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IO E IL TEMPO Tomo II A cura di Monica Delmonte

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IO E IL TEMPO Tomo II

A cura di Monica Delmonte

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INDICE

L’IO E IL TEMPO

- IL CUCCIOLO CHE VOLEVA FERMARE IL TEMPO, da Il bambino arrabbiato di

Alba Marcoli

- da Lo Zen, di Alan W. Watts

- AFFRETTATI LENTAMENTE!, da Piccoli e grandi racconti di Sophios di Miquel

Piquemal

- LA FRAGILITÁ DELLA VITA, da Piccoli e grandi racconti di Sophios di Miquel

Piquemal

- L’ARTE DELLA SPADA, da Storie per apprendisti saggi di Michel Piquemal

- CIÓ CHE NON MUORE MAI, da Storie per apprendisti saggi di Michel Piquemal

- L’OCCHIO DELL’IPPOPOTAMO, da Storie per apprendisti saggi di Michel

Piquemal

- IL PADRONE DEL GIARDINO, da Storie per apprendisti saggi di Michel Piquemal

- TIRA LA CORDA!, da Storie per apprendisti saggi di Michel Piquemal

- GLI AVVERTIMENTI DELLA MORTE, da Storie per apprendisti saggi di Michel

Piquemal

- IL TEMPO, IL CAVALLO E IL VECCHIO, LA PRIMAVERA, L’AUTUNNO,

L’INVERNO, I TESORI E L’ALBERO, VIVI L’ATTIMO, da Il giardino del Tao.

Dialoghi di straordinaria saggezza di Huang-Ti, Mo-Tzu

- LUCIA, 6 anni, alla mamma

- PROVERBI

- PENSIERI di William Shakespeare

- L’USIGNOLO di Hans Christian Andersen

- L’ABETE di Hans Christian Andersen

- PASSA IL TEMPO, da La Filosofia in cinquantadue favole di Ermanno Bencivenga

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- NESSUNO, da La Filosofia in cinquantadue favole di Ermanno Bencivenga

- DOMANI, da La Filosofia in cinquantadue favole di Ermanno Bencivenga

- PRIMA E DOPO, da La Filosofia in cinquantadue favole di Ermanno Bencivenga

L’IO E IL TEMPO

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IL CUCCIOLO CHE VOLEVA FERMARE IL TEMPO da Il bambino arrabbiato di Alba Marcoli Una volta, tanto e tanto tempo fa, nel paese degli uomini nacque un cucciolo proprio uguale agli altri, in tutto e per tutto. E man mano che il tempo passava il cucciolo crebbe esattamente come tutti gli altri del suo tempo e non c’era niente che lo differenziasse da loro. Finché, un bel giorno, capitò una volta una cosa un po’ strana a cui agli inizi nessuno dette importanza, tanto che ne risero tutti. Il cucciolo si era infatti accorto che il suo corpo cresceva sempre più e questo lo metteva a disagio perché lui era ormai affezionato a quello che aveva da piccolo quando tutti lo coccolavano e lo proteggevano, cosicché i cambiamenti lo spaventavano sempre, anche quando erano piacevoli. “Perché il mio corpo cresce così?” aveva chiesto un giorno preoccupato a un vecchio del bosco. “È perché tu diventi grande” gli aveva risposto lui, divertito. Allora il cucciolo nella sua testa decise che la colpa di tutto quel cambiamento che lo metteva così in crisi era del tempo che passava e che lo faceva diventare grande. E decise di fermarlo. E fu così che partì alla ricerca di come fosse fatto il tempo, ma, per quanto si sforzasse, nessuno glielo seppe descrivere in modo tale da poterlo riconoscere senza ombra di dubbio al primo incontro. “Il tempo?” gli rispose un giorno un vecchio. “Non so neanch’io come è fatto il tempo. Però ti posso dire che è come il fiume che scorre e sempre non si ferma mai. Se tu vai vicino alla sua riva e lo guardi scorrere forse avrai un’idea di come è fatto il tempo”. E fu così che il cucciolo andò vicino alla riva del fiume, lo guardò scorrere per giorni e giorni e poi prese la grande decisione: se il tempo era come il fiume e lui riusciva a fermare le sue acque, forse sarebbe riuscito a fermare anche il tempo. Il giorno successivo il cucciolo tornò alla riva del fiume e cominciò a costruire una diga. Ci impiegò tutte le sue energie e tutte le sue forze e alla fine della giornata la piccola diga reggeva una striscia sottile del fiume. Il cucciolo andò a dormire tutto soddisfatto. Se avesse continuato così, giorno dopo giorno, prima o poi sarebbe riuscito a fermare il tempo, pensava. invece il giorno dopo, quando il cucciolo tornò, ebbe un’amara sorpresa. La sua piccola diga reggeva, sì, ma il fiume aveva trovato un’altra via dove passare e le sue acque continuavano a scorrere. Il povero cucciolo capì che la sua lotta era proprio impari: il fiume era più forte di lui e da qualche parte avrebbe continuato a scorrere, che lui volesse o no. Abbandonato il fiume, continuò altrove la sua ricerca. “Com’è fatto il tempo?” gli rispose un giorno un altro vecchio. “Mah, non saprei proprio. Ti posso solo dire che è come lo scorrere dei giorni e delle notti, che si susseguono l’uno dopo l’altra, incessantemente”. Allora il cucciolo ebbe un lampo di gioia: se fosse riuscito a fermare i giorni e le notti, forse sarebbe riuscito a fermare anche il tempo, pensava. Ma come si poteva impedire al sole di tramontare? Per quanto ci avesse provato tante volte, lui non c’era mai riuscito. Allora pensò un’altra cosa: se fosse rimasto dentro alla sua tana con gli occhi chiusi e non avesse visto il sole andarsene, forse gli avrebbe impedito di tramontare. E fu così che il cucciolo rimase a occhi chiusi dentro alla sua tana per alcuni giorni, ma quando ne uscì ebbe una gran delusione. Non solo il sole aveva continuato regolarmente a tramontare ogni sera, ma lui, per restarsene dentro a occhi chiusi, aveva perso tutti i giochi che gli altri facevano fra le ombre del bosco, quando il sole tramontava dietro agli alberi.

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E fu pure così che il povero cucciolo capì che neanche questa era la strada giusta e partì per continuare altrove la sua ricerca. “Com’è fatto il tempo?” gli rispose una volta un altro vecchio. “Mah, non saprei dirtelo. Ti posso solo raccontare che è come il vento che soffia sul bosco e poi sul mare e poi ancora sulle montagne per tornare di nuovo sul bosco e segue il suo corso, non quello che vorremmo noi”. Ma anche a quelle parole il cucciolo ebbe un lampo di gioia. Se il tempo era come il vento allora lui forse poteva fermare il vento e anche il tempo si sarebbe fermato. E fu così che preparò dei grandi teli che stese tra un albero e l’altro come trappole per fermare il tempo quando fosse arrivato sul bosco. Ma il giorno in cui finalmente arrivò ecco che il vento, invece di arrabbiarsi, si divertì moltissimo con tutte quelle trappole, le sollevò per aria e ne fece tanti aquiloni che portò in giro per il mondo, di nuvola in nuvola. Il povero cucciolo assisteva impotente a questo spettacolo e dei grossi lacrimosi gli scendevano lungo le guance. Ma allora non era possibile fermare neanche il tempo, nonostante i suoi sforzi? Ma il vento che era amico dei cuccioli perché giocava sempre con loro, si accorse della sua disperazione e gli disse: “Sali su una delle tue trappole e io ti porterò in giro per il mondo a cercare il tempo che tu non hai mai visto”. Il cucciolo era molto spaventato da questa idea, ma era tale la voglia che aveva di trovare il tempo per fermarlo che accettò la proposta del vento. Fece l’intero giro del mondo e il vento gli raccontava la storia dei luoghi dove passavano. “Vedi lì sotto, quel deserto? Ecco, anche quello è un segno del tempo che è passato di qua, perché una volta dove oggi ci sono tutte quelle sabbie c’erano delle splendide città, piene di traffici, di voci, di vita, finché un giorno la sabbia cominciò ad avanzare e gli uomini per poter continuare a vivere sicuri e protetti decisero di andare altrove a fondare una nuova città. E quel pezzo di mare limpidissimo lungo le scogliere lo vedi? Ecco, se aguzzi la vista potrai distinguere anche le rovine che stanno sott’acqua. Una volta qui c’era una città, proprio dove adesso io gioco con i giunchi sulle dune di sabbia e questa città aveva due porti, uno a mare aperto e uno a mare morto, per cui le sue rive erano sempre popolate di navi e di barche e di marinai che andavano e venivano e di abilissimi orafi che ricamavano l’oro e di commercianti che arrivavano da lontano per acquistarlo. Poi un giorno sono cominciati a sbarcare i pirati, la terra ha iniziato a sprofondare lentamente nel mare e gli abitanti capirono che la loro città, che era andata così bene per il tempo dei padri dei padri dei loro padri, non andava più bene per il loro tempo e decisero di trasferirsi e di costruirne un’altra nell’entroterra, che li proteggesse e li facesse vivere tranquilli e sicuri del loro tempo, che era diverso da quello dei loro nonni e bisnonni. Ma oggi le rovine sotto la sabbia e sotto l’acqua stanno ancora a segnare che il tempo è passato di qua, solo che quando c’è non lo si vede, ci si accorge che c’è stato soltanto dopo che se ne è andato”. “Ma allora è soltanto dopo che il tempo non c’è più che ci si accorge che è passato?” chiese il cucciolo, perplesso. “Bè, più o meno è così. In realtà il tempo c’è sempre, ma nel momento in cui lo incontriamo è trasparente come l’aria per cui non lo vediamo. E’ solo dopo che è passato che ci rendiamo conto dei segni che ha lasciato”. “Ma allora se il tempo è invisibile, vuol dire che non lo si può vedere e che io non potrò mai fermarlo!” esclamò il cucciolo deluso, come davanti a una battaglia che cominciava a diventare troppo difficile per lui. “A dire il vero ci hanno provato in tanti” rispose il vento “però finora nessuno c’è riuscito. Ma tu perché vuoi fermare il tempo?” chiese poi incuriosito.

