Imprese differenti. Le organizzazioni cooperative tra crisi...

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Dipartimento di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive – POLIS Department of Public Policy and Public Choice – POLIS Working paper n. 163 April 2010 Imprese differenti. Le organizzazioni cooperative tra crisi economica e nuovo welfare Gian-Luigi Bulsei and Noemi Podestà (Eds.) UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo AvogadroALESSANDRIA Periodico mensile on-line "POLIS Working Papers" - Iscrizione n.591 del 12/05/2006 - Tribunale di Alessandria

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Dipartimento di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive – POLISDepartment of Public Policy and Public Choice – POLIS

Working paper n. 163

April 2010

Imprese differenti.Le organizzazioni cooperative tra crisi

economica e nuovo welfare

Gian-Luigi Bulsei and Noemi Podestà (Eds.)

UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo Avogadro” ALESSANDRIA

Periodico mensile on-line "POLIS Working Papers" - Iscrizione n.591 del 12/05/2006 - Tribunale di Alessandria

Imprese differenti. Le organizzazioni cooperative

tra crisi economica e nuovo welfare

a cura diGian-Luigi Bulsei e Noemi Podestà

Contributi diLaura Accornero, Guido Bonfante, GianLuigi Bulsei,

Alberto Cassone, Giancarlo Gonella, Fiorella Lunardon,Gianfranco Marocchi, Massimiliano Milici, Angelo Pichierri,

Noemi Podestà, Marco Revelli, Aldo Romagnolli

Quaderni CIVIS

Alessandria 2010

Indice

Premessa dei curatori

1. Società, cooperazione e politiche pubblichedi Gian-Luigi Bulsei

2. Imprese differenti: la “nuova” cooperativa dopo il d.lgs. 6/2003di Guido Bonfante

3. Il rapporto di lavoro del socio di cooperativadi Fiorella Lunardon

4. Mercato del lavoro e cooperazione: una lettura di generedi Laura Accornero

5. Cooperazione e welfare locale: verso un mercato sociale dei servizidi Gian-Luigi Bulsei e Noemi Podestà

6. L’affidamento dei servizi alla persona: quale spazio per la cooperazionedi Gianfranco Marocchi

7. L'impresa nonprofit e gli altri attori: responsabilità sociale e reti per lo sviluppo localedi Massimiliano Milici

8. Il fenomeno della povertà in Italia e le sfide alla coesione socialedi Marco Revelli

9. Crisi economica: minacce e opportunità per l’impresa socialedi Alberto Cassone

10. La cooperazione: un’impresa differente di Aldo Romagnoli

11. Sviluppo locale e qualità sociale: il possibile contributo della cooperazione.Interventi di Giancarlo Gonella e Angelo Pichierri

Riferimenti bibliografici

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Premessa dei curatori

“La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”

(Art. 45 della Costituzione italiana)

“Se vuoi costruire una nave, non chiamare prima di tutto gente che porti il legname, che prepari gli attrezzi necessari: non distribuire compiti, non organizzare il lavoro. Prima, invece, sveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato”

(Antoine De Saint Exupéry)

Con l’istituzione nel 2002 del Centro Interdipartimentale Volontariato e Impresa Sociale (CIVIS), l’Università del Piemonte Orientale ha consolidato uno specifico e significativo interesse nel campo dell’economia civile, dell’associazionismo solidale, della cooperazione e della finanza etica, con particolare attenzione alla dimensione territoriale. In questi anni CIVIS ha condotto molteplici attività formative e di ricerca, con il contributo di studiosi di varie discipline e l’avvio al lavoro scientifico di giovani leve di ricercatori. La produzione e diffusione di vari materiali di ricerca e di supporto alla didattica riguardanti il ruolo del cosiddetto terzo settore nei sistemi socio-economici locali (servizi alle persone e alle organizzazioni produttive, rapporti con le amministrazioni pubbliche e le istituzioni di welfare, contributo alla qualità della vita materiale e relazionale della comunità) si arricchisce ora di una nuova linea editoriale.

Questo primo Quaderno CIVIS presenta una selezione di contributi di economisti, giuristi, politologi, sociologi ed autorevoli dirigenti del movimento cooperativo dedicati ad un modo differente di fare impresa. L’occasione di confronto e riflessione comune è stata fornita da due edizioni dei “Seminari di alta formazione” organizzati in collaborazione con l’Istituto Italiano di Studi Cooperativi Luigi Luzzatti ed il Ministero dello Sviluppo Economico - Direzione generale per le piccole e medie imprese e gli enti cooperativi, con l’obiettivo di diffondere tra le nuove generazioni la conoscenza delle peculiarità della cooperazione, contribuendo alla formazione di operatori e potenziali imprenditori in tale ambito.

Dopo aver presentato nel primo ciclo di seminari (maggio-giugno 2008) i principali strumenti normativi e operativi che caratterizzano le organizzazioni cooperative ed alcune buone pratiche diffuse nel territorio regionale, si è scelto di dedicare la seconda edizione (ottobre 2009) ad un tema più specifico ed attuale: il ruolo dell’impresa sociale tra crisi economica e nuovo welfare, affrontando in un’ottica interdisciplinare quattro aree tematiche: il contesto, l’organizzazione, le strategie, le esperienze.

Ne è risultato un quadro certamente problematico, ma nel complesso stimolante sotto il profilo del possibile contributo che la realtà cooperativa può fornire alla tenuta e alla qualità dei sistemi locali: quasi un “antidoto” alle turbolenze dei mercati e alle criticità del tradizionale assetto dello stato

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sociale, a patto di prendere sul serio le capacità progettuali e realizzative delle imprese sociali e sostenerle con appropiate politiche pubbliche.

Alessandria, dicembre 2009

Gian-Luigi Bulsei è professore aggregato di Sociologia dell’organizzazione presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università del Piemonte Orientale, dove insegna anche Politica sociale e Sociologia del terzo settore. Cofondatore del Centro Interdipartimentale Volontariato e Impresa Sociale (CIVIS), ha condotto varie attività formative e di ricerca nel campo delle organizzazioni nonprofit e delle politiche locali.

Noemi Podestà è ricercatrice CIVIS e docente a contratto di Analisi delle politiche pubbliche e Fondamenti di politica sociale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università del Piemonte Orientale. E’ autrice di saggi e ricerche sulla democrazia deliberativa, lo sviluppo locale partecipato, il volontariato ed il welfare territoriale.

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1. Società, cooperazione e politiche pubbliche

di Gian-Luigi Bulsei∗

1.1 Terzo settore, nonprofit, economia civile

Le rapide trasformazioni economiche e sociali che hanno investito negli ultimi anni l’Italia non meno che gli altri paesi europei hanno comportato, accanto ad un certo effetto di “spiazzamento” politico-istituzionale, il progressivo riconoscimento del ruolo degli interventi di welfare per determinare lo sviluppo complessivo dei sistemi territoriali. Accanto al permanere di una specifica dimensione pubblica, in termini di offerta ma soprattutto di aspettative dei cittadini nei confronti delle amministrazioni, si è potuto assistere al diffondersi di varie forme di socialità organizzata (Bulsei 2008c; Centro Studi CGM 2005; Demozzi e Zandonai 2007).

E’ pertanto cresciuta, nell’ambito dei servizi alle persone ed alle comunità locali, l’importanza di alcuni soggetti la cui attività non è mossa né dall’obiettivo specifico di perseguire profitto economico né da programmi amministrativi. Tale insieme alquanto eterogeneo di attori collettivi, accomunati dal fatto di operare secondo logiche differenti sia dal sistema pubblico sia da quello privato, viene etichettato a seconda dei casi come nonprofit, economia civile (o solidale), privato sociale o più semplicemente terzo settore: si tratta in questo ultimo caso di una definizione residuale, che indica “per differenza” un complesso di pratiche e soggetti privati volti alla produzione ed allocazione di beni e servizi a valenza pubblica o collettiva (Bulsei 2008a, cap. 1; Colozzi e Bassi 2003).

Dal punto di vista formale, del diritto privato, gli enti del terzo settore sono associazioni riconosciute o non riconosciute, fondazioni, comitati, ex istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza privatizzate (IPAB), organizzazioni di volontariato, cooperative sociali, organizzazioni non governative. Troviamo pertanto in tale ambito sia piccole associazioni senza attività strutturata, sia grandi cooperative e organizzazioni volontarie con migliaia di iscritti e di dipendenti. Tuttavia, è possibile individuare alcune caratteristiche fondamentali (tabella 1) che accomunano l’universo eterogeneo delle Organizzazioni del Terzo Settore (OTS) (Bulsei 2008c, cap. 2):

• costituzione formale: tale carattere non si sostanzia unicamente nella formalizzazione di uno status giuridico, ma include anche il fatto che l’organizzazione sia percepita e vissuta in termini di “persistenza istituzionale” e non solo come raggruppamento (spontaneo e contingente) di individui;

• natura giuridica privata, ossia indipendenza dalle istituzioni pubbliche;

• neutralità: tale criterio porta ad escludere le organizzazioni puramente religiose, politiche o di rappresentanza di interessi categoriali;

• divieto di distribuzione, diretta o indiretta, di eventuali profitti conseguiti, che devono invece essere reinvestiti per gli scopi sociali;

• capacità di autogoverno, cioè di gestione autonoma attraverso specifiche procedure partecipative e di controllo sulle attività svolte;

• presenza di lavoro volontario e parziale ricorso a risorse economiche provenienti da donazioni.

Professore aggregato di Sociologia dell’organizzazione, Università del Piemonte Orientale.

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Tabella 1.1 – Caratteristiche comuni delle OTS

Formali, Private, Solidali (valori)Neutrali (no chiese, partiti, sindacati)Senza scopo di lucro (non distribuiscono utili)Democratiche (autogoverno e partecipazione)Si basano (almeno in parte) sul volontariato

Fonte: Bulsei 2008c, p. 56

Se la dicitura nonprofit riconosce, al di là della comune assenza di lucro, un ambito che si distingue dal resto dell’economia in base a caratteristiche strutturali e comportamentali non condivise dalle organizzazioni “di mercato”, il concetto di economia civile pone al centro le finalità solidali dell’attività di tali organizzazioni, che promuovono modalità diverse di strutturazione dei rapporti economici: accanto alla funzione economica di produzione di beni e servizi, tali attori collettivi svolgono quella “civile” di rafforzare i legami sociali (Bruni 2006 e 2007; Bruni e Zamagni 2004 e 2009).

La nozione di economia civile affonda le proprie radici nell’umanesimo del XV secolo ed attraversa il pensiero di studiosi di varie discipline (economisti, sociologici, scienziati politici, filosofi sociali). In anni recenti, è soprattutto grazie ai contributi oramai classici di Laville (1998) e Zamagni (1998) che si è sviluppata una rinnovata attenzione per il tema dello specifico ruolo economico dei cittadini “al di là” delle sfere istituzionali di stato e mercato (Bruni e Zamagni 2004 e 2009). Applicando in concreto i principi di sussidiarietà e di reciprocità, essi producono particolari beni, indispensabili per far funzionare sia i processi di scambio che avvengono nel mercato, sia quelli di redistribuzione dei quali si occupano le istituzioni pubbliche (Bulsei e Ossola 2009). Accanto alla produzione di beni pubblici (tipica delle amministrazioni centrali e periferiche) e di beni privati (funzionalmente svolta e regolata dal mercato), vi è infatti quella di beni relazionali collettivi, che per loro stessa natura sono realizzati e fruiti solo a partire dall’interazione sociale, all’interno di un’economia di condivisione (sharing) che ha come protagoniste le OTS. Una cooperativa, ad esempio, non si limita a produrre ed erogare (senza scopo di lucro) servizi alle persone e alle comunità, ma “da voce” alla società civile, promuovendo la solidarietà, la partecipazione, la cittadinanza attiva (Aa.Vv. 2007a; Bruni e Zamagni 2004 e 2009; Bulsei e Ossola 2009).

Come è noto, il principio di sussidiarietà (verticale ed orizzontale) concerne la allocazione di autorità e operatività ai livelli più prossimi alla domanda sociale. La dimensione verticale della sussidiarietà contempla l’effettiva distribuzione di poteri alle istituzioni locali, mettendole in grado di adottare decisioni (e non solo formule gestionali) vicine ai bisogni delle comunità amministrate; lungo l’asse orizzontale, consiste in processi di auto-organizzazione della società civile in base ai quali gli stessi cittadini promuovono azioni concrete finalizzate all’interesse generale. Se sostenibilità, coesione sociale, attivazione dei soggetti e sussidiarietà costituiscono il “vocabolario” dell’Europa sociale, tali concetti chiave vengono sempre più spesso declinati attraverso programmi di intervento di tipo integrato e localizzato, che assumono il livello locale come scala privilegiata per il trattamento intersettoriale dei problemi (casa, lavoro, esclusione sociale, riqualificazione urbana, sviluppo locale) ed il coordinamento tra attori istituzionali e sociali. Applicare “sul serio” il principio di sussidiarietà significa dunque riconoscere più ampio spazio alle società locali sia come territori amministrati sia come formazioni sociali (Bulsei 2008c, cap. 2).

All’interno del celebre modello triadico della regolazione sociale proposto da Polany (Cella 1997; Bruni 2006), la reciprocità consiste propriamente nella trasmissione circolare di beni o servizi tra i membri di una collettività tra cui sussistono relazioni simmetriche (che consentono all’occorrenza a donatore e beneficiario di scambiarsi i ruoli) regolate da un sistema di aspettative (l’equivalenza dei beni o servizi resi). Le attività riconducibili all’economia civile fanno più o meno esplicitamente riferimento ad una concezione “estesa” della reciprocità, che induce a perseguire

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finalità equitative producendo relazioni fiduciarie (aspettative a valenza positiva in condizioni di incertezza) di tipo generalizzato, originate da assunzioni di responsabilità che tendono a superare le appartenenze particolari e le tradizionali forme mutualistiche. In tale ottica, si sceglie di rendere disponibile un determinato servizio in quanto utile alla collettività e non perché imposto per legge o richiesto dal mercato; le transazioni non si limitano allo scambio di oggetti (kinds e services), ma sono immerse in reti sociali e istituzionali che contribuiscono, al tempo stesso, a riprodurre (Bulsei e Ossola 2009). Come nel caso delle imprese sociali, che sono «orientate alla soluzione di un problema collettivo attraverso l’impiego razionale di risorse umane e finanziarie non mosse esclusivamente dalla ricerca di massimizzazione del proprio benessere e che sviluppano scambi secondo principi diversi da quelli di equivalenza» (Introduzione a Borzaga e Fazzi 2008, p. 18).

1.2 Da cooperativa a impresa sociale

In Italia le caratteristiche dell’impresa cooperativa sono state definite per la prima volta dalla legge n. 381 del 1991: secondo tale normativa essa ha lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini, attraverso la gestione di servizi alla persona e lo svolgimento di attività finalizzate all’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati (art. 1, comma 1). In base alla legge le cooperative sociali vengano classificate in tre aggregati: quelle di tipo A, che svolgono attività relative alla gestione dei servizi sociali; quelle di tipo B, che svolgono attività produttive finalizzate all’inserimento lavorativo; quelle miste, che svolgono entrambe le attività.

L’inserimento di tali organizzazioni nel terzo settore, e non nel mercato, è dovuto al fatto che esse sono caratterizzate dal perseguimento di scopi solidaristici e non solo mutualistici. Per tale motivo la normativa contempla che all’interno delle cooperative sociali possano coesistere soci volontari, a fianco di soci prestatori, di soci fruitori, di soci sovventori e di lavoratori non soci. Per le cooperative di tipo B la legge stabilisce che almeno il 30% dei lavoratori sia costituito da persone svantaggiate: si tratta di soggetti che, a causa delle problematiche personali o familiari di cui sono portatori, hanno scarse possibilità di inserimento autonomo nel mondo del lavoro; le cooperative offrono loro l’opportunità di superare la condizione di emarginazione e di dipendenza dai servizi assistenziali attraverso il riconoscimento di un ruolo sociale attivo. La legge prevede infine l’istituzione di registri regionali presso i quali le cooperative sociali debbono iscriversi per poter stipulare convenzioni con gli enti pubblici (sia per la gestione di servizi socio–sanitari sia per la fornitura di beni e servizi prodotti attraverso il lavoro dei soci in condizione di svantaggio), nonché per beneficiare di agevolazioni fiscali e tributarie (Bulsei 2006 e 2008c, cap. 4).

Ma quali peculiarità consentono ad un’impresa di definirsi “sociale”? E quali caratteristiche dovrebbe avere un soggetto che opera nel sociale per raggiungere lo status di impresa? La definizione elaborata dal network europeo EMES si conferma come una delle più solide dal punto di vista teorico ed inoltre è applicabile a una molteplicità di esperienze e contesti; tale definizione considera due dimensioni: quella economico–imprenditoriale e quella sociale (Borzaga 2005; Borzaga in Bruni e Zamagni 2009).

La dimensione economico–imprenditoriale prevede quattro indispensabili requisiti:1. una produzione di beni e/o servizi in forma continuativa;2. un elevato grado di autonomia;3. un significativo livello di rischio economico;4. la presenza, accanto a volontari o consumatori, di forza lavoro retribuita.La dimensione sociale è invece determinata dalle seguenti caratteristiche:a. avere l’esplicito obiettivo di produrre benefici a favore della comunità;b. essere un’iniziativa collettiva, promossa da un gruppo di cittadini;c. essere governata da logiche non basate sulla proprietà del capitale;

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d. garantire una partecipazione allargata, che coinvolga almeno in parte le varie realtà sociali interessate all’attività dell’impresa (non solo soci lavoratori e destinatari-utenti dei servizi);

e. limitare (o non prevedere) la distribuzione degli utili. Da un lato, la natura di impresa non viene individuata semplicemente nella produzione e vendita

(non episodiche e marginali) di servizi alle persone o ad altre organizzazioni, quanto piuttosto nella presenza di soggetti privati disposti ad assumersi autonomamente un rischio imprenditoriale e gestionale. Dall’altro lato, a connotare tali imprese come sociali non è l’attività svolta (i servizi prodotti), ma ‹‹l’obiettivo perseguito (l’interesse della comunità) e le forme proprietarie di tipo associativo–partecipativo›› (Borzaga 2005, p. 25).

Dunque l’impresa sociale è un soggetto giuridico privato e autonomo (dalla pubblica amministrazione e da altri soggetti privati), che svolge attività produttive secondo criteri imprenditoriali (continuità, sostenibilità, qualità), ma che persegue, a differenza delle imprese convenzionali, un’esplicita finalità sociale. Essa mantiene forti legami con la comunità territoriale in cui opera e ricava le risorse economico-finanziarie necessarie sia dalle commesse pubbliche sia dalla domanda privata (Introduzione a Borzaga e Zandonai 2009).

Dal recente Rapporto sull’impresa sociale in Italia (Borzaga e Zandonai 2009), emerge che le imprese di questo tipo sono 15mila, occupano complessivamente 350mila persone ed hanno un fatturato di oltre 10 miliardi di euro. Se si considera la sola cooperazione sociale, che rappresenta la forma più diffusa, si contano più di 7.300 imprese che producono servizi socio-assistenziali, educativi e di inclusione lavorativa rivolti a più di 3 milioni di persone, impiegando 244mila lavoratori retribuiti e 30mila volontari e generando un giro d’affari pari a 6,4 miliardi di euro. In Piemonte, le cooperative sociali iscritte all’albo regionale nel primo trimestre 2009 erano 543, delle quali 306 di tipo A, 204 di tipo B e 33 consorzi.

L’effettivo ruolo delle imprese sociali nel sistema locale (cfr. Bulsei e Podestà in questo volume) si configura come il risultato dell’interazione tra una serie di variabili organizzative (l’adeguatezza professionale e gestionale delle cooperative), politiche (le scelte dell’operatore pubblico ed i suoi rapporti con il privato sociale) e di contesto (la domanda sociale a base territoriale). A partire dai bisogni del territorio si sviluppa l’azione degli enti gestori, attraverso l’erogazione di servizi istituzionali e secondo differenti modelli di regolazione. Ne deriva il peculiare ruolo della cooperazione sociale, sia in termini di spazio all’attività imprenditoriale (grazie ai servizi esternalizzati dalle istituzioni di welfare) sia in termini di valore sociale aggiunto per la comunità locale; una sorta di doppio legame della cooperazione con il territorio: come produttore e ad un tempo indicatore di coesione sociale, ma anche e soprattutto come “antenna” per cogliere l’evoluzione dei bisogni e tradurli in attività di impresa (servizi solidali) senza affidarsi completamente al “filtro” degli enti istituzionali (Bulsei 2006, cap. 1).

1.3 Il caso delle imprese sociali “verdi”

Laddove la presenza di organizzazioni nonprofit è consolidata, come nel caso delle politiche sociali, la normativa riconosce al terzo settore la possibilità di contribuire alle scelte pubbliche oltre che alla produzione dei servizi alla persona e alla collettività (si pensi allo strumento del Piano di zona introdotto dalla Legge quadro 328/2000).

Emergono, in tale modello settoriale di regolazione, due linee di tendenza:1. l’introduzione di condizioni di mercato (marketization) nella produzione di beni sociali,

di norma associata ad una riduzione delle funzioni pubbliche di gestione diretta;2. l’apertura del policy making ad una pluralità di attori, con la diffusione di strutture e

processi partecipativi: si tratta di nuovi modelli di interazione basati sull’inclusione degli attori sociali nella definizione degli obiettivi di policy, che puntano alla creazione di “reti

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governate” nelle quali partners privati condividono con le istituzioni la responsabilità per la produzione di beni pubblici (Bulsei 2006 e 2008c, cap. 4).

Sotto entrambi i profili (produttivo e partecipativo), non esiste in campo ambientale il “corrispettivo funzionale” della Legge 328. Accanto ad un pur significativo ricorso all’esternalizzazione di servizi ambientali a cooperative, non vi è traccia nelle politiche di settore di alcun disegno consapevole di promozione dell’imprenditorialità sociale né di pluralizzazione dei processi decisionali (Bulsei 2008b e 2008c, cap. 5).

Ciò nonostante, molteplici appaiono i potenziali ambiti di attività per le cosiddette imprese sociali “verdi” (ISV): dalla riqualificazione urbana all’educazione ambientale; dai servizi ecologici all’inclusione sociale (tramite inserimento lavorativo); dalla produzione sostenibile (agricola, energetica, ecc.) al consumo consapevole; dalla gestione di aree protette ai processi partecipativi. Ma una cooperativa che voglia per esempio operare nel campo dei servizi ambientali locali (produzione energetica, smaltimento dei rifiuti, o simili) dovrà puntare su di una professionalità integrata, in grado di tenere assieme competenze tecnologiche settoriali, conoscenze “sistemiche” sulle caratteristiche del mercato e le procedure amministrative, abilità di tipo comunicativo-relazionale: ad esempio per informare correttamente i cittadini sui costi/benefici derivanti dalla localizzazione di un certo impianto (Bulsei 2008b; Osti 2006 e 2007).

Per l’impresa cooperativa occuparsi di ambiente implica (Osti 2007; Bulsei 2008c, cap. 5):• la creazione di occasioni di lavoro a bassa soglia di entrata;

• la formazione di competenze organiche (analisi, progettazione, coordinamento);

• l’attenzione ai bisogni della comunità locale;

• l’evoluzione verso forme di reciprocità generalizzata (verso ciascuno);

• l’attenzione ai beni comuni.Rispetto agli altri soggetti, le ISV sembrano in grado di investire soprattutto risorse di tipo extra-

economico; si tratta di un “capitale” di conoscenze e relazioni a base territoriale che ha a che fare con funzioni di tipo integrativo e culturale, ma è alquanto utile a mobilitare le risorse più propriamente economico-finanziarie necessarie all’attività d’impresa (accesso al credito, commesse pubbliche, rafforzamento sul mercato dei servizi locali, che per l’impresa sociale rappresentano spesso aree critiche). Mentre per le imprese for profit la possibilità di intercettare e sviluppare eco-business non è legata soltanto al finanziamento pubblico ma ad investimenti di capitale privato, le ISV si trovano troppo spesso in una condizione di dipendenza strutturale da commesse delle amministrazioni locali.

Se per certi versi è scontato che le amministrazioni pubbliche controllino alcune “contingenze vitali” per le cooperative alle quali affidano la gestione dei servizi ambientali, va notato che il campo organizzativo in cui operano le ISV non è strutturato solamente dagli attori istituzionali, in quanto esse attingono (perlomeno a livello ideologico e motivazionale) al patrimonio culturale dell’ambientalismo. Accanto a frequenti casi di spin off, che vedono l’impresa ccoperativa essere emanazione più o meno diretta (o evoluzione) di un’associazione ambientalista, si può ipotizzare una sorta di “divisione del lavoro” tra movimenti organizzati, orientati a condizionare le decisioni pubbliche (mediante strategie negoziali/conflittuali) e ISV, più impegnate sul versante attuativo (Bulsei 2008b e 2008c, cap. 5).

Un’ulteriore aspetto da considerare riguarda il radicamento comunitario delle ISV ed il loro rapporto con un’opinione pubblica sempre più sensibile alla qualità del “proprio” ambiente e talora caratterizzata da forme anche accese di mobilitazione sociale. Le aspettative nei confronti delle realtà nonprofit saranno allora diverse non solo da quelle verso le imprese capitalistiche operanti sul territorio, ma anche dalle richieste di azione-compensazione rivolte agli enti pubblici. Le ISV possono allora trovarsi in più di un’occasione a giocare un ruolo “intermedio” tra amministrazioni locali e cittadini (Bulsei 2008b e 2008c, cap. 5).

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Per svolgere funzioni rilevanti nel campo dei servizi ambientali, le imprese cooperative devono svilupparsi dal punto di vista organizzativo e professionale, per connettersi sia con le competenze di tipo tecnologico e manageriale di una industria “verde” in fase di (lenta) crescita anche nel nostro paese, sia con la diffusione di pratiche sociali che sollecitano “dal basso” le istituzioni e le politiche pubbliche. L’obiettivo di trasformare i bisogni (ambientali) in attività d’impresa (sociale) non appare tuttavia agevole, soprattutto perché le pressioni del campo politico-organizzativo di riferimento comportano spesso l’adozione di strategie adattive difficili da conciliare con quei caratteri altruistici e comunitari tipici dell’impresa nonprofit, per la quale risulta talvolta problematico integrare opportunità economiche, dimensioni tecniche e progettualità sociale.

Un’impresa cooperativa alle prese con l’ambiente deve adottare modelli “estensivi” di reciprocità e responsabilità sociale, come ben evidenziato dal ciclo dei rifiuti: anche se il più delle volte le ISV gestiscono per conto delle amministrazioni locali solo una fase intermedia del processo, esse non possono ignorare ciò che sta a monte ed a valle dell’intero ciclo, in termini sia tecnologici sia sociali. L’effettiva possibilità di presentarsi come alternativa credibile al binomio stato-mercato dipende dalla loro capacità di proporre, nel concreto svolgimento di attività economiche che chiamano in causa beni comuni e problemi collettivi, modelli praticabili di equità (tra individui, gruppi sociali, generazioni, territori), contribuendo in tal modo all’efficacia dell’intervento pubblico su temi controversi ma ineludibili come quelli ambientali.

1.4 Osservazioni conclusive: quali politiche pubbliche?

Nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso, molte imprese sociali sono nate in modo autonomo dalla pubblica amministrazione, per affrontare problemi di cui questa non voleva o non poteva farsi carico. Negli anni Novanta le cose sono cambiate e vari enti locali hanno iniziato a finanziare in modo sistematico l’attività delle cooperative esistenti, o hanno affidato ad organizzazioni nonprofit la gestione di nuovi servizi (Borzaga 2005). Negli anni “pionieristici”, dunque, ‹‹era generalmente la cooperativa a creare e quindi proporre all’ente pubblico l’avvio di un nuovo servizio›› (Andreaus 2005, p. 254); in seguito la relazione tra amministrazioni pubbliche ed imprese sociali consisterà sempre più nella “delega” tramite convenzione, tendendo di fatto a trasformare la cooperazione da movimento di interpretazione della domanda a strumento di gestione dell’offerta di servizi.

Quali prospettive si possono immaginare per il futuro? Il Quarto rapporto sulla cooperazione sociale in Italia (Centro Studi CGM 2005) delineava tre possibili scenari:

1) La transitorietà – Si tratta di ‹‹una situazione di spiazzamento e di progressiva sostituzione delle cooperative sociali da parte di altri soggetti che agiscono in veste di competitori e che potrebbero mostrare maggiore efficienza nei processi produttivi e nei sistemi di rappresentanza›› (Zandonai 2005, p. 19); le probabilità che ciò si verifichi sono connesse da un lato al mancato riconoscimento delle specificità della cooperazione sociale (e dalla progressiva erosione dei vantaggi competitivi assegnati), dall’altro al ridimensionamento degli elementi valoriali e culturali “originari”; alla base vi è una visione della cooperazione sociale come “supplente” in ambiti che dovrebbero essere oggetto dell’attività di strutture pubbliche o di imprese di mercato: solo alcuni fattori congiunturali hanno consentito l’emergere di queste forme “ibride” di impresa, destinate “in tempi normali” ad essere sostituite.

2) Il consolidamento nella nicchia – Secondo questa prospettiva le cooperative sociali sopravvivono, ma in un’ottica conservativa, mantenendo forti posizioni solo all’interno di nicchie tutto sommato marginali: ‹‹si fa concreto il rischio che le cooperative vengano considerate l’unica soluzione per i problemi sociali che afferiscono a quel determinato ambito, ad esempio l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati›› (Zandonai 2005, p. 20).

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3) Una nuova forma di impresa comunitaria – In questo caso la cooperazione è riconosciuta e legittimata come una specifica forma organizzativa a valenza sociale: ‹‹l’identificazione di settori di intervento “elettivi” piuttosto che l’adozione di politiche conservative non è più rilevante; diventano necessarie invece iniziative di policy trasversali›› (ibidem), per connettere tale peculiare modalità d’impresa con le altre componenti economiche e sociali e perseguire finalità di interesse generale.

La cooperazione è un una realtà estremamente dinamica, che si sviluppa grazie a una notevole varietà di forme organizzative e di beni prodotti; il settore, tuttavia, è caratterizzato dalle difficoltà applicative della recente riforma legislativa e dall’assenza di adeguate politiche di sostegno. Le carenze del contesto istituzionale non hanno però impedito a questo inedito modello imprenditoriale di diffondersi, dimostrando che esiste spazio economico e sociale per organizzazioni private che, senza scopo di lucro, producono e scambiano in via continuativa beni e servizi in vista di obiettivi di interesse generale (Borzaga e Zandonai 2009).

In un policy paper elaborato dalla rete IRIS (Istituti di Ricerca sull’Impresa Sociale), vengono indicate le principali linee guida per un’agenda di iniziative a sostegno dell’impresa sociale in Italia (IrisNetwork 2008; cfr. anche Appendice a Borzaga e Zandonai 2009):

• promuovere una campagna informativa a livello nazionale che, a partire dalla nuova legge, faccia conoscere le potenzialità dell’impresa sociale agli enti pubblici, agli operatori economici, alla cittadinanza;

• armonizzare i benefici di legge per le diverse forme di impresa sociale, con l’estensione delle agevolazioni riconosciute alle Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus);

• ampliare le “materie di particolare rilievo sociale” che definiscono l’attività di impresa sociale, inserendo importanti settori oggi non presenti (come ad esempio il commercio equo e solidale ed i servizi al lavoro);

• raccordare gli ambiti di attività previsti dalla normativa più recente ed evoluta con quelli a suo tempo individuati dalla legge sulla cooperazione (il modello più diffuso e consolidato di impresa sociale nel nostro paese);

• emanare un bando nazionale per il finanziamento di progetti innovativi di imprenditorialità sociale, utilizzando risorse pubbliche e di altri soggetti come le fondazioni bancarie;

• estendere alle imprese sociali le agevolazioni per la costituzione e l’avvio d’impresa e per la creazione di reti e distretti, prevedendo lo snellimento delle pratiche burocratiche, il sostegno finanziario diretto e facilitazioni nell’accesso al credito;

• prevedre modalità innovative di assegnazione basate su forme collaborative tra pubblica amministrazione e organizzazioni sociali, superando definitivamente sistemi ancora molto diffusi che privilegiano la competizione soprattutto su parametri di costo economico.

Lo “spazio di manovra” delle imprese cooperative non dipende dunque soltanto da variabili economiche, ma ha a che fare con dimensioni culturali e politiche, a partire dalla scelta delle istituzioni pubbliche di dialogare con gli “altri” attori. Poiché il tratto distintivo dell’esperienza cooperativa consiste nell’assumere come riferimento per tutte le proprie scelte i principi della reciprocità e della responsabilità solidale piuttosto che la semplice “estraneità” al mercato, alcune organizzazioni possono essere più di altre chiamate a confrontarsi con imprese, strumenti e segmenti di mercato e a dare vita a reti sociali sinergiche e innovative tra profit e nonprofit (Fazzi 2007; Panozzo 2008).

Non necessariamente, inoltre, la diffusione delle imprese sociali presuppone il ridimensionamento dell’impegno pubblico. «Le due modalità di intervento possono non solo convivere, ma anche trovare forme di collaborazione che consentano a ognuno di sfruttare al meglio le proprie peculiarità» (Introduzione a Borzaga e Fazzi 2008, p. 21). Come mostra l’osservazione di quanto avviene in altri paesi (OECD 2009), allo sviluppo dell’economia civile non corrisponde una strategia sostitutiva del modello pubblico. «Essa non si propone di depubblicizzare il welfare a

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favore del mercato, bensì di differenziare l’offerta e di accrescere le forme organizzative e le istituzioni economiche e sociali che si assumono la responsabilità di fornire risposte ai bisogni e alle istanze di benessere e tutela sociale, rendendo più flessibile e ampio lo spettro di opportunità e strumenti» (Introduzione a Borzaga e Fazzi 2008, p. 21).

Si tratta allora di condividere in maniera non episodica e contingente risorse e responsabilità: l’innovazione sociale deve essere il risultato di processi intenzionali e governati nei quali l’azione pubblica si salda con il protagonismo della società civile.

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2. Imprese differenti: la “nuova” cooperativa dopo il d.lgs. 6/2003

di Guido Bonfante ∗

2.1 La “nuova” società cooperativa dopo il d.lgs. 6/2003: una premessa.

La riforma della società cooperativa attuata dal d.lgs. 6/2003 nell’ambito del disegno riformatore delle società di capitali segna, per certi versi, una svolta epocale nella storia della legislazione cooperativa.

Le ragioni di un giudizio così netto sono presto dette: per la prima volta, infatti, viene superato nel nostro ordinamento il tradizionale dualismo di forme e quindi di disciplina fra la cooperativa agevolata e non a favore di un sistema in cui, pur in presenza di una parziale diversità di regole fra i due modelli, prevale comunque una concezione sostanzialmente unitaria della società cooperativa da intendersi nel senso che i principi mutualistici e democratici caratterizzanti il fatto cooperativo sono comunque presenti in tutte le cooperative, siano esse agevolate o meno rappresentando il perseguimento dello scopo mutualistico l’espressione stessa della funzione sociale della cooperazione.

Non solo, ma in questo contesto sembra essersi altresì superata la tradizionale evanescenza legislativa nell’identificare lo scopo mutualistico finalmente delineato, pur in assenza di una espressa definizione, nei suoi contenuti e la cui presenza è obbligatoriamente prevista per tutte le cooperative.

Più esattamente il legislatore ha inteso questo principio, in coerenza, come vedremo con le scelte comunitarie, in termini di gestione di servizio al socio pretendendo che l’attività con i terzi debba essere espressamente autorizzata dallo statuto e demandando al legislatore la possibilità di prevedere forme di mutualità esterna. Ancora in margine alla mutualità è stato fissato a livello generale il principio che l’attività mutualistica con il socio si attua, come già specificato dalla l.142/01 per le cooperative di lavoro, attraverso un rapporto di scambio ulteriore rispetto al vincolo sociale. Inoltre per la prima volta nel nostro ordinamento è fatto obbligo di prevedere in statuto che la remunerazione del servizio mutualistico al socio avvenga con il metodo del ristorno ossia proporzionalmente alla quantità e qualità degli scambi che a loro volta debbono realizzarsi rispettando la parità di trattamento fra i soci ossia al di fuori di qualsivoglia discriminazione. Per quanto attiene poi specificatamente alle cooperative agevolate fiscalmente oltre ai requisiti riconducibili con qualche approssimazione a quelli dell’art. 26 della Basevi, si è aggiunto il requisito della prevalenza dell’attività con i soci da documentare nella nota integrativa al bilancio; ma soprattutto per queste cooperative, quale conseguenza della unitarietà del fatto cooperativo in nome di un medesimo concetto di mutualità, si è previsto un meccanismo di passaggio volontario o meno all’area non prevalente e viceversa che rappresenta concettualmente in assoluto una delle novità più rilevanti della riforma.

Ma non basta,mutualità a parte, per la prima volta in un testo di carattere generale si è prestata qualche attenzione al principio solidaristico con norme che vorrebbero tutelare in qualche modo la porta aperta, ossia l’aspettativa dell’aspirante socio ad essere ammesso in cooperativa e per quanto attiene al principio democratico, ribadito il voto per testa, pur con qualche limitata deroga, si è reso obbligatorio l'istituto delle assemblee separate, almeno per le cooperative di maggiori dimensioni o con diverse gestioni mutualistiche.

E ancora:si sono diversificate le forme giuridiche di riferimento, spa o srl, in ragione della”grandezza” della cooperativa;si è permesso di adottare in luogo del tradizionale sistema di

Professore ordinario di Diritto commerciale e Diritto della cooperazione, Università di Torino

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governance latino, il sistema dualista o monista;si è consentito che una parte minoritaria degli amministratori non sia costituita da soci; si è rivisto la figura dei sindaci in termini conformi a quelli delle società per azioni ed inoltre è stata prevista la possibilità di ricorrere anche per questo istituto al controllo giudiziario ex art. 2409 c.c.

Grandi novità anche in tema di finanza cooperativa: senza mettere da parte le azioni di sovvenzione e di partecipazione cooperativa disciplinate dalla l.n. 59/92, si è introdotto anche per la cooperativa la figura degli strumenti finanziari di tipo partecipativo o meno.

Per quanto riguardo infine il tema dell’aggregazione fra imprese, si è disciplinata per la prima volta, sulla scia del legislatore spagnolo, la figura del gruppo paritetico cooperativo.

Dunque,sempre per la prima volta dopo la c.d. Basevi del 1947 si riesce a varare un testo “organico” sulla cooperativa e non il solito”spezzatino” legislativo che, complice la varietà di visuali cooperative insite nel movimento cooperativo, ha caratterizzato, in verità da sempre dopo il codice di commercio del 1882, la realtà legislativa cooperativa in Italia.

Si tratta, nel loro complesso, di novità di grandissimo rilievo che segnano una netta cesura rispetto al passato per cui si tratterà di vedere se esse sapranno superare la prova del tempo nel confronto dialettico con una realtà sostanziale cooperativa da sempre forgiata all’ombra del dualismo di forme caratterizzato ,cioè,dall’esistenza di una cooperativa agevolata in cui la mutualità è stata finora per lo più intesa in termini di mera compressione dell’utile e una cooperativa libera segnata essenzialmente dal voto per testa e dalla variabilità del capitale. E dove l’uno e l’altro modello hanno espresso funzioni socio-economiche parzialmente svincolate dal rispetto dei principi mutualistici. Un confronto dialettico che certo non agevola l’attività dell’interprete e di cui occorre tenere conto nel districarsi fra le nuove norme del codice e le sempre più numerose circolari, direttive e pareri di origine governativa che in certi casi, nel segno di una certa vena di nostalgia del passato, sembrano voler innescare processi di ibridazione dell’originario disegno unitario della riforma.

Vale nella circostanza per l’interprete quanto ricordava Piero Verrucoli, ossia che non si capisce nulla delle leggi cooperative se non si conosce e comprende la multiforme realtà ideale, sostanziale e organizzativa di questo fenomeno e gli interessi ad essa sottesi. Una realtà, ecco un motivo di speranza, che, complice lo sbiadire dei vincoli ideologici e partitici potrebbe subire nel nostro Paese un processo di semplificazione attraverso la auspicabile unificazione delle varie associazioni di rappresentanza. Si tratterebbe, ove attuata, di una semplificazione non solo organizzativa e “politica”, ma che farebbe sentire la sua influenza anche nel modo di intendere l’identità della cooperativa e quindi le norme. Una tale scelta presuppone ,infatti, una certa qual condivisione del modo di considerare l’identità e la funzione socio economica della cooperativa lasciando per strada le visuali più estreme ancorate ad una tutela di stampo massimalistico dei principi mutualistici o all’opposto alla salvaguardia senza compromessi delle sole ragioni dell’impresa. Si allude in particolare a chi sogna una cooperativa che in nome della mutualità e dei suoi corollari democratici e solidaristici non si interessa della competitività dell’impresa mirando a relegare l’operatività dell’istituto in settori “protetti “dal sostegno pubblico e comunque in ambiti economici marginali con finalità assistenzialistiche più che di reale emancipazione delle economie deboli. Ma soprattutto si allude a chi, sul condivisibile presupposto che la tutela dei principi debba comunque salvaguardare la competitività dell'impresa, di fatto riduce l’identità della cooperativa al principio democratico del voto per testa dando così indirettamente ragione a chi non da oggi teorizza l’incapacità della cooperativa a mantenere la sua identità quando compete con le altre imprese ai massimi livelli. Al contrario l’Alleanza Cooperativa Internazionale e la dottrina cooperativistica di tutto il mondo insegnano come l’identità cooperativa sia il frutto di una continua mediazione fra le ragioni dell’impresa e i principi dove seppure siano questi ultimi a doversi adeguare alle esigenze imprenditoriali, queste altre a loro volta non sono sempre e comunque legittimate a giustificare qualsivoglia condotta che deve passare al vaglio di un giudizio preventivo di compatibilità con le regole cooperative. In altri termini la funzione sociale della cooperazione che può avere i contenuti

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più vari spaziando dalla democratizzazione del mercato al sostegno dei ceti più disagiati, è riferibile a questo istituto solo se viene tutelata l’identità del medesimo. Ovverossia se viene salvaguardata l’idea che la cooperativa è una impresa collettiva di proprietà dei lavoratori (nel modello cooperativa di lavoro) o dei consumatori (nel modello cooperativa di consumo) che ha come finalità quella di soddisfare attraverso la sua attività imprenditoriale i bisogni (di lavoro o di beni) dei cooperatori soci. Lo scopo della cooperativa, in altri termini, la sua causa distintiva rispetto alle altre società è quella di remunerare non il capitale investito dai soci, bensì lo scambio mutualistico offrendo cioè ai soci alle migliori condizioni possibili lavoro o beni. Il che è esattamente quanto, sia pure con non poche contraddizioni cerca di imporre per la prima volta a tutte le cooperative la riforma di cui al d.lgs. 6 del 2003. E dove peraltro proprio queste contraddizioni e lacune, unitamente alla abitudine del passato a concepire la mutualità semplicemente in termini di compressione dell’utile, sembrerebbero a qualche anno dall’introduzione della riforma rendere quanto meno instabile la nuova visuale positiva di mutualità e più in generale la filosofia complessiva dell’impianto riformatore come testimonia il fiorire di circolari e pareri amministrativi non sempre in linea con le idee del legislatore. Una instabilità che, pone in primo piano la questione se il dualismo fra cooperative agevolate e non poco o nulla caratterizzato sul piano mutualistico, inteso come gestione di servizio al socio, non sia in definitiva il modello più conforme ad una realtà italiana consolidatasi in circa centocinquant’anni di storia. E dove in particolare l’evanescenza dello scopo mutualistico e dei principi solidaristici, più ancora che il dualismo di forme, sembrerebbe aver consentito alla nostra cooperazione di affermarsi e diffondersi più facilmente nel contesto di un’economia matura, il tutto sia pur con una varietà di ruoli non sempre riconducibili alla tradizionale funzione mutualistica di “servizio”al socio. Una constatazione che vale non solo per alcune grandi cooperative entrate a buon diritto nei salotti “buoni” della nostra economia, ma anche con riguardo ad espressioni di imprenditorialità minore che attraverso la cooperazione si affacciano sul mercato anche secondo logiche lucrative e non solo per la soddisfazioni di bisogni.

E’l’idea della cooperativa come impresa essenzialmente democratica , strumento di introduzione e avviamento a vari livelli sul mercato di ceti tradizionalmente esclusi o di difesa contro il pericolo di retrocessione sociale di economie deboli. E questo modo di “sentire” il fatto cooperativo è presente in particolare nelle aree geografiche del nostro Paese ad alta densità cooperativa dove l’elemento produttivo , il fatturato con i suoi benefici effetti sulla collettività in genere viene percepito, in quanto espressione di un produttivismo democratico, come un “valore” spesso non inferiore alla qualità del servizio mutualistico reso al socio.

2.2 I precedenti. Il dualismo di forme del codice del 1942 e della “Basevi”.

Come è noto, il sistema dualista che il d.lgs. 6 ha riformato aveva i suoi riferimenti normativi nel codice civile del 1942 e nella c.d. Basevi, ovvero il dlcps 14 dicembre 1947, n. 1577.

Il primo forniva a tutte le cooperative la disciplina di base integrata da alcune norme della Basevi, mentre quest’ultima, segnatamente con l’art. 26, si occupava delle cooperative oggetto di agevolazione fiscale e non.

