Il ready made di Marcel Duchamp: teoria dell’indifferenza ... ready made di Marcel Duchamp: teoria...

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Il ready made di Marcel Duchamp: teoria dell’indifferenza visiva Filippo Toppi 1 Pittura e ready made Marcel Duchamp scelse i suoi primi ready made negli anni dieci del Novecento: si tratta, come è noto, di oggetti qualsiasi, comuni utensili prelevati dal loro con- testo, inseriti in uno spazio artistico – un museo, un’esposizione – e considerati a quel punto come autentiche opere d’arte. I più celebri tra questi oggetti sono senz’altro la ruota di bicicletta fissata su uno sgabello (Rue de bicyclette, 1913), lo scolabottiglie (Égouttoir, 1915), l’orinatoio capovolto e posato su di un piedistallo (Fountain, 1917). Il ready made si presenta, dunque, come un gesto fortemente dissacrante, avvicinabile almeno in parte agli intenti iconoclasti del movimento dadaista, al quale Duchamp fu vicino per diversi anni; al tempo stesso, tuttavia, può essere inteso al di là dell’evidente valenza provocatoria e considerato come una forma d’arte che, in qualche modo, solleva alcune domande fondamentali ri- guardanti i meccanismi che stanno alla base dell’evento estetico. Il filosofo Thier- ry De Duve parla, a proposito dei ready made, di «opere paradigmatiche», in grado di mettere in luce alcune problematiche cruciali legate allo statuto stesso dell’arte e dell’artista nell’epoca contemporanea 1 . Se oggetti come Fountain o come il cele- bre L.H.O.O.Q. 2 si caratterizzano soprattutto per la loro natura “irriverente” 3 , per 1 Cfr. T. De Duve, Résonances du ready made, Chambon, Nîmes 1989, p. 7. 2 Si tratta di una riproduzione della Gioconda di Leonardo a cui Duchamp ha aggiunto a matita baffi e barba. L’acronimo L.H.O.O.Q. (che è titolo dell’opera e appare anche scritto su di essa) letto in francese suona: «elle a chaud au cul». 3 Nonostante ciò, di fatto, sono proprio Fountain e L.H.O.O.Q. i ready made che hanno destato più scalpore e sono diventati più famosi, perché proprio la loro “semplicità” li ha resi un affronto plateale e sconcertante ai principi dell’arte tradizionale. Copyright c 2002 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera/) Il contenuto di queste pagine è protetto dalle leggi sul copyright e dalle disposizioni dei trattati internazionali. Il titolo e i copyright relativi alle pagine sono di proprietà di ITINERA. Le pagine possono essere riprodotte e utilizzate liberamente dagli studenti, dagli istituti di ricerca, scolastici e universitari afferenti ai Ministeri della Pubblica Istruzione e dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica per scopi istituzionali, non a fine di lucro. Ogni altro utilizzo o riproduzione (ivi incluse, ma non limitatamente a, le riproduzioni a mezzo stampa, su supporti magnetici o su reti di calcolatori) in toto o in parte è vietata, se non esplicitamente autorizzata per iscritto, a priori, da parte di ITINERA. In ogni caso questa nota di copyright non deve essere rimossa e deve essere riportata anche in utilizzi parziali.

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Il ready madedi Marcel Duchamp:teoria dell’indifferenza visiva

Filippo Toppi

1 Pittura eready made

Marcel Duchamp scelse i suoi primiready madenegli anni dieci del Novecento:si tratta, come è noto, di oggettiqualsiasi, comuni utensili prelevati dal loro con-testo, inseriti in uno spazio artistico – un museo, un’esposizione – e consideratia quel punto come autentiche opere d’arte. I più celebri tra questi oggetti sonosenz’altro la ruota di bicicletta fissata su uno sgabello (Rue de bicyclette, 1913), loscolabottiglie (Égouttoir, 1915), l’orinatoio capovolto e posato su di un piedistallo(Fountain, 1917). Il ready madesi presenta, dunque, come un gesto fortementedissacrante, avvicinabile almeno in parte agli intenti iconoclasti del movimentodadaista, al quale Duchamp fu vicino per diversi anni; al tempo stesso, tuttavia,può essere inteso al di là dell’evidente valenza provocatoria e considerato comeuna forma d’arte che, in qualche modo, solleva alcune domande fondamentali ri-guardanti i meccanismi che stanno alla base dell’evento estetico. Il filosofo Thier-ry De Duve parla, a proposito deiready made, di «opere paradigmatiche», in gradodi mettere in luce alcune problematiche cruciali legate allo statuto stesso dell’artee dell’artista nell’epoca contemporanea1. Se oggetti comeFountaino come il cele-breL.H.O.O.Q.2 si caratterizzano soprattutto per la loro natura “irriverente”3, per

1 Cfr. T. De Duve,Résonances du ready made, Chambon, Nîmes 1989, p. 7.2 Si tratta di una riproduzione della Gioconda di Leonardo a cui Duchamp ha aggiunto a matita

baffi e barba. L’acronimoL.H.O.O.Q.(che è titolo dell’opera e appare anche scritto su di essa) lettoin francese suona: «elle a chaud au cul».

3 Nonostante ciò, di fatto, sono proprioFountaine L.H.O.O.Q.i ready madeche hanno destatopiù scalpore e sono diventati più famosi, perché proprio la loro “semplicità” li ha resi un affrontoplateale e sconcertante ai principi dell’arte tradizionale.

Copyright c© 2002 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera/)Il contenuto di queste pagine è protetto dalle leggi sul copyright e dalle disposizioni dei trattati internazionali.Il titolo e i copyright relativi alle pagine sono di proprietà di ITINERA. Le pagine possono essere riprodotte eutilizzate liberamente dagli studenti, dagli istituti di ricerca, scolastici e universitari afferenti ai Ministeri dellaPubblica Istruzione e dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica per scopi istituzionali, non a finedi lucro. Ogni altro utilizzo o riproduzione (ivi incluse, ma non limitatamente a, le riproduzioni a mezzo stampa,su supporti magnetici o su reti di calcolatori)in toto o in parte è vietata, se non esplicitamente autorizzata periscritto, a priori, da parte di ITINERA. In ogni caso questa nota di copyright non deve essere rimossa e deveessere riportata anche in utilizzi parziali.

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gli altri ready madeentrano in gioco, infatti, tutta una serie d’implicazioni teoricheche scavalcano vistosamente l’ambito dadaista.

Ciò che emerge da un’analisi dei testi di Duchamp – un’analisi che risulta piut-tosto difficoltosa, poiché il materiale è estremamente eterogeneo e lo stile inaffer-rabile, spesso ironico, a volte contraddittorio – è che ilready madenasce in qualchemodo da una riflessione riguardante la pittura d’avanguardia: Duchamp era infattipittore, con uno stile vicino al cubismo, e nel 1913, a soli 27anni, aveva decisodi abbandonare la pittura intesa tradizionalmente per iniziare a sperimentare nuoveforme espressive. Tuttavia, già nei suoi ultimi dipinti compaiono i segni di una ri-cerca che verrà poi sviluppata in forme molto differenti. Unesempio significativoè dato dal celebreNudo che scende le scale n˚ 2, realizzato con uno stile molto per-sonale che pare attingere soprattutto da Cubismo e Futurismo4 e nel quale il titolo(Nu descendant un escalier n˚ 2) svolge un ruolo nuovo e importante; esso infatticompare scritto direttamente sulla tela, è situato all’interno del dipinto, ne è parteintegrante e per nulla a scopo formale, come accade nel caso di un collageo di uncalligramma5, anzi s’impone proprio per la sua valenza concettuale:

Picasso usa il titolo [ma jolie] come un calligramma: cancellarlo modifiche-rebbe tutto lo spazio plastico del quadro. Togliere il titolo del Nudo lasce-rebbe intatta la composizione. La sua presenza non è nell’enunciato pittori-co, ma nell’atto di enunciazione, atto nominalista che aggiunge al soggettodipinto un colore invisibile.6

Occorre notare a questo punto come i titoli dei dipinti, nel loro utilizzo tra-dizionale, ma anche e soprattutto in opere cubiste, rimandino generalmente a unqualcosa che sta al di fuori del quadro –Ma jolie di Picasso, ad esempio, il cuisoggetto, seppur poco riconoscibile nel dipinto, è reso esplicito dal titolo – e co-me inveceNudo che scende le scalenon costruisca una relazione tra immaginerappresentata e referente “esterno”, ma rimandi piuttostoal quadro stesso: «Nudoche scende le scalerimanda anche al soggetto stesso del dipinto di cui il titoloè ilnome, posto in basso alla tela come un’etichetta»7. Il numero2 apposto al titolorende ancora più evidente questa situazione, mostrando in maniera palese l’allusio-ne a un altro “nudo che scende le scale”, in una specie di giocodi specchi lontanoda ogni riferimento al mondo “reale”. Oltre a poter essere inteso come una spe-cie di segnale di mancanza di originalità – comportando la perdita di quell’aura

4 Anche se Duchamp ha sempre negato qualsiasi influenza futurista, dichiarando di es-sersi ispirato direttamente agli studi, in ambito fotografico, di Etienne-Jules Marey eEadweard Muybridge.

5 La tecnica del calligramma pare sia stata inventata da Apollinaire e ripresa subito dai cubisti perle loro sperimentazioni, soprattutto da Picasso e da Braque.

