Giorni Rappresentativi-Walt Whitman

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GIORNI RAPPRESENTATIVI Walt Whitman ISPIRAZIONE DI UN' ORA FELICE Tra i boschi, 2 luglio 1882. Se devo farlo, non posso più indugiare. Note di diario, appunti di guerra (18621865), impressioni di paesaggio (1877-81) e successive note sul West e sul Canadà affastellate alla rinfusa e legate in un sol fascio con un grosso spago - tutto così incongruo, pieno di salti e lacune - ed ecco che quest'oggi, quest'ora (e che giornata! che ora quella che sta passando! il lusso dell'erba ridente e della brezza, lo sfarzo del sole e del cielo, e una temperatura perfetta, che m'empiono anima e corpo come mai prima) viene a me la risoluzione, il mandato anzi, di tornare a casa svolgere quel fascio e sdipanare appunti e frammenti di diario così come sono, grandi e piccoli, uno dopo l'altro, in pagine stampate e lasciare che le lacune e le assenze di nessi del mélange si sistemino da sé. Servirà comunque a illustrare una fase dell'umanità, e quei pochi giorni e ore della vita di cui prendiamo nota (e questi non per adeguata valutazione o convenienza, ma per mero caso). Probabilmente c'è anche un altro punto, e cioè che dedichiamo lunghi preparativi a qualche nostro progetto, facendo piani, scavando e costruendo, per poi, giunto il momento della messa in opera vera e propria, trovarci affatto impreparati e gettar tutto in pentola, lasciando che la fretta e la nudità raccontino la loro storia meglio di una sapiente elaborazione. Ad ogni modo io obbedisco all'ispirazione della

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GIORNI RAPPRESENTATIVI Walt Whitman

ISPIRAZIONE DI UN' ORA FELICE Tra i boschi, 2 luglio 1882. Se devo farlo, non posso più indugiare. Note di diario, appunti di guerra (18621865), impressioni di paesaggio (1877-81) e successive note sul West e sul Canadà affastellate alla rinfusa e legate in un sol fascio con un grosso spago - tutto così incongruo, pieno di salti e lacune - ed ecco che quest'oggi, quest'ora (e che giornata! che ora quella che sta passando! il lusso dell'erba ridente e della brezza, lo sfarzo del sole e del cielo, e una temperatura perfetta, che m'empiono anima e corpo come mai prima) viene a me la risoluzione, il mandato anzi, di tornare a casa svolgere quel fascio e sdipanare appunti e frammenti di diario così come sono, grandi e piccoli, uno dopo l'altro, in pagine stampate e lasciare che le lacune e le assenze di nessi del mélange si sistemino da sé. Servirà comunque a illustrare una fase dell'umanità, e quei pochi giorni e ore della vita di cui prendiamo nota (e questi non per adeguata valutazione o convenienza, ma per mero caso). Probabilmente c'è anche un altro punto, e cioè che dedichiamo lunghi preparativi a qualche nostro progetto, facendo piani, scavando e costruendo, per poi, giunto il momento della messa in opera vera e propria, trovarci affatto impreparati e gettar tutto in pentola, lasciando che la fretta e la nudità raccontino la loro storia meglio di una sapiente elaborazione. Ad ogni modo io obbedisco all'ispirazione della

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mia ora felice, che appare curiosamente imperativa. E forse finirò per pubblicare *, se non altro, il più immediato, spontaneo e frammentario libro che sia mai stato stampato. * Le pagine 1-35 corrispondono quasi parola per parola a una lettera da me casualmente scritta in risposta alle insistenze di un amico. Riporto di seguito alcune tristi esperienze. La guerra di tentata secessione è stata ovviamente l'evento distintivo del mio tempo. Alla fine del 1862, per poi continuare senza interruzione fino a tutto il '65, cominciai a visitare i malati e i feriti dell'esercito sia sui campi di battaglia che negli ospedali di Washington e dintorni. Sin dal primo momento tenni dei taccuini su cui annotare li per li nomi, circostanze, cose di cui vi fosse particolare bisogno, ecc., si da rinfrescarle alla memoria. Qui registrai casi, persone, cose viste o accadute sul campo, presso il letto dei feriti e non di rado accanto ai cadaveri dei caduti. Alcune furono scarabocchiate in fretta dietro storie da me udite e annotate mentre osservavo quelle scene, o aspettavo, o mi prendevo cura di qualcuno. I taccuini rimasti sono ora dozzine, e formano una storia di quegli anni tutta particolare, per me solo, ricca di associazioni che non potrebbero mai esprimersi né con la parola né col canto. Sarebbe bello trasmettere al lettore quanto è legato a questi appunti macchiati e sgualciti, ognuno di un foglio o due piegati e ripiegati per portarli in tasca, e tenuti insieme con uno spillo. Li lascio così, come li gettai da parte dopo la guerra, segnati qua e là da più di una macchia di sangue, scritti in fretta, talvolta in ospedale, non di rado nell'eccitazione dell'incertezza, della disfatta, di una marcia, dell'azione o della preparazione ad essa. La più parte delle pagine da 44 a 145 è una copia fedele di quei drammatici taccuini macchiati di sangue. Molto diversi sono per lo più i ricordi che seguono. Poco dopo la fine della guerra fui colpito da un attacco di paralisi che ebbe a prostrarmi per diversi anni. Nel 1876 cominciai a superare la fase peggiore. Passai da allora diverse stagioni, anzi parti di stagione, massime l'estate, in un appartato rifugio nella contea di Camden, New Jersey -Timber Creek, piccolo fiume (si stacca dal grande Delaware, dodici miglia più in là)- con solitudini primitive, serpeggiar d'acque, sponde isolate e boscose, sorgenti d'acqua dolce e tutti gli incanti che uccelli, erba, fiori selvatici, conigli e scoiattoli, vecchie querce, noci, ecc. possono offrire. In questi scorci di tempo e in questi luoghi fu scritto il diario da pag. 147 in poi. La MISCELLANEA che segue raccoglie tutte le scartoffie su cui sto riuscendo a metter ora le mani, brani scritti in passato in momenti diversi, imbrigliandoli tutti assieme come pesci nella rete. Penso che il mio desiderio di pubblicare l'intera raccolta così come si trova sia dovuto in primo luogo a quella eterna tendenza a perpetuare e preservare che è ovunque latente in Natura, inclusi gli scrittori; e in secondo luogo, per dar veste di simbolo a due o tre interni tipici, personali e non, scelti tra le miriadi del mio tempo, la metà del secolo diciannovesimo nel Nuovo Mondo, uno strano, sconnesso, meraviglioso tempo. Ma con ogni probabilità il libro è scritto senza alcun proposito di cui possa darsi una enunciazione definita (N.d.A.).

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RISPOSTA A UN AMICO INSISTENTE Mi chiedi notizie, dettagli dei miei primi anni-della mia genealogia e parentela, in particolare delle donne della mia ascendenza e la lontana origine olandese del ramo materno - della regione dove nacqui e crebbi, e mio padre e mia madre prima di me, e i loro prima di loro - con l'aggiunta magari di una parola su Brooklyn e New York, e sui periodi che ebbi a passarvi da ragazzo e da giovane. Dici di volere questi particolari soprattutto in quanto antecedenti e embrioni di Foglie d'Erba. Benissimo; ne avrai se non altro qualche campione. Ho pensato spesso al significato di simili cose - che sia possibile abbracciare e conchiudere argomenti del genere spingendo l'esplorazione direttamente dietro le cose, molto indietro forse, fin entro la loro genesi, gli antecedenti e i vari stadi di accumulazione. Poi, tempo fa, come fortuna volle, presi a ingannare il tedio di una settimana di infermità e isolamento collazionando queste medesime note, ma per un altro scopo, non ancora realizzato e probabilmente ormai abbandonato; e se vorrai accontentarti di esse così come sono, semplicemente autentiche nelle date e nei fatti, e raccontate alla mia garrula maniera, eccotele. Non esiterò a fare degli estratti, poiché mi attacco a tutto ciò che può risparmiarmi fatica; ma costituiranno sempre la miglior versione di quanto è mia intenzione dire. GENEALOGIA - VAN VELSOR E WHITMAN Gli ultimi anni del secolo scorso trovarono la famiglia di mia madre, i Van Velsor, nella loro fattoria a Cold Spring, Long Island, nello stato di New York, presso il confine orientale della contea di Queens, a circa un miglio dal porto.* La mia famiglia paterna, probabilmente la quinta generazione dai primi stanziamenti nel New England, coltivava in quello stesso periodo un suo appezzamento di terra a un due o tre miglia di distanza, a West Hills nella contea di Suffolk - (e che bel podere era, 500 acri, tutta terra buona, leggermente in pendio a est e a sud, circa un decimo piantato a bosco, con una quantità di vecchi alberi maestosi). Il nome dei Whitman deve indubbiamente la sua apparizione negli stati dell'Est, da cui diramò poi ad Ovest e a Sud, a un certo John Whitman, nato nel 1602 nella Vecchia Inghilterra dove crebbe, si sposò ed ebbe il primo figlio nel 1629. Venne in America con la True Love, nel 1640, e visse a Weymouth, Massachusetts, luogo che doveva divenire il focolaio di tutti gli americani del New England di quel nome: morì nel 1692. Suo fratello, il Rev. Zechariah Whitman, arrivò anche lui con la True Love, in quello stesso periodo o immediatamente dopo, e visse a Milford, Connecticut. Un figlio di questo Zechariah, a nome Joseph, emigrò a Huntington, Long Island, dove si stabilì definitivamente. Il Dizionario genealogico del Savage (vol. IV, p. 524) dà la famiglia Whitman stabilita a Huntington, tramite codesto Joseph, prima del 1664. Èormai certo che da quel

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momento e da quel Joseph cominciarono a irradiarsi i Whitman di West Hill e tutti gli altri della contea di Suffolk, me incluso. Sia John che Zecheriah andarono e tornarono dall'Inghilterra varie volte; avevano famiglie numerose, e parecchi dei loro figli nacquero nell'antica patria. Abbiamo anche notizia del padre di John e Zechariah, Abijah Whitman, con il quale si risale al 1500, ma poco sappiamo sul suo conto, tranne che lui fu per qualche tempo in America. Queste annose reminiscenze genealogiche mi occorrono in modo così vivo grazie a una visita da me compiuta non molto tempo fa (a 63 anni) a West Hills e ai cimiteri dei miei antenati di ambo i rami. Traggo quanto segue da note prese allora, nel luogo stesso della mia visita: * Long Island fu colonizzata dapprima dagli Olandesi sul lato occidentale e poi dagli Inglesi su quello orientale -la linea divisoria tra i due gruppi nazionali restava un poco ad ovest di Huntington, dove viveva la famiglia di mio padre e dove nacqui io (N.d.A.). I CIMITERI DEI VECCHI WHITMAN E VAN VELSOR 29 luglio 1881. Tornato a Long Island per una visita di una settimana ai luoghi dove sono nato, a trenta miglia da New York, dopo un'assenza di più di quarant' anni (tranne una breve visita per accompagnarvi un'ultima volta mio padre, due anni prima che morisse). Girato per i vecchi luoghi familiari, osservando minuziosamente, meditando, indugiando nei miei pensieri. Tutto tornava alla memoria. Mi recai all'antica residenza dei Whitman sulla collina, e di lì volsi lo sguardo ad est, piegando quindi a sud sulla bella distesa di terre ché erano state di mio nonno (1780) e poi di mio padre. Là era la casa nuova (1810), con la gran quercia di centocinquanta, forse duecento anni; là il pozzo, e l'orticello un po' in discesa, e a breve distanza, ancora in piedi, persino i resti ben conservati della casa del mio bisnonno (1750-60) con le sue travature possenti e i soffitti bassi. Lì presso, un boschetto solenne di noci neri alti e vigorosi, bellissimi, apollinei, per certo figli e nipoti di noci già esistenti nel 1776 se non prima. Dall'altro lato della strada si stendeva il famoso pometo di più di venti acri, alberi piantati da mani ormai da tempo sfatte nella tomba (quelle di mio zio Jesse), ma molti ancora evidentemente capaci di metter fuori ogni anno fiori e frutti. Scrivo ora queste righe seduto su una vecchia tomba (senza dubbio di almeno un secolo fa) sulla collina dove sono sepolti i Whitman di molte generazioni. Cinquanta tombe, forse più, sono chiaramente individuabili; altrettante hanno perso ogni forma nello sfacelo del tempo- tumuli appiattiti, pietre spezzate e sbriciolate, coperte di muschio - la collina sterile e grigia e fuori le macchie compatte di castagni, e il silenzio, variato appena dall'uggiolìo del vento. Ciascuno di codesti vecchi cimiteri, di cui Long Island è ricca, ha in sé la più profonda eloquenza di cui sermone o poema sia capace; che cosa dunque non sarà stato questo per me? L'intera storia

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della mia famiglia con la sua successione di legami dal primo stanziamento sino ad oggi narrata qui: tre secoli concentrati in questo sterile acro di terra. Dedicai l'indomani, 30 luglio, ai luoghi di mia madre, e ne rimasi se è possibile ancor più penetrato e colpito. Scrivo questa paginetta nel cimitero dei Van Velsor presso Cold Spring, il piú significativo luogo d'inumazione che si possa immaginare, privo del minimo ausilio dell'arte e tuttavia quanto superiore all'arte stessa, terra sterile, un pianoro di mezz'acro in gran parte brullo a sommo di un colle, e tutt'intorno siepi di sterpaglia e alberi rigogliosi e fitti boschi, un luogo assai primitivo, niente visitatori, niente strade (non si arriva in carrozza quassù, i morti bisogna portarveli a piedi, e a piedi seguirli)- quaranta, forse sessanta tombe ancora ben visibili, e altrettante pressoché cancellate. Qui sono sepolti mio nonno Cornelius e mia nonna Amy (Naomi), e un gran numero di parenti stretti o remoti, del ramo di mia madre. Il quadro nell'insieme, che l'osservassi in piedi o seduto, l'odore delicato e selvaggio dei boschi, un rado piovigginare, l'atmosfera emotiva del luogo e le reminiscenze racchiuse in esso, erano perfetto accompagnamento. LA CASA MATERNA Da questo antico luogo di tombe scesi per un quattro o cinquecento iarde sino alla dimora dei Van Velsor, dove nacque mia madre (1795) e dove da bambino e poi da ragazzo non c'era stato angolo che non mi fosse familiare. Era stata, a quel tempo, una costruzione lunga e disorganica con muri a listelli di legno grigio scuro, con capannoni, recinti pel bestiame, un bel granaio e grandi spiazzi carrabili Di tutto ciò ora non una traccia; tutto era stato abbattuto, cancellato, l'aratro e l'erpice passati sulle fondamenta, gli spiazzi e ogni altra cosa, per molte estati - chiuso adesso nel giro di una staccionata, con biada e trifoglio che vi crescono come in qualsiasi altro buon campo. Solo una gran buca, residuo della cantina, con qualche mucchietto di pietre sbriciolate tutte verdi d'erbe e di gramigna, restava a indicare il luogo. Persino il vecchio ruscello e la fonte un tempo così ricchi d'acqua sembravano essersi esauriti, dileguati. L'intera scena, con tutto ciò che ridestava in me, ricordi dei miei giovani giorni trascorsi in quello stesso luogo mezzo secolo prima, l'ampia cucina e il gran camino e, accanto, il salotto, il mobilio semplice, i pasti, la casa piena di gente allegra, il dolce viso di vecchia di mia nonna Amy nella sua cuffia quacquera, mio nonno «il maggiore», gioviale, rubizzo, ben piantato, con quella voce sonora e la fisionomia caratteristica, tali cose insieme a quanto mi si offriva allo sguardo, fecero di quella mezza giornata l'esperienza più viva di tutta la mia gita. Lì infatti, in quel salubre ambiente di colline e boschi, crebbe la mia carissima madre, Louisa Van Velsor - (sua madre, Amy Williams, della congrega dei Quacqueri o Amici - la famiglia Williams, sette sorelle e un fratello - marinai il padre e il fratello, e morti ambedue in mare) I Van Velsor erano noti per i loro bei cavalli, bestie di razza che gli uomini allevavano e addestravano. Mia madre da giovane era un'ardita amazzone, e non passava giorno che non montasse a cavallo. Quanto al

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capofamiglia in persona, ritengo che l'antica razza olandese, così ben innestata nell'isola di Manhattan e nelle contee di Kings e Queens, non abbia mai esibito campione più caratteristico e più completamente americanizzato del Maggiore Cornelius Van Velsor. DUE VECCHI INTERNI DI FAMIGLIA Ecco due esempi di vita domestica e privata al centro di Long Island, a quel tempo o poco prima: «All'inizio di questo secolo i Whitman vivevano in una lunga casa di campagna di un piano e mezzo, costruita con travi poderose che reggono ancora. Una estremità della casa era costituita da una grande cucina sempre sotto una cappa di fumo, con un vasto focolare e un gran camino. L'esistenza della schiavitù nello stato di New York a quel tempo, e il fatto che la famiglia possedesse una dozzina o quindicina di schiavi addetti ai servizi della casa e dei campi, conferiva all'insieme un aspetto patriarcale. Verso il tramonto si vedevano in quella cucina sciami di negretti accoccolati in circolo sul pavimento cenare con dolce di granturco e latte. Tutto nella casa, dal cibo alla mobilia, era rozzo ma essenziale. Non si sapeva cosa fossero tappeti, stufe o caffè; tè e zucchero erano per le donne soltanto. Vivaci fuochi di legna davano calore e luce alle notti d'inverno. C'era grande abbondanza di carne di porco, di manzo e di pollo, e di tutte le verdure e i cereali comuni. Il sidro era la bevanda abituale degli uomini, e veniva presa ai pasti. Gli abiti erano per lo più tessuti in casa. Uomini e donne viaggiavano a cavallo. Ambo i sessi svolgevano lavori manuali - gli uomini nei campi, le donne a casa o nei pressi. I libri erano scarsi. La copia annuale dell'almanacco era un avvenimento, e veniva letta e riletta nelle lunghe sere d'inverno. Vorrei anche ricordare che ambedue queste famiglie vivevano abbastanza vicino al mare da poterlo osservare dalle alture, e ascoltare nelle ore di calma il muggito dei marosi: di notte, dopo una tempesta, questi avevano un suono tutto particolare. Tutti poi, maschi e femmine, usavano scendere sovente in gruppi alla spiaggia, per sostarvi o bagnarsi; gli uomini talvolta per spedizioni pratiche, come tagliar fieno salato, raccoglier telline e pescare». (dalle NOTE di John Burroughs) «Gli antenati di Walt Whitman, sia dal lato materno che paterno, tenevano buona tavola, curavano l'ospitalità, le forme e la propria reputazione sociale nella contea, che era eccellente, ed avevano spesso personalità spiccate. Mi piacerebbe, spazio permettendo, soffermarmi su alcuni di essi che mi paion degni di una menzione speciale, soprattutto tra le donne. La bisnonna di parte paterna, ad esempio, era un donnone dal colorito bruno che visse fino a tardissima età. Fumava, cavalcava come un uomo, sapeva domare la bestia più ombrosa; più tardi, rimasta vedova,

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usava recarsi ogni giorno nelle sue terre, sovente in sella, a dirigere il lavoro degli schiavi con un linguaggio in cui, all'occasione, non erano risparmiate le bestemmie. Le due nonne di primo grado di Whitman furono donne superiori, nel senso migliore della parola. La nonna materna, Amy Williams, da ragazza era una quacquera, o "amica", di carattere dolce e sensibile, donna di casa per indole, e di natura profondamente intuitiva e spirituale. L'altra (Hannah Brush) era un carattere egualmente nobile e forse più forte, ebbe vita lunghissima e figliolanza numerosa, era una signora per natura, in gioventù aveva fatto la maestra di scuola, aveva una grande solidità di mente. Lo stesso W. W. tiene in grande considerazione le donne della sua famiglia». (lo stesso) Da questi antecedenti di ambienti e persone nacqui io, il 31 maggio 1819. Mi soffermerò ora un poco sulla località in sé, dal momento che le successive fasi della mia infanzia, adolescenza, giovinezza e maturità, trascorsero tutte in questa isola di Long Island che sento a volte quasi entrata a far parte di me stesso. Vi ho vagabondato da ragazzo e poi da uomo; ho vissuto, si può dire, quasi in ogni parte di essa, da Brooklyn alla punta di Montauk. PAUMANOK. LA MIA INFANZIA E LA MIA GIOVINEZZA Degna invero di completa e minuziosa attenzione questa Paumanok (per dare al luogo il suo nome indigeno * ) che si slunga ad est attraverso le contee di Kings, Queens e Sufflok, per un totale di centoventi miglia- a nord, lo stretto di Long Island, una splendida, varia e pittoresca serie di insenature, bracci ed espansioni marine per un centinaio di miglia fino a punta Oriente. Dalla parte dell'Oceano la grande baia meridionale punteggiata di innumerevoli secche, piccole per lo più, alcune piuttosto ampie, qua e là lunghe creste di sabbia distanti da riva da un mille iarde a un miglio e mezzo. Altrove invece, come accade a Rockaway e nell'estrema parte orientale lungo gli Hamptons, la spiaggia cinge direttamente l'isola, col mare che vi si precipita sopra senza impedimenti di sorta. Diversi fari sulle coste orientali: una lunga storia di tragici naufragi, alcuni anche di questi ultimi anni. Da ragazzo io vivevo nell'atmosfera e nelle tradizioni di molti di codesti naufragi - di uno o due fui anzi quasi spettatore. Fu al largo della spiaggia di Hempstead, per esempio, che avvenne nel 1040 il disastro della nave Mexico (cui si allude ne "I dormienti", in F. d'e.); e a Hampton, qualche anno dopo, la distruzione del brigantino Elizabeth, una cosa terribile, durante una delle peggiori burrasche invernali; vi perse la vita Margaret Fuller, col marito e il figlio. All'interno dei banchi e delle secche questa baia meridionale è ovunque relativamente poco profonda; la superficie negli inverni più freddi tutta una spessa coltre di ghiaccio. Da ragazzo mi recavo sovente con uno o due compagni su quei

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campi gelati, con una slitta a mano, ascia e fiocina, a caccia di nidi di anguille. Scavavamo buche nel ghiaccio, capitando a volte su vere miniere di anguille, e riuscendo a riempire i nostri cestini di capitoni grassi, grossi, dalla carne bianca e dolce. Il paesaggio, il ghiaccio, tirar la slitta, scavar buche e fiocinare anguille, ecc. costituivano naturalmente, per dei ragazzi, il più gran divertimento del mondo. Le rive di questa baia, d'estate e d'inverno, e le imprese della mia fanciullezza sul loro sfondo sono una trama che corre per tutte le mie F. d'e. Un altro dei miei divertimenti preferiti a quel tempo erano le battute sulla baia, d'estate, alla ricerca di uova di gabbiano (i gabbiani depongono due o tre uova alla volta, un po' più grandi di un mezzo uovo di gallina, direttamente sulla sabbia, e li le lasciano a schiudersi col calore del sole). Anche l'estremità orientale di Long Island, la regione della baia Peconic, mi era parecchio familiare - ho fatto più di una volta il giro per mare dell'isola Shelter, scendendo fino a Montauk - e quante ore non ho trascorso sulla collina della Tartatuga all'estremo capo dell'isola, presso il vecchio faro, spaziando con lo sguardo sull'incessante rollio dell'Atlantico. Mi piaceva spingermi fin laggiù a fraternizzare con i pescatori di spigole o con le squadre annuali di pescatori di branzini. M' accadeva di incontrare a volte sulla penisola di Montauk (lunga una quindicina di miglia, e tutta buon pascolo) quegli strani, incolti e semibarbari pastori che vivevano allora incuranti di ogni forma di vita sociale e civile, sorvegliando su quei ricchi pascoli vaste mandrie di cavalli, pecore e bovini di proprietà degli agricoltori delle città dell'Est; e talora anche qualcuno degli ultimi indiani o mezzosangue rimasti ancora nella penisola di Montauk, ma che ora credo completamente estinti. Più al centro dell'isola si trovavano le ampie pianure di Hempstead, a quel tempo (1830-40) molto simili a praterie, aperte, disabitate, piuttosto sterili, coperte di erbacce e cespugli di sorbo, eppur ricche di ottimo foraggio per il bestiame, specie vacche da latte, che vi pascolavano a centinaia, migliaia a volte, e si vedevano a sera (anche le pianure erano proprietà cittadina, e questo era l'uso che ne faceva la comunità) prendere la via di casa diramandosi regolarmente al punto dovuto. Più di una volta mi sono trovato fuori, verso il tramonto, ai bordi di queste praterie; e rivedo ancora con gli occhi della fantasia le interminabili processioni di mucche, e riodo la musica dei campani di latta o di rame, vicini o distanti, e respiro ancora la fragranza di quell'aria serotina dolce e lievemente aromatica, e seguo attento il tramonto. Nella medesima regione dell'isola, ma più verso est, si stendevano vaste zone centrali di pini e querce nane (era qui che in genere si faceva il carbone) monotone e sterili. Ma quante belle giornate e mezze giornate non ho passato a vagabondare per quei viottoli solitari, respirando profondamente il particolare aroma selvatico. Qui, come in ogni angolo dell'isola e delle sue coste, ho vissuto ad intervalli per molti anni, in tutte le stagioni, girando ora a cavallo, ora in barca, ma per lo più a piedi (ero un buon camminatore a quei tempi), assorbendo campi, rive, incidenti di mare, tipi umani, la gente della baia, contadini, piloti - ebbi sempre molte amicizie tra questi ultimi e tra i pescatori - ogni estate facevo escursioni in barca - e sempre mi piacque la nuda spiaggia a sud, che ha visto alcune delle ore più felici della mia vita sino ad oggi.