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“Perché non mi piace che il mio corpo cresca così e preferivo quello che avevo da piccolo” rispose sconsolato. Allora il vento gli fece provare il gioco che faceva con i cuccioli cresciuti. Lo sollevò in aria e poi lo lasciò cadere su un albero, ma lui fu svelto ad attaccarsi ai rami con le sue mani e non si fece male e quando il vento lo sollevò di nuovo e lo fece ricadere lui si attaccò ogni volta a dei rami nuovi e si divertì moltissimo e fu allora che si accorse che le sue mani erano diventate molto più forti e lo proteggevano molto meglio di quando lui era piccolo. E fu tale il piacere di questa scoperta che da quel giorno il cucciolo andò in giro per il bosco a misurare le sue forze e cominciò a costruire una nuova tana e ogni giorno che passava la faceva sempre più solida e bella. Intanto, però, la sua ricerca del tempo continuava, anche se non più con la stessa determinazione di prima, perché da quando aveva cominciato a divertirsi, cioè a vivere il tempo, non sentiva più la stessa necessità di fermarlo. Ma dato che lui era sempre stato un cucciolo fedele, anche alle sue stesse idee, per coerenza con quello che era stato non poteva di certo abbandonare la ricerca. “Come è fatto il tempo?” gli rispose infine un giorno un ultimo vecchio. “Mah, non lo so proprio. Ti posso solo dire che fa quello che vuole lui, come la pioggia quando arriva sul bosco e noi non possiamo fermarla anche se cade per giorni e giorni”. Allora il cucciolo pensò che fermando la pioggia, questa volta sarebbe riuscito davvero a fermare il tempo, come ultimo tentativo. Fece dunque un grandissimo ombrello con cui ricoprì la tana che stava costruendo e tutto il terreno intorno. Ed ecco che la pioggia arrivò e bagnò tutto il bosco, tranne quel piccolo pezzo. Il cucciolo era molto soddisfatto di sé. Forse il suo problema era risolto. Ma quando, dopo un po’ di tempo, cominciarono a spuntare le erbe e i fiori della nuova primavera ecco che si accorse, con suo grande dispiacere, che si vedevano crescere per tutto il bosco tranne che sul terreno vicino alla sua tana. Proprio lì la terra non si era affatto svegliata, continuava a dormire tranquilla perché la pioggia non l’aveva innaffiata e i semi al di sotto non si erano neanche accorti che fuori fosse cambiata la stagione. E fu allora che il cucciolo capì, finalmente, e stavolta anche col cuore. Prese il grande ombrello che aveva fatto, lo rovesciò e la prima pioggia che cadde nuovamente lo riempì completamente facendone un bellissimo laghetto dove tutti andavano a bere e dove anche lui raccoglieva l’acqua per risvegliare le piantine sotto terra vicino alla sua tana. E quando anche loro cominciarono a spuntare ne fu così felice che si dimenticò della sua vecchia idea di fermare il tempo. Anzi, appena la sua tana fu pronta, ben attrezzata e sicura, ci si trasferì con tutte le sue cose vecchie e i nuovi attrezzi per i lavori futuri e abbandonò la tana di quando era piccolo. E fu così che il cucciolo che voleva fermare il tempo dette infine pace perché aveva finalmente scoperto le cose che gli piacevano anche del tempo che passava. E da allora abbandonò ogni idea di fermare il tempo, anche perché se ci avevano provato in tanti e nessuno c’era riuscito non si capiva bene per quale motivo ci dovesse riuscire proprio lui che era un cucciolo né più né meno come gli altri, in tutto e per tutto, anche se a lui capitava spesso di pensare che un altro con i suoi problemi non esistesse sulla faccia della terra, senza sapere che queste cose le pensano tutti i cuccioli, proprio tutti e a volte anche i grandi. Tu forse no? da Lo Zen di Alan W.Watts

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Se cerchiamo di pensare alla velocità con cui passa il tempo o con cui le cose cambiano, la nostra mente è presa in un vortice, perché questa è una velocità che non si lascia mai calcolare. Più cerchiamo di fermare il momento, di afferrare una sensazione piacevole o di definire qualcosa in un modo durevolmente soddisfacente, più essi ci sfuggono. E’ stato detto che definire significa uccidere, e che se il vento dovesse fermarsi un minuto per lasciarsi prendere da noi, cesserebbe di essere vento. Lo stesso è vero della vita. Cose ed eventi si muovono e cambiano senza tregua; non possiamo afferrare l’attimo presente e costringerlo a rimanere con noi. Wu-Men Poesia cinese del XIII secolo In primavera, migliaia di fiori; in autunno, la luna piena; in estate, una brezza fresca; in inverno, la candida neve ti accompagna. Se le cose inutili non abitano la tua mente, qualunque stagione è una bella stagione. E’ un inno alla natura, a quell’alternarsi delle stagioni che è simbolo ed espressione dell’eterno fluire delle cose. Il massimo della saggezza non consiste nell’ammassare tesori, nel lasciare segni di sé o nel perseguire conquiste e primati, ma nel mantenersi in armonia con questi ritmi, svuotando la mente da futili pensieri e preoccupazioni. Solo così ogni stagione sarà una buona stagione. AFFRETTATI LENTAMENTE! da Piccoli e grandi racconti di Sophios di Miquel Piquemal Sotto la dinastia dei Ming, non c’era pittore più rinomato di Ti Chang: delle sue stampe si diceva che erano la vita stessa. Così l’imperatore, che ammirava molto la sua arte, gli commissionò per il compleanno dell’imperatrice un grande affresco che raffigurasse le rose che ella tanto amava. I giorni passavano ma, per la disperazione del Gran Cerimoniere, Ti Chang non faceva niente. Si accontentava di gironzolare per i giardini del palazzo, di sonnecchiare come un gatto fra le aiuole piene di fiori e di annusare quelli più profumati… In quel periodo, l’affresco non avanzava. La data fatidica si avvicinava e il cerimoniere osò dire due parole a Ti Chang.

- E l’affresco, maestro? La cerimonia è tra tre giorni… Ti Chang si limitò a gettare al vento qualche manciata di petali. Il gran cerimoniere non dormiva più. Temeva che Ti Chang fosse impazzito. Ma non era così. Lui aveva semplicemente bisogno di impregnarsi dell’essenza delle rose, di divenire egli stesso un

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fiore. E la vigilia della cerimonia, quando in poche ore dipinse un immenso giardino sul grande muro del salone, le api stesse si lasciarono ingannare da quel miraggio e vennero a raccogliere il polline delle rose immaginarie… LA FRAGILITÁ DELLA VITA da Piccoli e grandi racconti di Sophios di Miquel Piquemal Il giovane allievo si lamentava, amareggiato dalla fragilità della vita:

- Lo dici tu stesso, grande maestro, che non siamo che polvere. La nostra permanenza in questo mondo è così fugace. Che senso ha dunque vivere?

Sophios sembrò confuso e non rispose. Però al momento di andare a dormire, tornò dal suo allievo e lasciò vicino a lui delle farfalle multicolori:

- Ti aiuteranno a comprendere il valore della vita, - gli assicurò con tono enigmatico. Lo studente prese questo gesto come la nuova stravaganza di un maestro un po’ anziano. Ma il mattino dopo, al suo risveglio, trovò le farfalle morte. Si trattava infatti di quella varietà detta effimera, perché non vive più di un giorno. Per ricordare meglio la lezione, il giovane studente si disegnò una farfalla sul palmo della mano. L’ARTE DELLA SPADA Racconto Zen da Storie per apprendisti saggi Michel Piquemal Un giovane si recò da un maestro di arti marziali e gli domandò:

- Maestro, vorrei imparare l’arte della spada, quanto tempo ci vorrà? - Dieci anni. - Ma è troppo! Non riuscirò mai a… - Allora vent’anni. - Ma è tantissimo! - Allora trent’anni!

CIÓ CHE NON MUORE MAI Parabola Buddhista da Storie per apprendisti saggi Michel Piquemal Un giorno, una giovane donna in lacrime andò a trovare Buddha, il suo bambino era appena morto e, visto che aveva già perso il marito, si ritrovava sola al mondo. La donna sperava che Buddha potesse fare un miracolo: desiderava segretamente che le restituisse il figlio. Buddha le sorrise con dolcezza e le disse:

- Vai in città e portami qualche granello di senape da una casa in cui non è mai morto nessuno.

La donna partì alla ricerca, ma ovunque andasse otteneva la stessa risposta:

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- Possiamo darti tutti i grani di senape che desideri, ma la condizione che poni è impossibile da soddisfare. Molte persone hanno esalato l’ultimo respiro sotto questo tetto!

Per tutto il giorno la donna andò ostinatamente di porta in porta, sperando di trovare una casa dove la morte non avesse mai bussato. Quando calò la notte finalmente si arrese, rendendosi conto che la morte faceva parte del ciclo della vita e che era inutile negare questo fatto. Così tornò da Buddha, che subito le chiese se gli aveva portato i grani di senape. La donna si prostrò davanti a lui e disse: - Non ti chiederò più di restituirmi il mio bambino, perché morirebbe comunque un giorno o l’altro. Insegnami piuttosto ciò che non muore mai. L’OCCHIO DELL’IPPOPOTAMO Racconto africano. da Storie per apprendisti saggi di Michel Piquemal Un ippopotamo stava attraversando un fiume, quando improvvisamente uno dei suoi occhi si staccò e cadde sul fondo. L’ippopotamo si mise a cercare da tutte le parti: si girava e rigirava su se stesso, scavava a destra e a sinistra, davanti e dietro, ma del suo occhio non c’era traccia. Vedendo quello che stava facendo, alcuni uccelli presero a gridargli:

- Calmati! Dai, calmati! Ma l’ippopotamo, spaventato, non li sentiva. Doveva assolutamente trovare l’occhio perduto. Anche i pesci e le rane si unirono agli uccelli:

- Calma, ippopotamo! Calma! Alla fine l’ippopotamo li sentì. Si fermò di colpo e li guardò. Subito la melma e il fango che aveva sollevato mentre cercava forsennatamente e si posarono sul fondo del fiume. E nell’acqua tornata trasparente l’ippopotamo vide l’occhio fra le su stesse zampe. Lo raccolse e lo rimise al suo posto. IL PADRONE DEL GIARDINO Racconto armeno. da Storie per apprendisti saggi di Michel Piquemal C’era una volta, molto tempo fa, in Armenia, un re che possedeva un rosaio e lo faceva coltivare e coccolare come se fosse uno dei suoi figli. Infatti si diceva che, se su quei ramoscelli fosse fiorita una rosa, questa avrebbe dato l’immortalità al padrone del giardino. Arrivò la primavera, e il re andava ogni giorno nel giardino ed esaminava attentamente il rosaio, nella speranza di trovare il bocciolo che lo avrebbe reso immortale. Ma, non trovandone traccia, si arrabbiò con il suo giardiniere e lo cacciò via. Passarono gli anni e i più grandi esperti di giardinaggio si susseguirono senza successo alla cura del rosaio. Finché un giorno arrivò un giovane.

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- Signore, - disse al re, - adoro le rose più di ogni altra cosa, quindi desidero tentare la fortuna.

