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In vIaggIo con un santo

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Filippo Anastasi

In vIaggIo con un santo

Prefazione di padre Federico Lombardi

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I edizione aprile 2011I ristampa maggio 2011

Referenze fotografiche dell’inserto a colori:

© dell’Autore (nn. 1, 12, 13, 27, 28)© Catholic Press Photo (nn. 2, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 14, 15, 16, 17, 20, 23, 24)© Osservatore Romano (nn. 3, 4, 11, 18, 19, 21, 22, 25, 26)

ISBN 978-88-250-2913-0ISBN 978-88-250-2926-0 (PDF)ISBN 978-88-250-2927-7 (EPUB)

Copyright © 2011 by P.P.F.M.C.MESSAGGERO DI SANT’ANTONIO – EDITRICEBasilica del Santo - Via Orto Botanico, 11 - 35123 Padova

www.edizionimessaggero.it

PRIMA EDIZIONE DIGITAlE 2011

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A Michele e Giulio, il mio futuro

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Prefazione

Filippo Anastasi ci dona ancora un volume sui viaggi di Giovanni Paolo II.

Mi sono domandato: ma ve ne sono già molti, ce ne saranno ancora molti, eppure interessano sempre, come mai non ci stanchiamo né di scriverli, né di leggerli?

Probabilmente perché chi ha vissuto quei viaggi ha avuto la chiara sensazione o meglio ancora la consapevolezza – come forse mai o poche altre volte nella sua vita – di partecipare a degli avvenimenti stori-ci. Storici in senso concreto e forte. Pietre miliari del cammino della chiesa attraverso il tempo, eventi che incidono profondamente nella vicenda spirituale e umana dei popoli e vi lasciano il segno.

E questo è qualcosa che chi vive di comunicazione sente natural-mente il bisogno di esprimere, per dare il suo contributo personale alla memoria e alla comprensione della storia, non solo attraverso la fredda cronaca, ma anche con la testimonianza di un vissuto intenso e di una riflessione che scopre e consolida il senso di questo vissuto.

Fra i suoi molti doni Giovanni Paolo II ha avuto anche quello di saper istintivamente coinvolgere nella grande avventura dei suoi viaggi

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i giornalisti presenti al suo seguito. Il suo messaggio sarebbe stato mol-tiplicato e diffuso nel mondo anche grazie alla loro collaborazione, ed egli li ha quindi considerati generalmente come suoi potenziali alleati e non ha mai vissuto il rapporto con loro con diffidenza o paura. In certa misura quindi, i giornalisti capivano che non solo assistevano alla storia, ma in certo modo collaboravano a farla insieme a un suo protagonista di eccezione.

In realtà, il campo dell’azione del pontificato è largo come il mon-do, letteralmente sconfinato. Giovanni Paolo II ha portato con sé non solo coloro che viaggiavano con lui, ma la chiesa intera, che lo seguiva, e li ha guidati ad aprirsi e venire a contatto con culture, problemi, situazioni diverse di cui prima avevano forse scarsa consapevolezza, o che in ogni caso vedevano da lontano. E si è trattato sempre di un incontro forte, coraggioso, leale, intenso, stimolante per il Papa come per i suoi interlocutori.

Come stupirsi che un’esperienza simile continui ad essere sorgente viva di ricordi, riflessioni, stimoli ulteriori? Anastasi non ha seguito tutti i viaggi di Giovanni Paolo II, ma ne ha fatti più che abbastanza per avere molto da dirci: Polonia, Messico, India, Cuba... Rimettia-moci dunque in viaggio con lui al seguito di Giovanni Paolo II, per rivivere pagine di storia ben degne di non essere dimenticate: la forza della fede attraversa e segna la storia degli uomini al traguardo del secondo millennio dalla venuta di Cristo sulla terra.

P. Federico Lombardi S.J.Direttore della sala stampa della Santa Sede

portavoce del Papa

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Quando Il PaPa mI dIsse «grazIe»

Dormivo, rannicchiato come un bambino, su un sedile quasi sul fondo dell’aereo papale. Eravamo su un volo di trasferimento da Astana, la capitale del Kazakhstan, a Erevan in Armenia.

Un sonno pesante e, soltanto dopo qualche secondo, capii che qualcuno, con mano ferma, mi scuoteva la spalla.

«Filippo, svegliati!» sentii da lontanissimo e poi, quando aprii gli occhi, vidi, chinato su di me, Joaquin Navarro Valls, direttore della sala stampa vaticana. Uscii di colpo dal torpore.

