,

destinati all’annientamento in quanto antifascisti.»90

La storica francese Annette Wieviorka ha

avanzata l’ipotesi, per gli ebrei in Francia, che vi fosse bisogno di tempo per vincere il timore

di dichiararsi di nuovo ebrei. Questo timore di dichiararsi ebrei è, fino a un certo grado, anche

visibile negli ebrei superstiti d’Italia. Come ha ribadito anche Giampiero Carocci, l’ebreo,

«peggio ancora se sopravvissuto ad Auschwitz, era un seccatore, un ricordo che si voleva

dimenticare.»91

Per ora, come ha ribadito Anna Bravo, «la voce degli ebrei in parte confusa

tra quelle degli altri deportati.»92

2.4. La memoria e la diversità: la letteratura italo-ebraica nella seconda

metà del Novecento

Le cose sembrano cambiare nei testi più recenti. Con passi modesti e poi via via più

consistenti questa situazione inizia a cambiare nei decenni che seguono. La cultura ebraica

inizia poco a poco a trovare sempre più spazio e affermazione nella cultura nazionale.

Accanto alla scrittura memorialistica si possono individuare in questi anni i primi tentativi

fatti in direzione del romanzo ebraico. Sono infatti a partire dagli anni Sessanta che vengono

pubblicati tre lavori fondamentali: Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani (1962),

89

Ironicamente, come vedremo, a partire dagli anni Settanta, come sostiene la storica Anna Rossi Doria,

l’interesse per i deportati politici «comincia a indebolirsi, fin quasi a scomparire, mentre contemporaneamente

esplode la memoria dello sterminio degli ebrei.» Paradossalmente, oggi, la deportazione viene quasi

esclusivamente associata allo sterminio degli ebrei, e si potrebbe quindi sostenere che i deportati politici siano i

più dimenticati. Anna Rossi-Doria, Le memorie separate, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione,

cit., pag. 38 – 39. 90

Anna Rossi-Doria, Le memorie separate, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, cit., pag. 41. 91

Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 122. 92

Anna Bravo, Una misura onesta, cit., pag. 61.

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Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (1963) e, a distanza di tempo, La Storia di Elsa

Morante (1974).

Ci sembra lecito supporre che la pubblicazione dei libri sopra citati sia indirettamente

sollecitata dal processo di Eichmann a Gerusalemme nel 1961. Lo scopo del processo, oltre a

mettere Eichmann sul banco degli imputati, fu richiamare l’attenzione del mondo sul passato

tormentato degli ebrei. Questo processo fu appunto il tema al centro delle prime pagine di tutti

i quotidiani e ha fatto sì che le memorie dei sopravvissuti, e la Shoah in generale, siano entrate

a far parte della memoria collettiva del mondo. Da questo momento in poi, i racconti sullo

sterminio cominciano a trovare maggior ascolto e «continuano a comparire» – come nota

Mario Saccenti su “Il Mulino” del marzo 1962 – «libri, articoli, film sui lager nazisti e sulle

battaglie dei ghetti: di diseguale valore, più o meno animati da preoccupazioni artistiche e

letterarie, ma tutti con un preciso peso di testimonianza.»93

Il silenzio che circondava la sorte

degli ebrei sotto il fascismo cessa e gli ebrei rivendicano il loro posto nella storia. Infatti,

ancora oggi, vengono pubblicate delle testimonianze nuove; si ricordino le pubblicazioni, tutte

del nuovo millennio, di Un tallèt ad Auschwitz: 10.2.1944 - 5.5.1945 di Teo Ducci (2000), A

5405. Il coraggio di vivere di Nedo Fiano (2003), Questo è stato. Una famiglia italiana nei

Lager di Piera Sonnino (2004) e Io, deportato ad Auschwitz di Piero Terracina (2002).94

Questi testi dimostrano che la memoria della deportazione ancora oggi, a distanza di oltre

settanta anni, sembra ancora estendersi, fino al punto che si potrebbe parlare di una vera

“Holocaust industry” che continua a produrre delle testimonianze, alle quali corrispondono

delle forme narrative sempre più libere ed elaborate.

Nel suo articolo Fuori dei lager: l’“altra” memorialistica ebraica, Raniero Speelman

distingue un secondo filone di letteratura memorialistica ebraica. A differenza della letteratura

memorialistica appena descritta, il protagonista ebreo di questo secondo filone narrativo non è

più il sopravvissuto ai campi di concentramento ma colui che è riuscito, tenendosi nascosto o

fuggendo all'estero, a scampare all’arresto e alla deportazione.95

Ciò che distingue questa

“altra memorialistica” è il periodo in cui vengono pubblicati i testi. Questi testi hanno infatti

93

Mario Saccenti, Testimonianze sui campi della morte, in “Il Mulino”, fasc. 113, marzo 1963, a. XI, n. 3., pp.

258-166, citato in Anna Bravo, Una misura onesta, cit., pag. 69. 94

Raniero Speelman, Introduzione: particolarità e ricchezza della letteratura italoebraica, in AA.VV., Scrittori

italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. III. 95

Raniero Speelman, Fuori dei lager: l’“altra” memorialistica ebraica, in AA.VV. Tempo e memoria

nella lingua e nella letteratura italiana, Atti del XVII Congresso A.I.P.I., Ascoli Piceno, 22-26 agosto 2006, n.s.

5, vol. 4, 2009, pag. 297. A disposizione online: http://www.infoaipi.org/attion/ascoli_vol_4.pdf (ultima verifica

3 maggio 2012).

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una data di pubblicazione di molti anni posteriore e cominciano ad apparire a partire dagli

anni Ottanta e Novanta. Anche se, sempre secondo lo Speelman, si potrebbe negare l’urgenza

del messaggio degli autori, si tratta comunque di «una sapiente rielaborazione, spesso con

l’aiuto di diari del periodo bellico, di un’esperienza giudicata importante per lo scrittore, per i

suoi o per i posteri.»96

Fra i testi citati dallo Speelman si trovano Memorie di vita ebraica di

Augusto Segre (1979), Ricordi di un ebreo bolognese. Illusioni e delusioni (1929-1945) di

Giancarlo Sacerdoti (1983), Perfidi Giudei. Fratelli maggiori del rabbino italiano Elio Toaff

(1987) e fra i testi più recenti Fuga a due di Erika Rosenthal-Fuà (2004) e Il violino rifugiato

di Gualtiero Morpurgo (2006).97

È chiaro quindi che negli ultimi trent'anni la cultura ebraica ha trovato maggior spazio ed

affermazione nella cultura nazionale. Come ha ricordato lo studioso Stephen Siporin, la

cultura ebraica è diventata pubblica.98

Questo passaggio dell’ebraismo dal privato al pubblico,

iniziato come risposta attiva degli ebrei al razzismo fascista, è anche visibile nella letteratura

italiana degli ultimi decenni: l’ebraismo non viene più nascosto nell’ambito privato e gli

scrittori dimostrano un’attitudine sempre più aperta ed esplicita a proposito della propria

identità ed eredità ebraica. Anche lo studioso Rainiero Speelman sostiene che si può parlare di

una maggiore attività letteraria a partire dagli anni Ottanta. Infatti, continua lo stesso

Speelman, gli anni Ottanti, in Italia come altrove, sono gli anni del recupero della coscienza

ebraica.99

Questo “recupero della coscienza ebraica” è, inoltre, in gran parte dovuto al conflitto arabo-

israeliano e alle sue conseguenze sull’ebraismo nel mondo. L’invasione del Libano nel 1982

da parte di Israele e i massacri nei campi palestinesi fanno nascere una nuova ondata di

antisemitismo, il quale sembrava essere scomparso nell’Europa postbellica, ma che ora si

manifesta, di nuovo, in Italia con l’attentato nello stesso anno alla Sinagoga di Roma che

causa la morte di un bambino ebreo.100

Oltre ai sentimenti anti-israeliani, se non antisemiti, si

sviluppa a partire dagli anni Settanta il revisionismo, presso studiosi come Robert Faurisson e

David Irving che mettono in discussione la memoria della Shoah. Secondo questi “assassini

della memoria” «il genocidio praticato dalla Germania nazista nei confronti degli ebrei e degli

96

Ibidem. 97

Ivi, pag. 298. 98

«Jewish culture has gone public.» Stephen Siporin, The Survival of “the Most Ancient of Minorities”, in

AA.VV., The Most Ancient of Minorities: The Jews of Italy, cit., pag. 365. 99

Raniero Speelman, Italian-Jewish Literature, in AA.VV., The Most Ancient of Minorities: The Jews of Italy,

cit. pag. 178. 100

Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 131.

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zingari non è esistito, ma appartiene al mito, alla diceria, alla truffa.»101

Per molti scrittori di

una generazione più giovane il ritorno dell’antisemitismo e il richiamo alla memoria della

sorte dei loro antenati durante le deportazioni costituiscono un'ulteriore spinta per aumentare

l’attenzione per la propria eredità ebraica. In alcuni scrittori si può notare, come ha scritto lo

Speelman, un cambiamento da una tematica generale, non ebraica, verso una tematica

specificamente ebraica. Si pensi a scrittori come Paolo Levi, inizialmente scrittore di gialli,

Guido Artom e Alberto Vigevani. In altri scrittori, invece, il tema dell’ebraismo sembra una

costante: si pensa a scrittori come Angela Bianchini, Alberto Lecco, Lia Levi, Giacoma

Limentani, Sandra Reberschak, Clara Sereni e Roberto Vigevani.102

Il tema della sorte degli

ebrei è, a partire dagli anni Novanta, diventata anche una fonte di ispirazione per gli scrittori

goyim (non ebrei), come per esempio lo scrittore napoletano Erri de Luca. Si ricordi, inoltre, il

libro Un altro mare di Claudio Magris (1991), in cui narra la vita di Enrico Mreule, amico del

filosofo ebreo Carlo Michelstaedter. La variante di Lüneberg di Paolo Maurensig (1993),

parla della sorte di uno scacchista ebreo nel campo di concentramento di Bergen Belsen. Da

menzionare, infine, la scrittrice Rosetta Loy, che ha dedicato numerosi libri al tema delle

persecuzioni degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Nel La parola ebreo (1997), un

romanzo saggistico, la scrittrice fa un viaggio indietro nel tempo e riflette su come la parola

ebreo è entrata nella sua vita.103

In questo libro, la scrittrice denuncia il mancato senso di

responsabilità da parte degli italiani durante gli anni del fascismo nei confronti dei loro

compatrioti ebrei.

Un altro fattore, secondo Raniero Speelman, che ha contribuito alla ricchezza della

componente ebraica nella letteratura italiana è l’immigrazione in Italia di ebrei stranieri che

hanno adottato la lingua italiana. Tra essi si trovano, sempre secondo lo Speelman, «i grandi

talenti della nuova generazione», come le già menzionate Edith Bruck e Elisa Springer, i

fratelli Giorgio e Niccola Pressburger e Helena Janeczek, tutti provenienti dall'Europa

centrale.104

In questi testi il filo rosso della narrazione è spesso costituito dal tema del viaggio:

un viaggio nello spazio, cioè un ritorno nel paese d’origine della propria famiglia, ma anche

un viaggio nel tempo, cioè una ricostruzione della storia famigliare che è stata obliterata dalla

Shoah.

101

Anna Rossi-Doria, Il culto della memoria, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, cit., pag. 20. 102

Raniero Speelman, Introduzione: particolarità e ricchezza della letteratura italoebraica, in AA.VV.,

Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. II. 103

Ivi, pag. XVII. 104

Ivi, pag. III.

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Oltre alla memoria della storia vissuta e del trauma della deportazione nazista, l’altro

denominatore comune della comunità ebraica, come afferma lo Speelman, è il sentimento di

essere diversi.105

Prima di concludere questo capitolo, riprendiamo il discorso sulla identità

ritrovata e sulla diversità ebraica.

Una volta finite le atrocità della seconda guerra mondiale, Giampierro Carocci sostiene che è

lecito parlare di una terza emancipazione, dopo quella napoleonica nel 1797, e quella seguita

al Risorgimento tra il 1848 e il 1870. Ciò che distingue, sempre secondo il Carocci, la terza

emancipazione dalle due precedenti è che essa non promuove più l’assimilazione ma sembra

invece rifiutarla perché viene considerata come perdita completa della diversità ebraica.106

Si

è visto che prima della promulgazione delle leggi razziali l’ebraismo apparteneva alla sfera

privata ed era rinchiuso nell'ambito familiare, mentre adesso costituisce una componente

identitaria ben più evidenziata. Con una serie di immagini Giacomo Debenedetti ci offre una

descrizione molto profonda di questa anima ebraica ritrovata:

Sentirsi ebrei sarà un sentir rinascere dal fondo - nelle ore di più geloso raccoglimento,

ore quasi inconfessabili tanto sono intime - vecchie cantilene sinagogali, udite ai tempi

dell'infanzia nella pigra monotonia di grevi crepuscoli, in una luce di ceri stanchi che

tremava sulla berretta del cantore, solo in piedi, laggiù sul tabernacolo deserto: e su

quelle cantilene l’anima si inflette in errabonde ricerche del tempo perduto: desolati a

tu per tu con squallori senza tempo, bruciori di lacrime mal riasciugata, tremolar di

sorrisi senza scampo, un abbracciarsi con le ombre dei limbi, struggenti agnizioni di

avi mai conosciuti, e un segreto di inenarrabili malinconie, e il crollare indefesso

contro invisibili muri del pianto.107

Se prima delle leggi razziali l’identità nazionale fu più forte di quella ebraica, che Umberto

Saba chiama non più che «una nota di colore» nel «mondo meraviglioso».108

Oggi, ci sembra

lecito supporre che identità nazionale e identità ebraica siano di pari importanza. In quanto al

dibattito sull’assimilazione e sulla particolarità dell’identità ebraica nella società

contemporanea, anche Henry Stuart Hughes si è chiesto se non sia possibile essere assimilati

al gruppo maggioritario e allo stesso tempo custodire la propria eredità ebraica, ovvero la

105

Raniero Speelman, Dall’Argon al Carbonio: la letteratura italiana ebraica del dopoguerra, in AA.VV., Gli

spazi della diversità, cit., pag. 79. 106

Giampierro Carocci, Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 123. 107

Giacomo Debenedetti, Otto ebrei in Id., 16 ottobre 1943, con una prefazione di Natalia Ginzburg, Torino,

Einuadi, 2001, pp. 68 – 69. 108

Umberto Saba, citato in Cosimo Cucinotta, Le parole ritrovate: itinerari testuali del primo Saba, Cosenza,

Pellegrini, 2005, pag. 13.

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possibilità di appartenere e differenziarsi allo stesso tempo.109

La storia degli ebrei, secondo il

filosofo francese Vladimir Jankélévitch, si è sempre caratterizzata per l’oscillazione fra

l’adozione della cultura della maggioranza, e la tendenza a conservare la propria diversità

culturale. Il problema interiore dell’identità ebraica è quindi l’oscillazione fra «il desiderio di

cancellare la differenza e desiderio di conservarla. [...] C'è un desiderio oscuro – continua il

Jankélévitch – in ciascuno di noi di livellare, di negare questa differenza, e un desiderio di

preservarla come un fiore raro, come una pianta preziosa che dovremmo coltivare in noi.»110

Soprattutto in seguito al processo di Eichmann e alla nuova ondata di antisemitismo a partire

dagli anni Ottanta, questa duplicità esistenziale degli ebrei è diventata qualcosa da coltivare e

preservare. La maggior parte degli ebrei, secondo Carocci, non torna all’ortodossia e non

avverte la loro identità strettamente in legame alla religione ebraica, ma «alla appartenenza,

una appartenenza resa granitica dalla memoria della Shoah.»111

Anche se il senso di

appartenere non si manifesta mai nello stesso modo, l’ebraismo sembra sempre essere, come

afferma Giorgio Bassani, «qualcosa di più intimo.»112

Anche il critico Giacomo Debenedetti

si è chiesto «che cosa sia l'ebraismo negli ebrei» e conclude che «è questione da non venirne a

capo così facilmente. In ogni caso, si tratta d'una faccenda di stretta intimità.»113

L’anima

ebraica costituisce quindi una componente identitaria fondamentale, indefinibile pur sempre

presente, e per questa ragione porta con sé una continua riflessione su di essa. Anche Natalia

Ginzburg, di padre ebreo e madre cattolica, si trova intrappolata fra cattolicesimo e ebraismo

e ha fornito una definizione della propria diversità ebraica nella prefazione al libro del

Debenedetti:

la diversità degli ebrei [è] di una qualità strettamente segreta, privata e intima, come

un tenue segno stampato nello spirito, profondo e tenue, così profondo e così tenue

che non può non tradursi in nulla che non appartenga allo spirito.114

109

Henry Stuart Hughes, Prisoners of Hope, cit., pag. 2. 110

Vladimir Jankélévitch, La coscienza ebraica, citato in Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as

Testimony, cit., pag. 11. 111

Giampierro Carocci, Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 127. 112

Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi Contini, in Id., Il Romanzo di Ferrara, Milano, Mondadori, 1973, pag.

268. 113

Giacomo Debenedetti, Otto ebrei in Id., 16 ottobre 1943, cit., pag. 68. 114

Natalia Ginzburg, Prefazione a Giacomo Debenedetti, 16 ottbbre 1943, cit., pag. XI.