Il re era già pronto a congedarlo, ma davanti alla sua sicurezza e determinazione decise di aprirgli i cancelli del giardino. Da quel giorno, il ragazzo visse solo per il rosaio: vangava teneramente la terra e la innaffiava goccia dopo goccia. Restava lì giorno e notte, lo proteggeva dal vento e, quando arrivarono i primi freddi, lo circondò di paglia. Preso da questo suo folle amore, finì addirittura per parlargli:

- Rosaio, dove ti fa male? Non appena ebbe pronunciato queste parole, un verme nero e lucido uscì dalle radici, ma in quel momento passò una rondine che afferrò il verme e lo portò via. Subito si formò il bocciolo e l’indomani all’alba, quando il giovane l’accarezzò, sbocciò una rosa. Pazzo di gioia, il giovane corse ad annunciare al re la grande novità.

- Ora sono immortale! - esclamò la monarca. Ricoprì il giardiniere di regali e gli affidò per sempre la cura della rosa. Passarono dieci anni e, una sera d’inverno, il vecchio re stava per esalare l’ultimo respiro.

- Alla fine era solo una leggenda, - disse, - il padrone del giardino morirà, come tutti. - No, - mormorò il giardiniere, inginocchiato accanto a lui. - Il padrone del giardino non siete

mai stato voi, ma colui che se n’è preso cura e lo fa tuttora. Chiuse le palpebre del re e, sorridendo, uscì sotto le stelle. Aveva tempo, tanto tempo! TIRA LA CORDA! Racconto mediorientale. da Storie per apprendisti saggi di Michel Piquemal C’era una volta uno studente, che sognava di diventare il più saggio fra gli uomini. Un giorno sentì parlare un anziano che viveva ai margini del regno: sembrava che fosse il più sapiente di tutti, e ciononostante continuasse a fare il fabbro. Questo fatto colpì talmente il giovane, che decise di mettersi subito in cammino: prese il suo bastone da pellegrino e lasciò i genitori e gli amici per andare a trovare il grande saggio. Il suo viaggio durò mesi e gli insegnò senza dubbio molte più cose di quante ne avesse mai imparate sui libri. Quando infine trovò la bottega del fabbro, si gettò ai piedi del vecchio.

- Cosa desideri, figliolo? - chiese questi. - Imparare da te la saggezza.

Per tutta risposta, il fabbro gli tese la corda che azionava il mantice e gli disse: - Tira la corda.

Dalla mattina alla sera, il giovane tirava la corda. I giorni passavano e lui tirava la corda. Passarono le settimane, poi i mesi. Dopo un anno, lui osò domandare:

- Maestro, io vorrei imparare… - Tira la corda, - gli ordinò il fabbro, continuando a fare il suo lavoro.

Di nuovo passarono i mesi e il giovane non osò più chiedere niente. Finché, dopo cinque anni, fu il maestro a rivolgergli la parola:

- Figliolo, ormai puoi tornare a casa tua. - Ma maestro, - replicò il discepolo, - io voglio imparare. Insegnatemi! - Allora tira la corda, - rispose il fabbro.

E si rimise al lavoro. Passarono altri cinque anni, anni di silenzio e di duro lavoro.

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Il discepolo sembrava aver dimenticato la ragione per la quale era venuto. Fu di nuovo il maestro che gli parlò:

- Figliolo, ora puoi tornare a casa. Tutta la saggezza del mondo è dentro di te: ti ho insegnato la pazienza.

E si rimise al lavoro. Il discepolo prese il fagotto e si avviò verso il suo villaggio, con il sorriso sulle labbra. GLI AVVERTIMENTI DELLA MORTE Racconto dell’Europa centrale da Storie per apprendisti saggi di Michel Piquemal Un giorno, un giovane stava rientrando dai campi quando vide la Morte con la falce sulle spalle. Spaventato le chiese:

- Cosa vuoi da me? Sono ancora giovane, perché viene a cercarmi senza preavviso? - Stai tranquillo, - rispose la Morte. - Non è te che vengo a cercare, ma il tuo vicino con la

barba bianca. Non sarei mai venuto senza avvisarti. Sollevato, il giovane se ne tornò a casa e quella sera andò a una festa. Lì incontrò una ragazza carina: anche lui piacque a lei, e così si sposarono ed ebbero dei bei bambini. Gli anni passarono, la loro vita era felice e spensierata e i bambini crescevano. Una sera, tornando a casa dai campi, l’uomo vide di nuovo la Morte. La salutò distrattamente, pensando che fosse in cerca di qualche altro vicino di casa. Ma la Morte si diresse verso di lui.

- Cosa vuoi da me? - Dai, lo sai benissimo, faccio solo il mio lavoro. Sono venuta a cercarti. - Ma mi avevi promesso che mi avresti avvisato, prima. Non hai mantenuto la promessa! - Come? - gli disse la Morte - Non ti ho avvisato una volta, ma cento volte! Quando ti

guardavi allo specchio, li vedevi i capelli che diventavano bianchi e le rughe che si facevano più profonde. Quando camminavi, ti rendevi conto che il tuo respiro era più affannoso e le articolazioni doloranti. Come puoi dire che non ti ho avvisato.

Quindi lo prese per le braccia e lo portò via. da Il Giardino del Tao di Huang-Ti Mo-Tzu IL TEMPO E' difficile per noi trovare il tempo. Quando lo diciamo a Mo-Tzu lui... dice: "C'è un tempo per nascere, un tempo per vivere e un tempo per morire". E ripete continuamente questa frase, che vuol dire tutto, e non vuol dire nulla. Mi avvicino a lui... " Ma Maestro - dico - il tempo sulla terra è scandito a ore, a minuti... qui noi non abbiamo il tempo". E lui continua "C'è un tempo per nascere, un tempo per vivere e un tempo per morire". E allora gli chiedo "Maestro, ma se di qui non c'è il tempo... quando è il tempo per nascere?". Lui si ferma, mette le mani in queste grandi maniche che ha... sorride, mi guarda e poi dice: "Figliolo il tempo... quando ero sulla terra vivevo il tempo. Nell'eternità vivo un altro tempo. Nella morte ho vissuto un altro tempo. Vedi. Il tempo è un concetto. Il tempo può essere un attimo, può essere un secolo. L'importante è capire. Capire che c'è un tempo per nascere, un tempo per vivere e un tempo per morire. Che non significa che tutti questi tempi facciano parte di una vita sola. Il tempo è l'eternità.

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Mo-Tzu seppe trovare in questa filosofia lo spirito. Seppe giudicare gli uomini con grande crudeltà all'inizio, e con grande amore alla fine. Io, Huang, seppi giudicare gli uomini con grande crudeltà. Fino a che scoprii la sofferenza. Attraverso di essa ho scoperto l'amore. E allora da quel momento prima di giudicare, mi fermo ad aspettare. Voi direte "cosa?". Aspettare l'amore, che viene sempre... vicino ad ogni uomo, in ogni momento. Ma spesso l'uomo non lo capisce. Vive esteriormente. Non interiormente. Ed allora tutto questo diventa non amore, ma tensione. Diventa sofferenza, diventa paura. IL MIO GIARDINO Tutto serve per andare avanti. Per armonizzare. Ecco perché di qui io ho scelto un giardino, perché i fiori, gli alberi, i frutti ogni volta cercano di prendere dalla terra l'energia per crescere. E quando crescono ne sono felici. E quando felici. E quando muoiono ne sono felici. Ritornano nella terra e ricrescono e poi rimuoiono. E sono felici. Ma questa è la Natura. Voi uomini dovete cercare di andare nella terra, crescere e migliorarvi. Salendo la scala della evoluzione. Questa è la vostra meta, il vostro compito. Il nostro compito. Quello di aiutarvi. Col passare del tempo dovete migliorarvi sempre. Allora non è più essere o non essere. Ma capire, perché capire significa modificarsi. Assoggettarsi a nuove energie e a nuove dimensioni. Cambiare significa essere e non avere. Abbiamo sempre detto di stare a contatto con la natura, perché nella Natura c'è la possibilità di rigenerarsi, di rinnovarsi. Cambiare le proprie energie. Dormire all'aperto significa armonizzarsi con i boschi, le piante, i fiori. Nella Natura c'è una grande forza. Ma che non è fine a sé stessa. Ma che porta a un miglioramento. Ecco perché ho scelto un giardino, un giardino di anime. Un giardino di fiori, che si è tramutato in un giardino di anime. Ogni fiore un'esperienza. Ogni fiore una vita. IL CAVALLO E IL VECCHIO Su una strada,un vecchio cinese stava andando su un carro, trainato da un cavallo. Quando improvvisamente si accorse, che in mezzo alla strada, era cresciuto un grande albero. E sia a destra che a sinistra dell'albero vi era un precipizio. Il vecchio fermò il carro e pensò: forse tagliando l'albero riuscirei a passare. Ma poi si disse: faccio troppa fatica a tagliare l'albero. Allora guardò dietro nel carro e vide tutta la su mercanzia e pensò: non posso proseguire a piedi con tutta questa roba. Come farò? Questo è tutto ciò che posseggo. Che farò? In preda ad una forte agitazione si mise a parlare con il suo cavallo, e gli disse: forse noi due possiamo passare, ma il carro e tutta la mercanzia, no. Allora pensò di buttare il carro nel precipizio. Così nessuno avrebbe potuto impossessarsi di tutta quella roba. Ma il cavallo nitrì. Allora il vecchio capì che il suo destino era di continuare a piedi trascinandosi il cavallo e lasciando su quella strada il carro pieno di tutto ciò che possedeva. E fu felice perché così poteva solo pensare ad essere felice e a non avere più paura e timori. Sciolse il cavallo dal carro e gli disse: Senti, ho deciso di andare oltre questo albero. Ma ti lascio libero. Se vorrai venire con me, sarò felice se invece vorrai tornare sarò felice lo stesso. Ora, da questo momento, sono un uomo libero e spero che tutta questa roba che lascio su questo carro, possa essere fonte di felicità per altri uomini. Io vado solo, oltre il tempo.