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Mentre scrivo, a distanza di quarant'anni e più, l'intera esperienza rifluisce in me - il cullante sciabordìo delle onde, l'odore della salsedine - le gioie della fanciullezza, la pesca dei molluschi a piedi nudi, coi calzoni rimboccati - spinger la barca giù per il ruscello - il profumo dei prati di carice - la chiatta del fieno, le spedizioni per pesci e molluschi da mangiare a zuppa; o, in anni più recenti, brevi viaggi per la baia di New York e anche fuori, nelle barche dei piloti. In quegli stessi anni inoltre, quando cioè vivevo a Brooklyn (1836-50), me ne andavo regolarmente ogni settimana durante la buona stagione a Coney Island, allora una lunga spiaggia nuda e deserta, tutta per me, dove mi piaceva, dopo il bagno, fare gran corse su e giù sulla sabbia dura declamando per ore Omero o Shakespeare alla risacca e ai gabbiani. Ma sto procedendo troppo rapidamente, e debbo mantenermi nei limiti del tracciato. * «Paumanok (o Paumanake, o Paumanack, nome indiano di Long Island): oltre cento miglia di lunghezza, a forma di pesce - gran copia di coste, sabbiose, battute dalle tempeste, poco invitanti, l'orizzonte sterminato, l'aria troppo forte per i malati, e le sue baie splendide riserve per gli uccelli acquatici, i campi a sud ricoperti di fieno salato, il suolo in genere duro, ma buono pei carrubi, i meli e il morasco, e ricco di innumerevoli sorgenti della più dolce acqua del mondo. Anni fa, tra la gente della baia - una razza forte e selvaggia ora estinta, o piuttosto radicalmente mutata-un nativo di Long Island veniva definito un Paumanackese, o Creolo-Paumanackese» (John Burronghs) (N.d.A.). PRIME LETTURE. LAFAYETTE Dal 1824 al '28 la nostra famiglia visse a Brooklyn, in Front Street, Cranberry Street e Johnson Street nell'ordine. In quest'ultima mio padre si costruì una bella casetta, e un'altra ne costruì in seguito in Tillary Street. Le abitammo una dopo l'altra, ma erano ipotecate, e così le perdemmo. Ricordo ancora la visita di Lafayette. * Durante la maggior parte di quegli anni frequentai le scuole pubbliche. Dev'essere stato intorno al 1829 o '30 che mi recai in compagnia di mio padre e mia madre a sentir predicare Elias Hicks, in una sala da ballo sulle alture di Brooklyn. A un dipresso nello stesso periodo mi impiegai come ragazzo d'ufficio presso due legali, padre e figlio, i Clarke, a Fulton Street, vicino Orange Street. Avevo un bel tavolo e il cantuccio della finestra tutto per me; Edward C. mi aiutò gentilmente a migliorare nella calligrafia e nella composizione e mi iscrisse (l'evento più memorabile della mia vita sino a quel momento) a una grossa biblioteca circolante. Allora, per un buon periodo di tempo, diguazzai in letture romanzesche d'ogni sorta; per prima cosa Le mille e una notte, tutti i volumi, un vero festino; poi, con qualche sortita in altre direzioni, divorai uno dopo l'altro tutti i romanzi e tutte le poesie di Walter Scott (e ancor oggi leggo con piacere sia le une che gli altri).

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* «Durante la sua visita nel nostro paese, nel 1824, il Generale Lafayette venne a Brooklyn in gran pompa e attraversò la città a cavallo. I ragazzi uscirono dalle scuole per unirsi al saluto della cittadinanza. Si stava proprio allora cominciando a costruire una biblioteca pubblica e gratuita per i giovani, e Lafayette acconsentì a fermarsi per porre la prima pietra. Poiché i bambini si riversavano a frotte sul luogo dove era già stata scavata una enorme buca per le fondamenta, chiusa da mucchi di rozzi pietroni, molti signori si prestarono a sollevare i bambini affinché potessero seguire la cerimonia da posizioni più sicure e più comode. Lo stesso Lafayette che anche aiutava i bambini, sollevò tra gli altri il piccolo Walt Whitman, che aveva allora cinque anni e, strettolo per un attimo al petto e baciatolo, lo posò nuovamente a terra, in un angolo sicuro dello sterro». (John Burroughs) IN TIPOGRAFIA. VECCHIA BROOKLYN Circa due anni dopo mi impiegai come apprendista nella tipografia di un giornale settimanale. Il giornale era il Long Island Patriot di S. E. Clements, che era anche direttore dell'ufficio postale. Nell'ufficio c'era un vecchio tipografo, William Hartsborne, un tipo di rivoluzionario che aveva conosciuto Washington e che divenne mio grande amico; con lui si facevano lunghe chiacchierate sui bei tempi andati. Gli apprendisti, me incluso, stavano a pensione presso una sua nipote. Ogni tanto facevo una passeggiata a cavallo con il capufficio, il quale era per la verità assai gentile con noi; alla domenica ci portava tutti con sé a una gran chiesa di pietra, vecchia e in rovina, alquanto simile a una fortezza, in Joralemon Str., vicino a dov'è ora il municipio di Brooklyn (a quel tempo c'erano, tutt'intorno, campi aperti e strade di campagna). * Lavorai in seguito per il Long Island Star, il giornale di Alden Spooner. Per tutti questi anni mio padre continuò con alterna fortuna il suo lavoro di falegname e costruttore. La nostra era una famiglia che cresceva-otto figli, di cui mio fratello Jesse era il più anziano e io il secondo, seguiti dalle mie care sorelle Mary, Hannah e Lonisa, e poi dai miei fratelli Andrew, George, Thomas Jefferson, fino al più piccolo, Edward, nato nel 1835 e sempre tormentato nel fisico, non diversamente da me negli ultimi anni. * Della Brooklyn di quel tempo (1830-40) non rimane quasi nulla, eccetto il tracciato delle vecchie strade. La popolazione oscillava tra le dieci e le dodicimila anime. Fulton Str. era fiancheggiata per un buon miglio da magnifici olmi. Il luogo nel complesso aveva caratteristiche affatto rurali. Come esempio del divario di valori tra allora e adesso si potrebbe ricordare che venticinque acri di quella che è ora la parte più costosa della città, tra Flatbush e Fulton Avenue, vennero acquistati da certo signor Parmentier, emigrato francese, per 4.000 dollari. Chi ricorda più com'erano i vecchi luoghi? Chi i vecchi cittadini di quei tempi? Tra i primi, il caffè di Smith & Wood, quello di Coe Downing e gli altri nei pressi del ferry, il vecchio ferry stesso, e

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Love Lane, le Heights com'erano allora, il Vallabout col suo ponte di legno, e il tratto di strada che da Fulton Str. conduce fino al vecchio ponte a pedaggio. Tra i secondi, il geniale e maestoso generale Jeremiah Johnson, e gli altri, Gabriel Furman, il rev. E. M. Johnson, Alden Spooner, il signor Pierrepont, il signor Joralemon, Samuel Willoughby, Jonathan Trotter, George Hall, Cyrus P. Smith, N. B. Morse, John Dikeman, Adrian Hegeman e William Udall, oltre al vecchio signor Duflon, col suo ritrovo per militari (N.d.A.). ADOLESCENZA, SALUTE, LAVORO Tra il '33 e il '35 mi trasformai in un ragazzone sano e robusto (crebbi tuttavia troppo in fretta, a 15-16 anni avevo già quasi le proporzioni di un uomo). In questo periodo la mia famiglia tornò a vivere in campagna, la mia cara madre fu malata gravemente, e a lungo, ma si riprese. Più o meno ogni estate per tutti questi anni io ritornai a Long Island, restandovi a volte per mesi, ora nella parte orientale ora in quella occidentale. A 16-17 anni e per qualche tempo dopo, ebbi la passione dei circoli di dibattito, cui partecipavo attivamente, pur senza molta continuità, a Brooklyn e in una o due cittadine dell'isola. Lettore direi onnivoro di romanzi, divorai in questi anni e in quelli che seguirono qualsiasi cosa mi capitasse sotto mano. Amante del teatro, inoltre, a New York, mi ci recavo ogni volta che potevo, assistendo talora a ottime rappresentazioni. 1836-37, lavoro come compositore in varie tipografie di New York City. Poi, appena passati i diciotto anni, e per qualche tempo in seguito, andai a insegnare nelle scuole di campagna delle contee di Queens e Suffolk, andando a pensione ora da questa ora da quella famiglia (considero quest'ultima tra le migliori esperienze della mia vita, e tra le più profonde lezioni sulla natura umana nascosta dietro le quinte e tra le masse). Nel 1839-40 fondai e pubblicai un settimanale nella mia cittadina natale, Huntington. Ritornato a New York City e a Brooklyn, continuai il mio lavoro di tipografo e scrittore, prosa per lo più, ma con qualche sporadico assalto alla poesia» LA MIA PASSIONE PER I FERRY Stabilitomi dunque a Brooklin e a New York City, la mia vita in quel periodo e ancor più negli anni che seguirono, cominciò curiosamente a identificarsi con il ferry di Fulton, che già allora si avviava a divenire il più grande del mondo nel suo genere, per importanza, volume, rapidità, e per il suo aspetto pittoresco. Più tardi (specialmente tra il '50 e il '60) presi l'abitudine di compiere quasi ogni giorno la mia traversata in battello, il più delle volte su nella cabina del pilota, da dove potevo spaziare con lo sguardo e assorbire le scene, gli sfondi, i paesaggi. Che correnti

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oceaniche, che maree sotto di me-e quei grandi flussi e riflussi di umanità, in un perenne turbinio di movimenti. Per la verità ho sempre avuto una passione per i ferry: a me essi offrono poesie vive, impareggiabili, fluide, in inesausta corrente. Il Dume e lo scenario della baia tutt'intorno all'isola di New York in qualsiasi momento di una bella giornata-le maree tumultuose, spumeggianti-il mutevole panorama di battelli a vapore di ogni grandezza, sovente al largo una lunga Ela di grossi bastimenti diretti a porti lontani-miriadi di golette dalle bianche vele, corvette e palischermi, i fantastici yacht-i massicci battelli che spuntavano maestosi verso le cinque di pomeriggio dopo aver doppiato la Batteria, puntando a est-la vista che s'apriva al largo in direzione di Staten Island o lungo lo Stretto o dall'altra parte risalendo lo Hudson-quale ristoro spirituale non mi han dato codeste esperienze e visioni in quegli anni lontani, e quante volte dopo d'allora. E come ricordo bene tutti i miei vecchi amici piloti - i Balsir, Johnny Cole, Ira Smith, William White, e il mio giovane compagno del ferry, Tom Gere. SCENE DI BROADWAY Oltre al ferry di Fulton ho conosciuto e frequentato per anni, più o meno saltuariamente, Broadway, la celebre strada dove si affolla tutta la mista umanità newyorkese e tanta gente famosa. Fu qui che vidi in quegli anni Andrew Jackson, Webster, Clay, Seward, Martin Van Buren, Walker il Filibustiere, Kossuth, Fitz-Greene Halleck, Bryant, il principe di Galles, Charles Dickens, i primi ambasciatori giapponesi e tante altre celebrità del tempo. Sempre qualcosa di nuovo e stimolante: ma più d'ogni altra cosa per me l'incalzante, la sterminata ampiezza di quelle incessanti correnti umane. Ricordo di aver visto James Fenimore Cooper in una aula di tribunale in Chambers Street, dietro il Municipio (stava seguendo una causa, credo si trattasse di una querela per diffamazione da lui sporta contro qualcuno). Ricordo anche di aver visto Edgar A. Poe e di aver avuto con lui una breve conversazione (dev'essere stato nel 1845 o 46) nel suo ufficio al secondo piano di un caseggiato d'angolo (in Duane o Pearl Street). Egli era allora direttore e proprietario, o comproprietario, del Broadway Journal. La visita fu occasionata da un mio scritto che egli aveva pubblicato. Poe fu molto cordiale, di una cordialità sommessa, aveva un bell'aspetto, era vestito bene, ecc. Mi è rimasto un ricordo nitido e piacevole della sua espressione e del suo parlare, sia nella forma che nella sostanza; molto gentile e umano, ma come spento, un po' sfinito forse. Ed ecco un'altra delle mie reminiscenze. Qui nella parte ovest di New York, proprio sotto Houston Street, vidi una volta (dev'essere stato circa il 1832, una giornata di gennaio luminosa e pungente) un uomo vecchissimo, barbuto, dal gran corpo, ma curvo e debole, tutto ravvolto in ricche pellicce e con un gran berretto d'ermellino in capo, assistito e fatto scendere quasi a braccia per l'alta scalinata frontale della sua casa (una dozzina di amici e servitori facevano a gara nel sostenerlo e guidarlo amorevolmente), sollevato quindi e sistemato in una splendida slitta, ravvolto in altre pellicce, pronto infine per la

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passeggiata. La slitta era trainata dalla più bella pariglia di cavalli che io abbia mai visto (non dovete pensare che le bestie migliori vengan su oggigiorno; non si sono mai visti cavalli come quelli che c'erano cinquant'anni fa a Long Island, o nel Sud, o a New York City; la gente a quel tempo cercava in un puledro temperamento e brio, e non soltanto una andatura senza sorprese). Bene, io (allora un ragazzetto di forse tredici o quattordici anni) mi fermai e rimasi a lungo a rimirare lo spettacolo di quel vecchio fasciato di pellicce, circondato da amici e servitori, che tra mille cure veniva adagiato nella slitta. Ricordo i cavalli tutto fuoco che mordevano il freno, il cocchiere con la frusta e il secondo cocchiere al suo fianco, per maggior prudenza. Il vecchio, oggetto di tanta attenzione, mi sta ora quasi dinanzi agli occhi. Era John Jacob Astor. Gli anni 1846-47 e quelli che seguono mi vedono ancora a New York, scrittore e tipografo, lavorare in buona salute come sempre e passarmela nel complesso bene. CORSE IN OMNIBUS E VETTURINI V'è un aspetto di quei giorni che assolutamente non può andare taciuto-voglio dire gli omnibus di Broadway coi loro vetturini. Ancor oggi quei veicoli (scrivo nel 1881) danno a Broadway buona parte del suo carattere - le linee della Quinta, di Madison Avenue e della Ventitreesima sono tuttora in funzione. Ma i tempi d'oro dei tramvetti della vecchia Broadway, così numerosi e caratteristici, sono ormai finiti; spariti i «Canarini», i «Pettirossi», i primi di Broadway, quelli della Quarta Avenue, i Knickerbocker e una dozzina d'altri di venti o trent'anni fa. E gli uomini che in particolar modo si identificavano con questi, dando ad essi vitalità e significato, i vetturini-meravigliosa razza di gente strana e spontanea, dallo sguardo pronto (non solo Rabelals o Cervantes, ma anche Omero, o Shakspere se li sarebbero divorati con gli occhi) - li ricordo tutti così bene, e devo proprio dedicar loro qualche parola. Quante ore, mattine e pomeriggi - che notti esilaranti ho passato - a giugno o a luglio, quando l'aria è più fresca - a scarrozzare da un capo all'altro di Broadway ascoltando qualcuna delle loro storie (e che storie erano, le più colorite del mondo, e con la mimica più straordinaria) - o magari declamando brani tempestosi dal Giulio Cesare o dal Riccardo (uno poteva sgolarsi a piacimento in mezzo a quel pesante, denso, ininterrotto ronzio di basso della strada). Davvero li conoscevo tutti i vetturini a quel tempo, Jack di Broadway, il Sarto, Bill Lagna, George Bufere, Vecchio Elefante e suo fratello Giovane Elefante (che venne più tardi), Tippy, Riso Soffiato, Frank il Grosso, Joe il Giallo, Pete Callahan, Patsy Dee, e dozzine di altri, perché erano centinaia. Avevano qualità immense, animali per lo più- mangiare, bere, andare a donne-e, a modo loro, un grande orgoglio personale - qualche sbucciafatiche. si incontrava ogni tanto, ma io in genere mi sarei fidato della maggior parte di essi, per quella buona volontà e quel loro semplice senso dell'onore, in qualsiasi circostanza. Non solo per cameratismo e talora per affetto -li trovavo anche splendidi oggetti di studio. (Immagino che a questo punto i critici rideranno di cuore, ma l'influenza di

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quelle scarrozzate in omnibus per Broadway, i vetturini e le declamazioni e le scappatelle, è senza dubbio entrata nella gestazione di Foglie d'erba). ANCHE IL TEATRO E L'OPERA Ma anche certi attori e cantanti ebbero la loro brava parte nella cosa. Durante tutti quegli anni frequentai più o meno regolarmente il vecchio teatro Park, il Bowery, il Broadway e quello di Chatham Square, oltre all'Opera italiana in Chambers Street, all'Astor o alla Batteria, gratis per molte stagioni, come corrispondente di giornali, pur essendo ancora in tutto un ragazzo. Il vecchio Park - che nomi e che ricordi ritornano a quete parole! Placide, Clarke, la Vernon, Fisher, Clara F., la Wood, la Seguin, Ellen Tree, Hackett, Kean il giovane, Macready, la Richardson, Rice - attori tragici, comici, cantanti. Quanta recitazione perfetta! Henry Placide ne «La vecchia guardia di Napoleone», o in «Nonno Whitehead» - e «Il marito provocato» di Cibber con Fanny Kemble nella parte di Lady Townley - Sheridan Knowles nel sua lavoro «Virginius» - o l'inimitabile Power in «Nato per la fortuna». Questi, e molti altri, negli anni della mia giovinezza e oltre. Fanny Kemble - nome che da solo evoca istantaneamente grandi scene drammatiche - le più grandi forse. Ricordo perfettamente come rese il personaggio di Bianca in «Fazio» e quello di Marianna ne «La moglie». Il teatro non aveva mai offerto nulla di più bello - così dicevano veterani d'ogni paese, e il mio cuore, la mia mente di ragazzo approvavano con ogni minima cellula. La signora Kemble era una donna appena giunta a maturità, forte, qualcosa di più che una mera bellezza; nata tra le luci della ribalta e venuta a offrire all'America, dopo tre anni di tirocinio a Londra e in varie città inglesi, quella sua giovane maturità e quel suo roseo potere in tutto il loro meridiano o piuttosto mattutino fulgore. È stata davvero una fortuna per me poterla vedere quasi ogni sera per tutto il periodo in cui recitò al Park-senza dubbio in tutte le parti fondamentali del suo repertorio. In quegli anni ascoltai, in buona edizione, tutte le opere italiane e le altre allora in voga, la «Sonnambula», «I Puritani», «Der Freischutz», «Gli Ugonotti», «La figlia del reggimento», «Faust», «La stella del Nord», «Polluto», ecc. Tra quelle che gustavo maggiormente erano l' «Ernani», il «Rigoletto» e «Il trovatore» di Verdi, insieme alla «Lucia», la «Lucrezia» e «La favorita» di Donizetti, il «Masaniello» di Auber o il «Guglielmo Tell» e «La gazza ladra» di Rossini. Andai a sentire l'Alboni ogni volta che cantò a New York o nelle vicinanze - ed anche Grisi, il tenore Mario e il barirono Badiali, il più bravo del mondo. Questa passione musicale seguì da presso la mia passione per il teatro. Nella mia fanciullezza e giovinezza avevo visto (sempre dopo una attenta lettura) tutti i drammi di Shakspere allora sulle scene, in interpretazioni meravigliose. Ancor oggi non riesco a immaginare niente di meglio del vecchio Booth in «Riccardo Terzo» o «Lear» ( né so dire in quale dei due fosse più bravo) o nelle vesti di Jago (e in quelle del Pescara e di Sir Giles Overreach, per allontanarci da Shakspere) - e ancora Tom

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Hamblin in «Macbeth», o il vecchio Clarke sia come spettro nell' «Amleto» che come Prospero ne «La tempesta», con la Austin nella parte di Ariel e Peter Richings in quella di Calibano. Poi altri drammi, sempre con buoni attori, Forrest ad esempio, nella parte di Metamora o Damone o Bruto - John R. Scott in quella di Tom Cringle o Rolla - o Lady Gay Spanker della «Assicurazione Londinese» nella interpretazione di Charlotte Cushman. Ricordo ancora le splendide stagioni della troupe musicale dell'Avana al Castle Garden (Batteria), qualche anno più tardi, sotto la direzione di Maretzek - la bella orchestra, le fresche brezze marine, l'inimitabile virtuosismo delle voci - Steffanone, Brosio, Truffi, Marini in «Marino Faliero», «Don Pasquale» o «La favorita». New York non ha mai visto recitazione o canto migliore. Fu ancora qui che udii in seguito Jenny Lind. ( La Batteria - i ricordi ad essa legati - quante e quali cose saprebbero raccontare quei vecchi alberi, quel lungomare, quei bastioni!). ALTRI OTTO ANNI Nel 1848 e 49 lavorai come direttore del Daily Eagle di Brooklyn. Nel '49 intrapresi un piacevole viaggio per motivi di lavoro (mio fratello Jeff con me) attraverso gli Stati centrali e lungo i fiumi Ohio e Mississippi. Vissi per qualche tempo a New Orleans dove lavorai alla redazione del giornale Daily Crescent. Dopo un poco ripresi la via del ritorno verso il Nord, ma con calma lungo la linea del Mississippi e le regioni circostanti, quindi per la via dei grandi laghi, il Michigan, lo Huron, l'Erie, fino alle cascate del Niagara e il confine meridionale del Canadà, per rientrare Enalmente nello stato di New York, percorrendone la parte centrale e seguendo infine lo Hudson - un viaggio nel complesso di forse ottomila miglia tra andata e ritorno. '51-53: lavoro come costruttore edile a Brooklyn (nella prima parte di questo periodo stampo un giornale quotidiano e settimanale, il Freeman). '55 perduto mio padre. Iniziato una volta per tutte a dare alle stampe Foglie d'erba, presso la tipografia dei fratelli Rome, miei amici, a Brooklyn, dopo un gran lavoro sui manoscritti, un continuo fare e disfare - (penai molto a espungere tutti i "tocchi poetici" d'uso, ma alla fine vi riuscii). Oggi (1856-57) sono nel mio 37mo anno d'età. FONTI DEL MIO CARATTERE. RISULTATI. 1860 A voler tirare le somme di quanto è stato qui detto sin dall'inizio (il non detto restando naturalmente la più gran parte) tre ritengo siano state le fonti principali e le impronte formative del mio carattere, ormai consolidate in meglio o in peggio, e del suo successivo sviluppo, letterario e non: una (e senza dubbio la migliore) è il ceppo materno, portato qui dai lontani Paesi Bassi - la sotterranea tenacia e la solida struttura di base (ostinazione, testardaggine) derivate dall'elemento inglese paterno,

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costituiscono la seconda - e la combinazione di scene d'infanzia, spiagge, cose variamente assorbite a Long Island, mio luogo natale, con la vita brulicante di Brooklyn e New York, insieme, suppongo, alle mie successive esperienze durante la guerra di secessione, la terza. Nel 1862 infatti, colpito dalla notizia che mio fratello George, ufficiale del 51° volontari di New York, era stato seriamente ferito (prima battaglia di Fredericksburg, 13 dic.), mi precipitai al fronte in Virginia. Ma devo retrocedere un poco. INIZIO DELLA GUERRA DI SECESSIONE La notizia dell'attacco a Forte Sumter e alla bandiera del porto di Charleston, nella Carolina del Sud, giunse a New York a tarda notte il 13 aprile 1861, e fu immediatamente diffusa dai giornali in edizione straordinaria. Quella sera ero stato all'opera, nella Quattordicesima, e verso mezzanotte dopo lo spettacolo scendevo per Broadway diretto a Brooklyn quando udii in distanza le grida degli strilloni, che in men che non si dica dilagarono per la strada urlando e correndo da una parte all'altra anche più furiosamente del solito. Comprai un giornale e me ne andai di fronte al Metropolitan Hotel (da Niblo) dall'altro lato della strada, e alla luce delle grandi lampade ancora tutte accese lessi le notizie, evidentemente autentiche, in mezzo a un capannello di gente che si era radunata d'improvviso. Uno di noi lesse il telegramma al alta voce per quelli che non avevano giornale, mentre tutti ascoltavano attentamente, in silenzio. Non un commento si levò dalla piccola folla, che raggiungeva ora le trenta o quaranta persone, ma rimasero tutti in silenzio, ricordo, per un minuto o due prima di disperdersi. Mi sembra di vederli ancora, sotto le lampade, a mezzanotte. SOLLEVAZIONE NAZIONALE E VOLONTARIATO Ho già detto in qualche parte che le tre Presidenze precedenti al 1861 mostrarono come la debolezza e la perversità dei governanti siano possibili qui in America, in regime repubblicano, né più né meno che in Europa in regime dinastico. Ma che cosa dire di quella immediata e splendida reazione allo schiavismo secessionista, il nemico incarnato, nello stesso istante in cui esso esibì senza possibilità di errore il suo vero volto? Il vulcanico sollevarsi della nazione dopo la sparatoria sulla bandiera di Charleston confermò qualcosa che sino ad allora era rimasto in grave dubbio, e in un attimo sostanzialmente decise la questione della secessione. Esso rimarrà a mio avviso il più grande e incoraggiante spettacolo che mai epoca antica o moderna abbia offerto al progresso politico e alla democrazia. E non tanto per ciò che affiorò alla superficie, benché importante, ma per ciò che rivelò negli strati profondi, la cui importanza è eterna. Giù negli abissi dell'umanità del