6 «Picasso emploie le titre [ma jolie] à la manière d’un calligramme: l’effacer modifierait toutl’espace plastique du tableau. Retirer le titre duNu laisserait la composition intacte. Son interventionn’est pas dans l’énoncé pictural, mais dans l’acte d’énonciation, acte nominaliste qui ajoute au sujetpeint une couleur invisible» (cfr. T. De Duve,Nominalisme pictural, Éditions de Minuit, Paris 1984,p. 208, tr. it. nostra).

7 «Nu descendant un escalierrenvoie aussi au sujet du tableau lui-même dont le titre est le nom,apposé au bas de la toile comme une étiquette» (ibid., tr. it. nostra).

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di unicità che era caratteristica essenziale di ogni dipinto –, queln˚ 2 certamenterichiedeva al fruitore la possibilità d’immaginare un significato del tutto interno almondo della pittura, proprio mentre il Cubismo era alla ricerca di un nuovo e piùefficace metodo per rappresentare – analizzare: è il periododel Cubismo analitico– la realtà.

Il titolo in questione, dunque, non era affatto innocuo. La sua caratteristica,nuova e così difficile da accettare, era di condurre l’attenzione dell’osservatore aldi là del tradizionale confronto tra immagine e oggetto a essa corrispondente; ecome ebbe a dire Duchamp stesso a Katharine Kuh, dimostrava già l’interesse aprediligere «l’uso delle parole come un modo d’aggiungere un colore al dipinto»8.In questa occasione si mostra forse per la prima volta quel «dipingere con le paro-le», quel «nominalismo pittorico» che è alla base dell’abbandono della pittura daparte di Duchamp e della successiva ideazione delready made9.

In tutte le note di Duchamp, sia quelle pubblicate quando egli era ancora in vitasia quelle postume, si parla soltanto due volte esplicitamente di nominalismo. Inuna nota dellaBoîte blanche, databile circa nel 1914, vi è questo accenno: «Unaspecie di Nominalismo pittorico (controllare)»10. Mentre in una nota pubblicatapostuma, probabilmente anch’essa scritta intorno al 1914,si legge:

Nominalismo(letterale)= nessuna distinzione:

• generica

• specifica

• numerica.11

Nonostante ciò, l’idea di “nominalismo” è fondamentale e a essa possono ricon-dursi tutte le numerose note di Duchamp sul linguaggio, comedimostra in manieraapprofondita De Duve nel suo testo intitolatoNominalisme pictural.

Esistono dunque, secondo Duchamp, due tipi di nominalismo.Il nominalismoletteraleè un tentativo di “svuotamento” del significato concettualedel linguag-gio, fino a ottenere un’assenza di distinzione tragenerico, specifico, numerico.Le parole vengono desemantizzate, finché di esse non rimane che una pura pre-senza plastica, tanto che «l’insieme di diverse parole senza significato condotte alnominalismo letterale, è indipendente dall’interpretazione»12. Il procedimento dinominalismo pittoricomuove invece nella direzione opposta. Ciò che è plasticoper natura, ciò che è visivo, diventa nient’altro che un nome. La pittura esiste solose qualcuno la chiama pittura, può anche abbandonare la telae i colori purché nonvenga a mancare mai questa “denominazione”, questo “coloreverbale”. Diventa

8 Id., Résonances du ready made, cit., p. 24.9 Cfr. Id., Nominalisme pictural, cit., pp. 207-208.

10 «Une sorte deNominalisme pictural(Contrôler)» (ibid., p. 185, tr. it. nostra).11 «Nominalisme(littéral) = Plus de distinction: générique, spécifique, numérique» (ibid., tr. it.

nostra).12 «L’ensemble de plusieurs mots sans significations, réduitsau nominalisme littéral, est

indépendant de l’interprétation» (ibid., p. 187, trad. it. nostra).

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quindi possibile dipingere con le parole, e considerare pittura ciò che apparente-mente non potrebbe mai esserlo. Con l’idea di nominalismo pittorico Duchampintroduce insomma il desiderio di cercare qualcosa che vadaal di là della tecnicapittorica tradizionale, a favore di un procedimento nuovo epiù concettuale:

Volevo allontanarmi dagli aspetti fisici della pittura. Mi interessava moltodi più introdurvi di nuovo delle idee. Il titolo [Nu descendant un escaliern˚ 2] era molto importante per me. Volevo far sì che la pittura servisseai miei scopi e volevo allontanarmi dal suo lato fisico [. . . ].L’arte si do-vrebbe volgere in questa direzione: verso un’espressione intellettuale e nonverso un’espressione animale. Sono stufo dell’espressione «bête comme unpeintre».13

Date queste premesse, ben si capisce come ilready madepossa essere messoin relazione in maniera diretta con il mondo della pittura d’avanguardia. Per primacosa, occorre pensare a quello che il critico americano Clement Greenberg avevadefinito, all’inizio degli anni Sessanta,movimento riduzionista14, secondo cui lapittura, a partire dalla metà dell’Ottocento, aveva imboccato un percorso segna-to da «abbandoni progressivi»15, alla ricerca di una sempre maggiore essenzialitàformale: l’abbandono del chiaroscuro da parte di Manet, il non-finito impressioni-sta, l’abbandono della prospettiva – ad esempio con Gauguin–, la separazione deicolori in atto nel Puntinismo e nel Divisionismo, l’abbandono della figurazione daparte degli astrattisti, fino a giungere all’astrattismo geometrico estremo di Malevice Mondrian – da notare cheQuadrato nero su fondo biancodi Malevic è del 1913,l’anno in cui Duchamp scelseRue de bicyclette, il primo ready made. A questopunto si potrebbe pensare already madecome a un passo successivo del percor-so riduzionista della pittura16 verso una soluzione di ancora maggiore essenzialitàrispetto all’astrattismo geometrico: un sorprendente “abbandono” della tela e deicolori, nella presa di coscienza che in una disciplina artistica nessun elemento puòessere pacificamente considerato necessario e imprescindibile.

Un altro interessante punto di contatto tra pittura d’avanguardia eready madesipuò osservare prendendo in considerazione la tecnica delcollage, ideata in ambitocubista in quegli stessi anni dieci del Novecento, a Parigi:con il collagepezzi digiornali, stoffe, addirittura piccoli oggetti diventano nuovi materiali a disposizionedel pittore. In genere, il primocollageviene consideratoNatura morta con sediaimpagliata di Picasso (1912), anche se in realtà esistono alcuni casi precedenti,

13 M. Duchamp, “M.D. intervistato da Sweeney”, in A. Schwartz,La sposa messa a nudo inMarcel Duchamp, anche, tr. it. di E. Baruchello, Einaudi, Torino 1974, pp. 22-23. Cfr. ancheJ. Gough-Cooper e J. Caumont,Effemeridi su e intorno a Marcel Duchamp e Rrose Sélavy, tr. it.di P. Billingsley, “Introduzione” di F. Benvenuti, Bompiani, Milano 1993, s.p. (13.5.1960).

14 Cfr. C. Greenberg, citato in T. De Duve,Résonance du ready made, cit., p. 133.15 Ibid.16 È questa l’idea di De Duve ma non di Greenberg, che esclude completamente ilready made

dalla storia della pittura. De Duve invece cerca, proprio partendo da Greenberg, di dimostrare cometra Duchamp, Malevic e Mondrian possano stabilirsi forti e importanti analogie(cfr. T. De Duve,Nominalisme pictural, cit., p. 228).

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seppur isolati e poco conosciuti17. Dal collage cubista nasce l’idea delpapiercollé, nel quale gli elementi presi dalla “realtà” vengono inseriti rispettando la lorofunzione e l’oggetto scelto nella composizione pittorica rappresenta esattamente sestesso:

La differenza con «Natura morta con sedia impagliata», anche se non saltaagli occhi, è comunque sostanziale [. . . ]. I Papier collé piùpeculiari delCubismo sono tutti composti di stampe: carta da parati, fintolegno, spartitimusicali, giornali. E tutti rompono con l’idea di rappresentazione: nellospazio dell’opera essi sono quello che sono.18

La tecnica delcollage ebbe grande diffusione all’interno dei vari movimentid’avanguardia. Fu utilizzata attivamente dagli artisti futuristi – a cominciare dalManifesto interventistadi Carrà del 1914 – e successivamente nell’area del Dadai-smo e, in Russia, del Suprematismo. All’interno del Dadaismo berlinese, tra l’altro,artisti come Raoul Hausmann, George Grosz, John Harrtfield sperimentarono pro-ficuamente le tecniche delcollage fotografico e del fotomontaggio. L’utilizzo delcollageebbe, infine, una decisiva espansione nel secondo decennio del Novecento,consolidandosi come uno dei mezzi possibili, fra i tanti, a disposizione dell’artistaper la creazione delle sue opere. La differenza con ilready madeè tuttavia netta: senelcollagee nelpapier collécubista oggetti “nuovi” entrano a far parte dell’operapittorica, vengono inglobati nel dipinto, a Duchamp il dipinto non interessa più el’attenzione si concentra unicamente su questi oggetti.

