IL CANTICO DEI CANTICI di Salomone

87
IL CANTICO DEI CANTICI ( di Pedron Lino) ricerca a cura di Anna Maria >Piantanida Introduzione «Il Cantico dei cantici è il gioiello della Bibbia» (E. Osty). «Non c’è nulla di più bello del Cantico dei cantici» (R. Musil). Cantico dei cantici significa «cantico per eccellenza», «cantico sublime». «Non c’è libro biblico che abbia esercitato sull’anima cristiana un effetto di seduzione comparabile a quello del Cantico» (A. Robert). Attorno a questi 117 versetti si sono accaniti esegeti e teologi, scrittori e interpreti, lettori rigorosi e fantasiosi. «L’amore è forte come la morte» (8,6). Queste tre parole ebraiche (‘azzah kammavet’ ahabah) sono state considerate come la sigla poetica, simbolica e spirituale del poemetto, un libro sigillato dall’amore, dedicato alla coppia, a lei e a lui che appaiono sulla scena della vita e del mondo ogni giorno. Il Cantico è prima di tutto un «manuale della Rivelazione sull’amore, sull’affetto e sulla sessualità» (G. Krinetski) e quindi la «Magna Charta dell’umanità» (K. Barth). C’è al suo interno, a prima vista, una religiosità quasi «laica», segno di una profonda incarnazione della parola di Dio, tant’è vero che il nome di Dio è in pratica assente dalle pagine dell’opera, se si esclude la «fiamma di Iah» o meglio «fiamma divina» di 8,6. Al centro c’è l’amore umano, giovanile e primaverile, che rimane tale anche nella tenerezza della coppia fedele e innamorata. Per ricorrere a un’intuizione di Simone Weil, è il «percepire l’essere amato con tutta la propria superficie sensibile, come un nuotatore il mare. Vivere all’interno di un universo che sia lui... Ecco perché la castità è indispensabile all’amore. E l’infedeltà lo contamina. Dal momento in cui vi è bisogno, desiderio, anche reciproco, esiste oltraggio». È per questo che il Cantico liquida le ipocrisie e vive con intensità la corporeità, perché essa non è «desiderata», ma amata, è frutto non del senso, ma dell’amore. 1

description

Re Salomone

Transcript of IL CANTICO DEI CANTICI di Salomone

IL CANTICO DEI CANTICI

( di Pedron Lino)

ricerca a cura di Anna Maria >Piantanida

Introduzione«Il Cantico dei cantici è il gioiello della Bibbia» (E. Osty). «Non c’è nulla di più bello del Cantico dei cantici» (R. Musil). Cantico dei cantici significa «cantico per eccellenza», «cantico sublime». «Non c’è libro biblico che abbia esercitato sull’anima cristiana un effetto di seduzione comparabile a quello del Cantico» (A. Robert). Attorno a questi 117 versetti si sono accaniti esegeti e teologi, scrittori e interpreti, lettori rigorosi e fantasiosi.«L’amore è forte come la morte» (8,6). Queste tre parole ebraiche (‘azzah kammavet’ ahabah) sono state considerate come la sigla poetica, simbolica e spirituale del poemetto, un libro sigillato dall’amore, dedicato alla coppia, a lei e a lui che appaiono sulla scena della vita e del mondo ogni giorno. Il Cantico è prima di tutto un «manuale della Rivelazione sull’amore, sull’affetto e sulla sessualità» (G. Krinetski) e quindi la «Magna Charta dell’umanità» (K. Barth). C’è al suo interno, a prima vista, una religiosità quasi «laica», segno di una profonda incarnazione della parola di Dio, tant’è vero che il nome di Dio è in pratica assente dalle pagine dell’opera, se si esclude la «fiamma di Iah» o meglio «fiamma divina» di 8,6. Al centro c’è l’amore umano, giovanile e primaverile, che rimane tale anche nella tenerezza della coppia fedele e innamorata. Per ricorrere a un’intuizione di Simone Weil, è il «percepire l’essere amato con tutta la propria superficie sensibile, come un nuotatore il mare. Vivere all’interno di un universo che sia lui... Ecco perché la castità è indispensabile all’amore. E l’infedeltà lo contamina. Dal momento in cui vi è bisogno, desiderio, anche reciproco, esiste oltraggio». È per questo che il Cantico liquida le ipocrisie e vive con intensità la corporeità, perché essa non è «desiderata», ma amata, è frutto non del senso, ma dell’amore. Il poema accoglie con passione lo splendore dell’eros, della natura, della tenerezza, degli aromi, dei suoni, dei colori, dell’intimità anche fisica, ma sempre come segno di una relazione interpersonale. Il motto emblematico è «il mio amato è mio e io sono sua» (2,16) o quello parallelo «io sono del mio amato e il mio amato è mio» (6,3). Come si dice nella Genesi (1,31), la sessualità bipolare è «molto buona», cioè adatta all’uomo e creata da Dio. Ma lo è in quanto intrisa di eros, cioè di senso della bellezza, dell’armonia, del sentimento. Lo è soprattutto in quanto è animata dall’amore, sorgente della comunione piena che illumina e trasfigura sessualità, desiderio, eros, passione. Solo in questo senso si può ripetere con Lutero che il Cantico proclama implicitamente che «il corpo viene da Dio...; il desiderio per la donna è un bel dono divino».In questo senso l’orizzonte spirituale del Cantico è più ampio del tema matrimoniale. «Il tema dell’opera è l’amore, non il matrimonio, un amore descritto come una tensione costante verso l’unità e la totalità» (D. Lys). Al Cantico non interessa neppure quel dato così rilevante dell’Antico Testamento che è la fecondità, segno esplicito della benedizione divina (Gen 1,28; ecc.). È l’amore in quanto tale, nella sua assolutezza, purezza e totalità, il cuore del Cantico ed è così che esso può inglobare anche rimandi all’infinito di Dio. Come tenteremo di dimostrare in tutto il nostro commento, non ha molto senso procedere per alternative, opposizioni o sostituzioni: amore umano o amore divino? Uomo o Dio? Eros o agàpe? Nell’unico, perfetto amore umano balena l’amore unico e infinito. «Bisogna rinunziare a opporre erotismo ad allegoria, senso naturale a senso mistico. Si tratta dell’eterna realtà, divina e umana, dell’Amore» (R.J. Tournay).

1

L’amore del Cantico è fieramente umano, ma ha in sé una scintilla divina, è il paradigma per la conoscenza del «Dio che è amore» (1Gv 4,8.16). L’amore del Cantico è squisitamente «simbolico», nel senso genuino del termine perché unisce, mette insieme (sun–ballein) amore e Amore, umanità e divinità. Si tratta di due dimensioni intrecciate tra loro, «inseparabili eppure distinte, come la natura umana e divina del Cristo» (D. Bonhoeffer).La lettura esclusivamente erotica e, paradossalmente, anche quella spiritualistica è dunque diabolica (dia–ballein), cioè disgiuntiva di due elementi inseparabili. «L’amore umano nel Cantico si apre ad essere il simbolo più eloquente e degno per parlare di Dio, senza per questo stingere in un angelismo disincarnato. Non cessa di essere pienamente umano, ma assume una valenza mistica, tale da renderlo la migliore tavolozza per affrescare l’amore di Dio» (G. Borgonovo). Il punto di partenza del Cantico è terrestre e umano, ma è aperto all’epifania del teologico e del mistico. Nell’amore umano autentico c’è Dio. Per questo esso diviene il simbolo reale, anche se talora appannato (cfr. i cap. 3 e 5), dell’amore totale e infinito di Dio. L’amore umano si eclissa quando subentra l’odio fisico della violenza, l’odio erotico del sadismo, del dominio e della pornografia, l’odio interiore della volontà malvagia, cancellazione della triplice scala del corpo, dell’eros e dell’agàpe.La Bibbia registra spesso il trionfo dell’anti–Amore che è anti–Dio e anti–Cristo, ma ci insegna che l’ultima parola tocca all’amore che, dopo l’eclisse dell’odio, ritornerà a sfolgorare. Lo dicono molto bene due testi rabbinici tra loro in contrappunto: «Quando Adamo peccò, Dio salì al primo cielo, allontanandosi dalla terra e dagli uomini. Quando peccò Caino, salì al secondo cielo. Con la generazione di Enoc salì al terzo, con quella del diluvio al quarto, con la generazione di Babele al quinto, con la schiavitù d’Egitto salì al sesto cielo e al settimo cielo, l’ultimo e il più lontano dalla terra» (Genesi Rabbah 19,13). «Dio, però, ritornò sulla terra il giorno in cui fu donato il Cantico a Israele» (Zohar Terumah, 143–144a). C’è, però, anche un’altra eclisse meno grave, costituzionale quasi con la finitudine della creatura umana, ed è quella dell’assenza temporanea, del silenzio della parola, e del dialogo tra i due, fulgidamente tratteggiata in 3,1–5 e 5,2 – 6,3, due straordinari «notturni». L’amore non cancella del tutto il timore. E il rischio dell’estraneità è sempre in agguato. Ma, anche in questo caso, nell’amore genuino l’ultima parola resta sempre quella della vittoria dell’amore sulla morte e sul silenzio. Fondamentalmente, è, dunque, il dialogo, la comunione da ricostituire o ritessere. «Quando un uomo e una donna si amano, ma non dichiarano il loro amore, non sono ancora innamorati. Il loro stesso silenzio significa che il loro amore non è ancora arrivato alla dedizione e al dono di sé. È l’amore che uno liberamente e senza riserve rivela all’altro che costituisce la situazione radicalmente nuova dell’essere innamorati» (B. Lonergan).Entriamo, dunque, in questo meraviglioso mondo disegnato dalle 1250 parole del Cantico. Ci farà da guida Lei, la protagonista femminile, la cui presenza è decisamente superiore a quella del suo amato, l’uomo. Il Cantico è curiosamente un testo «femminile», sorprendente in un orizzonte com’era quello orientale, contrassegnato da un maschismo ben sedimentato. Il nostro percorso proseguirà quasi per cerchi concentrici, in una specie di progressivo avvicinamento al centro dell’opera.La fortuna goduta dal Cantico nel giudaismo è quasi paragonabile a quella della torah, e il successo nel cristianesimo è comparabile quasi a quello riscosso dai vangeli. Basti pensare che nelle università medievali il «magister» apriva la sua «lectio prima» proprio col commento al Cantico. Anche noi continueremo questa tradizione.«Toccheremo le più alte vette della mistica, pur restando sul letto lussureggiante dove si consuma il più intenso degli abbracci. Tutto avverrà con delicatezza, lasciando intatta la carne, profumati i corpi. Si attraverserà il mare della sensualità conservando candida la veste... Ma per questo bisogna avere i sensi lavati e limpida la mente. È allora che potrai entrare in questo santuario, nel vero ‘Santo dei santi’ del mondo» (D.M. Turoldo). 1.IL CANTICO NEL CONTESTO BIBLICO

2

Il Cantico si situa nella tradizione dell’Israele biblico. Il Cantico proclama che vivere è amare.Sessualità e femminilitàNella Bibbia la corporeità e quel suo significativo aspetto che è la sessualità risultano positive e necessarie, non solo funzionali, ma anche estetiche; non solo fisiologiche, ma anche antropologiche. Tutto questo emergerà nel confronto tra il Cantico e i vari passi biblici, soprattutto quelli di Gen 1–2. L’analisi sulla simbolica del Cantico, che in seguito effettueremo, confermerà ulteriormente questa prospettiva.Un aspetto particolare è quello della «questione femminile». Una corretta interpretazione dell’«incarnazione» della Parola evita ogni fondamentalismo e riesce a comprendere e a smitizzare il maschismo, facilmente reperibile nell’orizzonte storico–culturale biblico. Ne citiamo due esempi: «Trovo che amara più della morte è la donna, la quale è tutta lacci: una rete il suo cuore, catene le sue braccia. Chi è gradito a Dio la sfugge, ma il peccatore ne resta preso» (Qo 7,26); «Meglio la cattiveria di un uomo che la bontà di una donna» (Sir 42,14). D’altra parte, è altrettanto vero che nell’arco della letteratura biblica ci si incontra con un giudizio molto più articolato di quanto si supponga comunemente riguardo alla femminilità. Nel nostro caso il Cantico attribuisce un evidente primato alla donna, non solo quantitativo (una sessantina di versetti su settantasette sono sulla bocca di lei), ma anche qualitativo. Accanto a ottanta immagini maschili di Dio, la Bibbia ne offre una ventina di taglio femminile, senza contare le ripetute presenze della simbologia rahamìm «viscere materne» attribuite a Dio (Is 49,15; 66,13; 42,14; 45,10; ecc.). In Lc 15,8ss. l’immagine paterna è preceduta e appaiata a quella femminile. Il discorso sull’«immagine» di Dio nell’uomo, a cui in seguito accenneremo, permette al riguardo un ulteriore approfondimento, sempre sulla linea della simbolica sessuale. Goethe ha scritto che «noi possiamo parlare antropomorficamente di Dio perché noi stessi siamo teomorfi».La presenza femminile nell’Antico Testamento è di grande rilievo. La bellezza femminile – che tanta parte ha nel Cantico – riveste una funzione notevole anche nel resto della Bibbia. Essa appare implicitamente in Gen 2, quando l’uomo incontra la sua donna, e in Gen 6,2, all’interno di un arcaico e mitico racconto, essa attira perfino «i figli di Dio». Sara, la moglie di Abramo, è «una donna di aspetto molto avvenente (Gen 12,11.14); Rebecca, moglie di Isacco, è anch’essa «molto bella d’aspetto» (Gen 24,16). Famosa è la passione di Giacobbe per Rachele «bella di forme e avvenente di aspetto» (Gen 29,17). E, scorrendo la Bibbia, troviamo tante splendide figure di donne.Il matrimonio biblicoIl Cantico è un continuato inno nuziale. Il punto di partenza ideale per ritrovare la matrice della visione nuziale del Cantico è da cercare in Gen 2,23–24, che ne è il suo progenitore, il prototipo biblico. Il papa Giovanni Paolo II nel primo dei suoi interventi sul Cantico (23 maggio 1984) osservava che «non è possibile staccare il Cantico dalla realtà del sacramento primordiale. Non è possibile rileggerlo, se non nella linea di ciò che è scritto nei primi capitoli della Genesi come testimonianza del ‘principio’. Il Cantico dimostra la ricchezza del linguaggio del corpo, la cui prima espressione è già in Gen 2,23–25 ... Lo stesso fascino – che è stupore e ammirazione dell’uomo per la sua donna – scorre attraverso i versetti del Cantico in un’onda placida e omogenea dall’inizio alla fine».I cap. 2–3 della Genesi sono una grandiosa riflessione sapienziale sull’Uomo di tutti i tempi e di tutte le terre, colto nelle sue tre relazioni fondamentali: con Dio, con la natura, col prossimo.Il primo quadro di questo dittico dipinge il progetto divino sull’umanità e sull’intero essere, un progetto tutto intessuto di armonie e di luci (cap. 2). Il cap. 3 invece racchiude la seconda scena, il progetto alternativo che l’uomo vuole attuare (e concretamente attua), prescindendo dalla proposta divina, e i cui risultati sono descritti sulla base di uno schema processuale e secondo l’esperienza dell’Israele contemporaneo all’autore. Ora, nel progetto divino il rapporto «sociale» è descritto nel suo archetipo più alto, quello dell’amore dell’uomo per la sua donna. Nel contesto del brano di Gen 2,23–24 si ricorda che l’uomo si sente sperduto e solo sulla faccia della terra («Non è bene che l’uomo sia solo» 2,18). La solitudine viene superata in due tappe. La prima è affidata al fascino

3

dell’universo materiale e vivente che l’uomo possiede e domina («Imporre il nome» è segno di sapienza, di conquista e di signoria). Eppure l’«ominizzazione» è ancora incompleta. Ecco, allora, la seconda e decisiva tappa di Gen 2,23–24: «Il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo che si addormentò. Gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò, con la costola che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: «Ora sì che essa è carne dalla mia carne, osso dalle mie ossa! La si chiamerà ‘ishshah perché da ‘ish è stata tratta». Si ha qui la soglia spirituale di ciò che il Cantico ripeterà con lo splendore dei suoi versi e dei suoi simboli. La donna è la stessa carne dell’uomo, cioè il suo stesso statuto esistenziale, è l’«aiuto che è simile», cioè la via unica per la complementarietà e la reciprocità dell’amore, è la differenza nell’unità, come è attestato dalla libera e suggestiva etimologia ‘ishl’ishshah. Tra i due c’è un’omogeneità, una quasi identità, una comunione così profonda da renderli un’unica esistenza, un solo nome, una sola carne. K. Barth, però, rileva una novità nel Cantico rispetto a Gen 2: «Nel Cantico si sente una voce che non si poteva ancora sentire nel cap. 2 della Genesi: la voce della donna che guarda l’uomo e s’avanza verso di lui con non minore gioia e sofferenza dell’uomo stesso quando si avvicina a lei e che lo scopre con tanta libertà come quella di cui lui fa prova scoprendola a sua volta». Nel Cantico la parità è piena e il dialogo perfetto.C’è un altro testo della Genesi che potrebbe essere allegato al contesto del Cantico. Si tratta di Gen 1,26–31 nel quale si descrive il sesto giorno della creazione, dove si compie l’ultimo e più solenne gesto creativo di Dio. Infatti l’uomo non è semplicemente una «cosa buona», come si dice di tutte le altre creature, ma è «cosa molto buona». Egli è lo splendore dell’universo, «poco meno di Dio, coronato di gloria e di onore; a lui è stato dato potere sulle opere delle mani di Dio, tutto è stato posto sotto i suoi piedi» (Sal 8,6–7). Il passo di Gen 1,26–31 recita: «Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio li creò, maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra». Dio vide quanto aveva fatto. Ed ecco, era cosa molto buona».È evidente che il parallelo di «immagine» di Dio è «maschio e femmina», cioè l’uomo nella sua bipolarità sessuale. Questo, a prima vista sorprende, ben sapendo quanto la Bibbia sia restia ad attribuire rappresentazioni sessuate a Dio. Il significato è da cercarsi nel contesto stesso della Bibbia, che concepisce la storia della salvezza sulla base di una trama di genealogie. La fecondità della coppia è il segno più alto, allora, del Dio creatore e salvatore. Per Gen 1,27 l’umanità intesa solo come maschilità non è immagine di Dio. Soltanto l’umanità come maschilità e femminilità diventa la vera effigie di Dio, la sua statua vivente. È in questa prospettiva che si può articolare il vero valore simbolico del Cantico che, pur rimanendo canto d’amore umano, ha in sé valori teologici.«La moglie della tua giovinezza» (Pr 5,18)Il Cantico è un’esplorazione sull’enigma dell’amore umano. Potrebbe essere letto come uno sviluppo di Pr 30,18–19: «Tre cose sono per me misteriose, una quarta soprattutto non so spiegare: la via dell’aquila nel cielo, la via del serpente sulla roccia, la via della nave in alto marre e la via (dell’amore) tra un uomo e una donna». «L’amore umano racchiude nel suo intimo il più profondo mistero della creazione. È la meraviglia delle meraviglie. Per i sapienti il mistero della creazione allude sempre a Dio: i misteri del mondo non hanno esistenza propria, l’uomo non vi incontra che il mistero di Dio. Per il sapiente le esperienze del mondo sono sempre per lui esperienze di Dio. Così è dell’amore» (A. Bonora).La personificazione della Sapienza sotto il profilo femminile, il suo concretizzarsi nel ritratto ideale della donna di Pr 31,10–31, il nesso amoroso che intercorre tra sapiente e Sapienza («È lei che ho amato e ricercato fin dalla giovinezza, tentando di prendermela in sposa, innamorato come sono della sua bellezza» Sap 8,2; cfr. Sir 15,2), il tema matrimoniale presente nella letteratura sapienziale, a più riprese, sono altrettanti elementi che permettono una comparazione del Cantico

4

con la sapienza biblica. Esemplari in questo senso sono i contatti del Cantico con Pr 5,15–19: «Bevi l’acqua della tua cisterna e quella che zampilla dal tuo pozzo, non spargere per strada le tue sorgenti né i tuoi ruscelli sulle pubbliche piazze! Siano per te solo, non spartirli con gli estranei. Sia benedetta la tua fonte, trova gioia con la donna della tua giovinezza: cerva amabile, graziosa gazzella, s’intrattenga con te, sempre ti inebrino le sue carezze, sempre ti affascini il suo amore».«Mi chiamerai: Marito mio!» (Os 2,18)A partire da Osea, la tipologia nuziale entra nella simbolica teologica profetica con una particolare intensità, soprattutto ai fini di una revisione del concetto di «alleanza» tra Dio e Israele, precedentemente elaborato su categorie simboliche politico–militari. L’amore umano diventa così «la grande analogia» per parlare di Dio. Il testo capitale rimane certamente Osea 1–3. Questi tre capitoli sottendono un’esperienza reale, autobiografica del profeta. Si tratta di una tormentata, ma intensa, relazione d’amore i cui elementi hanno tutti un significato primario «storico». Soprattutto il cap. 2 riesce a rendere in forma altissima i due momenti, quello dell’oscurità (vv.4–15) e quello luminoso della speranza (vv.16–25), con l’approdo sperato a un nuovo matrimonio in cui la donna proclamerà il suo amore: «Marito mio!» (v.18). Tuttavia su questo significato di base, di per sé aperto a valori ulteriori ed esemplari, il profeta stesso ha già intarsiato una rilettura figurativa, facendo trasparire la relazione tra Israele e Dio.Tutto questo ci permette di stabilire un nesso di Osea col Cantico e col suo tenore originario. Come Osea, anche il Cantico ha alla base una storia d’amore viva, intensa, emozionante, anche se meno tormentata. Nel Cantico essa è meno realistica, affidata com’è a quadri quasi esemplari che si succedono in modo espressionistico.

 

2.IL GRANDE TESTO

L’antico commentatore giudaico Saadia Ben Josef (882–942 d.C.) comparava il Cantico a una serratura di cui si è persa la chiave. E le chiavi usate per aprire quella serratura sono state le più disparate e anche le più stravaganti.Noi vogliamo usare la chiave più elementare, a costo di sembrare semplicisti. «Ogni parte del libro rappresenta una variazione dell’unico tema che suggerisce parole e canti: l’amore tra due giovani che si cercano e si eludono, fonte per loro di gioia sconfinata e di cocente dolore» (D. Colombo).Anche il più superficiale dei lettori riconosce istintivamente che il Cantico è un testo «bello». Rabbi Aquiba protestava duramente contro l’uso invalso al suo tempo (II sec. d.C.) di canterellare il Cantico persino nelle osterie. Questo componimento poetico insegna la sublimità e la bellezza dell’amore. È un testo anticonformista, polemico e contestatore contro una mentalità legalistico- giuridica della legge. I consigli dei sapienti erano spesso ammonizioni e raccomandazioni sui pericoli dell’amore. Il Cantico invece è un mazzo di canti che celebra una cosa soltanto: la bella, splendida e temibile forza dell’amore tra uomo e donna. È una lirica d’amore capace di educare i giovani all’estetica e alla purezza dell’amore. Si può infatti educare all’amore mostrandone le mostruose contraffazioni, le deviazioni egoistiche, le ambiguità e gli equivoci nati dalla passione. Ai giovani il Cantico propone invece la contemplazione di un amore inebriante, senza paure e vergogne. È un’esaltazione, senza riserve, dell’amore tra uomo e donna.Al centro del Cantico c’è innanzitutto l’amore di due persone che esprimono con naturalezza, semplicità e purezza il calore della loro intimità e della loro passione. L’amore è il simbolo supremo che riesce a raccogliere in sé significati molteplici, umani e divini. Il Cantico è pieno di immagini piacevolmente suggestive col loro erotismo esuberante e gioioso, che rendono l’opera indimenticabile e unica in un genere pur affollato com’è quello della lirica amorosa. Tutta la natura è convocata in una specie di riproduzione multicolore simile a un arazzo. L’atmosfera è quella primaverile, entusiastica e serena. Gli animali gioiscono con l’uomo come in un paradiso terrestre

5

(4,13). Le essenze aromatiche invadono tutta l’aria che si carica di sensualità. La stessa corporeità umana diventa segno folgorante (cap. 4,5,7).Il Cantico colleziona tutte le meraviglie del mondo e tutte le gioie dell’esistenza. Hegel affermava che «l’amore è la distinzione e il superamento della distinzione», dichiarando così la qualità simbolica di questa realtà decisiva dell’esistenza umana. La distinzione, propria dell’individualità personale, è marcata nel Cantico soprattutto dalla donna, la quale ripete per una dozzina di volte il suo «Io». Ma è la stessa donna a creare la stupenda formula dell’appartenenza reciproca che elide ogni distanza e distinzione: «Il mio amato è mio e io sono sua» (2,16).Il segno più alto della comunione è rappresentato nel Cantico dalla radice dwd, che ricorre ben 38 volte, e ha nella forma dôdî, «mio amato», la sua espressione più alta e intensa, divenendo quasi la sigla o lo stemma dell’intero poema. Il vocabolo dôdî sulle labbra della donna è soprattutto espressione di tenerezza, di intimità, di donazione, divenendo affine a uno dei tanti nomignoli che gli innamorati si scambiano.Infinitamente distante da certe visioni «spiritualistiche» greche, ereditate anche da alcuni ambiti e periodi cristiani secondo cui il corpo è tomba dell’anima, il Cantico – nella linea dell’antropologia unitaria psicofisica della Bibbia – vede invece il corpo come una realtà simbolica, carica di significati spirituali, inscindibile e indistinguibile dalla stessa interiorità e spiritualità. Il corpo è dunque un pianeta da esplorare, è il punto di partenza e di arrivo di un reticolo vivissimo di relazioni interpersonali e di sensazioni, e ha un linguaggio specifico che il Cantico contribuisce a decifrare. Non c’è, infatti, libro biblico che segua così intensamente il simbolismo somatico in tutti i suoi meandri, i suoi segreti e in tutta la sua apparenza come il Cantico. E, naturalmente, è la dimensione sessuale, non nella sua fisicità, ma nella sua simbolicità di eros e di amore, a occupare una posizione di primato. Essa coinvolge aspetti psicologici, esistenziali e sociali.Il volto è oggetto di attenzione particolare, sia nel suo insieme, sia nei suoi lineamenti, accuratamente seguiti e considerati come segni espressivi. Così pure lo splendore dei seni, la perfezione dei fianchi, del ventre, del grembo. Non manca anche l’interiorità, espressa dalle viscere, segno di emozione; dal cuore, evocato con passione; dall’anima stessa. Il corpo, anzi i corpi nella loro comunione d’amore, così come sono descritti nel Cantico, sembrano quasi essere illustrazione poetica di Gen 2,24–25: «I due saranno una sola carne. Tutti e due erano nudi, l’uomo e la sua donna, ma non ne provavano vergogna».Il corpo del mondo è sentito nel Cantico come una realtà viva, anzi, è visto come lo specchio che riflette il corpo e le emozioni dell’uomo e della donna. Non per nulla le descrizioni del corpo della donna e dell’uomo nei cap. 4,5,7 sono costantemente raccordate alla natura entro cui la coppia è immersa. Il simbolo riassuntivo di questa galassia di immagini potrebbe essere quello del giardino che ha la sua più alta celebrazione in 4,12 – 5, 1. Quello del Cantico è un giardino «chiuso» (4,12), destinato a incarnare il mistero invalicabile racchiuso dal corpo della donna e aperto solo al suo uomo. Quel giardino chiuso è «l’io femminile, padrone del proprio mistero», è «l’interiore inviolabilità della persona» (Giovanni Paolo II). È solo col dono dell’amore che la diversità e l’originalità insite in ogni persona si sciolgono e le porte del giardino si spalancano. Allora la sposa risponde allo sposo con le parole del dono, cioè dell’affidamento di se stessa.Sul giardino del Cantico sfolgora il sole e si riflette la luna, si succedono le aurore e le notti, si stendono gli assolati meriggi, soffia il vento, spira la brezza, si effondono piogge e rugiada. Tutto è avvolto in una procace primavera. È un mondo rinato, è una terra totalmente avvolta dalla grazia.Nel Cantico si apre, poi, una particolare topografia che accoglie nel suo interno diverse località della terra d’Israele e delle aree confinanti. In un certo senso, i corpi dei due innamorati, in particolare quello della donna, sembrano quasi dissolversi e lasciare dietro di sé i contorni di una terra amata.L’amore per la terra promessa, la sua vita, le sue immagini e persino la sua quotidianità è fortemente espresso nel Cantico. Tutta la trama è comunque tenuta insieme da un unico filo rosso, quello dell’amore che tutto illustra, giustifica, motiva, esalta, penetra e rende perfetto. 