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E conclude che:

Non è forse questa diversità assai simile a quella di ogni altro diverso, ciò che gli

ebrei, o meglio in generale gli uomini (poiché in ogni uomo può nascondersi un ebreo

o un diverso) devono soprattutto coltivare e difendere, non certo con la violenza né

con le armi, ma con ogni facoltà del proprio essere e del proprio pensiero? 115

Gli scrittori di origine ebraica delle ultime generazioni sono, a nostro giudizio, caratterizzati

dalla volontà di unire e sincronizzare «la doppia cittadinanza», pur sempre mantenendo e

coltivando la loro «qualità strettamente segreta, privata e intima».116

Per questo motivo, non ci

sorprende che il tema dell’interrogarsi sulla propria identità sia un tema ricorrente nelle loro

opere.

Concludendo questo capitolo, sosteniamo che il richiamo all’ebraismo e il ritrovato interesse

per la propria identità è ben visibile nella produzione letteraria degli scrittori ebrei d’oggi:

mentre all’inizio del secolo manca quasi ogni riferimento all’ebraismo, oggi, la letteratura

sembra diventare un mezzo di manifestazione ed esplorazione della propria identità e della

propria diversità. «La scrittura ebraica d’Italia, supposto che se ne possa effettivamente

parlare» – ribadisce la scrittrice contemporanea italiana di origine ebraica Elena Loewenthal –

«è essenzialmente una scrittura autobiografica, o in modo palese oppure fra le righe.»

Raccontando di se stessi, sempre secondo la scrittrice, gli ebrei vogliono ribadire la propria

esistenza e dire che «siamo. Esistiamo. E soprattutto: siamo esistiti.»117

115

Ibidem. 116

Giampierro Carocci, Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 125. 117

Elena Loewenthal, La tentazione di esistere, in AA.VV., Appartenenza e differenza, cit., pag. 156.

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III. Il mosaico ebraico: letteratura e memoria ebraica

3.1. Introduzione: il secolo della memoria

Nel capitolo precedente si è visto che le due parole chiave del nostro discorso sono

identità e memoria in quanto fondamentali per la produzione letteraria dello scrittore italiano

di origine ebraica. Abbiamo già brevemente toccato il tema della memoria nella tradizione

letteraria degli ebrei, però sostanzialmente legato alla memoria del trauma delle atrocità del

secolo scorso. Si è visto che nell’immediato dopoguerra vi è fra gli ebrei una necessità

notevole di raccontare e di fissare subito la memoria dell’offesa perché far sapere significa

impedire che si dimentichi. Ricordare è quindi un compito etico e la scrittura, di conseguenza,

si trova spesso ad assolvere un ruolo cruciale nel compito di sottrarre all’oblio la memoria.

Mentre il capitolo precedente si è soprattutto soffermato sul rapporto fra l’identità ebraica e la

produzione letteraria lungo il Novecento, lo scopo del capitolo presente è quello di indagare

l’importanza del tema della memoria nella tradizione ebraica e vedremo come lo strumento

della memoria sia divenuto la chiave per definire l’identità degli scrittori ebrei. Infine, ci

proponiamo di approfondire il rapporto fra la memoria e la scrittura.

Oggi, la memoria, intesa come ricordo del passato, è un tema che si trova spesso al centro

dell'attenzione degli studi sociali culturali, tanto che il ventesimo secolo è spesso stato

chiamato il “secolo della memoria”. L’interesse verso la memoria, sia individuale che

collettiva, si accentua alla fine del ventesimo secolo tanto che si può dire, come ha sostenuto

Jay Winter, che si è verificato un vero «memory boom» nella cultura moderna, in cui romanzi

e saggi dedicati alla testimonianza del passato hanno tutti un enorme successo editoriale.118

I

motivi di questo rinnovato interesse per la memoria sono molteplici.

Nel suo celebre saggio Les lieux de mémoire lo storico francese Pierre Nora afferma, quasi

paradossalmente, che «si parla tanto di memoria solo perché questa non esiste più».119

Il venir

meno della memoria, secondo la tesi di Nora, sarebbe dovuto «all'accelerazione della storia»,

intesa come «an increasingly rapid slippage of the present into a historical past that is gone for

118

Jay Winter, Remembering War: The Great War Between Memory And History In The Twentieth

Century,Yale, University Press, 2006, pag. 276. 119

Pierre Nora, Entre Mémoire et Histoire. La problématique des lieux, traduzione di Anna Rossi-Doria, citato in

Anna Rossi-Doria, Il culto della memoria, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, cit., pag. 14.

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good», che deriva dall’accelerazione della vita moderna, spinta dal processo di

globalizzazione e dallo sviluppo della cultura di massa.120

La distanza fra passato e presente è

talmente incolmabile che, secondo Nora, non esistono più dei milieux de mémoire (ambienti

reali della memoria) nelle «hopelessly forgetful modern societies, propelled by change.»121

Per ristabilire, quindi, un ponte tra passato e presente, le società sono costrette a costruire

artificialmente dei lieux de mémoire (luoghi di memoria) in cui si conservano le tracce del

passato con cui si è ormai perso ogni contatto. Legato a questa necessità di commemorare il

passato è anche il venir meno dei testimoni diretti delle atrocità del secolo scorso. A proposito

di questo, anche Primo Levi ha ricordato che «la maggior parte dei testimoni, di difesa e di

accusa, sono ormai scomparsi» e che quelli che rimangono «dispongono di ricordi sempre più

sfuocati e stilizzati».122

È, dunque, compito delle società conservare la memoria del passato, la

quale, «without commemorative vigilance, history would soon sweep [...] away.»123

Un’altra causa, da un punto di vista storico-politico, di questo rinnovato interesse verso la

memoria e la sua conservazione è, come ricorda Rossi-Doria, legata al crollo delle grandi

ideologie che hanno segnato il secolo scorso.124

Con il fallimento delle ideologie,

simbolicamente rappresentato dal crollo del muro di Berlino, «le promesse di un avvenire

migliore che risuonavano ancora negli anni Sessanta e Settanta [...] avevano cessato di

risuonare nello spazio europeo.»125

Da allora, non si guardò più al futuro con ottimismo, ma al

passato, il quale è diventato la «sola promessa di continuità».126

A questo si aggiunga che la

crisi di un’ideologia porta sempre con sé un vuoto di identità, sia a livello individuale che

collettivo, che la memoria del passato potrebbe andare a colmare. Infatti, la fine delle

ideologie novecentesche, «attraverso le quali per molto tempo la memoria [e le identità

collettive] erano state conservate e trasmesse», ha permesso a diverse nazioni di ridefinire le

loro identità nazionali collettive, come per esempio nell’Europa orientale, attraverso la

riappropriazione e la riscoperta del passato nazionale.127

Attraverso il recupero del passato si

cerca, dunque, di colmare i vuoti lasciati dai grandi conflitti del Novecento.

120

Pierre Nora, Between Memory and History: Les Lieux de Mémoire, in “Representations”, anno 1989, n. 26.,

pag. 7. 121

Ivi., pag. 8. 122

Primo Levi, Prefazione a Id., I sommersi e i salvati, cit., pag.10. 123

Pierre Nora, Between Memory and History: Les Lieux de Mémoire, cit., pag. 12. 124

Anna Rossi-Doria, Il culto della memoria, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, cit., pag. 15. 125

Nicola Barilli, Il campo di battaglia della memoria. Sulla rappresentazione del passato in Heiner Müller,

Tesi di dottorato, Università di Bologna, 2009, pag. 21. 126

Pierre Nora, Entre Mémoire et Histoire. La problématique des lieux, traduzione di Anna Rossi-Doria, citato in

Anna Rossi-Doria, Il culto della memoria, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, cit., pag. 15. 127

Ibidem.

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Prima di concludere questa introduzione, bisogna fare una distinzione assai importante fra due

modi diversi per affrontare il passato, cioè una distinzione fra la storia e la memoria, che sono

due concetti diversi ma intrecciabili che rispondono a due modi distinti per porsi rispetto al

passato. Lo storico Jay Winter dichiara appunto che «history is memory seen through and

criticized with the aid of documents of many kinds», mentre «memory is history seen through

affect.»128

A proposito di questa distinzione fra storia e memoria sono anche famose le parole

di Pierre Nora che ribadisce che:

Memoria e storia, lontane da essere sinonimi, prendiamo coscienza che tutto le

oppone. La memoria è la vita sempre sostenuta da gruppi vivi e a questo titolo, è in

evoluzione permanente, aperta alla dialettica del ricordo e dell’oblio, incosciente delle

sue deformazioni successive, vulnerabile a tutti gli usi e manipolazioni, suscettibile di

lunghe latenze ed improvvise rivitalizzazioni. La storia è la ricostruzione sempre

problematica e incompleta di ciò che non è più. La memoria è un fenomeno sempre

attuale, un luogo vissuto in un presente eterno; la storia, una rappresentazione del

passato. [...] Al centro della storia, opera un criticismo distruttore della memoria

spontanea. La memoria è sempre sospetta alla storia, quest’ultima ha come obiettivo di

distruggerla e respingerla. La storia è la delegittimazione del passato vissuto.

All’orizzonte delle società storiche, ai limiti di un mondo completamente storicizzato,

ci sarà una desacralizzazione estrema e definitiva. Il movimento della storia,

l’ambizione storica non sono l’esaltazione di ciò è realmente accaduto, ma il suo

annientamento.129

3.2. Zakhor: memoria ed ebraismo

Anche se il tema della memoria è un tema di interesse universale, nella nostra

riflessione il focus dell’attenzione sarà mantenuto sull’importanza del tema della memoria

nella tradizione ebraica. È peraltro noto che la memoria svolge un ruolo cruciale nella

tradizione ebraica. Gli ebrei sono, come nessun altro popolo, affascinati dalla memoria. O,

come afferma lo scrittore italiano contemporaneo di origine ebraica Alessandro Schwed:

gli ebrei sono professionisti della memoria, sono “uomini d’aria”, sempre al centro di

un contenzioso della storia. Al tempo dell’esilio di Nabucodonosor per conservare la

memoria dell’esatta pronuncia della parole adottarono la punteggiatura sotto le lettere

128

Jay Winter, The performance of the past: memory history, identity, in AA.VV., Performing the past: Memory,

History, and Identity in Modern Europe, a cura di Jay Winter et al., Amsterdam, University Press, 2010, pag. 12. 129

Pierre Nora, Entre Mémoire et Histoire. La problématique des lieux, traduzione di Anna Rossi-Doria, citato in

Anna Rossi-Doria, Il culto della memoria, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, cit., pag. 20.

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e così preservarono un aspetto prezioso della loro identità. E’ una storia piena di

poesia, che ci riporta al grande valore attribuito dall’ebraismo alle proprie radici.130

L’importanza delle memoria è anche visibile nel Tanakh. La parola ebraica Zakhor è

un’imperativo che significa «ricorda!» e ricorre, come nota lo storico ebreo Yosef Hayim

Yerushalmi, non meno di centosessantanove volte nel Tanakh.131

Il Tanakh, sempre secondo

il Yerushalmi, «non sembra avere esitazioni nel prescrivere il ricordo» e esso è «sempre di

importanza cardinale.»132

Si pensi, per esempio, al precetto biblico di effettuare alla cena

pasquale il rituale del seder durante il quale si istruiscono i propri figli, attraverso la lettura

della Haggadah di Pesach (il testo che si legge durante la cena), in merito alla storia

dell’esodo del popolo ebreo dall'Egitto dei Faraoni.133

Ogni ebreo è poi tenuto a considerare

questa storia «come se lui stesso uscisse dall'Egitto.» (Pesachim 116:b) Il precetto di

tramandare la memoria ai posteri e di ricordarsi della propria origine è quindi fortemente

impresso nella coscienza ebraica; perciò non è sorprendente che il ricordo della propria

origine costituisca spesso il filo rosso nelle opere di scrittori d’origine ebraica.

Il ricordo delle proprie radici è centrale nel racconto di Argon di Primo Levi in cui lo scrittore

racconta la storia della piccola comunità ebraica del Piemonte in cui è cresciuto. Questa

comunità, così come il gergo che parlava, è quasi completamente scomparsa e sta per

scivolare per sempre nell'oblio. L’unica cosa che è rimasta di questa comunità è il ricordo

dello scrittore stesso. Attraverso il recupero delle parole, dei costumi e delle storielle, Levi

cerca di riportare in vita il ricordo di questa comunità «nobile, inerte e rara» e di serbarne una

testimonianza.134

Lo scopo di questo racconto, dunque, non è semplicemente un esercizio

nostalgico, non è raccontare i bei tempi passati ma preservare e tramandare, non importa

quanto vecchio, il ricordo ancora vivo degli antenati «figés dans une attitude.»135

È la storia di

una comunità che chiede di non essere dimenticata. Attraverso la scrittura Primo Levi le

assicura la sopravvivenza nel flusso del tempo.

130

Daniela Gross, intervista con Alessandro Schwed: “Dobbiamo ricostruire le emozioni”, Moked: il portale

dell’ebraismo italiano, 21 gennaio 2009. A disposizione online: http://moked.it/blog/2009/01/21/memoria-5-

alessandro-schwed-dobbiamo-ricostruire-le-emozioni/ (ultima verifica 28 maggio 2012). 131

Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, traduzione di Daniela Fink, con

introduzione di Harold Bloom, Firenze, Giuntina, 2011, pag. 39. 132

Ibidem. 133

Il precetto biblico che prescrive di raccontare al proprio figlio la storia dell’uscita dall’Egitto, contenuta

nell'Haggadah, si trova nell'Antico Testamento e dice così: «in quel giorno tu istruirai tuo figlio: E' a causa di

quanto ha fatto il Signore per me, quando sono uscito dall'Egitto.» (Es. 13: 8) 134

Primo Levi, Argon, in Id., Il sistema periodico, cit., pag. 4. 135

Ivi, pag. 13.

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Questo tema del recupero del passato attraverso il ricordo di parole e di costumi fa subito

pensare all’opera di Natalia Ginzburg, in specifico al suo Lessico Famigliare. Anche qui, il

tema centrale è il ricordo della propria famiglia ebraica, il quale viene richiamato attraverso la

memoria di parole ed espressioni sentite ripetere tante volte nel mondo famigliare. In questo

romanzo di memoria si legge:

Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all'estero: e

non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l'uno con l'altro,

indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di

quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire:

"Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna" o "De cosa spussa l'acido

solfidrico", per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e

giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi

o parole ci farebbe riconoscere l'uno con l'altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra

milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni

andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiri-babilonesi, la testimonianza

di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati

dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento

della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e

resuscitando nei punti più diversi della terra, quando uno di noi dirà - egregio signor

Lippman - e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre:

"Finitela con questa storia! L'ho sentita già tante di quelle volte!".136

Il messaggio di questo testo che si dimostra essere molto simile a quello di Primo Levi, è che

il ricordo, attraverso le parole e le espressioni, è più che un richiamo alla propria infanzia o al

proprio passato, è «la testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che

sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo.»137

In

questo senso, il passato viene salvato dall’oblio attraverso la sua riattualizzazione nel

presente: il ricordo della famiglia continua a vivere fintanto che ne vengono ripetute le

parole.138

Attraverso il recupero della memoria si cerca, dunque, di unire il passato con il presente e di

tenere viva una tradizione anche se minoritaria. Tuttavia, in ciò che segue, vedremo che

questa volontà di ricordare va pure oltre lo scopo di tenere vivo il ricordo e di arrestare il

136

Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, in Ead., Opere, Milano, Mondadori, 1986, 2 voll., vol. I, pp. 920 – 921. 137

Ibidem. 138

Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, cit., pag. 83.

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tempo sulla pagina scritta. Il ricordo di un tempo passato fa parte del ricordarsi di appartenere

ad un certo gruppo, cioè, nei casi sopra citati, alla comunità ebraica del Piemonte per Levi e

all’unità famigliare per la Ginzburg. Infatti, nel caso della Ginzburg, come ha osservato

Sergio Parussa, le espressioni famigliari sono più che «un’antologia di nostalgia», sono il

«fondamento della unità famigliare» la quale viene rianimata ogni volta che ne viene

pronunciata una, perfino quando la casa famigliare non è più che «il buio di una grotta.»139

Per questo ci sembra lecito supporre che esista un legame forte fra la ricerca di un tempo

perduto e la ricerca di una parte andata perduta della propria identità.

3.3. Alla ricerca dell’identità perduta: memoria e identità ebraica

In quanto al rapporto fra memoria e identità, è lecito sostenere che la memoria

individuale sia una parte fondamentale del proprio essere. Tanto è vero che senza la memoria

si è spogliati della propria origine e, di conseguenza, della propria identità personale. Nello

stesso modo, è lecito affermare che la memoria collettiva è il fondamento dell'identità

collettiva di un gruppo. Come afferma Jay Winter, «the performative act of remembrance is

an essential way in which collective identities are formed and reiterated.»140

La memoria, sia

privata che collettiva,141

è dunque un elemento costitutivo dell’identità, sia a livello

individuale che collettivo, che serve a rafforzare i legami tra i diversi membri di un gruppo

che hanno una comune eredità. Il processo di ricordare diventa in questo modo un processo

dinamico di autoscoperta e di autodefinizione.