Un’esperienza vicina already madefu senz’altro anche quella dell’assemblag-gio per accumulo. Tra gli artisti più importanti che sperimentarono questa soluzio-ne occupa un posto privilegiato Kurt Schwitters – attivo a Berlino negli anni Venti– con le sue scultureMerz19, ottenute con ogni tipo di oggetto, anche scarti, rottamio immondizia. Ogni materiale è ormai utilizzabile per creare un’opera d’arte:

In sostanza la parola Merz designa l’assemblaggio a fini artistici di tutti imateriali immaginabili e, per principio, l’equiparazionesul piano tecnico diciascuno di questi materiali. La pittura Merz si serve dunque non soltantodel colore e della tela, del pennello e della tavolozza, ma ditutti i materialivisibili per l’occhio e di tutti gli strumenti utilizzabili. Da questo punto di vi-sta, importa poco che in origine i materiali siano stati concepiti per altri scopio meno. La ruota di un’auto per bambini, una rete metallica, dello spago odell’ovatta sono elementi che hanno il medesimo valore del colore. L’artistacrea mediante la scelta, la disposizione e la deformazione dei materiali.20

17 Cfr. D. Riout,L’arte del ventesimo secolo, tr. it. di S. Arecco, Einaudi, Torino 2002, p. 115.18 Ibid., p. 116.19 Merzè una parola che Schwitters disse di aver scelto completamente a caso e che utilizzò molto

spesso come “radice” per i titoli delle sue opere. Come ad esempio per il famoso grande accumulochiamatoMerzbau, un enorme assemblaggio di materiali di scarto che aveva invaso letteralmente lostudio e l’abitazione dell’artista. L’opera venne distrutta da un bombardamento, durante la Secondaguerra Mondiale.

20 K. Schwitters, “La pittura Merz”, in D. Riout,op. cit., p. 160.

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Il ready made, tuttavia, si differenzia in maniera evidente dagli “accumuli” diSchwitters, soprattutto per il fatto che quasi tutti gli oggetti scelti da Duchamp sonoutensili di uso comune, senza nessuna “qualità” particolare, oggetti insommaindif-ferenti; mentre le scultureMerzsono caotiche, vistose, con un gusto decisamenteaccentuato per l’ostentazione della fisicità della materiae delle varie combinazionidi oggetti insoliti. Questa differenza segna anche due fondamentali tendenze del-l’arte contemporanea: da un lato il percorso che si potrebbedefinire “concettuale”,e che vede in Duchamp il punto di riferimento storico più importante, e dall’altro laricerca che si potrebbe definire “materica”, incentrata appunto sullo studio e sullasperimentazione dei materali utilizzati per la composizione dell’opera.

2 Indifferenza visiva

Il testo più importante di Duchamp a commento dei suoiready madeè una breveesposizione che ebbe modo di fare in occasione di un colloquio organizzato daWilliam C. Seitz al Museum of Modern Art di New York, nel 1961,pubblicatacon il titolo À propos des ready made21, in cui vengono presentate in successionealcune riflessioni fondamentali. La prima di queste riguarda il senso stesso dellascelta delready made, guidata non da gusto estetico ma, al contrario, da quella cheviene definita «indifferenza visiva» (indifférence visuelle):

Un punto che voglio stabilire molto chiaramente, è che la scelta di questiready madenon mi fu mai dettata da un qualche diletto estetico. Questascelta era fondata su una reazione diindifferenza visiva, unita allo stessotempo a un’assenza totale di buono o cattivo gusto. . . di fatto un’anestesiacompleta.22

Duchamp si preoccupa dunque, per prima cosa, di esporre un concetto assoluta-mente fondamentale, forse il più radicale – e di conseguenzail più difficile daaccettare – messo in gioco dalla forma d’arte delready made: concetto su cui tor-nerà spesso per sottolinearne l’importanza. Una di queste occasioni è durante unaconversazione con A. Jouffroy:

Bisognava arrivare a scegliere un oggetto, se si vuole, con l’idea di non es-sere impressionati da questo oggetto, secondo un diletto estetico di nessuntipo. In più, bisognava anche che il mio gusto personale fosse completamen-te ridotto a zero. È dunque difficile scegliere un oggetto chenon vi interessiassolutamente e non soltanto il giorno in cui lo scegliete, ma per sempre, e

21 Cfr. M. Sanouillet,Duchamp du signe, Flammarion, Paris 1975, pp. 191-192.22 «Il est un point que je veux établir très clairement, c’est que le choix de ces ready-mades

ne me fut jamais dicté par quelque délectation esthétique. Ce choix était fondé sur une réactiond’indifférence visuelle, assortie au même moment à une absence totale de bon ou mauvais goût. . . enfait une anesthésie complète» (ibid., p. 49, tr. it. nostra).

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che non abbia mai nessuna possibilità di diventare bello, carino, gradevoleda guardare; oppure brutto.23

Duchamp è molto chiaro, ed è per questo che appare estremamente difficileaccettare una lettura delready madevolta a interpretarne le caratteristiche forma-li, che devono invece evidentemente passare in secondo piano, anzi perdere quasiogni interesse; sempre tenendo conto che non è per nulla chiaro se le afferma-zioni di Duchamp a proposito dei suoiready madesiano del tutto serie oppure inqualche modo ironiche, volutamente fuorvianti. Ad esempio, Arthur Danto vedenella teoria dell’indifferenza visivaun procedimento ingannevole, se raffrontato aun ready madecomeFountain: «è come se si prendesse il verbo più sporco di tuttoil linguaggio quale esempio per insegnare la coniugazione.. . !»24. Occorre preci-sare, tuttavia, che se perRuota di Bicicletta(1913) eScolabottiglie(1915), oggettiscelti quando Duchamp non aveva ancora strutturato la sua teoria di ready made, sipuò forse ancora parlare di una componente estetizzante -laforma armoniosa dellaruota, con i raggi concentrici che girano, o la forma “spinosa”, “aggressiva” delloscolabottiglie –, per iready madesuccessivi il principio d’indifferenza visiva si ap-plica in maniera più coerente eFountain(1917), in cui la componente dissacratoriaè posta nettamente in primo piano, appare come un’eccezione. Detto questo, è pos-sibile distinguere iready madein due tipologie: pensando da una parte alla sceltadi oggetti, o immagini, che hanno un significato forte, sul quale Duchamp puntaper ottenere l’effetto desiderato – laGiocondadi Leonardo, l’orinatoio: opere chehanno un retroterra fortemente dadaista25 –; e dall’altra alla scelta di oggetti deltutto banali, neutri, comuni come lo scolabottiglie, il portacappelli, il cavatappi, iquali si fanno espressione coerente del principio d’indifferenza visiva. Pare dun-que opportuno dar credito alle affermazioni di Duchamp, anche perché esse, per lomeno nei punti “chiave”, mostrano una struttura teorica piuttosto solida.

In seguito a queste premesse, scegliendo di prendere per buona la teoria dell’in-differenza visiva, occorre mettere in luce alcuni aspetti su cui soffermarsi maggior-mente. Innanzitutto si può notare come, potenzialmente, con la strategia delrea-dy madeogni cosa possa diventare arte e l’arte possa a sua volta essere costituitada «qualsiasi cosa». S’aprono cioè le porte al regno deln’importe quoi, come lodefinisce Thierry De Duve:

ConCasseurs de pierresCourbet faceva entrare qualunque cosa [n’importequoi] nella scena pittorica eBotte d’aspergesdi Manet parve come la messa

23 «Il fallait arriver à choisir un objet, si vous voulez, avec l’idée de ne pas être impressionnépar cet objet, selon une délectation esthétique d’aucun ordre. De plus, il fallait aussi que mon goûtpersonnel soit complètement réduit a zéro. C’est donc difficile de choisir un objet qui ne vousintéresse absolument pas et pas seulement le jour où vous le choisissez, mais pour toujours, et quin’ait jamais aucune chance de devenir beau, joli, agréable àregarder, ou laid» (M. Duchamp, citatoin A. Jouffroy,Une révolution du regard, Gallimard, Paris 1964, pp. 110-111, trad. it. nostra).

24 A. Danto,La destituzione filosofica dell’arte, Tema Celeste Edizioni, Siracusa 1992, p. 30.25 L.H.O.O.Q. viene definito dallo stesso Duchamp come una combinazione tra un rea-

dy madee un gesto dadaista iconoclasta («une combinaison ready-made/dadaïsme iconoclaste»).Cfr. M. Duchamp, citato in M. Sanouillet,op. cit., p. 227.

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in gioco di qualunque cosa in pittura. Dopo tutto, la storia che va daCasseursde pierresal ready madeè breve e molto conosciuta: da Courbet a Duchamp,da qualunque cosa rappresentata a qualunque cosatout court.26

La prima caratteristica che occorre tener presente affrontando il ready madeèperciò questo suo esseren’importe quoi, ma allo stesso tempo oggetto d’arte: que-sta su proprietà ditrasfigurazione del banale27, di sacralizzazione della banalità28.Nel Dictionnaire abrégé du Surréalismedel 1938 si può leggere la definizione chedel ready madediede André Breton, probabilmente in stretto accordo con lostessoDuchamp: «oggetto usuale promosso alla dignità di oggetto artistico dalla semplicescelta dell’artista»29. Le tensioni filosofiche espresse dalready madedi Duchamps’impongono dunque come una messa in discussione di alcuni importanti luoghicomuni della tradizione artistica, dimostrando concretamente, con il loro successo,come sia possibile creare oggetti d’arte senza alcun’abilità tecnica e prendendo-si gioco completamente del “buon gusto”. A una domanda moltochiara posta daPhilippe Collin, Duchamp rispose in modo altrettanto limpido e inappellabile:

COLLIN – Come si dovrebbe guardare ilready made?