6

3.LA GRANDE ERMENEUTICA

In un bel testo giudaico si legge che «il Signore venne dal Sinai per accogliere Israele, come un fidanzato va incontro alla sua fidanzata» (Mekiltà dell’Esodo 72 b).Questa immagine nuziale ha avuto nell’interpretazione giudaica e cristiana del Cantico la sua più alta celebrazione. Una certa fascia dell’esegesi moderna considera il Cantico un’allegoria che canta l’amore tra Dio e Israele all’interno della storia della salvezza o, come voleva l’antica tradizione cristiana, l’amore tra Cristo e la chiesa, tra Cristo e l’umanità, tra Cristo e l’anima credente, tra Cristo e Maria.Se l’antica tradizione aveva privilegiato il senso «spirituale», l’esegesi recente si è spostata sul significato «naturale», lasciando comunque oscillare il Cantico in uno spazio fluido intermedio. Il Cantico è un poema mistico proprio perché è un poema d’amore: nella bellezza della diversità sessuale si intuisce la bellezza suprema nell’intimità dell’amore si intravede un simbolo dell’infinita perfezione del tutto; nei sentimenti dei due protagonisti c’è la possibilità di tracciare un programma di formazione umana alla pienezza psicologica ed esistenziale.Il Cantico è un inno molteplice e variegato dell’amore come simbolo, e canta umanità, passione, eros in modo spontaneo, ma anche il suo essere segno di infinito, di pienezza, di totalità. Piantato sulla terra, l’amore di sua natura è sacro e si ramifica nei cieli. È per questo che il Cantico «sboccia» e «fiorisce» teologicamente tra le mani di chi lo legge senza schermi o riduzioni di visuale. Il simbolo «Amore» in sé parla di amore e di Amore, di corpo e di anima, di limite e di pienezza. Come avremo occasione di ripetere, l’Amore ha iscritti in sé significati ulteriori, compaginati con la realtà umana dell’eros. Sono significati trascendenti che non elidono la base umana, ma da essa fioriscono necessariamente. Là dove uomo e donna si amano in modo puro e pieno si ha anche una teofania (8,5–6). La «santità» del Cantico è intrinseca al suo essere perfetta celebrazione dell’Amore pieno e supremo della coppia. Anche la prima lettera di Giovanni vede nell’amore genuino umano il simbolo della conoscenza di Dio che è amore (1Gv 4,8.16). L’amore umano in sé parla di Dio; nella vita terrena chi ama conosce Dio e lo irradia, proprio attraverso il suo amore, rivelandolo all’umanità. 

CANTICO DEI CANTICI CHE E DI SALOMONE

(1,1)

1 Cantico dei cantici, che è di Salomone.Il Cantico dei cantici è il «Cantico per eccellenza», il canto supremo e bellissimo. Con l’attribuzione a Salomone si vuol mettere questo libro sotto il patronato e l’autorevolezza del perfetto sapiente e monarca, emblema biblico della sapienza e della poesia, come è avvenuto per i Proverbi, Qoelet e la Sapienza. Il nome «Salomone» risuona sette volte nel Cantico, in un settenario di perfezione e di splendore. 

1.BACI DELLA SUA BOCCA

(1,2–4)

La sposa 2 Mi baci con i baci della sua bocca!Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino.

3 Per la fragranza sono inebrianti i tuoi profumi, profumo olezzante è il tuo nome,

7

per questo le giovinette ti amano.4 Attirami dietro a te, corriamo!

M’introduca il re nelle sue stanze: gioiremo e ci rallegreremo per te,

ricorderemo le tue tenerezze più del vino. A ragione ti amano!

Il Cantico si apre con questo appassionato assolo della donna. Siamo come di fronte a un’ouverture musicale: perfetta e compiuta in sé, nel cui interno, in germe, sono raccolti gli sviluppi futuri. Nei vv.2–4 si enunciano e si condensano i temi che poi costituiranno quasi l’architettura della composizione. La donna, il suo uomo, il coro, l’ebbrezza dell’amore, il desiderio, il possesso, la contemplazione affiorano già all’interno di questi tre versetti.Lettura esegeticaLa prima parola del Cantico è, in realtà, un bacio inebriante in cui le due bocche si cercano, quasi per trasmettersi lo stesso respiro e la stessa vita. Ardore ed ebbrezza si fondono, rendendo estasiati i due innamorati. La ripetizione della parola «baci» crea una sorta di superlativo, di intensità nel bacio; lo stesso linguaggio affettivo ama liberazione. Il senso finale equivale a un «baciami con grande amore». Il gesto d’amore è ripetuto attraverso le carezze che dimostrano quanto la persona è «cara». È una tenerezza che si manifesta nel tatto, nella delicatezza del contatto, nell’individuazione delle forme, nell’esaltazione della vicinanza fisica e interiore. «Baci e languide carezze» appartengono all’immaginario e allo stereotipo linguistico dell’amore.In tutta l’area mediterranea esiste una tradizione costante, secondo la quale il vino viene assunto a simbolo dell’amore; identica è la loro capacità di conquista dell’uomo, identica la loro forza seduttrice, identica l’ebbrezza magica (cfr. Pr 23,29–35 per il vino).Dall’ebbrezza del vino si passa col v. 3 all’esaltazione inebriante del profumo. La donna dice al suo uomo: «Il tuo nome è un profumo che viene versato» ed effonde il suo aroma in tutto l’ambiente circostante. Questa comparazione tra il profumo e il nome, cioè la persona, la presenza, la realtà profonda dell’amato è suggestiva. Essa è evidentemente sostenuta dalla somiglianza tra shenien, «profumo», e shem, «nome». La donna in pratica dice al suo uomo: sei tu il profumo più inebriante, la tua presenza stessa è profumo. Il profumo di sua natura è destinato a penetrare nella pelle, a rinvigorirla, a pervaderla col suo aroma; esso è spesso il segnale della presenza di una persona amata.La donna è orgogliosa che la bellezza sfolgorante del suo amato si irradi conquistando anche le altre donne; il fascino del suo uomo non è motivo di paure e di sospetto, non è sorgente di gelosia, ma di gioia e di orgoglio. Il giovane del Cantico finora non ha parlato, ma la sua stessa presenza, il suo «nome» è stato parola, voce di conquista. Proprio come dice una delle più belle canzoni di Bob Dylan «my love speaks like silence», il mio amore parla come il silenzio.Il v.4 è un appello indirizzato all’amato. Seguiamo la protagonista in questo itinerario d’amore, sigillato dal simbolo inebriante del vino. Sappiamo già che il modello regale era applicato in Oriente alle celebrazioni nuziali, come lo è ancora oggi con l’imposizione delle corone durante la liturgia bizantina del matrimonio: lo sposo era il re della festa nuziale, la sposa era la regina.La donna, stretta al suo «re», attende di essere introdotta nel talamo nuziale. Siamo di fronte al talamo nuziale dove si consumerà l’amore, dove la gioia esploderà in una festa del corpo, dello spirito e della vita.Alle ragazze del v.3, che amano l’uomo protagonista del Cantico, si appaiano nel v.4 i giovani forti e giusti che amano, ammirano ed elogiano lo stesso personaggio. Questo canto si chiude sulla parola amore.Simboli e messaggioIn un discorso sul Cantico del 23 maggio 1984, Giovanni Paolo II dichiarava che «i primi versetti del Cantico ci introducono immediatamente nell’atmosfera di tutto il poema, in cui lo sposo e la sposa sembrano muoversi nel cerchio tracciato dall’irradiazione dell’amore. Le parole degli sposi, i loro movimenti, i loro gesti corrispondono all’interiore mozione dei cuori. Soltanto attraverso il

8

prisma di tale mozione è possibile comprendere il linguaggio del corpo». La simbolica fisiologica è dominante anche in questa pagina del Cantico: il corpo è considerato come un grande segno di comunicazione in cui si intrecciano materialità e spiritualità, biologia e psicologia.L’immagine di partenza è quella del bacio, il grande segno dell’amore, ma anche dell’adorazione (ad os, «alla bocca»). Al bacio, nel rituale dell’amore, s’accompagna la carezza, che il poeta per due volte associa all’ebbrezza del vino. Alla comparazione del vino si accompagna quella del profumo, un simbolo particolarmente caro al Cantico. È noto che ogni innamorato sa riconoscere e amare il profumo personale del suo partner. Quello che è un segnale fondamentale dell’istinto e dell’estro negli animali viene caricato di poesia e di amore nell’uomo. Leggendo queste prime righe del Cantico rifiutiamo la pura lettura letteralistica ed erotica, ma anche quella allegorica e tipologica, nella convinzione che nella «fiamma» dell’amore umano si celi una scintilla della «fiamma di Dio» (8,6).

 

1.RICERCA NELMERIGGIO ASSOLATO

(1,5–8)

La sposa 5 Bruna sono ma bella,o figlie di Gerusalemme,come le tende di Kedar,

come i padiglioni di Salma.6 Non state a guardare che sono bruna,

poiché mi ha abbronzato il sole.I figli di mia madre si sono sdegnati con me:

mi hanno messo a guardia delle vigne;la mia vigna, la mia, non l’ho custodita.

7 Dimmi, o amore dell’anima mia, dove vai a pascolare il gregge,

dove lo fai riposare al meriggio, perché io non sia come vagabonda dietro i greggi dei tuoi compagni.

Il coro 8 Se non lo sai, o bellissima tra le donne, segui le orme del gregge

e mena a pascolare le tue caprette presso le dimore dei pastori.

Questa scena è immersa nell’immobilità del meriggio assolato dell’Oriente, in cui il sole batte implacabile su uomini e cose «e nulla si sottrae al suo calore» (Sal 19,7). Su questa scena si muove una figura che percorre le piste bruciate dal sole: è una donna che si affretta ansiosa vagando tra un bivacco e l’altro dei pastori. L’obiettivo del poeta si fissa sul volto di questa donna, sui suoi lineamenti, sulla sua pelle.Il blocco poetico da 1,5 a 2,7 è segnato soprattutto da un dialogo tra la donna e il suo uomo. Questo brano potrebbe essere intitolato «Lei e Lui».Lettura esegeticaDopo l’assolo della donna (vv.5–7) entra in scena per la prima volta il coro che interloquisce con Lei (v.8). Nel v.8 la risposta può essere pronunziata da un coro di pastori beduini che indicano alla donna le orme del gregge dell’amato, mentre lei sta vagando con le sue caprette alla sua ricerca. In lontananza, essi mostrano gli accampamenti dove il pastore amato dalla donna può essere fermo per la sosta pomeridiana.La donna, i fratelli, la vigna (vv.5–6)

9

Le «figlie di Gerusalemme» sono invitate a non fissare la loro attenzione sul colore della pelle della donna. Esso non è congenito, ma deriva dal tipo di esistenza condotto dalla protagonista. La donna usa una specie di diminutivo–vezzeggiativo equivalente alla nostra «morettina», «brunetta». Essa è abbronzata perché vive all’aria aperta e al sole.In alcune aree dell’Oriente antico, i fratelli avevano una vera e propria funzione di sorveglianza e di dominio sulle sorelle nubili (la prassi non è del tutto estinta anche nel nostro mondo mediterraneo!). Al sole che brucia la pelle della ragazza s’accosta la fiamma della collera dei fratelli che brucia l’anima della donna. E la causa di questa collera ci porta nel cuore della scenetta: la donna confessa di aver abbandonato la sua vigna. La rappresentazione è, quindi, semplice: i fratelli avevano dato un incarico di custodia alla sorella, ma essa, desiderosa d’incontrarsi col suo amato che è lontano col gregge, abbandona la vigna e, trascinandosi dietro le caprette (v. 8), va nel deserto alla ricerca del suo uomo, lungo le piste e gli accampamenti dei nomadi.Secondo la simbologia orientale antica ben attestata, la «vigna» può avere connotazioni allusive sessuali. Nel Cantico si intravede facilmente una fitta maglia di «doppi sensi», che però non hanno mai nulla di volgare. Così, in alcune tavolette sumeriche la vigna rimanda al grembo della donna; a Ugarit, la dea della fertilità Astarte, è anche colei che «custodisce la vigna». In un testo egizio dell’epoca ramesside (XIV – XIII sec. a.C.) si descrive l’avventura di un ufficiale con una ragazza ritrosa che «custodiva la sua vigna». La stessa simbologia riaffiorerà secoli dopo nel Corano (II, 223: «Le vostre donne sono un campo per voi...»). Perciò, dietro il simbolismo agricolo, la donna confessa l’esplodere del suo amore: il controllo e l’opposizione della famiglia sono stati inutili; ella ha spezzato i legami ed ora sta partendo alla ricerca del suo amore.La donna, l’amato e il gregge (vv.7–8)Il v.7 è un soliloquio stupendo della donna che interroga l’amato assente, creando così un dialogo silenzioso, ma di intensa tenerezza, dolce e amaro al tempo stesso, affidato quasi al vento perché lo comunichi all’amato lontano. La donna vuole conoscere la località della sosta pomeridiana del gregge del suo amato, quando il sole incombe con tutta la sua potenza e l’orizzonte sembra immobile. La donna velata è pronta ad affrontare il rischio del disonore pur di incontrare la meta della sua vita. In questa donna, che corre dietro i greggi, i pastori, gli accampamenti alla ricerca della sorgente della sua felicità, appare una dimensione che spesso affiorerà nel Cantico e che avrà pagine altissime in 3,1–4 e 5,2–8: l’assenza, la tensione, il vuoto, la lontananza, il timore si incuneano come una mano gelida nel calore dell’amore.Ed ecco, finalmente, all’ardente e ansiosa domanda della donna, una risposta (v.8). Non è pronunziata dall’amato, ma dal coro, che entra in scena per la prima volta.La donna è interpellata con una stupenda definizione che funge da parallelo con quella dell’amato nel v.7 («amore dell’anima mia»): «incantevole tra le donne». Il corrispettivo ideale è nel «benedetta fra le donne», attribuito a Maria in Lc 1,42. Con le sue caprette, la donna è invitata, seguendo le tracce dei greggi, a raggiungere gli accampamenti dei pastori. Là incontrerà il suo amato.Simboli e messaggioLo sfondo agricolo e pastorale è quasi costante all’interno del Cantico. Ma queste immagini nella Bibbia si caricano di molteplici significati teologici. La vigna ha un significato simbolico all’interno dell’Antico Testamento. Il testo più suggestivo è il canto della vigna di Is 5,1–7, che ha in finale la soluzione del simbolo: «La vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda la sua piantagione deliziosa» (v.7). Questo motivo è ribadito dal Sal 80,9.15: «Una vite hai divelto dall’Egitto, per trapiantarla hai espulso le genti... Dio degli eserciti ritorna, guarda dal cielo e vedi, visita questa vigna...».La purezza e la semplicità del testo mal sopporta le scorribande allegoriche che lungo i secoli i commentatori vi hanno sovrapposto. Il percorso della ragazza ha raggiunto la sua meta; la ricerca ansiosa è stata premiata. Nel prossimo quadro, recitato dai due protagonisti in una specie di duetto, si celebrerà l’incontro nell’abbandono dolce e sereno dell’amore. 

10

3.IL DUETTO DELL’INCONTRO

(1,9 – 2,7)Lo sposo 9 Alla cavalla del cocchio del faraone

io ti assomiglio, amica mia.10 Belle sono le tue guance fra i pendenti,

il tuo collo fra i vezzi di perle.11 Faremo per te pendenti d’oro,

con grani d’argento.Duetto 12 Mentre il re è nel suo recinto,

il mio nardo spande il suo profumo.13 Il mio diletto è per me un sacchetto di mirra,

riposa sul mio petto.14 Il mio diletto è per me un grappolo di cipro

nelle vigne di Engàddi.15 Come sei bella, amica mia, come sei bella!

I tuoi occhi sono colombe.16 Come sei bello, mio diletto, quanto grazioso!

Anche il nostro letto è verdeggiante.17 Le travi della nostra casa sono i cedri,

nostro soffitto sono i cipressi.

2-1 Io sono un narciso di Saron, un giglio delle valli.

2 Come un giglio fra i cardi,così la mia amata tra le fanciulle.

3 Come un melo tra gli alberi del bosco,il mio diletto fra i giovani.

Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedoe dolce è il suo frutto al mio palato.

4 Mi ha introdotto nella cella del vinoe il suo vessillo su di me è amore.

5·Sostenetemi con focacce d’uva passa, rinfrancatemi con pomi,

perché io sono malata d’amore.6 La sua sinistra è sotto il mio capo

e la sua destra mi abbraccia.7 Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,per le gazzelle o per le cerve dei campi:

non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché essa non lo voglia.

Il quadro che fa da sfondo a questo duetto d’amore, pieno di sorpresa e di entusiasmo, è un classico pittorico: due innamorati abbracciati in un Eden meraviglioso, su un letto d’erba lussureggiante, in una stanza le cui pareti sono cedri altissimi e il sui soffitto è composto dall’intrecciarsi delle cime svettanti di ginepri o cipressi (1,16–17). Sono poche pennellate di un grande pittore. Infatti, che cosa trovare di più completo, di più visivo e simbolico del distico: «La sua sinistra è sotto il mio capo, la sua destra mi abbraccia»? (2,6). In quel momento il canto dei due innamorati non saprà ripetere altro che tutti i segreti della reciproca bellezza. Una bellezza che è descritta convocando quanto di più affascinante Dio ha creato nell’orizzonte cosmico: perle, oro, argento, nardo, mirra, cipro, vite e vino, colombe, cedri, ginepri, narcisi, gigli, meli, frutti saporosi, gazzelle, cerve...Al centro il ritratto dei due giovani, Lei esaltata da Lui e Lui da Lei.

11

Lettura esegeticaIl testo è spruzzato qua e là da tocchi esotici ed erotici, ma conserva sempre una freschezza, un candore, una snellezza che sono l’indizio genuino dell’intatta poesia. Nei confronti della poesia del Cantico (e un po’ di quella amorosa d’Oriente), noi occidentali ci troviamo nella condizione di non riuscire a coordinare in un flusso armonico di pensiero quelle emozioni e quelle immagini che a prima vista sembrano strane, sghembe, esasperate o eterogenee.Come una puledra... come un sacchetto di mirra (1,9–14)Per la prima volta si ode la voce dell’uomo che emerge dal silenzio del deserto. Egli da lontano vede avanzare verso di sé la sua donna, e l’andatura dell’amata lo spinge a una comparazione che può lasciare imbarazzato o frastornato il lettore occidentale.La comparazione del v.9, «Alla puledra del cocchio del faraone tu assomigli, o compagna mia!», è sicuramente ardita e un po’ stravagante, ma è certamente potente ed efficace. Si tratta di un’immagine plastica di agilità ed eleganza. E il cavallo, con la raffinatezza dei suoi muscoli, l’armonia della sua corsa, è un simbolo di perfezione e di bellezza. Indimenticabile è il ritratto che del cavallo ci ha lasciato Giobbe nel primo dei «discorsi di Dio»: «Sei tu che dai al cavallo il suo vigore e rivesti di fremiti nervosi il suo collo? Sei tu che lo fai saltare come una cavalletta con un nitrito terrificante e maestoso? Esultante per la sua forza, scalpita e si slancia incontro alle armi. Del terrore ride, ignora la paura, non retrocede di fronte alla spada. Su di lui vibra la faretra, luccicano la lancia e il giavellotto. Fremendo d’impazienza, divora lo spazio; suona la tromba, nessuno più lo trattiene: appena ode uno squillo, nitrisce: Aah ... ! E da lontano fiuta la mischia, le urla dei capitani e le grida di guerra» (Gb 39,19–25). Il repertorio a cui attinge il poeta è la poesia egiziana. Infatti, nel papiro egizio Chester Beatty I l’immagine è applicata al ragazzo innamorato: «Possa tu venire dalla tua sorella amata in fretta come un cavallo del re!». Il poeta greco Teocrito nei suoi Idilli (XVIII, 30–31) compara a una cavalla la bellissima Elena di Troia mentre incede davanti ai suoi ammiratori.Ma, se vogliamo spingere ulteriormente il simbolismo, possiamo anche pensare a un’allusione alla fecondità, come spesso si verifica nel simbolismo animale del Cantico. Nel corposo realismo della poesia amorosa orientale, i fianchi opulenti di una donna sono equiparati a quelli della cavalla, e visti come espressione non solo di un particolare canone estetico, ma anche come indizio di vigorosa capacità generativa.Alla visione a distanza, che rivelava il movimento della donna nel suo avvicinarsi, si sostituisce nel v.10 lo sguardo dell’incontro, quando gli occhi dell’uomo si fissano con tenerezza e passione sul viso dell’amata. Il ritratto che ora l’innamorato abbozza è forse ancora in contrappunto con la precedente immagine della cavalla faraonica, della sua gualdrappa, dei suoi finimenti e dei vari gingilli che li ornavano.La rappresentazione del volto della donna, adorno di gioielli, continua nel v.11. L’insieme è quello di grande eleganza e bellezza, come nel ritratto della trovatella divenuta principessa, di Ez 16: «Ti adornai di gioielli, ti misi braccialetti ai polsi e una collana al collo, misi al tuo naso un anello, orecchini agli orecchi e una splendida corona sul tuo capo: così fosti adorna d’oro e d’argento» (vv.1- 13). Le guance di questa dolce creatura sono incorniciate da orecchini d’oro, probabilmente simili a monetine, secondo una moda ancora in vigore in Oriente. Lavorati con decorazioni e intarsi in argento, e applicati alle orecchie e forse anche alle trecce, essi fanno risplendere i bagliori del volto, mentre le perle della collana chiudono il collo e il viso in un ovale perfetto ed elegante. La lettura «spirituale» del Cantico ha intravisto in filigrana a questo ritratto quello elaborato da Is 61, 10: «Gioisco pienamente nel Signore. La mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito di vesti di salvezza, mi ha avvolto col manto della giustizia, come uno sposo che si cinge il diadema e come una sposa che si adorna dei suoi gioielli».Nei vv.12–14 è la donna a disegnare il ritratto del suo amato. E se le parole di Lui erano legate a simboli visivi, quelle di Lei indugiano invece sui simboli odorosi: i profumi percorrono con i loro effluvi tutta la strofa. Ma il vero cuore della strofa è nel v.12 dove si fa strada, in trasparenza, la simbolica dell’intimità. Come in 1,15–17 e in 2,1–3, anche in 1,9–14 la reciprocità del dialogo è

