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Ringrazio per l’aiuto prestatomi Antonio Bettin, Giacomo Loreggian, Bruno Mardegan, Camillo, Giacomo e Massimo Trevisan. Tutti i disegni sono di Bruno Mardegan; gli schizzi di Giuseppe Trevisan. Le immagini sono ricavate da vecchie stampe. Stampato in proprio Giuseppe Trevisan Vicolo Mandiferro, 1 35043 Monselice (PD) Marzo 2013

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Giuseppe Trevisan

VITA NELLA CAMPAGNA

DEL POLESINE

1925 – 1935

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Ai miei genitoriGiacomo e Teresa,che tanto hanno lavorato per farmi studiare a Rovigo, dove mi sono diplomato nel 1937

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Introduzione

Sono nato il 29 novembre 1918 in Ariano Polesine, Rovigo. Nella mia fanciullezza e prima giovinezza ho abitato poi in vari paesi del medio Polesine dove ho esercitato la mia attenzione e voglia di sapere, fissandomi nella memoria ciò che girava attorno a me. Dapprima fui a Costa di Rovigo dal 1920 al 1930, dove io ho frequentato tutte le elementari. Mio padre Giacomo e zio Giacinto, fratello di mia madre, acquistarono un vecchio mulino con annessi abitazione e servizi. All’inizio del 1930 si divisero vendendo il mulino. Noi per un anno andammo in affitto nel mulino di Valdentro di Lendinara, poi passammo nel 1931 a San Bellino, sempre in provincia di Rovigo, in un nuovo mulino di proprietà. Nel marzo del 1936 mio padre dovette venderlo per difficoltà economiche e allora ci trasferimmo in affitto in un mulino di Monselice (Padova), paese dove io ancora vivo. Quei quattro mulini erano simili e avevano le macine di pietra. Andato in pensione nel 2000, per occupare il tempo mi è venuto il desiderio di scri-vere i fatti che più mi hanno coinvolto da fanciullo e da giovane. Scrissi un libro sulla mia prigionia, passai a raccogliere dati sui mulini, ove vissi fino al 1938, poi mi venne voglia di parlare anche di tutti i mestieri che ho visto in passato, giacché quel mondo ora non c’è più. Sono ricordi di un tempo, di settanta, ottanta anni fa. Alcuni richiami potranno far sorridere dato il loro modesto interesse che possono destare nel lettore, ma mi pare opportuno ricordare quei lavori che hanno condizionato parecchie gen-erazioni passate. È per questo ritorno alle origini che ritengo utile richiamare anche i nomi dialettali dei lavori e delle cose, perché parecchie voci gergali lentamente scom-paiono non venendo più usate. Può darsi che questo mio frugare nomi veneti nella memoria mi porti a fare qualche confusione dovuta al fatto che ho cambiato cinque paesi, ognuno con le proprie peculiarità linguistiche, e che mia madre ha sempre parlato il suo dialetto natio di Ariano, che è un misto di veneto e ferrarese. Può anche verificarsi che i miei occhi, prima di fanciullo e poi di giovane, non abbiano avuto capacità di analizzare e vedere in giusta misura le cose ma, dato che il mio intento è solamente quello di descrivere la vita ordinaria, penso di poterlo fare senza incorrere in errori fuorvianti. Sono mosso dal desiderio di “fotografare” come si viveva una vita di tanti anni fa. Ho diviso il mio lavoro in tre parti perché sono tre i paesi che mi hanno suscitato tanti interessi: Costa di Rovigo, Valdentro di Lendinara e San Bellino. Più avanti, la vita mi ha coinvolto in molteplici problemi che mi hanno costretto a superare dif-ficoltà di ogni genere, ma che hanno lasciato impressi nella memoria i lontani ricordi.

Monselice, dicembre 2008

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Costa di Rovigo, 1927. Mia madre con in braccio mia sorella Lucia, a sinistra Luisa, a destra Canzio e io, vestito da Balilla. Manca l’altra mia sorella, Carla, ancora in culla.

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Prefazione alla nuova edizione

Nel dicembre 2008 ho completato queste mie memorie di “Vita nella campagna del Polesine 1925-1935”, dove ho raccontato, dapprima in modo cronologico, tutto quello che mi aveva interessato da fanciullo e da giovanissimo, riunendo poi, alla fine dello scritto, tutta la documentazione grafica e fotografica raccolta.Mi sono reso conto, nel tempo, che questa sistemazione dei materiali illustrativi ha creato nel lettore difficoltà interpretative, poiché la successione delle tavole non va di pari passo con la narrazione del testo.Ho quindi studiato una ricollocazione delle immagini dopo la relativa descrizione, in modo che le parole siano subito illustrate da quelle.Ho approfittato di questa revisione anche per ampliare i testi con aggiunte e precisazioni, che mi sono tornate alla mente in questi ultimi anni, e per arricchire la documentazione con altre tavole, che devo alla cortesia del compianto amico Bruno Mardegan.Con la presente relazione ritengo di aver dato un quadro più preciso della modesta e faticosa vita nelle terre della mia provincia natale di Rovigo relativamente al secondo e terzo decennio del secolo scorso.

Monselice, marzo 2013

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Medio Polesine. I luoghi ove si sono svolti i fatti e le mie prime esperienze raccontate in questo libro: Costa di Rovigo, Lendinara e San Bellino.

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Costa di Rovigo 1925 - 1929

Il mulino della mia fanciullezzaLa prima percezione della realtà che mi circondava è stato il mulino a gas povero di via Scardona, a Costa. La cosa più importante per me era il motore, un mos-tro nero che aveva tutto per sé un grande camerone, sempre pieno di pulviscolo quando il motore era in funzione. A fianco vi era un locale più grande, il mulino vero e proprio mulin, ove erano installate tre coppie di macine di pietra completate da vari accessori; una coppia serviva per macinare il frumento, masènare el for-mento, un’altra il granoturco formentòn, la terza per produrre grossi sfarinati adatti agli animali che tutti chiamavano spezànèle. Nel 1927 quel grande e rombante mo-tore fu eliminato e sostituito con un altro elettrico, molto più piccolo e silenzioso. Tutto il complesso delle macine invece rimase quello di prima. Fu possibile quella conversione perché nel 1925 iniziarono la costruzione di uno zuccherificio funzi-onante con l’energia elettrica; così arrivarono le linee ad alta tensione che furono estese a poco a poco a tutto il paese. Il mio immaginario ha ancora molto vividi i ricordi di quei macchinari sparsi nei due grandi cameroni che venivano usati per mulino e vano motore, anche se da bambino non capivo l’uso di tutti quei congegni che servivano per ottenere le farine. Solo da studente delle medie superiori ho cominciato a rendermi conto dei vari funzionamenti; poi ho completato le mie conoscenze facendo il mugnaio negli anni 1937-38, dopo aver conseguito il diploma magistrale. Quel motore a gas povero e quelle macine hanno sempre suscitato interesse nel corso della mia vita, per cui ora da vecchio, dopo aver compreso come funziona-vano tutte le apparecchiature, desidero farne una descrizione. Trovo questo utile anche per i giovani perché capiscano meglio le grandi e rapide conquiste della tec-nica moderna. Trattandosi però di risultanze che, pur partendo dalla mia infanzia, si sono perfezionate nel tempo, ritengo giusto precisarle alla fine di questi miei ricordi; così posso descrivere specificatamente tutti gli aspetti pratici, esecutivi ed esplicativi di quelle attività che oggi non esistono più, o che comunque ora sono molto diverse.

L’ambiente di Costa di RovigoLa mia casa era sita in una grande fetta di terra posta fra il canale Adigetto e la car-rareccia di via Scardona. Questa strada univa il paese con Lendinara. Nel lato nord del terreno, verso la strada, c’erano la casa a palazzetto su tre piani, il mulino, il grande stan-zone per il motore a gas povero e un magazzino. Nel lato sud c’erano un’aia di selciato di trachite maségne, un piccolo giardino, un grande orto e un altrettanto grande cortile.

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Da bambino vedevo tutto questo come spazio immenso ove far correre i miei de-sideri e i miei interessi. Quell’immobile era il regno della mia famiglia, dove ciascun adulto si era ritagliato un particolare interesse personale. Mio padre si era assunto il compito dell’allevamento del maiale e della coltivazione di asparagi e uva; lo zio alle-vava conigli e coltivava l’orto, mia madre curava la casa e il giardino, la prozia che noi cinque fratelli chiamavamo nonna, si interessava dell’allevamento degli animali da cortile. Io, il più grande dei figli, guardavo attentamente tutto, ma ad attirarmi parti-colarmente erano gli animali. Fu così che, un po’ alla volta, imparai come allevare gli animali da cortile e come sfruttarli per i vari bisogni familiari.

I gallinaceiIn cortile razzolavano una quarantina di capi di pollame di varie razze, perché la nonna ci teneva ad avere animali sempre più grandi e per questo faceva scambi con altre famiglie. Avevamo però anche galline piccole perché erano buone chiocce cioche. Questo era il ciclo dell’allevamento. In primavera alcune galline comincia-vano ad emettere versi striduli: erano pronte a covare. La nonna ne sceglieva due per le quali preparava ceste con paglia. Là deponeva le uova che aveva raccolto o scam-biato. Subito le chiocce si mettevano a covare. Quei nidi gnari, erano posti in luoghi tranquilli e non molto illuminati, così le chiocce non venivano disturbate durante la cova. Ogni giorno però venivano lasciate libere perché potessero bere e man-giare, mentre le uova venivano ricoperte con stracci di lana per mantenerle calde. Dopo circa due settimane le uova venivano guardate contro la luce di una candela per controllare se il pulcino cominciava a formarsi: era la spera, come dicevano. Le uova senza germe invece avevano il tuorlo che si era trasformato in un liquido omogeneo con l’albume: erano improduttive e immangiabili perciò venivano get-tate nel letamaio, erano i così detti ovi sguaratoni. Dopo poco tempo nei nidi si sentivano deboli ticchettii, erano i pulcini che cercavano di rompere il guscio. La nonna aiutava quegli sforzi, rompendo il guscio e ne uscivano pulcini pigolanti. Man mano che nascevano li metteva al caldo dentro un cassetto sotto la piana del focolare, detta la rola, vi metteva anche una scodellina con un po’ d’acqua e piccoli pastoni con granellini di cereali spezzati: erano i primi assaggi dei pulcini. Finite le nascite poneva la chioccia sotto un cesto con caratteristiche particolari: rotondo, senza fondo e con sopra un foro per togliere o mettere la chioccia, era il corgo. Su-bito si sentivano gorgheggi particolari, era la chioccia che chiamava attorno a sé i pulcini. Questi rispondevano subito e s’industriavano a entrare nel corgo, attraverso una fessura ottenuta rialzandolo un po’ da una parte. Dentro c’erano cibo ed acqua e la chioccia era tutta presa a insegnare ai pulcini come nutrirsi. Dopo circa un mese i pulcini erano cresciutelli e la chioccia smetteva di gorgheggiare perché aveva finito la sua mansione di madre: i pulcini ormai erano autosufficienti.

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Quando poi dalle creste era evidente quali fossero i galletti, allora subentrava il la-voro per trasformarne parecchi in capponi, i caponi. La nonna li castrava facendo un piccolo taglio nel retro, che poi ricuciva col refe. Non diventavano più i re del pollaio, ma si ingrassavano: erano scelti poi per i grandi pranzi specie quelli natalizi. I galletti non mutilati servivano per i pasti, quando ar-rivava il nuovo granoturco. In settembre venivano cotti in umido con salse varie e mangiati con la polenta di granone nuovo. Ho imparato che era abbastanza facile preparare un gallinaceo per la pentola. Gli si spezzava il collo con un tiro e lo si appendeva subito a testa in giù per farvi defluire il sangue. Poi veniva immerso in acqua bollente per spennarlo al meglio e con facil-ità, indi veniva eviscerato. Fra le varie interiora saltava fuori il fegato richiesto per il risotto con i fegatini, era questo il modo di preparare un gustoso risotto, il risoto coi ruinazi. Oggi mi pare se ne sia persa l’abitudine, forse perché le galline non sono più ruspanti, ma crescono in batteria, dando però carni piuttosto fibrose e insipide.

I palmipediLa nonna allevava anche una dozzina tra anatre anare, e oche. Comperava le pa-pere e le alimentava, non a becchime come le galline, ma a pastoni di farinacei ed erbe tritate. Nell’allevamento era aiutata dal vicino corso d’acqua ove gli animali guazzavano felici per parecchie ore giornaliere. Verso sera tornavano al pollaio attratte soprattutto dai pastoni che la nonna metteva vicino al portello della recin-zione, che divideva l’orto e il cortile dall’argine del canale. Qualche volta gli animali erano in ritardo, allora io e la nonna andavamo a rac-coglierli: io correvo con un bastone, lei guardava se facevo passi falsi per via dell’acqua corrente e profonda del vicino canale. In autunno inoltrato era l’ora di ingrassare quegli animali a più non posso. Era il momento di dar loro tanto cibo e di rinchiuderli in un piccolo locale perché non perdessero carne e grasso col movimento. Soprattutto le oche avevano un trattamento speciale: messe al buio

Animali da cortile, da sinistra: gallo, chioccia con pulcini, conigli, maiale, tacchino pitòn, cane, capra, gallina, anatre, oche.

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venivano portate, una ad una un paio di volte al giorno, in cucina dove la nonna aveva preparato per loro una grande polenta. La ritagliava in piccole fette e ad ogni oca ficcava in bocca delle fettine che spingeva con le dita, poi all’esterno del collo accompagnava il boccone fino allo stomaco con una mano, era l’incoconamento. Di tanto in tanto la nonna versava dell’acqua nella bocca dell’oca, per favorire la deglutizione. Dopo un certo periodo gli animali venivano macellati. Era questo un lavoro lento perché erano necessarie varie operazioni. Dapprima levare le penne, lo spenamento, che doveva essere fatto con attenzione perché le oche sono coperte dal cosiddetto piumino, tanto richiesto per trapunte, cuscini e rivestimenti di cap-potti foderati. Quando l’animale era eviscerato, veniva tagliato in porzioni e la carne posta in recipienti, soprattutto pignatte o vasi di vetro. Tutto il grasso veniva squagliato a fuoco e versato nei vasi per rasarli. Il fegato dell’oca, boccone ricercato, era servito subito a tavola. Le anatre venivano anch’esse tagliate a pezzi e messe in pignatte come le oche. Con questo sistema si ottenevano carni prelibate, che pote-vano essere conservate e mangiate anche dopo parecchi mesi.

Il maialeLa nostra famiglia aveva un porcile lontano dalla casa per evitare che nei luoghi abitati si diffondessero cattivi odori. Il porcile era tutto di legno e il pavimento era formato da pali accostati fra loro e un po’ sollevati dal terreno in modo che i liquami fossero raccolti in una buca poco profonda. Il maiale poteva uscire a

La nonna, seduta in cucina, riempie a forza il gozzo delle oche da ingrasso con fette di polenta.

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grufolare in un piccolo recinto. La broda, fatta di crusche, patate e zucche, veniva versata in un truogolo albio, posto in una parete, mezzo fuori e mezzo dentro per facilitare i rifornimenti e nel contempo permettere al maiale di mangiare. D’estate la zona veniva rinfrescata dai rami delle zucche che vi crescevano attorno numerose e fitte, coprendo con le loro larghe foglie sia il porcile che il recinto. Sopra a questi c’erano dei pali di sostegno orizzontali la penda. A Costa c’era il detto: “girare come na zuca su la penda” per dire che uno rimaneva sempre nel luogo dove aveva la casa. Quando arrivava il freddo invernale era l’ora di fare i salami, far su el porzeo. Il norcino incaricato portava il giorno prima una tinozza a forma di parallelepipedo veturo, simile a quello che serviva per la pigiatura dell’uva e, ancora, un grande copritavolo di legno e delle corde. Il giorno dopo arrivava di buon mattino con la sua attrezzatura di coltelli e raschietti. Intanto i miei genitori avevano fatto bollire dell’acqua in un grande paiolo parolon. Rovesciato il veturo, il norcino con una cordicella legata sul grugno del maiale, lo trascinava dove era tutto predisposto per lo sgozzamento. Anche se il maiale recalcitrava e grugniva a più non posso, con forza veniva issato sul vetùro rovesciato. Il maiale ormai domo veniva uc-ciso infiggendo un coltello lungo e appuntito sulla vena iugulare. Ne usciva tanto sangue che veniva raccolto in una grande terrina per fare il migliaccio, chiamato genericamente in dialetto sangue. Successivamente il maiale veniva immerso nel veturo pieno d’acqua calda per pulire la cotica con i raschietti. Per girarlo bene da tutte le parti, usavano due corde passanti sotto l’animale. Finito il lavoro di pulizia, che doveva essere accurato, il maiale veniva sollevato con un rudimentale argano e fissato sulle travi di un solaio, in un luogo freddo a nord. Lo ponevano con la testa in giù per poterlo tagliare a metà lungo tutto il ventre e togliere prima le interiora, mentre mia madre cospargeva il pavimento sottostante di segatura o cenere per raccogliere gli eventuali liquidi. Invariabilmente il companatico di quel giorno era il fegato alla veneziana, cioè cotto con la cipolla. Una parte del fegato veniva portato in farmacia dove c’era l’appuntamento col veterinario che lo doveva controllare, tagliuzzandolo un po’, per vedere se il maiale era sano. Il norcino, con delle bacchette di salice scorti-cate, metteva dei puntelli sia per tenere aperta la bocca, sia per aprire al massimo le due parti del ventre tagliate verticalmente le mezane, poi puliva le budella ri-utilizzabili. Dopo vari giorni di frollatura, il norcino di buon mattino arrivava con la macchina per macinare la carne, con i pungiglioni spuncioni, per aerare gli insaccati e con lo spago per legare i salami. I pungiglioni erano formati da grossi tappi di sughero ove erano infilati lunghi aghi con la testa a sfera di color nero che usavano le donne anziane per fissare gli scialli fra i capelli, anch’essi generalmente neri, che usavano per andare a messa o per ripararsi nei mesi invernali. Mio pa-dre intanto aveva provveduto a comperare sale, pepe, vino nero per le bondiole e

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infine budella secche che aveva già messe in acqua calda per ammorbidirle. Il norcino iniziava la macellazione vera e propria: tagliava la carne, spolpava le ossa e il tutto veniva usato per i vari tipi di salami: salami da taglio con e senza aglio, cotechini, salsicce luganeghe, bondiole e soppresse. Mia madre metteva le ossa in una solida cassa posta in zona fresca; quelle ossa servivano per condire ogni giorno la minestra. I veli di grasso, che coprivano le interiora, venivano messi sul fuoco per ottenere lo strutto, unto che serviva a condire pane e pinza, mentre i residui solidi i ciccioli zìzole, servivano come completamento del com-panatico. Il norcino tagliava grandi fette di lardo con la cotica; queste venivano subito appese alle perteghe dei salami perché rinsecchissero un poco, servivano per fare il pesto per condire la minestra. Per molti mesi nelle mattinate, passando lungo le strade del paese, si sentivano battere dei pesanti coltelli su un tagliere per sminuz-zare al massimo una fetta di lardo: le massaie stavano preparando il pranzo. A furia di battere, nel tagliere di legno si formavano delle buche; più erano pro-fonde e larghe meglio davano un segnale che le massaie sapevano cucinare. Quello che mi piaceva vedere di più erano le corone di salsicce luganeghe, forse anche perché le trovavo gustose, sia cotte sulla graticola del focolare, sia usate per condire la minestra. Tutti gli insaccati venivano posti in un luogo fresco, appesi alle pertiche le perteghe dei salami, perché là erano difese dai gatti e dai topi. Le pertiche erano agganciate con tiranti di fil di ferro a chiodelle infisse sulle travi del solaio superiore. I salumi erano legati così in alto che i gatti, per quanti salti facessero, non riuscivano a raggiungerli. Per i topi c’era poi un accorgimento di-verso. Dei grandi piatti forati al centro venivano infilati a rovescio nei fili di sos-tegno delle pertiche. I topi che scendevano dalle loro tane, quando arrivavano sulla faccia inclinata verso il basso del piatto di ceramica, non riuscivano a superarla e scivolavano a terra ove, quasi sempre, c’erano i gatti in attesa. In tutto il periodo invernale era un continuo mangiare di salami, cotti in tutti i modi, con contorni di verze rac-colte nel nostro orto e grandi fette di polenta. Allora era uso che tutti coloro che uccidevano il maiale portassero alla maestra dei propri figli un pezzo di fegato o un cotechino coeghìn. Ero io che annualmente portavo alla maestra un cartoccio di salumi e ogni volta mia madre mi ripeteva: “È un piccolo dono a chi lavora tanto per insegnarti ed educarti”. Al di là di ogni retorica posso dire che la mia maestra in cinque anni non solo mi insegnò a “leggere scrivere e far di conto”, come si diceva in quei tempi, ma mi diede anche regole di educazione morale e civile che ancora adesso osservo e ricordo e che purtroppo oggi pochi insegnano.

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Il norcino legava con un nodo scorsoio il muso del maiale, così poteva trascinarlo più facilmente perché, più la corda era tesa, più il maiale sentiva dolore. Varie persone poi ponevano il maiale sopra il veturo rovesciato affinché potesse essere sgozzato.

Il maiale con la cotica ben pulita veniva appeso alle travi e squartato a metà per levare e pulire tutte le interiora.

I salami venivano appesi a una pertica fissata in alto sotto un solaio, in un luogo fresco per la stagionatura.

Il norcino spolpava le ossa, macinava a mano la carne e faceva i vari tipi di salami. Usava per questi la stessa macchina tritacarne con l’aggiunta di un cilindro che permetteva di infilare l’amalgama di carne, sale e vino entro le budella.

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I conigliZio Giacinto era un appassionato di conigli, conèi; di loro conosceva tutto: razze, preferenze alimentari, gestazioni e come curarli. Cominciò con una coppia e una gabbia costruita alla buona, poi si interessò a fondo del problema. Lo zio andò alla fiera campionaria di Padova, forse nel 1925, e ritornò con una coppia di grossi conigli di razza fiamminga e di color grigio. Là aveva anche ascoltato tante indicazioni sulle conigliere e sui metodi da osservare nell’allevamento. Costruì subito all’esterno, con liste di legno (le liste erano travetti da quattro metri), quattro box addossati al muro del locale motore a gas povero. Sembravano costruiti da un falegname. Ogni box aveva il pavimento di un metro quadrato, così pure era grande lo sportello; tutt’in-torno erano racchiusi da rete zincata con fori piccoli. La pavimentazione era formata da listelli quasi accostati per favorire l’espulsione degli escrementi. Questi non cade-vano per terra ma entro un cassetto estraibile per facilitare le pulizie dei pavimenti. I box erano alti da terra circa un metro così lo zio poteva anche controllare bene tutti gli animali e le pulizie interne; diceva sempre che l’igiene è la prima medicina di qualsiasi animale. Ben presto quei conigli, estremamente prolifici, si moltiplicarono, perciò lo zio si preoccupò di integrarli con altre razze. Nacquero allora coniglietti di razze e grandezze diverse. Era sempre lui che li accudiva che portava il cibo e cambiava l’acqua. Usava le verdure e le erbe dell’orto e i cascami del mulino per i pastoni. Piano piano lo zio si invogliò fino a costruire altri quattro grandi box e arrivò ad avere anche una sessantina di animali. Quelli che a me piacevano di più erano i conigli bianchi, dal pelo lungo di razza d’Angora, anche perché avevano degli occhi rossi brillanti. Fu per questi allevamenti che in casa si cominciò a mangiare settimanalmente carne di coniglio, che tutti apprezzavano. Lo zio per la macellazione dei conigli si comportava sempre allo stesso modo: prima sceglieva con attenzione il capo da abbattere, poi l’uccideva con un colpo alla nuca. Io, sempre curioso, osservavo quando faceva queste operazioni; sulle prime non le capivo poi via via nel tempo me ne sono reso conto. Se la prescelta era una femmina prima le tastava il basso ventre per controllare se c’era una gestazione in fieri. Se la femmina aspettava una cucciolata, veniva rimessa nella gabbia. Poi seguiva anche un altro criterio nella scelta, faceva una selezione genetica. I capi più vigorosi li teneva per la riproduzione, uccideva gli esemplari più deboli o che erano in eccedenza fra maschi e femmine. Appendeva l’animale ucciso con la testa in giù, sia per convogliare il sangue verso la testa, sia perché quella posizione era utile per la scuoiatura. Lo zio circoncideva la pelliccia nella parte posteriore del corpo, poi d’un colpo scamiciava l’animale fino alla testa, che veniva tagliata e gettata via, così si trovava in mano un cilindro peloso all’interno. A completamento levava le interiora all’animale e riempiva di paglia il manicotto di pelle per seccarlo. Squartata a pezzi, la carne veniva messa nell’aceto perché perdesse l’odore di selvatico, poi era pronta per la cottura. La pelle, quando era secca, veniva usata per fare manopole sui manubri delle bici e delle moto; anch’io le ho adoperate

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per quasi sei anni quando andavo in bici alla stazione ferroviaria di Fratta Polesine, partendo da San Bellino, per recarmi a scuola a Rovigo. Ora l’attività cunicola è fatta in batteria, usando mangimi per una rapida crescita degli animali. Oggi nei supermercati si trova la carne di coniglio dai sapori meno accentuati di una volta, ma a un costo relativamente basso se lo si confronta con i lunghi lavori che faceva lo zio.

Il baco da setaA Costa era molto diffuso l’allevamento dei bachi da seta i cavalieri, fatto nella tarda primavera. Tante famiglie si ingegnavano a fare questo lavoro suppletivo perché generalmente dava un buon guadagno in poco tempo. Per l’allevamento occorrevano circa un mese di lavoro, delle modeste attrezzature e tanti alberi di gelso; ma questi in paese erano disponibili ovunque: nei cortili nei giardini e nei filari delle campagne. Erano giorni di lavori intensi per le pulizie, per la disinfestazione con vapori di zolfo e per dare cibo costante di foglie ai cavalieri. Occorreva anche preparare per loro su-perfici sempre più ampie perché essi ingrandivano smisuratamente in breve tempo, da qualche millimetro arrivavano fino a otto centimetri. La mia famiglia non faceva quell’allevamento, ma alla scuola elementare l’insegnante ce lo spiegava, sia perché lei da bambina era vissuta in mezzo a quel lavoro, sia perché era un allevamento specifico e redditizio per tutto il paese. Io ho visto qua e là tutte le fasi di sviluppo dei bachi, i gestori però non sempre lasciavano entrare nei locali perché temevano che gli estranei fossero portatori di malattie.

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Ogni allevatore comperava le uova del baco, che erano piccolissime e bianchicce, le semenze, presso gli stabilimenti bacologici ove curavano le malattie e creavano ibridi sempre più resistenti ai malanni. La misura per l’acquisto era l’oncia, ònza, quantità di peso inglese pari a circa 28 grammi. Mi pare di ricordare che generalmente ogni famiglia comperasse un’onza e meza o due. Ben presto con il tepore della bella sta-gione nascevano le larve, che dopo breve tempo divenivano voracissimi bruchi pelosi di color bianco e bruno, i bigàti. Dovevano avere abbondante spazio, per non sovrap-porsi gli uni sugli altri e per poter brucare continuamente le foglie di gelso. I bruchi non sviluppavano contemporaneamente il loro corpo assieme alla loro pelle, per cui facevano tre o quattro mute durante le quali perdevano la pelle più piccola e ne facevano crescere un’altra più grande. Se all’inizio alle piccole larve davano foglie tritate, ai bruchi davano prima solo foglie e poi rami con foglie. Era in questa ultima fase che il lavoro di preparazione delle foglie di gelso si faceva frenetico, mentre per noi bambini era il momento di rac-cogliere le more mature. Di more ve ne erano almeno tre tipi: bianche o nere che erano zuccherine e rosse che erano un po’ acidule. Personalmente preferivo le nere perché le bianche erano troppo dolci. Ne facevo grosse mangiate gratuite perché bastava salire su un albero e raccoglierle. I bachi da seta erano tenuti sempre molto puliti e stesi sui graticci di erbe palus-tri grisole, sostenute da trespoli per formare tanti ripiani sovrapposti, detti castelli castei. Quando si entrava nei locali dei bachi, verso la fine dei loro cicli, si sentiva un ronzio continuo, era il loro rodere le foglie. Alla fine gli allevatori facevano il bosco, cioè stendevano sulle grisiole rami senza foglie, socchiudevano le imposte e i bachi diventavano crisalidi racchiudendosi entro i bozzoli di seta che formavano con la loro bava. Talvolta c’erano dei bachi che diventavano flaccidi, di color giallo o bianco, questi non facevano il bozzolo, erano andati in vaca. Se la malattia si diffondeva fra i bachi gli allevatori ci rimettevano tutto, però non ricordo che degli allevamenti si siano rovinati del tutto, anzi ho visto solamente pochi bachi flaccidi, poche vache. Fatto il bozzolo tutti si affrettavano a raccoglierli, venderli e disfare i boschi per fare le pulizie finali. I fili esterni al bozzolo, che collegavano a mo’ di ragnatela i vari ram-etti di legno, venivano raccolti e anch’essi venduti o regalati. Ricordo che mia nonna mi fece una trapunta da letto con quei cascami. Ogni anno trovavo chi mi regalava qualche bozzolo che mettevo su un pezzo di giornale steso sul mio tavolino. Dopo non molto tempo il baco concludeva la sua metamorfosi e allora vedevo parecchie semenze sparse sul tavolino mentre svolazzavano piccole e tozze farfalle bianchicce. È per questo fatto che i bozzoli venivano venduti al più presto alle filande, che provve-devano subito a far morire le crisalidi, onde evitare lo sfarfallamento che avrebbe rovinato il filo di seta.