DUCHAMP – In fondo non dovrebbe essere guardato. Sta semplicemente lì;si prende nozione della sua presenza tramite gli occhi. Ma non lo si con-templa come un quadro. L’idea della contemplazione scompare del tutto.Semplicemente, prendiamo nota del fatto che è un portabottiglie, o che sitratta di un portabottiglie che ha cambiato destinazione. ..30

Secondo quanto dichiara lo stesso Duchamp, l’oggetto-opera d’arte viene scel-to non perché “interessante”, anzi paradossalmente viene guidato da un desiderioopposto, definito come una sorta di «anestesia completa», e l’osservatore, di fronteall’opera, deve reagire allo stesso modo: addirittura non dovrebbe quasi guardarla.Questo tipo di procedimento può richiamare la teoria dell’automatismo psichico,teorizzata in ambito surrealista sulle basi di un continuo eproficuo confronto conla psicanalisi di Freud – e naturalmente con le precedenti intuizioni del Dadaismo:Tristan Tzara sosteneva ad esempio che alcuni ritagli di giornali mescolati e postigli uni accanto agli altri «possono rendere ogni uomo uno scrittore infinitamenteoriginale e di squisita sensibilità»31. Nel manifesto del Surrealismo, stampato aParigi da André Breton nel 1924, si legge:

26 «Avec lesCasseurs de pierresCourbet faisait entrer n’importe quoi sur la scène picturale etla Botte d’aspergesde Manet sonna l’entrée en scène du n’importe quoi en peinture. Après tout,l’histoire est courte, et bien connue, qui vas desCasseur de pierresau ready made, de Courbet àDuchamp, du n’importe quoi représenté au n’importe quoi tout court» (T. De Duve,Au nom de l’art.Pour une archéologie de la modernité, Éditions de Minuit, Paris 1989, p. 107, tr. it. nostra).

27 Cfr. A. Danto,La Transfiguration du banal. Une philosophie de l’art, Seuil, Paris 1989.28 Cfr. M. Mazzocut-Mis (a cura di),Tatto e passione. Percorso antologico-critico, Cusl,

Milano 2001, p. 281.29 A. Breton, citato in A. Schwartz,op. cit., p. 53.30 M. Duchamp, citato in J. Gough-Cooper e J. Caumont,op. cit., s.p. (21.6.1967).31 S. Zecchi e E. Franzini,Storia dell’estetica, Il Mulino, Bologna 1995, p. 691.

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SURREALISMO, n.m. Automatismo psichico puro col quale ci si proponedi esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, ilfunzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, inassenza di ognicontrollo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione esteticae morale.32

Vi è certamente, in questa definizione di Surrealismo, una certa affinità conl’«anestesia completa» immaginata da Duchamp, se non altronel tentativo di porsial di là di ogni “preoccupazione estetica”. Duchamp fu sempre vicino, del resto,dopo lo scioglimento del Dadaismo, al movimento surrealista: tuttavia la scelta deisuoi oggetti non è istintiva, non è guidata da un principio di«automatismo psichi-co», né si fa mai accenno alla dimensione onirica tanto importante per i surrealisti.I ready madenon devono essere interpretati come oggetti scelti per evidenziare lepotenzialità dell’inconscio. Duchamp cerca piuttosto di ricondurli a una serie diregole prestabilite:

Precisare i ready made

Progettando per un momento a venire (tale giorno, tale data,tale minuto),d’inscrivere un ready made. – Il ready made potrà in seguito essere cercato(senza alcun indugio). L’importante allora è dunque questoorologismo, que-sta istantanea, come un discorso pronunciato in un’occasione qualsiasi, maa una determinata ora. È una specie di appuntamento. – Inscrivere natural-mente questa data, ora, minuto, sul ready made comeinformazioni. Ecco illato fondamentale del ready made.33

La casualità, la dimensione aleatoria non viene abbracciata completamente. Sol-tanto l’attimo dell’appuntamento è fissato, ma la scelta dell’oggetto appare libera.È come se Duchamp si sforzasse di trovare un compromesso tra ragione, inconscioe casualità: l’unico modo forse per poter scegliere oggettiveramente puri, lontanida ogni gusto. Comunque sia, soltanto unready madefu scelto secondo questalegge di «orologismo»34:

CABANNE – Lei paragonò il ready made a una specie di appuntamento.

DUCHAMP – Sì, una volta. A quel tempo ero preoccupato dall’idea di farela tal cosa in anticipo, affermare “alla tal ora farò questo”. Ma non l’ho maifatto. D’altra parte sarebbe stato molto imbarazzante per me.35

32 AA.VV., Studi sul surrealismo, Officina edizioni, Roma 1977, p. 145.33 «Préciser les ready made. En projetant pour un moment à venir (tel jour, telle date, telle mi-

nute),d’inscrire un ready made. – Le ready made pourra ensuite être cherché (avec tous délais).L’important alors est donc cet horologisme, cet instantané, comme un discours prononcé à l’occa-sion de n’importe qui mais à telle heure. C’est une sorte de rendez-vous. – Inscrire naturellementcette date, heure, minute, sur le ready-made commerenseignements. Aussi le côté exemplaire duready made» (M. Duchamp, citato in M. Sanouillet,op. cit., p. 49, tr. it. nostra).

34 Si tratta diPeigne, un pettine di metallo scelto nel 1916 e inscritto con data e ora.35 P. Cabanne,Ingegnere del tempo perduto, Multhipla edizioni, Milano 1979, p. 68.

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Naturalmente vi è un atteggiamento ironico e provocatorio nel concepire unalegge fatta apposta per non essere seguita, del tutto similea quello della formu-lazione di una lingua universale applicabile una sola volta36. «La mia ironia»,spiega Duchamp, «è quella dell’indifferenza: meta-ironia»37. Nel 1959, a Geor-ge Heard Hamilton che gli chiese di parlare deiready madee di spiegare in chemodo poterli concepire come opere d’arte, rispose:

È una questione molto difficile, perché l’arte prima di tuttodeve essere de-finita. D’accordo, possiamo tentare di definire l’arte? Ci abbiamo provatoe in ogni secolo spunta una nuova definizione di arte. Voglio dire che nonne esiste una che sia essenziale e che vada bene per tutti i secoli. Quindi seaccettiamo l’idea che non tentare di definire l’arte è un concetto legittimo,allora i ready made possono essere interpretati come una sorta di ironia, o untentativo di mostrare la futilità del cercare una definizione per l’arte, perchéeccola qui la cosa che io definisco come arte. Non l’ho nemmenofatta io;come si sa, arte significa fare, fare con le mani, fare a mano. Èun prodottofatto con le mani dell’uomo e io, invece di fare, lo prendo giàfatto, anchese prodotto industrialmente. Ma non è fatto a mano, quindi è una forma dirifiuto della possibilità di dare una definizione all’arte [.. . ]. Ha un valoreconcettuale se si vuole, ma spazza via tutto il gergo tecnico. . . Non si sa seprenderlo come un’opera d’arte, ed è qui che entra in campo l’ironia. . .38

Di fronte alla «meta-ironia» di unready madeoccorre a questo punto domandarsiperché e in che modo possa avvenire la percezione di un oggetto comune comeopera d’arte: un oggetto che si fa portavoce di una nuova paradossale sensibilitàartistica basata sulqualsiasi cosa, ma che al tempo stesso trova in qualche modoposto in un museo e nei libri di storia dell’arte. Un posto, anzi, innegabilmentedi primo piano. Il successo deiready maderivela, di fatto, come sia più influen-te la convenzione – il luogo dove il pubblico si aspetta di “trovare l’arte” – del-l’oggetto artistico stesso: dimostra, in maniera molto violenta, come i fruitori sipongano di fronte alle opere esposte in un museo con un determinato imprescin-dibile orizzonte di aspettative. Il procedimento consisteappunto nell’esporre unutensilequalsiasi, con il quale solitamente si ha un rapporto di percezione e diutilizzo ben consolidato, in un luogo dove per tradizione sitrovano oggetti che sidifferenziano nettamente da quelli della vita di tutti i giorni: per questo, di fronte aun ready made, si ha da un lato la sensazione di essere in qualche modo “truffati”e dall’altro si è colti dall’impressione di avere a che fare con oggetti dotati di unsignificato misterioso, forse esoterico – e da qui nascono probabilmente tutte le in-terpretazioni alchemiche, tra le quali quelle fondamentali di Maurizio Calvesi e di

36 Il tentativo di creare un linguaggio universale fu un punto cruciale della ricerca artistica del-le avanguardie storiche, ma su Duchamp fece poco effetto. Egli non cedette mai all’illusione diun’arte assoluta, anzi demistificò questo atteggiamento con un’ironia tagliente, immaginando unalingua universale adatta a essere utilizzata una sola volta(cfr. T. De Duve,Nominalisme pictural,cit., p. 189).

37 M. Duchamp, citato in J. Gough-Cooper e J. Caumont,op. cit., s.p. (1.6.1953).38 Ibid., 19.1.1959.

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Arturo Schwartz39. Nel museo, l’incontro con un oggetto comune diventa qualcosadi eccezionale: gli spettatori si avvicinano cautamente, dubbiosi, sconcertati da unnetto sfasamento della comune “soddisfazione” dell’attesa percettiva. Nonostantesia passato quasi un secolo dalla loro prima apparizione, e il pubblico dovrebbe es-sere ormai ben preparato, iready madetrasmettono ancora inevitabilmente quellasensazione d’incomprensibile incongruenza.