12

travalicata dalla donna che si rivela più creativa, più intensa, più appassionata. E, come si è già detto più volte, questa è la più grande sorpresa del Cantico.La figura del capo re (1,4.12) è immagine dell’amato. Questa funzione regale, pur rimandando alla prassi nuziale, è piena di connotazioni affettuose. Nel Cantico la regalità è solo simbolica ed è una raffigurazione della bellezza gloriosa dell’intimità. Perciò i due, insieme, si sentono attori di una scena regale e solenne. Una scena che è subito pervasa dagli effluvi di un profumo. È come un vento odoroso che, con le sue volute, impregna l’atmosfera, stordisce e inebria i sensi. La donna si sente avvolta come da un manto di aromi intensi. Il profumo è quello del nardo, presente solo nel Cantico e ignoto al resto dell’Antico Testamento. Questo aroma intenso e prezioso, di origine indiana, è forse legato ai culti della fertilità e usato soprattutto come afrodisiaco.Lo sposo è ora disteso nella sala ideale del banchetto nuziale, che successivamente sarà presentata come immersa nella natura, composta dalla freschezza e dallo splendore degli elementi vegetali. Entrando in questa sala, la donna porta non solo il segnale della sua presenza attraverso il suo profumo preferito, ma attraverso esso presenta la sua persona, pronta a offrirsi al suo amato che l’attende. Sarà lei a prendere l’iniziativa perché l’incontro si celebri in tutta la sua intensità, bellezza e purezza. L’uomo avvolto dall’ebbrezza del profumo e stretto in un abbraccio alla sua donna è simile a quel sacchetto di mirra che la donna porta come collana sul seno. Egli è abbandonato teneramente sul corpo dell’amata. Nel v.13 lo sposo è simboleggiato da quella teca di mirra che «pernotta», passa l’intera notte e quindi dimora tra le braccia della sua donna. È la descrizione di un rifugio sereno e dolcissimo, in cui le paure si cancellano e si ha l’impressione di essere in un giardino di delizie e di profumi.Appare per la prima volta un vocabolo fondamentale che risuonerà nell’opera 33 volte. Si tratta dell’appellativo dodì, «amato mio», che sarà quasi il filo musicale ininterrotto che percorre le parole della donna del Cantico. Questo vezzeggiativo esprime un’intimità indistruttibile e appassionata che ha largo uso proprio nel soprannomi o nei nomignoli che gli innamorati si scambiano.La figura dell’amato trapassa ora, come nel versetto precedente, in un’immagine olfattiva, quella della mirra. In Pr 7,17 essa viene presentata come aroma afrodisiaco. La donna poneva le essenze e le resine odorose che più gradiva in un sacchetto di tela ornato e sorretto da un nastro o da un cordoncino. Tutta la pelle restava impregnata da questo profumo (Is 3,20.22). Nel versetto l’immagine acquista, però, un profilo straordinario. È l’uomo ad essere il profumo della donna, è Lui che quasi le dà il segno di riconoscimento e di identità. Si dice in altra forma ciò che si affermerà in 8,6 quando sarà la donna ad essere «il sigillo», cioè il segno di identità dell’uomo.Ma oltre a questa bellissima rappresentazione di comunione, il sacchetto profumato diventa, in trasparenza, anche il simbolo dell’abbandono d’amore dei due innamorati. Il verbo usato per indicare la teca odorosa tra i seni della donna indica tutta la forza e la bellezza della notte d’amore, che è segno d’intimità piena di vita tra sposo e sposa. E questo abbraccio notturno diventa simbolo di una costanza e di una continuità che non può essere infranta.Con una costruzione parallela alla precedente, la frase del v.14 continua la comparazione del dodì con immagini odorose. L’impressione è ancora quella del profumo vegetale, del cipro o cipresso. Trattato come profumo, il cipro può essere un cosmetico da spargere nei capelli, ma anche da usare per marcare i lineamenti delle ciglia, del naso, delle labbra e per colorare le unghie delle mani e dei piedi.Enghedi significa «fonte del capriolo». È una località posta sulla costa occidentale del Mar Morto. Il suo nome è legato a un celebre episodio della vita partigiana di Davide (1 Sam 24). Ora è facile vedere come per il Cantico il capriolo sia un simbolo di rilievo per raffigurare l’amato (2,9.17; 8,14). Ma c’è un altro motivo che giustifica la scelta di Enghedi ed è suggerito proprio dal profumo. L’archeologia ha messo in luce proprio in questa zona un’industria per la lavorazione dei cosmetici, in funzione dalla fine del VII sec. a.C.Dopo l’appassionato intervento della donna, quasi senza stacco, esplode la reazione ammirata ed entusiasta dell’uomo a cui farà subito eco, in contrappunto, la donna.«Come colombe»; la casa dell’amore (1,15–17)

13

Il duetto si fa ora più stringato ed essenziale, snodandosi sul filo della contemplazione, della sorpresa, della ripetizione stupita. La sorpresa è nella scoperta della bellezza che non è mai uguale e non è mai monotona, ma che è come un miracolo del Creatore.Nel v.15 l’esclamazione stupita sul fascino dell’amica confluisce verso un particolare, quello degli occhi. L’autore del Cantico sceglie ora gli occhi, proprio per la loro forza espressiva, il loro fascino, i loro ammiccamenti, la loro intensità luminosa. Del valore di questo simbolo parleremo più a lungo quando commenteremo 2,4. Ora dobbiamo risolvere un quesito semplice: perché si collegano tra loro occhi e colombe? La donna è per il protagonista maschile del Cantico la «colomba», con tutto ciò che questo simbolo comporta d’immediato: candore, tenerezza, amore, eros, innocenza, fedeltà, pace, ecc. Gli occhi della donna parlano con la loro mobilità, con la loro bellezza, con la loro dolcezza, con la loro passione, col loro candore disarmante, con la loro tenerezza. E tutti questi sentimenti sono simboleggiati nella colomba.Nel Cantico la potenza dello sguardo è particolarmente suggestiva. Negli occhi dell’altra l’innamorato sa intuire parole non pronunziate, sentimenti inespressi, sa riconoscere segni d’amore perché, come suggeriva Pascal, in amore i silenzi sono più eloquenti delle parole. Due innamorati che si fissano a lungo negli occhi riescono a comunicarsi messaggi ineffabili, raggiungendo la pienezza della donazione.La replica del suo amato si apre con la stessa formula piena di stupore, di convinzione e di intensità (v.16). Si ripete, così, la stessa meraviglia per la bellezza e per il fascino che la creatura umana sprigiona; non per nulla si replica lo stesso aggettivo «incantevole». Ma la donna aggiunge anche un altro aggettivo: «affascinante, delizioso».La donna, dopo aver ricambiato il saluto amoroso dell’«amato», riesce con una sola pennellata a dipingere il paesaggio in cui la coppia è immersa, ritornando così ad usare la natura come specchio della pace e della gioia degli innamorati.I due si trovano all’aperto, in un’oasi di verde e di pace. Sembra quasi che la loro casa e il loro talamo siano il mondo e che il cosmo diventi tempio dell’amore.Anche se Lui e Lei hanno per letto solo un tappeto di verde campestre, per essi quel giaciglio è lussuoso, solenne, eccezionale. L’erba lussureggiante e fresca lo rende nobile, l’amore lo fa glorioso.La pittura che la donna sta facendo del loro «nido d’amore» continua nel v.17 dove si sviluppa in pienezza la simbolica vegetale, intrecciata con quella domestica.Il primo tratto di questa architettura è indicato dalle travi: «I muri della casa sono cedri e i cipressi ci fanno da tetto». Sdraiati sul giaciglio verde dell’erba, i due innamorati contemplano il cielo e vedono l’intreccio dei rami degli alberi che sembrano quasi comporre un prezioso soffitto ligneo.Il poeta nella selezione delle immagini non cessa mai di far balenare le iridescenze «teologiche» che egli vuol far fiorire dall’amore umano, dai suoi atti, dai suoi ritmi e riti, dai suoi luoghi. Cedri e cipressi del Libano erano stati ampiamente usati dall’edilizia salomonica, in particolare per la costruzione del tempio di Gerusalemme e per l’attiguo palazzo reale. Una vera e propria foresta era passata dal Libano al colle di Sion, arricchendo soffitti e pareti. Anche per la ricostruzione del tempio, dopo l’esilio babilonese, Isaia afferma: «La gloria del Libano (cioè i cedri) verrà a te; cipressi, olmi e abeti abbelliranno il luogo del mio santuario...» (60,13).In dissolvenza, allora, alla capanna d’amore dei due protagonisti del Cantico si sostituisce la meravigliosa struttura del tempio, il luogo dell’incontro di Dio con la sua sposa: Israele. La casa a cielo aperto dei due sposi è simile al «palazzo della foresta del Libano» della reggia di Salomone, una sala di rappresentanza con 45 colonne di cedro (1Re 7,2–3). In modo delicato e allusivo, queste righe poetiche dedicate alla realtà dell’amore umano contengono segnali trascendenti, simbolismi religiosi e spirituali, ammettendo così la possibilità di una rilettura parabolica sull’intimità del fedele col suo Dio in Sion. Ma la base e l’intenzione primaria restano la celebrazione del grande mistero dell’amore umano, il simbolo passibile di ulteriori significati.«Come un narciso... come un giglio... come un melo» (2,1–3)

14

Continua ad affiorare all’interno dei versetti 2,1–3 lo scenario naturistico evocato dalla strofa precedente. Il simbolismo vegetale è sempre più trasparente e «psicologico» perché rispecchia la realtà interiore dei due innamorati, la loro situazione, le loro emozioni. D’altra parte, è tipico della poesia d’amore, ma anche del semplice linguaggio degli innamorati, il ricorso all’identificazione dell’amato o dell’amata in un fiore, soprattutto primaverile. Il motivo floreale suscita, infatti, idee di gioia, di luce, di serenità, di tenerezza, di delizia, di piacere, di fecondità ecc. In un paesaggio assolato e spesso arido, come il deserto di Giuda, l’evocazione di una scena floreale è segno di vita, di felicità, di pace e di benedizione.I fiori appartengono spontaneamente alla simbologia d’amore in tutte le culture: attraverso il loro spettro di colori, la loro allusività alla fecondità, il loro aroma diventano quasi stereotipi per incarnare la varia gamma dei sentimenti e delle passioni. È la donna a coniare per sé la prima raffigurazione floreale (2,1). Due sono i fiori che colorano le parole della donna, fiori semplici e non esotici, tipici della campagna palestinese: il narciso e il giglio.Tipica del duetto è la ripresa dei motivi in contrappunto. Lo sposo, infatti, riprende l’immagine del giglio. Nell’interno di una distesa di rovi e cardi spinosi è sbocciato un giglio. Con ciò si vuole esaltare il contrasto tra la bellezza e l’aridità spinosa, tra il profumo e la neutralità inodore, tra il colore squillante e il piatto grigiore. La donna amata fa impallidire qualsiasi altra bellezza; l’uomo innamorato non cerca che lei e tutto il mondo gli sembra un campo di cardi spinosi, se confrontato con il fascino della sua donna. La donna amata, in mezzo alle altre ragazze, le declassa tutte, tanto è accecante la sua bellezza e unico il suo splendore. In ambito cristiano vorremmo citare l’interpretazione mariologica di questo passo. Il giglio tra le spine è Maria, il cui candore è inutilmente osteggiato dalle spine del male e del peccato.Il duetto si chiude con la ripresa dialogica del v.2, ora rielaborato dalla donna per il suo uomo. Questa replica va dal v.3 al v.7. Ora, la protagonista femminile costruisce una piccola parabola attorno al simbolo vegetale del melo, letteralmente «(l’albero) che spira profumo». L’evocazione di questo simbolo vegetale ha finalità afrodisiache. Il melo, infatti, nell’antica mitologia sumerica, era l’albero dell’amore. L’amato è di una bellezza sfolgorante, come lo è il melo lussureggiante in rnezzo agli alberi selvatici della foresta. Il melo è profumato, ricco di frutti carnosi e colorati, dotato di foglie lucide. Si evocano, così, immagini vegetali gustative, idilliache ed estetiche. Anche qui la comparazione è spiegata nel suo significato metaforico, con la connessione tra l’amato e gli altri giovani. Tutti i giovani impallidiscono di fronte al vigore e alla giovanile freschezza dell’amato. Sotto questo splendido melo la donna anela rifugiarsi. L’ombra della chioma dell’albero è come un abbraccio di fecondità. La scena vuol suggerire pace, abbandono, protezione, intimità che la donna trova quando è accanto al suo uomo. Seduta ai piedi del melo, la donna vuole gustare i frutti che pendono su di lei. Nella metafora si intuisce che il poeta vuole evocare i frutti dell’amore, saporosi al palato come le mele.Sono malata d’amore (2,4–7)L’ultima sezione del duetto dell’incontro tra Lei e Lui è occupata da un canto solista della donna, un canto di grande bellezza. Una fitta trama simbolica percorre tutto il testo: immagini somatiche, gustative, vegetali, animali sembrano quasi riassumere l’intero tessuto simbolico dell’unità letteraria che va da 1,9a 2,7.La scena ruota attorno a questa misteriosa "casa del vino". È la rappresentazione simbolica del luogo dell’incontro tra Lei e Lui. In questo senso, il parallelo più adatto per illustrare la scena è 1,4: «Il re mi introduce nella sua alcova per gioire e far festa con te, per assaporare le tue carezze più del vino». Il vessillo militare evoca l’irresistibilità trionfale dell’amore. Ciò viene confermato dallo stesso Cantico in 6,4.10, dove la donna è descritta «impressionante come vessilli spiegati». Su questo vessillo è idealmente ricamata la parola «amore». Il vessillo che si solleva nella dolce lotta dell’abbraccio porta un solo nome: Amore. La bandiera di questa guerra gioiosa non è insanguinata dall’odio, ma proclama solo una tenera vittoria. Le ferite sono provocate dai dardi d’amore che riescono a sfinire corpo e spirito. È una malattia dolce e desiderata. È un languire d’amore.

15

Le focacce in questione sono state originariamente legate alle liturgie della fecondità e hanno conservato una connotazione afrodisiaca, pur avendo sempre la funzione di sostegno vitaminico. In Mesopotamia, e precisamente a Mari, è venuto alla luce uno stampo metallico a forma di dea nuda che si regge i seni: con questo utensile si confezionavano e si cuocevano le focacce votive per Astarte, dea dell’amore e regina del cielo. Con le focacce tradizionali la donna del Cantico chiede anche delle mele (o succo di mele), uno dei rimedi contro l’impotenza secondo alcuni testi magici mesopotamici. Secondo una credenza diffusa ancora oggi tra gli arabi, la mela è uno stimolo efficace per l’appetito in senso fisiologico generale e in senso sessuale.Uva, vino e mele non sono, quindi, soltanto un ricostituente: i frutti sono simbolici e mostrano che la guarigione e il ristoro sorgono solo dall’esperienza d’amore. È una domanda di sostentamento fisico che s’allarga a una rete di allusioni sentimentali e sessuali. Il trionfo dell’amore deve trasfigurare l’essere intero della persona. Giungiamo, così, all’apice del versetto, a quel grido o sussurro finale: "Perché malata d’amore sono io!" . L’essere malati d’amore è un immagine eterna e intensa. In un poema egiziano si legge: «È da sette giorni che non vedo la mia amata. Il languore su di me si è abbattuto. La mia amata è per me il migliore di tutti i rimedi!». Anche la traduzione: «Perché trafitta d’amore io sono!» rende bene il significato.Nel v.6 il poeta ci offre una stupenda illustrazione pittorica dell’abbandono d’amore: la sinistra dell’uomo è sotto il capo della sua donna, mentre la destra l’abbraccia in un gesto che esprime tenerezza, affetto, delicatezza, ma anche possesso, protezione, attrazione fisica. Entrambe le dimensioni, quella spirituale e quella corporea, sono coinvolte, unite ed esaltate dall’amore. La sinistra solleva il volto amato, mentre la destra stringe a sé il corpo amato e desiderato. L’attesa e l’incontro si fondono insieme; tutto il flusso delle immagini precedenti aveva questa meta che è, insieme, conquista e attesa. La malattia d’amore è curata, ma mai guarita. Su questo delicato ricamo tra possesso e desiderio, tra unione e assenza si regge tutta la logica poetica e spirituale del Cantico. In questa scena la tenerezza umana diventa segno di quella divina.Questo abbandono totale porta dolcemente l’amato al sonno. La donna contempla, piena di tenerezza quasi materna, il suo amore che si è addormentato tra le sue braccia.Dopo l’abbraccio, nella pace suprema e nella felicità intatta dell’incontro, le parole della ragazza sono un invito a non disturbare l’amore, a rispettare i tempi e i momenti, a lasciare nella pace i due amanti assopiti l’uno nelle braccia dell’altra. L’appello diventa un caloroso scongiuro per avere pace e silenzio, indirizzato al coro delle figlie di Gerusalemme che circondano come una corona di ballerine la scena centrale della coppia. L’appello chiama in causa per la prima volta nel Cantico le gazzelle e le cerve della campagna, animali mobilissimi, lievi, giovani, stupendi, simboli di giovinezza e di amore, di grazia e di tenerezza. In questo scongiuro, il partner è chiamato Amore, l’Amore personificato, espressione incarnata dell’eterno Amore.In Pr 5,19 «la donna della giovinezza», cioè la sposa amata, è cantata come «cerva amabile, graziosa gazzella» le cui «tenerezze sempre inebriano», il cui «amore sempre invaghisce» il suo sposo. Certo, l’influsso della mitologia della fecondità si fa sentire nella scelta dell’immagine, ma ormai trascolora lentamente in un simbolo più generale di grazia, di bellezza, di amore, come si può vedere nei vari passi del Cantico in cui questi animali fanno la loro comparsa. Il giuramento si fonda perciò sulla bellezza, sulla grazia, sull’amore emblematicamente incarnati da questa coppia di animali simbolici. È curioso notare che l’autore ha inteso evitare il giuramento classico nel nome di Dio. Ma a noi interessa soprattutto precisare il contenuto del giuramento–scongiuro. Esso riguarda, a prima vista, il sonno dell’amato: «Non ridestate l’Amore». Per capire questo sonno da cui si emerge e questo risveglio rimandiamo a 8,5, dove, come nel nostro quadro, si introduce un risveglio sotto il melo. Qui, esso significa un appello al silenzio e alla pace dell’abbraccio (v.6), senza risvegli bruschi, in attesa che lentamente si passi dal sonno alla realtà quotidiana. Un’immagine, quindi, di grande tenerezza: nella pace del sonno, nell’abbandono dell’abbraccio sembra quasi che la donna contempli i fremiti del volto dell’amato, l’incresparsi delle labbra, il tremito delle palpebre, indizio del primo schiudersi del risveglio.

16

La vera spiritualità del Cantico sprizza dalla realtà della storia d’amore. Il lettore è invitato a sentire nell’amore umano, nella bellezza, nella felicità il palpitare di un mistero, a intuire nell’affetto tra l’uomo e la donna un segno trascendente. All’interno della vera mistica c’è sempre un’interazione tra concretezza e trascendenza, tra bello e Bello, tra uomo e Dio, senza che uno dei due poli scompaia. Il mistico persiano Al–Kashiani, morto verso il 1330, scriveva: «Il vero Bello è Dio e tutto ciò che vi è di grazioso e di bello al mondo è una manifestazione della sua bellezza. E poiché Dio ha creato l’uomo a sua immagine – bello e veggente – tutte le volte che scorge un essere bello, le pupille dell’intelletto si sentono attratte verso di esso e in direzione di lui si protende il suo intimo».Simboli e messaggioQuesta unità letteraria esalta, attraverso un ricamo pirotecnico di simboli, il tema della bellezza e della comunione. Sullo sfondo c’è la scena dominante, ripetuta più volte, quella dei due innamorati abbracciati, immersi in un giardino quasi atemporale, segno di una pace interiore.La scena finale dell’abbraccio, e quindi di unione di corpo e anima, rappresenta il vertice dell’amore. Essa contiene in sé una teologia dell’amore matrimoniale, come perfetta comunione dell’esistenza (Gen 2,24: «una carne sola»).La corporeità non è vista corse semplice fatto biologico, ma come un grande segno di comunicazione. Essa appare subito nell’andatura «equina», solenne ed elegante della donna (1,9) e passa poi a fissarsi sul volto: guance, collo, orecchie, occhi, bocca e palato, capo. C’è poi l’intreccio delle mani e delle braccia (2,6), ecc.Al corpo si collegano direttamente due altre simbologie parallele, quella gustativa e quella olfattiva. Nella prima si ritrova tutta la sequenza simbolica di 2,3–5 con la menzione del vino, con le focacce di uva passa, con le mele e coi frutti «saporosi al palato». La seconda simbologia avvolge con i suoi profumi soprattutto 1,12–14 dove esalta l’aroma del nardo, il corpo è pervaso dalla mirra e l’aria è percorsa da effluvi di cipro.Vi è inoltre la simbologia vegetale che occupa tanto spazio nel Cantico. Il nardo, la mirra, il cipro, le vigne, i cedri, i gigli... La casa più affascinante per i due innamorati è proprio quella preparata loro dalla natura, con un giaciglio di erba odorosa, con le travi e il soffitto fitto di intrecci di rami (1,16–17).Alla simbolica vegetale si associa la simbolica animale. Tre sono gli animali scelti per il loro significato simbolico: la cavalla egiziana, segno di bellezza esotica e di portamento regale; le colombe, segno della dolce mitezza degli occhi della donna; e, infine, le gazzelle e le cerve, i tipici animali della tenerezza e dell’amore. Lo splendore degli ornamenti (orecchini, fili di perle, oro, argento, intarsi, ricami ...) rende regale la coppia e trasforma i due in re e regina secondo quella tipologia nuziale che perdura sia nelle usanze beduine della Siria sia nel rito ortodosso del matrimonio.Con tutte queste simbologie si vuole creare attorno ai due innamorati come un’aureola di gloria, di bellezza e di gioia. L’amore è nobiltà, fascino, ebbrezza, armonia cosmica, autentica felicità e godimento. 

4.LA SORPRESA DELLA PRIMAVERA

(2,8–17)

La sposa 8 Una voce! Il mio diletto!Eccolo, viene

saltando per i monti,balzando per le colline.

9 Somiglia il mio diletto a un caprioloo ad un cerbiatto.

17

Eccolo, egli stadietro il nostro muro;guarda dalla finestra,

spia attraverso le inferriate. 10 Ora parla il mio diletto e mi dice:

«Alzati, amica mia,mia bella, e vieni!

11 Perché, ecco, l’inverno è passato,è cessata la pioggia, se n’è andata;

12 i fiori sono apparsi nei campi,il tempo del canto è tornato

e la voce della tortora ancora si fa sentirenella nostra campagna.

13 Il fico ha messo fuori i primi fruttie le viti fiorite spandono fragranza.

Alzati, amica mia,mia bella, e vieni!

14 O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi,

mostrami il tuo viso,fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave,

il tuo viso è leggiadro».15 «Prendeteci le volpi,

le volpi piccoline che guastano le vigne,

perché le nostre vigne sono in fiore. 16 Il mio diletto è per me e io per lui.

Egli pascola il gregge fra i gigli.17 Prima che spiri la brezza del giorno

e si allunghino le ombre,ritorna, o mio diletto,

somigliante alla gazzellao al cerbiatto,

sopra i monti degli aromi.Il movimento poetico di questa stupenda scena primaverile è aperto da uno «staccato» colmo di attesa e di sorpresa: «Una voce: Eccolo, Eccolo, Ecco...» (vv.8.9.1 1).Il profumo della primavera, il suono di un passo amato, di una voce, il contrasto vivissimo tra inverno e primavera, tra assenza e presenza, lo smalto dell’idillio naturale rendono questo quadretto un piccolo capolavoro lirico.Lettura esegeticaL’amato sta per giungere alla casa della ragazza verso l’alba, dopo una notte oscura di lontananza, di silenzio e di attesa. La tensione e il terrore dell’assenza si spezzano, la venuta dello sposo è un’irruzione liberatrice. Le lunghe giornate piovigginose dell’inverno sono finite, la sospirata primavera è tornata con la sua brezza, le sue foglie nuove, col profumo dei fiori e il tubare delle tortore. La presenza dell’amato coincide con la primavera, l’amore fa fiorire la vita e il mondo. La donna spia quel segno tanto desiderato, cerca un solo rumore, quello di un passo noto. Una voce che, fra tutte, fa accelerare i battiti del cuore.Come una gazzella o un cucciolo di cervo (vv.8–9)L’atmosfera di questo esordio ci richiama I promessi sposi di Alessandro Manzoni (cap.VIII): Lucia aveva imparato «a distinguere dal rumore dei passi comuni il rumore di un passo aspettato con

18

misterioso timore». Tutto il v. 8 è sospeso attorno a quel rumore, a quel suono, a quella voce che emoziona.Il ritratto dell’amato è affidato nell’originale a sette participi distribuiti nei vv.8–9.Nel v. 8, tutto colmo di sorpresa e di movimento, appare uno stereotipo poetico, quello del «volare» all’appuntamento. Le immagini successive della gazzella o del cerbiatto che saltano di rupe in rupe, superando gli abissi, creano questa visione aerea. L’amore brucia gli ostacoli e divora lo spazio.Il giovane ora si è accostato al muro della casa e occhieggia dietro la finestra protetta dalla grata. Il suo spiare dietro la grata, il suo affanno per la corsa, la sua mobilità fremente lo rendono simile a un capriolo o a un cerbiatto, animali graziosi tanto cari alla simbolica del Cantico.L’amato è ora percepibile dietro «il nostro muro». Egli si mette davanti alla finestra, tentando di penetrare con lo sguardo nella penombra della casa attraverso il graticcio che scherma il caldo e la luce.Come la colomba negli anfratti delle rupi (vv.10–15)La prima strofa dell’amato è ritmata dai vocaboli tipici della tenerezza del Cantico: mio amato, mia compagna, mia incantevole. E subito si snoda un tenero invito alla gioia e al godimento della primavera. La voce si infiltra attraverso i graticci della finestra come un suono suadente che infrange l’inerzia e l’assenza. Questo appello a uscire dal sonno, dalla notte, dalla freddezza risuonerà a più riprese nel Cantico (2,13; 4,8; 8,14). Ormai è passata la notte ed è finito l’inverno. È giunto il tempo di uscire all’aperto e immergersi nella natura, la sede ideale per esprimere l’amore e per vivere la gioia.L’insistenza del poeta sulla pioggia e sull’inverno e sulla loro fine vuole denotare tutto il fastidio e l’impazienza dell’amato. All’«andar via» dell’inverno e delle piogge corrisponde l’«andar fuori» della coppia. Lo spazio occupato prima dall’oscurità invernale è ora invaso dalla solarità della primavera e dell’amore. L’obiettivo del poeta si sposta ora sulla campagna aperta, immersa nel sole e nei colori.La descrizione che ora ci viene offerta del paesaggio palestinese avvolto dalla primavera è un piccolo capolavoro letterario. Tutto l’orizzonte si trasforma in una grande pittura di colori e in una musica corale di suoni e di voci. Al v.14 si riprenderanno le due sensazioni – visiva e uditiva – con gli stessi termini applicati però alla «colomba», alla donna.Ma ora seguiamo in tutte le sue pennellate il quadro che appare davanti ai nostri occhi. Ecco subito apparire la terra. Sappiamo quante risonanze abbia per l’ebreo la parola terra (‘eres). La «nostra terra» è di Lei e di Lui, è l’orizzonte entro cui si sono svolti i loro incontri, è il segno del loro sentimento, è la manifestazione simbolica del loro amore. Per tutti gli esegeti, per i quali il Cantico è la celebrazione della relazione tra Dio e Israele, questa menzione della terra è l’espressione del ritorno d’Israele nella sua terra, luogo delle sue nozze mistiche con Dio.Sull’intera regione la primavera distende il suo manto floreale. Lo sbocciare dei fiori in una terra arida come la Palestina è un’esperienza straordinaria ed esaltante, che attira l’attenzione dell’uomo dei campi. Anche Gesù ne ha colto lo straordinario messaggio: «Osservate come crescono i gigli del campo, non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani sarà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?» (Mt 6,28–30).Dopo la fioritura, ecco un altro tempo, quello del «canto della potatura». I «canti delle vigne», sono un vero e proprio genere letterario di molte regioni (Is 5,1–7; Gdc 9,27; 21,20–23). Il canto di questo versetto evoca le canzoni che con la primavera echeggiano di valle in valle, di vigna in vigna, in sintonia col canto degli uccelli. Subito dopo, infatti, il poeta ricorda il tubare della tortora che per l’area siro–palestinese è, a primavera, il segno della stagione, come lo è per noi la rondine. Su tutta questa armonia cosmica si stende la presenza di un mistero, quello del creatore e dell’amore diffuso in tutto l’orizzonte dell’essere.La pittura prosegue con l’introduzione di due alberi emblematici del paesaggio mediterraneo, il fico e la vite. Essi sono, insieme con l’ulivo, i simboli per eccellenza della pace e del benessere: «Giuda e Israele erano al sicuro: ognuno stava sotto la propria vite e sotto il proprio fico durante la vita di