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Nuovo Mondo si era formato e consolidato un nucleo primigenio di volontà di Unione nazionale, risoluto e di gran maggioranza, che rifiutava alterazioni e discussioni, pronto ad ogni emergenza e capace di scoppiare in qualsiasi momento, spazzar via gli ostacoli di superficie e dilagare come un terremoto. Questa è indubbiamente la più bella lezione del secolo, o dell'America, ed è stato un enorme privilegio parteciparvi. (Due grandi spettacoli, due prove immortali di democrazia senza paragone nella storia del passato, sono stati offerti dalla guerra di secessione - uno all'inizio e l'altro alla fine. Da una parte la sollevazione armata, generale e volontaria, dall'altra il pacifico e armonioso scioglimento degli eserciti nell'estate del 1865). SENTIMENTI DI DISPREZZO Anche dopo il bombardamento di Forte Sumter, tuttavia, nessuno al Nord tranne pochi si rese conto della gravità della rivolta e della capacità e decisione degli Stati schiavisti di opporre una resistenza militare forte e continua all'autorità nazionale. I nove decimi della popolazione degli Stati abolizionisti guardarono alla ribellione iniziata nella Carolina del Sud con un sentimento per metà di disprezzo e per metà di incredula rabbia. Non si riusciva a credere che si sarebbero aggiunte anche la Virginia, la Carolina del Nord e la Georgia. Un alto e prudente funzionario governativo predisse che tutto sarebbe sbollito «in sessanta giorni», e la gente in generale prestò fede alla predizione. Ricordo di averne parlato sul ferry di Fulton con il sindaco di Brooklyn il quale sperava solo «che quegli sputafuoco del Sud commettessero qualche smaccato atto di resistenza, al che sarebbero stati schiacciati subito e in modo così definitivo che di secessione non si sarebbe sentito parlare mai più - ma (aveva paura) quelli di fatto non avrebbero mai avuto il fegato di far nulla». Ricordo anche che gli uomini di un paio di compagnie del 13° Brooklyn radunati all'armeria della città per partire come «soldati di trenta giorni», Si erano tutti muniti di pezzi di corda vistosamente legati alle canne dei moschetti, con cui ognuno si sarebbe portato a casa, cappio al collo, un prigioniero del temerario Sud, il giorno non lontano del trionfale ritorno! BATTAGLIA DI BULL RUN, LUGLIO 1861 Tutta questa corrente di sentimenti doveva essere arrestata e quindi capovolta da un colpo terribile - la prima battaglia di Bull Run - da quel che ci risulta oggi senza dubbio uno degli scontri più strani che si ricordino. (Tutte le battaglie, e i loro esiti, dipendono dal caso assai più di quanto generalmente non si creda; ma questa fu un caso dal principio alla fine, un giuoco della sorte. Ambedue le parti ritennero fino all'ultimo minuto di aver vinto. Effettivamente gli uni avevano le stesse buone

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probabilità degli altri di essere messi in fuga. Per una supposizione, o una serie di supposizioni infondate, le forze nazionali all'ultimo istante furono colte dal panico e abbandonarono il campo). Le truppe sconfitte cominciarono a riversarsi in Washington per il Ponte Lungo all'alba di lunedì 22 - un lungo giorno piovigginoso. Il sabato e la domenica della battaglia (il 20 e il 21) il caldo era stato rovente, eccezionale - strati di polvere, sudiciume e fumo aspirati col sudore nella pelle, poi altri strati, di nuovo riasciugati col sudore, assorbiti da quelle anime eccitate - i loro abiti tutti impregnati della polvere calcinosa che riempiva l'aria? sollevata ovunque dai reggimenti, dalle salmerie, dall'artiglieria ecc. che sciamavano per le strade riarse e i campi calpestando ogni cosa- gli uomini che adesso ritirandosi si riversavano sul Ponte Lungo, con quella coltre di nerume, di sudore e di pioggia addosso - una orribile marcia di venti miglia per rientrare a Washington frustrati, umiliati, in preda al panico. Dove sono le vanterie, le orgogliose bravate con cui siete partiti? Dove le vostre bandiere, le fanfare, le corde per tirarvi dietro i prigionieri? Ebbene, non c'è una fanfara che suoni - e non una bandiera che non penda vergognosa e floscia dall'asta. Si leva il sole, ma non splende. Gli uomini cominciano ad apparire per le strade di Washington, sparsi dapprima e alquanto vergognosi, poi sempre più fitti - li si vede in Pennsylvania Avenue, sui gradini e agli usci dei seminterrati. Arrivano in masse disordinate, alcuni in squadre, drappelli distaccati, compagnie. Di tanto in tanto un raro reggimento in perfetto ordine, con i suoi ufficiali (ecco dei vuoti, i morti, i veri valorosi) che marciano in silenzio, i volti abbassati, severi, lì lì per crollare dalla stanchezza, tutti neri e sporchi, eppure ogni uomo col suo moschetto, e il passo spedito; ma queste sono eccezioni. In Pennsylvania Avenue nella Quattordicesima ecc., marciapiedi affollati, stinati di cittadini, negri, impiegati, gente qualunque, curiosi; donne alle finestre, e un succedersi di espressioni strane sui volti mentre quegli sciami di reduci incrostati di sporco (ma non finiranno mai?) continuano a passare; e tuttavia non una parola, non un commento; (metà degli spettatori sono secessionisti del tipo più velenoso - non dicono nulla. ma il demonio sogghigna nei loro volti). Alla fine della mattinata Washington brulica tutta di questi soldati sconfitti - esseri strani a vedersi, occhi e visi alterati, tutti fradici (il piovischio continua insistente per tutto il giorno) e stanchi da far paura, affamati, inselvatichiti, i piedi piagati. Persone di buon cuore (ma nemmeno troppe! arrangiano in fretta qualcosa da metter sotto i denti. Mettono sul fuoco marmitte da bucato per la minestra e il caffè. Sistemano tavoli sui marciapiedi - si compra pane a vagoni, si tagliano velocemente le pagnotte in grossi tocchi. Ecco due anziane signore, belle, le prime della città per cultura e grazia; stanno in piedi dietro un tavolo improvvisato con rozze assi, colmo di bevande e di roba da mangiare, e distribuiscono il cibo, e provvedono a che ogni mezz'ora, per tutto il giorno, la scorta sia rimpinguata con provviste fatte venire da casa: e lì rimangono, sotto la pioggia, attive e silenziose, coi loro capelli bianchi, a distribuir cibo, con le lacrime che per tutto il tempo, quasi ininterrottamente, rigano loro le guance. Tra la profonda eccitazione, la folla e il movimento, l'ansia disperata, sembra strano vedere molti, moltissimi soldati addormentati - dormono profondamente, in mezzo alla gran confusione. Crollano

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dove capita, sogli scalini delle case, ai piedi di un caseggiato o di una staccionata, sui marciapiedi o in qualche spiazzo da costruzione, e dormono di sasso. Sulla scalinata di una casa signorile sta disteso un povero ragazzo di forse diciassette o diciotto anni; dorme così quieto, così profondo. Alcuni stringono ancora forte il fucile nel sonno. Altri dormono a gruppi - amici, fratelli stretti insieme - e su di loro così stesi goccia tetra la pioggia. Come passa il pomeriggio e si fa sera, ovunque nelle strade, nei caffè, assembramenti di gente, chi ascolta, chi fa domande, storie terribili, stregonerie, batterie mascherate, il nostro reggimento tutto a pezzi ecc.- storie e narratori di storie, ventosi, spacconi, vacui centri d'attenzione di folle che si raccolgono per le strade. Decisione e fermezza sembrano aver disertato Washington. L'albergo principale, il Willard, è pieno di spalline - zeppo, stipato, formicolante di spalline. (Li vedo, e devo proprio dir loro due parole. Eccovi qui, signori decorati! - ma dove sono le vostre compagnie? Dove sono i vostri uomini? Incompetenti! Non venite a parlarmi dei casi imponderabili di una battaglia, di come ci si può smarrire e cose simili. Io penso che dopo tutto questa ritirata è opera vostra. Infilatevi di soppiatto nei sontuosi salotti o nelle sale di ristoro del Willard o dovunque vi piaccia, gonfiatevi, mettete su arie - nessuna spiegazione potrà salvarvi. Bull Run è opera vostra; se voi valeste solo la metà o un decimo di quel che valgono i vostri uomini, questo non sarebbe mai accaduto). Frattanto a Washington tra le personalità più in vista e il loro entourage, un misto di spaventosa costernazione, incertezza, rabbia, vergogna, impotenza, e delusione pietrificante. Il peggio non solo è imminente, ma è già qui. Tra poche ore - forse prima del prossimo pasto - i generali secessionisti ci saranno addosso con le loro orde vittoriose. Il sogno dell'umanità, quella vantata Unione che abbiamo creduto così forte, inespugnabile - guardatela ora, sembra già in frantumi, come un piatto di porcellana. Un'ora amara, amara - forse l'orgogliosa America non ne conoscerà più una simile. Deve far bagagli e fuggire, non c'è un attimo da perdere. Quei candidi edifici - il Campidoglio che si alza maestoso con la sua cupola sopra gli alberi là sulla collina - dovremo abbandonarli - o distruggerli prima? Poiché è certo che nelle conversazioni svoltesi per ventiquattro ore dopo Bull Run a Washington e dintorni tra certi magnati ufficiali, impiegati e funzionari, si finì per ammettere ad alta voce e senza mezzi termini l'opportunità di cedere incondizionatamente, di installare il regime sudista, far abdicare Lincoln e allontanarlo al più presto. Se gli ufficiali e le forze secessioniste avessero seguito da presso la ritirata, e con un'audace mosso alla Napoleone fossero entrati in Washington il primo giorno (o anche il secondo), avrebbero avuto la situazione in mano e per di più una poderosa fazione del Nord a sostenerli. Uno dei nostri colonnelli reduci da Bull Run espresse quella sera in pubblico, in una sala affollata da gruppi di ufficiali e borghesi, l'opinione che era inutile combattere, che i sudisti avevano ormai reso incontestabili le loro pretese, e che la miglior via da seguire per il governo nazionale era desistere da ogni ulteriore tentativo di arrestarli, e riconoscere la loro supremazia alle condizioni migliori che essi volessero concedere. Non una voce si levò in quella larga folla di ufficiali e cittadini, contro codesta opinione. (Il fatto è che questo era uno dei tre o quattro

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momenti di crisi che attraversammo, allora come in seguito, durante il dubbioso corso di quei quattro anni, quando parve che ad occhi umani fosse dato di vedere con le stesse probabilità l'Unione esalare l'ultimo respiro o continuare a vivere). LO STUPORE PASSA, COMINCIA QUALCOS'ALTRO Ma l'ora, il giorno, la notte passarono, e qualsiasi cosa ritorni, un'ora, un giorno e una notte come quelle non torneranno mai più. Il Presidente si riprende, si mette all'opera quella stessa notte - con rapidità e decisione si accinge al compito di riorganizzare le sue forze e approntarsi una posizione più sicura per il lavoro a venire. Quand'anche non vi fosse null'altro per consegnare Abramo Lincoln alla storia, sarebbe sufficiente, per tramandarlo ai tempi futuri con una corona di gloria, il solo fatto che egli superò quell'ora e quel giorno più amari del fiele - invero un giorno di crocifissione - che non se ne lasciò sopraffare - e con estrema fermezza seppe anzi arginarlo, risolvendo di trarne fuori se stesso e l'Unione. Allora sui grandi giornali di New York subito apparvero (cominciando da quella sera stessa, e poi il mattino seguente e così per molti giorni senza interruzione) editoriali che fecero risuonare per tutto il paese il più sonoro, il più alto squillo di limpida tromba, pregno di ancoraggiamento, speranza, ispirazione, orgogliosa sfida. Quei magnifici articoli! non persero mai vigore per una buona quindicina di giorni. Cominciò lo Herald - ricordo bene i suoi editoriali. Il Tribune fu egualmente persuasivo e incoraggiante - e il Times, lo Evening Post e gli altri giornali più importanti non rimasero indietro di un millimetro. Vennero al momento opportuno, poiché ce n'era bisogno. Ché nell'umiliazione di Bull Run il sentimento popolare del Nord dai suoi estremi di spavalderia era precipitato in abissi di depressione e di ansia. (Di tutti i giorni di guerra ve ne sono in particolare due che non potrò mai dimenticare. Furono il giorno che seguì la notizia di quella prima disfatta di Bull Run a New York e a Brooklyn, e il giorno della morte di Abramo Lincoln. In ambedue le occasioni io mi trovavo a casa, a Brooklyn. Il giorno dell'assassinio la notizia giunse di primo mattino. La mamma preparò la colazione - e poi tutti gli altri pasti - come al solito; ma né lei né io in tutta la giornata riuscimmo a ingoiare un boccone. Bevemmo una mezza tazza di caffè e fu tutto. Si parlò ben poco. Prendemmo tutti i giornali del mattino e della sera, e le edizioni straordinarie così frequenti in quel momento, e ce li passavamo in silenzio). AL FRONTE FALMOUTH, Virginia, di fronte a Fredericksburg, 21 dic. 1862.- cominciavano le mie visite agli ospedali da campo dell'armata del Potomac. Passo buona parte della giornata in una grande casa di mattoni sulle rive del Rappahannock,

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adibita a ospedale dopo la battaglia - sembra che vi siano stati accolti solo i casi peggiori. Di fronte alla casa, ai piedi di un albero a un dieci iarde di distanza, noto un mucchio di piedi, gambe, braccia, mani amputate, tante da riempire un carro a un cavallo. Diversi cadaveri giacciono lì accanto, ognuno ricoperto dal suo telo di lana marrone. Nel cortile dalla parte del fiume, si vedono tombe fresche, per lo più di ufficiali, con i nomi incisi su doghe di botte o assi spezzate conficcate nel terreno. (Gran parte di questi corpi vennero in seguito riesumati e trasportati a Nord per essere restituiti agli amici). L'edificio, pur così grande, è stipato sopra e sotto, tutto vi è improvvisato, senza sistema e piuttosto male, ma non ho dubbi che è il meglio che possa farsi; le ferite tutte piuttosto gravi, alcune spaventevoli, gli uomini nei loro vecchi abiti, sporchi e insanguinati. Con uno di questi ho parlato un poco, un capitano del Mississippi, ferito in malo modo a una gamba; mi ha chiesto dei giornali, che gli ho dato (lo rividi tre mesi dopo a Washington, gli avevano amputato la gamba, se la portava bene). Ho girato per le stanze, al piano terra e di sopra. C'era chi moriva. Non avevo da dar niente questa volta, ma ho scritto un po' di lettere alle famiglie, alle madri ecc. Anche mi son fermato a parlare con tre o quattro che apparivano i più bisognosi di questo tipo di attenzione, e i più sensibili ad essa. DOPO LA PRIMA FREDERICKSBURG 23-31 dicembre. - I risultati dell'ultima battaglia sono visibili ovunque qui intorno, in migliaia di casi (ne muoiono a centinaia ogni giorno), negli ospedali da campo, di brigata e di divisione. Questi non sono altro che tende, talora assai mal ridotte, coi feriti in terra, fortunati quando le loro coperte posano su strati di frasche d'abete di pino, o di foglie. Mente lettini, e rarissimi i materassi. Fa alquanto freddo. Il terreno è indurito dal gelo, ogni tanto nevica. Giro da un ferito all'altro. Ho l'impressione di non star facendo molto per questa gente ferita o in punto di morte; ma non posso lasciarli. Di tanto in tanto un ragazzo si aggrappa a me in modo convulso, io faccio quel che posso per lui, mi fermo in ogni caso, e se lo desidera gli resto seduto accanto per ore. Oltre agli ospedali faccio ogni tanto anche lunghi giri per gli accampamenti, parlando con gli uomini ecc. - a volte di notte, tra i gruppi raccolti intorno ai fuochi nelle loro provvisorie baracche di cespugli. Sono scene curiose, con tanti tipi e gruppi diversi. Ben presto mi conoscono tutti al campo, ufficiali e soldati, e tutti mi trattano bene. Talvolta mi unisco ai reggimenti che conosco meglio, nel servizio di picchetto. Quanto alle razioni, pare che qui per ora l'esercito sia discretamente fornito, i soldati hanno cibo bastante, quello che è, per lo più carne di porco salata e gallette. La maggior parte dei reggimenti alloggia in piccole tende di scarsa consistenza. Alcuni si sono costruiti capanni di tronchi e fango, con un focolare. RITORNO A WASHINGTON

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Gennaio '63. Ho lasciato il campo di Falmouth qualche giorno fa con un gruppo di feriti, e sono venuto qui prima con la ferrovia del torrente Aquia e quindi con uno dei vapori federali che risalgono il Potomac. C'erano con noi molti feriti, nei vagoni come sul battello. I vagoni erano dei comuni pianali. Il tragitto per ferrovia, dieci o dodici miglia, fu compiuto in massima parte prima dell'alba. I soldati di guardia sulla strada ferrata venivano fuori dalle tende o dalle loro baracche di cespugli coi capelli arruffati e lo sguardo insonnolito. Quelli di sentinella facevano la ronda tra una postazione e l'altra, alcuni sulle scarpate, al di sopra di noi, altri giù in basso, parecchio al di sotto del livello dei binari. Piuttosto distanti dalla strada ferrata vidi anche molti e grandi accampamenti di cavalleria. Alla stazione di sbarco del torrente Aquia c'erano masse di feriti diretti a nord. Trascorsi le tre ore circa d'attesa girando tra loro. Alcuni volevano mandare due righe a casa ai genitori, i fratelli, la moglie ecc., cosa che io feci di buon grado (impostando le lettere il giorno dopo da Washington). Sul battello me ne ritrovai le mani piene. Un poveretto morì durante il viaggio. Mi trattengo ora a Washington e dintorni, visitando quotidianamente gli ospedali. Sto per lo più al Palazzo dei Brevetti, nell'Ottava strada, in via H o in Piazza dell'Armeria o in altri ospedali. Adesso ho la possibilità di fare un po' di bene, poiché dispongo di danaro (come elemosiniere per conto di altri, rimasti a casa) e, ormai, di una certa esperienza. Oggi, domenica pomeriggio, sono stato in visita all'ospedale Campbell fino alle nove di sera, dedicandomi in modo particolare a un caso della corsia 1, piuttosto grave, pleurite e febbre tifoidea, D. F. Russell, un giovane, figlio di agricoltori, compagnia E, 60° New York, molto depresso e debole; ci volle molto per risvegliare in lui un qualche interesse; scrissi infine una lettera a sua madre a Malone, contea di Franklin, New York, su sua richiesta; gli diedi della frutta e qualche altro regaletto; misi la lettera in una busta, serissi l'indirizzo ecc. Mi recai poi nella corsia 6 che percorsi tutta, osservando ogni singolo caso, senza credo tralasciarne uno; distribuii piccoli doni, arance, mele, gallette dolci, fichi, ecc., a forse venti o trenta persone. Giovedì 21 gennaio. Trascorsa la maggior parte della giornata all'ospedale di piazza dell'Armeria; visitate le corsie F, G e H, pressoché da cima a fondo, una cinquantina di degenti ciascuna. A tutti i feriti della corsia F ho portato l'occorrente per scrivere, carta, buste, francobolli; diviso in piccole porzioni tra i soggetti adatti un grosso vaso di ciliege conservate, di prima qualità, dono di una signora che le aveva preparate con le sue mani Trovati anche diversi casi in cui mi è sembrato opportuno far dono di piccole somme di denaro (i feriti arrivano spesso senza un centesimo, e poter disporre anche della piccola somma che io do contribuisce a tenerli su di morale). Sparita dunque tutta la mia carta e le mie buste, ma anche una buona riserva di materiale di amena lettura; oltre a tabacco, arance, mele ecc., come mi parve giudizioso fare. Casi interessanti nella corsia I: Charles Miller, letto 19, Compagnia D, 53mo Pennsylvania, solo sedici anni, molto intelligente, un ragazzo coraggioso, gamba

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sinistra amputata sotto il ginocchio; vicino a lui un altro ragazzo molto malato: a ciascuno ho dato appropriati regaletti. Nel letto dall'altra parte, ancora una amputazione della gamba sinistra; dato qui un vasetto di marmellata di lamponi. Letto l, stessa corsia, dato una piccola somma; e anche a un soldato con le grucce, seduto sul letto accanto a... Sono sempre più sorpreso dall'enorme numero di giovani dai quindici ai ventun anni che trovo nell'esercito. (Ne trovai in seguito in proporzione anche maggiore tra i sudisti). Sera dello stesso giorno, visita a D. F. R., cui ho già fatto cenno: stava decisamente meglio, alzato e vestito - un vero trionfo; in seguito si rimise del tutto e tornò al suo reggimento. Distribuita nelle corsie una quantità di carta da lettere, e quaranta o cinquanta buste con i francobolli-ne àvevo fatto una bella riserva, sapendo quanto gli uomini le desiderassero. CINQUANTA ORE FERITO SUL CAMPO Ed ecco il caso di un soldato che ho incontrato in una delle affollate corsie del Palazzo dei Brevetti. Gli fa piacere aver qualcuno con cui parlare, e noi lo ascoltiamo di buon grado. Venne ferito gravemente alla gamba e al fianco a Fredericksburg, il 13 dicembre, quel sabato memorabile. Durante i due giorni e le due notti che seguirono, rimase sul campo nel più totale abbandono, tra la città e i tetri scaglioni delle batterie: la sua compagnia e il suo reggimento erano stati costretti a lasciarlo al suo destino. A peggiorar le cose accadde che egli si trovasse disteso con la testa leggermente più in basso, senza potersi muovere. Fu raccolto e trasportato altrove dopo circa cinquanta ore insieme ad altri feriti, protetti da una bandiera bianca. Gli chiedo come lo abbiano trattato i ribelli in quei due giorni e quelle due notti in cui giacque non lontano da loro - se si avvicinò nessuno, se fu insultato. Risponde che vennero parecchi, soldati e altri, a varie riprese. Due, che erano insieme, gli rivolsero parole rudi e sarcastiche, ma niente di più. Ci fu tuttavia un uomo di mezza età, il quale pareva aggirarsi pel campo tra i morti e i feriti a scopo benefico, che ebbe a comportarsi nei suoi riguardi in un modo che, dice, non potrà mai dimenticare: lo trattò con gentilezza, gli bendò le ferite, cercò di fargli coraggio, gli diede un paio di biscotti e una sorsata di whisky allungato con acqua; gli chiese se se la sentiva di mandar giù un po' di carne di manzo. Codesto secessionista di buon cuore, ad ogni modo, non mutò di posizione il nostro soldato poiché così facendo avrebbe potuto causargli una emorragia, riaprendo le ferite ormai coagulate e stagnate. Il nostro ragazzo è della Pennsylvania; l'ha passata piuttosto brutta; le ferite si son rivelate gravi; eppure conserva il suo buon umore e adesso è in via di miglioramento (non è raro che i feriti rimangano in siffatto modo sul campo per un giorno o due, talvolta anche quattro o cinque). PERSONAGGI E SCENE DI OSPEDALE

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Corrispondenza. Quando non è sconsigliabile, sono io stesso che incoraggio i soldati a scrivere e, se richiesto, scrivo per loro ogni sorta di lettere (comprese quelle d'amore, tenerissime). Quasi contemporaneamente a queste mie note discontinue, sto scrivendo adesso una lettera alla moglie di un nuovo paziente, M. de F. del 17° Connecticut, compagnia H, appena arrivato (il 17 febbraio) da punta Windmill e sistemato nella corsia H dell'ospedale di Piazza dell'Armeria. È un uomo dal viso intelligente, l'accento forestiero, occhi e capelli neri, tratti somatici da ebreo. Vuole spedire un messaggio telegrafico a sua moglie a New Canaan, nel Connecticut. Approvo l'idea del messaggio - ma per maggior sicurezza mi siedo e scrivo anche una lettera che consegno immediatamente all'ufficio postale (teme che la moglie parta per venire a trovarlo e non vuole, poiché è sicuro di guarire presto). Sabato 30 gennaio. Nel pomeriggio, visita all'ospedale Campbell. Scena della pulizia della corsia, la 6a, e della consegna degli indumenti puliti - ovunque i pazienti che si vestono o vengono vestiti - i corpi nudi fino alla cintola - gli scherzi e il buon umore - camicie, mutandoni, lenzuola ecc. e l'aria di preparativi per la domenica. Dati 50 centesimi a J. L. Mercoledì 4 febbraio. Visita all'ospedale di Piazza dell'Armeria, esaminate quasi per intero le corsie E e D. Ho dato carta e buste a tutti quelli che lo desideravano - c'era come sempre un gran numero di soldati che ne avevano bisogno. Scritto lettere. Chiacchierato con due o tre uomini del 14° Brooklyn. In corsia D un povero ragazzo con una spaventosa ferita, in condizioni terribili - gli stavano estraendo delle schegge d'osso disseminate nella carne in prossimità della ferita. L'operazione era lunga, e molto dolorosa - pure, non appena fu cominciata e sembrò mettersi bene, il soldato la sopportò in silenzio. Stava seduto, puntellato dai cuscini - appariva emaciato - era rimasto a lungo, quieto, sempre nella stessa posizione (e non per giorni, ma per settimane) - il viso esangue, la pelle come incartapecorita, e gli occhi pieni di risoluzione - faceva parte di un reggimento di New York. C'era una insolita folla di chirurghi, studenti di medicina, infermieri ecc. attorno al letto - pensai che la cosa veniva fatta con tenerezza, e fatta bene. C'era, accanto a un altro lettino, una moglie che vegliava il marito (febbre tifoidea, piuttosto brutta); e, a un altro, una madre - aveva sette figli, mi disse, e questo era il più giovane (una buona madre, premurosa, sana, gentile, di aspetto gradevole, non molto anziana; portava un cappello ed era vestita come per casa - un tocco di grazia a tutta la corsia). Mi piaceva l'infermiera della corsia E - notai come rimase seduta a lungo al capezzale di un poveretto che proprio quella mattina, in aggiunta alle altre sue infermità, aveva sofferto una brutta emorragia - lo assisteva con delicatezza, lo aiutava a liberarsi dal sangue che gli saliva in gola a ogni accesso di tosse, tenendogli un tampone alla bocca - lui era così debole da poter appena muovere la testa sul cuscino. C'era poi un giovane di New York, dal bel viso intelligente, aveva trascorso molti mesi a letto in seguito a una spiacevole ferita ricevuta a Bull Run. Una pallottola lo aveva colpito alla vescica, penetrando nel basso ventre e riuscendo da