L’arte delle avanguardie storiche è ormai unanimemente considerata come unfondamentale passaggio della nostra cultura: eppure, pensando ad esempio a Pi-casso, si ha l’impressione che la sua pittura sia stata in un certo senso “digerita”pienamente, non desta più nessun sospetto, come non ne destal’opera di Kandin-skij; mentre iready madesono ancora oggi difficili da affrontare, appaiono in qual-che modo opere paradossali. Cambiando prospettiva, potremmo parlare di opereparadigmatiche di un certo modo di fare arte tipico del Novecento, che si provacontinuamente nello svelare e smascherare le dinamiche piùprofonde del processodi percezione artistica.

Se iready madeesistono solo quando chi li guardasadi vedere un’opera d’arte– uno scolabottiglie in un luogo qualunque non è che uno scolabottiglie qualun-que40 –, occorre ora domandarsi quali sono gli elementi che impongono un’attesa,una predisposizione percettiva di tipo estetico. Senz’altro il museo è il “luogo” del-l’arte moderna per eccellenza, così come le pareti delle basiliche lo erano per l’ar-te medievale. Eppure, all’interno del «perimetro sacro»41 dello stesso museo, dasempre vengono utilizzati alcuni “segnali” per circoscrivere ulteriormente il luogodell’opera d’arte. La cornice, ad esempio, ha precisamentequesto scopo:

La cornice – questo diaframma che, creando un varco nello spazio reale,permette allo sguardo di cogliere la scena dipinta – pone l’accento sul fattoche proprio qui, di fronte a noi, è divenuto accessibile uno spazio figurativoe pone insieme davanti ai nostri occhi l’apertura dello spazio reale che loracchiude.42

La cornice, in qualche modo, indica al pubblico dove guardare, dove “trovare”l’arte. Non deve catturare l’attenzione, lo sguardo può scivolare su di essa e rag-giungere il suo interno, dove al limite può anche non essercinulla, ma un nulla co-munque che ha la possibilità di venire soppesato in modo particolare, poiché la pre-disposizione percettiva dell’osservatore è densa di aspettative. La parete bianca diuna stanza non può che passare inosservata, naturalmente, mentre un monocromobianco in un museo ha un suo preciso significato estetico.

39 Cfr. M. Calvesi,Duchamp invisibile, Officina edizioni, Roma 1975. Cfr. A. Schwartz,op. cit.40 È interessante a questo proposito il gioco che immagina De Duve, parlando delready made

intitolato In advance of the broken arm. Egli sostiene, infatti, che parlando della sua comunissimapala da neve per paragonarla a quella “artistica” di Duchamp, in qualche modo l’ha resa particolare:essa è diventata «la pala da neve di De Duve» (cfr. T. De Duve,Résonances du ready made, cit.,pp. 55-57).

41 E. Migliorini, Lo scolabottiglie di Duchamp, Il Fiorino, Firenze 1970, p. 24.42 P. Spinicci, “La forma della cornice e le sue funzioni”, inLe parole della filosofia, n. 3, 2000.

Rivista online:http://www.apl.it/sf/leparole.htm.

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Con le avanguardie storiche, la cornice comincia a scomparire – ad esempiocon le opere di Mondrian – e vengono sperimentate nuove e sempre più fantasiosemodalità di esposizione. In un certo senso, è ora il perimetro stesso del museo odella galleria a fare da cornice: è il museo, «reinterpretazione moderna di una sto-ria secolare del raccogliere, del delimitare, del collezionare e dell’esporre»43, chepone lo spettatore in atteggiamento estetico, e dunque gli oggetti che incontriamotra le sue paretidevonoessere considerati opere d’arte. Ma come distinguere, aquesto punto, all’interno del museo, ciò che è arte da ciò chenon lo è; un posace-nereready madeda un posacenere in cui spegnere la sigaretta? L’orinatoio sceltoda Duchamp, nella fotografia di Alfred Stieglitz44, appare posato sopra un piedi-stallo, come si addice a una scultura: ma anche senza piedistallo esso apparirebbeun oggetto che evidentementenon è lì per caso: qualcuno, l’artista, lo ha volutoesporre come opera d’arte.

Se per altri oggettiready madel’identificazione può essere meno immediata– il posacenere di cui sopra, ad esempio –, il pubblico ha comunque sempre a di-sposizione delle informazioni, dei segnali che rendono possibile il riconoscimentodell’opera d’arte. Questi segnali possono essere di ogni tipo – etichette, informa-zioni presenti nei cataloghi, una particolare disposizione delle opere nello spazio– e hanno lo stesso significato della cornice: con l’importante differenza che, se ilruolo della cornice in epoca moderna è consolidato da una lunga tradizione, tantoda lasciare il segno anche quando non c’è – infatti, se i dipinti di Mondrian nonhanno cornice, essi hanno comunque la forma del quadro tradizionale e appaio-no delimitati da quella che potremmo definire una “cornice invisibile” –, dopo ilready madeil riconoscimento dell’arte dalla “non arte” molto spesso non è affattopacifico. L’artista può anzi permettersi di giocare propriosu questa incertezza, allimite creando volutamente una confusione dei ruoli45. La cornice marca i confinidello spazio artistico, all’interno del quale iln’importe quoidiventa opera d’arte:è perciò una componente essenziale per la riuscita della forma espressiva delrea-dy made. Essa, oltre che un semplice oggetto con determinate caratteristiche, èdunque più propriamente unatto di delimitazione:

Atto di delimitazione che è al tempo stesso chiusura verso l’esterno e apertu-ra alla fruizione: questioni che riguardano la natura del limite e della sogliaintorno a cui ruota la relazione estetica, e luoghi filosoficiin cui si incon-tra l’ambiguità delle distinzioni fra dentro e fuori, marginale e costitutivo,ornamento e complemento.46

43 A. Somaini, “La cornice e il problema dei margini della rappresentazione”, inMateriali diestetica, n. 5, Cuem, Milano 2001, pp. 19-40.

44 Tale fotografia, scattata nel 1917, è l’unica testimonianzadell’esistenza dell’originaleFountain,che andò subito perduto.

45 Ad esempio, nella recente “personale” di Tom Friedman a Milano (25.10-15.12.02,FondazionePrada), in cui numerosiready made, alcuni molto piccoli, erano “nascosti” e, senza una vera epropria mappa fornita all’ingresso, sarebbe stato quasi impossibile identificarli, riconoscerli come“opere d’arte”.

46 A. Somaini,art. cit., p. 20.

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Storicamente, sono proprio gli oggettiqualunquedi Duchamp, imponendosi comeopere d’arte, a “costringere” a una nuova analisi dei meccanismi messi in gioconell’esperienza estetica, a costringere l’osservatore a soffermarsi a esaminare ilruolo della cornice, che prima era dato per scontato.

Il ready maderivela dunque la fondamentale presenza della cornice: l’attenzio-ne viene bruscamente spostata dall’oggetto d’arte al suo contesto. Le qualità for-mali dell’opera d’arte visiva, da sempre ambito di accesi dibattiti estetici, diventanod’improvviso secondarie o, per lo meno, non sono più l’unicoluogo d’interesse.Duchamp può così permettersi di giocare con questa sua “scoperta”, criticando for-temente gli artisti «retinici»47, schiavi delle forme a loro imposte dalla prassi pit-torica costituita. La visione della storia dell’arte di Duchamp si trova così ad averedei punti di contatto molto interessanti con quella sviluppata da alcuni filosofi alui contemporanei, come Heinrich Wölfflin, Henri Focillon ein seguito Jurgis Bal-trušaitis, che avevano immaginato una “vita delle forme” del tutto autonoma dalsingolo artista:

Per Wölfflin, come per Focillon e Baltrušaitis, si tratta di riportare il feno-meno al tipo e di esaminare, poi, in che modo i tipi si succedano, come essimutino col fluire dell’asse storico, il che pone l’obbligo ditracciare una leggedella loro variazione. L’arte cioè ha le sue proprie leggi che sono indipen-denti sia dalla volontà espressiva del singolo artista sia dai grandi nodi dellastoria.48

Un mondo dell’arte in cui agli artisti non spetta che scegliere le forme a disposi-zione e utilizzarle, un mondo in cui, soprattutto nell’interpretazione di Baltrušaitis,quasi le formesi impongonoall’artista. Secondo Baltrušaitis il mondo delle formeè un vero e proprio regno, con una propria storia e proprie leggi, che possono an-che essere studiate e analizzate. Ma se la sua teoria applicata all’arte tradizionale– in particolar modo per il Medioevo – convince appieno, essaavrebbe parecchiedifficoltà a confrontarsi con il mondo dell’arte contemporanea49. Le avanguardieartistiche d’inizio Novecento, infatti, attuarono la lororivoluzione andando proprioa ripensare le forme dell’arte, per cercare di liberarsi daivincoli che la tradizioneimponeva agli artisti, fino a liberarsi definitivamente del “lato visivo”, riducendoloquasi a zero, come in alcuni casi di pittura monocromatica o nella sceltaindiffe-rentedi un ready made. Nel periodo delle avanguardie, si può dire che gli artisti siemanciparono lentamente dalla schiavitù delle forme. Duchamp è spinto, dunque,grazie alla sua volontà di annullare qualsiasi valore formale dell’opera, a puntarel’attenzione sugli individui, sugli uomini e sulla loro libertà anziché sul loro pro-dotto artistico, capovolgendo, forse un po’ ingenuamente –ma è un’ingenuità ap-

47 È un termine duchampiano, che sta a indicare un tipo di arte «puramente visiva» e nonconcettuale (cfr. M. Duchamp, in A. Schwartz,op. cit., p. 23).