«Vieni – mi disse all’orecchio il portavoce di Giovanni Paolo II – il Santo Padre ti vuole parlare». Parole che ebbero l’effetto di provocarmi violente scariche di adrenalina.

«Il Papa mi vuole parlare? – pensai – e che cosa ho combinato?».Fu tutto un turbinio di sensazioni, di brividi cerebrali, che mi

precipitarono in uno stupore profondo e, mentre rapidamente mi riassettavo i capelli e mi avviavo, come in trance, verso la testa dell’aereo, dove viaggiava il Papa, Navarro aggiunse, in tono fra-terno e complice: «Tranquillo, il Santo Padre vuole un po’ di com-pagnia».

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Quei trenta passi nel corridoio dell’aereo, passando, senza guar-dare nessuno, tra cardinali, monsignori e famigli del seguito papa-le, furono i più leggeri della mia vita.

Scostata l’ultima tendina divisoria, Papa Wojtyła era lì, seduto con un posto vuoto al suo fianco.

La malattia, che poi l’avrebbe consumato, lasciava già forti segni sul viso e il Papa era visibilmente stanco. Ma, con un sorriso che arrivava dal profondo, da quegli occhi lampeggianti, mi stava invi-tando, anche con un impercettibile gesto della mano, a sedermi al suo fianco (foto 1).

«Filippo, ma quante ore di trasmissione hai fatto stavolta che in Kazakhstan ci sono soltanto poche decine di cattolici?».

«Appunto, Padre Santo – risposi –, ho parlato delle difficoltà di quel pugno di missionari a vivere e a predicare il Vangelo in una realtà politica e sociale particolarissima.

Ho raccontato di una terra di deportazione ai confini orientali dell’Unione Sovietica, dove gli uomini trasportati, o meglio depor-tati e abbandonati allo stato brado come le bestie, sono poi stati decimati, peggio che in un gulag, da una natura matrigna e da un clima ostile.

Ho raccontato di quelle steppe sconfinate, dove vivevano decine di gruppi etnici diversi: estoni, lituani, lettoni, tedeschi, ma anche tanti polacchi e italiani, che erano sopravvissuti e si erano radicati in yurte sperdute, formando nuove comunità.

Ho raccontato di come i missionari vivono in questa frontiera estrema del mondo ai confini con la Cina.

Ho raccontato di lei, Padre Santo, che viene in questo mondo lontanissimo per offrire pace e chiedere pace».

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Mi interruppe e mi chiese: «Filippo, ma per quante ore hai tra-smesso alla radio?».

«Tante, Padre Santo, oltre tre ore in tre giorni, ma c’erano anche tante interviste e poi i suoi discorsi, grazie per quanto sta facendo per tutti noi».

Un grande sorriso si allargò sul viso roseo, ma già incortecciato dal morbo di Parkinson. Scandì parole che ho registrato nel livello più alto della mia memoria, in quel cassetto del mio cervello dove sono i ricordi indimenticabili: «Io non ti ho mai potuto ascoltare, ma mi hanno detto tante belle cose di te, grazie!».

Se le parole spesso sono pietre, quel «grazie» del Papa fu un ma-cigno che mi cadde addosso e mi travolse.

Per pochi secondi – ma fu un tempo che mi parve lunghissimo – rimasi immobile, stupito, stordito, sbigottito, da un «grazie» che mi arrivava dall’uomo più importante del mondo.

Un «grazie» detto con semplicità, con il suo grande cuore.Scoppiai a piangere.Era un padre che parlava a un figlio. Era un Papa che parlava a

un credente distratto. Era un santo che seminava.Quel breve, amichevole, affettuoso colloquio ha segnato la mia

vita. Quel Papa, quel santo amava disseminare di segnali il suo cammino.

Lo fece con me, in privato, lo fece con il mondo nei suoi 104 viaggi internazionali. Due anni e mezzo in giro, fuori dal Vaticano, oltre un milione di chilometri percorsi, mille discorsi ufficiali: il globetrotter della fede, come qualcuno ebbe a chiamarlo.

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Il mIo PrImo vIaggIo

Il mio primo viaggio con Giovanni Paolo II e il nostro primo incontro risalgono al 1995.

Era il 14 di settembre e sull’aereo dell’Alitalia in partenza per l’Africa (Camerun, Sud Africa e Kenya) eravamo quaranta gior-nalisti provenienti da tutto il mondo. Sedevamo in coda, in quella che normalmente in tutti gli aerei è la classe turistica.