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Il bucatoPrima della lavatrice e di tutti i vari prodotti saponosi diffusi nell’ultimo dopoguerra, le massaie per il bucato dovevano usare cenere, che era la lisciva naturale, brusche di radica, pezzi di sapone, mastelli d’acqua e tanto lavoro. Quando io ero bambino i lavaggi erano di due tipi. Quello relativo alle vesti che era fatto a seconda delle ne-cessità, quello della biancheria, lenzuola tovaglie ecc. che avveniva a distanza di mesi e solo durante la bella stagione, era il bugà, così lo chiamava mia madre. Nelle case c’erano sacchi di tela o ripostigli ove venivano custodite le telerie sporche per am-mucchiarle e lavarle tutte contemporaneamente. Nonostante i pochi lavaggi i ricambi di biancheria erano sempre eseguiti perché tutte le spose portavano in “dote” tante

Allevamento dei bachi da seta. I bruchi, bigati, sono stesi sui ripiani delle grisiole di un castello all’italiana castelo. Questi sono poi puliti e i cavalieri sono alimentati con foglie di gelso moraro tritate.

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lenzuola, tovaglie e tende. Era d’uso che la famiglia d’origine delle donne desse alla novella sposa molta biancheria da usarsi nella nuova famiglia, era cosa importante tanto che la “dote” veniva conteggiata nell’asse ereditario. A Costa fra le varie costruzi-oni avevamo la lavanderia, ove venivano custodite mastelle di varia grandezza (le medie o piccole mastèle, le grandi mastelòni), accessori, come tavole da bucato e cavalletti. Il bugà, veniva eseguito da più donne proprio per la sua complessità e per la tanta biancheria da lavare. Una grossa mastella veniva posta su un trespolo per favorire il lavoro delle donne quando la riempivano di lenzuola e tovaglie ben piegate, poste a strati sovrapposti. Durante questo lavoro veniva riscaldata dell’acqua in un grande paiolo el parolòn, posto su un fornello esterno la fornèla.

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La massaia lavava servendosi di una tavola verticale che veniva fissata entro la mastella. C’erano però anche tavole usate orizzontalmente che erano tenute ferme dalle due doghe rialzate che servivano per il trasporto.

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Prima che l’acqua bollisse vi mettevano dentro un’abbondante dose di cenere ottenuta nell’inverno dai ceppi bruciati nel camino. L’acqua, bollendo, trasformava le ceneri in lisciva naturale cioè in una soluzione per lavaggi a base di sali di sodio e di potassio, importante per detergere la biancheria. L’acqua calda e saponosa veniva versata lenta-mente nel mastelòn previa stesa di un telo per la raccolta delle ceneri el bugaròlo. L’ac-qua bagnava ogni pezzo di tela sciogliendo parecchio sudiciume. Dopo alcuni giorni essa veniva spillata, poi iniziava la rilavatura di ogni capo per togliere le eventuali mac-chie rimaste. Questo lavoro veniva eseguito con pezzi di sapone Marsiglia e brusche di radica, unitamente da due donne con due mastelle vicine e piene d’acqua pulita. Ciascuna usava una tavola di legno, generalmente rettangolare, di circa ottanta per sessanta centimetri, che aveva a sinistra un riquadro per deporvi il sapone e la brusca e che aveva pure un risvolto inclinato per appoggiarvi il corpo. Infatti la tavola veniva tenuta fissata tra il corpo della lavoratrice e due doghe sporgenti della mastella. Occorreva che le due lavandaie lavassero all’unisono le lenzuola e le tovaglie, per insaponarle e strizzarle dall’acqua. Quei capi venivano posti poi su cavalletti, facili da trasportare per il risciacquo resentare, che veniva fatto general-mente dove c’era l’acqua corrente. Da noi sotto casa passava il canale Adigetto che serviva per l’ultima lavatura dato che aveva l’acqua limpida. Sulla sponda del canale venivano fissate, con robusti picchetti, due tavole con inginocchiatoio dove si pone-vano le lavandaie per poter risciacquare, era lo scagno. Per ultimo c’era la stesa al sole di tutta la biancheria, posta su lunghe corde sostenute da pertiche che avevano nella parte terminale una forcella. Fornitura dell’acquaUna volta, in tutti i nostri paesi sparsi sul territorio non vi erano acquedotti né fog-nature: si sopperiva con pozzi e letamai.I pozzi erano parecchi e tutti erano a disposizione, per tradizione, dell’intera collet-tività. Erano costruiti con mattoni sagomati, i pozzàli, che, uniti tra loro con calce, formavano un cilindro del diametro di circa 1.20/1.40 metri. Anche il parapetto era in mattoni ed era completato da una pesante armilla, la vera, di pietra bianca d’Is-tria o di trachite grigia che sosteneva un arco di ferro infisso e fissato con piombo. Sull’arco c’era una carrucola di ferro con catena di scorrimento, ove, a un capo, era legato un secchio. Tutti i proprietari dei pozzi erano forniti di un arpione a tre punte per il ripescaggio del secchio nel caso cadesse nel pozzo.La fornitura giornaliera d’acqua era generalmente fatta dalle donne che trasporta-vano due secchi a mezzo di un arconcello bigòlo che ponevano in spalla.Tutti i rifiuti di casa venivano gettati nel letamaio e poi, dopo la fermentazione, erano usati negli orti.Nelle case non c’erano gabinetti; vi erano solo latrine poste all’esterno: pure questi liquami, dopo la fermentazione, venivano sparsi negli orti. Tutto serviva da concime.

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Valdentro di Lendinara – 1930

PremessaValdentro, frazione di Lendinara, è una striscia di terreno, fiancheggiata dal canale Adigetto, che si incunea nel comune di Villanova del Ghebbo. Io ho abitato in quel paesetto solamente per un anno, dal marzo 1930 al marzo 1931, ma sufficiente però perché vedessi e fissasi nella mente i metodi di lavoro dei calzolai scarpàri, là nu-merosi. In quel tempo era prospera la fabbricazione di scarpe a cui partecipavano tanti artigiani sia di Villanova del Ghebbo che di Valdentro di Lendinara. A fianco della mia casa abitava proprio un calzolaio presso il quale passai molte ore. Si chiamava Albino, ma lo era anche di fatto perché tutti i peli della sua faccia erano bianchi. Avrà avuto cinquant’anni, era sposato senza figli. Aveva una modesta casa su due piani; al piano terra una entrata con le scale, dove lavorava nell’estate, e una cucina con un vecchio camino dove lavorava nell’inverno. A cominciare dalla primavera del 1930 io avevo sufficiente tempo libero perché avevo già completate le scuole elementari e stavo preparandomi solo per l’esame di ammissione alle scuole medie di Rovigo. Poi durante l’estate ebbi molto tempo a dis-posizione perché ero stato promosso. Così passavo nel mulino di mio padre qualche ora, ma il resto del mio tempo lo trascorrevo da Albino, perché ero affascinato dal suo lavoro che non avevo mai visto prima.

Il calzolaioAlbino costruiva scarpe a contratto. Gli davano tomaie, cuoio, pellame e il cartone necessario per il confezionamento, lui ci metteva tutto il resto. Nell’entrata della casa, su una parete aveva appese tante forme di legno legate a coppie che gli erano neces-sarie per la confezione delle scarpe. Le forme avevano la soletta in lamiera di acciaio che serviva per ribattere i chiodini somenze, ed erano divise orizzontalmente in due parti, che si incastravano fra loro, per renderne possibile l’estrazione dopo che la scarpa era finita. Albino lavorava sempre alacremente per riuscire a preparare almeno due paia di scarpe al giorno. Mi diceva che doveva essere veloce perché altrimenti sarebbe morto di fame, dato che per ogni paio riceveva una misera cifra. Aveva calli e duroni sparsi nelle mani. Alcune dita erano deformate, specie i pollici, perché le usava per spianare le pelli e cucire il cuoio a mano. Durante il lavoro adoperava anche la bocca, che trasformava in un serbatoio delle somenze, necessarie di volta in volta.

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Le sputava a piccoli intervalli e in giusta posizione con la testa sul retro, subito le posi-zionava verticalmente battendole col martello: era una macchina che mi incantava. Per accelerare le esecuzioni, usava il metodo di seguire la stessa fase lavorativa per più capi. Aveva un vecchio deschetto bancheto vecio, pieno di piccoli utensili e di alcuni ma-teriali che gli servivano per i lavori. La piana del deschetto aveva un risalto perime-trale per evitare la caduta degli oggetti. Sul davanti c’erano vari contenitori per i chiodini di diversa lunghezza. Ai fianchi erano appesi quegli oggetti che servivano per i lavori finali. Sul davanti aveva anche un cassetto ove conservava spago, cere, trincetti appena arrotati e la macchinetta per scaldare le cere. Prima di iniziare in-dossava un grembiule di tela rinforzato da strisce di pelle, una sul petto per quando tagliava il cuoio, una sulla gamba dove arrotolava gli spaghi. Si sedeva davanti al deschetto su un basso sgabello careghéta con cuscino, fornito di schienale per ap-poggiarvisi quando si stiracchiava le membra. Il lavoro iniziava preparando le solette col sagomare cartone e crosta di cuoio incol-lati fra loro. Indi incollava tra fodera e pelle il puntale della tomaia e il tallone, usando cartone e poche volte crosta di cuoio. Usava la colla, che era di color bruno, spalmandola sui pezzi da infilare poi li lasciava da parte per vari minuti perché la colla si indurisse senza però perdere la capacità di collante; naturalmente nell’attesa preparava altri lavori. In contemporanea sistemava in via provvisoria soletta e tomaia sulla forma usando somenze lunghe senza impian-tarle totalmente. Completato questo collegamento perimetrale in modo preciso, pas-sava a quello definitivo impiantando somenze piccole, che venivano risvoltate dalla lamiera di base della forma, stirando ben bene la pelle con una tenaglia a ganasce piane. Era in queste fasi che la bocca di Albino diventava “una sputa chiodi”. Dopo, egli levava con una tenaglia normale i chiodini piantati provvisoriamente e nel con-tempo preparava gli spaghi per le due cuciture necessarie per completare le scarpe. Una serviva per unire alla tomaia il guàrdolo, che è una stretta striscia di cuoio, l’altra per unire il guàrdolo con la suola. Le due cuciture non erano fatte allo stesso modo; la prima era a punto lungo perché poi era nascosta dalla suola, la seconda a punto corto e regolare perché rimaneva a vista. I gomitoli di spago per calzolai erano formati da un sottile filo di canapa, che tutti chiamavano spago sforzin, forse perché serviva anche ai carrettieri per far schioccare le fruste scùrie. Albino raddoppiava o triplicava i fili e li arrotolava fra loro con la mano, servendosi come piano di lavoro della coscia protetta dal grembiule, che aveva cucita una lista di pelle. Faceva questo lavoro usando la pece per l’adesione dei vari fili e poi la cera d’ape per favorirne la scorrevolezza. Completava il tutto innescando per ogni capo delle setole di maiale o degli aghi ricurvi senza cruna. Prima di cucire la suola Albino rispianava l’incavo formato dal risvolto della tomaia inchiodata sulla soletta. per quel lavoro usava un cartone violaceo, duro e resistente per qualche tempo anche all’acqua. Fissava quel cartone ridotto a scaglie con un po’ di chiodini lunghi e colla,

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costruendo anche nel contempo l’impronta dei tacchi. Spesso in queste fasi di lavoro Albino si sfogava dicendo che i cartoni messi nelle scarpe erano un imbroglio fatto dai commercianti solo per diminuire il più possibile i costi, dicendo però ai clienti che le loro scarpe erano totalmente di cuoio. Un suo lavoro di intermezzo era quello di sagomare il cuoio delle suole e dei tacchi e poi batterlo sulla faccia piana di un sasso che posizionava fra le sue cosce. Per ritagliare cuoio o cartoni usava trincetti diversi cortéi, sulla piana del deschetto ne aveva molti e a ogni ripresa rifaceva il filo con la cote piera, bagnata con una spugnetta. Questa era sempre pronta perché la usava anche per altre necessità. Nei bordi della suola faceva un intaglio poco profondo usando sempre la spugna per bagnare il cuoio onde ammorbidirlo; poi rialzava la slabbratura con un piccolo strumento di legno per fare nell’incavo la cucitura tra il guàrdolo e la suola. Finito questo lavoro abbassava la slabbratura con un altro piccolo strumento, così veniva ricoperta la cucitura stessa. Albino quando cuciva si copriva le mani con speciali guanti di pelle, poi per prima cosa introduceva la punta della lesina in un panetto di cera d’ape per farla scorrere meglio durante la foratura. Quando iniziava il lavoro faceva un foro all’inizio del guardolo infilandovi lo spago per metà, faceva poi un secondo foro ove infilava di qua e di là i due cappi liberi dello spago tirandoli fino a fare un punto lasco.

Il calzolaio batte con il martello per fissare il tacco della scarpa. Il suo deschetto era il deposito di tutti gli arnesi necessari al lavoro.

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Alla fine si avvolgeva per ogni mano un capo dello spago dando contemporanea-mente due forti strattoni in modo che il punto diventasse stretto e a tenuta. Dis-faceva poi gli avvolgimenti attorno alle mani, faceva un altro foro ripetendo quei movimenti che ho descritto. Così fino alla fine sempre badando alla regolarità dei punti e favorendo il lavoro della lesina sfregandola sulla cera di tanto in tanto. Dopo c’erano il completamento dei tacchi e i lavori di lisciatura dei dorsi del cuoio. Albino correggeva le irregolarità maggiori con una raspa, poi lisciava il tutto con gli spigoli di pezzi di vetro. Sopra il suo deschetto vi erano sempre ritagli di lastre di vetro usate per le finestre; li suddivideva con una lima trian-golare in piccole parti e, col filo di qui pezzetti di vetro, levigava ben bene i dorsi delle suole e dei tacchi. Era il momento di stendere la cera colorata, quasi sempre nera, su tutto il cuoio. Tirava fuori la macchinetta a spirito; era una vaschetta di vetro che aveva un beccuccio con stoppino che pescava nell’alcool denaturato. Accendeva con uno zolfanello e poneva sulla fiamma un piccolo strumento che riscaldato, scioglieva la cera e la distendeva di seguito. Di questi utensili ce n’erano di diverse forme: la lissa per i dorsi, il marcapunto per il guardolo, il bussetto per la suola; questi arnesi avevano certamente un nome dialettale, ma ora non li ricordo. Alla fine c’era la spazzolatura finale. Al-bino allora portava le scarpe confezionate a chi gli aveva dato il materiale e se ne ritornava a casa con altre tomaie, magari di forma e misure diverse. Nella tarda estate di quell’anno vidi un fatto molto doloroso. Ero con Albino, quando sentimmo grida provenienti dalla strade e ci affacciammo. Stava pas-sando un gruppo di persone piangenti e urlanti, due delle quali sostenevano per i fianchi un pover’uomo di 27 anni che si doleva con flebili lamenti, pur riuscendo a camminare. Aveva la pelle del viso, delle mani e del torace che gli penzolava. Stavano portando l’infortunato dal medico che abitava al di là del canale e dovevano attraversare il ponte che era vicino alla mia casa. All’indomani Albino mi spiegò che quel povero giovane, morto dopo poche ore all’ospedale di Lendinara, era un calzolaio e stava spalmando la cera sulle suole con lo stesso sistema che usava lui. Accorgendosi che nella sua macchi-netta stava finendo lo spirito, ebbe la malaugurata idea di svitare lo stoppino con la fiamma accesa, per fare il rifornimento. Forse l’aveva fatto altre volte, ma certo ebbe un attimo di distrazione per cui il liquido che stava versando cadde sullo stoppino acceso. Una improvvisa e prolungata fiammata lo investì ustion-andogli faccia, torace e mani. Tutt’e due rimanemmo molto turbati; io mentre sto scrivendo rivedo quel povero infelice. Albino mi diede un consiglio che ho sempre cercato di rispettare: “mai fidarsi di fare qualsiasi lavoro senza usare la massima attenzione”. Certo fu per me una tremenda lezione di vita.

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A fianco. La moglie del calzolaio mentre lavora di cucito in cucina.Sotto. Io che guardo il calzolaio mentre lavora.

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San Bellino 1931 - 1935

L’ambiente socio culturaleSecondo quanto ho capito San Bellino era un paese prettamente agricolo con una economia di tipo curtense, cioè nel suo interno c’era solo il sufficiente per lavorarvi e viverci. Credo che in quel tempo fosse abitato da poco più di 2000 persone. Era un paese privo di comodità. Di fatto non c’era la possibilità di soddisfare necessità e desideri per rendere agevole la vita quotidiana, mancavano luoghi di aggregazione per giovani e per donne, c’erano solamente tre osterie frequentate da uomini. La radio e il gioco del pallone erano quasi degli sconosciuti: mancava cioè qualsiasi struttura che oggi chiamiamo sportiva. Le persone si muovevano generalmente in bicicletta, o con calessi tirati da cavalli, perché di auto in paese ve ne erano pochissime in circolazione. Ricordo bene che davanti a casa, nella strada inghiaiata, passava quasi giornalmente uno di Castelguglielmo il quale andava e tornava da Rovigo con una Isotta Fraschini che allora era una delle auto più grandi e belle. Sollevava un nugolo di polvere che faceva imbestialire il carradore vicino di casa. Per attingere acqua c’erano parecchi pozzi sparsi sul territorio. Al centro del sa-grato della chiesa, che era anche la piazza del paese, c’era una grande pompa el mato, che fungeva anche da monumento. C’erano le cinque classi elementari, riunite però in pluriclassi perché gli insegnanti erano solamente tre. I locali delle aule si trovavano al piano terra del municipio ed erano abbastanza ampi per raccogliere tanti bambini. Vi era pure un asilo retto da due suore per i bimbetti di quattro e cinque anni. Aveva una saletta per fare teatro ove si esibivano i bimbi e i ragazzetti. su un piccolo palco di legno Anch’io ho recitato più volte in quel teatrino. Le offerte dello spettacolo servivano per incrementare le entrate delle suore, perché le quote delle frequenze erano davvero misere. Per coloro che volevano studiare c’erano due possibilità: frequentare le tre classi complementari a Lendinara, distante una decina di chilometri, o per potersi diplo-mare andare a Rovigo, capoluogo distante venti chilometri da percorrere cinque in bici e i restanti in treno. Ai miei tempi eravamo due studenti: uno che andava a Lendinara e io che andavo a Rovigo. Nei cinque anni che ho abitato a S. Bellino sono arrivati nell’autunno di anni di-versi due piccoli baracconi che sono rimasti là per oltre un mese. Erano i primi baracconi che si fermavano in paese e molta gente, che non aveva mai visto spet-tacoli li frequentava. Uno era un cinema che trasmetteva film muti accompagnati sempre dalla stessa musica operistica. Io là ho visto film a puntate e ricordo che quando le scene erano tragiche, come nei Miserabili, la gente piangeva.

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Nell’altro baraccone si esibivano alcuni saltimbanchi che si ingegnavano a ral-legrare gli spettatori con esercizi atletici, piroette e scenette. Fra costoro c’era uno che suonava il violino durante le pause o per sottolineare qualche scena, lo ricordo bene perché chiudeva sempre lo spettacolo usando come strumenti dei bicchieri contenenti più o meno acqua. Sfiorava con le dita bagnate gli orli e ne uscivano degli stridii, non sgradevoli, con la melodia delle marcette o canzonette allora in voga. Quando ero libero dalle incombenze scolastiche mi divertivo a correre per i campi, spesso in compagnia di coetanei, tutti figli di addetti all’agricoltura. Fortunata-mente sono sempre stato attratto e incuriosito da quello che mi circondava e a San Bellino, essendo presente solo il mondo agricolo, mi sono fatto, per forza, un ampio bagaglio di conoscenze dirette di quel mondo campagnolo che poi ho allar-gato e approfondito con lo studio scolastico. L’unico centro di aggregazione era la parrocchia, la chiesa era sempre affollata in ogni celebrazione. Non così le organiz-zazioni fasciste che, almeno secondo me, erano usate solo per comandare il paese.

Chiesa parrocchiale con facciata di tipologia veneta ricostruita nel 1600. Il campanile di stile romanico è del 1500. La chiesa è la basilica di San Bellino, ha tre navate e dietro l’altare c’è l’urna marmorea del Santo. Nel 1930 al centro del sagrato c’era una pompa d’acqua a ruota, attualmente c’è invece un monumento.

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I conduttori agricoli Il terreno agricolo era misurato a pertiche perteghe, equivalenti, mi era stato detto, a 1000 metri quadrati. Era diviso in fattorie di varie grandezze chiamate generica-mente campagne. La più grande fattoria era quella degli Occari di 1000 pertiche cioè 100 ettari. Ogni fattoria aveva la propria corte corte, cioè l’insieme di tutti i servizi necessari per la conduzione della campagna. Generalmente c’erano la casa padronale su due o tre piani, di cui l’ultimo a granaio che serviva per immagazzinare i raccolti, poi l’aia selese usata per seccare i prodotti, la stalla e piccoli fabbricati per abitazioni degli operai fissi i oblighi, e ancora cantine, ricoveri e spesso anche un forno per il pane. La corte aveva anche a disposizione servizi collegati direttamente ai conduttori come orti, giardini e alberi da frutto; le viti invece erano stese a spalliera fra gli olmi nelle capezzagne carezà. Invariabilmente il fabbricato più imponente era la stalla, che si distingueva subito perché era costruita di mattoni non intonacati. Oltre alla stalla dei bovini ve n’era un’altra per gli equini perché i cavalli, gli asini e i muli hanno bisogno di un ricovero arieggiato anche d’inverno a differenza dei bovini. I buoi servivano per vari lavori campestri, le vacche per avere vitelli e latte da vendere, gli equini per i lavori leggeri da eseguirsi in modo veloce o per i trasporti stradali con i calessi. Questi erano di due tipi, un calesse spartano senza una copertura mobile fòlo, senza cuscini con molle dure, barozìn, un altro più sofisticato che aveva il folo per ripararsi dalla pioggia e un telo parasassi posto tra le stanghe nel retro del cavallo. Era un calesse molto molleggiato che aveva anche i cerchioni delle ruote coperti con gomma. Questo accorgimento era per evitare di schiacciare i sassi durante la corsa sulle strade inghiaiate ed eliminare quindi i rumori molesti, questo calesse era la timonéla. I vocabolari del dialetto veneto di provenienza padovana spiegano timonela come carrozza a quattro ruote; a San Bellino nessuno aveva carrozze e chiamavano ti-monela un calesse fornito di confort. Tutti praticavano la rotazione agraria, cioè coltivavano per quattro anni il prato poi, annualmente via via il frumento, la barbabietola, il granoturco e infine la canapa. La rotazione agraria dava la possibilità di sfruttare al meglio i vari strati di terreno per il diverso sviluppo radicale delle varie piante. Nessuno faceva su larga scala coltivazioni specialistiche, come aglio o patate, perché dicevano che il terreno non era adatto per le coltivazioni orticole, Solamente ogni anno c’erano qua o là coltivazioni di angurie e meloni le anguriare. I conduttori agricoli davano in subaffitto a persone anziane qualche campo vicino ai fossi con acqua corrente e fiancheggiati da ontani o salici albare, salgàri, stropari. Erano luoghi tranquilli e freschi ove l’anguriaro si costruiva un casotto di canne palustri che gli serviva da cucina e camera da letto. A fianco costruiva tettoie, coperte pure esse di canne, panche e tavole costruite su pali piantati per terra: servivano per i clienti che andavano là a mangiare le angurie. Completavano il tutto alcune tinozze sempre piene d’acqua per tenere in fresca la merce da vendere.

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Si andava là in bici, con le tasche piene di pan biscotto e si faceva una mangiata ammollando il pane in mezza anguria. Gli imprenditori agricoli, generalmente fittavoli, facevano anch’essi una vita paesana senza evasioni o mondanità, forse perché il paese non offriva nulla ed anche perché era lontano dai luoghi, come Lendinara e Badia, dove c’erano teatri, cinema e sale da ballo. Qualcuno mandava un figlio a studiare in collegio, ma era un caso raro. Ricordo che un giovane faceva una scuola per corrispondenza, spesso aveva bisogno di aiuti e ricorreva al parroco. Alla fine si stancò e tralasciò di studiare.

L’anguriaro taglia delle fette d’anguria per venderle ai ragazzetti.

La fattoria.

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I trentottistiI braccianti, che erano i lavoratori della terra più numerosi, avevano un contratto limitato relativamente al ciclo di ogni singola produzione agricola. Essi non vivevano nella corte padronale, ma avevano casette, proprie o in affitto, sparse nel territorio. Il contratto dei braccianti era chiamato trentoto perché i prodotti ottenuti venivano distribuiti in ragione del 38% fra tutti i lavoratori. Il gestore si assumeva tutte le spese per le sementi provvedeva all’aratura e alla semina, poi entravano i trentotisti con il loro lavoro fino al raccolto. I braccianti accettavano di partecipare alle varie coltivaz-ioni, a seconda della forza lavoro della loro famiglia e le loro capacità di sfruttare al meglio l’impegno che si assumevano. La coltivazione più desiderata era la raccolta del frumento perché dava una remu-nerazione in natura molto importante per l’alimentazione della famiglia, anche se il lavoro era molto faticoso seppur di breve durata. D’altra parte i conduttori agricoli accettavano di buon grado un alto numero di lavoratori per la mietitura e la trebbia-tura per diminuire il più possibile il tempo della raccolta, in quanto il grano poteva essere facilmente rovinato dalla pioggia. Ogni famiglia bracciantile partecipava a più coltivazioni, sia perché i lavori agricoli si susseguivano da giugno a settembre, sia perché tutti avevano bisogno di incassare denaro e provviste soprattutto per l’inverno.

Le case dei braccianti erano in genere di quattro vani. Piano terra con entrata e scala, poi cucina col camino, piano primo con due vani. Il gabinetto era una latrina esterna riparata con erbe palustri o tavolame. L’acqua veniva attinta dai pozzi sparsi sul territorio. I pozzi servivano anche da frigoriferi, calandovi dentro secchie piene di cibo da conservare al fresco quando si era nell’estate.

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Un segno delle ristrettezze in cui versavano i braccianti era la consuetudine di man-giare all’inverno due volte al giorno. Il primo pasto era nella mattinata, il secondo alle quindici. Siccome una volta non tutti avevano l’orologio, alla tre del pomeriggio suonava il campanone della parrocchia per dare il segnale che era l’ora del secondo pasto. Era davvero una vita grama. Per fortuna, per diminuire quelle ristrettezze, c’er-ano famiglie che avevano attorno alla loro casetta un orticello per le verdure e uno spazio per gli animali da cortile, così almeno alla domenica potevano fare un pranzo completato da carne. Uno dei cibi più diffusi era l’aringa, pesce che arrivava in grossi barili dai paesi nor-dici d’Europa. Era di due tipi: aringa femmina con uova e aringa senza, generalmente maschio, in dialetto rispettivamente renga da late e scopeton. La conservazione era fatta all’origine stendendo i pesci nel barile e rasando ogni strato con del sale. Era un cibo molto economico sia per il costo sia perché un pesce bastava per una famiglia di parecchie persone. L’aringa veniva preparata velocemente: pulita dal sale, era messa a rosolare su una graticola gradéla, poi si toglieva la lisca e si condiva con un po’ di olio una gioza o giossa de oio. Essa veniva mangiata con tanta polenta e pochissima carne.

Un focolare visto all’interno. Era costruito tutto in mattoni, come la cappa. Sotto c’era un grande cassetto per tenere in caldo certe vivande e i pulcini appena nati. Da notare la sedia col sedile di paglia, il copricapo col fazzoletto legato sulla nuca e la catena ove erano appese le pignatte da riscaldare.

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Tutti si accontentavano di toccare l’aringa tociare, con un pezzo di polenta, per darle un gusto diverso, alla fine con gli ultimi bocconi si spartivano l’aringa. Oggi l’aringa è un cibo considerato prelibato ma è costoso, è venduto pronto da mangiare in eleganti confezioni. Ricordo fatterelli spassosi sulla renga che venivano declamati per le piazze quand’ero ragazzo. Un certo Callegari, venditore ambulante di digestivi alla gramigna che lui preparava, per attirare l’attenzione dei passanti raccontava episodi di vita. I due principali erano Bruneri-Cannella che riguardavano lo smemorato di Col-legno, soldato della prima guerra mondiale e la renga. Declamava e mimava tras-formando i racconti in farsa ed era così istrione che alla fine tutti battevano le mani e parecchi compravano il suo intruglio. Ricordo quello della renga. Prendeva in giro coloro che vendevano le uova per comperare la renga. Diceva che poi l’attaccavano alle travi in cucina, nel centro della mensa accon-tentandosi tutti di toccarla tociarla, con la fetta di polenta, facendola poi bollon-zolare da una parte all’altra della tavolata. Purtroppo era vero, l’uovo è più ricco di nutrimento rispetto alla polenta, ma un uovo poteva accontentare sì e no solo una persona, mentre l’aringa serviva per dare una fragranza diversa alla polenta che molti dovevano mangiare per sfamarsi.

Spaccato dell’interno di una cucina dei braccianti negli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Sulla cappa: cucccuma, lume a petrolio, macinino per il caffè, candeliere. Sul focolare: paiolo, graticola, coperchio per cuocere sotto le brace, mollette per le brace, ascia per spaccare la legna, palla per abbrustolire il caffè. Appesi al muro: stoviglie di rame e tavola della polenta. Pavimento: scaldini la munega per mettervi il braciere sotto le coperte, scaldino di rame per strofinarlo, quando era pieno di brace, fra le lenzuola. La nonna prepara il pranzo e il nonno si riscalda.

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Che i braccianti di San Bellino vivessero da sempre una vita disagiata è testimoniato dai numerosi espatri verso l’America del Sud e altri paesi. Posso dirlo perché, quando sono andato ad abitare a San Bellino, mio padre affittò anche due stanze, che poi risultarono le migliori, che erano gli ex uffici per sbrigare le pratiche degli emigranti e fatti chiudere tutti da Mussolini nel 1927. In un angolo trovammo un po’ di spazzatura ove io raccolsi vecchie cartoline e stampati per l’emigrazione in Brasile, così potei far riscontri sulle date. Anche sotto il fascismo, dopo il 1927, vi furono partenze di braccianti che andarono a bonificare l’Agro Pontino o altri luoghi indicati dal partito. Se oggi pensassimo e capissimo quale fu la misera vita dei nostri bisnonni e nonni, certamente tutti avremmo meno pretese e meno egoismi! Va bene che oggi non è ieri, tuttavia se tutti conoscessimo com’era dura la vita solo ieri, certamente ci sarebbero meno ingiustizie!

Schizzi dei principali utensili che usavano i contadini negli anni 1930. Gli utensili piccoli erano di proprietà dei trentottisti, quelli più grandi dei conduttori agricoli.