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Oltre questo albero, su questa strada, e che tu venga o non venga con me, ora non ha più importanza. Sappi solo che tutto ciò che ho fatto, ti ho bastonato, ti ho frustato, ho inveito contro di te, ecco, tutto ciò che ho fatto lo feci con rabbia, e per questo oggi, te ne chiedo perdono. Io vado, ti saluto, ti ringrazio per la tua fedeltà, il tuo amore e la tua speranza. LA PRIMAVERA Presto il pesco sarà in fiore, e la mia casa sul lago è già pronta per accogliere il fiore di pesco che presto arriverà. Il pesco ha un colore delicato. Come delicata è la Natura, anche se nel suo interno vi sono negatività, passività e distruzione. Ma il pesco vive di colori tenui. E nella sua delicatezza mostra a tutti la sua forza. E' l'inizio della Primavera. E' il sole che ricomincia a scaldare la terra. E' il sole che ritorna. Il pesco in fiore. La radice di pesco, è pesca. Pescare significa prendere dall'acqua la vita. Per alcuni è uccidere la vita. Per altri è dare la vita. Un altro grande insegnamento. Il pesco è la vita che ritorna sulla terra per essere vissuta, compresa e sciolta nell'acqua. Il pesco è un fiore, è un albero... Un fiore che annuncia l'alba, il sorgere della vita sulla terra. Noi siamo andati sul lago, ad aspettare il sorgere della vita sulla terra. Perché il pesco presto fiorirà. L’AUTUNNO Il mio giardino si sta preparando ai colori, ed alle atmosfere più belle. L'autunno è il rovescio della medaglia della primavera. In primavera vi è l'esplosione dell'energia. Nell'autunno ogni essere vivente tende ad accumulare energia. Ad incamerarla, ad immagazzinarla. E' la stagione che io preferisco.Perché l'autunno è il ripensamento. E' la meditazione. E' il vedere la nebbia davanti e poi piano piano il vederla diradare e io sul ponte, che prima vedevo solo il grigio della nebbia... piano piano vedo il lago, gli alberi, le case. L'autunno. Ciò che voi chiamate Natura è dentro e fuori di voi. E significa che attraverso i suoi cicli, anche il corpo si fortifica. Acquisisce delle cose. Ne perde altre. Ora siamo in autunno e il corpo ha bisogno di acqua, e ciò che è nato e cresciuto durante l'estate, inesorabilmente muore. Quindi è un tempo di rinascita. Di valori eterni, legati all'acqua. L'acqua che è intuizione, medianità. Acqua che vuol dire solitudine, preghiera. Acqua che significa entrare nel vostro profondo, nell'inconscio che è acqua, palude, mare, fiume... ma sempre acqua. Il corpo si prepara a questa mutazione. Dal secco all'umido. Poi passerà al freddo, e poi al disgelo. E poi ancora al caldo. Al secco. All'umido. Natura fuori. Natura dentro. Se voi seguiste i ritmi della natura vivreste molti più anni. Perché la natura ci insegna che il tempo non esiste. Il tempo è scandito in quattro stagioni, che ogni anno ritornano. Diverse, ma ritornano. Ogni stagione ha la fioritura di un suo frutto... di un suo fiore... e la distruzione di altri. Quando vi chiedono "come devo curarmi?" basta dire: "Guarda la natura". Questo è il tempo dell'acqua. Quindi bere molta acqua. Fare molta meditazione. Stare soli. Pregando. E cercando di entrare in sé stessi. Diventare degli illuminati, dei saggi che guardano l'acqua vedendo il passato, il presente e il futuro, questa è la cura di cui ognuno di voi ha bisogno. L'INVERNO La Natura, in questo periodo, è in letargo e sulla terra l'uomo dovrebbe cercare di calmare le

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pulsioni, le tensioni e le dinamiche della vita. Ma non è così. La Natura si addormenta, rallenta i suoi cicli, cerca di trovare nelle forze che la circondano, un motivo per rilassarsi, per essere serena, mentre l'uomo fa di tutto per uccidere e distruggere e crea negatività. Dal momento che l'uomo combatte e distrugge, l'universo e la terra non possono intervenire perché sono assopiti, forviati da molte cose. Questo è un momento in cui non è possibile intervenire sulla Natura. Bisogna lasciare che essa si addormenti in attesa del sole, dell'equinozio di primavera. Ora lentamente si addormenta. Nulla più cresce con il vigore di prima. Ma comunque qualcosa cresce e sotto la terra il calore lavora, e cerca di mantenere in vita la linfa, che poi in primavera entrerà in un seme, e sfocerà in una pianta, in un albero, in un ramo, in un fiore. L'uomo dovrebbe imparare questo. Ma per lui è difficile. Perché non riesce a capire cos'è l'acqua, cos'è l'aria, cos'è il fuoco... cosa è la terra, che sono gli elementi che compongono questa dimensione. Questi elementi sono la Natura, che insieme allo spirito ed all'anima, permettono la vita, l'amore, e di far scegliere all'uomo, che è al vertice della Natura, le sue esperienze, il suo karma e il suo destino. Dovete aspettare per le vostre azioni l'equinozio di primavera perché vi farà tornare il sole, la grande energia del sole più forte e più splendente di prima. I TESORI E L’ALBERO Quando vivevo sulla terra, alla fine della mia vita la mia casa era un albero. E dentro quest'albero avevo trapiantato tutti i miei tesori. Perciò non volevo che quest'albero crescesse, perché avrebbe rovinato tutti i miei tesori. Un giorno capii che l'albero doveva crescere. Doveva alzarsi. Doveva seguire la sua strada. E che io avrei perso i miei tesori. E fui infelice. Ma poi lentamente quando ad uno ad uno i miei tesori sparirono e l'albero divenne grande, fui felice. Perché capii che lui... un albero, aveva seguito la sua strada, ed io finalmente avevo seguito la mia. VIVI L’ATTIMO Un Saggio con il suo mantello azzurro camminava in riva al mare. Un discepolo gli chiese: "Maestro, ma io morirò senza aver mai visto l'altra faccia del mare?". Il Maestro lo guardò, sorrise, e poi gli chiese: "Ma tu hai mai provato ad entrare nel mare e a nuotare verso l'orizzonte?". "Sì Maestro - disse il discepolo - ma vedi, dopo un po' mi stanco e vado a fondo". "Questo lo so - disse il Maestro - ma hai mai provato ad entrare con la tua mente nel mare?". "Sì Maestro, ho provato. Ma non riesco a giungere all'altra riva, perché mi stanco e ritorno nella mia mente". Il Maestro riprese a camminare e disse: "Figliolo, io cammino tutte le mattine in riva al mare pregando e meditando. Ma se ti dicessi che questo mare non esiste... se ti dicessi che la tua mente non esiste... se ti dicessi che il tuo Maestro non esiste... tu cosa risponderesti?". "Oh no, Maestro - rispose il discepolo - io ti vedo. Vedo il mare, vivo le tensioni della mia mente e quindi queste cose esistono". "Allora, figliolo, quando non le vedrai o sentirai più, non esisteranno?".

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Il discepolo rimase muto a pensare poi disse: "Cosa vuoi dirmi Maestro?". Il Maestro sorrise e disse: "Vivi l'attimo, per ciò che è. Non farti tante domande. Il domani verrà e ti porterà o non ti porterà il mare, ti porterà o non ti porterà il Maestro. Ma lascia che questa scelta sia fatta dalla volontà divina. Abbandona i tuoi pensieri e la tua mente, scioglili nel mare, e lascia che la tua anima si abbandoni e si annulli nella luce". LUCIA 6 anni, alla mamma “Mamma, io non voglio avere bambini!”. “Perché, Lucia?”. “Perché se io ho dei bambini, allora vuol dire che sono grande e dopo tu muori!”. PROVERBI Le mani che piantano, non muoiono mai. Proverbio africano Tu coglierai i frutti della palma di tuo nonno, dell’ulivo di mio padre e del fico che tu stesso avrai piantato. Proverbio africano Col tempo e la paglia maturano le nespole. Vecchio proverbio di cultura popolare italiana Il pomeriggio conosce cose che il mattino nemmeno sospettava. Proverbio svedese PENSIERI DI WILLIAM SHAKESPEARE IL TEMPO É… Lento per quelli che aspettano, veloce per quelli che hanno paura, lungo, per quelli che si lamentano, breve, per quelli che festeggiano, Un’eternità, per quelli che amano. Da La Tempesta, IV, 1 di William Shakespeare

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Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni e la nostra breve vita è circondata dal sonno. Prospero Da EnricoIV, parte 2, III, i, 80 C’è una storia nella vita di ogni uomo. Da Re Lear, V, ii, 9 Gli uomini devono sopportare il loro andarsene da qui, come il loro arrivarci: la pienezza è tutto. Da Otello, II, iii, 370 Quale ferita è mai guarita se non a gradi? L’USIGNOLO di Hans Christian Andersen In Cina, lo sai bene, l'imperatore è un cinese e anche tutti quelli che lo circondano sono cinesi. La storia è di molti anni fa, ma proprio per questo vale la pena di sentirla, prima che venga dimenticata. Il castello dell'imperatore era il più bello del mondo, tutto fatto di finissima porcellana, costosissima ma così fragile e delicata, che, toccandola, bisognava fare molta attenzione. Nel giardino si trovavano i fiori più meravigliosi, e a quelli più belli erano state attaccate campanelline d'argento che suonavano cosicché nessuno passasse di lì senza notare quei fiori. Sì, tutto era molto ben progettato nel giardino dell'imperatore che si estendeva talmente che neppure il giardiniere sapeva dove finisse. Se si continuava a camminare, si arrivava in uno splendido bosco con alberi altissimi e laghetti profondi. Il bosco terminava vicino al mare, azzurro e profondo; grandi navi potevano navigare fin sotto i rami del bosco e tra questi viveva un usignolo, e cantava in modo così meraviglioso che persino il povero pescatore, che aveva tanto da fare, sentendolo cantare si fermava a ascoltarlo, quando di notte era fuori a tendere le reti da pesca. "Oh, Signore, che bello!" diceva, poi doveva stare attento al suo lavoro e dimenticava l'uccello. Ma la notte successiva, quando questo ancora cantava, il pescatore che usciva con la barca, esclamava: "Oh, Signore, che bello!". Alla città dell'imperatore giungevano stranieri da ogni parte del mondo, per ammirare la città stessa, il castello e il giardino; quando però sentivano l'usignolo, dicevano tutti: "Questa è la meraviglia più grande!". I viaggiatori poi, una volta tornati a casa, raccontavano tutto, e le persone istruite scrissero molti libri sulla città, sul castello e sul giardino, ma non dimenticarono mai l'usignolo, anzi l'usignolo veniva prima di tutto il resto, e quelli che sapevano scrivere poesie scrissero i versi più belli sull'usignolo del bosco, vicino al mare profondo. Quei libri girarono per il mondo e alcuni giunsero fino all'imperatore. Seduto sul trono d'oro, leggeva continuamente,