48 M. Mazzocut-Mis,Deformazioni fantastiche: introduzione all’estetica di Jurgis Baltrušaitis,Mimesis, Milano 1999, p. 34.

49 Questi argomenti sono stati trattati durante il Seminario di Estetica tenuto dallaProf. M. Mazzocut-Mis all’Università degli Studi di Milano, nell’A.A. 2000-2001.

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parente, come apparente è la banalità delready made, un’ingenuità assolutamentevoluta, liberatoria,artistica –, l’analisi di Wölfflin, Focillon e Baltrušaitis:

DUCHAMP – l’arte non esiste; esistono solo gli artisti. In altre parole, lascuola non ha nessuna importanza. Si tratta solo di pochi nomi, di pochiuomini con una personalità così forte da imporre la propria opera. . . Se siè “Pop” oggi si è qualcuno. Ma questo non vuol dire che si sarà un grandeartista domani. Detto altrimenti, è proprio come i giornaliche ogni giornoescono con le notizie.

SEITZ – Una vera storia dell’arte è una storia di singoli individui?

DUCHAMP – Sì,uniquement, è la sola cosa che conti.50

3 Territori più verbali

Nell’estetica di Henri Focillon èil tocco (la touche) dell’artista a determinare laqualità dell’opera. Se le forme hanno “vita propria” e non sono gli uomini a poter-le scegliere liberamente, ma esse, epoca dopo epoca, stile dopo stile, quasi s’im-pongono all’artista, il tocco è ciò che dà quelqualcosa in piùche l’arte possiederispetto agli oggetti comuni, ai manufatti di utilizzo quotidiano. Focillon parladel tocconel suo saggio del 1943,Vie des formes(Vita delle forme), giungendo aconclusioni molto interessanti:

Smettiamo di considerare isolatamente forma, materia, utensile e mano emettiamoci al punto d’incontro, al luogo geometrico della loro attività. Pren-deremo in prestito dalla lingua dei pittori il termine che meglio lo designa,e che fa sentire d’un colpo solo l’energia dell’accordo – il tocco. Ci sembrach’esso si possa estendere alle arti grafiche e anche alla scultura. Esso è atti-mo – quello in cui l’utensile desta la forma nella materia. Edè permanenza,perché per esso e da esso la forma si costruisce e dura. Può accadere ch’essodissimuli il suo lavoro, che si ricopra, che si rapprenda, manoi dobbiamo epossiamo sempre riconoscerlo sotto la continuità più compatta. Allora l’o-pera d’arte riconquista la sua preziosa qualità di vita: essa è senza dubbiouna somma, ben legata in tutte le sue parti, solida, in nessunmodo disgiun-ta, senza dubbio, come disse Whistler, l’arte non “brulica”, ma porta in séle tracce indistruttibili (anche se occulte) d’una calda vita. Il tocco è il ve-ro contatto tra l’inerzia e l’azione. Quand’esso è dappertutto uguale e quasiinvisibile, come quello dei minatori innanzi il XV secolo, quando cerca didare, con una giustapposizione minuziosa o con una fusione,non una seriedi note vibranti, ma, se si può dire, una “mano” unita, nuda e liscia, essosembra distruggersi da sé, e tuttavia è ancora definizione della forma. Già lodicemmo: un valore, un tono non dipendono unicamente dalle proprietà e dairapporti degli elementi che li compongono, ma anche dal modocome sonoposti, cioè “toccati”. Di qui l’opera dipinta si distingue dalla porta di granaioo dalla carrozzeria.51

50 M. Duchamp, citato in J. Gough-Cooper e J. Caumont,op. cit., s.p. (15.1.1963).51 H. Focillon, Vita delle Forme, tr. it. di S. Bettini, “Prefazione”di E. Castelnuovo, Einaudi,

Torino 2002, pp. 63-64.

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Il tocco è dunque ciò che distingue l’opera d’arte dall’oggetto comune, il di-pinto dalla pittura di una porta di granaio o di una carrozzeria. Focillon, ben con-sapevole della situazione dell’arte dopo le avanguardie, sente – come del restoDuchamp – indispensabile ormai individuare il luogo esatto, il punto di passaggiodall’oggetto comune all’opera d’arte. Sente in altre parole l’esigenza di trovarequalcosache possa ancora distinguere con sicurezza l’opera d’arte dall’oggettoqualsiasi: ed è per questo che elabora la nozione ditoccodell’artista, una capacitàmisteriosa e difficilmente definibile, una specie di potere occulto, perché la manoappare «guidata da una forza interiore, come quegli artistidediti allo spiritismoche disegnano alla rovescia», in una necessità di incarnarele loro “visioni” nellamateria52.

In più, occorre osservare che il tocco può essere dato con un procedimento cheapparentemente non implica da parte dell’artista l’uso della mano. Per esempio«Hokusai cercò di dipingere senza servirsi delle mani», buttando il colore purosulla tela, oppure facendovi camminare sopra un gallo con lezampe intrise di colo-re: in questi casi tuttavia, anche se non direttamente, «le mani sono presenti senzaapparire, non toccano nulla ma guidano tutto»53. Focillon rifiuta dunque sia l’ideadi un “saper fare” accademico – anzi, non c’è cosa peggiore dell’accademismo edella mano che segue rigidamente regole imposte –, sia l’idea di una particolare“dote” di plasmare la materia, ma non può abbandonare l’ideadi manualità:il toc-codeve essere comunque necessariamentedella mano, anche se in casi eccezionali,come nei dipinti di Hokusai, tale necessità è mediata – in realtà nel Novecento sitratta di un fenomeno sempre più diffuso: basti pensare, peresempio, alle celebriAnthropométriesdi Yves Kleyn, superfici dipinte con l’aiuto di modelle che egliconsiderava comepinceaux vivants, pennelli viventi.

Per Duchamp, invece, il “tocco” si libera completamente dall’idea di capacitàmanuale, diventando un procedimento molto più concettuale, che si identifica pie-namente con la caratterizzazione da parte dell’artista di un ready made(inscrizio-ne). Inscrivere unready madenon comporta un confronto manuale con la materiae il tocco diventa quasi invisibile: a volte basta una breve frase, anche solo unafirma. A volte una piccola modifica dell’oggetto. La mano di Duchamp non è gui-data da un desiderio di plasmare nella materia l’“armonia”,il “bello”, bensì dallavolontà di liberarsi da questa schiavitù della forma: perciò il suo tocco consistespesso solo in qualcosa di scritto, di verbale. Il secondo punto esposto inÀ proposdes ready mademette in luce questa caratteristica:

Una caratteristica importante: la breve frase che all’occasione inscrivevo sulready made. Questa frase, anziché descrivere l’oggetto come avrebbe fattoun titolo, era destinata a condurre lo spirito dello spettatore verso altri territoripiù verbali.54

52 Cfr. ibid., p. 124.53 Ibid., p. 123.54 «Une caractéristique importante: la courte phrase qu’à l’occasion j’inscrivais sur leready made.

Cette phrase, au lieu de décrire l’objet comme l’aurait faitun titre, était destinée à emporter l’esprit

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L’oggetto è, alla vista,indifferentementeopera d’arte o manufatto comune, il suopassare da una realtà all’altra non dipende minimamente dalla sua forma, dalla suapresenza fisica: e questa peculiarità è estremamente disorientante, pensando che iready madetrovano, in fondo, un posto nel campo delle arti visive. Se Leonardoda Vinci sosteneva che la pittura doveva esserepura cosa mentale, quattrocentoanni dopo Duchamp, spinto forse da un’esigenza simile, passando dalla pitturaal ready maderealizzava almeno in parte questo antico sogno. La parte visivaè ridotta al suo “grado zero”, a una percezioneindifferente, necessaria per potersubito scavalcare l’oggetto e raggiungere una dimensione diversa, concettuale edunque invisibile. L’inscrizione può senz’altro avvenireanche non direttamente sulsupporto delready made, ma altrove.Fountainè una parola che in qualche modorimanda all’orinatoio scelto da Duchamp, pur non comparendo su di esso; e non èun semplice titolo – Duchamp lo dice esplicitamente: è uno dei suoi “tocchi”, cheha come supporto, anziché l’opera stessa, la pagina di un catalogo o di una rivistao ancora di un libro di storia dell’arte.