In ogni caso per tutte le cooperative mancava una definizione di mutualità (contenuta solo nella Relazione di accompagnamento), così come era assente ogni riferimento alle modalità di attribuzione dei vantaggi mutualistici e in particolare al ristorno, alla porta aperta, alla limitazione degli utili (demandata alla autonomia statutaria). Ne conseguiva che le cooperative non oggetto di agevolazione erano caratterizzate dalla sola variabilità del capitale sociale e dal voto per testa. Per contro la cooperativa agevolata si qualificava rispetto a quella c.d. libera essenzialmente per i requisiti mutualistici di cui all’art. 26 della Basevi che altro non rappresentavano che il ripescaggio della normativa sull’esenzione dall’imposta di bollo e registro già prevista dal r.d. 24 settembre 1923, n. 2030. In verità questi requisiti costituiti dalla limitazione nella distribuzione dei

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dividendi,in origine, al 5%, dal divieto di distribuzione delle riserve, dalla devoluzione del patrimonio sociale dedotto il capitale e i dividendi maturati a scopo di pubblica utilità (ora ai fondi mutualistici) in caso di scioglimento della cooperativa avevano in sè assai poco di mutualistico costituendo semmai una forma di compressione degli scopi lucrativi. E quindi, nonostante fossero- e sono tutt’ora- oggetto di una sorta venerazione da parte del mondo cooperativo nostrano, come è stato giustamente osservato, costituivano solo una forma di tutela indiretta della mutualità inducendo a dare vantaggi mutualistici al socio attesa la impossibilità di remunerare senza limiti il capitale conferito. Si trattava peraltro di una tutela in parte ambigua in quanto nulla formalmente vietava che la cooperativa speculasse con i non soci implementando i vantaggi mutualistici con gli utili tratti con costoro. Una possibilità che una parte degli interpreti, dottrina e giurisprudenza cercava di arginare argomentando la necessità che l’attività venisse svolta prevalentemente con i soci.

In buona sostanza, dunque, il cosidetto dualismo di forme si caratterizzava per l’esistenza di un duplice modo di essere della cooperazione. Da un lato la cooperativa non oggetto di alcuna agevolazione era disciplinata essenzialmente in modo espresso dalle sole regole della variabilità del capitale sociale e del voto per testa a cui andavano aggiunte le norme sui requisiti di partecipazione dei soci e i limiti ai conferimenti. Dall’altro lato la cooperativa agevolata risultava vincolata essenzialmente all’obbligo di rispettare i requisiti mutualistici dell’art. 26 della Basevi caratterizzanti una mutualità evanescente nei suoi contenuti, ma comunque “controllata” e limitata quanto al perseguimento di finalità lucrative e come tale ritenuta meritevole di agevolazioni fiscali e non. Il tutto grazie anche ad una formulazione non felicissima dell’art. 45 della Costituzione che pur sottolineando la funzione costituzionalmente rilevante della cooperazione, per la sua genericità è valsa a giustificare le visuali più disparate.

Il sistema si completava poi con un meccanismo di vigilanza amministrativa apparentemente applicabile a tutte le cooperative, ma di fatto operante in larga misura solo per le cooperative agevolate costrette altresì ad iscriversi in un apposito Registro prefettizio e sottoposte ad ulteriori controlli di apposite Commissioni provinciali.

Era poi ovvio che di fronte ad una bipartizione così netta non vi fosse alcuna possibilità di “osmosi” fra i due modelli di cooperativa. O meglio una cooperativa “libera” poteva, inserendo nello statuto i requisiti dell’art. 26 della Basevi “ trasformarsi “ in cooperativa agevolata, ma non poteva accadere l’opposto pena la ripresa di tutte le agevolazioni godute. Insomma le clausole mutualistiche una volta adottate dovevano valere per sempre!

Il sistema dualista sopra descritto in verità affondava le sue radici nello stesso codice di commercio del 1882 che caratterizzava la cooperativa solo per il capitale variabile e per il voto per testa lasciando alle innumerevoli leggi speciali il compito di meglio disciplinare il fenomeno a seconda degli interessi in gioco. Peraltro nelle intenzioni del legislatore della Basevi esso doveva avere un carattere provvisorio in attesa di una riforma organica dell’istituto, riforma che nonostante reiterati tentativi nel 1954 e sopratutto sul finire degli anni settanta, è rimasta fino al 2003 un sogno nel cassetto.

Per contro gli aggiustamenti e l’ammodernamento della Basevi e in genere del sistema dualista non sono mancati. Così dopo gli emendamenti alla Basevi del 1949,1950,1951, con la legge 127/71 il modello dualista viene definitivamente riaffermato con un aggiornamento di quei profili normativi che potevano agevolare la crescita economica della cooperativa e soprattutto con una disciplina nuova di zecca dei consorzi cooperativi.

Infine mentre con la l. 904/77, la c.d. Pandolfi, vengono esclusi dal reddito imponibile gli utili mandati a riserva indivisibile consentendo in questo modo alla cooperativa agevolata di raggiungere migliori standard di patrimonializzazione, con la Visentini bis (la l. n72/83) viene, fra le altre cose, fissato il principio, fondamentale per lo sviluppo del movimento, che le cooperative possono costituire ed essere socie di società di capitali. Nascono così anche nel mondo della cooperazione i gruppi con a capo una cooperativa in qualità di controllante.

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Da ultimo, sempre sull’impianto dualista, viene varata la l. 59/92, a tutt’oggi in larga misura ancora valida che introduce, fra le altre cose, la azioni di sovvenzione e di partecipazione cooperativa, nonché l’obbligo per tutte le cooperative di versare il 3% degli utili ad appositi fondi mutualistici gestiti dalle associazioni di rappresentanza o dal Ministero e deputati principalmente a finanziare la costituzione di nuove cooperative o iniziative di interesse cooperativo. E con l’ulteriore precisazione, anch’essa di grande rilievo, che la devoluzione dei patrimoni cooperativi, dovrà da ora in avanti avvenire a favore di detti fondi.

Dunque, in conclusione, un sistema dualista che negli anni, lungi dall’essere superato, si è consolidato ed ha permesso e favorito lo sviluppo economico della cooperazione agevolata consentendole di essere sempre più attrezzata a reggere la concorrenza con le altre imprese sia pure al “prezzo” di una certa qual “velatura” dei principi mutualistici.

2.3. La gestazione e nascita del d.lgs. 6/2003

Il d.lgs. 6/2003 che ha riformato il codice civile con riguardo alle società di capitali non è il frutto di un raptus improvviso, ma nasce sull’onda di processi di riforma di queste società avvenuti in gran parte dell’Europa, tanto è vero che anche nel corso della precedente legislatura si era a lungo disputato di tali riforme giungendo alla formulazione di un progetto di legge delega, il c.d. progetto Mirone, che riguardava anche la cooperativa.Su questo abbrivio non erano mancate proposte più articolate, veri e propri modelli di futuri decreti delegati.

In tutti questi progetti, che rimasero esercizi teorici per la scelta del governo dell’epoca di non ritenere urgente la riforma, a fronte di una più articolata e completa attenzione ai principi democratici, solidaristici e mutualistici della cooperativa, veniva comunque ribadita la scelta dualistica distinguendosi fra cooperazione costituzionalmente protetta e non dandosi così ragione a quelle tesi risalenti nel tempo che argomentavano dallo stesso art. 45 della Costituzione l’esistenza di una cooperativa mutualistica, come tale oggetto di agevolazione, e una pur sempre cooperativa, ma non mutualistica. Al punto che in alcun bozze di progetti si prospettava l’esistenza di una semplice società a capitale variabile non sottoposta alla vigilanza amministrativa sull’esempio di un progetto già del Vivante del 1925.

Nella successiva legislatura il progetto di riforma delle società di capitali viene ripreso mutuando i precedenti lavori della passata legislatura salvo propendere in un primo momento per lo stralcio della parte relativa alle cooperative viste le difficoltà di trovare soluzioni condivise. All’ultimo momento qualche ripicca politica fece cambiare idea ed anche la cooperazione fu coinvolta nel processo di riforma. Un cambiamento di rotta last minute che fece sentire i suoi effetti nell’articolato che seppure ripreso in modo pressochè totale dal modello della precedente legislatura, venne maldestramente manipolato (nel tentativo di marcare la differenza dal passato) al punto che su un impianto dualista improntato alla cooperazione costituzionalmente protetta e non, sembrava paradossalmente che solo il secondo modello dovesse attenersi a regole più severe in tema di principi cooperativi.

Un articolato che richiese quindi alla Commissione incaricata di predisporre il progetto di decreto delegato di dar prova di realistico buon senso più che di fedele osservanza formale alla legge delega,cosa che in effetti avvenne. E non solo.

Al di là delle soluzioni adottate sui singoli punti, merita qui segnalare la scelta di fondo unitaria in tema di mutualità adottata dal decreto delegato in controtendenza con la legge delega. Questa prevedendo una cooperazione costituzionalmente protetta e non e distinguendo fra funzione sociale della cooperazione e scopo mutualistico dei soci, mirava chiaramente a favorire la nascita di una cooperativa costituzionalmente protetta che esprimeva la sua funzione sociale attraverso la mutualità; ma nello stesso tempo riconosceva l’esistenza di una possibile funzione sociale anche

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alla cooperativa non mutualistica e non protetta, ma comunque degna di far parte del mondo della cooperazione.

Il lavoro della Commissione e poi il decreto delegato hanno letteralmente spazzato via questo disegno e costruito un modello cooperativo unitario in cui la funzione sociale della cooperativa si esprimeva in ogni caso attraverso il perseguimento da parte della società della mutualità quale causa e scopo del contratto sociale. E dove il diritto alla agevolazione fiscale passava attraverso i caratteri della attività prevalente con i soci.

Le ragioni di questo revirement non sono facili da individuare dipendendo da molti fattori casuali e non la cui individuazione ha scarso rilievo in questa sede. Semmai ciò che rileva è sottolineare il presupposto oggettivo che ha consentito una tale svolta unitaria e, in particolare, l’ancoraggio della funzione sociale di tutta la cooperazione al perseguimento dello scopo mutualistico. Un presupposto che si riconosce nella consapevolezza generale che lo scopo mutualistico così come generalmente inteso dagli interpreti, forse per la prima volta nella storia dell’istituto non rappresentava un ostacolo allo sviluppo economico dell’impresa.

Vediamo perché.

2.4. La mutualità come espressione della funzione sociale della cooperativa: i presupposti economici della svolta.

Alle origini del fenomeno cooperativo nel nostro Paese la mutualità era concepita essenzialmente come un carattere dell’impresa e non come causa del contratto sociale e si esprimeva nel divieto di operare con terzi ossia in una cooperativa di consumo di vendere i prodotti a non soci e in una cooperativa di lavoro di impiegare salariati non soci. E dove era evidente che con un tale divieto la cooperativa appariva penalizzata nei confronti delle altre imprese risultando così compromessa la sua capacità di porsi come strumento di trasformazione degli equilibri socio economici esistenti o più semplicemente come strumento di legittimazione imprenditoriale e, in un certo qual senso, scuola di imprenditoria e avviamento al mercato.

La mutualità così intesa, configurando la cooperativa come una variante del mutuo soccorso, appariva funzionale alle idee di coloro che pensavano a questo istituto in una visuale meramente assistenzialistica, visuale che non era quella maggioritaria delle classi dirigenti del tempo e nel nascente mondo della cooperazione. Si comprende così, prevalendo le idee dei socialisti di cattedra, ossia di coloro che pensavano alla cooperazione come strumento per coinvolgere nuovi ceti alle logiche del mercato, perché nel codice di commercio del 1882 non si faccia cenno nel disciplinare la cooperativa alla mutualità e di questo principio non si parli a livello di leggi generali fino al noto e peraltro evanescente richiamo del codice civile del 1942.

E del resto, va pur detto, anche quando per merito della dottrina e della giurisprudenza, prima timidamente fra le due guerre, poi con più forza e convinzione dopo il varo del codice civile del 1942, viene teorizzato il principio mutualistico come espressione causale dell’attività sociale e se ne individua il contenuto nella c.d. gestione di servizio al socio, una certa qual sua “ostatività” allo sviluppo dell’impresa continua a permanere. E ciò in quanto la gestione di servizio al socio intesa quale prestazione al socio di beni o lavoro alle condizioni migliori possibili dovrebbe realizzarsi nell’opinione degli interpreti nell’ambito di una reciprocità di rapporti socio-cooperativa caratterizzati dall’obbligatorietà della cooperativa a prestare e dall’obbligo per il socio a collaborare e a utilizzare i servizi della cooperativa. E dove di conseguenza la prestazione mutualistica e il relativo vantaggio mutualistico vengono concepiti come un diritto soggettivo del socio.

Si tratta di un modo di concepire la mutualità che pone alla cooperativa rigidi vincoli di comportamento preferenziale con il socio che di fatto rappresentano sul piano della competizione con le altre imprese e, più in generale in termini di sviluppo economico, un grave handicap concorrenziale.

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La prospettiva comincia a mutuare quando, a cavallo degli anni settanta, riprendendosi isolate suggestioni interpretative già presenti prima dell’introduzione del codice civile, si teorizza l’attuazione della gestione di servizio al di fuori di un rapporto di obbligatorietà reciproca socio-società, bensì attraverso un rapporto di scambio ulteriore rispetto al contratto sociale. E dove l’attuazione di tale contratto di scambio rientra nella discrezionalità della società. Una svolta che si perfeziona con il riconoscimento che la attribuzione del vantaggio mutualistico non rappresenta un diritto soggettivo del socio essendo la sua percezione, come per i dividendi nelle società di capitali, devoluta alla libera determinazione dell’assemblea dei soci.

Si tratta di un percorso interpretativo che coinvolge tutte le tipologie di società cooperative e che trova il suo definitivo consolidamento anche a livello legislativo con la legge 142/2001 sul socio lavoratore nelle cooperative di lavoro che appunto specifica come la prestazione lavorativa del socio si svolga nell’ambito di un contratto di lavoro ulteriore rispetto al vincolo sociale.

Siffatto approdo del modo di intendere lo scopo mutualistico, seppure impegni la cooperativa a perseguire nel corso della gestione l’interesse mutualistico del socio, non la obbliga nelle singole congiunture a contrarre con il socio o a preferire sempre e comunque il socio rispetto al terzo, né configura il vantaggio mutualistico come un diritto soggettivo del socio permettendo quindi alla società cooperativa una elasticità operativa per certi versi paragonabile a quella di una ordinaria società lucrativa.

In altri termini lo scopo mutualistico così inteso, a differenza del passato, non è più un ostacolo anticoncorrenziale per le imprese cooperative il che consente che le funzioni sociali sopra ricordate, attribuite nel nostro Paese alla cooperazione e presupponenti una certa qual efficienza imprenditoriale , possano esprimersi anche con il rispetto della mutualità.

La cooperazione cioè potrà essere uno strumento di democratizzazione del mercato introducendo in esso ceti in passato esclusi, potrà essere strumento di legittimazione imprenditoriale e scuola di imprenditoria, potrà più in generale porsi come mezzo di correzione della distribuzione della ricchezza pur perseguendo lo scopo mutualistico.

Ecco dunque spiegati i presupposti oggettivi di una svolta che hanno consentito di considerare la funzione sociale della cooperazione espressa dal perseguimento della causa mutualistica: una svolta che non ha significato un diverso modo di intendere la funzione e il ruolo della cooperazione, ma che è stata consentita da un’evoluzione interpretativa del modo di concepire il perseguimento dello scopo mutualistico.

2.5. Una riforma “in movimento”

A distanza di quattro anni dalla riforma non sembra che il modello immaginato dal legislatore si stia affermando nella sua pienezza e ciò per una serie di ragioni.

Da un lato vi sono le incertezze e lacune del testo varato che hanno favorito, in modo più o meno involontario, il fiorire di interpretazioni a volte lontane dal progetto riformatore. Non solo, ma molte leggi che verosimilmente si dovevano intendere abrogate dalla riforma in quanto ispirate alle precedenti logiche del dualismo di forme fra cooperative agevolate e non (e dove solo le prime potevano intendersi in qualche modo mutualistiche), complice il silenzio del legislatore che non ha voluto esprimersi sul punto, sono state considerate in alcuni casi ancora in parte in vita mortificandosi così non solo le intenzioni innovative del legislatore ma consentendo altresì la rinascita della frammentazione legislativa del precedente regime.

D'altro lato vi è l'obiettiva difficoltà di adattamento di un testo ad una realtà cooperativa sottostante che fatica ad accettare il principio mutualistico. Abituati da oltre centocinquant'anni di omertà legislativa a considerare il ristorno e lo stesso vantaggio mutualistico in senso lato come un fatto volontaristico e non come elemento essenziale, costitutivo della causa mutualistica che si riteneva avverata nel semplice rispetto delle clausole antilucrative dell'art. 26 della Basevi, il

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movimento cooperativo, le organizzazioni di rappresentanza e gli stessi apparati burocratici dello Stato stentano a volte a comprendere lo spirito delle nuove norme.

L'evanescenza normativa del passato e in particolare dello scopo mutualistico erano infatti funzionali al carattere multiforme del fatto cooperativo consentendo non solo di arruolare formalmente sotto le sue insegne fenomeni assolutamente spuri, ma anche di considerare cooperative pienamente mutualistiche società agevolate dallo Stato che, al limite, potevano non dare alcun servizio mutualistico al socio caratterizzandosi unicamente per la limitazione degli utili, l'indivisibilità delle riserve e la devoluzione del patrimonio in caso di scioglimento. Ancora l'evanescenza normativa in tema di mutualità permetteva una più facile coesistenza delle varie componenti ideologiche del movimento consentendo una maggiore elasticità nell'interpretare a proprio modo i principi cooperativi anche in ragione delle caratteristiche tipologiche e dimensionali delle varie esperienze.

Se a tutto ciò si aggiunge la considerazione che la riforma voluta dal governo dell'epoca e predisposta da una commissione da cui erano esclusi le centrali cooperative e gli apparati burocratici dei vari ministeri, ossia i soggetti che fino allora erano stati gli assoluti protagonisti nella formazione delle varie leggi, si comprende come quegli stessi protagonisti, varata la riforma, abbiano, in una sorta di spontanea enténte cordiale, voluto riprendere il loro ruolo e a colpi di circolari, pareri o mancati interventi regolamentari, minare o comunque modificare il disegno riformatore.

Tutto ciò non significa che a distanza di pochi anni si sia già tornati al modello «mutualistico» del passato, ma che una certa «normalizzazione» di alcuni degli aspetti più innovativi della riforma si è comunque realizzata.

Così, in tema di mutualità è prevalsa una concezione tradizionale del fatto mutualistico portata a valorizzare le clausole antispeculative della Basevi trasfuse nell'art. 2514 c.c. piuttosto che dare piena effettività alla gestione di servizio al socio; ancora sempre in tema di mutualità si è pesantemente boicottata la mobilità fra cooperative a mutualità prevalente e non avvalorandosi indirettamente l'idea che la vera cooperativa mutualistica sia solo quella a mutualità prevalente. E in tema di trasformazione si è resa questa opportunità una ipotesi quasi impraticabile.

Si tratta di questioni che toccano i punti più rilevanti e significativi della riforma e che appunto giustificano l'accusa di revisionismo legislativo che di fatto si è imposto nella interpretazione e applicazione della nuova legislazione cooperativa. Il che non può peraltro far dimenticare come altri profili innovativi abbiano «tenuto» e si siano imposti definitivamente nel nostro ordinamento come è, ad esempio, il caso della consacrazione dell'attuazione dello scambio mutualistico attraverso un rapporto contrattuale ulteriore rispetto al vincolo sociale, divenuto modus operativo in tutti i modelli cooperativi, cooperative di abitazione comprese. Ma va anche segnalata l'applicazione nelle cooperative più grandi del metodo delle assemblee separate, accettato generalmente come mezzo per assicurare una sempre maggiore partecipazione del socio.

Non solo, ma va dato atto come lo stesso movimento cooperativo, se pure in qualche caso continui a guardare al passato avvitandosi in logiche abitudinarie di piccolo cabotaggio spesso sostenute dagli apparati burocratici ministeriali in tema di quote (e non di azioni) nelle cooperative s.p.a. o in materia di limiti minimi di partecipazione o ancora con riferimento alla sopravvivenza delle azioni di sovvenzione e di partecipazione cooperativa, per altro verso sappia guardare con attenzione alle opportunità che la riforma delle società di capitali offre anche alle cooperative sia pure attraverso il filtro del principio di compatibilità di cui all'art. 2519 c.c. Ecco allora che anche nel movimento cooperativo si approfitta del favor legislativo nei confronti dei processi di fusione che diventano anche in questo comparto, pur con alcuni nodi irrisolti, sempre più frequenti. E sempre sull'abbrivio riformatore maturano nuove sensibilità verso le problematiche dei gruppi che l'introduzione del gruppo paritetico cooperativo è ben lontano dall'aver risolto, ma che ha contribuito in misura rilevante a far emergere. Per non parlare infine delle nuove sensibilità

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maturate in tema di governance che hanno portato a galla il tema dell'applicabilità anche alle cooperative di maggiori dimensioni dei modelli dualistici.

Insomma siamo in presenza di un quadro in movimento che sta cercando di trovare i suoi assestamenti in ragione delle caratteristiche del fatto cooperativo quanto all'interpretazione, rectius accettazione dei principi mutualistici, ma che nel contempo insegue le opportunità che la riforma delle società di capitali offre avventurandosi in terreni che forse il legislatore non immaginava, ma che possono essere fondamentali per lo sviluppo e competitività della cooperazione nel nostro Paese.

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3. Lavorare nell’impresa sociale: norme e prassi

Di Fiorella Lunardon ∗

3.1 Introduzione

Affrontare il fenomeno delle cooperative dal punto di vista del rapporto di lavoro significa essenzialmente analizzare la legge n. 142 del 2001, che funge da fondamentale spartiacque in materia. Compito del giurista è infatti quello di interpretare le norme tentando di comprenderne, quando non segnarne, il destino applicativo.

L’analisi muoverà da una ricostruzione in chiave storico evolutiva degli orientamenti giurisprudenziali precedenti l’emanazione della legge n. 142 e relativi alla questione principe della qualificazione del socio lavoratore; si sposterà poi sui contenuti della legge ed in particolare sui suoi tratti più innovativi, posti a confronto con la cd. “controriforma” operata dalla legge n. 30/2003. Sarà oggetto di peculiare valutazione il regolamento di cui all’art. 6 della legge n. 142. Si chiuderà infine con la descrizione della disciplina che la legge riserva al rapporto del socio lavoratore, arricchita di qualche considerazione sugli assetti giurisdizionali.

Per ciascuno di questi profili dovrà tenersi conto della prospettiva solidaristica che permea il mondo delle cooperative. Non può dimenticarsi che la solidarietà esclude il conflitto, mentre il rapporto di lavoro lo presuppone. Si tratta di due dimensioni completamente diverse che nelle cooperative devono venire in qualche modo a patti. Il diritto del lavoro nasce e si sviluppa come diritto conflittuale, pur dovendo scontare, oggi, la necessità dei temperamenti imposti dall’istanza di flessibilità.

3.2 Le cooperative di fronte al diritto del lavoro

Il lavoro nelle cooperative è sempre stato considerato, rispetto alla “cittadella” del diritto del lavoro, ai margini. Ciò ha consentito che certe patologiche pratiche, vuoi di evasione, vuoi di elusione della disciplina di tutela, potessero prosperare 1. Il diritto del lavoro, al contrario, persegue una finalità di tutela e si pone per questo come diritto rigido e inderogabile. Solo a partire dagli anni ottanta esso ha cominciato a recuperare sul versante impervio delle cooperative. Perché recuperare? Il socio condivide i suoi interessi con gli altri soci e con la società di cui fa parte; di conseguenza appare difficile che il soggetto che presta la sua attività possa configurarsi come un portatore di interesse estraneo, confliggente. Si dice che il socio fa la cooperativa. Questo essere-fare è un tutt'uno e ha un nome: mutualità.

La mutualità, per lungo tempo, ha consentito sul piano giuridico di escludere la subordinazione del socio lavoratore, sostenendosi che se il socio presta la sua attività non lo fa come oggetto di un

Professore ordinario di Diritto del Lavoro, Università del Piemonte Orientale. 1 Si pensi al divieto di intermediazione di manodopera, applicabile solo se si sconta l’esistenza a monte un rapporto di lavoro

subordinato. Per la sua “inafferrabilità” la società cooperativa ha sempre costituito una zona off limits per il diritto del lavoro. Peraltro, più la cooperativa è piccola, meno è controllabile, come in genere avviene per la piccola impresa. Contro il c.d. lavoro sommerso il legislatore sta tentando da tempo di apprestare soluzioni e strumenti: la situazione è aggravata dal problema della concorrenza tra lavoro non tutelato e lavoro standard, che ha attualmente un costo molto alto. E’ una forma di dumping sociale interno al mercato italiano. Si innesta qui il discorso delle clausole sociali, quelle clausole che cercano di incidere sulle condizioni di mercato, ponendo vincoli alla stipulazione di contratti (ad esempio di appalti) da parte della pubblica amministrazione. La richiesta del Durc (documento di regolarità contributiva) si inserisce in questo contesto. Il mercato privato appare però tuttora, in certa misura, impermeabile rispetto a tali vincoli e spesso, sociologicamente parlando, siffatta impermeabilità è rafforzata da equilibri perversi che si creano spontaneamente, giungendo a coinvolgere gli stessi lavoratori sotto forma di convenienza se non di necessità. Si tratta di sotto circuiti patologici, al limite dell’illiceità.

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contratto di scambio. Nel diritto del lavoro il rapporto nasce invece da un contratto individuale sinallagmatico, cioè a prestazioni corrispettive. Tutti i contratti a prestazioni corrispettive presuppongono la contrapposizione degli interessi, da cui nasce il conflitto. Il conflitto, si ricordi, è riconosciuto a livello costituzionale dall'articolo 40 che prevede il diritto di sciopero. Ma nella realtà della cooperativa, si diceva, non c'è un contratto di scambio, perché la prestazione del socio è semplicemente l'oggetto del conferimento cui il singolo si impegna quando decide di entrare in una compagine sociale. In un contratto di società, che presuppone il perseguimento del medesimo interesse per tutti i soggetti che lo stipulano, il conflitto sarebbe anomalo se non patologico.

Così, fino all'emanazione della legge n. 142 che ha cercato di chiarire i termini della questione, i giudici, quando si trovavano davanti il caso di un socio lavoratore di cooperativa che rivendicava la subordinazione, usavano uno strumento: la presunzione di non subordinazione. La presunzione (presunzione semplice) incide sul piano probatorio, vale a dire sul piano del convincimento logico del giudice e lo obbliga a giungere a determinate conclusioni a meno che la parte interessata non riesca in modo rigoroso a dimostrare il contrario. In questo modo l'onere della prova viene scaricato sul lavoratore, che doveva riuscire a dimostrare che il suo rapporto di lavoro era caratterizzato dalla eterodirezione (che genera il dovere di obbedienza agli ordini del datore), dalla sottoposizione al potere di controllo e disciplinare della cooperativa, che aveva un vincolo di orario, che veniva retribuito a tempo e non a risultato, ecc.

La presunzione è un mezzo giuridico di difendere determinate aree, evitando che con certe pronunce i giudici squarcino realtà che si vogliono proteggere. Nelle cooperative si è sempre cercato di mantenere la flessibilità delle regole per abbattere i costi del lavoro. Non a caso si sostiene che nelle cooperative il lavoro costa meno: è vero, perché il diritto del lavoro che è un diritto di tutele ha bussato alle porte delle cooperative relativamente tardi. E, indubbiamente, non vi entrerà mai a 360 gradi. La stessa legge n. 142 lo dimostra con le sue comprensibili esitazioni sul versante dell’applicazione dell'articolo 18 St. lav. Del resto non può negarsi che la cooperativa è un mondo diverso, ed è bene tutelare la sua specificità: la cooperativa è fatta di soci, non di soggetti l’uno all’altro estranei, come la grande impresa.

Dunque sino all'emanazione della legge n. 142 i giudici utilizzavano la presunzione semplice di non subordinazione, facendo spesso riferimento (questo per lungo tempo) all'oggetto dell'attività. Se l'oggetto della prestazione lavorativa del socio coincideva con l'oggetto sociale della cooperativa, allora non poteva esservi subordinazione. L’esempio classico è quello di un facchino in una cooperativa di facchini, ove la mansione di facchino non viene configurata come oggetto di un'obbligazione dedotta in un contratto di lavoro subordinato, ma come oggetto del contratto di società, vale a dire come oggetto del conferimento attraverso il quale il socio entra a far parte di quella società.

3.3 La legge n. 142/2001 e la questione della subordinazione del socio lavoratore tra duplicità e unicità del rapporto

Già nel 1997 il legislatore ha cominciato a considerare le cooperative quale ambito di possibile intervento, prevedendo in caso di crisi della società l’estensione degli ammortizzatori sociali ai soci dipendenti (art. 24 della legge n. 196/1997). Quattro anni dopo è stata emanata la legge 142, intitolata alla revisione della legislazione in materia cooperativistica con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore.

Come anticipato questa legge intende fare chiarezza. Così dichiara che il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la cooperativa un ulteriore e distinto rapporto di lavoro. In precedenza il rapporto di società incorporava quello di lavoro e lo negava; adesso la legge dice il contrario: se il socio è anche lavoratore vi è una dualità di dimensioni, il socio è socio per una parte, ma è lavoratore per l'altra. Questi due mondi devono continuare a rimanere distinti, per cui il socio come

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socio continuerà a partecipare alle assemblee, contribuirà all’assunzione di delibere, si muoverà in una prospettiva mutualistica, solidaristica, in una parola collaborerà; ma come lavoratore gli si applicherà il diritto del lavoro. Questo dualismo si è spinto così avanti da pensare che al socio lavoratore di cooperativa si possano attribuire diritti di tipo sindacale e si è addirittura sostenuto che anche nel mondo delle cooperative è applicabile l'articolo 28 St. lav. (lo speciale procedimento per la repressione della condotta antisindacale). Nel 2001, insomma, l’impostazione dualistica pareva aver superato del tutto quella monistica che aveva a lungo caratterizzato all’approccio al lavoro in cooperativa.

L’assetto normativo era però destinato a mutare ancora, e segnatamente due anni dopo, nel 2003, a seguito della elaborazione del cosiddetto "Libro bianco " (il cui sottotitolo era "per un ripensamento del diritto del lavoro") ad opera dell'equipe che il prof. Biagi guidava presso il governo. L’intento era quello di mutare il nostro diritto del lavoro, in ossequio ad alcune sollecitazioni provenienti dall'Europa, introducendo alleggerimenti nelle garanzie e aiutando le imprese ad assumere, in una parola spostando l'attenzione dal rapporto al mercato. Si trattava sostanzialmente di considerazioni legate al problema della cd. job creation, che oggi è dominante. Il diritto del lavoro si è sempre concentrato sul lavoratore occupato. Altra cosa, invece, è occuparsi del mercato e cercare di incentivare l'occupazione. Qui si gioca una scommessa fondamentale: è vero che la flessibilità incrementa l'occupazione?

Ad inizio 2003 viene emanata una legge delega, la n. 30, che ha un unico articolo di immediata applicazione, l'articolo 9. Questo articolo ritocca in più punti la legge n. 142 del 2001, considerata in fondo troppo rivoluzionaria, troppo favorevole alle tutele lavoristiche, troppo contraria alla specificità delle cooperative.

Una delle prime proposizioni che vengono toccate è proprio quella della definizione del rapporto di lavoro del socio. La legge, infatti, abroga l'aggettivo distinto. Il risultato è che ora il socio lavoratore stabilisce con la cooperativa, oltre al rapporto associativo, un ulteriore (ma non più distinto) rapporto. Deve pertanto ritenersi che il socio lavoratore di cooperativa partecipi sempre di due dimensioni, una associativa e una lavoristica; la prima dominata dalla mutualità, la seconda dalla prospettiva dello scambio. Queste dimensioni non sono più distinte ma sono connesse, e da questo collegamento deve dedursi tutta una serie di conseguenze e di compromessi. La legge del 2003 risulta così ibrida, dovendosi di volta in volta capire qual è disciplina da applicare; l’interprete è costretto ad affrontare, caso per caso, il problema della compatibilità del diritto del lavoro con il rapporto associativo. Cresce, inevitabilmente, l'incertezza.

Il nodo principale resta quello della subordinazione. I giudici, quando si tratta di qualificare il rapporto di lavoro, hanno a disposizione ed usano una norma del codice civile, l'articolo 2094, anche se poi di fatto ricorrono anche ad altri, più pragmatici, indici. Alla stregua dell'articolo 2094 cod. civ. “il prestatore di lavoro subordinato è colui il quale si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell'impresa prestando la propria opera intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore”. Dalla norma si evince che vi è un elemento essenziale che distingue il lavoratore subordinato da quello non subordinato: è la eterodirezione, ovvero la sottoposizione dell’attività del prestatore a ordini e direttive di natura tecnica (mai naturalmente di tipo personale) provenienti dal datore di lavoro.

Il problema è: come si accerta la sussistenza della eterodirezione? Al giudice si presentano situazioni (ovvero fattispecie concrete) di maggiore o minore difficoltà. Ad esempio, quando il rapporto di lavoro è caratterizzato da marcati contenuti di intellettualità o di autonomia, come nel caso dei dirigenti, gli ordini in cui si estrinseca il potere direttivo del datore saranno ampi, meno minuziosi. Per contro, vi sono rapporti nei quali l’estrinsecazione del potere di controllo o di predeterminazione della prestazione appare stringente pur convivendo con l’assenza di subordinazione (si pensi al contratto di appalto, in cui il committente conserva un suo innegabile potere di ingerenza).

Data la evanescenza del requisito della eterodirezione, i giudici hanno elaborato una serie di

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indici, tratti dalle fattispecie sottoposte a qualificazione (cd. indici pragmatici), che risultano frequentemente utilizzati nei processi di qualificazione. E’ qui opportuno descrivere i più ricorrenti.

Tra questi il primo è il dato dell’inserimento del prestatore di lavoro nell'organizzazione produttiva del datore, in senso sia spaziale geografico, sia funzionale. Un secondo indice, sinonimo della eterodirezione, è la sottoposizione al potere direttivo, tecnico e di controllo del datore. Trattasi di un indice determinante, già da solo in grado di far pesare il giudizio nel senso della subordinazione. Il vincolo di orario non è invece considerato determinante ma è sempre indicativo quando possa essere considerato un'estrinsecazione del potere datoriale. In alcuni casi, infatti, il vincolo di orario può scaturire da mere esigenze organizzative. Nel lavoro subordinato, poi, anche la modalità di corresponsione della retribuzione, a tempo e non a risultato, può giocare un ruolo importante nella qualificazione del rapporto. Anche perché il lavoratore subordinato non ha un obbligo di risultato, ma di mezzi: l’oggetto principale della sua obbligazione è di mettere a disposizione le sue energie lavorative, ecco perché la sua prestazione viene valutata sulla base del tempo lavorato. A tale profilo si aggiunge quello dell'assenza del rischio. Se il lavoratore è subordinato, il rischio della impossibilità sopravvenuta della prestazione, non ricade su di lui ma sul datore di lavoro. Infine, il lavoratore subordinato in genere non ha la proprietà dei mezzi di produzione ma nell’esecuzione della prestazione utilizza i macchinari e le attrezzature del datore.

Se un socio lavoratore vuole dimostrare l'esistenza della subordinazione deve dimostrare l'esistenza di questi indici di fatto, ma non necessariamente di tutti. L'importante è che la dimostrazione sia tale da spingere il giudice a propendere per il riconoscimento della subordinazione. Questo è il metodo tipologico: il lavoro subordinato dev'essere considerato come un “tipo” cui avvicinarsi, non un “modello” da realizzare perfettamente. Ai giudici basta la somiglianza, non l'identità, accertata sulla base di alcuni indici che devono essere così significativi da poter fondare l’attrazione della fattispecie concreta nell’area tipologica coperta dall’art. 2094 cod. civ.

Va altresì segnalato che, date le crescenti difficoltà di qualificazione del rapporto, gli stessi giudici hanno in tempi relativamente recenti assunto tra gli indici, quale criterio sussidiario, quello del nomen iuris eventualmente attribuito al rapporto stesso, ovvero la definizione del rapporto fornita dalle parti al momento della stipulazione del contratto individuale. La giurisprudenza precedentemente tendeva ad ignorare il nomer iuris, sostenendo che va considerata irrilevante l'eventuale volontà delle parti di sottrarre in tutto od in parte alla disciplina di tutela un rapporto il quale presenti sin dall'origine, sul piano cioè della regolamentazione negoziale, o anche successivamente, nei fatti, le caratteristiche della subordinazione.

Con maggiore apertura, specie a partire dalla seconda metà degli anni '80, la Suprema Corte è pervenuta ad affermare che «ai fini della qualificazione non si può prescindere dalla preventiva ricerca della volontà delle parti, giacché il principio secondo cui ai fini della distinzione in questione è necessario aver riguardo all'effettivo contenuto del rapporto stesso indipendentemente dal nomen iuris, non implica che la dichiarazione di volontà di queste in ordine alla fissazione di tale contenuto debba essere stralciata nell'interpretazione del precetto contrattuale: pertanto, quando le parti abbiano dichiarato di volere escludere l'elemento della subordinazione, non è possibile, specie nei casi caratterizzati dalla presenza di elementi compatibili con l'uno e con l'altro tipo di rapporto, pervenire ad una diversa qualificazione se non si dimostra che in concreto il detto elemento della subordinazione si sia di fatto realizzato nello svolgimento del rapporto medesimo» 2.

3.4 Il regolamento sulla tipologia dei rapporti di lavoro come nomen iuris

E’ tempo ora di valutare il particolare istituto introdotto dalla legge del 2001 e destinato ad incidere sulla qualificazione del rapporto di lavoro del socio. E’ il cosiddetto regolamento,

2 Cass., 17 giugno 1988, n. 4150, FI, 1989, I, 2908.

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approvato dall’assemblea ordinaria e depositato entro trenta giorni presso la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio (articolo 6).

Trattasi sostanzialmente di una delibera che ha come contenuto indicazioni di base sulla tipologia dei rapporti di lavoro intrattenuti tra i soci e la cooperativa. La legge, quando parla di rapporto di lavoro, non fa naturalmente solo riferimento al lavoro subordinato, potendosi intrattenere con la cooperativa qualsiasi tipo di rapporto (art. 1, comma terzo: “in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di coordinata non occasionale”).

Ora, le diverse tipologie di rapporto che vengono instaurate tra i soci e la cooperativa devono essere indicate nel regolamento. La legge contiene altresì una fitta serie di specificazioni inerenti il suo contenuto.

Quanto alla forma, il regolamento deve essere redatto per iscritto; possono comunque esserci differenze tra ciò che è scritto e quello che poi viene eseguito (si intende il rapporto di fatto). Ma che valore ha allora il regolamento?

Facciamo un passo indietro per cercare di comprendere la questione della dissimulazione della subordinazione. Tra la subordinazione e l’autonomia si colloca la collaborazione coordinata e continuativa, che dopo il decreto legislativo 276 del 2003 è diventata, nel settore privato, lavoro a "progetto". L'obiettivo del decreto legislativo (artt. 61-69) è di dare trasparenza a tutta quella parte del mercato del lavoro nella quale si collocano le co.co.co., classicamente inquadrabili come rapporto autonomo (cui di conseguenza non sono applicate le garanzie lavoristiche: minimi tariffari contenuti nei contratti collettivi, diritto alle ferie, sospensione in caso di gravidanza infortunio e malattia; disciplina del licenziamento). La fattispecie “lavoro a progetto” ha l'obiettivo di fare emergere le ipotesi di co.co.co. simulate. L'impresa ricorre a questa forma di lavoro perché costa meno. Si tratta, insomma, di una forza lavoro che può essere gestita con maggior flessibilità. Se veramente la co.co.co è autonoma, allora è giusto non applicare le garanzie, perché il lavoro autonomo è regolato diversamente. Ma se la co.co.co serve a nascondere rapporti di lavoro che di fatto sono subordinati, allora è strumentale ad una dissimulazione: un falso, il quale deve essere eliminato per ridare trasparenza al mercato del lavoro. Prima del decreto legislativo di riforma della materia, era necessario per il soggetto che rivendicasse la subordinazione dimostrare che in realtà il rapporto si era svolto in modo diverso rispetto a quello che era stato indicato nel contratto. E’ noto, però, che in genere questi soggetti deboli non hanno intenzione, forza e neanche consistenza economica per rivolgersi a un giudice. Ecco che il "progetto", imposto dal legislatore, costituisce ora il risultato (un'opera, un compito) cui si obbliga il vero collaboratore nello stipulare il contratto: il progetto spiega la presenza del lavoratore in azienda senza il suo inquadramento come lavoratore subordinato. Il lavoro a progetto deve essere comunque a tempo determinato e, come sostiene la giurisprudenza, avere una sua specificità, per distinguersi dall'attività ordinariamente svolta dagli altri lavoratori subordinati dell’impresa. Bisogna prestare, pertanto, molta attenzione a come si elabora il progetto. Il socio di cooperativa può avere un rapporto di lavoro subordinato, autonomo e, come spiegato, anche un lavoro a progetto.

Se la cooperativa intende avvalersi del lavoro a progetto lo deve indicare nel regolamento. Ma che valore ha, a questo punto, il regolamento?

Prima ho accennato al nomen iuris, ossia la definizione che le parti danno al contratto, detta anche volontà cartolare. Questo nomen iuris ha subito una serie di evoluzioni nella considerazione dei giudici: per tutto un lungo periodo esso è stato trascurato. Sul finire degli anni 80, però, il mondo del lavoro si è complicato perché ha dovuto adeguarsi alle innovazioni tecnologiche che diversificavano il sistema e gli strumenti di produzione ed al contempo è venuta meno la centralità della classe operaia industriale. Vi è stata un’imponente terziarizzazione di cui, probabilmente, hanno beneficiato le cooperative stesse, perché il settore dei servizi è diventato molto importante ed ha superato il secondario. Si pensi che il diritto del lavoro è nato ed ha cominciato a svilupparsi proprio per i lavoratori dipendenti della grande impresa, sussunti nella figura social-tipica del lavoratore adulto assunto con contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato. Negli ultimi tre

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decenni tuttavia l’ordinamento lavoristico ha dovuto cominciare ad occuparsi anche delle forme atipiche di lavoro, come il part-time, il lavoro a termine, la somministrazione di manodopera. Essendo cresciute le difficoltà di qualificazione, i giudici hanno cominciato a recuperare, ma solo quando il caso era veramente dubbio (in via residuale), il nomen iuris. A questo punto si è verificata una significativa cesura rispetto al periodo precedente. Cominciando a utilizzare il nomen iuris, i giudici hanno anche cominciato a usare con più cautela le presunzioni.

Ora, il regolamento interno (che come visto deve contenere le indicazioni sulla tipologia dei rapporti di lavoro), cosa è in fondo se non un nomen iuris? Proprio sulla base di questa assimilazione può affermarsi che l’istituto del regolamento nel contesto della legge n. 142/2001 ci dà il senso del cambiamento. Di fronte ad un problema di qualificazione (una fattispecie ambigua), infatti, il giudice non presupporrà più la subordinazione, ma guarderà al regolamento. Come a dire il regolamento ha preso il posto della vecchia presunzione di non subordinazione per i soci di cooperativa.

Certo il giudice non è costretto a seguire il regolamento, dovendo sempre valutare se il rapporto si è svolto con coerenza o meno rispetto a quello che è in esso indicato. Il passo avanti che si è avuto, allora, è che il legislatore ha in qualche modo costretto le cooperative a stendere il regolamento; e non è stato facile. Non solo. Nell'articolo 6 si stabilisce che il regolamento deve contenere i contratti collettivi applicabili, quindi esso fornisce anche un orizzonte di disciplina.

3.5 La disciplina applicabile

Quanto alla disciplina del rapporto, è opportuno distinguere un triplice piano. Il primo è quello su cui opera la previsione generale dell’art. 1, comma terzo, secondo periodo,

alla cui stregua “dall’instaurazione dei predetti rapporti associativi e di lavoro derivano i relativi effetti di natura fiscale e previdenziale e tutti gli altri effetti giuridici rispettivamente previsti dalla presente legge, nonché, in quanto compatibili con la posizione del socio lavoratore, da altre leggi o da qualsiasi altra fonte”. Il disposto si presenta invero già intrinsecamente ambiguo, per l’eterogeneità delle fonti e dei metodi cui rinvia (disposizioni specifiche e disposizioni analogiche). Proprio per questo non appare particolarmente innovativo. I problemi, piuttosto, scaturiscono dal coordinamento tra tale disposizione e le successive, che contengono rinvii ad alcune specifiche norme giuslavoristiche.

In particolare, l’art. 2 distingue tra soci subordinati e “altri soci lavoratori”. Per i primi, dichiara applicabile lo Statuto dei lavoratori (fin qui la norma è scontata), “con

l’esclusione dell’art. 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, il rapporto associativo”. È un bene che la legge sia esplicita sulla inapplicabilità del rimedio della reintegrazione, ed il punto non venga lasciato alla valutazione della incompatibilità di cui al comma terzo dell’articolo precedente, sopra richiamato; ma che senso ha condizionare l’esclusione di tale applicazione al venir meno del rapporto associativo? Qui si innesta la spinosa questione dell’intreccio tra istituto dell’espulsione del socio e istituto del licenziamento 3.

