I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte...

36
I confini della nozione cristiana di redenzione: integralità e universalità della salvezza. martedì 8 ottobre 2013 22:44 Parte II: I confini della redenzione Presentazione mercoledì 18 settembre 2013 10:28 Introduzione La parte I ci ha già sufficientemente introdotto alla nozione teologica di redenzione. Da essa ricaviamo un idea sufficiente di quali contesti e orizzonti richiami il linguaggio cristiano sulla redenzione. Tuttavia la nostra esplorazione sui modelli storici di redenzione si è fermata prima dell'epoca moderna. Abbiamo fatto così perché ritengo che il periodo moderno (dal seicento in poi) non abbia espresso modelli di redenzione veramente significativi; ha invece espresso delle critiche significativi alle idee cristiane in uso sulla redenzione. Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: La critica della redenzione per mezzo del sacrificio espiatorio La critica della redenzione come divinizzazione dell'uomo. La critica della redenzione come possibilità esclusiva del cristiano. La critica alla redenzione per mezzo del sacrificio espiatorio. Tratto da: B. Sesboüe, Gesù Cristo, l'unico mediatore. Saggio sulla redenzione e la salvezza. I. Problematica e rilettura dottrinale, Paoline, Roma 1990, 49-50.51 Lo scandalo della morte non deriva solo dalla sua materialità, ma anche e più ancora dal senso che il più delle volte le si attribuisce. Si attribuisce al cristianesimo il ragionamento seguente, inaccettabile a motivo dell’idea di Dio che esso suppone: la giustizia di Dio è stata gravemente lesa dal peccato dell’uomo; tale giustizia va « placata » e soddisfatta con una compensazione dolorosa che sia all’altezza della gravità dell’offesa. Questa idea di compensazione è associata a quella di vendetta o di giustizia vendicativa, che deve punire in proporzione al male. Gesù, accettando la sua morte cruenta, soddisfa questo doppio aspetto della giustizia. Offre a Dio il ‘preliminare’ che placa la sua collera e gli permette di riconciliarsi con l’umanità. L’incarnazione redentrice appare allora come uno 'stratagemma » inventato da Dio per ottenere quello che l’uomo peccatore era divenuto incapace di compiere. Non vi è infatti perdono senza un prezzo pagato in cambio a Dio. Tale caricatura dottrinale troppo diffusa tra la gente ci mostra un Dio vendicatore che sfoga la sua collera sul proprio Figlio, un Dio violento, un Dio anche sovranamente ingiusto, per che istituisce deliberatamente la sofferenza, un Dio che vuole che « gli sia pagata cara ». Ho sentito dire che un teologo aveva paragonato l’atto di Cristo al caso di Massimiliano Kolbe, il quale si era offerto di prendere su di sé la pena comminata per liberare un padre di famiglia. Questo teologo aveva coscienza che attribuiva così implicitamente a Dio il ruolo delle SS? Questo riassunto semplificatore mette in discussione la comprensione di vari termini chiave della teologia della redenzione: sacrificio, espiazione, soddisfazione, sostituzione. [ … ]

Transcript of I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte...

Page 1: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

I confini della nozione cristiana di redenzione: integralità e universalità della salvezza. martedì 8 ottobre 2013 22:44

Parte II: I confini della redenzione Presentazione mercoledì 18 settembre 2013 10:28

Introduzione La parte I ci ha già sufficientemente introdotto alla nozione teologica di redenzione. Da essa ricaviamo un idea sufficiente di quali contesti e orizzonti richiami il linguaggio cristiano sulla redenzione. Tuttavia la nostra esplorazione sui modelli storici di redenzione si è fermata prima dell'epoca moderna. Abbiamo fatto così perché ritengo che il periodo moderno (dal seicento in poi) non abbia espresso modelli di redenzione veramente significativi; ha invece espresso delle critiche significativi alle idee cristiane in uso sulla redenzione. Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme:

La critica della redenzione per mezzo del sacrificio espiatorio La critica della redenzione come divinizzazione dell'uomo. La critica della redenzione come possibilità esclusiva del cristiano.

La critica alla redenzione per mezzo del sacrificio espiatorio. Tratto da: B. Sesboüe, Gesù Cristo, l'unico mediatore. Saggio sulla redenzione e la salvezza. I. Problematica e rilettura dottrinale, Paoline, Roma 1990, 49-50.51 Lo scandalo della morte non deriva solo dalla sua materialità, ma anche e più ancora dal senso che il più delle volte le si attribuisce. Si attribuisce al cristianesimo il ragionamento seguente, inaccettabile a motivo dell’idea di Dio che esso suppone: la giustizia di Dio è stata gravemente lesa dal peccato dell’uomo; tale giustizia va « placata » e soddisfatta con una compensazione dolorosa che sia all’altezza della gravità dell’offesa. Questa idea di compensazione è associata a quella di vendetta o di giustizia vendicativa, che deve punire in proporzione al male. Gesù, accettando la sua morte cruenta, soddisfa questo doppio aspetto della giustizia. Offre a Dio il ‘preliminare’ che placa la sua collera e gli permette di riconciliarsi con l’umanità. L’incarnazione redentrice appare allora come uno 'stratagemma » inventato da Dio per ottenere quello che l’uomo peccatore era divenuto incapace di compiere. Non vi è infatti perdono senza un prezzo pagato in cambio a Dio. Tale caricatura dottrinale troppo diffusa tra la gente ci mostra un Dio vendicatore che sfoga la sua collera sul proprio Figlio, un Dio violento, un Dio anche sovranamente ingiusto, per che istituisce deliberatamente la sofferenza, un Dio che vuole che « gli sia pagata cara ». Ho sentito dire che un teologo aveva paragonato l’atto di Cristo al caso di Massimiliano Kolbe, il quale si era offerto di prendere su di sé la pena comminata per liberare un padre di famiglia. Questo teologo aveva coscienza che attribuiva così implicitamente a Dio il ruolo delle SS? Questo riassunto semplificatore mette in discussione la comprensione di vari termini chiave della teologia della redenzione: sacrificio, espiazione, soddisfazione, sostituzione. [ … ]

Page 2: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

28

(Una difficoltà) si focalizza volentieri attorno all’idea di sostituzione, su cui la teologia dei tempi moderni ha molto insistito, parlando in particolare di ‘sostituzione vicaria’. Il ‘per noi’ delle Scritture è polivalente: esso significa contemporaneamente ‘a causa di noi’, ‘in nostro favore’ e anche, in un dato senso, ‘al nostro posto’. La riflessione teologica ha spesso dato l’impressione di riconoscere solo questo terzo senso, insistendo sull’idea di sostituzione in uno schema inquinato dall’idea di compensazione e precisato nel senso d’una ‘sostituzione penale’. Gesù è punito da Dio al nostro posto per i nostri peccati. Questo complesso di rappresentazioni oggi crea delle difficoltà, non solo per le ragioni già evocate (vendetta e violenza di Dio), ma anche perché non si vede come un innocente possa fare all’occorrenza qualcosa al posto dei colpevoli. Come può egli sostituire la propria libertà alla libertà del peccatore? Come può la sua libertà agire sulla mia? Come può mutare radicalmente la situazione della mia relazione con Dio? La risposta classica fa appello alla divinità di Gesù: risposta incontestabile nel suo ordine; se Gesù non fosse stato, nella sua vita e nella morte, Figlio di Dio a titolo personale, non avrebbe evidentemente potuto salvarci. Ma tale risposta rimane insufficiente per quanto riguarda l’economia dell’incarnazione, perché la salvezza operata dal Verbo incarnato intende raggiungerci per la mediazione della sua umanità. In ogni caso la salvezza portata da Cristo non può dispensare il peccatore dall’atto libero della propria conversione, se non vuole divenire propriamente immorale. Questa idea di sostituzione è troppo isolata da quella di solidarietà, al punto che un teologo così ponderato come Walter Kasper non esita a scrivere: ‘Per il futuro della fede molto dipende dalla nostra capacità o incapacità di congiungere insieme l’idea biblica della rappresentanza con l’idea moderna della solidarietà’. La critica alla divinizzazione dell'uomo. Ciò che in realtà si critica è il fatto che con la religione l'uomo pone la sua fede nell'aldilà e intende i mali della vita presente come sofferenza per arrivare alla vita eterna. Così egli perde la sollecitudine per costruire qui sulla terra un mondo migliore. In questo senso sono stati F. Nietzsche e L. Feuerbach gli autori principali.

Per Nietzsche la idea cristiana di redenzione che fa perno sulle idee di peccato, di penitenza e di vita eterna segnano la distruzione di tutti i valori umani. Egli scrive nel libro Ecce homo

"Il concetto di «Dio» inventato in opposizione alla vita – tutto ciò che è dannoso, venefico, calunnioso, mortalmente ostile alla vita vi è raccolto in una terrificante unità! Il concetto di «al di là», di «mondo vero» inventati per svalutare l’unico mondo che esista – per non lasciare alla nostra realtà sulla terra alcun fine, alcuna ragione, alcun compito! Il concetto di «anima», di «spirito» e infine anche di «anima immortale», inventati per spregiare il corpo, per renderlo malato – «santo» –, per opporre una orribile incuria a tutte le cose che meritano di essere trattate con serietà nella vita, i problemi dell’alimentazione, dell’abitare, della dieta spirituale, della cura dei malati, della pulizia, del tempo che fa! Invece della salute la «salvezza dell’anima» – cioè una folie circulaire fra le convulsioni della penitenza e l’isteria della redenzione! Il concetto di «peccato» inventato insieme con gli opportuni strumenti di tortura, insieme col concetto di «libero arbitrio», per confondere gli istinti e fare una seconda natura della diffidenza per gli istinti! [ ... ] Infine – ed è la cosa più tremenda nel concetto dell’uomo buono si è preso il partito di tutto ciò che è debole, malato, malriuscito, sofferente di se stesso, di tutto ciò che deve perire –, si è invertita la legge della selezione, si è fatto un ideale di ciò che contraddice l’uomo fiero e benriuscito, colui che dice sì, che è certo dell’avvenire, che è garante dell’avvenire, – questi ormai viene chiamato il malvagio

Page 3: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

29

[...]. E tutto questo fu creduto come la morale! – écrasez l’infâme!" (Adelphi, Napoli 1969, 145-146) In questo testo è riconoscibile la redenzione che Nietzsche vorrebbe per l'uomo: una redenzione che professi una "fedeltà alla terra", al mondo e alla natura, che esalti l'istintuale e si opponga a una visione metastorica, a tutto ciò che significhi un altro mondo e una meta fuori del mondo, che distolga dell'impegno storico dell'uomo.

Secondo Marx, la religione è il prodotto di un’umanità alienata (Feuerbach) e sofferente per causa delle ingiustizie sociali, che cerca nell’aldilà ciò che le è negato, di fatto, nell’aldiquà. L’unico modo per eliminarla non è la critica filosofica (come in Feuerbach), ma la trasformazione della società.

Queste idee hanno una matrice comune in quanto vedono nella idea di una redenzione o di una vita eterna, la causa di una svalutazione delle realtà umane e una fuga degli impegni di giustizia e di sviluppo che la società umana richiede. In sostanza si sta dicendo qui che l'uomo non deve cercare una divinizzazione che viene dell'alto ma prendere sul serio la sua realtà di creatura umana e realizzarsi come uomo individuale e sociale. La critica alla redenzione come possibilità esclusiva del cristiano Nell'ambito delle dottrine illuministe della modernità si esalta la ragione quali criterio ultimo di giudizio, per il fatto che la ragione ha la possibilità di elaborare e comunicare idee vere e universali. Il cristianesimo invece non si fonda sulla ragione ma sulla storia di Cristo, che è un evento particolare al quale sono pochi possono accedere.

Secondo Reimarus (1774 circa) se la conoscenza di Dio fosse possibile soltanto per la rivelazione di Cristo ne conseguirebbe che gli uomini che sono nati prima di Cristo sarebbero stati esclusi di quella conoscenza, e neppure quelli che sono nati dopo Cristo potrebbero accedere con perfezione alla salvezza, perché essi non conoscono Cristo, ma soltanto il racconto imperfetto che ne offrono i vangeli.

Inoltre se Dio è giusto deve dare a tutti gli uomini le pari opportunità di salvarsi e non solo ad alcuni. Ora solo alcuni conoscono la religione cristiana, non tutti, perciò non può essere il modo scelto da Dio per la salvezza. Questo modo dovrà essere universale e fondato sulla ragione che è invece qualcosa di comune a tutti gli uomini.

Questi ragionamenti portano a relativizzare la rivelazione cristiana (cioè Gesù) e a dare priorità all'etica e alla vita morale. Favoriscono anche un atteggiamento di indifferentismo religioso, nel senso che tutte le religioni si considerano come vie possibili di contatto con Dio. Si vogliono mettere in luce qui gli elementi umani come la ragione, il sentimento religioso, l'etica universale, ecc. Conclusione In sostanza, il pensiero del periodo moderno aggredisce la presentazione cristiana della salvezza, attribuendola a un Dio crudele (I critica), disumano (II critica) e ingiusto (III critica) il quale si presenta come un modello indifendibile, nonostante le pretese ecclesiastiche di sostenerlo con le sue dottrine. La teologia del secolo XX prende atto di queste critiche. Essa riconosce che non sono del tutto giuste, ma comprende anche che la presentazione fatta della dottrina della redenzione offre il fianco ad esse. Così nel rinnovamento della seconda metà di questo secolo, che cristallizza già nel Vaticano II, la Chiesa presenta la dottrina della redenzione in modo di poter parlare di un Dio che è Amore, che si interessa per l'uomo anima e corpo, vita terrena e vita eterna, e che non da i mezzi di salvezza ai soli cristiani ma a tutti.

Page 4: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

30

È in questo contesto che noi parleremo dell'integralità e universalità della salvezza. La redenzione cristiana abbraccia tutto l'uomo e si rivolge veramente a tutti gli uomini: il seguito del corso cercherà di esplorare meglio queste idee, anche con i problemi connessi.

La redenzione nell’ambito dell’integralità della salvezza Presentazione martedì 17 settembre 2013 17:50

Negli anni 40 e 50 del secolo XX inizia a cristallizzare in grandi dimensioni i processo di rinnovamento preparato prima. Da una parte con il rinnovamento biblico e patristico, il quale aggiunge nuovi metodi e mostra la ricchezza che la riflessione della Chiesa ha prodotto nella sua lunga storia. In questo modo essa relativizza il pensiero neoscolastico, e lo presenta come uno tra i modi possibili di guardare la teologia, ma non l'unico. Si desidera inoltre precorrere strade nuove che possano facilitare l'evangelizzazione. Presentare la dottrina cristiana in modo nuovo, ma anche scrutare i nuovi aspetti che introduceva la cultura moderna e che erano stati lasciati in ombra fino ad allora. Nell'ambito della soteriologia per esempio, si da un maggiore peso alla risurrezione di Gesù e ai misteri di gloria, il cui apporto soteriologico era stato poco valorizzato per secoli.

→ Tanquerey, per esempio, nella sua Synopsis Theologiae Dogmaticae in tre volumi, uno dei manuali di dogmatica più importanti di inizi secolo XX, dedicava un modesto commento di venti righe al tema "De resurrectione et ascensione Christi et de quibusdam aliis mysteriis".

Ma anche molti altri temi si ponevano legati alle tematiche scientifiche, p. es. dell'evoluzione, o del modo di conoscere (rivoluzionato dalla scienza ermeneutica), o altre tematiche più teologiche come il posto dei laici nella Chiesa, il senso della storia umana agli occhi credenti, il significato delle realtà terrestri e dell'attività umana. In particolare con la considerazione dei valori temporali, cioè del valore totale delle vita terrena dell'uomo (corpo, anima, attività), si voleva dare una risposta al rimprovero indirizzato al cristianesimo dai discepoli di Marx o di Nietzsche di essere "una dottrina estranea all'uomo e ai suoi veri problemi, senza forza di fronte al aspetto tragico della sua condizione, senza amore per la sua miseria e per la sua grandezza". (R.

Aubert, La teologia cattolica.., p. 55).

B. Mondin (Teologie della prassi, Queriniana, Brescia 1973, 5-9) ha elencato alcuni aspetti che spingevano verso un'elaborazione di questi temi:

Il grande sviluppo delle science pratiche e il grande potere che la tecnologia dava agli uomini, poneva la questione del senso del dominio dell'uomo sul mondo alla luce della rivelazione.