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dietro. Aveva molto sofferto - l'acqua continuò a uscire dalla piaga per molte settimane, in piccole quantità ma ininterrottamente, sicché si trovava quasi sempre immerso in una specie di pozza a parte altre spiacevoli circostanze. Aveva comunque un temperamento allegro. Adesso stava relativamente bene, soffriva di mal di gola e accettò con gioia un bastoncino di mentastro che gli diedi, insieme ad altre cosette. L'OSPEDALE DEL PALAZZO DEI BREVETTI 23 febbraio. Non vorrei passar oltre senza un cenno al grande ospedale del Palazzo dei Brevetti. Qualche settimana fa la spaziosa area del secondo piano di quello che è tra i più nobili edifici di Washington rigurgitava di soldati malati, feriti gravi e moribondi, in lunghe file. Erano sistemati in tre appartamenti molto ampi. Mi ci sono recato varie volte. Lo spettacolo era strano, solenne, e nonostante la sua fisionomia di sofferenza e di morte, direi affascinante. Talvolta ci vado anche di sera, per recar conforto e sollievo a certi casi particolari. Due di codesti immensi appartamenti sono occupati in gran parte da alte e pesanti teche di vetro, stipate di modelli in miniatura di ogni tipo di utensile, macchina o invenzione che mente umana abbia avuto la fantasia di concepire, insieme a curiosità varie e a doni provenienti dal]'estero. Tra una vetrina e l'altra si aprono lateralmente dei vani alquanto profondi, larghi forse otto piedi, e qui erano collocati i feriti, senza contare la grande e lunga doppia-fila di lettini che correva da un capo all'altro della sala, nel centro. Molti erano casi gravissimi, ferite e amputazioni. V'era poi una galleria che correva sopra la sala, e c'erano letti anche qui. Era una scena davvero strana, specie a sera, con le luci accese. Le vetrine, le brande con quelle forme distese, la galleria in alto e, sotto, il pavimento di marmo - la sofferenza, e il coraggio nel sopportarne la varia intensità - a tratti un lamento che qualcuno non è riuscito a reprimere - o un povero ragazzo che muore, il viso emaciato, gli occhi vitrei, l'infermiere al suo fianco, e anche il dottore, ma non un parente, un amico - ecco quanto si poteva vedere, sino a poco tempo fa, al Palazzo dei Brevetti (poi i feriti sono stati trasportati altrove e l'edificio è nuovamente vuoto). LA CASA BIANCA AL LUME DI LUNA 24 febbraio. Un poco di tempo buono, aria tiepida. Faccio un gran passeggiare, talvolta di notte sotto la luna. Stasera ho osservato a lungo la casa del Presidente. Il portico bianco - le colonne regali, alte, rotonde, immacolate come neve - e così i muri - la tenera e morbida luce lunare che inonda il pallido marmo e crea strane ombrature, velate e languide, non vere ombre - ovunque un delicato, sottile, azzurro merletto lunare di vaporosa trasparenza, sospeso nell'aria - i brillanti e copiosissimi grappoli di lampade a gas, sulla facciata e in giro per le colonne, il portico ecc. - tutto così

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bianco, così abbagliante nella sua purezza di marmo, eppur delicato - la Casa Bianca dei poemi, dei sogni e dei drammi futuri, là nella morbida traboccante luna - la splendida fronte tra gli alberi, sotto la lucida onda lunare, piena di realtà, piena di illusione - le forme degli alberi nude di foglie, silenziose, un tronco e un'angolare miriade di rami, sotto le stelle e il cielo - la Casa Bianca della nostra terra, e della bellezza e della notte - sentinelle ai cancelli e lungo il portico, su e giù silenziose nei loro pastrani azzurri (non ti fermano, ma ti seguono con occhi penetranti in qualsiasi direzione ti muova). LA CORSIA DI UN OSPEDALE MILITARE Lasciate che vi descriva ora nei dettagli una visita da me compiuta a quell'assembramento di edifici a un piano, simili a baraccamenti, che è l'ospedale Campbell, fuori città, in pianura, al termine di quella che allora era la linea degli omnibus della Settima. Per ogni padiglione c'è un lungo edificio. Entriamo nel padiglione 6. Oggi contiene direi ottanta o cento pazienti, metà malati e metà feriti. L'edificio non è che un insieme di assi ben imbiancate all'interno, con le solite brandine di ferro strette e semplici. Se camminate per il corridoio di mezzo, ne avrete una fila per lato, coi piedi verso di voi e la testa alla parete. Vi sono grandi stufe accese, e il bianco che domina le pareti è rallegrato da decorazioni di sempreverde, stelle, cerchi, ecc. L'intero edificio con i suoi occupanti può essere abbracciato con uno sguardo solo, poiché non esistono pareti divisorie. Da due o tre lettini udrete forse qualche lamento o altri suoni di una sofferenza che non si riesce a controllare, ma nel complesso vi è calma - quasi un'assenza penosa di qualsiasi sfogo; e tuttavia il pallore del viso, gli occhi inebetiti e l'umidore delle labbra sono segni bastanti. Di codesti malati o feriti i più sono visibilmente ragazzi di campagna, figli di agricoltori e simili. Osservatene la bella taglia poderosa, l'espressione aperta e pronta, e i molti altri segni ancora rimasti di una costituzione e di un fisico vigorosi. Osservate il comportamento silenzioso e paziente dei feriti americani, mentre giacciono in sì mesto assembramento - rappresentanti di tutto il New England, di New York e del New Jersey e della Pennsylvania - invero di tutti gli Stati e tutte le città - in massima parte dell'Ovest. I più non hanno qui né un amico né una conoscenza - non un volto familiare, e a malapena una parola di sensata simpatia o di incoraggiamento durante tutto il decorso della malattia, talora lungo e tedioso, o tra gli spasmi di ferite che s'aggravano. UN FERITO DEL CONNECTICUT Questo giovane del letto 25 è H. D.B., del 27° Connecticut, compagnia B. La famiglia vive a Northford, presso New Haven. Seppur abbia a un dipresso ventun

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anni, non più, ha girato parecchio il mondo, per terra e per mare, e ha visto vari combattimenti sull'uno e sull'altra. Quando lo conobbi la prima volta, stava assai male, e soffriva di inappetenza. Rifiutò qualsiasi offerta di denaro - disse che non aveva bisogno di nulla. Ma mostrandomi io ansioso di far qualcosa per lui, mi confessò di desiderare follemente un buon budino di riso fatto in casa - pensava fosse l'unica cosa che avrebbe potuto gustare davvero. A quel tempo il suo stomaco era molto indebolito (il dottore, che consultai, disse che mangiare gli avrebbe fatto un gran bene; ma sembrava che il cibo d'ospedale, pur migliore del solito, lo rivoltasse). Senza por tempo in mezzo, procurai a B. il suo budino di riso. Una signora di Washington, Mrs. O'C., venuta a conoscenza di questo desiderio, preparò con le proprie mani un budino, che gli portai l'indomani. In seguito mi disse di esserne vissuto per tre o quattro giorni. Questo B. è un buon prototipo di giovane americano dell'Est - il tipico Yankee. Io lo presi particolarmente a benvolere e gli regalai per ricordo una bella pipa. Qualche tempo dopo ricevette un pacco di roba da casa, e volle a tutti i costi che dividessi la cena con lui, cosa che feci, e fu in verità una cena coi fiocchi. DUE RAGAZZI DI BROOKLYN In questo medesimo padiglione si trovano due giovani di Brooklyn, del 51° New York. Li conoscevo già a casa, quand'erano ragazzi, e per questo li sento vicini. Uno dei due, J. L., ha avuto un braccio amputato - il troncone si sta ora rimarginando piuttosto rapidamente (lo avevo veduto disteso per terra a Fredericksburg, lo scorso dicembre, tutto insanguinato, subito dopo la operazione. Sembrava prendesse la cosa con gran flemma - con la mano rimastagli andava sgranocchiando una galletta - non faceva storie). Guarirà, e già immagina e descrive il momento in cui si scontrerà di nuovo con i Johnny Rehs. UN EROE SUDISTA I grandi soldati non si trovano nelle file di un esercito più che in quelle dell'altro. Ecco l'esempio di uno sconosciuto sudista, un ragazzo di diciassette anni. Al Ministero della Guerra, pochi giorni fa, ho assistito alla cerimonia in cui un gruppo di bandiere catturate al nemico venivano consegnate al Ministro. Tra gli altri un soldato a nome Gant, del 104° volontari Ohio, presentò uno stendardo sudista che, mi disse un ufficiale, era stato portato fin sotto la bocca di uno dei nostri cannoni e piantato lì da un ragazzo di soli diciassette anni, il quale realmente tentò di chiudere l'imboccatura del mortaio con dei piuoli di staccionata. Il ragazzo fu ucciso nel tentativo, e l'asta dello stendardo spaccata in due da un colpo di fucile dei nostri.

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I FERITI DI CHANCELLORSVILLE Maggio '63. Mentre scrivo queste note, dal quartier generale di Hooker sono cominciati a arrivare i feriti della sanguinosa Chancellorsville. Ero presente ai primi arrivi. Gli uomini incaricati di scortare i feriti mi dissero che i casi peggiori dovevano ancora giungere. Se così è li compiango, poiché questi sono già abbastanza terribili. Dovreste vedere la scena dei feriti che arrivano qui al molo in fondo alla Sesta Strada, di sera. Ieri ne sono arrivati due battelli carichi, intorno alle sette e mezzo. Poco dopo le otto venne giù un lungo e violento acquazzone. I soldati, pallidi e sfiniti, erano stati già sbarcati e giacevano sparsi sul molo e nei pressi, dove capitava. Probabilmente gradivano la pioggia: in ogni caso vi erano esposti. Poche torce illuminavano lo spettacolo. Tutt'intorno - sul pontile, per terra o poco discosti - uomini distesi su vecchie imbottite, coperte, ecc., con stracci pieni di sangue legati intorno alla testa, le braccia, le gambe. Gli assistenti sono pochi, e poca anche la gente che s'avventura fuori la sera - solo un numero esiguo di portantini e cocchieri duramente provati dal lavoro (i feriti cominciano a diventare cosa di tutti i giorni, il cuore della gente s'incallisce). Gli uomini, quali che siano le loro condizioni, restano là distesi aspettando pazientemente che venga il loro turno per esser portati via. Vicino, arrivano ora in massa le ambulanze: una dopo l'altra le fanno indietreggiare per prender su il carico. I casi più gravi sono mandati via in barella. I feriti in genere si sentono poco o nulla, nonostante le sofferenze. Qualche gemito che non si è potuto trattenere, e a tratti un grido di dolore mentre li sollevano per caricarli sull'ambulanza. Oggi, mentre scrivo, se ne attendono altre centinaia, e ancor più domani e posdomani, e così per giorni e giorni. Non di rado il ritmo degli arrivi è di un migliaio al giorno. UNA BATTAGLIA NOTTURNA, CIRCA UNA SETTIMANA FA 12 maggio. V'è una parte della recente battaglia di Chancellorsville (la seconda Fredericksburg) svoltasi poco più di una settimana fa, tra sabato, sabato notte e domenica, agli ordini del Gen. Joe Hooker, di cui vorrei darvi non più che un'idea (come la visione di un attimo durante una terribile tempesta di mare, di cui è sufficiente dar cenni e impossibile una descrizione dettagliata. Il combattimento, che era stato assai violento durante il giorno, fu ripreso a sera dopo un'interruzione nel tardo pomeriggio e si protrasse con furiosa energia fino alle tre del mattino. Quel pomeriggio (cioè sabato) un subitaneo e gagliardo attacco sferrato da Stonewall Jackson aveva avvantaggiato di molto l'esercito sudista e rotto le nostre linee, penetrando in esse come un cuneo e lasciandoci in quella situazione al sopravvenire del buio. Ma alle 11 di sera Hooker con uno sforzo disperato ricacciò indietro le forze

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secessioniste, ripristinò le sue linee nella posizione originaria e riprese i suoi piani. Questa mischia notturna fu molto emozionante e offrì un numero infinito di scene strane e terribili. Il combattimento si era fatto generale tanto a Chancellorsville quanto a nordest, a Fredericksburg (c'è chi parla di scarso rendimento, incidenti, casi di fuga da parte dei nostri. Io non vi bado. Penso al fiero coraggio che costituì la norma generale). Un corpo, il 6°, quello di Sedgewick, combatte quattro furiose e cruente battaglie nello spazio di trentasei ore, si ritira in situazione precaria, subisce gravi perdite ma si mantiene compatto e, impegnandosi in ogni circostanza con la forza della disperazione, riesce a superare il Rappahannock, per il rotto della cuffia magari, ma ci riesce. Ha perso molti, molti valorosi, ma ha anche tratto vendetta, ampia vendetta. Era tuttavia la mischia di sabato sera, durata poi tutta la notte e domenica mattina, che volevo ricordare in special modo. Si svolse in gran parte tra i boschi, e con una partecipazione pressoché generale. La notte era assai dolce, con una luna che si mostrava a tratti nitida e piena, e la Natura in sé così quieta, così folta la prima erba estiva e il fogliame sugli alberi - eppure era lì che infuriava la battaglia, e molti bravi ragazzi giacevano a terra stroncati, e sempre altri se ne aggiungevano, e ad ogni minuto tra il crepitio dei fucili e il rombo dei cannoni (ci fu anche uno scontro di artiglieria) il rosso sangue di vita scolava via da teste, tronchi, membra su quell'erba verde fresca di rugiada. Tratti di bosco prendono fuoco e molti feriti, incapaci di muoversi, sono arsi vivi - l'incendio divora vaste aree, brucia anche i morti - alcuni soldati hanno capelli e barba abbruciacchiati, altri ustioni sul viso e sulle mani, altri ancora gli abiti sforacchiati dal fuoco. Le fiammate dei cannoni, i saettanti globi di fuoco, il fumo e il rombo immenso - la sparatoria ormai generale, mentre il giorno schiarendo rende quasi visibile l'una parte all'altra - lo scalpiccio degli uomini in corsa, le grida - faccia a faccia ormai - sentiamo le urla dei sudisti - i nostri rispondono con altre grida d'incitamento, specie se Hooker è nei pressi - scontri all'arma bianca, le due parti reggono magnificamente, coraggiosi, risoluti come demoni, ci caricano a più riprese - migliaia di azioni degne di essere celebrate in più nuovi e più grandi poemi a venire - e sempre il bosco che brucia - sempre molti non soltanto ustionati - tanti, troppi, incapaci di muoversi, periscono tra le fiamme. Poi gli accampamenti dei feriti. O cielo, che scena è mai questa? È questa umanità - questo scempio da macellai? Ve n'è diversi di codesti campi. Ecco, nel più grande, in una radura tra i boschi, da due a trecento poveri ragazzi - i gemiti e gli urli - l'odore del sangue che si mescola al fresco profumo della notte, dell'erba e degli alberi - questo carnaio! Oh, è bene che le madri, le sorelle non possano vederli - che non sappiano concepire e mai abbiano concepito cose del genere. Uno è stato colpito da un bossolo al braccio e alla gamba - gli vengono amputate tutte e due - ecco da un canto le membra tagliate. Alcuni hanno avuto le gambe letteralmente asportate - chi il petto trapassato dai proiettili - altre orrende, indescrivibili ferite al viso o alla testa, tutti mutilati, rivoltanti, in pezzi, gli occhi fuori dalle orbite - altri al ventre - certuni sono solo ragazzi - molti ribelli feriti in modo grave (aspettano regolarmente il loro turno insieme agli altri, i chirurghi lì trattano allo stesso identico modo). Questo è il campo dei feriti - e non è che un frammento, un pallido riflesso di quella scena

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cruenta - mentre su tutto silenziosa emerge a tratti la luna, grande, limpida, con la sua placida luce. Tra i boschi quella scena di anime che si partono - tra gli scoppi il fracasso e le urla - il profumo impalpabile dei boschi - e ancora il fumo acre, soffocante - il soffuso raggiar della luna che a tratti sogguarda, così placida, dal cielo - il cielo stesso, paradisiaco - e i chiaroscuri lassù, quei fluttuanti oceani dell'etere - più in alto poche grandi stelle tranquille, che appaiono silenziose e languide per poi scomparire - il melanconico drappeggio della notte sopra e intorno a noi. E là sulle strade, nei campi e tra i boschi, quella lotta, nessuna mai più disperata in qualsiasi epoca o paese - ambo le parti ora in completo spiegamento di forze - masse - non battaglia per gioco né pantomima, bensì demoni selvaggi accaniti nel combattimento - coraggio e sprezzo della morte unica regola, eccezioni quasi nessuna. Quale storia mi chiedo potrà mai rendere - perché chi veramente può sapere - il pazzo e risoluto scontro delle armate in tutti i loro contingenti piccoli e grandi - come qui - l'una e l'altra parte immerse da capo a piedi in propositi disperati, mortali? Chi può sapere la mischia all'arma bianca - i molti duelli nel buio, quell'intrico d'ombre, i boschi lampeggianti al lume di luna - i gruppi e le squadre che si contorcono - gli urli, lo strepito, il crepitio di fucili e pistole - il cannone in distanza - gl'incoraggiamenti i richiami le minacce e la spaventosa musica delle bestemmie - l'indescrivibile mischia - gli ordini, le parole di persuasione o d'incitamento degli ufficiali - i demoni del cuore umano completamente scatenati - il grido poderoso Caricate, ragazzi, caricate! - il lampo della spada snudata, gli attorti nugoli di fiamme e di fumo? E sempre ancora il lume di luna che con argentea delicatezza piove su ogni cosa le sue chiazze raggianti. Chi saprà dipingere la scena, il panico subitaneo e parziale del pomeriggio, al crepuscolo ? Chi l'inarrestabile avanzata della seconda divisione del terzo corpo, ordinata all'improvviso da Hooker e condotta da lui stesso - quello sfilar veloce di fantasmi pei boschi? Chi svelerà che cosa si muove laggiù nell'ombra, fluido e fermo - per salvare il nome dell'esercito (riuscendovi) e forse la nazione stessa? Poiché lì sono i veterani che tengono il campo (il valoroso Berry non cade ancora - ma la morte lo ha già marcato - ecco che subito cade). SENZA NOME IL SOLDATO PIU' VALOROSO Di scene come queste, dico, chi scrive? chi mai potrà narrarne la storia? Di quelle centinaia, migliaia anzi di ignoti eroi del Nord e del Sud, eroismi sconosciuti, disperazioni incredibili, fulminee e nobilissime - chi ci parlerà? Non la storia - nessun poema canta e nessuna musica celebra quegli uomini, tra tutti i più valorosi, quelle imprese. Nessuno dei rapporti ufficiali che i generali stendono, nessun libro di biblioteca o colonna di giornale provvede a imbalsamare i più prodi, Nord o Sud, Est o Ovest. Senza nome e sconosciuti rimangono, sempre, i più valorosi. I nostri cari - i più forti - i nostri coraggiosi ragazzi; non c'è quadro che li rappresenti. Ecco, probabilmente il tipico esempio di quelle centinaia, certo anzi migliaia di soldati, ricevuto il colpo mortale si porta strisciando in disparte dietro un gruppo di arbusti o

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una gobba di felci - vi si ripara per un poco inzuppando di rosso sangue le radici, l'erba e il terreno - la battaglia intanto avanza, recede, sparisce dalla scena, lo sfiora veloce - e là, forse tra spasmi e sofferenze (eppur meno, molto meno che non si creda) l'estremo letargo gli si avvolge intorno come un serpe - gli occhi nell'agonia si fanno vitrei - nessuno vi bada - con ogni probabilità tra una settimana, durante la tregua, le squadre incaricate della sepoltura non perlustreranno quell'angolo recondito - e là infine il Soldato più valoroso ritorna, sfatto, in seno a madre terra, insepolto e ignoto. ALCUNI CASI TIPICI 18 giugno. In uno degli ospedali trovo Thomas Haley, compagnia M, 4° cavalleria New York - tipico ragazzo irlandese, un bell'esempio di vigore fisico giovanile - colpito ai polmoni - sta morendo, non c'è scampo - era venuto fin qui dall'Irlanda per arruolarsi - non ha un amico, non una sola conoscenza - in questo momento dorme profondamente (ma è il sonno della morte)- il proiettile gli ha forato il polmone da parte a parte. Vidi Tom per la prima volta quando lo portarono qui tre giorni fa, e allora pensai che non potesse vivere nemmeno altre dodici ore (tuttavia presenta una cera abbastanza buona, agli occhi di un osservatore casuale). Sta lì disteso con il corpo scoperto dalla cintola in su, nudo, per via del caldo, ben proporzionato, l'abbronzatura non ancora sbiadita dalle guance e dal collo. È inutile parlargli: quella triste ferita, gli stimolanti che gli somministrano, e la totale estraneità degli oggetti che lo circondano, volti, mobili ecc., han fatto del povero ragazzo, anche quando è sveglio, un timido animale atterrito. Per lo più dorme, o è assopito (varie volte ho pensato che capisca più di quanto non dia a vedere). Vengo qui spesso e mi siedo accanto a lui in perfetto silenzio; allora per dieci minuti forse il suo respiro sarà lieve e uniforme come quello di un bimbo addormentato. Povero giovane, così bello, con quel corpo d'atleta, quella profusione di bei capelli lucenti. Una volta, mentre gli sedevo accanto guardandolo dormire, d'un tratto, senza il minimo sussulto, si destò, aprì gli occhi e mi rivolse uno sguardo lungo e fermo, volgendo lievemente il capo per vedere meglio - un solo lungo sguardo, limpido, silenzioso - appena un sospiro - poi si rigirò e ricadde nel suo sopore. Conosceva ben poco, povero ragazzo segnato dalla morte, il cuore dello straniero che vegliava lì accanto. W. H. E. Co. F, 2° N. J. Malato di polmonite. Prima di essere trasportato qui è rimasto per sette o otto giorni nell'infelice ospedale a sud del torrente Aquia. Distaccato dal suo reggimento per andarvi a prestare opera di infermiere, era stato subito colpito egli stesso dalla malattia. È un uomo anziano, dal viso olivastro, piuttosto sparuto, capelli grigi; è vedovo con figli. Mi disse di avere un gran desiderio di un buon tè verde, forte. Un'ottima signora, Mrs. W. di Washington, gliene inviò subito un pacchetto insieme a una piccola somma di denaro. Il dottore disse di dargli tè a piacere; glielo lasciavano sul tavolino accanto al letto, ed egli ne beveva tutti i giorni. Dormiva parecchio; non poteva parlare un gran che, essendo divenuto sordo.