19

Salomone» (1Re 5,5). La scena a cui il poeta ci conduce è una festa degli occhi, degli orecchi e dei sensi; ma il significato è più globale perché coinvolge i sentimenti, lo spirito, l’amore.La visione dei fiori, il canto e il tubare della tortora, il frutto saporoso del fico, il profumo delle viti in fiore sono un mirabile compendio di tutti i sensi, dalla vista all’udito, dal gusto all’odorato. Ma il filo d’oro che unisce tutte queste sensazioni è quello della gioia e dell’amore. È per questo che la prima strofa della «mattinata», cantata dall’uomo davanti alla finestra, si chiude con la ripresa antifonale del ritornello: «Alzati, mia compagna, mia incantevole, e vieni via!».L’inno dell’amato è un invito ad abbandonarsi totalmente all’amore, sullo sfondo di una nuova creazione; è un appello ad uscire dal proprio mondo chiuso e ad effondere nell’umanità l’entusiasmo primaverile che l’amore produce nel cuore. Semplicità, novità, freschezza sono le qualità sorprendenti dell’amore. Un amore che ha in sé riflessi paradisiaci e che si trasforma in segno di luce, di infinito, di perfezione.Ed eccoci alla seconda strofa del canto del giovane, che la donna ci sta riferendo. Essa si apre con un’immagine divenuta celebre. Lo sposo paragona l’amata alla colomba selvatica che nidifica nelle fenditure delle rocce. Questo animale simbolico è particolarmente amato dal Cantico che l’aveva introdotto già in 1,15 per dipingere la dolce mitezza degli occhi della donna, che introdurrà ancora in 5,13 per gli occhi dell’uomo e, infine, in 6,9 per definire in modo conclusivo la perfezione dell’amata. Il simbolismo è carico di varie sfumature, anche perché la colomba ha una sua presenza suggestiva all’interno della letteratura biblica. Essa sembra diventare quasi lo stemma d’Israele, come è attestato da Osea che raffigura lo stato del nord, cioè Samaria, come «un’ingenua colomba, priva di intelligenza, ora chiama l’Egitto, ora invece l’Assiria» (7,11). Lo stesso ritorno dall’esilio di Israele–Efraim è visto come un volo di colombe: «Accorreranno... come colombe dall’Assiria» (11,11).C’è però un altro motivo che spiega la scelta della colomba e che va al di là del simbolo per fermarsi più semplicemente sulla stessa realtà di questo volatile che già di sua natura evoca timidità, tenerezza, bellezza. In questa specie di colombi, infatti, la fedeltà della coppia sembra essere un dato caratteristico a cui si accompagna una prodigalità di attenzioni e di dimostrazioni d’affetto. Nella Vita degli animali di Brehm si legge che la coppia del «colombo torraiolo» (columba livia), «una volta costituita, rimane unita per tutta la vita: si vedono spesso i due prodigarsi reciprocamente le più svariate dimostrazioni d’affetto sia in terra sia in aria... A questo proposito ricordiamo la curiosa espressione della nostra lingua: «bacio colombino».Il termine colomba si colora di dolcezza e vuole illustrare anzitutto la delicatezza dei sentimenti dei due innamorati che sanno trovare riferimenti, nomignoli, allusioni tenere che gli altri non riescono a cogliere e ad apprezzare.Attingendo al mondo in cui vive, il cantore del Cantico ha tracciato un paragone commovente nella sua semplicità, tutto centrato su viso e voce, su luce e suono, su occhi e orecchi. La sposa è la colomba nascosta nel nido segreto e invalicabile; lo sposo chiede di svelargli il volto e di fargli udire la voce: questo è il suo unico desiderio.L’enigma del v. 15 è tutto racchiuso nel significato delle volpi. Tutto è in fiore, ma ci sono anche difficoltà allo sviluppo pieno della festa della primavera e dell’amore. Le vigne che si distendono davanti agli occhi dei due innamorati sono percorse da un movimento rapido e pericoloso, quello delle piccole volpi o sciacalli che devastano le viti in fiore. La vigna in fiore, come si fa sospettare in 1,6 e 8,11–12, può essere simbolo del corpo e della bellezza dell’amata: essa è tutta vita, freschezza, floridezza e profumo. Contro di essa ci può essere qualche pericolo, incarnato nella volpe–sciacallo. Contro la purezza dell’amore può scatenarsi la forza della violenza; come su una vigna i predatori fanno scempio, così il male può colpire l’isola beata dell’amore. L’uomo si indirizza al coro e lo invita a creare una specie di difesa attorno alla vigna meravigliosa dell’amore a cui egli si abbandona e in cui è immerso, felice e sereno.«Come una gazzella o un cucciolo di cervo» (vv.16–17)Dopo aver riferito il discorso dell’amato, la donna conclude il suo monologo con una stupenda strofa finale, che riprende per certi versi la prima (vv.8–9). Essa si apre con un’altissima

20

dichiarazione d’amore, la più bella del Cantico e tra le più intense della letteratura di tutti i tempi. È la formula della mutua appartenenza. Essa è la riedizione del primo ed eterno inno d’amore dell’Adamo di ogni terra e di ogni epoca quando incontra la sua donna: «Carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» (Gen 2,23). «Il mio amato è mio e io sono sua»: questa espressione è un sospiro purissimo di donazione e di comunione che non ha paralleli nelle altre letterature. Da questa professione di reciproca appartenenza e di perfetta comunione tra i due fiorirebbe l’allusione all’alleanza con Dio («Iahvè sarà il tuo Dio e tu sarai un popolo tutto suo», Dt 26,17–18) per cui il Cantico altro non sarebbe che una lunga metafora che canta le nozze tra Iahvè e il suo popolo. I profeti, a partire da Osea, hanno elaborato la loro rilettura dell’alleanza proprio sulla base del linguaggio dell’amore.La splendida espressione del v.16: «Il mio amato è mio e io sono sua» ha una «coda» che può essere tradotta in due diverse maniere: «di lui che pasce il gregge tra i gigli» o «di lui che si pasce tra i gigli». Pascersi di gigli ci rimanda a 2,1 dove la donna si comparava a un «giglio delle valli». In 4,5 si legge: «I tuoi seni sono come due cuccioli, gemelli di gazzella, che pascolano tra i gigli». Pascersi di gigli è la raffigurazione poetica dell’ebbrezza dell’amore, del godimento, della totale comunione dei corpi e delle anime. Come abbiamo detto, l’espressione «di lui che pasce il gregge tra i gigli» è altrettanto legittima. L’amore è come un pascolo in cui si sazia l’anima e il corpo, è un luogo di pienezza e di soddisfazione, di intimità e di ebbrezza: il Cantico sviluppa sistematicamente una simbolica «somatica» che coinvolge tutta la sensibilità e che orienta verso un’esperienza di completezza, di sazietà, di felicità. Con tutta la castità che gli è propria, il poeta del Cantico celebra questo pascolo nel «giardino delle delizie» dell’amore, e i rimandi gustativi che costellano il poema ne sono una conferma continua.La dolce dichiarazione d’amore del v.16a è segnata da intuizioni e da folgorazioni divine, pur rimanendo legata alla tenerezza e alla spiritualità della coppia umana. Il ritratto dell’amato come «pastore», come «pascolatore» è una felice tipizzazione della quotidianità e dell’eccezionalità dell’amore.Il v.17 ha fatto versare i classici fiumi d’inchiostro. È «uno dei versetti più difficili del Cantico quanto a significato totale del brano e quanto a senso di qualche parola in particolare» (D. Colombo). Questo versetto ha un chiaro parallelo in 8,14: «Fuggi mio amato e sii simile a una gazzella o a un cucciolo di cervo sui monti dei balsami». Il poeta nei «monti di Beter», cioè del profumo di Beter, vede il simbolo della bellezza fisica, della corporeità affascinante della donna alla quale è invitato a «rivolgersi» l’uomo. La scena di gazzelle o di cerbiatti che balzano agili su monti coperti di piante aromatiche in dissolvenza lascia ancora una volta davanti ai nostri occhi il quadretto delicato dell’abbraccio d’amore, in un notturno che sta ormai concludendosi o che sta iniziando (secondo la diversa traduzione della prima parte del versetto).Simboli e messaggioÈ in pratica solo la donna a parlare in questo brano perché è ancora Lei a citare il discorso del suo uomo. Il cuore delle sue parole è nella «personalità» dell’amore, in quel quasi–litanico: «Mio amato ... mia compagna... mia incantevole... mia colomba... mio amato... La professione d’amore del v.16 è quasi il compendio spirituale dell’intero canto e di tutto il Cantico: «Il mio amato è mio e io sono sua!». È su questa «personalità» che si condensa e si fa compatta e omogenea tutta la simbologia del brano. Così, diventa decisivo per la comunicazione interpersonale il brano in contrappunto a quello della voce: vedere e ascoltare sono i due grandi percorsi dell’amore e del dialogo.Il brano ci fa comprendere che l’amore non è mai possesso definitivo. L’unione dev’essere continuamente ricostruita perché le assenze, i silenzi, le lontananze penetrano all’interno della coppia, anche nell’istante alto dell’amore. Il ricongiungersi (v.17) dev’essere sempre una sorpresa, un dono, un incontro atteso con la stessa trepidazione con cui s’è atteso il primo (v.8). Rimbaud ha scritto un verso sfolgorante per descrivere questa attesa, un verso che possiamo applicare ad ogni genuino amore, partendo col poeta francese dall’amore per Dio: «J’attends Dieu avec gourmandise», aspetto Dio con ingordigia. Un’attesa appassionata, fremente, intensa, «ingorda», l’attesa dell’amore vero e profondo.

21

Troviamo in questo brano una vera celebrazione estetica che raggiunge il proprio apice nelle esclamazioni stupite che affiorano davanti alla bellezza dei corpi: l’agilità snella e dolce dell’amato, l’essere «incantevole» della donna, le sue segrete meraviglie (vv.14.17). È questa una delle costanti del Cantico che entra nel coro immenso della lode alla bellezza, elevata da ogni poesia e da ogni cultura.

 

5.NELLA NOTTE IN CITTA’

(3,1–5)

La sposa 1 Sul mio letto, lungo la notte, ho cercatol’amato del mio cuore;

l’ho cercato, ma non l’ho trovato. 2 «Mi alzerò e farò il giro della città;

per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amato del mio cuore».

L’ho cercato, ma non l’ho trovato.3 Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda:

«Avete visto l’amato del mio cuore?».4 Da poco le avevo oltrepassate,

quando trovai l’amato del mio cuore.Lo strinsi fortemente e non lo lascerò

finché non l’abbia condotto in casa di mia madre, nella stanza della mia genitrice.

Lo sposo 5 Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,per le gazzelle e per le cerve dei campi:

non destate, non scuotete dal sonno l’amata finché essa non lo voglia.

Siamo dinanzi a una pagina stupenda, che introduce in modo esplicito e tematico il motivo dell’assenza. Questa è la prima testimonianza della freddezza che circonda i due innamorati. L’appello a non disturbare il sonno dell’amato (v.5) ha un’impalpabile tonalità di protesta e di rimprovero nei confronti del coro delle «figlie di Gerusalemme».L’elemento strutturale decisivo è qui la ripetizione. Nel «duetto» di Ct 3,1–4 «cercare» si ripete senza sosta, «trovare» gli si abbina per essere negato e viene rinviato fino al felice scioglimento finale. Bellezza ed effetto dipendono dalla ripetizione.

Lettura esegeticaSeguiamo il testo nelle sue tappe essenziali: «sul mio letto» (v.1), in giro per la città (vv.2–3), l’abbraccio finale (vv.4–5) siglato dall’antifona del v.5.«Sul mio letto, lungo la notte» (v.1)Lo sfondo notturno è espresso in ebraico col plurale «notti», un plurale che forse vuole indicare la scansione delle veglie notturne. È la descrizione psicologica di una notte vissuta nella tensione, in cui le ore si allungano paurosamente, una notte interminabile, fitta di incubi e di pressione interiore, ben formulata dalla ripetizione del verbo «cercare» e dalla clausola amara del «non trovare». Il plurale «notti» ci permette, dunque, di tradurre l’intera espressione del v. 1: «Sul mio letto, lungo la notte... L’intera notte è coinvolta; il letto è quel luogo non più di riposo, ma di tormento che già Giobbe descriveva: «Notti di dolore mi sono state assegnate. Coricandomi mi chiedo: quando mi alzerò? La notte è troppo lunga e io mi rigiro agitato fino all’alba» (7,3–4). Proprio questa è

22

l’atmosfera psicologica che questo versetto suppone e che esalta attraverso il gioco verbale del «cercare–non trovare».In giro per la città (vv.2 –3)La donna abbandona quel letto su cui non può più resistere e decide di sfidare i rigidi condizionamenti del tempo: in Israele una donna non avrebbe potuto uscire da sola nella notte.Il v.2 si apre con le parole della donna che calca con forza la sua decisione: «Mi alzerò, dunque, e farò il giro (della città)».L’accento è tutto sulla ricerca ansiosa, suggestivamente collocata in una città avvolta dal silenzio e dalla tenebra notturna. Il passo della donna risuona per strade e piazze. Una sola idea la possiede e le dà forza: «Cercherò l’amore dell’anima mia». E vagabondare diventa sempre più ansioso e quasi disperato; anche questa tappa della ricerca si chiude, infatti, con un esito amaro: «L’ho cercato, ma non l’ho trovato». Ma ecco, in fondo a una via, un bagliore di fiaccole, un rumore di passi e di voci. Sono le sentinelle della ronda notturna.Con queste sentinelle che girano per la città s’incrocia la donna che sta girando anch’essa con la morte nel cuore e un filo di speranza. Ad essi si rivolge con una supplica: «Avete visto l’amore dell’anima mia?» (v.3). Il poeta lascia cadere la risposta nel vuoto, come vuoto è ora il cuore della donna. Gli unici passi e le uniche voci umane, quelle delle guardie, si allontanano e la donna resta sola.Amore, assenza, ricerca, vuoto, tensione, paura, oscurità... È il momento più oscuro, l’abisso del silenzio. Ma, proprio da questo profondo tenebroso, improvvisa, sboccia la luce. Quando tutte le speranze sembrano morte, ecco l’immensa sorpresa: «Ho trovato l’amore dell’anima mia!».L’abbraccio finale (vv.4–5)Questa tappa conclusiva non conosce quasi le parole perché la gioia attanaglia il cuore e il respiro (v.4). Sono state da poco oltrepassate le sentinelle, ed ecco risuonare per l’ultima volta il verbo «trovare», ma ora al positivo, nel suo esito tanto sospirato, divenuto realtà. La donna stringe con forza al seno il suo uomo, afferra con forza il suo tesoro, quasi col terrore di perderlo. E’, però, una stretta tenera, che scioglie la paura e crea l’abbandono dell’amore. A questo punto resta un solo desiderio, quello di ritrovare l’intimità piena e perfetta. Eccoci allora al terzo momento, quello dell’introduzione nella residenza della madre. La scelta originale della donna di introdurre il suo amato nell’«alcova» stessa (1,4) di sua madre può forse rispondere a qualche prassi arcaica di taglio matriarcale, ma è anche carica di un suo valore simbolico. La suggestione più forte, però, sta in quel raccordo tra la camera della madre e l’alcova dell’amore. La donna vuole condurre l’amato nel luogo in cui ella ha visto la vita, alla sua stessa radice, in un legame in cui amore e sangue si fondono insieme. Non è solo una presentazione al clan della donna, è l’introduzione nella casa e nella stessa famiglia dell’amata, un risalire alle sue sorgenti, all’inizio assoluto della sua vita. In queste parole la donna del Cantico riesce a intrecciare costumi matrimoniali, convenienze sociali, antiche forme poetiche, ragioni psicologiche, espressioni di desiderio e d’amore in un unico tessuto lirico. L’unica realtà decisiva è che la paura è ormai spenta, s’è accesa la gioia, all’assenza è subentrata l’intimità fino al suo livello più alto, per cui l’amore riassume in sé tutte le forme di relazione, anche quella della consanguineità.Giunti ormai nella «casa della madre», i due sono abbracciati. Guardando con tenerezza il suo amore addormentato, la donna, nel v.5, riprende il ritornello indirizzato già al coro delle «figlie di Gerusalemme» in 2,7 e che risentiremo in 8,4. L’estasi d’amore crea silenzio e pace. Nulla deve spezzare la felicità ritrovata, nulla deve offuscare la luce dell’amore che è ritornata a risplendere dopo la notte oscura della lontananza e del silenzio.Simboli e messaggioTutta la lettura del Cantico si è mossa lungo la traiettoria della presenza, dell’incontro, dell’intimità. L’amore non è solo possesso materiale, ma continua conquista, ricerca, novità. È per questo che il Cantico non ha mai una trama conclusa, ma ininterrottamente riapre il cammino e introduce l’attesa. L’amore è sostanzialmente sorpresa, è canto nuovo. Questa visione viva dell’amore riesce a spiegare in modo lineare il senso del brano che abbiamo appena considerato. Esso è preparato già

23

dal cap. 1, nel quale la donna era raffigurata in cammino sulle piste assolate del deserto, seguendo le orme del gregge del suo amato. Anche allora essa non temeva le solitudini, i rischi della steppa; anche allora non esitava a superare i condizionamenti sociali del suo tempo, diventando simile a una «donna velata» (1,7), a una prostituta (cfr. Gen 38,14–55), esposta alle facili violenze dei pastori. Anche allora si rivolgeva al coro per raggiungere il luogo in cui trovare il suo amato. E, alla fine, l’assenza cessava, la presenza della figura amata cancellava l’ansia della ricerca e tutto si risolveva in un abbraccio all’interno della «casa del vino» (2,4.6). L’amore è ricerca, è dinamismo, è tensione. E la ricerca comprende l’assenza, il silenzio, la notte.Alcuni esegeti sono convinti che il Nuovo Testamento abbia usato Ct 3,1–5 per rileggere e reinterpretare la descrizione dell’incontro tra il Cristo risorto e Maria di Magdala o i pellegrini di Emmaus. Soprattutto il primo episodio di apparizione (Gv 20,11–18) sembra riflettere la struttura letteraria di Ct 3,1–5. Maria davanti alla tomba di Gesù piange. Le appaiono due angeli, ma non è ancora rassicurata. Incontra anche il presunto guardiano del giardino e gli chiede se ha notizie del corpo del Cristo. A questo punto avviene l’incontro. Al sentire il proprio nome pronunciato da lui, Maria trasalisce di gioia. Subito afferra il Cristo, nella speranza che non le sia più tolto. Ma il Cristo le indica una meta ulteriore, presso il Padre.

 

6.LA LETTIGA DI SALOMONE

(3,6–11)

Il poeta 6 Che cos’è che sale dal desertocome una colonna di fumo,

esalando profumo di mirra e d’incenso e d’ogni polvere aromatica?

7 Ecco, la lettiga di Salomone:sessanta prodi le stanno intorno,

tra i più valorosi d’Israele.8 Tutti sanno maneggiare la spada,

sono esperti nella guerra;ognuno porta la spada al fianco

contro i pericoli della notte.9 Un baldacchino s’è fatto il re Salomone,

con legno del Libano.10 Le sue colonne le ha fatte d’argento,

d’oro la sua spalliera;il suo seggio di porpora,

il centro è un ricamo d’amoredelle fanciulle di Gerusalemme.

11 Uscite figlie di Sion,guardate il re Salomone

con la corona che gli pose sua madre, nel giorno delle sue nozze,

nel giorno della gioia del suo cuore.

Questa scena è tradizionalmente chiamata «processione nuziale». È una scena che solleva tanti interrogativi e difficoltà. È un brano accidentato, di non facile decifrazione. Questa «marcia

24

nuziale» può essere un intermezzo cantato da una voce solista o addirittura dagli spettatori, che fanno ala al passaggio della lettiga nuziale con la coppia di sposi.Il poeta ha preso lo spunto dalla dichiarazione finale della donna nel brano precedente per immaginare un glorioso ingresso nella «casa della madre» (cfr. vv.5 e 11). Egli attinge forse a un testo preesistente che ritrascrive e adatta alla scena che si era aperta col cap. 3. Infatti, all’aspirazione della donna di condurre il suo amato alla «casa della madre», egli fa seguire questo itinerario ideale, modellato sul corteo nuziale cantato ad un antico epitalàmio. Questo testo preesistente celebrava appunto una festa di nozze, còlta nel momento della processione nuziale. Questo solenne epitalàmio canta un amore umano che può diventare segno dell’amore perfetto, supremo e trascendente, quello che unisce Dio e l’uomo.Lettura esegeticaDal deserto una colonna di fumo (v. 6)La scena è legata al mondo concreto di una celebrazione nuziale evocata in tutto il suo splendore. Lo sfondo del quadro è quello del deserto di Giuda, data la presenza in finale di Gerusalemme (vv. 10-11). Dal monte degli Ulivi si può contemplare il deserto di Giuda che degrada verso la valle del Giordano. Da questo deserto si sale verso Gerusalemme, la città santa, che è posta a 800 metri di altitudine. L’obiettivo, dal vasto orizzonte del deserto che si stende davanti al poeta, si restringe su una nube di polvere che si eleva verso il cielo come se fosse una colonna di fumo. Questa nube esala profumi esotici: mirra, incenso e polvere aromatica d’importazione.La lettiga di Salomone e la scorta armata (vv.7–8)Il corteo si sta avvicinando. li poeta, dall’alto di Gerusalemme, vede sempre più distintamente la composizione del corteo. Al centro della processione c’è la lettiga di Salomone, la portantina regale da parata. Il poeta vuole sovrapporre, quasi in dissolvenza, al corteo dei due protagonisti del Cantico che stanno andando alla «casa della madre» (v.5) la rappresentazione visiva delle più celebri nozze, quelle del re Salomone con la figlia del faraone d’Egitto (1Re 9,16). Dopo tutto, ogni adolescente sogna di essere la principessa lontana di un innamorato esotico, che attende il «principe azzurro». La semplice e solenne bellezza del canto applica ai due innamorati una fisionomia regale gloriosa.La lettiga è circondata da sessanta guerrieri, guardia scelta del corpo che ha anche funzione di rappresentanza oltre che di scorta. In concreto, nella trasposizione nuziale, questi guerrieri acquistano la fisionomia degli amici dello sposo che costituiscono il corteo nuziale. Tuttavia la loro qualifica «marziale» ha un significato simbolico ben preciso, che non è comunque da ignorare anche nel caso dell’applicazione al corteo popolare delle nozze. Questi sessanta valorosi sono andati contro il «terrore delle notti». Questa locuzione entra nell’ambito del simbolismo nuziale orientale. Secondo alcune tradizioni popolari dell’antico e del recente Oriente, attorno al letto nuziale, soprattutto nella prima notte, si potevano affollare spiriti maligni e demoni, pronti a inaridire la fecondità della coppia. Quel «romanzo popolare» sacro che è il libro di Tobia mette in scena il demonio Asmodeo, nemico sanguinario di ogni matrimonio della giovane Sara (Tb 3,7 ss.): fece morire i suoi primi sette mariti. Era per questo che nel giudaismo si consigliava l’astinenza dal matrimonio nelle prime notti nuziali, così da depistare gli spiriti maligni notturni. In Armenia la coppia dei giovani sposi è scortata da una guardia armata di spada durante la prima notte di matrimonio. I Veda, scritti sacri indiani, consigliano ai neo–sposi di scagliare nella prima notte di nozze frecce contro i demoni che attentano alla loro fertilità e alla loro felicità. «Gli arabi di Palestina e di Siria hanno conservato usanze analoghe al Cantico: il corteo, i canti nuziali, il velo della fidanzata. Talvolta, durante il tragitto, viene portata una spada, dalla fidanzata o davanti ad essa... La spada brandita ha un valore profilattico: taglia la cattiva sorte e allontana i demoni»(R. de Vaux). Certo è che il corteo nuziale con gli «amici dello sposo» (cfr. Gv 3,29) – un uso presente in quasi tutte le culture – sembra che in passato abbia avuto una funzione protettiva nei confronti della coppia. Nella storia di Sansone e Dalila i compagni dello sposo sono trenta (Gdc 14,11), ora sono solennemente raddoppiati per Salomone e quindi per la coppia del Cantico.