Questo è specialmente vero per gli ebrei della diaspora che hanno vissuto come minoranza

sparsa per il mondo. A prima vista, ciò che sembra essere il fattore principale per

139

Ibidem. 140

Jay Winter, The performance of the past: memory history, identity, cit., pag. 15. 141

La differenza fra “memoria collettiva” e “memoria individuale” è stata oggetto di un lungo dibattito. Alcuni

sostengono, tra cui il primo fu Aristotele, che la memoria sia un fenomeno puramente soggettivo che appartiene

soltanto all’individuo mentre altri, in specifico il filosofo francese Maurice Halbwachs, sostengono che la

memoria sia un fenomeno collettivo, completamente determinato dal gruppo (nazionale, etico, ecc) a cui si

appartiene. Secondo la visione di Halbwachs, non esiste affatto una memoria individuale perché ogni singolo

ricordo è determinato da un pensiero collettivo. Esiste, inoltre, una terza visione di compromesso: la memoria è

un fenomeno sia individuale che collettiva. Questo è il punto di vista di, per esempio, Paul Ricœur. Per il resto

del lavoro presente, quando facciamo riferimento al concetto di “memoria”, intendiamo la memoria come

un’interazione fra l’individuale e il collettivo. Anche Xavier Lavenne e altri hanno affermato che questo livello

intermedio è il più importante negli studi letterari: «literary scholars will often deal with novels in which

characters, the narrator, even the writer himself recount their personal experiences, but in which these personal

narratives transcend the individual and concern a much larger group of people, sometimes mankind in its

totality.» cfr. Francois Xavier Lavenne, Virginie Renard and François Tollet, Fiction, between inner life and

collective memory: a methodological reflection, in “The New Arcadia Review”, anno 2005, vol. 3. A

disposizione online: http://www.bc.edu/publications/newarcadia/archives/3/fiction/ (ultima verifica 6 luglio

2012).

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l’identificazione dell’ebreo è la religione ebraica. Tuttavia, abbiamo visto che non ogni ebreo

è credente, ma questo, se non si considera la questione dal punto di vista dell’ortodossia, non

significa che ha cessato di essere ebreo. Siccome «ogni identità è suscettibile di mutamenti di

generazione in generazione [...] è difficile definire anche quella ebraica.»142

In quanto alla

problematica definizione dell’identità ebraica, si è visto nel capitolo precedente che essa è

caratterizzata dalla tensione fra assimilazione e coscienza di diversità. L’identità dell’ebreo è

dunque un’identità frammentata, come un mosaico composto di tessere di colori vari, che

viene ridefinita in relazione al contesto culturale in cui questa identità si colloca. Tuttavia per

mantenere vivo il legame con la propria ebraicità, è fondamentale per l’ebreo ricordarsi della

propria appartenenza. Più che altro, dunque, diremmo che è la memoria che definisce

l’identità ebraica. Per questo, nella parte che segue approfondiamo ancora alcune

considerazioni sull’importanza della memoria nell’ebraismo in quanto legata alla ricerca

identitaria degli ebrei.

Innanzitutto, bisogna tener conto del modo specifico in cui gli ebrei scelgono di trasmettere il

loro passato. All’inizio del capitolo si è visto che storia e memoria sono due modi diversi per

porsi rispetto al passato. La memoria, come si è visto, tenta di unire il passato con il presente,

mentre la storia sottolinea la «irreparabile separazione» fra passato e presente.143

Si potrebbe,

perciò, sostenere, come afferma Rossi-Doria, che «la memoria rifiuta la morte e la storia la

accetta.»144

Tuttavia, questo rapporto già assai problematico fra storia e memoria viene

ulteriormente complicato nella tradizione ebraica perché gli ebrei hanno una concezione

ancora più specifica di cosa significa fare e scrivere storia. L’ebraismo, secondo Sergio

Parussa, prendendo spunto dallo studio di Stefano Levi Della Torre, presenta un modo ancora

più particolare per volgersi al passato; secondo l’autore è tipicamente ebraico trattare la storia

come una memoria attiva.145

A proposito di questa percezione del passato, specificamente

ebraica, Stefano Levi Della Torre sostiene che:

il senso storico moderno ci ha abituati a tradurre la memoria in storia, l’esperienza

vissuta e tramandata in un sapere oggettivato e misurabile, la sincronia della coscienza

nella diacronia dei fatti. L’ebraismo mi sembra proporre il movimento inverso: traduce

la storia in memoria, l’evento e l’analisi delle cause in strutture mentali e di

142

Marco Aime, Eccessi di culture, citato in Maria Carmela D’Angelo, La dimensione transculturale della

letteratura in lingua italiana di scrittori afferenti alla cultura ebraica del Novecento postbellico, in AA.VV.,

Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 168. 143

Anna Rossi-Doria, Il culto della memoria, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, cit., pag. 1. 144

Ibidem. 145

Ivi, pag. 3.

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comportamento, le quali sono intessute di relazioni reciproche e transitive, quali sono

le spiegazioni causali e le concatenazioni temporali.146

Piuttosto che assicurare che il passato venga accolto nella grande storia umana ossia, come

afferma Della Torre, nel «sapere oggettivato e misurabile», l’ebreo intende far entrare il

passato nel proprio presente. Trattare poi la storia, anche se lontana, come una memoria attiva

significa anche che il passato non si lascia mai morire, come scrive Giorgio Bassani:

il passato non è morto [...] non muore mai. Si allontana, bensì, ad ogni istante.

Ricuperare il passato dunque è possibile. Bisogna tuttavia, se proprio si ha voglia di

ricuperarlo, percorrere una specie di corridoio ad ogni istante più lungo. Laggiù, in

fondo al remoto, soleggiato punto di convergenza delle nere pareti del corridoio, sta

la vita, vivida e palpitante come una volta, quando primamente si produsse. Eterna,

allora? Eterna. E nondimeno sempre più lontana, sempre più sfuggente, sempre più

restia a lasciarsi di nuovo possedere.147

Attraverso l’atto di ricordare, come sostiene lo scrittore ferrarese, è possibile salvare il passato

dalla morte che è il trascorrere del tempo. La scissione fra storia e memoria nella tradizione

ebraica è anche il tema dello studio dello storico ebraico Yosef Hayim Yerushalmi, il quale

sostiene che «quegli ebrei che cercano ancora di mantenersi all’interno del cerchio incantato

della tradizione [...] considerano il lavoro dello storico del tutto irrilevante: essi non cercano la

storicità del passato, ma la sua eterna, immutabile contemporaneità.»148

Egualmente

«antistorico» è l’atteggiamento degli ebrei moderni che «sembrano spesso soffrire di una

nostalgia lancinante per un passato che non c’è più.»149

Anche questi ebrei moderni, sempre

secondo Yerushalmi, preferiscono non affrontare direttamente la storia, ma stanno aspettando

«un nuovo mito metastorico, per il quale il romanzo fornisce almeno un surrogato

temporaneo.»150

Gli ebrei hanno, quindi, sempre avuto «un’idea più personale e soggettiva

della storia» a cui si sentono sempre strettamente legati.151

La storia, secondo Yerushalmi,

«come autentica registrazione degli avvenimenti storici», non è il mezzo principale «tramite il

quale la memoria collettiva del popolo ebraico è stata stimolata a risvegliarsi», al contrario, il

compito di risvegliare la memoria ebraica spetta alle comunità ebraiche stesse.152

146

Stefano Levi Della Torre, Mosaico. Attualità e inattualità degli ebrei, cit., pag. 42. 147

Giorgio Bassani, Laggiù, in fondo al corridoio, in Id., Romanzo di Ferrara, cit., pag. 732. 148

Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor, cit., pag. 129. 149

Ivi., pag. 130. 150

Ibidem. 151

Ibidem. 152

Ivi., pag. 40.

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Per meglio illustrare questo punto, ci riferiamo ancora una volta al rituale del racconto della

Haggadah di Pesach durante la Pasqua ebraica. A questo proposito, Yosef Hayim Yerushalmi

ha ribadito che questo rituale non è «uno studio delle nostalgie ebraiche», ma rappresenta una

sorta di «unione fra la memoria ebraica e la storia ebraica».153

Attraverso questa unione fra

storia e memoria, sostiene Yerushalmi, «la memoria della nazione viene ogni anno rinnovata e

ricostituita, e la speranza collettiva viene rafforzata.»154

La storia serve poi nel presente come

«una struttura mentale e di comportamento» che implica che non ci si può mai dimenticare

delle proprie radici.155

«Il fare la storia nel senso ebraico» - commenta Stefano Levi Della

Torre – «mi sembra consistere soprattutto nel ripetersi».156

In questa ottica, la storia diventa,

attraverso un continuo ripetersi, una memoria attiva che continua a formare l’identità sia

individuale che collettiva degli ebrei. Appunto, per questo motivo, come ribadisce Yerushalmi

più avanti, «molti ebrei di oggi sono in cerca di passato, ma ovviamente non del passato che

può offrire loro lo storico.»157

In conseguenza di ciò, quando viene evocato un tempo lontano,

non sono necessariamente i fatti storici concreti che contano ma, piuttosto, il significato che

assumono quando vengono riattualizzati nel presente.

Per esemplificare ancora meglio questo ragionamento, Sergio Parussa stabilisce un’analogia

fra l’atto del trasformare la storia in memoria e la disciplina della psicoanalisi, che forse non a

caso ha preso l'avvio dal lavoro di Sigmund Freud, anch’egli di origine ebraica.158

Nel

trattamento psicoanalitico il paziente fa spesso ritorno alla propria infanzia non con l’intento

di ricostruire il passato ma con lo scopo di scoprire dei frammenti di ricordi che sono ancora

attivi nel presente e continuano a influenzare il presente del paziente. A questo si aggiunge

poi la famosa metafora archeologica in cui Freud confronta il lavoro dell'archeologo con

quello dello psicoanalista, il quale «nei suoi scavi, deve scoprire strato dopo strato la psiche

del paziente, prima di raggiungerne i tesori più profondi e preziosi.»159

Attraverso il ricordo, e

la permanente riattualizzazione della storia, si va alla ricerca di questi «tesori più profondi e

preziosi» che costituiscono il mosaico dell’identità dell’ebreo. La memoria, specie per gli

153

Harold Bloom, Introduzione a Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor, cit., pag. 13. 154

Ibidem. 155

Stefano Levi Della Torre, Mosaico. Attualità e inattualità degli ebrei, cit., pag. 42. 156

Ibidem. 157

Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor, cit., pag. 130. 158

In quanto all’ebraismo di Freud, Giampiero Carocci ricorda che Freud «si è sentito legato all’ebraiso da

“forze occulte, sentimenti indefinibile e proprio per questo tanto potenti” e ha considerato la sua ebraicità un

mistero.» La psicoanalisi, secondo alcuni, fu ideata da Freud come modo per reinterpretare l’ebraismo attraverso

il mezzo scientifico. Tuttavia, Freud ha cercato di nascondere con forza la propria identità ebraica perché, con

l'ascesa del nazismo, voleva impedire che la psicoanalisi diventasse “una scienza ebraica”. Giampiero Carocci,

Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 39. 159

Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, cit., pp. 2 – 3.

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ebrei, diventa in questa prospettiva un potente strumento di conoscenza del sé e, di

conseguenza, della propria ebraicità. Non è sorprendente, quindi, come osserva Yerushalmi,

che i tentativi di ricostruire il passato ebraico siano compiuti soprattutto nei momenti in cui si

sente «una brusca frattura nella continuità della tradizione, e di conseguenza una costante

diminuzione della memoria collettiva.»160

Infine, il recupero del passato ebraico non serve unicamente a rimettere se stessi in contatto

con la propria ebraicità, ma anche a ristabilire, attraverso la dimostrazione dell’attualità

dell’ebraismo, una connessione fra la cultura ebraica e il mondo dei goyim (‘non ebrei’).

L’ebreo moderno e assimilato, anche in età contemporanea, come si è visto, cerca di

mantenere nella società multietica qualcosa della sua diversità perché essa viene vista come

un arricchimento dell’identità. Un esempio di questo si è visto nel capitolo precedente in cui

abbiamo sostenuto che il richiamo all’ebraismo durante gli anni del fascismo fu un primo atto

di resistenza da parte degli ebrei contro il tentativo nazista di estinguere l’ebraismo come

cultura viva. Oggi, tenere vivo il ricordo del passato ebraico e delle vecchie tradizioni è un

compito etico con cui l’ebreo cerca, inoltre, di profilare l’ebraismo come cultura viva e vitale

nel melting pot della società contemporanea, soprattutto in un paese come l’Italia in cui

l’ebraismo è «tanto presente quanto sconosciuto».161

Attraverso la riattualizzazione dei temi

ebraici nella cultura italiana contemporanea viene ribadito che «il recupero di un senso di

appartenenza all’ebraismo non si riduce a cultura museale, a monumento, a memoriale del

passato».162

In questo modo, come si è anche visto all’inizio del capitolo presente, con il caso

di Primo Levi e, in misura minore, di Natalia Ginzburg, la memoria diventa un modo per

ritrovare un senso di appartenenza all’ebraismo, e allo stesso tempo, un modo per

salvaguardare la cultura ebraica.

In conclusione, attraverso l’atto di trasformare la storia in memoria, l’ebreo cerca di far

riemergere dei residui del passato per arrivare a una migliore comprensione della propria

identità. «Siamo il nostro passato – scrive Elena Loewenthal – lo portiamo addosso visibile e

tangibile come parte della nostra quotidianità.»163

Il passato ci aiuta, dunque, a capire chi

siamo attraverso il ricordo di chi siamo stati. Come nella favola di Pollicino, ricorda la

160

Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor, cit., pag. 118. 161

Elena Loewenthal, La tentazione di esistere, in AA.VV., Appartenenza e differenza, cit., pag. 148. 162

Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, cit.,pag. 2. 163

Elena Loewenthal, Scrivere di sé. Identità ebraiche allo specchio, cit., pag. 183.

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Loewenthal, ripercorrere la memoria significa «ripercorrere il cammino a ritroso racimolando

quelle bricioline lasciate per terra» così da poter «capire fin dove si è arrivati».164

3.4. Letteratura e memoria

3.4.1. La scrittura di memoria: tra ricordare e agire

Finora, abbiamo visto che la memoria ha la finalità di una ricerca identitaria. Adesso,

vedremo che la memoria, e la scrittura di essa, persegue una finalità etica specifica in quanto

legata all’ebraismo. Anche Alberto Cavaglion, uno studioso degli ebrei in Italia, sostiene che

il ricordo nella tradizione ebraica ha «una funzione etica» perché ricordarsi del passato

significa «compiere un’azione virtuosa.»165

Se ritorniamo ancora alla parola zakhor, Harold

Bloom afferma nell’introduzione al libro di Yerushalmi che tale parola ha una gamma di

significati più vasta del ricordare italiano perché in ebraico «ricordare è anche agire».166

Piuttosto che «una sorta di curiosità per il passato», continua Bloom, il ricordo è «un

particolare tipo di azione.»167

In conseguenza di ciò, come sostiene anche Parussa, «la

memoria, e con essa la scrittura che ne è il veicolo, diventa fonte di libertà e

responsabilità».168

La scrittura, da un parte, diventa una libertà con cui si è in grado di affermare la propria

diversità. Infatti, come già brevemente menzionato nel capitolo precedente, è la scrittrice

contemporanea italiana di origine ebraica Elena Loewenthal che ribadisce che «raccontando

di luoghi, di volti, di episodi vissuti davvero, di oggetti esistiti, di momenti trascorsi, di vite e

affetti perduti, di esperienze che hanno lasciato un segno indelebile, si ribadisce la propria

presenza, si rimuove il sospetto ancora latente che gli ebrei siano astratti» e – continua la

scrittrice – «scrivendo e raccontando, è come battere i pugni sul tavolo e dire: siamo qui, in

carne ed ossa».169

Per questo motivo, non ci sorprende che si trovino molti elementi

autobiografici negli scritti di autori di origine ebraica. In forte contrasto, quindi, con la

tendenza rilevata all’inizio del Novecento «a rivelarsi con molta riluttanza in quanto ebrei»,

164

Elena Loewenthal, La tentazione di esistere, in AA.VV., Appartenenza e differenza, cit., pag. 155. 165

Alberto Cavaglion, Gli ebrei tra storia e memoria: un piccolo decalogo, in AA.VV., Interpretare la

differenza, a cura di Laura Di Michele et al, Napoli, Liguori, pag. 193. 166

Harold Bloom, Introduzione a Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor, cit., pag. 14. 167

Ibidem. 168

Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, cit.,pag. 32. 169

Elena Loewenthal, La tentazione di esistere, in AA.VV., Appartenenza e differenza, cit., pag. 155.