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Occupava il letto 15, padiglione 1, all'Armeria. (La stessa signora menzionata sopra, Mrs. W., mandò ai feriti anche un grande pacco di tabacco). J. G. occupa il letto 52, padiglione 1; è del 7° Pennsylvania, compagnia B. Gli ho dato una sommetta di denaro, un po' di tabacco, delle buste. Anche ad un altro ferito, li accanto, ho dato 25 centesimi; è arrossito quando glieli ho offerti - sulle prime rifiutava, ma io l'ho forzato a prenderli, poiché avevo scoperto che non possedeva davvero un centesimo e gli piaceva molto avere dei quotidiani da leggere. Ne è stato evidentemente assai contento, ma ha detto poco o nulla. L. T D., della compagnia F del 9° New Hampshire, occupa il letto 37, padiglione 1. Gli piace molto il tabacco. Gliene procuro un poco, cui aggiungo un po' di danaro. Ha la cancrena ai piedi; un caso piuttosto brutto; finirà certamente per perdere tre dita. È un tipico esemplare di campagnolo del New England dei tempi andati, rozzo e di gran cuore, e mi fa pensare a quella famosa gatta strinata che era assai migliore che non sembrasse a guardarla. Letto 3, padiglione E, Armeria - ha una gran voglia di sottaceti, qualcosa di piccante. Dopo aver consultato il dottore in proposito, gli ho portato un vasetto di rafano; anche delle mele; e un libro. Alcuni degli infermieri qui sono ottimi. L'infermiera di questo padiglione 1 mi piace particolarmente (Mrs. Wright - un anno dopo dovevo rivederla nell'ospedale di Mansion House, ad Alexandria - è un'infermiera perfetta). In un altro letto c'è un giovane malato di dissenteria e febbre tifoidea - Marcus Small, compagnia K, 7° Maine - un caso critico - parliamo sovente - dice che morirà - e infatti è probabile. Gli scrivo una lettera a casa, East Livermore, Maine - lo lascio chiacchierare un poco, ma non troppo, gli consiglio di starsene il più tranquillo possibile - porto avanti quasi tutta la conversazione da solo - mi trattengo piuttosto a lungo, dacché egli si aggrappa alla mia mano - gli parlo in modo da tenerlo su, ma piano, misuratamente e a bassa voce - parlo della licenza e del ritorno a casa non appena sarà in grado di viaggiare. Thomas Lindly, 1° cavalleria Pennsylvania, una bruttissima ferita a un piede - povero ragazzo, soffre orribilmente, devono continuamente drogarlo con la morfina - viso cinereo e lustro, giovani occhi vivaci - gli porto una bella mela grande e gliela lascio lì in vista, dicendogli di farsela cuocere al forno per il mattino, quando solitamente trova un po' di sollievo e può fare una piccola colazione. Gli scrivo due lettere. Dalla parte opposta, una vecchia signora quacquera siede al capezzale di suo figlio, Amer Moore, 2° artiglieria U.S.A. - ferito alla testa due settimane fa, molto debole nel complesso, ma ragiona - paralizzato dai fianchi in giù - sicuramente morirà. Tutti i giorni, tutte le sere mi fermo a dirgli poche parole -risponde di buon grado - non desidera nulla (subito appena arrivato mi parlò delle cose di casa sua, la madre era stata molto malata ed egli aveva paura di farle conoscere il suo stato). Morì appena lei arrivò. I MIEI PREPARATIVI PER LE VISITE

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Durante le mie visite agli ospedali scoprii che il mio successo e l'aiuto che riuscivo a dare si spiegavano più con il semplice fatto della presenza personale e del normale magnetismo e buonumore che ne emanavano che non con l'assistenza medica che potevo prestare, le ghiottonerie, i doni in danaro o qualsiasi altra cosa. Durante la guerra ero in possesso di una salute fisica perfetta. Era mia abitudine, circostanze permettendo, prepararmi a quei giri di due, quattro e anche cinque ore sia di giorno che di notte, corroborandomi con un adeguato riposo, un bagno, abiti puliti, un buon pasto e un aspetto il più sereno possibile. PROCESSIONI DI AMBULANZE 25 giugno, tramonto. Mentre scrivo questo paragrafo, vedo un convoglio di circa trenta enormi carrozzoni a quattro cavalli, adibiti ad ambulanza e rigurgitanti di feriti, sfilare per la Quattordicesima diretto con ogni probabilità verso gli ospedali di Columbia, Carver e Mount Pleasant. E così che adesso arrivano i feriti, di rado in piccoli gruppi, e quasi sempre in queste lunghe, tristi processioni. Per tutto lo scorso inverno, quando il nostro esercito si trovava di fronte a Fredericksburg, simili cortei di ambulanze furono uno spettacolo frequente lungo la Settima: avanzavano lentamente dal molo dei vaporetti, con il carico fatto al torrente Aquia. BRUTTE FERITE - I GIOVANI I soldati sono quasi tutti giovani, e il numero di americani tra loro è assai più alto che in genere non si creda, un nove decimi di nativi, direi. Tra quelli arrivati da Chancellorsville ho trovato un'ampia percentuale di gente dell'Ohio, dell'Indiana e dell'Illinois. Come sempre vi sono feriti di ogni sorta. Certuni ustionati in modo spaventoso dall'esplosione di cassonetti d'artiglieria. In un padiglione, una lunga fila di ufficiali, alcuni con ferite molto brutte. Ieri è stato forse peggio del solito. Continuano le amputazioni - gli assistenti medicano ferite. Quando passate di là dovete far bene attenzione a dove posate gli occhi. In uno di questi padiglioni ho visto l'altro giorno un signore, venuto presumibilmente per curiosità, fermarsi e volgersi un istante a guardare un'orribile ferita che stavano sondando con uno specillo. Impallidì, e un minuto dopo era piombato a terra privo di sensi. GLI SPETTACOLI PIU' ESALTANTI DI TUTTA LA GUERRA 29 giugno. Poco prima del tramonto stasera è sfilato un grosso contingente di cavalleria - qualcosa di bello a vedersi. Erano evidentemente veterani. Prima veniva

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una fanfara a cavallo, con sedici trombe, tamburi e cembali, che suonava focosi motivi marziali - mi fece balzare il cuore in petto. Seguivano i comandanti in capo, poi le varie compagnie, ognuna col suo ufficiale in testa, che naturalmente costituivano ]a parte più cospicua della cavalcata; poi un lungo corteo di soldati coi cavalli tenuti alla briglia e un gran numero di negri montati su bestie speciali - poi una ]unga fila di carriaggi, ognuno trainato da quattro cavalli - e infine una eterogenea retroguardia. Era uno spettacolo alquanto guerresco e gaio; le sciabole tintinnavano, gli uomini avevano un aspetto giovanile, sano e robusto; l'elettrico calpestio di tanti cavalli sul fondo duro della strada, insieme al portamento baldanzoso, la bella positura, l'aria gioviale di quel migliaio e più di bei ragazzi americani, erano cose che facevan bene a vedersi. Un'ora dopo passò un'altra truppa, più piccola, forse trecento uomini. Anche questi sembravano reduci dal servizio, gente usa al campo e alla battaglia. 3 luglio. Anche questo pomeriggio, per più di un'ora, lunghe sfilate di cavalleria, vari reggimenti, uomini e cavalli splendidi, quattro o cinque per fila. Li ho visti nella Quattordicesima, entravano in città dalla parte nord, affiancati da diverse centinaia di cavalli di riserva, e molte cavalle coi loro puledri, che seguivano al trotto (sembra ci fosse anche un certo numero di prigionieri). Come sono entusiasmanti, sempre, i reggimenti di cavalleria. I nostri soldati montano in genere belle bestie, appaiono disinvolti, sono giovani, allegri in sella, la coperta arrotolata dietro, le sciabole tintinnanti al fianco. Questo rumore e il movimento e lo scalpiccio di tanti zoccoli, hanno su di me un effetto curioso. Le trombe suonano - adesso si sentono lontanissime, smorzate, miste ad altri rumori. Poi, erano appena passati tutti, dalla parte opposta cominciò una sfilata di ambulanze che risalivano la Quattordicesima dirette a nord, lentamente, una dopo l'altra, trasportando una gran quantità di feriti agli ospedali. BATTAGLIA DI GETTYSBURG 4 luglio. Il tempo oggi nel complesso è assai bello, l'aria tiepida, ma sufficientemente fresca grazie a una bella pioggia ier sera, e non c'è polvere, che è un gran sollievo per questa città. Verso mezzogiorno in Pennsylvania Avenue ho visto la parata che dalla Quindicesima strada scendeva verso il Campidoglio. C'erano tre reggimenti di fanteria (quelli che prestano servizio di guardia qui, credo), due o tre società di "Odd Fellows", una quantità di bambini in calesse e una squadra di poliziotti (tutto ciò è solo un inutile gravame, imposto ai soldati - hanno già abbastanza lavoro sulle spalle per accumularvi cose del genere). Mentre percorrevo il viale, sul quadro dei comunicati della redazione di un giornale scorsi un vistoso manifesto che annunciava "Gloriosa vittoria per l'esercito dell'Unione!". Meade si era scontrato con Lee a Gettysburg, Pennsylvania, il giorno innanzi e quello precedente, e lo aveva respinto in modo clamoroso, fatto 3.000 prigionieri, ecc. (vidi in seguito il bollettino di Meade. molto modesto, e anche una specie di ordine del giorno emesso dal Presidente in persona, d'ispirazione piuttosto religiosa, che rendeva grazie al

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Supremo e invitava la popolazione a fare altrettanto). Proseguii per l'ospedale dell'Armeria - portai con me parecchie bottiglie di sciroppo di more e di ciliegie, buono e forte ma innocuo. Passai per vari padiglioni annunciando ai soldati la notizia di Meade, e a tutti offrii un buon bicchiere di sciroppo con acqua ghiacciata, che è alquanto rinfrescante - lo preparai con le mie mani e andai in giro a servirlo. Frattanto le campane di Washington hanno intonato il loro concerto vespertino per il 4 luglio, accompagnato dalla tradizionale salva di cannoni, mortaretti e pistole di ragazzi. UN ACCAMPAMENTO DI CAVALLERIA È quasi il tramonto; scrivo osservando una compagnia di cavalleria (del servizio segnalazioni), arrivata da poco sotto un acquazzone, mentre si accampa per la notte in un ampio spiazzo deserto, una specie di collina proprio di fronte alla mia finestra. Ecco gli uomini con le loro giacche a bande gialle. Sono smontati tutti; i cavalli, una volta liberi, restano in piedi con la testa bassa e i fianchi tutti bagnati; tra poco saranno portati in gruppi a abbeverarsi. In breve ecco spuntare le piccole tende a parete verticale e quelle da riparo. Vedo già il brillio dei fuochi, con su pentole e marmitte. Alcuni soldati piantano in terra i picchetti delle tende, assestando con l'ascia colpi forti e scanditi. Scorgo grandi assembramenti di cavalli, balle di fieno, gruppi di uomini (qualcuno con la sciabola ancora affibiata al fianco), qualche ufficiale, cataste di legname, le fiamme dei bivacchi, selle, finimenti, ecc. Si alza il fumo, altri uomini arrivano e smontano - chi pianta paletti e vi lega il cavallo, chi va per acqua con secchie; chi ancora taglia la legna, e così via. 6 luglio. - Pioggia insistente, scura e fitta e calda. È appena passato un convoglio di carri a sei muli che trasportava pontoni, grandi chiatte quadrangolari e pesanti tavole con cui ricoprirle. Veniamo a sapere che poco più su il Potomac è uscito dagli argini, e ci chiediamo se Lee sarà capace di riattraversarlo, o se Meade questa volta non lo farà davvero a pezzi. L'accampamento di cavalleria sulla collina rimane per me un ininterrotto campo di osservazione. Nel pomeriggio ecco lì i cavalli, legati insieme, fradici, fumanti, che biascicano fieno. Gli uomini emergono dalle tende, anch'essi fradici. I fuochi sono semispenti. 10 luglio. - Sempre il campo di fronte - cinquanta, forse sessanta tende. Gli uomini ripuliscono le sciabole (fa bello oggi), lucidano stivali, se ne stanno sdraiati a leggere o a scrivere - alcuni cucinano, altri dormono. Su una lunga fila di trespoli improvvisati dietro le tende c'è l'equipaggiamento dei cavalleggeri - coperte e cappotti stesi a prender aria - e i cavalli anche, legati a gruppi, che mangiando continuano a scalpicciare e a sferzare attorno la coda per tener lontane le mosche. Resto a lungo alla mia finestra, al terzo piano, e osservo la scena - cento piccole attività - oggetti particolari connessi con la vita del campo che non potrebbero essere

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descritti adeguatamente, uno per uno, senza disegnarli e colorarli minutamente con le parole. UN SOLDATO DI NEW YORK Questo pomeriggio, 22 luglio, ho passato molto tempo con Oscar F. Wilber, compagnia G, 154a New York, stremato da dissenteria cronica, oltre a una brutta ferita. Mi chiese di leggergli un capitolo del Nuovo Testamento. Accondiscesi, e domandai che cosa dovessi leggere. Disse, "Scegliete voi". Aprii verso la fine di uno dei primi libri degli evangelisti e lessi i capitoli che descrivevano le ultime ore di Cristo e le scene della crocefissione. Il povero giovane divorato dal male mi chiese allora di leggere anche il capitolo seguente, come Cristo risorse da morte. Lessi, molto lentamente, perché Oscar era assai debole. Gli fece molto piacere, ma aveva gli occhi pieni di lacrime. Mi domandò se traessi beneficio dalla religione. Risposi, "Forse non nel modo che intendi tu, caro, eppure forse è la medesima cosa". Egli disse, "È il mio primo sostegno". Parlò della morte, diceva di non temerla. Dissi, "Suvvia, Oscar, non pensi di guarire?". E lui, "Potrebbe anche essere, ma non è molto probabile". Parlava con calma del suo stato. La ferita era molto brutta, versava continuamente. Inoltre la diarrea aveva finito per prostrarlo, ed io sentivo che poteva morire in quello stesso momento. Il suo contegno era virile e affettuoso. Mi restituì quattro volte il bacio che gli diedi al momento di andarmene. Mi diede l'indirizzo di sua madre, Mrs. Sally D. Wilber, ufficio postale di Alleghany, contea di Cattaraugus, N. Y. Ebbi molti di questi colloqui con lui. Morì pochi giorni dopo l'incontro ora descritto. MUSICA FATTA IN CASA 8 agosto. Questa sera mentre sedevo al capezzale di un soldato ferito nell'ospedale dell'Armeria, tentando di mostrarmi sereno, fui attratto da un gradevole canto in una delle corsie attigue. Il mio soldato dormiva; lo lasciai, entrai nella corsia dov'era la musica, ne percorsi una metà e mi misi a sedere accanto al lettuccio di un mio giovane amico di Brooklyn, S. R., il quale aveva ricevuto una brutta ferita alla mano, a Chancellorsville, e aveva sofferto molto, ma in quel momento della sera appariva completamente sveglio e alquanto rinfrancato. Si era girato sul fianco sinistro per veder meglio quelli che cantavano, ma le zanzariere dei lettini vicini gl'impedivano la vista. Io allora feci un giro e le tirai tutte su, annodandole, sì che egli potesse godersi intera la scena; poi mi rimisi a sedere accanto a lui, osservando e ascoltando. Il cantore principale era una giovane infermiera di una delle corsie: si accompagnava su un melodion, seguita dal canto delle infermiere delle altre corsie. Erano sedute - un gruppo pieno di grazia, con quei bei visi sprizzanti salute; alle loro

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spalle, un pochino discosti e in piedi, v'erano dieci o quindici soldati convalescenti, e poi giovani, infermieri, ecc., coi libri in mano, e cantavano. Certo non una di quelle esecuzioni dell'Opera di New York cui prendono parte grandi solisti; e tuttavia mi chiedo se il piacere che provai in questa circostanza, standomene là seduto, non equivalesse a quello procuratomi dalle migliori opere italiane nell'interpretazione di cantanti di fama mondiale. Gli uomini stesi nei loro lettucci in tutte le direzioni nell'ospedale (alcuni con gravi ferite, altri destinati a non rialzarsi mai più), i letti coi loro drappeggi di bianche tende, e le ombre che si allungavano nella parte superiore e inferiore della corsia; poi il silenzio degli uomini, le espressioni, le positure che prendevano - tutto ciò costituiva una scena da ripercorrere più e più volte con lo sguardo. E qui dolcemente si levavano le voci fino all'alto soffitto di travi imbiancate, che garbatamente le restituiva. Cantavano molto bene, per lo più curiose vecchie canzoni e inni declamatori, su arie appropriate. Questo, per esempio: Fuggono i giorni veloci per me pellegrino e straniero, Eppur non vorrei trattenere quelle ore di stento e paura, Siamo già sulla costa Giordana, e gli amici oh stan passando, Tra poco anche noi scorgeremo la riva abbagliante. Vedendo la patria lontana cingeremo le armi o fratelli, L'assente Signore ha lasciato un messaggio, risplenda ogni luce, Siamo già sulla Costa Giordana e gli amici oh stan passando, E tra poco anche noi scorgeremo la riva abbagliante. ABRAMO LINCOLN 12 agosto. Vedo il Presidente quasi ogni giorno: abito infatti nella via dov'egli passa recandosi alla sua residenza fuori città, o tornandone. Non dorme mai alla Casa Bianca nella stagione calda, bensì in una salubre località a circa tre miglia a nord di Washington, alla Casa del Soldato, una fondazione dell'esercito statunitense, dove dispone di un appartamento. L'ho visto stamani recarsi al lavoro verso le otto e mezzo, passava a cavallo per Vermont Avenue all'altezza di via L. Ha sempre una scorta di venticinque o trenta cavalleggeri, con le sciabole sguainate, appoggiate verticalmente alla spalla. Dicono che egli personalmente non desiderasse questa guardia del corpo, ma che alla fine i suoi consiglieri l'hanno spuntata. La comitiva non costituisce di per sé spettacolo, né per le uniformi né per i cavalli. Il signor Lincoln compare generalmente in sella a un grosso cavallo grigio dall'andatura placida, indossa un vestito tutto nero, un po' scolorito e impolverato, una tuba anch'essa nera, e nel complesso, abiti,... non si presenta in nulla diverso dal più comune dei mortali. Alla sua sinistra cavalca un tenente con le spalline gialle; dietro, a due a due, seguono i cavalleggeri con le loro giacche a bande gialle. Procedono

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generalmente al piccolo trotto, essendo questo il passo fissato da quegli che essi scortano. Le sciabole e i finimenti tintinnano, ma il corteo, in sé così poco ornamentale, non desta al suo passaggio sensazione alcuna, mentre si dirige al trotto verso piazza Lafayette; solo qualche forestiero si ferma a guardare incuriosito. Scorgo chiaramente il volto bruno di Abramo Lincoln, i suoi solchi profondi, e gli occhi in cui sempre mi par di scorgere una espressione di profonda' latente tristezza. Ormai arriviamo a scambiarci inchini, e anche molto cordiali. Talvolta il Presidente va e torna in calesse scoperto. Lo squadrone dei cavalleggeri lo accompagna sempre, con le spade sguainate. Spesso quando va via la sera - ma a volte anche la mattina, se torna di buon'ora - lo vedo svoltare e fermarsi di fronte al]a grande e bella residenza del Ministro de]la Guerra, in via K, e trattenersi lì in colloquio. Se è in calesse, non scende (lo vedo dalla mia finestra) ma rimane seduto in vettura, e il signor Stanton esce di casa a conferire con lui; lo accompagna a volte uno dei suoi figli, un ragazzetto di dieci o dodici anni che cavalca alla sua destra, su un pony. All'inizio dell'estate ho visto di tanto in tanto il Presidente e la moglie in carrozza, in giro di piacere per la città, nel pomeriggio sul tardi. La signora Lincoln era vestita completamente di nero, con un lungo velo di crespo. Il tiro è dei più semplici, due cavalli soltanto, e anche questi niente di straordinario. Mi passarono una volta molto vicino, e poiché procedevano lentamente potei scorgere in tutta chiarezza il viso del Presidente. Accadde che il suo sguardo, benché astratto, fosse fisso in direzione del mio; egli s'inchinò e sorrise, ma celata sotto il sorriso io ben notai quella espressione cui ho già alluso. Nessun artista e nessun ritratto ha mai colto l'espressione profonda, ma sottile e indiretta, del viso di quest'uomo. V'è in esso qualche altra cosa. Ci vorrebbe uno dei grandi ritrattisti di due o tre secoli fa. CANICOLA Ultimamente abbiamo sofferto molto il caldo, qui sono adesso undici giorni che ci grava addosso. Io vado in giro con l'ombrello e il ventaglio. Ieri ho visto due casi di insolazione, uno in Pennsylvania Avenue, l'altro nella Settima strada. La compagnia trasporti del Municipio perde ogni giorno qualche cavallo. Eppure questo agosto è il più vivace che Washington abbia mai avuto, e l'estate che sta esibendo probabilmente la più energica e soddisfacente. C'è forse più elettricità umana, più gente a crearla, più fervore d'affari, maggior spensieratezza. Gli eserciti che l'avevano circondata subito dopo Fredericksburg, proseguirono la marcia, lottarono e combatterono fino al momento decisivo del possente corpo a corpo di Gettysburg - poi, con una conversione, ritornarono alle loro linee, lambendoci ancora, ma senza veramente toccarci, sia all'andata che al ritorno. E Washington sente ora che il peggio è passato; forse sente che da questo momento è padrona della situazione. Così adesso se ne sta nel bel mezzo di colline pullulanti di cannoni, con la consapevolezza di avere acquistato, nel breve spazio di cinque o sei settimane, un carattere ed una identità nuovi, e anche considerevolmente più piacevoli e dignitosi.

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STORIE DI SOLDATI Soldati, soldati, soldati, ne incontrate ovunque per la città, spesso uomini magnifici, anche se invalidi dalle uniformi consunte che s'aiutano con bastoni e grucce. Parlo spesso con loro, e a volte le conversazioni sono lunghe e interessanti. Uno di questi, per esempio, deve aver percorso tutta la penisola agli ordini di McClellan - mi narra gli scontri, le marce, le strane e improvvise conversioni di quella campagna ricca di eventi, lasciando intravedere cose di cui non v'è cenno nei rapporti ufficiali, nei libri o nei giornali. E sono queste le cose più genuine, preziose. Quest'uomo era là, è stato al fronte due anni' è passato attraverso una dozzina di combattimenti - da gran tempo ormai il suo discorso ha perduto ogni oncia di carne superflua, e quel che egli m'offre è poco, ma fatto di solida carne e di muscoli. (Io li sento come una ventata d'aria fresca, questi ragazzi americani, coraggiosi, svelti, intuitivi - soldati provati a dispetto della loro giovinezza). Il giuoco della voce con le sue sfumature di significato è più efficace di qualsiasi libro. C'è poi sempre qualcosa di maestoso in un uomo che ha avuto la sua parte in varie battaglie, specialmente se, quando voi più desiderate di vederlo abbandonarsi allo sfogo, egli sembra riguardar la cosa con quieto distacco. Io continuo ad essere disorientato dall'assenza di millanteria e di millantatori tra questi giovani-vecchi militari americani. Ho incontrato gente che ha partecipato a tutte le battaglie della guerra, dalla prima all'ultima, e le abbiamo discusse insieme una per una, per ogni angolo degli Stati Uniti, compresi molti degli scontri avvenuti sui fiumi e nei porti. Qui si trovano uomini di tutti gli Stati dell'Unione nessuno escluso (nell'esercito federale vi è più gente del Sud di quanto si pensi comunemente, specie degli Stati di confine).* Adesso io dubito che ci si possa fare una buona idea di che cosa sia in pratica questa guerra, e del carattere genuino dell'America, senza un'esperienza del tipo di quella che io sto facendo. * Cfr. discorso di Garfield alla Camera dei Rappresentanti 15 aprile 1879: "Sanno lor signori che, a prescindere dagli Stati di confine, nell'esercito che lottava per l'Unione v'erano ben cinquanta reggimenti e sette compagnie di bianchi provenienti dagli Stati ribelli? Sanno che dal solo stato del Kentucky sono venuti a combattere sotto la nostra bandiera più uomini di quanti Napoleone ne portò a Waterloo - più di quanti Wellington ne mise insieme contro Napoleone? E ricordano lor signori che 186000 uomini di colore hanno combattuto per la nostra bandiera e per l'Unione contro i secessionisti, e che di questi 90000 provenivano dagli stati ribelli?" (N.d.A.). MORTE DI UN UFFICIALE DEL WISCONSIN

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Ecco un'altra scena tipica di quel buio, cruento anno 1863 - sono note prese durante una mia visita all'ospedale dell'Armeria, in una calda ma bella giornata d'estate. Nel padiglione H ci avviciniamo al lettino di un giovane tenente di uno dei reggimenti del Wisconsin. Camminando sfioriamo appena il nudo tavolato del pavimento, poiché in questo lettuccio abitano lo strazio e l'ansimo della morte. Ho conosciuto questo tenente quando fu portato qui da Chancellorsville, e mi sono intrattenuto con lui varie volte, sia di giorno che di notte. Se l'era cavata abbastanza bene sino a ier l'altro, quando fu colto all'improvviso da una emorragia che non è stato possibile fermare, e che continua anche oggi, a intervalli. Guardate quel bacile accanto al letto, quasi ricolmo di sangue e di garze insanguinate: parla da sé. Il povero giovane sta lottando penosamente per riuscire a respirare, i grandi occhi scuri già vitrei, e un rantolo flebile, ma distinto, in gola. Un inserviente gli siede accanto: non lo lascerà fino all'ultimo, sebbene vi sia poco o nulla da fare. Morirà qui, tra un'ora o due, senza un amico o un parente. E intanto, appena un po' più in là, il normale chiacchiericcio e andirivieni della corsia prosegue indifferente. Alcuni dei ricoverati ridono o scherzano, altri giuocano a scacchi o a carte, altri leggono, ecc. Nella maggior parte degli ospedali ho potuto notare che, per quanto grave sia un malato, finché esiste una speranza il medico e gli infermieri si prodigano indefessamente, talora con una curiosa tenacia, per salvargli la vita: non lasciano niente di intentato, gli tengono sempre accanto qualcuno che esegua gli ordini del medico e si prenda cura di lui in ogni minuto del giorno e della notte. Osservate quel paravento. Provate ad avvicinarvi, nella penombra delle prime candele accese, e un'infermiera si farà avanti in punta di piedi e silenziosamente ma imperiosamente vi inviterà a non fare il minimo rumore, magari a non avvicinarvi affatto. Lì dietro vacilla la vita di qualche soldato, sospesa tra la guarigione e la morte. Forse in questo momento il povero corpo esausto è scivolato in un lieve sonno che anche un passo potrebbe turbare. Dovete ritirarvi. I pazienti vicini si muoveranno a piedi nudi. Molte volte sono stato colpito da questi sforzi così evidenti- ogni singola azione tesa a sottrarre alle grinfie della distruzione una vita umana. Ma una volta che quella presa si sia fatta salda e stabile, senza più possibilità o speranze, il medico abbandona il paziente. Se si tratta di un caso in cui uno stimolante sia di qualche sollievo, l'infermiere somministrerà ad libitum punch di latte o cognac. Non si fanno storie. Negli ospedali da campo non mi è mai capitato di notare sentimentalismi o piagnistei al letto di un morente, bensì una generale, impassibile indifferenza: è finita, per quanti sforzi siano stati fatti; è inutile affannarsi o dar via libera alle emozioni. Finché c'è uno spiraglio tengono duro e lottano, o almeno così fa la maggior parte dei medici; ma una volta sicura ed evidente la morte, abbandonano il campo. COMPLESSI OSPEDALIERI Agosto, sett. e ott. '63. Ormai ho preso l'abitudine di recarmi in tutti gli ospedali, anche al seminario di Fairfax ad Alessandria, e al grande campo dei