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Trentottiste di aiuto ai loro uomini. Da sinistra una donna con gerla (per trasporti leggeri, come erba per i conigli), e con in mano una pala di legno che serviva per soleggiare i cereali. L’altra ha una botticella per il vinello da distribuire durante i lavori pesanti; l’ultima ha in mano la forca usata in stalla. A destra si intravede uno sgabello usato dai mungitori.

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La mietituraLa mietitura era la vera sagra paesana, sia perché molto partecipata, sia perché tutte le facce erano sorridenti. Finalmente arrivava la meanda apportatrice di frumento e quindi di pane. Alla mattina per tempo era un andare festoso verso i campi da mietere; ma se il vento aveva steso le spighe sul terreno o una malattia, che chiamavano ros-seto aveva rovinato le spighe, subito sul volto di tutti si delineava un profondo sconforto: erano perdite che si ripercuotevano sui mesi futuri. Ognuno partiva con la propria falce segheto e con la merenda da consumarsi durante il lavoro. A Costa di Rovigo, dove avevo fatto le elementari, la maestra mi aveva inseg-nato che le falci erano di due tipi: quella messoria che serviva per mietere se-gheto, che è anche raffigurato nel distintivo dei comunisti, e quella fienaia falze o falza, usata per segare il prato e che è anche l’emblema della morte. Io da ragazzetto andavo a vedere ogni giorno, nella grande fattoria, le distese di frumento interrotte solamente da uno scolo trasversale fiancheggiato da ontani. I mietitori venivano divisi in gruppi, ognuno coordinato da un obligo. Costui partiva da una capezzagna carezà e mieteva sei solchi di frumento trimi o trini, ponendo i mannelli la sbrancà, sopra l’erba della capezzagna stessa.

Mietitori che lavorato sotto il sole di giugno. Qui sono rappresentati dei coltivatori diretti chemietono il loro campetto. Nelle fattorie sanbellinesi i mietitori talvolta superavano anche ilnumero di quaranta.

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Quando aveva mietuto alcuni metri in lunghezza, iniziava un secondo che poneva i mannelli sulle stoppie lasciate dal primo; così tutti gli altri si suc-cedevano via via uno alla volta. Quando l’ultimo iniziava il proprio lavoro, subentrava una schiera di donne, fornite di lacci fatti con erbe palustri e terminanti nei due capi con nodi i balzi. Queste raccoglievano diversi man-nelli, che legavano formando i covoni le faie, che lasciavano sparse sulle stoppie. Quando tutte le donne avevano finito, ripassavano gli uomini per met-tere i covoni ammucchiati in biche ben allineate le crosete. Quattro covoni venivano messi a croce con le spighe verso l’interno, poi i mietitori vi sovrap-ponevano altri tre strati e chiudevano con un covone che andava a coprire tutte le spighe sottostanti poste nel centro. Tutto ciò, sia perché gli uccelli non andassero a beccare le spighe delle biche, sia perché se pioveva si ba-gnassero solamente le spighe del covone di copertura. Era cura dei mietitori eseguire questi lavori sotto il sole perché, se i chic-chi fossero stati bagnati dalla pioggia o dalla guazza, bisognava attendere i raggi solari per disseccarli. Nel caso i covoni fossero bagnati li mettevano in piedi con le spighe rivolte verso l’alto; se non facevano così il frumento raccolto in biche avrebbe fermentato e quindi si sarebbe rovinato. Le biche erano lasciate sul campo per qualche settimana prima della trebbiatura, per dare possibilità al frumento di indurirsi lentamente ed essere pronto per la battitura della trebbia. Questi lavori fatti tutti a mano disperdevano una discreta quantità di spighe, così c’erano gli spigolatori, soprattutto donne e ragazzetti. Era difficile che i dirigenti li lasciassero entrare nei campi appena mietuti o quando c’erano ancora le biche, temevano che gli spigolatori allungassero le mani per strappare le spighe dai covoni. Ho visto però che nella grande fattoria, appena fatte le biche, lasciavano spigolare i più poveri del paese, magari sotto la sorveglianza di un obligo. Quando invece sui campi non c’erano più covoni, tutti potevano andare a spigolare dove volevano. Anch’io ci sono andato e ho fatto qualche piccolo covone che poi ho portato in chiesa. A San Bellino c’era la tradizione che in una domenica di luglio tutti por-tassero in chiesa delle spighe: sia per ringraziare Dio del prodotto ottenuto, sia perché il frumento serviva per fare le ostie della Comunione. Quelle spighe offerte venivano ammassate nella fattoria che per ultima faceva la trebbiatura. Venivano colà trebbiate gratuitamente assieme alle varie quan-tità ottenute dagli spigolatori. Mentre scrivo ho davanti agli occhi la mietitura e la spigolatura perché er-ano affreschi viventi di macchie dai colori vari e di persone con le schiene curve che lavoravano alacremente.

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La trebbiaturaQuando i mietitori e le loro donne si erano riposati per qualche settimana dall’estenuante lavoro di usare segheto e balzi, iniziava la trebbiatura. Non era la continuazione della sagra vissuta sparpagliati nei campi in mezzo al giallo del grano e del sole, qui invece erano tutti raggruppati sotto una pesante cappa di pol-vere. Gli uomini e le donne avevano cappelli di paglia per difendersi dai raggi solari e grandi fazzoletti al collo a difesa della polvere perché, impastandosi con il sudore non penetrasse in tutto il corpo, giacché era urticante. Ricordo due trebbiature viste nella grande fattoria. Una con una macchina a vapore che mi ha incantato perché aveva come motrice un macchinario simile alla vaporiera dei treni; un’altra con un vecchio trattore americano che sulla targa aveva scritto “Titàn”. In quella corte la trebbiatura durava circa una settimana, io ogni pomeriggio ero là a curiosare e guardare. Tutte le persone erano affaccendate e avevano sempre sete, bevevano spesso attin-gendo con lo stesso mestolo la caza, da una secchia piena di vinello graspia, portata in giro da una donna. Per trebbiare vi erano varie fasi concomitanti di lavoro che penso di spiegare meglio sud-dividendo l’argomento per poterlo svolgere in modo dettagliato. Lo faccio soprattutto per i giovani che certamente, non hanno mai visto e mai vedranno quei lavori pesanti.

Motore a vaporeEra la classica macchina a vapore tutta di ferro che veniva spostata da un tiro di buoi, perché la forza motrice prodotta dal vapore non faceva girare le ruote di traino ma solamente un volano. Dopo averla piazzata, vi accatastavano attorno legna e tinozze d’acqua. Erano i rifornimenti necessari per sostituire l’acqua perduta nelle evaporazioni e per mantenere sempre acceso il fuoco. Il macchinista, che doveva essere pronto per ogni evenienza, era aiutato da due braccianti perché i controlli da farsi erano tanti. Un grosso e lungo cinghione partiva dal volano del motore e arrivava nella puleggia del battitore della trebbiatrice. Un fischio prolungato e squillante, udito da molto lontano, segnava l’inizio e la fine dei due turni giornalieri. A mezzogiorno tutti i lavoratori si affrettavano a pulirsi, scuotendo la polvere dagli abiti e lavandosi mani e faccia. Poi sceglievano un posto all’ombra: qualcuno accendeva un fuocherello per riscaldare la minestra portata da casa, altri attendevano i familiari che portavano fette di polenta calda accompagnate da pezzetti di gallina o coniglio o maiale. Finito il pranzo, vi era una bevuta generale di vinello graspia.

La trebbiatrice La trebbiatrice era una macchina grande e alta che aveva varie pulegge e cinghie per muovere tutti i meccanismi interni. Vi erano bocche d’uscita, sul davanti per raccogliere il grano, di fianco per la pula e altre che si protendevano nel retro per espellere la paglia e la mezza paglia. Attorno c’era tutto un frenetico lavoro di tante persone.

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Anno 1934, la trebbiatura. La trebbiatrice è messa in funzione da una macchina a vapore. Attorno alla macchina a vapore ci sono il meccanico e gli aiuti; attorno alla trebbia: a sinistra chi raccoglie la pula, davanti chi raccogli il grano. A destra i carri pieni di covoni che venivano poi posti sopra la trebbia. In cima ci sono operai per ricevere e slegare i covoni e poi darli a colui che provvedeva a far entrare le spighe entro i battittori.

Trebbiatura del frumento. Nel retro della macchina usciva la paglia, davanti il grano, a metà la pula.Sopra la trebbia vi sono l’imboccatore delle spighe e un bracciante che gli porge i covoni.

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Il lavoro più pesante, e nel contempo più pericoloso, era quello dell’imboccatore detto anche trebbiatore el paiarolo. Questi aveva il difficile compito di dover lavorare vicino ad un congegno che era formato da due cilindri uno interno all’altro. Quello interno girava, quello esterno era fisso e aveva un largo foro per l’entrata delle spighe e un altro per l’uscita dei grani, della pula e della paglia mischiati fra loro. La spiga veniva sgranata dai denti dei due cilindri che lavoravano a contrasto e che formavano il battitore. Per separare i tre componenti della spiga: grano paglia pula formento paia pula, c’erano all’interno della trebbiatrice dei meccanismi che facevano la selezione, convogliando i vari prodotti in distinti luoghi d’uscita. Chi imboccava le spighe si doveva posizionare entro un pertugio, con le gambe proprio davanti alla bocca di entrata del cilindro fisso. Se uno si distraeva, le sue brache potevano impigliarsi nei denti dell’ingranaggio rotante e rovinarsi qualche arto. Ogni tanto qua o là capitava purtroppo qualche disgrazia. Nella grande fattoria ho visto che vi erano più imboccatori che si davano il cambio ogni due ore. Erano persone abbastanza giovani ed esperte che, durante la pausa, si rifocillavano all’ombra sbattendo anche le vesti per eliminare il più possibile la polvere urticante che essi ricevevano in grande quantità durante il lavoro. Sulla copertura piana della trebbia c’erano anche altre persone di aiuto che ricevevano pure esse il cambio. C’era chi prendeva i covoni con la forca e li allungava ad altri che, tolti i lacci balzi, li porgevano all’imboccatore in modo che questi potesse sparpagliare le spighe per introdurle facilmente nei cilindri del battitore.

Il rifornimento dei covoniEra un lavoro che doveva essere fatto in sincronia da tante persone. Sotto la trebbia doveva esserci sempre un carro carico di covoni che una o due persone mettevano con le forche sul tetto della trebbiatrice. I rifornimenti erano fatti da un via vai di carri vuoti che andavano a caricare i covoni nei campi, e di carri pieni che andavano verso la trebbiatrice. Poco discosti dalla trebbia dovevano esserci sempre carri pieni, così c’erano coloro che con i buoi li spostavano per rimpiazzare quelli che erano stati scaricati completamente. Più i giorni passavano più numerose erano le spole dei carri perché le biche erano sempre più lontane. Le trebbiatrici erano poche in paese, così i fittavoli che erano gli ultimi ad usarle, spesso dovevano fare un lavoro aggiuntivo. Temendo che piovesse e che l’acqua bagnasse le biche, ma soprattutto perchè non si potesse più entrare con facilità nei campi dato che la terra bagnata diventava molle, ammassavano i covoni in un grande mucchio nel cortile della fattoria el cavaion. Veniva fatto a forma di carena rovesciata mettendo sempre verso l’esterno gli steli di paglia perché l’eventuale pioggia potesse scivolare senza penetrare all’interno dove c’erano le spighe.

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La raccolta del frumentoAttaccati alle bocchette di uscita del grano venivano appesi con ganci dei sacchi vuoti, quando erano pieni di frumento venivano portati sull’aia. Là c’erano delle donne che provvedevano con rastrelli di legno dal lungo manico, a sparpagliare i chicchi per soleggiarli. Alla sera il frumento steso veniva riammassato con rastrelli e pale e poi coperto con teli cerati o con tavolati catramati perché la rugiada o la pioggia non bagnassero il grano. Il giorno dopo lo ridistendevano, così fino a che non era secco. Quando il grano era seccato veniva portato, solitamente di sera nel granaio che, come già detto, era all’ultimo piano della casa padronale. Quei locali erano predisposti per la lotta contro i topi. L’intonaco perimetrale per un’altezza di un metro era liscio e spatolato a mar-morino dove i topi non erano capaci di arrampicarsi perché non trovavano ru-gosità. Quando scendevano dai loro nascondigli, situati sulle travi del coperto per mangiare i chicchi, non erano più capaci di risalire e così diventavano facili prede dei gatti. Per questo tutte le porte dei granai avevano alla base uno sportello a ghigliottina per fare entrare ed uscire i gatti. Prima di metterlo a magazzino il grano veniva misurato con lo staio staro, per ga-rantire i cottimisti sulla quantità. Era un sistema antico che però funzionava bene ed era accettato da tutti. Lo staio era un cilindro di ferro con sopra una crociera per il livellamento delle spalate. Perché la crociera non si deformasse, vi era al centro un ferro verticale, incernierato nella crociera superiore e in quella inferiore posta all’esterno del fondo. Lo staio misurava il frumento a volume e non a peso, perché il peso specifico del frumento era variabile a seconda delle annate da 75 a 78 chilogrammi ogni 100 litri. Il peso di uno staio di grano veniva considerato 25 chilogrammi senza però che venisse battuto per intasarlo. Per completare il discorso delle vecchie misure ricordo che nella madia buratàra, che conteneva farina bianca e gialla, esistente in molte case, c’era un recipiente di legno fatto a tino che chiamavano la quarta, era infatti la quarta parte dello staio che serviva per misurare gli sfarinati. Il riempimento dei sacchi veniva fatto di sera sempre dalla stessa persona ed allo stesso modo, era un obligo. Usava una pala speciale di legno la cui spalata poteva contenere fino a 10 chilogrammi di granaglie. Il manico aveva due impugnature, una bassa e una alta, tra queste c’era la parte piana del manico ingrossato che a metà aveva una terza impugnatura a maniglia. L’obligo con tre spalate riempiva lo staio, poi pareggiava l’eccedenza usando la parte piana del manico manovrandola con la maniglia. Lo staio veniva rovesciato poi da due persone in un sacco, così per tre volte. Il sacco sui 75 chilogrammi veniva subito portato a spalla nel granaio. Alla fine del lavoro tutti ansimavano per la fatica, ma in fondo erano contenti perché avevano messo in sicurezza il loro tesoro, sapendo già quanto spettava ad ognuno di loro.

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a) Indica la trebbiatrice nella sua interezzab) Battitore, cilindro rotante entro uno fisso - vedi m -c) Scuotipaglia per far avanzare la paglia verso l’uscita che è nel retro della trebbiatriced) Tavola oscillante ove cadono i chicchi rimasti fra la paglia e la mezza paglia, che fuoriescono dal retro e la pula dal fiancoe) Crivellone per selezionare il granof) Vaglio con cassone ove vengono raccolti i chicchi sgranati i quali poi vengono portati in alto a mezzo di un elevatoreg) Buratto cilindrico di selezione chicchi che poi fuoriescono sul davanti a mezzo di bocchette ove sono fissati i sacchih) Cassone raccolta chicchi - operazione prima di gi) Serbatoio pulizia chicchi - idem l) Elevatore chicchi a mezzo tazze - idem m) Cilindro fisso, controbattitore

N.B. Nella parte retrostante della trebbia vi sono tre distinte uscite di paglia intera, mezza paglia, paglia con pula sulla posizione della sigla e) - sulla posizione d) fuoriesce solo la pula (brattee del chicco). Tutte le ruote per il trasporto erano di ferro, quelle davanti erano snodabili.

Sezione verticale di una trebbiatrice anni ‘30-40. Seguendo le lettere dell’alfabeto si può vedere come funzionava una trebbiatrice. La a) indica la trebbiatrice nella sua interezza (a sinistra il fronte, a destra il retro), poi via via tutti gli organi per dividere il grano dalla paglia e dalla pula.

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La pagliaIl trasporto della paglia, intera o mezza, era una operazione strana per il modo in cui si sviluppava. Tutta la paglia cadeva dall’alto buttata in avanti da denti che si muovevano in su e in giù alternativamente. Sotto c’erano varie donne che la sis-temavano a forcate facendo cumuli lunghi fino a cinque metri. Poi si facevano avanti i trasportatori ciascuno con una pertica lunga circa tre metri e mezzo. Questa aveva da un capo una punta, dall’altro una maniglia sporgente e un corto bastone trasver-sale posto a circa mezzo metro dall’impugnatura. La pertica veniva infilzata sul lungo cumulo di paglia, la donna con la forca impediva gli spostamenti, mentre il bastone posto di traverso della pertica favoriva l’ammassamento. Poi la donna, sempre con la forca, aiutava l’innalzamento della pertica. Il trasportatore si addossava la pertica con la paglia infilzata ponendo il bastone trasversale su una spalla così, tenendo in equilibrio il tutto, andava sul pagliaio ove sfilava la sua quota. Nel pagliaio poi c’erano altri operai che sistemavano la paglia guidati da uno che aveva l’occhio come quello dei muratori, riusciva cioè a fare una carenatura rovescia a piombo e simmetrica. Era importante controllare le pendenze perché il vento non doveva sollevare nessuno stelo e la pioggia doveva scorrere veloce senza bagnare l’in-terno. Dopo l’inverno, quando il pagliaio si era assestato, cominciavano a usarlo, non levando la paglia con la forca, ma tagliandolo con un lungo segaccio fatto scorrere avanti e indietro con corde. Un metodo semplice perché i trasportatori di paglia potessero arrivare fino alla som-mità del pagliaio, alto circa quattro metri, era quello di fare prima un percorso in ascesa pestando una rampa formata dalla paglia stessa. Per la chiusura si servivano prima dei rialzi dei carri, poi usavano scale a tre piedi scalòn.

La pulaÈ l’involucro dei cereali. Usciva dal lato opposto a quello che serviva per i carri di rifornimento. Veniva raccolta da donne che la portavano via con una barella barea. Veniva ammassata in una buca poco profonda ed era usata per frammischiarla al letto di paglia dei bovini.

La canapaLa canapa è una pianta diserbante, adatta a soffocare qualsiasi erba infestante perché superiormente fa una fitta coltre di foglie che non lascia passare la luce, tanto neces-saria ai vegetali per crescere. Una volta era coltivata per ricavare fibre per corde, cin-ghie e tessuti grossolani. Dopo la seconda guerra mondiale cadde in disuso: prima fu sostituita dalla iuta, prodotto straniero meno costoso, poi dalla plastica che oggidì troviamo ovunque a basso prezzo. La canapa cànio, veniva seminata a marzo in fitte righe. Si ingrandiva rapidamente

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con steli di oltre 2 metri di altezza, privi di foglie perché rimanevano solamente quelle apicali, che formavano un ombrello impenetrabile ai raggi solari. Finito il raccolto del frumento, i trentotisti cominciavano il ciclo della lavorazione della canapa. Gli uomini con un falcetto dal manico lungo, tagliavano gli steli che venivano lasciati in terra. Quando il sole aveva appassito le foglie, le donne facevano dei mannelli legandoli alla sommità con le foglie stesse ormai avvizzite. Gli uomini poi facevano dei grandi fasci stretti con dei balzi, e li trasportavano presso il macero el masero, che era lo slargo di un fosso con acqua corrente. A monte e a valle del macero facevano degli sbarramenti di terra per fermare il corso d’acqua i cavedòni; poi costruivano un grande zatterone con i fasci di canapa sovrapposti, sopra i quali infine vi mettevano sassi trachitici, proprio quelli del Montericco di Monselice, per immergere lo zatterone. Nei confronti del termine dialettale màsero credo siano utili delle precisazioni perché in questo caso il dialetto polesano non è simile a quello padovano. Qui a Monselice chiamano il macero màsera, per distinguerlo dal màsero nome del maschio dell’anitra. A San Bellino invece chiamavano màsero il macero in quanto se ben ricordo, il maschio dell’anitra era solamente el mascio dea ànara. Come si vede c’è un’altra differenza: la ànara è quella che qui chiamano àrena. Dopo qualche settimana di macerazione l’acqua diveniva di colore verde scuro e diffondeva nell’aria un odore nauseabondo, mentre i pesci galleggiavano morti: allora disfacevano lo zatterone. Gli operai dovevano entrare nell’acqua putrida e così le vesti e la pelle umana si impregnavano di quell’odore ributtante. Tolti i sassi dovevano disfare i fasci. Prendevano i mannelli uno a uno, li sbattevano in quell’acqua putrida per eliminare il più possibile la corteccia verde che ricopriva la fibra, mettendo in evidenza il tiglio bianco che era quello che interessava per la vendita. Fatta questa pulitura gettavano a riva i mannelli lasciandoli legati nella parte superiore. Le donne li prendevano, li ponevano in piedi a ombrello sullo spiazzo antistante il macero, già reso libero in precedenza, perché si potessero asciugare ben bene. Finito quel sudicio lavoro, gli uomini disfacevano i cavedòni e l’acqua marcia defluiva. Essa però nel suo corso danneggiava per vario tempo la fauna dei fossi, stordendo i pesci. Così noi ragazzi andavamo per divertimento a prenderli con le mani a palpéto, anche se poi nessuno li mangiava perché impregnati di odori cattivi. Quando i mannelli di canapa erano secchi le donne eseguivano la stigliatura, per separare le fibre dagli steli. Era un lavoro lungo e monotono. Per farlo usavano una gramola particolare di legno che era un po’ simile a una trancia: serviva per rompere i canuli, cioè i fusti della canapa ormai tutti bianchi e secchi. La gramola era formata da un pesante asse sostenuto da quattro piedi per creare un piano orizzontale di lavoro. Sopra erano fissate in senso della lunghezza due liste di legno sagomate a triangolo le ganàsse, in modo da lasciare sopra uno spazio grande e sotto uno piccolo. In questo slargo andava a incastrarsi un’altra asta, il coltello, incernierato da un capo

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e con un manico di manovra nell’altro capo. Le donne prima alzavano il coltello poi stendevano di traverso sulle ganàsse un mannello di steli di canapa, infine abbassavano con forza il coltello, così i canuli si rompevano: questo lavoro dovevano eseguirlo più volte. Alla fine sbattevano il tutto in modo da far cadere un po’ alla volta tutti i pezzi legnosi. Ai piedi della gramola si formavano mucchi di steli rotti i canarèi, che nel padovano chiamano scanarèi. Le fibre ben pulite venivano ritorte a matassa e ripiegate, in modo da ottenere delle balle ben squadrate dal peso uguale di circa venti chilogrammi, così almeno ricordo. Tutti i cascami dei filamenti venivano messi da parte, formavano la stoppa stòpa, che veniva anch’essa venduta, ma a sacchi e a basso prezzo. Rimanevano sul terreno tanti canaréi, così ogni lavoratore li portava a casa a seconda del proprio bisogno con el cariolòn, cioè la carriola senza vasca sostituita da un ripiano che terminava con un’alzata. Il fittavolo vendeva a qualche commerciante il prodotto finito e poi spartiva al 38 per cento i soldi con i lavoratori.

Gramola costruita in legno per rompere gli steli legnosi della canapa, dopo che era stata messa a vista la fibra con la macerazione. Era manovrata da una donna.

Fasci di steli di canapa, pronti per la macerazione.

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I trentottisti tagliavano alla base i lunghi steli della canapa, che venivano fatti a mannelli e questi poi riuniti in fasci.

Dopo la macerazione i fasci venivano sciolti e i mannelli erano posti a ombrello per soleggiarli.

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La barbabietola e lo zuccherificioUna volta gli zuccherifici erano sparpagliati nei paesi di produzione delle barba-bietole, chiamate alla svelta bietole. I sanbellinesi dovevano conferirle a Lendinara che distava circa dieci chilometri. Quella produzione era allora remunerativa e perciò tutti gli agricoltori volevano seminarla. Le sementi selezionate le forniva lo zuccherificio per avere poi il diritto sulle bietole. Questo sistema otteneva un prodotto adeguato alla capacità di lavorazione dello zuccherificio. La semina delle bietole veniva fatta con la seminatrice, ma ne veniva tenuta larga la distanza dei solchi affiancati, perché le bietole avessero lo spazio per svilupparsi. Bisognava te-ner conto però anche che la bietola avesse la stessa possibilità di sviluppo lungo i solchi; allora le donne le diradavano sciarezavano, lungo i trimi quando le piantine erano grandicelle. Le bietole venivano pagate in rapporto al peso e al loro grado zuccherino, per que-sto venivano prelevati dei campioni da ogni carro conferito per controllare il grado di zucchero Se la stagione era piovosa c’era tanto peso di bietole e poco grado zuc-cherino, viceversa se la stagione era siccitosa. L’agricoltore sperava sempre di avere prima un periodo di piogge e poi uno di sole perché la bietola prima si ingrossasse con l’acqua e poi che questa evaporasse un poco. La raccolta era un lavoro fatto in più tempi, sempre eseguito tutto a mano. Cominciavano gli uomini con lo sradi-camento di ogni singola pianta fatto con una forca a due denti robusti e ravvicinati che, verso l’incastro con il manico, avevano uno slargo circolare per incastrarvi la bietola el forchéto. Aveva anche due puntali per fare leva con il piede onde affon-dare con facilità la forca nel terreno. Tutte le bietole divelte venivano ammucchiate vicino alle strade poderali le carezà. Poi le scollettavano, cioè con un seghetto ta-gliavano le foglie superiori. A questo punto venivano fatti due mucchi: uno di sole bietole, uno di foglie. Era necessario ed utile che i mucchi fossero il più possibile vicini alle strade poderali per il trasporto. Nel campo i carretti carichi sarebbero affondati e per il traino sarebbero occorsi anche due o tre paia di buoi. Poi c’era il carico dei carretti e carri per il trasporto allo zuccherificio. Tutti questi spostamenti delle bietole erano eseguiti con una forca speciale a sei branche che terminavano con una sferetta per evitare che le bietole venissero infilzate. Le foglie ammucchiate venivano portate via per ultime e scaricate in fosse vicine alla stalla perché serviva-no da mangime per i bovini. In genere tutti i trasporti delle bietole venivano fatti con i cavalli perché più veloci e più resistenti; infatti i bovini sono lenti, soffrono il caldo estivo e anche hanno gli zoccoli che si rovinano facilmente camminando sulle carrarecce inghiaiate. Nessun agricoltore era fornito di carretti e cavalli per riuscire a trasportare le proprie bie-tole allo zuccherifici, così ricorreva ai carrettieri di professione o a quelli stagionali. Coloro che facevano di mestiere il carrettiere erano ben attrezzati e avevano carretti e cavalli efficienti. Costoro curavano i loro animali sia nell’alimentazione che nel

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bere e li proteggevano dalla pioggia. Entro il cassetto del carretto avevano come scorta un secchio di tela pesante, serviva per attingere acqua e per dare la biada ai cavalli. Alcuni avevano carretti con cerchioni di ferro e pianali maggiorati, erano le bare, che trainate da cavalli di forte taglia i frisoni, potevano fare grossi carichi. I carrettieri stagionali erano giovani che si industriavano ad arrotondare le entrate casalinghe con i viaggi che erano pagati in contanti. Comperavano un cavallo per la campagna bieticola e poi a lavoro finito lo rivendevano, i carretti invece, di solito malandati, erano di proprietà di chi faceva il carrettiere stagionale. I carretti co-munque dovevano essere attrezzati per aumentare il volume di capienza perché le bietole, ammucchiate alla rinfusa, hanno poco peso specifico. Le sponde, che erano costruite a telaio, venivano allora chiuse con assi di legno e, davanti e dietro, fissa-vano con ganci delle casse speciali.Ricordo due fratelli, figli della fruttivendola, che facevano i carrettieri stagionali ed erano nella bocca di tutti perché formavano una coppia singolare. Il più vecchio era un mingherlino e non era sposato, il più giovane era un robustone sposato con un figlio. Avevano in proprietà i carretti e i finimenti, però mancavano dei cavalli. Per la bisogna comperavano un cavallo efficiente per il fratello smilzo e un ronzino per quello robusto. Siccome succedeva che nei viaggi di ritorno molti facessero riem-pire il carretto con rifiuti delle barbabietole le polpe, sgocciolanti molta acqua, così un po’ alla volta la carrareccia davanti allo zuccherificio si ammollava e il manto stradale di ghiaia si rovinava. Erano guai per tutti i conferenti perché in quel tratto il procedere dei carri era faticosissimo. Entravano allora in gioco i patteggiamenti fra i carrettieri per superare l’ostacolo. Alcuni avevano un secondo cavallo da trai-no a bilancino balanzin, messo in fianco o davanti al carretto. Costoro staccavano il secondo cavallo e andavano ad aiutare chi era in difficoltà. Ritornando ai fratelli, dato che essi erano sempre appaiati, chi provvedeva in quei casi di bisogno per il tiro suppletivo era sempre il forzuto che faceva costantemente da mulo per sé e per il fratello. Almeno così si diceva in paese. D’altra parte dopo i quaranta giorni di campagna saccarifera, il fratellone era parecchio dimagrito per gli enormi sforzi che aveva fatto nel traino dei carretti. I carrettieri potevano fare due viaggi giornalieri solo sacrificando il sonno della notte. Bisognava essere nei primi posti della fila del mattino e poi ritornare velocemente nei campi a fare un altro carico di bietole e ripartire di gran carriera. Chi faceva un solo viaggio di bietole, al ritorno caricava le polpe. Queste venivano scaricate poi in fosse preparate nel terreno. All’inverno quando le polpe avevano fatto il loro ciclo fermentativo trasformandosi in un amalgama bianco e molliccio, i bovari le distri-buivano sulla greppia dei bovini, ritagliando grossi pastoni con una pala di ferro. I bovini accettavano di buon grado quel cibo. Sorgeva però un inconveniente; se veniva distribuito anche alle vacche da latte, ne usciva un prodotto amarognolo e di odore acre, quel latte non era facilmente commerciabile.

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Barbabietole ammucchiate sul ciglio del campo. Pronte per essere scollettate col seghetto dalle trentottiste. Dopo, le bietole venivano caricate sui carri e sui carretti per il trasporto allo zuccherificio. In questo caso la forca usata per il carico era grande, a sei branche terminanti con palline per non infilzare i tuberi.