La preferenza della cultura attuale per la prassi rispetto alla speculazione e per la scienza rispetto la metafisica, dovuto ai notevoli risultati in campo scientifico.

La presa di coscienza che il messaggio cristiano non ha un carattere individualistico ma abbraccia la società e il cosmo.

Lo spostamento antropocentrico della cultura, rispetto a quello più teocentrico del passato che portava a concentrare di più lo sguardo sull'uomo e i suoi problemi.

Bisogna tener presenti queste critiche e altre simili, perché esse sono un sintomo di un disagio che era percepito anche all'interno della Chiesa. Infatti, una cultura divenuta antropocentrica poteva poco comunicare con un'altra dove i valori del mondo e l'impegno per migliorarlo non avessero appena spazio.

Page 5: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

31

Appaiono allora i tentativi di G. Thils, con la sua Théologie des réalités terrestres (1947), nel quale egli considera il progresso e il lavoro umano come mezzo per trasformare il mondo e per associarsi all'opera creatrice, e di M. D. Chenu con il volumetto Pour une théologie du travail (1955: ma i tre articoli che compongono il volume sono del 1950), che ebbero un bel successo, segno che i tempi richiedevano occuparsi di questi problemi. In fondo a questi e ad altri lavori (vedi su tutto ciò il libro A. de Nicolás, Teología del progreso. Génesis y desarrollo en los téologos católicos contemporáneos, Sígueme, Salamanca 1972) c'era una nuova considerazione di ciò che finora era stata la tematica dell'umanesimo cristiano. Quale è il valore dell'impegno del cristiano nelle attività profane?

Su questa domanda si delinearono le due posizioni, ormai abbastanza note dell'incarnazionismo e dell'escatologismo.

Questi tentativi come anche quelli che seguirono dopo non ebbero origine in un desiderio di ricuperare il controllo ecclesiastico su un mondo che si era alquanto svincolato dagli influssi e dalla tutela clericale, ma piuttosto si ammise il fatto che dietro le critiche c'era una qualche verità che aveva fatto nascere quelle critiche, ovvero il fatto che si era trascurata nella teologia la riflessione sulla realtà dell'uomo e il suo mondo, del suo anelito di progresso e di sviluppo, il quale non era stato valorizzato dai credenti in modo sufficientemente positivo. (cf. A. de Nicolás, Teología del progreso, 385).

Page 6: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

32

La Gaudium et Spes lunedì 23 settembre 2013 12:16

La Gaudium et Spes s'interroga a più riprese sul senso dei valori umani. A noi ci interessa in particolare come vede e presenta la Cost. Past. il senso del progresso umano. Conviene tuttavia partire da una panoramica generale della GS. Questa Cost. Past. contiene una Parte I preceduta da un Proemio e una esposizione introduttiva, una Parte II che si riferisce ad alcuni problemi particolari e una Conclusione. Vediamo lo schema: J. L. Lorda ha spiegato bene l'orizzonte di comprensione di questo documento. Vedi la sua Antropologia. Del Concilio Vaticano II a Juan Pablo II, 65-81 (e spec. 76-81)

Proemio Quadro della situazione attuale: mutazioni Parte I: Ciò che la chiesa pensa sull’uomo e sul mondo (11-45)

→ Chi è l’uomo e la sua dignità [n. 12-22] (creazione, peccato, coscienza, libertà) Il pieno svelamento dell’uomo si ha nel mistero di Cristo (22)

→ Che cosa è la comunità umana? [n. 23-32] (bene comune, dignità umana, amore per l’avversario) Rapporto fra la comunità umana e il mistero di Cristo (32)

→ Che cosa è l’attività umana? [n. 32-39] (il lavoro e il disegno di Dio)

→ La chiesa nel mondo: [n. 40-45] gli aspetti precedenti come base del dialogo e dell’opera solidale di chiesa e mondo: la chiesa deve essere il lievito che fa fermentare tutta la società perché questa sia più umana, dando in particolare risposta alla domanda di senso di ogni uomo, promuovendo la dignità umana e l’unità della famiglia umana (i laici in prima fila, l’aiuto degli altri in questo servizio).

Parte II: Problemi urgenti (46-90): [analisi datata nelle questioni tecniche, ma valida nei principi di fondo]

→ famiglia [n. 47-52] → promozione della cultura [n. 53-62] → vita economico-sociale [n. 63-72] → comunità politica [n. 73-76] → la pace [n. 77-90]

Conclusione (91-93): dialogo.

Le questioni che si pone il Concilio relative all'attività umana sono: "Quale è il senso e il valore dell'attività umana? Come vanno usate queste realtà? A quale scopo tendono gli sforzi sia individuali che collettivi?"

Page 7: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

33

Per rispondere il Concilio usa una schema di questo tipo: Illumina il senso della creazione

Creazione -- Peccato/peccati -- Cristo Compie la redenzione

Vediamolo meglio: Creazione: Punto di partenza dal Concilio è che il progresso umano appartiene all'ordine del progetto originario di Dio sull'uomo. Lo sforzo umano per migliorare le proprie condizioni è buono perché "corrisponde alle intenzioni di Dio" e, attraverso la loro attività, gli uomini "donano un contributo alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia" (cioè è parte della provvidenza divina che ci aiutiamo per migliorare). [Vedi sopratutto GS 34].

Questo è giusto perché Dio ha fatto l'uomo a sua immagine, e il dominio sul mondo forma parte di quella immagine. Questo dominio però s'intende "sotto Dio", oppure, dominio secondo il progetto o disegno di Dio, che l'uomo scopre sia nella stessa creazione che poi nella rivelazione storica.

Ciò anche per il fatto che l'uomo è l'unica tra le creature materiali che Dio ha voluto per se stessa, e perciò Dio ha ordinato ad essa il resto della creazione materiale.

Inoltre, l'uomo è solidale con il mondo e non può ottenere la propria perfezione individuale e sociale se non trasforma anche il mondo, attraverso il lavoro.

Peccato Tuttavia per il peccato l'uomo si è più concentrato sulle cose terrene e queste sono state il campo di battaglia di una lotta tremenda con le potenze delle tenebre, la quale si prolunga per l'intera durata della storia.

→ Per il concilio il peccato non è fondamentalmente una trasgressione di norme etiche, ma è un fatto più profondo. Consiste nel voler ottenere il proprio fine e la propria felicità, al di fuori di Dio, costituirsi come norma suprema del valore e non glorificare Dio con le proprie opere.

A questo disordine gli uomini sono inclinati. C'è in noi una tendenza

a costruire la propria esistenza chiudendoci nell'orizzonte delle realtà terrestri, considerate come autonome, come valori assoluti.

→ E chiaro che la attività umana ha il rischio dell'autoaffermazione umana (di cui il simbolo potrebbe essere la torre di Babel). Cioè l'uomo compiaciuto delle proprie opere che tende a cercare la felicità attraverso le opere delle sue mani e non deve nulla a nessuno, tanto meno a Dio. Non c'è dubbio che questo sia un problema reale, ciò si vede già nella Bibbia ma anche in tanti tratti della storia dell'uomo (Prometeo). Ma questo problema non è intrinseco al senso del progresso, perché infatti Dio ha voluto che l'uomo cooperassi con Lui nel dominio del mondo e non ha nessuna invidia dell'uomo né delle sue conquiste.

Prometeo fece guerra a Zeus per l'amore degli uomini. Nella tragedia di Esquilo a lui si rivolgono queste parole: "Impari a rispettar la signoria di Zeus, a desister del troppo amor degli uomini"

Page 8: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

34

Questo atteggiamento non solo sottrae a Dio l'onore e la gloria che gli aspetta come donatore e creatore di tutto, ma anche fa male all'uomo stesso, rovina in lui l'immagine di Dio e perciò compie un attentato contra la propria esistenza. Il peccato impedisce all'uomo di ottenere la propria pienezza, compresa quella ultima e definitiva, ed è in questo senso una sorta di suicidio.

Il punto è che tutto ciò non è facile di superare: "l'uomo si trova incapace di superare

efficacemente da se medesimo gli assalti del male, così che ognuno si sente come incatenato" (GS 13). Senza la grazia di Cristo, che lo libera da tutto ciò, egli non può arrivare ad essere felice.

Mistero di Cristo

Il mistero di Cristo (n. 22) è il vero foco di tutto il documento per illuminare il senso dell'uomo e della sua dignità:

→ In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (28) (Rm5,14) e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione. Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le verità su esposte in lui trovino la loro sorgente e tocchino il loro vertice.

Il mistero di Cristo parla all'uomo:

→ Perché, incarnandosi, Cristo si è fatto in tutto uno di noi, e perciò in lui vediamo l'uomo perfetto, nuovo (vediamo il progetto creativo)

→ perché il suo mistero pasquale è partecipabile, e ha un impatto sull'uomo: nella partecipazione del mistero pasquale, l'uomo può essere liberato dalla schiavitù di Satana, ed essere riconciliato e divenire figlio di Dio e giusto (redenzione)

La GS tratta dunque di illuminare il senso di tutto alla luce del mistero di Cristo, nel quale si uniscono il mistero della creazione del mondo e dell'uomo (Adamo) e della redenzione dell'uomo (mistero pasquale).

Come illumina Cristo il senso dello sviluppo e del progresso umano?

Poiché in Cristo appare quella carità divina che è meta di tutto ciò che è umano, e anche del progresso umano. La trasformazione del mondo per mezzo del lavoro ha a che vedere non solo con lo sviluppo materiale ma anche con la carità.

→ La vita nascosta di Gesù insegna che questo ideale della carità non si riferisce solo alle grandi cose, ma sopratutto alle circostanze ordinarie della vita (GS 34).

→ La pasqua di Cristo ci insegna che per trasformare il mondo secondo Dio è necessaria la Croce, cioè attraversare le difficoltà interne e esterne per superare l'egoismo individuale o di gruppo. Possiamo dire che la grazia pasquale deve arrivare anche agli aspetti terrestri, ordinando questi aspetti al fine ultimo.

Si pone però la domanda: l'attività del cristiano nel mondo deve puntare a costruire il Regno dei cieli o a ottenere il progresso umano e sociale? La domanda così non è ben posta, perché non c'è un aut/aut: entrambe le cose sono diverse ma sono congiunte:

Page 9: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

35

Il desiderio del mondo futuro non deve essere separato dall'impegno terrestre. Il primo purifica il secondo (lo aiuta a non lasciarsi deviare dall'egoismo) e lo fortifica (lo aiuta a non cedere davanti alle difficoltà) e riempie di speranza l'attività umana.

D'altra parte senza un certo benessere umano difficilmente si sviluppa il Regno. Cioè se l'uomo vive in grande miseria e facile preda del disimpegno religioso e della rabbia. Ciò mostra che il progresso sociale è anche utile allo sviluppo del Regno. C'è comunque più da dire sue tutto questo.

Ma cosa rimarrà nel Regno degli sforzi umani tesi al progresso? Sappiamo che tutto ciò che è segnato dal peccato non sussisterà: "passa l'aspetto di questo mondo caduco" (1Cor 7,31). Allo stesso tempo tutto ciò che è governato dalla carità sussiste: "la carità rimane" (1Cor 13,8). Allora: il progresso umano e sociale e l'attività che ad esso si orienta: appartiene alla categoria delle cose che passano o di quelle che rimangono?

La risposta del concilio è vaga. Abbiamo già accennato alle posizioni delle correnti incarnazioniste e escatologiste.

Cosa dice il Concilio? Esso non da una soluzione concreta ma indica alcune idee guida:

→ Bisogna distinguere tra le due cose: non coincidono, cioè una cosa è il progresso terreno e un altra il Regno di Dio. Questo si vede chiaro perché una persona può guadagnare tutto il mondo e perdere la sua anima. Da qui si comprende che il solo sviluppo materiale non porta con sé il Regno.

→ Tuttavia il progresso umano è un elemento di quella ricapitolazione di tutte le cose in Cristo di cui parla S. Paolo (Ef 2,10). – Per il concilio l'attività temporale può essere vista come una preparazione materiale del

Regno definitivo, cioè si tratta dello stesso mondo chiamato ad essere ricapitolato in Cristo. o Usa l'esempio del pane e il vino, coltivati dall'uomo che diverranno cibo di vita e

bevanda di salvezza. o I frutti del progresso prefigurano il mondo nuovo. E questa prefigurazione è

voluta da Dio, perciò non può essere trascurata senza peccato. Nei frutti del progresso umano e dello sviluppo brilla oggettivamente l'immagine di Dio presente nell'uomo.

o C'è una analogia difficile da precisare tra il nostro corpo e le nostre opere dal punto di vista della trasfigurazione ultima del cosmo. Il nostro corpo sarà trasfigurato con la risurrezione, così anche le nostre opere. Perciò nel mondo futuro "ritroveremo purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati" "tutti i buoni frutti della natura e dell'attività umana".

Dalla GS in poi: il criterio per il rapporto tra Chiesa e promozione umana giovedì 26 settembre 2013 12:08

GS 22 da un criterio molto importante che è quello di illuminare con Cristo, uomo perfetto il cammino dell'uomo e l'intera realtà umana. Di fronte a una cultura che pone l'uomo al centro, la Chiesa non ha risposto collocando Dio al centro e l'uomo alla periferia (come nella rappresentazione del protone-elettrone), ma collocando al centro l'uomo concreto che Dio ha messo al centro, cioè Gesù.

Page 10: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

36

Essa dice due cose: La grazia che viene da Cristo umanizza, rende l'uomo più umano. Perché più conforme al

modello dell'umano. Inoltre, l'attività umana è buona, la ricerca del progresso è giusta (come si vede dal fatto che

Gesù Cristo che "ha lavorato con mani di uomo": GS 22). Inserito nella creazione dell'uomo e assunto da Cristo, il lavoro - e più in genere l'attività umana di sviluppo - realizza la volontà di Dio per l'uomo. È integrata nel piano della salvezza.

Ma se la grazia umanizza l'uomo e se l'attività umana per il progresso (cioè l'agire umanizzante) forma parte della salvezza, allora il cristiano non dovrà impegnarsi fondamentalmente in questa umanizzazione del mondo? Non dovrà fare di tutto per ottenere una società fraterna e giusta?

→ Notiamo che l'utopia marxista della società senza classi è abbastanza vicina a queste formulazioni.

Infatti sulla scia di queste idee un buon numero di teologi negli anni 70 e successivi hanno pensato che "la Chiesa dovrebbe impiegare le sue reali forze per riparare i molti mali del mondo, per avvicinarsi il più possibile all'ideale superamento delle miserie umane e alla fraternità universale, caratteristica dei tempi messianici". (J. L. Lorda, Antropología, 171). Insomma, che nel nostro tempo salvezza volessi dire impegno per rendere migliore il mondo e più umano. Sono sorte così alcune linee teologiche:

a. Redenzione intesa come realizzazione dell'ideale dell'uomo moderno (Europa). Un esempio di questa teologia sarebbe H. Kung per il quale il cristianesimo sarebbe soprattutto libertà di pensiero ed emancipazione.

b. Redenzione intesa come esperienza di senso e di fratellanza Includerei qua la visione di E. Schillebeeckx (+2009) per il quale la teologia doveva trovare adeguata espressione ai mutamenti culturali. Col rischio di professare una visione intuizionista della verità, depotenziando la concettualità a mera mediazione culturale, e di dover sottoporre la verità della fede al cambiamento della sua mediazione storica.

c. Redenzione come liberazione economica e sociale (spec. teologia della liberazione latinoamericana).

L'idea fondamentale qui è dare un fondamento teoretico-cristiano all'azione pratica di realizzazione della giustizia sociale. Sorge veramente con la Conferenza di Medellín, ma il punto di partenza teoretico è il libro di G. Gutierrez, Teología della liberación (1971)

d. Redenzione come attuazione della propria religiosità. E' la idea guida delle teorie del pluralismo religioso.