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facendo ogni momento cenni di assenso con la testa, perché gli piaceva ascoltare le splendide descrizioni della città, del castello e del giardino. «Ma l'usignolo è la cosa più bella» c'era scritto. "Che cosa?" esclamò l'imperatore. "L'usignolo? Non lo conosco affatto! Esiste un tale uccello nel mio regno, e per di più nel mio giardino! Non l'ho mai saputo! E bisogna leggerlo per saperlo!" Così chiamò il suo luogotenente che era così distinto che, se qualcuno inferiore a lui osava rivolgergli la parola o chiedergli qualcosa, non diceva altro che: "P...!", il che non significa nulla. "Qui dovrebbe esserci un uccello meraviglioso chiamato usignolo" spiegò l'imperatore. "Si dice che sia la massima meraviglia del mio grande regno. Perché nessuno me ne ha mai parlato?" "Non l'ho mai sentito nominare prima d'ora" rispose il luogotenente "non è mai stato introdotto a corte." "Voglio che venga qui stasera a cantare per me" concluse l'imperatore. "Tutto il mondo sa che cosa possiedo e io non lo so!" "Non l'ho mai sentito nominare prima d'ora!" ripeté il luogotenente "farò in modo di trovarlo." Ma dove? Il luogotenente corse su e giù per le scale e attraversò saloni e corridoi; nessuno di quelli che incontrava aveva mai sentito parlare dell'usignolo, così il luogotenente tornò di corsa dall'imperatore e gli disse che doveva essere un'invenzione di chi aveva scritto i libri. "Sua Maestà Imperiale non deve credere a quello che si scrive! È certamente un'invenzione fatta con quella che si chiama magia nera." "Ma quel libro in cui l'ho letto" disse l'imperatore "mi è stato inviato dal potente imperatore del Giappone, quindi non può essere falso. Voglio sentire quell'usignolo! Dev'essere qui stasera! Sarà ammesso nelle mie grazie! Se invece non viene, tutta la corte sarà picchiata sulla pancia dopo cena!" "Tsing-pe!" rispose il luogotenente e ricominciò a correre su e giù per le scale, e attraverso saloni e corridoi, e metà della corte correva con lui, dato che non volevano essere picchiati sulla pancia. Si sentiva chiedere soltanto dello straordinario usignolo che tutto il mondo conosceva eccetto quelli della corte. Alla fine trovarono una povera fanciulla in cucina che disse: "O Dio! L'usignolo: lo conosco, e come canta bene. Ogni sera ho il permesso di portare un po' degli avanzi a casa, alla mia povera mamma malata che vive giù vicino alla spiaggia, e quando al ritorno, stanca, mi fermo a riposare nel bosco, sento cantare l'usignolo. Mi vengono le lacrime agli occhi, è come se la mia mamma mi baciasse!". "Povera sguattera" esclamò il luogotenente "ti darò un posto fisso in cucina e ti permetterò di assistere al pranzo dell'imperatore se ci porterai dall'usignolo, dato che è stato convocato per questa sera." Così tutti si diressero nel bosco, dove di solito cantava l'usignolo; c'era mezza corte. Sul più bello una mucca cominciò a muggire. "Oh!" dissero i gentiluomini di corte "eccolo! C'è una forza straordinaria in un animale così piccolo; certo l'ho sentito prima!" "No! Sono le mucche che muggiscono" spiegò la piccola sguattera "siamo ancora lontani." Allora le rane gracidarono nello stagno. "Bello!" disse il cappellano di corte cinese "ora lo sento, sembrano tante piccole campane!" "No! Sono le rane" esclamò la fanciulla. "Sentite, sentite! Eccolo lì" e indicò un piccolo uccello grigio tra i rami. "È possibile?" disse il luogotenente "non me lo sarei mai immaginato così. Come è modesto! Ha certamente perso i suoi colori nel vedersi intorno tanta gente distinta." "Piccolo usignolo!" gridò la fanciulla a voce alta "il nostro clemente imperatore desidera che tu canti per lui!" "Volentieri!" rispose l'usignolo, e cantò che era un piacere sentirlo. "È come se fossero campane di vetro!" commentò il luogotenente. "E guardate quella piccola gola, come si sforza! È stranissimo che non l'abbiamo mai sentito prima! Avrà sicuramente successo a corte." "Devo cantare ancora una volta per l'imperatore?" chiese l'usignolo, convinto che l'imperatore fosse presente. "Mio eccellente usignolo!" disse il luogotenente "ho il grande piacere di invitarla a una festa a corte, questa sera, dove lei incanterà la Nostra Altezza Imperiale con il suo affascinante canto!" "È meglio tra il verde!" rispose l'usignolo, ma li seguì ugualmente volentieri quando seppe che l'imperatore lo desiderava. Al castello avevano fatto grandi preparativi. Le pareti e i pavimenti, che erano di porcellana, brillavano, illuminati da migliaia di lampade d'oro; i fiori più belli, quelli che tintinnavano, erano stati messi lungo i corridoi; c'era un correre continuo e una forte corrente d'aria, e così tutte le campanelline si misero a suonare e non fu più possibile capire niente. In mezzo al grande salone

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dove stava l'imperatore era stato collocato un trespolo d'oro, su cui l'usignolo doveva posarsi c'era tutta la corte, e la piccola sguattera aveva avuto il permesso di stare dietro alla porta, dato che era stata insignita del titolo di «sguattera imperiale». Tutti indossavano i loro abiti migliori e tutti guardarono quel piccolo uccello grigio che l'imperatore salutò con un cenno. L'usignolo cantò così deliziosamente che l'imperatore si commosse, le lacrime gli corsero lungo le guance, allora l'usignolo cantò ancora meglio e gli andò dritto al cuore. L'imperatore era così soddisfatto che diede ordine che l'usignolo portasse intorno al collo la sua pantofola d'oro. L'usignolo ringraziò ma disse che aveva già avuto la sua ricompensa. "Ho visto le lacrime negli occhi dell'imperatore, questo è il tesoro più prezioso per me. Le lacrime di un imperatore hanno una potenza straordinaria. Dio sa che sono già stato ricompensato!" E cantò di nuovo con la sua dolcissima voce. "È la più amabile civetteria che io conosca!" dissero le dame di corte e si misero dell'acqua in bocca per fare glug, quando qualcuno avesse rivolto loro la parola, così credevano di essere anche loro degli usignoli. Anche i lacchè e le cameriere cominciarono a essere soddisfatti, e questa non è cosa da poco perché sono le persone più difficili da soddisfare. Sì, l'usignolo portò davvero la gioia! Ora sarebbe rimasto a corte, in una gabbia tutta d'oro e con la possibilità di passeggiare due volte di giorno e una volta di notte. Ebbe a disposizione dodici servitori e tutti avevano un nastro di seta con cui lo tenevano stretto, dato che i nastri erano legati alla sua zampina. Non era certo un divertimento fare quelle passeggiate! Tutta la città parlava di quel meraviglioso uccello, e quando due persone si incontravano uno non diceva altro che: "Usi" e l'altro rispondeva: "Gnolo!" e poi sospiravano comprendendosi reciprocamente; undici figli di droghieri ricevettero il nome di quell'uccello, ma non uno di essi ebbe il dono di cantare bene. Un giorno arrivò un grande pacco per l'imperatore, con scritto sopra: «Usignolo». "È sicuramente un nuovo libro sul famoso uccello!" esclamò l'imperatore; ma non era un libro, era invece un piccolo oggetto chiuso in una scatola: un usignolo meccanico, che doveva somigliare a quello vivo ma era ricoperto completamente di diamanti, rubini e zaffiri. Non appena lo si caricava, cominciava a cantare uno dei brani che anche quello vero cantava, e intanto muoveva la coda e brillava d'oro e d'argento. Intorno al collo aveva un piccolo nastro su cui era scritto: «L'usignolo dell'imperatore del Giappone è misero in confronto a quello dell'imperatore della Cina». "Che bello!" dissero tutti, e colui che aveva portato quell'usignolo meccanico ebbe il titolo di Portatore imperiale di usignoli. "Ora devono cantare insieme! Chissà che duetto!" Cantarono insieme, ma non andò molto bene, perché il vero usignolo cantava a modo suo, quello meccanico invece funzionava per mezzo di cilindri. "Non è colpa sua!" spiegò il maestro di musica "tiene bene il tempo e segue in tutto la mia scuola!" Così l'usignolo meccanico dovette cantare da solo. Ebbe lo stesso successo di quello vero, ma era molto più bello da guardare: brillava come i braccialetti e le spille. Cantò per trentatré volte sempre lo stesso pezzo e non era affatto stanco; la gente lo avrebbe ascoltato volentieri di nuovo, ma l'imperatore pensò che ora avrebbe dovuto cantare un po' l'usignolo vero... ma dov'era finito? Nessuno aveva notato che era volato dalla finestra aperta, verso il suo verde bosco. "Guarda un pò!" esclamò l'imperatore; e tutta la corte si lamentò e dichiarò che l'usignolo era un animale molto ingrato. "Ma abbiamo l'uccello migliore!" dissero, e così l'uccello meccanico dovette cantare ancora e per la trentaquattresima volta sentirono la stessa melodia, ma non la conoscevano ancora completamente, perché era molto difficile, il maestro di musica lodò immensamente l'uccello e assicurò che era migliore di quello vero, non solo per il suo abbigliamento e i bellissimi diamanti, ma anche internamente. "Perché, vedete, Signore e Signori, e prima di tutti Vostra Maestà Imperiale, con l'usignolo vero non si può mai prevedere quale sarà il suo canto; in questo uccello meccanico invece tutto è stabilito. Così è e non cambia! Ci si può rendere conto di come è fatto, lo si può aprire e si può capire come sono collocati i cilindri, come funzionano e come si muovono, uno dopo l'altro." "È proprio quello che penso anch'io!" esclamarono tutti, e il maestro di musica ottenne il permesso, la domenica successiva, di mostrare l'uccello al popolo. "Anche loro devono sentirlo cantare" disse l'imperatore, e così lo sentirono e si