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Carretto attrezzato per il trasporto delle bietole. Per aumentare la capienza, giacché le bietole poste alla rinfusa occupano molto spazio, fniti i trasporti di bietole le opere sussidiarie venivano tolte.

La barbabietola è una pianta biennale: nel primo anno viene sfruttata la radice, il tubero; nel secondo anno le sementi.La bietola da orto serve invece in cucina: a sinistra la barbabietola da zucchero, a destra quella da cucina.

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Il granoturcoQuesto cereale ha più nomi, quand’ero bambino lo chiamavamo granone o granotur-co, oggi tutti lo chiamano mais. La semina, che avviene alla fine dell’inverno, aveva le stesse necessità della bietola: semente sparsa nei solchi con la seminatrice e di-radamento delle pianticelle perché le future pannocchie potessero ricevere il sole. Quando poi le piante crescevano bisognava diradarle sciarezàrle e sarchiarle zapàrle, più volte, sia per rincalzare le radici, sia per distruggere le erbacce infestanti e per rompere la crosta del terreno onde evitare l’evaporazione dell’acqua sotterranea. Il granoturco formentòn, è una pianta che ama l’acqua per poter crescere bene e dare più di una pannocchia per gambo. Quando la pianta ingialliva i contadini andavano a staccare le pannocchie complete di brattee scartòzi o scartòsi, che ammassavano sull’aia avendo cura che non si ba-gnassero. Poi, seccati i grani della pannocchia, donne uomini e ragazzi si raccoglieva-no di sera sull’aia per togliere le brattee scartozare, qualcuno usava un lungo chiodo che a Monselice chiamano speo. Erano momenti di chiacchiericcio, risate, cantate e mangiate di zucca la zuca, e patate dolci le meriche. Poi arrivava lo sgranatoio che separava i grani dal tutolo. I grani venivano poi messi a seccare e portati in granaio oppure venivano subito spartiti fra gli aventi diritto. Rimanevano le brattee e i tutoli, castelòni per Rovigo scanaréi per Padova.

Carro agricolo leggero tirato da due vacche trasporta steli di granoturco per usarli nella stalla. Il veicolo percorre una strada poderale chiamata anche carezà.

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I casteloni venivano bruciati assieme alle fascine e i scartozi servivano per rifare il pagliericcio el paiòn, ai bovai quando dormivano in stalla e ai poveri del paese; quel-le brattee che avanzavano venivano date ai bovini mescolate al fieno durante i mesi invernali. Dopo qualche anno che ero a S. Bellino gli agricoltori provarono a seminare il grano-turco e le barbabietole col sistema a pozzetto per fare più in fretta la diradatura. Que-sto sistema, che prevedeva di seminare in buchette poste a distanza, non funzionò perché la preparazione era macchinosa. Dovevano allestire degli assi lunghi circa un metro, inchiodarvi sopra un manico per la manovra e sotto dei pezzi tronco conici posti a intervalli calcolati. Per affondare sul terreno quello strumento dovevano pri-ma tirare i fili di allineamento per ottenere solchi paralleli; poi due operai adoperava-no l’asse attrezzato che, posto in posizione, veniva premuto con i piedi per ottenere le buchette. Dietro c’erano i seminatori. Così facendo diminuì il tempo dello sciarezare, ma aumentò quello della semina. Quando sono partito da S. Bellino cominciavano ad entrare in esercizio macchinari adatti per semine distanziate.

Il pratoI prati prà, che venivano coltivati per quattro anni, erano formati da erba medica spagna, che dava ottimo fieno appetito dagli animali e che nel contempo ingrassava la terra. Infatti le lunghe radici di quella pianta graminacea fissano nel terreno l’azoto utile per tutte le culture. Ogni anno facevano tre o quattro sfalci, generalmente con la segatrice, macchina allora abbastanza diffusa anche a S. Bellino. Era trainata da un cavallo che percorreva su e giù i campi coltivati a prato. Le erbe nelle zone delle ca-rezà e delle rive dei fossi invece venivano segate a mano con la falce fienaia. Purtrop-po una volta non c’erano macchinari attrezzati per lo sfalcio, la raccolta delle erbe e il loro essiccamento, per cui quasi tutte le fasi lavorative dovevano essere fatte a mano, specie per l’essiccamento e il trasporto.Ho visto anche falciare a mano campi di erba medica. In questo caso i falciatori erano due o più. Essi usavano lo stesso sistema dei mietitori. Uno iniziava sul lato di una capezzagna, fatti pochi metri, cominciava il secondo e così via. Con ogni colpo della falce dato con tutte e due le braccia, venivano segati circa ottanta centimetri ad arco per una profondità di quaranta. L’erba cadeva dove era cresciuta e così da subito ve-niva soleggiata. Alla sera era raccolta con rastrelli di legno, o meccanici, in lunghe file per evitare che la rugiada la bagnasse tutta. Alla mattina con le forche la distendevano per esporla al sole: così fino a che l’erba diventava secca e si trasformava in fieno fen. I falciatori, prima di iniziare il lavoro alla mattina e qualche volta anche al pomerig-gio, arrotavano le falci. Era un rituale che ho visto molte volte. Conficcavano in terra per metà, cioè fino a un blocco formato da cerchietti, una cavicchio di ferro con la testa convessa la pianta. Si sedevano sull’erba e con un martelletto a due teste batte-vano il filo della lama per assottigliarlo. Finito questo lavoro, ripassavano il filo più

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volte con la cote piera, che avevano appesa alla cintola entro un corno contenente acqua, per togliere ogni eventuale sbavatura. Anche quando lavoravano di tanto in tanto i falciatori si fermavano, ripassavano la cote sul filo della falce per mantenerlo tagliente il più a lungo possibile. Il fieno veniva caricato e scaricato sempre manualmente con forche. Come tutti i lavori però, anche per caricare i carri di fieno occorrevano accorgimenti perché, du-rante il trasporto dal prato al fienile, le scosse non facessero scivolare a terra una parte del fieno. Infatti una volta mi successe di cadere da un carretto pieno di fieno perché mi ero appollaiato sopra. Durante il trasporto uno scossone fece cadere il fieno più alto ove ero seduto. Caddi e mi feci abbastanza male a un gomito tanto che dovetti ricorrere alle cure del medico; guarii in tre settimane.

Carro agricolo pesante che trasporta il fieno dal campo al fienile. Il conducente ha in mano il pungolo guièlo e la cavezza, poi c’è una forca infissa nel fieno. La cavezza circondava il muso dell’animale che faceva da guida, sul davanti aveva una mezzaluna di ferro con punte verso l’interno.Se la cavezza veniva tirata, la mezzaluna pungeva il muso dell’animale il quale era così costretto a eseguire quanto voleva il conducente.

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La fattoria ChinagliaLa mia abitazione distava dalla fattoria Chinaglia una sessantina di passi, si trovava nel lato opposto della carrareccia. I gestori erano due fratelli sulla cinquantina spo-sati e ciascuno con parecchi figli. I più giovani, miei coetanei, erano gli amici delle mie scorrerie nei campi e lungo i fossi d’acqua. I Chinaglia avevano solamente come operai fissi due bovari boari, perché tutta la manodopera era formata dai figli. Questa azienda, lungo il tempo, mi offrì molti insegnamenti in campo agricolo e su tanti ani-mali: dai buoi ai pesci, dai cavalli agli insetti. Là rivedevo con attento interesse tutto quello che scorgevo di sfuggita in altre aziende e di cui non sempre riuscivo a capa-citarmi. Per questo ora descrivo in modo particolareggiato quanto ho conosciuto in quella fattoria. Quando non ero a scuola o ero libero da impegni di studio, correvo là, tanto che potevo chiamarla la mia seconda casa. Dai Chinaglia ho percorso in lungo e in largo la stalla, i campi coltivati, i fossi, là ho visto e rivisto i lavori campagnoli che si susseguivano nelle varie stagioni. Oggi scrivendo ripasso nella mia mente quei ricordi che alla fine erano sì motivo di svago, ma anche di forte interesse. Dato che gli argomenti sono parecchi, ritengo opportuno suddividerli per soggetto.a) La stalla. Come in tutte le aziende di S. Bellino la stalla era un edificio imponente, di color rosso per via dei mattoni a vista. La stalla si divideva in tre sezioni con fun-zioni diverse e distinte: il portico per il ricovero dei carri, la stalla vera e propria per i bovini e il sovrastante fienile per le erbe secche. Naturalmente la parte principale era quella riservata agli animali, che era allora molto diversa dai ricoveri degli animali di oggi. La stalla dei buoi aveva una corsia longitudinale al centro con un pavimen-to a schiena d’asino per facilitare lo sgrondo delle urine. Ai lati di essa c’erano delle cunette i solcali, di raccolta e convogliamento verso l’esterno dei liquidi. Ai fianchi di questo corridoio erano distribuite le celle per gli animali le poste, di una grandezza sufficiente a raccogliere due bovini sdraiati. Le poste erano divise fra loro da paratie in legno le stramezare, alte circa un metro e trenta centimetri. In fondo verso l’esterno ogni posta aveva la greppia grupia. Longitudinalmente questa era irrobustita da una solida trave per legarvi gli animali con la cavezza caveza o cavessa. Ogni giorno i bo-vini venivano liberati e condotti all’esterno due a due, perché potessero abbeverarsi su un lungo contenitore d’acqua l’albio. Ogni animale aveva i dati anagrafici scritti con il gesso su tabelle fissate in alto su ogni posta. I bovari che li accudivano, usava-no per ogni animale il nome scritto sulla tabella che di solito era un aggettivo, come Bianchetta, Mora, ecc. Talvolta mi fermavo a chiacchierare coi bovari, così successe che assistetti alla nascita di un vitello. Il bovaro di turno legò una corda ai piedi del nascituro che fuoriuscivano e si mise a tirare, dopo qualche sforzo dell’uomo e della vacca nacque un vitellino. Una volta erano fatti eccitanti per noi ragazzetti, oggi alla TV si vede di tutto. Ricordo che il bovaro mi disse che da alcuni giorni e notti dor-miva in stalla in attesa del lieto evento, perché nella tabella era scritto anche il giorno della monta del toro, e lui aveva tenuto conto del periodo di gestazione.

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I tori erano allevati e selezionati nelle stalle più grandi del paese o dei dintorni. All’esterno di quelle stalle c’erano steccati robusti, per trattenere le vacche quando c’era la monta. Ora se ne incaricano i veterinari sia per la scelta dei tori che per l’inse-minazione delle vacche. Una volta ogni toro aveva una cella propria ed era legato con una cavezza formata da una catena di ferro fissata al muro. Per menare un toro fuori della stalla occorrevano due bovari perché il toro è un animale bizzoso e pericoloso. Un bovaro lo conduceva per la cavezza ed era fornito di un robusto pungolo guiélo, un altro teneva una corda con la quale comandava una speciale tenaglia che metteva-no sulle narici. Se il toro faceva le bizze il bovaro tirava la corda e stringeva le narici provocando sensibili dolori al toro che era costretto ad ammansirsi. Quella tenaglia non feriva il muso del toro, gli produceva solamente dolori perché aveva le ganasce che terminavano con due palline.Ogni mattina i bovari pulivano la stalla, gettavano forcate di foraggio nella mangia-toia e rifacevano le lettiere. Lo strame veniva portato con una carriola piana cario-lòn, nel letamaio loamàro. Talvolta pulivano con la striglia e la brusca gli animali più insudiciati. All’esterno vi erano tombini interrati che portavano l’urina dei bovi-ni in una cisterna coperta da grossi assi di legno, posta fra le due piazzole formanti il letamaio. Erano queste costruite in mattoni e circondate da cordoli per trattenere i liquami. Per far maturare più celermente il letame i bovari irroravano, di tanto in tanto, lo strame con l’urina che estraevano dalla cisterna con una latta petroliera fissata a un lungo manico.

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Quando il letame diventava nero significava che era maturo; allora lo spargevano sui campi per concimarli poco prima dell’aratura. b) Il fienile e il portico. Il fienile era sovrapposto alla zona ricovero bovini e aveva la stessa superficie. Era chiuso per tre lati da una muratura mentre il quarto, che si af-facciava sul portico, era libero per il carico e scarico del fieno. Su questo quarto lato c’erano solamente delle pilastrate per sostenere le travi del coperto. Sulle altre pareti c’erano grandi riquadri di grigliati in mattoni, fatti a croce greca, onde permettere l’aerazione della massa del fieno. Il portico era formato da grandi arcate poggianti su robusti pilastri, che avevano anche chiusure parziali sempre in mattoni; per ottenere zone di ricovero protette dalle piogge.c) Le stallette degli equini. Le stalle dei cavalli, asini e muli erano ambienti piccoli staccati dalla stalla dei bovini. Le esigenze di questi animali sono diverse da quelle dei bovini; essi hanno bisogno di ventilazione. Le loro celle poste, erano per un solo animale, però anch’essi erano legati alla greppia con una cavezza. Pure la pavimenta-zione era diversa perché per gli equini, che battono gli zoccoli ferrati sul pavimento, occorre un manufatto molto resistente. Generalmente era formato da mattoni posti a coltello cortelà. Gli equini producono minor quantità di strame, però devono essere nutriti solo a fieno avena o pastone liquido di farina bianca, non appetiscono polpe o brattee come i bovini. In aggiunta il loro manto deve essere sempre pulito giornal-mente con brusca e striglia.

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Pianta di una stalla per bovini in muratura degli anni ‘30 a San Bellino. Ve ne erano di più grandi e anche di più piccole. A sinistra c’era il letamaio, a destra l’abbeveratoio. Quando nascevano i vitellini, dopo pochi giorni, venivano posti in una cella e riportati dalla madre solo quando dovevano fare la poppata.

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Sezione verticale di una stallaer bovini in muratura degli anni ‘30 a San Bellino. Sotto il fienile c’era il ricovero dei bovini. Da notare le pendenze per lo sgrondo delle urine. Le tre pareti che contenevano il fieno avevano riquadri forati per espellere i gas di fermentazione delle erbe. Il portico serviva per il ricovero dei carri, dei carretti e per scaricare il fieno.

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Prime arature e semineIn settembre cominciavano ad arare quei campi che dovevano essere seminati a fru-mento prima dell’inverno, Quel lavoro era, per me ragazzo, pieno di scene maestose, indimenticabili che iniziavano all’alba e finivano nella tarda mattinata.L’aratro versuro, era tirato da sei paia di buoi solenni, dalle lunghe corna arcuate e dall’incedere lento e maestoso. Presto si cominciavano a vedere piccoli sbuffi di vapor acqueo uscire dalle narici di quei bestioni bianchi e anche piccole coltri di vapore che sorgevano dalla terra rovesciata dal vomere dell’aratro. Gli operatori erano quattro, due per dirigere i dodici buoi e due per governare il pesante aratro. Ogni bovaro accudiva con il suo pungolo guielo, tre paia di buoi in modo sincrono perché tutti i buoi tirassero assieme l’aratro e non sbandassero di qua o di là, giacché i grandi solchi dovevano essere paralleli: era questo un segnale di bravura degli aratori. Al-tri due operai manovravano l’aratro il cui vomero doveva costantemente rivoltare la terra per una profondità di cinquanta centimetri, badando contemporaneamente al parallelismo dei solchi. I terreni erano generalmente di impasto agro, cioè forte, per cui uomini e buoi dovevano faticare. Per mantenere costante il livello del terreno, cominciavano l’aratura ad anni alterni dalle capezzagne laterali o dal centro di ogni appezzamento. A giorni alterni, invece, gli operai cambiavano sia il coltro, la lama che tagliava verticalmente il terreno, corteo nel Polesine coltra nel Padovano, sia il vomero che taglia orizzontalmente in profondità e rivolta le zolle el gomiéro: tutto questo per farli riaffilare a caldo dal fabbro. Quel terreno duro lasciava grosse zolle loti, così dovevano ripassare sui campi uomi-ni e donne che, con un mazzuolo dal lungo manico màzo, battevano sulle zolle per spappolarle slotavano. Per pareggiare bene il terreno e rompere tutte le zolle piccole ripassavano ancora con un pesante erpice la rapegàra, tirata dai buoi e fatta artigia-nalmente con una robusta e spessa intelaiatura lignea e con grossi cavicchi di ferro, lunghi venti centimetri, fissati negli interstizi delle riquadrature. Alla fine ripassava-no con erpici leggeri che avevano corone dentate di ferro e che erano tirati da cavalli o asini: così il terreno era pronto per essere seminato. Col terreno asciutto iniziava la semina del grano. Tutti comperavano la semente a Lendinara, sia perché ciascun coltivatore scieglieva la specie di frumento che riteneva più produttiva nel suo ter-reno, sia perché il frumento doveva essere trattato col “caffaro” che rendeva i chicchi verdastri: era un antidoto contro le malattie e contro gli uccelli che non lo beccavano perché di gusto sgradevole. Ho visto anche seminare a spaglio in quegli appezzamen-ti che avevano una positura infelice per l’uso delle macchine. La seminatrice aveva un contenitore delle sementi lungo e stretto, dal quale pendevano dei pezzi di tubo, uniti a telescopio, posti alla distanza di circa dieci centimetri l’uno dall’altro. Il pezzo di tubo terminale era fornito di una ghiera sagomata; sul davanti aveva un dente per tracciare un piccolo solco sul quale subito cadeva la semente, nel retro aveva invece una spatoletta per richiudere il solco.

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L’abilità del seminatore era di condurre la seminatrice in modo rettilineo per ottenere tanti solchi uniformemente paralleli fra loro. La seminatrice non era però trainata sul campo dai buoi perché gli zoccoli di quei bestio-ni avrebbero creato nella terra smossa profonde buche, che sarebbero risultate dannose, perché in quei luoghi la semente sarebbe rimasta in superficie senza poter attecchire. Per ovviare a questa difficoltà era stato escogitato il sistema di far scorrere su e giù per il campo solo la seminatrice governata da un uomo. Essa veniva trainata avanti e indietro con delle corde. Erano corde lunghissime che venivano deviate, per il tiro sulle carezà, da grosse carrucole ancorate a terra. I capi delle due corde infatti a mezzo delle carru-cole arrivavano sulle strade poderali che delimitavano le due teste dell’appezzamento. Colà vi erano coppie di buoi che alternativamente provvedevano per il tiro. Le carru-cole venivano continuamente spostate dopo un’andata o un ritorno. Finita la semina usavano rulli leggeri per comprimere un po’ il terreno e per spingere le sementi entro la terra. I rulli erano tre, distanziati tra loro nel senso della larghezza, ed erano tirati da un cavallo o da un asino. Prima dei grandi freddi invernali si vedevano già le fo-glioline del grano che crescevano. I contadini aspettavano il freddo e la neve perché così il frumento rallenta lo sviluppo verticale e accestisce facendo più steli onde avere più spighe per ogni granello. Questo io lo avevo già imparato alle elementari di Costa di Rovigo. La mia maestra Gigina Beltrame me lo ha ripetuto per cinque anni, termi-nando poi la spiegazione col noto proverbio: “sotto la neve pane, sotto l’acqua fame”. Quando c’era la possibilità, nei bei giorni autunnali, continuava l’aratura per prepa-rare il terreno alle seminagioni primaverili. Così facendo si otteneva che la pioggia penetrasse in profondità sulla terra smossa e che i successivi gelo e disgelo rompes-sero le zolle. Coloro che non riuscivano, dovevano farlo negli ultimi tempi invernali per avere il terreno pronto per granoturco, bietole, canapa.

Carrucola di legno col diametro di circa sessanta centimetri usata per la semina. Veniva ancorata nelle strade poderali con un arpione. Due carrucole servivano per far deviare di 90° le corde legate, davanti e dietro, alla seminatrice per essere tirate alternativamente dai bovini che camminavano nelle due carèza che delimitavano le testate dei campi. Naturalmente le due carrucole venivano spostate, prima una e poi l’altra, per ogni giro completo.

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Sei paia di buoi, guidati da due bovari, tirano un pesante aratro manovrato da altri due operai. Da notare che l’aratura è iniziata dalla carezà.

Trentottisti che, con un mazzuolo di legno dal manico lungo, spappolano le zolle lasciate dall’aratura. Questo lavoro veniva fatto poco prima della semina.

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Lavori invernaliDopo la semina del frumento e le ultime arature, i lavori in campagna erano tem-poraneamente sospesi. I braccianti trovavano da lavorare in opere sussidiarie, come preparare la legna da ardere, sradicando alberature morte o ammalorate e poi facen-do la potatura degli alberi con la roncola cortelina, e più tardi anche quella delle viti, bruscare la vigna. Vigeva un tacito consenso per la legna da ardere fra i conduttori e gli operai: “io ti do la legna tu la spacchi, metà a me e metà a te”. Il ceppo delle radici veniva però lasciato a chi lo scavava perché allora non c’erano macchine per lo sradi-camento. Il lavoro di rottura dei tronchi d’albero era molto faticoso giacché era fatto tutto a mano senza l’ausilio di macchinari. Usavano un grosso e pesante mazzuolo di legno, generalmente di rubino. Era un cilindro lungo sui quaranta centimetri e del diametro di quindici, aveva un manico lungo circa un metro. Le due teste erano incernierate con anelli di ferro mazo con le scione. Prima l’operaio faceva con la scure manara, delle tacche per infilarvi dei cunei di ferro penole, poi batteva col mazo, così un po’ alla volta otteneva ceppi adatti al focolare le zoche. Ri-dotti i tronchi in ceppi per camino, gli operai facevano le cataste di legna zocare, pri-ma per i fittavoli e poi per loro stessi, portandosi a casa la propria quota di spettanza. In quei tempi alcuni signori avevano la cucina economica detta americana, così era chiamata allora la stufa per cucinare e riscaldare, perciò dovevano provvedere a farsi tagliare i ceppi in legni piccoli, questo lavoro dovevano pagarlo o farselo da soli. Con la potatura delle piante e delle viti venivano prodotti tanti bruscoli e sarmenti che poi venivano legati con rametti di salice strope, per fare fascine fasine. Spesso i rami più resistenti e grossi li usavano come pertiche per sorreggere le vigne i pali. Tutte le fascine le ammucchiavano facendo il fasinaro: era questa una riserva di combustibile da usarsi per fare fiammate grandi e improvvise, come nel forno del pane o nel for-nello del bucato.

L’uvaA S. Bellino non ho mai visto vigneti grandi come quelli che ho trovato a Monselice. L’uva era ritenuta poco remunerativa perché non dava vini caratteristici. In pratica la coltivazione si riduceva a soddisfare i bisogni della gente del luogo. La vite vegna, veniva coltivata a spalliera alta rivale, fra gli olmi che crescevano nelle capezzagne. Generalmente era uva nera che dava vino raboso, bacò, clinton; qua e là v’erano an-che pergole di vigne con uva fragola o bianca per mangiarle a tavola.Le cantine, nel Polesine cantine nel Padovano càneve, erano locali piccoli, posti a nord, forniti però del necessario per la vinificazione. Io non sono mai andato a ven-demmiare quando abitavo a San Bellino, perché i grappoli erano alti e per staccarli occorreva l’uso della scala a tre piedi, scalòn, fatto a triangolo con una gamba mobile, mi limitavo a guardare le varie operazioni.

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La pigiatura era fatta con i piedi entro un contenitore speciale veturo, la fermentazio-ne del mosto posto entro i tini produceva nuvole di moscerini moschini, infine c’era la spillatura attraverso la spina con lo zipolo cànola. Il passaggio del vino nelle botti era fatto con l’aiuto di uno secchio di rame e un grande imbuto: piriòto a Rovigo, a Padova lora. Solamente a lavori finiti noi ragazzetti andavamo a raccogliere i racimo-li recèti, ormai un po’ appassiti e dolci. Usavamo canne selvatiche canàvere, con un incastro posto nella parte superiore, nel quale cercavamo di introdurvi il gambo, poi giravamo la canna fino a rompere il picciolo pecòlo. Le vinacce graspe, che rimanevano nel tino dopo la spillatura venivano usate, aggiun-gendo acqua, per ottenere il vinello, la graspìa, che serviva durante i lavori pesanti della mietitura e della trebbiatura. Quei gestori che avevano invece il torchio manua-le, spremevano le vinacce per ricavare altro vino, le vinacce che restavano venivano gettate nel letamaio, seguendo il ciclo del fertilizzante naturale.A S. Bellino c’era l’abitudine che in tutte le famiglie venissero confezionati i succhi d’uva sùgoli, era una ghiottoneria che pure i braccianti volevano assaggiare, anche per-ché costavano poco. Ricordo bene come li faceva la mamma. Sceglieva i grappoli d’uva più matura, staccava gli acini eliminando quelli difettosi, ne riempiva fino all’orlo un paiolo di rame, ove prima aveva messa una grossa chiave di ferro perché c’era in paese la diceria che il ferro era l’antidoto contro gli acidi del mosto che potevano intaccare il rame. Fatti bollire gli acini, il paiolo veniva tolto dal fuoco e lasciato raffreddare.

Quando c’erano molti grappoli, l’uva veniva pigiata con i piedi dentro il veturo. Quando erano in quantità limitata la pigiatura veniva fatta entro una tinozza. La persona accovacciata fa la cernita dei grappoli per poi usarli per i sùgoli.

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Poi la mamma scolava il tutto, spremeva ben bene le bucce le graspiaiòle eliminando-le assieme ai vinaccioli gramùstrini. Era arrivato il momento della dosatura per me-scolare il mosto con la farina doppio zero. La mamma misurava il mosto a bicchieri e metteva da parte altrettante cucchiate di farina. Dopo faceva come per la polenta, mescolava lentamente la farina nel mosto caldo fino a che riteneva che il tutto fosse cotto; prima però di tanto in tanto, assaggiava l’impasto e nel caso sentisse il bisogno lo dolcificava con un po’ di zucchero. Per raffreddare i sùgoli che ormai erano di color rosso violaceo, mia madre li scodellava in piccoli recipienti che servivano per la con-servazione. I sùgoli non si dovevano mangiare caldi perché sarebbe stato come pren-dere un purgante, da freddi si mangiavano come dessert. Potevano essere conservati anche fino a Natale, in quel caso facevano una crosta con una muffa verdognola, sotto però si trovavano i sùgoli ancora in ottimo stato di conservazione. A casa mia i sùgoli duravano al massimo una decina di giorni. In questo caso facevano una muf-fetta bianca, forse l’efflorescenza degli zuccheri, che a me piaceva molto. Certe volte quando la mamma aveva fretta, faceva i sùgoli usando direttamente il mosto quando usciva dal vetùro, poi seguiva lo stesso metodo già detto: cottura del mosto e poi do-saggio e polenta. I sùgoli così fatti risultavano simili a quelli ricavati dagli acini bolliti, ma il gusto però era meno pastoso, forse perché mancava il tannino delle bucce. Da grande ho constatato che questo succo d’uva è diffuso specie nel Veneto e in Emilia Romagna. Attualmente, nel 2008, vi sono in commercio scodelline di 150 grammi di sùgoli prodotti a Reggio Emilia che costano attorno ad un euro. È il costo di un pro-dotto particolare diffuso in piccole aree, ma per noi vecchi, che ben li conosciamo da antica data, sembra un costo rilevante.

L’ambiente economicoAll’inizio ho chiamato economia curtense quella di S. Bellino, prendendo a prestito una realtà medioevale. A S. Bellino vi erano tanti braccianti, il popolo servo del-la gleba, e pochi benestanti, i conduttori agricoli cioè i signorotti i vassalli. Certo i trentotisti potevano abbandonare il quietismo paternalistico e tradizionale dei bene-stanti, ma una vecchia sudditanza e le difficoltà economiche frenavano ogni slancio per le novità. Purtroppo i braccianti disponevano di contanti solamente durante la raccolta dei prodotti agricoli, non tanto per pagare i debiti del futuro ma per saldare quelli dell’anno precedente. Pochi se la sentivano di affrontare una vita diversa in altri luoghi, lasciando arretrati ancora insoluti. Così tutti vivacchiavano tenendosi stretto quel modesto reddito che avevano. Mio padre nel 1930 fece costruire a San Bellino un piccolo mulino con due palmenti a mole di pietra, uno per il grano l’altro per il granoturco. Proprio quell’economia, basata sul reddito estivo, non diede a mio padre possibilità di sviluppo, perché ogni anno, per parecchi mesi, mancava il denaro alla maggioranza della popolazione; così mio padre, scarso di liquido, dovette vendere il mulino dopo cinque anni.

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Mi pare sia utile spiegare come la popolazione sanbellinese riuscisse a sopravvivere in un luogo che fondava la propria esistenza soprattutto sul pane e sulla polenta, con-diti soltanto una volta alla settimana, con la carne degli animali da cortile. Quei due alimenti, il pane per i ricchi e la polenta per i poveri, oggi si trovano ovunque, ma una volta dovevano essere confezionati in casa; e per far questo c’erano lavori supple-mentari specie per le massaie.Una situazione poi, che sulle prime mi ha meravigliato, fu quella di constatare che parecchie famiglie sparse nella campagna non avevano la luce elettrica. Nel centro della stanza avevano appeso alle travi un lume a petrolio. Esso era formato da un contenitore, completo di stoppino regolabile, posto entro una struttura circolare di ottone che aveva tre catenelle di supporto, era il canfin. Poi sulla cappa del camino erano allineati candelieri portatili. Questi candelieri erano usati però anche da coloro che avevano la luce elettrica perché dicevano che l’uso della candela era meno costo-so della illuminazione elettrica.In paese c’erano degli operatori indipendenti, artigiani e commercianti, che però erano in numero limitato perché la loro attività era strettamente legata alla situazione agricola del paese, ove tutti cercavano di arrangiarsi mancando a molti, come detto, il contante. Credo che l’autonomo che stava meglio fosse l’alimentarista casolino, che aveva il suo ne-gozio nel centro e che vendeva anche tanti piccoli oggetti, come cancelleria per gli scolari, rocchetti di filo e bottoni per le mamme. Per spiegare poi i bisogni soddisfatti dai commer-cianti, dagli artigiani e dalle brave donne di casa mi dilungo a parlarne specificatamente.