3 Il significato dell’esclusione dell’art. 18 St. lav. è peraltro molto chiaro: si tratta di una deroga importante, che rappresenta il prezzo

del compromesso. L'articolo 18 prevede, infatti, la stabilità del rapporto di lavoro. Nei casi in cui licenziamento illegittimo, se si applica l'articolo 18, il giudice condanna il datore alla reintegrazione del lavoratore nel suo posto di lavoro (si sottintende, cioè che il licenziamento illegittimo non produca effetto sul rapporto: ecco perché si parla di reintegrazione e non di riassunzione) come se il rapporto fosse sempre stato in vita e, contestualmente, al versamento di una somma che viene commisurata a tutte le retribuzioni perse, per effetto del licenziamento, dal giorno del licenziamento fino al giorno dell'effettiva reintegrazione. Tale somma si reputa valga come risarcimento del danno ed in tal modo essa diventa un po' più elastica, consentendosi alle parti di dimostrare che ci sono stati danni ulteriori o danni minori. L’esclusione dell’art. 18 St. lav. quale rimedio all’illegittimo licenziamento del socio di cooperativa segna nettamente la prevalenza del rapporto associativo sul rapporto scambistico. La cooperativa è ancora sovrana sulle decisioni relative all’estromissione dei soci. Da questo punto di vista essa viene assimilata all'impresa minore, non applicandosi comunque l'articolo 18 alle unità produttive con meno di 15 dipendenti ed alle imprese con meno di 60. Quando il licenziamento è illegittimo? Fino al 1966 il licenziamento è libero, così anche le dimissioni; l'unico obbligo era quello di dare il preavviso. Nel 1966 è stata emanata la legge 604 che invece ha previsto, favore dei lavoratori, il principio di giustificatezza

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Per i secondi (gli autonomi o i parasubordinati) la legge prevede invece, questa volta autenticamente innovando, l’applicabilità degli artt. 1 4, 8 5, 14 6 e 15 7 dello Statuto dei lavoratori (ma perché, si è detto, non anche gli artt. 4 e 6? 8), nonché il d. lgs. n. 626 del 1994 ed il d. lgs. n. 494 del 1996 (da intendere, oggi, come d. lgs. n. 81/2008, di tutela della salute e sicurezza del prestatore di lavoro). Questa è la parte propriamente derogatoria della disposizione, rispetto alla norma generale di cui all’articolo precedente, in quanto dichiara applicabile lo Statuto dei lavoratori anche fuori dell’area della subordinazione. Si tratta tuttavia di norme che non contengono riferimenti espliciti alla posizione di disparità delle parti, costituendo piuttosto esplicitazioni di principi generali già esistenti nell’ordinamento, a livello costituzionale (libertà di opinione; rispetto della privacy; libertà di associazione sindacale; principio di non discriminazione).

È necessario dunque non sopravvalutare la valenza innovativa della disposizione, ritenendo che in ordine alla disciplina applicabile la norma di maggior rilievo resti la precedente (il comma terzo dell’art. 1), con il suo ampio rinvio alla legislazione -e contrattazione- già conosciute.

Indubbiamente più significativa, se riguardata dalla stessa angolazione, si presenta la seconda parte della disposizione di cui all’art. 2, che affida ad “accordi collettivi tra le associazioni nazionali del movimento cooperativo e le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative” l’individuazione di forme specifiche di esercizio dei diritti sindacali (che dovrebbero intendersi riferiti anche ai soci lavoratori autonomi), tenuto tuttavia conto, dopo la modifica apportata dall’art. 9 della legge n. 30/2003, della compatibilità di tale esercizio con lo stato di socio lavoratore. In proposito il discorso si intreccia con quello della possibile applicabilità dell’art. 28 dello Statuto nei confronti della cooperativa, cui si è accennato, pur se la norma non è richiamata tra quelle dello Statuto applicabili ai non subordinati.

del licenziamento; per cui oggi il licenziamento è giustificato se c'è un presupposto giustificativo: giusta causa, giustificato motivo soggettivo e giustificato motivo oggettivo. Giusta causa e giustificato motivo soggettivo riguardano rispettivamente inadempimenti gravissimi e gravi del lavoratore; il giustificato motivo oggettivo riguarda l'impresa: se l'impresa, ad esempio, decide di sopprimere un reparto e in quel reparto lavorano tre dipendenti, quei tre dipendenti possono essere licenziati previa valutazione della non pretestuosità del motivo. In che misura queste disposizioni possono essere applicate alla cooperativa? Si è già detto che non opera l'articolo 18 (e la legge tace sull’applicabilità dell’art. 8 della legge n. 604 del 1966: c.d. tutela obbligatoria), però anche in cooperativa se c'è un'estromissione che abbia sapore discriminatorio può ammettersi un intervento del giudice. Fino a che punto vale il rapporto solidaristico ad escludere il controllo esterno? In proposito si esprime in modo altrettanto chiaro l’art. 5, comma secondo, primo periodo, alla cui stregua “il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli articoli 2526 e 2527 del codice civile”. Non pare dubbio che anche sotto il profilo della motivazione del recesso il legislatore abbia optato per la prevalenza del rapporto associativo su quello di lavoro. Ma allora, ci si potrebbe chiedere, che senso avrebbe la preoccupazione dell’esclusione dell’art. 18? Qui il corpus normativo di cui alla legge n. 142 risente della doppia stratificazione, data dalla versione originaria del 2001 e dalla controriforma del 2003. L’esclusione aveva un significato nella versione più aperta della legge, quella in cui realisticamente ci si poteva prospettare l’applicazione delle norme sui licenziamenti anche al socio lavoratore subordinato. Successivamente, essa è rimasta nella lettera del testo dell’art. 2, ma più a fondo la ragione della sua esclusione è stata introiettata nel secondo comma dell’art. 5, ove è detto che il rapporto di lavoro si estingue anche solo con l’esclusione del socio ai sensi della disciplina societaria. 4 Libertà di opinione. I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nei rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge. 5 Divieto di indagini sulle opinioni. E’ fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore.6 Diritto di associazione e di attività sindacale. Il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale è garantito a tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro.7 Atti discriminatori. E’ nullo qualsiasi patto o atto diretto a: a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti e atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulla convinzioni personali. 8 Si tratta delle norme che limitano il potere di controllo del datore di lavoro, con riferimento all’installazione di impianti audiovisivi di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori (art. 4) e all’effettuazione di visite personali di controllo (leggi: ispezioni) sui lavoratori stessi. Entrambe le norme subordinano l’esercizio del potere datoriale al previo raggiungimento di un accordo con le rappresentanza sindacali aziendali o, in difetto, alla supervisione della Direzione provinciale del lavoro.

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Il terzo e ultimo piano è quello della individuazione del trattamento economico del socio lavoratore (art. 3 della legge n. 142). Qui la distinzione tra lavoratori subordinati e autonomi viene sciolta con la previsione dell’obbligo, in capo alla cooperativa, di corrispondere ai subordinati “un trattamento complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine”; ed ai non subordinati, in assenza di contratti o accordi collettivi specifici, “un trattamento non inferiore ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo”.

Senza dubbio, la norma si presenta come fortemente innovativa, dichiarando finalmente l’applicabilità frontale dei principi di cui all’art. 36 Cost. (proporzionalità e sufficienza) al lavoro nelle cooperative, a prescindere in senso stretto dalla subordinazione.

Ma proprio per questo la norma costituisce anche il tramite per l’ingresso, nel mondo delle cooperative, delle molteplici questioni che scaturiscono dall’applicazione di quei principi sul versante del diritto del lavoro e sindacale. Si tratta non solo del problema della compatibilità con l’art. 39 Cost. dell’imposizione di parametri di sufficienza dedotti da una contrattazione collettiva “altrui”; ma anche del problema della individuazione del settore affine o del livello di contrattazione cui fare riferimento (parrebbero esclusi i livelli non nazionali); nonché dell’interpretazione della delicatissima norma (art. 6, comma secondo) che irrigidendo i minimi contrattuali collettivi (nazionali) sanziona con la nullità la clausola di regolamento che contenga, rispetto a quei minimi, disposizioni derogatorie in peius 9.

Discorso a parte, non meno problematico, è infine quello che riguarda i “trattamenti economici ulteriori”, che sono di due tipi: a) le maggiorazioni retributive, derivanti da accordi sindacali (ma quid iuris se si trattasse di superminimi individuali?); b) i ristorni, ora fissati in misura non superiore al 30% dei trattamenti retributivi complessivi.

Senza soffermarsi sulle singole, molteplici, questioni che sorgono in relazione ai due istituti menzionati, va sottolineato che quantomeno per le maggiorazioni retributive dovrebbe riconoscersi valore dispositivo alla norma che le prevede (come si evince dall’impiego del verbo “possono”); così da ritenere che la relativa corresponsione sia possibile anche ad altri titoli e secondo altre modalità (pena il contrasto con gli artt. 39 e 41 Cost.). Per i ristorni, invece, il limite del 30% pare insuperabile, stanti gli effetti ricondotti a questo tetto sul piano fiscale 10.

Un ulteriore profilo problematico concerne l’applicabilità del divieto di dequalificazione di cui all’art. 2103 cod. civ. (art. 13 St. lav.), alla cui stregua il datore può mutare, unilateralmente, le mansioni del prestatore, in orizzontale (a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza diminuzione della retribuzione) o in verticale verso l’alto (a mansione superiore, ciò che fa scattare il diritto alla maggior retribuzione e alla c.d. promozione automatica dopo tre mesi continuativi di adibizione, salvo il caso in cui questa è stata disposta per sostituire il lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto).

3.6 Profili giurisdizionali.

Per quanto riguarda la tutela giurisdizionale della posizione di socio-lavoratore, va richiamato l’art. 5, comma secondo, che nella versione modificata dal più volte citato art. 9 della legge n. 30/2003, stabilisce che le “controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica sono di competenza del giudice ordinario”. Nella versione precedente, la disposizione distingueva

9 Peraltro la norma, prima dell’intervento dell’art. 9 della legge n. 30/2003, stabiliva la sanzione della nullità per le clausole di regolamento che derogassero in peius non solo il trattamento minimo economico ma anche il trattamento normativo previsto dai contratti collettivi di settore. 10 Il massimo del 30% assorbe il vecchio limite del 20% previsto sul piano fiscale come massimo di deducibilità (art. 47, DPR n. 917 del 1986). Al riguardo v. ora l’art. 6, comma secondo, D.l. 15 aprile 2002, n. 63, convertito in legge 15 giugno 2002, n. 112, recante disposizioni per il progressivo adeguamento ai principi comunitari del regime tributario delle società cooperative.

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tra controversie relative ai rapporti di lavoro, rientranti nella competenza del giudice del lavoro, e controversie tra soci e cooperative inerenti al rapporto associativo, rientranti invece nella competenza del giudice ordinario.

Oggi si tratta dunque di determinare cosa significhi esattamente “prestazione mutualistica”. L’interpretazione di questa formula, in sé innegabilmente compromissoria, presenta non poche difficoltà.

Tralasciando la descrizione delle diverse letture proponibili, sembra meritevole di richiamo la sentenza della Corte di Cassazione secondo cui per prestazioni mutualistiche devono intendersi “quelle prestazioni che, per eliminare l’intento speculativo delle società capitalistiche, si traducono in prestazione che la società assicura ai suoi soci in termini più vantaggiosi rispetto ai terzi e che, a seguito della riforma introdotta dal d. lgs. n. 6/2003 (riforma del diritto societario), caratterizzano a vario titolo le suddette società, con una distinzione operata dalla dottrina commercialistica tra cooperative “a mutualità esclusiva” o a “mutualità prevalente” e cooperative diverse” 11.

In conclusione dovrebbero essere attribuite alla competenza del giudice ordinario tutte le controversie riguardanti il rapporto associativo, in particolare quelle che concernono l’obbligo della cooperativa di creare occasioni vantaggiose di lavoro per i soci e di distribuirle tra gli stessi in base alle prescrizioni del regolamento ed in ottemperanza al principio di parità di trattamento.

Ciò che non appartiene alla prestazione mutualistica, vale a dire il rapporto di lavoro, resterebbe affidato al giudice del lavoro con il rito di cui agli artt. 409 ss. cod. proc. civ.

In parziale controtendenza si è espressa la circolare Min. Lav. n. 10/2004, argomentando sulla base della sedes materiae ovvero considerando che il disposto sulla competenza giudiziale segue quello sul recesso ed esclusione del socio, entrambi collocati nel secondo comma dell’art. 5 della legge n. 142. In tale circolare si legge infatti che poiché quella norma prevede “la competenza del giudice ordinario nelle controversie tra socio e cooperativa relativamente alla delibera di accettazione del recesso o di esclusione (…), la competenza di tale giudice attrae gli aspetti del rapporto di lavoro in quanto diretta conseguenza dello scioglimento del vincolo associativo”.

Il quadro risulta ulteriormente complicato dall’art. 40, terzo comma, cod. proc. civ., che nelle ipotesi di connessione fa salva l’applicazione del rito speciale quando una delle cause rientri tra quelle indicate negli artt. 409 e 442 cod. proc. civ. (controversie di lavoro e previdenziali). Rispetto a questa regola, cui secondo la già richiamata sentenza della Cassazione deve riconoscersi carattere generale in ragione del principio della vis attractiva del rito del lavoro, l’art. 5 della legge n. 142 costituirebbe un’eccezione, riservando la prestazione mutualistica al Tribunale ordinario. Da qui la necessità di un’interpretazione di tale precetto nel rigido rispetto della lettera e della ratio sottesa, con impossibilità di estensione alle controversie riguardanti i diritti sostanziali e previdenziali dei lavoratori.

Da ultimo sul punto è intervenuta la Corte Costituzionale, che lasciando irrisolta la questione ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, primo comma, lett. d), l. 14 febbraio 2003, n. 30, nella parte in cui esso sottrae al giudice del lavoro le controversie tra soci e cooperative di lavoro, relative a prestazioni rese dai soci e attinenti all'oggetto sociale, modificando l'art. 5, secondo comma, l. 3 aprile 2001, n. 142 12.

11 Cass. 18 gennaio 2005, n. 850, in Riv. it. dir. lav., 2005, II, pagg. 706 segg. 12 Corte Cost. 28 dicembre 2006 n. 460, ord., Est. Vaccarella, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di IMBERTI, Disciplina processuale per le controversie tra socio lavoratore e cooperativa: la Corte Costituzionale non prende posizione e il problema rimane aperto, pag. 540.

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4. Mercato del lavoro e cooperazione: una lettura di genere

di Laura Accornero∗

4.1 Il mercato del lavoro: la diversa presenza di uomini e donne

La lettura di genere che caratterizza questo capitolo propone un quadro sintetico della diversa partecipazione di uomini e donne al mondo del lavoro e della cooperazione, seguito da una riflessione sul legame tra il lavoro extradomestico femminile e le cooperative. Queste ultime, infatti, possono favorire la presenza delle donne sul mercato del lavoro sia in modo diretto, attraverso l’offerta di occupazioni che sono svolte per lo più dalle donne all’interno delle stesse imprese sociali; sia in modo indiretto, diffondendo una cultura dei servizi che permette alle famiglie di dedicarsi più intensamente alle attività produttive, delegando alle cooperative alcuni compiti di cura.

Nel corso della trattazione si analizzeranno pertanto alcune questioni che ruotano attorno al tema del lavoro femminile: la differente partecipazione di genere al mondo del lavoro e della cooperazione, le conseguenze della mancata partecipazione alla sfera pubblica (della quale l’attività lavorativa extradomestica è parte) e l’incontro tra i bisogni della popolazione e i servizi offerti dalle cooperative, in particolare quelli che attengono alle attività riproduttive.

I dati scelti per illustrare le differenze tra i tassi di occupazione femminili e maschili provengono dalla Rilevazione trimestrale sulle forze lavoro dell’Istat, un’indagine che permette il monitoraggio costante del mercato del lavoro, anche attraverso il confronto temporale e spaziale dei tassi di attività, occupazione e disoccupazione. Per beneficiare di un quadro più completo, che aiuti a riflettere sull’attuale crisi economica, si possono osservare i tassi di occupazione13 dal 1993 a oggi (Tab. 4.1), riportati anche sui grafici successivi, per una rappresentazione più chiara (Figg. 4.1 e 4.2).

Tabella 4.1 - Tasso di occupazione in Italia, popolazione 15-64 anni, per anno di rilevazione anno (media annuale dei quattro trimestri)1993 53,11994 52,21995 51,81996 52,11997 52,31998 52,91999 53,72000 54,82001 55,92002 56,72003* 57,52004 57,52005 57,52006 58,42007 58,72008 58,7

2009** 57,6*dati raccordati.**la media del 2009 si riferisce solo a tre trimestri.Fonte: Rilevazione Istat sulle Forze di Lavoro, serie storiche (elaborazione mia)

Docente a contratto di Metodologia della ricerca sociale, Università del Piemonte Orientale. 13 Il tasso di occupazione è dato dal rapporto tra gli occupati (tra i 15 e i 64 anni) e la corrispondente popolazione di riferimento.

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Figura 4.1 - Andamento del tasso di occupazione annuale medio dal 1993 al 2003

Fonte: Rilevazione Istat sulle Forze di Lavoro, serie storiche (elaborazione mia)

Figura 4.2 - Andamento del tasso di occupazione annuale medio dal 2004 al 2009

*la media del 2009 si riferisce solo a tre trimestri.Fonte: Rilevazione Istat sulle Forze di Lavoro, serie storiche (elaborazione mia)

I due grafici – che sono stati divisi in quanto dal 2004 è cambiata una caratteristica nella rilevazione – mettono in evidenza l’andamento crescente dell’occupazione nel decennio 1993-2003, tendenza che ha ancora caratterizzato il 2006 e il 2007, per poi lasciare il posto a una costante diminuzione.

Per analizzare la diversa partecipazione di uomini e donne al mondo del lavoro, questo elaborato si sofferma sulla situazione dell’Italia e del Piemonte nel secondo trimestre 2009 e 2008 (cfr. Tab. 4.2). Confrontando i dati dell’anno in corso – 2009 – con quelli dell’anno precedente si osserva una diminuzione complessiva dell’occupazione di un punto percentuale (cfr. Tab. 4.1); in particolare (cfr. Tab. 4.2), il calo nei tassi maschili del secondo trimestre è più netto considerando l’intero territorio italiano (1,8 punti percentuali) rispetto al territorio piemontese, dove è inferiore alla media nazionale (1,4%). Invece, la contrazione nell’occupazione femminile presenta un andamento

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opposto: in Italia è relativamente bassa (0,6%) rispetto al trimestre dell’anno precedente ma, considerando esclusivamente le donne piemontesi, il tasso di occupazione subisce una riduzione del 2%. Questo andamento è in linea con le variazioni nell’occupazione femminile, infatti, in una fase di crisi economica come quella attuale, le donne sono i primi attori – laddove presenti – espulsi dal mercato del lavoro. Lo scenario è confermato anche da tassi di disoccupazione femminile maggiori di quelli maschili sia in Italia, sia in Piemonte.

Un discorso a parte va riservato al confronto tra i tassi di disoccupazione piemontesi del 2008 e del 2009: se per gli uomini questo tasso aumenta del 2,4, per le donne cresce solo dell’1,3. Tale segnale apparentemente positivo – la disoccupazione femminile non aumenta tanto quanto quella maschile – potrebbe essere letto in modo opposto e indicare invece la sfiducia delle donne nelle proprie possibilità di collocarsi sul mercato del lavoro: avendo la certezza di non trovare lavoro, le donne potrebbero non cercarlo neppure. Infatti, il tasso di disoccupazione dell’Istat è dato dal rapporto tra le persone in cerca di occupazione e le corrispondenti forze di lavoro; pertanto le “persone in cerca di lavoro” sono definite in conformità a un comportamento intenzionale e attivo, ossia sono i non occupati tra 15 e 74 anni che hanno effettuato almeno un’azione attiva di ricerca di lavoro nei trenta giorni che precedono l’intervista.

In un periodo di crisi economica come quello attuale, la stessa contrazione nella disoccupazione femminile – i cui tassi sono comunque più alti di quelli maschili – se interpretabile come esitazione nel cercare un lavoro potrebbe rappresentare un altro ostacolo per l’aumento del lavoro extradomestico femminile.

Tabella 4.2 - Tassi di attività, occupazione e disoccupazione in Italia e Piemonte2009, 2° trimestre Tasso di attività14

(15-64) in %Tasso di occupazione

(15-64) in %Tassi di disoccupazione

in %Uomini Donne Uomini Donne Uomini Donne

Italia73,8 51,5 69,0 46,9 6,3 8,8

Variazionerispetto a II trim 08 -1,1 -0,6 -1,8 -0,6 0,9 0,1

Piemonte77,7 59,3 73,2 54,7 5,7 7,7

Variazionerispetto a II trim 08 0,5 -1,3 -1,4 -2 2,4 1,3

Fonte: Rilevazione Istat sulle Forze di Lavoro, II trimestre 2009 (elaborazione mia)

Indipendentemente dalla congiuntura economica presente, i tassi di occupazione italiani preoccupano per una caratteristica indipendente dalla crisi, ossia la sproporzione di genere: se il tasso maschile è attorno al 70%, quello femminile non raggiunge neppure il 50% (è il 46,9). Per comprendere la gravità della situazione è utile ricordare che il Consiglio Europeo di Lisbona nel 200015 ha fissato un obiettivo generale per gli Stati dell’Unione: raggiungere un tasso di occupazione globale del 70 % e un tasso di occupazione femminile superiore al 60 % entro il 2010. Come si osserva nella tavola successiva (cfr. Tab. 4.3) tali obiettivi potrebbero essere raggiunti nell’Italia settentrionale, ma rimangono un traguardo distante per le regioni del mezzogiorno, che presentano un tasso di occupazione globale del 45% e femminile del 30%.

14 Il tasso di attività è il rapporto tra le persone appartenenti alle forze di lavoro (15-64) e la corrispondente popolazione di

riferimento. Le forze di lavoro comprendono le persone occupate e quelle in cerca di occupazione (disoccupate).15

Cfr. http://europa.eu/scadplus/glossary/employment_it.htm

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Tabella 4.3 - Tasso di occupazione 15-64 anni per genere e ripartizione geografica, II trimestre 2009Tasso di occupazione (15-64) in % Variazioni in punti % su II trim. 08

Ripartizioni geografiche

Uomini e donne

Uomini Donne Uomini e donne

Uomini Donne

Italia 57,9 69 46,9 -1,2 -1,8 -0,6Nord 66,1 75,1 57 -1,1 -1,4 -0,8

Nord-ovest 65,5 74,7 56,1 -1,1 -1,2 -1,1Nord-est 67 75,5 58,2 -1 -1,6 -0,3Centro 62,5 71,9 53,3 -0,3 -1 0,3

Mezzogiorno 45 59,6 30,7 -2 -2,9 -1,1Fonte: Rilevazione Istat sulle Forze di Lavoro, II trimestre 2009

4.2 Donne e lavoro extradomestico: un ingresso tardivo sul mercato?

A questo punto il lettore probabilmente si starà domandando il motivo della presenza di tassi di occupazione femminile così bassi. Se il presente capitolo rispondesse a questo interrogativo sostenendo che la ragione risiede nel tardivo ingresso delle donne sul mercato del lavoro sarebbe in errore. L’idea che la donna sia un attore che solo da pochi decenni popola il mondo del lavoro è un luogo comune da sfatare (Bravo, Foa, Scaraffia, 2000): le donne hanno normalmente svolto lavori remunerati (o gratuiti) tanto nel mondo contadino, quanto in quello industriale; per di più sono state una risorsa preziosa durante le due guerre mondiali, quando hanno sostituito gli uomini impegnati nel conflitto bellico (Bianco, 1997; Accornero, 2000; Reyneri, 2005). Nonostante questo, le donne sembrano essersi da sempre scontrate con l’idea che il lavoro femminile non sia cruciale quanto quello maschile e con il problema della conciliazione del tempo da dedicare al lavoro e alla famiglia (di origine o di destinazione). Per esempio, numerose attività limitatamente redditizie, svolte dalle donne nell’Ottocento, non erano considerate nei censimenti delle occupazioni: l’affitto di posti letto, la lavandaia, il lavoro di cucito, la spigolatura dopo il raccolto. O ancora, la manodopera femminile ha spesso coinciso con la figura del lavoratore a domicilio che se da un lato percepiva un salario estremamente esiguo, dall’altro aveva la possibilità di conciliare lavoro domestico ed extradomestico (Bock, 2000).

E anche quando le donne hanno svolto la propria attività lavorativa nelle fabbriche, i salari femminili sono stati – almeno nelle prime fasi del lavoro industriale – sistematicamente più bassi di quelli maschili; una differenza interpretata, da una storica di inizio Novecento, sulla base del fatto che l’uomo ricevesse un salario familiare, mentre la donna un salario individuale (ibidem). Quest’ottica, oltre a nuocere alle donne single, considera un dovere femminile le attività materiali relative al lavoro di cura, mentre associa all’uomo la responsabilità economica per il mantenimento della famiglia, così se la donna contribuisce alla riproduzione familiare mediante un intervento diretto, l’uomo vi partecipa in modo indiretto, mettendo a disposizione della famiglia la retribuzione economica derivante dalla propria partecipazione alla sfera pubblica.

Le fasi più mature dell’industrializzazione tuttavia conducono a un cambiamento cruciale nella struttura familiare. Se all’inizio del processo, nonostante l’esiguo valore, il salario derivante dal lavoro femminile è indispensabile per il mantenimento della famiglia – che si presenta quindi come una coppia lavorativa – la situazione muta con l’evolversi dell’industrializzazione, quando le risorse economiche necessarie per il sostentamento della famiglia possono coincidere esclusivamente con quelle derivanti dall’occupazione del marito o del padre. È in quest’ultimo scenario che per la donna, che ha un marito o un compagno, si profila un nuovo corso di azione: la possibilità di svolgere a tempo pieno il ruolo di casalinga, assumendosi – tra gli altri – anche il compito di far ‘rendere il doppio’ lo stesso reddito del marito, attraverso un oculato risparmio (ibidem). Pertanto il sistema della divisione del lavoro tra i generi all’interno della famiglia è stato ampiamente

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influenzato dal capitalismo (Chodorow, 1978) e di conseguenza la figura della casalinga appartiene solo al passato più recente.

Alcuni autori hanno commentato la scelta di dedicarsi esclusivamente al lavoro domestico come una liberazione della donna dalle fatiche richieste dal mercato del lavoro fordista (Berger, Berger, 1983), questa visione non è scorretta, in quanto il lavoro in fabbrica è fisicamente gravoso e presenta orari lunghi e rigidi, tuttavia è solo parziale, la scelta di essere esclusivamente una casalinga può essere interpretata come un vero e proprio tentativo di emancipazione, attraverso il quale la donna decide di non essere sottopagata e sfruttata da un datore di lavoro (Bock, 2000). Questa seconda lettura dell’evento ha il merito di sottolineare come la decisione della donna non sia mossa dal benessere associato al lavoro domestico, ma da un senso di giustizia. In questa interpretazione, la rinuncia al lavoro extradomestico non è un modo per sfuggire lo sforzo fisico, ma per evitare il mancato riconoscimento del proprio lavoro, retribuito in maniera inferiore a quella maschile. Nondimeno occorre aggiungere che, dopo aver liberamente optato per il lavoro domestico a tempo pieno, la donna non incontra più la possibilità di uscire da questa condizione, in quanto le caratteristiche stesse del mercato del lavoro – e qui si sta facendo riferimento alla fase fordista dell’industrializzazione – si adattano a giovani uomini e prevedono l’indispensabile presenza, nella sfera privata, di un soggetto interamente dedito alle attività domestiche (Bianco, 1996).

Infine, non solo la figura della casalinga è una creazione recente, ma è strettamente collegata al settore industriale, in quanto nel mondo contadino i compiti associati al lavoro nei campi sono relativamente interscambiabili tra uomo e donna. Tuttavia, nella famiglia contadina, la capacità biologica della donna di procreare costituisce la separazione principale tra i generi, e il lavoro di riproduzione e cura è riservato alle donne in modo esclusivo (Prokop, 1978).

Questo richiamo storico ha il merito di evidenziare la presenza costante delle donne nel mondo del lavoro e di chiarire che il ruolo della casalinga – considerato come una figura presente in ogni classe sociale e non più un lusso delle famiglie delle classi elevate – è una invenzione moderna, che accompagna le ultime fasi dell’industrializzazione.

4.3 Donne e lavoro domestico: una tipizzazione

Allora da dove nasce l’esigenza di ribadire un fatto storicamente documentato come la presenza delle donne sul mercato del lavoro? Forse la società riconosce principalmente alla donna non tanto il ruolo occupazionale extradomestico, quanto quello di madre e moglie “a tempo pieno”? Sebbene attraverso sfumature diverse connesse al contesto spaziale e temporale considerato, una costante sembra poter essere rintracciata: al di là del lavoro svolto per il mercato, le donne devono direttamente o indirettamente confrontarsi con il ruolo di cura e riproduzione.

Quale meccanismo può rendere l’immagine della donna a tal punto persistente? Una possibile lettura proviene dall’opera di Berger e Lukhmann (1969) per i quali le tipizzazioni – ossia i comportamenti ripetuti che diventano routines, istituzioni o rappresentazioni radicate della e nella realtà sociale – presentano una relativa stabilità proprio per i vantaggi che apportano alla vita quotidiana. Innanzitutto costituiscono un risparmio di tempo ed energie: una volta che una tipizzazione si è diffusa, gli attori non dovranno rimettere in discussione le scelte tra i diversi corsi di azione disponibili, domandandosi qual è il comportamento migliore da tenere; semplicemente, gli attori sociali agiranno attraverso schemi ricorrenti in precedenza sperimentati. Nel caso delle differenze di genere, il lavoro di riproduzione e cura svolto in misura maggiore dalle madri rispetto ai padri si rivela un comportamento ricorrente, che ha avuto successo in passato e che non necessita – se non problematizzato – di una ridefinizione. Come dire, se oggi un uomo e una donna diventano genitori non hanno davanti a sé una tabula rasa di comportamenti possibili tra cui scegliere, ma agiscono secondo modelli ricorrenti che offrono un considerevole risparmio di tempo.

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Secondariamente, il fatto stesso di sapere che altri individui in passato hanno sperimentato con successo alcuni schemi di azione genera un senso di sicurezza negli attori, pertanto i neogenitori dell’esempio precedente non solo sceglieranno come prendersi cura del bambino appena nato basandosi su comportamenti tenuti nel loro contesto di appartenenza, ma così facendo sentiranno in una certa misura di comportarsi in modo corretto.

Dal dopoguerra in poi, accanto alla nascita della figura della casalinga che si occupa esclusivamente di attività inerenti alla cura della casa e della famiglia, si fa largo l’idea che esista una sfera privata di cui si occupa prevalentemente la donna (moglie e madre) e una pubblica di competenza maschile (del marito e padre). Queste due sfere dell’esistenza sono concepite come separate, così come distinti sono gli attori cui competono.

In una siffatta rappresentazione della vita degli individui, che semplifica e sintetizza in modo netto la divisione del lavoro secondo il genere, ogni tentativo di rivedere tale tipizzazione comporta – appunto – uno sforzo notevole, in quanto mira a demolire costruzioni sociali ampiamente accettate.

Il nodo cruciale, che vorrebbe essere messo in rilievo da questa riflessione, non è la necessità di distruggere le tipizzazioni di genere, ma il fatto che una simile attribuzione delle sfere (quella privata alla donna e quella pubblica all’uomo) non sia equa.

Il problema di fondo è che le due sfere non hanno eguali risorse, né pari potere: soltanto la sfera pubblica coincide con la società (Chodorow, 1978) e soltanto chi è appieno inserito nella sfera pubblica può dire a tutti gli effetti di essere un cittadino che gode contestualmente di diritti civili, politici e sociali (Marshall, 1963).

Se alle donne, che siano madri, mogli o single, spetta più frequentemente la cura dei figli o dei familiari più deboli, allora il tempo dedicato alla sfera privata è tempo sottratto a quella pubblica. La diseguaglianza risiede nel fatto che le due sfere – privata e pubblica – ricompensano diversamente la quantità di tempo speso in ognuna e solo quello trascorso nella dimensione pubblica garantisce pieni diritti di cittadinanza. Per esempio, lo stesso reddito da lavoro extradomestico è una risorsa materiale necessaria alla conquista di un’indipendenza economica sia nel presente sia – se si considera il trattamento pensionistico – nel futuro. Senza commentare gli altri vantaggi derivanti dallo svolgere un’occupazione, tra i quali l’arricchimento dell’identità personale e la possibilità di aggiungere relazioni eterogenee al proprio network sociale.

Inoltre, questa visione della società, distinta in due sfere di competenza quasi esclusiva di un solo genere, svantaggia le donne lavoratrici in quanto non solo separa l’attività produttiva da quella riproduttiva, ma ritiene che tali attività sviluppino particolari orientamenti nell’attore che le svolge, al punto tale da rendere gli uomini “più adatti” alla sfera pubblica e le donne a quella privata (Halford, Savage e Witz, 1997). Le lavoratrici potrebbero essere danneggiate da questa tipizzazione nella quale posporrebbero l’impegno (il commitment) organizzativo alla vita privata. Lo stesso corpo femminile sarebbe visto come inaffidabile e non consono all’identità organizzativa, come dire un costante rimando alla dimensione privata, al potere riproduttivo, che rappresenta un continuo superamento dei confini netti e distinti tra le due sfere. Potrebbe essere interessante notare un particolare emerso nella ricerca di Halford e colleghi (ibidem), ossia che un evento privato come quello della genitorialità non è avversato dalle aziende, infatti, nella vita occupazionale del lavoratore maschio tale evento è visto come un’occasione per incrementare l’attaccamento all’azienda, è solo nei confronti della lavoratrice che la situazione si capovolge: l’essere madre rappresenterebbe una soluzione di continuità dell’impegno dedicato all’azienda.

La portata di tali considerazioni potrebbe deporre a favore delle ipotesi di conciliazione delle due sfere, uno scenario ottenibile sia sostenendo un ingresso più consistente delle donne sul mercato del lavoro, sia incoraggiando gli uomini ad addentrarsi nella sfera privata; infatti, come notano Blossfeld e Drobnic (2001), l’entrata delle donne nella sfera pubblica non è stata accompagnata da un ingresso degli uomini nella sfera privata.

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4.4 Come conciliare sfera pubblica e privata?

Gli studi focalizzati sul superamento della dicotomia tra la dimensione pubblica e quella privata affrontano alcune questioni ricorrenti: la doppia presenza femminile, la conciliazione dei tempi e la cultura dei servizi.

Per stabilire una più equilibrata presenza di genere sul mercato del lavoro è necessario considerare una questione con la quale si scontrano in modo esclusivo le donne: la doppia presenza. Tale concetto fu coniato da Laura Balbo (1978) per sottolineare come le donne siano da sempre presenti in più mondi: la famiglia, il mercato del lavoro (e/o la politica). La doppia presenza, essendo strettamente connessa al tempo che le donne possono dedicare a entrambe le sfere, costituisce pertanto un nodo centrale da sciogliere per contrastare i meccanismi di riproduzione delle diseguaglianze di genere; a mio parere, solo il superamento della tipizzazione che situa la presenza femminile in entrambe le sfere getta le premesse per una riduzione delle disparità di genere. Una più agevole circolazione degli attori tra le due sfere può essere ottenuta attraverso la conciliazione dei tempi, accompagnata da una diffusione della cultura dei servizi.

Più precisamente, le politiche di conciliazione dei tempi, che sono un insieme eterogeneo di misure nate per consentire agli attori di farsi carico delle responsabilità familiari e del lavoro per il mercato, perdono di incisività se non sono fruite da uomini e donne. Spesso, infatti, nelle politiche di conciliazione sono presenti due logiche (Saraceno, 2003), la prima disincentiva le donne dal rimanere nel mercato del lavoro formale – specie nel caso di famiglie a basso reddito dove i carichi familiari sono maggiori – mentre solo la seconda promuove anche una ridefinizione della divisione delle responsabilità di cura; come già affermato, il superamento della dicotomia pubblico-privato sarà realizzato se anche gli uomini entreranno massicciamente nella sfera privata e si faranno carico dei compiti di cura.

Pertanto, non è possibile pensare a una ridefinizione nei comportamenti di genere che non sia accompagnata da una ridefinizione culturale, e appunto di cultura dei servizi ha parlato Balbo nel 1986 per descrivere la domanda e l’offerta di servizi nelle funzioni di riproduzione e cura. Tale concetto non inerisce solo alla presenza capillare di servizi pubblici, strutture e leggi che assistano la famiglia nel lavoro di cura e riproduzione, ma è anche un nuovo modo di rappresentare le competenze genitoriali: da “doveri” femminili a “compiti” familiari. Per questo sarebbe importante riflettere sul grado in cui la cultura dei servizi abbia realizzato non solo il trasferimento di alcune funzioni riproduttive dalle famiglie allo Stato, ma abbia diffuso un’immagine non obbligata del ruolo riproduttivo per la donna.

4.5 La cultura dei servizi e le cooperative

Alla luce delle considerazioni sin qui elaborate, potrebbe essere utile introdurre la riflessione sulle attività delle cooperative all’interno della prospettiva della cultura dei servizi, in particolare domandandosi quali prestazioni di cura e assistenza occorrano alla popolazione piemontese, quali servizi siano offerti dalle cooperative dello stesso territorio, in che numero tali imprese sociali siano presenti in Piemonte e di conseguenza quanto appaia diffusa la cultura dei servizi.

Disporre di dati sulla struttura della popolazione piemontese per classi di età (cfr. Tab. 4.4) può essere un primo passo per ipotizzare i bisogni delle diverse coorti e quindi gli eventuali servizi necessari sul territorio (cfr. Bulsei, 2006).

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Tabella 4.4 - Popolazione residente al 1 Gennaio 2008, valori assoluti per provinciaEtà Piemonte AL AT BI CN NO TO VCO VC0-4 190.061 16.315 9.223 7.313 26.297 16.432 101.029 6.476 6.9765-9 185.218 15.842 9.183 7.492 26.556 15.729 96.917 6.570 6.92910-14 179.083 15.945 8.765 7.477 26.129 15.020 92.276 6.567 6.90415-24 380.159 33.955 18.404 15.429 54.597 32.027 197.518 13.381 14.84825-44 1.279.681 120.421 61.142 51.954 166.510 109.74

1673.467 47.147 49.299

45-64 1.188.827 120.082 58.712 51.263 151.445 96.110 618.240 44.602 48.37365-79 730.326 79.222 36.822 33.296 92.871 55.961 373.292 27.411 31.451oltre 80 267.911 34.109 15.830 13.267 36.108 20.884 124.947 10.179 12.587totale 4.401.266 435.891 218.081 187.491 580.513 361.90

42.277.68

6162.33

3177.367

Fonte Istat (elaborazione mia)

Concentrandosi in particolare sugli aspetti legati all’assistenza e alla cura di cui necessitano alcune fasce di età (cfr. Tab. 4.5), può essere rilevata l’elevata presenza di anziani in provincia di Alessandria – che con il 26% di popolazione ultra-sessantacinquenne si caratterizza come il territorio con la maggiore quota di anziani del Piemonte – e l’alta percentuale di bambini tra 0 e 4 anni nel cuneese. Tale distribuzione della popolazione potrebbe legarsi a un bisogno più marcato di servizi per la terza età nell’alessandrino, soprattutto considerando la più elevata presenza di persone con più di 80 anni; e di servizi per la prima infanzia nella provincia di Cuneo.

Tabella 4.5 - Popolazione residente al 1 Gennaio 2008, valori percentuali per provinciaEtà Piemonte AL AT BI CN NO TO VCO VC0-4 4,3 3,7 4,2 3,9 4,5 4,5 4,4 4,0 3,95-9 4,2 3,6 4,2 4,0 4,6 4,3 4,3 4,0 3,910-14 4,1 3,7 4,0 4,0 4,5 4,2 4,1 4,0 3,915-24 8,6 7,8 8,4 8,2 9,4 8,8 8,7 8,2 8,425-44 29,1 27,6 28,0 27,7 28,7 30,3 29,6 29,0 27,845-64 27,0 27,5 26,9 27,3 26,1 26,6 27,1 27,5 27,365-79 16,6 18,2 16,9 17,8 16,0 15,5 16,4 16,9 17,7oltre 80 6,1 7,8 7,3 7,1 6,2 5,8 5,5 6,3 7,1totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Fonte Istat (elaborazione mia)

I settori di attività in cui le cooperative di tipo “A” e “B” operano prevalentemente sembrano in linea con i bisogni della popolazione, infatti si osserva che più della metà delle cooperative alessandrine (54%) si dedica all’assistenza sociale, mentre nessun’altra provincia piemontese presenta una concentrazione così marcata in questo settore (cfr. Tab. 4.6).

Sulla stessa linea, analizzando il numero di utenti delle cooperative di tipo “A”, classificati sulla base del problema o del bisogno per il quale si rivolgono all’impresa sociale (cfr. Tab. 4.7), nella provincia di Alessandria si incontrano le percentuali più elevate dell’intera regione sia per gli utenti anziani autosufficienti (33%), sia per quelli non autosufficienti (55%). Nella provincia di Cuneo si nota invece il maggior numero di utenti di minore età, e anche in questo caso tale dato è in linea con le caratteristiche della popolazione.

38

Tabella 4.6. - Cooperative sociali per settore di attività prevalente e provincia, anno 2005PROVINCE Ricreazion

eIstruzione Sanità Assistenza

socialeSviluppo

economico e coesio

ne sociale

*

Promozione della

cooperazione**

Altro Totale

Torino 9,4 6,4 6,9 35,1 35,6 6,4 100,0Vercelli 10,5 10,5 31,6 42,1 5,3 100,0Novara 9,4 6,3 12,5 25,0 46,9 100,0Cuneo 8,8 5,0 2,5 28,8 50,0 5,0 100,0Asti 10,5 5,3 47,4 26,3 10,5 100,0

Alessandria 6,5 6,5 54,3 28,3 4,3 100,0Biella 3,6 14,3 42,9 32,1 7,1 100,0VCO 5,3 36,8 52,6 5,3 100,0

Piemonte (V.A.) 34 26 27 161 172 25 445% Piemonte rispetto a Italia

7,3 2,9 6,9 6,3 6,3 8,8 0,0 6,0

ITALIA (V.A.) 463 912 392 2.570 2.734 284 8 7.363*Il settore è stato assegnato per convenzione alle cooperative di tipo B e a quelle a oggetto misto.**Il settore è stato assegnato per convenzione ai consorzi.Fonte: Terza rilevazione Istat delle cooperative sociali

Tabella 4.7 - Utenti delle cooperative sociali di tipo A per tipologia e provincia, anno 2005PROVINCE Utenti

senza specifici disagi

Alco-listi

Anziani autosufficienti

Anziani non autosufficienti

Detenuti ed ex

detenuti

Disabili fisici,

psichici e sensoriali

Disoccupati

Torino(% su tot utenti To)

10,9 0,2 7,4 3,3 0,0 7,5 0,6

Vercelli(% su tot utenti Vc)

0,9 0,0 16,1 6,0 0,0 3,1 0,0

Novara(% su tot utenti No)

58,2 0,0 3,6 6,2 0,0 1,0 0,0

Cuneo(% su tot utenti Cn)

4,0 0,2 13,5 6,7 0,2 5,8 0,2

Asti(% su tot utenti At)

20,3 0,0 31,3 23,5 0,4 8,3 0,0

Alessandria(% su tot utenti Al)

0,3 0,0 32,6 55,2 0,0 0,8 0,0

Biella(% su tot utenti Bi)

2,1 0,4 21,1 13,2 0,6 8,2 1,2

VCO(% su tot utenti

VCO)0,3 0,0 1,2 2,3 0,0 1,2 59,7

Piemonteval. assoluti

26.577 285 115.253 180.228 111 12.921 10.022

ITALIAval. assoluti

885.077 4.722 343.636 376.344 7.016 121.281 63.931

39

segue

Immigrati Malati e traumatizzati

Malati terminali

Minori Pazienti psichiatrici

Senza tetto, senza

dimora

Tossicodipen-denti

Persone con altro

tipo di disagio

Totale(100,0)

TO 28,8 0,1 0,1 31,9 1,7 6,5 0,9 0,0 113.082VC 0,9 0,0 0,9 71,0 1,0 0,0 0,0 0,0 2.358NO 0,3 3,9 0,1 18,4 0,0 0,0 0,0 8,3 21.134CN 0,4 4,5 0,5 62,2 1,0 0,2 0,5 0,1 13.073AT 0,0 0,0 0,0 10,2 1,6 0,0 4,4 0,0 854AL 0,0 0,0 0,0 11,0 0,1 0,0 0,0 0,0 312.599BI 25,6 2,5 0,1 17,2 6,6 0,0 0,3 0,8 8.425

VCO 15,1 0,0 0,1 10,8 0,6 0,0 0,0 8,7 15.184P 37.193 1.787 223 87.413 2.963 7.404 1.130 3.199 486.709I 208.963 171.413 15.548 948.29

226.425 24.684 18.567 86.652 3.302.551

Fonte: Terza rilevazione Istat delle cooperative sociali (elaborazione mia)

Sebbene la possibilità di giungere ad affermazioni definitive sull’effettivo incontro tra i bisogni sociali del territorio e i servizi offerti dalle cooperative richieda analisi più accurate, a un primo sguardo superficiale sembrerebbe esistere una certa coerenza tra domanda e offerta di servizi sul territorio locale. Ci si aspetta pertanto che le cooperative integrino, in una certa misura, il lavoro di cura delle famiglie attraverso alcune attività tra le quali, per esempio, gli asili nido e l’assistenza domiciliare.

Tuttavia un’altra caratteristica per realizzare la cultura dei servizi risiede nella presenza capillare di questi sul territorio. Nei grafici seguenti (cfr. Figure 4.3 e 4.4) si nota un aumento del numero di cooperative sull’intero territorio nazionale non accompagnato, però, da un incremento di quelle piemontesi: in questa regione le cooperative dapprima diminuiscono, passando dalle 434 del 2001 alle 407 del 2003, per poi tornare nel 2005 attorno al valore di partenza, ossia 445.

Figura 4.3 - Numero delle cooperative in Italia e in Piemonte nel 2001, 2003 e 2005

5.5156.159

7.363

434 407 445-

1.000

2.000

3.000

4.000

5.000

6.000

7.000

8.000

2001 2003 2005

ITALIA

Piemonte

Fonte: Rilevazioni Istat delle cooperative sociali (elaborazione mia)

40

Figura 4.4 - Numero delle cooperative presenti sul territorio italiano e piemontese (fatto 100 il valore iniziale del 2001) nel 2003 e 2005

-

20

40

60

80

100

120

140

160

2001 2003 2005

ITALIA

Piemonte

Fonte: Rilevazioni Istat delle cooperative sociali (elaborazione mia)

Come mostrano sia la tavola seguente (cfr. Tab. 4.8) sia il grafico (cfr. Fig. 4.5), la complessiva diminuzione in Piemonte si osserva perfino analizzando il numero di cooperative ogni 100.000 abitanti. Se si escludono le province di Alessandria, Cuneo e Biella, dove i valori del 2005 sono superiori a quelli del 2001, nel complesso la situazione non si presenta positiva: una diffusione non capillare sul territorio potrebbe accrescere le difficoltà delle famiglie che desiderano ricorrere a servizi di cura e assistenza esterni al nucleo stesso.