25

Può essere significativo anche il parallelo del Sal 91: «Lui ti libererà dal laccio del cacciatore, dalla peste malefica. Con le sue penne ti coprirà, sotto le sue ali avrai rifugio, la sua fedeltà sarà scudo e corazza. Non temerai il terrore della notte, né la freccia che vola di giorno, la peste che si diffonde nelle tenebre, l’epidemia che devasta a mezzogiorno. Mille cadranno al tuo fianco, diecimila alla tua destra, ma tu non sarai colpito» (vv.3–7).La preziosa lettiga di Salomone (vv.9–1 0)Come abbiamo già detto, la simbolica regale applicata alla coppia nuziale è uno stereotipo di molte culture: in Inghilterra si usa parlare del «May Lord» e della «May Queen», mentre sull’altipiano della Siria i sette giorni della festa nuziale sono definiti «la settimana del re» (Pope, p.442).Il poeta mette davanti ai nostri occhi una rappresentazione vivace della lettiga di Salomone, che ora sta per entrare in Gerusalemme.Legni pregiati, argento, oro, porpora, intarsi la fanno splendere, ma il suo gioiello più alto è la figura centrale che sembra dominarla: Salomone. Non è la sposa che appare sulla portantina, ma Salomone, il re, colui che in dissolvenza lascia lo spazio all’ingresso dell’«amato», il protagonista del Cantico, un «Lui» che riassume in sé tutti gli uomini amati e innamorati legati alla loro donna, a Lei che attende il suo sposo. La presenza di Lui, dell’amato, è anche richiesta dall’inserzione di questo brano «salomonico» all’interno del contesto di 3,1–5, dove la donna – ritrovato Lui – affermava di volerlo condurre alla «casa della madre».L’incoronazione di Salomone (v.11)Per la terza volta, nel brano risuona il nome di Salomone con la sua qualifica regale. La voce del coro, o del solista, invita le «figlie di Sion» a «uscire per vedere» il passaggio del corteo solenne. «Siamo di fronte a una descrizione lirico–dranunatica di un corteo nuziale, arcaizzato ai tempi di re Salomone; allora, nella finzione letteraria, la «madre» che incorona Salomone è Betsabea, che riesce ad ottenere che la corona regale di Davide passi sul capo di suo figlio Salomone e sia negata al pretendente Adonia (cfr. 1Re 1,11–21)» (D. Colombo). La corona è, per eccellenza, un simbolo di gloria, di potere e di gioia all’interno di tutte le culture. È noto, infatti, che la corona costituisce un’insegna nuziale molto popolare. Come si è già ricordato, ancor oggi nella celebrazione del matrimonio bizantino agli sposi vengono imposte due corone, mentre nei riti armeno, caldeo e maronita è solo la sposa a essere incoronata.La corona nuziale è imposta sul capo di Salomone dalla madre, in una specie di atto matrimoniale, che può essere residuato di tradizioni ancestrali. Le nozze sono viste come il vertice della felicità che penetra nel cuore. Matrimonio e gioia si intrecciano tra di loro quando è genuino l’amore.Scende il sipario su questa scena di corteo nuziale, scena piena di colori, di profumi, di voci, di fervore. Tra poco, attorno al baldacchino nuziale si farà silenzio e i due sposi, ormai soli, si contempleranno e affideranno il loro amore alle parole e al linguaggio misterioso e limpido del corpo.Simboli e messaggioIl viaggio della lettiga è accompagnato da due simboli evidenti. Il primo, che forse attinge al nesso classico «amore–morte» (cfr. 8,6), si snoda attorno all’immagine della scorta armata che è rappresentata in tutto il suo potente dispiegarsi: «sessanta prodi tra i prodi», il fior fiore dell’armata ebraica, «tutti armati di spada, addestrati alla guerra, ognuno con la spada al fianco» (vv.7–8). Che attorno ci sia un pericolo non solo umano, ma in qualche modo magico e trascendente, lo si avverte in quella frase finale: «Ognuno ha la spada al fianco contro il terrore notturno» (v.8). L’oasi dorata dell’amore è stretta dalla morsa del deserto e dagli incubi del male e della morte.Il contrasto esalta il secondo simbolo, quello «prezioso», segno di bellezza, di vita, di divinità, di grandezza. Già in apertura sono significativi gli aromi, la mirra, l’incenso e le polveri esotiche: è una specie di aureola sacrale, simile a quella che circonda il tempio col fumo dei sacrifici (v.6). Materiali della lettiga sono una vera e propria cascata di materiali preziosi: legno pregiato del Libano, argento, oro, porpora, intarsi, corone. Il tutto è sigillato dalla tipologia regale che esalta la scena, rendendola superiore all’orizzonte comune, immergendola in un’atmosfera gloriosa, luminosa e gioiosa, a cui si assiste con stupore come le figlie di Sion (v.11). Il pensiero corre a Isaia

26

61,10; 62,3–5: «Esulto di gioia nel Signore, mi rallegro nel mio Dio: perché mi ha vestito di vesti, mi ha avvolto nel manto della giustizia, come uno sposo che si cinge il diadema e come una sposa che si adorna di gioielli... Sarai corona fulgida in mano al Signore, diadema regale nella palma del tuo Dio. Non ti chiamerai più «Abbandonata» né la tua terra «Devastata», ti si chiamerà «Mia Prediletta» e la tua terra «Sposata», perché il Signore ti predilige, e la tua terra avrà marito. Come un giovane sposa una ragazza, così ti sposa chi ti costruì; la gioia che il marito prova con la sposa, il tuo Dio la proverà per te». Il testo lirico di Isaia ha in sé il germe dell’interpretazione teologica perché il re, che sta per sposare la sua amata, è in modo trasparente il Signore, e la donna è la città santa di Gerusalemme e Israele. Il nostro passo, invece, è ben radicato nella concretezza immediata di un matrimonio d’amore, esperienza altissima ed esaltante che rende l’uomo un re e la sua donna una regina. Naturalmente tutto questo entra nel quadro. generale del Cantico che nell’amore umano sente echi di voci e intuisce scintille di luci trascendenti. L’amore umano della coppia esalta certamente le «nozze mistiche» tra Dio e il suo popolo, ma esso è già in sé e per sé un amore sacro e santo. 

7.IL CANTO DEL CORPO FEMMINILE

(4,1 – 5,1)

Lo sposo 4-1 Come sei bella, amica mia, come sei bella! Gli occhi tuoi sono colombe,

dietro il tuo velo.Le tue chiome sono un gregge di capre,che scendono dalle pendici del Gàlaad.

2 I tuoi denti come un gregge di pecore tosate, che risalgono dal bagno;tutte procedono appaiate,

e nessuna è senza compagna.3 Come un nastro di porpora le tue labbra

e la tua bocca è soffusa di grazia;come spicchio di melagrana la tua gota

attraverso il tuo velo.4 Come la torre di Davide il tuo collo,

costruita a guisa di fortezza.Mille scudi vi sono appesi,

tutte armature di prodi.5 I tuoi seni sono come due cerbiatti,

gemelli di una gazzella,che pascolano fra i gigli.

6 Prima che spiri la brezza del giorno e si allunghino le ombre,

me ne andrò al monte della mirrae alla collina dell’incenso.

7 Tutta bella tu sei, amica mia,in te nessuna macchia.

8 Vieni con me dal Libano, o sposa,con me dal Libano, vieni!

Osserva dalla cima dell’Amana, dalla cima del Senìr e dell’Ermon,

dalle tane dei leoni,

27

dai monti dei leopardi.9 Tu mi hai rapito il cuore,

sorella mia, sposa,tu mi hai rapito il cuorecon un solo tuo sguardo,

con una perla sola della tua collana!10 Quanto sono soavi le tue carezze,

sorella mia, sposa,quanto più deliziose del vino le tue carezze.

L’odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi.11 Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa,

c’è miele e latte sotto la tua linguae il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano.

12 Giardino chiuso tu sei,sorella mia, sposa,

giardino chiuso, fontana sigillata.13 I tuoi germogli sono un giardino di melagrane,

con i frutti più squisiti,alberi di cipro con nardo,

14 nardo e zafferano, cannella e cinnamòmocon ogni specie d’alberi da incenso;

mirra e aloecon tutti i migliori aromi.

15 Fontana che irrora i giardini,pozzo d’acque vive

e ruscelli sgorganti dal Libano.La sposa 16 Lèvati, aquilone, e tu, austro, vieni,

soffia nel mio giardinosi effondano i suoi aromi.

Venga il mio diletto nel suo giardinoe ne mangi i frutti squisiti.

Lo sposo 5–1Son venuto nel mio giardino, sorella mia, sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo;

mangio il mio favo e il mio miele,bevo il mio vino e il mio latte.

Mangiate, amici, bevete;inebriatevi, o cari.

Fattosi il silenzio dopo la grandiosa processione nuziale del brano precedente, si leva il canto d’amore dello sposo. È una finissima lirica dai toni erotici molto delicati. Il tema è uno solo: il fascino e lo splendore del corpo femminile, espressione di una bellezza totale umana, spirituale e corporea, interiore e fisica.Col gusto un po’ barocco della poesia semitica, le immagini si accalcano ed esplodono in giochi di colori, di simboli, di profumi, di suoni. Dietro il velo nuziale brillano gli occhi affascinanti e dolci. s’intravede la lucentezza dei capelli a cui fa da contrappunto il candore dei denti. Filo di porpora sono le labbra, spicchio di melagrana è la gota, fermo e slanciato il collo come una torre che svetta verso il cielo, mentre i seni, liberi sotto la veste, richiamano al poeta il dolce saltellare dei cerbiatti... Da questa contemplazione la poesia si accende sempre più di entusiasmo e di ebbrezza fino a diventare estasi e «follia». Infatti il canto dello sposo sembra quasi impazzire e tendere all’ineffabile, al rapimento (v.9).Siamo di fronte a una poesia «corporea» di grande purezza e «spiritualità», che richiede occhi limpidi e cuore puro.

28

Lettura esegeticaLo sguardo innamorato dello sposo percorre il pianeta vivo e affascinante del corpo della sua donna. Se nel cap.7 si partirà dai piedi, freneticamente mobili durante la danza, ora la «ripresa» parte filmicamente dal volto: attraverso il velo imposto in Oriente alle donne, balenano gli occhi «simili a lune», come si dice spesso nella poesia araba, «simili a colombi», come dice il poeta del Cantico, rievocando l’animale della tenerezza, della fecondità, della fedeltà e dell’amore caro al Cantico (1, 15; 2,14). Il velo nasconde e svela al tempo stesso. La folta capigliatura corvina, che quel velo non riesce a coprire, è audacemente comparata a un gregge di capre dal mantello nero lucente iridato di riflessi di rame. I capelli coprono morbidamente volto e collo, come le capre coprono le pendici del Galaad in una discesa molle e ondeggiante.Il canto del corpo (4,1–11)Le comparazioni sulle quali è modellato questo primo ritratto della donna sono sette.Il v. 1 ricalca inizialmente 1,15 attraverso il primo paragone, quello che collega gli occhi alla tenerezza delle colombe. L’immagine., piuttosto esotica, che compara la chioma alla lana di un gregge o ai peli lucenti del manto delle capre è accuratamente cesellata dal poeta fin nei minimi particolari. Il mantello dalla tinta scura con riflessi rossicci è una bella rappresentazione della chioma corvina a riflessi ramati dell’amata. Anche lo sposo in 5,11 è raffigurato con riccioli neri come il corvo.Il poeta riesce con la sua simbologia a fondere emozioni e impressioni differenti. C’è l’esperienza visiva che è associata all’apparente «invisibilità» del velo. C’è l’impressione tattile che è unita a quella visiva nella descrizione di una chioma nera, ma mollemente ondeggiante, come se fosse un ruscello o una cascata che scende dalla vetta di un monte. Tutti i sensi sono coinvolti in un’esperienza di eros autentico, mentre in filigrana – come spesso si vedrà nelle varie raffigurazioni «somatiche» del Cantico – si intravede una regione della terra promessa. Il corpo della donna è per certi aspetti la materialità della terra feconda, oggetto della promessa e della benedizione divina.Alla lucentezza dei capello neri subentra il candore immacolato dei denti. Colorito bruno, capelli corvini, occhi intensi e un sorriso scintillante: è questo il ritratto che sta per comporsi davanti ai nostri occhi, un lineamento dopo l’altro.Nel v.2 incontriamo la terza comparazione: ancora una volta è di scena un gregge, ma ad esso ora sono comparati i denti perfetti della donna, espressione di un sorriso luminoso. L’idea fondamentale di questa immagine è quella della purezza, del candore che spesso è evocato proprio attraverso la lana: «Anche se i vostri peccati... fossero rossi come porpora, diverranno come lana» (Is 1,18); «I capelli del suo capo erano candidi come la lana» (Dn 7,9; Ap 1, 14). E candore della lana lavata crea un’immediata comparazione col brillare dei denti. Essi sono mirabilmente accoppiati e incastonati, come se fossero gemelli. L’armonia del gregge, compatto e perfetto, non ha nessuna smagliatura; la sequenza dei denti è senza vuoti, senza imperfezioni e asimmetrie. L’idea fondamentale è, perciò, quella della regolarità, della pienezza, della perfezione ideale.Nel v.3 prosegue la contemplazione del volto: le labbra sono come un nastro scarlatto. Nelle sembianze della donna l’innamorato fissa ora la sua attenzione sulle labbra, che costituiscono una delle componenti più frequenti sulle quali si intesse la descrizione allusiva della lirica amorosa, anche perché rimandano spontaneamente al bacio.È interessante notare anche il gioco cromatico: dal nero dei capelli si passa al candore dei denti per approdare al rosso delle labbra e al vermiglio del melograno della gota.Il poeta descrive la funzione delle labbra e della bocca, cioè il linguaggio raffinato, piacevole, «affascinante» dell’amata. Egli canta la bellezza rosata della guancia della sua donna. Il paragone alla melagrana è finalizzato alla descrizione del colore più che alla rappresentazione della rotondità. Un carme persiano recita: «La melagrana rievoca alla mia memoria il dolce rossore della mia amata quando le sue gote si coprivano di un modesto risentimento». Il poeta del Cantico quel rossore lo contempla «al di là del velo», in un gioco segreto di intuizioni.

29

Finisce così il ritratto del volto dell’amata. Il corpo è sempre più nel Cantico un grande strumento di comunicazione spirituale. Ogni sua dimensione concreta acquista significati ulteriori di vita, di tenerezza, di amore, di dialogo.Col v.4 dal viso si passa al collo e dai simboli rurali a quelli urbani. Il collo sottile e slanciato della donna è arditamente comparato alla «torre di Davide» che si staglia nel cielo terso di Gerusalemme. La scelta simbolica della torre vuole indicare la fermezza del collo, la sua forma slanciata, la posizione eminente, le collane che richiamano le spoglie dei nemici vinti o le armi degli eroi appese sulle pareti della torre, l’altezza e l’eleganza. Oltre che simbolo di bellezza e di eleganza, la torre di Davide è anche segno di inaccessibilità, di purezza, di verginità. In questa linea si comprende la tradizionale rilettura cristiana che ha applicato l’immagine a Maria, coniando nelle Litanie della Madonna i due titoli di «torre di Davide» e di «torre d’avorio», sulla base appunto di Ct 4,4 e 7,5.Il ritratto in miniatura della donna, che il poeta ha iniziato a disegnare dagli occhi e dai capelli col v. 5, giunge al petto, ai «due seni».La rappresentazione dei seni della donna è realizzata con tenerezza e delicatezza. Nobili e perfettamente gemelli, rimandano a una coppia di cerbiatti che balzano, pieni di vitalità, su un campo di gigli: la tunica, col suo colore, diventa in questo modo l’ambito nel quale i seni liberi della donna si muovono seguendo i movimenti del busto. Un erotismo delicato, appena accennato, che non conosce volgarità, insistenza, malizie, ma neppure ipocrisie. Un erotismo che si affiderà solo all’allusività più sobria quando si giungerà a rappresentare anche la sessualità della donna (v.6). L’attenzione estetica ai seni è esaltata col ricorso alla settima e ultima comparazione del brano: i cuccioli, gemelli di gazzella, evocano immagini di bellezza, di freschezza, di mobilità, di armonia, di fascino. I gemelli di gazzella «pascolano tra i gigli». Si vuole forse alludere al «colore vivace delle vesti della donna, simili a un campo smaltato di fiori in cui pascolano, sobbalzanti ad ogni minimo rumore, le giovani gazzelle».Il v.6 si apre con l’evocazione della brezza del giorno, che può suggerire sia il venticello della sera sia quello dell’aurora. Prima che il giorno emani il suo profumo, prima che le tenebre fuggano del tutto all’orizzonte e il sole sia incombente nel cielo, l’innamorato decide di intraprendere un viaggio simbolico: «Me ne andrò al monte della mirra e alla collina dell’incenso». Cosa sono i monti della mirra e dell’incenso? I due aromi avevano già fatto la loro comparsa nel Cantico: la mirra nel sacchetto profumato che la donna teneva tra i seni (1,13), e anche nel nostro contesto sono citati i seni della donna (v.5); l’incenso unito alla mirra accompagnava come in una nuvola odorosa la lettiga di Salomone (3,6). Proprio per queste connessioni si può immaginare che il poeta voglia allusivamente descrivere l’abbraccio desiderato dall’amato con la sua donna. Il poeta, nel tratteggiare il ritratto della bellezza fisica femminile, giunge ora alla sessualità genitale della donna. Come abbiamo visto, il suo disegno era partito dal capo e aveva percorso il collo e il busto; ora approda al segno della congiunzione dei due corpi e lo fa con la castità e la purezza di chi non ha pruriti di ipocrisia o di pornografia. Tutto il corpo è ora posseduto visivamente e tattilmente, ma anche spiritualmente, in un dialogo perfetto, in un’esperienza di bellezza assoluta e intatta, in un’intensità che è fisica e spirituale e che attua il detto di Gen 2,24: «I due saranno una sola carne».Dopo aver percorso con lo sguardo e con l’ammirazione tutto il corpo dell’amata, l’uomo non può trattenere un’esclamazione finale che riassume in sé tutto lo stupore per la bellezza, per la perfezione e per l’ideale pienezza fisica e spirituale che quel corpo manifesta (v.7). È un’esperienza di bellezza intatta; difetti e macchie sono cancellati dal fuoco purificatore dell’amore.I vv. 8–11 presentano una seconda descrizione del corpo della donna. Il poeta ha immerso la donna in una cornice lontana, selvaggia, verdeggiante e carica di sensi simbolici. Ed è da questo fondale fresco, delicato e incantevole che egli la fa emergere perché s’avanzi come una regina e venga e raggiunga l’amato. La lontananza della località, l’inaccessibilità delle vette, la presenza delle fiere vogliono introdurre in un paradiso remoto e stilizzato il senso della conquista e del mistero. Il Libano (che significa monte bianco) è un luogo caro al Cantico, che lo cita ben sette volte. Esso fa da sfondo permanente di questo brano. Con le sue foreste, dove vivono liberamente gli animali, è un punto di riferimento costante per gli autori biblici per parlare del rigoglio e dello splendore della

30

natura (Is 35,2; 40,16; 60,13; Ab 2,17). È per questo che esso fa da fondale alla bellezza della donna del Cantico.Ma ora, evocata la presenza dell’amata, l’innamorato intesse di nuovo il suo canto, dipingendone il viso e il corpo. Il v.9 vuole indicare quasi l’incantesimo che l’amore crea nel cuore dell’innamorato, l’emozione forte ed esaltante. È significativo notare che la conquista dell’amato avviene attraverso un solo sguardo. Questa tipologia dello sguardo degli innamorati e del loro misterioso linguaggio è presente in tutte le letterature.La magia dell’amore della donna del Cantico è legata anche alle gemme o ai coralli della sua collana. Una sola di quelle pietre preziose basta a conquistare il cuore.Al termine «sposa» viene abbinata l’espressione «sorella mia». Questo appellativo è classico per indicare l’amata senza implicazioni di consanguineità: nell’amore di coppia raggiungono il loro apogèo tutti i sentimenti e i legami umani. Il rapporto di fraternità nell’Antico Oriente è visto come segno di intensità e di totalità e riassume in sé tutte le relazioni interpersonali. La donna amata è, perciò, vista come sorella, ma anche come madre, figlia, amica, sposa, concentrando in sé tutte le potenzialità dell’amore.Dopo il canto degli occhi, la celebrazione della bellezza della sposa prosegue nel v.10 con un testo modellato su 1,2–4. Là era Lei che dichiarava «più inebrianti del vino le carezze» dell’amato; ora è Lui che ricambia la stessa dichiarazione appassionata. Ritorna anche qui il connubio tra vino e amore. Ora, però, si introducono come termine di paragone i balsami, un vocabolo caro al Cantico, a partire da questo versetto (4,14.16; 5,1.13; 6,2; 8,14), così caro da essere ripetuto sette volte. L’idea fondamentale è quella della preziosità e del fascino delle carezze dell’amata. L’esalare dell’aroma balsamico crea una suggestione profonda («Tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento» si dice in Gv 12,3). Tutto il versetto è percorso da un brivido di ebbrezza, sempre sulla scia dell’incantesimo degli occhi, sperimentato nel versetto precedente.La stessa simbologia gustativa e olfattiva pervade anche il v. 11, creando lo stesso effetto di seduzione. Ora sono di scena le labbra e la lingua: si tratta di un’evidente allusione alla «dolcezza» del bacio. Il poeta dice che baciare è come succhiare nettare o miele purissimo. Le parole della donna sono dolci e tenere come miele: un segno di straordinaria dolcezza, applicato persino alla parola di Dio (Sal 19,11; 119,103). Dalla lingua, come da sorgente sotterranea, fluisce un ruscello di «miele e latte». La stessa locuzione «sotto la lingua» acquista un significato fortemente fisico, essendo una chiara espressione del piacere del bacio prolungato.Accanto al gusto è coinvolto anche l’odorato, a causa dei profumi che impregnano le vesti della donna, cosparse di essenze silvestri provenienti dal Libano. L’evocazione del Libano permette il confronto con Os 14,6 che, nel contesto nuziale simbolico tra Dio e Israele, dipinge quel tempo ideale in cui Israele sarà verdeggiante come l’olivo, e spanderà «fragranza come il Libano».I vv.8–11 presentano un rapimento e un abbandono totale dell’amato nelle braccia della sua sposa tanto affascinante e tanto desiderata. Sullo sfondo si erge la montagna del Libano, la vetta dell’amore, della freschezza, dei profumi, della primavera.Il canto del corpo si svolgerà ora su un altro registro simbolico, quello del giardino. Il vero giardino delle delizie e della bellezza sarà sempre il corpo della donna.Seconda tavola del dittico: il canto del giardino (4,12 – 5,1)Il simbolismo vegetale continua idealmente il canto del corpo femminile. Il giardino è subito abbinato a una sorgente e tutti e due sono sigillati, vietati agli estranei. Questo tema è un’allusione abbastanza nitida all’illibatezza della donna, alla sua fedeltà. La spiegazione più limpida del nostro brano forse la troviamo in Pr 5,15–20: «Bevi l’acqua della tua cisterna, che zampilla dal tuo pozzo. Non spargere per le strade la tua sorgente, né i tuoi ruscelli sulle piazze: siano per te solo, non spartirli con estranei! Benedetta sia la tua sorgente, godi con la sposa della tua giovinezza: cerva amabile, graziosa gazzella, sempre ti inebrino le sue carezze, sii sempre invaghito del suo amore! Perché, figlio mio, invaghirsi di una straniera, perché stringerti al seno un’estranea?».

31

Il v. 12 ci presenta una vigna recintata o protetta da un muro (Is 5,5) o un’oasi irrigata, difesa da una siepe o da una palizzata. Il giardino che ora viene cantato è vietato a tutti e concesso solo allo sposo. Solo lui può abbeverarsi a questa fonte purissima.La presenza primaverile delle gemme e dei germogli ben si addice alla fisionomia fisica della donna. Tutta la donna è un giardino di delizie. I suoi «germogli» sono la freschezza della sua bellezza, del suo eros, della sua sessualità, della sua intimità.Col v. 15 il poeta riprende l’immagine della sorgente del giardino incantato delle delizie. È una sorgente che affiora dal terreno all’interno di un’oasi rendendola verdeggiante e florida. Le acque del pozzo del giardino sgorgano dal Libano, il monte che fa da sfondo a tutto il brano. Queste acque vive scendono a cascata dal monte Libano.Con l’immagine di un pozzo sorgivo, le cui acque promanano dalle nevi perenni del Libano, le parole dello sposo si interrompono per lasciare lo spazio a un breve appassionato ed esaltante intervento della donna. Essa è stata finora la sorgente di acque abbondanti e fresche, posta in uno splendido giardino fiorito. La forza di questo paragone esplode tutta nella cornice dell’assolato e assetato panorama della terra d’Israele. Nell’itinerario spesso aspro e desolato della vita, l’amore è come un pozzo a cui si attinge per essere dissetati e rinvigoriti.La donna, con un appello di grande potenza, nel v. 16 si indirizza ai venti settentrionali e meridionali perché avvolgano Lei e il suo giardino, così da far esalare in tutta la loro intensità gli aromi in esso celati. L’amato è invitato ad entrare nel giardino della donna. L’oasi chiusa viene aperta dalla donna stessa; il sigillo della fonte è spezzato e lo sposo è chiamato a cibarsi dei frutti squisiti ed esaltanti dell’amore. Ed egli risponderà accogliendo con gioia l’invito a entrare nel giardino dell’amore.Il vento è personificato come se fosse un eroe addormentato (cfr. Sal 19,6–7; 78,65). Ora è sollecitato a svegliarsi e a levarsi in volo, abbandonando il suo letargo. Il passaggio del vento fa «sgorgare» tutti i balsami del giardino che esalano verso l’alto.Il poeta, dopo aver messo sulle labbra della sposa del Cantico un appello ai venti personificati perché penetrino nel giardino delle delizie facendone esalare i balsami, ora introduce un appello per l’amato perché entri nel giardino della sua donna e ne goda i «frutti squisiti». Attraverso questa immagine del godimento si vuole evocare l’ebbrezza dell’abbraccio, dell’abbandono d’amore, dell’intimità. Lo sposo non è un estraneo, per lui il giardino non è chiuso: è questo il mistero dell’intimità comunicata, un’esperienza che non è meramente fisiologica, ma umana e quindi di anima e corpo, di passione e d’amore, di eros e di donazione.Con 5,1 si chiude il piccolo poema. L’uomo raccoglie l’appello della sua donna ed entra nel giardino dell’amore, dove si lascia sedurre dai profumi, dove egli sarà rinvigorito dal miele che cola dai favi, dove sarà dissetato da un latte dolcissimo e da un vino generoso. A questa mensa d’amore, che sana ogni limite e ogni debolezza, egli è assiso come un principe.L’esperienza dell’uomo, che ha mangiato e bevuto nel giardino della gioia, è aperta ora anche agli altri che ne divengono partecipi.Questi «altri» sono i compagni–amici dello sposo. Lo sposo associa i compagni e gli amici del corteo nuziale perché essi sono in un certo senso parte di lui, partecipano alla sua felicità e all’esperienza personale che egli sta vivendo. Qualcosa di simile è evocato da Gv 3,29: «L’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo».Simboli e messaggioIl segno del giardino paradisiaco, in cui tutto si rispecchia e da cui tutto emana, percorre tutto questo brano e ritornerà altrove (6,2.1 l; 8,12). A questa simbologia si connette l’archetipo generativo e materno, valorizzato dalla presenza delle acque fecondatrici. Si configura, così, l’idea dello spazio sacro, marcato dalla «chiusura» e dal «sigillo». Fecondità e inviolabilità, maternità e verginità, vita e santità si fondono insieme, come in certi canti biblici in onore di Sion (Is 48,2; 49,20–21; 51,18–20; 54,1 ecc.). Lo spazio sacro è, allora, un grembo fecondo e materno a cui ci si riferisce inconsciamente come in un «ritorno all’utero»: là si è nati, là si vuole ritornare per trovare pace, sicurezza, nutrimento, tenerezza, calore, vita. Là ci si sente come in un «paradiso» terrestre, in

32

cui scorrono acque abbondanti, dissetanti e rinfrescanti, come nella grandiosa mappa idrografica del giardino di Eden tracciata da Gen 2,10–14. Nel Cantico questo giardino chiuso incarna soprattutto l’idea di mistero invalicabile che è racchiuso nel corpo della donna e che può essere svelato solo per donazione, non conquistato per violenza. Quel giardino chiuso è «l’io femminile, padrone del proprio mistero», è «l’interiore inviolabilità della persona» (Giovanni Paolo II, 30 maggio 1984). È solo col dono d’amore che la diversità e l’originalità, insite in ogni persona, si sciolgono e le porte del giardino si spalancano. Allora, continua Giovanni Paolo II, «la sposa risponde allo sposo con le parole del dono, cioè dell’affidamento di se stessa». 

