"Il perché dei gelsomini"

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Anteprima del libro elettronico di Alberto Sciortino, terrelibere.org edizioni

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Alberto Sciortino

Il perché dei gelsomini Tunisia. Le cause della rivoluzione che ha rovesciato Ben Alì

Sembrava monolitico. Godeva di grandi appoggi in Italia e Francia. Eppure il

potere del presidente-dittatore della Tunisia si è sgretolato in poco tempo. Perché?

La rivoluzione dei gelsomini è nata dalla rabbia del popolo affamato o dal desiderio

di libertà? Chi sono i giovani che hanno animato le rivolte? E quelli che fuggono

verso l’Italia? Da chi è formato il blocco sociale che ha creato una nuova prospettiva

nel Mediterraneo?

terrelibere.org

Edizione 1.0 [marzo 2011]

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Alberto Sciortino (Palermo, 1960) è responsabile di progetti di

sviluppo economico in vari paesi africani, mediterranei e

latinoamericani per il CISS, “Cooperazione Internazionale Sud

Sud”, Ong con sede a Palermo. E' altresì autore di saggi e articoli

sui problemi economici dei paesi poveri. Per Baldini e Castoldi ha

pubblicato “L'Africa in guerra. I conflitti africani e la

globalizzazione” (2008).

Terrelibere.org produce e raccoglie dal 1999 inchieste e ricerche

sui rapporti tra Nord e Sud del Mondo, la mafia, le migrazioni,

l’economia e la disuguaglianza. Tutti i materiali sono diffusi

liberamente su licenza Creative Commons. Dal 2009 diventa casa

editrice.

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Un potere monolitico?

Bisogna partire dagli avvenimenti, per ritrovarvi dei dettagli che ci pongono delle

questioni e ci obbligano a cercare delle risposte.

A seguito di settimane di forti proteste, a cui il regime aveva reagito con la

violenza, con un bilancio finale ufficiale di 234 morti, il presidente Zine el Abdine

Ben Alì è stato obbligato a lasciare il paese. In realtà, sembra che l’idea originaria di

Ben Alì e del suo entourage fosse di aspettare un rilassamento della situazione per

rientrare nel suo paese, ed è in questo senso che il governo – coordinato da diversi

anni da Mohammad Ghannouchi – e il partito al potere – il RCD – avevano deciso di

passare la presidenza temporanea della repubblica allo stesso Ghannouchi sulla base

dell’articolo della Costituzione applicabile ai casi assenza temporanea del presidente

della repubblica. Era il 14 gennaio 2011.

L’indomani – una volta partito il presidente – gli stessi soggetti politici decidono,

invece, di passare all’applicazione di un altro articolo della Costituzione (l’art. 57),

applicabile ai casi di assenza definitiva del capo dello stato. La presidenza era

dunque affidata al presidente della Camera dei Deputati, Fouad Mbazaa, mentre

Ghannouchi rientrava nel proprio ruolo di primo ministro e annunciava un nuovo

governo, detto «d’unità nazionale» post-Ben Alì.

Bisogna porsi la questione su che cosa sia realmente successo tra il 14 e il 15

gennaio. Che cosa ha potuto condurre i decisori politici tunisini a cambiare

radicalmente d’attitudine nelle 24 ore successive alla fuga del presidente? Cosa li ha

convinti a passare da un tentativo di “raffreddare” la situazione, per favorire il suo

rientro, alla dichiarazione d’apertura di una nuova fase, nella quale l’ex presidente,

diversi membri della sua famiglia e alcuni suoi collaboratori venivano ufficialmente

perseguiti dalla giustizia?

Certamente, si può pensare che la deposizione definitiva di Ben Alì fosse già nei

programmi di Ghannouchi e dei suoi collaboratori al momento in cui Ben Alì saliva

sull’aereo che l’avrebbe condotto in Arabia Saudita, ma questo non cambia molto i

termini della questione: come un potere che fino al giorno prima sembrava

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totalmente monolitico intorno al suo presidente-dittatore ha potuto decidere di

sbarazzarsene in così poco tempo?