Tabella 4.8 - Cooperative ogni 100.000 abitanti per province piemontesi nel 2001, 2003 e 2005PROVINCE 2001 2003 2005

Numero Cooperative ogni

100.000 abitanti

Numero Cooperative ogni

100.000 abitanti

Numero Cooperative ogni

100.000 abitanti

Torino 212 9,8 193 8,8 202 9,0Vercelli 19 10,7 21 11,9 19 10,7Novara 33 9,6 31 8,8 32 9,0Cuneo 73 13,1 69 12,2 80 14,0Asti 21 10,1 19 9,0 19 8,9Alessandria 33 7,9 35 8,3 46 10,7Biella 18 9,6 20 10,6 28 14,9Verbano-Cusio-Ossola

25 15,7 19 11,8 19 11,8

Piemonte 434 10,3 407 9,5 445 10,2Fonte: Rilevazioni Istat delle cooperative sociali (elaborazione mia)

41

Figura 4.5 - Cooperative ogni 100.000 abitanti per province piemontesi nel 2001, 2003 e 2005

Fonte: Rilevazioni Istat delle cooperative sociali (elaborazione mia)

L’ultima peculiarità della cultura dei servizi, su cui si riflette in questo elaborato, risiede non solo nell’effettivo trasferimento di alcune funzioni riproduttive a soggetti esterni alla famiglia, ma nella possibilità di realizzare, accanto a questo trasferimento, una trasformazione nelle tipizzazioni o nelle rappresentazioni sociali del lavoro di cura. Sebbene non si disponga di dati adatti al controllo di questa ipotesi, è comunque importante provare a ragionare sul contributo apportato dalla cultura dei servizi alla diffusione di un’immagine delle attività di assistenza e cura slegata dalla figura femminile.

Il fatto stesso che la presenza delle donne in cooperativa sia così marcata ha in sé il vantaggio di mostrare un settore del mercato del lavoro in cui le donne hanno conosciuto un ingresso massiccio, accompagnato tuttavia dallo svantaggio di associare alla donna – anche nella sfera pubblica – il ruolo di riproduzione e cura che svolge con più frequenza nella sfera privata.

Soffermandosi dapprima sui vantaggi di questa situazione, si può affermare che nel mondo della cooperazione lo squilibrio tra i generi si capovolge: il numero delle lavoratrici donne è maggiore di quello degli uomini. L’Indagine Istat sulle cooperative sociali mostra che in Italia il 73,6% dei dipendenti delle cooperative sono donne, mentre solo il 26,4% dei dipendenti sono uomini; e in Piemonte la proporzione è simile: 74,9% di donne, 25,1% di uomini.

La cooperazione offre pertanto alle donne la possibilità di svolgere sul mercato del lavoro le attività di riproduzione, cura e assistenza ai soggetti più deboli che tradizionalmente svolgono nella sfera privata. Il vantaggio principale per la donna risiede nella possibilità di ottenere un reddito e poter essere presente nella sfera pubblica attraverso un ruolo formale. Questa promettente situazione lavorativa per le donne incontra un limite non appena si osservano altri dettagli nelle caratteristiche del lavoro in cooperativa. Almeno per quanto attiene al territorio italiano (cfr. Tab. 4.9), le donne sono i dipendenti che con più frequenza fruiscono di contratti part-time nello svolgimento del lavoro dipendente; in Piemonte la sproporzione permane ma è meno marcata (cfr. Tab. 4.10). Il contratto part-time pertanto dimezza il reddito percepito e probabilmente àncora più saldamente la donna alla doppia presenza sopra discussa.

42

Tabella 4.9 - Tipo di contratto di lavoro per genere, ItaliaITALIA Donne Uomini TotaleDipendenti a tempo pieno 46,8 57,2 49,6Dipendenti part-time 40,1 28,3 37,0Collaboratori e lavoratori interinali 13,1 14,5 13,5Totale 100,0

(179.836)100,0

(64.387)100,0

(244.223)Fonte: Terza rilevazione Istat delle cooperative sociali, 2005 (elaborazione mia)

Tabella 4.10 - Tipo di contratto di lavoro per genere, PiemontePIEMONTE Donne Uomini TotaleDipendenti a tempo pieno 64,4 67,7 65,2 Dipendenti part-time 28,5 24,6 27,6 Collaboratori e lavoratori interinali 7,0 7,7 7,2 Totale 100,0

(18.316)100,0

(6.160)100,0

(24.476)Fonte: Terza rilevazione Istat delle cooperative sociali, 2005 (elaborazione mia)

Per comprendere, infine, se la maggior presenza femminile nel settore dei servizi possa costituire un effettivo vantaggio, si è scelto di analizzare le categorie occupazionali per genere. Nei paesi scandinavi, infatti, la diffusa presenza femminile nel terzo settore rappresenta una possibilità per la donna di procedere nella carriera, sebbene in un ambiente in un certo senso protetto, ossia liberato dalla competizione con gli uomini (Bianco, 1996). I dati, disaggregati per categoria occupazionale, sono disponibili solo per l’intero territorio italiano e sono pubblicati nel rapporto Istat sulle cooperative (2005, p. 31), di cui si estrae e riporta il relativo grafico (cfr. Fig. 4.6).

43

Figura 4.6 - Rapporto Istat sulle cooperative, dipendenti per categoria e genere nel 2005

FONTE: ISTAT, Le cooperative sociali in Italia, 2005

Il grafico Istat distingue la percentuale di donne e uomini sul totale di dipendenti appartenenti a ogni categoria, evidenziando una percentuale maggiore di donne anche nei livelli più elevati come quello dei dirigenti e dei professionisti, ma, poiché le donne sono la maggioranza dei dipendenti delle cooperative, ogni categoria presenta all’interno una quota più elevata di donne. Invece, se si confronta la presenza maschile e femminile riportando a 100 il totale dei dipendenti uomini e donne, al fine di confrontare la presenza di genere in proporzione, la situazione non si mostra equilibrata (cfr. Tab. 4.11).

Tabella 4.11 - Personale retribuito per categoria e genere, ItaliaCategoria Donne Uomini Totaledirigenti e professionisti16 3,3 6,8 4,2operatori e tecnici17 73,0 58,0 69amministrativi18 5,8 6,1 5,9altro19 17,9 29,2 20,9Totale (244.223) 100,0 100,0 100,0

Fonte: Istat 2005, (elaborazione mia)

16 Dirigenti e professionisti: medici, psicologi, avvocati, ingegneri, commercialisti, veterinari.17 Operatori e tecnici: animatori, assistenti domiciliari, infermieri, fisioterapisti, educatori, informatici.18 Amministrativi: ragionieri, impiegati.19 Altro: artigiani, operai, agricoltori, portantini, autisti, addetti alle pulizie.

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La Tabella 4.11 mostra che, anche all’interno di un mondo prettamente femminilizzato come quello della cooperazione, le posizioni apicali sono occupate da uomini. Purtroppo non si dispone delle informazioni sufficienti per entrare diffusamente nella questione, per parlare di diseguaglianze i dati andrebbero distinti almeno per titolo di studio dei soggetti; ci si limita perciò a notare che nelle cooperative italiane, in proporzione, i dirigenti uomini sono il doppio dei dirigenti donna. Questa differenza è inquadrabile all’interno del discorso sin qui sviluppato: sinché le donne saranno gli unici attori a scontrarsi con il problema della doppia presenza e della conciliazione, la quota di tempo speso nella sfera pubblica risulterà sempre inferiore a quella degli uomini e non permetterà alle donne di investire nella carriera professionale.

4.6 Riflessioni conclusive

I frequenti rimandi alla scarsa presenza femminile nella sfera pubblica qui menzionati non sono in nessun modo indirizzati a denigrare l’insostituibile ruolo di cura e riproduzione della donna nella sfera privata – un ruolo di cui beneficia anche lo Stato che in tal modo può destinare alle politiche pubbliche risorse inferiori – ma si propongono di mettere ogni attore sociale a conoscenza del fatto che la sfera pubblica e quella privata offrono risorse differenti. La scelta tra lavoro domestico ed extradomestico, così come la quota di tempo da dedicare al primo e al secondo, rientra nella più completa libertà di decisione individuale, libertà che sarebbe però viziata se non si conoscessero le diverse ricompense collegate ai due tipi di lavoro.

La realizzazione di una “perfetta” conciliazione, che permetta agli uomini e alle donne di spendere pari quote di tempo nella sfera pubblica e in quella privata, è un obiettivo verso il quale dirigere non solo le azioni pubbliche, ma anche quelle private. Se le tipizzazioni non sono altro che interazioni ripetute, comportamenti connessi al genere messi in atto dagli stessi attori, allora rappresentano modi di agire che possono essere cambiati. Solo una ridefinizione nelle rappresentazioni del lavoro di produzione e di riproduzione potrà pertanto promuovere una piena parità tra i generi.

45

5. Cooperazione e welfare locale: verso un mercato sociale dei servizi

di Gian-Luigi Bulsei∗ e Noemi Podestà∗

5.1Le relazioni tra istituzioni di welfare e terzo settore

Le organizzazioni cooperative hanno assunto in anni recenti un ruolo sempre più rilevante nella produzione di welfare, a causa della tendenza delle amministrazioni pubbliche, soprattutto locali, ad affidare all’esterno la gestione di servizi socio-assistenziali (esternalizzazione). Le ragioni di tale fenomeno sono molteplici: dalla necessità di attrarre nuove risorse a quella di ridurre i costi; dall’aumento di efficienza alla promozione di maggiore partecipazione dei beneficiari; dall’incremento e diversificazione della domanda di servizi alla necessità di elevare la qualità delle prestazioni (Bulsei 2006, cap. 1).

Oggi la cooperazione gode di un’attenzione diffusa sia da parte degli studiosi sia dei legislatori. Esiste una letteratura che ne approfondisce gli aspetti economici, sociologici ed organizzativi (Borzaga e Zandonai 2009; Centro Studi CGM, 2005) ed un impianto normativo in continua evoluzione che ne disegna i possibili sviluppi (Av.Vv. 2006; Borzaga in Bruni e Zamagni 2009). In particolare, due processi concorrono a strutturare l’insieme delle cooperative sociali come attore omogeneo: da un lato una progressiva “autonomizzazione” dalle altre organizzazioni di terzo settore (sul quale si è innescato un percorso legislativo sfociato nella legge delega sull’impresa sociale del 2005); dall’altro, come si è detto, la conferma di un ruolo ormai stabile nelle politiche di welfare locale. In termini generali, l’effettivo ruolo delle organizzazioni nonprofit nel campo delle politiche sociali varia in funzione di due principali fattori (Bulsei 2008c, cap. 2; Ascoli e Ranci 2003):

a) l’estensione della responsabilità pubblica nella fornitura di servizi;b) la dipendenza dello Stato dal concorso di fornitori privati per l'attuazione delle proprie

politiche.Una forte e diretta responsabilità degli apparati pubblici nel garantire un’efficace copertura dei

bisogni della popolazione determina infatti sia un ingente flusso finanziario verso il settore privato sia un alto grado di regolazione e di controllo su di esso. Inoltre, quanto più elevata è la dipendenza dello Stato dai servizi forniti da enti del terzo settore, tanto maggiore sarà il sostegno che complessivamente essi riceveranno dalle istituzioni pubbliche. Tali elementi consentono di individuare quattro possibili modelli di relazione tra stato e terzo settore, schematicamente illustrati nella tabella 1 (Ranci 1999, cap. 8):

• collaborativi• a dominanza pubblica• duale• a dominanza privata.Nel modello collaborativo, che risulta prevalente nel campo delle politiche sanitarie, lo Stato si

assume la piena responsabilità di fornire una copertura su base universalistica, per cui i servizi di interesse pubblico erogati dalle organizzazioni private sono riconosciuti come parte integrante del sistema complessivo di offerta e, per tale ragione, il settore nonprofit riceve cospicui finanziamenti.

Il modello cosiddetto a dominanza pubblica prevede che sia lo Stato ad impegnarsi nella realizzazione di un sistema articolato ed omogeneo di servizi e riserva pertanto un ruolo marginale ai fornitori nonprofit, che pur dovendo sottostare a forme di controllo pubblico non beneficiano di finanziamenti particolarmente generosi: è stato questo, almeno finora, il caso dell’istruzione.

Professore aggregato di Sociologia dell’organizzazione, Università del Piemonte Orientale. ∗ Docente a contratto di Analisi delle politiche pubbliche, Università del Piemonte Orientale.

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Nel modello duale sia lo Stato sia le organizzazioni del terzo settore sono impegnati nell’offerta di servizi, ma ognuno nella propria sfera di competenza: è la modalità prevalente nel campo dei servizi sociali, caratterizzato da una rilevante presenza di cooperative e da stabili ed intense relazioni tra fornitori privati ed amministrazioni pubbliche.

Il modello a dominanza privata, caratterizzato da una limitata responsabilità delle istituzioni pubbliche e da una sostanziale indipendenza dello Stato dai servizi forniti dal nonprofit, riconosce alle organizzazioni del terzo settore una notevole autonomia: è il caso di campi specifici quali l'ambiente, la cultura e lo sport, anche se si delineano in tali ambiti nuove tendenze di partnership pubblico–privato (si veda ad esempio la realtà delle imprese sociali “verdi” descritta nel primo capitolo).

Tabella 5.1 - Modelli di relazione tra Stato e terzo settore

Estensione della responsabilitàPubblica

Dipendenza dello statodai fornitori Privati

Ampia Parziale

Forte Collaborativo(sanità, formazioneprofessionale)

Duale(servizi sociali)

Debole A dominanza pubblica(istruzione)

a dominanza privata (ambiente)

Fonte: Bulsei 2008c, p. 58 (adattata da Ranci 1999, p. 229)

I differenti rapporti tra istituzioni pubbliche e terzo settore configurano tre diversi modelli di welfare mix: il modello plurale, quello sussidiario e quello a dominanza pubblica (tabella 5.2). Nel primo caso, lo Stato svolge il ruolo di regolatore del “mercato sociale”(cfr. più avanti), al fine di assicurare sia la libera concorrenza tra i fornitori sia il carattere non lucrativo e l’indipendenza politica del terzo settore: l’aspetto problematico è rappresentato dalla necessità di conciliare l'autonomia del privato sociale con il sostegno al suo sviluppo. Il modello sussidiario si fonda sulla cooperazione tra terzo settore ed istituzioni pubbliche: le organizzazioni nonprofit sviluppano una forte dipendenza dallo Stato sia dal punto di vista economico sia da quello politico–amministrativo, tendendo progressivamente ad assumersi la responsabilità pubblica dei servizi forniti; la criticità in tal caso risiede nel fatto che alla elevata dipendenza finanziaria del terzo settore tende a non corrispondere un ruolo “alto” di regolazione e programmazione pubblica. Infine, secondo il modello a dominanza pubblica, le amministrazioni, in quanto responsabili finali delle risposte ai bisogni dei cittadini, provvedono a sostenere il privato sociale affinché sia in grado di fornire servizi più efficienti ed efficaci; tuttavia, il sostegno economico si accompagna a meccanismi di controllo per rendere le organizzazioni nonprofit funzionalmente compatibili (e subordinate) rispetto all'azione pubblica.

47

Tabella 5.2 - Modelli e ruoli nel welfare mixModelli diwelfare mix

Ruolo dello Stato Ruolo del Terzo Settore

Plurale Regolazione Indipendenza politica

Sussidiario Cooperazione Dipendenza economica e politica

DominanzaPubblica

Sostegno finanziario Controllo diretto e funzionale dello Stato

Fonte: Bulsei 2008c, p. 59

Ognuno dei tre modelli si fonda su una diversa concezione di regolazione politico–amministrativa. Per il modello plurale lo Stato assume il ruolo di garante della libera concorrenza tra fornitori di servizi; quello sussidiario affida alla regolazione pubblica una funzione prevalentemente distributiva, attraverso il sostegno finanziario alle organizzazioni nonprofit; il modello a dominanza pubblica, infine, prevede che le amministrazioni siano in grado di esercitare un controllo diretto sull’attività del terzo settore.

5.2Gli strumenti di policy: programmazione, autorizzazione, accreditamento

La legge nazionale di riforma dei servizi sociali (Legge 328/2000) riconosce formalmente alle organizzazioni del terzo settore il ruolo di soggetti attivi della rete integrata di interventi e servizi sociali (art. 5). Il modello di programmazione partecipata introdotto dalla riforma individua in tali organizzazioni i soggetti titolati a concorrere alle scelte pubbliche in materia sociale oltre che alla produzione dei servizi alla persona e alla collettività, nel quadro delle “funzioni di garanzia” svolte dalle amministrazioni, che restano in ogni caso responsabili della imparzialità, qualità e completezza degli interventi. Si tratta di un modello che punta a ‹‹combinare una regolazione pubblica forte, in tema, per esempio, di programmazione, di elaborazione di standard e verifica delle prestazioni, con la valorizzazione e l’istituzionalizzazione dell’interdipendenza fra i diversi attori›› (Bifulco e Vitale 2005, p. 93).

Tale coinvolgimento attivo delle organizzazioni del terzo settore può avvenire a vari livelli: a) un livello strategico, che concerne la definizione partecipata degli obiettivi programmatici e l’impostazione generale dei servizi sociali; b) un livello organizzativo, che riguarda le modalità di gestione e valutazione degli interventi; c) un livello operativo, relativo alle forme di integrazione tra soggetti pubblici e privati nella fase di erogazione delle prestazioni. Per quanto riguarda le relazioni tra i vari attori (il modello di governance), la legge quadro punta sia su alcuni strumenti formalizzati (accordi di programma, protocolli d’intesa, ecc.) sia su più generali modalità di concertazione, al fine di impegnare (per via negoziale e contrattuale) alla cooperazione rispetto a obiettivi condivisi e interessi collettivi (Bifulco e Vitale 2005; Bulsei 2006 e 2008c, cap. 4).

Sotto questo profilo, la principale innovazione della Legge 328/2000 è rappresentata dal Piano di zona: esso costituisce un’esperienza di forte cambiamento per il sistema dei servizi e delle politiche sociali, anche se la programmazione su scala locale si era andata sviluppando in vari contesti già dalla metà degli anni Novanta del ‘900. Secondo la normativa, il Piano di zona è lo strumento primario per la definizione del sistema integrato degli interventi su un territorio e per l’attuazione della rete dei servizi sociali perseguendo gli obiettivi del benessere della persona, della promozione sociale, del miglioramento della qualità delle prestazioni e dell’individuazione dei mezzi per l’osservazione dei disagi emergenti (art. 17).

Accanto alla scelta di puntare su modalità concertate di programmazione territoriale, il tema della qualità rappresenta uno dei concetti cardine del nuovo assetto dei servizi socio–assistenziali.

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Nel definire le possibili forme di relazione contrattuale con gli enti pubblici, la normativa tende ad incentivare ‹‹una concorrenza basata sulla qualità sociale delle prestazioni erogate promuovendo il dinamismo imprenditoriale delle organizzazioni del terzo settore›› (Borzaga e Fazzi 2004, p. 129); l’intento è quello di creare un settore di fornitori non profit ‹‹omogeneo e qualificato sotto il profilo dei requisiti organizzativi e strutturali›› (ibidem), facendo ricorso a strumenti quali l’autorizzazione e l’accreditamento.

La Legge 328/2000 introduce il sistema di autorizzazione e accreditamento dei servizi e delle strutture sociali sulla falsariga di un analogo sistema attivato in precedenza nel settore sanitario. Secondo l’art. 8 della legge quadro, spetta alla Regione stabilire i criteri per l’autorizzazione sulla base dei requisiti minimi fissati dallo Stato (definiti dal DPCM 21 maggio 2001, n. 308); spetta poi al Comune, verificato il rispetto dei requisiti minimi strutturali, autorizzare i servizi e le strutture sociali pubbliche o private all’esercizio dell’attività. Per quanto riguarda l’accreditamento, la normativa nazionale si limita a fissare le competenze relative al processo, lasciando alle Regioni ampie possibilità di interpretazione circa le funzioni dello strumento ed i requisiti richiesti; alla Regione compete, inoltre, l’istituzione di uno specifico registro dei soggetti accreditati e l’identificazione dei criteri per la determinazione delle tariffe che i Comuni (titolari, come nel caso dell’autorizzazione, delle funzioni amministrative in materia), corrispondono per le prestazioni erogate.

Ne è risultato un quadro territoriale variegato e vago (Pesaresi 2004), nel quale soltanto il Piemonte ha provveduto a definire in modo puntuale i due strumenti, con la Legge Regionale n. 1 del 2004. Secondo tale normativa, l’autorizzazione è il provvedimento che conferisce al soggetto che ne fa richiesta il diritto all’esercizio dei servizi e delle strutture sociali sulla base di requisiti strutturali e organizzativi di sicurezza e funzionalità (art. 27); mentre ‹‹l’accreditamento dei servizi e delle strutture costituisce titolo necessario per l’instaurazione di accordi contrattuali con il sistema pubblico e presuppone il possesso di ulteriori requisiti di qualità rispetto a quelli previsti per l’autorizzazione›› (art. 29, comma 1): gli “ulteriori requisiti” riguardano l’adozione della carta dei servizi e di strumenti di comunicazione e trasparenza, la localizzazione idonea ad assicurare l’integrazione con gli altri servizi del territorio, l’utilizzo di strumenti di verifica e valutazione dei servizi erogati, la qualificazione del personale e la realizzazione di programmi e progetti individualizzati, il coordinamento con gli altri servizi sociali e sanitari (art. 29, comma 2).

Le differenze sostanziali tra autorizzazione e accreditamento consistono dunque nel fatto che per l’accreditamento occorre possedere requisiti ulteriori (rispetto all’autorizzazione) e solo con l’accreditamento si può accedere ai rapporti economici con gli enti pubblici (tabella 5.3) Il sistema è formato da livelli sovrapposti: un fornitore per essere accreditato deve già essere stato autorizzato (procedura indispensabile per iniziare l’attività) e certificato: la certificazione è un attestato (rilasciato da un ente privato) che garantisce l’impiego di sistemi di controllo della qualità.

Per quanto riguarda l’affidamento dei servizi, il soggetto pubblico può operare in vari modi (si veda il contributo di G. Marocchi a questo volume):

− selezionando con una gara d’appalto un erogatore accreditato con cui stipulare un contratto per la fornitura globale di un servizio;− stabilendo la retta per l’acquisto di un singolo servizio e permettendo all’utente di scegliere il fornitore (con eventuale compartecipazione alla spesa);− mettendo a disposizione dei cittadini–destinatari titoli per l’acquisto di servizi (vouchers), da utilizzare scegliendo il fornitore a cui rivolgersi.

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Tabella 5.3 - Autorizzazione e accreditamento a confronto

Modalità Autorizzazione AccreditamentoFinalità Sicurezza e

funzionalitàqualità delle prestazionie delle relazioni traservizi e cittadini

Amministrazionecompetente

Comune Comune

Definizione Requisiti

Regione Regione

Condizione per il rilascio

Possessorequisiti

Autorizzazione piùrequisiti ulteriori

Affidamento dei servizi da parte dell’ente pubblico

No Si, con gara d’appalto o con titoli d’acquisto

Contratti o convenzioni No SiFonte: Bulsei 2006, p. 18 (elaborazione da Pesaresi 2004)

La procedura di accreditamento può così assumere due funzioni (tabella 5.4):

• accreditamento per il mercato: dal lato della domanda, la “libertà di scelta” dell’utente può concretizzarsi attraverso la determinazione pubblica di tariffe da corrispondere ai soggetti erogatori, l’indicazione di rette e l’uso del voucher o di erogazioni monetarie per l’acquisto diretto di servizi; dal lato dell’offerta, una pluralità di soggetti pubblici, privati e nonprofit, competono “nel mercato” per attirare il maggior numero possibile di utenti potenziali;

• accreditamento per la qualità: i soggetti operanti “per conto” dell’ente pubblico competono “per accedere” al mercato regolato: devono erogare prestazioni con i livelli strutturali ed organizzativi espressamente previsti per garantirne il livello qualitativo (Bifulco e Vitale 2005; Bulsei 2006, cap. 1 e 2008, cap. 4; Pesaresi 2004).

Tabella 5.4 - Accreditamento per il mercato e accreditamento per la qualità

Caratteristiche Accreditamento Per il mercato

Accreditamento

per la qualitàDeterminazioneTariffe

Prestabilite dall’Ente Contrattate(gara d’appalto)

Acquistoprestazioni

Diretta(vouchers, assegni di

cura, rette, con eventuale integrazione)

Indiretta(fornitura

all’Ente)

Concorrenzatra fornitori

“nel mercato” (per attrarre utenti–

clienti)

“per accedereal mercato”(appalti

pubblici)Scelta dell’utente Tra fornitori

(libertà del consumatore)Non esercitata

Fonte: Bulsei 2006, p. 20 (elaborazione da Pesaresi 2004)

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5.3 Verso un mercato sociale dei servizi

Nonostante alcune incertezze definitorie ed anche maggiori difficoltà attuative (Gori 2004), la riforma dei servizi sociali ha nel complesso rappresentato un significativo punto di svolta nel modo di intendere le politiche socio–assistenziali nel nostro paese, con la definitiva presa d’atto dell’inadeguatezza delle tradizionali e consolidate forme di intervento di fronte alla nuova domanda di cura proveniente dalla popolazione. Le soluzioni istituzionali ed organizzative adottate hanno rafforzato alcuni cambiamenti in atto nelle forme di erogazione dei servizi, secondo tendenze che possono essere così sintetizzate (Bulsei 2006, cap. 1 e 2008, cap. 4; Ranci 2001, cap. 2)

• tentativo di combinare trasferimenti monetari alle famiglie con prestazioni per sostenerne il lavoro informale di cura;

• introduzione di una separazione tra le funzioni di finanziamento e regolazione, che restano allo Stato, di committenza o di acquisto, attribuita ai cittadini, e di gestione, conferita ad enti non profit e profit;

• utilizzo di meccanismi competitivi e forme di regolazione contrattuali nei rapporti tra soggetti finanziatori, acquirenti e produttori;

• attribuzione di un ruolo centrale alla scelta dei cittadini tra fornitori e modelli di cura, con l’aumento del loro “potere d’acquisto” e l’utilizzo di forme di accompagnamento per soggetti svantaggiati;

• interventi di sostegno, dal lato della domanda e dell’offerta, per creare un sistema plurale;

• tentativo di allargare il numero di potenziali utenti e di diversificare i servizi offerti in modo da rispondere alla crescente nuova domanda sociale.

Tali cambiamenti sembrano andare verso il progressivo consolidamento di un mercato sociale dei servizi alla persona (Ranci 2001). L’aggettivo “sociale” rimanda a significati eterogenei: l’esigenza di garantire finalità equitative; la mission non solo economica dell’insieme di attori, relazioni, culture e pratiche di cui si compone; la regolazione pubblica (allocazione autoritativa di risorse e valori sociali) accanto al regime concorrenziale (domanda/offerta) di produzione e distribuzione di beni e servizi (Bulsei 2006, cap. 1 e 2008, cap. 4).

Per cercare di esplorare le potenzialità del cosiddetto mercato sociale nell’ambito della produzione di servizi di welfare locale, ne richiameremo i tratti essenziali in termini di costruzione politica e di principi organizzativi, esaminandone in sede di conclusioni vantaggi e limiti (Ranci 2001, cap. 2; Ascoli e Ranci 2003, capp. 1 e 5).

5.3.1 La costruzione politica

I mercati sociali dei servizi sono stati costruiti politicamente, attraverso appropriate politiche pubbliche di regolazione normativa, promozione organizzativa, sostegno alla crescita; tali politiche sono finalizzate da un lato a rimuovere gli ostacoli che ne impediscono lo sviluppo sul versante della domanda, dall’altro ad orientare l’offerta verso gli obiettivi di giustizia redistributiva propri dell’intervento pubblico.

Dal lato della domanda, i fenomeni che rendono difficile la costituzione di un mercato dei servizi sociali sono (Ranci 2001, pp. 45 ss):

• l’eterogeneità dei bisogni, che impedisce la configurazione di standard condivisi e la conseguente determinazione di un prezzo per l’acquisto di tali servizi;

• la miopia temporale, intesa come impossibilità di prevedere il momento del bisogno e la conseguente necessità di risorse;

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• le asimmetrie informative, dovute al fatto che i destinatari non sono pienamente in grado di valutare l’operato del fornitore e di discriminare la qualità del servizio.

Tali elementi, uniti alla scarsa propensione ad acquistare “in privato” servizi tradizionalmente erogati dalle istituzioni di welfare, hanno portato ‹‹ad un ribaltamento nelle logiche dell’intervento pubblico: si è passati dal finanziamento dell’offerta al finanziamento della domanda›› (Ranci 2001, p. 45), attraverso strumenti quali gli assegni di cura, i titoli di acquisto (vouchers) e le agevolazioni fiscali.

Dal lato dell’offerta, la costruzione di un mercato sociale richiede l’eliminazione di ostacoli legati sia all’inadeguatezza dei meccanismi allocativi sia alle caratteristiche organizzative dei fornitori, ossia (Ranci 2001, pp. 47 ss):

• la difficoltà di ridurre i costi (e quindi il prezzo finale di acquisto), dal momento che i servizi alla persona sono tipicamente ad alta intensità di lavoro e non offrono ampi margini di aumento della produttività;

• le piccole dimensioni di gran parte delle organizzazioni che operano nel settore, che rendono difficile il ricorso a competenze manageriali e modalità gestionali avanzate;

• la bassa qualificazione professionale degli operatori, spesso associata a condizioni di lavoro “atipiche”, che se non fronteggiata con opportuni interventi formativi finisce per trasmettere all’opinione pubblica un’immagine negativa in termini di qualità delle prestazioni.

Gli interventi pubblici si sono pertanto orientati verso attività di sostegno alle nuove imprese (incentivi fiscali, crediti agevolati), di promozione e controllo della qualità dei servizi, di sviluppo della professionalità e di regolarizzazione del lavoro degli operatori.

5.3.2 I principi organizzativi

La costruzione e lo sviluppo del mercato sociale si basano su alcuni pilastri che rappresentano altrettanti principi organizzativi, ciascuno dei quali con proprie cariche innovative e con elementi di problematicità (Bulsei 2008c, cap. 4; Ranci 2001, cap. 2; Pavolini 2003):

1. separazione tra le funzioni di finanziamento, acquisto e gestione dei servizi;2. promozione e regolazione dell’offerta privata di servizi;3. parziale introduzione di meccanismi e regole del mercato concorrenziale;4. riconoscimento della libertà di scelta degli utenti;5. sostegno all’attività di cura familiare.Già si è fatto cenno ad alcuni di tali fattori nel precedente paragrafo; vediamo ora di coglierne le

implicazioni sotto il profilo dei possibili rapporti tra enti pubblici, fornitori privati (coocperative sociali) e destinatari dei servizi (Bulsei 2006, cap. 1 e 2008, cap. 4):

1) Separazione tra le funzioni di finanziamento, acquisto e gestione dei servizi. Il processo è avvenuto gradualmente: il primo passo è rappresentato dal passaggio dal modello della gerarchia pubblica al modello del convenzionamento, con la conseguente separazione della funzione di finanziamento da quella di fornitura: con lo strumento della convenzione, il soggetto pubblico finanzia, regolamenta e controlla i servizi da erogare, selezionando le imprese in base a criteri strutturali–qualitativi oltreché ai costi; nel caso dell’accreditamento (come si è visto), l’ente pubblico si limita a preselezionare i potenziali fornitori, lasciando ai destinatari delle prestazioni la possibilità di scegliere a chi rivolgersi; il passaggio da questo modello a quello del vero e proprio mercato sociale implica che l’unico finanziatore sia il cittadino–acquirente: alle istituzioni pubbliche restano funzioni di regolazione e controllo.

2) Promozione e regolazione dell’offerta privata di servizi. Si tratta di interventi che si muovono in varie direzioni: introduzione di incentivi fiscali e semplificazioni amministrative per favorire l’entrata sul mercato di nuovi fornitori privati; sviluppo di politiche attive del lavoro nell’ambito dei servizi alla persona e riconoscimento giuridico ed economico del lavoro

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individuale e familiare di cura; sostegno finanziario alla domanda privata di servizi (vouchers e assegni di cura).

3) Parziale introduzione di meccanismi e regole del mercato concorrenziale Siamo di fronte, più che ad un classico processo di privatizzazione, al passaggio “ad un sistema fondato su relazioni contrattuali che vincolano reciprocamente gli attori che insieme compongono, sulla base di una chiara distinzione dei ruoli, il sistema assistenziale” (Ranci 2001, p. 38): alcune misure dal lato dell’offerta introducono, nei rapporti tra ente pubblico e fornitori dei servizi, maggior competizione e controlli di efficienza e di efficacia (ne sono esempi l’adozione, da parte della pubblica amministrazione e delle organizzazione del terzo settore, di procedure di valutazione dei costi e dei risultati mutuate dai modelli gestionali aziendali); dal lato della domanda, si punta a incentivare la possibilità che siano i beneficiari finali degli interventi a determinare, con le loro scelte “di mercato”, a determinare l’offerta; si tratta in ogni caso di un mercato “amministrato”: il potere di acquisto e la libertà di scelta dei consumatori sono infatti garantiti e regolati dal soggetto pubblico, che definisce il contenuto e il prezzo dei servizi, seleziona i fornitori, stabilisce modalità e i vincoli per la fruizione.

4) Riconoscimento della libertà di scelta degli utenti. La promozione della capacità di scelta ed il coinvolgimento dei destinatari nella determinazione del tipo di servizi che meglio si adatta alle loro esigenze risponde alla duplice esigenza di creare una competizione effettiva tra i fornitori e di migliorare l’assistenza in termini di qualità e adeguatezza ai bisogni; nell’ambito del mercato sociale, tuttavia, la libertà di scelta non ha il significato strettamente economico di possibilità di cambiare fornitore sulla base della capacità di confrontare prezzi e qualità delle prestazioni offerte, in quanto è fortemente limitata dalle asimmetrie informative e dalle caratteristiche stesse del bene–servizio: si tratta di quello che viene definito experience good, la cui qualità è valutabile solo durante la produzione e attraverso la creazione di un legame fiduciario con il fornitore; perciò è essenziale che il soggetto pubblico intervenga non solo garantendo livelli qualitativi minimi (accreditamento) e strumenti informativi (carta dei servizi), ma anche e soprattutto con un’azione di accompagnamento nei confronti dell’utente (case management).

5) Sostegno all’attività di cura familiare. Se in passato le attività di care informali, svolte nell’ambito familiare, erano viste come alternative e sostitutive rispetto ai servizi formali e professionali, oggi si tende a considerarle come due soluzioni complementari allo stesso problema di cura; si tende pertanto a valorizzare l’attività di accudimento familiare delle persone non autosufficienti sia nella fase di valutazione dei casi sia con il sostegno economico (assegni di cura e vouchers).

5.4 Osservazioni conclusive

L’introduzione del mercato sociale presenta indubbi vantaggi, ai quali tuttavia si associano alcuni limiti che vanno attentamente considerati (Ranci 2001 p. 51 ss).

Un primo elemento a favore è rappresentato da un potenziale contenimento dei costi dei programmi assistenziali: la concorrenza tra fornitori di servizi dovrebbe infatti stimolare l’adozione di modalità organizzative più efficienti, in grado di rendere competitivi i servizi dal punto di vista economico e qualitativo; un’ulteriore riduzione di spesa dovrebbe derivare dall’abbandono dei compiti di gestione diretta da parte dell’ente pubblico e dall’introduzione di misure di compartecipazione privata ai costi. Ma i risultati in termini di efficienza sono limitati dalla insufficiente competizione nel campo dei servizi di cura dovuta a vari fattori (scarsità di fornitori, barriere all’entrata di nuove imprese, attesa iniziale di bassi profitti, politiche di cartello attuate dai soggetti già operanti nel mercato).

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Un secondo vantaggio relativo del mercato sociale consisterebbe in un miglioramento della qualità dei servizi (adeguatezza ai bisogni sociali) dovuto alla maggior libertà di scelta da parte dell’utente–acquirente. Si è tuttavia già avuto modo di sottolineare come in questo contesto la libertà di scelta non implica l’effettiva possibilità di massimizzare l’utilità economica derivante dalla capacità dei soggetti di confrontare prezzi e qualità delle prestazioni offerte (a causa di asimmetrie informative e peculiarità di fruizione).

Un terzo vantaggio della produzione privata, regolata pubblicamente, di servizi sociali è connesso all’espansione della platea dei beneficiari ottenuta grazie alla ridotta onerosità, economica ed organizzativa, degli interventi. Questo processo, se non adeguatamente controllato, rischia però di discriminare, in termini di accesso al mercato sociale come strumento per soddisfare i propri bisogni di cura, le fasce più deboli (soggetti privi di risorse informative, capacità di valutazione, sufficiente autonomia).

In definitiva, la costruzione del mercato sociale offre prospettive positive ma pone, nel contempo, alcuni nodi problematici. Vanno considerati in termini positivi fattori quali: la garanzia di livelli minimi di qualità; una sia pur relativa open competition e pluralizzazione dell’offerta; una maggior flessibilità dei servizi; una certa libertà di scelta del destinatario–acquirente rispetto alla tradizionale relazione utente/servizio pubblico; l’avvio di un processo di regolarizzazione del lavoro di cura “sommerso”. Le problematicità più evidenti sono rappresentate dal rischio della “selezione avversa” da parte delle imprese fornitrici nei confronti dei “cattivi clienti” (abbandono delle fasce deboli, a meno di interventi compensativi pubblici o dell’associazionismo solidale); una tendenza alla progressiva commercializzazione delle organizzazioni non profit; la questione irrisolta dell’effettiva libertà di scelta del cittadino, che non può risolversi in semplice relazione contrattuale ma va affrontata con adeguate strategie pubbliche di rafforzamento dei diritti e delle capacità (empowerment).

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6. L’affidamento dei servizi alla persona: quale spazio per la cooperazione

di Gianfranco Marocchi∗

6.1 Introduzione: l’oggetto e gli obiettivi della ricerca

L’indagine costituisce un monitoraggio delle modalità di affidamento dei servizi alla persona da parte di Enti pubblici piemontesi. L’area problematica su cui la ricerca insiste può essere così sintetizzata: esiste una consolidata tradizione normativa, di seguito analizzata e discussa, sulla base della quale un affidamento di servizi alla persona, soprattutto nei casi in cui coinvolge forme specifiche di auto – organizzazione della società civile come gli enti non a fini di lucro, deve ispirarsi a determinati principi: valorizzare gli aspetti di qualità, dare modo di esprimere le capacità di progettazione e innovazione del terzo settore, evitare di ridurre l’apporto di quest’ultimo ad una sostanziale intermediazione di personale, contrastare le forme di sottoimpiego e di sfruttamento, garantendo la corresponsione dei salari contrattualmente previsti; si tratta d’altra parte di andare a verificare se, nel concreto, le pratiche degli enti appaltanti siano coerenti con tali principi o meno.

Questo tipo di affidamenti è regolato da numerose disposizioni, tra cui la DGR 79-2953 del 22 maggio 2006, in particolare nel suo titolo III° (articoli dal n° 11 al n° 19), che, ripercorrendo e specificando le normative vigenti, costituisce un atto organico che racchiude le indicazioni da adottare in materia.

Si è delimitato l’oggetto come segue:1) omettendo di considerare gli affidamenti a cooperative sociali di inserimento lavorativo

(contemplati all’art. 18 della citata DGR) e in generale il tema degli affidamenti con clausole sociali, che richiedono un’attenzione specifica; in questa ricerca ci si focalizza quindi sull’ambito dei servizi socio assistenziali, socio sanitari, socio educativi e sanitari;

2) considerando solo i rapporti instaurati da enti pubblici a seguito di affidamento e non quindi quelli conseguenti a procedure quali l’accreditamento con successivo acquisto da parte dei pubblica amministrazione o di cittadini, la concessione, l’attribuzione alle famiglie di titoli per l’acquisto di servizi.

Pertanto ora ci si chiede se questo complesso di previsioni giuridiche trovi o meno concreta applicazione nelle prassi di affidamento degli enti pubblici piemontesi e se e in che misura la citata DGR sia risultata decisiva nell’affermarne l’accoglimento e la diffusione.

Il quadro normativo di riferimento

La Regione Piemonte, recependo la previsione della 328/2000 e della L.R. 1/2004, nonché un ampio complesso di normative sviluppatesi negli anni precedenti per la cui discussione si rimanda al testo completo della ricerca, si è dotata nel 2006 di uno specifico “Atto di indirizzo per regolamentare i rapporti tra gli Enti pubblici e il Terzo settore”. Si tratta della DGR 79-2953 del 22 maggio 2006, che costituisce il principale termine di valutazione utilizzato nella presente ricerca. Il Titolo I delinea le caratteristiche dei diversi soggetti del Terzo settore e il loro possibile coinvolgimento nella rete integrata dei servizi sociali. Il Titolo II propone varie forme di sostegno pubblico ai soggetti del Terzo Settore, definendo il quadro giuridico di riferimento. Il Titolo III – oggetto specifico di questo lavoro - fornisce orientamento e indicazioni tecniche sui differenti

Presidente Consorzio nazionale sociale Idee in rete (http://www.ideeinrete.coop/), consulente Ires del Piemonte. I dati presentati sono tratti da una ricerca commissionata dalla Regione Piemonte e realizzata da Renato Cogno e Gianfranco Marocchi(http://www.regione.piemonte.it/lavoro/cooperazione/dwd/ires_117.pdf)

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sistemi di affidamento a terzi della gestione dei servizi alla persona. Per richiamare sinteticamente alcune delle previsioni contenute nell’atto, si può citare l’articolo 11, secondo cui “i capitolati di gara ed i contratti devono essere costruiti garantendo:

• la piena espressione della progettualità da parte del soggetto gestore;• l’esclusione del ricorso a forme di mera intermediazione di manodopera;• la considerazione, nella determinazione del prezzo base, del costo del lavoro di cui ai contratti

collettivi nazionali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale;

• la valutazione degli aspetti qualitativi del servizio nella fase dell’affidamento;• il controllo del mantenimento degli stessi nella fase dell’esecuzione del contratto”.Da un punto di vista della tutela degli operatori, “gli importi base d’aggiudicazione non possono

essere inferiori ai costi del lavoro, così come indicati nelle tabelle pubblicate dal Ministero del Welfare” e “i capitolati prevedono l’applicazione integrale del contratto di lavoro, stipulato con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale e meccanismi di adeguamento o revisione prezzi in misura fissa, in rapporto all’indice Istat e ai maggiori costi derivanti dal rinnovo del CCNL sottoscritto dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale e degli accordi integrativi decentrati”. Sempre circa il medesimo argomento, la DGR interviene sull’annosa questione del salario medio convenzionale, di cui si tratterà diffusamente in un apposito paragrafo, affermando che “nei territori ove vige il salario medio convenzionale, nell’ottica di un progressivo superamento di tale strumento, che soprattutto penalizza i lavoratori del comparto, i capitolati prevedono basi d’asta adeguate all’applicazione del salario pieno e della contribuzione previdenziale sull’insieme della retribuzione.”

La DGR contiene una serie di prescrizioni, che vanno a definire un quadro in cui gli affidamenti si ispirano ai principi più volte citati:

• l’affidamento dei servizi non deve essere guidato da mere logiche di risparmio ma considerare la qualità;

• il volontariato non può sostituire personale subordinato;• la selezione dei soggetti gestori dei servizi deve basarsi sul criterio dell’offerta

economicamente più vantaggiosa, che valuti gli aspetti qualitativi in misura adeguata e congrua;

• la determinazione dell’importo a base d’asta/prezzo base deve basarsi sul costo del lavoro necessario; tale costo non può risultare inferiore a quello definito dai CCNL delle OOSS maggiormente rappresentative;

• ai fini dell’aggiudicazione i criteri qualitativi adottati devono essere necessari e adeguati agli scopi; i vari criteri devono essere misurati secondo una loro ponderazione;

• i requisiti di qualità vanno accertati attraverso processi di accreditamento per poter instaurare rapporti contrattuali; e nelle procedure di appalto tale accertamento deve essere contestuale alla gara;

• agli eventuali albi dei fornitori accreditati deve essere possibile l’accesso/iscrizione a tutti i soggetti interessati a quel mercato aventi i requisiti richiesti;

• i requisiti e gli aspetti qualitativi considerati nell’aggiudicazione devono essere mantenuti: l’affidamento deve prevedere strumenti di monitoraggio sia nella fase finale sia nel percorso di esecuzione degli stessi e di penalità in caso di inadempimento.

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La progettazione del monitoraggio

Per analizzare gli affidamenti si è stabilito l’uso dei capitolati relativi ai singoli servizi. A tal fine l’Assessorato al Welfare ha chiesto (con lettera inviata nell’autunno 2007) ai soggetti appaltanti di poter disporre di tali capitolati, con la collaborazione delle Province; per verificare l’impatto della DGR sono stati esaminati affidamenti sia successivi che precedenti all’emanazione della DGR. Per l’analisi e le successive comparazione e valutazione dei capitolati, è stata predisposta una scheda di rilevazione (allegata in Appendice). La definizione di tale scheda è stata condivisa con un gruppo tecnico istituito presso l’Assessorato al Welfare. Per ogni capitolato vengono rilevate e anlizzate le seguenti caratteristiche:

• principali dati descrittivi (ente appaltante, periodo e durata dell’affidamento; oggetto e tipologia dei servizi; tipo di procedura di affidamento);

• requisiti di ammissione alla gara e criteri per l’aggiudicazione;• definizione dell’importo a base d’asta (costo del personale; revisioni e adeguamenti prezzi)• aspetti qualitativi dell’affidamento (elementi di qualità nei servizi e punteggi attribuiti;

trasparenza; condizioni dei lavoratori; riferimento a specifico CCNL; contenimento turn over; progettualità dell’affidatario; elementi curriculari);

• altre condizioni dell’appalto (avvalimento e subappalto; tempi di pagamento; servizi aggiuntivi; rinnovi)

• attività di verifica successiva all’aggiudicazione e/o in itinere.