Le brevi frasi che a volte compaiono suiready mades’integrano all’idea d’in-differenza visiva. L’oggetto, secondo Duchamp, deve quasisvanire, porsi comesfondo, senza destare alcun interesse, deve essere soltanto “sfiorato” con lo sguar-do, per poterne cogliere l’unica cosa che interessa: il significato “verbale”. L’in-tento è quello di sminuire l’importanza delle qualità formali dell’opera e allo stessotempo mettere in ridicolo il concetto di tecnica accademica. Le parole scritte sopraai ready madenon sono altro, a questo punto, che un’applicazione di quel nomina-lismo pittorico già in atto, come si è visto, all’epoca delNudo che scende le scale;ma assumono ora una rilevanza maggiore, i ruoli anzi si ritrovano invertiti: invecedi aggiungere un colore al dipinto, queste frasi assumono una funzione principale,nel momento in cui il lato visivo scivola in secondo piano. Illinguaggio apparesostituirsi definitivamente ai colori e ai pennelli e diventare materia privilegiata peril “dipinto”:

Spesso ho messo dei titoli così. . . perché aggiunge del colore, nel sensofigurativo del termine. È un colore verbale. . . Dunque, a ciò che viene fatto siaggiunge una dimensione fornita dalle parole, che sono comeuna tavolozzacon i colori. Aggiungiamo un colore in più, dei colori verbali.55

Ancora una volta è evidenziata la derivazione delready madedalla pittura ed è perquesto che si può parlare dinominalismo pittorico: la pittura, nelready made, ri-mane sempre presente, sullo sfondo, come punto di riferimento, se non altro comeluogo di origine. Se Duchamp dipinge con le parole, nulla ci vieta di pensare cheanche i suoi appunti, i suoi commenti, ogni sua frase sia un colore da aggiungerealla sua “opera” completa. Sono le parole a fare il dipinto: di nuovo evidenziato ilpiano linguistico della strategia delready made. E non soltanto le parole dell’au-

du spectateur ver d’autres régions plus verbales» (M. Duchamp, citato in M. Sanouillet,op. cit.,p. 34, tr. it. nostra).

55 Id., citato in J. Gough-Cooper e J. Caumont,op. cit., s.p. (21.06.1967).

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tore, probabilmente, perché sono anchegli osservatoria fare il dipinto (ce sont lesregardeurs qui font les tableaux)56.

L’oggetto scelto appare, dunque, simile a una tela vergine per la pittura tradi-zionale. Essa non ha alcun valore, èindifferente: il valore subentra eventualmentein un secondo tempo, se l’artista utilizza con arte la tecnica del disegno e della di-stribuzione dei colori, mostrando quindi di avere un buontocco. A un certo puntoil pittore dichiara conclusa l’opera: sta ora al suo pubblico guardarla e valutarla.Se alla tela vergine si sostituisce ilready made, dipinto con le parole, l’oggettoscelto, dopo essere stato inscritto dal suo autore, acquista più se ne parla semprenuovi colori e significati “verbali”. Per questo iready madesi possono considerareopere definitivamente incomplete57. Anche a un dipinto tradizionale gli spettatori,parlando dell’opera, aggiungono in un certo senso dei colori verbali, perché, comeevidenzia De Duve, «le opere d’arte non ci giungono mai nell’innocente nudità diun’evidenza senza parole»58: eppure la sostanza del dipinto, il suo lato pregnanteè quello del colore materico, quello distribuito dall’artista sulla tela con i suoi pen-nelli. Nel ready madeinvece il colore vero e proprio è scomparso: i colori verbalisono la caratteristica più importante.

4 Arte concettuale

Tra i ready madedi Marcel Duchamp, ve ne sono alcuni per i quali la teoriadell’indifferenza visivasi attua in maniera esplicita nel senso di una dissoluzione,un tentativo di annullamento del supporto materiale: ciò appare chiaro consideran-do il Ready made malheureux(1919), un libro di geometria lasciato volutamente aconsumarsi fuori da una finestra fino a svanire, distrutto dagli agenti atmosferici59;oppure nel caso delready made-performancein cui, durante una cena, Duchampfirmò alcuni sigari e li diede da fumare agli ospiti, facendo così in modo che l’ope-ra venisse “consumata” in pochi minuti; oppure ancora l’aria di Parigi, conservata,seppure invisibile, in un’ampollaready made60. Un altro esempio molto significa-tivo riguarda i cosiddettiready made latenti61, che si hanno quando l’opera vienesolo teorizzata, o al limite “indicata”, come nel caso in cuiDuchamp decise di far

56 Cfr. Id., citato in M. Sanouillet,op. cit., p. 247.57 È un’espressione di Duchamp, che dichiarò «definitivamenteincompleto», nel 1923, ilGrande

Vetro.58 T. De Duve, citato in D. Riout,op. cit., p. 283.59 Cfr. J. Gough-Cooper e J. Caumont,op. cit., s.p. (14.4.1919): «Da Buenos Aires Marcel manda

alla sorella e al marito una ricetta per il regalo di nozze. Poiché è intitolataReady made malheureuxpotrebbe essere considerata un regalo ambiguo per un uomo felice: mâle heureux. Suzanne riceveistruzioni per legare con della corda un libro di geometria al balcone del suo appartamento, al numero22 di Rue de la Condamine. Il vento, soffiando attraverso il libro, sceglierà da solo i problemi, volteràle pagine e le straccerà piano piano, distruggendole definitivamente. In seguito, Suzanne si baseràsu una foto fatta all’inizio del processo di disfacimento e dipingerà una tela intitolataLe ready-mademalheureux de Marcel».

60 Si tratta del celebreready madedel 1919 chiamato, appunto,55 cc Air de Paris.61 Cfr. A. Schwartz,op. cit., p. 57.

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diventare opera d’arte il Woolworth Building di New York62: caso estremo di no-minalismo pittorico in cui all’artista spetta solo il compito di scegliere l’oggetto(ri-nominarlo).

Questa tensione verso il “vuoto”, questo desiderio di raggiungere i termini ul-timi del “riduzionismo” e portare così l’opera d’arte a rinnegare il supporto ma-teriale, si pongono storicamente come un’importante eredità per numerosi artistiche, soprattutto a partire dalla metà del Novecento, daranno un nuovo importanterespiro alla teoria dell’indifferenza visiva, giungendo spesso a soluzioni sorpren-denti, al limite della non-visibilità, del puro concetto. Nel 1952 John Cage, amicoe in qualche modo allievo di Duchamp, presenta il suo celebrebrano4′33′′, che hauna partitura divisa in tre movimenti la cui somma dà esattamente 4 minuti e 33 se-condi. La caratteristica sorprendente è che su tale partitura non compare nemmenouna nota, soltanto la dicitura «tacet»63: il brano, infatti, non ha suoni, è compostodi solo silenzio. Si tratta, tuttavia, di un silenzio apparente, che ben presto si rivelapieno dei rumori provenienti dalla sala dove si esegue il brano, dall’ambiente, dal“mondo”. Come Duchamp nel 1913 aveva deciso di non dipingerepiù, Cage cercadi liberarsi definitivamente di ogni tradizione musicale precedente, per sgombrarecompletamente il campo e aprire la strada a nuove possibilità espressive e a nuovesperimentazioni, senza più vincoli di alcun tipo:

Il silenzio è inteso non come negazione del linguaggio musicale, ma co-me liberazione del campo dagli ultimi pregiudizi armonici,allo scopo dipermettere un impiego indiscriminato di qualunque materiale sonoro.64

Nel 1958, l’eccentrico artista francese Yves Klein riuscì aorganizzare in unagalleria parigina una mostra che passò alla storia come la prima «esposizionedel vuoto»65: non fece altro, cioè, che dipingere di bianco le pareti dello spazioespositivo, proponendo quella che egli stesso definì una «smaterializzazione delquadro»66.

A partire dagli anni Sessanta gli episodi di questo tipo si moltiplicano in manie-ra sorprendente67: verso un’assenza completa di forme o suoni, che non coincideaffatto con un azzeramento dei significati; si tratta anzi diun “vuoto” carico di

62 Questo tipo di azione sarà ripresa negli anni Sessanta dall’artista concettuale Roger Cutforth,con quella che definirà egli stesso come “pratica” delpointing(indicare). Cfr. M. Carboni,Il sublimeè ora, saggio sulle estetiche contemporanee, Castelvecchi, Roma 1993, p. 69.

63 Cfr. G. Zanchetti, “Alle radici delle seconde avanguardie”, Archivio di Nuova Scrittura,Milano 1993, p. 36.

64 Ibid., p. 38.65 La mostra in realtà si intitolavaLe vide. La spécialisation de la sensibilité à l’état de matière

première en sa sensibilité picturale stabiliséee fu presentata il 28 aprile 1958 nella galleriaIris Clertdi Parigi (cfr. F. Poli,Minimalismo, arte povera, arte concettuale, Laterza, Roma 1995, p. 43).

66 Ibid., p. 274.67 Esempi significativi sono, ad esempio,Étude pour une fin du monde(1961) di Jean Tinguely, un

grande macchinario progettato per autodistruggersi,Consumazione dell’arte(1961) di Piero Manzo-ni, una sorta dihappeningnel quale l’artista aveva premuto la sua impronta su una serie di uova sodeche il pubblico doveva mangiare (è chiaro in questo caso il riferimento ai sigari di Duchamp),Silen-ce(1966) di George Brecht, in cui compare su un pannello biancosoltanto la scrittaSilence(bianca,

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significati concettuali e che idealmente può segnare il punto d’arrivo e di fusionedelle ricerche artistiche elaborate nel periodo delle avanguardie storiche. Dopo ilsuccesso delready made, degli assemblaggi, dell’astrattismo, l’arte si trova im-provvisamente libera dagli ultimi vincoli che erano sopravvissuti alle avanguardie:essa si trova a essere, semplicemente, «tutto ciò che è possibile chiamare arte» –il ceci est de l’art, l’atto di nominazione di cui parla più volte Thierry De Duve68

– e ad avere confini praticamente illimitati. Il rischio insito nella grande libertàd’azione ottenuta dall’arte grazie al processo d’avanguardia è che essa non possapiù, di fatto, distinguersi da qualsiasi fenomenonon artistico, un rischio che vieneevidenziato fin dalle prime righe dellaTeoria Esteticadi Adorno (1970): «È ormaiovvio che niente più di ciò che concerne l’arte è ovvio né all’arte stessa né nel suorapporto col tutto; ovvio non è più nemmeno il suo diritto all’esistenza»69.