8.NELLA NOTTE L’ASSENZA DELL’AMATO

(5,2 – 6,3)

La sposa 2 Io dormo, ma il mio cuore veglia.Un rumore! È il mio diletto che bussa:

«Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, perfetta mia;

perché il mio capo è bagnato di rugiada, i miei riccioli di gocce notturne».

3 «Mi sono tolta la veste; come indossarla ancora? Mi sono lavata i piedi;

come ancora sporcarli?».4 Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio

e un fremito mi ha sconvolta.5·Mi sono alzata per aprire al mio diletto

e le mie mani stillavano mirra,fluiva mirra dalle mie dita

sulla maniglia del chiavistello.6·Ho aperto allora al mio diletto,

ma il mio diletto già se n’era andato, era scomparso. Io venni meno, per la sua scomparsa.

L’ho cercato, ma non l’ho trovato,l’ho chiamato, ma non m’ha risposto.

7·Mi han trovato le guardie che perlustrano la città; mi han percosso, mi hanno ferito,

mi han tolto il mantellole guardie delle mura.

8 Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, se trovate il mio diletto,

che cosa gli racconterete?Che sono malata d’amore!

Il coro 9 Che ha il tuo diletto di diverso da un altro, o tu, la più bella fra le donne?

Che ha il tuo diletto di diverso da un altro, perché così ci scongiuri?

La sposa 10 Il mio diletto è bianco e vermiglio,riconoscibile fra mille e mille.11 Il suo capo è oro, oro puro,

i suoi riccioli grappoli di palma,

33

neri come il corvo.12 I suoi occhi, come colombe

su ruscelli di acqua; i suoi denti bagnati nel latte,

posti in un castone.13 Le sue guance, come aiuole di balsamo,

aiuole di erbe profumate;le sue labbra sono gigli,che stillano fluida mirra.

14 Le sue mani sono anelli d’oro, incastonati di gemme di Tarsis.

Il suo petto è tutto d’avorio, tempestato di zaffiri.

15 Le sue gambe, colonne di alabastro,posate su basi d’oro puro.

Il suo aspetto è quello del Libano, magnifico come i cedri.

16 Dolcezza è il suo palato;egli è tutto delizie!

Questo è il mio diletto, questo è il mio amico,o figlie di Gerusalemme.

Il coro 6–1 «Dov’è andato il tuo diletto,o bella fra le donne?

Dove si è recato il tuo diletto,perché noi lo possiamo cercare con te?

La sposa 2 Il mio diletto era sceso nel suo giardinofra le aiuole del balsamo

a pascolare il gregge nei giardinie a cogliere gigli.

3 Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me; egli pascola il gregge tra i gigli.

Dopo l’ebbrezza dell’«incontro nel giardino», il Cantico ci riporta in un’atmosfera profondamente diversa: alla solarità si sostituisce un notturno non privo di incubi, all’abbraccio subentra la solitudine, alla presenza l’assenza.La vicenda è molto lineare. La donna, nella sua stanza, non accoglie il suo amato ma, per vezzo o per pigrizia, lo lascia allontanare. Subito scatta in lei il pentimento o la nostalgia, ed essa inizia una ricerca ansiosa per la città, dove incorre in una brutta avventura con una ronda notturna. Un duetto col coro permette alla donna di disegnare un appassionato ritratto del corpo del suo uomo, parallelo a quello femminile di 4,1–6. In finale, un quadretto di poche pennellate fa balenare la gioia del ritrovamento. Il timore non è, quindi, cancellato dall’abbraccio d’amore; la comunione non è mai del tutto perfetta ed esige una continua purificazione che la aiuti a superare i momenti oscuri e le crisi.Lettura esegeticaÈ notte fonda. Allo splendore sfolgorante del giardino, che occupava e illuminava tutta la scena precedente, si oppone ora il buio e il gelo della notte. La donna, nell’interno della sua casa, sta dormendo. Ed ecco, all’improvviso, una voce che fa balzare il cuore: è Lui, l’amato, il centro della sua vita, che bussa alla porta.Il desiderio dell’amato è sottolineato dall’intensità dell’appello: «Aprimi, sorella mia, compagna mia, colomba mia, perfezione mia!». Egli viene dalla fredda notte orientale e il suo capo è tutto impregnato di rugiada, i riccioli della sua capigliatura sono imperlati di gocce notturne. Egli porta

34

tutto il freddo della notte e attende di gustare il calore di quel letto e di quel corpo. La tenebra e il gelo attendono di essere sciolti nell’abbraccio ardente dell’amore.Il notturno dell’assenza (5,2–7)Al bussare dell’amato, la donna si fa desiderare mostrandosi indifferente. Si tratta di una ritrosia capricciosa solo momentanea. In realtà la donna, appena sente che la mano del suo amato armeggia al chiavistello per farlo saltare e per introdursi così in casa, viene percorsa da un fremito d’amore e di gioia. Le sue stesse viscere reagiscono in un’emozione profonda, intima, radicale.La donna si alza. E mentre le sue dita sollevano la maniglia del chiavistello, essa sente il profumo lasciato dalle mani del suo uomo attaccarsi alle sue. È la mirra, il profumo caro al Cantico, un profumo aspro e acuto. Ma ecco l’amara sorpresa. La porta si spalanca solo sul vuoto, sulla notte, su un silenzio glaciale. Lo sposo si è dissolto come un’ombra nella notte. E mentre prima Lei si sentiva svenire di gioia e di emozione, ora si sente venir meno per il terrore.Essa, però, non si rassegna. Inizia, così, un notturno di grande tensione, che si svolge nelle vie e per le piazze della città deserta. È una ricerca disperata che ha sempre lo stesso esito, il vuoto e il silenzio (v.6). All’improvviso, ad una svolta della via, appare una ronda delle guardie notturne (v.7).Di fronte a una vagabonda, la reazione delle guardie è ben più pesante dell’atteggiamento tenuto dai loro colleghi in 3,3; la loro risposta è brutale. Scambiandola per una prostituta, trovano in lei l’occasione per sfogare i loro istanti. Umiliata, la donna non perde però il suo desiderio di ritrovare l’amato. Lancia, allora, un appello altamente poetico al coro delle «figlie di Gerusalemme» perché si associno a lei nella ricerca del suo uomo. Esse dovranno comunicare un unico messaggio, quello stesso che aveva già loro affidato in un momento più felice (2,5): «Sono malata d’amore, io!» (v.8). Questo appello, che apre il dialogo col coro, ci introduce già nel secondo quadro di questo poema d’amore, di dolore, di assenza e di presenza, di attesa e di unione.Il v.2 ci presenta l’antitesi tra un corpo che dorme e un cuore che veglia, perché l’amore è come il respiro che non si spegne anche quando si è addormentati. L’amore è una scintilla sempre viva, un pulsare continuo, come quello del cuore e dei suoi battiti.All’improvviso quel silenzio è rotto da un rumore, quel sonno è interrotto da un suono.Le parole dell’amato si aprono con un imperativo: «Aprimi!». È proprio a partire da questo verbo che ha origine una rilettura in chiave sessuale, allusiva all’intero episodio. Bisogna però essere molto cauti nell’applicare i sottintesi, per non scadere nella banalità e nella volgarità che si oppongono sia all’amore che alla poesia. All’improvviso segue una cascata di vocativi, composta dai tipici appellativi del Cantico. Ma qui, come in 6, 9, si aggiunge un altro appellativo: «Mia perfetta».Ai vocativi subentra una autodescrizione dello sposo. Inizia con una descrizione fisica dell’uomo: il suo capo è coperto di rugiada e i suoi riccioli di gocce notturne.La donna risponde nel v.3 dal letto e la sua risposta sembra segnata da ritrosìa femminile, tipica delle schermaglie d’amore. Esse sono il sale dell’amore, ma talvolta possono degenerare nell’incomprensione, nella gelosia: non per nulla, subito dopo, si fa strada l’assenza, l’allontanamento, il silenzio. La donna ha già chiuso la sua giornata, si è spogliata e lavata, è già immersa nel sonno. Perché dovrebbe nuovamente alzarsi, rivestirsi e camminare?Alla risposta apparentemente fredda della donna, il gelo coglie il cuore dell’uomo, superando in intensità quello esterno della notte. Eppure egli non si rassegna e tenta un’ultima strada, quasi disperata, cercando di forzare quella porta serrata, quella barriera che lo tiene lontano dal suo amore.Nonostante la sua essenzialità e brevità, il v.4 occupa largo spazio nei commenti al Cantico, perché il gesto descritto non è facilmente comprensibile nei dettagli. Concretamente descrive un avanzare della mano dell’amato all’interno della grossa fessura della serratura, tentando di passare oltre di essa per raggiungere il chiavistello. Di fronte all’insistenza dell’amato, al suo appassionato desiderio, la donna reagisce, mostrando il vero significato del suo comportamento. Esso non nasce da indifferenza, da rifiuto, da fastidio, ma da una specie di prova che ella voleva imporre al suo

35

uomo. Infatti, l’intimo della donna prova una forte emozione, un sentimento di tenerezza, di passione, di dolcezza. La reazione della donna ha come oggetto il suo amato.Il v.5 ha l’obiettivo puntato sulla donna. Ormai l’amato si è allontanato e la donna capisce che è successo qualcosa di pericoloso nella loro relazione. Ella decide di alzarsi. Corre alla porta e afferra la barra interna della serratura. Ed ecco la sorpresa della mirra. L’armeggiare dell’amato alla porta, per aprirla, ha lasciato la sua impronta, quasi un alone della sua presenza: la mirra liquida che costituisce il profumo della loro intimità (1,13; 4,6).Il v.6 ci presenta la notte e il vuoto. Si apre il dramma della solitudine e del silenzio. La donna risponde all’appello dell’amato: «Aprimi!», ma è troppo tardi. Ella lo desidera, s’è alzata per aprirgli e Lui si è già stancato di attendere, se n’è andato a girovagare per la città, quasi preoccupato dei fatti propri e non del loro amore. Alla gioia dell’attesa si sostituisce la freddezza della lontananza, dell’impossibilità dell’incontro. Davanti all’assenza e all’allontanamento dell’amato, la donna sente ancora le parole d’implorazione dell’uomo, parole non prontamente ascoltate che ora diventano motivo di un mancamento e di una fitta nell’anima.Ma la donna non si perde d’animo: violando tutte le norme del buon senso, superando i condizionamenti sociali, mossa solo dal suo desiderio d’amore, dall’impossibilità di vivere senza il suo uomo, essa esce dalla sua casa e si immerge nella notte gelida e pericolosa. E, come descrive il v.7, quel viaggio sarà pieno di rischi e di sofferenze. Essa incontrerà la violenza. Sotto il manto nero della notte si consumano tante infamie.La rappresentazione del v.7 riflette un’amara catena di violenze, di stupri, di prevaricazioni, di ingiustizie. Ma il poeta lo fa senza indulgere ai particolari e senza scadere nella cronaca nera. Una notte serena, piena di attese e di emozioni amorose è approdata alla tragedia delle grida disperate, dell’incubo e della brutalità.Il duetto col coro e l’incontro (5,8 – 6,3)Agli obiettori nei confronti della scarsa «razionalità» e «intelligibilità» di questo brano, rispondiamo con il Buzy: «Non dobbiamo avere l’ineleganza di domandare dove le amiche si trovino così nella notte, se la sposa le ha incontrate nella strada e cosa stavano a fare a quell’ora... Gli attori sono sempre a disposizione del poeta che li chiama e li fa parlare secondo che il poema o la sua fantasia vogliono».La notizia che la donna affida al coro è molto chiara: «Se troverete il mio amato, ditegli che sono malata d’amore per lui». Il motivo della «malattia d’amore» è molto diffuso in tutte le culture. In 2,5 nasceva da un’ebbrezza, da una specie di svuotamento totale dell’essere della donna, che si sentiva venir meno, tanto da implorare un sostegno fisico. Ora nasce dall’assenza, dalla separazione, da un diverso vuoto interiore. Là era quasi per un «eccesso» di presenza, qui invece per un «eccesso» di assenza.Il v.9 è soffuso da un tono di simpatica e bonaria ironia da parte del coro sulla straordinarietà assoluta dell’amato, ironia che provocherà la risposta esaltata della donna, che avvierà un ritratto entusiasta del suo uomo (vv.10– 16). Le ragazze del coro tentano quasi di smitizzare maliziosamente la bellezza eccezionale dell’amato, paragonandolo alla media dei giovani. Ciò provoca una reazione appassionata e superlativa della donna. Il suo amato è unico, inconfondibile anche fra diecimila giovani.La domanda delle figlie di Gerusalemme provoca nella donna del Cantico una nostalgica e dolce rappresentazione del corpo del suo uomo. Questo è l’unico cantico amoroso che descrive l’uomo, cioè l’unica descrizione del corpo dello sposo. Esso è di taglio erudito e meno creativo rispetto a quelli dedicati alla donna. Questo impaccio, oltre a far pensare che l’autore del Cantico è un uomo e non una donna, rivela che il poema è centrato soprattutto sulla femminilità.Per l’innamorato la persona amata è la più incantevole delle creature. È ciò che la donna dichiara subito in apertura, reagendo all’ironia sottile del coro (v.10). Lo sposo è come un vessillo spiegato che si erge sopra la folla, una bandiera in mezzo a un esercito immenso di eroi, il più forte e il più splendido in assoluto. Il suo incarnato non è bruno come quello della ragazza (1,5), ma rubicondo, una tonalità piuttosto rara in Oriente, e quindi segno di estrema bellezza e salute. Il bianco è il

36

colore del cielo luminoso, spoglio di nubi (Is 18,4), il rosso è il colore del sangue (Is 63,2) o dell’aurora (2Re 3,22). È come se un alone di luce, un’aureola divina lo avvolgesse. Il suo volto è di oro purissimo, simile alla corona dei raggi del sole (Dan 2,32; Lam 4,1). La sua capigliatura di un nero corvino percorso da striature metalliche è simile alla chioma di una palma ricca di grappoli. I suoi occhi sono come tenere colombe sulle rive di un ruscello, identici a quelli della donna. I suoi denti sono bianchi come un bacile colmo di latte candido. Le sue guance, tutte cosparse di aromi, sono come un’aiuola di fiori balsamici: il poeta allude forse alla barba tutta impregnata di profumi (cfr. Sal 133,2–3). Le sue labbra sono come gigli rosati, la saliva che le percorre come mirra liquida che si effonde. Le sue mani e le sue dita affusolate sono come gioielli d’oro. Il ventre dell’amato è come una lastra d’avorio compatta e raffinatamente intagliata: un bianco caldo e dorato, un colore prezioso e dolce su cui si intessono mille sfumature di altre tonalità e perfezioni simili allo zaffiro e al lapislazzulo. Le sue gambe solide, vigorose, ben piantate sono come colonne di alabastro poggiate su basi di oro puro. Egli procede come il Libano maestoso nella sua imponenza, si rivela giovanile come i cedri verdeggianti piantati sulle pendici del Libano. Il suo palato, cioè le sue parole e i suoi baci, è la dolcezza fatta carne, conquista e inebria. L’amato è tutto una delizia, in Lui tutto è affascinante, egli ha la forza e l’attrattiva capaci di conquistare l’anima e il corpo dell’amata. E, replicando alle figlie di Gerusalemme (v.16), la donna è convinta di averle lasciate senza fiato di fronte a tanta bellezza e a tanto splendore.Il coro (6,1)Il coro riprende l’appellativo «incantevole tra le donne», introdotto nel suo primo intervento (5,9), mostrando così la compattezza dell’intero dialogo. Esso si offre per cercare l’amato insieme con la donna. Ma la donna ormai non ha più bisogno di nessun aiuto perché sente di aver già trovato colui che cercava. L’assenza dell’amato è come una nube, è un’eclisse temporanea subito sostituita dallo sfolgorare del sole.L’incontro d’amore (6,2–3)La replica della donna è il sigillo conclusivo e radioso a un’esperienza iniziata sotto il segno dell’oscurità e del gelo notturno. Questo intervento della donna è la conclusione stilizzata della vicenda e ne è la spia interpretativa. Nell’amore esiste anche la crisi, si introduce il timore, si insinua la freddezza, si vive anche di nostalgia, si incunea l’assenza. Ma la componente dominante della comunione e della reciproca donazione alla fine trionfa. Si riaffacciano così la gioia, i colori, il calore, la pace, la presenza, l’intimità.Una sensazione di pace accompagna l’amato che scende nel suo giardino. La donna in 4,16 si era già offerta al suo amato presentandosi come il «suo giardino», cioè considerandosi come suo possesso, a cui egli potesse accedere con assoluta libertà: «Venga il mio amato nel mio giardino e ne mangi i frutti squisiti!». E lui aveva subito risposto : «Sono venuto nel mio giardino...» (5,1). Questo discendere nel giardino, segno dell’intimità fisica e spirituale e dell’abbraccio, ha in sé il suo significato e non ha bisogno di essere rivestito di paludamenti mitici. Nel Cantico il giardino è costantemente un segno della donna nella sua bellezza e intimità; il giglio è l’emblema della donna (2,1.2; 4,5; 7,3) e il «pascolare» è espressione di unione, di contatto, di piacere, d’incontro d’amore.Il v.3 sigilla splendidamente tutto il brano. Questa professione condensa la mutua relazione di totale appartenenza dei due innamorati. Al termine di una scena drammatica, apertasi sulla tenebra e sull’assenza dell’amato, risplende il sole e la professione d’amore acquista un sapore nuovo rispetto a 2,16. L’amore ritrovato ha il gusto affine, se non superiore, a quello dell’amore scoperto per la prima volta. La scelta decisiva resta quella di non arrendersi al silenzio, all’idea della morte, alla disperazione dell’apparente perdita. Ed è significativo che ancora una volta il primato nella vittoria dell’amore sia affidato alla donna, la vera protagonista del Cantico, colei che riscrive Gen 2 in chiave femminile.Simboli e messaggioIl bello dei corpi, nella visione antropologica della Bibbia, è bellezza dello spirito. Attraverso le iperboli di questo brano si vuole celebrare la bellezza, la salute, la potenza perfetta dell’amato. Il

37

poeta esalta nella salute e nella bellezza fisica la piena espressione della bellezza interiore, della gioia, della perfezione umana.La celebrazione della bellezza è aiutata, qui e altrove nel Cantico, dall’uso dei profumi: le mani e le dita della donna stillano mirra liquida preziosa (5,5); le guance dell’amato sono «aiuole di balsamo, scrigni di aromi»; le labbra «stillano mirra liquida» (5,13); il palato dell’amato è tutto una dolcezza (5,16).L’assenza–presenzaQuesto brano presenta in modo molto fine la dialettica tra presenza e assenza. Come, quasi, insensibilmente, in apertura si passa dalla presenza all’assenza dell’amato, così, in forma impalpabile, nella finale si scivola dall’assenza alla presenza. La presenza non viene mai meno anche quando l’assenza sembra incombere e sconcertare. Anzi, l’assenza diventa il fermento di una nuova, più piena e intensa presenza, come è attestato dalla dichiarazione finale d’amore. E questa schermaglia è tutta condotta sul registro del corpo, che diventa ancora una volta un simbolo decisivo di comunicazione. La corporeità, di sua natura, implica e introduce un limite nell’esperienza d’amore. Perciò, pur appartenendo a una comunione piena, i due vivono la separazione, e questa fa parte della comunione umana: l’unione conserva la diversità, l’alterità senza confusioni, cerca solo di non renderla più antitetica, ma armonica, con un susseguirsi di dissonanze e di consonanze come nei migliori spartiti musicali. Riassumendo la trama della pericope di 5,2 – 6,3, G. Raurell scrive: «Nel Cantico la figura femminile appare come portatrice di intimità: la donna è colei che resta a casa, cioè in se stessa, in una situazione in cui può diventare sia creatrice di focolare sia vittima di una disperante attesa. L’uomo deve bussare per poter penetrare nella sua intimità. La sofferenza per l’assenza dell’amato aumenta con la delusione di un incontro che non è stato tale. L’indugio della ragazza ad aprire può essere civetteria o screzio tra amanti... Ma l’amore, mancato o perduto, va cercato e inseguito di nuovo. Con un’audacia e una libertà propria dei grandi poemi lirici, la ragazza prosegue la ricerca affannosa nella notte. Dopo l’incontro pauroso con le sentinelle della città, le amiche sono inviate in soccorso. Così trova una nuova opportunità per renderlo presente, introducendo il suo amato nella scena per tessere, con accenti appassionati, il panegirico della sua bellezza e per convincersi che questo bel ragazzo non l’ha perso, ma è ancora suo: «Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me». È la tensione costante tra presenza e assenza, tra amore e desiderio». 

9.IL NUOVO CANTO DEL CORPO FEMMINILE

(6,4 – 7,10)

Lo sposo 4 Tu sei bella, amica mia, come Tirza, leggiadra come Gerusalemme,

terribile come schiere a vessilli spiegati. 5 Distogli da me i tuoi occhi:

il loro sguardo mi turba.Le tue chiome sono come un gregge di capre

che scendono dal Gàlaad.6 I tuoi denti come un gregge di pecore

che risalgono dal bagno.Tutte procedono appaiate

e nessuna è senza compagna.7 Come spicchio di melagrana la tua gota,

attraverso il tuo velo.8 Sessanta sono le regine,

ottanta le altre spose,

38

le fanciulle senza numero.9 Ma unica è la mia colomba la mia perfetta,

ella è l’unica di sua madre,la preferita della sua genitrice.

L’hanno vista le giovani e l’hanno detta beata,le regine e le altre spose ne hanno intessuto le lodi.

10 «Chi è costei che sorge come l’aurora,bella come la luna, fulgida come il sole,

terribile come schiere a vessilli spiegati?».11 Nel giardino dei noci io sono sceso, per vedere il verdeggiare della valle,

per vedere se la vite metteva germogli, se fiorivano i melograni.

12 Non lo so, ma il mio desiderio mi ha posto sui carri di Ammi–nadìb.

Il coro 7–1 «Volgiti, volgiti, Sulammita, volgiti, volgiti: vogliamo ammirarti».

«Che ammirate nella Sulammita durante la danza a due schiere?».

Lo sposo 2 «Come son belli i tuoi piedinei sandali, figlia di principe!

Le curve dei tuoi fianchi sono come monili, opera di mani d’artista.

3 Il tuo ombelico è una coppa rotondache non manca mai di vino drogato.Il tuo ventre è un mucchio di grano,

circondato da gigli.4 I tuoi seni come due cerbiatti,

gemelli di gazzella.5·Il tuo collo come una torre d’avorio,

i tuoi occhi sono come i laghetti di Chesbòn, presso la porta di Bat–Rabbìm;

il tuo naso come la torre del Libanoche fa la guardia verso Damasco.

6·Il tuo capo si erge su di te come il Carmelo e la chioma del tuo capo è come la porpora;

un re è stato preso dalle tue trecce».7·Quanto sei bella e quanto sei graziosa,

o amore, figlia di delizie!8 La tua statura rassomiglia a una palma

e i tuoi seni ai grappoli.9 Ho detto: «Salirò sulla palma,

coglierò i grappoli di datteri;mi siano i tuoi seni come grappoli d’uva

e il profumo del tuo respiro come di pomi».La sposa 10 «Il tuo palato è come vino squisito,

che scorre dritto verso il mio diletto e fluisce sulle labbra e sui denti!

Abbiamo lasciato alle spalle la scena dell’assenza superata dalla notte che si è affacciata all’aurora dell’incontro. Già la finale di 6,23 esaltava l’ebbrezza e la bellezza dell’intimità, dell’amore ritrovato, della pienezza della donazione. A partire da 6,4 la parola passa a Lui, all’assente nella

39

scena precedente, che ora non solo ritorna a essere protagonista, ma anche si mette a proclamare l’amore per la sua donna. È un nuovo e solenne canto del corpo femminile. Il filo del canto ora ha un nuovo senso che potremmo chiamare «dell’unicità»: la sposa è unica, solo lei può saziare ogni desiderio di bellezza e di amore del suo uomo, lei sola colma il vuoto e il desiderio del cuore.Lettura esegeticaQuesto canto riesce a fondere stupore e terrore, conquista posseduta e conquista ulteriore, pace e turbamento, fascino e timore. È l’espressione di un sentimento che sconvolge: in questo canto si uniscono emozioni contrastanti di amore e di guerra. La stessa esclamazione stupita dell’apertura evoca un quadro possente: la donna è di una bellezza così sfolgorante da creare in chi la contempla la stessa emozione che prova vedendo il dispiegarsi al vento dei vessilli di un immenso esercito. È un’immagine di trionfo e di vittoria, che raffigura il fascino della bellezza che conquista ed esalta.Il primo canto del corpo femminile (6,4–12)Questo brano si divide in due parti. La prima (vv.4–10) si sviluppa secondo i moduli tipici del canto del corpo; la seconda riprende il motivo del giardino delle delizie (vv.11–12).a) Il canto del corpo (6,4–10)Il canto inizia con uno sguardo d’insieme alla figura della donna «incantevole». Questa contemplazione evoca tre comparazioni, il cui scopo è quello di dimostrare lo strano impasto di sensazioni che la bellezza provoca: venerazione e fascino, paura e desiderio. Il canto, poi, proseguirà con la descrizione del volto (vv.5–7), si allargherà in una nuova contemplazione stupita, centrata sull’«unicità» della bellezza dell’amata e sulla sua esclusività (vv.8–9), per approdare a uno sguardo d’insieme finale, parallelo a quello d’avvio del v.4 (v.10).Le prime due comparazioni sono piuttosto sorprendenti: l’amata è raffrontata con due città, Gerusalemme e Tirsah. Tirsah era stata costituita come capitale del regno scismatico settentrionale d’Israele da parte di Geroboamo I (1Re 14,17) prima che, una sessantina d’anni dopo, il re Omri nella prima metà del sec. IX a.C. edificasse la nuova capitale Samaria (1Re 16,24.28). È curioso notare, però, che Tirsah è anche un antico nome proprio femminile (Nm 26,33; 27,l; 36,11; Gs 17,3), probabilmente a causa della radice da cui deriva, che indica «piacere». Per molti esegeti Tirsah equilibra la menzione di Gerusalemme, coinvolgendo così tutto il grande Israele nelle sue articolazioni di Giuda e di Israele.Dopo Tirsah e Gerusalemme, ecco il terzo paragone, che verrà ripreso nel v.10. L’amata è eccezionale, stupenda, straordinaria, formidabile, irresistibile, impressionante nella sua personalità. Ma la piena illustrazione di questa particolare qualità di bellezza, capace di catturare e imprigionare l’uomo, è nel termine di comparazione: è «impressionante come vessilli spiegati».In amore c’è contemporaneamente guerra e pace, abbandono ed emozioni, certezza e sospensione. Il poeta riprende l’immagine di 2,4: «Il suo vessillo su di me è amore», dove la bandiera militare si collegava alla conquista d’amore. Scrive Platone nelle Leggi: «Vi è per l’uomo una terza necessità: l’amore, straordinariamente violento e che in noi ultimo si desta. Questo amore rende in ogni forma gli uomini ardenti come fiamme in completa follia. È quell’amore che si accende in noi e brucia frenetico per la propagazione del seme» (783a).L’impasto tra bellezza e terrore, tra fascino e turbamento riaffiora anche nella prima battuta del v.5 che apre la descrizione del viso dell’amata. Come in 4,1 si riparte dal mistero degli occhi che, assieme allo sguardo, rivestono una funzione significativa nel Cantico (1,15; 2,14; 4,1.9; 5,12; 7,5). Come è impossibile fissare gli occhi nel sole che illumina Gerusalemme, così lo sposo non può resistere agli occhi sfolgoranti della sua donna: essi soggiogano e avvincono con il potere misterioso dell’amore.L’appello che gli spunta sulle labbra è un’implorazione rivolta all’amata perché allontani quello sguardo conturbante; quegli occhi fanno impazzire, accecano, fanno balbettare e stravolgono la persona dell’innamorato. Platone, nel dialogo Amanti, parla di «quell’eterno senso di turbamento che producono giovinezza e bellezza» (133a). Naturalmente, questa implorazione a distogliere lo sguardo è un vezzo poetico per esprimere la gioia e il mistero esercitati dalla bellezza.