La definizione del campione

Ad agosto 2008 i capitolati completi inviati dai SA erano 195, con questa provenienza su base provinciale:

Tabella 6.1 - Distribuzione per territorio e tipo di soggetto appaltante capitolati inviati alla Regione su base provinciale

ASL comuni Ente gestore

IPAB Totale enti

AL 4 10 13 9 36AT 4 1 3 8BI 3 5 7 15CN 2 7 17 26NO 13 2 2 17TO 31 43 26 13 113VB 13 4 17VC 1 1 3 5Totale Piemonte 38 73 68 58 237successivi alla DGR 15 35 55 21 126Precedenti alla DGR

23 38 13 37 111

Tale consistenza è stata confrontata con un’altra fonte, che viene considerata completa e tempestiva: i capitolati rilevati da InfoPlus s.r.l. (società di servizi per le imprese). Da tale fonte i bandi per affidamenti di servizi alla persona, usciti in Piemonte nel periodo dicembre 2006- gennaio 2008, risultano circa 352.

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2.6 I criteri di valutazione dei costi

Considerata la rilevanza dell’elemento economico, è opportuna una disamina relativa alla valutazione degli importi economici dei capitolati. In quanto segue sono esplicitati i parametri sulla base dei quali gli importi a base d’asta sono definiti o meno congrui. Nei capitolati gli importi economici (basi d’asta) sono definiti sulla base di un costo orario o con modalità simili (previsione di numero di ore per specifiche qualifiche) oppure sulla base di tariffe per prestazione resa, in genere per servizi complessi. Nel paragrafo sono discusse anche le eventuali criticità connesse ai parametri utilizzati.

Appalti con richiesta di indicazione del costo orario

Il caso più frequente è quello di appalti in cui l’offerta consiste nella espressione di un ribasso d’asta su un costo orario, o in cui, accanto alla base d’asta, è indicato dall’amministrazione appaltante il numero di ore e la qualifica di chi è chiamato a prestarle, rendendo così di fatto tale fattispecie analoga alla precedente.

Va premesso che, nel definire un “costo medio orario” è necessario introdurre alcune ipotesi (“medie”, appunto), che possono o meno corrispondere ai casi concreti: il numero di scatti di anzianità (tre, nell’ipotesi tabellare), il numero di ore mediamente non lavorate a causa di malattia, gravidanza, infortuni, esercizio del diritto allo studio, la partecipazione o meno alle assemblee sindacali, ecc. (145 ore annue complessive, nell’ipotesi tabellare), il fatto che al lavoratore spetti o meno l’indennità per essere sottoposto a turni; di questo va tenuto conto nell’analisi dei singoli capitolati.

Tabella 6.2 – CCNL cooperative socialiLivello Importo orario

Ante rinnovo 2008 Post rinnovo 20081 14,41 15,302 14,61 15,51

3 15,38 16,33

3 con i.f. 16,01 16,984 16,58 17,62

5 17,62 18,72

5 con i.p. 18,47 19,67

6 18,64 19,81

6 con i.p. 20,76 21,937 19,95 21,178 22,67 24,028 con i.p. 25,14 26.509 26,18 27,679 con i.p. 27,59 29.0910 30,71 32,4210 con i.d. 30,71 32,42

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Residenze per anziani

In questo caso i riferimenti sono costituiti da Deliberazioni della Giunta Regionale che definiscono le tariffe standard. Nel caso di appalti anteriori al 2006, si è considerato come riferimento la DGR 41-42433/1995 con successivi aggiornamenti, che prevede le seguenti tariffe, entrate in vigore dopo alcuni anni di fase transitoria:

Tabella 6.1 – Rette residenziale anziani - DGR 17-15226/2005FASCE Retta complessiva Quota sanitaria Quota

alberghieraAlta intensità con incremento 98,00 56,50 41,50Alta intensità 90,00 48,50 41,50Media intensità con incremento 83,00 41,50 41,50Media intensità 73,00 36,50 36,50Bassa intensità 68,00 34,00 34,00

Servizi per minori

L’adeguatezza dei servizi residenziali per minori è definita con riferimento a quanto previsto dalla DGR 41-12003 del 15 marzo 2004 “Tipologia, requisiti strutturali e gestionali delle strutture residenziali e semiresidenziali per minori”. Si tratta di un provvedimento controverso, oggi in fase di rivisitazione, che prevede gli standard gestionali per i diversi tipi di strutture e corrispondenti tariffe.

Sono state segnalate, sia da parte delle rappresentanze cooperative che di alcuni enti locali, delle insufficienze rispetto alle prassi in atto in molte delle tipologie previste dalla DGR, tra cui quelle maggiormente diffuse come le comunità educative residenziali.

Disabili

Relativamente alle strutture per disabili l’ultimo riferimento normativo utile è costituito dalla Deliberazione della Giunta Regionale 230-23699 del 22 dicembre 1997 “Standard organizzativo-gestionali dei servizi a favore delle persone disabili”.

Tabella 6.2 – Rette strutture per disabili - DGR 230-23699/1997Retta sanitaria Retta non sanitaria Totale retta

Residenza Assistenziale Flessibile (R.A.F) 10/20 p. 1. Tipo A

65,59 48,03 113,62

Residenza Assistenziale Flessibile (R.A.F.)10/20 p. 1. Tipo B

59,91 35,64 95,54

R.A.F. - Centro Diurno Socio-TerapeuticoRiabilitativo 10/20 utenti Tipo A

54,74 23,24 77,98

R.A.F. - Centro Diurno Socio-TerapeuticoRiabilitativo 10/20 utenti Tipo B

48,55 18,08 66,62

Comunità Alloggio 10 p. 1. Tipo A 48,55 24,79 73,34Comunità Alloggio 10 p. 1. Tipo B 47,00 29,44 76,44Gruppo Appartamento 6 p. 1. Tipo A 51,65 21,69 73,34Gruppo Appartamento 6 p. 1. Tipo B 27,89 25,31 53,20Centro Addestramento Disabili Diurnon. 20 utenti

41,32 17,56 58,88

È evidente che, laddove un affidamento si collochi in un periodo temporale molto lontano dall’atto citato, diventa necessario un ragionamento relativo all’adeguamento di tali rette; i ragionamenti in merito saranno condotti con riferimento agli specifici casi esaminati.

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Dipendenze

Il riferimento è costituito dalla DGR 49-9325 del 12 maggio 2003 “Determinazione dei requisiti minimi standard per l’autorizzazione al funzionamento e per l’accreditamento dei servizi privati di assistenza alle persone dipendenti da sostanze d’abuso”. Nella Deliberazione sono contenuti i requisiti dei diversi tipi di strutture e le relative tariffe, riassunte nella tabella sotto riprodotta.

Tabella 6. 3 – Rette servizi dipendenzeAree Tipologia Denominazione dei servizi Tariffa

Area 2 - Servizi Terapeutico-Riabilitativi (STR) ex art. 12 allegato alla D.G.R. n.49-9325 del 12.05.2003

"A" STR Residenziale 51,00"B" STR Semiresidenziale 33,00"C" STR Ambulatoriali 32,00

Area 3 - Servizi di Trattamento Specialistici ex art. 13 allegato alla D.G.R. n.49-9325 del 12.05.2003

"C"Centro di Osservazione

Diagnostica e Trattamento (Centro Crisi)

86,00

"D"Comunità per Comorbilità

psichiatrica125,00

"E" Case Alloggio AIDS 125,00Area 4 - Servizi Pedagogico-Riabilitativi (SPR) ex art. 14 allegato alla D.G.R. n.49-9325 del 12.05.2003

"A" SPR Residenziali 38,00

"B" SPR Semiresidenziali 22,00

I casi di mancata valutazione

La valutazione circa la congruità degli importi a base di gara è stata realizzata solo per 146 casi sui 200 valutati; e in altri il giudizio è formulato non senza introdurre alcuni elementi dubitativi.

Infatti, mentre è abbastanza agevole formulare un giudizio laddove sia richiesta un’offerta direttamente confrontabile con un parametro standard come quelli sopra dettagliati; nel caso più semplice (e più diffuso) l’espressione di un prezzo orario. In 54 casi invece, ci si è trovati di fronte a situazioni quali:

• affidamenti di servizi complessi, che prevedono la possibilità di combinare in modo articolato diversi fattori produttivi (personale, materiali, automezzi, utenze, ecc.) secondo una proposta specifica dell’impresa concorrente;

• casi riconducibili in parte ai parametri standard trattati in questo capitolo, ma ove venivano introdotte variabili significative (es. costi di riscaldamento; obbligo di integrare arredi e/o di realizzare adattamenti dei locali ove si svolge il servizio) non appurabili senza un riscontro diretto presso la sede di esecuzione.

6.3. Caratteristiche e valutazioni dei capitolati

Il tipo di procedura prescelta

Nella maggior parte dei casi le amministrazioni scelgono di avvalersi integralmente di quanto previsto nel D.Lgs, anche se esso prevede all’art. 20, comma 1, che “L’aggiudicazione degli appalti aventi per oggetto i servizi elencati nell’allegato II B [nota: e dunque gli appalti in questione, che vi ricadono essendo generalmente iscritti alla categoria 25 “servizi sanitari e sociali”, numero di riferimento CPC 93] è disciplinata esclusivamente dall’art. 68 (specifiche tecniche), dall’articolo 54 (avviso sui risultati della procedura di affidamento), dall’articolo 225 (avvisi relativi agli appalti aggiudicati”; per questo tipo di contratti, l’art. 27, oltre a salvaguardare l’applicazione di alcuni principi e normative generali, prevede che l’affidamento avvenga “nel rispetto dei principi di

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economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità. L’affidamento deve essere preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti, se compatibile con l’oggetto del contratto.”

Data questa base normativa, va detto che la maggior parte delle amministrazioni aggiudicatrici, soprattutto ove gli importi sono significativi, di fatto assume comunque le previsioni del 163/2006 in modo integrale.Sono stati schedati 200 capitolati; la maggior parte riguardano la provincia di Torino, seguita dalla provincia di Cuneo; risulta poco rappresentata la sola provincia di Asti. rispetto al tipo di enti, 73 sono redatti da enti gestori, 57 da Ipab, 48 da comuni e 22 da Aziende sanitarie (tabella 6.4) con indicazione separata dei capitolati pre e post DGR).

Tabella6.4 - Schede pre e post DGRPre DGR Comune Ente gestore ASL IPAB TotaleTorino 5 1 4 9 19Alessandria 0 0 0 3 3Asti 0 0 0 3 3Biella 0 1 0 5 6Cuneo 0 0 0 8 8Novara 1 0 0 3 4VCO 0 1 0 1 2Vercelli 0 1 0 1 2Totale 6 4 4 33 47Post DGRTorino 19 33 14 6 72Alessandria 2 7 2 1 12Asti 2 1 1 0 4Biella 2 3 1 0 6Cuneo 4 6 0 11 21Novara 6 2 0 2 10VCO 2 14 0 0 16Vercelli 5 3 0 4 12Totale 42 69 18 24 153

Accanto alle considerazioni sul campione, va segnalato che, su 200 capitolati esaminati, 153 dei quali posteriori alla DGR 79-2953, solo 14 contengono un riferimento alla DGR stessa; e si consideri inoltre che quasi sempre la DGR non è assunta come riferimento generalistico per la formulazione del capitolato, ma come spunto per una prescrizione specifica, ad esempio circa i contratti collettivi20.

La pluriennalità

Gli affidamenti di durata annuale o infra annuale non sono scomparsi: in 34 casi si tratta di affidamenti annuali, in 9 di affidamenti di durata inferiore all’anno; vi sono poi altri 3 casi in cui la durata non supera i 18 mesi e 6 in cui è compresa tra 19 e 23 mesi. Per quanto, come si vedrà nelle tabelle successive, si tratti di pratiche presenti solo in determinati ambiti, il fatto che a 14 anni dalla

20 Raccomandazioni

La raccomandazione può consistere nell’inserimento di un riferimento alla DGR 79-2953: nei riferimenti generali che orientano la procedura, accanto quindi al richiamo al D.Lgs 163/2006, e in posizione separata da eventuali successivi riferimenti a normative settoriali: ad esempio inserendo, nella parte iniziale dell’articolato, un articolo quale “Riferimenti normativi – L’appalto sarà affidato sulla base delle procedure di cui all’art. XX (a seconda della scelta dell’ente) del D.Lgs 163/2009 e sarà aggiudicato secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa di cui all’art. 83 del citato Decreto legislativo. La procedura si conforma a quanto previsto dalla DGR 79-2953 del 22 maggio 2006, ed in particolare a quanto previsto dagli articoli 11, 12, 13 e 16”.

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LR 18/1994 una percentuale significativa di affidamenti non abbia il carattere di pluriennalità costituisce certamente un aspetto da approfondire.

Il 58% degli affidamenti ha durata compresa tra un anno e mezzo e tre anni, mentre il 19% si situa su periodi superiori.

Tabella 6.5 – Durata affidamenti Frequenza Percentuale valida Percentuale cumulatafino a 18 mesi 46 23,0 23,0da 18 a 36 mesi 116 58,0 58,0più di 36 mesi 38 19,0 19,0Totale 200 100,0 100,0

Non sembra emergere un impatto sistematico della DGR 79-2953 nell’allungare la durata degli affidamenti.

Tabella 6.6 – Durata affidamenti per tipo entefino a 18 mesi da 18 a 36 mesi più di 36 mesi Totale

pre DGR 6 29 12 47post DGR 40 87 26 153Totale 46 116 38 200

L’orientamento verso affidamenti di durata pluriennale risale alla LR 18/1994; con l’eccezione di un contesto territoriale, gli affidamenti di durata annuale sono presenti in numero abbastanza limitato21.

Criterio di aggiudicazione

Vi è un’ampia convergenza della normativa nazionale e regionale nell’individuare nell’offerta economicamente più vantaggiosa (oepv) il criterio di aggiudicazione da utilizzarsi per gli affidamenti di servizi alla persona. È evidente che l’aggiudicazione secondo il criterio del prezzo più basso vanifica in un solo atto ogni eventuale ulteriore discussione circa la valutazione della qualità, che rimane estranea al processo di valutazione

L’aggiudicazione con il criterio dell’oepv è maggioritario; i casi in cui l’aggiudicazione avviene in modo esplicito con il criterio del prezzo più basso sono 33, pari al 16.8% del totale; va però segnalato che altri 25 casi, pari al 12.7, utilizzano formule per la valutazione del punteggio del prezzo che rischiano di rendere superflua la considerazione della qualità. Dunque, come emerge nella tabella 6.7, i casi in cui il criterio dell’oepv è applicato nella sua sostanzialità, sono il 70.6%.Tabella 6.7 – Criterio di aggiudicazione

Frequenza Percentuale

offerta economicamente più vantaggiosa 139 70.6offerta economicamente più vantaggiosa con formula molto sensibile alla variazione di prezzo

25 12.7

prezzo più basso 33 16.8Totale 197 100.0

21 RaccomandazioniLa raccomandazione, in questo caso, è semplice e lineare: prevedere sempre, come più volte riaffermato dalla normativa, la

durata pluriennale degli affidamenti. In specifico, rispetto a cosa possa intendersi per pluriennalità, può sembrare utile raccomandare agli enti di considerare il rapporto tra durata dell’affidamento e oggetto dell’affidamento, valutando, oltre che il termine ragionevolmente richiesto per il conseguimento degli obiettivi dell’affidamento, gli aspetti di complessità organizzativa e gli eventuali investimenti richiesti.

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Come in altri casi, e pur al netto di situazioni specifiche, non sembra esservi un effetto specifico della DGR nel modificare la quota di affidamenti in cui viene utilizzato il criterio dell’oepv.

L’utilizzo esplicito del criterio del prezzo più basso per aggiudicare servizi alla persone è quindi abbastanza limitato, tranne alcuni contesti specifici; anche negli affidamenti precedenti alla DGR 79-2953 non era più utilizzato. Da questo punto di vista si tratta di una battaglia culturale che ha portato in questi quindici anni la grande maggioranza degli enti piemontesi a non ritenere accettabile questo criterio.

Sono però anche presenti un numero non residuale di casi in cui la formula utilizzata per la valutazione del prezzo risulta eccessivamente sensibile anche a variazioni minime, rendendo di fatto accessoria la competizione sugli aspetti di qualità. Sommando quindi i casi in cui il prezzo risulta, nella forma o nella sostanza, un criterio da solo decisivo, si ottiene che il 30% degli affidamenti sono decisi al di fuori di criteri di qualità 22 .

Adeguatezza degli importi a base d’asta

Il quadro che emerge è senz’altro preoccupante. Pur con tutte le cautele ripetutamente espresse, meno di un terzo dei capitolati sono stati valutati “adeguati” dal punto di vista degli importi a base di gara. Un quarto risulta “probabilmente inadeguato”, cioè superiore agli importi di riferimento (costo orario tabellare, laddove sia richiesta espressione di un costo orario, o tariffa di riferimento), di margini che non consentono ragionevolmente di sostenere i costi diversi dal personale. Oltre il 40% risulta, rispetto ai parametri di confronto, palesemente inadeguato.

Tabella 6.8 – Adeguatezza tariffeFrequenz

aPercentuale Percentuale valida

Adeguate 48 24,0 32,9probabilmente inadeguate 40 20,0 27,4Inadeguate 58 29,0 39,7Totale 146 73,0 100,0non valutabili 54 27,0

200 100,0

Rispetto all’impatto della DGR 79-2953, un’espressione definitiva è difficile visto il numero limitato di casi esaminati; la tabella 6.9 evidenzia come le basi d’asta incongrue non siano relegate nel passato “pre – DGR 79-2953”, ma siano ancora oggi diffuse, anche se in termini percentuali in quota leggermente inferiore rispetto al passato.

Tabella 6.9 – Adeguatezza tariffe per periodo pre o post DGRadeguate probabilmente inadeguate inadeguate Totale

pre DGR 4 7 14 25post DGR 44 33 44 121Totale 48 40 58 146

22 RaccomandazioniSi raccomanda l’aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa di cui all’articolo 83 del D.Lgs

163/2006 e la valutazione degli aspetti economici attraverso una formula di proporzionalità inversa rispetto al prezzo -espresso sotto forma di costo orario, retta, costo complessivo sulla base dei servizi che si richiede di prevedere:

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L’aspetto analizzato in questo paragrafo non può essere considerato uno degli aspetti. Un capitolato di gara per altri versi apprezzabile, qualora caratterizzato da base d’asta non adeguata, non è semplicemente passibile di un giudizio relativamente più negativo.

Il dumping sociale promosso da oltre due terzi degli affidamenti esaminati vede un concorso di responsabilità tra i livelli di governo che allocano le risorse, gli enti che appaltano e le imprese che si adeguano; e può vedere vittime diverse: le imprese che per mantenere il cliente dissestano il proprio bilancio, i lavoratori che non vedono riconosciuti i propri diritti, gli utenti laddove la pratica degli affidamenti consenta la realizzazione di risparmi attraverso una rimodulazione di fatto delle caratteristiche dell’offerta, ad esempio sul fronte delle ore lavorate o degli standard di servizio23.

L’intermediazione di manodopera

L’intermediazione di manodopera è stata per lungo tempo esclusa dall’ordinamento italiano e la sua proposizione mascherata nell’ambito di appalti di servizi sanzionata (Cfr. legge 1369 del 23/10/1960); introdotta, poi, con successive modificazioni, a partire dalla Legge 196/1997 e disciplinata in ultimo dal D.Lgs. 276/2003, è attività riservata ad imprese che sottostanno a determinati requisiti economici e organizzativi (art. 4 e 5), prevedendo sanzioni pecuniarie e penali in caso di esercizio abusivo (art. 18).

È dunque vietato utilizzare affidamenti di servizi per realizzare forme surrettizie di intermediazione di manodopera, mentre è legale, qualora l’ente avverta l’esigenza di questo genere di apporto, rivolgersi ad agenzie di somministrazione autorizzate entro il sistema di regole e garanzie che caratterizza questo genere di transazioni.

I risultati della tabella 6.10 evidenziano immediatamente la presenza di una situazione non priva di problematicità. Il 63% degli appalti sono apparsi estranei ad elementi di intermediazione di manodopera; i restanti si dividono equamente tra casi conclamati e casi in cui esistono dubbi circostanziati di intermediazione.

Tabella 6.10 – Intermediazione di manodoperaFrequenze %

no 126 63.0sospetta 37 18.5sì 37 18.5casi 200

L’impatto della DGR sui fenomeni di intermediazione non è assente, dal momento che i capitolati sui quali non è possibile sollevare censure esplicite passano dal 57% pre DGR al 67% post DGR. Ciò non toglie che anche dopo la DGR l’intermediazione di manodopera non sia scomparsa e interessi sempre un numero non irrilevante di affidamenti.

La questione eclatante, dal punto di vista della ricerca, non è quella di definire se e in quale misura o con quale frequenza siano commesse azioni che non sono solo censurabili da un punto di vista amministrativo, ma configurano ben più gravi violazioni; ma di constatare quanto diffusa sia una cultura di “malaffidamento”, che origina in ultima analisi da una mancata assimilazione, prima ancora che di specifiche prescrizioni di legge, della portata culturale delle normative che, a partire –

23 RaccomandazioniVa affermato con chiarezza che, in un ampio numero di appalti, in cui la quantificazione delle risorse umane da impiegare è nella sostanza predefinita, la competizione sul prezzo semplicemente non avrebbe ragione di esistere – salvo che in rialzo, ove vi fosse un’organizzazione che, anche attraverso politiche premiali nei confronti dei propri lavoratori e quindi assicurandosi le risorse umane migliori sul mercato, vantasse di poter offrire qualità dei servizi superiore.In altri appalti – che però nei fatti sono in numero minore - ove vi è invece un’ampia possibilità di articolare il servizio secondo modalità proposte dalle imprese concorrenti, con l’autonoma indicazione, nell’ambito del progetto – offerta, di parametri chiave per la definizione del costo quali il numero di ore da erogarsi e le professionalità da impiegare, la competizione sul prezzo è coerente, ma comunque non può derogare dai minimi tabellari.

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con riferimento al Piemonte – dalla L.R. 18-1994 hanno tentato di definire il rapporto tra enti pubblici e cooperazione. Dove l’interlocuzione progettuale è assente o limitata ad aspetti operativi - organizzativi, è facile che si sviluppino tendenze a scivolare verso l’intermediazione24.

Lo spazio per la progettualità

Su 200 capitolati esaminati, 33 sono aggiudicati secondo il criterio del prezzo più basso e dunque la considerazione della progettualità è di per sé nulla; dei 167 rimanenti, 6 sono risultati non valutabili per la frammentarietà delle informazioni a disposizione e 161 sono invece stati valutati.

Se limitiamo l’analisi agli affidamenti aggiudicati con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, oltre ¾ presentano una valutazione in cui l’oggetto principale di valutazione consiste nelle modalità di organizzazione del servizio, entro una procedura di gara che sembra garantire margini di autonomia progettuale alle imprese coinvolte; questa percentuale scende al 64.4% se si includono nell’analisi anche i 33 casi di affidamento al massimo ribasso, considerandoli insufficienti dal punto di vista della valorizzazione della progettualità. I casi con valutazioni limitate agli aspetti organizzativi sono 25, il 15.5% del totale e i casi che considerano in modo insufficiente la progettualità sono 11 (o 44, pari al 22.7%, se si considerano anche gli affidamenti secondo il prezzo più basso.

Tabella 6.11 – Valorizzazione progettualitàFrequenza Percentuale

insufficiente 11 (33) 6.8 (22.7)solo aspetti organizzativi 25 15.5 (12.9)adeguata 125 77.6 (64.4)Totale 161 (194) 100.0

Emergono su questo tema subculture amministrative molto diverse, che vanno dalla disponibilità a rimettere in discussione l’organizzazione dell’ente a partire anche dalle proposte progettuali ricevute, alle sopravvivenze di affidamenti al massimo ribasso. In generale appare ancora necessario chiarire che l’oggetto di espressione progettuale non può consistere in una mera capacità di selezionare – formare – organizzare – licenziare personale, ma deve coinvolgere il nucleo centrale dell’affidamento, cioè consistere in un progetto di gestione del servizio affidato25.

Se si considerano gli aspetti inderogabili e qualificanti di un capitolato – sinteticamente: tariffe adeguate, aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, assenza di elementi (troppo spinti) di intermediazione di manodopera, valutazione di qualità accettabile – quanti sono i capitolati che possono essere valutati positivamente, in quanto non emergono particolari criticità su nessuno degli aspetti citati? E quanti mostrano in aggiunta particolari eccellenze, per una valutazione della qualità particolarmente accurata, per modalità di verifica avanzate, la capacità di valorizzare appieno la progettualità dell’interlocutore?

24 RaccomandazioniIn primo luogo, una volta definite da bando le attese dell’ente appaltante in termini di obiettivi generali e risultati auspicati, deve

esservi ampio spazio per articolare una proposta compiuta circa come realizzarli, che preveda la possibilità di articolare presupposti teorici di riferimento, strategie di realizzazione del servizio comprensive degli obiettivi intermedi, metodologie di azione, modalità di organizzazione del personale, ecc. Al contrario sono da evitare, oltre ai casi di intermediazione palese, anche le situazioni in cui l’autonomia dell’affidatario si limita ad aspetti di gestione del personale (es. selezione, turnazioni, ecc.) senza che questi abbia l’autonomia di strutturare il servizio secondo un proprio peculiare progetto di intervento.

25 RaccomandazioniLa raccomandazione in questo caso può essere riassunta semplicemente nella previsione che il punto di maggiore rilevanza, nella

valutazione dell’offerta tecnica, consista in un’esposizione circa obiettivi, modalità e strumenti di realizzazione del servizio.Non quindi le modalità di selezione o di gestione del personale, non l’organizzazione delle turnazioni, ma il progetto di servizio

deve essere il vero oggetto di valutazione della proposta.

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La tabella 6.12 fornisce una prima risposta ai quesiti: 78 affidamenti su 200 non presentano gravi criticità relativamente alle aree più sensibili sopra citate; di questi, 27 presentano particolari caratteri di eccellenza, che li rendono utili termini di paragone per futuri affidamenti. È solo il caso di notare che, quando si analizzassero solo i capitolati in cui è stato possibile dare un giudizio compiuto sull’adeguatezza delle tariffe, la quota di capitolati insufficienti sfiora il 70%.

Tabella 6.12 – Valutazione sinteticaTutti Solo con tariffe valutabili

Frequenza

Percentuale Frequenza Percentuale

insufficiente 122 61,0 102 69,9sufficiente - discreto

51 25,523 15,7

buono - ottimo 27 13,5 21 14,4Totale 200 100,0 146 100,0

Nel 35.5% dei casi la valutazione è pesantemente negativa perché coesistono due o più elementi gravi quali la base d’asta insufficiente, l’aggiudicazione al massimo ribasso, l’intermediazione di manodopera, la durata annuale o infra annuale e la presenza di clausole asimmetriche punitive; nel 25.5% dei casi (quelli cui, nella valutazione discreta, è stato attribuito punteggio pari a 5 su 10) sono nella maggior parte di casi affidamenti talvolta abbastanza ben curati, ma dove la base d’asta è inferiore agli criteri minimi fissati.

D’altra parte è corretto evidenziare come vi siano invece testi estremamente ben curati, in cui traspare in egual modo l’effettiva volontà dell’amministrazione di selezionare con trasparenza ed efficacia l’offerta migliore a vantaggio degli utenti e di instaurare un rapporto costruttivo con il partner di terzo settore. In questi affidamenti, oltre ad un importo economico congruo (o, in alcuni casi, dell’apertura a ricevere offerte in rialzo), la valutazione si centra in primo luogo sul progetto di gestione, i criteri di valutazione sono ben mirati al tipo di servizio affidato e il loro peso relativo è specificato in modo trasparente, la durata del rapporto è equilibrata rispetto ai risultati da conseguire e allo sforzo economico e organizzativo richiesto al partner.

6.4. Conclusioni

Semplificando, l’analisi dei capitolati evidenzia situazioni diverse, che possono essere così schematizzate:

• vi è una parte degli enti sostanzialmente estranea alla logica del “buon affidamento” che dà forma alla DGR 79/2953. Si tratta di affidamenti governati da una cultura che non individua specificità connesse al fatto di affidare servizi di cura e utilizza pertanto schemi logici analoghi a quelli cui fanno riferimento provveditorati per l’acquisto di beni o servizi in ambiti diversi dalla cura della persona. Questi enti affidano al massimo ribasso, o se utilizzano il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa inquadrano l’aspetto progettuale in senso limitativo – ad esempio come mera organizzazione di turni di personale o di sistemi di sostituzioni -; valutano la qualità in modo approssimativo, sono lontani da strumenti di verifica che interessino il merito sostanziale dei progetti.;

• vi sono casi intermedi, in cui una cultura dell’affidamento estranea o scettica rispetto alle peculiarità relative ai servizi di cura viene combinata con alcuni elementi che manifestano una qualche contaminazione con la cultura del “buon affidamento”. In questi casi elementi quali i riferimenti alla qualità appaiono generalmente “subiti” più che fatti propri per intima convinzione. In sostanza si tratta di enti che, forse per adempimento formale alle normative

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succedutesi, si rassegnano a lasciare almeno ufficialmente da parte le modalità di affidamento usuali in altri settori;

• vi sono casi in cui gli enti appaltanti dimostrano di avere ben presente almeno alcuni aspetti presenti nel dibattito culturale che ha portato alla cultura del “buon affidamento”, soprattutto dal punto di vista delle condizioni di salvaguardia dei lavoratori o delle prescrizioni di legge in materia di intermediazione di manodopera. Sono introdotte condizioni formalmente iper tutelanti a vantaggio dei lavoratori (nel senso di tutela non solo dei diritti da riconoscersi in forza di normative vigenti o di comuni prassi di tutela, ma anche di tutela aggiuntive originali) e misure sanzionatorie severe in caso che esse siano disattese. Lo stesso per gli aspetti di intermediazione di manodopera, rispetto ai quali si introducono negli articolati cautele ripetute. D’altra parte una lettura più approfondita non manca di generare perplessità: si richiedono misure di assoluta tutela per il personale, ma sono previste basi d’asta palesemente insufficienti, si specifica l’assenza delle caratteristiche formali dell’intermediazione di manodopera, ma non è richiesto / valutato un progetto di gestione del servizio in oggetto. A fronte di una irreprensibilità formale, facilmente questi affidamenti si allontanano nella sostanza dalla “cultura del buon affidamento”, salvo mantenere un margine di contrattualità che consenta all’amministrazione appaltante di agire in propria tutela laddove si originino delle criticità;

• vi sono casi in cui gli elementi che caratterizzano la cultura del buon affidamento sembrano non solo costituire l’adempimento ad una formalità, ma derivare da una reale concezione avanzata circa il rapporto tra enti pubblici e terzo settore; sono i (non molti) capitolati che hanno avuto voti eccellenti e in cui sembra di poter percepire in modo chiaro come le specifiche previsioni (sulla qualità, sulle verifiche, sulla modalità di valutazione, ecc.) siano un tentativo di tradurre una effettiva volontà di instaurare l’autentico rapporto di partenariato, di reciproca e comune responsabilizzazione e di valorizzazione della capacità progettuale del partner che costituisce il fondamento della DGR 79-2953 e della cultura in cui essa è maturata.

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7. Responsabilità sociale e reti per lo sviluppo locale: il bilancio sociale tra profit e nonprofit

Massimiliano Milici∗

Introduzione

Nell’era della globalizzazione, la “libertà” delle imprese da ogni preoccupazione e responsabilità nei confronti di uno specifico ambito spaziale genera la richiesta legittima, da parte della società, che queste non perdano di vista la complessa interdipendenza tra i fattori economici e quelli socio-politici connaturati e conseguenti alle loro scelte; e che si aprano ai territori, investendo di più nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con gli altri attori. Accanto al tradizionale bilancio di esercizio, nasce dunque l’esigenza di uno strumento in grado di comunicare non solo i risultati ma anche i processi produttivi ai suoi interlocutori.

Nato in seguito al consolidarsi della cosiddetta corporate social responsibility, il bilancio sociale tende a modificare il concetto stesso di impresa, che oltre a competere sul mercato e puntare a massimizzare l’utilità, si riconosce come istituzione responsabile inserita in un sistema di relazioni con l’ambiente in cui opera e con il quale inizia a dialogare. Se il bilancio sociale è uno strumento utile per l'impresa in genere, lo è ancora di più per quelle cooperative, e in particolare per le cooperative sociali: più che utile, in tali imprese esso appare indispensabile, sia per i caratteri propri di queste unità produttive, quali la mutualità, la solidarietà e la funzione sociale, sia, soprattutto, per i limiti oggettivi che in esse presenta il bilancio di esercizio.

Cercheremo in particolare di mettere a fuoco i seguenti aspetti:• il bilancio sociale come strumento di informazione-partecipazione per gli attori del territorio

(serve a mobilitare interessi, competenze, coalizioni);

• il suo valore aggiunto in termini di strategie aziendali (responsabilità e attenzione al sistema locale come fattore reputazionale);

• l’esperienza delle amministrazioni pubbliche, delle imprese private e del terzo settore;

• la dialettica tra i due poli della rendicontazione (bilancio come tecnica “tipica” di organizzazione aziendale) e della partecipazione (enfatizzata soprattutto sul versante delle istituzioni pubbliche e del settore non profit).

Una nuova “coscienza” per l’impresa contemporanea: dalla massimizzazione del profitto alla responsabilità sociale

Le imprese globalizzate non sono più radicate ma solamente ancorate ad un territorio: «l’impresa appartiene alle persone che investono in essa, non ai dipendenti, ai fornitori e neanche al luogo in cui è situata»26. La corrispondenza stretta tra territorio e impresa, una corrispondenza alimentata da controlli informali e da forme di mutuo aiuto, viene meno o tende comunque a ridefinirsi in termini sostanziali, nonostante il contesto socio-economico in cui opera sia popolato di vari stakeholders 27.

Borsista Lagrange, Fondazione CRT - Università del Piemonte Orientale.26 « L’ “economia”, il capitale, cioè il denaro e le altre risorse necessarie a fare delle cose, e ancor più denaro e più cose, si muove rapidamente; tanto da potersi tenere un passo avanti rispetto a qualsiasi entità politica (come sempre, territoriale) che voglia contenerne il moto e farne mutare direzione […] Lo spazio ha smesso di essere un ostacolo basta una frazione di secondo per conquistarlo. Non ci sono più “confini naturali”, né spazi da occupare. » Z. Bauman, 1999) Dentro la globalizzazione, Laterza, Bari, pp. 9, 63, 87.27 Portatore di interesse. L’espressione nasce dalla consuetudine di farsi aiutare da qualcuno quando si pianta un bastone in terra: lo stakeholder è colui che tiene (hold) il bastone (stake) e ha l’interesse affinché chi martella con la mazza non sbagli la mira. Di qui la

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Il passaggio da un capitalismo manageriale produttivista ad un capitalismo manageriale azionario28 rinnova l’importanza del concetto di trasparenza, il quale sta diventando sempre più una necessità per le imprese. È necessario che la conoscenza della situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa sia integrata con adeguate forme di comunicazione che rendano meglio conto del fatto che l’impresa moderna è un sistema “aperto” di elementi collegati e interagenti con altri sistemi che rappresentano l’ambiente esterno. Questa visione dell’impresa si contrappone decisamente alla precedente di tipo fordista: verticalmente integrata secondo i principi di una rigida gerarchia organizzativa, in grado di realizzare prodotti e servizi standardizzati sfruttando economie di scala e ottimizzazione dei processi produttivi.

La rivoluzione nella visione dell’attività di impresa segna così un passaggio da una logica produci-vendi, ad una logica ascolta-rispondi, con evidenti implicazioni sul ruolo del marketing come strumento di relazione con l’ambiente socio-economico di riferimento, e non solo di pressione su di esso. Si costruisce un rapporto sinergico, non più monodirezionale (modellato, cioè, intorno all’impresa), con il territorio circostante, determinato dall’apertura alle opportunità che quest’ultimo tende ad offrire: ci si impegna a soddisfare le sue richieste e le sue sollecitazioni, in compatibilità con le esigenze interne. Non tutto l’ambiente esterno naturalmente risulta rilevante e diventa fondamentale comprendere con chiarezza quale è l’ambito di riferimento dell’impresa, ai fini di valutare la provenienza di eventuali opportunità o vincoli: il territorio « è il punto nel quale convergono aspettative, opportunità e tensioni di una pluralità di attori istituzionali e sociali »29.

Le esternalità negative o diseconomie di tipo sociale eventualmente conseguenti all’esercizio d’impresa non possono più ritenersi, sostanzialmente, il prezzo che la comunità deve pagare all’intraprendenza e al dinamismo aziendali30; allo stesso modo non è più possibile continuare a considerare lo Stato come l’unico soggetto cui spetti l’eliminazione o l’attenuazione di tali effetti. Si genera così una accountability (rendere conto), nel senso che le organizzazioni devono essere in grado di giustificare pubblicamente i propri comportamenti e una corporate responsibility (responsabilità d’impresa) nel contribuire alla qualità sociale oltre che al benessere economico. L'impegno per la salute e la sicurezza dei lavoratori, il rispetto dell'ambiente e il trattamento equo dei dipendenti, l'astensione dal pagamento di tangenti, sono gli ambiti nei quali ci si aspetta maggiore responsabilità da parte delle imprese.

I consumatori, inoltre, sono sempre più sensibili al deterioramento dell’ambiente provocato dall’attività economica e agli aspetti etici dell’impresa, ossia al come un bene è stato prodotto31; e un numero sempre crescente di soggetti32 non si accontenta più del soddisfacimento del rapporto

traduzione come portatore di interesse o parte interessata. Sono attori (persone o organizzazioni) che hanno una posta in gioco, una scommessa, e possono influenzare i processi di business o ne sono influenzati. Gli stakeholders possono essere soggetti interni all’organizzazione aziendale come il management, i lavoratori, gli azionisti; oppure esterni, come i clienti, i fornitori, le autorità pubbliche, la comunità locale. Sono coloro che sopportano una porzione di rischio poiché hanno investito del capitale (umano o finanziario), o qualche tipo di valore in un’Organizzazione, oppure subiscono l’output dell’attività di impresa. 28 Il capitalismo manageriale produttivista si caratterizza per il fatto che il potere dei manager è impiegato maggiormente a favore degli interessi degli stakeholders, quello manageriale azionario perchè tale potere è rivolto alla massimizzazione della ricchezza degli azionisti. Secondo L. Gallino (2005, L’impresa irresponsabile, Einaudi, Torino) le imprese governate dal capitalismo produttivista hanno agito in modo più socialmente responsabile di quelle contemporanee, dominate dal capitalismo azionario.29 G.L. Bulsei, 2005, Ambiente e politiche pubbliche. Dai concetti ai percorsi di ricerca, Carocci, Roma, p. 86.30 E’ opportuno distinguere tra costi che l’impresa scarica sull’ambiente sociale senza pagarne il prezzo di mercato (diseconomie esterne) e benefici che l’impresa genera senza farne pagare il prezzo (economie esterne). La rappresentazione di questi valori va oltre i fini e gli scopi del bilancio d’esercizio perché i costi-benefici espressi nel bilancio ordinario sono i costi-ricavi dell’impresa, conseguiti sul mercato, mentre le economie e diseconomie esterne si riferiscono ai costi-ricavi extramercato della società civile in relazione all’attività dell’impresa.31 « … si tratta di pensare al mercato non solo come meccanismo di allocazione delle risorse, ma anche come … spazio nel quale il consumatore è cittadino, vale a dire portatore di diritti nei confronti non solo della qualità del prodotto bene o servizio che sia – ma anche del processo produttivo che conduce a quel prodotto.» (L. Bruni; S. Zamagni, 2004, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Bologna, Il Mulino, p. 165)32 ‹‹ … in tutti i Paesi esiste una minoranza – talvolta consistente – che dichiara di essere passata "dalle parole ai fatti" ovvero di avere boicottato i prodotti o i servizi di un'azienda per il suo comportamento socialmente irresponsabile. La dimensione etico-sociale sembra dunque acquisire una rilevanza crescente nella valutazione dei comportamenti dei soggetti economici. Ed è assai probabile che in futuro la "qualità etica" sia destinata a divenire una componente di rilievo della "corporate reputation" e un effettivo criterio di scelta di prodotti e servizi soprattutto da parte dei consumatori più attenti e informati ›› [da Corporate Social Responsibility Monitor

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qualità-prezzo ma vorrebbe, con il proprio comportamento (consumo “critico”), contribuire a costruire la qualità dei beni e dei servizi offerti sul mercato. Dico vorrebbe perché, in realtà, la persistenza di “asimmetrie informative” – in presenza di informazione asimmetrica degli operatori chi ha una visione più completa della situazione può sfruttare tale differenziale a proprio vantaggio – non permette che prenda corpo il principio della sovranità del consumatore, teorizzato già a metà dell’ottocento da J.S. Mill. Il principio afferma che il consumatore è sovrano quando, disponendo liberamente del proprio potere d’acquisto, è in grado di orientare, secondo il suo sistema di valori, i soggetti di offerta sia sui modi di realizzare i processi produttivi sia sulla composizione dell’insieme di beni da produrre. Ciò non toglie che ci siano delle significative eccezioni33.

Oggi si può affermare che si è passati dalla libertà di scelta come potere di autodeterminazione - secondo cui la libertà è valutata per ciò che essa ci consente di fare e di ottenere - alla libertà di scelta come potere di autorealizzazione, come potere cioè di scegliere non solo il mezzo migliore per un dato fine, ma anche il fine stesso. Di conseguenza, « se l’obiettivo da perseguire è quello di come giungere ad un ordine sociale soddisfacente per società post-moderne come sono ormai le nostre, allora anche il consumo non può non essere un fattore di civilizzazione, evolvendo verso forme culturalmente sempre più ricche »34.

Se a livello macroeconomico si mette in dubbio sempre più la capacità del PIL di misurare la ricchezza e il benessere di un paese, e al suo posto si cercano altri indicatori sociali che riescano ad esprimere meglio la complessità e le necessità del nuovo sistema, non è più sostenibile la massima di M. Friedman secondo la quale il solo obiettivo di un’impresa è quello di ottenere il massimo profitto (ovviamente in un mercato aperto, corretto e competitivo), per produrre ricchezza e lavoro per tutti, nel modo più efficiente possibile35. Le imprese, consapevoli del loro mutato ruolo nell’ambiente, della fusione della componente sociale con quella economica e della nuova importanza assunta dall’etica nell’ambito imprenditoriale, possono/devono al tempo stesso contribuire ad obiettivi meta-economici. Oltre ad una funzione economica, si deve “volontariamente” assolvere ad una responsabile funzione sociale, che deriva proprio dall’essere presente nel più ampio sistema sociale: si può/deve ricercare una giusta proporzione tra interessi particolari delle singole unità produttive e interessi generali dell’intera collettività36. La coscienza del cittadino e del consumatore si interseca con quella del produttore e quest’ultimo può riuscire a perseguire il profitto avendo riguardo e difendendo, al tempo stesso, alcuni valori fondamentali.

L’impresa, con l’accollo di una responsabilità sociale, sostanzialmente porta nuovamente a carico della struttura organizzativa quei costi che in passato erano stati esternalizzati e posti a carico dell’intera collettività in termini di diseconomie o meglio di perdite sociali. La responsabilità sociale, però, come la gestione della qualità può essere considerata un investimento (migliora, tra l’altro, l’immagine e la reputazione aziendale) e non un sacrificio: forse proprio l’opportunità di trovare dei benefici di natura economica assumendo comportamenti socialmente responsabili, rappresenta l’incentivo per scuotere le “coscienze”. Molte imprese dovrebbero comunque far

(CSR), un'indagine internazionale che viene annualmente realizzata, con identico questionario, in 20 Paesi di 5 continenti].33 Come esempio paradigmatico si può citare il caso della multinazionale Nike. Dopo che alcune associazioni di consumatori avevano denunciato lo scandalo del lavoro minorile mal pagato in India e Pakistan, per effetto di una organizzata campagna di boicottaggio, il titolo Nike in poco più di cinque mesi ha quasi dimezzato il suo valore. 34 S. Zamagni, 2003, “La responsabilità sociale d’impresa: presupposti etici e ragioni economiche”, in Il Ponte, 11.35 M. Friedman, (“Capitalism and freedom”, University of Chicago Press, Chicago, 1962, p.133; “The Social Responsibility of Business Is to Increase its Profits”, New York Times Magazine, September 13, 1970). L’impresa, massimizzando il valore per gli azionisti, massimizza il benessere per tutti, adempiendo pienamente in questo modo alla sua funzione sociale. Poiché il profitto è un indicatore sintetico dell’efficiente uso delle risorse, l’impresa che lo massimizza fa il miglior uso possibile di risorse scarse, evitando sprechi e distorsioni, e dunque contribuisce a creare, pur senza volerlo intenzionalmente, “ricchezza e lavoro per tutti”. Friedman aveva definito, sulla base di tali presupposti, la dottrina della responsabilità sociale «profondamente sovversiva». 36 La ricerca di tale proporzione emerge nella tesi di H.A. Simon sul comportamento amministrativo, secondo cui l’impresa è fondamentalmente un “organismo” nel quale convivono diversi centri di potere, ognuno dotato di un suo specifico obiettivo da raggiungere. Ad esempio, i lavoratori desiderano alti salari, decenti condizioni di lavoro e buoni trattamenti pensionistici; i manager vorranno assicurarsi alti stipendi e cercheranno di accrescere il loro potere e prestigio; gli azionisti mirano ad alti profitti e all’espansione del capitale societario. E così via. Il problema è allora quello di come coordinare interessi plurimi, di come rendere tra loro compatibili gli obiettivi dei diversi portatori di interessi.