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divertirono tantissimo, come si fossero ubriacati di tè, il che è una cosa prettamente cinese. Tutti esclamarono: "Oh!" e alzarono in aria il dito indice, che chiamano «leccapentole», e assentirono col capo. Ma i poveri pescatori che avevano sentito l'usignolo vero, dissero: "Canta bene, e assomiglia all'altro, ma manca qualcosa, anche se non so che cosa!". Il vero usignolo venne bandito da tutto l'impero. L'uccello meccanico fu posto su un cuscino di seta vicino al letto dell'imperatore; tutti i regali che aveva ricevuto, oro e pietre preziose, gli furono messi intorno, e gli fu dato il titolo di «Cantore imperiale da comodino»; nel protocollo fu messo al primo posto a sinistra, perché l'imperatore considerava quel lato più nobile, essendo il lato del cuore: e anche il cuore di un imperatore infatti sta a sinistra. Il maestro di musica scrisse venticinque volumi sull'uccello meccanico, molto eruditi e lunghi e espressi con le parole cinesi più difficili, che tutti dissero di aver letto e capito, perché altrimenti sarebbero parsi sciocchi e sarebbero stati picchiati sulla pancia. Passò così un anno intero; l'imperatore, la corte e tutti gli altri cinesi conoscevano ogni minimo suono della canzone dell'uccello meccanico, e proprio per questo pensavano che fosse così bella: infatti potevano cantarla anche loro, insieme all'uccello, e così facevano. I ragazzi di strada cantavano: "Zi zi zi! glu glu glu!" e lo stesso cantava l'imperatore. Era proprio bello! Ma una sera, mentre l'uccello meccanico cantava meglio che poteva, e l'imperatore era a letto a ascoltarlo, si sentì svup!; nell'uccello era saltato qualcosa: trrrr! tutte le ruote girarono, e poi la musica si fermò. L'imperatore balzò fuori dal letto e chiamò il suo medico, ma a che cosa poteva servire? Allora chiamò l'orologiaio che, dopo molti discorsi e visite, rimise in sesto in qualche modo l'uccello, ma disse che bisognava risparmiarlo il più possibile, perché aveva i congegni consumati e non era possibile metterne di nuovi senza rischiare di rovinare la musica. Fu un grande dolore! Si poteva far suonare l'uccello meccanico solo una volta l'anno, e con fatica, ma il maestro di musica tenne un discorso con parole difficili e disse che tutto era uguale a prima, e difatti tutto fu uguale a prima. Passarono cinque anni e tutto il paese ebbe un grande dolore perché in fondo tutti amavano il loro imperatore; e lui era malato e non sarebbe vissuto a lungo, si diceva; un nuovo imperatore era già stato scelto e il popolo si riuniva per la strada e chiedeva al luogotenente come stava il loro imperatore. "P!" diceva lui scuotendo il capo. L'imperatore stava pallido e gelido nel suo grande e meraviglioso letto. Tutta la corte lo credeva morto e tutti corsero a salutare il nuovo imperatore; i servitori uscirono per parlare dell'avvenimento e le cameriere s'erano trovate in compagnia per il caffè. In tutti i saloni e i corridoi erano stati messi a terra dei drappeggi, affinché non si sentisse camminare nessuno, e per questo motivo c'era silenzio, molto silenzio. Ma l'imperatore non era ancora morto; rigido e pallido stava nel suo bel letto con le lunghe tende di velluto e i pesanti fiocchi dorati. In alto c'era la finestra aperta e la luna illuminava l'imperatore e l'uccello meccanico. Il povero imperatore non riusciva quasi a respirare, era come se avesse qualcosa sul petto; spalancò gli occhi e vide che la morte sedeva sul suo petto e s'era messa in testa la sua corona d'oro. In una mano teneva la spada d'oro e nell'altra una splendida insegna; tutt'intorno, dalle pieghe delle grandi tende di velluto del letto, comparivano strane teste, alcune orribili, altre molto dolci: erano tutte le azioni buone e cattive dell'imperatore, che lo guardavano, ora che la morte poggiava sul suo cuore. "Ti ricordi?" sussurrarono una dopo l'altra. "Ti ricordi?" e gli raccontarono tante e tante cose che il sudore gli colava dalla fronte. "Non l'ho mai saputo!" diceva l'imperatore. "Musica musica, il grande tamburo cinese!" gridava "per non sentire quello che dicono!" Ma loro continuarono e la morte faceva di sì con la testa a tutto quello che veniva detto. "Musica! Musica!" gridò l'imperatore. "Tu, piccolo uccello d'oro canta, forza, canta! Ti ho dato oro e oggetti preziosi, ti ho appeso personalmente la mia pantofola d'oro al collo, canta dunque, canta!" Ma l'uccello stava zitto, non c'era nessuno che lo caricasse e quindi non poteva cantare. La morte invece continuò a guardare l'imperatore con le sue enormi orbite cave, e stava in silenzio, in un silenzio spaventoso. In quel momento si sentì vicino alla finestra un canto mirabile; era il piccolo usignolo vivo che stava seduto sul ramo lì fuori; aveva sentito delle sofferenze dell'imperatore e era accorso per infondergli

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col canto consolazione e speranza Mentre lui cantava, quelle immagini diventavano sempre più tenui, il sangue si mise a scorrere con più forza nel debole corpo dell'imperatore, e la morte stessa si mise a ascoltare e disse: "Continua, piccolo usignolo, continua!". "Solo se mi darai la bella spada d'oro, se mi darai quella ricca insegna, se mi darai la corona dell'imperatore!" E la morte gli diede ogni cimelio in cambio di una canzone, e l'usignolo continuò a cantare, e cantò del tranquillo cimitero dove crescevano le rose bianche, dove l'albero di sambuco profumava e dove la fresca erbetta veniva innaffiata dalle lacrime dei sopravvissuti; allora la morte sentì nostalgia del suo giardino e volò via, come una fredda nebbia bianca, fuori dalla finestra. "Grazie, grazie!" disse l'imperatore. "Piccolo uccello celeste, ti riconosco! Ti avevo bandito dal mio regno e ciò nonostante col tuo canto hai allontanato le cattive visioni dal mio letto, e hai scacciato la morte dal mio cuore. Come potrò ricompensarti?" "Mi hai già ricompensato!" rispose l'usignolo. "Ho avuto le tue lacrime la prima volta che ho cantato per te, non lo dimenticherò mai! Questi sono i gioielli che fanno bene al cuore di chi canta! Ma adesso dormi e torna a essere forte e sano: io canterò per te." Cantò di nuovo, e l'imperatore cadde in un dolce sonno, in un sonno tranquillo e ristoratore. Il sole entrava dalla finestra quando lui si svegliò, guarito e pieno di forza; nessuno dei suoi servitori era ancora tornato perché credevano che fosse morto, ma l'usignolo era ancora lì a cantare. "Dovrai restare con me per sempre!" disse l'imperatore. "Canterai solo quando ne avrai voglia, e io farò in mille pezzi l'uccello meccanico." "Non farlo!" gridò l'usignolo. "Ha fatto tutto il bene che poteva. Conservalo come prima. Io non posso vivere al castello, ma permettimi di venire quando ne ho voglia, allora ogni sera mi poserò su quel ramo vicino alla finestra e canterò per te, perché tu possa essere felice e riflettere un po'. Ti canterò delle persone felici e di quelle che soffrono. Ti canterò del bene e del male intorno a te che ti viene tenuto nascosto. L'uccellino che canta vola ovunque, dal povero pescatore alla casa del contadino, da tutti quelli che sono lontani da te e dalla tua corte. Io amo il tuo cuore più della tua corona, anche se la corona ha qualcosa di sacro intorno a sé. Verrò a cantare per te! Ma mi devi promettere una cosa." "Qualunque cosa!" rispose l'imperatore, ritto negli abiti imperiali che aveva indossato da solo, la pesante spada d'oro sul cuore. "Ti chiedo una sola cosa! Non raccontare a nessuno che hai un uccellino che ti riferisce tutto, così le cose andranno molto meglio!" E l'usignolo volò via. I servitori entrarono per vedere il loro imperatore morto; restarono impalati quando l'imperatore disse: "Buongiorno!".

L’ABETE

di Hans Christian Andersen

In mezzo al bosco si trovava un grazioso alberello di abete aveva per sé parecchio spazio, prendeva il sole, aveva aria a sufficienza, e tutt'intorno crescevano molti suoi compagni più grandi, sia abeti che pini, ma quel piccolo abete aveva una gran fretta di crescere. Non pensava affatto al caldo sole né all'aria fresca, né si preoccupava dei figli dei contadini che passavano di lì chiacchierando quando andavano a raccogliere fragole o lamponi. Spesso arrivavano con il cestino pieno zeppo di fragole oppure le tenevano intrecciate con fili di paglia, si sedevano vicino all'alberello e esclamavano: «Oh, com'è carino così piccolo!» ma all'albero dispiaceva molto sentirlo. L'anno dopo il tronco gli si era allungato, e l'anno successivo era diventato ancora più lungo; guardandone la costituzione si può sempre capire quanti anni ha un abete. «Oh! se solo fossi grosso come gli altri alberi!» sospirava l'alberello «potrei allargare per bene i miei rami e con la cima ammirare il vasto mondo! gli uccelli costruirebbero i loro nidi tra i miei rami e quando c'è vento potrei dondolarmi solennemente, come fanno tutti gli altri.» E non si godeva affatto né il sole, né gli uccelli o le nuvole rosse che mattina e sera gli passavano

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sopra. Quand'era inverno e la neve brillava bianchissima tutt'intorno, arrivava spesso una lepre e con un salto si posava proprio sopra l'alberello. "Che noia!" Ma dopo due inverni l'albero era così grande che la lepre dovette limitarsi a girargli intorno. "Oh! crescere, crescere, diventare grosso e vecchio, è l'unica cosa bella di questo mondo" pensava l'albero. In autunno giunsero i taglialegna per abbattere alcuni degli alberi più grandi; questo accadeva ogni anno e il giovane abete, che ormai era ben cresciuto, rabbrividiva al pensiero di quei grandi e meravigliosi alberi che cadevano a terra con un fragore incredibile. I loro rami venivano strappati, così restavano lì nudi, esili e magri che quasi non si riconoscevano più, poi venivano messi sui carri e i cavalli li portavano fuori dal bosco. Dove erano diretti? Che cosa ne sarebbe stato di loro? In primavera, quando giunsero la rondine e la cicogna, l'albero chiese: «Sapete forse dove sono stati portati? Non li avete incontrati?». La rondine non sapeva nulla, ma la cicogna sembrò riflettere un po', poi fece cenno col capo e disse: «Sì, credo di sì! Ho incontrato molte nuove navi, mentre tornavo dall'Egitto; avevano alberi maestri magnifici: immagino fossero loro, dato che odoravano di abete. Posso assicurarvi che erano magnifici, davvero magnifici!»«Oh, se anch'io fossi abbastanza grande da andare per il mare! Ma com'è poi in realtà questo mare, e a cosa assomiglia?»«È troppo lungo da spiegare!» rispose la cicogna andandosene.

«Rallegrati per la giovinezza!» dissero i raggi di sole. «Rallegrati per la tua crescita, per la giovane vita che è in te!»Il vento baciò l'albero e la rugiada riversò su di lui le sue lacrime, ma l'albero non riuscì a capire. Quando si avvicinarono le feste natalizie, vennero abbattuti giovani alberelli, che non erano ancora grandi e vecchi come quell'abete, che non riusciva a avere pace e voleva sempre partire. Questi alberelli, che erano stati scelti tra i più belli, conservarono i loro rami e vennero messi sui carri che i cavalli trascinarono fuori dal bosco. «Dove vanno?» chiese l'abete «non sono più grandi di me, anzi ce n'era uno che era molto più piccolo. Perché conservano i rami? Dove sono diretti?»