Il “silenzio” appare l’espressione estrema di questo timore: è lo spazio vuo-to che può essere riempito in infiniti modi, l’assenza completa di azione davantialla disorientante possibilità di qualsiasi azione. Si potrebbe parlare di una sortadi horror vacui a rovescio. Come è noto, in certa parte dell’arte medioevalelaraffigurazione appare realizzata in modo che sia riempito ilpiù possibile lo spazioa disposizione all’interno dalla cornice: nell’epoca contemporanea, a partire dal-la metà dell’Ottocento, sono numerosi gli artisti che tendono invece a “svuotare”il più possibile, in una ricerca di essenzialità che tende idealmente alla “purez-za assoluta”, alla liberazione completa dal vincolo della forma. Nel silenzio siera rifugiato lo stesso Duchamp, ritirandosi dal mondo dell’arte per dedicarsi in-teramente, o quasi, al gioco degli scacchi: mentre proprio dal silenzio ha inizioil percorso creativo dell’arte concettuale70. I primi lavori di Joseph Kosuth sonoinfatti caratterizzati significativamente da un intervento da parte dell’artista quasiimpercettibile: in particolare, una delle sue prime opere importanti consiste in unacomune lastra di vetro semplicemente appoggiata a una parete. Vicino al vetro,come parte integrante dell’opera stessa, è posta un’etichetta con scritto: «Lastraqualsiasi di cinque piedi appoggiata a un muro qualsiasi. (1965)»71.

Fu proprio Joseph Kosuth a utilizzare per primo il nome «arteconcettuale»per il tipo di ricerca che stava sperimentando. Il testo più importante di Kosuth èindubbiamenteL’arte dopo la filosofia72, apparso per la prima volta sulla rivista

in bassorilievo),Placid Civic Monument(1967) di Claes Oldenburg, che è un buco scavato e poiriempito in Central Park,Telepathic Piece(1969) di Robert Barry, un’opera soltanto “immaginata” e“comunicata telepaticamente” durante l’inaugurazione della mostra.

68 Cfr. T. De Duve,Résonaces du ready made, cit.69 T.W. Adorno,Teoria Estetica, tr. it. di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1977, p. 3.70 Con questo non si vuol dire, naturalmente, che l’arte concettuale sia una specie di sintesi di tutte

le esperienze artistiche precedenti. Il silenzio, seppur in grado di rappresentare un “luogo d’incontro”tra diverse discipline, nasconde tuttavia anche profonde differenze. Ad esempio, è interessante notareil modo in cui John Cage parla dell’arte concettuale, e delladistinzione tra il suo silenzio, pieno divita e di rumori casuali, e quello di Kosuth, troppo cerebrale e vincolante (cfr. J. Cage,Per gli uccelli,conversazioni con Daniel Charles, tr. it. di D. Bertotti, Testo & Immagini, Torino 1999, p. 161).

71 D. Riout,op. cit., p. 297.72 Cfr. J. Kosuth,L’arte dopo la filosofia, tr. it. di G. Guercio, Costa & Nolan, Genova 1987.

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Studio Internationala Londra, nel 1969: nel quale, fin dalle prime battute, emergela volontà di schierarsi contro la divisione dell’arte in varie discipline, sostenendoche tale distinzione è del tutto dogmatica – si parla di «giustificazione morfologi-ca» dell’arte come di un irrazionale e accademico «concettoa priori»73. Kosuthpassa poi subito a parlare delready madedi Marcel Duchamp, in un brano moltointeressante:

Il problema della funzione dell’arte venne sollevato per laprima volta daMarcel Duchamp. Possiamo infatti attribuire a Marcel Duchamp il merito diaver dato all’arte la sua identità. (Si può certamente rilevare una tendenzaverso questa autoidentificazione dell’arte che inizia con Manet e Cézanne,fino al Cubismo, ma le loro opere sono timide e ambigue in confronto conquelle di Duchamp). In altre parole: “il linguaggio” dell’arte restava lo stes-so, mentre esprimeva cose nuove. L’evento che rese concepibile la possibilitàdi “parlare un’altra lingua” e tuttavia fare un’arte che avesse un senso fu ilprimo sempliceReady-madedi Duchamp. Con ilReady-madel’arte spo-stava il proprio obiettivo dalla forma del linguaggio a quanto veniva detto.Il Ready-mademutò la natura dell’arte da una questione morfologica a unaquestione di funzione. Questo mutamento – dall’“apparenza” alla “concezio-ne” – segnò l’inizio dell’arte moderna e l’inizio dell’arteconcettuale. Tut-ta l’arte (dopo Duchamp) è concettuale (in natura) perché l’arte esiste soloconcettualmente.74

Si tratta, evidentemente, di una vera e propria apologia delready made. Thier-ry De Duve si sofferma tuttavia su queste affermazioni e ne rimane fortemente stu-pito. Anzitutto sostiene che Kosuth «si rende ridicolo» attribuendo already madela forza di aver cambiatoda solo la natura dell’arte75. Trova poi particolarmen-te strano che, nella sua interpretazione, il mondo dell’arte abbia dovuto aspettaremisteriosamente cinquant’anni per scoprire la rivoluzione di Duchamp, con un ap-parentemente inspiegabile vuoto tra l’apparizione deiready made, negli anni Dieci,e l’arte concettuale degli anni Sessanta.

I due dubbi di De Duve sono in stretta relazione. Ilready made, naturalmente,non può aver cambiato la natura dell’arte, essendo sostanzialmente un’idea, sep-pur geniale, di un singolo artista: ma il movimento delle avanguardie storiche, dicui il ready madepuò essere considerato un’espressione limite, con i suoi moltied eterogenei risvolti, ha contribuito innegabilmente a destabilizzare in manieradefinitiva il sistema tradizionale delle Belle Arti. Non stupisce dunque il vuoto dicinquant’anni, perché in realtà non è mai esistito: si è trattato di un percorso moltolento, ostacolato tra l’altro dal periodo buio delle GuerreMondiali, che ha potutoconsegnare la sua eredità, attraverso il Surrealismo, allegenerazioni di artisti deglianni Sessanta. Il dubbio se poter considerare l’arte concettuale come un effettivo edecisivo punto di svolta è espresso, nel 1999, da Gillo Dorfles in questi termini:

73 Ibid., p. 24.74 Ibid., pp. 24-25.75 Cfr. T. De Duve,Résonances du ready made, cit., p. 250.

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Forse in un futuro non troppo lontano, lo storico dell’arte farà una distinzio-ne netta, non già tra arte figurativa e arte astratta, o tra pope op; ma tra artepre-concettualeepost-concettuale, ponendo lo spartiacque tra le due catego-rie artistiche attorno alla metà degli anni Sessanta. O forse, invece, lo stessostorico si riferirà al concettualismo degli anni Sessanta-Settanta come a unodei tanti episodi “contro-artistici”, e più o meno nichilistici, da assimilare alDadà, al cinema underground, ai Concerti Fluxus, mentre piùo meno “tradi-zionali” correnti pittoriche e plastiche, continueranno eavranno continuato asvolgersi attorno a lui.76

Non sembra possibile, tuttavia, ignorare il fatto che gli artisti concettuali sitrovarono a lavorare in una dimensione molto vicina a quelladi certe avanguardiestoriche – e anche, naturalmente, a Marcel Duchamp: anzi, inmolti casi, dovetteroconfrontarsi e approfondire le varie questioni filosofiche messe in gioco propriodal ready made–, mostrando un’evidente continuità teoretica. Ignorandoquestacontinuità, questo “campo comune”, il rischio è di vedere sempre più il mondodell’arte contemporanea, così ricco di nuovi materiali e nuove idee, sgretolarsi ininnumerevoli episodi inconciliabili fra loro – e a un certo punto anche difficilmen-te classificabili, sicché la critica non può che naufragare insieme con essi. Se lostorico d’arte considererà il movimento concettuale come un episodio eccentricorispetto all’andamento “tradizionale” della pittura o di qualsiasi altra disciplina,dovrà necessariamente scontrarsi con il fatto che le varie discipline ormai esistonosolo come ricordo di una superata classificazione: l’arte contemporanea ha infatticonquistato la consapevolezza di poter lavorare in ogni direzione, appropriandosi diogni mezzo, operando in una dimensione di ormai consolidataapertura alla commi-stione tra forme e stili diversi. In una situazione di questotipo la categorizzazionetradizionale non riesce più a rendere conto di un panorama artistico troppo vasto edeterogeneo; si pone dunque sempre più necessario l’utilizzo di categorie estetichee di letture “trasversali”, che tendano a mettere in luce e svelare i nodi teorici piut-tosto che cercare sempre più capillari classificazioni dei vari “sotto-movimenti”artistici.

76 G. Dorfles,Ultime tendenze dell’arte di oggi, Feltrinelli, Milano 2000, p. 131.

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