Subito dopo il decollo, il Papa, preceduto dal portavoce Navarro Valls, superò la tendina divisoria e ci comparve davanti.

Avevamo avuto disposizioni di stare tutti fermi ai nostri posti, perché il Santo Padre sarebbe passato vicino a tutti.

I colleghi fotografi, i cameramen e gli americani, che sono sem-pre stati i più invadenti, lo assalirono, letteralmente, con flash, car-rellate e domande. Dopo un paio di minuti il Papa mise tutti a sedere con un cenno e cominciò a camminare lungo il corridoio.

Salutava, parlava in più lingue, mettendo a proprio agio i vati-canisti e rispondendo a qualche domanda, sia al microfono, sia a piccoli registratori portatili. Inglese, spagnolo, tedesco, francese, polacco, italiano, anche swaili, queste le lingue usate per acconten-tare quel circo mediatico.

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Eravamo solo sette od otto italiani e, quando Giovanni Paolo II arrivò al mio fianco, Joaquin Navarro Valls gli sussurrò all’orec-chio il mio nome, la mia testata giornalistica, aggiunse che ero un neofita, per la prima volta sul volo papale.

«Benvenuto tra noi, Filippo!» mi disse e, prima di accettare di rispondere al microfono a una mia domanda, si informò riguardo alla mia famiglia, di come era composta.

Ero visibilmente imbarazzato. Io seduto, lui in piedi. Sembrò accorgersene. Mi toccò la spalla come per una benedizione, mi augurò buon lavoro e passò oltre.

Quando il destino...

Quello fu il primo incontro reale con il Papa, ma il destino ave-va già deciso che io e Karol Wojtyła dovessimo incontrarci.

Era il 16 di ottobre del 1978, una tiepida serata romana.Due mesi e mezzo prima – un po’ per caso, un po’ forse per un

disegno imperscrutabile – ebbi da Luigi Fossati, direttore de «Il Messaggero» di Roma, dove allora lavoravo, l’incarico di seguire i servizi speciali per la morte di Papa Paolo VI.

All’epoca mi occupavo, al servizio interni del più grande e auto-revole quotidiano romano, prevalentemente di mafia e di brigate rosse. Mai mi ero occupato di Vaticano e del Papa, perché erano competenza specifica del vaticanista che, in quei tempi, era Marco Politi.

Ma la morte di un Papa è lavoro di squadra! Bisognava raccontare la sede vacante, il conclave e preparare pagine intere prefabbricate,

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ognuna con la biografia, la storia, e quant’altro, di ogni papabile, in modo da essere pronti per un’eventuale edizione speciale.

Fu un mese di intenso lavoro, per me di straordinario interesse, perché mi avvicinavo a un pianeta sconosciuto che dava continui stimoli alla mia curiosità di giovane giornalista.

Il mio lavoro andò benissimo per l’elezione del successore di Paolo VI: Giovanni Paolo I.

Papa Luciani era il patriarca di Venezia e, memore della tradizione che aveva portato al soglio pontificio un altro patriarca, Angelo Ron-calli, con il nome di Giovanni XXIII, avevo preparato tutto su di lui.

Non fu così per Papa Wojtyła.Dopo trentatré giorni di pontificato Papa Luciani morì e io ri-

cominciai senza sosta a preparare pagine speciali. Ma non quella sul cardinale polacco.

Quella sera del 16 ottobre del 1978, quando uscì la fumata bianca dal camino della Cappella Sistina, ero tranquillo. Avevo ap-prontato pagine intere per oltre venti papabili. Biografie e analisi e commenti molto articolati.

Era sera e non sarebbe stato facile preparare in poche ore, ex novo, un’edizione così importante del giornale.

Il lavoro che avevo fatto mi dava una grande tranquillità.

Ecco il Papa nero

Quando sentii quel nome, pronunciato dalla loggia centrale del-la Basilica di San Pietro dal cardinale protodiacono Pericle Felici, che parlava un latino un po’ romanesco, un po’ dialettale – era di

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Segni a sud di Roma –, non capii bene neppure il nome. Per un attimo pensai: «Ecco il Papa nero della profezia, ecco il Papa africa-no!». Il nome, così come era stato pronunciato, sembrava proprio africano. Ma tra l’elenco, in verità molto breve, dei cardinali del continente nero, non c’era nessun nome che potesse corrispondere al suono che avevo sentito.