Di queste corrente l'impatto più grande è stato quello della "teologia della liberazione". Secondo Sanchez Bernal le origini della teologia della liberazione sono legate all'idea che la concezione classica della teologia non si oppone allo sfruttamento del povero perché è fatta da chi domina e lascia al povero strumenti religiosi come la religiosità popolare che lo mantengono enlla povertà: la teologia della liberazione sorge “come critica di una teologia al servizio ideologico del sistema dominante, il quale mantiene al popolo nella miseria, e come critica della religione popolare, la quale avendo per missione il conforto del popolo povero e sofferente, non fa altro che collaborare in quel modo a consolidare e prolungare l'oppressione e l'umiliazione del popolo” ( Sánchez Bernal, Teología política, 111). Nell'ambito della riflessione condotta in sinu ecclesiae conviene segnalare i seguente passaggi: I. CELAM: II Conferenza (Documento di Medellín: 1968): Ragiona così:

Page 11: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

37

Dio ha inviato il suo Figlio per liberare gli uomini da tutte le schiavitù a cui il peccato li tiene assoggettati: ingiustizia, fame, miseria, oppressione ... Frutti dell'egoismo umano"(DM I, 3).

Queste schiavitù sono spesso il frutto delle strutture di peccato presenti nella società. Di conseguenza non sono soltanto i cuori che si devono cambiare ma anche le strutture.

Anzi, la focalizzazione sulla conversioni dei cuori potrebbe fare concorrenza a quella delle strutture. Si può insistere nel cambiare i cuori (che è difficile) è li si esaurisce l'impegno.

Di conseguenza, la lotta per stabilire strutture giuste deve essere prioritaria ed è un dovere della Chiesa. La Chiesa deve allestire le azioni necessarie per creare l'effettive condizioni di uno sviluppo umano integrale.

II. Sinodo dei vescovi sulla Giustizia nel mondo (1971) si colloca abbastanza vicino al documento di Medellín. Spicca nella sua riflessione l'affermazione:

«L’agire per la giustizia e il partecipare alla trasformazione del mondo ci appaiono chiaramente come dimensione costitutiva della predicazione del Vangelo, cioè della missione della Chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione da ogni stato di cose oppressivo»

Gli esperti principali, ai quali si deve la maggior parte del lavoro, furono i gesuiti p. Alfaro e p. Land, il domenicano p. Cosmao, e due laici, Barbara Ward e Candido Mendes de Almeida. Incollato da <http://www.aggiornamentisociali.it/EasyNe2/LYT.aspx?Code=AGSO&IDLYT=769&ST=SQL&SQL=ID_Documento=6333>

Queste riflessioni pongono la questione se l'azione umana di liberazione sia parte costitutiva dell'opera di salvezza. Se così fosse la Chiesa non potrebbe esimersi di essa.

Si noti tuttavia che pur essendo la Palestina sottomessa al potere romano, Gesù non ha mai invitato a una rivoluzione antirromana. Gesù non era uno zelota. Forse anche per questo egli è stato abbandonato da alcuni. Egli concepisce il Regno come Regno di Dio nel senso che è il posto dove si vive la lode e la glorificazione di Dio (cioè più come Tempio che come Comune).

In merito all’autorità del documento è opportuno sottolineare che il Papa, dopo averne ricevuto – a quanto pare – il progetto, aveva rinunciato a conferire al Sinodo un “voto deliberativo” (cfr Laurentin R., Réorientation de l’Eglise, cit., 223). Il documento mantiene perciò un carattere consultivo. Il Papa poi lo fece pubblico, come abbiamo detto, ma non volle conferirgli direttamente la propria autorità, come del resto fece anche con il documento sul sacerdozio ministeriale. Il rescritto di pubblicazione dice che il Papa «accoglie e conferma tutte le conclusioni che nei due documenti sono conformi alle norme vigenti». Il che significa che essi vanno interpretati in base ai documenti di maggiore autorevolezza.

Incollato da <http://www.aggiornamentisociali.it/EasyNe2/LYT.aspx?Code=AGSO&IDLYT=769&ST=SQL&SQL=ID_Documento=6333>

È anche opportuno segnalare anche la particolare influenza che il documento La giustizia nel mondo ebbe nella redazione del documento La nostra missione oggi: diaconia della fede e promozione della giustizia della 32ª Congregazione generale della Compagnia di Gesù (1975), per la quale costituì un fattore di ispirazione importantissimo. La Congregazione dichiarò che «la missione della Compagnia di Gesù oggi è il servizio della fede, di cui la promozione della giustizia costituisce un’esigenza assoluta», proprio come il Sinodo aveva definito «l’agire per la giustizia e il partecipare alla trasformazione del mondo» quale «dimensione costitutiva della predicazione del Vangelo» (n. 1243).

Page 12: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

38

Incollato da <http://www.aggiornamentisociali.it/EasyNe2/LYT.aspx?Code=AGSO&IDLYT=769&ST=SQL&SQL=ID_Documento=6333>

III. Tre anni dopo il Sinodo dei vescovi del 1974 sull'evangelizzazione nel mondo contemporaneo (1974) si spaccò in due blocchi. Esso fu caratterizzato dai temi della liberazione e della lotta per la giustizia. Come si rapportano salvezza e promozione umana? In esso si tornò a discutere l’espressione “dimensione costitutiva” menzionata poco sopra, giacché molti ritenevano che “dimensione integrante” esprimesse con maggiore esattezza la relazione che deve esistere tra la lotta per la giustizia e la predicazione del Vangelo. Incollato da <http://www.aggiornamentisociali.it/EasyNe2/LYT.aspx?Code=AGSO&IDLYT=769&ST=SQL&SQL=ID_Documento=6333>

Ne fu autore Vincent Cosmao, un consultore nella fase preparatoria del sinodo che intervenne, come abbiamo visto, nel Documento di Medellin. Secondo Cosmao, il termine «costitutivo» rende l’impegno della chiesa a favore della giustizia non tanto una pura deduzione etica dalla fede, quanto una vera e propria condizione della sua verità. In un discorso rivolto ai vescovi francesi poco prima del sinodo, Cosmao domandava:

La partecipazione alla trasformazione del mondo, percepito come ingiusto, è puramente una richiesta derivante dalla fede e che si esprime nelle opere di carità, o è un costitutivo della Pasqua di Cristo in quanto coestensiva con la storia umana, che è la storia della liberazione umana?

Se è vera la seconda ipotesi, se l’azione per la giustizia e la liberazione umana sono costitutive del vangelo, allora, secondo Cosmao, la predicazione del vangelo «avviene» mediante l’azione a favore della giustizia.

Incollato da <http://www.credereoggi.it/upload/2008/articolo164_72.asp>

Ma nello stesso Sinodo molte voci non erano d'accordo su questo. Essi vedevano la giustizia sociale come una “parte integrante”, e quindi non “essenziale” del messaggio evangelico, fino a dire che la proclamazione del Vangelo sarebbe potuta avvenire anche senza l’impegno per la giustizia. Incollato da <http://www.pretioperai.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1081:il-lavoro-nelleclisse-della-giustizia&catid=155:2013-n99-100-parola-e-lavoro&Itemid=98>

Charles M. Murphy [in un articolo pubblicato in Theological Studies e poi ripubblicato dalla rivista Credere Oggi : La carità non la giustizia come elemento costitutivo della missione della chiesa, "Credere oggi" 28 (2008), 72-87.] chiarisce i termini della questione: «Il nocciolo dell’ambiguità riguardo al senso di costitutivo […] sembra risiedere nelle differenti concezioni del tipo di giustizia a cui ci si riferisce. Se la giustizia è concepita esclusivamente sul piano naturale, la virtù umana della giustizia come viene spiegata nei classici trattati di filosofia, allora tale giustizia può solo essere concepita come una parte integrante ma non essenziale della predicazione del Vangelo. Ma se la giustizia viene concepita in senso biblico nel senso dell’azione liberante di Dio che richiede una necessaria risposta umana […] allora la giustizia deve essere definita come l’essenza del Vangelo stesso». Incollato da <http://www.pretioperai.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1081:il-lavoro-nelleclisse-della-giustizia&catid=155:2013-n99-100-parola-e-lavoro&Itemid=98>

L'articolo del Murphy riassume la storia del termine "costitutivo". Paolo VI non fu contento di questa formulazione del Sinodo di 1971. Egli disse che sperava che il prossimo Sinodo avesse offerto una "definizione migliore e più precisa" della relazione tra l’annuncio del vangelo e l’agire per la giustizia [Paolo VI, Insegnamenti di Paolo VI, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1974, p. 979].

Page 13: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

39

In seguito ci fu una piccola polemica tra il Segretario del Sinodo del 1971 e il teologo gesuita Juan Alfaro che aveva partecipato alla redazione del documento. La racconta Murphy:

Mons. Ramón Torella Cascante, segretario particolare del sinodo del 1971 sul tema della giustizia dichiarò:

È molto importante che in occasione del prossimo sinodo l’azione per la giustizia e la pace sia riaffermata nella prospettiva dell’evangelizzazione come una delle sue parti integrali. Naturalmente dovrebbero essere evitate ambiguità, malintesi, contraddizioni e confusione.

Per Torella, «costitutivo» interpretato come «parte integrale» del vangelo non significava «parte essenziale». Si riferisce, egli spiegava, «a qualcosa che accompagna, ma che non ha bisogno di essere presente, cioè, parlando rigorosamente, un vero annuncio del vangelo potrebbe aver luogo senza una azione per la giustizia». Sul tema della giustizia, al sinodo 1971, il teologo ufficiale era Juan Alfaro, professore presso l’Università Gregoriana. Secondo Alfaro, la spiegazione di Torella sul termine «costitutivo» introduceva una «complicazione non necessaria», che indeboliva parimenti la forza e l’intenzione del termine. «Costitutivo» e «integrale» non sono la stessa cosa. Corpo e anima, spiegava Alfaro, sono elementi costitutivi della composizione dell’essere umano, senza dei quali un essere umano non sarebbe tale. Torella quindi è in errore, secondo Alfaro. «Questo non era il pensiero del gruppo che ha redatto la bozza del testo. È introdurre del tutto un altro termine», concludeva.

Incollato da <http://www.credereoggi.it/upload/2008/articolo164_72.asp>

Tuttavia i successivi documenti ufficiali della Chiesa preferiranno il linguaggio della parte integrale, non della parte costitutiva. Così nel discorso di inaugurazione della III Conferenza del CELAM (1979), Giovanni Paolo II disse che la Chiesa impara dal vangelo "che la sua missione evangelizzatrice ha come parte indispensabile l’impegno per la giustizia e l’opera della promozione dell’uomo" (III, 2). Parte indispensabile non è lo stesso che parte costitutiva: questa ultima si riferisce a ciò che è dell'essenza di qualcosa, la prima invece no.

Incollato da <http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/1979/january/documents/hf_jp-ii_spe_19790128_messico-puebla-episc-latam_it.html>

Il sinodo del 1971 fu l’ultimo a pubblicare la propria dichiarazione a conclusione delle sue deliberazioni. In seguito, a cominciare dal sinodo del 1974 dedicato al tema dell’evangelizzazione, il Papa avrebbe recepito i risultati del sinodo e pubblicato poi un documento suo proprio. Questo fu la Evangelii Nuntiandi. [Paolo VI, Evangelii nuntiandi (8,12.1975), n. 27, in EV 5, 1619]. Nella terza sezione di questa Esortazione Apostolica, il Papa descrive ciò che chiama il contenuto essenziale e gli «elementi secondari» dell’evangelizzazione. Fondamento essenziale e centro dell'evangelizzazione è la proclamazione di Gesù Cristo, che viene a portare una salvezza che non è qualcosa di puramente «immanente, a misura dei bisogni materiali o anche spirituali che si esauriscono nel quadro dell’esistenza temporale, [...] ma è altresì una salvezza trascendente, escatologica»

→ Di conseguenza qualsiasi promozione della giustizia che la Chiesa come tale realizza è sempre da guardare nell'ottica della relazione degli uomini con Dio. La missione della Chiesa è sempre portare nel mondo Dio, come affermò nel suo "Gesù di Nazaret", Papa Benedetto XVI.

Tuttavia, secondo l'Esortazione Apostolica, tra evangelizzazione e promozione umana ci sono «legami profondi» che includono l’ordine antropologico, teologico ed evangelico. La persona da evangelizzare non è un’astrazione, ma – spiega il Papa – è condizionata dalle questioni sociali ed economiche. In teologia non si può dissociare il piano della creazione da quello della redenzione: il secondo «arriva fino alle situazioni molto concrete dell’ingiustizia da combattere e della giustizia da restaurare».

→ Perciò quando si parla di redenzione non si resta solo a livelli teorici ma si tratta anche di agire pratico.

Page 14: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

40

Tuttavia: come si concreta la missione della Chiesa nei confronti delle situazioni di ingiustizia? Per rispondere bisogna tener presente che non appartiene alla missione della Chiesa la elaborazione o costituzione dell'ordine concreto della società. Dio non ha rivelato il modo di determinare l'ordine sociale concreto e perciò non ha affidato questo aspetto alla Chiesa, ma lo ha lasciato aperto e lo ha affidato, sin dall'inizio del mondo, alla società civile. Perciò S. Agostino ha potuto parlare di "due città": quella terrena e quella celeste (De Civitate Dei, XIV, 1).

Secondo GS: “La forza che la Chiesa riesce a mettere nell'odierna società degli uomini consiste in quella fede e carità portate alla vita pratica, non nell'esercitare un qualche dominio esteriore attraverso mezzi meramente umani".

È diverso qui il caso del laico cristiano, perché egli sì può e deve partecipare a titolo individuale nelle azioni volte a dare alla società una determinata struttura o a ordinarla secondo determinati criteri. Ciò però non compete alla Chiesa in quanto tale.

Per questo motivo l'azione della Chiesa per la promozione umana non può soppiantare o sottrarre quella propria della società civile. Può certamente illuminare con la sua dottrina e con dei principi questa azione civile, può anche denunciare le ingiustizie, può anche testimoniare con la sofferenza la sua opposizione al male. Tutto ciò entra nell'ambito della sua autorità morale. Non ha invece l'autorità efficace o di governo sulla società civile, né sui problemi che nascono delle organizzazioni sociali. La sua azione può avere la forza morale, non fisica. Ciò serve anche per le situazioni drammatiche di male e di ingiustizia. Vale la pena riprendere qui un frammento del discorso di Benedetto XVI per l'inaugurazione del suo Pontificato:

"Non è il potere che redime, ma l’amore! Questo è il segno di Dio: egli stesso è amore. Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umanità. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocefissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini" (24.IV.2005).

Alla fine qui, Benedetto XVI si riferisce alla prassi di Gesù: alla prassi messianica vera e fondativa, la quale dinanzi alle ingiustizia non risponde con la violenza o con l'azione politica, ma con la testimonianza coraggiosa della verità, la quale non avoca alle proprie forze la restaurazione della giustizia ma la rimette al giudizio di Dio e alla sua nuova creazione. C'è senz'altro qui un confine della salvezza e della redenzione nella storia, che la Chiesa non dovrebbe ordinariamente varcare.

La redenzione nell'ambito dell'universalitàPredestinazione e universalità della salvezza giovedì 3 ottobre 2013 16:41

Introduzione Il tema della predestinazione si riferisce alla relazione tra Dio come origine della realtà creata e il destino da Lui dato a quella stessa realtà. In particolare, sulla base della dottrina di un Dio creatore che ha dato una finalità al mondo e all'uomo, si pone la questione di fino a che punto le decisioni di Dio determinano ciò che è o sarà questo destino dei gruppi e degli individui. In altre parole, la tematica della predestinazione si riferisce al rapporto tra la volontà divina che si esprime nel suo progetto eterno di Dio sul mondo e la storia di questo mondo in quanto dipende dalla libertà della creatura.

Page 15: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

41

Per la sua natura religiosa essa si distingue da altre idee deterministiche come per esempio quelle legate al fato nell'antico mondo greco. I tragici greci infatti prevedevano che gli uomini fossero soggetti a un fato scritto dagli dèi. Gli Stoici teorizzavano il fato come il destino ineluttabile scritto dal logos, cioè dalla ragione divina del cosmo nella sua globalità, ma concernente anche ogni singolo uomo.

La tematica della predestinazione è particolarmente legata ad alcuni nomi nell'ambito della storia della teologia: S: Paolo, Agostino d'Ippona, Calvino, Jansenio e Baio, K. Barth. D'altra parte le posizioni teologiche di questi autori hanno suscitato un buon numero di controversie lungo la storia: Pelagio nella chiesa antica e John Wesley nel XVIII secolo possono rappresentare due esempi di teologi che non davano spazio alcuno alla predestinazione divina. La predestinazione in S. Paolo Il pensiero paolino si muove sulla scia del pensiero biblico veterotestamentario, del quale si serve Paolo per esprimere la novità di Cristo. In primo luogo per S. Paolo l'idea di predestinazione e legata a quella di elezione. Così si vede nei due brani principali in cui l'apostolo adopera questo concetto ovvero Rm 8,29-30 e Ef 1,5.11.