Ci sono due risposte possibili, e nessuna delle due basta da sola. La prima è –

certamente – la pressione della folla in strada. E' questa pressione che ha scatenato

tutte le dinamiche seguenti. Ma la seconda, senza la quale si può giurare che la

reazione alle proteste sarebbe stata una repressione ancora più violenta, fino al

rischio di un vero bagno di sangue e alla guerra civile, è che il potere tunisino non

era talmente monolitico come appariva.

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La rivolta di chi?

Si è molto parlato in Tunisia, durante i giorni della rivolta, del ruolo dell’esercito.

In quest’elemento sta probabilmente una parte della verità. Per comprenderlo

bisogna aprire una piccola parentesi. Dal punto di vista militare, il potere tunisino in

questi ultimi anni si è basato meno sull’esercito che sulla polizia e su certi corpi

specializzati, compresa la guardia presidenziale, la sola a essere ben equipaggiata e

formata, e molto meglio pagata in rapporto all’esercito. Secondo i dati disponibili, la

polizia in Tunisia ha un numero d’effettivi che supera largamente quello

dell’esercito.

Durante le manifestazioni, tra dicembre 2010 e gennaio 2011, la polizia ha spesso

sparato sulla folla. I suoi dirigenti sono dunque responsabili della maggior parte

delle vittime di quei giorni. Di contro, l’esercito ha giocato in quei giorni un ruolo di

barriera tra la polizia e i manifestanti. Si è persino sentito parlare di episodi nei quali

l’esercito avrebbe disarmato la polizia per impedirle di sparare sulla folla.

Che ciò corrisponda o no alla realtà, certo è che i manifestanti hanno subito capito

la differenza d’attitudine tra i due corpi repressivi: li si è visti spesso nascondersi

dietro i carri militari e ancora molto giorni dopo la partenza di Ben Alì si potevano

vedere persone che si facevano fotografare accanto a questi carri coperti di fiori.

Va detto che le gerarchie militari hanno fatto prova di coraggio nella loro scelta di

campo, che – con un diverso sviluppo degli avvenimenti – sarebbe potuto costare

loro molto caro. Ma quest’atteggiamento dell’esercito non è di certo nato ieri, nei

giorni della rivolta. Ha invece delle radici nell’evoluzione della società e del potere

durante questi ultimi dieci anni, evoluzione che non riguarda solo l’esercito.

La scelta di campo di quest’ultima prova che una parte dell’establishment tunisino

non condivideva il sostegno senza condizioni al sistema di potere rappresentato da

Ben Alì. Si può star certi – e i giorni seguenti l’avrebbero provato ulteriormente –

che i militari non erano i soli in questa posizione.

Essi sapevano di poter contare su un consenso che hanno correttamente valutato

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come maggioritario, senza il quale si sarebbero invece conformati all’ordine di

repressione. Capire chi, nelle differenti fasce sociali e nelle differenti istituzioni, ha

accolto favorevolmente la possibilità di sbarazzarsi di Ben Alì è oggi importante per

capire le prospettive della rivolta tunisina.

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Povertà, privilegi e ricchezza

Si è molto discusso ultimamente se questa rivoluzione sia stata l’ennesimo (e il più

forte) dei “moti del pane” che il paese aveva già diverse volte conosciuto in passato, o

piuttosto una rivolta moderna, che non aveva nulla a che fare con la fame, ma era

l’espressione di genti che reclamavano le loro libertà e i loro diritti di cittadinanza.

A mio avviso non c’è alcun dubbio che la rivolta sia stata inizialmente lanciata dalle

fasce più sfavorite della parte più povera del paese. Il fatto stesso che le prime zone

interessate siano situate nelle regioni dell’interno colpite dalla disoccupazione e che

vivono su un’agricoltura quasi al limite della sussistenza lo prova (Sidi Bouzid,

Kasserine, Thala, …). Ma già qui bisogna sfumare il giudizio. Queste zone interne

hanno condizioni complesse, che non possono essere riassunte efficacemente con la

semplice parola “povertà”.