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Convalescenti, cui si accede per il Ponte Lungo. I giornali ne forniscono un regolare elenco - una lunga lista. Se volete un esempio-tipo di uno di questi ospedali più grandi, immaginatevi un'area da tre a venti acri di terreno, dove sono aggruppati dieci o dodici enormi baracconi di legno insieme a una dozzina, o venti (a volte anche più) costruzioni minori, capaci nel complesso di accogliere da cinquecento a mille o millecinquecento persone. Talvolta questi baraccamenti di legno o padiglioni, lunghi da cento a centocinquanta piedi ognuno, sono sistemati in una lunga fila uniforme con la fronte rivolta alla strada; altri sono spiegati sì da formare una immensa V; altri ancora sono ordinati attorno a uno spiazzo quadrato. Tutti insieme, considerando le tende supplementari, i padiglioni per i casi contagiosi, la stazione di guardia, i magazzini delle vettovaglie e l'alloggio del cappellano, costituiscono un aggregato enorme; al centro vi sarà con ogni probabilità una costruzione con gli uffici del capochirurgo, dei chirurghi dei vari padiglioni, dei membri della direzione, degli impiegati, ecc. I singoli padiglioni sono contrassegnati da lettere dell'alfabeto (padiglione G, padiglione K) o da numeri, 1, 2, 3, ecc. Ognuno ha il suo medico e il suo corpo infermieri. Nell'aggregato si trova naturalmente un buon numero di impiegati, e a capo di tutti il medico in carica. Qui a Washington, quando questi ospedali militari sono completi, come è già accaduto diverse volte, la massa di persone in essi contenuta supera in numero la popolazione dell'intera Washington di dieci o quindici anni fa. Dal Campidoglio, mentre scrivo, sono visibili forse trenta o quaranta complessi di questo tipo, che ospitano non di rado cinquanta e anche settantamila uomini. Io li uso come punti di riferimento, durante i miei vagabondaggi, quando mi fermo in qualche luogo soprelevato a osservare e a studiare la topografia. Guardate lì, tra il ricco fogliame degli alberi d'agosto, quel candido gruppo di costruzioni all'estrema periferia; poi quell'altro assembramento a un mezzo miglio di distanza dal primo, sulla sinistra; poi un terzo, a un miglio sulla destra, un quarto un miglio più oltre, e un altro ancora tra noi e il primo. In effetti non v'è direzione in cui, spingendo lo sguardo, il paesaggio e i dintorni non appaiano punteggiati di questi aggruppamenti. Quella piccola città (ché tale la credereste) in cima a un colle laggiù, è sì una città, ma di ferite, di malattie e di morte. È l'ospedale Finley, a nord-est di Washington, sul parco Kindall, come si chiamava un tempo. L'altro è l'ospedale Campbell. Ambedue sono molto grandi. Ho saputo che questi due da soli ospitavano da duemila a duemilacinquecento pazienti. C'è poi l'ospedale Carver, ancora più ampio, una vera cittadella a pianta regolare, cinta da mura e guardata da squadre di sentinelle. Più fuori, a est, l'ospedale Lincoln, anche più grande; e un mezzo miglio più oltre, l'Emory. Se lasciamo scorrere lo sguardo seguendo il fiume in direzione di Alessandria, troviamo sulla destra il luogo dove sorge il Campo Convalescenti, coi suoi cinque, otto, talora diecimila ricoverati. Ma persino questi non costituiscono che una piccola parte. Tra quelli che restano sono gli ospedali Harewood, Mount Pleasant, Piazza dell'Armeria, l'ospedale Giudiziario, tutti molto grandi. PASSEGGIATA IN UNA NOTTE SILENZIOSA

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20 ottobre. Questa sera, lasciato l'ospedale alle 10, (dopo circa cinque ore di servizio volontario, quasi senza un attimo di libertà) ho vagato a lungo per Washington. La notte era dolce, chiarissima, abbastanza fresca, con una voluttuosa mezzaluna lievemente dorata, l'alone intorno sfumato in un trasparente grigioazzurro. Ho percorso Pennsylvania Avenue fino alla Settima strada, e sono rimasto a passeggiare intorno al Palazzo dei Brevetti. Nella delicata luce lunare l'edificio aveva un che di accigliato e forte, un aspetto maestoso. Il cielo, i pianeti, le costellazioni, tutto così luminoso, così calmo, d'un silenzio così espressivo e rasserenante dopo quelle scene d'ospedale. Continuai a vagare nei paraggi fin quando l'umida luna non fu tramontata, molto dopo la mezzanotte. FIGURE MORALI DI SOLDATI Esistono degli esseri che di tanto in tanto incontro negli ospedali o sul campo - vivi esempi di distacco dal mondo, di disinteresse, di purezza animale e eroismo - gente inconsapevole della propria natura, nativi dell'Indiana o forse dell'Ohio o del Tennessee - sulla cui nascita sembra esser discesa la calma del cielo, e alla cui crescita graduale (quali che fossero le circostanze di lavoro, i mutamenti, le asperità e il basso o addirittura inesistente livello di cultura che l'hanno accompagnata) sembra aver presieduto uno strano potere di soavità spirituale, nerbo e salute interiore. Spesso nel comportamento di questi esseri si avverte un qualcosa di velato e di astratto. Ne ho incontrati, ripeto, non di rado nell'esercito, sul campo e negli ospedali. Se ne trovano nei reggimenti dell'Ovest. Spesso sono giovani che obbediscono agli eventi e alle circostanze entrando nell'esercito, marciando, combattendo, raccogliendo foraggio, cucinando, o, prima della guerra, lavorando in campagna o in qualche ramo del commercio - inconsapevoli della loro natura (ma quanto a questo, chi è conscio della propria natura?) - mentre quelli che li attorniano intuiscono solo che sono diversi dagli altri, più silenziosi, che "hanno qualcosa di strano", e che sono capaci di staccarsi dal resto e andarsene a meditare e a riflettere in solitudine. MANDRIE PER LE VIE DI WASHINGTON Tra gli altri spettacoli vi sono immense mandrie coi loro bovari, che passano per le vie della città. Alcuni degli uomini hanno un modo tutto loro di guidare la mandria, con un richiamo strano, un grido gutturale e selvaggio, pensoso, molto musicale, prolungato, indescrivibile, qualcosa a mezzo tra il tubare del colombo e il chiurlare del gufo. Mi piace fermarmi a osservare lo spettacolo di una di queste mandrie immense - un po' in disparte, per il gran polverone. Ci sono sempre uomini a cavallo che fan schioccare la frusta e lanciano grida - le bestie mugghiano - qualche

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bue o manzo testardo cerca di scappare - ecco allora una scena movimentata - i mandriani a cavallo, sempre ottimi cavallerizzi e montati su belle bestie, si precipitano dietro il ribelle, in un turbine di cerchi e giravolte -una dozzina a cavallo, assai pittoreschi coi loro grandi cappelli flosci a larghe tese - un'altra dozzina a piedi - tutti coperti di polvere - i lunghi pungoli in mano - una mandria immensa, forse mille bestie - il gran vociare, le urla di richiamo, il movimento ecc. CONFUSIONE NEGLI OSPEDALI In aggiunta alle altre difficoltà, è pressocché impossibile, nella confusione di questo grande esercito di malati, che un forestiero riesca a trovare un amico o un parente, a meno che non conosca, per cominciare, la collocazione specifica del paziente. Oltre all'elenco pubblicato dai giornali del luogo, esistono uno o due altri elenchi degli ospedali presso il quartier generale di polizia, ma sono tutt'altro che completi; non sono mai aggiornati né del resto, così come stanno le cose, in questo mare di arrivi, partenze, spostamenti quotidiani, potrebbero esserlo. Ho saputo di certi casi - un contadino per esempio, venuto qui dal nord dello Stato di New York a trovare un fratello ferito, che dopo aver fiduciosamente cercato per ogni dove per una settimana è stato costretto a desistere e a tornarsene a casa senza averne scoperto traccia. Arrivato a casa trovò una lettera del fratello che g]i forniva l'indirizzo esatto. LA FRONTE Culpepper, Virginia, febbraio '64. Qui mi trovo parecchio avanti, non troppo lontano dalla prima linea. Tre o quattro giorni fa il generale S., ora comandante in capo (credo che Meade sia assente, malato forse) spostò dal campo un forte contingente di truppe muovendo a sud, come se intendesse fare grandi cose. Sono arrivati fino al Rapidan; da allora si è avuto qualche spostamento e qualche scontro, ma niente di decisivo. I bollettini giunti la mattina di lunedì scorso per telegrafo mi sembra abbiano dato troppa importanza alla cosa. Quali fossero le intenzioni del generale S. qui non sappiamo, ma abbiamo fiducia in questo esperto comandante. C'è stata sì un po' di eccitazione (ma nemmeno troppa) domenica, tutto il giorno e anche la notte, quando cominciarono ad arrivare ordini di far bagagli e sellare i cavalli e tenersi pronti a evacuare e a ripiegare su Washington. Ma io avevo un gran sonno e me ne andai a letto. Svegliato nel cuore della notte da grida tremende, uscii e scoprii che provenivano dagli uomini di cui sopra, che tornavano. Parlai con alcuni di loro; come sempre notai in essi allegria e capacità di sopportazione e, in molte piccole cose, i bei segni della migliore, della più eletta gioventù del mondo. Era uno spettacolo curioso, quelle colonne indistinte che si muovevano nella notte. Io rimasi nel buio, inosservato, a guardare. Il fango era assai profondo. Gli uomini portavano il

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solito carico, cappotti, zaini, fucili e coperte. Sfilarono e sfilarono, a breve distanza da me - ogni tanto una risata, una canzone, una battuta, ma non una sola parola di scontento. Può sembrar strano, ma mai come allora compresi la realtà e la maestà del popolo americano en masse. Mi investì con la forza di un terrore sacro. I possenti squadroni procedevano né veloci né lenti. Avevano già marciato per sette o otto miglia nello scivoloso untume del fango. Il valoroso I° corpo si ferma qui. L'egualmente valoroso terzo corpo procede alla volta della stazione di Brandy. Il famoso 14° Brooklyn si trova a guardia della città: le loro gambe rosse, sempre in gran movimento, stanno dappertutto. Hanno persino un teatro tutto loro; vi danno spettacoli musicali, e direi che ogni cosa vi è fatta in maniera eccellente. Naturalmente l'uditorio è un bailamme. Assistere a uno di questi spettacoli del 14° è una buona distrazione. Più che la scena sul palcoscenico, mi piace osservare i soldati intorno e l'assembramento generale sotto il sipario. IL PAGAMENTO DEI PREMI Una delle cose da notare adesso è l'arrivo dell'ufficiale pagatore con la sua cassaforte, e il pagamento dei premi ai veterani che si riarruolano. Oggi c'è qui il maggiore H., con una montagnuola di bigliettoni che fa allargare il cuore alla 2a divisione del I° corpo. Il maggiore H. e l'impiegato Eldridge, con davanti i registri e una gran quantità di soldi, siedono dietro un tavolino al centro di una casupola traballante. Un riarruolato riceve circa 200 dollari in contanti (più ricche rate che verranno saldate una dopo l'altra nei vari giorni di paga). Lo spettacolo degli uomini che si affollano intorno è davvero esilarante: mi piace star lì a guardare. Si sentono inebriati, con le tasche rigonfie e la licenza che verrà, e la visita a casa. Una visione di occhi scintillanti e guance colorite. Il soldato ha sulle spalle molte tristi e dure esperienze, e tutto ciò riesce a compensarlo in parte. Il maggiore H. ha l'ordine di pagare anzitutto gli uomini del I° corpo, premi e paghe arretrate, e quindi il resto. Si sente il suono caratteristico e ininterrotto delle banconote nuove che schioccano e frusciano nelle agili dita del maggiore e del mio amico, l'impiegato E. CHIACCHIERE, MUTAMENTI, ECC. A proposito dell'eccitazione di domenica scorsa, e dell'ordine di tenersi pronti a partire, ho sentito dire in seguito che i suddetti ordini erano venuti da qualche prudente comandante in seconda, e che le autorità non solo non ne sapevano nulla, ma neanche pensavano a movimenti del genere: il che è probabile. Le voci che correvano qui, e il diffuso timore, accennavano a una grande manovra di accerchiamento da parte di Lee e a un attacco sul nostro fianco destro. Ma io tenevo lo sguardo sul fango, che era allora della massima profondità e gonfiezza, e mi ritirai

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compostamente a riposare. Pure devono esservi mutamenti in vista per Culpepper. Le autorità si sono date la caccia qui come nuvole in un cielo burrascoso. Prima di Bull Run (la prima) questo era il centro di riunione e di addestramento delle truppe secessioniste. Momentaneamente io alloggio presso una signora che è stata testimone di tutte le memorabili evoluzioni della guerra su questa strada calcata da eserciti opposti. È vedova, con figli in tenera età, vive con la sorella in una casa grande e piacevole. A pensione da loro vi è un buon numero di ufficiali dell'esercito. VIRGINIA Rovinata, indifesa e calpestata dalla guerra com'è oggi la Virginia, ogniqualvolta ne calco il suolo io mi scopro pieno di sorpresa e di ammirazione. Che grande capacità di produzione e di progresso, di sostenimento, di vita e di espansione! Ovunque io sia andato, nell'Old Dominion (la sottile ironia di questo nome oggi ! ) sono stato preso da queste riflessioni. Il suolo è ancora superiore di molto a quello di qualsiasi stato del Nord. E che respiro nel paesaggio, ovunque montagne che si perdono in lontananza, ovunque utili corsi d'acqua. Tuttora prodiga di boschi e foreste, questa terra è certamente ottima per tutti i tipi di frutta, colture e fiori. Il cielo e l'atmosfera, ne son certo, mi appaiono più dolci dopo un anno e più di residenza in questo Stato, con continui spostamenti e ritorni. Molto salubri. direi, da un punto di vista generale. E poi con una qualità particolare di ricchezza e elasticità, di giorno come di notte. Il sole si delizia della sua potenza, barbaglia e brucia, e tuttavia non mi provoca mai spiacevoli infiacchimenti: non è un calore tropicale, non toglie il respiro, anzi dà vigore. È il nord che lo tempera. Le notti sono spesso incomparabili. Ieri sera (8 febbraio) ho visto entrare la luna nuova - con dietro stagliato nitidamente il profilo della vecchia fase; il cielo e l'aria così limpidi, con una tal trasparenza di sfumature, che io pensai di non aver mai veduto prima la luna nuova. Era la falce più sottile che si sia mai vista. Stava delicata mente sospesa proprio sopra l'ombra scontrosa delle Montagne Azzurre. Potesse rivelarsi un buon presagio, una breve profezia per questa terra infelice! ESTATE 1864 Eccomi di nuovo a Washington, preso dai miei soliti giri diurni e notturni. Vi sono naturalmente molti casi peculiari. In ogni padiglione si trovano sparsi qua e là poveri ragazzi costretti a lunghe sofferenze da ferite testarde, o indeboliti e scuorati da febbre tifoidea o simili; casi speciali' che abbisognano di nutrimento particolare e appropriato. È da questi che vado a sedermi, e scambio qualche parola, o cerco di rincuorarli in silenzio. A loro piace immensamente (e anche a me). Ogni caso poi ha le sue peculiarità, cui occorre di volta in volta adattarsi. Anch'io ho appreso queste

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leggi di adattamento - ho assimilato molta della saggezza d'ospedale. Alcuni di questi poveri ragazzi, lontani da casa per la prima volta in vita loro, sono affamati, assetati di affetto; spesso è questa l'unica cosa che riesce a toccarli, nel loro stato. I ricoverati amano in genere avere una matita e qualcosa su cui scrivere. Ho dato loro delle agendine da pochi soldi e degli almanacchi del 1864 con dei fogli bianchi. Per la lettura ho sempre qualche vecchia rivista illustrata o periodici con racconti - sono sempre graditi; anche i quotidiani, del mattino o della sera. I libri migliori non li regalo; li distribuisco invece in prestito nei padiglioni per poi riprenderli, darli ad altri, e così via; sono molto puntuali nel restituirli. In questi ospedali, o sul campo, continuando ad andare in giro, ho imparato a adattarmi a ogni necessità, secondo il tipo e l'urgenza, umili o dignitose che siano - ognuna giustificata e resa reale dalle sue circostanze - non solo visite e parole incoraggianti e piccoli doni - non solo lavare e bendare ferite (vi sono dei casi in cui il paziente non vuole altri che me per quest'ufficio) - ma letture di passi della Bibbia, con commento, preghiera al capezzale, spiegazione della dottrina, ecc. (a questa confessione mi par di vedere i miei amici sorridere, ma io non sono mai stato così serio in vita mia). Sul campo o dovunque fossi, avevo l'abitudine di leggere e recitare per loro. Era una cosa che amavano moltissimo, specie i brani di declamazione poetica. Ci riunivamo in un largo gruppo, dopo cena, per conto nostro, e passavamo il tempo in queste letture, o conversando, e di tanto in tanto con un giuoco divertente chiamato il giuoco delle venti domande. UNA NUOVA ORGANIZZAZIONE MILITARE PER L'AMERICA Dagli eventi della guerra, a Nord e Sud, e da tutte le altre considerazioni, mi risulta chiaro che la teoria, la pratica, l'organizzazione e le norme militari correnti (ereditate dagli istituiti feudali europei con l'aggiunta, ovviamente, delle "migliorie moderne" mutuate in larga parte dai francesi), per quanto in generale accettate e seguite tacitamente dagli ufficiali, non sono affatto consone né agli Stati Uniti, né al nostro popolo, né al nostro tempo. Che cosa ne verrà fuori, non so - ma so che alla fine dovrà necessariamente attuarsi una totale sconfessione dell'attuale sistema, militare e navale, seguita da una ricostruzione su basi e centri radicalmente diversi e a noi appropriati, allo stesso modo che il nostro sistema politico si è sviluppato, diverso dall'Europa feudale, crescendo poi su se stesso, da premesse originali, perenni, democratiche. È indubbio che qui negli Stati Uniti abbiamo la più grande forza militare del mondo, di qualsiasi nazione, forse di tutte le nazioni - truppe instancabili, intelligenti, coraggiose e fidate. Il problema è organizzare questa forza in maniera in tutto consona ad essa e ai principi della repubblica, e trarne il rendimento migliore. Nella guerra in corso, come è già stato detto e ridetto, forse i tre quarti delle perdite, uomini, vite, ecc., sono state mero eccesso, capriccio, spreco. MORTE DI UN EROE

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Mi chiedo se riuscirò mai a comunicare ad altri - a te per esempio, lettore caro - la tenera e terribile realtà di certi casi (e quanti ce ne son stati) simili a quello che voglio menzionare. Stewart C. Glover, compagnia E, 5° Wisconsin - ferito il 5 maggio, in una di quelle feroci mischie del Deserto - morto il 21 maggio - circa 20 anni. Era piccolo e imberbe - uno splendido soldato - in effetti quasi l'americano ideale della sua età. Prestava servizio da quasi tre anni e pochi giorni dopo avrebbe avuto diritto al congedo. Si trovava nel corpo di Hancock. Il combattimento per quel giorno era quasi cessato, e il generale che comandava la brigata fece un giro a cavallo chiedendo volontari per andare a raccogliere i feriti. Glover fu tra i primi a rispondere - uscì allegramente - ma nell'atto di riportare alle nostre linee un sergente ferito, fu colpito al ginocchio da un tiratore scelto dei ribelli; conseguenza: amputazione e morte. Prima viveva con il padre, John Glover, un uomo anziano e infermo, a Batavia, contea di Genesee, N. Y., ma si trovava a scuola nel Wisconsin poco dopo lo scoppio della guerra, e lì si arruolò - si adattò subito alla vita militare, gli piacque anzi, era molto coraggioso, e amatissimo da ufficiali e compagni. Come tanti altri soldati, teneva un piccolo diario. Il giorno della sua morte vi scrisse le seguenti parole, oggi il dottore dice che debbo morire - tutto è finito per me - ah, morire così giovane. Su un altro foglio bianco appuntò queste parole per suo fratello, caro fratello Thomas, sono stato coraggioso ma peccatore - prega per me. SCENE DI OSPEDALE. - INCIDENTI È domenica pomeriggio, mezza estate, caldo opprimente, e un gran silenzio nel padiglione. Dedico le mie cure a un caso critico, che in questo momento è immerso in un semi-letargo. Vicino a dove io son seduto giace, sofferente, un soldato ribelle; è dell' 8° Louisiana, si chiama Irving. Si trova qui da parecchio tempo, con una brutta ferita, gli hanno amputato da poco una gamba. Dalla parte opposta proprio di fronte a me giace un soldato-bambino, l'hanno messo giù con tutti i vestiti, dorme, appare consumato dal male, il volto pallido reclinato sul braccio. Dalla bordura gialla della giacca vedo che è un cavalleggere. Mi avvicino silenziosamente e scopro dalla sua cartella che si chiama William Cone, è del I° cavalleria Maine, i suoi vivono a Skowhegan. Gelato per tutti. Verso la metà di giugno, in una giornata di gran caldo, ho offerto il gelato a tutti i ricoverati dell'Ospedale Carver, procacciandone in gran quantità e passando quindi da un padiglione all'altro con la scorta del dottore o dell'infermiere-capo per provvedere personalmente alla distribuzione.

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Un incidente. In uno degli scontri di fronte a Atlanta, un soldato sudista, di corporatura possente, evidentemente giovane, venne ferito mortalmente alla testa, tanto che la materia cerebrale in parte fuoriuscì. Visse ancora tre giorni, steso supino nel punto dove era caduto. Durante quei tre giorni egli scavò nel terreno, con il calcagno, una buca capace di contenere due zaini di grandezza media. Giacendo lì all'aria aperta, continuò giorno e notte, quasi senza interruzione, a muovere il calcagno a quel modo. I nostri soldati lo trasportarono poi in una casa vicina, ma in pochi minuti morì. Un altro. Dopo i combattimenti di Columbia nel Tennessee, dove riuscimmo a respingere una ventina di impetuose cariche dei ribelli, i sudisti lasciarono sul campo un gran numero di feriti, per lo più a tiro dei nostri. Ogni volta che un ferito tentava in qualche modo di allontanarsi, generalmente strisciando, i nostri uomini lo abbattevano con un colpo, senza eccezioni. Non ne lasciarono sfuggire neppur uno, quali che fossero le sue condizioni. UN SOLDATO YANKEE Svoltando dalla Avenue nella Tredicesima strada, una fresca sera d'ottobre, c'era all'angolo un soldato con zaino e cappotto che chiedeva la strada. Scoprii che doveva percorrere un tratto nella mia stessa direzione, e proseguimmo insieme. Attaccammo subito a conversare. Era piccolo di persona e non molto giovane, un tipetto robusto a quanto potei giudicare alla luce della sera, sbirciandolo quando passavamo vicino a un lampione. Le sue risposte erano brevi ma chiare. Si chiamava Charles Carroll; apparteneva a uno dei reggimenti del Massachusetts ed era nato a Lynn o nei pressi. I genitori erano ancora vivi, ma in età molto avanzata. Erano quattro figli, e si erano arruolati tutti. Due erano morti di fame e di disperazione nella prigione di Andersonville, uno era stato ucciso nell'Ovest. Lui se ne stava andando a casa, e dal modo in cui parlava dedussi che era prossimo al congedo definitivo. Faceva gran progetti di starsene con i suoi vecchi, per dare un po' di conforto ai giorni che restavano loro da vivere. PRIGIONIERI UNIONISTI NEL SUD Michael Stransbury, 48 anni, marinaio, meridionale di nascita e educazione, già capitano del pontone-faro statunitense Long Shoel di stanza a Punta Long Shoal, stretto di Pamlico - benché meridionale, unionista convinto - fu catturato il 17 febbraio 1863, e ha trascorso quasi due anni nelle prigioni dei Confederati. A un certo momento il governatore Vance ordinò che fosse rilasciato, ma un ufficiale dei ribelli lo riarrestò; inviato quindi a Richmond per uno scambio di prigionieri, invece di

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essere restituito fu mandato più a sud, a Salisbury, Carolina del Nord (come cittadino sudista, non soldato) dove rimase fino a poco tempo fa, quando riuscì a fuggire mischiandosi con il nome di un soldato morto a un gruppo di prigionieri scambiati, e arrivando fin qui insieme agli altri via Wilmington. A Salisbury era rimasto per circa sedici mesi. Dopo l'ottobre del '64 in quei recinti si trovavano circa 11.000 prigionieri unionisti, tra cui un centinaio di unionisti del Sud e circa duecento disertori dell'Unione. Durante lo scorso inverno 1500 di questi prigionieri, per aver salva la vita, passarono alla Confederazione, a patto di essere assegnati soltanto a servizi di guardia. Di quegli 11.000 non ne usciron vivi più di 2500; di questi, 500 erano rottami umani, in condizioni pietose, sviliti - il resto era in grado di viaggiare. Al mattino v'erano spesso 60 cadaveri da seppellire; la media giornaliera si aggirava sui quaranta. Il cibo quotidiano era costituito da una pappa di granturco, fatta di torso e pula macinata insieme, e occasionalmente, non più di una volta alla settimana, una razione di melassa di sorgo. Poteva anche succedere, una volta al mese, non più spesso, di ricevere una microscopica razione di carne. All'interno dello steccato che racchiudeva gli 11.000 uomini, c'era uno scarso gruppo di tende sufficienti sì e no per duemila persone. Una gran quantità di prigionieri viveva in buche scavate nel terreno, nel più totale abbandono. Alcuni morirono di freddo, altri ebbero mani e piedi congelati. Ogni tanto, al minimo pretesto, le sentinelle sudiste sparavano all'interno della prigione, per puro gusto demoniaco. Tutti gli orrori immaginabili, inedia, prostrazione, sporcizia, insetti, disperazione, rapida perdita di ogni rispetto per se stessi, idiozia, demenza e frequenti assassini, erano lì dentro. Stansbury ha moglie e un figlio, che vivono a Newbern - ha scritto loro da qui - conserva il suo impiego al faro della marina statunitense (era andato a Newbern a trovare la famiglia, e fu proprio mentre ritornava alla nave che venne catturato, nel suo stesso battello). Ha visto portare a Salisbury uomini vigorosi quant'altri mai - spacciati in poche settimane, spesso a forza di rimuginare sulla loro condizione - sparita in loro ogni speranza. Egli stesso ha una sorta di espressione dura e triste, stranamente inebetita, come di uno lasciato per anni a gelare nel buio e nel freddo, in un luogo dove la sua natura virile e buona non avesse modo alcuno di esercitarsi. DISERTORI 24 ottobre. Veduto oggi sfilare per Pennsylvania Avenue uno squadrone di disertori del nostro esercito (più di trecento), serrati da un cordone di guardie armate - la più disparata collezione ch'io abbia mai visto, con divise, cappelli e berretti d'ogni genere e specie, molti bei ragazzi, alcuni vergognosi in viso, altri malaticci, sporchi i più, con camicie molto sudicie e lise, ecc. Si trascinavano senz'ordine, senza file, una gran massa confusa. C'era tra gli spettatori chi rideva, ma io di tutto avevo voglia fuorché di ridere. Codesti disertori sono assai più numerosi che non si creda. Ogni giorno ne vedo qualche drappello, talvolta solo di due o tre con una scorta ridotta, talora di dieci o dodici con una scorta maggiore (dicono che ora le diserzioni sul