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accettare agli azionisti la scelta di sostenere ulteriori investimenti per gestire la propria attività in maniera socialmente responsabile. Ciò sarebbe possibile solo qualora il management dimostrasse che agli investimenti sostenuti corrisponderebbero delle migliori performance. Ma se è possibile calcolare l’ammontare di un investimento, è estremamente difficile monetizzare il vantaggio ad esso connesso in termini di ritorno d’immagine. Occorre, allora, diffondere casi di imprese le quali, persuase che la loro attenzione alle questioni sociali rivestirà un'importanza strategica per assicurare il loro successo commerciale a lungo termine, hanno ottenuto benefici e hanno incrementato la loro competitività. E’ stato sottolineato, infatti, quanto sia importante lo scambio delle rispettive esperienze e buone pratiche in materia di responsabilità sociale, come mezzo efficace per sviluppare ulteriormente tale concetto37.

Un ruolo non indifferente dovrebbe essere assunto dal settore pubblico, come evidenziato dalla comunicazione della Commissione sullo sviluppo sostenibile, cui ha aderito il Consiglio europeo di Göteborg: «L’azione dei pubblici poteri è…essenziale per incoraggiare le imprese a prendere ulteriormente coscienza delle loro responsabilità sul piano sociale e per creare un quadro che consenta di garantire che le imprese integrino gli aspetti ambientali e sociali nelle loro attività... Occorre incoraggiare le imprese a integrare in modo attivo lo sviluppo sostenibile nelle attività che esse realizzano all’interno dell’Unione europea e nel mondo38».

Corporate social responsibility: struttura organizzativa e modello di governance

Il Libro Verde della Commissione Europea “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”, pubblicato il 18 luglio del 2001, definisce la Responsabilità sociale d’impresa (RSI) – o Corporate social responsibility (CSR) – come « l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate. Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là, investendo nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate » (p. 7)39.

Il mutamento di scenario, l’importanza dell’informazione e della sensibilizzazione della clien-tela, ragioni di governance aziendali – è sempre più difficile per il management un controllo dei propri collaboratori e dipendenti, per utilizzare risorse e capacità nascoste, disperse o malamente utilizzate – e la necessità di favorire processi di produzione e di diffusione della conoscenza all'in-terno dell’organizzazione, impongono alle imprese di utilizzare i vari strumenti di Corporate social responsibility 40.

La CSR ha bisogno di una struttura organizzativa e di un modello di governance all’altezza; « la governance prevede, la creazione di una struttura o di un ordine che non viene imposto dall’esterno ma che è il risultato dell’interazione di una molteplicità di attori che si influenzano reciprocamente

37 Vedi la Comunicazione della Commissione, 2002, “ Responsabilità sociale delle imprese: un contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile” , Bruxelles.38 Commissione europea, 2001, Libro Verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”, Bruxelles, p. 5.39 Con il Libro Verde la Commissione ha avviato un processo di consultazione, chiedendo a tutti i possibili interlocutori (imprese, sindacato, organizzazioni non governative, privati ed altre parti interessate) consigli e suggerimenti sulle strategie da adottare per promuovere la responsabilità sociale. Secondo il Libro Verde un numero sempre maggiore di imprese europee promuove strategie di responsabilità sociale in risposta ad una serie di pressioni sociali, ambientali ed economiche. Con ciò si dà un contributo positivo all’obiettivo strategico fissato al Consiglio Europeo di Lisbona di fare diventare l’Europa l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di crescita economica sostenibile accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da una maggiore coesione sociale. 40 In modo particolare del bilancio sociale. Tra gli strumenti di CSR (o RSI), tuttavia, si può fare riferimento anche all’ SA8000, un sistema di responsabilità sociale predisposto, nell'ottobre 1997, dal CEPAA - Council on Economic Priorities Accreditation Agency - un ente non profit americano che, nel 2001, si è trasformato in SAI - Social Accountability International. Il sistema SA8000 viene liberamente scelto dalle imprese per segnalare ai consumatori socialmente responsabili che i propri prodotti sono stati ottenuti rispettando tutta una serie di parametri riguardanti le condizioni di lavoro e di rispetto dei diritti fondamentali. In pratica, si tratta di parametri che "misurano" l'eticità dell'intero ciclo produttivo.

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»41 e la sua bontà dipende dalla completezza delle informazioni, dalla ricchezza dei punti di vista, dalla varietà e complessità delle diverse soluzioni, in quanto « processo di coordinamento di attori, gruppi sociali, istituzioni per il raggiungimento di obiettivi propri discussi e definiti collettivamente in ambienti frammentati, incerti 42 ».

Un’impresa che volontariamente s’impegni ad essere socialmente responsabile ha pertanto bisogno di modificare completamente il proprio modello di governance e la propria struttura organizzativa, al fine di essere in grado di prestare una maggiore attenzione ai bisogni di tutte le categorie di stakeholders. Nello specifico, l’integrazione degli elementi economici, sociali e ambientali nei valori, nella cultura, nelle iniziative e nelle scelte organizzative aziendali, costituisce il presupposto per amministrare la responsabilità sociale d’impresa, generando un continuo miglioramento nell’expertise gestionale.

Un sistema di gestione della CSR si articola in alcune fasi, logicamente connesse: pianificazione, implementazione, verifica, eventuale correzione e, infine, comunicazione.

Nella prima fase (pianificazione del sistema di gestione aziendale della CSR) si cerca di motivare/sensibilizzare la dirigenza sul tema della CSR, spingendola ad un serio impegno su queste tematiche; poi si provvede ad includere gli impegni assunti nelle strategie e nelle politiche d’azienda, fissando aree e responsabilità relative ai rapporti impresa-stakeholders; segue, pertanto, la socializzazione interna (organizzazione aziendale) degli impegni presi, nonché degli strumenti per attuare il sistema di gestione della CSR. La seconda fase (implementazione del sistema di gestione della CSR) prevede, a tutti i livelli operativi, un’attenta rideterminazione di processi e programmi di attuazione. Per monitorare e verificare (terza fase) i risultati dell’implementazione del sistema di gestione della CSR e provvedere all’eventuale quarta fase (correzione) si includono idonei strumenti di controllo. Infine, l’ultima fase (comunicazione) è finalizzata a rendere partecipi i vari portatori di interessi circa l’assunzione di responsabilità sociale da parte dell’impresa.

L’impresa che assoggetta qualsiasi determinazione, in campo economico, sociale ed ambientale, alla creazione di valore nel breve termine per l’azionista – secondo i dettami del capitalismo manageriale azionario , tende ad agire irresponsabilmente in tali ambiti. Il concetto di responsabilità sociale, al contrario, implica un consolidamento dei rapporti tra impresa e territorio. Quest’ultimo, inteso nel senso di sistema locale, legato alle sue componenti sociali ed istituzionali, può essere sia prodotto che fattore dei processi di sviluppo, e non semplice sfondo o piattaforma. Tale consolidamento, allora, esige un nuovo governo, interno ed esterno, dell’impresa che abbia esplicitamente tra le proprie finalità quelle molteplici della responsabilità sociale. Può, il bilancio sociale, considerarsi uno degli strumenti di tale auspicabile impegno verso la CSR?

I Principi fondamentali del bilancio sociale

Di bilancio sociale si parla in Italia dalla fine degli anni '70, ma i primi studi di natura aziendale sono apparsi all'inizio del decennio successivo. Una spinta sulla via della sua diffusione si è regi-strata nei primi anni '90 con l'avvento delle cooperative sociali e al momento esiste una ampia gamma di documenti denominati tutti “bilancio sociale” che in comune hanno solo il nome.

Con l’obiettivo di dare a tale nuovo strumento un contenuto uniforme, si è costituita l’associazione Gruppo di Studio per il Bilancio Sociale (GBS) che ha predisposto un insieme di principi uniformi di redazione43.

41 A. Sabbatini, 2005, «Governance», in La Rivista delle Politiche Sociali n. 2, p. 408.42 P. Le Galès, 1998, “La nuova «political economy» di città e regioni”, in Stato e mercato n. 52, p. 77 .

43 I Principi GBS di Redazione del Bilancio Sociale, presentati a Roma nel maggio 2001, costituiscono le linee guida accreditate in Italia per la redazione del bilancio sociale, predisposte da un gruppo di studio multidisciplinare, cui hanno partecipato organi professionali, Università, i massimi esperti di bilancio sociale, ed il mondo scientifico. I Principi GBS hanno recepito la metodologia di approccio al bilancio sociale elaborata dall’Istituto Europeo del Bilancio Sociale (IBS).

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Il bilancio sociale è un documento integrativo di comunicazione e di valutazione dell'aspetto sociale dell'attività aziendale. Serve per considerare, rappresentare, comunicare e controllare i risultati sociali; serve anche per attuare una “pianificazione strategica” degli obiettivi sociali. Esso si collega al bilancio di esercizio e ne amplia le informazioni. A differenza di quest’ultimo, la cui redazione è disciplinata dai principi di economia aziendale e di ragioneria, dai principi contabili nazionali e internazionali, nonché dalle norme del codice civile e da quelle tributarie, per il bilancio sociale non ci sono prescrizioni regolate e definite dall’autorità della legge. Nella fig. 8.1 sono schematicamente indicati i principi o postulati fondamentali obbligatori del Bilancio d’esercizio e quelli GBS da seguire volontariamente nel momento in cui si ricorre al bilancio sociale. Si può notare che i principi del Bilancio d’esercizio convergono con quelli del bilancio sociale (vedi tab. 8.1).

Pur se non è soggetto a particolari forme di pubblicità, il secondo deve essere posto a disposizione di chi ha interesse a conoscerlo; deve essere redatto periodicamente, con cadenza annuale, e deve abbracciare tutto l'esercizio sociale; deve essere formato secondo criteri uniformi che consentano la comparabilità all'interno della stessa azienda nel tempo e tra aziende diverse.

Nel documento prodotto, si fissano alcuni requisiti minimi ed inderogabili che i bilanci sociali devono presentare per definirsi tali (fig. 8.2). Un bilancio sociale dovrebbe constare di tre parti: una dedicata all’identità sociale (storia, missione e valori dell’azienda), l’altra alla produzione e distribuzione del valore aggiunto44, la terza alla relazione sociale (che riferisce sui rapporti, non soltanto di scambio, tra l'azienda e i suoi interlocutori45).

44 Sono stati individuati tre livelli diversi di valore:1. un primo livello comprende profitto e capital gain, ossia una forma reddituale e patrimoniale di remunerazione

degli azionisti;2. un secondo livello comprende ricchezza generata a vantaggio di dipendenti, clienti, fornitori e ogni altro

interlocutore dell’impresa;3. un terzo livello comprende lo sviluppo di competenze delle persone che sono legate all’impresa, un miglioramento

in termini di immagine e di benefici sociali e ambientali.45 Nella proposta avanzata dal "Gruppo bilancio sociale" gli interlocutori sono così individuati: risorse umane (personale), soci, finanziatori, clienti, fornitori, pubblica amministrazione, collettività, ambiente; e sono anche previste le informazioni minime che devono essere fornite. Alcune di esse sono comuni a tutti gli interlocutori, altre, invece, variano in relazione ai gruppi.

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Figura 8.1 - Bilancio sociale e bilancio d'esercizio a confronto

Fonte: nostra elaborazione da Vermiglio 2000a e 2000b

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BILANCIO D’ESERCIZIO

BILANCIO SOCIALE

PRINCIPI GENERALI O POSTULATICHIAREZZA

COMPLETEZZA DELLE INFORMAZIONI

NEUTRALITÀ

COMPETENZA

PRUDENZA

RILEVANZA E SIGNIFICATIVITÀ

COMPARABILITÀ

PERIODICITÀ

ATTENDIBILITÀ

CONFORMITÀ

OMOGENEITÀ

PRINCIPI GENERALI O POSTULATI

L’ESPLICITAZIONE DELL'IDENTITÀ AZIENDALE (PER RENDERE NOTA AI TERZI: GLI INTERESSI CHE CONVERGONO IN AZIENDA, COME SONO PERCEPITI DA CHI HA RESPONSABILITÀ DI GOVERNO, A CHI E COME SONO AFFIDATE QUESTE RESPONSABILITÀ; I PRINCIPI CHE ISPIRANO IL COMPORTAMENTO AZIENDALE E GLI OBIETTIVI PERSEGUITI; I COLLEGAMENTI ESISTENTI TRA VALORI DICHIARATI, POLITICHE E SCELTE COMPIUTE)

IL PROCESSO SEGUITO PER LA FORMAZIONE DEL BILANCIO SOCIALE

L’IDENTIFICAZIONE DEGLI STAKEHOLDERS

L’INCLUSIONE, OSSIA LA POSSIBILITÀ DI DARE VOCE ALLE SINGOLE CATEGORIE DI STAKEHOLDERS E LA DESCRIZIONE DELLE METODOLOGIE DI INDAGINE E DI REPORTING ADOTTATE

LA VERIFICABILITÀ DELLE INFORMAZIONI ATTRAVERSO LA RICOSTRUZIONE DEL PROCEDIMENTO DI RACCOLTA, RENDICONTAZIONE E VERIFICA DEI DATI E DELLE INFORMAZIONI

Tabella 8.13 - I principi del bilancio d'esercizio applicabili al bilancio sociale

CHIAREZZAI lettori del bilancio devono essere posti in condizione di comprendere con facilità le notizie in esso contenute

COMPLETEZZALe informazioni devono riguardare tutte le categorie di soggetti (non sono ammesse esclusioni e tutte le categorie devono poter esprimere le loro opinioni)

NEUTRALITÀLe informazioni devono essere imparziali, nel senso che non devono servire a favorire interessi di parte o antagonisti

COMPETENZARiguarda il periodo di riferimento degli accadimenti da prendere in considerazione, che coincide con quello in cui si manifestano gli effetti sociali

PRUDENZA

Le valutazioni e i giudizi devono essere credibili, e vanno espressi con riferimento agli eventi definitivamente verificati, evitando comportamenti arbitrari che possono trasfigurare il quadro delle potenzialità sociali dell'azienda

RILEVANZA E SIGNIFICATIVITÀ

Si riferiscono all'impatto che gli eventi considerati hanno effettivamente prodotto nell'ambiente e nella realtà circostante

COMPARABILITÀ

La possibilità di mettere a confronto i bilanci sociali della stessa azienda riferiti a più esercizi, o quelli di differenti aziende del medesimo settore riferiti allo stesso esercizio. I confronti sono di fondamentale importanza nella formulazione dei giudizi, e si possono fare solo se i dati sono omogenei, se riguardano periodi di uguale durata, se sono verificabili, se sono stati raccolti e trattati seguendo gli stessi principi e, soprattutto, se la procedura utilizzata è conforme a quella suggerita

Fonte: nostra elaborazione da Vermiglio 2000a e 2000b

Figura 8.2 - Requisiti minimi essenziali del bilancio sociale.

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Fonte: nostra elaborazione

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Bilancio sociale

Identità sociale

Produzione e distribuzione del valore aggiunto

Relazione sociale

Storia, missione, valori

Rapporti con i suoi interlocutori

Azienda

Remunerazione azionistiRicchezza per gli altri interlocutoriSviluppo competenze, miglioramento immagine, benefici socio-ambientali

7.1 Il “valore aggiunto” del bilancio sociale

Con il bilancio sociale l’impresa comunica periodicamente, all’interno e all’esterno, una misurazione dell’impatto sociale, ambientale ed economico delle proprie attività, una valutazione dei risultati ottenuti in relazione agli impegni assunti e agli effetti prodotti. Il bilancio sociale deve essere un documento informativo imparziale, oggettivo e trasparente, per essere in grado di assicurare una serie funzioni/benefici (GBS 2001; http://www.gruppobilanciosociale.org/index.asp).

1. Funzione di comunicazione e promozione:a. ridimensionamento dei conflitti interni ed esterni all’impresa, attraverso la cono-

scenza degli interventi nel sociale b. miglioramento dell’immagine aziendale c. riduzione delle asimmetrie informative, grazie ad un bilancio più trasparente, giove-

rebbe ai rapporti con gli stakeholders (i soggetti interessati sarebbero in grado di stabilire così la reputazione che l’impresa merita e conseguentemente decidere se darle o meno fiducia in futuro)

d. generale aumento di fiducia, reputazione e consenso sociale.2. Funzione programmatica, gestionale e strategica:

a. il bilancio sociale misura il comportamento sociale delle imprese valutando ciò che la contabilità ordinaria non considera

b. consente di avere una visione più comprensiva dell’ambiente in cui si opera, attraverso una sistematica attività di consultazione su interessi, bisogni e aspettative degli stakeholders, al fine di formulare o rivedere le politiche aziendali

c. il continuo monitoraggio dello strumento permette l’eventuale adozione di interventi correttivi, fornendo supporto alle decisioni operative.

3. Funzione di partecipazione, organizzazione interna, verifica istituzionale:a. grazie al coinvolgimento dei vari ruoli aizendali nella redazione del bilancio sociale,

cresce la coesione interna all’organizzazione; b. il bilancio sociale consente di analizzare il ruolo e le relazioni dell’impresa nel

contesto sociale e di indicare i margini di cambiamento/miglioramento c. il bilancio diventa uno strumento di confronto tra missione e gestione, per accertare

se gli assunti sui quali l’impresa si è costituita e sviluppata sono concretamente rispettati;

d. la sua redazione implica la raccolta ed elaborazione di informazioni che servano di per sé, indipendentemente dalle finalità operative, allo sviluppo di una cultura della responsabilità.

Si è ripetutamente fatto riferimento agli stakeholders: con tale termine non s’intendono esclusivamente coloro che investono risorse nell’organizzazione aziendale, rischiano, e si aspettano dall’impresa di ricevere valore (in ossequio ai tre concetti economici fondamentali: rischio, investimento, valore): questi possono essere soggetti interni all’organizzazione aziendale come il management, i lavoratori, gli azionisti; oppure esterni, come i clienti, i fornitori, le autorità pubbliche, la comunità locale riferimento. Ma sono reputati stakeholders ai quali rendere conto solo quegli interlocutori che sono in qualche modo interessati alla sopravvivenza dell’impresa o anche coloro che sono ad essa ostili? Inoltre, si deve tener conto solo degli interlocutori che possono costituire una minaccia (o un’opportunità) rilevante per management e azionisti o si deve prestare interesse a tutti gli interlocutori, inclusi coloro che non hanno nessuna voce (si pensi alle generazioni future)?

Realizzare un processo partecipato ed inclusivo46 vuol dire proprio mettere a confronto tutti i punti di vista e gli interessi coinvolti senza escludere nessuno a priori, superando eventuali resi-stenze all’apertura ed attivando risorse e competenze non sempre disponibili: l’esclusione di qual-cuno potrebbe privarci di concreti apporti. Dopo una mappatura degli attori, sarebbe meglio proce-dere gradualmente nel coinvolgimento degli stessi, partendo da quelli più rilevanti e disponibili; non dimenticando che l’adozione di politiche di lungo termine, che abbiano a cuore anche chi ne sarà “indirettamente” destinatario, conviene a tutti, sempre. E’ importante, quindi, non cedere alle lusinghe dell’autoreferenzialità, né ridurre il consuntivo sociale ad un mero atto amministrativo, limitandosi a descrivere ciò che accade in azienda ed i rapporti intrattenuti con l’esterno, senza consentire a tutte le categorie di partecipare esprimendo le proprie aspettative-opinioni.

Perché, allora, è conveniente per l’impresa acquisire l’immagine di soggetto socialmente respon-sabile? Soprattutto perché la partecipazione attiva degli stakeholders ai “destini” dell’impresa e, reciprocamente, di quest’ultima a quelli della comunità locale, incrementa fiducia e cooperazione: «si tratta di individuare un’immagine relativamente condivisa delle possibilità di un’area, e di creare un contesto attrezzato di interazioni cooperative sul più lungo periodo»47. E si intuisce facilmente che il rafforzamento della coesione sociale costituisce un positivo presupposto per lo sviluppo: una società coesa è una società che riesce a valorizzare meglio le proprie risorse e a creare più benessere collettivo.

La rendicontazione sociale, in ultimo, potrebbe costituire una di quelle occasioni, presenti in si-tuazioni specifiche, che gli attori locali selezionano e combinano per l’accrescimento dei beni col-lettivi – quali fattori fondamentali della competitività – come la diffusione di conoscenze specializzate e l’accrescimento del capitale sociale48, sia di capitale sociale che rinforza i confini di una rete (bonding), che di capitale che permette connessioni fuori della rete (bridging)49. Un sistema locale competitivo deve riuscire a connettersi in reti esterne per trovare ciò che manca all’interno, e capace di una fitta interazione fra i soggetti interni al sistema locale.

Il Bilancio sociale nel settore non profit

Se il bilancio sociale è uno strumento utile per l'impresa in genere, lo è ancora di più per quelle di tipo cooperativo. Più che utile, in tali imprese esso appare indispensabile, sia per i caratteri propri di queste unità produttive, quali la mutualità, la solidarietà e la funzione sociale, sia, soprattutto, per i limiti oggettivi che in esse presenta il bilancio di esercizio. In una cooperativa i soci realizzano un vantaggio reciproco partecipando, in termini di assoluta parità, alla vita dell’impresa. La solidarietà si coniuga con la razionalità economica, diventando meccanismo di scambio e di regolazione delle relazioni tra le persone. Si manifesta concretamente con l'apporto di condizioni e fattori produttivi a titolo gratuito o comunque a prezzi inferiori rispetto a quelli correnti nel mercato, ma non trova espressione adeguata nel convenzionale bilancio economico.

Nel momento in cui le risorse disponibili non sono più fornite solo dai soci, ma provengono dall’esterno attraverso risorse pubbliche (contributi, appalti o convenzioni) e private (donazioni o erogazioni di fondazioni), è necessario presentare anche la ricaduta sociale dell’attività svolta, che gli strumenti tradizionali non riescono a comunicare appieno, dando all’esterno una visione completa dell’organizzazione non profit e delle sue finalità etiche oltre che economiche. La finalità principale del bilancio sociale è perciò quella di presentare il ruolo sociale e quindi d’interesse

46 «… inclusivo perché esso cerca, appunto, di includere un certo numero (più o meno ampio) di soggetti interessati a quel problema e di farli partecipare alle scelte ». Luigi Bobbio, 2004 (a cura di), A più voci. Amministrazioni pubbliche, imprese, associazioni e cittadini nei processi decisionali inclusivi “, Analisi e strumenti per l’innovazione, Edizioni scientifiche, Napoli.47 A. Bagnasco, 2006, “Imprenditorialità e capitale sociale: il tema dello sviluppo locale”, in Stato e mercato n. 78, p. 421.48 L’insieme delle relazioni sociali di cui può disporre un soggetto individuale o collettivo e attraverso le quali si rendono disponibili risorse cognitive e/o normative attraverso cui realizzare obiettivi altrimenti irraggiungibili. C. Trigilia, 1999, “Capitale sociale e sviluppo locale”, in Stato e mercato n. 57, p. 423.49 A. Bagnasco, 2006, p. 414.

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pubblico dell’attività svolta da parte dell’organizzazione non lucrativa. Inoltre il bilancio sociale svolge un ruolo di “certificazione” della prevalenza delle attività sociali rispetto a quelle svolte sul mercato, anche in considerazione del fatto che le cooperative sociali usufruiscono delle particolari di agevolazioni fiscali acordate alle Onlus (D. Lgs n. 460/1997).

Il bilancio sociale potrebbe costituire l’anello di congiunzione tra le aziende profit che devono confrontarsi con il loro nuovo ruolo sociale e le organizzazioni non profit: l’integrazione tra il bi-lancio economico e quello sociale potrebbe avvicinare i due tipi di aziende, spingendo le prime ad assorbire realmente al proprio interno alcuni valori tipici del terzo settore e le seconde a perseguire una solidarietà efficiente anche dal punto di vista economico50. Finora l’importanza del settore non profit rimane legata alla capacità di «perseguire in modo più efficace gli obiettivi di solidarietà sociale, che ne costituiscono la loro ragion d’essere51»; sono messe in secondo piano, invece, le potenzialità delle organizzazioni del terzo settore come vettori di sviluppo delle comunità locali, grazie proprio al loro saper produrre integrazione e al loro ruolo di generatori di «capitale sociale non tradizionale, quale requisito indispensabile per lo sviluppo e l’innovazione di aree sistema 52».

Le prime linee guida per la rendicontazione sociale nelle pubbliche amministrazioni

Nonostante l’espressione bilancio sociale sia ormai entrata nella Pubblica amministrazione, manca ancora una visione condivisa di cosa rappresenti tale strumento e a quali obblighi ci si deve riferire all’atto della sua preparazione 53. Allo stato attuale, non esiste nel nostro paese alcun atto normativo che disciplini la redazione del bilancio sociale.

La possibilità di affiancare al tradizionale bilancio contabile anche una sorta di relazione delle attività sociali svolte è, in parte, prefigurata dal decreto legislativo n° 460 del 1997, che ha portato all’istituzione delle Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS) e ha ridefinito la no-zione di Ente non commerciale. Tale decreto, infatti, introduce la possibilità di monitorare come e quanti fondi vengano raccolti dall’ente dichiarante per interventi e azioni di beneficenza. Lo stru-mento migliore, oggi disponibile, per lo svolgimento di tale operazione di rendiconto e monitorag-gio è proprio il bilancio sociale.

La direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dipartimento della Funzione pubblica – emanata il 17 febbraio 2006 e pubblicata in G.U. 16 marzo 2006, n. 63, “Rendicontazione sociale nelle amministrazioni pubbliche” – contiene le prime linee guida “ufficiali” sulla redazione di un bilancio sociale, con riferimento alle pubbliche amministrazioni54. L’obiettivo della direttiva è dotare gli enti a tutti i vari livelli di governo territoriale di un documento di natura volontaria – per la sua natura di atto volontario non appartiene alla categoria degli atti normativi dovuti per legge ma a quella degli atti di comunicazione necessari per una maggiore trasparenza nel rapporto tra ammi-nistrazione pubblica e interlocutori di qualsivoglia natura, da redigere in aggiunta al bilancio economico tradizionale, con il compito di informare sull’attività “sociale” dell’amministrazione pubblica.

50 I promotori dell’Asset Based Community development manifestano l’urgenza di riappropriarsi di “un uso economico delle istituzioni non economiche e di un uso sociale delle istituzioni economiche”. Vedi G. Provasi, 2002, “Le organizzazioni non profit per lo sviluppo locale” in Le istituzioni dello sviluppo, p. 2.51 G. Provasi, 2004 (a cura di), Lo sviluppo locale: una nuova frontiera per il non profit, Angeli, Milano, p. 198.52 Ibidem, p. 199.53 La Banca dati della rendicontazione sociale (versione aggiornata al 15 dicembre 2007), realizzata dal Formez, contiene una raccolta delle esperienze realizzate dalle amministrazioni italiane che hanno provveduto a redigere un bilancio sociale e/o partecipativo, con modalità di redazione spesso diversissime tra di loro. Le 369 esperienze sono ripartite tra: 102 Comuni, 33 Province, 3 Regioni, 3 Comunità Montane, 20 Camere di Commercio, 31 Aziende Sanitarie Locali, 14 Altre Amministrazioni (tipo ARPA Lombardia, ATM Milano, Collegio Universitario ARCES Palermo, etc.).54 La direttiva si compone di due parti: la prima nella quale vengono illustrati i presupposti dell’adozione del bilancio sociale, gli obiettivi e le indicazioni operative per la sua redazione; la seconda, nella quale vengono fornite delle schede con le linee guida sul bilancio sociale per le amministrazioni pubbliche.

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In tale direttiva è presente una prima definizione normativa, che individua in primis il bilancio sociale quale strumento di comunicazione: «Il bilancio sociale è definibile come il documento, da realizzare con cadenza periodica, nel quale l’amministrazione riferisce, a beneficio di tutti i suoi interlocutori privati e pubblici, le scelte operate, le attività svolte e i servizi resi, dando conto delle risorse a tal fine utilizzate, descrivendo i suoi processi decisionali e operativi». Oltre a mostrare l’attività complessiva dell’ente, il bilancio sociale può portare a una serie di miglioramenti funzionali all’interno della pubblica amministrazione: esso rappresenta infatti anche uno strumento di management, capace di aumentare la responsabilizzazione dell’ente circa il raggiungimento dei propri scopi istituzionali e sociali.

L’oggetto del bilancio sociale non deve riguardare solo gli interventi posti in essere dalle amministrazioni pubbliche, ma anche «le attività di soggetti pubblici e privati che concorrono alla realizzazione degli obiettivi dell’amministrazione», e quindi anche tutte le attività di soggetti non profit che svolgono attività di pubblico interesse. Se la pubblica amministrazione, nell’epoca del New Public Management 55, deve comportarsi come un’impresa, non può che far ricorso ad adeguate pratiche di comunicazione, gestione/controllo aziendale, adottando forme meno burocratiche e più flessibili di intervento.

Conclusioni

Lo sviluppo locale è una mobilitazione di attori e risorse presenti in un territorio; è consapevolezza delle proprie potenzialità; è capacità di “contestualizzazione” effettiva del posizionamento di un sistema locale (che ha proprie specificità, vincoli, condizioni); è un patto per fare sviluppo autonomo (in grado di sostenersi).

Alla formulazione e all’implementazione di una politica pubblica partecipa una pluralità di attori (pubblici e privati)56, ciascuno dei quali è portatore di strategie, interessi, risorse differenti; i diversi attori devono essere in grado di coordinare le proprie strategie d’intervento e di condividere la co-noscenza (problem frame e problem solving) necessaria per progettare azioni di sviluppo. La ge-stione degli affari pubblici va costruita sulla partecipazione della società civile a tutti i livelli: «esistono tratti comuni alla variegata famiglia delle nuove politiche pubbliche. Queste politiche si affidano, assai meno che in passato, all’autorità e alla discrezionalità degli attori amministrativi e alla trasmissione della gerarchia. I poteri pubblici centrali hanno più che mai bisogno di coinvolgere gli attori pubblici locali, ed entrambi devono coinvolgere i privati, le imprese, la società civile nei processi di decisione e di attuazione delle politiche 57».

Il bilancio sociale potrebbe agevolare il coordinamento orizzontale e verticale tra i vari attori istituzionali e sociali, come la loro capacità di condividere obiettivi, negoziare accordi e cooperare tra loro per raggiungerli, in quanto strumento di informazione, partecipazione e condivisione: lo svi-luppo di un sistema locale è un processo che coinvolge soggetti dotati di conoscenze e punti di vista parziali, che necessitano di mettere in comune risorse cognitive (come l’informazione) o normative (come la fiducia reciproca e la disponibilità a coordinare i propri comportamenti).

Si può ipotizzare una sorta di dialettica tra i due poli della rendicontazione (bilancio come tec-nica “tipica” di organizzazione aziendale) e della partecipazione (enfatizzata soprattutto sul versante delle istituzioni pubbliche e del settore non profit) piuttosto che una semplice contrapposizione; nel senso che l’una (la partecipazione) può considerarsi premessa dell’altra (la rendicontazione) o vice-versa e che una soddisfacente sintesi può essere costituita appunto dal bilancio sociale. Proprio per non sottovalutare il tema del come, cosa e a chi comunicare, è opportuno chiarire tale aspetto. E’ scontato affermare che una “pianificazione strategica” degli obiettivi sociali in assenza di

55 La filosofia del New Public Management trae origine da una critica nei confronti della burocrazia, autoreferenziale, non attenta ai bisogni reali e tanto meno orientata alle logiche di risultato. Vedi A. Sabbatini 2005.56 “L’amministrazione locale va ripensata rendendo più inclusive e contrattuali le modalità di produzione delle decisioni pubbliche” (L. Bobbio, 2000, “Produzione di politiche a mezzo di contratti nella pubblica amministrazione italiana” in Stato e Mercato n. .58). 57 P. Perulli, 2004, Piani strategici. Governare le città europee, Angeli, Milano, p. 12.

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partecipazione rischia di essere autoreferenziale; non è altrettanto indubbio ritenere che la mancanza della capacità di rendicontare (soprattutto in presenza di un’organizzazione poco flessibile e molto burocratizzata) difficilmente possa favorire una opportuna partecipazione. Come si riuscirebbe a capire, altrimenti, quali attori includere? in che modo e con chi fare rete?

Per un’impresa il bilancio sociale rappresenta una sorta di supporto strategico per comunicare con/al territorio qualcosa di sé in termini di organizzazione e processi significativi (polo della rendicontazione); ma soprattutto per accrescere, proprio a partire dalla dimensione della accountability, la sua capacità di fare rete con gli altri attori istituzionali e sociali (amministrazioni locali, università e centri di ricerca, altre aziende, organizzazioni di categoria e del terzo settore), con i quali analizzare problemi e progettare interventi per lo sviluppo locale.

Sitografiahttp://www.bilanciosociale.it/http://www.bsdglobal.com/issues/sr_csrm.asp (Business and Sustainable Development: A Global Guide, Corporate Sociale Responsability Monitor)http://www.csreurope.org/default.aspx (The European business network for CSR)http://ec.europa.eu/enterprise/policies/sustainable-business/index_en.htm (European Commission, Enterprise and Industry, Sustainable and responsible business)http://www.gruppobilanciosociale.org/index.asp (Gruppo di studio per il Bilancio Sociale)http://www.orsadata.it/index.php/ (Orsadata, Osservatorio sulla Responsabilità e la Sostenibilità delle Aziende promosso da Sodalitas Social Solution)http://www.sodalitas.it/centro/index.htm (Sodalitas, Imprese e Manager uniti per la coesione sociale)

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8. Il fenomeno della povertà in Italia e le sfide alla coesione sociale.

di Marco Revelli∗

8.1 Definire e misurare la povertà: un quadro introduttivo

Due parole per inquadrare il tema della povertà nel quadro generale di questo ciclo d’incontri. Che cosa c’entra la povertà con le problematiche che noi dobbiamo trattare: con la cooperazione sociale, e poi più in generale con l’economia sociale e solidale. Insomma, con i temi generali che noi dovremo affrontare. C’entra direttamente, intanto perché – la cosa è evidente – la povertà è un segnale di disagio sociale. Forse è il principale segnale di disagio che una società deve considerare quando riflette sul proprio stato sociale, sulla propria condizione sociale. Forse Durkheim ci direbbe che il principale indicatore è la statistica dei suicidi – e sicuramente è così, ma è una statistica che per fortuna riguarda strati ristretti di popolazione -. La povertà, invece, è un problema che anche nelle nostre società, anche in una società come la nostra, europea, che appartiene all’area dei privilegiati del mondo -, anche in una società come la nostra (lo vedremo con i numeri, ma i numeri verranno un po’ dopo), è un fenomeno diffuso. Che in alcune aree del nostro paese coinvolge più del 20% della popolazione. E per quanto riguarda alcune tipologie particolari di famiglie (come le famiglie numerose del Meridione) la percentuale supera il 40%: quasi una famiglia su due, con questo tipo di composizione, è definibile essere in uno stato di “povertà”.

Quindi la povertà è un fattore molto significativo di disagio. La povertà si accompagna strutturalmente – e questo è il punto di connessione che la collega direttamente alle nostre problematiche –con processi di disgregazione sociale. Nelle società avanzate - non ovunque, ma nelle società avanzate – la povertà è un fenomeno tipico di territori in cui si è disgregato il tessuto sociale. In cui si sono allentati i legami sociali. Si sono logorati i rapporti sociali. La povertà è in questo caso contemporaneamente causa ed effetto del fenomeno. E’il prodotto del deteriorarsi della coesione sociale – è il prodotto del riprodursi su scala allargata di solitudini, da una parte (quanto più un territorio è de-socializzato tanto più tende ad essere povero); e, dall’altra parte, e nello stesso tempo, è accelerazione dei processi di disgregazione (quanto più un territorio si impoverisce, tanto più si disgrega; tanto più i suoi componenti tendono a rompere i rapporti di coesione che li legano). Dato che noi, in questo ciclo di alta formazione, ci occupiamo di un tema fondamentale come quello della cooperazione, che è uno dei fondamentali antidoti nei confronti della disgregazione sociale e della rottura delle reti di relazioni – il tema della relazionalità è un tema cruciale delle problematiche della cooperazione, perché la cooperazione nasce come antidoto nei confronti del rischio di deterioramenti della socialità dei territori, ed è una forma alta di socialità e di risocializzazione -, per questa ragione, per il rapporto molto stretto tra la problematica della socialità e della produzione e riproduzione di socialità nei territori e cooperazione, è inevitabile che noi ci occupiamo, qui, anche di povertà.

Ci occupiamo di povertà da vari punti di vista. Da quello più immediato – la prima domanda che viene in testa a chi deve misurarsi con il fenomeno della povertà in un determinato ambito, in una regione, in un comune, in un paese o in un continente – è la quantificazione. Quanti sono i poveri? E’ questo il primo problema che si è posta la cosiddetta “commissione-povertà”. Quella che oggi si chiama ufficialmente “Commissione d’indagine sull’esclusione sociale” (CIES). Traggo buona parte dei dati relativamente recenti dal Rapporto della CIES di quest’anno: il Rapporto 2009. La Cies (che presiedo) è un organo istituito per legge che ogni anno deve fornire al decisore pubblico (al Ministro competente perché ne dia notizia al Parlamento) la fotografia dello stato sociale del paese e della dimensione della povertà. Questa Commissione è nata, nella sua formula originaria,

Professore Ordinario di Scienza Politica e Presidente CIVIS, Università del Piemonte Orientale - Presidente della Commissione di Indagine sulla Esclusione Sociale.

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alla fine degli anni settanta per iniziativa di una figura eminente, Ermanno Gorrieri – un grande personaggio della storia sociale, politica e culturale italiana – il quale si è battuto duramente perché anche l’Italia si dotasse di uno strumento istituzionale permanente di monitoraggio dello stato della povertà e di misurazione del fenomeno (fino ad allora non esistevano rilevazioni sistematiche e continuative, c’erano solo, di quando in quando, delle Inchieste parlamentari istituite in forma relativamente episodica, prima fra tutte la celebre Inchiesta Iacini, alla fine dell’’800…). Gorrieri si è battuto come un leone perché la povertà fosse misurata e considerata in forma regolare e istituzionale. Il primo compito che si diede la commissione, fu quello di istituire una procedura scientificamente condivisa (una metodologia) con il lavoro dei migliori esperti di statistica oltre che di sociologi ed economisti, al fine di misurare la povertà. Il primo problema è stato dunque quello di capire come si può misurare la povertà. Quali sono gli indicatori tecnicamente più affidabili per ottenere una buona misura della povertà, della sua incidenza, e delle sue caratteristiche.

Tabella 8.1 – valore della soglia di povertà relativa in euroNumero componenti Famiglia Soglia di povertà relativa (€)1 599,802 999,673 1.329,564 1.629,465 1.899,376 2.159,297 o più 2.399,21

Fonte: ISTAT

La cosa sembra facile. Si immagina che con semplici indicatori statistici sia possibile arrivare a un censimento affidabile dei poveri. In realtà, se noi scaviamo dentro il fenomeno, scopriamo che ci inoltriamo in una jungla, di cifre, di numeri, di “soglie”, di percentuali, di statistiche… Esempio: secondo l’Istat – che è l’ente ufficiale di statistica del nostro paese, a cui è demandato il compito di fare i censimenti e di rilevare periodicamente i principali indicatori demografici, economici, sociali, culturali – in Italia è considerato povero (almeno fino all’anno scorso questo era l’unico indicatore ufficiale di povertà) chi vive in una famiglia la quale abbia una facoltà di spesa mensile media pari alla metà di quella nazionale. La quale, dunque, si collochi al di sotto di una determinata soglia che nel 2008 (anno a cui si riferiscono i dati più recenti) era di 999,67 Euro per una famiglia-tipo composta da due membri (e cresceva, in base a una determinata scala di equivalenza, col crescere del numero dei membri). 999,67 Euro era la soglia di povertà “relativa” (poi vi spiegherò perché l’aggettivo relativa) istituita dall’Istat al di sotto della quale si è ufficialmente definiti “poveri”. Perché 999,67? Perché quella era la spesa media mensile pro-capite per l’intera popolazione italiana. Assumerla come soglia per una famiglia di due membri significa, appunto, individuare il confine della povertà all’incirca un 50% al di sotto di quel livello. Definire cioè povero chi è tanto distante da quel livello medio nazionale da stare di più della metà al di sotto di esso. Chi, cioè, spende in due quanto la media della popolazione spende pro capite. Per un single (per le famiglie, cioè, composte da un solo membro) la soglia era di 599,80 Euro. Nel 2008 era “povero” chi, ogni mese era in grado di spendere(badate, non “guadagnare”, perché l’Istat non usa il reddito ma la spesa media mensile, quindi i consumi) meno di 600 Euro. Quelli che potevano spendere 601 euro, non erano classificati “poveri”. Ma, certo, una “soglia” bisogna tracciarla, per esigenze statistiche, e queste era calcolata in questo modo. Questo per l’Istat: per l’”indicatore nazionale italiano”. Per EU-Silc invece, che è il “data base” europeo, che da qualche anno ha sostituito Eurostat nella produzione delle statistiche ufficiali dell’Unione Europea (per tutti i paesi dell’UE, sia i 15 paesi originari, che i nuovi stati membri dell’Europa a 25 e poi dell’Europa a 27), e che stila ogni anno, tra le altre, la statistica della povertà (della popolazione “at risk of poverty”), in Italia, nel 2008, era povero chi aveva (qui si parla di reddito, e di individui, non di nuclei famigliari) un reddito inferiore a 750 Euro mensili. Quindi alcuni singles che per l’Istat non erano poveri, per EU-Silc lo sono (e infatti quando vi darò i numeri, vedrete che la percentuale di poveri in Italia secondo l’indicatore

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europeo è molto più alto che non quella che risulta dall’indicatore nazionale). Quindi, con un reddito pro-capite inferiore a 750 Euro mensili, per l’Europa, in Italia, si è considerati poveri. Badate: ho detto “in Italia”. Questo è l’indicatore Europeo, ma lavora con delle soglie “nazionali”. Un povero italiano, che cioè guadagna, come si è visto, meno di 750 Euro al mese, sarebbe un “ricco” o un “quasi ricco” per esempio in Portogallo, dove per essere definiti “poveri” secondo l’indicatore europeo, occorre scendere al di sotto dei 378,66 Euro mensile (questa è la soglia nazionale di povertà stabilita dall’EU-Silc per il Portogallo). Quindi all’incirca la metà. In Portogallo chi guadagna 750 Euro al mese, o anche 740, è ricco. Guadagna il doppio del più ricco dei “suoi” poveri. Stiamo facendo un po’ di “giochi” numerici, ma ci aiutano a capire quanto sia complessa questa problematica.

Tabella 8.2 - Soglie di povertà EU-SilcBelgio 828Bulgaria 99Cipro 799Rep. Ceca 270Germania 885Danimarca 1.167Estonia 223Spagna 608Finlandia 935Francia 828Grecia 510Ungheria 196ITALIA 750Lituania 163Lussemb. 1.494Lettonia 167Olanda 910Norvegia 1.438Polonia 175Portogallo 378Romania 82Svezia 927Slovacchia 198Regno Unito 1.047

E l’italiano, ma persino il portoghese, con quel reddito, sarebbe un ricchissimo in Bulgaria, dove invece è considerato povero chi guadagna meno di 99 Euro al mese; e addirittura rispetto a un rumeno, per il quale la soglia è fissata a 82 Euro mensili. Lì, per essere considerati “poveri”, bisogna guadagnare ogni mese meno di 82 Euro: quasi un decimo rispetto alla soglia stabilita per l’Italia. Quasi dieci volte meno di quanto guadagna un italiano “povero”. E questo nello stesso continente. Utilizzando gli stessi metodi di rilevazione. Un italiano povero – mantenendo il suo reddito - sarebbe un nababbo in Romania o in Bulgaria. E un “quasi ricco” in Portogallo. Se cioè guadagnasse, in Romania o in Bulgaria quanto guadagna in Italia. La tabella 8.2 contiene le “soglie di povertà EU-Silc: per ogni paese la banca dati statistica europea stabilisce qual è la soglia di povertà. Mette l’asticella, al di sopra della quale non si è poveri, al di sotto della quale si è definiti “a rischio di povertà”. Questa asticella varia a seconda del reddito medio di quel paese. E lo vedremo tra poco: perché la “povertà relativa” è una misura di distanza, rispetto alla media della popolazione. Anche in questo caso, è considerato povero chi guadagna all’incirca la metà rispetto al resto della popolazione (si può fissare la soglia al %=% del reddito, o al 60%, o al 40%: Eu-Silc fornisce i dati per tutte e tre queste soglie, noi diamo la prevalenza alla seconda, fissata sul 60% del reddito medio). Come si può vedere – e come si è già detto – mentre l’Italia è a 750 in paesi come il Lussemburgo, con un reddito medio molto alto, la soglia supera i 1400 Euro mensili (un “povero”

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lussemburghese guadagna il doppio di un “quasi-ricco” italiano, tanto per intenderci sui rapporti). E all’inverso paesi come la Romania, la Bulgaria, la Lettonia, l’Estonia, la Lituania sono tutti collocati al di sotto dei 200 Euro mensili.

D’altra parte, continuando il ragionamento, un “povero” rumeno sarebbe a sua volta un ricco in India, dove la soglia di povertà , se la calcolassimo con gli stessi criteri con cui EU-Silc lavora sui paesi europei, si dovrebbe collocare intorno ai 10 Euro mensili. Il reddito medio pro capite in India è infatti di 25 dollari al mese, che tradotto in Euro fa all’incirca 18 dollari, il cui 60% arriva grosso modo intorno ai 10 Euro … All’incirca a un ottavo della soglia del paese più povero in Europa, che è come si è visto la Romania.