Il paneLa panificazione era una operazione che coinvolgeva tante famiglie. I forni, tutti della stessa capacità, erano sparsi nel territorio ove le aziende agricole erano più grandi. Essi erano in pratica a disposizione della collettività. Potevano cuocere i panetti cio-pe, ricavati da trenta chilogrammi di fior di farina. Solamente le famiglie numerose si adoperavano da sole a farsi il pane necessario per un mese. Le piccole famiglie si associavano e poi si spartivano i costi e il pane. La mia famiglia era numerosa: due genitori, la zia di mia madre e noi cinque figli un po’ cresciutelli. Ricordo bene quei giorni della panificazione che avveniva circa una decina di volte all’anno. E se a me, sempre curioso di osservare, piaceva vedere le varie fasi di lavorazione, c’era anche da mettere in conto la levataccia che dovevo fare perché il rumore della gramola mi svegliava qualche oretta prima del solito.Finché mio padre, mugnaio, non iniziò a comperare il fiore di farina da cambiare col frumento, mia madre setacciava tamisava col tamiso, la farina bianca che conteneva crusca e cruschello semola e semolino. Questo lavoro lo faceva il giorno prima lavo-rando su una madia bassa senza coperchio la mesa, rialzata con due sedie. Il fior di farina ottenuto serviva per il pane, usava invece la semola per gli animali da cortile o per il cavallo che avevamo. Alla sera la mamma prendeva un grosso panetto conservato già

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lievitato dall’infornata precedente el levà, e lo sminuzzava; poi con acqua calda salata faceva entro la mesa un grosso pastone coprendolo con altra farina. Copriva il tutto con una tovaglia ed una coperta di lana e contemporaneamente accendeva il fuoco nel camino per favorire la lievitazione. Il giorno dopo, prima dell’alba, arrivavano non meno di tre donne che, assieme ai miei genitori, amalgamavano tutta la farina usando acqua calda salata. Tutto l’impasto veniva diviso in tanti pastoni per manipolarli al meglio: e qui iniziava il duro lavoro della gramolatura per ottenere degli impasti omogenei e vellutati al tatto. La gramola era tutta di legno. Aveva uno spesso e largo pianale lungo oltre un metro, sotto vi erano quattro robuste gambe, sopra delle leve incernierate che, manovrate a mano, facevano alzare ed abbassare un coltello per poter schiacciare un pastone che, ad ogni alzata, veniva ri-piegato su se stesso. Due persone in piedi muovevano con forza le leve, un’altra seduta sull’as-se rovesciava continuamente il pastone finché sentiva al tatto che l’operazione era completata. Poi passavano ad un altro pastone. Mentre avveniva l’amalgama del secondo pastone. altre persone tagliavano a grosse fette il primo. Ogni fetta veniva rotta facendo tanti grumi di pa-sta. Ognuno di questi veniva a sua volta ancora manipolato più volte, poi venivano fatti i vari formati di pane a seconda del gusto: cornetti, mantovane, pinzette accostate, ecc. Prima che queste operazioni fossero completate, una donna partiva per il forno, che distava un centinaio di passi, e cominciava a far fuoco con le fascine già in sito. Quel forno, simile a tutti gli altri, era formato da una calotta di mattoni del diametro di circa tre metri e mezzo, posta su un ammattonato. Davanti alla calotta c’era un piccolo portico per poter operare anche quando pioveva, e il tutto era coperto da un tetto di coppi. Nel retro vi era la canna fumaria con un registro, sul davanti c’era invece una porticina di ferro costruita a mezza luna, non incernierata e autoportante, completavano gli strumenti formati da spatole per le pulizie e pale di ferro, dal lungo manico, che servivano per infornare o sfornare il pane. Quando il forno era ben caldo l’operatrice andava ad avvisare per il trasporto dei panetti, ciope, che per la bisogna erano posti sopra tavolati, coperti da tovaglie e trasportati da due persone. Prima di tutto veniva pulita la superficie calda del forno, poi con metodo venivano

Schizzo di una gramola per impastare il pane, costruita tutta in legno e manovrata da tre persone: una seduta per girare continuamente il pastone, due per abbassare il coltello.

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depositati dentro i panetti per la cottura: prima nelle zone più lontane poi via via in quelle più vicine. Finito questo lavoro venivano chiusi sia la bocca che la canna fumaria, per mantenere il più possibile il calore entro la calotta; il vapore acqueo che si sviluppava, lentamente veniva espulso dai mattoni per osmosi. Se la farina che si panificava era di trenta chili, il pane fresco che se ne ricavava aveva un peso superiore di circa il venti per cento. Nella tarda mattinata venivano tirati fuori tanti panetti da riempire un cesto di pane fresco; il rimanente, da riempire altri due cesti, rimaneva dentro fino a sera per biscot-tarsi. I cesti, sempre ricoperti da tovaglie, venivano appesi nelle pertiche dei salami. Poche famiglie possedevano gli strumenti necessari per la panificazione, neanche noi li avevamo, così si ricorreva ai prestiti che generalmente erano gratuiti. Quando nelle famiglie si continuava a mangiare per qualche tempo solo pane bi-scotto, di solito allora nasceva in qualcuno il desiderio del pane fresco e tenero: cosí succedeva anche nella mia famiglia. Allora mia madre faceva la focaccia, fatta a disco con pasta confezionata come quella del pane. Nel camino poi preparava un fuoco vivo per riscaldare il focolare rola, costruito in mattoni. Poi lo puliva dalle brace brònze, e dalla cenere calda zénare, per stendervi la focaccia. Subito la ricopriva con un coperchio di lamiera cuercio, stendendovi sopra cenere calda e brace. La focaccia veniva rigata profondamente per cuocerla in modo

Schizzo della sezione verticale di un forno per pane, usato fino al 1940 circa; fabbricato di 7x4 metri.

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uniforme anche all’interno. Il pane cotto in questo modo nel Polesine lo chiamavano genericamente pinza, mentre a Monselice lo chiamano schisòto. Talvolta, per accontentare noi cinque figli, mia madre faceva anche focacce con metodi diversi, ad esempio mescolava farina di granoturco con quella di grano e condiva l’impasto con latte e zucchero o con unto e ciccioli di maiale sìsole. Vi erano anche famiglie che non riuscivano a farsi né ciòpe, né pinze, allora ricorrevano alla bontà dei conoscenti, che sempre rispondevano con generosità. Da quanto vedo oggi in giro, credo di poter dire con franchezza che attualmente c’è troppo egoismo, parecchi pensano solo per se stessi, anche se vi sono fortunatamente persone che si adoperano per gli altri. Al proposito desidero portare un vecchio esempio di vita coerentemente cristiana. A San Bellino le porte delle case non venivano chiuse a chiave quando gli abitanti se ne andavano al lavoro. I poveri, senza bussare, si fermavano sul limitare dell’ uscio e cominciavano a recitare preghiere ad alta voce. Se nessuno rispondeva, quei po-veri se ne andavano, generalmente però qualcuno sentiva, magari dalle case vicine, e provvedeva alla bisogna regalando uova o farina, mai denaro perché di questo in giro ce n’era molto poco.

La polentaIl cibo più diffuso fra i braccianti era la polenta, sia perché la materia prima, il granoturco, costava meno del frumento, sia perché per il suo confezionamento bastavano un po’ di fuoco e una mano che rimestasse l’amalgama di acqua e farina gialla per una mezz’ora dopo che l’acqua bolliva.

I mendicanti.

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A mio padre piaceva la polenta, forse perché da giovane fece una vita molto grama condita solo da tanta polenta, così mia madre la faceva a giorni alterni, giacché una paiolata durava due giorni. D’estate adoperava il camino, d’inverno la cucina economica. Mi divertivo a vedere la mamma quando d’estate confezionava la polenta: d’estate, perché col caldo ero in vacanza, mentre d’inverno ero a scuola e quando ritornavo trovavo tutto pronto. In ogni casa c’era un paiolo di rame paròlo nel Polesine lavezo o caliéro nel Padovano, simile a quelli che oggi ornano le taverne delle case. La mamma riempiva il paiolo d’acqua per tre quarti e lo appendeva con un gancio alla catena del camino. Ad acqua calda e salata cominciava a spandervi manciatelle di farina sempre rimestando con un mestolo di legno mescola, perché non si formassero dei grumi, che alla fine risultavano cotti all’esterno ma pieni di farina all’interno i munàri, non gustosi al palato. Per meglio lavorare doveva tenere fermo il paiolo, così usava un arnese triangolare di legno rivestito di latta verso il fuoco, fissato con un gancio al paiolo e con i piedini poggiati sul focolare el copo. Poneva un ginocchio sul copo così poteva mescolare con meno fatica.

La massaia mescola la farina di granturco (mais) per preparare la polenta. Da notare, sulla tavola, la tafferia sulla quale veniva svuotata la polenta; sulla mensola della cappa ci sono (da sinistra) il macinino da caffé, la bottiglia pigliamosche, moscarola, il lume a petrolio, il coperchio che serviva per cuocere le focacce, mettendovi sopra della brace. Le varie qualità di focacce erano: la pinza (fatta con i resti del pane o della polenta aggiungendovi unto e sisole di maiale o altri ingredienti), lo schìsòto (solo farina di frumento), la smeiàsa (un impasto di farina con la melassa, sottoprodotto della lavorazione delle barbabietole da zucchero).

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Cotta la farina, fluida o densa a seconda dei gusti, veniva versata sulla tafferia, la tavola dea polenta, tavoliere o el panàro. A tutti noi familiari piaceva la polenta un po’ fluida, così attorno alla tafferia veniva fissato un cerchio, sempre di legno, per non far debordare l’impasto. Raffreddandosi però la polenta si induriva, così si poteva tagliarla a fette. Il metodo più comune e semplice era quello di usare un filo di refe incastrandolo sotto la polenta e tirandolo verso l’alto. Allora era comune chiamare il borioso che diceva di saper far tutto: “è l’inventore del filo della polenta”. Purtroppo la polenta è stata anche per lunghi anni, a partire dall’Ottocento fino al fascismo, fonte di una grave malattia, specie da noi nel Veneto. Chi si alimenta-va prevalentemente di polenta, e magari senza sale, veniva colpito dalla pellagra. Essa indeboliva l’organismo creando vari disturbi fisici tra cui lesioni cutanee di tipo eritematoso nelle mani e nel collo. Mi ricordo che nei miei anni giovanili era in voga l’aggettivo pelagroso, appiop-pandolo a tutti gli sfaticati. Nei primi anni 1950 ebbi l’occasione di studiare i bi-lanci dei rinnovati consigli provinciali, in quello di Padova furono previste per due anni delle somme per aiutare i pellagrosi: era un vecchio retaggio dei bilanci dell’anteguerra. La statistica indica che in Italia nel 1881 vi furono 100.000 casi di pellagra specie nel Veneto e nella Lombardia.

Gli orti e i cortiliA completare il quadro dell’autosufficienza alimentare bisogna ricordare gli orti e i cortili. Gli orti davano parecchie verdure e vi si coltivavano anche alberi da frutto, specie le prugne amoli, le mele i pomi dessi e le noci nose; i cortili erano utili per alle-vare gallinacei e conigli. Chi possedeva spazi ampi e aveva nel contempo un surplus di farinacei, come i gestori delle fattorie, allevava dei maiali in porcili lontani dalle abitazioni per i cattivi odori che emanavano.Vi erano poi allevamenti di oche e anatre anare, dove c’erano fossi con l’acqua corrente o lungo il Canal Bianco. La mia famiglia aveva un orto, con un riquadro a giardino e un cortile proprio davanti alla casa. In quei modesti spazi non si potevano allevare oche e anitre perché mancava un corso d’acqua e nemmeno allevare il maiale, perché vicino a noi c’erano varie case. Potevamo però approvvigionarci in abbondanza di verdure, tan-to che dividevamo i prodotti con chi ci dava una mano per i vari lavori dell’orto. Tutto questo fai da te in tutto il paese impediva che vi fossero vari alimentaristi e verdurai.

La fruttivendolaLa fruttivendola era il punto di riferimento di tutti noi giovanissimi. Nel suo negozio vi erano sì tante cassette in visione, ma contenevano solamente quelle frutta che non erano coltivate in paese, come arance, carrube, castagne, datteri e fichi secchi. In bella mostra aveva pure dei contenitori di vetro pieni di biscottini e caramelle ciuci. Per quanto ricordo, il centro dell’ interesse, almeno per me, erano le castagne e

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i derivati, come farina, caldarroste e castagne secche stràcaganàse. La farina di castagna ci offriva tre varianti. Il papazon, cioè il mangiare solo la farina com’era, le papazete, una specie di piadine romagnole, fatte però di farina di castagna e ac-qua che si mangiavano abbrustolite sulla piastra, la mistoca il castagnaccio, farina impasta-ta con acqua e uvetta, cotta in una padella rettangolare scartà, e venduta a piccoli riquadri.Non tutti i ragazzetti ricevevano la paghetta così costoro si industriavano a raccogliere stracci, ossi e ferro vecchio per venderlo allo straccivendolo e avere qualche disponibilità sia pure in via saltuaria. In quei tempi non eravamo smaniosi di avere tutto, come purtroppo succede oggi, ci accontentavamo di avere qualche centesimo di lira. Il denaro era diviso in centesimi: cinque e dieci di rame, venti e cinquanta di nichel.I ricchi ricevevano venti o cinquanta centesimi, gli altri cinque o dieci. I dieci cente-simi li chiamavamo palanche, forse a ricordo dei dieci centesimi ante prima guerra mondiale, che erano pesanti e grandi, sempre di rame.

Il carradoreVicino a casa mia c’era il carradore Pelà che aggiustava carri e calessi, non riusciva però a farne di nuovi perché non aveva l’attrezzatura necessaria. A fianco della casa aveva la sua bottega e davanti un ampio cortile ove d’estate faceva il lavoro faticoso di rimettere i cerchioni di ferro alle ruote che aggiustava. Nella sua bottega riassettava

La fruttivendola che aveva sempre in mostra i suoi modesti prodotti, però sempre richiesti dai bambini.

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tutto quello che gli portavano di rotto o mancante dei carriaggi, prevalentemente le ruote. I lavori più facili erano quelli di rifare raggi e gavelli, questi ultimi sono i pic-coli archi che formano la circonferenza delle ruote le cuerte. Il legno usato doveva essere duro e fibroso, generalmente rubino perché più resistente. Per costruire i raggi ragi o rai, il carradore usava un coltello a due manici; per i gavelli cuerte, invece prima ricopiava la curvatura del vecchio pezzo, poi sbozzava il legno con un’ascia ricurva dal manico corto; finiva con la raspa. Per rifare i mozzi mozi, il carradore Pelà usava un tornio a pedale. Era una macchina molto vecchia e funzionava con una corda. Dato che quel sistema è ormai fuori uso da molti anni, penso sia utile descrivere quanto ricordo. Il tornio aveva il banco e il mandrino di ferro, costruito da officine specializzate, tutto il restante era costruito artigianalmente. Il mandrino, che è quel meccanismo che tiene stretto l’oggetto da tornire, era accoppiato a un grosso tambu-ro di legno che, assieme ad una corda, era l’organo rotante. Da fermo il tornio presentava la seguente situazione. Un capo della corda era fissato all’estremità più sottile di una pertica, inchiodata saldamente nella parte più grossa,

I carretti erano costruiti tutti con legno, eccettuato l’asse, i cerchioni e i vari ganci che erano di ferro. Ve ne erano di varie dimensioni e portata. Erano tirati da equini forniti di finimenti di cuoio (briglie con morso e paraocchi, collare ove venivano fissati i tiranti, sella fissata dalla braca dal sottocoda e dal sotto pancia).

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Carro agricolo pesante col timone e il giogo per i due bovini che dovevano tirarlo. Il giogo veniva posto nell’incavo della nuca degli animali e veniva fissato poi dal sottogola, che sono i pendagli del giogo (uno è aperto l’altro è chiuso). Il giogo era attaccato al timone per mezzo di un lungo cavicchio.

Schizzo di come era il tornio. Il banco, il mandrino e le slitte erano di acciaio; il tamburo, il pedale e la pertica che serviva da molla di ritorno, erano di legno.

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alle travi di un solaio superiore. La corda scendendo faceva alcune spirali attorno al tamburo, mentre l’altro capo era fissato a una stecca che fungeva da pedale, incernie-rata nel pavimento da una parte e dall’altra alta circa sessanta centimetri. Il tornio da fermo o lavorando aveva sempre la corda tesa. Per far girare il tamburo e quindi il mandrino e il pezzo di legno, il carradore abbassava col piede il pedale costringendo la corda a srotolarsi nella parte bassa e chiamando la parte alta ad avvolgersi co-stringendo la pertica ad abbassarsi nella parte non fissata coi chiodi. Subito il pedale veniva lasciato libero, la pertica faceva da molla di richiamo e il tutto ritornava alla situazione iniziale. A questo punto il carradore continuava a pedalare mentre con le mani usava scalpelli e sgorbie scarpei e sgube, per ottenere quanto gli era necessario. Costruito il mozzo lo completava con due cerchi di contenimento, uno di qua e uno di là, poi fissava la boccola per l’assale. I cerchietti venivano posti in opera a caldo, la boccola, entro la quale girava l’asse, do-veva entrare nel foro centrale del mozzo ed essere fissata a freddo col martello perché tronco conica. Per i piccoli lavori di ferro forgiato, il carradore ricorreva al fabbro che abitava dall’altra parte della mia casa. C’erano poi gli incassi per i raggi che venivano fatti con scalpelli, usando molta attenzione. Un lavoro che richiedeva esperienza era il controllo del rapporto tra la struttura li-gnea della ruota e il cerchione caldo che doveva rinserrare i gavelli cuerte, delle ruote. Nel caso vi fossero stati cerchioni usurati o laschi, il carradore adoperava la calandra con la quale poteva sistemare i cerchioni a freddo. Per i lavori a caldo, rimpiccioli-menti o allargamenti sensibili, usava delle piastrine di grafite che interponeva fra i due pezzi da congiungere. Alla fine disponeva in modo progressivo ed accurato le ruote e i cerchioni, onde non fare confusione nella loro posa in opera. I cerchioni venivano accatastati mettendo quelli grandi sotto e poi via via in modo piramidale, quelli più piccoli, usando dei mattoni perché il fuoco non scomponesse l’ordine. In tutti questi lavori il carradore era aiutato da due figli che erano scapoli, anche se ormai uomini maturi, che facevano i lavori più faticosi e quelli preparatorii. Prima di accendere il fuoco accatastavano fascine, riempivano d’acqua alcune grandi tinozze, disponevano ordinatamente tutti gli strumenti da lavoro: cavalletti, tenaglio-ni, attizzatoi, zappe con manici lunghi, mazze e martelli. Di buon mattino accendevano il fuoco e, quando i cerchi superiori erano rossi co-minciavano il lavoro di incerchiare di forza le ruote di legno perché i gavelli non potessero più muoversi. Ho visto quel lavoro parecchie volte e ricordo bene come fosse un’opera di grande fatica. Quei tre uomini erano sempre grondanti sudore e bevevano continuamente acqua e vinello graspìa, poi di tanto in tanto mangiavano pan biscotto e salame.Prelevavano il cerchione caldo con tenaglie dai lunghi manici e lo ponevano sopra la ruota di legno che era stesa su robusti cavalletti. Uno batteva con una pesante mazza e un altro fermava il contraccolpo con un’altra mazza di ferro, il terzo usava invece

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una tenaglia costruita artigianalmente. Questa aveva un grosso gancio e un lungo e robusto braccio di legno che usava come leva per la manovra la cagna. Il manico ve-niva posto sotto i gavelli delle ruote e il gancio arpionava il cerchione caldo. L’operaio premendo con forza sul manico della cagna faceva entrare nella giusta sede il cer-chione. In tale fase di lavoro si bruciacchiava la circonferenza della ruota, per questo subito essa veniva fatta girare nell’acqua per il raffreddamento. Così il lavoro per ogni ruota. I lavoratori dovevano stare attenti che i cerchioni fossero sempre rossi per il calore, ma che non si deformassero. Lavoravano continuamente fino a che tutto non fosse finito, compresa la pulizia. All’indomani mattina riposavano per riprendersi da quelle faticacce di lavorare ac-canto al fuoco senza alcuna specifica forma di sicurezza.

Il maniscalcoQualche anno dopo il nostro arrivo a San Bellino si installò, vicino al carradore, un maniscalco che aveva come aiutante suo fratello più giovane. Provenivano da un pa-ese vicino e giornalmente facevano in bici la spola casa-bottega. Ricordo quel maniscalco di nome Carlo perché poi morì in guerra. Prima di costoro per ferrare gli equini i sanbellinesi dovevano andare fuori paese.Vidi innumerevoli volte come eseguivano il loro lavoro. Nei tempi morti costruivano ferri da cavallo di tutte le qualità e grandezze. Avevano una fucina con una vento-la manuale e spesso io ne facevo il manovratore. Mettevano sul fuoco del carbone coke delle strisce di ferro. Mi fu detto che erano ritagli delle lamiere adoperate nella

Il maniscalco inchioda il ferro sagomato di difesa dello zoccolo del cavallo. L’aiutante invece ravviva il fuoco della fucina.

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costruzione di navi. Carlo tagliava a caldo sull’incudine pezzi di lunghezza adatta, immergendoli subito dopo ancora nel fuoco. Dopo una grossa scaldata il ferro ve-niva forgiato. Carlo con un martello pesante nella mano destra e nella sinistra una tenaglia per manovrare il pezzo, il fratello con una grossa mazza, che batteva a due mani. Con una decina di din-dan ottenevano un ferro da cavallo. Poi procedevano con un’altra scaldata per la rifinitura dei fori necessari per l’inchiodatura. Spesso i committenti chiedevano ferri di loro gusto, come la cresta triangolare sul davanti o arpioni pronunciati sul retro: queste correzioni venivano fatte lì per lì. La ferratura aveva i suoi riti: il fratello ammansiva il cavallo accarezzandogli le gam-be, poi ne sollevava per prima una davanti, Carlo provvedeva a fare l’operazione di ferratura. Dapprima sistemava la zoccolatura con una sgorbia a lama larga. Questa operazione era delicata sia perché doveva essere fatta senza che il cavallo avvertisse dolore, sia perché si doveva lasciare un poco di unghia morta per poter infilarvi i chiodi di tenuta. I chiodi avevano la testa tronco piramidale a base quadrata, mentre l’asticciola era piatta. Venivano fissati in modo che la punta finisse all’esterno dello zoccolo dove c’era ancora l’unghia morta. Per il bloccaggio veniva fatta una piccola piegatura di ritegno dell’asticciola piatta, mentre la parte eccedente veniva tagliata. I ferri dei bovini erano diversi, erano formati da due piastrine sagomate come le unghie biforcute degli animali. Verso l’interno le piastrine avevano delle appendici forate che servivano per il fissaggio con piccoli chiodi particolari. Quei maniscalchi avevano costruito nel loro cortiletto con travi di legno un robusto steccato ad angolo acuto, simile a quello della monta dei tori. Se il cavallo si imbiz-zarriva lo costringevano nell’angolo formato dalle travi, ove veniva imbrigliato per evitare che si muovesse o scalciasse. Lentamente poi, sempre accarezzandolo, ferravano gli zoccoli uno alla volta. Il lavoro di maniscalco fu ben accetto dai sanbellinesi perché era necessario per gli equini ed in estate anche per i bovini.

Il fabbroLa sua modesta officina era la cucina ove la sua famiglia cuoceva i cibi e anche dove mangiavano. Le poche suppellettili casalinghe erano completate da una forgia e da una incudine posta su un ceppo di legno. Stando a casa mia sentivo i colpi di martel-lo. Di solito il fabbro dava un colpo sul ferro da modellare e uno sull’incudine perché in questo breve intervallo riusciva con la tenaglia, manovrata dall’altra mano, a girare il pezzo che doveva forgiare Erano grosse punte per le erpici pesanti o anelli e ganci per i carradori. Quando invece doveva riaffilare a caldo i vomeri e i coltri degli aratri, batteva continuamente con la parte schiacciata di un martello pesante, era questo un lavoro molto faticoso perché, oltre a battere in continuazione, doveva tenere al giusto posto sull’incudine dei pezzi pesanti. Lavorava tutto il giorno, ma a me pareva che guadagnasse poco perché faceva una vita grama, nonostante la moglie lavorasse ad

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ore nelle famiglie vicine; da noi veniva come aiutante per fare il pane. Due fabbri in quel paese non avrebbero potuto vivere.

Un artigiano particolareIn paese c’era una persona sui trentacinque anni, che mi pare si chiamasse Pelà, che si era inventato mestieri nuovi. Era un tipo sbruffone che però aveva capacità non comuni di sapersi arrangiare. Da giovanetto aveva fatto il carradore, da adulto re-cuperava vecchie auto obsolete, ne trasformava la carrozzeria, sistemava il motore e poi le vendeva. Ha iniziato con le automobili, residuati della prima guerra mondiale. Queste macchine avevano lo chassis portante, così, alla francese, veniva allora chia-mato il telaio. Egli tagliava la parte retrostante della carrozzeria e nello spazio libero costruiva un cassone di legno, ottenendo un furgoncino per il trasporto. Per quanto riguardava il motore, spesso ricorreva all’espediente di ottenerne uno fun-zionante assemblando pezzi di vecchi motori uguali; per questo la sua officina era un groviglio di legni e pezzi di motore. Installò anche in quei furgoncini degli sgranatoi di pannocchie che funzionavano con cinghie di trasmissione mosse da una puleggia

Il fabbro batte il ferro caldo sull’incudine posta in cucina, mentre il gas sprigionato dal carbone koke viene incanalato verso l’esterno dalla cappa del camino. Da notare il recipiente dell’acqua a fianco dell’incudine: l’acqua serviva per temperare gli scalpelli, i coltelli e i vomeri, che così diventavano acciaiosi.

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unita al motore. Ve ne era qualcuno anche in paese. Ho visto che d’inverno toglieva-no lo sgranatoio e la puleggia e che usavano il furgoncino per piccoli trasporti. Quel tale riuscì anche a sistemare e far funzionare due trattori Titan, vecchie macchine americane. Una la usò nella grande fattoria di mille pertiche per la trebbiatura. Grande rumore di chiacchiere vi fu in paese quando lo si vide girare con una piccola auto scoperta. Disse che si chiamava Temperino e che l’aveva trovata a pezzi da uno che raccoglieva ferro vecchio. Il motore era scoppiettante, ma durò poco, così tutto cadde nel dimenticatoio. Nel 1936, quando partii da San Bellino, in paese era già arrivato dall’autunno prece-dente il primo trattore nuovo, un Landini a testa calda: così iniziò la meccanizzazione agricola a San Bellino. Non ho mai saputo cosa poi si sia messo a fare quel tipo di artigiano, dopo che i ge-stori agricoli avevano capito l’importanza di usare i nuovi macchinari che avevano cominciato a fabbricare anche in Italia.

Il meccanico di biciclette Dopo qualche tempo che abitavo a San Bellino, arriva in paese la nuova levatrice comunale che andò ad abitare assieme al marito in una casa vicina al mulino di mio padre: erano una giovane coppia senza figli. L’uomo si chiamava Antonio, per noi paesani Toni. Egli si mise a fare il meccanico di biciclette – el giusta biciclete - per-ché non poteva più svolgere il suo primo mestiere di autista di camion, sia perché in

Tipo di automobile usato nella prima guerra mondiale del 1915-18, ancora in circolazione negli anni Venti/Trenta. L’artigiano la trasformava in camioncino, sostituendo i sedili retrostanti con un pianale o un cassone.

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paese non ce n’era bisogno, ma soprattutto perché aveva perduto una gamba in un incidente. Il moncherino rimastogli l’aveva allungato con una protesi rigida di legno. D’estate, quando ero in vacanza, andavo giornalmente nel mulino di mio padre, così passavo davanti alla bottega di Toni. Presi l’abitudine di fermarmi, prima per curio-sare come si sviluppava il lavoro, poi per aiutare Toni e non vederlo zoppicare fatico-samente facendo dondolare il suo corpo, infine per imparare, dato che la bici era il mio unico mezzo di trasporto. L’officina era la stanza d’entrata della casa, là Toni aveva approntato una modesta at-trezzatura per aggiustare le biciclette e anche per saldare con lo stagno e l’acetilene.

Toni appendeva le biciclette poi provvedeva alle riparazioni. Da notare che nell’angolo c’è l’apparecchiatura per produrre l’acetilene, necessario per le saldature. In fianco, la bombola di ossigeno per la saldatura ossiacetilenica.

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Settantacinque anni fa le strade erano solamente inghiaiate, piene di buche e schegge aguzze, perciò le numerose biciclette in circolazione avevano spesso bisogno di ripa-razioni alle ruote e ai freni. In aggiunta poi erano le bici pressoché l’unico mezzo di trasporto anche per i pesi, come sacchi di cereali o fasci di legna da ardere, per cui spesso si spaccavano telai e manubri. Il guaio più comune, però, erano le forature, per le quali tutti sapevano provvedere. Anch’io da bambino avevo imparato come fare. Una volta tutte le biciclette erano ac-cessoriate per riparare in modo autonomo le forature. C’era una pompa incernierata al tubo che supportava la sella, nel retro di questa era appesa una borsetta contenente due piccole leve, sagomate opportunamente alle estremità, una piccola chiave multi-pla, un tubetto di mastice, alcuni pezzetti di pneumatico e della carta vetrata. Per riparare le forature si rovesciava le biciclette con le ruote in alto, poi con le due levette

Toni aggiusta un tegame usando una barretta di stagno fatta colare goccia a goccia con il martello di rame riscaldato dalla lampada a petrolio illuminante (usato anche per illuminare gli ambienti).