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campo abbiano spesso raggiunto la media di 10.000 al mese. Una squadra di disertori è uno degli spettacoli più comuni a Washington). UNA PALLIDA IMMAGINE DEGLI ORRORI DELLA GUERRA Durante uno degli ultimi movimenti delle nostre truppe nella vallata (presso Upperville, credo) un forte contingente di guerriglieri a cavallo di Moseby attaccò un convoglio di feriti e la guardia di cavalleria che li scortava. Le ambulanze trasportavano circa sessanta feriti, tra cui un buon numero di alti ufficiali. I ribelli erano superiori di numero, e la cattura del convoglio con la sua scorta ridotta venne agevolmente effettuata dopo una breve scaramuccia. Come i nostri si furono arresi, immediatamente i ribelli cominciarono a saccheggiare il treno e a trucidare i prigionieri, compresi i feriti. Ed ecco la scena, o meglio un'idea della scena, dieci minuti dopo. Tra gli ufficiali feriti nelle ambulanze si trovavano un tenente delle truppe regolari e un ufficiale superiore. Questi due erano stati tirati fuori, trascinati per terra sulla schiena, e si trovavano ora al centro di una folla indemoniata di guerriglieri che si accanivano su di loro pugnalandoli in varie parti del corpo. Uno degli ufficiali aveva i piedi inchiodati al suolo con due baionette che lo passavano da parte a parte ed erano saldamente confitte nel terreno. Questi due ufficiali, come si scoprì in seguito esaminandoli, avevano ricevuto ognuno circa venti di questi colpi, alcuni in bocca, in viso, ecc. I feriti (anche per agevolare il saccheggio) erano stati tutti trascinati fuori dai vagoni; alcuni erano stati spacciati lì per lì, e i loro corpi giacevano lì accanto, immoti e lordi di sangue. Altri, non ancora morti ma orribilmente mutilati, gemevano o si lamentavano. Di quelli che si erano arresi,; più vennero in tal modo mutilati o massacrati. A questo punto uno squadrone della nostra cavalleria che aveva seguito il convoglio a una certa distanza, piombò inaspettatamente sui ribelli assalitori, il quali cercarono subito scampo come meglio potevano. La maggior parte riuscì a svignarsela, ma mettemmo le mani su due ufficiali e diciassette soldati sorpresi negli atti appena descritti. Lo spettacolo era di quelli che non ammettono discussioni, come si può facilmente immaginare. Per quella notte i diciassette uomini e i due ufficiali catturati vennero posti sotto sorveglianza, ma fu deciso seduta stante che dovevano morire. La mattina dopo i due ufficiali furono portati in città, in luoghi separati, messi al centro della strada e fucilati. I diciassette uomini furono condotti in uno spazio libero, un po' fuori mano, e sistemati in un quadrato chiuso per metà da due dei nostri reggimenti di cavalleria: uno di questi reggimenti aveva trovato tre giorni prima i corpi insanguinati di tre dei suoi uomini, coi tendini tagliati, appesi pei calcagni ai rami degli alberi dai guerriglieri di Moseby, e l'altro non molto tempo innanzi aveva trovato dodici dei suoi uccisi (dopo essersi arresi) e impiccati per il collo agli alberi, con delle iscrizioni di scherno appuntate al petto di uno dei cadaveri, quello di un sergente. Quei tre e questi dodici, dico, erano stati trovati dai reggimenti che circondavano lo spiazzo: coi loro revolver questi ora formavano la trista cintura dei

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diciassette prigionieri. Questi ultimi vennero piazzati al centro e slegati, e fu comunicato loro ironicamente che ora gli sarebbe stata offerta "una possibilità di salvarsi". Qualcuno si mise a correre. Ma a che pro? Da ogni lato piovvero le pillole mortali. Pochi minuti dopo sullo spiazzo erano disseminati diciassette cadaveri. Io ero curioso di sapere se qualcuno dei soldati dell'Unione, pochi magari (almeno uno, o due, dei più giovani), si fosse astenuto dallo sparare su degli esseri inermi. Nessuno. Non ci fu esultanza, si parlò poco, anzi quasi niente, eppure ogni singolo uomo contribuì con la sua pallottola. Moltiplicate tutto ciò per venti, per cento anzi- verificatelo in tutte le possibili forme proposte da circostanze, luoghi, individui diversi - accendetelo delle passioni più fosche, l'ingorda sete di sangue del lupo e del leone - gl'infocati, ribollenti vulcani dell'umana vendetta per compagni e fratelli uccisi - il bagliore delle fattorie in fiamme, i cumuli di nere braci fuligginose ancora ardenti - e ovunque nel cuore umano braci ancora più nere e più triste - e avrete una pallida immagine di questa guerra. DONI - DENARO - DISCRIMINAZIONE Trovandosi la maggior parte dei feriti che giungevano dal fronte senza un centesimo in tasca, compresi subito che la cosa migliore da farsi per sollevarne il morale e mostrar loro che c'era chi si preoccupava, chi si interessava praticamente a loro con sentimenti di padre e di fratello, era donare a chi si trovava in queste condizioni delle piccole somme di denaro, ma con discrezione e tatto. A questo scopo io vengo regolarmente rifornito di fondi da persone di buon cuore, uomini e donne di Boston, Salem, Providence, Brooklyn e New York. Mi provvedo allora di una quantità di monete nuove fiammanti da dieci e da cinque centesimi, e ogni volta che lo reputo necessario regalo venticinque o trenta centesimi, e anche cinquanta, e di tanto in tanto, in casi particolari, somme anche maggiori. Avendo ormai toccato l'argomento, colgo l'occasione per ventilare la questione finanziaria. Le fonti delle mie riserve di denaro, tutte assolutamente spontanee, moltissime per vie affatto confidenziali, spesso tali da sembrar opera della Provvidenza, erano numerose e varie. C'erano ad esempio due ricche signore, due sorelle, che vivevano lontano, e continuarono a inviare regolarmente per due anni somme piuttosto grosse, con la preghiera di tener segreto il loro nome. Questa forma di delicatezza era in realtà un fatto frequente. Parecchi mi diedero carte blanche. Molti erano persone assolutamente sconosciute. Grazie a queste fonti, per un periodo di due o tre anni, e nella maniera sopra descritta, potei distribuire negli ospedali, come elemosiniere per conto di terzi, diverse migliaia di dollari. Una cosa in particolare appresi da tutto ciò - che sotto l'apparente avidità e cinismo dei nostri tempi, non c'è limite alla benefica generosità degli uomini e donne, americani, una volta che lo scopo di essa sia chiaro. Un'altra cosa mi si fece evidente - che mentre

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"gli spiccioli" sono sì utili nelle retrovie, una simpatia magnetica, tatto e amorevolezza, sono sovrani, e lo saranno sempre. DAI MIEI QUADERNI DI APPUNTI Alcune delle mie note (semi cancellate e pressocché illeggibili a distanza di tempo) delle cose desiderate da questo o da quel paziente, potranno essere dei buoni indici. D.S.G., letto 52, vuole un buon libro; ha la voce rauca e il mal di gola, gli piacerebbe qualche caramella di mentastro; è del New Jersey, 28° reggimento.- C.H.L., 145° Pennsylvania, letto 6, soffre di itterizia e risipola, è anche ferito; stomaco facilmente soggetto a nausee; gli porto delle arance e un po' di gelatina dolce di frutta; un giovane allegro, pieno di vitalità (si è poi ripreso in pochi giorni e adesso è a casa in licenza). - J.H.G., letto 24; ha bisogno di una canottiera, pantaloni e calze; sono diversi giorni che non può cambiarsi; è un tipico ragazzo del New England ordinato e pulito (gli ho portato quanto desiderava; e anche un pettine, spazzolino da denti, sapone e asciugamani; potei notare in seguito che era il più pulito e curato del padiglione). - La signora G., infermiera, padiglione F, desidera una bottiglia di brandy - due dei suoi pazienti hanno urgente bisogno di qualche stimolante, sono sfiniti dalle ferite e dal deperimento (le ho portato una bottiglia di brandy di prima qualità, avuta dall'ufficio del Comitato Cristiano). UN FERITO DELLA SECONDA BULL RUN Dunque il povero John Mahay è morto. Morto ieri. Il suo è stato un caso doloroso e lungo (v. p. 52). In questi quindici mesi sono stato a trovarlo varie volte. Apparteneva alla compagnia A, 101° New York; era stato colpito al basso ventre nella seconda Bull Run, nell'agosto del '62. La descrizione di una sola scena al suo capezzale sarà sufficiente a darvi un'idea di questa agonia durata quasi due anni. La vescica gli era stata perforata da un proiettile che lo aveva passato da parte a parte. Non molto tempo fa sono rimasto una buona parte della mattinata accanto al suo letto, nel padiglione E di Piazza dell'Armeria. Dagli occhi gli sgorgavano le lacrime per l'intenso dolore, i muscoli del viso erano contratti, ma dalla bocca non gli usciva una parola tranne, a tratti, un roco lamento. Gli furono applicati sulla ferita panni umidi e caldi, che gli diedero qualche sollievo. Povero Mahay, solo un ragazzo per gli anni ma già vecchio per la sventura. Non aveva mai conosciuto l'amore dei genitori; da bambino era stato collocato in un istituto di carità a New York, e mandato quindi a servizio presso un tirannico padrone, nella contea di Sullivan (sulla schiena ancora le cicatrici della sua frusta e del suo bastone). La ferita era delle più spiacevoli, essendo egli un ragazzo gentile, curato, affettuoso. Durante la vita di ospedale si era fatto degli amici ed era invero prediletto da tutti. Ha avuto un bel servizio funebre.

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MEDICI MILITARI. - PENURIA DI AIUTI Vorrei qui testimoniare il mio entusiasmo per lo zelo, il coraggio, lo spirito e la capacità professionale predominanti tra gli ufficiali medici, molti dei quali assai giovani. Non mi dilungherò sulle eccezioni, dacché sono poche (tuttavia mi sono imbattuto in alcune di queste, e che gente di estrema incompetenza e gran boria erano! ). Tra i medici degli ospedali ho continuato a trovare gli uomini migliori, i lavoratori più instancabili e disinteressati. Sono per giunta pieni di genialità. Ne ho conosciuti a centinaia e so quel che mi dico. Esistono tuttavia serie deficienze, sprechi, tristi lacune nel sistema delle provvigioni, dei contributi, e in generale in tutto il corpo infermieri, sia volontari che governativi, come anche nel reparto cibi, medicinali, provviste, ecc. (non parlo qui dell'assistenza medica, perché i medici non possono fare più di quanto la resistenza umana consenta). Questa è la verità dei fatti, checché raccontino i giornali di New York nei loro ampollosi resoconti. Nessuna preparazione accurata, niente organizzazione, previsione o genialità. Scorte sempre in gran copia, indubbiamente, ma mai dove ce n'è veramente bisogno e mai che se ne faccia l'uso appropriato. Nessuna esperienza è più angosciosa di quella dei giorni che seguono una grossa battaglia. Decine, centinaia di uomini, i migliori del mondo, giacciono abbandonati, senza un lamento, mutilati, debolissimi, soli, e finiscono per morire dissanguati, o di sfinimento - non li hanno magari nemmeno toccati, o giusto stesi da una parte e lasciati lì - quando ci dovrebbero assolutamente essere dei mezzi, un sistema organizzato per salvarli. "GIUBBE AZZURRE" DAPPERTUTTO La città, i sobborghi, il Campidoglio, lo spazio davanti la Casa Bianca, i luoghi di divertimento, l'Avenue e tutte le strade principali quest'inverno brulicano di soldati, come non s'era mai visto. Alcuni sono usciti di ospedale, altri vengono dai campi nelle vicinanze. Quale che sia la provenienza, si riversano qui in gran copia e costituiscono direi l'elemento caratteristico del movimento e del costume della nostra capitale. Quei pantaloni e quei pastrani azzurri sono un po' dappertutto. Per le scale dell'ufficio dell'ufficiale pagatore si sente il ticchettio delle grucce, alcuni si assembrano alle porte, formando dei gruppi caratteristici, e lì aspettano, spesso a lungo nella stanchezza e nel freddo. Nel tardo pomeriggio si vedono i congedati avviarsi alla stazione di Baltimora, soli o in piccole squadre. Tutto il giorno tranne la mattina presto, ma soprattutto nelle prime ore della sera, ci sono in giro pattuglie di polizia che esaminano i permessi e arrestano tutti quei soldati che vengono trovati senza. Non lo richiedono agli invalidi, a quelli che hanno perso una gamba, ai mutilati gravi - ma tutti gli altri vengono fermati. A sera si aggirano anche per gli

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auditori dei teatri chiedendo a tutti, anche agli ufficiali, di esibire il permesso che giustifichi la loro presenza in quel luogo. UN OSPEDALE MODELLO Domenica 29 gennaio 1865. Sono andato questo pomeriggio in Piazza dell'Armeria. I padiglioni si presentano molto bene, pavimenti nuovi e pareti imbiancate a calce, un modello di ordine e pulizia. Credo proprio che, dopo tutto, questo sia un ospedale modello, per molti e importanti rispetti. Mi sono imbattuto qui in diversi casi tristi, ferite che si trascinavano a lungo. Un soldato del Delaware, William H. Millis di Bridgeville, con cui avevo passato delle ore nel maggio scorso, dopo le battaglie del Deserto in cui aveva riportato una brutta ferita al petto e un'altra al braccio sinistro (il suo stato, per sopraggiunta polmonite, si era mantenuto assai grave per tutto giugno e luglio dello scorso anno) sta ora molto meglio, tanto da poter fare qualche lavoruccio. Per tre settimane, in quel periodo che ho appena ricordato, era rimasto sospeso tra la vita e la morte. RAGAZZI NELL'ESERCITO Tornando a casa verso il tramonto ho visto nella Quattordicesima strada un soldato giovanissimo, vestito con abiti leggieri, proprio vicino all'edificio dove stavo per entrare. Mi fermai un momento di fronte alla porta e lo chiamai. Sapevo che un vecchio reggimento del Tennessee e uno dell'Indiana erano provvisoriamente accampati in certe caserme di nuova costruzione nei pressi della Quattordicesima. Questo ragazzo, come scoprii, apparteneva al reggimento del Tennessee. Ma non capivo come facesse a portare un moschetto. Non aveva che quindici anni, e con tutto ciò era in servizio da dodici mesi e aveva avuto la sua brava parte in diverse battaglie, alcune di importanza storica. Gli chiesi se non soffriva il freddo, se non aveva un pastrano. No, non soffriva il freddo e non aveva un pastrano, ma poteva procurarsene uno quando voleva. Suo padre era morto, sua madre viveva in qualche parte nell'est del Tennessee: nel suo reggimento venivano tutti da quella regione. Il mattino dopo vidi i reggimenti dell'Indiana e del Tennessee percorrere l'Avenue a passo di marcia. Il mio ragazzo, nel secondo, allungava il passo con gli altri. Ce n'erano molti non più anziani di lui. Rimasi a guardarli mentre sfilavano a passi lenti, forti, pesanti, regolari. Sembrava non ci fosse un sol uomo sopra i trent'anni, in gran parte andavano dai 15 ai 22, forse 23 anni. E tutti avevano l'aria di veterani, logori, sporchi, impassibili e una certa andatura rilassata e indolente; molti, in aggiunta alle armi e allo zaino regolamentare, portavano una padella, una scopa, ecc. Avevano tutti una fisionomia gradevole, niente raffinatezze, né pallori da intellettuali: così come mi

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balzarono agli occhi mentre avanzavano una fila dopo l'altra, non mi sembrò esservi tra loro un solo viso repellente, o brutale, o risolutamente stupido. FUNERALE DI UN'INFERMIERA È appena accaduto in uno degli ospedali. Una donna, certa signora o signorina Billings, che per lungo tempo era stata una compagna attiva dei soldati e infermiera presso l'esercito, affezionandovisi in un modo concepibile solo da chi ne abbia avuto esperienza, uomo o donna, cadde malata all'inizio di questo inverno, rimase in condizioni stazionarie per un certo tempo, e alla fine morì in ospedale. Era stato suo desiderio essere seppellita tra i soldati e secondo il costume militare. Questo desiderio venne soddisfatto punto per punto. La bara fu trasportata da un gruppo di soldati fino alla tomba con la scorta d'uso, e calata nella fossa: sopra di essa i fucili spararono a salve. È accaduto a Annapolis, pochi giorni fa. INFERMIERE TRA I SOLDATI Si trovano molte donne con varie occupazioni negli ospedali, soprattutto come infermiere qui a Washington, e nelle postazioni militari; in buona parte giovani che prestano servizio volontario. Sono d'aiuto in certi casi, e meritano di essere menzionate con rispetto; resta comunque da notare che ben poche o punte di queste giovani donne, sotto l'irresistibile peso delle convenzioni sociali, rispondono in pratica ai requisiti indispensabili a una buona infermiera per soldati. Donne di mezza età o anche più anziane, sane e di buon carattere, madri di famiglia, sono sempre preferibili. Si presentano di necessità centinaia di cose cui non ci si può rifiutare e che devono essere fatte. La presenza di una buona signora attempata o di mezza età, il magnetico tocco e i lineamenti espressivi della madre, il tacito potere rasserenante della sua presenza e delle sue parole, i privilegi di una conoscenza conseguita solo attraverso i figli, sono qualifiche preziose e determinanti. È una facoltà naturale quella che si richiede qui; non si tratta soltanto di avere una ragazza beneducata seduta dietro un tavolo nel padiglione. Una delle migliori infermiere che io abbia mai incontrato era un'analfabeta, una vecchia irlandese dal viso rossiccio: l'ho vista prendere tra le braccia con una tale tenerezza quei poveri ragazzi martoriati e nudi. V'è inoltre una quantità di ottime donne di colore, anziane e linde, che sarebbero certamente infermiere di prim'ordine. SUDISTI FUGGIASCHI

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23 febbraio '65. Ho visto una lunga processione di giovani dell'esercito ribelle (disertori, li chiamano, ma il termine non si può riferire a costoro nel senso usuale) sfilare oggi per la Avenue. Ce n'erano circa duecento, arrivati ieri in battello dal fiume James. Mi sono fermato a guardarli mentre si trascinavano in una sorta di logora marcia, lenta e stanca; moltissimi ragazzi dai capelli chiari o biondi, gli occhi grigio-chiaro. Le divise avevano l'uniformità della sporcizia; dovevano essere state in massima parte grigie; certuni indossavano pezzi della nostra uniforme, chi i pantaloni, chi la giacca o il pastrano; credo che fossero per lo più della Georgia o della Carolina del Nord. Destavano poca o punta curiosità. Io mi trovavo piuttosto vicino a loro, e parecchi giovani, piuttosto belli (ma quale storia di disperazione narrava la loro persona!) mi facevano passando un cenno col capo o mi rivolgevano una parola, leggendo di certo nel mio viso pietà e affetto paterno, ché il mio cuore ne era gonfio. Molti nella fila si trascinavano tenendosi abbracciati al compagno, fratelli forse, quasi temendo che qualcosa potesse separarli. Sembravano quasi tutti quel che si direbbe gente semplice, ma anche intelligente. Taluni avevano sulle spalle pezzi di vecchi tappeti, altri coperte, altri ancora vecchie bisacce. Sebbene si notassero qua e là dei bei volti, era sempre una processione miserabile. I duecento erano accompagnati da una mezza dozzina di guardie armate. In questa settimana ho veduto ogni giorno di codeste processioni, poco più o poco meno numerose, che il battello sbarcava regolarmente. Il governo fa per loro quanto è possibile, e li smista verso Nord e a Ovest. 27 febbraio. Altri tre o quattrocento fuggiaschi dell'esercito confederato sono arrivati col battello. Data la giornata davvero bella (dopo un lungo periodo di maltempo), ho gironzolato un bel po', senz'altro scopo che quello di stare all'aria aperta e godermela; e ho incontrato questi fuggiaschi in tutte le direzioni. Il loro abbigliamento è quello già descritto, cencioso, logoro e eterogeneo. Ho parlato con parecchi di loro. Alcuni sembrano intelligenti, e hanno anche un certo stile, a dispetto dei loro abiti miserevoli - un certo sussiego nel camminare, col vecchio copricapo buttato da una parte, alla sbarazzina. Trovo confermate in loro, come già durante questi quattro anni, le vecchie e inconfutabili prove della tirannia priva di scrupoli esercitata dal governo secessionista nell'arruolare, a forza e ovunque, la gente comune, senza mai chiedersi se il loro periodo fosse scaduto - e continuando a tenerli egualmente in servizio. Un gigantesco ragazzo della Georgia, alto non meno di sei piedi e tre pollici, di struttura massiccia, coperto dagli stracci più luridi, bisunti e incolori, tenuti su con pezzi di spago, i calzoni tutti filacce e brandelli all'altezza del ginocchio, se ne stava fermo da una parte con aria compiaciuta mangiando pane e carne. Sembrava abbastanza soddisfatto. Qualche minuto dopo lo vidi marciare lentamente con gli altri. Era chiaro che nulla gli stava più a cuore. 28 febbraio. Passando di fronte al quartier generale delle truppe della città, non lontano dalla casa del Presidente, mi sono fermato a parlare con qualcuno dei fuggiaschi che si ammassavano oziosamente là intorno. Nell'aspetto non differivano da quelli che ho già descritto. Con due di questi, uno sui diciassette, l'altro sui

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venticinque, forse ventisei anni, ho chiacchierato per un poco. Erano ambedue nati e cresciuti nella Carolina del Nord, dove avevano anche le famiglie. Il più grande aveva militato con i secessionisti per quattro anni. Lo avevano arruolato dapprima per due anni; poi era stato mantenuto arbitrariamente in servizio. Questo è il caso di una gran parte dell'esercito sudista. Nei modi di questi giovani non c'era alcun segno di svilimento; il più giovane aveva prestato servizio per circa un anno; era stato arruolato obbligatoriamente; erano sei fratelli nell'esercito (tutti i maschi della famiglia), quale coscritto, quale volontario; tre erano stati uccisi; un quarto si era imboscato circa quattro mesi prima; ora era toccato a lui: era un ragazzo simpatico, parlava bene, con quell'accento particolare della Carolina del Nord (per nulla spiacevole ai miei orecchi). Erano della medesima compagnia, lui e l'altro, erano fuggiti insieme - e desideravano rimanere insieme. Pensavano di trovare un mezzo di trasporto fino al Missouri, e di lavorare lì; non erano tuttavia sicuri che fosse la cosa più giudiziosa da farsi. Io gli consigliai di andarsene piuttosto in qualcuno degli Stati più propriamente a Nord e di trovarsi per il momento un lavoro in qualche fattoria. Il più giovane aveva ricavato, sul battello, sei dollari da un po' di tabacco che aveva con sé, e gliene restavano tre e mezzo. Il maggiore non ne aveva neanche uno; io gli diedi qualcosa. Poco dopo ho incontrato John Wormley, del 9° Alabama, un ragazzo cresciuto nel Tennessee occidentale - i genitori morti tutti e due - aveva l'aria di chi ha vissuto a lungo di razioni ridotte - parlava assai poco - masticava tabacco a una velocità spaventosa, sputando in proporzione - grandi e limpidi occhi bruni, molto belli - non sapeva che farsene, di me - alla fine mi disse che desiderava molto avere della biancheria pulita e un paio di pantaloni decenti. Non gli interessavano pastrani o berretti. Voleva solo lavarsi bene e indossare la sua biancheria. Ebbi il grande piacere di aiutarlo ad attuare quei sani propositi. 1 marzo. Ancora sciami di fuggiaschi color nocciola o argilla, tutti i giorni. Oggi ne sono arrivati circa 160, gran parte sono della Carolina del Sud. In genere prestano giuramento di fedeltà e vengono mandati a Nord, o a Ovest, o nell'estremo Sud-Ovest quando lo desiderano. Molti di loro mi hanno riferito che nell'esercito sudista i casi di uomini che se ne tornano a casa, permesso o non permesso, sono assai più numerosi delle diserzioni vere e proprie al campo nemico. Oggi nel tardo pomeriggio ne ho visto un drappello di circa un centinaio, dall'aria molto abbattuta, diretti alla stazione di Baltimora. IL CAMPIDOGLIO ALLA LUCE DEI LAMPIONI Stasera ho passeggiato un poco per il Campidoglio, che è tutto illuminato. La rotonda sotto la luce è molto bella. Mi piace fermarmi in disparte, alzare lo sguardo alla cupola e contemplarla a lungo: mi dà una specie di conforto. Il Senato e la Camera sono rimasti in seduta fino a tardi. Ho sbirciato dentro, ma solo per pochi minuti: lavoravano intensamente intorno a certe leggi sulle tasse e l'appropriazione.