40

A partire da questa pennellata il resto del disegno del volto amato è ricalcato su quello di 4,1–3 con lievissimi ritocchi.Di fronte alla bellezza della donna e alla magia dell’amore, il poeta intona in una strofa il suo canto all’unico amore (vv.8–9). Tutta la parata di un harem di sessanta regine, cioè di sessanta principesse di sangue reale, di ottanta concubine e di innumerevoli belle ragazze non può sostituire Lei, l’«unica». Lei, la donna amata, è in assoluto la perfetta, l’insostituibile, l’indimenticabile. Il poeta appaia finemente due modelli esclusivi d’amore: per la madre suo figlio è la creatura più bella del mondo, per l’innamorato la sua donna è sempre la più splendida, la prediletta, l’unica al mondo. L’amore, nella sua forma più forte e più alta, è monogamo e totale. E proprio per far risaltare questo aspetto, l’autore ha collocato questo amore puro e perfetto nella cornice di un harem poligamico, dove l’unicità e la totalità sono radicalmente assenti.Le donne dell’harem sembrano quasi intuire questa diversità e sono probabilmente loro a intonare un coro che canta la beatitudine della donna che è amata in modo totale (cfr. Pr 31,28).Il loro breve inno è pieno di luce radiosa ed è citato nel v.10. Sul fondale sfilano l’aurora con il suo delicato chiarore, la luna incantevole, il sole sfolgorante, mentre sulla terra garriscono al vento le bandiere gloriose evocate dallo sposo nel v.4. Un piccolo inno dai contorni cosmici, che si trasforma in un corale di grande potenza, con bagliori di luci e di fiamme.Il canto indirizzato alla sposa del Cantico da parte delle donne dell’harem si apre con una domanda retorica ammirativa, destinata ad attirare l’attenzione. La donna è presentata mentre guarda dall’alto di un balcone o dalla finestra di un palazzo (cfr. Gen 26,8; 2 Sam 6,16; 2 Re 9,30; Pr 7). Di per sé l’immagine può essere anche più generica, anche perché il verbo è usato pure per lo sguardo da un monte su una valle o una pianura (Nm 21,20; 23,28; 1 Sam 13,18) o persino dal cielo (Sal 14,2). L’idea è quella di una nobiltà, di una superiorità, di un rilievo simili a quelli di un’apparizione divina o, come suggeriscono le comparazioni, al sorgere del sole. L’epifania luminosa della donna che s’affaccia come dal cielo è paragonata a quella dell’aurora. Subito dopo il poeta introduce l’incanto della luna che indica il candore.La terza comparazione, dopo l’aurora e la luna, è quella con il massimo ardore del sole, bruciante e sfolgorante: qui l’espressione ha valore di purezza, di luce, di trasparenza. Luce e calore si intrecciano nella bellezza dell’amore. Anche la celebrazione della donna virtuosa di Sir 26,16 evoca le stesse immagini: «Il sole risplende sulle montagne del Signore, la bellezza di una donna virtuosa adorna la sua casa».Dopo l’aurora, la luna e il sole si giunge all’ultima comparazione, che riprende alla lettera la formula del v.4, «impressionante come vessilli spiegati». I vessilli spiegati nel cielo sono le stelle, che nel cielo sembrano fiaccole di un esercito in marcia (le stelle, infatti, sono considerate l’armata di Dio creatore). La donna è raffrontata a tutte le meraviglie del cielo che dispiegano le loro diverse gradazioni di luminosità, le tinte più varie di colori, tutte le modulazioni della luce.b) L’intermezzo conclusivo del primo canto (6,11–12)Abbandonando tutte le donne del mondo, lo sposo è penetrato nel giardino delle meraviglie, quello del corpo della sua donna. Là soltanto egli trova freschezza, vita, primavera, fecondità. Dopo la contemplazione della bellezza della donna, lo sposo celebra l’intimità sotto il simbolo dell’ingresso nel giardino.Della vegetazione del giardino sono elencate esplicitamente tre specie: il noce, la vite, il melograno. Il termine «noce» risulta esotico per l’uomo della Bibbia, perché il noce appare tardivamente in Palestina, forse importato dalla Persia. E suo nome è citato solo qui in tutta la Bibbia. Il suo frutto è considerato afrodisiaco in molte culture. Il tempietto di Adone ad Afqa, nella valle che in Libano corre tra Byblos e Baalbek, era circondato da una selva di noci che, come il melo, erano considerati alberi sacri al dio della fecondità e i cui frutti erano visti come simboli della genitalità femminile. In definitiva, al poeta biblico basta evocare un albero «esotico» dal simbolismo «fertile» per creare l’idea di un giardino segreto, raro, prezioso in cui entrare con piacere e con sorpresa.In questo giardino delle delizie, popolato di noci, l’amato scende per contemplare altre piante, e altri segni di vita e di prosperità. Lo sguardo dello sposo si fissa anzitutto sul «frutto o germoglio», che è

41

una metafora per alludere al vigore sessuale e al fascino erotico. Il nostro pensiero corre a tutto il verde fresco del giardino, ai germogli, ai virgulti, alla fioritura della campagna. Come nel caso del noce, non si esclude che il poeta abbia voluto ricamare qualche allusione simbolica di taglio sessuale, essendo il giardino già di per sé una metafora dell’intimità della donna, secondo quanto si è già detto a proposito di 4,12ss. A questo risultato ci conducono i testi accadici che nel «frutto» – inbu vedono un riferimento al vigore sessuale maschile. Anche nell’Epopea di Ghilgamesh Ishtar si rivolge all’eroe invitandolo a essere il suo amante e a offrirgli «il suo frutto» (In–bi–ka, VI, 8).Il verde fresco è collocato nella valle, lungo un corso d’acqua. Al centro di questa vegetazione sta la vite, una delle piante più care al Cantico (2,13; 7,9.13), con tutto quello che evoca anche come vigna, uno degli stemmi caratteristici di Israele.Dopo il noce e la vite, ecco un altro albero tipico del Cantico, il melograno, su cui si intesserà una trasposizione amorosa anche in 7,13. Del melograno l’amato osserva la fioritura che coi suoi colori accesi sembra preparare la turgida bellezza del frutto.Ormai il giardino è stato tutto percorso; le soste hanno permesso di contemplare lo sbocciare della vita. Dopo aver esaltato la bellezza della donna e aver celebrato l’unicità del suo amore, lo sposo è entrato nel «giardino» per cogliere il frutto dolcissimo e freschissimo dell’intimità. La natura è una parabola dell’intensità dell’amore, della sua forza vitale, della sua qualità primaverile. Il bosco incantato dell’amore è un simbolo che unisce la realtà fisica con quella interiore in modo inestricabile, ed è solo questa unità ad essere capace di esprimere nella sua perfezione una sensazione e un significato di infinito. Nel Cantico è di scena l’amore umano puro e pieno che viene dipinto con tonalità e colori divini perché esso esprime la vita e la fecondità, che sono per eccellenza doni divini. Con questa bellezza, in questo stato di perfezione e di pienezza, l’amato pronunzia la sua professione d’amore, di gioia, di vita.«Il v.12 del cap.6 del Cantico è generalmente considerato come il più oscuro di tutto il libretto» (Tournay). La folle corsa del cocchi in guerra e in pace costituisce un luogo comune classico nella poesia eroica, ma anche nell’immaginario amoroso perché la passione fa «lievitare» la persona, immergendola in un’atmosfera di sogno. Lo sposo continua, così, a cantare l’estasi che egli sperimenta nella sua visita al giardino delle delizie amorose. Subito dopo, l’ebbrezza del movimento avvolgerà anche la donna nella sua danza frenetica.Il secondo canto del corpo femminile (7,1 –10)Il profilo della donna è disegnato in modo «ascensionale», partendo dai piedi, irresistibilmente mossi nel ritmo della danza: ad essi vengono fatti seguire nove tratti fisiognomici accompagnati da altrettante comparazioni.a) Intermezzo d’apertura del secondo canto (7,1)Il testo potrebbe essere messo in bocca al coro. Il primo elemento che ci si presenta è il quadruplice «Vòltati!» ritmato, quasi a scandire un passo di danza. Forse questo verbo è lanciato e ritinato dagli spettatori che acclamano la ballerina. È un invito alla danzatrice a ripetere la sua evoluzione, a ritornare alla ribalta dopo che il movimento l’ha condotta in fondo alla scena così che sia visibile ancora.La donna viene ora chiamata con un nome a sorpresa Sulammita, ignoto a tutto il resto della Bibbia. Questo nome evoca pace (8,10) e perfezione (1,8; 2,2; 4,7; ecc.), serenità e pienezza, intensità e bellezza suprema.L’appello lanciato dal coro alla Sulammita ha uno scopo ben preciso: l’assemblea desidera «ammirare» la ballerina. Siamo, dunque, coinvolti in una visione affascinante. A questo punto il versetto ha una svolta: dalla prima persona plurale passa alla seconda: «Che cosa volete ammirare nella Sulammita durante la danza dei due campi?». Non conosciamo questa danza dei due campi. Il quadro è, comunque, di grande bellezza per le movenze del corpo femminile e per il coinvolgimento generale degli astanti.b) Il canto del corpo (7,2–10)La donna è simile a una principessa nella raffinatezza delle sue calzature. Le curve dei fianchi, flessuosi nei moti ritmici della danza, sono un capolavoro d’artista. Il bacino (il vocabolo ebraico può indicare ombelico pube, grembo) è come una coppa levigata e perfetta, colma di aromi e di

42

bevande inebrianti e afrodisiache (vv.2–3). La Bibbia ci invita ancora una volta a non relegare la fisicità e la sessualità a due sole aree, quella dell’anatomia fredda e quella della pornografia miserabile. La carne è anche una parola viva d’amore, può e deve essere un termine di linguaggio e di relazione interpersonale. Il ventre è comparato, per la sua pelle candida e dorata, al grano e ai gigli, simboli di fertilità. I seni, come in 4,5, sono mobili e perfettamente uguali, come se fossero due gemelli di gazzella (v.4). Il collo si slancia verso il cielo come una torre d’avorio, materiale prezioso e aristocratico (Am 3,15). Gli occhi sono come due specchi di acqua, luminosi come un lago che riflette il cielo, ma anche ammiccanti e intelligenti. La descrizione continua col naso confrontato col Libano che incombe come una torre di guardia sulla Siria e su Damasco: prominenza, maestosità e candore. Anche il capo rimanda a un altro dato topografico celebre, il Carmelo, denso di vegetazione e quindi simile a una capigliatura folta ed elegante (v.6). Le chiome sono d’un fulvo acceso, con iridescenze di porpora, così affascinanti da impigliare un re nelle loro dolci catene. Lo sposo, ancora una volta tratteggiato con lineamenti regali, è stato imprigionato dalla malia di questi riccioli. Un’esclamazione di rapimento per questa deliziosa creatura apre il secondo movimento (v.7), dove lo sguardo abbraccia nell’insieme la donna che si erge in tutta la sua eleganza. Il pensiero del poeta corre all’albero più slanciato e più mobile della vegetazione subtropicale, la palma, e il cui nome ebraico, tamar, è portato anche da donne affascinanti (Gen 38,6; 2Sam 13,1; 14,2–7). Ai grappoli di datteri sono comparati i seni, successivamente rappresentati come grappoli d’uva (vv.8–9). Lo sposo immagina di salire su questa palma viva, di stringerla a sé, di inebriarsi del suo profumo, di gustare i suoi frutti. Ma l’immagine vegetale subito trascolora riportandoci nell’ambito somatico: i seni sono come un vino dolce, l’alito della donna è denso di fragranza come un frutto fresco, il palato, cioè i suoi baci, sono come vino squisito che scivola sulle labbra assopite dell’innamorato. Dal ritmo frenetico della danza iniziale si giunge alla fine quasi all’immobilità dell’estasi. I due innamorati si ritrovano uniti nell’ebbrezza e nell’abbandono gioioso ed esaltante dell’amore.Simboli e messaggioNel canto del corpo è il simbolismo somatico a tenere il campo e sempre col suo valore «semitico» di personalità, di unità individuale e non certamente di mera materialità e fisicità. Questa è la lezione costante del Cantico, i cui protagonisti sono convinti non di «avere» un corpo, ma di «essere» un corpo. La bellezza del corpo viene presentata con un duplice canone estetico, quello della natura, capolavoro di Dio, reso leggibile dall’amore, e quello dell’arte, «capolavoro delle mani d’artista» (7,2). Nel Cantico la natura ha un’incidenza altissima, come appare dai greggi, dalla colomba, dall’aurora, dalla luna, dal sole, dai giardini, dai noci, dal verde delle valli, dalla vite, dal vino, dal grano, dai gigli, dai laghi, dalle palme, dalle mele, dal melograno... Nel Cantico si fa menzione dei manufatti dell’uomo: le città, le torri, i monili...Il corpo, la natura, l’arte costituiscono una trilogia simbolica profondamente interdipendente nel Cantico.

 

10.NELLE VIGNE E IN CASA DI MIA MADRE

(7,11 – 8,4)

11 Io sono per il mio dilettoe la sua brama è verso di me.

12 Vieni, mio diletto, andiamo nei campi,passiamo la notte nei villaggi.

13 Di buon mattino andremo alle vigne;vedremo se mette gemme la vite,

se sbocciano i fiori,

43

se fioriscono i melograni:là ti darò le mie carezze!

14 Le mandragore mandano profumo;alle nostre porte c’è ogni specie di frutti squisiti,

freschi e secchi;mio diletto, li ho serbati per te».

8–1 Oh se tu fossi un mio fratello, allattato al seno di mia madre!

Trovandoti fuori ti potrei baciare e nessuno potrebbe disprezzarmi.

2 Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre; m’insegneresti l’arte dell’amore.

Ti farei bere vino aromatico, del succo del mio melograno.

3 La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia.

Lo sposo 4 Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,non destate, non scuotete dal sonno l’amata,

finché non lo voglia.Dopo i due grandi «a solo» di Lui, ecco risuonare di nuovo la voce dell’amata. La sezione è aperta da una variante della «professione d’amore» (7,1 1) che Lei ha già usato come sigillo di due altre unità letterarie, quelle di 2,8–17 e di 5,2 – 6,3. La finale di questo brano, invece, è un’antifona (8,4) che ha concluso già altre due unità, quella di 1,9 – 2,7 e quella di 3,1–5. La prima scena è ancora una volta campestre e primaverile, avvolta nella freschezza di un’alba; la seconda, invece, allude agli sguardi appassionati e pieni di sottintesi, scambiati per via, e approda all’abbandono felice dell’amore, quando i due sono abbracciati e la sinistra dell’amato sorregge il capo della sua donna, mentre la destra la stringe a sé.Lettura esegeticaPrimo quadro (7,11–14): nelle vigneTutto il brano echeggia ancora una volta la sigla spirituale del Cantico: «Io sono del mio amato» (v.11). La parità delle due persone, l’uomo e la donna, la certezza del loro mutuo possedersi e del loro reciproco donarsi sono ormai la celebrazione di un amore matrimoniale maturo e genuino. La parola ebraica che indica il desiderio reciproco rimanda a una pagina amara della Bibbia, alla descrizione della tensione sessuale che il peccato originale aveva introdotto nella coppia: «Verso tuo marito sarà il tuo desiderio, ma egli ti dominerà» (Gen 3,16). Un desiderio, in questo caso, insopprimibile, quasi cieco, che si scontra con la volontà di prepotenza e di dominio del maschio. Il Cantico, invece, è l’esaltazione della passione, della stessa pulsione sessuale, del desiderio, ma solo in quanto è alimentato e trasformato dal lievito dell’amore. La passione, allora, perde ogni traccia di egoismo ed esprime la purezza della donazione.Con un invito delicato e tenero, la donna conduce poi per mano il suo uomo in campagna, per i sentieri dei prati primaverili, e ai suoi cespugli profumati. In campagna le veglie notturne saranno deliziose. Appena la prima luce segnerà all’orizzonte l’apparire dell’aurora, i due correranno per le vigne che ora stanno mettendo i germogli. Si sentiranno in sintonia con la natura che ora è colma di energia, di linfa di vita. I loro occhi si poseranno sui fiori; le loro mani si fermeranno sulle gemme dei melograni, il frutto dell’amore e della fecondità; i loro sensi saranno eccitati dall’aspro aroma della mandragora. In questa atmosfera carica di vitalità, la donna è felice di poter donare al suo sposo «i suoi amori», cioè tutta quella trama visibile di carezze, di tenerezze, di atti d’amore che rendono visibile e sperimentabile un legame interiore. La coppia si avvia, allora, verso la casa che la ospita per vivere questa intensità d’amore. Ed ecco che, sulla soglia, quasi come in una sorpresa, sono pronti alcuni frutti che la donna ha raccolto: ci sono frutti freschissimi e fragranti, ma ci sono

44

anche i frutti ben stagionati dell’annata precedente. La donna, in tutto questo progetto di viaggio nelle vigne e nella campagna, non ha fatto che pensare a Lui, e per Lui ha preparato un segno antico e nuovo, come è il loro amore, e ora lo consegna a Lui che ne è il solo, vero destinatario.Il ritornello–antifona (v.11)L’autore del Cantico non ha mai usato questa professione d’amore in modo identico, ma sempre in un crescendo e in un progresso di intensità (cfr. 2,16; 6,3; 7,11).Tutto si concentra sull’espressione «il suo desiderio». Il termine ricorre solo qui e in Gen 3,16; 4,17. Nel caso della Genesi il contesto era negativo perché riguardava il giudizio divino sul peccato originale dell’uomo. In Gen 3,16, infatti, si emette la sentenza divina sulla donna: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo desiderio, ma egli ti dominerà». Lo spezzarsi del rapporto uomo–donna, dopo il peccato, tocca esplicitamente la relazione sessuale. Prima del peccato essa era rappresentata come dialogo e unione; era la continua e meravigliosa scoperta di essere «una carne sola», di essere l’uno nell’altra, di essere in comunione profonda di vita (Gen 2,23). Ora, invece, tutto è retto dall’istinto, dalla pulsione, dal desiderio egoista, a cui si accompagna il possesso brutale del maschio sulla donna: il verbo dominare in ebraico è usato per i potenti, i re e i tiranni.Il poeta del Cantico, raccogliendo quel raro vocabolo da Gen 3,16, vuole portare il «desiderio» al suo significato primordiale e creativo di desiderio tenero e appassionato, sanando la degenerazione che lo aveva fatto scadere a puro istinto e pulsione egoistica. «All’uguaglianza dell’uomo e della donna di Gen 2,21ss, dove la donna era data dal Creatore a suo marito come un aiuto simile a lui, un aiuto che gli era pienamente in sintonia, si sostituiscono in Gen 3,16 la disuguaglianza e il disprezzo della dignità della donna. Questo stravolgimento del significato primitivo dell’unione coniugale ha la sua radice nel peccato» (O. Procksch). Il Cantico, riprendendo lo spunto, riporta il matrimonio alla sua pienezza «paradisiaca», cioè al progetto divino, al modo con cui Dio aveva voluto uomo e donna. «Cantico 7,11 riprende, perciò, Gen 3,16 per differenziarsi volontariamente, descrivendo un amore umano che ha ritrovato il suo vero senso, forse sul modello dell’amore divino» (Lys). Entrambi i testi – Gen 3,16 e Ct 7,11 – «parlano dell’istinto sessuale come qualcosa di donato da Dio, voluto da Dio. Ma, mentre là l’impulso della donna verso l’uomo appare come un’arma sospetta nella mano dell’uomo, qui la consapevolezza di essere così ardentemente desiderata da Lui serve soltanto all’aumento della compiacenza di sé nella donna» (W. Rudolph). È significativo anche notare che in Ct 7,11 avviene un altro mutamento rispetto a Gen 3,16. Là era il desiderio della donna a tendere verso l’uomo, quasi in un bisogno di sottomissione a cui non poteva sottrarsi; ora è il desiderio dell’uomo ad essere orientato verso la donna che lo desidera e attende. C’è, quindi, una prospettiva più «femminile» che, però, si risolve in un appello all’armonia, in un incontro di parità, perché la donna ha già dichiarato di appartenere al suo uomo.Scena d’amore campestre (vv.12–14)La «campagna» è sinonimo del giardino, spesso evocato, e della natura trasfigurata che accompagna costantemente i due innamorati. Essa è carica di allusioni anche antropologiche, perché si tratta di un paesaggio psicologico, specchio della vicenda personale; è una geografia somatica, immagine della vicenda amorosa.Si va nella campagna per godere, per sentire la vita, per incontrare la «vigna» – e sappiamo quali connotazioni il termine trascina con sé – per gustare il sapore dell’amore, della tenerezza dell’abbraccio. In questo senso il paesaggio è certamente simbolico. Anche il salmo «matrimoniale» 128 presenta la sposa «come vite feconda nell’intimità della casa» (v.3). Nell’atmosfera dolce e profumata delle vigne, la donna offre al suo uomo le sue carezze, i suoi baci, i suoi gesti teneri e appassionati. L’abbraccio è ormai pieno e totale; le viti suggeriscono gesti d’amore inebrianti (1,2.4), gesti stupendi e affascinanti (4,10). Ormai tra creato e persona si stabilisce un intreccio simbolico; i segni naturali dell’amore diventano ora realtà viventi nei corpi e nelle anime. I frutti antichi e nuovi sono la bellezza antica e sempre nuova dell’amore.Il quadro, che è stato inaugurato da una professione d’amore (v.11), viene sigillato da una dichiarazione di donazione totale. Al centro domina, allargandosi in tutte le direzioni, un giardino

45

delle delizie in cui la donna invita il suo uomo a entrare. In questo «paradiso» troverà in pienezza la felicità e la pace.Secondo quadro (8,1–4): nella «casa di mia madre»La donna desidera ardentemente condurre a casa sua l’innamorato e farselo suo sposo legittimo, per rivelargli in ogni luogo e in ogni tempo ciò che le arde nel cuore. Le rigide convenzioni orientali impedivano la spontaneità delle effusioni anche tra due sposi quando essi si trovavano in un luogo pubblico o in presenza di estranei. La donna sembra quindi abbandonarsi a una specie di sogno: se il suo sposo fosse suo fratello di sangue o di latte, appartenente allo stesso clan, ella, incontrandolo per le strade della città, potrebbe baciarlo e nessuno malignerebbe (v.1). L’innamorata desidera fondere nella fiamma dell’amore tutti i legami interpersonali: ella vorrebbe che il suo amato fosse anche suo fratello carnale, così da avere con Lui una comunione assoluta, ufficiale, simile a quella codificata in pubblico tra fratelli e sorelle della stessa famiglia. L’aspirazione della donna è quella di poter comunicare ai quattro venti, senza le riserve delle convenzioni, il proprio amore. È il desiderio di urlare al mondo la propria gioia.L’espressione «casa di mia madre» vuole significare il desiderio dell’innamorata che vorrebbe riportare l’amato nel suo grembo vitale per rigenerarlo non più come «fratello–sposo», ma come «fratello di sangue». Attraverso il matrimonio e l’atto d’amore celebrato nella «casa di mia madre», il «fratello» coniugale diventerebbe anche «fratello» familiare, in un legame pieno e in una intimità assoluta.La sposa del Cantico offre se stessa, la meraviglia inebriante dei suoi baci, la dolcezza del suo viso, l’intensità delle sue carezze, la realtà calda e fremente del suo corpo, ma desidera che lo sposo non l’accolga solo eroticamente, come un dato sessuale, ma come un ambito di esperienza in cui anch’egli partecipi personalmente «iniziandola» all’intimità. L’amore è un dialogo dei corpi e delle menti, dell’eros e dell’agàpe: non può essere condotto su uno solo di questi registri. È necessario riconsiderare il senso del corpo come parabola dell’esistenza, come grande simbolo di comunicazione, anche e soprattutto nella sua dimensione sessuale: la fisicità dell’amore è espressione di felicità, di vigore e di dolcezza, di energia vitale, di ebbrezza, di intimità suprema.Dopo il desiderio (vv.1–2), ecco l’attuazione (vv.3–4), in un sapiente dosaggio di attesa e di presenza, di sospiro e d’incontro, di conquista e di possesso realizzato. Ora i due sono insieme e il loro desiderio si placa: il sogno d’amore della donna non è approdato a un’alba delusa, ma al mattino splendido dell’amore. Nulla deve interferire e spezzare, nulla deve interrompere o modificare i ritmi dell’amore, espressi attraverso il simbolo del sonno e del risveglio. Col quadro di riposo e di silenzio, di abbandono reciproco e di possesso di questo ultimo versetto si chiude l’aspirazione della donna a un incontro perfetto e assoluto tra Lei e il suo amato.La vera spiritualità del Cantico, la sua grande lezione sull’amore umano e divino, fiorisce meravigliosamente in questa storia d’amore.Simboli e messaggioLa campagna, gli alberi, le vigne, i fiori, i frutti e tutte le bellezze della natura ci riconducono sempre all’intimità, alla freschezza e alla bellezza dell’amore. Nella natura si legge soprattutto il corpo di Lei, che viene dipinta come una sintesi delle meraviglie cosmiche, come una raffigurazione della Madre Terra, in tutto il suo splendore fecondo.Dall’amore umano si sale a comprendere le molteplici espressioni dell’Amore. Il Cantico ci fa balenare un senso superiore dell’amore che cerca spazi nuovi e infiniti.In definitiva, la costola che Adamo, l’uomo di tutti i tempi, cerca nella sua donna è Dio stesso, Amore e fonte di ogni amore! 