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si toglieva il copertone coperton da una parte della sede e si liberava lo pneumatico la camaradaria. Per trovare il buco o i buchi si usava un semplice metodo. Si gonfiava lo pneumatico e, passo passo, lo si stendeva entro l’acqua di un catino: dove c’era il foro uscivano bollicine. Poi si pulivano bene la zona dove c’era il foro e anche il rappezzo, usando la carta vetrata, si spalmava il mastice e si applicava la pezza peza sul buco.Anche Toni faceva spesso questo lavoro, specie per le donne e i bambini. Aveva sempre pronte una bacinella d’acqua e una pompa a piedistallo che produceva rapidamente tanta aria. Per qualsiasi lavoro sulle biciclette, Toni le appendeva a due catenelle predi-sposte con ganci e ancorate alle travi del solaio, per poter lavorare in piedi. I lavori che faceva erano di varia natura, sia perché una volta i ricambi costavano di più che la sistemazione dell’usato, sia perché i componenti delle biciclette erano di fattura semplice: per esempio non vi erano moltipliche, cambi e deragliatori come oggidì. Fra le varie lavorazioni mi piacevano di più il cambio delle sfere dei mozzi delle ruote e il consolidamento delle pedivelle alla ruota dentata di trazione, forse perché la mia bici cigolava e perdeva qualche colpo di pedale. Successe che qualche volta ho fatto anch’io quei lavori cooperando con Toni: lui da una parte, io dall’altra. Per cambiare le sfere si staccava la ruota perché così era più facile effettuare il cambio delle sfere: venivano aperti i due cuscinetti a sfere, si eliminavano le sfere fuori uso, si riempiva il supporto di grasso minerale, si posizionavano le nuove sfere e alla fine, chiusi i cuscinetti, la ruota veniva rimessa al suo posto. Per solidarizzare poi le pedivelle all’asse dove era fissata la ruota dentata, si usavano delle spine cilindriche che avevano una rastremazione e una piccola faccia piana verticale, compreso anche una testa e un dado di tenuta con ron-della. La spina veniva posta nel foro della pedivella, là dove il perno aveva una tacca. Talvolta la spina doveva essere adattata con la lima per delle deformazioni dovute a riparazioni precedenti; alla fine si batteva la spina col martello e si serrava forte il dado.Il cambio dei raggi delle ruote, invece, Toni lo faceva da solo perché la loro positura era complicata e per di più bisognava centrare perfettamente il mozzo. Le biciclette talvolta avevano bisogno di saldature al telaio, al manubrio e alle forcelle. Toni prima puliva dalla ruggine o dalla vernice i pezzi da saldare, poi studiava come infilare dei tubetti di sostegno nelle cavità, infine preparava l’acetilene. In un angolo della stanza c’era un’apparecchiatura, verniciata in grigio azzurrognolo, che aveva l’ingombro come di una persona robusta: era il meccanismo che prouceva il gas acetilene. Era formato da due pezzi: una vasca con acqua e un cilindro verticale galleggiante. L’acqua permetteva al cilindro di salire e scendere, facendo da tappo per non disperdere il gas che veniva prodotto in quantità variabile. Dentro al cilindro vi erano una graticola, dove veniva-no poste zolle di carburo di calce a seconda del bisogno, direttamente sopra vi era un contenitore d’acqua fornito di dosatore che era comandato da una rotellina esterna al cilindro. Completavano l’attrezzatura una bombola di ossigeno, simile a quelle ancora in uso, due tubi di gomma lunghi, sottili e flessibili collegati alla fine con un cannello ossidrico (un tubo serviva per convogliare l’acetilene, l’altro l’ossigeno).

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I due gas mescolati davano una fiamma vivida e concentrata che riusciva a fondere i metalli. Per le saldature Toni usava verghette di ferro che, surriscaldate, lasciavano co-lare delle gocce di metallo sulle zone già arrossate attorno alle rotture.Una volta l’acetilene veniva usato anche per l’illuminazione, come i fanali delle bici-clette. Anch’io per sei anni ho usato quel sistema per andare a scuola perché dava una fiammella molto brillante e continua. Avevo un piccolo cilindro appeso verticalmente al telaio e il fanale col beccuccio appeso su un supporto a sette fissato sul manubrio. Il cilindro era diviso in due parti avvitate fra loro. Nella parte superiore c’era l’acqua che cadeva a gocce nella parte inferiore dove c’era il carburo: l’acetilene che si sviluppava veniva convogliato con un tubicino di gomma al fanale. In aggiunta Toni arrotondava i suoi introiti facendo anche lo stagnino per le stoviglierie di rame, allora molto in uso. Aveva un martello di rame il saldatore, con un lungo manico, poi una piccola bombola di ottone lampada, che conteneva il petrolio illuminante, fornita di una maniglia di ma-novra, una pompetta per comprimere il petrolio e un beccuccio schermato per formare una lunga e concentrata fiamma. Toni prima puliva l’oggetto da stagnare con batuffoli impregnati di acido solforico molto diluito, poi riscaldava il martello di rame col qualefondeva le stecche di stagno che servivano per le saldature, e anche per i rivestimenti interni dei recipienti di rame usati in cucina. Quest’ultimo era un lavoro lungo, ove occorreva attenzione e pazienza, perché quella stagnatura era necessario che fosse com-pletata con cura onde evitare ossidazioni interne del rame delle casseruole, pericolose per la salute.Questa mia frequentazione nella bottega di Toni mi ha dato durevoli frutti perché da giovane ho poi sempre provveduto alla mia bici, che mi fu utilissima fino a che non fui chiamato a fare il soldato.

Gli ambulantiGli abitanti di San Bellino potevano soddisfare tante loro piccole necessità aspettan-do l’arrivo in paese degli ambulanti. Ce n’erano di vari tipi che giravano per la pianura portando con sé poche cose e che, per risparmiare, dormivano nelle stalle e mangia-vano quello che qua e là ricevevano in cambio. Ricorderò quelli più caratteristici:a) Lo straccivendolo. Aveva un piccolo carretto tirato da un asino, era il beniamino dei ragazzetti perché comperava quello che essi riuscivano a raccogliere: stracci, ossi e ferro vecchio. Attirava l’attenzione col tintinnio argentino di un campanello. Era allora un accorrere festoso di ragazzetti che in quell’occasione potevano ricevere dei soldini da spendere dalla fruttivendola.b) L’aggiustapiatti. Oggi fa sorridere che settant’anni fa si aggiustassero i piatti di ce-ramica, rotti a metà, con del filo di ferro. Soldi non ce n’erano, ma neanche un nego-zio di stoviglie, per di più a San Bellino non c’erano mercati di nessun tipo. Di piatti aggiustati col filo di ferro ne ho visto parecchi frequentando le famiglie dei miei coe-tanei, per di più ricordo di aver visto un aggiustapiatti al lavoro. Era un girovago che

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si portava appresso tutti i suoi tesori in un sacchetto. Lo guardai ben bene mentre lavorava. L’opera più lunga fu quella di forare le due parti rotte dei piatti nei luoghi combacianti. Ha usato un piccolo trapano formato da pochi pezzi che furono assemblati al mo-mento dell’uso. L’aggiustapiatti preparò con cura il trapano, fece qualche prova poi iniziò il lavoro. I componenti di quell’aggeggio erano oggetti semplici e comuni, qua-si tutti di legno. Si riducevano a una bacchetta di circa 40 centimetri, una tavoletta con tre fori due laterali e uno centrale, lunga anch’essa circa 40 centimetri, uno spago, quello che usavano i calzolai per cucire le suole, lungo 80 centimetri e un chiodo con la punta schiacciata e temperata. Le parti del legno erano ben levigate e leggere per manovrarle in modo rapido. Nel foro centrale della tavoletta, che era usata oriz-zontalmente, passava verticalmente la bacchetta, che aveva legata in basso la punta perforante.La rotazione veniva prodotta dallo spago che era fissato da parte a parte nei due fori laterali della tavoletta, passando per la tacca fatta in cima alla bacchetta. Alla parten-za, la tavoletta era posizionata in basso, in modo da formare un triangolo con base la tavoletta stessa e con i due lati uguali ottenuti dallo spago. Il girovago iniziò il lavoro avvolgendo a spirale lo spago sulla bacchetta per cui la tavoletta venne tirata in alto, poi con uno strattone abbassò la tavoletta, lo spago si srotolò e la bacchetta girò. A questo punto l’operatore lasciò libera la tavoletta che, per il contraccolpo, si alzò e lo spago continuò a riavvolgersi facendo girare continu-ativamente la bacchetta. Così di seguito fino a che la punta forò la porcellana.Finito questo lavoro di foratura tirò fuori un mastice verdastro, di sua invenzione mi disse, che spalmò sugli spessori dei pezzi di piatto. Completò il lavoro facendo pas-sare per i fori combacianti un sottile filo di ferro di cui avvolse le estremità unite con una pinza; così continuò per le varie coppie di fori. Poi tagliò il ferro in eccedenza e pulì il piatto nel diritto e nel rovescio dagli esuberi di mastice. Il piatto era pronto per ricevere anche cibi caldi.c) La misurazione di teleria. Di tanto in tanto passava un merciaio che sul suo carretto aveva anche rotoli di teleria da letto. Gridava: “done, bonbasina tre brazi un franco”. Il suo grido significava che per una lira vendeva una tela economica di cotone, misura-ta con tre bracciate, pari alla quantità che serviva per fare un lenzuolo. Una volta era d’uso chiamare franchi le lire, un ricordo della Francia napoleonica. La bracciata era una misura convenzionale che aveva come riferimento la lunghezza di un braccio aumentata dalla larghezza del torace. In pratica il venditore prendeva con la destra il capo della tela e la stendeva fino al pugno sinistro posto sul lato esterno del costato, così per tre volte. La frase “tre brazi un franco” era diventata un motto per significare persona o cosa di poca valore.d) La misurazione di pesi. In paese un giovane si inventò il mestiere di raccogliere i cereali riportandoli al conferente già macinati. Mio padre gli fornì un carretto con

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cavallo, perché potesse fare i giri nelle case sparse nella pianura e lontane da mulini; gli fornì pure una stadera per le pesature. Dopo vari mesi mi accorsi che quel giovane faceva una propria elencazione per i conferenti e per le pesature dei sacchi, diversa da quella fatta da mio padre e, nel contempo, mi chiesi come poteva guadagnare con una quantità modesta di clienti; fu così che chiesi e ottenni di accompagnarlo una volta durante uno dei suoi giri giornalieri.Capii come faceva saltar fuori un guadagno extra. Si mostrava ovunque servizievole ed andava lui stesso in granaio a prendere le biade. Nello scendere le scale dava scos-soni al sacco perché i grani si impacchettassero ben bene, poi misurava in altezza il sacco riempito appoggiandolo a una parete, facendo un segno ben visibile col carbo-ne vegetale. Al ritorno portava il sacco di farina che arrivava sì all’altezza del segno precedente, ma furbescamente ci metteva sotto un piede per rialzarlo, così riusciva a prelevare della farina prima della consegna che poi vendeva per proprio conto. Quel gioco gli fu fatale perché qualcuno se ne accorse: vi fu un passa parola, così dovette smettere.e) Le canolare. Di tanto in tanto nel periodo estivo passavano delle donne, che pro-venivano dalle montagne del Friuli e vendevano piccoli lavori in legno per la cucina e spine delle botti e dei tini le canole, da cui è derivato il nome canolare di chi faceva quel commercio, anche se vendeva tante altre cose. Portavano tutte quasi una divisa: gonne lunghe, fazzoletto in testa, pantofole di pezza che avevano la punta rivolta in alto, una cassetta a zaino con tanti cassettini. Ogni canolara aveva oggetti di legno ma anche in acciaio, come forbici e coltelli generalmente fabbricati a Maniago, paese del Friuli, allora luogo assai noto ove producevano coltelleria di qualità. Vendevano anche delle piccole illustrazioni oleografiche di Santi e copie di stampe famose. Gli oggetti di legno venivano costruiti, durante i lunghi inverni nevosi, dagli uomini li-beri dai lavori di fienagione o di accompagnamento del bestiame su e giù per i pascoli montani.f) L’arrotino. Una volta l’anno, nella bella stagione, passava anche a San Bellino un arrotino moléta. Metteva la sua strumentazione in bella mostra nel centro del paese, poi a piedi avvisava alcune famiglie che a loro volta facevano il passa parola. La sua attrezzatura consisteva in una cassa stretta avente un’altezza adatta per usare una faccia come piano di lavoro. La cassa sul retro aveva uno sportello, due piccoli piedi che servivano per fissare la cassa nelle soste e due manici rientranti che usava duran-te i tragitti da un paese all’altro. Davanti c’erano due piccole ruote per il trasporto. Nel fianco la cassa aveva una grande ruota a mezz’aria collegata con una biella a un pedale di manovra. A sua volta questa ruota, a mezzo di un cingolo, era collegata a una piccola puleggia solidale con la mola, che aveva i supporti sopra la cassa. Per bagnare la mola c’era una latta piena d’acqua che scendeva goccia a goccia: senza l’acqua la mola non affilava. Sotto la mola c’era un raccoglitore dell’acqua che usciva verso l’esterno attraverso un tubicino. Dentro la cassa, oltre ai suoi pochi strumenti, il

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moleta custodiva anche oggetti utili per la sua vita randagia. Per iniziare il lavoro ba-stava che l’operatore facesse fare alla ruota grande alcuni giri e contemporaneamente il pedale andava in su e in giù. Così pigiando il pedale col piede, la mola girava piano o forte secondo il bisogno dell’arrotino. Le donne facevano affilare coltelli da cucina e forbici, gli uomini accette manàre, per spaccare gli alberi, coltellacci cortélasi, roncole cortéline, queste ultime servivano per tagliare pali e potare le piante.

L’arrotino ambulante. Aveva una cassa attrezzata per il trasporto a mano. Sopra la cassa c’eranouna gamella con l’acqua e la mola che girava con un pedale. Le donne portavano ad affilare forbici e coltelli da cucina, gli uomini le cesoie, i bambini erano dei curiosi.

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I giochi dei bambini e dei ragazzetti

Ottant’anni fa noi fanciulli e ragazzetti non avevamo certo tutti i giocattoli e le macchinette di oggi, particolarmente noi che vivevamo nei piccoli centri agricoli. Giocavamo con tutto quello che ci capitava di trovare: i bottoni (basàne, i grandi bottoni da paltò che valevano tre o quattro bottoni piccoli, a seconda se erano di osso o quelli di metallo da calzoni), i semi della carrube, caròbe, figurine che si trovavano nelle caramelle, cartoline... e qualsiasi altro oggetto che attirasse la nostra attenzione. Con queste piccole cose si giocava a palma, cioè si nascondevano in un pugno della mano e l’avversario doveva indovinare in quale pugno erano.A seconda del sesso, i nostri giocattoli, zogàtoli, personali erano spesso dei carrettini di legno o di cartone realizzati dai padri, o bambolette, pùe, fatte dalle madri con legno e stracci.Solo alle elementari ho imparato a giocare con i compagni. Prima, ricordo che mi divertivo a ritagliare dei pupazzetti, che poi incollavo a formare delle catene, usando una colla fatta con farina di frumento ed acqua.Negli anni Venti del Novecento, dopo la prima guerra mondiale, a Costa di Rovigo, si giocava ai soldati. Si usavano pezzi di divise e altri ricordi che i nostri padri avevano riportato dal servizio militare, ed era tutto un nascondersi e correre, con agguati, assalti e ritirate. C’era anche il gioco degli schiavi: ci si divideva in due squadre e ciascuna segnava per terra una linea di sicurezza, che chiamavamo trincea. Le due linee erano a quaranta o cinquanta passi l’una dall’altra. Si doveva uscire dalla propria trincea per andare a occupare quella avversaria: ne nascevano grandi corse e rincorse durante le quali, se uno era toccato dall’avversario era dichiarato schiavo e doveva appostarsi sulla trincea “nemica”. Si vinceva quando tutti i nemici era diventati schiavi, oppure quando il capo della squadra avversaria veniva toccato.C’era poi il gioco della cavalletta. I componenti di una squadra, estratti a sorte, formavano il “cavallo”, disponendosi inchinati uno in fila all’altro; gli altri saltavano uno ad uno in groppa ma, se qualcuno sbagliava, tutta la sua squadra doveva fare da cavallo.D’inverno si andava a scivolare, slisegàre, sui fossi ghiacciati con gli zoccoli di legno chiodati, sgàlmare.Nella prima metà degli anni Trenta, a San Bellino, cominciai a giocare a pallone. Il campo sportivo era un’aia o un campo di stoppie e la palla era di pezza. Nessuno conosceva esattamente le regole del gioco, così tutto si riduceva ad un gran correre per calciare la palla entro la porta avversaria, segnata da due bussolotti o da due pietre. Ricordo in particolare una partita di cui sono stato spettatore, perché dimostra quanto, in quegli anni, fosse basso il livello sociale nei paesetti del Polesine. Era la fine del giugno 1934. Dei giovanotti di San Bellino sfidarono a pallone quelli di un paese vicino. In quella partita, di regolamentare c’era solo il pallone di cuoio, tutto il resto era opzionale.

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Le divise erano una variopinta esibizione di mutandoni, magliette, camicie e scarpe. Giocarono in un grande campo di stoppie; nessuno conosceva tutte le regole, neppure chi faceva da arbitro. Tutti gridavano, tutti correvano, ma non fu segnato alcun gol. Il giocatore che più gridava e dava consigli agli altri era un tipo aitante di San Bellino che conoscevo, avendolo visto tante volte al lavoro nella grande azienda agricola. Si distingueva dagli altri perché la sua divisa era un costume da bagno nero da donna, completo di pettorina! La partita divenne una farsa e tutti ridevano per il gran gesticolare di molti giocatori, che, al termine della gara, erano fradici di sudore e con gli stinchi graffiati a sangue dalle stoppie.

I disegni di BrunoL’amico coetaneo Bruno Mardegan ha disegnato su mia richiesta una decina di fogli che illustrano i giochi che noi ragazzetti facevamo una volta. Sono l’occasione per presentare giochi ormai quasi tutti dimenticati e richiamarne altri simili.

I cerchiSi correva per le strade facendo rotolare un cerchio di ferro con l’aiuto di un bastone. Il cerchio era ricavato dalle ruote delle biciclette o dall’anello superiore dei paioli di rame, allora di facile reperimento, perché la bici era il più diffuso e comune mezzo di locomozione ed il paiolo, che serviva a cuocere la polenta, era il recipiente più usato in cucina. Il bastone era un pezzo di legno qualunque, quando si usavano i cerchioni delle bici, mentre, per il cerchio ricavato dai paioli, il bastone era munito di un uncino di ferro ad U, per incastrarci il cerchio.

Il gioco dei cerchi.

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La trottola, pisòn nel Polesine, mòscolo nel PadovanoIl gioco aveva diverse varianti. A una trottola di legno piuttosto grossa veniva attorcigliato stretto uno spago, quindi, con un colpo a strappo e trattenendo il capo libero dello spago, si scagliava il tutto a terra: disfacendosi velocemente le spire dell’avvolgimento, per reazione la trottola girava velocemente.Un altro sistema per far ruotare la trottola era quello di colpirla con la frusta, scùria, che usavano i carrettieri.Le trottole più piccole, pisorìn, avevano incastrato sulla faccia superiore una sorta di picciolo, che serviva da manico per farla girare con le dita. Va da sé che vinceva chi riusciva a mantenere in piedi la trottola per più tempo.

La cordaUna corda veniva fatta girare da due giocatori e uno doveva saltarla il più a lungo possibile senza intralciarne la regolare rotazione. Questo gioco, preferito dalle bambine, aveva delle varianti: due saltatori assieme, un saltatore con due corde che giravano all’ incontrario, saltare su un solo piede.C’era poi il tiro alla fune, un classico per dimostrare la propria forza.Riguardo ai salti, c’erano diversi giochi: il salto dei fossi, i salti con i piedi chiusi in un sacco, i salti sulle strade inghiaiate a piedi scalzi, coi piedi uniti o con un solo piede. Nelle gare si tracciavano a terra un segno di partenza e uno di arrivo e vinceva chi saltellando percorreva la distanza nel minor tempo.

Il gioco della trottola, pisòn nel Polesine.

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Le scaglieUn premio (costituito da figurine, palline colorate, bottoni o 5-10 centesimi) veniva posto sopra o ai piedi di un bussolotto o di una pietra. Lontano 10-12 passi si tracciava una linea da cui venivano lanciati dai giocatori delle scaglie di pietra o pezzi di mattoni o delle palanche (i grandi 10 centesimi anteriori alla prima guerra mondiale). Vinceva chi centrava il bersaglio, facendo cadere il bussolotto o la pietra.Con sassi e scaglie si facevano delle gare anche lanciandoli sul pelo dell’acqua dei grandi fossi: la pietra rimbalzava sull’acqua e vinceva chi le faceva fare più salti.Un gioco consisteva nel lanciare il più lontani possibile i sassi che si usavano per migliorare le strade: i lanci si facevano nei campi, perché gli adulti ci sgridavano se li lanciavamo per le strade.

La lippaLa lippa, bindèche o pindèche, era un gioco destinato ai più grandicelli, sia perché richiedeva forza sia perché l’oggetto lanciato poteva colpire qualcuno e, per precauzione, i bambini più piccoli venivano allontanati dal campo di gioco. Consisteva nel battere con un bastone un cilindretto di legno appuntito alle due estremità e, quando questo si sollevava da terra, lanciarlo con lo stesso bastone il più lontano possibile.

Il circuitoSi tracciava per terra un percorso tortuoso, sengiòn, lungo il quale si doveva far avanzare un piccolo oggetto (generalmente grossi bottoni o coperchietti) a colpi di dita, facendo scattare l’indice o il medio contro il pollice. Era un gioco piacevole,

Il gioco della corda.

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che richiedeva però attenzione e occhio per superare le insidie delle curve e delle irregolarità del terreno.

La campanaDisegnata con gesso sul pavimento o per terra una scacchiera da due per quattro, si doveva saltellare da un riquadro all’altro, secondo una successione stabilita, trascinando col piede una scaglia di pietra. Questo gioco (scalone nel Polesine, cìnciaro nel Padovano) poteva avere delle varianti, secondo accordi presi via via, come quella che prevedeva il salto a riquadri sfalsati. Era giocato soprattutto dalle bambine.

Il gioco delle scaglie, in alto, e, in basso, la lippa nota anche come bindèche o pindèche.

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Affine era il gioco dei quattro cantoni. Si individuavano (per esempio con delle pietre) i quattro vertici di un quadrangolo, che rappresentavano i punti di sicurezza. I giocatori dovevano correre dall’uno all’altro di questi punti, lungo il perimetro o in diagonale, senza essere toccati dal giocatore che si trovava al centro e si lanciava su loro non appena lasciavano l’angolo sicuro. Quando questi riusciva a “catturare” un giocatore ne prendeva il posto in un angolo, mentre l’altro diventava il “cacciatore” al centro del quadrato.

Le pallineEra un gioco di gruppo fatto con palline di terracotta colorata o di vetro, baéte. Le prime le vendevano i merciai, le seconde si ricavavano spaccando le bottiglia di gassosa, che aveva una pallina di vetro che fungeva da tappo, tenuta in sede dalla pressione interna. Consisteva nel mandare la propria pallina entro una buchetta scavata nel terreno, partendo da una linea distante anche venti passi. All’inizio ogni giocatore deponeva la sua posta (una o due palline) dentro la buca e quello era il “monte premi”. Chi tentava con un unico lancio di centrare la buca e falliva il colpo perdeva la propria pallina, ma se il tiro era preciso tutte le palline della buca erano sue. Si poteva anche far avanzare la pallina a piccoli tratti, scoccandola a turno con le dita: nel procedere verso il bersaglio ogni giocatore poteva “mangiare” le palline degli altri se le centrava con la sua, ma se falliva il colpo era lui a perderla e in quel caso doveva rimetterne in gioco una nuova.

Il gioco del circuito.

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Mosca cieca e nascondinoDue giochi molto diffusi e popolari e probabilmente praticati ancor oggi. Nel primo caso, un giocatore con gli occhi bendati doveva riconoscere con solo ausilio del tatto e dell’udito i suoi amici. Nell’altro, un giocatore con gli occhi chiusi contro un muro, la tana, doveva contare fino ad un numero prefissato mentre i compagni correvano a nascondersi. Doveva quindi individuare via via il nascondiglio di ciascuno e correre ogni volta fino alla tana: toccandola lui prima dell’avversario questo veniva eliminato, se invece era l’avversario a toccarla per primo diventava libero. Il gioco lo chiamavamo scondaròla.

Il gioco della campana (scalone nel Rodigino), in alto, e, in basso, il gioco delle palline.

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La raganella, racoétaÈ questa una scatola di legno che contiene una ruota dentata sulla quale è premuto un sottile listello. Un manico all’esterno permette di far girare la ruota che, raschiando sulla lamina, emette un rumore simile ad un gracidio. Era uno strumento usato in chiesa il Venerdì Santo a sostituzione delle campane e dei campanelli, lasciati muti quel giorno in rispetto della morte di Gesù. Ma noi ragazzetti ne abusavamo, facendola risuonare dappertutto per le strade durante la Settimana Santa.

Il gioco della mosca cieca, in alto, e, in basso, le raganelle racoéte.

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PassatempiEra piacevole per me andare in bicicletta alle sagre paesane delle varie località vicine. Desideravo vedere, in particolare, le corse degli asini mussi, l’albero della cuccagna ed il gioco delle pignatte. L’albero della cuccagna era un robusto palo altro circa sei metri, con la superficie liscia e unta con le cotiche coéghe di maiale; sulla sommità era disposto un cerchio con appesi salami e galline. L’arrampicata era faticosa e problematica perché non si potevano usare guanti e scarpe. Bisognava toccare il cerchio e riuscire a strapparne le cibarie appese.Nel gioco delle pignatte una pertica veniva posta orizzontalmente tra due trespoli ad un’altezza di circa tre metri. Vi si legavano, ben distanziate, delle pignatte di terracotta: una sola conteneva salami o altri commestibili, le altre erano piene di acqua. Veniva estratto a sorte l’ordine dei concorrenti, poi ciascuno veniva bendato e doveva cercare di colpire alla cieca la pignatta giusta. Di solito gli erano concessi due colpi e quello si dava da fare tra le grida, le risate, i suggerimenti e gli incitamenti del pubblico. Se colpiva la pignatta sbagliata era una doccia assicurata, se invece centrava quella con le cibarie, il coordinatore provvedeva lui a romperne una con l’acqua sulla sua testa: qualsiasi fosse l’esito della prova, il giocatore ne usciva sempre bagnato.Trovavo interessante osservare i voli radenti delle rondini che portavano gli insetti ai loro piccoli, ammassati nei nidi sotto i tetti, che le aspettavano a bocca aperta, mettendo in mostra il palato di un giallo intenso.Costruivo volentieri tutto solo degli aquiloni pavéi: incollavo carte colorate per realizzare lunghe code, usando la solita colla casareccia a base di farina.Mi interessava scoprire dove le galline deponevano le uova, controllando vari mucchi di fieno od altre erbe secche, per portarle poi alla padrona di casa. Succedeva talvolta che la chioccia le avesse covate di nascosto e uscisse da quei mucchi col suo seguito di pulcini pigolanti.Mi incuriosivano: le file delle formiche; le libellule pavéie con le loro ali iridescenti; i tacchini pitòni e i pavoni che facevano la ruota tra gli altri animali del cortile; i pesci che guazzavano nei fossi; le rane a fare salti; i girini a girare a tondo nell’acqua; la furbizia dei gatti nel procurarsi il cibo e la loro cura nel nascondere i piccoli finché non riuscivano a cavarsela da soli; i cani delle fattorie con cui giocare. Insomma, quando non mi divertivo con i miei compagni, osservavo con interesse e attenzione quanto accadeva nei campi, nelle stalle e nelle botteghe artigiane che formavano il piccolo mondo dove vivevo. Ero il maggiore di cinque fratelli, con un padre impegnato tutto il giorno al mulino e una madre che accudiva la casa: io ed i miei coetanei imparammo presto a provvedere a noi stessi e a procurarci da soli i semplici mezzi per passare il tempo con soddisfazione, facendo tesoro di scarti e ritagli, di cose trovate per caso o, più raramente, acquistate coi nostri risparmi, spesso impegnati in giochi che non richiedevano altra attrezzatura che un fisico sufficientemente nutrito.

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Stampa proveniente dalla parrocchia di Santa Maria delle Carceri, in provincia di Padova. Secondo il necrologio, lì conservato, San Bellino è morto il 26 novembre 1147.

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Santo Bellino

La venerazione verso questo SantoSan Bellino è un Santo poco conosciuto al di fuori dell’attuale diocesi di Rovigo-A-dria. Ho consultato varie enciclopedie sull’argomento, ma nessuna riporta notizie. Io che ho vissuto cinque anni nel paese che da questo Santo prese il nome, desidero evidenziare che una volta c’era per San Bellino una sentita e profonda venerazione diffusa in tutto il Polesine.Il 26 novembre, festa del Santo, in paese c’era una totale partecipazione sia per le Sante Messe celebrate in suo onore, sia per baciare una sua reliquia, racchiusa in una teca d’argento a forma di una mano benedicente. L’ultima Messa della giornata era un solenne pontificale celebrato dal Vescovo, o da un suo delegato, e il coro era for-mato dai chierici del seminario. Agli ospiti la parrocchia offriva il pranzo nella sala superiore della canonica, in quell’occasione io facevo il cameriere. In aggiunta nella Diocesi tutti i pubblici uffici erano chiusi in omaggio al Santo. Una volta era viva nel Polesine la tradizione che il Santo fosse il patrono della rabbia canina; chi era morso da cani, invece di ricorrere ai medici, invocava la benedizione con la reliquia di San Bellino. Oggi forse questa tradizione si sarà affievolita perché la medicina ora dà rimedi sicuri, ma una volta mancando sieri e vaccini, così molti ri-correvano all’intercessione del Santo. È successo anche a me. Quando abitavo a Costa di Rovigo, fui morso alla mano da un cane lupo. Il medico disse ai miei genitori che per avere la certezza che io non fossi stato contagiato dalla rabbia, bisognava portare a Bologna la testa del cane e attendere almeno un mese per il responso. Fu così che i miei genitori, consigliati dai vicini, mi portarono a San Bellino per una benedizione.Quando io abitavo in quel paese fui chierichetto nella chiesa parrocchiale, così ebbi modo di vedere di tanto in tanto persone che chiedevano una grazia a San Bellino, o che lo volevano ringraziare. Tra queste ricordo l’arrivo inaspettato del Vescovo di Pa-dova Elia Dalla Costa che, nel ‘33 o ‘34, fu nominato cardinale e vescovo di Firenze. Disse di voler pregare sulla tomba di un suo illustre predecessore; quella volta le cam-pane suonarono a lungo. Infine ogni anno nel periodo estivo vi era il pellegrinaggio del popolo di Gognano di Villamarzana per soddisfare un antico voto.