– In Efesini si legge: "In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo".

– In Romani invece: "Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo".

Appare l'idea di una elezione divina fatta da Dio per una missione che precede all'esistenza stessa dell'eletto. La idea non è sorprendente. Per la mentalità giudea dell'epoca di Cristo, Dio è autore di un progetto che riguarda Israele. Alcuni profeti sottolineano anche l'universalità di tale progetto, che abbraccia anche le nazioni e l'intero cosmo. Questo progetto si attua con la scelta d'Israele in mezzo alle nazioni, ma anche con tutte le vicende storiche del popolo eletto, le quali non solo non rompono il progetto di Dio ma contribuiscono ad adempierlo in modo misterioso. Per questo motivo, per la mentalità giudea seppure apparentemente gli uomini ostacolano nella storia il progetto di Dio, in realtà contribuiscono a realizzarlo alla loro insaputa. Come afferma Dunn, si tratta del "farsi del progetto di Dio attraverso tutte le contraddizioni e le frustrazione del presente verso il suo finale previsto" (Dunn, Romans 1-8, WBC 38A, 481). La prospettiva per comprendere la predestinazione in Paolo dovrà essere decisamente storico-salvifica. Nell'AT il protagonista fondamentale della storia sacra è Dio. Quando si tratta di resistenze o di opposizioni al progetto di Dio, normalmente il soggetto responsabile è l'uomo, inteso sia come popolo o individualmente. Ma a volte la Scrittura indica il fatto che la resistenza a Dio è possibile perché Dio stesso la opera nell'uomo. Egli chiude gli occhi dell'uomo o le sue orecchie o acceca il suo cuore. Per esempio nel caso del faraone la Scrittura arriva a dire che fu Dio stesso ad indurirgli il cuore per poter manifestare la sua gloria con i prodigi compiuti e con la liberazione di Israele (Es 7, 3-4). Espressioni di questo tipo non devono essere lette in senso letterale, poiché ciò che esse vogliono dire è che Dio lasciò indurire il cuore al faraone perché aveva in questo un suo scopo, benché Dio non sia il responsabile di quell'indurimento. [Si potrebbe anche interpretare come fa S. Tommaso che dovuto alle cattive disposizioni degli uomini, Dio smette di dargli la sua grazia perché vedano: ST, I-II, q.79, a.3]. Cioè si desidera sottolineare il fatto che nulla può accadere senza il permesso di Dio, il quale, da parte sua, è sempre un agente sovrano. Se egli non muta la situazione non è per debolezza ma perché non lo ritiene opportuno.

Nella sua esperienza apostolica S. Paolo vede che, dinanzi alla sua predicazione, alcuni sono illuminati e capiscono, mentre altri non riescono a capire o addirittura rifiutano la novità di Cristo e diventano

Page 16: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

42

persecutori della Chiesa. Egli sa inoltre di essere stato lui stesso scelto da Dio senza alcun suo vero merito. Così S. Paolo poteva formare l'idea di una elezione divina fatta ad alcuni (come egli stesso) per far parte della Chiesa e, d'altra parte, di un indurimento di altri uomini permesso da Dio, il quale non solo non è in grado di troncare il progetto di Dio ma addirittura in modo misterioso contribuisce a configurarlo in Cristo. L'esempio più lampante di questo è la croce stessa di Gesù.

Queste coordinate delineano la mentalità con la quale S. Paolo affronta le questioni relative al senso del disegno di Dio. Egli è anzitutto convinto che la storia umana e sovranamente dominata dal disegno di Dio, il quale si compie in modo infallibile. In questo contesto di pensiero usa il linguaggio della "predestinazione". Quello che interessa a S. Paolo è - come afferma il Dunn - assicurare al cristiano che "la sua appartenenza al popolo di Dio non è qualcosa di casuale né di accidentale, ma forma parte di un proposito divino la cui realizzazione fu già chiaramente intesa sin dall'inizio" (Dunn, Romans, 482). È questo il senso della predestinazione: garantire la sovranità di Dio che compie il suo disegno sotto ogni vicenda della storia. Dio si serve di eletti ai quali predestina a realizzare una missione di salvezza, la quale a sua volta rappresenta per essi la gloria; Egli si serve anche dei suoi oppositori e non li ferma perché anche attraverso il suo operato Egli compie il suo disegno. I "vasi di elezione" e i "vasi di perdizione" (Rm 9, 18-21) non sono che strumenti, certamente diversi tra di loro, di un unico disegno che ha per oggetto la salvezza di molti. Intese in questo senso, il linguaggio dell'elezione e della predestinazione non si oppone a una vera libertà o responsabilità umana nelle azioni che accadono nella storia e neanche comporta un puro arbitrio divino, come se Dio scegliesse alcuni dall'eternità per essere santi e altri per la dannazione, senza altro fondamento che il suo beneplacito. Per il contrario:

La storia è scritta dagli uomini liberamente ma la Sapienza divina fa confluire misteriosamente queste libere scelta per la riuscita del suo disegno di bene e di amore. Perciò S. Paolo afferma sia che "tutto concorre al bene di coloro che amano Dio" (Rm 8,28), sia che "nulla può separare il cristiano dell'amore di Cristo" (cf. Rm 9), perché nulla può far sì che il progetto salvifico di Dio non si realizzi nei fedeli. Ciò però non deve essere inteso come impossibilità per il fedele di essere infedele, ma nel senso che se uno diventa infedele la sua infedeltà concorrerà per il bene del disegno di altri.

Certamente chi si oppone in modo continuo e impenitente al progetto di Dio può essere visto come "un vaso di perdizione". Ma questo "vaso di perdizione" pur essendo già previsto dalla prospettiva del Dio Creatore (e per ciò fatto da Lui) non ha effetto se non in forza delle opere cattive di chi si perde, motivo per il quale il Dio Creatore può essere un Dio Giudice. Infatti se il creatore destinasse tout court una persona alla perdizione, come mai potrebbe giudicarlo?

→ Usando categorie più scolastiche (non paoline) la predestinazione contemplata da S. Paolo è "post praevisis meritis" e non "ante praevisis meritis", cioè, la scelta eterna di Dio afferma quanto l'uomo realizzerà nella storia per il suo bene o la sua perdizione e stabilisce anche il modo in cui questo operato contribuirà al disegno globale di salvezza.

Concludiamo dicendo che il pensiero paolino è, in queste tematiche, abbastanza complesso. Gli specialisti più autorevoli sottolineano il fatto che Paolo non elabora una sistematica su tutto questo, ma piuttosto riprende il modo di pensare tipico del giudaismo e aggiunge riflessioni illuminate, ma senza mai costringere le idee in un sistema chiuso di pensiero. Secondo W. A. Elwell le idee di elezione e di predestinazione pur essendo elementi cruciali nella struttura del pensiero paolino non vengono mai sviluppate come temi. "Quando ricorrono, sono immerse profondamente in argomentazioni teologiche molto complesse, come dati teologici indiscutibili [ed è perciò che noi abbiamo parlato di una mentalità], connesse con altre idee altrettanto fondamentali (per esempio: chiamata, disegno, volontà, consiglio)" (Elezione e predestinazione, in G.F. Hawthorne - R.P. Martin - D.G. Reid (eds.), Dizionario di Paolo e delle sue lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, 522). Le questione "delicate" del messaggio paolino richiedono perciò un grande sforzo di ricostruzione della mentalità e degli orizzonti di pensiero dell'apostolo, fuori dal quale è facile travisare le sue reali intenzioni.

Page 17: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

43

Predestinazione in Agostino Agostino parte della convinzione che l’umanità senza la luce e la grazia del Vangelo non riesce a venir fuori dalla condizione indegna e di corruzione in cui si trova, a conseguenza del primo peccato. Non può ottenere la salvezza finché rimane in tale condizione. Oltre alla propria esperienza spirituale, il dottore africano fonda questa convinzione sulla dottrina paolina dell’universalità del peccato, il quale rende l’umanità meritevole della punizione divina. L’uomo ha peccato ed è privo della gloria di Dio (cf. Rm 3, 23; 5, 1ss) è meritevole della sua ira (cf. Ef 2, 4), e sebbene Dio, con l’invio del suo Figlio, gli abbia dato una via di uscita di tale situazione, essa è appunto un mezzo di salvezza, col quale si deve venire a stretto contatto. Soltanto l’adesione a Cristo può liberare l’uomo dalla corruzione spirituale e umana in cui egli si trova. Solo la sua grazia gli dona la capacità di ottenere una tale libertà. Perciò per Agostino la predestinazione ha a che vedere con la graziosa opera di Dio di sanare le sue creature, le quali altrimenti andrebbero giustamente condannate. La grazia è l'effetto della predestinazione divina. Ed è la grazia ciò che produce nell'uomo frutti di santità e di salvezza: "né chi pianta, né chi irrìga è qualche cosa, ma Dio che fa crescere" (1Cor 3:21). Se la fede che ci conduce a credere in Dio fosse un merito nostro allora noi potremmo vantarci della nostra fede e la superbia che ci portò al peccato non sarebbe guarita. La fede è perciò un dono che noi possiamo soltanto accogliere come grazia. Ma questo dono, Dio lo concede a tutti? Agostino è convinto che non è così. Egli legge in Paolo e in alcuni brani della Scrittura (talvolta presi da Paolo, come la preferenza di Dio verso Giacobbe anziché verso Esau), una elezione previa ad ogni merito umano. Dio scelse Giacobbe non per una previsione delle sue azioni future ma per una sua (di Dio) personale e autonoma decisione (In termini scolastici siamo qui davanti a una predestinazione ante praevisis meritis). Per chi è favorito con una scelta così (come Giacobbe), la chiamata alla redenzione e alla gloria avviene in modo tale da ricavare Dio dall'eletto una risposta fedele che lo stesso Dio gli dona. È così perché Dio non aspetta dall'uomo una risposta di fede che l'uomo è incapace di dare per la sua condizione degradata. Invece per chi non è favorito con tale elezione, il mucchio dei condannati - la massa damnata - resta solo il fatto che Dio lo condanna giustamente per i suoi peccati e la sua condizione originaria (cf. J. Wetzel, Predestination, pelagianism and foreknowledge, in N.- Stump Kretzmann, E. (edited by) (ed.), The Cambridge companion to Augustine, Cambridge University Press, Cambridge 2001, 53). Infatti, Agostino negli ultimi scritti pensa che l'uomo postadamitico non ha un desiderio di Dio, ma di ribellione e libertà animale, ed è per questo che viene condannato, a meno che Dio non infonda in lui la scintilla divina della fede. Ad alcuni tale scintilla viene data, per pura grazia, e in modo che si veda che la grazia e grazia ed è misericordia, e che Dio non è obbligato a darla (Cf. ibid., 54). Quando Agostino sottolinea questi aspetti relativi agli eletti e ai condannati intende tuttavia "stabilire nella predicazione della predestinazione, un baluardo impenetrabile a difesa della grazia di Dio contro la dottrina relativa alle opere meritorie proposta da Pelagio" (M. Lamberigts, Predestinazione, in A. Fitzgerald (ed.), Agostino. Dizionario Enciclopedico, Città Nuova, Roma 2007, 1145).

Agostino sostiene fedelmente la dottrina paolina? La mia impressione è che egli si muove in un quadro più ontologico (Dio-uomo) e meno storico (Dio-Israele) e ciò fa sì che la dinamica storica che in Paolo è unita alla predestinazione (Dio da si suo sì a una storia che realizza il suo progetto) diventi in Agostino decisione eterna sulla salvezza dei singoli. (Cioè se si evapora la storia restano soltanto gli individui davanti a Dio).

Page 18: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

44

La posizione di Agostino è sostenuta dal Sinodo di Orange (529), ma in quel periodo a causa delle invasioni barbariche, gli incontri e le discussioni teologiche fra i cristiani si resero molto difficili. Al tempo di Carlo Magno si tornò sulle discussioni intorno al pelagianesimo. Il monaco Gotescalco apparentemente sosteneva che Dio attivamente vuole che il non-eletto sia dannato, posizione respinta dal Sinodo di Quiercy nell'849. La predestinazione nella riforma protestante. Per il mondo protestante seguo fondamentalmente J. E. Rutherford, Augustine, sixteenth-century reformations and escaping predestination / in D. Woods, V. Twomey and J. E.Rutherford (ed.), The mystery of Christ in the Fathers of the Church : essays in honour of D. Vincent Twomey SVD, Four Courts Press, Dublin, Irlanda ; Portland, OR 2012, 192-206. Lutero (+1546) fece della grazia di Cristo un punto centrale della sua dottrina. Gli uomini si salvano per grazia attraverso la fede. Peccatori come sono e incapaci di compiere i comandamenti divini, essi non conoscono le vie della salvezza. La loro ragione non afferra la logica di Dio e per questo motivo è abbastanza inutile indagare sui disegni divini. Egli preferiva accettare l'insegnamento della Scrittura e non porsi questioni speculative. Certamente egli pensa che la Scrittura insegna una predestinazione degli eletti -in ciò Lutero era prettamente agostiniano-, ma preferisce non andare molto oltre e mantenere un atteggiamento piuttosto pratico: tutti dobbiamo amare e lodare Dio, senza preoccuparci troppo se siamo predestinati alla salvezza, poiché ad ogni modo non possiamo fare nulla su questo aspetto. In Svizzera invece le cose andarono diversamente. La Riforma venne messa in atto a Ginevra principalmente ad opera di Giovanni Calvino (+1564), riformatore austero e grande predicatore. A differenza di Lutero, Calvino era un uomo formato nell'ambito del diritto e uno studioso. Fu lui a dare alla riforma una componente dogmatica e speculativa. Sulla scia di Agostino e di Lutero egli abbracciò l'idea della predestinazione di alcuni, ma la estrapolò anche ai dannati. Gli eletti, pochi, sono predestinati alla salvezza, i condannati, la stragrande maggioranza, alla condanna ("doppia predestinazione"). Dalla prospettiva della sovranità assoluta di Dio e dall'impossibilità dell'uomo di fare nulla per la propria salvezza, egli concludeva che tutto era deciso da Dio. La volontà di Dio è attiva ed è quella volontà che scioglie il cuore umano o lo rende duro. Non esiste la cosiddetta "permissione divina": Dio è il Signore della storia e i buoni e i cattivi servono ai suoi disegni. Dio conosce eternamente e vuole il presente ordine delle cose nel quali alcuni si salvano e altri no. Egli vuole il presente ordine nel quale gli uomini peccano; non lo permette semplicemente e tanto meno è costretto a accettarlo. Sceglie da prima e senza tener conto dei meriti dell'uomo chi vuole, come dice la Scrittura, e rigetta parimenti chi vuole (praedestinatio ante praevisis meritis). (cf. M. Levering, Predestination : biblical and theological paths, Oxford University Press, Oxford ; New York 2011, 101-103). Il problema per Calvino è allora spiegare come si può parlare di un Dio buono e innocente se egli comanda ai cattivi le opere cattive. Calvino rispondeva a questa

Con la linea calvinista la tendenza statica e ontologica che abbiamo visto incoata in Agostino si estrema. L'uomo

Page 19: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

45

questione rifugiandosi nell'incomprensibilità dei giudizi di Dio per la mente umana. Dio, viene a dire Calvino, non vuole l'atto cattivo dei cattivi (i suoi precetti sono contro tali atti), ma vuole compiere il suo decreto eterno che si realizza attraverso l'atto cattivo dei cattivi. Desidera, in sostanza, avere misericordia di chi vuole e trascurare e condannare chi vuole. I condannati realizzano liberamente gli atti di condanna, che Dio ha stabilito per loro. Egli perviene a questa dottrina fondandosi su una interpretazione strettamente letterale di alcuni testi della Scrittura (quelli da noi citati sopra anzitutto). Il successore di Calvino, Theodore Beza (+1605) segue la linea calvinista e esplicita una conseguenza: che Dio non ha potuto morire per tutti ma soltanto per gli eletti. Egli dice anche che la caduta di Adamo ed Eva fu preordinata da Dio. In realtà nessun uomo ha la capacità di dire sì o no a Dio perché comunque ciò che Dio ha stabilito prima della fondazione del mondo è ciò che avviene nella storia. Tuttavia, l'idea che i condannati meritano la loro condanna è un idea presente anche nella Scrittura (oltre che di buon senso), come pure è di buon senso che Dio non vuole il male per nessuno. Questo porterà altri calvinisti a cercare modi in cui si possa esonerare Dio del male e porterà infine alla reazione in senso opposto del calvinista Arminio (+1609), il quale sostenne contro Calvino che i reprobi soffrono per le loro mancanze (cioè si meritano l'inferno). Ciò significa che egli non ammise la doppia predestinazione ma una predestinazione "post praevisis meritis". Arminio sostenne invece insieme a Calvino la dottrina tipicamente protestante dell'impossibilità di meritare la salvezza in modo alcuno.

e la storia non contano niente dinanzi alla sovrana volontà dell'onnipotente.