«Noi lo sappiamo! Noi lo sappiamo!» cinguettarono i passerotti «abbiamo curiosato attraverso i vetri delle finestre, in città. Sappiamo dove vengono portati! Ricevono una ricchezza e uno sfarzo inimmaginabili! Abbiamo visto attraverso le finestre che vengono piantati in mezzo a una stanza riscaldata e decorati con le cose più belle, mele dorate, tortine di miele, giocattoli e molte centinaia di candeline!»

«E poi?» domandò l'abete agitando i rami «e poi? Che cosa succede dopo?» «Non abbiamo visto altro. Ma era meraviglioso!».

«Magari sarò anch'io destinato a seguire quel destino splendente!» si rallegrò l'abete. «E è molto meglio che andare per mare. Che nostalgia! Se solo fosse Natale! Ormai sono alto e sviluppato come gli alberi che erano stati portati via l'anno scorso. Potessi essere già sul carro! E nella stanza riscaldata con quello sfarzo e quella ricchezza! e poi? Poi succederanno cose ancora più belle, più meravigliose; altrimenti perché mi decorerebbero? Deve succedere qualcosa di più importante, di più straordinario, ma che cosa? Come soffro! che nostalgia! Non so neppure io che cosa mi succede!» «Rallegrati con me!» dissero l'aria e la luce del sole «goditi la tua gioventù qui all'aperto!» Ma lui non gioiva affatto. Cresceva continuamente e restava verde sia d'estate che d'inverno, di un verde scuro, e la gente che lo vedeva esclamava: «Che bell'albero!». Verso Natale fu il primo albero a essere abbattuto. La scure penetrò in profondità nel midollo; l'albero cadde a terra con un sospiro, sentì un dolore, un languore che non gli fece pensare a nessuna felicità era triste perché doveva abbandonare la sua casa, la zolla da cui era spuntato.

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Sapeva bene che non avrebbe più rivisto i vecchi e cari compagni, i piccoli cespugli e i fiorellini che stavano intorno a lui, e forse neppure gli uccelli. La partenza non fu certo una cosa piacevole. L'albero si riprese solo mentre veniva scaricato con gli altri alberi, quando udì esclamare: «Questo è magnifico! Lo dobbiamo usare senz'altro!»

Giunsero due camerieri in ghingheri che portarono l'abete in una grande sala molto bella. Tutt'intorno, sulle pareti, pendevano ritratti e vicino a una grande stufa di maiolica si trovavano vasi cinesi con leoni sul coperchio. C'erano sedie a dondolo divani ricoperti di seta, grossi tavoli sommersi da libri illustrati e da giocattoli che valevano cento volte cento talleri, come dicevano i bambini. L'abete venne messo in piedi in un secchio di sabbia, ma nessuno vide che era un secchio, perché era stato ricoperto di stoffa verde e era stato messo su un grosso tappeto a vari colori. Come tremava l'albero! Che cosa sarebbe accaduto? I camerieri e le signorine lo decorarono. Su un ramo pendevano piccole reti ricavate dalla carta colorata; ognuna era stata riempita di caramelle. Pendevano anche mele e noci dorate, che sembravano quasi cresciute dai rami. Poi vennero fissate ai rami più di cento candeline bianche rosse e blu. Bambole che sembravano vere, e che l'abete non aveva mai visto prima d'allora, dondolavano tra il verde. In cima venne posta una grande stella fatta con la stagnola dorata; era proprio meravigliosa. «Questa sera!» esclamarono tutti «questa sera deve splendere!»

"Fosse già sera!" pensò l'albero "se almeno le candele fossero accese presto! Che cosa accadrà? Chissà se verranno gli alberi del bosco a vedermi? E chissà se i passerotti voleranno fino alla finestra? Forse metterò radici qui e resterò decorato estate e inverno!" Sì! ne sapeva davvero poco! ma gli era venuto mal di corteccia per la nostalgia, e il mal di corteccia è fastidioso per un albero come lo è il mal testa per noi.

Finalmente vennero accese le candele. Che splendore, che magnificenza! L'albero tremava con tutti i suoi rami finché una candelina appiccò fuoco al verde. Che dolore! «Dio ci protegga!» gridarono le signorine e subito spensero la fiamma. Ora l'albero non osava neppure più tremare. Che tortura! Aveva una gran paura di perdere qualche parte del suo addobbo, e era molto turbato per tutto quello sfarzo. Si aprirono i due battenti della porta e una quantità di bambini si precipitò nella stanza, sembrava quasi che volessero rovesciare l'albero. Gli adulti li seguirono con prudenza; i piccoli si azzittirono, ma solo per un attimo, poi gridarono nuovamente di gioia facendo tremare tutta la casa. Ballarono intorno all'albero e tolsero, uno dopo l'altro, tutti i regali.

"Che cosa fanno?" pensò l'albero. "Che succede?" Intanto le candele bruciarono fino ai rami, e man mano che si consumarono vennero spente. Poi i bambini ebbero il permesso di disfare l'albero. Gli si precipitarono contro con tale veemenza che l'albero sentì scricchiolare tutti i rami. Se non fosse stato fissato al soffitto con la stella dorata si sarebbe certamente rovesciato. I bambini gli saltellavano intorno coi loro magnifici giocattoli. Nessuno guardò più l'albero, eccetto la vecchia bambinaia che curiosò tra le foglie per vedere se era stato dimenticato un fico secco o una mela.

«Una storia! Una storia!» gridarono i bambini trascinando un signore piccoletto ma robusto verso l'albero. Lui vi si sedette proprio sotto e disse: «Adesso siamo nel bosco, e anche l'albero farebbe bene a ascoltare! Comunque racconterò solo una storia. Volete quella di Ivede-Avede o quella di Klumpe-Dumpe che cadde giù dalle scale, salì sul trono e sposò la principessa?». «Ivede-Avede!» gridarono alcuni; «Klumpe-Dumpe» gridarono altri. Fu un grido solo e solo l'albero se ne stette zitto a pensare: "Non posso partecipare anch'io? Non posso far più nulla?". In realtà

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aveva già partecipato e fatto la parte che gli spettava.

L'uomo raccontò la storia di Klumpe-Dumpe che cadde giù dalle scale, salì sul trono e sposò la principessa; i bambini batterono le mani e gridarono: «Racconta, racconta!». Volevano sentire anche quella di Ivede-Avede, ma fu raccontata solo la storia di Klumpe-Dumpe. L'abete se ne stava zitto e pensieroso; gli uccelli del bosco non avevano mai raccontato storie del genere. Klumpe-Dumpe che cade dalle scale e sposa la principessa! Certo: è così che va il mondo! concluse l'albero, credendo che tutto fosse vero, dato che era stato raccontato da un uomo così per bene. "Certo! Chi può mai saperlo? Forse cadrò anch'io dalle scale e sposerò una principessa!". E si rallegrò al pensiero che il giorno dopo sarebbe stato decorato di nuovo con candele, giocattoli, e frutta dorata.

"Domani non tremerò!" pensò. "Voglio proprio godermi tutto quello splendore. Domani sentirò ancora la storia di Klumpe-Dumpe e forse anche quella di Ivede-Avede."

L'albero restò fermo a pensare per tutta la notte. Il mattino dopo entrarono il cameriere e la domestica.

«Adesso ricomincia la festa!" pensò l'albero; invece lo trascinarono fuori dalla stanza, su per le scale fino in soffitta e lo misero in un angolo buio dove non arrivava neanche un filo di luce. "Che significa!?" pensò l'albero. "Che cosa faccio qui? Che cosa posso ascoltare da qua?" Si appoggiò al muro e continuò a pensare. Di tempo ne aveva, passarono giorni e notti e nessuno venne lassù, quando finalmente comparve qualcuno, fu solo per posare delle casse in un angolo. L'albero era ormai nascosto, si poteva pensare che fosse stato dimenticato. "Adesso è inverno là fuori!» pensò l'albero. "La terra è dura e coperta di neve. Gli uomini non potrebbero ripiantarmi, per questo devo rimanere al riparo fino a primavera. Che ottima idea! Come sono bravi gli uomini! Se solo qui non fosse così buio ed io non fossi così solo! Non c'è neppure una piccola lepre! Invece era proprio bello nel bosco quando c'era la neve e la lepre mi passava vicino. Sì, anche quando mi saltava sopra ma allora non mi piaceva. Qui invece c'è una solitudine terribile!" «Pi! Pi!» esclamò un topolino proprio in quel momento e saltò fuori. Subito dopo ne uscì un altro. Fiutarono l'abete e si infilarono tra i rami. «Fa un freddo tremendo!» dissero i topolini. «Se non fosse per questo freddo, si starebbe bene qui! Non è vero, vecchio abete?» «Non sono affatto vecchio!» replicò l'abete. «Ce ne sono molti che sono più vecchi di me!» «Da dove vieni?» gli chiesero i topolini «e che cosa sai?» Erano infatti terribilmente curiosi. «Raccontaci del posto più bello della terra! Ci sei stato? Sei stato nella dispensa dove c'è il formaggio sugli scaffali e i prosciutti pendono dai soffitto, dove si balla sulle candele di sego, dove si arriva magri e si esce grassi?» «Non lo conosco!» rispose l'albero «ma conosco il bosco, dove splende il sole e dove gli uccelli cinguettano!» e così raccontò della sua gioventù, e i topolini non avevano mai sentito nulla di simile, così lo ascoltarono attentamente e poi dissero: «Oh! Tu hai visto molto! come sei stato felice!». «Io?» esclamò l'abete, pensando a quello che raccontava. «Sì, in fondo sono stati bei tempi!» poi raccontò della sera di Natale, di quando era stato addobbato con dolci e candeline. «Oh!» esclamarono i topolini «come sei stato felice, vecchio abete!» «Non sono per niente vecchio!» rispose l'albero. «Sono venuto via dal bosco quest'inverno! Sono nell'età migliore, ho solo terminato la crescita!» «Come racconti bene!» gli dissero i topolini, e la notte dopo ritornarono con altri quattro topolini

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che volevano sentire il racconto dell'albero; e quanto più raccontava, tanto più chiaramente si ricordava tutto e pensava: "Erano proprio bei tempi! Ma ritorneranno, ritorneranno! Klumpe-Dumpe cadde dalle scale e ebbe la principessa; forse anch'io ne sposerò una" e intanto pensava ad una piccola e graziosa betulla che cresceva nel bosco e che per l'abete era come una bella principessa. «Chi è Klumpe-Dumpe?» chiesero i topolini, e l'abete raccontò tutta la storia; ricordava ogni parola e i topolini erano pronti a saltare in cima all'albero per il divertimento. La notte successiva vennero molti più topi e la domenica giunsero persino due ratti; ma dissero che la storia non era divertente e questo rattristò i topolini che pure, da allora, la trovarono meno divertente. «Lei conosce solo questa storia?» chiesero i ratti. «Solo questa!» rispose l'albero «la sentii durante la serata più felice della mia vita, ma in quel momento non capii quanto era felice.» «È una storia veramente brutta! Non ne conosce qualcuna sulla carne e sulle candele di sego? O sulla dispensa?» «No!» rispose l'albero. «Ah, allora grazie!» dissero i ratti e si ritirarono.