La sua storiaPrima di terminare i miei ricordi desidero parlare della storia di San Bellino della quale mi sono sempre interessato.Dalla storiografia documentata riporto le notizie del canonico Antonio Barzon il quale nel 1947 diede alle stampe, presso la tipografia Antoniana di Padova, il libro “San Bellino, Vescovo e Martire”.

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Bellino, nato nel 1077, era il quarto figlio della famiglia padovana dei Bertaldi sembra di antica origine germanica. Erano quegli anni pieni di grandi turbolenze cagiona-te dalle lotte per le investiture, dalle intromissioni nella gestione della chiesa fatte dall’imperatore del Sacro Romano Impero e dai feudatari locali a lui asserviti. Bellino fu prete, canonico e arciprete della cattedrale di Padova, essendo vescovo Sinibaldo, e lottò sempre contro i soprusi, le ingiustizie e gli scismatici. Questi ultimi erano clero e signorotti che, per avere prebende dall’imperatore, ricusavano l’auto-rità del Vescovo unito al Papa. In una di queste controversie gli scismatici riusciro-no a cacciare da Padova il Vescovo Sinibaldo che dovette rifugiarsi a Este. Da quel momento l’arciprete Bellino fu il più valido aiuto del Vescovo, tanto che con ferma volontà riuscì a riportarlo nella sua sede di Padova. Nel 1123 Bellino assieme al suo Vescovo Sinibaldo fu a Roma, dal Papa Callisto II, che arricchì la diocesi di Padova con privilegi assoggettando all’autorità vescovile monasteri e priorati che prima non dipendevano dal Vescovo.Morto Sinibaldo nel 1125, Bellino raccolse la complessa eredità. La sua elezione a vescovo si svolse in un ambiente sereno e con voto unanime del popolo e del clero. Nel ventennio del suo episcopato diede sistemazione definitiva alle chiese, vecchie e nuove,

Ex voto del 1876 esistente nella parrocchiale. San Bellino era venerato come protettore della rabbia dei cani perché la sua urna di legno, sepolta dalla inondazione del Po del 1770, fu ritrovata dopo trent’anni dai cani di un cacciatore.

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adibendo per esse uno o più sacerdoti perché provvedessero alla cura delle anime. In Padova vi erano allora ricche famiglie che spadroneggiavano sia nell’appropriarsi dei benefici delle chiese, sia nel vessare il popolo soprattutto del contado. C’erano i servi della gleba che erano comperati o venduti assieme ai terreni e agli armenti, perciò i signori erano anche padroni delle persone, e questo uso li portava a fare angherie d’ogni genere. In quel tempo vi fu a Padova un secondo Vescovo nominato dall’imperatore del Sacro Romano Impero e perciò scismatico. Era Milone che, aven-do ottenuto in dono dall’imperatore la città di Padova, cercava di sopraffare Bellino vescovo unito al Papa. Il problema, però, che soprattutto angustiava Bellino era di avere nella diocesi parecchie chiese, con relativo clero, che non dipendevano dal Ve-scovo, ma dal priore del convento della Vangadizza – oggi Badia Polesine –, mentre la popolazione era sotto la giurisdizione pastorale di Bellino. Per questo motivo il vescovo Bellino non poteva visitare quelle chiese e influenzare sull’attività del clero che spesso provvedeva alla cura d’anime in modo negligente. Nel groviglio di questa situazione il Vescovo Bellino ritenne utile ottenere l’aiuto di una autorità superiore.

Ipotesi e tradizioni del SantoIl primo biografo di Bellino fu il Vescovo di Adria Bonagiunta che nel 1288 scrisse la vita del Santo ucciso dai sicari nei pressi di Fratta – ora Fratta Polesine – località che faceva parte anche allora della diocesi di Adria. A lui spetta il merito di aver approva-to e diffuso il culto di Bellino. Mancando di documentazioni certe, fece però alcuni

Antica stampa con la ricostruzione ideale di come poteva essere l’Abbadia della Vangadizza, ora Badia Polesine. L’abate di questo centro religioso governava nei secoli XI – XIII un grande territorio che arrivava fino a Monselice. Ora vi sono pochi ruderi.

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errori e della confusione, corretti poi dagli studiosi. Quel Vescovo, convinto della grandezza morale e della santità di Bellino riuscì a farlo proclamare, per decreto del Papa e volere del popolo, “Patrono principalissimo di tutta la diocesi di Adria” come lo è ancora oggi. Il Bonagiunta non fu il primo a proclamare Santo il Vescovo Bellino, perché già precedentemente nel 1210 il Vescovo di Adria Rolando della nobile famiglia pa-dovana degli Zabarella, aveva riconosciuta la venerazione pubblica verso Bellino ed esortato il popolo ad onorarlo come un Santo, “il cui culto Iddio confermava col dono del miracolo”. Il Bonagiunta scrisse anche che alla fine di novembre del 1151 nei pressi di Fratta, allora crocevia di varie strade tra cui una per Roma, Bel-lino fu ucciso da sicari mentre con pochi compagni stava recandosi a Roma per chiedere aiuto al Papa. A questo proposito il Barzon invece scrive che è impro-babile che Bellino si avventurasse ad affrontare a piedi con pochi compagni, un lungo viaggio fino a Roma nel periodo invernale, così ipotizza un´altra soluzione. Ritiene inoltre che l’anno dell’uccisione non poteva essere il 1151 bensì il 1147. Infatti dei documenti precisano che il 23 novembre 1147 Bellino sottoscrisse a Padova un atto di donazione a dei canonici, mentre il 24 luglio del 1148 il Vesco-vo Cacio successore di Bellino, concesse un’investitura feudale come vescovo di Padova. Il Barzon ipotizza così che Bellino, con poca scorta, nei giorni 24, 25 e 26 novembre 1147 fosse arrivato fino a Fratta per prendere la strada diretta che, fra canneti e boscaglie, arrivava alla Badia della Vangadizza. Ritiene poi che Bel-lino volesse risolvere una volta per tutte il grosso problema delle numerose chiese della diocesi di Padova, che erano sotto la giurisdizione di questa abbazia perché costruite su terreni da essa posseduti, e delle quali il priore eleggeva anche i par-roci, nonostante i fedeli fossero sotto l’autorità di Bellino. In quella zona disabitata e sperduta sarebbe stato ucciso da sicari il giorno 26 novembre 1147, giorno, ma non l’anno, registrato anche nel necrologio del Monastero di Santa Maria delle Carceri (Padova).Le spoglie mortali del Vescovo furono subito raccolte dalla pietà del popolo, che provvide a seppellirle nella vicina chiesetta di S. Giacomo presso Fratta. Subito il po-polo parlò di Bellino Martire e Santo. Ai miei tempi, nei primi anni 1930, vicino a Fratta c’era una casa bassa con muratura spessa che la tradizione indicava come un’abitazione costruita sulle fondamenta della vecchia chiesetta di S. Giacomo.Andrea Favoschi nel suo manoscritto latino, custodito ora nel seminario di Padova, in cui parla delle famiglie padovane, accusa quale mandante del delitto Tommaso di Capodivacca, famiglia detta anche Paradisi o Capineri. Questi era stato condannato dai giudici a restituire al Vescovo Bellino le decime che aveva usurpato preceden-temente, cosa che non voleva fare, perciò pensò di eliminare Bellino che lo aveva chiamato in giudizio.

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Nel 1170 il Po straripò e le acque si riversarono su buona parte del Polesine, Fratta compresa, trasformando tutto in laguna. La chiesetta di San Giacomo e l’urna di San Bellino scomparvero alla vista dei so-pravvissuti. Ma verso l’anno 1200 le acque lentamente si ritirarono e riaffiorarono le rovine della chiesetta, ma non l’urna. Una tradizione locale che mi fu ripetuta tante volte, racconta che l’urna fu ripor-tata in luce dai cani. Subito i pii abitanti del luogo, memori di quanto era successo trent’anni prima, posero l’arca su un carro agricolo trainato dai buoi per portare il sarcofago a Fratta, il paese più vicino. Ma i buoi non vollero partire. Lasciati liberi essi si diressero spontaneamente verso S. Martino di Variano, distante circa cinque chilometri. Lungo la strada si fermarono due volte e in quei luoghi di sosta oggi ci sono due capitelli a ricordo del fatto che i pungoli del bovaro là piantati, ogni volta fiorirono. Arrivati davanti alla chiesa di San Martino di Variano i buoi si fermarono per la terza volta e non vollero più ripartire. Cosi l’arca di San Bellino fu posta in quella chiesa. Anche questa volta il pungolo del bovaro fiorì e ora a ricordo c’e una piastrella di marmo.

A sinistra. Una delle due cappelline che ricordano le fermate dei buoi quando nel XII secolo l’urna di legno fu portata nel paese di San Martino di Variano. In quella occasione, si tramanda, che i pungoli abbiano fiorito. I buoi si fermarono definitivamente per la terza volta davanti alla chiesa che prima aveva la facciata rivolta rispetto a quella attuale.A destra. Urna del Santo del XVII secolo che ingloba quella di legno della prima sepoltura del secolo XIII è nel retro dell’altare maggiore.

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Il paese e la chiesa del SantoTrasportato il corpo di San Bellino nella chiesa di San Martino di Variano, da subito quegli abitanti iniziarono a venerarlo in modo solenne, tanto che, a furor di popolo, vollero che il loro paese cambiasse nome in San Bellino.Il Barzon non parla della chiesa, ma la tradizione e altri libri di storia locale dicono che, prima della traslazione delle spoglie di Bellino, la facciata della chiesa di San Martino di Variano era dalla parte opposta a quella oggi esistente. Infatti nel presente presbiterio c’è la tessera di marmo, già richiamata, che segna dove si è fermato il carro ed è ora proprio davanti all’altare maggiore. Di certo si sa che nel XV secolo la parrocchia perse una gran parte del suo territorio e che il paese si ridusse a una piccola località. Nel 1487 Giovanni Marcello, nobile veneziano pretore di Rovigo, visitò la chiesa di San Bellino e la trovò spoglia e tra-scurata, come relazionò al doge di Venezia Agostino Barbarigo. Questi intervenne d’autorità e, prendendo a cuore le sorti del santuario, decretò l’istituzione di una am-ministrazione che provvedesse ai bisogni della chiesa. Del 1544 c’è la relazione del Vescovo Bartolomeo Zerbinati in cui si precisa che la chiesa aveva la facciata rivolta a sud e che era a tre navate, cioè pressappoco come l’attuale, e continuava dicendo che nella navata a destra c’era l’altare di San Bellino, con l’urna posta a fianco, coperta da un panno rosso, mentre l’altare maggiore era de-dicato a San Martino, il primo santo venerato in quel paese. Da un verbale diocesano del 1603 risulta poi che il tempio aveva le colonne delle tre navate deteriorate e che dovevano essere sostituite, veniva precisato pure che gli abitanti erano 500. Fu così che negli anni 1647 – 49 la chiesa fu rifatta dalle fondamenta, con l’aiuto di tutta la popolazione, dandole l’impronta della tradizione veneta. La nobile Giulia Arcostis ved. Guarini, assieme al figlio Giuseppe, fece invece erige-re la cappella dietro l’altare maggiore, ponendovi un’arca marmorea e inglobandovi quella più modesta di legno. Nei secoli successivi, specie nel settecento, la chiesa fu impreziosita con statue, pale d’altare e arredi sacri.Il campanile, pur del ‘500, è in stile romanico.La prima ricognizione della salma di San Bellino fu fatta il 24 aprile 1863 e furono trovate le reliquie “immerse nel fango secco”, segno evidente dei trent’anni passati dalla vecchia urna fra acquitrini e canneti.

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In alto a sinistra. Al tempo di Bellino i conti di Baone d’Este erano feudatari del Vescovo, per questo nella cappella di Ca’Borini di Baone fu esposta questa tela. Si vedono San Bellino con la Madonna, il Bambino Gesù e dei Santi. Una strada pedemontana di Monselice che porta a Baone è ancora oggi chiamata “Argine del Vescovo” perché attraversava delle paludi e perché era usata dai Vescovi di Padova quando visitavano i loro Vassalli di Baone.In alto a destra. Ceregnano (in provincia di Rovigo, a pochi chilometri da San Bellino). La statua di San Bellino che orna la nicchia di sinistra della facciata della chiesa parrocchiale di San Martino vescovo.A fianco. Reliquiario di San Bellino, il quale veniva baciato da chi, morsicato dai cani, temeva di contrarre la rabbia, una malattia infettiva acuta.

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I mulini con macine

Vissi la mia fanciullezza a Costa di Rovigo, in un mulino a macine, condotto da mio padre Giacomo e da zio Giacinto. Era un mulino funzionante con un grande e nero motore a vapore alimentato dal gas povero.La mia giovinezza la trascorsi invece in altri paesi, ove c’erano sempre le stesse maci-ne di pietra ma fatte girare da motori elettrici e gestiti solamente da mio padre.Considerato che i motori a gas povero e le macine di pietra si trovano ora solo nei musei e dato che ho ancora ben presenti nella mia memoria i vari congegni e quel motore, che io da bambino consideravo un mostro, desidero descrivere, a futura me-moria, il mulino della mia fanciullezza. Non tanto tecnicamente, ché quelle informa-zioni le si trova sui libri, ma in modo rievocativo, per illustrare come si ottenevano le farine dai cereali quasi un secolo fa.

Schizzo planimetrico relativo al fabbricato di un solo piano, sito a Costa di Rovigo via Scardona.Erano gli anni 1920-1930 e vi erano: mulino, locale motore, tettoia per il focolare, carbonaia perl’antracite, ripostiglio per sacchi vuoti o pieni di cereali.

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Il fornelloEra un grande camino che serviva per riscaldare un grosso bidone riempito di car-bon fossile. Tutti chiamavano quel braciere fornèla, posto all’esterno sotto una tettoia per sicurezza. Prima di accendere il fuoco si doveva riempire di carbone il bidone a tenuta stagna, posto orizzontalmente sopra il fuoco. Nel focolare venivano bruciati legna e carbone già sfruttato per ottenere gas, che chiamavano cok.

Il gasogenoQuel bidone pieno di carbone minerale era il gasogeno, cioè il generatore di gas. Mio padre diceva che il miglior carbone da distillare per ottenere gas, era l’antracite in-glese proveniente da Cardiff, in Inghilterra. Il carbone surriscaldato produceva una miscela di gas, in prevalenza metano, che passava attraverso una valvola di tenuta e un tubo in un recipiente particolare per il deposito.

Il gasometroIl gas prodotto arrivava in un contenitore chiamato gasometro, cioè misuratore di gas. Questo meccanismo era all’interno dello stanzone, proprio vicino al motore, ed era formato da una campana posta in una vasca d’acqua. La campana saliva e scende-va a seconda della quantità del gas prodotto e di quanto ne veniva usato. Quando il gas era al limite minimo, una valvola di controllo della pressione fischiava per attirare l’attenzione del mugnaio che subito accorreva per ravvivare il fuoco in modo che la produzione di gas salisse.

Il motore a gas poveroEra un macchinario possente che aveva ai fianchi due grandi ruote, i cui diame-tri erano parecchio più grandi della statura di mio padre; oggi stimo fossero due metri e mezzo. Servivano per l’avviamento. Mio padre e mio zio Giacinto, per-sone robuste, dovevano far leva con tutte le loro forze sui raggi delle due ruote; quando il motore era avviato le ruote venivano messe in folle, cioè venivano staccate dagli organi rotanti. Erano così pesanti e ingombranti che, quando il motore è stato smontato, le hanno tagliate con la fiamma ad acetilene in quattro parti per farle passare dalla porta. Il motore era un grande tubo orizzontale nel cui interno c’era la camera di scoppio che azionava grossi pistoni accoppiati con grandi bielle. Ricordo che io usavo per giocare i cerchi smessi dei pistoni, quelli che chiamavano fasce le fasse, che servivano per chiudere bene le camere a ci-lindro ove scorrevano i pistoni. Come ho già raccontato nel capitolo dedicato ai giochi, era allora in uso per noi bambini correre per sentieri e strade facendo rotolare un cerchio di ferro: gli altri usavano i cerchi ricavati dall’orlo superiore dei paioli, io invece usavo i cerchi dei pistoni. Ebbi una chiara idea dell’uso di quel gas quando, nel periodo dell’autarchia fascista,

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vidi dei grandi fornelli cilindrici posti sulle pedane dei camion, che producevano il gas necessario per la trazione, erano dei piccoli gasogeni e gasometri. Quando il grande motore si rompeva, il lavoro di aggiustaggio era lungo e faticoso perché bisognava spostare pezzi pesanti. Era anche molto sudicio perché si lavorava in mezzo al grasso necessario per la lubrificazione. Mio padre e lo zio vestivano allora una tuta di fustagno scuro la cui giacchetta era simile a quelle che poi, più tardi, vidi indossata da Stalin e da Mao. A lavoro finito erano due maschere nere; mia madre, poverina, doveva lavare le tute e prepararle per future rotture.Il motore lavorava a periodi saltuari perché, quando partiva, andava continuativa-mente notte e giorno, fino a macinare le scorte di frumento e granone ammassate e portate dai clienti quando il motore era fermo. Poi si attendeva un altro ammasso di cereali in attesa di riprendere il lavoro. Questo sistema veniva usato perché l’avvia-mento del motore era così lungo, difficile e faticoso che non si poteva fare altrimenti per risparmiare fatica. Ricordo che mio padre mi disse più volte che il motore, durante la prima guerra mondiale, fu usato per qualche tempo per produrre l’energia elettrica che serviva come illuminazione pubblica nel centro del paese. In quella occasione il motore faceva girare le dinamo per la produzione dell’elettricità che subito veniva immagazzinata nei condensatori, per distribuirla poi in modo uniforme anche quan-do, in via saltuaria, il motore veniva fermato. Quando arrivammo a Costa di Rovigo non trovammo le dinamo, però in un ripostiglio c’erano ben accatastati dei grandi e robusti vasi di vetro. Mio padre mi disse che servivano per i condensatori. Mia madre invece usò quei vasi per mettere sotto unto o sotto cenere, salami e pezzi d’oca.

L’asse orizzontale di trasmissioneEra un asse molto lungo che collegava le tre coppie di macine poste nel mulino, con la puleggia di trasmissione, situata nello stanzone ove c’era il motore. Data la sua lun-ghezza era sostenuto da cinque bronzine, fissate con gambe sul pavimento. Le bron-zine erano cuscinetti antifrizione, formate da due lastre semicircolari in bronzo, che avevano rigature profonde per contenere il grasso minerale lubrificante. Erano poste in scatole stagne di ghisa a difesa dalla polvere. Nell’incontro tra l’asse orizzontale e i tre verticali delle macine c’erano gli ingranaggi dentati che giravano a vista, cioè senza alcun riparo.

Gli ingranaggi Ogni ingranaggio era formato da due ruote di ghisa, con denti di legno duro, una orizzontale e l’altra verticale. Ingranandosi tra loro trasmettevano il movimento ro-tatorio dell’asse orizzontale a quello verticale. Le ruote di ghisa avevano un diametro come l’altezza di un foglio di giornale e nella circonferenza avevano dei fori rettan-golari, per fissarvi i denti di legno posti a una distanza prestabilita e costante. Le due ruote dell’ingranaggio avevano anche, nella circonferenza esterna, una accentuata

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Costa di Rovigo, via Scardona. Schizzo dell’asse di trasmissione lungo una decina di metri e sostenuto da bronzine. Da destra puleggia collegata con cinghione al motore, numero tre ruote verticali di ghisa del diametro di circa 70 centimetri completate da denti di legno infissi in apposite sedi.

Schizzo relativo al movimento delle due ruote di ghisa, con denti in legno, che formavano l’ingranaggio in modo che la rotazione orizzontale si trasformasse in verticale per fare girare la macina. In basso a sinistra: schizzi dei tre tipi di martelli necessari per rifare, sulle pietre delle macine, orizzontalità, scanalatura e tacche. Questi lavori venivano fatti circa ogni sei settimane. I denti o il filo dei martelli venivano rifatti subito dopo l’uso.

Schizzi dei denti di legno che venivano infilati con martello nelle apposite tasche delle due ruotedi ghisa. La parte esterna era tronco piramidale a base rettangolare e sporgeva per circa tre centimetri.

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svasatura contrapposta, necessaria perché le parti sagomate dei denti che fuoriusci-vano dalle ruote dovevano incontrarsi fra loro senza alcuna difficoltà.Quando dei denti si rompevano negli strappi di partenza, venivano rapidamente so-stituiti con altri che erano stati preparati nel tempo libero. Era possibile fare spedi-tamente questo lavoro sia perché il volano del motore poteva essere messo in folle (lo stesso si faceva quando si rompeva il cinghione), sia perché la ruota orizzontale dell’ingranaggio poteva essere sollevata con una leva a scrocco, mettendo in folle anche le macine. Mio padre mi spiegò che, se l’ingranaggio fosse stato fatto tutto di ghisa, vi sarebbe stato un rumore infernale perché i denti non potevano essere lubrificati. E ancora, se con gli strappi si fossero rotti dei denti di ghisa si doveva sostituire tutto l’ingranag-gio, con enorme spesa di tempo e denaro.

Il cinghioneEra una lunga e pesante striscia di cuoio. La sua lunghezza totale era forse di una dozzina di metri, la larghezza invece come un mio quaderno di scuola. Era annerito per il suo lungo uso e si rompeva con facilità. Mio padre aveva tutto l’occorrente per l’aggiustaggio che poteva protrarsi per qualche ora. Conservava per la bisogna dei pezzi di cinghione nuovi e vecchi, delle robuste strisce gialle di cuoio, i cinghioli, una grossa lesina a spatola con doppio taglio e un trincetto da calzolaio. Con questo ultimo assottigliava il cuoio ove si dovevano sovrapporre le parti per la cucitura, poi con la lesina faceva una dozzina di fori ove infilava su e giù i cinghioli, facendo poi quattro cuciture per ogni giunto. Il cinghione serviva a collegare il volano, che girava sulla testata del motore, lontana dalla camera di scoppio, con una robusta puleggia posta all’inizio del lungo asse orizzontale di trasmissione.

L’elettricità sostituisce il gas poveroNel 1927 quando mio padre eliminò il motore a gas povero, lo sostituì con un altro elettrico e da allora in poi lavorò sempre con motori elettrici. Solamente le macine e gli accessori rimasero gli stessi. Evidentemente questi ultimi formavano un sistema collaudato da moltissimi anni di esperienze.I motori elettrici erano semplici, comodi, silenziosi. A Costa di Rovigo nel locale prima usato per il motore a gas povero, ne fu posto uno molto più piccolo, ma capace di muovere contemporaneamente le tre coppie di macine e altro macchi-nario accessorio che fu subito aggiunto. Per primo fu posto in opera un lungo assale più sottile del precedente, che girava su cuscinetti a sfere lubrificati da in-grassatori a vite che davano garanzie di efficienza Contemporaneamente furono cambiati i grandi ingranaggi con ruote di ghisa e denti di legno, e al loro posto furono messi tre vasi metallici a chiusura stagna che contenevano ingranaggi metallici che giravano entro olio minerale.

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Per avviare il motore venivano usati degli interruttori a coltello posti su un quadro di marmo bianco. Sopra vi erano le scatole dei contatori. Accesa la corrente questa, prima di arrivare al motore, passava per un cilindro chiuso nelle teste perché pieno di olio. Era il reostato che, manovrando una ruota superiore, eliminava gli strappi, regolando la velocità iniziale del motore, portandola gradualmente da lenta a quella necessaria per la macinazione. Furono aggiunti poi due elevatori a tazze i fachini, per eliminare il riempimento a mano delle tramogge, poste sopra le macine. A fianco fu installato un vaglio di recupero burato, che però chiamavano plansista, probabil-mente dall’inglese. Con questo sistema si sarebbe dovuto eliminare la setacciatura a mano delle farine, ma il macchinario non diede buoni risultati e fu eliminato Tutti gli accessori si muovevano a mezzo di pulegge che potevano essere messe in folle, per cui si distribuivano le varie lavorazioni senza che vi fosse la necessità di far girare contemporaneamente tutti i macchinari. Ricordo ancora quando mio padre e lo zio hanno assemblato con un lavoro in econo-mia i vari pezzi degli elevatori. Le trombe verticali, le tramogge di base e le canalette di raccordo furono costruite dal falegname Giusfin che abitava vicino a noi. Le tazze di sollevamento furono fatte invece da zio Giacinto ritagliandole, una ad una, da la-stre di lamiera zincata e poi ripiegando i lembi per ottenere una scodella. Mio padre provvide gli assi, le pulegge e le fasce di canapa per fissarvi le tazze. Queste girando si riempivano nelle tramogge di base piene di cereali andando poi a scaricarsi nelle tramogge poste sopra le macine, quando iniziavano il percorso di ritorno.

I palmentiOgni palmento era l’insieme di due macine sovrapposte Esse erano protette da un tamburo perché le farine non si disperdessero durante la lavorazione. Sopra di que-sto c’era una tramoggia per contenere i cereali, posti là dal mugnaio o dagli elevatori, per essere macinati; sotto la tramoggia invece c’era una guantiera che serviva per il dosaggio, lento ma continuo dei chicchi. Tutte queste attrezzature che formavano il palmento erano supportate da un impal-cato. A Costa di Rovigo vi erano tre palmenti: uno per farina di frumento, uno per farina di granturco e uno per spezzettare i chicchi, le spezanéle.

L’impalcatoEra una struttura in legno, con l’impiantito di calpestio sopraelevato, che sosteneva l’occorrente per la macinazione. Quelli che ho visto erano costruiti con travi e tavole di legno piallato, ben controventati per reggere sia il peso statico delle macine sia le vibrazioni dinamiche della rotazione. Il colore era invariabilmente sul marroncino chiaro, colore caratteristico del legno vecchio. La sopraelevazione del piano di lavoro, che oggi stimo di circa un metro, era dovuta al fatto che sotto vi erano gli ingranaggi e tutto il necessario per far girare, abbassare o rialzare le macine rotanti.

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I palmenti erano serviti da scalette per salire sul piano di lavoro. Fin quando fui bambino mio padre mi proibì di salire sulle scalette perché era molto pericoloso in quanto mancavano protezioni. L’impalcato era completato da alcune travature, poste a soffitto, che servivano per sostenere delle gru sempre di legno, predisposte per to-gliere o porre in opera le macine.

Le macine di pietra Le macine màsene erano dischi pesanti con un diametro che oggi stimo di circa metri 1.60, uno spessore attorno ai 25 centimetri e un foro centrale del diametro di circa 25 centimetri. Ogni macina aveva una faccia di pietra e l’altra con intonaco. La pietra doveva avere una cristallizzazione particolare che permettesse di essere facilmente battuta dalla martellina del mugnaio, senza sfaldarsi, e nel contempo mantenere a lungo la zigrinatura che veniva fatta. La pietra non era un unico blocco, ma erano lastre di grosso spessore ben combacianti, tenute assieme da un conglomerato di cal-ce e da due robusti cerchioni in ferro, uno posto sul bordo inferiore e uno su quello superiore. Mio padre diceva che le migliori macine erano le francesi che chiamava “les fertes” (almeno penso che si scriva così). Tutte le macine avevano dei solchi a raggiera, mi pare otto, meno grandi al centro e sempre più larghi e profondi verso la circonferenza, servivano per sparpagliare i cereali da macinare e far convogliare alla periferia le farine ottenute. Le macine lavoravano in coppia, pietra contro pietra; tra loro però dovevano esserci sempre cereali o farine, perché altrimenti si sfregavano, si surriscaldavano e si rovinavano le zigrinature, cioè quei dentini che servivano per ridurre in polvere i cerali.I fori centrali delle macine avevano precise funzioni. Quello della macina supe-riore che girava serviva per far entrare le granaglie. quello della macina inferio-re, che era fissa, per lasciare passare l’asse rotante verticale il quale, con l’aggiunta di un modesto congegno, faceva girare la mola superiore. L’asse passante entro il foro della macina fissa, perché rimanesse sempre perfettamente verticale e non oscillasse, era guidato da una boccola. Questa era fissata nel foro da cunei di legno duro, battuti a martello. Le varie piccole fessure che rimanevano venivano chiuse colando zolfo liquido, che si otteneva riscaldandolo a circa sessanta gradi. Tutto ciò aveva anche lo scopo di sigillare ogni interstizio onde evitare cadessero a terra chicchi o farine. L’asse verticale così guidato penetrava, con la sua testa arrotondata, per circa venti centimetri oltre la mola fissa, per incastrarsi nell’in-cavo di un cavallotto, fissato sulla mola rotante. Il cavallotto era una robusta barra piatta di ferro sagomata a U rovescio che aveva due naselli che erano fissati nella faccia di pietra della mola superiore. Anche queste due piccole protube-ranze erano fissate con zolfo liquido. Questo sostegno e la macina venivano fatti ruotare da alette solidali con l’asse rotante verticale.Dato che la macina superiore doveva essere sempre in perfetto equilibrio durante

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la macinazione, aveva nella parte intonacata quattro tasche contrapposte, ove si potevano mettere dei pesi metallici per riequilibrarla, che venivano fissati anch’essi con lo zolfo liquido (veniva usato lo zolfo perché non è urticante). Pure la macina inferiore aveva bisogno di una perfetta orizzontalità e questa la si otteneva apportando qualche correzione, girando i piedini a vite su cui appoggiava.Un lavoro molto importante era la ribattitura delle macine fatta a lunghi intervalli. Ricordo che mio padre e lo zio iniziavano togliendo prima gli accessori, tramoggia cilindro ecc. poi la gru sollevava la mola superiore che veniva sospesa sul vuoto, da-vanti all’impalcato. Questa gru era formata da due travi collegati a sette che avevano un saettone di rinforzo, La gru era incernierata sull’impalcato, in alto e in basso, con piastre e perni metallici. Sopra il braccio orizzontale c’era poi una ruota che gover-nava un vitone senza fine che terminava con due ganci: il tutto era guidato da piastre di ferro fissate sopra e sotto sulla struttura lignea. Venivano poi appesi ai ganci del vitone due robusti settori circolari di ferro lunghi circa un metro che avevano in ogni estremità degli occhielli. Gli anelli superiori venivano agganciati al vitone, negli in-feriori venivano invece infilate delle spine spinòti, che poi venivano introdotte anche nei due fori dorsali della macina. Con questo sistema la macina veniva sollevata e messa da parte.Mio padre per prima cosa faceva un accurato controllo delle facce delle mole usando una staggia verniciata di terra rossa sui dorsi perché, ruotandola su tutta la pietra, si evidenziassero i rialzi che subito eliminava con la bocciarda. Poi usava la bolla per un perfetto controllo dell’orizzontalità. Se poi i solchi a raggiera erano diventanti ormai poco profondi, provvedeva ad ingrandirli picconando con un pesante martello che aveva una punta in ogni testa la martelina a punta. Finiti questi lavori di preparazio-ne provvedeva a fare le tacche della zigrinatura sulle superfici degli spicchi di pietra, usando un pesante martello a doppio taglio la martelina a taio.Quest’ultimo lavoro, diceva mio padre, doveva essere fatto sempre dalla stessa mano perché le tacche dovevano essere pressoché uguali per profondità e dire-zione. Era questo il lavoro che pretendeva fare da solo, forse perché gli piaceva o perché pensava di esserne perfettamente capace per aver fatto un lungo apprendi-stato. Durante il lavoro di battitura usava una scopetta rigida, che chiamava gran-adéo, per controllare l’andamento delle battiture. Per ripristinare la mola rotante provvedeva a stenderla sulla macina fissa previa stesa di travi. Anche su questa veniva eseguita la stessa lavorazione.Per sistemare poi a nuovo i vari martelli mio padre faceva anche il fabbro: diceva che l’aveva imparato quando era piccolo. Sotto la tettoia c’erano la fucina per scaldare il ferro ed un secchio pieno d’acqua per temperarlo. Mio padre prima doveva forgiava i tre martelli per rifare le punte e i fili, poi immergeva parzialmente il ferro caldo en-tro l’acqua finché la parte immersa diventava violacea. Io in quel caso mi divertivo a ravvivare il fuoco con un apposito soffietto.