La predestinazione nell'periodo contemporaneo: K. Barth e H. U. von Balthasar La dottrina sulla predestinazione viene rinnovata nel periodo contemporaneo dal teologo svizzero calvinista K. Barth (+1968). In un noto testo egli spiega come intende questa dottrina:

La volontà eterna di Dio in Gesù Cristo K. Barth, La dottrina dell'elezione divina, UTET, Torino 1983, 23ss. “La volontà eterna di Dio nell’elezione di Gesù Cristo è la sua volontà di sacrificarsi in favore dell’uomo che ha creato e che si è distolto da lui. È quanto accade, secondo la Scrittura, nell’incarnazione del Figlio di Dio, nella sua sofferenza e nella sua morte, come pure nella sua risurrezione. Questo è precisamente l’avvenimento che dobbiamo applicarci a comprendere come contenuto della predestinazione eterna di Dio. L’elezione gratuita in quanto origine di tutte le cose è il dono di Dio stesso identico al suo decreto eterno. Il dono di Dio stesso: Dio ha dato il proprio Figlio: questo avvenimento non solo ha avuto luogo, ma è la predestinazione eterna e divina, Dio ha parlato, ha detto la sua parola; con ciò si è dato e consegnato rischiando la propria esistenza; non per nulla, ma in favore dell’uomo che ha creato e che si è distolto da lui. Questa è la volontà eterna. Dobbiamo capire fin dall’inizio come e perché (lo si è costantemente riconosciuto ed esposto nel corso della storia della dottrina della predestinazione) questa volontà abbia due aspetti, come e perché contenga un sì ed un no, come e perché la predestinazione eterna e divina sia, per usare un termine evocatore, una predestinatio gemina, una doppia predestinazione. Che cosa ha scelto Dio nell’elezione eterna di Gesù Cristo? A questa questione concernente il contenuto della predestinazione non abbiamo potuto dare finora una risposta unica, bensì sempre duplice. La prima risposta è la seguente: scegliendo, Dio ha preso una decisione che lo riguarda; ha scelto di dare e di inviare il proprio Figlio; ha deciso di pronunciare la sua Parola. È presso di lui che si trova il punto di partenza dell’obbedienza del Figlio al Padre; è in lui che la sua volontà ha preso questa forma concreta; che la sua natura è diventata tutta intera questa decisione; è tutta quanta la libertà e tutto quanto l’amore di Dio che sono diventati identici al decreto della predestinazione, identici all’elezione di Gesù Cristo.

Page 20: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

46

Ed ecco la seconda risposta: Dio ha scelto l’uomo, l’uomo concreto, e ha preso una decisione che lo riguarda; ha determinato il suo proprio Figlio ad esistere come Figlio di Davide; ha risolto di fare intendere la sua Parola all’interno del mondo dell’uomo. E in questo modo che Gesù Cristo è stato all’inizio presso Dio; ed è ugualmente in quest’inizio che la volontà divina ha assunto una forma concreta; ma ciò si è verificato in maniera tale che Dio ha cessato di essere solo con se stesso, che un altro, cioè quest’uomo particolare, è stato incluso nella sua volontà ed è diventato un nuovo oggetto (differente da Dio stesso) del decreto divino. D’ora innanzi il decreto divino, l’elezione di Gesù Cristo, non comporta solo più il Dio-che-elegge, ma anche l’uomo-eletto. La volontà eterna di Dio nell’elezione di Gesù Cristo contiene dunque due elementi. E poiché è identica alla predestinazione, essa è autenticamente ed essenzialmente una duplice predestinazione. Dovremo ritornare sulla differenza e sulla relazione esistenti fra i due elementi segnalati or ora; per il momento limitiamoci a constatare che già qui, nella sua origine e nella sua eternità, la volontà divina possiede due aspetti e costituisce dunque una duplice predestinazione; ciò che riconosciamo ed affermiamo confessando che Dio ha scelto per sé la comunione con l’uomo è infatti una cosa e ciò che conosciamo ed affermiamo confessando che Dio ha scelto per l’uomo la comunione con lui è una cosa ben diversa. Sono queste due realtà che, nella loro unità, costituiscono l’elezione divina. Ma poiché l’oggetto dell’elezione è duplice e differente, duplice e differente deve esserne anche il contenuto. Per Dio determinarsi in favore dell’uomo e della comunione con lui non significa la medesima cosa che determinare l’uomo ad entrare in comunione con lui; certo i due atti costituiscono il dono totale di Dio stesso all’uomo; ma se il secondo significa indubitabilmente un dono fatto all’uomo, il primo non può certo significare che Dio si dona o si procura un qualche cosa a se stesso, poiché che cosa mai Dio potrebbe ricavare o procacciare per sé, accordando all’uomo il privilegio di partecipare al suo essere? L’unica cosa che possa essere presa in considerazione in questa prospettiva è che Dio pone in questione se stesso, la sua divinità e la sua potenza, cioè tutto quanto possiede e tutto quanto è come Dio; se il fatto che Dio vuole darsi all’uomo, essere il «suo» Dio, significa per l’uomo un guadagno infinito, un’inaudita promozione, non è certo lo stesso per Dio, per cui una tale alleanza non può che significare compromissione, da qualunque aspetto la si consideri; là dove l’uomo non può che essere vincitore, Dio non può che essere perdente. Tale è precisamente il contenuto, il duplice contenuto della predestinazione divina ed eterna, dato che essa è identica all’elezione di Gesù Cristo: Dio vuole essere perdente affinché l’uomo sia vincente. Salvezza sicura per l’uomo, pericolo altrettanto sicuro per Dio. Se dunque è a buon diritto che, nella dottrina della predestinazione si è sempre attestata una duplice realtà, parlando di elezione e di riprovazione, di predestinazione alla salvezza e alla perdizione, alla vita e alla morte, possiamo senza indugiare oltre proporre la seguente affermazione: nell’elezione di Gesù Cristo, che è la volontà divina eterna, Dio ha destinato il sì all’uomo (cioè l’elezione, la salvezza, la vita) e si è riservato il no (cioè la riprovazione, la condanna, la morte). Se il beneplacito divino, che è all’origine di tutte le cose presso Dio, comporta egualmente il pericolo e la minaccia di una negazione, questo pericolo e questa minaccia sono il lotto che il Figlio di Dio, e dunque Dio stesso, ha assunto, poiché il Figlio di Dio è diventato il Figlio dell’uomo e come tale rappresenta e costituisce il beneplacito divino”.

In questo testo notiamo che Barth parla delle premesse eterne del mondo e dell'uomo. Dio sceglie eternamente il suo Figlio e lo predestina a venire nel mondo. Barth scopre due aspetti differenti in questa predestinazione:

da un lato Dio prende una decisione che Lo impegna. Inviare il Figlio nel mondo significa qualcosa per Dio stesso, parla di una volontà di donare Sè stesso per l'umanità. Parla di un Dio che è Amore e vuole gli uomini. Parla di un impegno che Dio si prende di essere in comunione con l'uomo. Per Dio ciò vuole dire in certo senso "perdere", perché Egli non guadagna nulla creando l'uomo e invece si imbarca in un progetto che esige il sacrificio per la fallibilità dell'uomo.

D'altra parte Dio prende una decisione che riguarda l'uomo. Egli in Gesù

Page 21: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

47

Cristo dona un sì all'uomo e alla sua salvezza. Egli destina l'uomo o lo finalizza alla comunione con Dio.

Da queste prospettive Barth reinterpreta la dottrina di Calvino. C'è infatti, egli dice, una "doppia predestinazione" come diceva Calvino, ma non è la predestinazione di alcuni pochi alla salvezza per grazia di elezione e la predestinazione degli altri (i molti) alla dannazione o alla riprovazione. La doppia predestinazione riguarda il "sì" e il "no" di Dio: il sì di Dio all'umanità che Dio ha deciso di creare e di chiamare alla comunione con Sè, e il "no" di Dio al peccato, che si avvera nella storia e nella pasqua di Gesù Cristo, nella quale Dio stesso fatto carne assume il nostro peccato e lo condanna. Il Figlio di Dio fatto carne nella sua obbedienza al Padre mostra la sua divinità, perché soltanto Dio può scegliere liberamente l'umiliazione e soltanto l'Onnipotente è in grado di salvare l'abisso che media tra la grandezza e maestà di Dio e la condizione di servo. Nella Croce e nell'umiliazione di Dio risuona il no di Dio a Gesù Cristo, il nostro rappresentante. Un "no" che pone un fine radicale a ciò che si oppone e contrasta Dio. La Croce infatti realizza la punizione del peccato. Come scrisse Barth altrove:

“In Gesù Cristo -egli dice- noi vediamo il peccato, ma come peccato condannato. Ecce Homo: Ecco cos’è l’uomo! È il nemico di Dio, e per questa ragione -chi mai potrebbe resistere a Dio?- schiacciato dalla collera divina” (K. Barth, Credo, Labor, Parigi 1937: vers. inglese Scribner, New York 1962, 90).

Ma se Dio ha riservato per il suo Figlio il "no" al peccato degli uomini, la ha fatto perché l'uomo possa ascoltare questo "no", e comprendere che nel disegno di Dio esso non è un rigetto del "peccatore" ma del "peccato del peccatore" condannato nel rappresentante del peccatore, che è Gesù Cristo. Per il peccatore comporta invece un "sì", una volontà incondizionata di salvezza. E l'uomo non può immaginare che la sua ribellione contro Dio possa in qualche modo negare l'elezione che Dio ha fatto di lui in Gesù Cristo. Non può opporsi efficacemente al "sì" divino che risuona nella risurrezione di Cristo, parola ultima pronunciata da Dio e garanzia di vita e di gloria per tutti. Il "no" di Dio è racchiuso nel suo "sì". Il Figlio di Dio ha voluto venire nel mondo, e prendere nel mondo il nostro posto senza nessun merito nostro, per realizzare nella storia la redenzione, la vittoria dell'uomo.

K. Barth pur mantenendo le premesse tipiche dalla riforma ridona una dinamica all'idea di predestinazione. Ma la sua dinamica non è quella storico-salvifica di Paolo, ma un'altra. Si compie all'interno di Dio e della sua decisione di creare il mondo.

Da K. Barth a H. U. von Balthasar La teologia di H. U. von Balthasar (+1988) prende e integra molte istanze di scrittori religiosi di rilievo. Nel nostro tema gli influssi più importante sono due: la teologia della predestinazione di K. Barth (+1968) e la soteriologia trinitaria del russo Sergej Boulgakov (+1944). Il pensiero sulla predestinazione risponde in Balthasar alla questione sulla creazione del mondo. Il mondo ha senso nello spazio del rapporto tra le persone divine, le quali pur essendo infinitamente diverse come persone, hanno per essenza (unica) il dono di sé. Ogni persona divina è e vive per le altre, in un modo che gli è proprio. Balthasar concepisce il senso della creazione in relazione allo scambio di amore intratrinitario. Benché egli non usi questa espressione (almeno per quanto io so) forse si può

Page 22: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

48

riassumere il suo modo di vedere cosi: Dio ha creato il mondo come un "giocattolo" intratrinitario, oggetto del dono che le persone divine si scambiano le une alle altre. Nella Teodrammatica Balthasar spiega che il Padre ha creato il mondo per la gloria del Figlio e costui lo ha accolto e salvato per la gloria del Padre. Analogamente lo Spirito si è donato al mondo per la gloria del noi paterno-filiale.

Il senso e il valore che ha il mondo all'interno di Dio è dato dalla sua collocazione nel Figlio, perché gli uomini sono stati chiamati a diventare "figli nel Figlio" o, più precisamente ancora, perché Gesù Cristo è stato predestinato ad essere il "primogenito tra molti fratelli" (Rom 8,29). Questa predestinazione di Gesù Cristo è universale e normativa per il mondo (Gesù è "l'universale concreto"), nel senso che non esiste uomo alcuno che non sia stato chiamato a diventare conforme all'immagine del Figlio (Rom 8,29), e che perciò non sia stato da Dio progettato all'interno delle coordinate di senso che corrispondono e si manifestano in Gesù. In tutto ciò si manifesta certamente l'influsso di K. Barth. Ma se la predestinazione alla salvezza è universale, significa ciò che tutti devono raggiungere a salvezza? Qualcosa di simile aveva sostenuto Origene con la sua teoria dell'inferno temporaneo e della apocatastasi ultima, e a questa tesi si era anche avvicinato Gregorio di Nissa. Nei tempi più recenti Barth in ambito riformato e Sergej Boulgakov in ambito ortodosso avevano sostenuto idee simili da prospettive diverse. Cosa dice Balthasar? Per il teologo svizzero è chiaro che la libertà umana è un punto essenziale del progetto di Dio. Senza libertà non c'è immagine divina nell'uomo e neanche conformazione con Cristo. E questa libertà può veramente rifiutare Dio. In altre parole sembra che il "giocattolo" trinitario può diventare amaro per la Trinità, una sorta di "dono avvelenato", qualora i figli che dovevano essere tali decidano di non volerlo essere. Così le cose, come può dare Dio il suo sì al mondo, a un mondo dove ci saranno molti che non vorranno essere con Dio ma contro di Lui? La risposta di Balthasar a questa questione è costruita sul canovaccio delle idee di Boulgakov.

Il teologo russo aveva sostenuto nel suo libro L'Agnello di Dio (1927) che, essendo le persone divine dono di sé, nella vita intima di Dio è necessariamente presente una dimensione sacrificale. Il Padre genera il Figlio nella rinuncia di Sé e nel sacrificio di Sé, e così fa il Figlio nel ricevere il dono del Padre, per cui all'interno della vita trinitaria si dà una kenosi eterna.

Page 23: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

49

Balthasar si avvicina a queste idee di Boulgakov. Per lui il dramma tra Dio e il mondo è possibile perché è pre-contenuto, permesso, infinitamente superato e trasceso nell'evento eterno dell'amore intratrinitario. La rivolta contro Dio è ammissibile nel progetto divino sul mondo perché la separazione di Dio che il peccatore origina con i suoi atti può essere compresa e racchiusa nella capacità delle persone divine di rinunciare a se stesse e donarsi all'altro da se (kenosi dell'amore trinitario). È quanto avviene, per Balthasar, nel triduo pasquale di Gesù Cristo: Egli, archetipo della creazione, viene nella nostra carne peccaminosa, prende su di sé il peccato e soffre davvero ciò che il peccatore merita, cioè la separazione da Dio, fino alla separazione più completa e finale che è inerente al peccato: l’oscurità della morte eterna. Il dramma, incentrato sulla sostituzione vicaria di Cristo, realizza nella storia l’amore assolutamente giusto da Dio: il Padre si separa dal Figlio, che ha assunto il nostro peccato, e lo lascia andare sulla strada dell'abbandono e il Figlio così caricato si sottomette all'esperienza della lontananza di Dio prodotta dal peccato (lo Spirito mantiene l'unità delle due persone divine in questa lontananza e separazione “economica”). Per questa azione il Figlio colloca la "perdizione" umana, cioè la bugia del peccato, nella logica dell'amore trinitario e cancella così ogni peccato. La resurrezione di Cristo è perciò la prova del fatto che è nato un mondo nuovo, sorto dal sacrificio di Dio, dall'Agnello immolato per i nostri peccati. Certamente Balthasar non ha sostenuto che tutti i peccatori saranno salvati. La sua impostazione porta logicamente verso tale esito, ma il teologo svizzero non ha mai inteso racchiudere la sovrana libertà di Dio in un sistema logico. Tutt'altro, deve essere sempre tenuta in primo piano la capacità divina di sorprendere, di inventare e di creare, segno della grandezza di Dio. Perciò anche un esito tragico (con dei condannati) è possibile per il teologo svizzero. Egli però ha animato a sperare che tutti siano salvati. TD, II, 248.