11.L’AMORE E’ FORTE COME LA MORTE

(8,5–7)

46

5 Chi è colei che sale dal deserto, appoggiata al suo diletto?

Sotto il melo ti ho svegliata;là, dove ti concepì tua madre,

là, dove la tua genitrice ti partorì.La sposa 6 Mettimi come sigillo sul tuo cuore,

come sigillo sul tuo braccio;perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione:le sue vampe son vampe di fuoco,

una fiamma del Signore!7 Le grandi acque non possono spegnere l’amore

né i fiumi travolgerlo.Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa

in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio.Siamo davanti alla pagina più alta del Cantico, al suo vertice ideale, al suo epilogo.Lettura esegeticaCon la domanda introdotta dal coro: «Chi è costei che sale dal deserto... ?» si crea un’atmosfera di stupore. Da lontano, nel silenzio del deserto, nella solitudine e nella pace, appare una coppia: la donna incede appoggiata al suo amato. Mentre la coppia avanza e s’avvicina sempre più al coro, ecco una voce levarsi squillante. È quella della sposa che intona il suo canto d’amore.L’«a solo» della donna si apre con un percorso poetico un po’ misterioso. Si dilata poi in un’«aria» di grande potenza ed esaltazione (vv.6–7a) e si smorza in un «piano» moderato, ormai privo di quel fuoco che aveva pervaso il movimento centrale (v.7b).La purezza della poesia riesce a esprimere con un linguaggio spoglio ed essenziale un’intuizione molto profonda. Al centro c’è un melo, l’albero dell’amore già cantato in 2,3: era, dunque, all’ombra dell’insegna dell’amore che lo sposo si era addormentato. La donna l’aveva risvegliato, riportandolo al desiderio cosciente. In quel momento di meravigliosa tenerezza, ella sente di essere per il suo uomo non solo sposa e «sorella», ma quasi madre. L’amato è pienamente uomo e persona non solo perché c’è stata una madre che lo ha partorito, ma anche perché c’è una sposa che, in qualche modo, lo genera a nuova vita. Il luogo dell’amore («sotto il melo») viene spiritualmente a coincidere col luogo della nascita dello sposo, dove la madre l’aveva concepito e partorito. È come se la donna dicesse: io ora con il mio amore ti sveglio per una nuova nascita. Come scrive Lys, ora la donna dice al suo amato: «Tu stai per nascere di nuovo nel luogo stesso in cui fosti concepito da tua madre, cioè non nella tua casa, ma nell’abbraccio d’amore».«Essere assisa all’ombra del melo e prendere riposo tra le braccia dello sposo sono due metafore che hanno nel Cantico esattamente lo stesso significato. Il melo è lo sposo in persona» (Buzy).Con la sposa del Cantico giungiamo anche noi davanti a quel melo che è segno dell’amato. Là la forza della poesia e dell’amore riuscirà a ricreare l’evento magico ed esaltante della nascita dell’amato: e quasi in sovraimpressione che il poeta accosta il risveglio per l’amore al risveglio della nascita, in una libertà creativa di straordinaria potenza. Dove ora i due sono abbracciati, «là» si erano abbracciati la madre e il padre dello sposo, dandolo alla luce, e la sposa vuole quasi unire questi due momenti germinali della vita del suo amato.I vv.6–7a sono la strofa centrale del canto d’amore della donna, una strofa che sale di tono e di intensità, quasi alla ricerca di una parola suprema e perfetta. Il Cantico in pratica si chiude qui.La sposa vuole ora esprimere la donazione totale che sigilla per sempre l’amore. È per questo che il simbolo usato è quello del sigillo, espressione di un desiderio impetuoso di vicinanza e di unità. La sposa vuole che l’intelligenza, la volontà, l’affettività, l’azione, la personalità intera dell’uno si trasfondano, si attacchino, si avvinghino all’altra in piena simbiosi.Questa reciproca appartenenza non può essere infranta neppure dalla morte.

47

Amore e Morte si scontrano e si fronteggiano in un duello implacabile, gridando: «Dammi, dammi! Non si saziano mai, non dicono mai: basta!» (Pr 30,15). Ma l’Amore con la sua passione ardente ed esclusiva, la sua «gelosia» riesce a sopravvivere alla Morte. Le sue fiamme, infatti, sono fulmini che Dio scaglia sulla terra. Le fiamme dell’amore sono di «Jhwh», sono divine, invincibili e inestinguibili come quelle del «roveto ardente del monte di Dio, Horeb, avvolto in un fuoco che non si consumava» (Es 3,2).Una fiamma colossale, dunque, che – se non si riduce l’unica citazione del nome divino, presente nel Cantico in questo punto, a un mero superlativo – attesta che l’amore partecipa alla forza stessa di Dio, essendo di sua natura vita come Dio, il Vivente. L’Amore riesce a resistere anche alle acque infernali del caos. Le prove della vita, gli incubi quotidiani e le disgrazie non potranno mai staccare la sposa dal suo amato. Entrambi passeranno indenni attraverso tutti gli «inferi» e tutte le paludi del dolore, della crisi, della desolazione conservando intatta la fiamma del loro amore che non verrà meno. «Forte come la Morte è l’Amore». Nell’amore umano si gusta la primizia della vita intangibile e indistruttibile di Dio stesso. È un’irruzione dell’eterno nella storia ed è un aprirsi della storia all’eterno.Agli inferi, o Sheol, che sono l’anti–mondo, dove domina il silenzio (Is 38,18), si cancellano i colori, e l’esistenza si riduce a una pallida larva, il poeta del Cantico contrappone la gelosia. Il Cantico si regge su una precisa oscillazione interiore tra tensione–gelosia e possesso–riposo. L’amore del Cantico ha una forte connotazione di esclusività e di unicità che può molto bene essere rappresentata simbolicamente dalla gelosia. Il tema della gelosia ha un largo uso anche nella Bibbia, soprattutto in contesto nuziale (cfr. Pr 6,34; Ez 16; 2Cor 11,2). Ma questa simbolica, col suo intreccio di amore e di possesso esclusivo, ha la sua più alta celebrazione in ambito teologico. La «gelosia» di Dio è una costante delle raffigurazioni di Dio, è quasi un suo titolo specifico, una «carta di identità di Dio» (Gelin): «Jhwh si chiama Geloso; egli è un Dio geloso» (Es 34,14). È un tema ribadito spesso in contesto anti–idolatrico perché Dio rivendica nei confronti di Israele la sua proprietà esclusiva e non tollera che gli venga alienata. La gelosia è la tutela amorosa della realtà amata, per cui «la gelosia traduce la sicurezza totale del fedele» (B. Renaud). Ma, mentre per noi spesso la parola gelosia ha un valore quasi esclusivamente negativo, per l’autore del Cantico essa è un sinonimo di amore. Il vero innamorato è geloso non per un egoismo o tornaconto personale, ma perché vuole preservare la persona amata da scelte sbagliate e fallimentari.L’amore riesce a partecipare della stessa forza divina: nessun genere di difficoltà, nemmeno quelle capaci di distruggere l’intera creazione, può soffocare l’amore.Il canto della sposa nel Cantico si chiude con un aforisma sapienziale che oppone Amore e Denaro. La donna del Cantico afferma in maniera inequivocabile che l’amore non si acquista, non è commerciabile, non è pagato. E’, perciò, degno di disprezzo chi si illude di considerare l’amore come merce di scambio o come oggetto. Ma il centro del suo pronunciamento è nel contrasto ricchezza–amore, per affermare il primato assoluto dell’amore.Simboli e messaggioL’elemento centrale del brano è la potente serie di antitesi che contrappongono Amore e Morte, Gelosia e Sheol, Fuoco sacro e Grandi Acque caotiche, Amore e Ricchezza. L’amore è l’unica realtà che, come Dio, non deve piegarsi alla legge inesorabile del morire.Il Cantico nell’amore della donna per l’uomo ha voluto rappresentare l’Amore le cui declinazioni sono infinite ma sarebbero impossibili senza il simbolo di partenza, quello di Lei e di Lui abbracciati. Sono loro ad offrirci linguaggio e immagini per esprimere ogni altro amore, compreso quello trascendente e supremo di Dio.

 

48

12.MURAGLIA E VIGNA

(8,8–14)Due epigrammi 8 Una sorella piccola abbiamo,

e ancora non ha seni.Che faremo per la nostra sorella, nel giorno in cui se ne parlerà?

9·Se fosse un muro,le costruiremmo sopra un recinto d’argento;

se fosse una porta,la rafforzeremmo con tavole di cedro.

10 Io sono un muroe i miei seni sono come torri!

Così sono ai suoi occhicome colei che ha trovato pace!

11 Una vigna aveva Salomone in Baal–Hamòn;egli affidò la vigna ai custodi;

ciascuno gli doveva portare come suo frutto mille sicli d’argento.

12 La vigna mia, proprio mia, mi sta davanti:a te, Salomone, i mille sicli

e duecento per i custodi del suo frutto!Ultime aggiunte 13 Tu che abiti nei giardini

– i compagni stanno in ascolto –fammi sentire la tua voce.

14 «Fuggi, mio diletto,simile a gazzellao ad un cerbiatto,

sopra i monti degli aromi!».Il Cantico ha raggiunto il suo vertice in 8,6–7. Ma ecco che dopo quell’«acuto», la trama musicale continua. Si ha l’impressione di essere in presenza di una chiusura in tono minore. In un certo senso siamo di fronte a un testo inatteso, a una sorpresa.Lettura esegeticaLa sezione dei vv.8–14 si presenta con una sua originalità; ricupera materiali già noti del Cantico, ma li orienta verso nuove prospettive e con nuovi scenari e temi.I vv.8–10 ci presentano due battute del dialogo tra i fratelli e la «sorella piccina».Il coro dei fratelli esprime il pensiero dei fratelli della donna e riflette un atteggiamento già apparso in una delle prime scene del Cantico, quando la sposa aveva fatto balenare la sua paura nei confronti dei fratelli–tutori (1,6).Anche qui i fratelli appaiono come i rigidi difensori della giovane sorella, con una punta di dominio e possesso che la donna non vuole avallare. Per gli orientali (e non solo per loro!) la donna è sempre un’eterna «minorenne».A prima vista il v.8 è abbastanza lineare. I fratelli affermano di avere una sorella ancora giovane, inadatta al matrimonio perché ancora nella primissima pubertà: infatti, i seni, che sono i segni della maturità sessuale, sono appena spuntati. La ragazza reagirà puntigliosamente nel v.10, affermando il suo diritto a sposarsi perché ormai i suoi seni sono turgidi, come quelli di una vera donna fatta.Alla convinzione dell’immaturità della ragazza, espressa dai fratelli, si oppone il contesto del Cantico, che è la celebrazione di un amore sbocciato e cresciuto. Inutilmente i fratelli si oppongono e vanamente progettano matrimoni o tutelano la loro consanguinea ai fini di un bel partito matrimoniale. Lei ha già fatto la sua scelta nella libertà e nella freschezza della sua giovinezza. Il Cantico è proprio questa sorprendente esaltazione della libertà e dell’indipendenza dell’amore che

49

non conosce condizionamenti e che infrange convenzioni consolidate, tempi e momenti. Una simile visione è ancor più sorprendente e originale perché il Cantico è sorto in una cultura così rigida riguardo ai ruoli dell’uomo e della donna, com’era quella semitica.Il v.9 ci presenta il ragionamento dei fratelli che, a tutela della verginità della sorella, un bene anche molto «commerciale» a quei tempi, sono pronti a costruirle attorno un sistema invalicabile e poderoso di difesa.Le immagini fondamentali sono due, entrambe introdotte da un "Se...". La prima è quella della muraglia di città, sulla quale si ergono torri di guardia contro le incursioni nemiche. Il secondo simbolo è quello della porta. Se la ragazza è già pronta alla difesa della sua verginità (è una muraglia), i fratelli ne completeranno le difese; ma se essa fosse troppo libera, come una porta aperta, cioè incurante della sua verginità, essi la bloccherebbero con tavole di cedro, forti, robuste ed eleganti. Il libro del Siracide esorta il padre: «Fa’ buona guardia a una figlia libertina, perché non se ne approfitti se trova indulgenza... Come un viandante assetato apre la bocca e beve qualsiasi acqua a lui vicina, così essa siede davanti a ogni palo e apre a qualsiasi freccia la faretra» (26,10.12).Alle considerazioni dei fratelli, la donna replica contestando le loro affermazioni su di Lei e opponendo la sua maturità umana, la sua personalità e la scelta già compiuta. La ragazza riprende la comparazione usata dai fratelli e si dichiara simile a una muraglia che sa, da sola, tutelare ciò che contiene e respingere ogni tipo di assalto. Si tratta di una dichiarazione di autocoscienza molto originale e provocatoria. D’altra parte la sorprendente originalità del Cantico è proprio nell’aver concesso in pienezza la parola alla donna. Essa non si sente né "minorenne" né "minorata", né "immatura" né "incompleta" e lo afferma con la ripresa polemica del linguaggio e dell’immagine usati dal fratelli. Essa non si considera come un bene da proteggere e conservare per non sminuire il suo valore, ma come una viva sorgente di benessere, di felicità e di pace per la persona che la ama. Alludendo al tema della «dote», che ha il suo vertice nell’integrità fisica, vista come merce pregiata, il Ct 8,8–10 è l’unico passo dell’Antico Testamento dove, proprio per bocca della donna, viene elevata una protesta contro il costume di acquistare la sposa, degradandola così a oggetto e abbassando la verginità a prodotto commerciale. Il poeta canta qui l’amore vero che si fonda sulla libera scelta del cuore.Essa accetta l’immagine del «muro» per rappresentare la sua persona e la sua verginità, ma subito aggiunge di non essere una ragazzina perché il suo seno è ormai florido, segno di maturità sessuale, ma anche di pienezza personale. La donna lo presenta come "torreggiante" nella sua imponenza. Le «torri» dei seni che incombono sulla muraglia–donna hanno una funzione attrattiva: conquistano, incantano, affascinano come tutta la persona della sposa. A nulla gioverebbero le merlature d’argento che i fratelli volevano aggiungere alla muraglia–donna con funzione protettiva. A questo punto, la donna conclude il suo discorso essenziale con una dichiarazione capitale, che svela la sua scelta d’amore, già compiuta. Proprio a questo punto entra nuovamente in scena Lui, l’amato. La vita e la realtà della donna si snodano tutte alla luce di quello sguardo, di quella presenza. Giungiamo, così, al vertice delle parole della donna. Essa è «colei che ha trovato la pace» oppure «colei che dà pace, pienezza, prosperità, felicità» al suo amato. Donando se stessa, la sposa genera la felicità e la pienezza totale nel cuore del suo amato. Essa non ha bisogno di difesa da parte dei fratelli, non ha bisogno di trattative matrimoniali, non ha bisogno di crescere perché, avendo Lui, ha tutto. È chiaro, comunque, che in questo eventuale rimando dei due significati abbiamo la decifrazione finale dello pseudonimo sotto cui i due si sono nascosti: Sulammita e Salomone. Essi si chiamano così perché hanno trovato con l’altro lo shalóm, la pienezza e la felicità, e perché essi sono l’uno per l’altro radice di pace e di perfezione totale.Amarsi è shalóm, cioè realizzazione piena della creatura umana. Con il suo "io" sicuro, la donna spazza via una concezione dell’amore burocratica ed esteriore, superficiale e convenzionale. La sua esperienza la rivela ben maggiore rispetto ai fratelli che la considerano piccola. È Lei l’unica, vera persona della sua famiglia e questo è avvenuto perché la vera maturità la si ottiene amando. Con una sorprendente limpidità spirituale e poetica ella dichiara: «lo sono una muraglia e i miei seni

50

come torri. Così, ai suoi occhi sono (come) colei che ha trovato (veramente) la pace (felicità, pienezza)». La parola shalóm del v.10 offre probabilmente lo spunto al coro per inserire una specie di parabola che ha come protagonista «Salomone». Senza specificazioni, il coro introduce in modo quasi narrativo una storia. Entra subito in scena la «vigna» di Salomone che, nella filigrana allusiva, potrebbe essere considerata una metafora dell’harem del re, soprattutto a causa del contrasto col v.12, dove la «vigna» personale della donna del Cantico è, come in 1,6, un riferimento alla sua identità femminile. D’altronde, quelle «mille» monete d’argento successive non possono non provocare uno spontaneo rimando alla nota, probabilmente già favolosa di 1Re 11,3: «Aveva settecento principesse per mogli e trecento concubine». Il contrasto è, perciò, tra una vigna immensa e l’unica vigna personale, più o meno come era già avvenuto, in modo non traslato, in 6,8–9 (l’harem immenso di mogli principali, secondarie e aspiranti da una parte, e dall’altra l’unica «colomba»). Il racconto ha, dunque, un taglio squisitamente simbolico e si regge sull’antitesi tra molteplicità e unità, tra possesso e amore, tra splendore erotico e monogamia d’amore, tra ricchezza e donazione.Il poeta del Cantico oppone al re Salomone la figura dell’amato che, pur nella semplicità e nella modestia, risulta alla fine più grande di lui, divenendo il vero «Salomone», cioè l’«amato» della donna del Cantico.Alla base dei vv.11– 12 sta la contrapposizione tra due vigne, l’una enorme e stupenda, l’altra semplice e unica. Al di là dell’immagine si contrappongono gli amori del re Salomone con l’Amore del Salomone ideale, il re–sposo del Cantico; si fronteggiano le mille donne, immerse nella ricchezza, del re Salomone all’unica Sulammita, l’unica che ha in sé il sigillo vero dello shalóm, della pienezza, della felicità, l’unica che questo shalóm può offrire rendendo veramente Salomone, «uomo della pace», il suo uomo.All’iniziale del v.11 «una vigna aveva Salomone» ora si oppone «la mia vigna» della protagonista. Alla vigna di Salomone, affidata ai custodi (probabilmente gli eunuchi di corte) e così impersonale pure nella sua abbondanza, si oppone la vigna–persona, un «io» cosciente che rivela un’identità e una libertà di donazione. La coscienza fondamentale che la donna sottolinea è quella della sua anatomia: la sua femminilità e personalità non hanno bisogno di custodi perché non la vende a nessuno, ma la dona. In finale si ripropone uno dei motivi più alti e più originali del Cantico, quello della personalità, della libertà e della gratuità dell’amore. La dichiarazione della protagonista del Cantico, dopo questa proclamazione di autoappartenenza, si rivolge quasi in modo provocatorio al re Salomone, raccogliendo il motivo della rendita della vigna. La reazione della donna è sferzante e coinvolge sia Salomone che i suoi zelanti «custodi», entrambi definiti solo a livello finanziario: «A te, Salomone, i mille pezzi, e duecento ai custodi del suo frutto!» (v.12b).La cifra colossale, ricavata dalla vigna, viene quasi buttata in faccia al re, perché i valori dell’amore sono su un piano più alto e non sono commerciabili o monetizzabili.Le ultime battute del Cantico sono un duetto tra Lui e Lei, i due protagonisti dell’opera. Ritornano in scena i compagni dello sposo, quasi a riproporre un senso corale e nuziale a tutta la scena. Loro e Lui e tutti coloro che hanno seguito questa vicenda di poesia e di amore, di eros e di spiritualità sono in attesa della voce dolcissima della «signora della vigna e dei giardini» dell’amore, del più bel fiore dell’oasi, dell’amata. A quella domanda piena di desiderio Lei risponderà intonando il motivo della sua canzone d’amore. Il v.13 ci presenta la donna come immersa in un giardino fantastico che le fa da residenza, da manto fiorito e da oggettivazione della sua intimità e interiorità. Poi ci presenta i compagni, gli amici dello sposo. Essi sono protesi nel silenzio, pronti a cogliere quella voce che anche lo sposo attende.L’invocazione del v.13 riassume in una battuta l’appello dell’amato in 2,14: «O mia colomba, che sei nelle fenditure della roccia, nel segreto dei dirupi, fammi vedere il tuo viso, fammi sentire la tua voce perché la tua voce è soave e il tuo viso affascinante».Alla fine di quella scena, la donna aveva risposto con un canto altissimo e intenso: «Il mio amato è mio e io sono sua, di lui che pascola tra i gigli. Prima che spiri la brezza del giorno e fuggano le ombre, volgiti, mio amato, simile a una gazzella o a un cucciolo di cervo sui monti di Beter» (2,16–

51

17). Quella risposta è ora condensata in una battuta all’interno del v.14, con alcune variazioni suggestive.Qui, in undici parole ebraiche, la donna condensa il contenuto del Cantico: risuona il perfetto vocabolo dell’amore, dódi «mio amato»; riappare la natura vivente con la gazzella e il cerbiatto, gli animali dell’amore; si profila all’orizzonte il monte simbolico del balsami, cioè dell’ebbrezza dell’incontro dell’amore. Ma, su tutto, ecco quell’invito alla fuga, alla corsa, al movimento verso l’alto (il monte). È un invito a cercare, a lasciare alla spalle il passato per incontrare, con la festosa agilità del cervo, quell’amore che non è mai del tutto posseduto definitivamente. Esso, infatti, è sempre da inseguire perché non è mai completamente raggiunto e posseduto; è, invece, vita, libertà, spirito, felicità, perenne novità.La donna invita il suo amato a «fuggire» e quindi a «rifugiarsi» «sui monti dei balsami». Ora sappiamo che quest’ultimo simbolo, pur evocando tutto lo splendore della natura in modo emblematico, è per certi aspetti una variazione dell’immagine del giardino, della vigna, del «paradiso» colmo di vegetazione e di aromi, di vita e di bellezza. E tutto questo è, come è stato dimostrato, la donna stessa nella sua intimità e nel suo fascino. La donna del Cantico non fa altro che invitare il suo amato a «fuggire» da tutto il resto, per immergersi in Lei. È quasi un uscire da se stesso, è un abbandonare tutto, per correre verso un orizzonte profumato e beatificante, che è sempre e poi sempre la sua amata. I «monti dei balsami», come i «monti di Beter» in 2,17 o il «monte della mirra» in 4,6, altro non sono che un’immagine di Lei, la pienezza dell’ebbrezza e della felicità dell’amato. Entrando in Lei, l’amato entrerà nell’infinito dell’amore.Simboli e messaggioL’ultimo appello del Cantico è quello alla «fuga», cioè all’andare al di là e oltre il quotidiano e la banalità, per entrare nel mondo misterioso dell’intimità. L’ultima parola del libretto è «balsamo», cioè aroma, profumo, incanto da gustare su un monte ideale della trasfigurazione. L’ultima immagine è quella viva e mobile della gazzella, segno di freschezza e giovinezza. L’ultimo termine d’amore è dodì, il più intenso e tenero dei vezzeggiativi d’amore. L’ultima realtà è l’intimità, la comunione non posseduta definitivamente, ma da conquistare all’infinito e sempre, perché infinita ed eterna.Il brano 8,8–14 può ben figurare come sigillo del Cantico, perché rivela dichiarazioni di grande intensità e riassume il contenuto di tutto il libretto, che è un canto dell’amore con tutto il suo ardore, dell’amore con tutte le sue passioni, le sue angosce e le sue estasi.Saluto alla donna del CanticoGiunti al termine del nostro viaggio all’interno nel Cantico, dopo aver ascoltato le voci tenere e appassionate, ma talora anche screziate dalla paura o dall’attesa dei due protagonisti, Lei e Lui, ci accomiatiamo da questa opera straordinaria con un saluto. E il saluto va soprattutto a Lei che ha recitato la parte fondamentale del dramma.Il Cantico continua a vivere nell’amore della coppia di tutti i tempi e di tutte le terre. Il Cantico è esaltazione dell’amore mutuo, oblativo, perfetto, fatale, puro. Ma è suggestivo che le prime, le ultime, le maggiori e le migliori parole del Cantico siano pronunciate da Lei, la sposa, la sorprendente protagonista di uno scritto nato in un ambiente e in una cultura così poco attenti alla realtà femminile. Sembra quasi che la forza e il fuoco di questa Parola di Dio, di questo «manuale della Rivelazione sull’affetto, sull’amore, sulla sessualità» (G. Krinetski) vogliano spezzare la gelida cristallizzazione delle tradizioni.Nel volto della Sulammita si intravedono i lineamenti di tutti i volti femminili, spesso segnati dalla sofferenza, ma luminosi perché essi portano al mondo un valore e una luce decisivi. È la donna del Cantico a tenere una lezione perfetta sul vero amore, sulla tenerezza, sull’eros, sul sentimento, sul mistero divino che si cela nella comunione umana. È Lei a riannodare il filo interrotto dell’amore, è Lei a svelare i segreti dell’intimità, è Lei a far scoprire il senso ultimo della donazione totale reciproca. E Lui, educato da Lei con dolcezza, comprende che il «monte dei balsami» non è una meta raggiunta una volta per sempre, ma è un orizzonte che si deve sempre cercare, perlustrare, desiderare.

52

La donna del Cantico ci invita a purificare lo sguardo e il cuore perché l’amore risplenda nitido in tutte le sue forme, a partire da quella che in Genesi 1–2 e nel Cantico è considerata come la forma fondamentale, l’amore di coppia, sorgente e rappresentazione di tutte le altre forme d’amore (parentela, amicizia, solidarietà...), compresa quella dell’amore di Dio.

53