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Il tamburo, la tramoggia e la guantiera Questi tre oggetti di legno erano accessori necessari per arrivare ad avere i sacchi pieni di farina. Il tamburo posto a copertura delle macine serviva, per evitare il più possibile la dispersione di farine e polveri ed era nel contempo di supporto alla tra-moggia. Il tamburo era un cilindro basso e robusto, perché la sovrastante tramoggia poteva contenere anche un quintale di cerali, ed era sprovvisto delle due facce piane.

Anni 1920-1940. Schizzo di un palmento comprendente due macine e tutti gli accessori. Qui è tenuto conto di ingranaggi racchiusi in una vaschetta a tenuta, piena di olio minerale, per lubrificare piccoli ingranaggi metallici. Questo sistema diminuiva di molto i rumori del sistema illustrato nelle figure delle pagine precedenti.

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Schizzo delle macine di pietra. Le misure riportate nel primo disegno danno un peso per macina di circa kg 350. Nel secondo disegno si vuol dimostrate come lavoravano a contrasto le scanalature a raggiera. Esse servivano per veicolare i grani che entravano e anche per trasportare in periferia la farina ottenuta.

Schizzo del sistema metallico per far girare la macina, sovrastante quella fissa, mantenendola sempre in perfetto equilibrio. L’asse verticale, guidato dalla boccola fissata nel foro della macina fissa, supportava con un cavallotto quella rotante.

Schizzo della gru di legno incernierata nell’impalcato. Una gru serviva due palmenti. Parti integranti della gru erano due bracci ad arco e due spinotti.

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Aveva un diametro interno superiore di venti centimetri a quello delle macine per poter contenere, a livello della macina fissa, una corsia per la raccolta farine che vi arrivavano per il moto centrifugo. La macina rotante aveva una spatola che raschiava la corsia e convogliava le farine verso la bocchetta d’uscita, dove era appeso il sacco. La tramoggia, che doveva contenere sempre granaglie finché la macina girava, ave-va sotto un pertugio da cui uscivano lentamente e con continuità i chicchi. Questi cadevano sulla guantiera, che era un pezzo di tavola di legno duro concavo con un solo invito di uscita. I suoi sostegni erano delle corregge che servivano per renderla mobile. La guantiera veniva scossa da un’asticella, fissata sul foro della macina ro-tante, facendo cadere in progressione i chicchi. Quando la tramoggia si svuotava del tutto, si liberava il fermo di una cordicella collegata a un campanello, il quale subito si metteva a suonare. Tutto ciò serviva per richiamare l’attenzione del mugnaio che doveva subito provvedere a riempire la tramoggia con altri cereali. Per questa ultima operazione bisognava prima mettere il fermo della cordicella del campanello sotto il peso dei chicchi. Nel caso estremo in cui il mugnaio non riusciva a riempire tempe-stivamente la tramoggia, doveva sollevare la macina rotante con una leva con scrocco di sicurezza, posta sotto l’impiantito, per evitare che le mole si toccassero. Per fare poi farine più o meno grosse c’era una ruota di manovra, posta a fianco della precedente, che serviva per eseguire spostamenti millimetrici.

La macinazione

La qualità dei cerealiI cereali avevano differenze per misura e durezza, non solo fra le diverse razze, ma anche nella stessa famiglia, a seconda dei terreni ove erano stati coltivati. Per queste variazioni bisognava, di volta in volta, rapportare le quantità che entravano nelle mole, secondo la durezza e grandezza dei chicchi e lo stato manutentivo delle macine.C’era allora la battaglia del grano voluta da Mussolini e di continuo venivano messi in commercio sementi di nuovi tipi Era il tempo in cui i frumenti tardivi, da sempre coltivati, venivano soppiantati da razze precoci. I tardivi producevano più paglia e meno grano, e per di più si allettavano facilmente, creando difficoltà nella mietitura. I precoci erano pronti da mietere una decina di giorni prima, avevano lo stelo di paglia più basso e la spiga più turgida. Ricordo che mio padre chiamava sempre in causa lodandolo un certo “Strampelli”, che parecchio più tardi seppi essere il famoso agronomo genetista Nazzareno Strampelli, il quale produsse numerose nuove razze di frumento, da usare secondo le qualità dei terreni e del clima. In quegli anni erano in voga a Costa di Rovigo i tipi precoci Mentana, Villa Glori, Ardito, Strampelli e ognuno aveva caratteristiche organolettiche diverse che influivano anche sulla macinazione. Ricordo che le spighe dei frumenti tardivi avevano tutte le ariste, mentre i precoci le avevano attenuate.

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Per completare l’elenco delle manovre necessarie onde ottenere gli sfarinati voluti, devo anche ricordare un piccolo dispositivo metallico, che regolava il flusso dei chicchi sulla guantiera, fissato sul davanti del tamburo. Infatti vicino alla bocchetta della farina, c’era un supporto con una piccola ruota di manovra la quale, a mezzo di asticciole, apriva più o meno la serranda della feritoia posta sotto la tramoggia. L’immagine mostra l’interno di un casotto di un mulino sul Po, ove si vedono gli accessori delle macine. Il rifornimento dei cereali avveniva attraverso una bocchetta ancorata a un solaio superiore, sul quale erano stati ammassati precedentemente i sacchi di cereali da macinare. Dalla fattura presumo che il palmento sia del Settecento, considerando anche che la prozia Luigia paragonava i palmenti del nonno del Secolo XIX simili a quelli di Costa di Rovigo, che erano come ho descritto precedentemente.

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Quasi la stessa cosa succedeva per il granoturco perché cominciava ad entrare in Ita-lia il Plata, granoturco di origine argentina. Le nostre razze davano pannocchie pic-cole con grani rotondeggianti e schiacciati, il Plata dava pannocchie grandi con grani allungati, tanto che all’inizio veniva chiamato denton, cioè dente grande, e dava una produzione maggiore. Ricordo che un anno, forse il 1928, vi fu un raccolto misero di granoturco nostrano. Mio padre, viste le richieste, acquistò allora vari vagoni di Plata sudamericano dal costo accessibile che arrivarono fino a Rovigo. Per portare il granoturco a Costa furono ingaggiati dei carrettieri che dovevano fare il trasporto per dieci chilometri. Successe però un fatto strano, almeno per me. Circa duecento metri di strada inghiaiata nel comune di Costa si rovinarono in modo totale. Un agricoltore, che aveva la stalla nei pressi, si adoperò per trarre d’impiccio i carrettieri con due tiri di buoi, facendosi ovviamente pagare. Fu così che il granoturco ebbe un rincaro non previsto che suscitò dei brontolii fra gli acquirenti. Il granoturco americano ebbe nel tempo delle migliorie genetiche, così oggi tutti noi abbiamo degli ibridi chiamati mais.Una volta era d’uso seminare subito tra le stoppie di frumento il “cinquantino”, gra-noturco dalle pannocchie e dai grani piccoli. Fra quelle razze ce ne era una molto ricercata, il Marano, che dava farina saporita e d’un giallo intenso.

Il costo della macinazioneI prodotti per la macinazione, che venivano portati al mulino, erano pesati con la bascula. I dati di identificazione venivano scritti su un registro e sui sacchi. Nel re-gistro venivano scritti, con una matita copiativa, la data, il nome, il peso e il numero progressivo di conferimento settimanale; sui sacchi venivano scritti con un pennello intriso di acqua e terra rossa, il peso e il numero di conferimento. Il costo della la-vorazione era calcolato con due percentuali relative al peso. Le farine venivano con-segnate con il peso dei cerali decurtato di una percentuale per la volativa, cioè la polvere che si spandeva nell’ambiente. Poi c’era un costo in denaro in rapporto alla quantità dei cereali portati per la macinazione. Ho avuto modo di constatare che i calcoli della volativa erano sempre superiori a quelli reali: alla fine della settimana gli avanzi servivano per il nostro uso familiare.

Gli inconvenienti provocati dalle macine Una volta non c’erano norme di sicurezza sui lavori, tutti si comportavano come me-glio credevano. Anche i mugnai non dovevano osservare prescrizioni di salvaguar-dia. Per questo mio padre subì nella sua vita almeno tre malanni dovuti al tipo di lavoro che faceva. Aveva i dorsi delle mani punteggiati di tanti puntini neri perché, non usando i guanti durante la battitura delle macine, le piccole schegge di pietra che schizzavano via gli punzecchiavano la pelle, lasciando il loro segno in modo indele-bile. Nei mulini poi, dove regnava la volativa, non c’erano né aspiratori o depuratori,

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né gli addetti usavano mascherine di protezione, così sia i macchinari che i mugnai erano sempre ricoperti di polvere; non per niente c’era il proverbio: “Chi va al mulino si infarina”. In aggiunta tutti i mugnai avevano i bronchi ricoperti di polvere. Quando mio padre nel 1909 si presentò alla visita medica per fare il soldato fu sulle prime scartato. Il giovane medico che gli aveva controllato il torace sentì brontolii, segno di malattia polmonare, e lo mandò dal suo superiore. Questi, medico anziano, gli chiese subito che mestiere facesse, mio padre rispose che era mugnaio. Fu dichia-rato abile e fece 24 mesi di servizio di leva; così era lungo una volta il servizio milita-re. Poi richiamato, dovette fare anche tutta la guerra del 1915 – 18, combattendo nella terza armata. Quel medico esperto sapeva che tutti i mugnai avevano i bronchi pieni di polvere! Infine mio padre, dopo i cinquant’anni, ebbe disturbi motori. Cosa abba-stanza naturale se si pensa che i sacchi che portava a spalla erano generalmente di 75 chilogrammi pari a tre staia pieni di chicchi, o di 100 chilogrammi se erano sacchi pieni di farina doppio zero: pesi che oggi nessuno affronta per legge.

In alto. Mulino sul Po. Questo è meglio strutturato rispetto a quello raffigurato in basso. Ritengo che quello sia delsecolo XIX, questo del secolo XX: lo dimostrano soprattutto gli steccati che sono costruiti a regola d’arte.

In basso. Vecchio mulino sul Po del XIX secolo. I casotti di tavole di legno erano ricoperti con canne palustri. La barchetta che si vede serviva per i controlli attorno alle chiatte. La scritta devozionale, molto significativa riguardo i pericoli di quel lavoro, è: “Dio ti salvi”.

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Piccoli pioli della grande ruota fatta girare dalla turbina. I denti di questa ruota si incastravano con quelli più lunghi di una piccola ruota: erano gli ingranaggi che facevano girare la mola.A destra: mulino ad acqua dell’entroterra dove c’era un salto d’acqua. Il mulino è in muratura e la turbina, rispetto a quella sui fiumi, ha una grande ruota con numerose piccole pale.

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I mulini ad acquaDi mulini ad acqua nell’800 ve ne erano molti lungo i fiumi, in modo particolare sul Po, e altri dove c’erano salti d’acqua sia nelle montagne che nelle pianure.Il padre di mia madre Teresa, nonno Giuseppe Nagliati, era mugnaio del Po a S. Maria in Punta, frazione di Ariano Polesine. Quella località era ed è tuttora un piccolo paese che si trova nella punta del delta, là dove il Po di Venezia, detto il Po grande, si divide dal Po di Goro detto il Po piccolo. Una foto del 1895, riprodotta nel libro “I Santamarianti” di William Balsamo, mostra che in quell’epoca i mulinari di S. Maria in Punta erano dieci, tra i quali il nonno. Ho letto sul giornale “Repubblica “del 10 giugno 2005 un articolo di Jenner Meletti ove era scritto che i mulini ferraresi nel 1873 erano ben 173, schierati sui fiumi e in particolare a sud del Po di Venezia e del Po di Goro. Mio nonno scomparve nelle acque del fiume in una gelida notte del gennaio 1900, quando mia madre aveva quattro anni e zio Giacinto due. Per motivi familiari, giacché la nonna si era risposata, i due fratelli furono aiutati a crescere dalla zia Luigia, sorella del nonno. Questa zia che io chiamavo nonna, nata nel 1854 visse poi con noi fino alla morte nel 1934.Lei mi parlò parecchie volte dei mulini sul Po, tanto che quando da grande ne vidi uno, forse mantenuto per memoria, lo conoscevo già molto bene. Erano due chiatte galleggianti a fondo piatto, ciascuna con un palmento, unite fra di loro da una grande ruota con grandi pale, la turbina, che girava con la corrente dell’acqua. In aggiunta fra una barca e l’altra vi erano passerelle e catene di ferro, necessarie queste ultime per gli ormeggi. La prozia mi disse che all’esterno i mulini variavano come tipo di costruzione a seconda dell’estro e dei soldi del mulinaro, ma che all’interno invece erano pressoché uguali a quelli di Costa di Rovigo, poi di Valdentro e di Monselice. Tutto era di legno compreso gli ingranaggi, metodo superato nei primi anni del Novecento. La grande ruota di legno, fatta girare dalla turbina, aveva una corona di piccoli pioli sporgenti che andavano a incastrarsi con i denti lunghi di una piccola ruota, posta su un asse verticale, trasformando così la rotazione orizzontale della turbina in quello verticale che faceva girare la mola.La prozia Luigia mi spiegò anche tante volte cosa poteva essere successo a suo fratello, mio nonno Giuseppe. Diceva sempre le stesse cose. Dato che le macine erano poste dentro un casotto ben chiuso per proteggere dalla pioggia i cereali e le farine, siccome poi la macinazione produceva un gradevole tepore, la prozia ipotizzava che il nonno fosse uscito dal casotto mentre era un po’ accaldato, avesse preso uno choc per il freddo e, caduto in acqua, fosse annegato pur essendo un abile nuotatore. Allora molte protezioni di sicurezza non esistevano. I mulini ad acqua, costruiti in muratura, erano posti all’interno dei paesi, là

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Mulino ad acqua nella terraferma.

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dove vi erano salti di acqua continua. L’acqua muoveva una grande ruota con piccole pale, fatte in modo diverso a seconda della tradizione o delle necessità; era la turbina idraulica che faceva girare le macine. L’interno, anche in questi casi, era del tutto simile a quanto c’era negli altri mulini che io ho visto.L’altro mio nonno Giobatta Trevisan, lavorava nell’entroterra in un mulino ad acqua a Carrara San Giorgio, ora Due Carrare, in provincia di Padova. I suoi primi due figli, mio padre Giacomo e zio Demetrio, divennero mugnai iniziando a lavorare fin da ragazzetti e poi andandosene in giro per lavoro fin da giovanissimi, perché era morta la madre e il loro padre si era risposato.È certo che una volta i mugnai del Po, anche se non erano poveri, conducevano una vita travagliata sia per il lento processo di lavoro, sia perché dovevano essere presenti giorno e notte anche per fare la guardia ai prodotti dei clienti.Un’ultima annotazione che riguarda il detto, specie fra gli anziani, che “Il pane e la polenta di una volta erano migliori di quelli di oggi”. Al riguardo ricordo che mio padre, mugnaio di lungo corso, diceva che più è lenta la macinazione, più le farine mantengono il loro sapore, perché non vengono riscaldate durante la lavorazione. Penso che i vecchi abbiano ragione perché oggi tutto è velocizzato al massimo, le farine macinate nei cilindri di acciaio vengono insaccate ancora calde, perdendo la loro naturale fragranza.

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Glossario dei vocaboli veneti usati nel testo

Àlbara pioppo o albero frondosoÀlbio abbeveratoio o truogoloÀmoli piccole prugne tondeggiantiÀnara anitra in PolesineÀnca anche, pureAnguriàra dove si coltivano o si ammassano i cocomeriAnguriàro colui che vende i cocomeriÀrena anitra nel PadovanoBaéta pallina di terracotta colorata o di vetro Balanzìn l’attacco per il tiro di un secondo animale in aiuto per il tiroBàlzo pezzo di corda fatto con erbe palustri e con un nodo per ogni capoBanachéto banco piccolo, deschettoBàre carretto con strutture maggiorate adatte per grossi carichiBarèa tavola con stanghe per il trasportoBarozìn calesse senza cuscini e mantice di coperturaBasàna bottone da cappotto Bigàto vermeBindèche lippa, anche pindèche Bò bue o buoiBoàro bovaio, bovaroBombasìna tessuto di cotone poco pregiatoBràzo braccio o bracciataBrìgòlo archetto, arnese ad arco per i trasporti, che si poneva sulle spalle Brònza braceBrusàre bruciareBruscàre potareBugà bucatoBugàròlo tela grezza che tratteneva la cenere frammista ad acqua caldaBuratàra madia chiusa dal coperchioBuràto vaglio o buratto per separare la farina dalla cruscaBùso foro, bucoCàgna grande tenaglia formata da legno e ferroCalièro paiolo di rameCàmaradària tubo di gomma contenente ariaCanarèo pezzo dello stelo della canapaCanavèra canna selvatica simile al bambù

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Càneva cantina del vinoCanfìn lume a petrolioCànio canapaCanolàra la venditrice di cannelli per botti, le cànoleCànula stelo intero della canapaCapòn galletto eviratoCarezà stradina di campagna o fascia di terreno che divideva i campiCariolòn carriola con un piano grande, senza vascaCaròba carruba Casolìn bottegaio di generi alimentariCastelòn tutolo, torsolo della pannocchiaCastèo l’insieme dei sostegni e dei graticci sovrapposti per stendervi i bachi da setaCavaiòn mucchio di covoni a forma di carena rovesciataCavalière baco da setaCavedòni riparo di terra per trattenere l’acquaCavèssa fune per trattenere buoi, cavalli, anche cavèzzaCàza mestoloCiàpa voce del verbo prendere, presente, III p. sing.Cìncero (o cìnciaro) termine padovano per il gioco noto in italiano come “campana”Ciòca chiocciaCiòpa panetto, pagnottaCiùcio un piccolo dolce da succhiareCodèga o Coéga cotica del maiale Coeghìn cotechinoCòke oppure cok, il carbone che rimaneva dopo lo sfruttamento dei gasConéio coniglioCopertòn pneumaticoCòpo riparo triangolare agganciato al paiolo della polentaCòrgo stia cilindrica senza fondo con sportello superioreCortelà mattoni posti a coltello in modo che i dorsi facciano da pavimentoCortelàzo coltello rettangolare e pesanteCortelìna piccolo coltello ricurvo, roncolaCortèo coltello, cioè il coltro dell’aratro, coltello in generaleCovèrta gavello, piccolo arco di legno formante le ruote, anche cuèrtaCrosète biche formate da covoni di spigheCrùo crudo, non cottoCuèrcio coperchioCusinàre cuocere

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Cussì cosìDe diDòna donna, anche voce del verbo donareEl ilFachìn riferito alle tazze degli elevatoriFàia covoneFàlsa falcia, anche falzaFar sù trasformare la carne di maiale in salamiFasinàro mucchio di fascine, le fasìneFàssa fasciaFen fienoFòlo mantice di copertura di un calesseForchèto la forca che serviva per svellere le bietole, anche forca a due rebbiFormènto frumentoFormentòn maisFornèla focolare esterno per grossi recipientiFrànco lira, la vecchia monetaFrisòni grossi cavalli da tiroGa voce del verbo avere, tempo presente. Mi go, ti te ghe, lu el ga, ecc.Ganàssa ganasciaGhe è anche pronome, a lui - gliGiòza goccia, anche giosaGiustàre aggiustareGnàro nidoGomìero vomeroGradèla graticolaGramustìn vinaccioliGràn grano, frumento, anche qualsiasi granelloGranadèo piccola scopa senza manicoGraspaiòle bucce dell’acino d’uvaGràspe ciò che rimane dopo la pigiatura dell’uvaGraspìa vinello ottenuto dalle graspe messe nell’acquaGrisòla graticcio di erbe palustri, arellaGrùpia greppiaGuièlo pungolo dei bovariGuzàre affilare un coltello, una falce, ecc.In vàca quando c’è un risultato pessimoIncoconamènto far entrare di forza il cibo in gola

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Incuciàrsi abbassarsiLa spèra controllo con una candela se un uovo ha il germeLasàre lasciareLavèzo paiolo di rameLevà un pane crudo con lievitoLoàme letame, loàmaro è il letamaio grandeLòra imbuto rettangolare per bottiLòto zollaLugàneghe collana di salsicceLùzia LuciaMagnàre mangiareManàra scure, accettaMàre madre, anche mareMartelìna martello con penne affilate o a puntaMàs-cio maschio, maialeMasègna grossa lastra di selce adatta per la pavimentazioneMasenàre macinareMàsera macero nel PadovanoMàsero macero nel Rodigino o maschio dell’anitraMastèla mastelloMastelòn grande mastelloMàto pompa per attingere acquaMàza grosso martello di legno, chiamato anche màzo, anche ammazza,Meànda contratto in natura per la mietitura e la trebbiaturaMèjo meglioMenarìn piccola ascia da muratoreMèriche patate dolci, patate americaneMèsa madia senza coperchio, serviva per impastare la farinaMèscola mestolo di legnoMéza metàMezàna mezzo maiale in lunghezzaMistòca castagnaccioMolèta arrotino o piccola molaMoletìn un arrotino giovanissimoMoràro gelsoMoschìn moscerinoMòscolo trottola nel Padovano Mulìn mulino

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Munàri grumi di farina non cotta nella polentaMunàro mugnaio, al plurale munariMùnega monaca o oggetto di legno che serviva a scaldare le coperte, scaldinoMusso asino Nòsa noceÒbligo bracciante con lavoro fissoÒio olioOnto strutto o sporco di grassoÒnza oncia, misura per i semi dei bachi da setaÒvo uovoPàia pagliaPaiàro pagliaioPaiaròlo l’imboccatore delle spighe nel battitore della trebbiatricePaiòn pagliericcio fatto con le brattee del maisPalànca dieci centesimi, moneta in ramePalpèto pesca fatta solo con le maniPaltàn fangoPanàro tavola della polentaPanòcia pannocchiaPapazète piadine fatte con farina di castagnaPapazòn farina di castagna mangiata senza alcuna lavorazionePàre padre, anche verboParòlo paiolo di rameParolòn un grande paioloParòn padronePavéia libellula Pavéio aquilone Pecòlo piccioloPelagròso sfaticatoPénda pergolatoPénole cuneiPeòcio pidocchioPèrtega pertica o misura di areePèsto lardo tritato su un tagliere con un grosso coltello detto da lardoPéza rappezzo piccolo, straccioPézo peggioPiànta cavicchio per battere sul filo delle falci, anche pianta e verboPiéra cote per affilare, custodita entro un corno pieno d’acqua e appeso alla cintola

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Pìnza focaccia di vari tipi cotta sul focolarePiriòto imbutoPisòn trottola nel Polesine Pisorìn piccola trottola col picciolo Pitòn tacchinoPlansìsta vaglio per la farinaPòlpe la fettuccia di bietole dopo la lavorazione per ottenere lo zuccheroPòmo mela – pomi dessi varietà di melePonàro pollaioPorsèo maiale, anche porzèoPòsta cella per i bovini ed equiniPozzàli mattoni sagomati che servono per fare i pozzi Pua bambola Quàrta contenitore della quarta parte in volume dello staioRacoéta raganella, strumento di legno Rài raggiRapegàre spianare il terreno arato con l’erpice, cioè con la rapegàraRecèti racimoliRènga aringaResentàre risciacquareRivàle fila di viti stese fra gli olmi che dividevano i campiRòla piana del focolare ove si faceva il fuocoRossèto una malattia dei chicchi di frumento che sviluppava una polvere rossastraRuinàzi calcinacci, metaforicamente così chiamati i fegati e i cuori dei gallinaceiSalgàro saliceSànca anche zanca, come in italiano, tondino di ferro con l’estremità sagomata a U Savère sapereSbrancà mannello, o quanto può contenere una manoSbusàre bucareScàgno tavola di legno che le lavandaie ponevano lungo un corso d’acqua per il risciaquoScàia scaglia, pezzo di pietra o di sassoScalòn scala a tre gambe di cui una mobileScalòne nome polesano del gioco della campana Scanarèo torsolo di pannocchia o pezzi dello stelo legnoso della canapaScarpèo scalpelloScarsèa tascaScartà teglia rettangolare per fare il castagnaccio o altri dolciScartozàre levare le brattee, scartòzi, della pannocchia

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Schisòto pinza di sola farina di grano, anche schizòtoSc-iarezàre diradare le piantine di bietole o di maisSc-iòne anelli di rinforzo o per attaccare cordeScopetòn aringa maschio o femmina senza uovaScùria frusta del carrettiereSegàzo sega a una sola maniglia di presaSeghèto falce messoriaSemènze le piccole uova dei bachi da setaSengiòn pista o circuito segnato per terra Sgàlmare zoccoli con suola di legno chiodato Sguaratòn l’uovo andato a maloSgùba sgorbiaSìsola cicciolo, anche sìzolaSlisegàre sdrucciolare, scivolare sul ghiaccio Slotàre rompere le zolle col mazzuoloSmeiàsa pinza con la melassaSolcàle cunetta per raccolta urine nelle stalleSomènza chiodino dei calzolaiSoramàn pialla per raddrizzare le coste degli assi di legnoSpàgna erba medicaSpàgo sforzìn spago dei calzolaiSpenamènto levare le penne ai volatiliSpèo punteruoloSpezanèla il chicco di mais ridotto in più pezziSpinòto pezzo di ferro da infilare nelle cavitàSpunciòn grosso ago da infilare in un sughero per pungere i salamiStàro cilindro per misurare a volume i prodotti della terraStòpa stoppa, cascame della canapaStracaganàse castagne seccheStramezàra paratia che divideva le varie celle degli animali nelle stalleStropàro salice i cui rami servivano ai contadini per fare legacci, le stròpeStùfo stancoSùgolo polenta di mosto e farina di granoTaiàre tagliareTamisàre setacciare col tamìsoTasére tacereTavoliére la tavola della polentaTimonèla calesse con cuscini, ruote ricoperte di gomma e il mantice di copertura

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Tociàre bagnare pane e polenta nel sugo, el tòcioTrìmi righe di piante di frumento, mais, canapa, ecc., anche trìniVedèo vitelloVègna vignaVera come in italiano, ghiera attorno alla bocca del pozzo, detta anche pigna, corona, armilla Versùro aratroVérze apre o gli ortaggi verzeVetùro madia lunga senza coperchio, adatta per pigiare l’uva o per pulire il maialeVolatìva la polvere più sottile che durante la macinazione si disperdeva nell’ambienteZànca guida di fil di ferro per far rotolare i cerchioni nei giochi dei bambiniZapàre zappareZénare cenereZocàra mucchi di zòche cioè di ceppi pronti per bruciareZogàre giocare Zògo gioco Zucàra pianta della zucca, il frutto zuca

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Indice

Introduzione

Prefazione alla nuova edizione Costa di Rovigo 1925- 1929 - Il mulino della mia giovinezza - L’ambiente di Costa di Rovigo - I gallinacei - I palmipedi - Il maiale - I conigli - Il baco da seta - Il bucato - Fornitura dell’acqua

Valdentro di Lendinara 1930 - Premessa - Il calzolaio

San Bellino - L’ambiente socio culturale - I conduttori agricoli - I trentottisti - La mietitura - La trebbiatuira - Motore a vapore - Il rifornimento dei covoni - La raccolta del frumento - La paglia - La pula - La canapa - La barbabietola e lo zuccherificio

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- Il granoturco - Il prato - La fattoria Chinaglia - Prime arature e semine - Lavori invernali - L’uva - L’ambiente economico - Il pane - La polenta - Gli orti e i cortili - La fruttivendola - Il carradore - Il maniscalco - Il fabbro - Un artigiano particolare - Il meccanico di biciclette - Gli ambulanti

Lo straccivendolo L’aggiustapiatti La misurazione di teleria La misurazione dei pesi La canolara L’arrotino

I giochi dei bambini e dei ragazzetti - I disegni di Bruno - I cerchi - La trottola - La corda - Le scaglie - La lippa - Il circuito - La campana - Le palline - Mosca cieca e nascondino - La raganella - Passatempi

Santo Bellino - La venerazione verso questo Santo

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- La sua storia - Ipotesi e tradizioni del Santo - Il paese e la chiesa del Santo

I mulini con macine - Il fornello - Il gasogeno - Il gasometro - Il motore a gas povero - L’asse orizzontale di trasmissione - Gli ingranaggi - Il cinghione

L’elettricità sostituisce il gas povero I palmenti - L’impalcato - La macina di pietra - Il tamburo, la tramoggia e la guantiera

La macinazione - La qualità dei cereali - Il costo della macinazione - Gli inconvenienti provenienti dalle macine

I mulini ad acqua Glossario dei vocaboli veneti usati nel testo

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