Come in Barth, anche in Balthasar la dinamica della predestinazione è intradivina. Solo che qui non riguarda Dio e il mondo, ma riguarda internamente le persone in Dio.

La predestinazione alla luce del discorso di Giovanni Paolo II del 28-V-86 [Catechesi sul Credo]. La predestinazione riguarda la verità sul destino dell'uomo. Nella rivelazione divina la parola «predestinazione», significa l'eterna scelta di Dio, una scelta paterna, intelligente e positiva, una scelta d'amore. Questa scelta si traduce nel piano creativo e redentivo. Essa precede la creazione del mondo e dell'uomo. L'uomo, ancor prima di essere creato, viene «scelto» da Dio nel Figlio eterno.

la predestinazione precede la creazione. Dio vuole «prima» comunicarsi nella sua divinità all'uomo e solo dopo vuole la creazione.

La predestinazione, cioè l'adozione a figli dell'eterno Figlio, si opera non solo in relazione alla creazione del mondo e dell'uomo nel mondo, ma anche in relazione alla redenzione.

Nella predestinazione è contenuta dunque l'eterna vocazione dell'uomo alla partecipazione alla natura stessa di Dio, l'adozione a figli.

Page 24: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

50

La predestinazione è il contenuto della divina Provvidenza. È necessario allargare una certa concezione naturalistica di Provvidenza, limitata al buon governo della natura fisica o anche del comportamento morale naturale. In realtà, la Provvidenza divina si esprime nel conseguimento delle finalità che corrispondono al piano eterno della salvezza, della finalità salvifica che si esprime con l'idea di predestinazione in Cristo. [prima si era detto] La predestinazione dell'uomo e del mondo in Cristo, Figlio eterno del Padre, conferisce a tutta la dottrina sulla Provvidenza divina una decisa caratteristica soteriologica ed escatologica Notiamo che per Giovanni Paolo II:

La predestinazione non si riferisce a determinare la condizione finale di una parte dell'umanità, ma alla ragione per la quale quella umanità è creata. Qui c'è differenza con Agostino e Calvino.

In questo senso la predestinazione è universale (abbraccia l'intera umanità e il mondo) e si realizza in Gesù Cristo (nel Verbo?). Questa universalità è anche sottolineata da Barth e da Von Balthasar.

Allo stesso tempo la predestinazione non è incompatibile con la possibilità della condanna eterna di uomini, perché Dio rispetta la libertà umana. Qui c'è differenza con Barth e, in certo senso, con Von Balthasar.

Infine, la predestinazione è l'idea direttiva della provvidenza, la quale non si riferisce solo a un ordine naturale più o meno isolato in se stesso, ma all'intero ordine o progetto di Dio. Perciò la provvidenza si riferisce ugualmente alla salvezza.

→ Questo orientamento soteriologico ed escatologico della predestinazione avvicina questa visione a quella paolina. Si tratta di nuovo di come Dio ordina i mezzi per il destino dato al mondo.

Page 25: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

51

Per molti o per tutti? L'efficacia salvifica del sangue di Gesù. venerdì 8 novembre 2013 16:55

Bibliografia A. Bonora, Noè: un'alleanza per tutti i popoli, "Parola, Spirito e Vita" 16 (1987), 9-23. C. Giraudo, «Pro vobis et pro multis». La parole istituzionali tra quello che ha detto Gesù e quello che possiamo leggervi noi, "Gregorianum " 93 (2012), 677-709. C. Marucci, Per molti o per tutti?, "Rivista liturgica" 94 (2007), 285-300. G. O'Collins, Salvezza per tutti : gli altri popoli di Dio, Queriniana, Brescia 2011, A. Perotti, "Per molti", "per tutti" o solo "per voi"? Mt 20,28 -- Mc 10,45; Mt 26,28 -- Mc 14,24 / Lk 22,19 s, "Bibbia e Oriente" 54 (2012), 47-64. F. Pieri, Per una moltitudine : Sulla traduzione delle parole eucaristiche, Dehoniane, Bologna 2012, F. Prosinger, Le sang de l'Alliance répandu "pour tous" ou "pour beaucoup"?, "Sedes Sapientiae" 87 (2004), 53-70. P. Regan, Advent to Pentecost : comparing the seasons in the ordinary and extraordinary forms of the Roman rite, Liturgical Press, Collegeville, Minn. 2012, M. Hauke, Shed for the Many. An Accurate Reading of the Pro Multis in the Formula of Consecration, "Antiphon" 14 (2010), 169-229.

La problematica liturgica e le questioni collegate. I vangeli sinottici come pure S. Paolo ci hanno trasmesso le parole che Gesù ha pronunciato per l'istituzione dell'Eucaristia Mc 14,22-25; Mt 26,26-29; Lc 22,15-20 e 1Cor 11,23-26. C'è una notevole somiglianza tra i testi di Mc e Mt da una parte e tra i testi di Lc e Paolo da un altra. A noi ci interessa considerare chi sono i destinatari del corpo dato e del sangue versato di Cristo. Si legge:

Mc: "Questo è il mio sangue dell'alleanza versato per molti", (non accenna a destinatari quando parla del corpo).

Mt: "questo è il mio sangue, dell'alleanza, versato per molti in remissione dei peccati"; (non accenna a destinatari quando parla del corpo).

Lc: "Questo è il mio corpo che è dato per voi" "Questo è il calice del mio sangue che è sparso per voi".

Paolo: "Questo è il mio corpo che è per voi" (non accenna a destinatari quando parla del sangue)

Come si vede le formule di Mc e Mt contengono l'espressione "per molti" e quelle di Lc e Paolo dicono "per voi". La più esplicita è quella di Mt: il sangue è versato "per molti in remissione dei peccati". Nessuna di queste formule risponde esattamente alla versione liturgica per la consacrazione eucaristica nel rito latino della Messa. Le varie preghiere eucaristiche approvate recitano in latino: "qui por vobis tradetur" (formula del pane) e "qui por vobis et pro multi effundetur in remissionem peccatorum" (formula del calice). Cose si vede facilmente il rito latino decise di approfittare per intero il dato della Scrittura e unì semplicemente le due formule, quella matteano-marciana e quella lucano-paolina. Il risultato è che quando si parla del pane si legge "pro vobis" (poiché nè Mt nè Mc parlano resta solo il "pro vobis" di Lc e Paolo) e nel calice si legge "pro vobis et pro multis (che assomma i due gruppi di formule). Alla fine degli anni sessanta, con la riforma liturgica, si pose la questione delle traduzioni alle lingue volgari di queste formule latine. C'era all'epoca un consenso tra gli esegeti sul fatto che quando Gesù aveva detto "per molti" nell'ultima cena, egli aveva inteso "molti" nel senso di "tutti". Che, cioè egli aveva voluto versare il suo sangue per tutti.

Page 26: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

52

A questo consenso esegetico si era arrivato perché si riteneva che i testi greci dei vangeli arrivati a noi, avessero tradotto letteralmente le parole di Gesù dette in aramaico. Essi dicevano che l'aramaico non ha una parola per esprimere l'idea di morire per tutti, usano allora la parola "molti" volendo significare che Gesù muore per la moltitudine, vale a dire, per tutti. Così, ad esempio, J. Jeremias in un articolo sulla parola greca polloí (=molti), apparso sul Grande Lessico del Nuovo Testamento (vol. X, col 1329-1354) scriveva:

Come conseguenza di questa convinzione, e guidate dall'idea di esprimere fedelmente l'intenzione di Gesù nell'Ultima Cena, l'espressione "pro multis" del messale latino fu tradotta in italiano "per tutti" e nella maggior parte delle altre lingue in modo analogo: in tedesco "für alle", in inglese "for all", in spagnolo "por todos los hombres". In francese si recita invece "pour la multitude". Trascorsi 50 anni del Concilio si può dire che il contesto sia alquanto cambiato, per almeno tre motivi:

Da una parte, essendo trascorsi già 50 anni dal Concilio è possibile fare una valutazione oggettiva della riforma liturgica. Non si può non notare che mentre negli ambienti tradizionalisti la riforma non è stata accettata perché la si riteneva infedele alla Tradizione, negli ambienti liberali è stata usata in modo abusivo per imporre prassi non previste né approvate dai libri liturgici. Entrambe queste istanze spingono per un maggiore rigore all'ora di vivere e di applicare le norme liturgiche. Ciò vale anche per le traduzioni dal latino alle lingue volgari.

Inoltre, in questi 50 anni, il progredire di una società sempre più secolarizzata ha prodotto un indebolimento del senso del peccato nel popolo cristiano e, correlativamente, ha diffuso la convinzione che, poiché Dio ama tutti, la sua misericordia salverà tutti. Cioè si è diffusa l'idea di un certo "automatismo" nella salvezza. È utile per contrastare questa posizione rivedere quelli elementi che possono favorire una falsa idea che tutti saranno salvati alla fine. Il "per tutti" forse è uno di questi elementi.

Infine, c'è il fatto che il consenso esegetico che esisteva 50 anni fa sul senso "inclusivo" delle parole di Gesù, oggi è diventato meno forte. In altre parole: mentre prima si pensava che la traduzione corretta del "versato per molti" era "versato per tutti" adesso si riconosce che questa traduzione non s'impone: non c'è una certezza, ma soltanto una possibilità che le cose stiano così (cioè che "per molti" = "per tutti").

Questi (e forse anche altri) motivi hanno indotto a rivedere le traduzioni alle lingue volgari del "per molti" nel testo consacratorio del Messale Romano. La Congregazione per il Culto Divino ha deciso di cambiare le traduzioni del "pro multis" nelle varie lingue, in modo che si traduca "per molti" anziché con "per tutti". Due documenti aiutano a comprendere bene le ragioni del cambiamento, nella linea di quanto ha appena segnalato. Essi sono:

La lettera inviata dal card. Arinze ai presidenti della Conferenze episcopali nazionali (17-X-2006).

La lettera inviata da Papa Benedetto XVI alla Conferenza episcopale tedesca (14-IV-2012) Queste lettere fanno bene il punto della situazione.

Page 27: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

53

I: La lettera del Card. Arinze CONGREGATIO DE CULTU DIVINO ET DISCIPLINA SACRAMENTORUM Prot. N. 467/05/L Roma, 17 ottobre 2006

Eminenza / Eccellenza, nel luglio 2005 questa Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, in accordo con la Congregazione per la Dottrina della Fede, ha scritto a tutti i Presidenti di Conferenze episcopali per chiedere la loro ponderata opinione sulla traduzione nelle varie lingue locali dell'espressione pro multis nella formula della consacrazione del Glorioso Sangue durante la celebrazione della Santa Messa (rif. Prot. n. 467/05/L del 9 luglio 2005). Le risposte ricevute dalle Conferenze episcopali sono state studiate dalle due Congregazioni ed è stato inviato un rapporto al Santo Padre. Su suo indirizzo, questa Congregazione ora scrive all'Eccellenza Vostra/Eminenza Vostra nei seguenti termini:

1. Un testo che corrisponde alle parole pro multis, tramandato dalla tradizione della Chiesa, costituisce la formula in uso nel Rito Romano Latino dai primissimi secoli. Negli ultimi trent'anni circa, alcuni testi approvati in lingua locale hanno adottato la traduzione interpretativa "per tutti" o i suoi equivalenti.

2. Non sussiste alcun dubbio circa la validità delle Messe celebrate con l'uso di una formula regolarmente approvata che contenesse una formula equivalente a "per tutti", come la Congregazione per la Dottrina della Fede ha già dichiarato (cfr. Sacra Congregatio pro Doctrina Fidei, Declaratio de sensu tribuendo adprobationi versionum formularum sacramentalium, 25 gennaio 1974, AAS 66 [1974], 661). Certo, la formula "per tutti" corrisponderebbe senza dubbio a una corretta interpretazione dell'intenzione del Signore espressa nel testo. È un dogma della fede che Cristo è morto sulla Croce per tutti gli uomini e le donne (cfr. Gv 11,52 2Cor 5,14-15 Tt 2,11 1Gv 2,2).

3. Ci sono, tuttavia, molte ragioni a favore di una resa più precisa della tradizionale formula pro multis:

→ a. I Vangeli sinottici (Mt 26,28 Mc 14,24) fanno specifico riferimento ai "molti" per i quali il Signore offre il suo Sacrificio, e la scelta di queste parole è stata evidenziata da alcuni studiosi come in connessione come le parole del profeta Isaia (53,11-12). Sarebbe stato perfettamente possibile per il testo evangelico aver detto "per tutti" (per esempio, cfr. Lc 12,41); invece, la formula data nel racconto dell'istituzione è "per molti", e le parole sono state fedelmente tradotte in questo modo nella maggior parte delle versioni moderne della Bibbia.

→ b. Il Rito Romano Latino ha sempre detto pro multis e mai pro omnibus nella consacrazione del calice.

→ c. Le anafore nei diversi Riti Orientali, in greco, siriaco, armeno, lingue slave, ecc., contengono l'equivalente verbale del latino pro multis nelle rispettive lingue.

→ d. "Per molti" è la fedele traduzione di "pro multis", mentre "per tutti" è piuttosto una spiegazione del genere più adatto ad una catechesi.

→ e. L'espressione "per molti", anche se rimane aperta all'inclusione di ogni singola persona umana, riflette anche il fatto che questa salvezza non arriva in modo meccanico, senza la volontà o la partecipazione di ciascuno; piuttosto, il credente viene invitato ad accettare nella fede il dono che gli viene offerto e a ricevere la vita soprannaturale donata a coloro che partecipano a questo mistero, vivendolo nella propria vita in maniera così perfetta da essere inclusi tra i "molti" a cui si riferisce il testo.

→ f. In linea con l'Istruzione Liturgiam authenticam è necessario impegnarsi ad essere più fedeli al testo latino delle edizioni tipiche.

Alle Conferenze episcopali di quei Paesi in cui la formula "per tutti" o suo equivalente è al momento in uso si richiede perciò di intraprendere la necessaria catechesi dei fedeli su questo punto nei prossimi uno o due anni per prepararli all'introduzione di una precisa traduzione in lingua locale della formula pro multis nella prossima traduzione del Messale Romano che i vescovi e la Santa Sede approveranno per l'uso nel loro Paese. Con

Page 28: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

54

l'espressione della mia più alta stima e rispetto, rimango di Vostra Eminenza / Vostra Eccellenza, devotamente vostro in Cristo, Francis Card. Arinze Prefetto

Aspetti importanti di questa lettera sono:

Si riconosce che la formula "per tutti" corrisponde a una corretta interpretazione dell'intenzione del Signore espressa nel testo.

Si riconosce inoltre che è un dogma della fede che Cristo è morto sulla Croce per tutti gli uomini e le donne.

Si riconosce che il testo dei vangeli poteva dire "per tutti" e non lo ha detto. Scrive "per molti" in greco e le Bibbie traducono "per molti" nelle lingue volgari.

Si distingue tra traduzione di un testo e interpretazione di un testo: "per tutti" sarebbe una interpretazione.

Lettera inviata da Papa Benedetto XVI alla Conferenza episcopale tedesca (14-IV-2012) "SIAMO MOLTI E RAPPRESENTIAMO TUTTI..."