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oggi, la scrittura è diventata un modo principale per ribadire la diversità ebraica in Italia.170

Oppure come scrive un’altro scrittore contemporaneo di origine ebraica, Miro Silvera,

l’imperativo di scrivere «è più che mai quello di raccontarsi e di raccontare le diversità,

troppo a lungo taciute.»171

Dall’altra parte, la scrittura di memoria diventa, oltre a una libertà di espressione, una

responsabilità. In altre parole, come sostiene Parussa, la memoria diventa «una forza dinamica

in grado di affrontare e correggere le ingiustizie del passato e di ispirare speranza nel

futuro.»172

In primo luogo, il recupero del passato diventa una responsabilità: quella di testimoniare il

passato e, conseguentemente, tener vivo il suo ricordo e far sopravvivere nelle generazioni più

giovani le vecchie tradizioni, i riti antichi, e, soprattutto, la storia di un popolo. La scrittura di

memoria, come modo per conservare il passato, lascia così spazio «a un futuro sconosciuto,

imperscrutabile» e diventa poi un modo essenziale per assicurare la sopravvivenza della

cultura ebraica in Italia.173

Attraverso la scrittura di memoria, l’ebreo intende «ripercorrere le

tracce del proprio passato per conservarlo quando sembra sfuggire, per tramandarlo quando

sembra non interessare più a nessuno».174

La memoria, e la scrittura che ne è il veicolo, sono

quindi essenziali per assicurare la sopravvivenza identitaria di un popolo che ha trascorso la

propria storia sparso per il mondo. La letteratura ebraica, come ribadisce Elena Loewenthal, è

un modo per dire «voglio sopravvivere, voglio fare sopravvivere.»175

In secondo luogo, scrivere del proprio passato è un modo per far sapere al mondo le difficoltà

a cui gli ebrei hanno dovuto far fronte lungo la loro esistenza. Questo è soprattutto vero per le

memorie degli ebrei del Novecento in cui un posto centrale è occupato dalla Shoah. Primo

Levi, in merito, afferma ,all’inizio di Se questo è un uomo, che il libro non è stato scritto allo

scopo di «formulare nuovi capi di accusa» ma, al contrario, allo scopo di fornire «uno studio

pacato di alcuni aspetti dell’animo umano» affinché si possa arrivare a capire come è stata

possibile quell’offesa e non si ripeta mai più una tragedia del genere.176

La responsabilità del

170

Miro Silvera, La necessità di raccontare, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un

approccio generazionale, cit., pag. 154. 171

Ibidem. 172

Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, cit.,pag. 39. 173

Elena Loewenthal, La tentazione di esistere, in AA.VV., Appartenenza e differenza, cit., pag. 156. 174

Ivi, pag. 154. 175

Elena Loewenthal, La tentazione di esistere, in AA.VV., Appartenenza e differenza, cit., pag. 158. 176

Primo Levi, prefazione a Id., Se questo è un uomo, cit., pag. 9.

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raccontare il passato, oltre a quella di riportare il passato alla memoria, sta quindi anche nella

speranza di costruire, ebrei e non ebrei insieme, un futuro migliore.

3.4.2. La scrittura di memoria: tra ricordare e immaginare

Secondo Maurice Halbwachs, come ricordano Francois Xavier Lavenne e altri, la

scrittura è nemica della memoria perché fissare la memoria in forma scritta significa

contribuire alla sua morte come ricordo vivo del passato.177

Un’unica eccezione, sempre

secondo Halbwachs, è quando l’ultimo testimone di una certa memoria sta per scomparire e

non vi è più altro mezzo per assicurarne la sopravvivenza per le generazioni future.178

Secondo questa visione, quindi, scrivere la memoria significa trasformarla in storia e, di

conseguenza, privarla di vita. Anche Paul Ricoeur, come ricorda Lavenne, si chiede se la

scrittura sia «il rimedio» oppure «il veleno» per la sopravvivenza della memoria.179

Tuttavia,

altri hanno una maggior fiducia nel ruolo della scrittura in quanto catalizzatore della memoria:

Joël Candau, per esempio, sostiene che l’arte, e più specificamente la letteratura, gioca un

ruolo importante nella ricostruzione del passato.180

Anche Lavenne afferma appunto che «the

analysis of numerous literary works has indeed shown that it is through the writing process

that memory is constructed and that seemingly lost memories can re-emerge.»181

Tuttavia, un primo problema che si pone quando si parla dell’elaborazione letteraria della

memoria riguarda il suo rapporto con la veridicità storica. Si badi che, anche se l’opera d’arte

può sostenere la memoria, a prima vista le due operazioni perseguono delle finalità diverse:

mentre la narrazione letteraria può prescindere dalla realtà storica, la memoria sembrerebbe

dovere rimanerla fedele. Questo problema è soprattutto interessante nel trattamento letterario

delle memorie della Shoah. Appunto, abbiamo visto che nell’immediato dopoguerra vi fu tra

gli ebrei una necessità impellente di mettere in parole la propria esperienza concentrazionaria

tanto da poter affermare che l’immagine della Shoah è stata costruita «più nel crogiuolo del

romanziere che nell’officina dello storico.»182

Tuttavia, come ricorda Hayden White, dal

punto di vista dello storico, al quale importano soltanto i fatti reali, un’elaborazione creativa

della propria memoria non viene considerata come una rappresentazione accurata di ciò che è

realmente accaduto ma «threatens to aestheticize, fictionalize, kitschify, relativize, and 177

Francois Xavier Lavenne, Virginie Renard and François Tollet, Fiction, between inner life and collective

memory: a methodological reflection, cit., pag. 3. 178

Ibidem. 179

Ivi, pag. 4. 180

Ibidem. 181

Ibidem. 182

Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor, cit., pag. 130.

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otherwise mythify what was an undeniable fact» e, quindi, «deprives crucial historical events

such as the Holocaust of their moral and cognitive significance».183

A chi spetta, quindi, il

compito di scrivere della Shoah? Tale questione è stata oggetto di un lungo dibattito.

Da un lato, vi sono coloro, come, per esempio, il filosofo Berel Lang184

secondo il quale «the

aesthetic treatment of the Holocaust [...] subordinates the truth of fact to the egoistic display

of the artist’s technique or the ambiguating effects of rhetorical or poetic figuration.»185

Secondo la visione di Lang, «solo la cronaca più letterale dei fatti del genocidio può pensare

di superare il test di “autenticità e veridicità” sulla base del quale [...] le versioni letterarie [...]

devono essere giudicate.»186

Tuttavia, come sostiene anche White, questo «test di autenticità e

veridicità» è soltanto di importanza secondaria quando la memoria si fa arte:

this question “Is it true?” is of secondary importance to discourses making reference to

the real world (past or present) cast in a mode other than that of simple declaration.

This is especially the case with artistic (verbal, aural, or visual) representations of

reality (past or present) which, in modernity, are typically cast in modes other than

that of simple declaration – for example, the interrogative, imperative, and subjunctive

modes. […] I suggest that, when it comes to an artistic version of witness testimony,

such as Levi’s Se questo è un uomo, the question of the factual truth of the account is

of a lesser importance. It is, rather, a question of mode rather than of mimesis.187

Ciò significa che la finzione, che incorpora la memoria, costituisce un utile strumento per

trasmettere ciò che non può essere trasmesso dalle cronache dello storico. Per questa ragione,

vi sono, dall’altro lato, coloro che sostengono che la testimonianza della propria memoria

merita una ricreazione artistica per rafforzare il suo messaggio.188

Tale è la posizione dello

scrittore spagnolo Jorge Semprùn, sopravvissuto al campo di concentramento di Buchenwald,

il quale sostiene che:

183

Hayden White, Truth and Circumstance: What (if anything) can be properly said about the Holocaust?, in

AA.VV., The Holocaust and historical methodology, a cura di Dan Stone, New York, Berghahn Books, 2012,

pag. 461. 184

Cfr. Berel Lang, The Representation of Limits, in AA.VV., Probing the Limits of Representation: Nazism and

the “Final Solution”, a cura di Saul Friedlänger, Cambridge Ma, Harvard University Press, 1992, pp. 300 – 318. 185

Hayden White, Truth and Circumstance: What (if anything) can be properly said about the Holocaust?, in

AA.VV., The Holocaust and historical methodology, cit., pag. 463. 186

Hayden White, Forme di storia: dalla realtà alla narrazione, a cura di Edoardo Tortarolo Roma, Carocci,

2006, pp. 93 – 94. 187

Hayden White, Truth and Circumstance: What (if anything) can be properly said about the Holocaust?, in

AA.VV., The Holocaust and historical methodology, cit., pag. 464. 188

Stefania Lucamente, The ‘indispensable’ legacy of Primo Levi: from Eraldo Affinati to Rosetta Loy between

History and Fiction, in “Quaderni d’Italianistica”, anno 2003, vol. 24, n. 2., pag. 104.

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Soltanto coloro che sapranno fare della loro testimonianza un oggetto artistico, uno

spazio di creazione, o di ricreazione, riusciranno a raggiungere questa sostanza, questa

densità trasparente. Soltanto l’artificio di un racconto abilmente condotto riuscirà a

trasmettere in parte la verità della testimonianza.189

A questo si affaccia quindi un altro problema: quello del rapporto fra l’oggetto artistico, che

funge da veicolo della memoria, e il ruolo che può avere l’immaginazione, che ovviamente ne

è una componente. Anche se, come abbiamo detto, la memoria sembrerebbe dovere rimanere

fedele alla realtà storica, non è sempre il caso che la memoria sia una rappresentazione

completamente fedele della realtà. Appunto, la memoria è, come scrive Primo Levi, «uno

strumento fallace ma meraviglioso» e, di conseguenza, il passato ricordato non coincide mai

completamente con il passato realmente avvenuto.190

«I ricordi» - continua Levi – «non sono

incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o

addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei.»191

Questo è vero soprattutto nel

caso di «ricordi di esperienze estreme», come l’esperienza concentrazionaria. A proposito di

questo, lo psichiatra Dori Laub ribadisce, che la Shoah è stata «an event without a witness»192

perché «the inherently incomprehensible and deceptive psychological structure of the event

precluded its own witnessing, even by its very victims.»193

Tuttavia, anche «in condizioni

normali è all’opera una lenta degradazione, un offuscamento dei contorni, un oblio per così

dire fisiologico, a cui pochi ricordi resistono.»194

Anche Lavenne sostiene che «memory is

more of a constantly updated reconstruction of the past than its faithful reconstitution.»195

In

questa prospettiva, dunque, l’immaginazione non è necessariamente nemica della memoria

189

Jorge Semprún, La scrittura o la vita, citato in Carlo De Matteis, Dire l’indicibile: la memoria letteraria della

Shoah,cit., pag. 20. 190

Primo Levi, La memoria dell’offesa, in Id., I sommersi e i salvati, cit., pag. 13. 191

Ibidem. 192

A proposito di questo, Primo Levi, similmente, afferma che: «non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. È

questa una nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco, leggendo le memorie altrui, e rileggendo

le mie a distanza di anni. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per

loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone non è

tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i «musulmani», i sommersi, i testimoni integrali, coloro la

cui deposizione avrebbe avuto significato generale. Loro sono la regola noi l’eccezione. [...] Noi toccati dalla

sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche

quello degli altri, dei sommersi appunto; ma è soltanto un discorso «per conto di terzi», il racconto di cose viste

da vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata

nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la propria morte. I sommersi, anche se avessero avuto carta e

pena, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale. Settimane e

mesi prima di spegnersi, avevano già perduto la virtú di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi.

Parliamo noi in loro vece, per delega.» Primo Levi, La vergogna, in Id., I sommersi e i salvati, cit., pag. 64 – 65. 193

Dori Laub, Truth and Testimony: the Process and the Struggle, in AA.VV, Trauma: Explorations in Memory,

a cura di Cathy Caruth et al., Baltimore, John Hopkins University Press, 2004, pag. 65. 194

Primo Levi, La memoria dell’offesa, in Id., I sommersi e i salvati, cit., pag. 13. 195

Francois Xavier Lavenne, Virginie Renard and François Tollet, Fiction, between inner life and collective

memory: a methodological reflection, cit., pag. 6.

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ma può costituire uno strumento utile per riempire le lacune lasciate dalla memoria quando

viene riattualizzato nell’opera letteraria un ricordo troppo lontano, o nel caso della Shoah

troppo traumatico. Lo stesso si potrebbe affermare nel caso di scrittura di memoria altrui, in

cui l’uso dell’immaginazione «links together the fragments left hanging loose by the voices of

the previous generation.»196

In conclusione, si potrebbe affermare che, come ribadisce Lavenne, «memories have a certain

plasticity and that, in this sense, imagination and fiction do not just set up obstacles for

memory, but are also the sine qua non conditions of its very existence.»197

196

Stefania Lucamente, The ‘indispensable’ legacy of Primo Levi: from Eraldo Affinati to Rosetta Loy between

History and Fiction, cit., pag. 92. 197

Francois Xavier Lavenne, Virginie Renard and François Tollet, Fiction, between inner life and collective

memory: a methodological reflection, cit., pag. 5.

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IV. «un nome, non si trattava che di un nome»:

identità e memoria ebraica ne Il mio nome a memoria

4.1. Introduzione: Giorgio van Straten ed ebraismo

Giorgio van Straten è uno scrittore italiano nato nel 1955 a Firenze. Van Straten iniziò

la sua carriera di scrittore nel 1987 con il romanzo Generazione, cui seguirono i romanzi Ho

sbagliato foresta (1989), Ritmi per il nostro ballo (1992) e Corruzione (1995). Nel 2000

pubblicò il suo quinto romanzo Il mio nome a memoria in cui ripercorre la storia della

famiglia dei van Straten dal 1811 fino a oggi. Con questo libro ha vinto nello stesso anno il

Premio Viareggio. Oltre all'attività di romanziere ha anche curato alcuni volumi di saggistica

e ha tradotto opere di London, Stevenson e Kipling.

Come il suo nome suggerisce, van Straten ha origini nederlandesi. Per parte paterna è

discendente di una famiglia ebrea proveniente da Rotterdam. In merito, Giorgio van Straten

ha affermato in un articolo, in cui spiega in che cosa consista l’essere ebreo, che «non si è mai

considerato un ebreo, e nessuno in casa sua gli ha dato modo di pensare che lo fosse.»198

«Sono stato battezzato cattolico e» – continua van Straten – «ho avuto anche una fase mistica

fino ai dodici-tredici anni.»199

Tuttavia, Giorgio van Straten non può neppure dire di aver

ignorato la sua eredità ebraica e dichiara che alberga dentro di lui comunque qualcosa di

ebreo:

Allora, qualcosa di ebreo in noi ci doveva essere, una fetta, un pezzetto, un rischio che

continuavamo a correre. Ma in quegli anni la mia domanda non la espressi mai, anzi

neppure la formulai consapevolmente nella mia testa. Soltanto in questi ultimi anni,

forse perché come scrittore mi sono ritrovato a lavorare prevalentemente sulla

memoria, con ciò rintracciando una consonanza con la cultura ebraica che è fatta

appunto di scrittura e memoria, mi sono chiesto, e ho chiesto, se i fossi o no ebreo, e,

di conseguenza, in cosa consista il fatto di essere ebrei, e quale sia la loro identità.200

198

Giorgio van Straten, In cosa consista l’essere ebreo, in “Nuovi Argomenti”, anno 2001, n. 14, pag. 42. 199

Ibidem. 200

Ivi., pag. 43.

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Dunque, anche nel caso di van Straten, l’ebraismo non è in primo luogo un’appartenenza

religiosa, ma, come affermava Giorgio Bassani, «qualcosa di più intimo». Infatti, come

ricorda van Straten più avanti, neppure la religione permette «la definizione di un’identità»

perché molti sono gli ebrei non credenti ma ciò non significa che «hanno cessato di essere

ebrei.»201

Questo spiegherebbe perché lo scrittore, essendo cattolico, sente comunque di avere

qualcosa di ebreo dentro di sé.

Anche per Giorgio van Straten, quindi, il significato dell’essere ebreo è una questione

fondamentale a cui non trova facilmente una risposta. L’identità ebraica sembra essere per lo

scrittore «un fatto di sangue e di cultura.»202

«È la comune appartenenza» – continua lo

scrittore – «che fa gli ebrei; è il procedere delle generazioni che li tiene insieme.»203

Dunque

anche nel caso di Giorgio van Straten la memoria, e la scrittura che ne diventa il veicolo, sono

alla base della definizione dell’identità ebraica. L’essere ebreo, come già accennato, consiste

nel ricordarsi di appartenere a una tradizione antica e la memoria diventa la chiave per

ritrovare questo senso di appartenenza. A proposito di questo, lo scrittore conclude che:

l’una e l’altra [la memoria e la scrittura] (spesso insieme) sono la radice e la possibilità

di definire e mantenere la propria identità. Questo spiega il gusto della genealogia, dei

nomi, della ricostruzione del proprio percorso familiare: essi non sono l’orpello di chi

cerca antenati nobili e un blasone, ma una necessità al fine di preservare la propria

stessa appartenenza al gruppo. Le memorie, dunque, quella del sangue (oggi si direbbe

dei geni), quasi inconsapevole, e quella della cultura, razionale e apprendibile, sono

alla base della definizione dell’identità ebraica. E se la memoria storica collettiva è

uno degli elementi costitutivi dell’identità nazionale di ogni popolo, ciò che determina

la peculiarità degli ebrei è che questa memoria appare come l’unico elemento che

sostanzia la loro appartenenza.204

È quindi facile trovare qualche traccia di questo legame fra identità ebraica e memoria nelle

opere di van Straten. In un'intervista a Scrittori per un anno, lo scrittore dichiara appunto che

«qualcosa di ebreo» si rispecchia anche nel suo modo di scrivere. Infatti, per Giorgio van

Straten, la memoria non è soltanto il fondamento dell’identità ebraica, ma anche il

fondamento del suo modo di scrivere:

201

Ivi., pag. 47. 202

Ivi., pag. 48. 203

Ibidem. 204

Ivi., pp. 48 – 49

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La memoria, il tempo, il passato, sicuramente, è una base fondante del mio modo di

scrivere. Poi perché questo accada? Non so, posso, diciamo, cercare di darmi delle

spiegazioni anche nobili. Nel senso, io sono cattolico, ma invece la famiglia da parte

di mio padre è una famiglia ebraica e, ovviamente, nella tradizione ebraica l’elemento

del racconto e della memoria è assolutamente fondante. Questo potrebbe essere un

motivo.205

Lo scopo del capitolo presente è principalmente quello di presentare una analisi, in base al

quadro di riferimento teorico proposto nel capitolo precedente, del tema della memoria in

relazione a quello dell’identità ne Il mio nome a memoria. Ci proponiamo, inoltre, di indagare

il valore etico che contraddistingue questo libro e di verificare, infine, per quanto possibile, la

presenza dell’idea ebraica della storia come memoria e in che modo essa si manifesta.