Come avete capito, qui ragioniamo sulla povertà in termini relativi. Perché in base a questi criteri uno può essere povero in un paese e con la stessa quantità di mezzi monetari a disposizione essere un ricco da un’altra parte. In questo senso la questione è posta in termini “relativi”, in primo luogo. E poi usiamo l’espressione “in termini relativi” anche in un altro senso: perché la povertà è qui definita in rapporto alla media della popolazione di quel paese. Il povero è uno che sta peggio di altri (della media degli altri). E’ uno che sta lontano dalla media della popolazione. Lo chiamiamo dunque “indicatore di povertà relativa”. Non è l’unico indicatore. Potremmo usare anche un indicatore di “povertà assoluta”. Ne disponiamo uno, in Italia, appena “varato”, per così dire. E’ stato messo a punto dall’Istat, col lavoro di una commissione molto blasonata di esperti, sociologi, economisti, matematici, statistici di grande qualità e competenza, giusto l’altr’anno. L’Istat è uscito con i dati misurati secondo il nuovo indicatore di povertà assoluta con una prima “nota” relativa al 2007 e poi ha rilasciato i dati relativi al 2008 nell’estate del 2009. Così oggi abbiamo la possibilità di misurare anche la “povertà assoluta”.

8.2 Dalla povertà relativa a quella assoluta

Chi è il “povero” in senso assoluto? Qui cambiano molte cose, rispetto all’indicatore precedente. Il “povero” non è più uno che ha una spesa media mensile di meno di 500 Euro, e nemmeno di 750. L’”assolutamente povero” – chi è povero sulla base dell’”indicatore di povertà assoluta” – non è più un povero “italiano”. Nel senso che non lo si misura su valori di soglia nazionali. E’ un povero “milanese”, un povero “veneto”, un povero “napoletano”, un povero dei “piccoli comuni” del Meridione, è un povero delle “medie città” del centro… Perché l’indicatore di “povertà assoluta” non ha più un’unica soglia per tutto il paese. Non ha più una “soglia nazionale”. Esso è costruito sulla base di una molteplicità di soglie, differenziate per territorio, in primo luogo, e poi per tipologie famigliari e per caratteristiche anagrafiche. E’ frammentato per quanto riguarda i valori di soglia: a Milano, cioè in un’area metropolitana del nord, si è poveri – considerati “assolutamente poveri” – se si guadagna meno di 724,29 Euro, se si vive soli e se si ha un’età compresa tra i 18 e i 59 anni. Perché questa è la soglia per questa tipologia di famiglia, composta da un single, non minore e non anziano, in una grande città settentrionale. Se si vive invece in un piccolo comune del meridione la soglia di povertà assoluta quasi si dimezza, comunque diminuisce di più di un terzo: scende a 487,56 Euro. Se si vive in una famiglia di due componenti, si è assolutamente poveri se, insieme, si guadagna meno di 1000 Euro a Milano (per una coppia di pari età milanese), limite che scende a 704,66 Euro se invece la coppia vive in un piccolo comune meridionale. Perché il costo della vita, l’accesso a beni e servizi essenziali è diverso, e quindi le soglie sono diverse. Per vostra informazione le soglie utilizzate dall’Istat nell’elaborazione dell’indicatore di “povertà assoluta” sono ben 675, oscillanti tra un minimo di 423,54 Euro per gli anziani singoli dei piccoli comuni del Sud e un massimo di 1.691,56 Euro, per le famiglie più numerose delle aree metropolitane del nord.

Tutto questo discorso, piuttosto complesso, serve per dire che in realtà non esiste un unico modo di misurare la povertà. Che esistono tanti modi di misurare la povertà, e ognuno di questi modi individua un aspetto della povertà. Non esiste l’indicatore perfetto, che ci dice chi è povero e chi no. Ne esistono tanti, ognuno dei quali ci dice cose un po’ diverse sulla povertà, tutte vere e tutte

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parziali. Quindi non dobbiamo scegliere l’uno o l’altro. Dobbiamo imparare a usarli in modo combinato.

Noi abbiamo per lo meno cinque diversi tipi di indicatori:- Abbiamo l’indicatore nazionale di povertà relativa (quello elaborato dall’Istat, come abbiamo

visto), che identifica i cosiddetti “relativamente poveri” e ce ne offre una immagine sintetica- Poi abbiamo l’indicatore europeo di povertà relativa, o come dice la formula ufficiale, della

parte di popolazione “a rischio di povertà”.- In terzo luogo abbiamo l’indicatore di povertà assoluta.- Abbiamo anche degli indicatori di “povertà soggettiva”. La povertà non è solo quella che

risulta da uno sguardo esterno, da una misurazione “oggettiva” basata su quanto spendi o quanto guadagni. E’ rilevante anche il modo in cui “ci si sente”. Se ci si sente poveri o non ci si sente poveri. Se ci si percepisce in uno stato di indigenza o ci si considera ricchi o benestanti. Uno che magari risulta in condizione di povertà assoluta dal punto di vista dell’indicatore oggettivo potrebbe sentirsi soggettivamente il più ricco degli uomini perché gli basta poco per vivere, perché vive di pane senza companatico, perché si coltiva l’orto e si scalda con la legna del bosco, perché ha tanti amici che gli forniscono tutto ciò che gli serve… E un altro che gira in Mercedes, o in Suv, e si sente povero o impoverito perché non si può più permettere quello che l’anno prima o due anni prima era alla sua portata e costituiva il suo stile di vita – quello che gli era indispensabile per vivere quella che lui, personalmente, considera una vita “degna”… Abbiamo delle interessantissime statistiche della povertà soggettiva. Se voi andate sul sito di un istituto che si chiama ISEE, potrete consultare le serie storiche dell’indice di povertà soggettiva italiano, molto istruttivo. Se per esempio noi guardiamo gli indici di povertà soggettiva tra il 2000 e il 2008, vediamo che si impennano. Che tra il 2003 e il 2007 l’indicatore di povertà soggettiva salta dal 30% al 60%: vuol dire che il 60% della popolazione italiana, si considera “impoverito” (badate, non “povero”, o “assolutamente povero”, ma impoverito). Ritiene di non avere più le risorse necessarie per permettersi ciò che ritiene che gli sarebbe necessario avere per vivere una vita soddisfacente. Rivela uno straordinario tasso di insoddisfazione. Che subisce un primo soprassalto – lo potete immaginare tutti – con l’introduzione dell’Euro, che di colpo ha falcidiato il potere d’acquisto dei redditi, soprattutto dei redditi fissi in Italia; e poi le successive ondate di crisi e di difficoltà che hanno fatto balzare in alto un indice infinitamente più sensibile come quello della “povertà soggettiva”. Molto più sensibile dell’indice di “povertà relativa” e di quello di “povertà assoluta”, tradizionalmente più viscosi, caratterizzati da trend più regolari, con scartamenti annui limitati. Se voi guardate, per esempio, la serie storica dell’indice di “povertà relativa” nell’ultimo decennio in Italia, vedrete che è variato di assai poco, di uno o al massimo 1,5 punti percentuali. Se la confrontate con quella dell’indice di “povertà soggettiva”, che invece è raddoppiato, con una differenza di quasi 30 punti percentuali, non troverete una correlazione tra i due. Vedrete che uno è infinitamente più volatile dell’altro.

Tabella 8.3 – Indicatori di Povertà

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Infine abbiamo ancora degli altri indicatori, che producono a loro volta delle misure molto interessanti, che sono i cosiddetti indicatori di “deprivazione materiale”. Cioè misurano l’assenza di determinati tipi di beni, o di determinate possibilità: se ci si può permettere di pagare l’affitto di casa, di alimentarsi adeguatamente, di acquistare il vestiario necessario, se si è in grado di riscaldarsi tutti gli anni così come sarebbe doveroso, se si possono affrontare le spese per le cure mediche indispensabili e per una corretta gestione della propria salute, che cosa comporterebbe in quella famiglia una spesa straordinaria di qualche centinaia di Euro, ecc. Sono misure di “deprivazione”, appunto. Non necessariamente della “povertà”: si può essere ampiamente al di sopra della soglia di povertà – relativa o assoluta -, e nonostante ciò essere “deprivato”. Non riuscire, per varie ragioni – per la struttura della propria famiglia, per una gestione disordinata delle proprie risorse, per un precedente indebitamento, per una separazione o un divorzio, perché si ha un “non autosufficiente” a carico, perché i figli sono disoccupati, ecc. – a far fronte alle necessità elementari, pur avendo un reddito e un potenziale di spesa alto. Questo, dunque, è un quinto indicatore di povertà.

Vediamo ancora alcuni aspetti tecnici relativi agli indicatori di povertà. Incominciamo dalla “povertà relativa”. Come si misura? O meglio: come la misura l’Istat?

Bisogna distinguere tra Incidenza della povertà (la sua “estensione”, quanto è diffusa) e Intensità di essa (la sua “profondità”, quanto è grave la povertà). Sembrano cavilli, ma sono aspetti molti importanti: se si confonde una misura con l’altra si possono fare errori assai gravi. Iniziamo dall’Incidenza. E’ la prima informazione che offre l’Istat, quella che appare sempre all’inizio della “nota”. Indica la percentuale di famiglie povere rispetto al totale delle famiglie residenti. E’ dunque un valore percentuale. Quanti cittadini, ogni 100, sono in condizione di povertà. Essa viene calcolata, come si è visto, tracciando una soglia convenzionale che costituisce la “linea di povertà” e che si riferisce al valore di spesa per consumi. L’Istat lavora – per l’elaborazione di questo specifico indice – con i dati provenienti dall’indagine sui consumi. E la spesa per consumi presa in considerazione è quella del nucleo famigliare. L’unità di base di questa rilevazione è la famiglia. E per “famiglia”, per quanto riguarda il valore-base, si intende un nucleo di 2 componenti. Quindi, come si è visto, il valore di soglia per una famiglia di due membri è pari al valore della spesa pro capite media nel paese. Cioè è pari alla spesa media che un cittadino italiano compie mensilmente. Quello che la media dei cittadini italiani spende per sé, nel caso dei poveri deve valere per due. Per questo diremo che la soglia di povertà è collocata alla metà della spesa media pro capite. Che cosa si fa per i nuclei famigliari più grandi, per le famiglie di tre, o di quattro, o di cinque membri? O anche per quelle composte da una sola persona? La Commissione povertà aveva prodotto una “scala di equivalenza”, cioè un sistema di “pesi” in base ai quali si fa crescere in forma non direttamente proporzionale (perché non è detto che due persone nello stesso gruppo famigliare consumino esattamente il doppio di una, o che tre consumino esattamente un terzo in più rispetto a due, e così via) l’entità della spesa media al crescere del numero dei membri della famiglia. Non c’è una proporzione lineare, e quindi si applica questa “scala di equivalenza, che prende il nome dallo statistico che l’ha costruita: Carbonato. Per il 2008, lo si è visto, il valore di soglia era di 599 Euro per i nuclei famigliari composti da una sola persona, di 999 per quelli composti da due; se i membri sono tre la soglia si alza a 1329 (se, appunto, accanto ai due genitori c’è anche un figlio); se sono quattro a 1629; se sono cinque si sale a 1899; se sono sei sono 2159, e se sono sette o più sono 2399. Se quella famiglia guadagna di meno di quella soglia è considerata povera, se guadagna di più non è considerata povera. Questo per quanto riguarda l’Istat.

EU-Silc, invece, usa una diversa metodologia di calcolo della soglia. La soglia europea per ogni singolo paese viene fissata al 60% del “reddito mediano equivalente disponibile individuale”. Reddito sapete che cosa vuol dire. Mediano significa che non si fa la media matematica ma si calcola la mediana (cioè il “valore/modalità assunto dalle unità statistiche che si trovano nel mezzo della distribuzione”: quello che ripartisce la sequenza in cui si distribuiscono gli elementi di un

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insieme in due parti eguali, l’una comprendente i valori superiori, l’altra quelli inferiori). Equivalente: perché si usa un’unità di misura del reddito teorica . Disponibile: che costituisce il reddito netto della persona considerata. Individuale: la soglia, contrariamente all’indicatore nazionale italiano, è calcolata per gli individui e non per i nuclei famigliari. Mentre l’Istat ragiona in termini di famiglie, l’Europa ragiona invece in termini di individui, e non sulla “spesa mensile” ma sul reddito. Non sulla media ma sulla mediana. Quando guardate le statistiche, e vi invito a guardarle (sono tutte on line, potrete consultare in appendice gli indirizzo web), tenete conto di tutto questo: EU-Silc ha un sito meraviglioso, dove si possono consultare tutti i dati e fare gli incroci che si vogliono. L’Istat mette on line tutte le proprie note annuali. Quando le consultate, è importante che voi sappiate come sono costruite queste statistiche. Altrimenti non si capisce perché l’incidenza della povertà relativa italiana per l’indicatore nazionale ha un valore e per quello europeo ne ha un altro (decisamente maggiore).

Il primo dato che fornisce l’Istat, come vi dicevo, è relativo all’Incidenza. Quindi misura la percentuale di persone che sono “povere”, cioè che sono sotto la soglia. Non importa se sono tanto o poco al di sotto di essa. Ma poi ci dà anche la misura della Intensità della povertà. L’intensità misura quanto al di sotto della soglia la media dei poveri italiani si colloca. E, ve lo anticipo, la media dei poveri italiani si colloca intorno al 23% sotto la soglia. Quindi la parte più consistente dei poveri in Italia è andata piuttosto a fondo: è piuttosto al di sotto della soglia. E poi ci dice anche quanti sono subito sopra la soglia. Quandi si collocano in quella fascia che sta tra il 100 e il 120% del valore di soglia: quindi che sta un 20% al di sopra della linea di galleggiamento. Quindi chi se non è povero è “quasi-povero”. Se non è caduto sotto la soglia di povertà, rischia di caderci. Dall’altra parte ci dice anche chi sta sotto l’80%, cioè più del 20% sotto la soglia.

Questo è l’indicatore di povertà relativa. Poi, come dicevo, nel corso del 2008, l’Istat ha pubblicato una nuova stima della “povertà assoluta”. E qui non è più una misura di distanza sociale, come nel caso della povertà relativa (che ci diceva quanta gente in Italia sta così “lontano” dalla media della popolazione per quanto riguarda il potere d’acquisto, da sentirsi in qualche modo esclusa, o comunque in una condizione diversa, come si ritiene possa succedere a chi sta al 50% più in basso della media, che si percepisce e viene percepito come un “diverso”). Quella era una misura, se volete, di “diseguaglianza”. Non ci diceva ancora se la persona censita in tale condizione sia effettivamente “povera”: in via puramente ipotetica, in un paese particolarmente ricco, in cui la media della popolazione ha un reddito molto elevato, in cui abbondano i nababbi, chi spende o percepisce soltanto la metà rispetto alla media potrebbe comunque permettersi un bel po’ di beni e servizi. Non sarebbe “povero” in senso materiale. Di qui l’importanza di un indicatore di povertà “assoluta”, che non si basa su un rapporto tra una media e gli altri ma su elementi “sostanziali”: su quanti beni e servizi giudicati essenziali ci si può permettere o non ci si può permettere. Qui non conta più la relazione tra numeri, non si ragiona sui rapporti, si ragiona sull’accesso ai beni. Si individua un “paniere” di beni considerati essenziali per conseguire uno “standard di vita minimamente accettabile”: il minimo indispensabile per condurre uno stile di vita dignitoso in termini di beni essenziali. “Dignitoso”, cioè non ridotto alla semplice sopravvivenza fisica, ma compatibile anche con un minolo di vita sociale: e infatti nel paniere non rientrano solo gli alimenti, ma vi compaiono anche beni come l’abbigliamento, l’abitazione (potersi pagare un affitto per avere un tetto sulla testa), la mobilità (potersi pagare i trasporti urbani, per esempio, per andare da casa al lavoro), la possibilità di accedere a un minimo di informazione (senza la quale si è dei drop out: ascoltare una radio, vedere la televisione). Naturalmente se si esce dalla logica del calcolo puramente relativo, del confronto tra grandezze numeriche, e si va a cercare una soglia “assoluta” di povertà, che ci dica non se uno è “più povero” di un altro ma se può o non può permettersi determinati beni e servizi, non ci si può accontentare di un’unica soglia nazionale molto aggregata. La Commissione che ha lavorato per l’Istat ha dovuto costruire un sistema di soglie molto differenziare tra loro. Differenziate per tanti aspetti. E infatti l’Istat, nelle sue Note metodologiche, ci dice che “la soglia di povertà assoluta varia per costruzione in base alla dimensione della famiglia [se voi andate a vedere la tabella delle soglie vedrete che sono 380, con una ripartizione per

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dimensioni dei nuclei famigliari: 1, 2, 3, 4, e 5 o più membri], all’ età dei membri delle famiglie [non è indifferente se dentro una famiglia ci siano dei minori oppure no, se ci sono degli anziani oppure no, tanto i minori quanto gli anziani sono fuori dal mercato del lavoro, il che è rilevante]; alla ripartizione geografica [se si deve vivere a Torino, con gli affitti di una grande città del nord, con il costo della vita, con le difficoltà e le distanze urbane nella mobilità e nelle comunicazioni, oppure vive in un paese di 300 abitanti del meridione, o anche del centro o del nord, la cosa cambia: per questo si hanno soglie differenziate tra aree metropolitane, medi comuni, piccoli comuni del Nord, del centro e del sud e isole]. Di conseguenza – dice l’Istat – le soglie di povertà assoluta non vengono definite solo rispetto all’ampiezza famigliare [come si faceva per la povertà relativa], ma sono calcolate per ogni singolo tipo di famiglia in relazione alla zona di residenza, al numero e all’età dei componenti. Le famiglie con una spesa mensile pari o inferiore al valore della soglia vengono classificare come ‘assolutamente povere’. Le soglie, per quanto riguarda le aree geografiche, sono costruite in base alle rilevazioni prodotte dall’Istat con l’Indagine sui consumi,che è una rilevazione molto sperimentata che funziona bene.

8.3 La povertà come fenomeno sociale complesso

Detto questo, possiamo ritornare alla prima domanda. Che forse era un po’ fuorviante: “Come si misura la povertà?”. Dovremmo piuttosto, quando intendiamo fare un intervento correttivo sullo stato di povertà, porci la comanda, un po’ diversa: “Chi è il povero”? Chi vogliamo “misurare”? O meglio: “Che cosa è il povero?”. Di che cosa manca il povero?.Il povero è qualcuno che ha una mancanza… di soldi? E quindi la povertà è una condizione prevalentemente monetaria? E’ la quantità di denaro che si ha a disposizione ciò che distingue il ricco dal povero? O è un “deprivato”, a prescindere dalla quantità di reddito e di denaro che possiede. Si è poveri se non ci si può permettere determinate cose – non necessariamente l’acquisto di determinati beni ma la disponibilità di determinate cose o di determinati servizi?

Abbiamo da poco discusso in commissione di laurea una tesi sulle Banche del tempo: reti relazionali in cui le persone si coordinano tra di loro per scambiarsi il tempo senza la mediazione del denaro, ognuno in base alla proprie competenze professionali, al tipo di prestazioni che può fornire agli altri. Ora, se uno vive in un luogo dove c’è la una banca del tempo, oppure vive in un luogo dove non c’è, il peso della disponibilità monetaria cambia enormemente. Se io vivo in un luogo dove se ho bisogno di qualcuno che dia ripetizioni di matematica al mio bambino lo trovo a costo monetario zero, perché restituirò quel “tempo” dell’insegnante di matematica con del mio “tempo” (per esempio rattoppando i vestiti), la mia dotazione monetaria incide meno sul mio possibile stato di povertà (non sono “povero” anche se il mio reddito è basso, o è bassa la mia spesa in termini monetari).

Il contesto, l’ambiente, l’accesso a determinati servizi, la disponibilità di prestazioni influiscono molto sulla condizione delle persone, a prescindere dalla dimensione monetaria, o a parità di disponibilità monetaria. Quindi il “povero” è colui che manca dell’accesso ad alcune funzioni sociali e che altri invece hanno. O, ancora, il “povero” è colui che vive in una condizione psicologica di povertà, e quindi di esclusione: il povero è un “escluso”. E’ colui che più che mancare di reddito e di servizi manca di “rapporti”. Anche questa è una definizione possibile e plausibile di “povertà”. E infatti c’è un dibattito molto acceso, e interessante, sulla questione: su “che cosa è un povero”. Di che cosa manca colui che consideriamo un povero.

Su tutte le risposte possibili a questa domanda quella più convincente non solo a mio parere ma anche nel dibattito internazionale, negli organismi che si occupano di questi argomenti, è quella offerta da Amartya Sen e dal suo “capability approach” (approccio basato sulle “capacità”). Di che cosa si tratta? Sen assume che lo “star bene” (il well-being) di una persona “consista di un insieme di ‘funzionamenti’ (functionings)”, intendendo con questo termine uno “stato di essere e fare” che può consistere in “cose elementari come essere adeguatamente nutriti, essere in buona salute,

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sfuggire alla morbilità prevedibile e alla morte prematura” o anche in condizioni (“acquisizioni” le chiama Sen) “più complesse come essere felice, avere rispetto di sé, prendere parte alla vita della comunità e così via” (Sen 1994, p. 63).

Essi sono “costitutivi dell’essere di una persona”: rappresentano il suo modo di essere nel mondo il quale a sua volta dipende dalla sua maggiore o minore “capacità di funzionare” (dalle sue capabilities). Cioè dalla sua possibilità di combinare un più o meno ampio e complesso set di “funzionamenti”: di realizzare un repertorio più o meno ampio di tali “stati di essere e di fare”. O, il che è lo stesso, di scegliere la propria condizione di vita con un grado più o meno ampio di libertà. In questo senso il concetto di povertà (o, all’opposto, di ricchezza) coincide con il parallelo concetto di “libertà di scelta” sulla condizione della propria vita (“l’insieme delle capacità nello spazio dei funzionamenti – scrive Sen – riflette la libertà di una persona di scegliere tra le vite possibili” – Sen 1994, p. 64). Il povero sarà una persona con una bassa “capacità di scelta”. O, come dice Sen, con una limitata “capacità di funzionare”, cioè di scegliere tra più “combinazioni alternative di funzionamenti” e di realizzare quella che meglio risponde alla sua idea di “well-being” – di “star bene”. Il povero è un uomo “meno libero” di scegliere la propria vita.

Naturalmente in tutto ciò il reddito conta, non lo si può negare: costituisce una risorsa primaria per acquisire “funzionamenti” sul mercato (cibo per nutrirsi, abbigliamento per vestirsi, competenze mediche e medicine per curarsi, informazioni e notizie per orientarsi nella società, forse anche prestigio per accrescere la propria autostima…). Il denaro, in quanto strumento per acquisire well being – per procurarsi “funzionamenti - amplia la sfera di libertà di scelta dell’individuo. Ma non è l’unico fattore rilevante: anche l’accesso a una buona rete di servizi pubblici disponibili gratuitamente o a costi limitati, estende il repertorio di “funzionamenti” acquisibili e dunque amplia il campo della scelta. Così come una coesa rete di relazioni sociali, di conoscenze, di mutuo sostegno (un buon “capitale sociale”, potremmo dire). O un elevato grado di istruzione. O una famiglia unita e cooperante. La cooperazione – per restare al tema di questo corso – è un ottimo mezzo di produzione di “funzionamenti”, a sostegno della libertà di scelta degli individui circa la propria vita… E’ un buon modo per accrescere la “capacità di funzionare” delle persone che partecipano a un’attività “cooperativa”.

Per queste ragioni Amartya Sen preferisce parlare di adeguatezza più che di scarsezza del reddito e più in generale delle “capacità”: “la povertà – scrive – è caratterizzata dall’assenza di certe capacità a un livello minimamente adeguato” (Sen 1994, p. 156). E aggiunge: “Il livello adeguato di reddito per sfuggire alla povertà varia parametricamente al variare di caratteristiche e circostanze individuali” (ibidem, p. 156): alla soggettività dell’individuo nel definire le proprie preferenze e scelte di vita (diverso è il caso di chi digiuna perché vuole dimagrire e chi è costretto a digiunare perché non può acquisire i cibi che desidererebbe); e anche, potremmo completare, alle condizioni sociali o ambientali, connesse cioè alle specificità del contesto in cui l’individuo è inserito. Per questa via ci mette anche in qualche modo in guardia contro un uso troppo meccanico, ed esclusivo, degli indicatori monetari basati su generalizzazioni e astrazioni statistiche (i pur indispensabili, “valori di soglia”) nella valutazione dello stato di povertà e soprattutto nell’elaborazione delle politiche pubbliche di contrasto ad essa: “Avere un reddito inadeguato non vuol dire avere un reddito inferiore a qualche linea di povertà fissata esogenamente, bensì un reddito inferiore a quello che sarebbe adeguato a generare i livelli richiesti di capacità per l’individuo in questione” (ibidem, p. 156).

Per riassumere dunque, è povero chi non riesce a perseguire il proprio progetto di vita (il quale può anche variare soggettivamente, da individuo a individuo, da cultura a cultura) perché gliene mancano le condizioni. Colui che manca dei mezzi o anche delle condizioni ambientali (perché alcuni deficit individuali possono essere compensati da favorevoli condizioni socio-ambientali) per avere il controllo della propria vita (o, in altre parole, la libertà di scelta). Per essere pienamente un “attore sociale”: uno che “prende in mano la propria vita”. Chi perde il controllo sulla propria vita – o perché il suo reddito è insufficiente, o perché nonostante abbia un reddito relativamente alto ha delle défaillances individuali o famigliari che lo “tirano giù”, o perché vive in un contesto sociale

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disgregato che non lo sostiene - è in senso proprio un “povero”. All’opposto chi, nonostante abbia un reddito basso o bassissimo, riesce comunque a mantenere il controllo della propria esistenza - a condurre la vita che desidera, a “essere quello che vuole essere” -, non è da considerarsi (secondo questa accezione) un “povero”. Non sarà ricco, ma non è neppure povero.

Credo che questo sia un buon modo di formulare il concetto di povertà. Ma se questo è il modo, nessuno di noi può fare l’errore che fanno quotidianamente i mass media e i politici, e cioè accontentarsi di un numero. Limitarsi, quando si parla di povertà, a gettare un’occhiata distratta sull’ultimo scoop giornalistico che spara la cifra sintetica che dovrebbe dire tutto e non dice nulla. Non ci si può accontentare di un’unica cifra sintetica, ma bisogna, quando si ragiona di povertà, incominciare a confrontare e ragionare su una molteplicità di piani, di indicatori e di strumenti. Abbiamo tanti strumenti. Ne abbiamo persino troppi. Bisogna imparare a usarli.

8.4 L’Italia al tempo della crisi vista dalla Commissione povertà

Terminata questa lunga premessa, vediamo la situazione italiana alla luce di almeno quattro di questi indicatori che abbiamo descritto. Dopo avervi detto di non fermarvi ai numeri, vi do i numeri.

Incominciamo dall’indicatore più diffuso – quello che per anni è stato l’unico ufficialmente disponibile -: l’incidenza della povertà relativa secondo l’analisi dell’Istat. Quello che tecnicamente si chiama l’indicatore nazionale di povertà relativa. Nel 2008 le famiglie classificate come in condizione di “povertà relativa” sono state 2.737.000. Rappresentano l’11,3% delle famiglie residenti. E’ l’indice d’Incidenza della povertà relativa in Italia secondo l’indicatore nazionale. Vuol dire che una famiglia italiano ogni dieci è considerata (da questo punto di vista) “povera”. Quanti individui corrispondono a questo insieme di famiglie (poiché ogni famiglia è composta da un numero più o meno grande di individui)? 8.078.000 persone, che rappresentano il 13,6% della popolazione (il che significa che in Italia c’è ancora un certo numero di famiglie numerose). Questo nel 2008, che è stato un anno già sfiorato dalla crisi (per lo meno nella seconda parte dell’anno, in particolare nell’ultimo trimestre). Nel 2007 – l’anno precedente, quando non si parlava ancora di crisi (e la soglia era un po’ più bassa: 986 Euro) – le famiglie povere in senso relativo erano state 2.653.000, pari all’11,1%. E gli individui 7.542.000, pari al 12,8%. L’incidenza basata sul numero delle famiglie è variata di poco – di 0,2 punti percentuali -; quella degli individui è variata un pochettino di più, di 0,8 punti percentuali. Si tratta, come si vede, di serie numeriche molto “viscose”, per così dire, senza grandi scarti evidenti, tendenzialmente molto stabili (se voi andaste sul territorio a fare un’inchiesta tra la gente e chiedeste alle persone se si sentono più povere, ricavereste certamente un’immagine più mossa).

Come dicevo prima, l’Istat non misura soltanto l’incidenza ma anche l’intensità della povertà. Quale percentuale, di quelli che sono considerati relativamente poveri è molto povera? O sicuramente povera, perché composta da famiglie o da persone che stanno più del 20% al di sotto della soglia di povertà? Il 46% delle famiglie definite “relativamente povere” – cioè quasi la metà di esse, 1.260.000 famiglie – risulta anche “sicuramente povero”. Sono famiglie che hanno una spesa mensile media inferiore di oltre il 20% al livello della soglia di povertà. Stanno molto al di sotto di essa. Possiamo anche aggiungere, per completare il quadro, che sempre nel 2008 un altro milione e settecentoventiseimila famiglie (che non è poco) puù essere considerato come “quasi povero”. Non sono sotto la soglia di povertà, ma stanno appena sopra: 962 si collocano in una fascia del 10% sopra la soglia, le altre tra il 10 e il 20%.

Di tutta questa statistica la parte più interessante è la ripartizione territoriale. L’Istat offre, subito dopo i dati aggregati, anche il quadro geografico per macro-aree – Nord-est, Nord-ovest, Centro e Sud con isole – e per regioni. Il dato è clamoroso: nel Meridione si concentra il 67,5% delle famiglie povere italiane. Più di due terzi della povertà italiana è concentrata al Sud, nonostante che in quelle aree risieda soltanto il 32% della popolazione. Al Centro-Nord, dove risiede il 67,5% della popolazione troviamo il restante 32,5% dei poveri. Abbiamo quindi, qui, un primo elemento che ci

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permette di abbozzare un profilo della povertà in Italia: il divario Nord/Sud. La povertà italiana è territorialmente concentrata nel Meridione. Si parla, va ricordato, di povertà relativa, la quale indubbiamente tende a sopravvalutare l’incidenza del fenomeno al Sud e a sottostimarlo al Nord, essendo misurata su una soglia unica nazionale (cioè su un valore medio di soglia relativo all’intero territorio nazionale, nel quale anche il costo della vita risulta differenziato: mediamente più elevato al Nord, mediamente più basso al Sud). Comunque, anche fatta questa doverosa considerazione, i numeri restano impressionanti: l’incidenza della povertà al Nord è largamente al di sotto della media europea, pari a quella dei paesi dell’ UE più ricchi come la Germania o l’Olanda: si aggira intorno al 6%, tra Nord-est e Nord-ovest. Nell’Italia settentrionale solo il 6% della popolazione è “relativamente povera”. Nel Sud l’incidenza della povertà relativa è intorno al 23%. Vuol dire quasi il quadruplo rispetto a quella nel Nord. E sta al di sopra di qualsiasi livello dei paesi europei, quantomeno nell’Europa dei 15 (poi vedremo il confronto a livello continentale tenendo conto anche dei nuovi stati membri).

Un altro elemento preoccupante della povertà italiana, che integra il profilo del nostro “modello di povertà”, è l’alto tasso di incidenza della povertà relativa tra le famiglie numerose. Le famiglie con quattro componenti (il che vuol dire padre madre e due figli; oppure padre madre un figlio e un nonno, non sono famiglie anomale...) fanno registrare un indice d’incidenza del 16,7%; che sale al 25,9% per le famiglie con 5 o più componenti. Qui abbiamo avuto nel 2008 un rimbalzo molto forte sul 2007: l’incidenza della povertà è aumentata di 3,5 punti percentuali (nel 2007 era al 22,4%). Così come ha subìto un brusco peggioramento la situazione delle famiglie mono-genitore (in genere famiglie in cui il capofamiglia è la madre).

Un altro tratto caratteristico della povertà italiana è la condizione dei minori. E questo aspetto della povertà, così come quello relativo alle famiglie numerose, va a coinvolgere direttamente le responsabilità pubbliche: lo scarso livello o la scarsa qualità delle politiche pubbliche di contrasto alla povertà e di sostegno alle famiglie: in Italia non esistono politiche di contrasto alla povertà minorile. E’ un aspetto vergognoso della nostra condizione sociale. Mentre gli anziani – che stanno male, sia chiaro, che hanno indici di povertà relativa superiori rispetto alle classi di età centrali -, tuttavia non presentano indici di povertà relativa più elevati della media degli altri paesi europei, i minori sono invece in una condizione veramente vergognosa. La povertà minorile ha l’incidenza più elevata in Europa. E anche in base all’indicatore nazionale è a livelli inaccettabili: l’incidenza della povertà relativa per le famiglie con 1 figlio minore è quasi del 13%; le famiglie con più figli minori – con 2 o più figli al di sotto dei 18 anni – fanno registrare livelli di povertà che arrivano al 16-17-18%. Quello che dovrebbe essere una benedizione per una famiglia – l’avere dei figli – si trasforma in un terribile handicap: una “zavorra che tira a fondo”. Che fa scendere queste famiglie al di sotto della soglia di povertà relativa.

Il dato sulla povertà è strettamente correlato con il grado di istruzione. Per le fasce di popolazione con un basso livello di istruzione e di scolarizzazione, il tasso di povertà sale fino al 18%: per le famiglie nelle quali sono presenti membri che non possiedono nessun titolo di studio o la sola licenza elementare l’incidenza è massima, e non migliora di molto nel caso di membri con la licenza media. Ha fatto la propria comparsa, di recente, anche un incremento (in contrappunto con questa osservazione) dell’indice di povertà dei laureati: sono i giovani laureati che non trovano lavoro e che se escono dalla famiglia e incominciano a essere censiti come nuclei famigliari autonomi figurano in condizione di povertà relativa.

Infine, c’è un preoccupante tasso di povertà relativa tra le famiglie in cui uno o più membri svolgono un’attività lavorativa. E’ una percentuale che sfiora il 10%: il 9,6% per la precisione. E’ un dato per certi versi sconvolgente. Significa che il 10% delle famiglie in cui uno o più membri lavorino sono, nonostante ciò, povere. E’ la figura che in termini tecnici va sotto l’etichetta di working poor: il “povero che lavora”. Ed è una figura relativamente inedita. Per molti aspetti “nuova”: per buona parte del secolo scorso – per tutta la fase definita “fordista”, dominata da un modello sociale industriale incentrato sulla grande fabbrica e sul lavoro massificato, e da un sistema pubblico di welfare -, lo stato di povertà è stato associato con l’assenza di lavoro. Con una

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condizione non lavorativa. E viceversa la titolarità di un posto di lavoro era considerata come una garanzia contro il rischio di povertà. Chi aveva un posto di lavoro (tendenzialmente a tempo indeterminato) non rischiava di cadere in povertà, se non in conseguenza di qualche défaillance personale, di un “incidente di percorso” che lo facesse cadere fuori (il vizio del gioco o del bere, una depressione psichica, ecc.). In condizioni normali una famiglia in cui il cosiddetto breadwinner – il capofamiglia, quello che porta a casa lo stipendio – avesse avuto un lavoro era garantita contro il rischio di povertà. Nelle statistiche più recenti, invece, la categoria del working poor – delle famiglie con membri che lavorano e che ciò nonostante sono povere – ha fatto la propria comparsa ed ha continuato a crescere. In Italia, oggi, un lavoratore su dieci è povero. Ed è un dato decisamente inquietante.

Questo per quanto riguarda la “povertà relativa”.Poi, come dicevo, dallo scorso anno l’Istat ha messo a disposizione la rilevazione della “povertà

assoluta”. E qui il confronto è decisamente interessante. Naturalmente le prime reazioni sui mass media e anche nel mondo politico sono stati in gran parte fuorvianti: il nuovo indicatore è stato accolto come la misura “vera” della povertà. O come la misura della “vera povertà”, quasi che quello di “povertà relativa” fosse, per così dire, “superato”. Inutile. O meno affidabile. E i commenti – superficiali – hanno teso a sottolineare come i poveri – i “veri poveri” – siano in realtà di meno di quanto non apparisse “prima” (col vecchio indicatore). E indubbiamente questa è l’apparenza: la quantità di popolazione che viene censita e considerata in condizione di “povertà assoluta” è minore di quella che risultava “relativamente povera”. Perché questi sono coloro che proprio non si possono permettere neppure il minimo indispensabile dei beni considerati essenziali. Non sono solo quelli che stanno (sia pur ampiamente) al di sotto della spesa media del paese. Sono quelli che non possono permettersi di sfamarsi adeguatamente tutti i giorni, di avere una casa riscaldata, di curarsi in caso di malattia, ecc.

Quante sono le famiglie italiane in questa condizione? Nel 2008 sono state 1.126.000, pari al 4,6% delle famiglie residenti; per un totale di 2.893%000, il 4,9% della popolazione. L’anno precedente, nel 2007, in Italia, le famiglie in condizione di povertà assoluta erano state 975.000, pari al 4,1% delle famiglie residenti, per un totale di 2 milioni e 427 mila individui (il 4,1% dell’intera popolazione). Ciò significa che nel 2008 il numero delle famiglie “assolutamente povere” è cresciuto di 463.000 unità e di 0,8 punti percentuali. Può sembrare non molto, statisticamente (quella frazione di punto percentuale può ingannare). Ma attenzione! 463.000 persone sono l’intera popolazione di una medio-grande città italiana. Più degli abitanti di Bologna, più del doppio della popolazione di Firenze. E’ come se, in un anno, una medio-grande città italiana fosse sprofondata sotto la soglia di povertà assoluta!

Può essere interessante, metodologicamente, confrontare questi dati sulla “povertà assoluta” con quelli offerti dall’indicatore di “povertà relativa”: “ci si colloca – così recita il Rapporto sulla povertà 2009 della CIES -, sia per quanto riguarda le famiglie che per ciò che si riferisce agli individui, nell’ordine di una grandezza di poco superiore a un terzo. Si può dire cioè che il 41,1% delle famiglie e il 35,8% degli individui considerati in condizione di ‘povertà relativa’ o, per usare la dizione internazionale, ‘at risk of poverty’ sono anche poveri in senso ‘assoluto’ (mancano cioè del livello minimo di beni e servizi essenziali): si tratta di una grandezza non molto lontana (una differenza di meno di 100.000 unità) da quella che, secondo la rilevazione tradizionale, era indicata per la parte di popolazione considerata ‘sicuramente povera’ (quella che si collocava di almeno un 20% al di sotto di quella standard). Questo vuol dire, in linea di ragionamento molto generale (perché in realtà la questione è più complessa), che per quanto riguarda l’Italia la dimensione della popolazione in condizione di “povertà assoluta” coincide con il settore di popolazione censita come in condizione di “povertà relativa” che si colloca di almeno il 20% al di sotto della soglia di povertà. Sono quella parte di “relativamente poveri” che risultano, anche in quella rilevazione, con quel tipo di indicatore, “particolarmente poveri” o “sicuramente poveri”: quelli che stanno a una distanza dalla spesa media nazionale non solo del 50% ma di almeno il 70%. Si potrebbe dire dunque che esiste un’area di sovrapposizione tra “relativamente poveri” e “assolutamente poveri”

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costituita appunto – come è logico – dalla parte più bassa del primo insieme. A cui va aggiunto – bisogna tenerne conto – un ulteriore strato, ancora più basso, costituito non solo dalla “povertà assoluta” ma dalle “povertà estreme”: i senza dimora, abitanti dei campi nomadi, migranti senza cittadinanza, sans papier, ecc., i quali sfuggono addirittura alle rilevazioni, non compaiono nell’Indagine sui consumi dell’Istat, non lasciano traccia di sé (almeno in senso statistico) perché stanno, per così dire, al di sotto del raggio visuale dei radar sociali: costoro sono decine, probabilmente centinaia di migliaia, ma non ne esiste una stima “ufficiale”; ne parla spesso nei suoi rapporti la Caritas, il vero ente, radicato territorialmente, che si occupa in forma ravvicinata della povertà nelle sue diverse forme. Nei dati sulla “povertà assolu ta” non c’è, per così dire, il “sommerso” della povertà: vi figurano solo i poveri che “si vedono”.

Anche dall’indicatore di “povertà assoluta” – il quale, lo sottolineo e lo ricordo, non pone i problemi di quello di “povertà relativa” legati al ricorso a un’unica soglia nazionale, e quindi non sottostima la povertà al Nord rispetto a quella del Sud perché, appunto, è costruito in base a un fitto reticolo di soglie anche territoriali e quindi coglie le differenze nel costo della vita nelle differenti aree geografiche – risulta il pesante divario Nord-Sud. Non, ovviamente, con le dimensioni estreme dell’indicatore di “povertà relativa”, ma comunque con una dimensione molto preoccupante. L’incidenza della povertà assoluta nel Meridione – cioè Sud e isole – è “circa due volte superiore a quella osservata nel resto del paese”. Nel 2007 era pari al 5,8% contro il 2,9 del Centro e il 3,5 del Nord, nel 2008 ha fatto un balzo impressionante: è quali dell’8% - il 7,9% per le famiglie e dell’8,1% per gli individui – contro poco più del 3% sia per il Centro (3,1%) che per il Nord (2,9%). Nel 2008 la povertà assoluta al Sud è più del doppio – quasi il triplo! – rispetto al Nord. Pur trattandosi, lo ripeto, di dati ponderati territorialmente.

Il Nord – analizzando questi dati, e il fatto è interessante – è peggiorato tra il 2007 e il 2008. Nonostante sia molto meno della metà rispetto al sud, l’incidenza della povertà assoluta al Nord è aumentata nel biennio 2006-2008. Il che significa che anche nelle aree forti di questo paese – tradizionalmente forti sul piano economico – si stanno aprendo delle falle. E’ poi confermato, anche per quanto riguarda la povertà assoluta, il profilo di cui parlavo prima, del “modello italiano di povertà”: gravissima la situazione delle famiglie con un consistente numero di figli minori (un’incidenza della povertà assoluta dell’11%!, e nel 2008 è cresciuta di due punti e mezzo rispetto a due anni prima); confermato anche qui l’effetto del basso livello di istruzione (l’8% degli scarsamente scolarizzati è povero in senso assoluto). E drammatica è la situazione delle famiglie che l’Istat definisce “senza occupati né ritirati dal lavoro”, cioè delle famiglie che non hanno nessun reddito da lavoro né da pensione perché quelli che sono in età da lavoro sono disoccupati e non ci sono pensionati: qui l’incidenza della povertà assoluta raggiunge il 20%.

Come confrontare tutto questo con i dati EU-Silc? In modo diretto sono inconfrontabili. Intanto perché, come si è visto, sono dati sulla “povertà relativa”. Sono calcolati su una soglia decisamente più alta (sono 750 Euro pro capite anziché 599 dell’indicatore nazionale). Calcolata su base individuale anziché famigliare; e sul reddito disponibile anziché sulla spesa. E tuttavia l’uso dell’indicatore europeo è decisamente utile, perché fatte le debite proporzioni con quello nazionale, ci offre la possibilità di una comparazione su scala continentale. E la comparazione è uno strumento indispensabile in tutte le scienze sociali e statistiche, particolarmente utile per chi deve formulare “politiche pubbliche”. Questa operazione resa possibile grazie alla strumentazione EU-Silc ci offre risultati molto preoccupanti. Purtroppo i dati attualmente disponibili si fermano al 2007, cioè all’anno immediatamente precedente l’inizio della crisi. Ma sono gravi ugualmente.

La popolazione “a rischio di povertà” in Italia secondo questo indicatore è pari al 20% (quasi il doppio rispetto all’indicatore nazionale). Questa è l’incidenza della “povertà relativa” in Italia secondo l’indicatore europeo (misurata, lo ricordi, sugli individui): un italiano su cinque è “at risk of poverty”. Il che colloca l’Italia “in una delle peggiori posizioni in Europa – cito il Rapporto CIES -, al terzultimo posto (che diventa l’ultimo se il calcolo è eseguito su valori “ancorati” al 2005), seguito solo dalla Lettonia (21%) e dalla Romania (25%); 4 punti percentuali al di sopra della media europea (EU 25), a grande distanza da quasi tutte le altre principali nazioni del continente (l’Olanda

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è al 10%, la Slovacchia e la Svezia all’11%, Danimarca e Ungheria al 12%, Francia e Finlandia al 13%, Germania e Belgio al 15%... e quasi alla pari con Grecia e Spagna”.

Grafico 8.1 - Incidenza del rischio di povertà con soglia di povertà ancorata ai redditi 2004 (vedi nota) - anno di indagine 2007 (anno di rilevazione dei redditi 2006)

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inc. di povertà inc. di povertà 'ancorata'

Naturalmente – continuo la citazione dal Rapporto – “occorre ribadire che si tratta di dati da prendere in considerazione con le necessarie cautele, tenendo soprattutto presente che i valori dei diversi paesi sono calcolati in base a soglie nazionali (le quali variano in base al reddito medio delle differenti popolazioni) e che dunque i “poveri” di un Paese ricco non sarebbero tali, per valore assoluto del proprio reddito, in un Paese povero”.

Noi abbiamo anche un’ altra orribile particolarità, che riguarda l’incidenza della povertà relativa per classi di età, ed è la povertà minorile. L’Italia si colloca – per quanto riguarda la popolazione tra 0 e 17 anni di età – all’ultimo posto in Europa (secondo un successivo aggiornamento con la correzione marginale di alcuni parametri, la Romania è stata collocata do un soffio sotto di noi…). Per quanto riguarda la povertà minorile l’Italia fa registrare un’incidenza del 25%: un minore su quattro è povero; o, per usare l’espressione precisa, è “a rischio di povertà” in Italia. In Danimarca l’incidenza è appena del 10% (ben 15 punti percentuali in meno), come in Finlandia, cone in Slovenian come in Svezia. In germania sono al 14% (11 punti percentuali in meno!). Nei Paesi Bassi pure, come in Austria. Nella Repubblica ceca sono al 15%.