Anche i topolini alla fine scomparvero e allora l'albero sospirò: «Era molto bello quando si sedevano intorno a me, quei vispi topolini, e ascoltavano i miei racconti. Adesso è finito anche questo! Ma devo ricordarmi di divertirmi, quando uscirò di qui!». Che successe invece? Ah, sì! Una mattina presto giunse della gente a rovistare in soffitta. La casse vennero spostate e l'albero fu tirato fuori, lo gettarono senza alcuna cura sul pavimento e subito un cameriere lo trascinò verso le scale dove arrivava la luce del sole. "Ora ricomincia la vita!" pensò l'albero, che sentì l'aria fresca e il primo raggio di sole. E così si ritrovò nel cortile. Tutto accadde così in fretta che l'albero non si accorse neppure del suo aspetto; c'era tanto da vedere tutt'intorno. Il cortile confinava con un giardino che era tutto fiorito, le rose pendevano fresche e profumate dalla bassa ringhiera, i tigli erano fioriti e le rondini volavano lì intorno e dicevano: «Kvirre-virre-vit, è arrivato mio marito!» ma non si riferivano all'abete. «Adesso voglio vivere!» gridò lui pieno di gioia e allargò i rami, oh! erano tutti gialli e appassiti; e lui si trovava in un angolo tra ortiche e erbacce; ma la stella di carta dorata era ancora al suo posto e brillava al sole.

Nel cortile stavano giocando alcuni di quegli allegri bambini che a Natale avevano ballato intorno all'albero e ne erano stati tanto felici. Uno dei più piccoli corse a strappare la stella d'oro dall'albero. «Guarda cosa c'è ancora su questo vecchio e brutto albero di Natale!» disse, e cominciò a pestare i rami che scricchiolarono sotto i suoi stivaletti.

L'albero guardò quegli splendidi fiori e quella freschezza del giardino, poi guardò se stesso e desiderò di essere rimasto in quell'angolo buio della soffitta. Pensò alla sua gioventù passata nel bosco, alla divertente notte di Natale, e ai topolini che erano così felici di aver sentito la storia di Klumpe-Dumpe. «Finito! finito!» esclamò il povero albero. «Se almeno mi fossi rallegrato quando potevo! finito! finito!» Il cameriere sopraggiunse e tagliò l'albero in piccoli pezzi e ne fece un fascio. Come bruciò bene sotto il grande paiolo; sospirava profondamente e ogni sospiro sembrava una piccola esplosione; attratti da quegli scoppi, i bambini che stavano giocando accorsero e si misero davanti al fuoco e, guardandolo, gridarono: «Pif-pof!», ma a ogni crepitio, che era per lui un sospiro profondo, l'albero ripensava a un giorno d'estate nel bosco, a una notte d'inverno quando le stelle brillavano nel

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cielo, alla notte di Natale e a Klumpe-Dumpe, l'unica storia che aveva sentito e che sapeva raccontare. E intanto si era consumato tutto.

I bambini ripresero a giocare nel cortile e il più piccolo si era messo al petto la stella dorata che l'albero aveva portato nella serata più felice della sua vita; ora questa era finita, e anche l'albero era finito, e così anche la storia: finita, finita, come tutte le storie.

PASSA IL TEMPO Da La filosofia in cinquantadue favole di Ermanno Bencivenga Un tempo il tempo non passava da solo: bisognava farlo passare. Se si lavorava di gran lena, se si correva qua e di là, il tempo passava in fretta, ma se ci si adagiava su una poltrona, frenava di botto e le sue ruote non giravano più. Non ci sarebbero stati intoppi se gli uomini avessero lavorato più o meno lo stesso, ma non era così. La mattina, mentre alcuni saltavano giù dal letto pronti ad affrontare le fatiche quotidiane, altri rimanevano a poltrire sotto le coperte. E al pomeriggio, quando c’erano i piatti da lavare e bisognava pensare alla cena, c’era chi si schiacciava un pisolino e chi si affaccendava premuroso. Così per qualcuno il tempo passava in un baleno e per altri non passava mai; qualcuno invecchiava a vista d’occhio e altri rimanevano bambini. Dopo un po’ il Padreterno dovette ammettere che il sistema era difettoso: c’erano figli più vecchi dei padri e fratelli ormai distanti di secoli. Ma il Padreterno non se la prese: sapeva bene che quando si fa una cosa la prima volta c’è sempre qualche piccolo guaio da riparare. Così, dopo averci pensato su, decise che da allora in avanti il tempo sarebbe passato uguale per tutti, qualunque cosa facessero, che dormissero o pigliassero pesci. Da allora non serve più chiudersi in un cassetto o in un armadio, o trattenere il fiato, o rimanere completamente immobili. Il tempo passa lo stesso, per conto suo. NESSUNO Da La filosofia in cinquantadue favole di Ermanno Bencivenga Una volta non c’era nessuno, ma chi l’avrebbe mai detto? Nessuno, appunto: siccome non c’era nessuno, nessuno diceva niente. Così questa storia che non c’era nessuno era molto strana. Era vera, senz’altro, perché in effetti non c’era nessuno, ma nessuno poteva dirla. Prima o poi ci fu qualcuno, ma le stranezze non erano finite. Quando qualcuno cominciò a raccontare la storia che una volta non c’era nessuno, gli altri aggrottavano la fronte e sollevarono enormi punti interrogativi. Perché come si faceva a sapere che una volta non c’era nessuno? Quando non c’era nessuno, non c’era nessuno a saperlo, e il momento che ci fu qualcuno non si poteva certo dire che non ci fosse nessuno. Così ancora una volta la storia era vera ma nessuno poteva dirla.

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Adesso tutti dicono che c’è sempre stato qualcuno. Non è vero, ovviamente, perché una volta non c’era nessuno. Ma è tutto quel che si può dire. DOMANI Da La filosofia in cinquantadue favole di Ermanno Bencivenga C’era una volta domani. Adesso non c’è più. C’è un altro giorno che chiamano domani, ma domani non c’è più. Domani è diventato ieri, o l’anno scorso, e così diventando non è più lo stesso. É un po’ come un bravo bambino che diventa un ladro di polli: non è più lui, ormai è un altro. Domani era una giornata di sole. Ci si alzava presto al mattino e ci si sentiva pieni di energia. Si correva fuori e si facevano quattro salti nel prato, poi dentro ancora per una bella doccia e una buona colazione. Davanti al caffelatte fumante si parlava dei programmi della giornata: c’erano spese da fare dopo la scuola, amici da vedere e la sera una partita molto importante in televisione. Alla nostra squadra bastava pareggiare per andare in finale; così gli altri dovevano attaccare e attaccando si sarebbero scoperti... Io ero affezionato a domani. Ogni tanto un giorno così ci vuole: ti mette di buon umore e il sorriso ti rimane dentro a lungo, come una fiamma che ci mette un po’ a spegnersi. Adesso domani non c’è più: è diventato ieri, o l’anno scorso. E non è più lo stesso: quando domani è diventato ieri pioveva e non si poteva andare fuori e nessuno aveva voglia di parlare e la nostra squadra ha perso cinque a zero. Gli altri dovevano attaccare e lo hanno fatto. Adesso c’è un altro giorno che chiamano domani, e qualcuno dice che questo giorno c’è il sole e si può andare fuori e la partita la vinciamo. E forse è vero, ma s me quest’altro giorno non interessa; anzi, non so perché lo chiamano domani. Domani non c’è più: è diventato ieri, o l’anno scorso. PRIMA E DOPO Da La filosofia in cinquantadue favole di Ermanno Bencivenga Dopo dieci anni dopo, vennero sette anni prima. Ma non si trattò di trovarsi, a conti fatti,semplicemente proiettati di tre anni nel futuro. Il tempo non funziona così; non puoi muoverti un po’ avanti e un po’ indietro, e pensare che il risultato sia la somma algebrica di questi vari percorsi. Anche se viene riavvolto, il tempo resta, lascia tracce indelebili. Ed è meglio allora viaggiarci nel modo comune, sempre nella stessa direzione,sempre alla stessa velocità; sennò rimani sfasato e non vai più d’accordo con gli altri. Non vai d’accordo nemmeno con te stesso. Dieci anni dopo si erano accumulate migliaia di giorni; il riflesso del sole sull’acqua mi aveva accecato ogni mattina e ogni sera c’era stata quella salita da fare, per la strada sassosa, sollevando polvere e rischiando di sdrucciolare. A lungo andare gli occhi si abituano al mare incendiato di luce, i muscoli delle gambe imparano a concentrarsi automaticamente, i piedi a far presa sul terreno, a evitare spuntoni, a sollevare il meno polvere possibile. Allora non noti più neanche i colori, non ti stupiscono più i profili severi delle colline, la consistenza friabile dell’arenaria, e come tutto potrebbe sbriciolarsi da un momento all’altro ma non lo fa, e continua il miracolo del suo improbabile rimanere sospeso e sostenerti

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mentre cammini, tra cielo e mare. Dieci anni dopo mi guardavo ormai soltanto i piedi,contavo i passi, i minuti, volevo solo arrivare in fondo. Poi mi ritrovavo sette anni prima, e intorno a me ci sono persone entusiaste. Per loro è uno spettacolo nuovo e affascinante: non hanno mai visto un mare tanto immenso, tanto azzurro,un sole tanto splendido. Vogliono che io sia insieme a loro, goda con loro, come loro sia sorpreso da questa roccia così friabile eppure così resistente. E hanno ragione, perché sono sette anni prima, perché quei sette anni non sono ancora accaduti, sono ancora da vivere, per me e per loro. E io voglio viverli, e siccome non sono accaduti non li conosco, non so che cosa aspettarmi, mi arrivano come ogni altro anno dal futuro. Ma i miei occhi e i miei muscoli e i miei piedi non ci stanno: in loro dell’acqua, quelle strade, quei sassi sono fissati per sempre, i loro movimenti non potranno più essere che automatici. E io sento come se mi fosse stato rubato qualcosa, perché di quei sette anni non mi è rimasto nulla. Null’altro che stanchezza.