Eccellenza! Reverendo, caro arcivescovo! In occasione della sua visita, il 15 marzo 2012, ella mi ha messo a conoscenza del fatto che, per quanto riguarda la traduzione delle parole "pro multis" nella preghiera del canone della santa messa, tra i vescovi dell'area di lingua tedesca tuttora non esiste consenso. A quanto pare incombe il pericolo che, nella nuova edizione del "Gotteslob", la cui pubblicazione è attesa presto, alcune parti dell'area linguistica tedesca desiderino mantenere la traduzione "per tutti", sebbene la conferenza episcopale tedesca sia d'accordo nello scrivere "per molti", così come auspicato dalla Santa Sede. Le ho promesso di pronunciarmi per iscritto in merito a tale importante questione, per prevenire una simile divisione nel luogo più intimo della nostra preghiera. Provvederò a fare inviare questa lettera, che attraverso di lei indirizzo a tutti i membri della conferenza episcopale tedesca, anche agli altri vescovi dell'area di lingua tedesca. Permettetemi qualche breve parola su come è sorto il problema. Negli anni Sessanta, quando il messale romano, sotto la responsabilità dei vescovi, dovette essere tradotto in lingua tedesca, esisteva un consenso esegetico sul fatto che il termine "i molti", "molti", in Isaia 53, 11 s., fosse una forma espressiva ebraica per indicare l'insieme, "tutti". La parola "molti" nei racconti dell'istituzione di Matteo e di Marco era pertanto considerata un semitismo e doveva essere tradotta con "tutti". Ciò venne esteso anche alla traduzione del testo latino, dove "pro multis", attraverso i racconti evangelici, rimandava a Isaia 53 e quindi doveva essere tradotto con "per tutti". Tale consenso esegetico nel frattempo si è sgretolato; non esiste più. Nel racconto dell'ultima cena della traduzione unificata tedesca della Sacra Scrittura si legge: "Questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza, versato per molti" (Mc 14, 24; cfr. Mt 26, 28). Ciò rende evidente una cosa molto importante: la traduzione di "pro multis" con "per tutti" non è stata una traduzione pura, bensì un'interpretazione, che era, e tuttora è, ben motivata, ma è una spiegazione e dunque qualcosa di più di una traduzione. Questa fusione fra traduzione e interpretazione per certi versi fa parte dei principi che, subito dopo il Concilio, guidarono la traduzione dei testi liturgici nelle lingue moderne. Si era ben consapevoli di quanto la Bibbia e i testi liturgici fossero distanti dal mondo del linguaggio e del pensiero attuale della

Page 29: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

55

gente, per cui anche tradotti avrebbero continuato ad essere incomprensibili per quanti partecipavano alle funzioni. Un rischio nuovo era il fatto che, attraverso la traduzione, i testi sacri sarebbero stati aperti, lì, davanti a quanti partecipavano alla messa, e tuttavia sarebbero rimasti molto distanti dal loro mondo, ed anzi questa distanza sarebbe diventata più che mai visibile. Quindi non ci si sentì solo autorizzati, ma addirittura obbligati a immettere l'interpretazione nella traduzione, così da abbreviare il cammino verso le persone, i cui cuori e le cui menti dovevano essere raggiunti da quelle parole. In una certa misura il principio di una traduzione contenutistica e non necessariamente letterale dei testi fondamentali continua ad essere giustificato. Poiché pronuncio spesso le preghiere liturgiche nelle varie lingue, noto che talvolta tra le diverse traduzioni quasi non si riscontrano somiglianze e che il testo comune sulle quali si basano spesso è solo lontanamente riconoscibile. Allo stesso tempo si sono verificate delle banalizzazioni che costituiscono vere perdite. Così, nel corso degli anni, io stesso ho compreso sempre più chiaramente che, come orientamento per la traduzione, il principio della corrispondenza non letterale, bensì strutturale, ha i suoi limiti. Seguendo queste intuizioni, l'istruzione per i traduttori "Liturgiam authenticam", promulgata il 28 marzo 2001 dalla congregazione per il culto divino, ha messo nuovamente in primo piano il principio della corrispondenza letterale, senza naturalmente prescrivere un verbalismo unilaterale. L'importante intuizione che sta alla base di questa istruzione è la distinzione, già citata all'inizio, fra traduzione e interpretazione. Essa è necessaria sia per le parole della Scrittura, sia per i testi liturgici. Da un lato, la sacra Parola deve emergere il più possibile per se stessa, anche con la sua estraneità e con le domande che reca in sé. Dall'altro, alla Chiesa è affidato il compito dell'interpretazione affinché – nei limiti della nostra rispettiva comprensione – ci giunga il messaggio che il Signore ci ha destinato. Anche la traduzione più accurata non può sostituire l'interpretazione: fa parte della struttura della Rivelazione il fatto che la Parola di Dio venga letta nella comunità interpretante della Chiesa, che la fedeltà e l'attualizzazione si leghino tra loro. La Parola deve essere presente per se stessa, nella sua forma propria, a noi forse estranea; l'interpretazione deve essere misurata in base alla sua fedeltà alla Parola, ma al tempo stesso deve renderla accessibile a chi l'ascolta oggi. In tale contesto, la Santa Sede ha deciso che nella nuova traduzione del messale l'espressione "pro multis" debba essere tradotta come tale, senza essere già interpretata. La traduzione interpretativa "per tutti" deve essere sostituita dalla semplice traduzione "per molti". Vorrei ricordare che sia in Matteo sia in Marco non c'è l'articolo, quindi non "per i molti", bensì "per molti". Se dal punto di vista della correlazione fondamentale fra la traduzione e l'interpretazione questa scelta è, come spero, del tutto comprensibile, sono però consapevole che essa rappresenta una sfida immensa per tutti coloro ai quali è affidato il compito di spiegare la Parola di Dio nella Chiesa. Per chi normalmente frequenta la messa, ciò appare quasi inevitabilmente come una frattura al centro stesso del rito sacro. Domanderà: ma Cristo non è morto per tutti? La Chiesa ha modificato la sua dottrina? Può farlo, le è permesso? È all'opera una reazione che vuole distruggere l'eredità del Concilio? Grazie all'esperienza degli ultimi cinquant'anni, tutti noi sappiamo quanto profondamente la modifica delle forme e dei testi liturgici colpisca l'anima delle persone; e quindi quanto un cambiamento in un punto così centrale del testo debba inquietare le persone. Proprio per questo, quando davanti alla differenza fra traduzione e interpretazione si scelse la traduzione "molti", si stabilì anche che nelle diverse aree linguistiche la traduzione dovesse essere preceduta da una catechesi accurata, con la quale i vescovi dovevano spiegare concretamente ai loro sacerdoti, e tramite loro ai fedeli, di che cosa si trattava.

Page 30: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

56

Questa catechesi previa è il presupposto essenziale per l'entrata in vigore della nuova traduzione. Per quanto mi risulta, nell'area di lingua tedesca una tale catechesi finora non c'è stata. La mia lettera intende essere una richiesta pressante a tutti voi, cari confratelli, a preparare ora una tale catechesi, per poi parlarne con i vostri sacerdoti e al contempo renderla accessibile ai fedeli. In questa catechesi bisogna anzitutto chiarire brevemente perché nella traduzione del messale, dopo il concilio, la parola "molti" è stata resa con "tutti": per esprimere in modo inequivocabile, nel senso voluto da Gesù, l'universalità della salvezza che giunge da lui. Allora, però, sorge subito la domanda: se Gesù è morto per tutti, perché nelle parole dell'ultima cena egli ha detto "per molti"? E perché allora insistiamo su queste parole di Gesù dell'istituzione? Prima di tutto, a questo punto bisogna ancora precisare che secondo Matteo e Marco Gesù ha detto "per molti", mentre secondo Luca e Paolo ha detto "per voi". Ciò sembra stringere ancora di più il cerchio. Ma proprio a partire da qui ci si può avvicinare alla soluzione. I discepoli sanno che la missione di Gesù trascende loro e il loro gruppo; che egli è venuto per riunire insieme i figli di Dio di tutto il mondo che erano dispersi (Gv 11, 52). Le parole "per voi" rendono però la missione di Gesù molto concreta per i presenti. Essi non sono un qualche elemento anonimo di un insieme immenso, bensì ognuno di loro sa che il Signore è morto proprio per lui, per noi. "Per voi" si protende nel passato e nel futuro, si rivolge a me personalmente; noi, che siamo qui riuniti, siamo conosciuti e amati come tali da Gesù. Quindi questo "per voi" non è un restringimento, bensì una concretizzazione che vale per ogni comunità che celebra l'eucaristia, che la unisce in modo concreto all'amore di Gesù. Il canone romano ha unito tra loro le due espressioni bibliche nelle parole di consacrazione e quindi dice: "per voi e per molti". Questa formula, poi, con la riforma liturgica è stata adottata per tutte le preghiere eucaristiche. Però di nuovo: perché "per molti"? Il Signore non è forse morto per tutti? Il fatto che Gesù Cristo, come Figlio di Dio fatto uomo, sia l'uomo per tutti gli uomini, il nuovo Adamo, è una delle certezze fondamentali della nostra fede. Vorrei a questo riguardo ricordare solo tre versi delle Scritture. Dio "ha dato per tutti noi" il proprio Figlio, dice Paolo nella lettera ai Romani (8, 32). "Uno è morto per tutti", afferma nella seconda lettera ai Corinzi a proposito della morte di Gesù (5, 14). Gesù "ha dato se stesso in riscatto per tutti", si legge nella prima lettera a Timoteo (2, 6). Ma allora bisogna davvero domandare ancora una volta: se questo è tanto ovvio, perché la preghiera eucaristica dice "per molti"? Ora, la Chiesa ha tratto questa formulazione dai racconti dell'istituzione nel Nuovo Testamento. La usa per rispetto della parola di Dio, per essergli fedele fin nella parola. È il timore reverenziale dinanzi alla stessa parola di Gesù la ragione della formulazione della preghiera eucaristica. Allora, però, domandiamo: perché Gesù ha detto così? La ragione vera consiste nel fatto che Gesù in tal modo si è fatto riconoscere come il servo di Dio di Isaia 53, che egli si è rivelato come la figura annunciata dalla profezia. Il timore reverenziale della Chiesa davanti alla parola di Dio, la fedeltà di Gesù alle parole della "Scrittura": è questa doppia fedeltà il motivo concreto della formulazione "per molti". In questa catena di riverente fedeltà, noi ci inseriamo con la traduzione letterale delle parole della Scrittura. Come prima abbiamo visto che il "per voi" della tradizione paolino-lucana non restringe ma rende concreto, così ora possiamo riconoscere che la dialettica tra "molti" e "tanti" ha una sua importanza. "Tutti" si muove sul piano ontologico: l'essere e l'agire di Gesù comprende l'intera umanità, il passato, il presente e il futuro. Ma di fatto, storicamente, nella comunità concreta di coloro che celebrano l'eucaristia egli giunge solo a "molti". Si può quindi riconoscere un triplice significato dell'attribuzione di "molti" e "tutti".

Page 31: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

57

Anzitutto, per noi, che possiamo sedere alla sua mensa, deve significare sorpresa, gioia e gratitudine per essere stati chiamati, per poter stare con lui e per poterlo conoscere. "Siano rese grazie al Signore che, per la sua grazia, mi ha chiamato nella sua Chiesa...". Poi, però, in secondo luogo ciò è anche una responsabilità. La forma in cui il Signore raggiunge gli altri – "tutti" – a modo suo, in fondo rimane un suo mistero. Tuttavia, è indubbiamente una responsabilità essere chiamati direttamente da lui alla sua mensa per poter sentire: per voi, per me egli ha sofferto. I molti hanno la responsabilità per tutti. La comunità dei molti deve essere luce sul candelabro, città sopra il monte, lievito per tutti. È questa una vocazione che riguarda ognuno in modo del tutto personale. I molti, che noi siamo, devono avere la responsabilità per l'insieme, nella consapevolezza della loro missione. Infine può aggiungersi un terzo aspetto. Nella società attuale abbiamo la sensazione di non essere affatto "molti", bensì molto pochi, una piccola massa che continua a diminuire. E invece no, siamo "molti": "Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (Ap 7, 9). Siamo molti e rappresentiamo tutti. Quindi le parole "molti" e "tutti" vanno insieme e fanno riferimento l'una all'altra nella responsabilità e nella promessa. Eccellenza, caro confratello nell'episcopato! Con tutto questo ho voluto accennare le linee fondamentali della catechesi, con la quale sacerdoti e laici dovranno essere preparati al più presto alla nuova traduzione. Auspico che tutto ciò possa servire anche a una partecipazione più intensa alla celebrazione della sacra eucaristia, inserendosi in tal modo nel grande impegno che dovremo affrontare con l'"Anno della Fede". Posso sperare che la catechesi venga presto preparata e in tal modo diventi parte del rinnovamento liturgico, per il quale il Concilio ha lavorato sin dalla sua prima sessione. Con i saluti pasquali di benedizione, suo nel Signore. Benedictus PP XVI 14 aprile 2012 (Traduzione dall'originale tedesco di Simona Storioni) Incollato da <http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350236>

Le idee che mi sembrano più interessanti in questa lettera sono: La percezione che la traduzione "per tutti" è una interpretazione e non una traduzione

→ Perché ormai non esiste sicurezza che il "per molti" semitico sia = "per tutti". Veramente non esiste neanche sicurezza che sia diverso, solo la formula "per molti" sembra più aperta e meno determinata che "per tutti".

La percezione che comunque Cristo è morto "per tutti", come affermazione dogmatica, indipendentemente della traduzione

L'idea (scientificamente discutibile) che Cristo abbia usato "per molti" perché abbia voluto identificarsi con il servo di Jahvé (unico luogo dove si usa il "per molti" con senso vicario): "il giusto mio servo giustificherà molti" (Is 53,11) "mentre egli portava il peccato di molti" (Is 53,12)

Questioni bibliche e teologiche Qui si potrebbero studiare almeno tre questioni: La questione terminologica: "per molti" in ebraico è o non è "per tutti"? La questione biblica: ammettendo che le parole risalgono a Gesù, perché uso Gesù "per molti"? La questione dogmatica: è vero che Gesù è morto per tutti? In che senso?

1. La questione terminologica:

Greco: polloí, la parola greca che appare nei testi dell'istituzione (hyper pollon in Mc o perì pollon in Mt)ha normalmente il significato di "molti" come contrario a "pochi". Di per sé il significato

Page 32: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

58

sarebbe "molti ma non tutti" (come in Esdras 4 -apocrifo- cap 4, 7, ecc.). Quando però porta l'articolo ("i molti") spesso indica "tutti" o "i molti che sono tutti", come in S. Paolo

→ P. es., Rom 5,19: "Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti (=i molti) sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti (=i molti) saranno costituiti giusti. In questo caso S. Paolo sembra riprendere qualche idea semitica perché altrimenti usare "i molti" risulta un po' forzato, esistendo la parola greca "tutti" (pántos)

Nel nostro caso la parola greca non porta davanti l'articolo, per cui non è necessario intenderla come "per tutti". Ma poiché queste parole vengono da Gesù che le avrà pronunciate in aramaico o in ebraico sacro, potrebbe darsi che in aramaico abbiano un valore equivalente a per tutti.

Ebraico/Aramaico: rabbím (molti) senza l'articolo indica una grande quantità. È più indeterminato del greco, nel senso che non determina se questa è una totalità o meno. Con l'articolo ha, normalmente, come accade pure nel caso del greco, un significato inclusivo (harabbím: la totalità).

→ L'esegeta Joachim Jeremias puntò sull'idea che anche rabbím senza l'articolo avesse un significato inclusivo (la totalità che comprende i singoli), perché diceva che nell'aramaico non esiste un termine per dire "tutti". Questa idea comunque non è del tutto corretta, in quanto, pur infrequente, si usa hakkôl per dire tutti (in Gen 16, 12 si dice di Ismaele che la sua mano sarà contro tutti (jãdô hakkôl). Jeremias comunque afferma che kôl non corrisponde a "tutti" ma all'integralità (non connota l'idea di una somma)[cf. J. Jeremias, La última cena : palabras de Jesús, Cristiandad, Madrid 1980, 195, n.30). Il punto resta discusso.

Indicazione di massima: Possiamo supporre che Gesù abbia usato la parola rabbím, la quale lascia indeterminato se "molti" si riferisce a "tutti" o meno. La sola considerazione terminologica non decide la questione.

→ Benché un buon numero di esegeti del XX secolo, prima e dopo J. Jeremias, abbiano considerato che il senso delle parole di Cristo nell'Ultima Cena era inclusivo (versato "per tutti"), attualmente questa certezza è meno grande. Prosinger e altri hanno mostrato che lo studio di Jeremias non sempre ha usato presupposti corretti. Di conseguenza resta un margine ampio di opinabilità dal punto di vista terminologico. Come ha detto Benedetto XVI nella lettera ai vescovi tedeschi, il consenso sul significato del "per molti" prima era ampio ma attualmente non è più così.

Dovrebbero essere altre considerazioni di contesto (l'Ultima Cena) o di somiglianza (con altri testi biblici e non biblici dell'epoca) a deciderlo.