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Grafico 8.2 - Incidenza per classi di età, anno di indagine 2007

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8.5 Vulnerabilità sociale e gruppi a rischio

L’Istat, poi – e la cosa è particolarmente interessante –, utilizzando i dati sulla “povertà assoluta”, ha realizzato quella che in termini tecnici si chiama “cluster analysis”. Cioè una “analisi dei gruppi”, la quale si vale di un insieme di tecniche di analisi multivariata dirette a selezionare e raggruppare tra di loro gli elementi omogenei di un determinato insieme di dati (o gli elementi “più vicini” tra loro per determinate variabili ritenute significative) utilizzando degli algoritmi che misurano le “distanze” reciproche tra i diversi elementi dell’insieme. Si individuano così “gruppi” di persone che presentano (all’interno di ogni gruppo) caratteristiche analoghe e quindi possono identificare delle tipicità. Applicando questa metodologia l’Istat ha evidenziato la composizione, per tipi di famiglie, di quell’esercito di quasi tre milioni di persone in condizione di “povertà assoluta”. Ci dice da quale “tipologia famigliare” è composto quell’insieme di famiglie “assolutamente povere”. Uno dei gruppi più consistenti è costituito da “Donne sole adulte o anziane” – c’è dunque una rilevanza di genere e anche dell’età - le quali vivono nel Meridione, prevalentemente in grandi città, dove non lavorano (al Sud il tasso di attività è molto basso, e molte donne non si mettono neppure sul mercato del lavoro) e che non hanno mai lavorato. Sono quasi il 17% delle famiglie in condizione di “povertà assoluta”.

Poi c’è un secondo gruppo, anche questo abbastanza consistente (15,2%) composto da “Anziani soli o in coppia”, che vivono nei piccoli comuni del Nord (sono 171.000 famiglie). E’ una “falla” che si apre nella parte forte del paese, non al sud ma nel tessuto considerato più robusto del Settentrione. Dello stesso tipo il terzo gruppo, anche questo composto di anziani ma del Sud – abitanti nei “piccoli comuni” del Centro-sud -, a testimonianza di una condizione di povertà distribuita territorialmente in modo abbastanza omogeneo. E fin qui il quadro non stupisce. Ce lo saremmo potuto aspettare: donne sole che non lavorano, anziani soli o in coppia del nord e del sud. Sono comunque figure poste al di fuori del mercato del lavoro. Così come quelle contenute nel quarto gruppo, composto da “ritirati dal lavoro”, per i quali il fattore di debolezza – per così dire -, l’elemento che “tira giù”, al di sotto della soglia di povertà assoluta, è la convivenza con figli disoccupati oltre – altra variabile rilevante – alla residenza in grandi centri urbani del Meridione. Sono pensionati, che non hanno più figli minori, almeno si presuppone; i cui figli, invece, nonostante l’età relativamente alta, sono rimasti in famiglia, in qualche modo a carico dei genitori, senza un’occupazione stabile. E’ il fenomeno della permanenza in famiglia dei figli adulti e privi di un proprio reddito autonomo, che caratterizza in senso negativo il “modello italiano”.

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I gruppi successivi, però, ci danno un messaggio inquietante. Il quinto gruppo – molto consistente, il 15,1% - è costituito da “coppie monoreddito operaie” residenti nel Mezzogiorno. Non si tratta più di “esclusi” dal mercato del lavoro. Qui sono famiglie “operaie”. In cui il breadwinner è un lavoratore occupato. E’ il solo percettore di reddito in famiglie, e ciò va rilevato: si tratta evidentemente di famiglie “tradizionali”, diciamo così, con il padre che lavora, la madre casalinga, e un certo numero di figli minori. I quali, evidentemente, sono l’elemento che fa la differenza. Con un solo salario in casa, queste famiglie precipitano sotto la soglia non solo della “povertà relativa”, ma anche della “povertà assoluta”. I working poor sono presenti, e in misura rilevante, anche nell’area della povertà assoluta. Questo gruppo è localizzato nel Mezzogiorno. Ma il fenomeno non si ferma al sud. Anche al Nord emerge un “cluster” di “famiglie operaie” in condizione dei povertà assoluta: sono “Single e monogenitori operai” residenti nel Centro-nord, e pesano per un 11% dell’insieme delle famiglie “assolutamente povere”. Non si tratta più di “famiglie tradizionali” ma, al contrario, di situazioni tipiche di una “post-modernità” relazionale caratterizzata da forme di disgregazione famigliare, rotture di legami, individualizzazione e “liquefazione” dei rapporti affettivi (per usare l’espressione di Z. Bauman). Messi insieme, gli ultimi due gruppi considerati portano la percentuale di famiglie operaie al 26,1% del totale delle famiglie “assolutamente povere” (vuol dire che più di un quarto dei poveri assoluti sta in una “famiglia operaia”: ossia in una famiglia il cui percettore di reddito è un lavoratore dipendente con mansioni operaie). Un altro 9,8% - e anche questo è un dato non scontato – è costituito da nuclei famigliari il cui capo-famiglia è un lavoratore autonomo (o, come lo definisce l’Istat, un “lavoratore in proprio”): partite Iva, artigiani, ecc, con figli minori a carico – l’eterno “peso” dei figli minori… -; mentre un ulteriore 8,3% è rappresentato da impiegati o addirittura da piccoli imprenditori, residenti al sud, con famiglie molto numerose dipendenti dal solo reddito del capo-famiglia. Evidentemente anche un buon reddito da lavoro, in questi casi, non riesce a compensare le sfide nascenti dalle dimensioni del gruppo famigliare e soprattutto dall’alto numero di figli a carico: anche se si appartiene alla middle class, ciò non basta a mettere al sicuro contro il rischio della povertà – neppure di quella “assoluta” -. Sommando tutti insieme questi quattro “cluster” si raggiunge una percentuale che sfiora il 50% (per la precisione il 44,2%); il che significa che quasi la metà degli “assolutamente poveri” vivono in famiglie con beadwinner attivi sul mercato del lavoro. Appartengono, per così dire, all’area degli occupati, seppure con redditi da lavoro con tutta evidenza insufficienti.

Tutto questo, realizzato col metodo della “cluster analysis”, ci fornisce l’immagine della composizione della povertà assoluta in Italia: la geografia sociale e territoriale del fenomeno. Ed è un’immagine relativamente inaspettata: compare il Nord, compaiono gli occupati – là dove ci si sarebbe aspettati un’assoluta prevalenza di disoccupati meridionali. Invece abbiamo un quadro assai più complicato.

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16,7% Donne sole adulte o anziane delle grandi città del Mezzogiorno che non lavorano e non hai mai lavorato15,2% Anziani soli o in coppia nei piccoli comuni del Nord10,3% Anziani soli o in coppia nei piccoli comuni del Centro-sud8,4% Famiglie di ritirati dal lavoro con figli alla ricerca di occupazione nei grandi centri del Mezzogiorno2,6% Coppie anziane del Mezzogiorno con figlio in cerca di occupazione o con membro aggregato15,1% Coppie monoreddito operaie con figli minori residenti nel Mezzogiorno11% Single e monogenitori operai del Centro-Nord9,8% Coppie monoreddito di lavoratori in proprio con figli8,3% Coppie monoreddito di imprenditori e impiegati di quattro componenti o più residenti nel Centro-sud2,6% Famiglie con figli con persona di riferimento e partner in cerca di occupazione residenti nei piccoli centri del Mezzogiorno

9. Crisi economica: minacce e opportunità per l’impresa sociale

di Alberto Cassone∗

Abstract intervento ai “Seminari di alta formazione” organizzati in collaborazione con l’Istituto Italiano di Studi Cooperativi Luigi Luzzatti

Numerosi studiosi appartenenti a diverse discipline hanno cercato di affrontare le tematiche connesse alla nascita e allo sviluppo delle organizzazioni del terzo settore. Perché esistono le organizzazioni nonprofit? Esiste una precisa differenza che caratterizza queste organizzazioni rispetto agli altri settori in cui possiamo articolare i moderni sistemi sociali? A partire da alcune interpretazioni del fenomeno e da una descrizione delle caratteristiche della crisi economico-finanziaria che ha investito anche il nostro Paese, il contributo proverà a mettere a fuoco le principali implicazioni (difficoltà e sfide, ma anche opportunità di riposizionamento strategico) per le imprese cooperative.

[testo disponibile a breve]

Professore Ordinario di Politica economica, Università del Piemonte Orientale.

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10. La cooperazione: un’impresa differente

Aldo Romagnolli∗

10.1 Un contesto critico

Negli ultimi dieci anni, le innovazioni tecnologiche che, grazie alla loro veloce pervasività ormai permeano anche il nostro vivere quotidiano, hanno reso rapidamente obsoleti i processi produttivi, le regole di mercato, i contesti sociali consolidati e gli schemi istituzionali su cui si erano tradizionalmente organizzati gli Stati nazionali. Lunga sarebbe la descrizione degli aspetti che vengono sollecitati ad un continuo e incalzante cambiamento ma voglio richiamarne alcuni che considero strettamente connessi alla reltà cooperativa e al territorio piemontese.

La caratteristica che segna i nostri tempi è la fine della certezza di prospettiva che aveva caratterizzato, al di là delle parentesi belliche, tutto l’ultimo secolo di vita del mondo occidentale. Si sta diffondendo un clima caratterizzato da incertezze, ansie, disorientamenti, e conseguenti nervosismi e aggressività che, per quanto sia avvertito più da certe categorie sociali piuttosto che da altre, si sta allargando a tutta la popolazione. I giovani non riescono ad intravedere prospettive di vita e di lavoro; gli anziani vedono messa a repentaglio la sicurezza di una vecchiaia tranquilla. Anche il semplice girare a piedi per le strade è vissuto, in molti contesti territoriali, come un problema; gran parte delle piccole sicurezze che sembravano scontate sino a ieri, crollano.

Le logiche della globalizzazione e della libera circolazione dei capitali, delle merci e delle imprese, rendono i mercati estremamente accessibili anche a prodotti provenienti da paesi in via di sviluppo. Questo provoca, nei paesi tradizionalmente industrializzati, crisi, difficoltà, chiusure di attività che non reggono più i parametri della concorrenza. Tale concomitanza di fattori di cambiamento mette in seria difficoltà la tenuta stessa dei sistemi economici delle singole nazioni o delle comunità di stati come l’Europa. Sono entrate in crisi la certezza di trovare un lavoro sicuro ed equamente retribuito, di poter contare su un sistema di protezione sociale, pubblica e disponibile; vengono a mancare le certezze sulla disponibilità delle fonti di energia, siano esse rinnovabili o meno.

Con le pesanti e incalzanti ondate migratorie è entrata anche in crisi la certezza di poter gestire processi di integrazione e coesione sociale con i mezzi, le prassi e le culture tradizionali. Si è rotto l’equilibrio tra le generazioni che entrano nel mondo produttivo e quelle che invece, dopo un lungo periodo, ne escono. Equilibrio che aveva garantito, in un recente passato, la disponibilità di risorse per il finanziamento dei servizi sociali e degli ammortizzatori sociali, aprendo una prospettiva molto problematica per le generazioni di oggi e quelle che entreranno nel mercato del lavoro nel prossimo futuro. Tutto ciò è aggravato anche dalla crisi di un istituto fondamentale per il mondo occidentale che è la crisi della famiglia. Crisi, questa, ancora non sufficientemente colta in tutta la sua gravità per il peso negativo che si riverserà sui processi educativi delle future nuove generazioni, sulle condizioni di vita degli anziani, prossimi e futuri, sui processi di coesione sociale e sull’accumulazione e trasmissione dei patrimoni familiari.

Il quadro in sé è preoccupante, in quanto non è un solo aspetto a creare incertezza ma è la presenza di una concomitanza di più fattori che sommandosi complicano analisi e terapie. Rispetto a questo, emerge, ormai impellente, l’esigenza di avviare profonde riforme che, smarcandosi da interessi specifici di singole categorie o territori, rimuovano anacronistiche, sedimentate e diffuse aree di privilegio. In queste aree categoriali e territoriali, contrarie a ogni tentativo di riforma si attuano, sempre più spesso, forme di autodifesa che degenerano, in forme di pressione di dubbia eticità, in ricatto collettivo verso i cittadini.

Presidente Osservatorio Economia Civile e Confcooperative di Torino.

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10.2 La nostra resistenza

In tale quadro problematico, la cooperazione italiana è reduce da una fase storica che l’ha vista protagonista di una performance di assoluto valore per il paese: la produzione dell’8% del PIL, il coinvolgimento di milioni di soci e la possibilità di occupazione per milioni di lavoratori. In questo periodo la cooperazione ha continuato a svolgere un grande ruolo anticiclico, fornendo opportunità di lavoro a cittadini espulsi dai processi produttivi o impossibilitati ad entrarvi, sperimentando nuove forme di servizio alle persone, valorizzando il potere d’acquisto dei consumatori, fornendo opportunità alle famiglie di accedere ad abitazioni confortevoli, arginando l’abbandono delle terre in agricoltura, migliorando le condizioni di vita e di lavoro, valorizzando attraverso alla rete delle banche di credito cooperativo il piccolo risparmio locale.

In tutto ciò è stata favorita da una serie di condizioni economiche, occupazionali e normative che sinergicamente contribuivano a fare dell’impresa cooperativa un’opportunità positiva e sovente alternativa ai circuiti di protezione sociale e socio-assistenziale che hanno tentato, inutilmente, di porre un argine alle conseguenze della deriva del liberalismo fordista. Sono, infatti, stati anni in cui è stato possibile in modo diffuso offrire opportunità a migliaia di persone di misurarsi con le tematiche della gestione d’impresa e non solo come prestatore d’opera, così come invece avviene regolarmente dentro altri tipi di impresa. In questi anni la cooperazione è stata la maggiore alternativa alle forme più svariate di lavoro precario proliferate prima della cosiddetta Legge Biagi, ingiustamente e superficialmente considerata come causa di precarietà e non invece come strumento per meglio governare il mercato del lavoro. Da ricordare in propsito il richiamo di Benedetto XVI sul rischio che la flessibilità, nella nostra società, diventi sinonimo di precarietà. Ma non dobbiamo dimenticare che nell’era della globalizzazione la flessibilità è una condizione imprescindibile per:

• garantire la sopravvivenza delle imprese;• tradurre le ricerche e l’innovazione in processi produttivi;• per coniugare tempi di vita e di lavoro (conciliazione dei tempi);• evitare un invecchiamento delle competenze professionali;• cogliere opportunità di sviluppo personale;• riformare i sistemi di protezione sociale.La flessibilità va dunque intesa come una risorsa disponibile a tutte le parti in gioco; non va

gestita e governata solo in funzione delle esigenze produttive ma anche degli individui, delle famiglie e dell’intera società. Le naturali aspirazioni dell’uomo moderno per una certezza di prospettiva di vita e di lavoro devono essere rese possibili elaborando un nuovo quadro di protezione sociale che sia compatibile con la necessità delle imprese di innovarsi continuamente e anche con la necessità del sistema di welfare di riformarsi, superando gli aspetti oggi fortemente squilibrati sotto il profilo delle sostenibilità, sovente auto-referenti e ormai burocraticamente insopportabili.

Per questo, il fondamentale diritto al lavoro va innovato, reinventando un nuovo quadro di garanzie che tutelino dinamicamente e congiuntamente le esigenze dei lavoratori e quelle delle imprese. In questo senso andrà rivalutato ed esteso il diritto alla formazione e all’aggiornamento permanenti; andrà rivalutato e attualizzato il principio della mutualità, da porre, quale elemento fondamentale e complementare, al servizio della esigibilità del diritto alla casa, alla salute, alla certezza di reddito, al rafforzamento della famiglia e ad una vecchiaia serena. Gradualmente, ma con decisione, questi diritti andranno ripensati, prevedendo che la discussione e la progettazione dei modelli per il futuro, che oggi si sviluppa dentro la dialettica Stato/Mercato, introduca quale interlocutore, portatore di risposte e non solo di domande, l’espressione economica della società civile, la cooperazione.

10.3 Le nuove istanze

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Ora però nel paese sono maturate altre condizioni che hanno cambiato il contesto entro il quale la cooperazione aveva positivamente operato.

Anche il nostro territorio è attraversato dal bisogno di gestire le esigenze connesse ai grandi flussi migratori che portano con sé culture, modelli di vita e religioni diverse, provocando grandi problemi e difficoltà nel riuscire a creare un nuovo quadro di coesione sociale e di convivenza. Nei quartieri cittadini questi flussi sovente alimentano pericolose lotte etniche, finalizzate, sempre più spesso, a contendersi l’organizzazione di attività illecite e comunque tendenzialmente tese a generare fenomeni di extra-territorialità.

Siamo lo specchio di una nazione dove continuano ad esistere gli squilibri dovuti alla bassa natalità e ad un costante aumento delle aspettative di vita; fattori questi che provocheranno nel medio periodo una riduzione della popolazione attiva e accresciute esigenze di risorse per i servizi alla persona.

Viviamo in un territorio dove (prima con i Savoia, poi con le grandi imprese) il mondo del lavoro si è imbevuto di una cultura di dipendenza ed in cui la capacità imprenditoriale è prevalentemente intesa come una prerogativa esercitata da un padrone o da uno stato. Questo ha provocato una cultura di subordinazione che deresponsabilizza la grande massa di cittadini non solo nel lavoro, ma anche nella vita sociale.

Oggi i lavoratori hanno bisogno di una nuova cultura che non sia caratterizzata da antagonismo o rivendicazionismo. Ne hanno bisogno perché è nel protagonismo del mondo del lavoro che è possibile creare un sistema produttivo capace di bilanciare gli squilibri provocati dai grandi gruppi che colonizzano territori derubandoli delle risorse strategiche del sapere, della ricerca, dell’innovazione. Ne hanno bisogno per recuperare un protagonismo locale non solo come produttore o consumatore, ma anche per giocare un ruolo attivo e propositivo nei processi territoriali di coesione sociale e sicurezza pubblica. Ne hanno bisogno per dare un senso positivo ai temi della flessibilità e delle pari opportunità e per non continuare a considerarli come degli ostacoli per una buona organizzazione o per i propri bisogni di certezza.

Difendere le proprie prerogative, il proprio status quo, il sistema di diritti acquisiti, le certezze di un sistema di protezione sociale propri di un’epoca storica superata significa in primo luogo diventare complici nel produrre nuove ingiustizie sociali nel breve periodo ed essere coautori del declino economico e sociale proprio di quei paesi che rifiutano di prendere atto dei nuovi processi indotti dalla globalizzazione.

10.4 Dalla resistenza alla proposta: la consapevolezza di sè

Dato questo contesto, possiamo considerare la cooperazione un soggetto storicamente attuale rispetto alle esigenze di un profondo rinnovamento della cultura, del lavoro, del consumo, del risparmio, della sicurezza, della coesione sociale, della produzione, delle pari opportunità? Oppure, come dicono alcuni, la cooperazione è un bubbone da estirpare? O come pensa una parte della sinistra, è una forma imprenditoriale che va assorbita dallo stato o dal capitalismo produttivo e tutelata solo nelle sue forme residuali?

Se è vero che lo stato sociale è in crisi, lo è non solo per l’incapacità dei suoi politici ma anche perché tutti continuiamo ad utilizzare categorie, metodi e schemi non più rispondenti alle nuove dinamiche. Per superare la crisi dell’attuale sistema produttivo e sociale, c’è bisogno di una Società Civile portatrice di alti valori di autonomia, democrazia e partecipazione alla produzione del bene comune, che si ispiri fortemente ai principi della solidarietà e della responsabilità. La cooperazione per sua natura ha in sé tutti i principi e i valori necessari per produrre bene comune: democrazia, mutualità e solidarietà, partecipazione e resonsabilità sono i suoi fondamenti. Nell’economia e nella vita sociale, la cooperazione può essere il soggetto primario in grado di produrre il valore aggiunto di cui si ha bisogno per avviare e sostenere il lungo e necessario processo di riforme istituzionali e

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sociali e che ha, al suo centro, l’attivazione e il sostegno alle organizzazioni della società civile per la produzione di iniziative finalizzate a conseguire il bene comune. La cooperazione può quindi essere il motore di questa nuova fase storica di rinnovamento.

In una società che presenta pericolose forme di disgregazione sociale, di opportunismo egoistico, di edonismo individuale, di consenso a forme pseudo-partecipative come quelle dell’antagonismo sociale, economico e istituzionale che creano processi di estraneità e fuga dalle responsabilità, la cooperazione può rivelarsi uno strumento strategico formidabile. Lo può essere se, in primo luogo, sarà capace di essere coerente con i propri principi e valori fondanti e se le istituzioni e il mondo politico e associativo saranno capaci di comprendere, valorizzare, promuovere e utilizzare la specificità cooperativa. Sarà necessario grande sforzo e impegno per far comprendere alle organizzazioni sindacali e ad alle altre forme di impresa che la cooperazione non può essere considerata né un’impresa marginale e ancor meno un pericoloso concorrente da cui difendersi.

Non lo può essere perché la cooperazione non basa, e non deve basare, la propria ragione di vita soltanto sull’organizzazione e produzione di beni e servizi finalizzati al bene dei singoli soci, ma anche sulla produzione di un ulteriore valore aggiunto collettivo. La cooperazione unisce alla produzione di beni e servizi per i soci-lavoratori la produzione di valori (cultura democratica e partecipazione responsabile) ed ha nella gestione associata dell’impresa il luogo concreto di sperimentazione e attualizzazione di tali valori. Partecipando alla formazione delle decisioni strategiche, eleggendo i propri amministratori, condividendo la responsabilità dei risultati positivi o negativi, si forma un cittadino lavoratore che ha in sé le sensibilità giuste per intervenire nella gestione delle complessità sociali.

Nessun’altra impresa ha, connesso al suo fine, la formazione di questo capitale sociale collettivo; un capitale utilizzabile e spendibile nella famiglia e nella comunità, ed in tutti i luoghi dove è richiesta la capacità di trasmettere valori e governare i processi complessi sottostanti alla realizzazione di sistemi protezione sociale. Dare ai cittadini singoli o associati la capacità non solodi chiedere ma anche di progettare e gestire iniziative di utilità sociale, orientate al bene comune, è la vera carta vincente per fare dei paesi, dei quartieri e delle città, vere comunità di vita e non soltanto dormitori più o meno protetti dalle forze dell’ordine.

Nel campo del lavoro, poi, la cooperazione, può essere il contenitore che più di altri si può prestare a sperimentare e a diffondere nuovi, moderni e avanzati modelli di democrazia di impresa. Al suo interno possono trovare spazio sistemi organizzativi finalizzati a rendere concretamente percorribili il criterio della flessibilità intesa come una opportunità positiva per realizzare pari opportunità, per attuare una formazione continua e per sperimentare forme di mutuo aiuto che diano una risposta alle sempre più ampie insufficienze del sistema pubblico. Così come in altre occasioni, il sistema cooperativo può essere in molti casi una risposta a situazioni di crisi aziendale, incentivando, formando e sostenendo una disponibilità dei lavoratori a farsi carico in proprio del loro futuro per dare continuità a comunità produttive che si sono formate molte volte nel corso dei decenni e che sono una ricchezza anche per le comunità territoriali.

10.5 Vincoli, opportunità, priorità

Il mondo della cooperazione, dopo le grandi performance degli anni Novanta e dei primi anni del 2000, ha imboccato una strada di assestamento: pur aumentando i fatturati, il numero di occupati e le dimensioni delle imprese, fanno fatica a costituirsi nuove realtà imprenditoriali. Sono cambiate le normative che regolano il diritto societario e quelle relative al socio lavoratore, così come sono cambiate le procedure di appalto da parte delle amministrazioni pubbliche, sempre più orientate a logiche di “global service” ed a ricercare soggetti di grandi dimensioni. Hanno fatto irruzione nel mercato dei servizi le grandi multiutility a maggioranza di capitale pubblico, alle quali gli enti locali stanno sempre più delegando la gestione complessiva dei servizi individuali e collettivi (servizi a rete). Più pesante e onerosa per le imprese è anche diventata la necessità di poter disporre di capitali

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non solo per i grandi investimenti ma anche per far fronte nella gestione quotidiana alla perdurante crisi finanziaria.

Sono essenzialmente questi i fattori che stanno spingendo a interrogarsi sul cosa fare, quali processi attivare per fronteggiare il nuovo quadro critico, mentre si diffonde la consapevolezza dell’importanza di qualificare sempre più il fattore umano, di alzare il livello di competenze tecnico-scientifiche della dirigenza, di aprire spazi e impegni sui temi della ricerca e dell’innovazione anche nel sistema delle imprese cooperative. Soprattutto due temi sono oggi all’ordine del giorno, anche se ad un’analisi approfondita e recenti eventi rivelano pericoli e insidie per la coerenza stessa della cooperazione: dimensione e capitalizzazione.

La capitalizzazione e la necessità di poter accedere a risorse finanziarie per sostenere lo sviluppo delle grandi imprese sono temi descritti e dibattuti in molte sedi. La vicenda Unipol e la tentata scalata alla Banca Nazionale del Lavoro condotta con superficialità e tracotanza, da un gruppo dirigente auto-referente e tecnocratico, ha gettato ombre pesanti sul sistema cooperativo e sulla genuinità con cui viene interpretata la mission cooperativa, innestando tra l’altro una denuncia contro tutto il sistema cooperativo presentata alle autorità europee. Al di là di questo controverso episodio, per le imprese cooperative, i problemi della capitalizzazione e della disponibilità di risorse finanziarie continuano ad essere una priorità e vanno affrontati anche cominciando a costruire uno strumento di finanza a sostegno di tutto il movimento cooperativo.

Per quanto riguarda invece il secondo tema, la dimensione delle imprese cooperative, è neccessario trovare un equilibrio tra diverse e contrastanti esigenze, alcune delle quali possono mettere in crisi i valori e le caratteristiche stesse della cooperazione. Infatti, da un lato vi sono esigenze di mercato, disponibilità di capitali, organizzazione funzionale delle imprese, ricerca di maggiore sicurezza economica che spingono a voler aumentare la dimensione delle imprese e la loro integrazione in rete; dall’altro vi sono valori che ci portano al voler essere imprese radicate sul territorio, fedeli ai principi democratici, partecipativi e mutualistici che nella grande dimensione non è agevole mantenere.

Non abbiamo riserve aprioristiche contro la grande dimensione cooperativa: desideriamo solo che la loro politica non diventi come quella assimilabile al colonialismo o a quel capitalismo che risponde solo agli azionisti, senza rispettare in alcun modo le realtà che vivono ed operano nei territori.

La cooperazione è dunque pervasa da problematiche che richiedono adeguamenti organizzativi, imprenditoriali, professionali ed etici, come pure sarà necessario dotarsi di nuovi strumenti e risorse per avviare processi di rinnovamento che ridiano slancio al ruolo cooperativo e aprano nuovi spazi per mettere a frutto le sue potenzialità associative.

10.6 Protagonisti del nostro futuro

Strategica per il futuro sarà la nostra capacità di rapportarci con le donne, i giovani, i nuovi cittadini immigrati e con le grandi potenzialità delle generazioni uscite per limiti di età dai circuiti lavorativi tradizionali.

Sulla componente di genere, molto abbiamo già cominciato a fare e a sperimentare, da soli o in collaborazione con diverse altre organizzazioni di rappresentanza. Sono sperimentazioni che ci impegnano sui temi della flessibilità, della conciliazione dei tempi, sulla complementarietà delle diverse forme di impresa. È grazie a questo impegno sulle Pari Opportunità che si sono aperti canali di dialogo organico tra le rappresentanze di associazioni professionali, talvolta tra loro ostili, volte alla possibilità di aprirsi anche ad intese più impegnative.

Riguardo ai giovani, partiamo dall’amara constatazione che a loro il sistema sta offrendo e continua a offrire prospettive e soluzioni tradizionali o promesse di soluzioni non più realizzabili, e non invece un quadro di nuove opportunità sostenuto da strumenti e supporti economici e organizzativi. Ai giovani si continua a propinare un sistema scolastico-formativo essenzialmente

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basato su nozioni astratte e poca preparazione professionale orientata al futuro inserimento in un modo del lavoro sempre più complesso e segmentato. Prendere in considerazione la possibilità di sostenere la costituzione di cooperative fatte da giovani che, oggi, molte volte, hanno dovuto aprire Partita IVA o accettare inquadramenti con Collaborazioni Coordinate e Continuative o che si sono organizzati in attività libero professionali, ci sembra un’utile opportunità.

Per i nuovi cittadini provenienti dai nuovi paesi comunitari o da quelli extracomunitari, c’è la necessità di dotarsi di un disegno organico che ci aiuti a essere anche per questi soggetti una forma di impresa di riferimento. Oggi i nuovi arrivati trovano occupazione nel lavoro come dipendenti, nel precariato del mercato delle badanti, o in quello del lavoro autonomo non solo commerciale ma anche artigianale. Finora il nostro impegno rispetto a queste collettività è stato sostanzialmente assente o marginalmente strumentale e di servizio. È necessario assumere un’iniziativa più strutturata, per elaborare una proposta che sia meno esposta a precarietà, abusi e ricatti, finalizzata a produrre nuove imprenditorialità associate, anche per rispondere a esigenze di iniziative di partecipazione e coesione sociale.

Riguardo, infine, agli anziani che hanno lasciato il lavoro, è d’obbligo provare a lanciare nuove riflessioni per produrre proposte che colgano le sempre maggiori potenzialità e problemi che questa categoria porta con sè. È indubbio che i nuovi pensionati possiedono residue capacità lavorative che con il passar degli anni si manifestano come sempre più elevate; naturale conseguenza, questa, di stili e condizioni di vita più sani; ma sono anche i più esposti al logoramento della loro modesta capacità di spesa. E’ pertanto anacronistico pensare a un’età pensionistica statica, con persone svuotate di energie e di volontà e con poche risorse economiche da spendere e tutte dedicate a uno stile di semplice sopravvivenza desocializzata; ma è sempre difficile sancire in modo netto un prolungamento dell’età pensionabile. Una via intermedia potrebbe essere quella di aprire in modo organico per questi soggetti spazi di occupabilità, non necessariamente solo nei servizi sociali, che offrano opportunità per continuare a usare la loro esperienza e che siano anche occasioni per integrare i loro redditi in modo dignitoso. Ovviamente questa è una strada che può essere meno marginale, precaria ed esposta a rischi di abusi e devianza, se si pone mano alla produzione di un quadro di norme previdenziali e fiscali che siano da un lato meno esose di quelle attuali e dall’altra stabiliscano con precisione i campi di applicabilità di tale opportunità.

Per quanto riguarda i settori di impegno delle imprese cooperative, niente può essere aprioristicamente precluso: dal campo dei servizi sociali (ambito di forte presenza ed impegna in ricerche e innovazioni per un nuovo welfare) a quello dell’agricoltura, per un uso produttivo e armonico del territorio; dalle nuove forme di consumo, dove esistono spazi rilevanti di azione per rispondere ad esigenze di servizi distributivi che siano capaci di assolvere anche a una funzione sociale, alla “produzione lavoro”, dove è possibile intravedere opportunità nel settore della logistica e nel campo dei servizi alle imprese; dal comparto turistico alberghiero sempre più in sviluppo nella nostra area metropolitana, alle nuove emergenze abitative, da affrontare con criteri non ghettizzanti per rispondere nel contempo ai giovani, agli immigrati e al risanamento del patrimonio edilizio delle aree urbane.

10.7 Conclusioni

Per fare della cooperazione un soggetto in grado di giocare un ruolo strategico primario a livello territoriale, è necessario soprattutto:• sviluppare un più organico rapporto con il sistema formativo e di ricerca universitario e puntare

sulla formazione avanzata per la nuova dirigenza cooperativa;• investire sulla formazione continua dei soci lavoratori, in modo da far crescere la consapevolezza

individuale e collettiva all’interno delle organizzazioni cooperative e puntando a stimolare anche processi più avanzati di partecipazione democratica e di assunzione di responsabilità decisionali e gestionali;

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• potenziare ulteriormente il positivo ruolo dei nuovi strumenti rappresentati dall’Osservatorio Regionale sulla Cooperazione e dall’Osservatorio Economia Civile della Camera di Commercio di Torino;

• promuovere una migliore conoscenza della realtà cooperativa e delle sue potenzialità socio-economiche da parte delle comunità locali, anche attraverso lo strumento del bilancio sociale;

• aprirsi all’Europa, confrontando esperienze, presentando progetti, costruendo relazioni e sinergie.La nuova stagione economica e sociale si dovrà caratterizzare per lo sforzo che tutti insieme

dobbiamo fare nel condividere un’analisi dei tempi e dei contesti in cui viviamo, al fine di capire se all’interno dei grandi e articolati processi di cambiamento che attraversano il nostro paese la cooperazione, con i suoi principi e valori, abbia ancora un senso. È, infatti, necessario domandarci quale è il ruolo specifico ed esclusivo che può e deve assumere il sistema cooperativo, e quali strategie e priorità devono essere alla base del nostro operare per portare il massimo del contributo possibile ai vari settori dell’economia e della vita civile. Ciò rappresenta una sfida continua, per elevare l’affidabilità della cooperazione, per renderla, oltre che impresa, anche soggetto e risorsa per la comunità locale, per fare in modo che sappia rispondere alle esigenze di lavoro, culturali, di servizio e di sicurezza di vita. È su questa mission che dobbiamo puntare per rendere condivisa la nostra meritevolezza sociale di esistere.

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11. Sviluppo locale e qualità sociale: il possibile contributo della cooperazione

11.1 I valori della cooperazione: economia civile, partecipazione, solidarietà

Giancarlo Gonella∗

Io penso che la cooperazione dia un grande contributo alla qualità sociale, per alcune ragioni che sono proprie del modello d’impresa cooperativo.

La prima è l’insediamento territoriale: le cooperative non nascono per operare in Romania o in Albania ma per produrre lavoro e ricchezza nel territorio di appartenenza (e questo succede anche quando, in relazione al loro mercato di riferimento, le cooperative devo avere grandi dimensioni).

La seconda è che le cooperative, per loro natura, sono intergenerazionali. A differenza delle imprese lucrative, gli utili rimangono in azienda e servono a dare continuità all’impresa, attraverso investimenti e innovazione. E’ questa la ragione per cui le cooperative sono le imprese più longeve (alcune anche più di 100 anni) e capaci di futuro.

E poi vi sono altri due motivi, che riguardano maggiormente l’identità valoriale della cooperazione:

• la cooperativa è un’impresa democratica (una testa un voto), non basata quindi su maggioranze azionarie;

• la cooperativa è un impresa solidale, che introduce nel mercato elementi di coesione sociale e di integrazione, di senso civico e di tolleranza.

Cooperare in fondo significa agire insieme, aiutarsi vicendevolmente. Posso dire con una buona dose di ragione che dove la cooperazione è presente e forte riesce a permeare tutto il contesto in cui opera di maggiore trasparenza e di maggiore legalità. Ma, naturalmente, i “valori” della cooperazione, il “buon nome” delle cooperative non sono dati una volta per tutti ma vanno difesi e ribaditi nella pratica quotidiana.

Il principale nemico della cooperazione è la cooperazione spuria, cioè imprese che non rispettano i contratti, dove i soci non riescono ad imporre alcuna mutualità. Gli osservatori provinciali dalla cooperazione istituiti a suo tempo dal Ministro Damiano vanno appunto nella direzione di un’effettiva verifica per distinguere tra chi fa realmente cooperazione e chi abusa in maniera indebita e opportunistica di una etichetta “nobile” per operazioni speculative al limite della legalità .

Negli ultimi 10-12 anni le imprese cooperative hanno avuto uno sviluppo impetuoso, in termini di fatturato, di addetti, di soci. In Piemonte, il movimento cooperativo che fa capo a Legacoop, a Confcooperative e a AGCI rappresenta il 6% del PIL regionale. La cooperazione ha superato da tempo il connotato di marginalità rispetto alle imprese private e, in alcuni settori, esprime anzi un ruolo di leader del mercato.

Naturalmente oggi ci troviamo a confrontarci con la crisi. Qui a me preme soprattutto richiamarne gli aspetti sociali: i giovani non riescono a vedere prospettive di vita e di lavoro; le piccole e grandi certezze che, dagli inizi degli anni ’60, ci offriva il nostro sistema sono in discussione, a cominciare dagli istituti della protezione sociale. Queste oggettive difficoltà vengono poi gonfiate a dismisura da partiti e media che enfatizzano (per ragioni elettoralistiche e di “marketing”) ogni problema.

Un fatto però è certo: la riduzione delle risorse pubbliche pone in termini nuovi le problematiche relative ai servizi che rendono possibili lo sviluppo economico e il benessere sociale, come ad esempio la formazione, la mobilità professionale, l’assistenza sanitaria, la tutela e la valorizzazione dell’ambiente.

Presidente Legacoop Piemonte.

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E’ in quella che viene definita economia sociale o civile che la cooperazione può giocare un grande ruolo. Secondo l’Ires del Piemonte, il ruolo delle cooperative nel welfare locale è determinante: nella nostra regione sono stati rilevate 1613 attività svolte da cooperative sociali di tipo A finanziate da enti pubblici e 516 attività delle cooperative di tipo B. Queste cooperative costituiscono un patrimonio imprenditoriale, professionale, umano, che può essere una risposta nuova alla crisi dello stato sociale. Possiamo essere più che semplici fornitori e condividere con le amministrazioni pubbliche progettualità e responsabilità verso i cittadini-destinatari dei servizi.

Questo non vale comunque solo per la cooperazione sociale: quello che ci dobbiamo chiedere è: può l’impresa cooperativa essere una risposta alle difficoltà economiche attuali? Può l’impresa cooperativa essere una risposta alle aspettative dei giovani?

L’esperienza ci dice di si. Le attuali cooperative sono spesso nate in momenti di crisi: hanno saputo innovare e qualificare i loro processi e i loro prodotti, per reagire alle congiunture sfavorevoli. Oggi possono fare altrettanto: ci sono opportunità e finanziamenti per chi vuole essere un imprenditore-cooperatore. Cooperare, non semplicemente intraprendere, questa è la sfida che i giovani possono raccogliere.

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11.2 Sviluppo e coesione sociale: discorso europeo e processi locali

Angelo Pichierri∗

Le note che seguono riguardano il rapporto tra coesione sociale (inclusione) e sviluppo (competitività). Tra questi termini (che indicano contemporaneamente concetti, “mondi”, stati desiderati) esistono tre possibili relazioni:

• separatezza – i due universi hanno proprie, irriducibili logiche di funzionamento: l’espressione “terzo settore” è una spia linguistica di questa alterità;

• contrasto – la coesione sociale è un costo: se il costo viene considerato inaccettabile, o insostenibile, lo sviluppo segue la low road;

• sinergia – i due universi si integrano e si rafforzano a vicenda: lo sviluppo segue la high road.

La terza modalità è quella del discorso europeo che propone di dare per scontata non solo la compatibilità ma anche la sinergia tra sviluppo economico e coesione sociale. Con un’ulteriore recente complicazione: l’adozione di una accezione di coesione che comprende inclusione sociale e sostenibilità ecologica. Questo discorso europeo, che mi sembra prevalente anche se non unico a proposito del tema in discussione, sottovaluta la possibilità immanente (e quindi potenzialmente preferibile a certe condizioni) di sviluppo low road.

Un’altra complicazione, non solo terminologica, riguarda l’uso come sinonimi di “coesione” e “inclusione”. Mi sembra più corretto pensare l’inclusione come pre-condizione della coesione: il problema della coesione si pone una volta che l’ingresso nel sistema è avvenuto, che l’appartenenza è stabilita. In altri termini, ci sono forme di esclusione che “tengono fuori”, mentre ci sono forme di esclusione relativa che riguardano chi è dentro.

Alcuni dei limiti e delle difficoltà del discorso europeo emergono quando si prende in considerazione la dimensione temporale della competitività e della coesione. Le strategie di coesione sociale raggiungono di solito i loro obiettivi in tempi più lunghi di quelli caratteristici delle strategie di competitività: i costi sono immediati, gli eventuali effetti sinergici si manifestano in periodi medio-lunghi.

Il discorso europeo in materia di coesione e competitività può diventare più realistico attraverso un’analisi ( e policies coerenti) delle condizioni alle quali i beni pubblici e le risorse comuni la cui presenza caratterizza lo sviluppo high road possono trasformarsi in collective competition goods, in beni cioè che ad esempio accrescono l’attrattività di un territorio per risorse economicamente rilevanti, dagli investimenti esteri ai flussi di turisti, di scienziati, di studenti.

La crisi in corso è certo destinata ad avere effetti, e in parte li sta già avendo, sulle politiche di coesione sociale di tipo “europeo”. Tra i più negativi, è possibile ipotizzare:

• un accentuarsi delle prime due modalità di rapporto tra coesione e competitività sopra indicate (la coesione sociale come costo, sempre più pesante);

• un’accentuazione della difficoltà di “inclusione” nel senso sopra precisato: le barriere all’ingresso si alzano;

• una riduzione della coesione come “senso di appartenenza”: la sindrome dei capponi di Renzo, che in una situazione disperata dedicano la loro residua energia a beccarsi a vicenda;

• una (ulteriore) delegittimazione della concertazione (locale), come meccanismo di governance pluralistica e cooperativa, e delle agenzie che ne costituiscono l’espressione organizzativa.

A proposito dell’ultimo punto, è ovvio che in una fase di crisi le risorse disponibili si riducano, e che i meccanismi della loro allocazione debbano diventare più stringenti e rigorosi; anche se forse il rigore colpisce già in maniera più che proporzionale le politiche, e le agenzie, che si occupano di coesione.

Professore ordinario di Sociologia dell’organizzazione, Università di Torino e Presidente Ires del Piemonte.

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Ma sembra opportuno richiamare in proposito una nozione che ci viene dagli studi organizzativi, quella di slack: termine profondamente ambivalente che indica risorse “superflue” o “ridondanti”. Nel campo di cui ci stiamo occupando c’è certamente del grasso da bruciare per raggiungere una più conveniente snellezza. Ma le risorse “superflue” possono essere lette in molti casi come riserve da mobilitare per far fronte alle difficoltà senza ridurre l’efficacia di una politica o di una organizzazione.

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Recent working papers

The complete list of working papers is can be found at http://polis.unipmn.it/pubbl

*Economics Series **Political Theory Series ε Al.Ex SeriesTTerritories Series tTransitions Series Q Quaderni CIVIS

2010 n.163Q Gian-Luigi Bulsei and Noemi Podestà (Eds): Imprese differenti. Le organizzazioni cooperative tra crisi economica e nuovo welfare

2010 n.162* Claudia Cusinello and Franco Amisano: Analysis for the implementation of a sustainable transport model in the eastern Piedmont county of Alessandria, Italy

2010 n.161* Roberto Ricciuti: Accumulazione del capitale e crescita economica tra Italia liberale e regime fascista

2010 n.160* Carla Marchese and Giovanni B. Ramello: In the beginning was the Word. Now is the Copyright

2010 n.159ε Peter Lewisch, Stefania Ottone and Ferruccio Ponzano: Free-riding on altruistic punishment? An experimental comparison of third-party-punishment in a stand-alone and in an in-group environment

2009 n.158* Rongili Biswas, Carla Marchese and Fabio Privileggi: Tax evasion in a principal-agent model with self-protection

2009 n.157* Alessandro Lanteri and Stefania Ottone: Economia ed etica negli esperimenti

2009 n.156* Cinzia Di Novi: Sample selection correction in panel data models when selectivity is due to two sources

2009 n.155* Michela Martinoia: European integration, labour market dynamics and migration flows

2009 n.154* Massimo Pasquariello and GianMarco Chiesi: Valore aggiunto e tipologia di spesa in Piemonte. Un confronto tra Alessandria e gli altri capoluoghi di provincia

2009 n.153* Massimo Pasquariello: Produttività, sistemi locali del lavoro, specializzazione produttiva e scenari futuri. Studio preliminare in preparazione del Piano strategico per il comune di Alessandria

2009 n.152* Massimo Pasquariello and GianMarco Chiesi: L’analisi dei determinanti di un’area territoriale. Studio preliminare in preparazione del Piano strategico per il comune di Alessandria

2009 n.151* Cristina Elisa Orso: Formal and informal sectors: Interactions between moneylenders and traditional banks in the rural Indian credit market

2009 n.150* Michele Giuranno: The logic of party coalitions with political activism and public financing

2009 n.149* Matteo Migheli: Sharing the pie: the Lutheran is neither opportunistic nor generous

2009 n.148* Amedeo Fossati and Marcello Montefiori: Migrants and mafia as global public goods

2009 n.147* Alberto Cassone: L'impatto economico dell'Universita' del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”: un aggiornamento al 2008

2009 n.146* Daron Acemoglu, Davide Ticchi and Andrea Vindigni: Persistence of civil wars

2009 n.145* Daniele Bondonio: Impact identification strategies for evaluating business incentive programs

2009 n.144* Barry Eichengreen, Rachita Gullapalli and Ugo Panizza: Capital account liberalization, financial development and industry growth: a synthetic view

2009 n.143* Emma Galli and Roberto Ricciuti: Sulla political economy del deficit pubblico nell’Italia liberale

2009 n.142* Matteo Migheli: Religiosity and happiness: an ever-winning couple? An answer from India

2009 n.141** Stefano Parodi: I media dell’Alessandrino e l’Unione Europea

2009 n.140* Matteo Migheli: The two sides of a ghost: Twenty years without the wall

2009 n.139ε Matteo Migheli and Francesco Scacciati: How does labor supply react to different tax rates? A field enquiry

2009 n.138ε Matteo Migheli and Guido Ortona: Majority, proportionality, governability and factions

2009 n.137** Noemi Podestà: Strumenti di mediazione per la risoluzione di conflitti. L’esperienza dell’Osservatorio per il collegamento ferroviario Torino-Lione

2009 n.136** Noemi Podestà and Alberto Chiari: Esperimenti di democrazia deliberativa. Informazioni, preferenze e stili di conduzione in tre giurie di cittadini.

2009 n.135** Andrea Lanza: 1848 comme reconfiguration des discours politiques.

2009 n.134* Rongili Biswas, Nicolas Gravel and Rémy Oddou: The segregative properties of endogenous jurisdictions formation with a welfarist central government

2009 n.133ε Matteo Migheli: Assessing trust through social capital? A possible experimental answer