4.2. La storia del nome come una ricerca interiore

Interroga dunque le precedenti generazioni,

e conformati all’esperienza dei loro padri.

Infatti noi siamo di ieri e non sappiamo;

un’ombra sono i nostri giorni sulla terra.

Ecco, essi ti istruiranno, ti parleranno

e trarrai parole dai loro cuori.

(Giobbe 8,8 : 10)

Il mio nome a memoria è la storia di un nome e della famiglia ebrea che lo porta.

Quando morì il padre di van Straten – il 10 dicembre 1988 – lo scrittore si rese conto di

quanto poco egli conoscesse suo padre. In quel momento, ammette lo scrittore, nacque l’idea

del libro con il quale cerca di trovare qualche risposta alle domande «che ormai non possono

avere risposte».206

Attraverso il “viaggio” del nome di van Straten (originariamente con due

‘a’), lo scrittore indaga nel tempo nella speranza di trovare delle risposte, dei «piccoli segni»,

oppure «un suo messaggio lasciato a futura memoria.»207

La storia prende avvio da Rotterdam

nel 1811 – l’anno in cui fu concessa l’emancipazione degli ebrei da un editto del re d’Olanda

Luigi Bonaparte che afferma l'uguaglianza delle religioni di fronte alla legge – dove un freddo

giorno di dicembre Hartog Alexander deve scegliere un nome per la propria famiglia «in

205

Giorgio van Straten, Lo scrittore si racconta, video intervista a Giorgio van Straten, in “Scrittori per un

anno”, Rai Edu, 12 augusto 2008. A disposizione online:

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-d923540a-9fad-4e1b-9b72-9e1dc2f5dac9.html

(ultima verifica 31 maggio 2012). 206

Giorgio van Straten, Il mio nome a memoria, Milano, Mondadori, 2000, pag. 22. 207

Ibidem.

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cambio dei suoi diritti di cittadino.»208

In questo momento decisivo fu segnato il destino della

sua stirpe, che lungo il Novecento si disperse per arrivare, dopo sei generazioni, nel 1999, alla

Firenze dell’autore.

Visto il gran numero di generazioni che vengono narrate, Il mio nome a memoria si qualifica

come un esempio tipico del genere del cosiddetto romanzo genealogico. Questo genere

letterario, secondo Dominique Budor, si afferma soprattutto a partire degli anni Ottanta e

Novanta in vari paesi del mondo.209

Il romanzo genealogico consiste nel ripercorre per intero,

o almeno per una parte sostanziale, l’albero genealogico di una famiglia. Ora, si può pensare

— e questa sarebbe una spiegazione globale accettabile — che l’interesse verso questo genere

sia il frutto del rinnovato interesse verso il passato che caratterizza la civiltà odierna. Tuttavia,

come abbiamo visto nel capitolo precedente e come ribadisce anche Budor, l’interesse per la

memoria degli ebrei si sviluppa sulla base di una sensibilità ben più specifica.210

Se poi si

considera ciò che abbiamo accennato nel capitolo precedente, è possibile fornire una

spiegazione ulteriore al perché questo genere è particolarmente interessante per gli scrittori di

origine ebraica.

Innanzitutto, attraverso la nozione biblica del Zakhor si è visto come gli ebrei sono fortemente

preoccupati dal tener vivo il ricordo del passato, soprattutto in quanto legato alle proprie

radici. Nello specifico, attraverso l’idea tipicamente ebraica di storia come memoria, l’ebreo

cerca di impadronirsi a pieno del passato per salvarlo dall’oblio e, di seguito, per reinserirlo di

nuovo nel fluire del tempo. Nel romanzo genealogico ciò che viene salvato dall’oblio è,

dunque, la storia degli antenati. In questa ottica, è inoltre lecito interpretare il romanzo

genealogico, come ha ribadito anche Dominque Budor, come «seppellimento simbolico degli

antenati e affermazione della vita dei discendenti.»211

Si badi che prima che i morti possano

simbolicamente essere “seppelliti”, essi devono essere riportati in vita un’ultima volta con la

scrittura. Non a caso, quindi, van Straten conclude il suo libro con una descrizione di un

rituale malgascio:

Ho letto che in Madagascar ogni cinque anni le famiglie riesumano i loro morti. Li

tirano fuori dalla terra, li rigirano, quasi potessero cambiare il paesaggio dei loro

occhi, poi li seppelliscono di nuovo e fanno una festa. Anch’io ho riesumato i miei

208

Ivi., pag. 9. 209

Dominique Budor, Il “romanzo genealogico” ovvero la memoria viva dei morti, in AA.VV., Scrittori italiani

di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 116. 210

Ibidem. 211

Ivi., pag. 118.

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morti, molti dei quali sepolti non so dove. Li ho contati, ma più li contavo e più

crescevano di numero.212

In secondo luogo si è visto che questa rinascita del passato diventa poi uno strumento di

conoscenza per il presente. Infatti, si ricordi che la trasmissione della storia è occasione per

indagare su se stessi. Attraverso la riattualizzazione del passato nel presente, si arriva a capire

meglio se stessi. Lo scrittore del romanzo genealogico, dunque, non cerca unicamente di

riscoprire le sue radici ma anche di riscoprire se stesso attraverso queste radici.213

Il romanzo

genealogico, che mira quindi a riattualizzare la storia della genealogia, parte perciò spesso da

una domanda ontologica: “chi sono?” Ripercorrendo l’albero genealogico, si cerca di «situare

se stessi nel filo dell’eredità» e di trovare il proprio posto nella storia.214

Dunque, nel caso di Il mio nome a memoria, anche se inizialmente l’intenzione di Giorgio van

Straten è quella di conoscere meglio suo padre, alla fine del libro lo scrittore si rende conto

che «è tutte le storie che ha raccontato: non la somma di ogni destino, il risultato necessario o

la linea di arrivo.»215

Lo scrittore si identifica non come la somma dei destini ma con l’atto

del sommare ogni destino, ogni storia che ha raccontato. La sua propria esistenza è

interamente legata a questo «lento cammino di un nome.»216

Si è costruito così un legame fra

passato e presente; fra le vite altrui e la vita dell’autore esiste dunque un collegamento: «sono

qualcosa delle loro facce o delle loro mani.» «Ognuno di loro» – continua lo scrittore – «è

entrato dentro di me, e minaccia di restarci.»217

Appunto, nel capitolo finale van Straten si

rende conto che sono presenti in lui anche tracce di suo padre:

Per anni ho provato fastidio per quel gesto, per quella che mi sembrava una

goffaggine; oggi lo guardo sapendo che anch’io, senza accorgermene, ho iniziato ad

accavallare le gambe nello stesso modo.218

In questo modo, il tentativo di Giorgio van Straten di conoscere meglio la stirpe, e il padre in

particolare, attraverso un’indagine a ritroso nel tempo, è andato oltre lo scopo iniziale; il

viaggio nel tempo è diventato anche una sorta di viaggio interiore alla scoperta di se stesso.

Attraverso il ricordo del nome che porta, Giorgio si è reso conto che, come accade al

212

Giorgio van Straten, Il mio nome a memoria, cit., pag. 295. 213

Dominique Budor, Il “romanzo genealogico” ovvero la memoria viva dei morti, in AA.VV., Scrittori italiani

di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 116. 214

Ivi., pag. 115. 215

Giorgio van Straten, Il mio nome a memoria, cit., pag. 294. 216

Ibidem. 217

Ibidem. 218

Giorgio van Straten, Il mio nome a memoria, cit., pag. 290.

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personaggio di Goldstück – cofondatore dell'azienda per cui lavorano parecchie generazioni

di van Straten – che «le sue radici lo tenevano ancora stretto, anche se strappate dal terreno,

divelte da una fuga».219

Infine, come sostiene anche Dominque Budor, lo scrittore del romanzo genealogico mira

anche a «indagare la propria appartenenza, a definire o scoprire la propria judéité.»220

Siccome, come si ricorda, per Giorgio van Straten l’identità ebraica è un’identità fatta

prevalentemente di memoria, «la ricostruzione del proprio percorso familiare» – come ha

ribadito van Straten – «non è l’orpello di chi cerca antenati nobili e un blasone, ma una

necessità al fine di preservare la propria stessa appartenenza al gruppo.»221

Il mio nome a

memoria può essere letto in questa luce come il tentativo dell’autore di ritrovare il proprio

senso di appartenere all’ebraismo. Anche se Giorgio van Straten non fa mai riferimento

diretto nel libro al suo senso di appartenenza all’ebraismo, l’immagine che esce dalle pagine

scritte è quella di una famiglia laica in cui l’ebraismo non è mai stato un fatto religioso ma

comunque qualcosa da rispettare. L’ebraismo è, come detto, un fatto generazionale, e questa

definizione dell’ebraismo è ben visibile nel ritratto che egli ha tracciato della sua famiglia.

L’ebraismo per i van Straten non ha quasi più nessun legame con la religiosità, ed è diventato

un modo, oltre a quello del nome, per sentirsi legati fra di loro. Si veda, ad esempio,

l’episodio in cui Rosa – la sorella del nonno dello scrittore – aspetta un bambino da un

Gentile. A questo punto, suo padre, il quale «non era un ebreo molto osservante, ma sapeva di

appartenere a un popolo e che quell’appartenenza era un privilegio», decide di affidarsi al

rabbino, «l’unica persona che poteva aiutarlo consigliandogli la soluzione migliore.»222

Secondo il rabbino, Hartog ha la responsabilità di mantenere unita la famiglia dei van Straten.

«Per farlo» – continua il rabbino – «non c’è bisogno di abitare nella stessa casa, neppure

nella stessa città.»223

È quindi sottinteso nelle parole del rabbino che la fede ebraica è ciò che

mantiene insieme una famiglia disunita come i van Straten. Quindi, anche se nella vita

famigliare dei van Straten «la trascendenza restava lontana, non si manifestava che per rare e

improvvise epifanie», Hartog assume la responsabilità di «tenere unita la famiglia e risolvere

il problema che lo assillava» e così decide di non acconsentire al matrimonio con un Gentile e

219

Ivi., pag. 64. 220

Dominique Budor, Il “romanzo genealogico” ovvero la memoria viva dei morti, in AA.VV., Scrittori italiani

di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 116. 221

Giorgio van Straten, In cosa consista l’essere ebreo, pag. 49. 222

Giorgio van Straten, Il mio nome a memoria, cit., pag. 89. 223

Ivi., pag. 91.

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viene cercato per Rosa un marito ebreo, per impedire che vada perduto un importante retaggio

familiare e identitario, cioè l’ebraismo.224

Un altro esempio di cosa significa appartenere all’ebraismo per i van Straten si può trovare

due generazioni dopo. Ci riferiamo all’episodio della riunione nel 1922 della famiglia a

Schevingen nei Paesi Bassi, da cui si può capire quanto sia importante la tradizione per

colmare la distanza fra i diversi membri della famiglia. Siamo arrivati alla generazione dei

nonni e dei genitori dello scrittore che, quando ritornano dall’Italia nei Paesi Bassi, ritrovano

il calore della patria di origine che «assomigliava poco all’atmosfera abbastanza fredda e

compassata della loro vita a Genova.»225

Soprattutto interessante è il caso di Ivan, il padre

dello scrittore, che si chiede se:

quel calore, quel modo di stare insieme avesse qualcosa a che fare con l’essere ebrei,

ma non sapeva rispondersi. Gli sembrava che quell’identità assumesse una dimensione

mitica, affascinante come quell’ultima estate da bambino. Essere ebrei, del resto, era

per lui un fatto abbastanza misterioso, perché, dopo la circoncisione, non aveva più

ricevuto un’educazione religiosa né frequentato la comunità e la sinagoga. Magari la

freddezza della loro vita a Genova era frutto anche della distanza dalle tradizioni della

loro famiglia, dalle abitudini mantenute dagli zii e dalle zie olandesi, a parte i Fles che

rifiutavano qualsiasi fede a partire dalla propria. Ma ormai quella distanza esisteva,

non era più colmabile con un atto di volontà; durante l’anno si attenuava raramente,

per qualche scelta di cucina, un matrimonio, o la visita di un parente.226

In questo senso, l’atmosfera fredda della vita a Genova può essere dovuta al declino delle

antiche tradizioni famigliari, fra cui quelle ebraiche. Il ricordo delle tradizioni ebraiche, o

quanto ne resta, si associa quindi al ricordo dell’unità famigliare; proprio per questo

l’ebraismo viene sempre rispettato in questa famiglia. È lecito supporre, dunque, che il

ricordo dell’appartenere all’ebraismo, nel caso di una famiglia disunita come i van Straten, sia

diventato un modo per ricordarsi dell’appartenere ad una unità famigliare. È in questo modo

che viene mantenuta unita una famiglia come quella dei van Straten che, nelle parole del

rabbino, non abita «nella stessa casa, neppure nella stessa città.»227

224

Ibidem. 225

Ivi., pag; 142. 226

Ivi., pag; 143. 227

Ivi., pag. 91.

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4.3. Di ricordi e restauri

Ne Il mio nome a memoria l’autore ricostruisce un mosaico di storie: storie di guerra,

storie di viaggio, storie d’amore, ecc. Ogni storia raccontata può essere considerata una

tessera che completa il mosaico della storia dei van Straten. Per questo, è importante per lo

scrittore il riflettere su come colmare le lacune lasciate dal tempo, o, continuando la metafora,

come restaurare il mosaico delle vite raccontate. Appunto, a questo scopo vengono inseriti fra

i capitoli narrativi dei capitoli metanarrativi in cui l’autore riflette sul proprio modo di

scrivere. Nel secondo capitolo lo scrittore afferma che, per ricostruire la storia dei van Straten

nei Paesi Bassi del primo Ottocento, non ha altro che una «fotocopia ormai sgualcita di un

vecchio documento.»228

Le tracce della loro esistenza sono state eliminate per sempre e non

esiste alcun modo per resuscitare le persone vissute nel passato. Eppure, esiste un modo che il

letterato, a differenza dallo storico, ha a propria disposizione per far rivivere questo passato:

l’immaginazione. Lo scrittore ammette di essere stato tentato dall’idea di inventare tutto:

Potrei certo inventarmi tutto [...] Ma in questo caso non ci sono oggetti o foglio

spiegazzati, e le persone vere, quelle che hanno vissuto sul serio, una volta che

spariscono, che si dissolvono nel vuoto, non possono essere resuscitate d’imperio.

Svanisce il loro ricordo, non resta niente a segnare l’esistenza: sono morte per

sempre.229

Benché lo scrittore, come il restauratore, sia in grado di recuperare «i colori che il passato dei

secoli ha offuscato», esiste un confine che non può essere varcato; egli non può «inventare un

disegno che è perduto.»230

Lo scrittore, quindi, può fare riemergere il disegno dell’affresco

ridandogli i suoi colori, ma ciò che è andato perduto nelle pieghe della storia deve essere

coperto da uno strato di «intonaco bianco».231

Lo scrittore non può andare oltre al punto in cui

finiscono le tracce del passato. Ad esempio, quando svaniscono le tracce di Mina – la

bisnonna dello scrittore – nel 1886, lo scrittore ammette la sconfitta: «Io non posso seguirla:

non ho un pennello dalla punta abbastanza sottile per disegnare i tratti leggeri della sua

morte».232

Per altro, lo scrittore ammette che è inevitabile mentire perché «ogni racconto è un

tradimento» della realtà storica, ma bisogna tuttavia «mentire con cognizione di causa.»233

228

Ivi., pag. 21. 229

Ibidem. 230

Ivi., pag. 22. 231

Ibidem. 232

Ivi., pag. 50. 233

Ivi., pag. 49.

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Tuttavia, a mano a mano che la narrazione procede, risulta sempre più chiaro che il compito

di restaurare con la maggiore oggettività possibile che lo scrittore si è posto non è più

soddisfacente. Nel quattordicesimo capitolo lo scrittore riconosce che, «nonostante tutti i

buoni proposti», non è più in grado di rinunciare all’invenzione:

Non ci riesco, non so trattenermi: per questo non sarò mai un buon restauratore. [...] le

storie che vado recuperando, che in apparenza resuscitano ormai anche senza il mio

aiuto, finiscono per appartenermi, stanno dentro di me, si mescolano a tutto quello che

nessuno, da fuori, può vedere. Così se decido di dipingere quanto è andato perduto, chi

potrà mai accorgersene? [...] Certo che ho lasciato parti d’intonaco bianco, secondo le

regole che mi ero imposto, e spesso sono ricorso a semplici selezioni di colore, ma

talvolta finisco per completare ciò che completabile non sarebbe. In altre parole,

invento.234

In altre parole, il passato che Giorgio van Straten cerca di sottrarre all’oblio diventa una forza

dominante che si è impadronita dello scrittore stesso, il quale, reinventando le storie altrui,

infonde nuova vita alle persone di cui parla. In tal modo, queste persone non rimangono dei

fantasmi del passato senza volti, al contrario, quelle «figure pallide e vaghe» diventano, di

nuovo, persone di carne e ossa.235

Se nei primi capitoli l’invenzione non è altro che un modo

per ridare colore al passato, ora essa serve a ridare vita ai morti. «La vita non si ferma con un

gesto d’imperio» – continua van Straten – «né tanto meno per una questione di

correttezza.»236

Il passato, anche se non vissuto dallo scrittore stesso, diventa, qualcosa di più

soggettivo, qualcosa che appartiene a lui, e a lui solo, qualcosa con una vita propria che

sembra sottrarsi alla morte. In altre parole, è attraverso l’atto di scrivere della storia famigliare

che la storia sembra divenire una forma di memoria attiva per lo scrittore.