Poi, passato il primo momento di sbigottimento, compresi che il nuovo Papa era quello che noi leggevamo e pronunciavamo «voi-tila» e non «voitiua», così come avevamo udito dalla voce del car-dinale Pericle Felici.

Il Papa che viene dall’Est e cambierà il mondo

Cominciò un’affannosa corsa alle notizie. Allora internet era in mente dei e si ricorreva a un archivio esclusivamente cartaceo. Quello de «Il Messaggero» aveva un’ottima tradizione di serietà e diede una grande mano, ma bisogna ammettere che su Karol Wojtyła allora non c’era un granché di archiviato.

Di lui venivano fuori stralci di notizie che andavano interpre-tate. Era il paladino della strenua difesa della libertà di religione in un regime comunista durissimo. Era giovane, sportivo, grande viaggiatore. Si parlava della sua fratellanza con il popolo oppresso, dell’amore filiale per il cardinale Wyszyński, il primate quasi pri-gioniero, bandiera dell’anticomunismo, il martire, il perseguitato.

Su queste basi scrissi un lungo articolo, che andò il giorno dopo in terza pagina a nove colonne, ma soprattutto scrissi il titolo: «Il Papa che viene dall’Est e cambierà il mondo».

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Forse una profezia più che un’analisi storica compiuta perché, in quei momenti frenetici, non ne avevo neppure gli elementi.

E il mondo è cambiato davvero

E il mondo è cambiato davvero. Ho avuto il privilegio di vivere una cinquantina di viaggi con Giovanni Paolo II e questi pellegri-naggi sul pianeta sono tutti diversi uno dall’altro.

Ho potuto osservare la storia scorrere da una postazione in prima fila e di questo sono grato al mio mestiere di giornalista e alla Rai, che me lo ha consentito. Viaggi tutti diversi, dunque, che hanno inciso prima di tutto sulle coscienze, poi nella fede – e hanno portato la fede nelle coscienze –, poi nella politica e sicuramente nella storia.

A me interessa in modo particolare quanto Papa Wojtyła abbia scavato nella corteccia dura delle coscienze. Uno scavo compiuto soprattutto con i suoi viaggi.

«Mi rimproverano – disse una volta Giovanni Paolo II e lo rac-conta Navarro Valls – di viaggiare sempre, ma non tutti possono venire a Roma».

E ancora: «Il Papa non può essere prigioniero del Vaticano, deve tornare a essere pellegrino come Pietro. I viaggi significano l’uni-versalità della chiesa».

Piccoli frammenti che fanno comprendere il perché dei 104 viaggi internazionali, il perché del milione di chilometri percorsi, il perché dell’incontro con milioni e milioni di persone. Fanno an-che capire il significato di viaggi spesso difficili, se non impossibili, come quelli a Sarajevo o a Cuba.

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Fino all’ultimo, a Lourdes, per affidarsi alla Madonna di cui era talmente devoto da rivolgersi a Lei col suo motto Totus tuus.

Racconterò dei viaggi che ho potuto vivere – anche se qualcuno lo tralascerò – perché bisogna essere testimoni di ciò che si è visto, di ciò che si è sentito, delle sensazioni provate, di ciò che si è ama-to, di ciò per cui si è sofferto.

Bisogna raccontare dove c’è stato dolore e sofferenza, amore ed entusiasmo e, soprattutto, stupore.

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vIaggI come semI

Perché tutti sappiano o possano capire meglio la grandezza di questo santo, racconterò di viaggi molto diversi tra loro che tutta-via hanno in comune il fatto di aver inciso nella storia dell’uomo, nelle coscienze di credenti e non credenti, di cristiani, musulmani, ebrei e animisti.

Viaggi che hanno segnato la vita dell’umanità intera, che hanno aperto talvolta spiragli, talvolta finestre, talvolta hanno spalancato portoni sul mondo.

«Aprite le porte a Cristo» ebbe a dire Giovanni Paolo II durante la messa per l’inizio solenne del suo pontificato. La storia ci dice che, dopo appena qualche anno, non solo si sono aperte le porte, ma sono anche cascati i muri che tenevano serrate quelle porte.

Per comprendere meglio tutti i suoi viaggi, va ricordato quello che Giovanni Paolo II disse il 25 gennaio del 1979.

Era a Fiumicino prima di imbarcarsi sull’aereo Alitalia per il suo primo viaggio. Andava in America Latina, non per caso, ma perché voleva riper correre idealmente le orme di Cristoforo Colombo. Il primo territorio toccato fu l’isola di Guanahani, nella Repubblica