2. La questione biblica: perché Gesù ha usato "per molti"? Tre posizioni

Jeremias sostiene, come abbiamo visto, che se voleva dire per tutti, doveva dire per molti, perché

non esiste nell'aramaico un termine per dire "tutti". Questa idea oggi è meno accettata, ma è possibile che la consuetudine fosse dire molti per indicare tutti. Allora Gesù avrebbe usato la forma più normale di dire.

Il papa Benedetto XVI dà una risposta diversa, nella lettera di sopra, che suona così: "Gesù si è identificato con il servo di Jahvé" e ha dunque volutamente evocato il testo di Isaia 53. Anche qui la questione non passa di essere probabile, benché oggi sta guadagnando consenso l'idea che Gesù abbia visto la sua morte alla luce della teologia del servo di Jhwh e abbia voluto evocare il servo di Jhwh. Non esiste tuttavia un consenso esegetico forte.

→ Fu anche qui J. Jeremias a difendere questa visione con grande slancio. Dopo aver studiato numerosi testi sulla passione del Signore egli concluse che "la passione si spiega in genere come azione vicaria in favore della moltitudine (Teología del Nuevo Testamento, 342), cioè nella linea del servo di Jhwh.

→ Altri esegeti sono di analogo parere e vedono punti di contatto tra le affermazioni di Cristo nell'istituzione dell'Eucaristia e la teologia isaiana del "servo sofferente", specie con Is 53,10-12. "Al di là delle somiglianze linguistiche, la nozione di dare la vita volontariamente è centrale in Is 53", afferma un importante esegeta (T. France,The Gospel of Mark, 420).

Page 33: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

59

→ La questione è tuttavia oggetto di dibattito come può vedersi dagli status quaestionis offerti da W.M. Becker, The Historical Jesus in the Face of His Death. Internal, Historical, and Systematic Perspectives, Pontificia Universitas Gregoriana, Roma 1994, 105-160 (pp. 98 e 99 e note 58 y 59) e da S. McKnight, Jesus and His Death: Some Recent Scholarship, «Currents in Research: Biblical Studies» 9 (2001) 185-228. Più recentemente in favore dell'identificazione tra Gesù e il Servo, cf. W.H. Bellinger, Jr., W.R. Farmer (eds.), Jesus and the Suffering Servant. Isaiah 53 and Christian Origins, Trinity Press International, Harrisburg (PA) 1998.

Un altra interpretazione consiste nel dire che Gesù ha usato la parola "molti" perché aveva

l'intenzione di offrire il suo sacrificio non per tutti, ma per quelli che di fatto lo avrebbero approfittato (cioè, in genere i credenti). In questo caso le parole avrebbero un senso simile a quando Gesù dice: "Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi" (Gv 17,9). Cioè si tratterebbe della prima comunità (come nella formula di Lc e Paolo: "per voi") e della successiva Chiesa di ogni tempo.

→ Questo modo di vedere non può essere escluso a priori, ma non può essere neanche acriticamente accettato. Altrimenti diverrebbe problematico spiegare i testi del NT in cui si afferma che Gesù ha dato la sua vita per tutti. Benedetto XVI cita alcuni di questi testi nella lettera da noi già considerata: Egli dice: Il fatto che Gesù Cristo, come Figlio di Dio fatto uomo, sia l'uomo per tutti gli uomini, il nuovo Adamo, è una delle certezze fondamentali della nostra fede. Vorrei a questo riguardo ricordare solo tre versi delle Scritture. Dio "ha dato per tutti noi" il proprio Figlio, dice Paolo nella lettera ai Romani (8, 32). "Uno è morto per tutti", afferma nella seconda lettera ai Corinzi a proposito della morte di Gesù (5, 14). Gesù "ha dato se stesso in riscatto per tutti", si legge nella prima lettera a Timoteo (2, 6). Di conseguenza, sebbene Gesù ha potuto offrire la sua vita anzitutto per la comunità dei fedeli, ciò non significa che egli abbia voluto escludere qualcuno dalla sua offerta sacrificale.

→ A mio parere non si deve minimizzare il fatto che - come nota Jeremias - il testo di 1Tim 2,6 ("l'uomo Cristo Gesù ... ha dato se stesso in riscatto per tutti") rende adeguato a un pubblico greco il loghion del riscatto (Mc 10,45: Il Figlio dell'uomo ... è venuto... per servire e dare la propria vita in riscatto per molti"). In altre parole: nella 1Tim Paolo interpreta che il "per molti" di Mc 10:45 significa "per tutti". Lo stesso varrebbe per le parole dell'Ultima Cena.

III. La questione dogmatica (seguo in parte lo studio di Manfred Hauke, ma non la sua posizione) L'idea che Gesù è morto per tutti si trova chiaramente espressa nella sacra Scrittura. Non è sorprendente allora che essa sia anche espressa dai testimoni patristici (come S. Giovanni Crisostomo) e da alcune preghiere eucaristiche antiche. Allo stesso tempo la Chiesa ha sempre pensato che ciò non significa una salvezza automatica per tutti, ma si salveranno coloro che fanno il necessario per ottenere la salvezza. Per questo motivo anche tra i Padri e nelle preghiere eucaristica l'efficacia della morte di Cristo viene spesso collegata alla condizione degli uomini come credenti in Cristo. Non si deve vedere una opposizione tra queste due posizioni (Gesù morto per tutti vs. Gesù morto per i credenti) ma i due aspetti appartengono alla fede della Chiesa. Tuttavia si possono segnalare alcuni sviluppi particolarmente significativi nella storia del tema:

La sistemazione di Prospero d'Aquitania (+>455) sul argomento: egli infatti distingue tra la potenza e la grandezza del sangue versato di Cristo, capace di redimere il mondo e l'efficienza di questo sangue per portare alla vita, la quale richiede di essere bevuta (e dunque il battesimo e la fede viva). Così Prospero afferma che Cristo "è stato crocefisso soltanto per coloro che traggono profitto della sua morte".

Page 34: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

60

Prospero si opponeva ad alcuni autori della Gallia (probabilmente al presbitero Lucido) che

pensavano semplicemente che Cristo non era morto per tutti. La stessa opinione mantenne pochi secoli dopo, nel periodo carolingio, il monaco Gottescalco, il quale anticipava la visione calvinista e parlava di una doppia predestinazione, alla salvezza e alla condanna. Cristo sarebbe morto soltanto per gli eletti. Gottescalco fu condannato dal concilio di Quercy (853), svoltosi sotto la direzione di Icmaro di Reims. Questo concilio asseriva che "così come non c'è, non c'è mai stato né ci sarà un uomo la cui natura non sia stata assunta in Gesù Cristo, nostro Signore, allo stesso modo non c'è, non c'è stato né ci sarà un uomo per il quale Gesù non abbia sofferto. Tuttavia non tutti saranno redenti dal mistero della sua Passione" (DH 624).

S. Pietro Damiano (1072?) spiega il senso del pro multis in questo modo: "pro solis destinatis effusus est quoad efficatiam; pro omnibus quoad sufficientiam.” Distingue tra potere redentore del sangue (sufficientiam) e azione efficace del sangue (efficaciam). Expositio Canonis Missae (PL 145.884b). Questa spiegazione passa agli autori del medioevo, non ultimo S. Tommaso d'Aquino (IV Sent. d. 8 q. 2 art. 2 qa 3 arg. 7). Autori posteriori usano questa distinzione tra eficienza e suficienza per spiegare la differenza tra il loghion del riscatto e la sua versione per il pubblico greco in 1Tim. Essi dicono che Mc 10:45 parla della efficienza mentre 1Tim 2:6 si riferisce alla sufficienza. Gli autori di questo periodo tengono conto del fatto che Gesù conosce chi sono coloro che si salveranno, e tiene conto di ciò nell'offerta della sua vita.

→ Nel periodo medievale si parla principalmente del "pro multis" nel contesto delle parole di consacrazione del sacerdote (dunque in rapporto alla Messa) avendo in vista l'applicazione concreta del sacrificio della Croce. Perciò si mette in luce principalmente l'efficacia, come diretta alla comunità cristiana. Si tende a riferire il "pro multis" a coloro che in qualche modo beneficiano dei frutti della Messa (p. es.: coloro per i quali la Messa si offre, ecc.).

Si arriva così alla formulazione del Catechismo Romano (o Catechismo del Concilio di Trento:

pubblicato in latino e italiano allo stesso tempo nel 1566), è il documento magisteriale più autorevole sulla questione:

Le parole: per voi e per molti, prese separatamente da Matteo (Mt 26,28) e da Luca (Lc 22,20), sono riunite dalla santa Chiesa, ispirata da Dio, per esprimere il frutto e l'utilità della passione. Infatti se consideriamo l'efficace virtù della passione (in latino: eius virtutem), dobbiamo ammettere che il sangue del Signore è stato sparso per la salute di tutti; ma se esaminiamo il frutto che gli uomini ne hanno ritratto, ammetteremo facilmente che ai vantaggi della passione partecipano non tutti, ma soltanto molti. Perciò dicendo: per voi, ha voluto significare i presenti, con cui parlava, eccetto Giuda, oppure gli eletti del popolo Ebreo, quali erano i discepoli. Ed aggiungendo: per molti, ha voluto intendere gli altri eletti, Ebrei e i Gentili. Con ragione dunque non è stato detto: per tutti, trattandosi qui soltanto dei frutti della passione, la quale apporta salute soltanto agli eletti. In questo senso bisogna intendere anche le parole dell'Apostolo: Gesù Cristo fu offerto una sola volta per togliere i peccati di molti (He 9,28); e quelle del Signore: Prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che mi hai dati, perché sono tuoi (Jn 17,9). Il testo suppone, come è normale all'epoca, che Gesù ha detto entrambe le cose, "per voi" e "per molti". Si afferma che la virtù (interpreto: "potenziale") del sangue di Gesù è universale. Il per molti viene riferito agli "eletti", parola con la quale si indica coloro che si salvano. I "molti" sono qui tutti quei eletti che non erano presenti all'Ultima Cena.

Successivamente il significato di "eletti" si avvicinerà di più a quello di "predestinati". All'epoca della composizione del Catechismo, Calvino (+1564) aveva già sostenuto con vigore la doppia predestinazione, e queste idee arrivarono successivamente all'ambito cattolico, in parte per

Page 35: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

61

l'influsso protestante e in parte per il nuovo enfasi sulle opere di Agostino. Alcuni cattolici come Michele Baio (+1589) si avvicinarono abbastanza alle posizioni protestanti. Mezzo secolo più tardi Jansenio (+1638), da un'ottica simile a quella di Calvino, sostenne che la grazia di Cristo era solo per i cristiani "Pagani, Judaei, haeretici aliique huius generis nullum omnino accipiunt a Jesu Christo influxum". La conclusione era anche per lui che Gesù era morto soltanto per alcuni pochi eletti. Una mentalità abbastanza restrittiva sui beneficiari della morte di Cristo rimase per parecchio tempo, temperata qua e là con dichiarazioni magisteriali contra una u altra affermazioni concreta (p. es. le condanne delle idee gianseniste tra il 1641 e il 1664; o quelle per affermazioni di Paschasio Quesnel nel 1713). La Chiesa sembra aver cercato di sostenere le due affermazione (per tutti - per gli eletti) e la loro complementarietà, adducendo di volta in volta spiegazioni teologiche (come quella del Catechismo Romano) e rifiutando gli estremi delle linee "particolariste" (Calvino, Giansenio) e "universaliste" pure (Origene, Barth).

→ Le spiegazioni teologiche, come quella del Catechismo Romano, non si sono imposte. Cornelius a Lapide, grande esegeta gesuita contemporaneo di Calvino, scriveva: "Cristo non morì soltanto per i predestinati, come vorrebbero gli eretici predestinazionisti di un tempo e Calvino nei nostri giorni: perché Cristo ha sofferto per tutti gli uomini in assoluto ed è morto per loro (…) Si può anche dire che "per molti" si riferisce a quelli che ottengono la salvezza completa, i frutti della sua morte tra i giusti, benché egli abbia dato a tutti mezzi sufficienti di grazia per la loro salvezza". (Cornelius a Lapide, Commentarii in Scripturam Sacram, 8:391).

Questa ultima posizione è interessante perché termina accennando al fatto che comunque

Cristo dona a tutti mezzi sufficienti per la loro salvezza. A mio parere questo è uno degli aspetti che ha notevolemnte sottolineato l'ultimo concilio ecumenico: il fatto che la mediazione slavifica di Cristo raggiunge tutti gli uomini senza esclusione. Si dovrà allora dire anche che il sangue di Gesù ha di fatto un influsso benefico per tutti, sia per coloro che ottengano la remissione dei peccati e la salvezza completa, sia per coloro che non arrivano alla visione beata di Dio.

→ Lo schema precedente al Concilio Vaticano II (il sangue di Cristo è sufficiente per la salvezza di tutti ma è efficace soltanto per la salvezza degli eletti) appare insufficiente alla luce della dottrina del Concilio. La grazia di Cristo raggiunge effettivamente tutti almeno sotto certe forme (luci, mozioni, grazie prevenienti e attuali).

→ Infatti il Concilio dice: "la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all'uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua altissima vocazione" (GS 10). E commenta Giovanni Paolo II: "l'uomo - ogni uomo senza eccezione alcuna - è stato redento da Cristo, perché con l'uomo - ciascun uomo senza eccezione alcuna - Cristo è in qualche modo unito, anche quando quell'uomo non è di ciò consapevole: «Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all'uomo» - ad ogni uomo e a tutti gli uomini - «... luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione»" Redemptor Hominis, 14. [Altri affermazioni simili n. 12 della Dichiarazione Dominus Iesus, 16-VI-2000, e nel documento della Commissione Teologica Internazionale Alcune questioni sulla teologia della Redenzione (1994), Parte IV, n. 412]

Di conseguenza queste grazie di Cristo influiscono sulla vita di ogni uomo, e ciò è un bene oggettivo anche per coloro che, comunque, scelgono di comportarsi in modo disordinato. La morte di Cristo è per tutti perché tutti traggono beneficio di essa, compresi coloro che si perdono.

In sintesi, credo che si possa dire che:

1. La morte di Cristo è per tutti perché veramente ha un influsso di salvezza sulla vita di tutti. Questo influsso di salvezza si traduce "per molti" (non sappiamo quanti, né quale percentuale) in una salvezza completa (la vita eterna).

Page 36: I confini della nozione cristiana di redenzione ...bib26.pusc.it/teo/p_ducay/corso/veh377/Parte II.pdf · Queste critiche hanno assunto fondamentalmente tre forme: ... Per Nietzsche

62

→ Questa affermazione è attualmente, a mio parere, la dottrina ufficiale della Chiesa Cattolica. Forse si può dire che essa ha la forza di un dogma di fede.

2. Il senso preciso che Gesù ha dato alle parole "il mio sangue, dell'alleanza, versato per molti in remissione dei peccati" resta aperto agli studi biblici. Esso tuttavia può essere interpretato secondo la dottrina ufficiale della Chiesa, anche perché il "per molti" aramaico ammette un notevole grado di indeterminatezza, il quale permette assorbire le varie sfumature dottrinali.

3. La Chiesa può scegliere quale formula liturgica usare per la consacrazione. Logicamente dovrà esistere una coerenza tra la formula usata e la dottrina ufficiale. Attualmente nel rito latino usa "pro multis effundetur in remissione peccatorum", con l'idea di usare le stesse parole usate nei vangeli (ritenute memoria fedele di ciò che Gesù disse).

4. Nel tradurre alle lingue volgare queste formule la Chiesa può legittimamente:

→ adottare la traduzione che meglio riproduca la dottrina ufficiale della Chiesa, la quale interpreta teologicamente il senso delle parole del vangelo (Benedetto XVI parla di interpretazione strutturale o contenutistica)

· Perciò può tranquillamente tradurre "versato per tutti", e potrebbe anche tranquillamente tradurre "versato per molti" con l'idea di indicare il fatto che non tutti si salvano automaticamente

→ Adottare la traduzione che meglio riproduca le parole trasmesse dai vangeli. (Benedetto XVI parla di interpretazione letterale). In questo caso dovrà vedere come quella stessa parola viene abitualmente tradotta in quella lingua quando appare nei vangeli.

· Questa è stata la scelta fatta negli ultimi anni dalla Congregazione per il Culto (e da Benedetto XVI). Nel nostro caso allora il "pro multis" si deve tradurre "per molti", perché questo è il modo abituale di tradurre nel vangelo la parola greca polloí ("molti").