Se all’inizio del libro ci vuole «la pazienza e la precisione dei restauratori» per affrontare il

passato, a mano a mano che la narrazione procede lo scrittore diventa, più che «un

restauratore», «un imbianchino» che non esita a utilizzare il pennello e quindi non «prova più

remore a modificare ciò che è già avvenuto, a contravvenire alle regole.»237

Infatti,

nell’ultimo capitolo narrativo vengono definitivamente oltrepassati tutti i confini fra verità

storica e invenzione, fra storia e memoria. Lo scrittore-narratore, con un anacronismo, entra

nel quadro da lui dipinto perché non sopporta più a lungo la distanza fra il passato e il

234

Ivi., pag. 117. 235

Ivi., pag. 118. 236

Ibidem. 237

Ivi., pag. 284.

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presente. Insieme ai suoi genitori e ai suoi nonni, egli si imbarca in un viaggio che si svolge

molto prima della sua nascita con l’intento di guardare suo padre e vedere cosa di lui «ha

inconsapevolmente assorbito e trascinato con se attraversi gli anni».238

Entrando nel passato,

esso sembra assorbire lo scrittore in maniera così forte che egli spera addirittura di «cambiare

il suo [del padre] destino.»239

Tuttavia, questo passato, che sembra adesso più vivo che mai,

risulta alla fine illusorio; in questo momento, lo scrittore-narratore afferma di aver perso suo

padre per la seconda volta, «con la stessa impotenza che ha provato, molti anni dopo o

qualche anno prima, davanti al suo corpo in un pronto soccorso, con lo stesso senso di

inadeguatezza.»240

4.4. La storia del nome come una responsabilità

L’atto di raccontare la storia del proprio nome, oltre ad essere una ricerca interiore,

porta con sé una forma di responsabilità. Appunto, come già accennato nel capitolo

precedente, quando la memoria, sia memoria diretta che memoria altrui, diventa parte

integrale del testo scritto, la scrittura che ne diventa il veicolo, costituisce una fonte di libertà

e responsabilità.241

La responsabilità di Giorgio van Straten, uno degli ultimi a portare il nome

scelto da Hartog quasi due secoli fa, è di testimoniare il passato della famiglia paterna e di

vivificarlo nel presente. Nella sua scrittura, Giorgio van Straten, non a caso, accenna più volte

all’importanza di questo tema: la responsabilità è lungo l'intero libro un dovere a cui ogni

generazione ha la sensazione di trovarsi di fronte.

Il primo dei van Straten, che deve assumersi una responsabilità è Hartog Alexander, il quale

ha scelto il nome per la propria famiglia perché la propria famiglia possa essere uguale alle

altre:

Incurvato dal vento che cresceva e forse avrebbe diradato la nebbia in quella mattina

del 16 dicembre 1811, Hartog Alexander per la prima e l’ultima volta nella sua via

cercò di levarsi più in alto della sua pipa e dei suoi cetrioli, provò a leggere il futuro

della sua stirpe, delle generazioni che lo avrebbero seguito e che lui, come Dio, stava

per chiamare per nome.242

238

Ivi., pag. 285. 239

Ivi., pag. 293. 240

Ibidem 241

Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, cit.,pag. 32. 242

Giorgio van Straten, Il mio nome a memoria, cit., pag. 16.

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La scelta di Hartog cade infine sul nome di van Straaten, un nome che ricorda al «piccolo

paese fiammingo dal quale erano arrivati i suoi antenati.»243

Già dalla scelta del nome emerge

quanto sia importante in questa famiglia ebraica la coscienza delle proprie radici. Questa

decisione viene presa quindi in modo che «nessuno avrebbe scordato le origini fino all’ultimo

dei suoi discendenti.»244

Dunque, nello scegliere il nome Hartog non solo si assume la propria

responsabilità verso le generazioni future, «quelle per cui stava scegliendo», ma così anche

verso le generazioni che lo precedono, di cui adesso si fa testimone «il piccolo giudeo che

vende cetrioli.»245

A ciò si potrebbe aggiungere che il nome, oltre a un ricordo della propria

origine, costituisce anche un ricordo dell’essere ebreo della diaspora; da questo nome emerge

appunto l’immagine dell’ebreo errante che camminerà per le vie del mondo fino alla seconda

venuta. Il nome diventa in questa luce un’affermazione delle tradizioni famigliari che serve a

costruire un ponte fra il passato e il futuro. È chiaro, quindi, che, contrariamente a quello che

pensa Hartog nell’incipit del libro – che «non si trattava che di un nome» – che si tratta ben di

più che di un nome.246

Per questo, il rispetto per il nome che porta è una «responsabilità che spetta al figlio

maggiore» di ogni generazione che succede alla precedente.247

A loro viene affidata la

trasmissione del nome perché sono loro «il futuro di questa famiglia»; loro portano il nome

scelto da Hartog e loro devono continuare la storia di questa famiglia ebrea che fu iniziata da

lui.248

Così come la vecchia porta di Delft a Rotterdam è «l’unica che fosse rimasta della

vecchia cinta muraria», così anche il loro nome sarà l'unico residuo che rimarrà della loro vita

se la loro memoria non verrà salvata dal trascorrere del tempo.249

È compito dello scrittore,

dunque, lasciare «un segno di una memoria», come hanno fatto i suoi antenati.250

A proposito

di questo, Giorgio van Straten ci ricorda che:

la peggiore maledizione ebraica dice: sia cancellato il tuo nome e anche il ricordo di

te. Dunque per salvare un uomo si deve ripetere il suo nome, come in una liturgia. Ma

il ricordo? Quello, come ho detto, si spegne con le persone che lo conservano. A meno

che qualcuno non decida di trasformarlo: di scrivere su dei fogli, tanto per fare un

esempio.

243

Ivi., pag. 19. 244

Ibidem. 245

Ivi., pag. 10. 246

Ivi., pag. 9. 247

Ivi., pag. 26. 248

Ibidem. 249

Ivi., pag. 140. 250

Ibidem.

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Il libro diventa in questo modo «un segno di una memoria» lasciato dallo scrittore, e trascende

a questo punto il semplice scopo di raccontare una storia. Il racconto è l'appagamento di un

debito che lo scrittore ha contratto con il passato del nome che porta; ed è suo compito

«salvare la memoria di suo padre e del suo nome.»251

Il compito dell’autore ricorda in questo

senso quello dei suoi antenati: trasmettere il nome «in modo da lasciare le loro impronte nella

discendenza.»252

Il ricordo della vita degli antenati diventa in questo modo anche

un’affermazione della vita dei discendenti. Come ricorda il nonno dello scrittore – George van

Straten – è soltanto attraverso la trasmissione di un’impronta di ciò che è stato che «la

famiglia è destinata a crescere, a estendersi non solo nello spazio, ma anche nel tempo.»253

Infine, ovviamente, la vita dei van Straten è stata fortemente influenzata dalle atrocità della

seconda guerra mondiale, la quale ha decimato la famiglia.254

Per questo, viene aggiunto

nell'epilogo un capitolo, intitolato Questi sono i nomi, dedicato ai nomi di coloro che hanno

perso la vita in quel tragico periodo della storia novecentesca. Si badi che fino a qui l’autore è

sempre stato in grado di restaurare il passato, però a questo punto egli afferma di essere giunto

al limite della possibilità di ricostruire il passato. Così come scrive anche Primo Levi, lo

scrittore afferma che «il linguaggio ha dei limiti, perché ci sono cose che vanno al di là delle

nostre possibilità di descriverle, e fanno sì che ogni tentativo affondi nella sua

insufficienza.»255

Eppure, continua van Straten, questo non significa che si possa tacere:

«bisogna parlare, ricordare, costringere il pensiero a ritornare ancora a considerare quegli

avvenimenti.»256

Anche qui è ben chiaro l’aspetto etico della scrittura: viene mantenuto vivo

il ricordo dei morti rimasti senza sepoltura. Attraverso lo scrivere questi nomi, lo scrittore

intende farsi testimone della loro esistenza «perché rimangano segnati nella memoria, perché

non diventino numeri, perché non si taccia il loro destino.»257

Alla conclusione del libro, Giorgio van Straten, dopo aver raccontato la storia del suo nome, è

diventato portavoce della memoria della famiglia paterna. Per questo, egli porta il peso di

tutte le storie che ha raccontato «come un’abnorme forza di gravità», anche se, assumere

251

Ivi., pag. 193. 252

Ivi., pag. 116. 253

Ibidem. 254

«Dopo la fine della guerra di otto fratelli van Straten ne rimanevano due. Dei loro ventotto figli ne restavano

quattorici: vale a dire la metà esatta. Nessuno di coloro che furono deportati tornò a casa. Nel 1939 vivevano in

Olanda 140.000 ebrei, nel 1945 ne rimanevano 20.000.» Ivi., pag. 274. 255

Ivi., pag. 271. 256

Ibidem. 257

Ivi., pag. 272.

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questa responsabilità rischia di «schiacciarlo al suolo».258

«Ma sono disposto a rischiare di

esserne schiantato» – continua lo scrittore – «a portarle sulla schiena, a essere la loro

voce.»259

Ed è questa, quindi, la responsabilità dell’autore: impadronirsi della storia di una

famiglia ebraica affinché non si dimentichi la loro esistenza, affinché il ricordo della loro

esistenza duri oltre la memoria di chi li ha conosciuti.

4.5. Conclusione

In conclusione si può affermare che Il mio nome a memoria, come ha suggerito

anche Dominque Budor, non è semplicemente una variante del romanzo famigliare, non è

neppure, anche se parla di una vicenda storica, una variante del romanzo storico.260

Il mio

nome a memoria presente appunto delle caratteristiche tipiche della tradizione ebraica. In

primo luogo, si è visto, l’indagine a ritroso nel passato, sia lontano che prossimo, è un

processo di recupero finalizzato alla conoscenza e alla comprensione del sé; in secondo luogo,

il ricordarsi del passato, e conseguentemente il farsene testimone, porta con sé una forma di

responsabilità: impedire che si dimentichi la memoria delle radici.

258

Ivi., pag. 294. 259

Ibidem. 260

Dominique Budor, Il “romanzo genealogico” ovvero la memoria viva dei morti, in AA.VV., Scrittori italiani

di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 117.

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V. La tessitura dei ricordi: memoria ed identità ebraica

ne Il gioco dei regni di Clara Sereni

5.1. Introduzione: la vita a mosaico di Clara Sereni

La vita di Clara Sereni è, secondo la scrittrice stessa, una vita a mosaico «costruita a

tessere mal tagliate».261

Ognuna di queste tessere rappresenta una diversità che compone

l’identità della scrittrice. Appunto, nell’introduzione al Taccuino di un’ultimista (1998), una

raccolta di scritti pubblici scritti per diversi quotidiani italiani, la Sereni, giustificando la

strutturazione testuale della sua raccolta, identifica quali sono le tessere che compongono la

sua identità:

l’ordine assegnato ai diversi brani segue una logica che attiene più che altro alla

ricerca di un filo interno a me. Non fingo alle quattro partizioni di questo libro

un’oggettività esterna, ma le dichiaro come i quattro spicchi dei quali, con continui

sconfinamenti, mi sembra di compormi: ebrea per scelta più che per destino, donna

non solo per l’anagrafe, esperta di handicap e debolezze come chiunque ne faccia

l’esperienza, utopista come chi, radicandosi in quanto esiste qui e oggi, senza esimersi

dall’intervenire sulla realtà quotidiana, coltiva il bisogno di darsi un respiro e una

passione agganciati al domani. La fatica di dare coerenza a queste parti, e gli

sconfinamenti dall’una all’altra, sono peraltro la rappresentazione più fedele di una

fase diversa da quella di «scrittrice pura» che vantavo fino a pochi anni fa.262

(corsivo

nostro)

Questi «quattro spicchi» sono, «con continui sconfinamenti», alla base dell’identità della

scrittrice e per questo non ci sorprende che l’attenzione particolare per le diversità, e per le

identità multiple in genere, costituisca spesso il filo rosso delle opere della Sereni. Infatti,

l’attenzione per la politica e l’utopia, uno dei quattro spicchi che compone l’identità della

scrittrice, è centrale in Sigma Epsilon (1974) in cui la scrittrice racconta, attraverso un

approccio autobiografico, dell’arrivo a partire dagli ultimi anni degli anni Sessanta di

un’ondata di giovani attivisti politici. In Passami il sale (2002) la scrittrice parla del proprio

261

Clara Sereni, Casalinghitudine, Milano, BUR, 2007, pag. 160 262

Clara Sereni, Taccuino di un’ultimista, citato in Gabriella De Angelis, Clara Sereni: la sfida della differenza,

in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 235.

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impegno politico e civile come vicesindaco della città di Perugia tra 1994 e 1997. In

Manicomio Primavera (1989), invece, l’attenzione della scrittrice, come madre di un figlio

handicappato, cade sul tema delle malattie mentali. I membri di gruppi minoritari sono,

inoltre, spesso i protagonisti dei racconti raccolti in Eppure (1995).

L’altro importante filo conduttore dell’opera della Sereni è il ritrovamento della memoria del

passato, specie quella del problematico rapporto con il padre, Emilio Sereni, noto politico

italiano del Partito Comunista Italiano. Una prima resa dei conti con il padre si trova in

Casalinghitudine (1987), un libro straordinario in cui la scrittrice rievoca dei frammenti di

memoria attraverso delle ricette di cucina. La figura del padre è, inoltre, il protagonista del Il

gioco dei regni (1993), secondo Alberto Asor Rosa «il più bel libro di memoria famigliare

ebraica accanto a Lessico famigliare di Natalia Ginzburg», in cui la scrittrice cerca di scavare

nella vita privata dell’intera famiglia ebraica, e in particole quella del proprio padre.263

In

questo romanzo,264

che potrebbe essere definito come «a montage of biographical memory,

historical research and reconstructive narrative», la Sereni ha saputo ricostruire la storia di

una famiglia dell’alta borghesia ebraica italiana.265

È, dunque, soprattutto in questo romanzo

che il tema dell’ebraismo diventa la chiave per lo svolgimento della narrazione e per la

costruzione identitaria dei “personaggi” e, perfino, della scrittrice stessa. Appunto, come

commenta Alberto Asor Rosa nella prefazione al libro e come noi avremo modo di vedere, ciò

che distingue questo romanzo storico dalla «“cronaca famigliare minore”» è «il conflitto fra

identità ebraica e il resto del mondo.»266

5.2. Il gioco dei regni per riannodare i fili dell’identità

Nelle ultime pagine del romanzo, intitolate Dopo la storia: perché, la Sereni spiega

come è nata l’idea de Il gioco a regni. Dopo un incontro con Giacometta Limentani, una morà

(maestra di sapienza ebraica), Clara Sereni viene introdotta alla pratica del midrash (l’esegesi

263

Alberto Asor Rosa, Prefazione a Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. I. 264

Anche se il romanzo parla di tre generazioni della famiglia Sereni, a differenza del romanzo di Giorgio van

Straten, l’albero genealogico non sembra avere un ruolo centrale qui e perciò non vorremmo definire Il gioco dei

regni come un romanzo genealogico. Questa mancanza di interesse per la genealogia da parte dei Sereni viene

pure riflesso nella narrazione: «l’albero genealogico ordinato da Pellegrino in Inghilterra, a testimoniare di glorie

commerciali e orgoglio di sé ma in un angolo buio, lontano dagli sguardi più frettolosi.» in Clara Sereni, Il gioco

dei regni, cit., pag. 160. 265

Giovanna Miceli Jeffries, Unsigned History: Silent “Micro-Technologies of Gender” in the Narratives of the

Quotidian, citato in Laura Quercioli Mincer, Patrie dei superstiti Letteratura ebraica del dopoguerra in Italia e

in Polonia, cit., pag. 116. 266

Alberto Asor Rosa, Prefazione a Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. V.

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ebraica dei testi sacri), definita dalla Sereni come «un gioco intellettuale ricco di sorprese».267

Dalla pratica del midrash, «che dalla radice drsh deriva il senso del ricercare,

dell’interrogare», nacque la volontà di riflettere, di scoprire «una vena sepolta» innanzitutto

dentro di se stessa, ma «forse non solo dentro di sé».268

Per questa volontà di indagare, la

Sereni intraprese, inizialmente con molte remore, un viaggio a Israele perché «c’era tutto un

passato, lì, custodito con cura e di cui possedeva solo brandelli.»269

Visto che, come vedremo,

lo zio Enzo, noto sionista italiano, si impegnò con passione alla causa sionista, dovunque la

scrittrice andò nella terra promessa trovava un’abbondanza di informazione su un passato

sconosciuto, offerto da gente conosciuta e perduta. Quest’eccesso di informazione in Israele è

in forte contrasto con «la vastità dell’ignoranza» della scrittrice stessa, che «la annichiliva», e

che suscita in lei il desiderio di conoscere.270

Questa curiosità verso la storia e la memoria

della famiglia si trasforma così in una ricerca identitaria, ovvero, con le parole della scrittrice

stessa, in una «necessità di rimettere a posto i pezzettini dentro di sé»:271

Riflettevo sulla genealogia femminile, da mia nonna a mia madre a me, tranquilla per

il resto di un’identità ebraica almeno culturale, benché l’appartenenza non sia mai

stata sancita da cerimonie. Ma un giorno, durante una lezione, mi ritrovai a chiedermi

se davvero lo ero da un punto di vista giurisprudenziale: mia madre non era

certamente nata ebrea, e non sapevo se si fosse convertita, non sapevo se il

matrimonio dei miei genitori fosse stato o no al Tempio.272

Appunto, nel romanzo possiamo leggere che Xeniuška, la madre di Clara Sereni, ha fatto il

bagno rituale che «ne consacrava la conversione all’ebraismo»273

e che i suoi genitori si sono

sposati nel Tempio «di fronte al mondo e [...] per il popolo ebraico».274

Siccome dal punto di

vista dell'ortodossia l'ebraismo si eredita soltanto per via materna, questo significa, dunque,

che la Sereni può essere considerata pienamente ebrea.