La povertà in Tunisia esiste, ma esiste (come – si potrebbe dire – ormai quasi

dappertutto nel mondo) sotto forme molto diversificate e con una localizzazione

molto irregolare. “Le povertà” – piuttosto che “la povertà” – si manifestano in quelle

zone interne per esempio con l’aspetto delle donne rimaste spesso sole a gestire

piccole imprese agricole familiari senza prospettiva e totalmente emarginate dalla

vita sociale; o con il viso delle ragazze avviate (anche dalle ONG!) a dei corsi di

formazione in ricamo, tappezzeria, taglio e cucito che nella migliore delle ipotesi

daranno loro solo la possibilità di essere sfruttate dagli intermediari che

acquisteranno i loro tappeti a prezzi derisori per venderli sui mercati turistici con

guadagni che loro non potranno neppure immaginare; o ancora nelle persone dei

giovani che hanno studiato – spesso fino al diploma, a volte fino alla laurea – e che

non sanno come utilizzare il loro titolo, ma che di contro – com’è stato evocato

spesso – sanno bene utilizzare Internet, persino in un paese in cui la censura

rendeva quest’operazione complicata, a volte pericolosa.

La povertà è quella delle famiglie intere che vivono ancora della raccolta di legna e

piante nel bosco, lontano, molto lontano dagli occhi dei turisti che acquistano a

buon prezzo il pacchetto tutto compreso della Tunisia delle spiagge e dei nuovi suq

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“antichi” di Hammamet.

Per molti giovani di queste zone interne per molto tempo la possibilità di uscire

dalla loro situazione di disagio era affidata alla speranza di emigrare, ma con gli

accordi ogni giorno più restrittivi tra i paesi delle due rive del Mediterraneo per

impedire le migrazioni, questa possibilità ultimamente si è ridotta in modo radicale.

Ciò che resta è dunque la vita monotona in villaggi privi della minima occasione

culturale.

Fuori della capitale non ci sono né cinema né librerie, né possibilità di sport o di

svago; al di fuori degli hotel della costa non ci sono neppure discoteche; la

televisione, la radio, la stampa sono solo i portavoce del regime; i soli luoghi

d’incontro sono i caffé frequentati unicamente da uomini e dove le giovani

generazioni sono costantemente sottoposte al giudizio degli anziani; i soli negozi

sono quelli d’alimentari e attrezzi agricoli. L’ambiente in cui si trovano questi

villaggi è stato devastato dall’abbandono delle colture, dalla crescente

desertificazione, dalle costruzioni senza regole e dall’onnipresenza dei rifiuti e delle

discariche abusive. Tutto questo fa parte della “povertà” allo stesso titolo della

mancanza d’impiego e di reddito.

E ancora, se l’impiego c’è, rischia a volte di rappresentare un’altra forma di

povertà, quando si tratti di lavoro nelle fabbriche (spesso straniere, o nazionali ma

che lavorano su commissione straniera) che basano la propria esistenza sul basso

costo della manodopera e sull’assenza totale di diritti, fino al punto che i salari non

arrivano ad aiutare le famiglie d’origine degli operai e delle operaie ma, al contrario,

sono le famiglie che devono integrare i redditi con il lavoro domestico o l’impiego

nel settore informale – a volte anche dei minori. E nelle zone turistiche la situazione

dei dipendenti non è differente, e spesso le occasioni di lavoro sono veicolate

attraverso le agenzie d’impiego interinale che finiscono per intercettare una parte

importante del reddito.

Povertà è anche la vita delle persone anziane, spesso analfabete, lasciate a sé stesse

o alla sola solidarietà familiare, che fortunatamente non è ancora scomparsa nel

paese, ma che finisce per trasformarsi in carichi di lavoro supplementare per le

donne. Povertà è quella delle migliaia e migliaia di persone che negli