Ma la ricerca della scrittrice non finisce qui, Sereni afferma infatti di avere «un fame di

documenti, di cose scritte con apparenze di verità e certezza».275

Cercando delle risposte, la

scrittrice trova però sempre altre domande. Risulta, quindi, sempre più necessario «riannodare

267

Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 414. 268

Ibidem. 269

Ibidem. 270

Ivi., pag. 419. 271

Ivi., pag. 420. 272

Ibidem. 273

Ivi., pag. 211. 274

Ivi., pag. 218. 275

Ivi., pag. 420.

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i fili» della storia familiare, soprattutto quella parte della famiglia che si trova in Israele «nei

confronti della quale non nutriva comunque particolare interesse», per scoprire delle «vene

sepolte» dentro se stessa.276

Non a caso dunque, come ha notato anche Marialaura

Chiacchiarelli, la Sereni ricorre spesso alla metafora del filo e della tessitura nella sua

scrittura, la quale diventa per la scrittrice il modo per eccellenza per dare «ordine e coerenza

al “filo della vita”.»277

L’importanza ontologica della conoscenza della storia della famiglia

per la propria formazione identitaria viene inoltre confermata da Laura Formenti, secondo la

quale essa è «iscritta quasi fisicamente nei nostri corpi e nelle nostre coscienze, che usiamo

per dare forma e per giustificare la nostra identità personale e sociale.»278

Spinta dal desiderio

di conoscere, la Sereni si mette a scrivere le loro memorie.

Innanzitutto, la famiglia dei Sereni, nella generazione dei nonni della scrittrice, costituisce un

esempio prototipico di ebrei laici e assimilati, come sono stati descritti nel primo capitolo di

questo lavoro. Sentendosi ormai più italiano che ebreo, ognuno dei Sereni provò una sorta di

fastidio verso la memoria dell’ebraismo, «per quanto ancora li teneva legati ad un passato di

diversità, di sofferenza, di oppressione.»279

Per esempio, in una delle prime descrizioni della

vita quotidiana della famiglia, viene fatto riferimento al rito del seder, che ormai non è più

che «un’abitudine svuotata di significato e forse ormai soltanto imposta dalle

convenienze.»280

I piatti – le azzime, le erbe amare, la stracciatella e i carciofi, il vino, il

bollito con la salsa verde – erano ancora quelli prescritti dalla tradizione, ma le ricette e le

usanze erano ormai lontane da quelle del ghetto.

Evidentemente, le tradizioni che vanno spegnendosi sono la conseguenza dell’atteggiamento

sempre più laico degli ebrei in Italia. In questo modo gli ebrei italiani, e specificamente i

Sereni, intendono uniformarsi ai Gentili, «che sembravano accoglierli tutti a braccia aperte»

perché l’Italia nuova «cancellava come assurde e sorpassate le discriminazioni di secoli.»281

Altro esempio di questa volontà di cancellare la loro diversità si ha quando scoppia la prima

276

Ivi., pag. 417. 277

Marialaura Chiacchiarelli, “Il filo della memoria”. Esperienze diasporiche nell’opera di Clara Sereni, in

AA.VV., Ebrei migranti: le voci della diaspora, a cura di Raniero Speelman et al., Utrecht, Igitur, 2012, pag.

338. 278

Laura Formenti, La famiglia si racconta. La trasmissione intergenerazioneale dell’identità maschile e

femminile, citato in Giulia Po, Reconstucting Memories: Writing the Self and Writing the Father in Clara

Sereni’s Autobiographical and Memorial Work, in AA.VV., Italian Women and Autobiography: Ideology,

Discourse and Identity in Female Life Narratives from Fascism to the Present, a cura di Ioana Raluca Larco et

al., Newcastle upon Tyne, Cambridge Scholars, 2011, pag. 117. 279

Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 27 280

Ivi., pag. 25 281

Ivi., pag. 41.

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guerra mondiale e Samuele Sereni – il nonno di Clara Sereni – e il figlio maggiore Enrico si

arruolano perché questa guerra «li consacrerà definitivamente eguali, italiani e non più

ebrei.»282

Nonostante questa volontà da parte dei nonni della scrittrice di dare corpo a una genealogia

«non di ebrei, ma di uomini», si diffonde, al contrario, nella generazione successiva e in

particolare nei fratelli Enzo ed Emilio, un’esigenza di riscoprire la «tradizione ancestrale» a

cui non sono in grado di sottrarsi. Ciò accade soprattutto a Emilio Sereni, il padre della

scrittrice, che, quando indossa la kippà (il copricapo tradizionale degli ebrei) per andare a

scuola, si dimostra «fiero e sicuro» del suo essere ebreo e esprime così «l’onore e il potere di

dichiararsi diverso.»283

È Emilio che attraversa perfino, lui solo nella famiglia, una fase di

ortodossia religiosa perché l’ebraismo costituisce per lui «una rete» che lo aiuta a «tenere

insieme i suoi pezzi» e «gli appare il luogo di tutte le risposte».284

A ciò si aggiunga che,

qualche anno dopo, Emilio Sereni comincia i suoi studi di agricoltura per dedicarsi, insieme a

Enzo, al Sionismo, alla colonizzazione ebraica della Palestina, dove i due fratelli vogliono

fondare il primo kibbutz italiano. Questo fatto risulta assai significativo per Clara Sereni

perché prima del suo viaggio in Israele la scrittrice non sapeva che «suo padre non fosse

sempre stato comunista, e che le ragioni per cui aveva scelto per la vita di interessarsi di

agricoltura fossero state, alla partenze, altre.»285

Tuttavia, soprattutto dopo l’incontro con la futura moglie Xeniuška, la figlia di due

rivoluzionari russi, inizia a cambiare il progetto di Emilio, il quale ha deciso di non

accompagnare più suo fratello nel suo viaggio in Israele. «Le parole della Bibbia, mutevoli ed

interpretabili perfino nell’ortografia» sembrano perdere il loro significato, e adesso «il luogo

di tutte le risposte » si sposta nelle «parole ferme su pagine prive di dubbi, scritture definitive

capaci di attenersi uguali» che Emilio riesce a trovare soltanto nella lettura di Marx ed Engels

e Bakunin.286

Spinto dal bisogno di «cambiare, con il mondo, le persone», dal bisogno di

«farsi diverso», comincia in questa fase la sua adesione al comunismo che lo allontana, oltre

alla distanza fisica, anche ideologicamente dal fratello Enzo.287

È in questo momento decisivo

che Emilio taglia il filo che teneva uniti i due fratelli, una volta considerati «due metà di una

stessa mela, l’una per l’altra insostituibile» ma ormai «così separati da non potersi neanche

282

Ivi., pag. 114. 283

Ivi., pag. 78. 284

Ivi., pag. 157. 285

Ivi., pag. 418. 286

Ivi, pag; 192. 287

Ivi., pag. 210.

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salutare».288

Per raccontare questa «separazione di destini», la scrittrice, come nota la

Chiacchiarelli, ricorre di nuovo all’immagine del filo:289

Solo i libri possono riempire il grande vuoto che Mimmo [nome d'infanzia di Emilio]

si sta scavando dentro: fatto di eliminazioni progressive, di nodi troppo dolorosi per

essere sciolti e che dunque non si può che tagliare di netto.290

L’adesione al comunismo costituisce l’inizio della rimozione dell’ebraismo dalla vita del

padre, la quale viene simbolicamente rappresentata dall'eliminazione della barba, simbolo

dell’ortodossia.291

L’appartenenza al partito comunista e il conseguente rifiuto della causa

sionista a cui aderisce il fratello provoca, oltre a una frattura con la comunità ebraica, una

frattura insanabile con Enzo, una frattura che non “guarirà” mai più, visto che quest’ultimo

sarà ucciso qualche anno dopo nel campo di concentramento di Dachau il 18 novembre 1994.

Nemmeno le atrocità patite dal popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale, e

specificamente la morte del fratello per mano dei nazisti, fanno riaffiorare in Emilio,

contrariamente alla tendenza mondiale al ricupero dell’ebraismo, le sue radici ebraiche.

Appunto, nonostante tutto, Emilio, un convinto comunista, rimane fermo sulle proprie

posizioni antisioniste. Quando incontra, per esempio, il figlio maggiore – Daniel Sereni – di

Enzo, che intende continuare il progetto iniziato dal padre, Emilio non fa mistero del proprio

disprezzo per il sionismo e dice al nipote: «siete soltanto dei fanatici, e oltretutto

provinciali.»292

La Guerra dei Sei Giorni fra gli israeliani e gli arabi significa per Emilio la

rottura definitiva con le sue radici ebraiche.

Per quanto riguarda l’abbandono dell’ebraismo del padre, sono molto significativi i

riferimenti, che compaiono parecchie volte nel romanzo, alla figura talmudica di Rabbi Elishà

ben Avuyà, detto anche Acher (l’altro). Il primo riferimento alla storia talmudica di Elishà ben

Avuyà si trova già all’inizio del romanzo quando Pellegrino Sereni – il bisnonno della

scrittrice – la racconta ai tre nipoti. Elishà ben Avuyà, come narra Pellegrino, fu un grande

sapiente, così grande che pensò di poter affrontare i suoi studi da solo e rinunciò in questo

modo al dovere di ogni studioso ebreo di trovare un compagno di studio con cui bisogna

scambiare la propria saggezza. Senza alcun compagno, Elishà studiò le speculazioni

288

Ibidem. 289

Marialaura Chiacchiarelli, “Il filo della memoria”. Esperienze diasporiche nell’opera di Clara Sereni, in

AA.VV., Ebrei migranti: le voci della diaspora, a cura di Raniero Speelman et al., Utrecht, Igitur, 2012, pag.

340. 290

Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 192. 291

Ivi, pag. 197. 292

Ivi, pag. 355.

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filosofiche più complesse ma pian piano «perse la via della saggezza»; non impazzì, ma si

trasformò radicalmente in modo che i «rabbini lo chiamarono, da quel momento in poi, Acher,

l’Altro» perché infranse molte delle mitzvà (comandamento della Torà).293

Un sabato, mentre

Rabbi Meir, che fu un allievo di Elishà, stava discutendo la Torà con i suoi allievi, qualcuno

venne a dirgli che Elishà, infrangendo la mitzvà del shabbat (il sacro giorno di riposo), stava

per andare via dalla città a cavallo. Rabbi Meir andò a parlare con Elishà e i due cominciarono

a ragionare «assorti in un piacere dell’intelligenza che sembrava rifarli eguali.»294

Giunti al

limite della città, «alle porte che di sabato non vanno valicate», Elishà disse a Rabbi Meir: «io

lo superò, e anche tu potrai fare altrettanto: ma solo se lo deciderai in piena coscienza, non per

caso o per distrazione.»295

Meir, ligio alla mitzvà, si fermò e Elishà si allontanò al galoppo.

Infine, Rabbi Meir continuò a chiedersi «se cavalcasse davvero fuori dalle vie dell’ebraismo

quell’uomo sapiente e solo, che portava tanto incise dentro di sé le norme da poterle ricordare

agli altri.»296

La figura di Elishà ben Avuya, che secondo questa storia abbandona la legge ebraica in cerca

di nuove strade da perseguire, è, come commenta Laura Quercioli Mincer, il «prototipo di

quei grandi rivoluzionari del pensiero moderno che furono Spinoza, Heine, Marx, Rosa

Luxemburg, Trockij e Freud».297

L’inclusione di questo racconto talmudico, narrato dal

nonno ai tre fratelli quando erano ancora piccoli, non è casuale ma serve ad anticipare la sorte

di Emilio Sereni, che, come abbiamo visto, abbandona le sue radici ebraiche per aderire al

comunismo. Esiste, dunque, chiaramente un’analogia fra la sorte di Elishà ben Avuyà e la

sorte di Emilio Sereni. Questo parallelo non passa inosservato nella famiglia: è la zia

Ermelinda che avverte Emilio di «non fare la fine di Elishà ben Avuyà».298

Nell’ultimo

capitolo, in cui la scrittrice descrive la morte del padre, troviamo un ultimo riferimento alla

storia di Elishà, scritta su «una fotocopia di una pagina stampata che qualcuno lasciò, durante

quei funerali, appuntata su un mazzo di fiori.»299

Su questa fotocopia si legge:

Quando Elishà ben Avuyà morì, molto discussero i maestri della sua eredità. Ci si

chiedeva se ancora appartenesse alla comunità quell’uomo che, entrato in solitudine e

con iattanza nell’arengo della speculazione intellettuale, ne era uscito trasformato, così

293

Ivi, pag. 65. 294

Ibidem. 295

Ibidem. 296

Ivi, pag. 66. 297

Laura Quercioli Mincer, Patrie dei superstiti Letteratura ebraica del dopoguerra in Italia e in Polonia, cit.,

pag. 124. 298

Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 192. 299

Ivi., pag. 408.

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diverso da venir chiamato, da allora in poi, l’Altro. [...] Infine, la testimonianza

decisiva fu quella di Rabbi Meir, il discepolo più amato, che pure tante volte aveva

criticato ed osteggiato i suoi errori, e affrontato scontri con lui, e discussioni anche

amare: senza mai smettere, però, di riconoscerlo maestro. Sostenne Rabbi Meir che

Elishà, sul letto di morte, aveva pianto, forse per la disperazione di lasciare la vita ma

Meir immaginava per pentimento: e questo fu ritenuto sufficiente a farlo riconoscere

come appartenente alla comunità. E alle sue figlie fu consentito di ereditare, e anche le

sue parole – le parole della rivolta e dell’arroganza, della passione e della solitudine –

entrano a far parte del Talmud.300

Infine, attraverso l’indagine nel passato della famiglia, la Sereni chiarisce perché si

autodefinisce «ebrea per scelta più che per destino».301

Mentre inizialmente la scelta di essere

ebrea sembra assunta in opposizione alla figura paterna, con il quale Clara ebbe un rapporto

difficile poiché Emilio volle delle figlie «definitivamente non ebree», dopo aver riflettuto sul

significato dell’abbandono dell’ebraismo, tale scelta sembra piuttosto un tentativo di ritrovare

il filo che corre lungo la storia della famiglia. Appunto, la riappropriazione dell’ebraismo

sembra una riconciliazione con le «radici negate» e «troncate per volontà», che sembrano

adesso «misteriosamente riaffioranti» in Clara perché, come ci insegna la storia di Elishà ben

Avuyà, non si può mai interrompere completamente il rapporto con quella tradizione

ancestrale.302

Alla fine, dunque, «i fili [...] pian piano andavano riannondandosi» e riscoprire

il padre e tutte le sue contraddizioni ha aiutato la scrittrice a attribuire un senso unitario alla

sua identità di multiple appartenenze, descritta all’inizio di questo capitolo. Una simile

identità di «continui sconfinamenti» caratterizzò, a nostro giudizio, anche Emilio, il quale

però, a differenza della figlia, non riuscì ad attribuire un senso unitario alla propria identità e

rinunciò per questa ragione alle sue radici ebraiche. Clara Sereni è stata in grado di riannodare

tutti i fili della sua famiglia e per questo motivo, il romanzo si conclude con una descrizione

che simboleggia questa riunione: Miška, l’orsacchiotto che appartenne alla madre di Clara

Sereni, adesso si trova fra due libri che rappresentano le due culture (o utopie) che hanno

segnato la memoria e la storia della famiglia dei Sereni:

Adesso una parte del lavoro è finita [...] c’è un ordine, benché lo sappia precario e

suscettibile di modificazioni infinite. Chi cambia ininterrottamente di posizione, da

uno scaffale all’altro, dalla mia stanza a quella di mio figlio, è l’orso Miška, in questo

300

Ivi., pag. 409. 301

Clara Sereni, Taccuino di un’ultimista, citato in Gabriella De Angelis, Clara Sereni: la sfida della differenza,

in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 235. 302

Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 409.

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momento pazientemente accoccolato nella libreria accanto a me fra un Bereshit rabbà

e una Storia del Partito Comunista Italiano. Ma l’emozione che mi trasmette non

muta, e sospetto che custodisca ancora molte eredità, nella sua pancia spelacchiata e

consunta: che a premerla nel modo giusto, con attenzione e memoria, forse tuttora è

capace di suonare.303

5.3. Il gioco dei regni in attesa del Messia

Quando alla scrittrice viene chiesto quale sia l’elemento che rende la sua scrittura

tipicamente ebraica, ella risponde:

If I were to say what my objective is when I write, I would say that it is this: change

the world, improve it. I believe this is the deeply Jewish element of my writing: a

‘must be’ which turns into a ‘must do in order to change,’ something I maintain as also

typically feminine. I believe there is yet another complicated element which makes my

writing deeply Jewish: the absence of the fresco-style approach, or a big picture. These

are replaced in my writing by a mosaic style of composition, which is attentive to

inquiry, to the meaningfulness of the single tassel, and to the connections between

them rather than to any claim to give univocal and exhaustive answers. This is a way

of writing which certainly has something to do with Midrashic speculation rather than

with the Christian or Catholic tradition.304

In questa prospettiva, l’uso della memoria e la scrittura ne Il gioco dei regni non servono solo

a indagare sulla propria identità ma anche a cambiare il mondo. Questa volontà sembra

riecheggiare quella del proprio padre, il quale, come scrive Sereni, voleva «cambiare il mondo

con le mani e con le parole. Perché non si può aspettarlo soltanto, il Messia, bisogna andargli

incontro.»305

Ne Il gioco dei regni, in cui si può leggere «la durezza inimmaginabile della

storia che sta appena dietro le nostre spalle»,306

la scrittrice cerca di recuperare soprattutto le

storie e le memorie che sono andate perdute tra «i detriti della Storia.»307

Un esempio di una

tale memoria da riconsiderare da parte della scrittrice è quella della nonna materna, Xenia,

una rivoluzionaria russa, di cui Clara, dopo averla “riportata in vita” attraverso un’indagine a

ritroso nel passato, scopre la sua ricca personalità che non coincide per niente con la «piccola

303

Ivi., pag. 425. 304

David Ward, interview with Clara Sereni, in “L’anello che non tiene”, anno 1997, n.2, vol. 9., pp. 92 – 93. 305

Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 210. 306

Alberto Asor Rosa, Prefazione a Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. IX. 307

Ivi., pag. 408.

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donna noiosamente iperprotettiva che sua madre aveva descritto nel suo libro.»308

Infatti,

come ricorda la Sereni stessa, nel suo romanzo ha lavorato soprattutto «sui silenzi, sulle

omissioni, su tutti gli infiniti non detti della sua famiglia.»309

È, quindi, responsabilità della

Sereni riannodare tutti i fili della storia famigliare e, conseguentemente, farsene testimone. La

scrittura quindi risulta essere l'unico mezzo attraverso il quale può essere dato un ordine al

passato, restituendo carne e sangue ai suoi «tanti fantasmi» affinché diventino «persone

prima, e personaggio poi.»310

Oltre a una tale rievocazione degli antenati, il libro di Clara Sereni è, come commenta Katia

Marano, «un libro sulla memoria, una memoria raccolta fra “i detriti della Storia” che ha un

compito preciso.»311

Il gioco dei regni contiene appunto una lezione universale sulla forza che

deriva dal passato per affrontare il futuro. La Sereni ci invita, dunque, a riconsiderare quelle

parti del passato andate perdute tra «i detriti della Storia» tanto da poter raggiungere e svelare

verità altrui.312

In questa luce, la memoria viene intesa come una ricca fonte di saggezza che

serve ad affrontare e, perfino, migliorare il futuro.

Una prima lezione da trarre dal passato riguarda l’adesione alla causa comunista o alla causa

sionista, due ideologie che hanno assunto negli anni «significati e sfumature diversi», spesso

associate con delle lotte feroci.313

A proposito di questo, Clara Sereni ha ribadito in

un’intervista che ha cercato di raccontare «the story of how Italian communists were

something else, and not just the baby eaters, which was how at that time a few people had

started once again to talk about them.»314

Appunto, nell’unico capitolo in cui riflette sul senso

della propria scrittura, la Sereni scrive che nei «vent’anni di Enzo e di Mimmo», la gente

trovò in quelle ideologie «la speranza di un mondo diverso, più giusto ed umano.»315

Giustificando il contesto storico, la Sereni continua:

308

Anche la madre di Clara Sereni aveva scritto un libro sulla propria vita, intitolato, I giorni della nostra vita.

Ivi., pag. 419. 309

Iaia Caputo, Clara Sereni: scrivere per non mangiarsi il cuore, in, AA.VV., 12 interviste con 12 scrittrici

contemporanee, a cura di Iaia Caputo et al, Milano, La Tartaruga, 1995, pag. 166. 310

Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 424. 311

Katia Marano, “Tra i detriti della Storia”: Il gioco dei regni di Clara Sereni, in AA.VV., Scrittura femminile,

a cura di Irmgard Scharold, Tübingen, 2002, pag. 177. 312

Laura Quercioli Mincer, Patrie dei superstiti Letteratura ebraica del dopoguerra in Italia e in Polonia, cit.,

pag. 117. 313

Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 194. 314

David Ward, interview with Clara Sereni,cit., pag. 106. 315

Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 194.

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gli anni erano spietati, il nemico appariva invincibile: nell’affrontarlo a viso aperta, nel

decidere della propria vita tutta intera ci fu chi seppe mantenersi laico, e chi mutuò

dalla religione il senso dell’unità indissolubile, e del dogma.316

Comunismo o sionismo furono, come per Enzo e Emilio, la soluzione per chi non voleva

aspettare il messia, per chi «cercava un sogno da vivere» e per chi «voleva essere parte attiva

della forza che porta avanti il mondo».317

Una seconda lezione da trarre, legata alla prima, riguarda il significato dell’ebraismo che

emerge dalle pagine di questo romanzo. Appunto, le persone dipinte ne Il gioco dei regni non

rispecchiano un atteggiamento vittimistico nella espressione dell’identità ebraica, al contrario,

l’ebraismo è, per la famiglia dei Sereni, sia se abbracciato in pieno da Enzo o rifiutato

pienamente da Emilio, come sostiene anche Laura Quercioli Mincer, comunque «uno

strumento che consente di agire nel mondo.»318

Un primo esempio di questa concezione attiva

del rapporto con il mondo si trova in una delle prime descrizioni della famiglia. Ci riferiamo

all’episodio del seder in cui Pellegrino Sereni comincia a leggere e cantare in lingua ebraica,

il quale «affrontava bravamente» le asperità di quelle lingue e «le travolgeva con qualche

rudezza e approssimazione come ogni ostacolo della sua vita.»319

A ciò si aggiunga il fatto

che non compaiono molti riferimenti diretti alle atrocità delle persecuzioni che ovviamente

hanno segnato la vita dei Sereni. Infatti, l’unico episodio in cui l’orrore della Shoah è centrale

è, quando viene narrata la morte di Enzo nel campo di concentramento di Dachau. Alla

domanda di che nazionalità sia, Enzo continua, fino alla morte, a rispondere a testa alta con la

parola «ebreo».320

La storia raccontata da Clara Sereni, benché tragica, è dunque, come nota

anche Elisabetta Properzi Nelsen «a tale of human strength rather than defeat.»321

Per questo,

la stessa Nelsen conclude che:

characters such as Enzo and Mimmo do not reflect a victimization of Jewish identity.

Instead, theirs is an identity born from the strong sense of self that flourishes when

nurtured by the members of a close-knit community. It springs from a profound sense

of belonging both to one’s family and to collective experiences

316

Ivi., pp. 194 – 195. 317

Ivi., pag. 194. 318

Laura Quercioli Mincer, Patrie dei superstiti Letteratura ebraica del dopoguerra in Italia e in Polonia 319

Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 21. 320

Ivi., pag. 319. 321

Elisabetta Properzi Nelsen ,Clara Sereni and Contemporary Italian-Jewish literature, in AA.VV., The Most

Ancient of Minorities: The Jews of Italy, cit., pag. 162.

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Attraverso un’indagine a ritroso nella memoria familiare, la Sereni offre ai suoi lettori uno

sguardo verso il passato al di là di stereotipi. Ricostruendo le memorie familiari nella sua

scrittura, Clara Sereni si fa testimone dell’appartenenza a delle comunità emarginate e invita

così i suoi lettori a coglierne la ricchezza e la vitalità culturale in modo tale che queste non

diventino fonte di discriminazione e persecuzione. Se un tempo fu il padre, indossata la kippà

a scuola, a dimostrarsi fiero delle sue radici, adesso tocca alla figlia rivendicare queste radici,

le quali la aiutano a tenere insieme i suoi pezzi. «I wanted to reflect on memory» – dichiara la

scrittrice in un’intervista – «which in those years I began to see in the strongest of ways as if it

were about to become extinct.»322

Attraverso la scrittura, come fecero una volta i tre fratelli

Sereni, si garantisce la sopravvivenza e ci «si affida alla carta per capire e farsi intendere, per

rendere leggibile – dunque accettabile – ogni cosa».323

Se ognuno fosse in grado di cogliere la

ricchezza della diversità non ci sarebbe bisogna di aspettare il Messia per costruire un nuovo

mondo.

5.4. Conclusione

Risulta, dunque, chiaro che anche ne Il gioco dei regni l’atto di ricordare è molto

simile a quello di Il mio nome a memoria di Giorgio van Straten, ossia è un atto finalizzato a

una migliore conoscenza della vita contemporanea. Come per van Straten, l’indagine a ritroso

della memoria serve innanzitutto a una migliore comprensione del sé e del proprio essere

ebreo. Appunto, attraverso l’atto di riannodare dei fili della storia dei Sereni, specie quelli del

padre e dello zio, la scrittrice cerca di dare un senso alla propria scelta di essere ebrea e quindi

alla propria identità composita. Oltre a questa motivazione individuale, la scrittura di Sereni

aggiunge a questa anche una motivazione etica, cioè una responsabilità che si è assunta Clara

Sereni, come scrittrice di memoria. La sua speranza è di cambiare il mondo attraverso la

memoria del passato. Concludiamo il nostro discorso con un’immagine che ci pare esemplare

per illustrare il senso del libro della Sereni, ossia il racconto ebraico, su cui si apre il romanzo.

Questo racconto della tradizione orale dei Hassadim dice che quando il rabbino Baal Shem

Tov ricevette delle notizie allarmanti su una sventura che stava per abbattersi sul suo popolo,

andò nel bosco dove accese un fuoco e recitò una preghiera al cielo. Subito dopo un miracolo

si compì e la minaccia fu scongiurata. Qualche anno dopo, toccò alla nuova generazione

ritornare nello stesso punto del bosco per scongiurare nuove sventure. Il nuovo rabbino

cominciò la preghiera, ma subito dopo disse: «Signore del cielo, prestami ascolto come vada

322

David Ward, interview with Clara Sereni,cit., pag. 106. 323

Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pp. 56 – 57.

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acceso il fuoco non lo so, nessuno me lo ha mai insegnato oppure l’ho dimenticato. Però la

preghiera sono ancora capace di recitarla, e credo che basterà.»324

Il miracolo comunque si

compié di nuovo. Via via con il passare delle generazioni, si perse memoria della tradizione,

ma ciò nonostante ogni volta il miracolo si compì. Quando infine toccò al rabbino Israel di

Rižin scongiurare le minacce che stava per abbattersi sul suo popolo, egli andò nel bosco e

disse: «non so come vada acceso il fuoco, non conosco la preghiera, non so più trovare quel

punto nel bosco: niente di tutto questo so, nessuno me l’ha insegnato oppure l’ho dimenticato.

Tutto quello che so fare, è tener viva la memoria di questa storia: basterà?»325

Ed è questo che

sta facendo anche Clara Sereni, tenere viva la memoria della sua famiglia nella speranza che il

miracolo si compia.

324

Ivi., pag. 7. 325

Ibidem.

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VI. Conclusione finale

Nella prima parte di questo lavoro abbiamo visto che l’ebraismo in Italia è «uno spirito

impalpabile e tuttavia ben presente.»326

Benché la cultura ebraica sia sempre stata presente

nella penisola, è soprattutto nel corso del Novecento che ha conosciuto uno sviluppo tale da

diventare un argomento «active, even “hot.”»327

Tuttavia, è lecito sostenere che gli scrittori

italiani con eredità ebraica abbiano apportato un contributo notevole alla letteratura italiana

del Novecento, anche se il loro rapporto con l’ebraismo non è sempre stato così evidente.

All’inizio del Novecento gli ebrei italiani, nonostante la loro posizione assai rilevante sulla

scena culturale, non sembrano ancora manifestare apertamente la loro origine ebraica. Questo

fatto si spiega considerando la particolare propensione all’assimilazione degli ebrei italiani:

gli ebrei italiani si sentono in primo luogo italiani, poi ebrei. Per questo motivo manca quasi

ogni riferimento all’ebraismo nelle opere di scrittori ebrei del primo ventennio del Novecento

come Italo Svevo e Umberto Saba. In seguito, con la promulgazione delle leggi razziali

fasciste viene messo fine al processo di assimilazione cosicché gli ebrei furono costretti a

prendere coscienza della propria diversità. Questa presa di coscienza porta con sé un

rinnovato interesse per la propria eredità ebraica e fa sì che l’ebraismo non sia più confinato

nella sfera privata. Tuttavia, in ambito letterario, non sembra cambiare molto: anche se inizia

in questi anni «un periodo aureo o argenteo» di letteratura italo-ebraica con degli scrittori

come Natalia Ginzburg, Giorgio Bassani e Alberto Moravia, è soltanto a partire dagli anni

Sessanta che l’ebraismo va occupando sempre più spazio nella tradizione letteraria.328

Soprattutto a partire dagli anni Ottanta scoppia un vero boom di pubblicazioni dedicate al

tema dell’ebraismo, tanto da poter sostenere che la cultura ebraica in Italia gode di una

vivacità senza precedenti. Negli ultimi due decenni è appunto emersa una nuova generazione

di scrittori con eredità ebraica. In generale, abbiamo visto che questa letteratura italo-ebraica

contemporanea consiste da un lato in una ricca tradizione memorialistica della Shoah e,

326

Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 32. 327

Stephen Siporin, The Survival of “the Most Ancient of Minorities”, in AA.VV., The Most Ancient of

Minorities: The Jews of Italy, cit., pag. 367. 328

Raniero Speelman, Introduzione: particolarità e ricchezza della letteratura italoebraica, cit., pag. II.

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dall’altro, in una tradizione di romanzi storici e biografici nei quali vengono raccontate le

vicende della propria famiglia ebraica.

Nella seconda parte di questo lavoro abbiamo infatti visto che gli autori ebrei contemporanei

pongono spesso al centro delle loro opere un dialogo con il passato. A ben vedere, questo non

è sorprendente, visto che la memoria e il ricordo delle proprie radici svolgono un ruolo

centrale nella tradizione ebraica. La memoria, e la scrittura che ne è il veicolo, costituisce

perciò un modo indispensabile per tener vivo il ricordo e per assicurarne la trasmissione alle

generazioni future. In questa prospettiva, la scrittura diventa una responsabilità che spetta allo

scrittore, il quale cerca di «lasciare in eredità a figli e nipoti, propri e altrui, un piccolo scorcio

di una altrettanto piccola, ma a quanto pare indimenticabile, storia.»329

Accanto a ciò, emerge

la questione dell’identità ebraica. Si è visto che è tipicamente ebraico considerare il passato

come parte del presente e perciò la memoria diventa spesso la chiave per definire la propria

identità. Attraverso un’indagine a ritroso nella memoria lo scrittore di origine ebraica cerca

quindi di arrivare a una migliore comprensione di se stesso e, conseguentemente, della propria

ebraicità. In questo modo, la scrittura di memoria diventa anche un’azione di autoscoperta.

L’importanza dei temi di identità e memoria viene confermata nella nostra analisi de Il mio

nome a memoria di Giorgio van Straten e Il gioco dei regni di Clara Sereni. In entrambi questi

romanzi la memoria del passato familiare occupa un posto centrale. Per entrambi gli autori la

memoria è un processo di recupero finalizzato a una migliore comprensione della vita

contemporanea. Per Giorgio van Straten conoscere meglio la storia della stirpe significa

conoscere meglio se stesso e per questa ragione lo scrittore considera la storia del nome che

porta come la storia della propria esistenza. Anche ne Il gioco dei regni, il quale, secondo

Raniero Speelman, «offre una sintesi esemplare di generi e tematiche della letteratura

ebraica»,330

la storia familiare serve a «rimettere a posto i pezzettini» dell’identità e, di

conseguenza, a dare un senso alla scelta di Clara Sereni di essere ebrea.331

La scrittura di

memoria diventa, infine, per entrambi gli scrittori un compito etico: mentre per Giorgio van

Straten la scrittura è in primo luogo un modo per impedire che si dimentichi l’esistenza degli

antenati, per la Sereni la scrittura è soprattutto un modo per ribadire le proprie diversità tanto

che i suoi lettori possono coglierne la ricchezza.

329

Elen Loewenthal, La tentazione di esistere, in AA.VV., Appartenenza e differenza, cit., pag. 158. 330

Raniero Speelman, Dall’Argon al Carbonio: la letteratura italiana ebraica del dopoguerra, in AA.VV., Gli

spazi della diversità, cit., pag. 98 331

Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 420.

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Entrambi questi romanzi sono, a nostro giudizio, assai rappresentativi di alcuni aspetti salienti

della cultura ebraica moderna. Infine, sarebbe tuttavia interessante uno studio sulle opere di

altri scrittori italiani con eredità ebraica come, per esempio, Elena Loewenthal, Miro Silvera,

Giorgio Pressburger o Lia Levi, i quali rappresentano una cultura degna di essere conosciuta.

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VII. Riferimenti bibliografici

1. Fonti primarie

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http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-d923540a-9fad-4e1b-9b72-

9e1dc2f5dac9.html (ultima verifica 31 maggio 2012).

David Ward, interview with Clara Sereni, in “L’anello che non tiene”, anno 1997, n.2, vol. 9.,

pp. 82 –111.

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2. Fonti secondarie

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Heiner Müller, Tesi di dottorato, Università di Bologna, 2009.

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1993, a cura di Anna Bravo et al., Milano, Franco Angeli, 1994.

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