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Ho girovagato per i lunghi e fastosi corridoi e appartamenti situati sotto il Senato: vecchia abitudine degli inverni passati, ora più gradita di sempre. Non molte persone lì attorno - di quando in quando una figura in distanza, subito scomparsa. L'INAUGURAZIONE 4 marzo. Il Presidente si è recato silenziosamente al Campidoglio con la sua carrozza personale, da solo, al trotto, verso mezzogiorno, volendo forse trovarsi lì a disposizione per firmare leggi, o piuttosto per evitare di sfilare con l'assurda processione di oggi, il tempio di mussola della libertà e il monitore di cartapesta. L'ho visto mentre ritornava alle tre, a cerimonia finita. Viaggiava nel suo semplice calesse a due cavalli, e appariva tirato, stanchissimo: i segni di enormi responsabilità, di questioni intricate e problemi di vita o di morte incisi più profondamente che mai nel suo volto bruno - e tuttavia, sotto i solchi, tutta l'antica bontà, la tenerezza, la tristezza, la sapiente abilità che gli sono proprie (non posso vedere quest'uomo senza avvertire in lui uno di quegli esseri cui ci si attacca in modo personale, per quella sua combinazione di purissima e generosa tenerezza con il coraggio che è proprio del West). Gli sedeva al fianco il figlioletto, di dieci anni. Non c'erano soldati, solo un gruppo di borghesi a cavallo intorno al calesse, con grandi fazzoletti gialli sulle spalle (alla inaugurazione di quattro anni fa, egli era andato e tornato in mezzo a una fitta massa di cavalleggeri armati, otto per fila, con le sciabole sguainate; e lungo il percorso c'erano tiratori scelti stazionati a ogni angolo di strada). Ma voglio accennare all'udienza di chiusura di domenica sera. Non s'era mai vista una calca così compatta di fronte alla Casa Bianca - tutto il parco gremito, fin fuori sugli ampi marciapiedi. C'ero anch'io, m'era venuta l'idea di andarci - mi trovai dentro, nella ressa, insieme alla folla - dilagai con questa per i corridoi, nella sala Azzurra e nelle altre, fino al salone dell'ala orientale. Masse di gente di campagna, taluni molto buffi. Echi di buona musica eseguita dalla banda della Marina, in qualche luogo appartato. Vidi il signor Lincoln, vestito interamente di nero, con guanti bianchi di capretto e abito a code, ricevere la gente come per dovere, e stringer mani con un'espressione sconsolata in viso come colui che darebbe qualsiasi cosa pur di trovarsi altrove. ATTEGGIAMENTI DEI GOVERNI STRANIERI DURANTE LA GUERRA Sfogliando i miei sparsi appunti trovo quanto segue, scritto nel 1864. Ciò che sta accadendo alla nostra America, all'estero come all'interno, in questi anni, è veramente stranissimo. La repubblica democratica le ha fatto oggi un terribile e luminoso complimento, il desiderio univoco, cioè, di tutte le nazioni del mondo di vedere infranta la sua unione, eliminato il suo futuro, ed essa stessa costretta a scendere al livello di qualsiasi altro grande regno o impero. Non v'è certo oggi in

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Europa un solo governo che non stia guardando alla guerra in questo paese con l'ardente preghiera che gli Stati Uniti ne escano divisi, paralizzati e smembrati. Non ve n'è uno solo che, se appena osasse, non contribuirebbe a questo smembramento. Tale, vi dico, è oggi l'ardente desiderio dei governi di Inghilterra e di Francia e di tutte le nazioni, o meglio, i governi europei. Credo anzi che esso sia il reale, il sentito desiderio di tutte le nazioni del mondo, con la sola eccezione del Messico - il Messico, l'unico a cui abbiamo fatto veramente del male, e adesso l'unico che preghi per noi e il nostro trionfo con preghiera genuina. Non è strano? L'America, fatta di tutti, e che a tutti ha gioiosamente aperto le braccia fin dall'inizio, - il risultato e la giustificazione di tutti, Inghilterra, Germania, Francia e Spagna - tutti qui - l'accoglitrice, l'amica, la speranza, l'ultima risorsa e la casa universale di tutti - lei che non ha nuociuto a nessuno ma è stata generosa con tanti, con milioni, madre di stranieri e di esuli di ogni paese - proprio adesso doveva, dico, ricevere questo terribile ringraziamento di odio e di paura generale da parte dei vari governi. Siamo forse indignati? allarmati per questo? ci sentiamo minacciati? No; aiutati, uniti, concentrati, piuttosto. Siamo tutti troppo propensi a straniarci da noi stessi, a voler impressionare l'Europa, a studiarne cipigli e sorrisi. Questa bruciante lezione di odio generale ci è anzi necessaria, e d'ora in poi non dovremo mai dimenticarla. Mai più da questo momento ci fideremo del senso morale e dell'astratta simpatia di un solo governo del vecchio mondo. CHE LA STAGIONE SIMPATIZZI COI TEMPI? Se le piogge, il caldo e il freddo e quanto li determina siano influenzati da ciò che colpisce l'uomo in massa e seguano il giuoco della sua azione appassionata, in una tensione più forte del solito, e su scala più vasta del solito, è dubbio - ma è indubbio che, in questa parte settentrionale del continente americano, si stanno avendo adesso e si sono avute in questi ultimi venti mesi se non più, molte e copiose manifestazioni, davvero senza precedenti, del sottile mondo d'aria che ci sovrasta e circonda. Sin dall'inizio della guerra e della vasta e profonda agitazione nazionale, ecco strane analogie, combinazioni nuove, il sole ha una luce diversa, o non ne ha affatto, persino dalla terra nascono prodotti diversi. Dopo ogni grande battaglia, ecco una grande tempesta. E lo stesso per gli eventi civili. Domenica scorsa, una mattinata come un turbine di demoni, buia, rabbiosa, con raffiche oblique di pioggia; e poi un pomeriggio di una tale calma, tutto intriso del dilagante splendore del più fantastico sole, da lasciar trasparire le stelle molto, molto prima del tempo. Quando il Presidente uscì sul portico del Campidoglio, una strana nuvoletta bianca, l'unica in quella parte del cielo, si librò proprio sopra di lui come un uccello ad ali tese. Effettivamente i cieli, tutte le potenze metereologiche, si sono abbandonate nelle ultime settimane a eccessi d'ogni genere. Non avevo mai visto simili capricci, un tal fulmineo alternarsi di corruccio e bellezza. È impressione generale (specialmente dopo i periodi di intensa calura che hanno differenziato la scorsa estate

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da qualsiasi altra) che l'inverno appena finito sia stato senza precedenti; e così si è mantenuto fino ad oggi, fino al momento in cui sto scrivendo. Le giornate del mese scorso sono state in gran parte cupe, con una pesantezza plumbea, nebbia, intervalli di freddo pungente e qualche folle uragano. Vi sono stati tuttavia motivi per ben altre descrizioni. La terra e il cielo non hanno mai conosciuto spettacoli di più superba bellezza di alcune delle ultime notti qui. La stella d'occidente, Venere, non è mai stata così chiara nelle prime ore della sera; era come se volesse significare qualcosa, come se intrattenesse un rapporto d'indulgenza con l'umanità, con noi americani. Cinque o sei sere fa era sospesa a fianco della luna, allora appena uscita dal suo primo quarto. La stella era meravigliosa, la luna come una giovane madre. Il cielo, d'un azzurro cupo, la notte trasparente, i pianeti, il venticello di ponente, la temperatura elastica, il miracolo di quella grande stella, e la giovane luna rigonfia che nuotava nel cielo occidentale, mi pervasero l'anima. Poi udii, lente e chiare, le note precise di una tromba levarsi dal silenzio, così squisite nel mistero della notte, senza fretta, fiduciose e ferme, ora fluttuanti, ora impennate, ora in agile decrescendo, con a tratti una nota più sostenuta: la brava tromba che suonava il silenzio in uno degli ospedali militari nelle vicinanze, nei cui lettucci giacevano i feriti (alcuni dei quali a me personalmente cari) e molti poveri ragazzi precipitati nella guerra dall'Illinois, dal Michigan, dal Wisconsin, dallo Iowa e dalle altre regioni. IL BALLO DELL'INAUGURAZIONE 6 marzo. Sono salito al Palazzo dei Brevetti a dare uno sguardo alla sala da ballo e a quella dei banchetti in occasione del ballo dell'Inaugurazione; e non potei fare a meno di pensare quanto fosse diversa la scena che esse avevano esibito ai miei occhi non molto tempo prima, stipate com'erano di masse di feriti, i più gravi di tutta la guerra, arrivati lì dalla seconda Bull Run, da Antietam e da Fredericksburg. Ma stasera, belle donne, profumi, il dolce suono dei violini, il valzer e la polka; e allora, l'amputazione, il viso bluastro, il gemito, lo sguardo vitreo del morente, lo straccio insanguinato, l'odore delle ferite e del sangue, e molti poveri figli perduti tra gente forestiera, che si spegnevano senza nemmeno un po' di cure (ché grande era la massa dei feriti gravi, e enorme il da fare degli infermieri e dei chirurghi). UNA SCENA AL CAMPIDOGLIO Non posso non accennare a una strana scena avvenuta al Campidoglio, Camera dei Rappresentanti, il mattino di sabato scorso 4 marzo. Il giorno sbiancava appena, ma ancora in una semioscurità in cui le cose apparivano fosche, pesanti, fradice. In quella luce opaca i membri della Camera, innervositi dal lavoro protratto, apparivano esausti, chi assopito, chi addormentato del tutto. La luce delle lampade a gas, mista

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alla sporca luce dell'alba, produceva un effetto irreale. I poveri valletti che incespicavano insonnoliti, l'odore particolare della sala, i Rappresentanti con la testa reclinata sui banchi, la voce degli oratori carica di inflessioni insolite - la tipica atmosfera morale, inoltre, alla chiusura di una seduta importante come questa - la forte speranza che la guerra si stia ormai approssimando alla fine - la sottile paura che tale speranza possa rivelarsi falsa - la solennità della sala, l'effetto delle grandi ombre slungate in alto verso i pannelli e gli spazi sopra le gallerie - tutto ciò si fondeva in un insieme affatto particolare. Nel bel mezzo di tutto questo, con la repentinità di un fulmine, scoppiò una delle più violente e fragorose tempeste di pioggia e grandine che si siano mai udite. Venne giù come un diluvio sbattendo sul pesante tetto di vetro dell'aula, il vento ululava e ruggiva nel senso letterale della parola. Per un attimo i Rappresentanti, nervosi e assonnati, si fecero travolgere dalla confusione. Quelli che sonnecchiavano si destarono per la paura, qualcuno si diresse con un balzo verso la porta, altri levarono gli occhi al tetto con le guance e le labbra sbiancate, mentre i valletti cominciarono a piangere; era davvero uno spettacolo. Ma tutto finì non appena quegli uomini inebetiti dalla stanchezza furono completamente svegli. Si ripresero; la tempesta continuò a infuriare sferzando impetuosa, talora con grande fragore; ma la Camera procedette con i suoi lavori, esibendo in quel momento tanta calma e deliberazione quanta, credo, mai prima nella sua carriera. Forse la scossa era stata utile. (Si ha dopotutto l'impressione, trovandosi tra i membri del Congresso di ambedue le Camere, che se la piatta routine dei lavori fosse bruscamente interrotta da una circostanza grave che implicasse vero pericolo e richiedesse qualità personali di prim'ordine, codeste qualità non tarderebbero a emergere, e in uomini che ora non ne sono ritenuti dotati). UNO YANKEE DI STAMPO ANTICO 27 marzo 1865. Sergente Calvin F. Harlowe, compagnia C 29° Massachusetts, 3a brigata, 9° corpo - un notevole esempio di eroismo, una splendida morte (c'è chi dice bravata, io dico eroismo, e del più grande, di stampo antico) - è stato durante l'ultimo attacco delle truppe ribelli contro Forte Steadman e la temporanea caduta di questo, nottetempo. Il Forte era stato sorpreso nel cuore della notte. Strappati violentemente al sonno e precipitatisi fuori dalle tende, Harlowe e gli altri si trovarono nelle mani dei secessionisti - gli fu chiesto di arrendersi - rispose, Mai, finché vivo (era inutile, naturalmente. Gli altri si arresero. C'era troppa disparità). Di nuovo gli dissero di arrendersi, un capitano questa volta. Perfettamente calmo benché già circondato, egli rifiutò ancora, e prese anzi a esortare vigorosamente i compagni perché continuassero a combattere, mentre egli stesso vi si provava. Allora il capitano dei ribelli gli sparò contro ma in quell'attimo egli sparò sul capitano - caddero entrambi feriti a morte. Harlowe spirò quasi all'istante. In brevissimo tempo i ribelli

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furono ricacciati. Il corpo di Harlowe fu sepolto il giorno dopo, ma ben presto venne disseppellito e mandato a casa (contea di Plymouth, Massachusetts). Harlowe aveva solo 22 anni - era un ragazzo alto, snello, bruno di capelli, occhi azzurri - aveva cominciato a distinguersi nel 29° Mass., e fu in questo modo che incontrò la morte dopo quattro anni di campagne. Aveva preso parte alla battaglia dei Sette Giorni di fronte a Richmond, alla seconda Bull Run, a Antietam, alla prima Fredericksburg, a Vicksburg, Jackson, agli scontri del Deserto e a quelli che seguirono - era il miglior soldato che mai avesse indossato la giubba azzurra, e ogni ufficiale del suo reggimento potrà testimoniarlo. Benché tanto giovane, e soldato semplice, aveva uno spirito coraggioso e risoluto al pari di qualsiasi eroe, antico o moderno, di cui si parli nei libri - troppo nobile per pronunciare le parole Mi arrendo - e per questo morì. (Quando penso a cose simili, che conosco tanto bene, cadono in secondo piano tutti i vasti e complicati eventi bellici su cui la storia si sofferma e di cui nutre i suoi volumi, e per un poco almeno io non vedo altro che la figura del giovane Calvin Harlowe ritta nella notte, che sdegnosamente rifiuta la resa). MALATTIE E FERITE La guerra è finita, ma gli ospedali sono più pieni che mai, pazienti vecchi e nuovi. In larga percentuale si tratta di ferite alle braccia e alle gambe. Ma ve n'è di ogni genere, per ogni parte del corpo. Da quanto ho potuto osservare, direi che le malattie prevalenti sono la febbre tifoidea e le febbri da campo in genere, come diarrea, affezioni catarrali e bronchiali, reumatismi e polmonite. Queste sono le forme di malattia che predominano; tutte le altre seguono. Il numero dei malati è doppio di quello dei feriti. Tra i pazienti sotto cura, la mortalità va dal sette al dieci per cento.* * Nell'Ufficio Generale dei medici militari, i casi formalmente registrati di feriti trattati da medici governativi sono 253.142. Ma quale sarà il numero non ufficiale, indiretto - per non parlare degli eserciti sudisti? (N.d.A.). MORTE DEL PRESIDENTE LINCOLN 16 aprile 1865. Tra i miei appunti di quel periodo trovo queste righe sulla morte di Abramo Lincoln: Alla storia e alla biografia americana egli lascia non solo il ricordo più drammatico, sino ad oggi - ma lascia a mio avviso la più nobile, la migliore, la più caratteristica personalità artistica e morale. Non che non avesse difetti (e li mostrò durante la Presidenza); ma onestà, bontà, abilità, coscienza e (virtù nuova questa, sconosciuta ad altre nazioni e ancora malnota qui, e tuttavia fondamento e legame di ogni altra, come grandiosamente rivelerà il futuro) unionismo, nel senso più vero e ampio della parola, formavano il nucleo del suo carattere. Queste virtù egli

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suggellò con la vita. Il tragico splendore della sua morte, purgando e illuminando tutto il resto, disegna intorno alla sua figura, al suo capo, una aureola che durerà e si farà più fulgida col tempo, finché viva la storia e duri l'amor di patria. Molti hanno collaborato a questa Unione; ma se deve scegliersi un solo nome, un solo uomo, egli più di qualsiasi altro ne sarà il depositario presso il futuro. È stato assassinato - ma l'Unione non è assassinata - ça ira! Il primo cade, il secondo cade - il soldato crolla a terra, è inghiottito come un'onda - ma le file oceaniche eternamente incalzano. La morte compie il suo lavoro, ne oblitera cento, mille - presidente, generale, capitano, soldato semplice - ma la Nazione è immortale. IL GIUBILO DELL'ARMATA DI SHERMAN, E COME FU SUBITO SPENTO Durante la marcia delle armate di Sherman attraverso la Carolina del Sud e del Nord, parecchio dopo aver lasciata Atlanta, non fu percorso un miglio senza che da una parte o dall'altra delle linee (le nuove della capitolazione di Lee erano giunte passata Savannah) si levassero continue, entusiastiche grida. La musica selvaggia di queste tipiche grida soldatesche risuonò, a intervalli, per tutto il giorno. Partivano da un reggimento o da una brigata e venivano immediatamente riprese da altri, sicché alla fine erano interi corpi di battaglioni a prender parte a quei selvaggi cori di trionfo. Era, questa, una caratteristica espressione delle truppe dell'Ovest, e divenne in breve un'abitudine che per i soldati significava sollievo e sfogo - effusione di sentimenti di vittoria, ritorno alla pace, ecc. Al mattino, a mezzogiorno, nel pomeriggio, con o senza un motivo, spontaneamente, queste immense grida, diverse da qualsiasi altra, la cui eco si spargeva nell'aria libera per molte miglia, e in cui si esprimevano giovinezza, gioia, ebbrezza, forza irreprimibile e idee di avanzata e conquista, risuonavano per le paludi e le alture del Sud, invadendo il cielo. ("Non si sono mai visti uomini che mantenessero uno spirito migliore nel pericolo o nella sconfitta, - mi disse in seguito uno del 15° corpo. - Che cosa dunque non dovevano fare nella vittoria?"). Questa esuberanza continuò finché le truppe arrivarono a Raleigh. Qui si seppe la notizia dell'assassinio del Presidente. Allora non più grida né urli, per una settimana. La marcia ne risultò come soffocata. E fu molto significativo - a malapena una parola ad alta voce, o una risata, in molti reggimenti. Ovunque uno zittìo, un silenzio. NESSUN BUON RITRATTO DI LINCOLN Al lettore sarà capitato di vedere certe fisionomie (spesso vecchi contadini, lupi di mare e tipi simili) che sotto la loro semplicità o magari bruttezza celano dei tratti

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più nobili, così sottili e un tempo così palpabili, che rendono pressocché impossibile dipingere la vita reale di quei volti non più che un aroma selvatico, il sapore di un frutto o il tono appassionato di una viva voce. Tale era il volto di Lincoln, con quel colore particolare' quei solchi, quegli occhi, la bocca, l'espressione. Bellezza, in senso tecnico, non ne aveva - ma all'occhio di un grande artista offriva un raro studio, diletto e fascino. I ritratti che ne abbiamo sono tutti fallimenti - la maggior parte anzi caricature. PRIGIONIERI UNIONISTI DI RITORNO DAL SUD I prigionieri di guerra che sono stati rilasciati stanno ora arrivando dalle prigioni del Sud. Ne ho veduti parecchi. È uno spettacolo peggiore di qualsiasi campo di battaglia, di qualsiasi assembramento di feriti, anche il più sanguinoso. Ve n'è stato (per citare un esempio) un grande carico di diverse centinaia, arrivati in battello a Annapolis intorno al 25; ebbene, solo tre, di tutta quella massa, furono in grado di scendere da soli dal battello. Gli altri furono trasportati a riva e sistemati a terra in un posto o nell'altro. Saranno uomini costoro - questi nani d'un color bruno livido, sporchi di cenere, simili a scimmie? - o non saranno in realtà cadaveri raggrinziti, mummificati? Stanno qui distesi, calmi per lo più, ma con una luce di orrore negli occhi, le labbra ridotte a pelle (spesso senza neanche carne abbastanza per coprire i denti). Forse sulla terra non si è mai visto nulla di più orrendo. Esistono azioni, crimini, che si possono dimenticare: ma non questo. Questo sprofonda coloro che l'hanno perpetrato, nella dannazione più nera, senza speranza e senza fine. Più di 50.000 sono stati costretti alla morte per fame - (hai mai provato, lettore, a immaginarti cosa sia veramente la fame? - in quelle prigioni - e in una terra d'abbondanza). Indescrivibile bassezza, tirannia, con l'aggravante di offese quotidiane quasi incredibili - questa è stata evidentemente la norma in tutte le prigioni militari del Sud. Non tanto i morti saranno da commiserare, quanto alcuni dei vivi che ne sono usciti - se pure puoi chiamarli vivi - molti di loro mentalmente deficienti, né si riprenderanno mai più.* * Da una recensione del volume Andersonville. Storia delle prigioni militari del Sud, apparso in un primo momento a puntate, nel 1879, ne "La lama di Toledo" (N.d.A.): "C'è un fascino profondo nel tema "Andersonville" - poiché quel Golgota in cui giacciono le biancheggianti ossa di 13.000 gagliardi giovani, rappresenta il più caro, il più costoso sacrificio della guerra per la preservazione della nostra unità nazionale; ed è anche un prototipo della sua specie. Le ecatombi ivi avvenute, più di un centinaio, rappresentano, se moltiplicate in proporzione, quelle di tutti gli altri fratelli per i quali le prigioni di Belle Isle, Danville, Salisbury, Florence, Columbia e Cahaba hanno aperto i cancelli dell'eternità. Vi sono poche famiglie nel Nord che non abbiano almeno un congiunto o un amico tra quei 60.000 la cui triste sorte fu di

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chiudere il servizio per l'Unione languendo e morendo per essa in uno dei recinti per prigionieri del Sud. Il modo della loro morte, gli orrori che affollarono ogni minuto della loro esistenza, la fedele e incrollabile fermezza con cui essi sopportavano quel che il fato aveva loro offerto, tutto ciò non è mai stato adeguatamente descritto. Non fu come per i loro compagni di campo, le cui azioni si svolsero tutte alla presenza di coloro che avevano appunto come compito quello di osservarle e riferirle al mondo. Celati com'erano allo sguardo dei loro amici del Nord dall'impenetrabile velario che le operazioni militari dei ribelli tiravano attorno alla cosiddetta Confederazione, la gente seppe poco o nulla del loro modo di vivere e delle loro sofferenze. In quei recinti ne morirono migliaia, seguiti con assai minore attenzione che non le centinaia che perivano sui campi di battaglia. Grant non lasciò tanti uomini sul campo nella terribile campagna del Deserto al fiume James - 43 giorni di lotta disperata - quanti ne perirono tra luglio e agosto a Andersonville. E dal giorno in cui Grant passò il Rapidan fino a quando mise le trincee di fronte a Petersburg, ne morì quasi il doppio. Morti dell'Unione giacciono sotto il solenne mormorio dei pini intorno a quel dimenticato villaggio della Georgia del Sud in numero quattro volte maggiore, se non più, di quelli che punteggiano il percorso di Sherman da Chattanooga a Atlanta. La nazione guarda atterrita allo spreco di vite umane che accompagnò le due cruente campagne del '64 da cui la Confederazione uscì praticamente frantumata, ma nessuno ricorda che dietro le linee sudiste perirono più soldati dell'Unione di quanti ne vennero uccisi di fronte a quelle linee. I grandi eventi militari che spazzarono via la rivolta finirono per distogliere l'attenzione dal triste dramma che la fame e la malattia andavano rappresentando in quei cupi recinti, nei più remoti recessi delle oscure foreste del Sud". * Da una lettera di Johnny Bouquet, nel "N. Y. Tribune" del 27 marzo 1881: "A Salisbury, Carolina del Nord, ho visitato il recinto dei prigionieri; o meglio l'area da cui erano state avviate alla sepoltura circa 12.000 vittime della politica sudista, rimaste confina" te entro uno steccato senza ripari di sorta esposte a tutti i capricci degli elementi, a tutte le malattie che possono scoppiare ammassando delle bestie una sull'altra, a tutte le forme di crudeltà e di fame che un governo incompetente e profondamente vigliacco riesce a mettere in opera. Questo luogo è ormai decaduto dalla conversazione e forse anche dal ricordo della gente del Nord, ma non certo dai discorsi della popolazione di Salisbury, quasi tutta concorde nel sostenere che una buona metà dei fatti non è mai stata raccontata; e che la natura degli oltraggi inflitti qui era tale che quando qualcuno dei prigionieri federali riusciva a fuggire, la gente del luogo dava loro rifugio nei granai, temendo che la vendetta divina sarebbe ricaduta su di loro se avessero restituito degli esseri viventi, anche se nemici a simili crudeltà. Diceva un vecchio che era entrato nella conversazione alla Boyden House: "Spesso fuori di quel recinto si seppellivano uomini ancora vivi. Ho la testimonianza di un medico che li vide tirar fuori dalla carretta dei morti con gli occhi aperti, coscienti ma troppo deboli per alzare un dito. Non esisteva la minima giustificazione per un comportamento del genere, dal momento che la Confederazione si era impadronita di tutte le segherie della regione e poteva

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benissimo metter su dei ripari per i prigionieri, data la grande abbondanza di legno da queste parti. Sarà comunque difficile sentire un qualsiasi onest'uomo di Salisbury sostenere che vi fosse la benché minima necessità di far vivere quei prigionieri in vecchie tende, in caverne o buche semipiene d'acqua. Furon fatte anche delle rimostranze al governo Davis contro gli ufficiali in carica, ma non vennero neanche prese in considerazione. Lì la crudeltà era punita con la promozione. I detenuti erano scheletri. L'inferno non aveva terrori per chi moriva qui, se non per gli inumani padroni del campo". (N.d.A.). MORTE DI UN SOLDATO DELLA PENNSYLVANIA Frank H. Irwin, compagnia E, 93° Penn. - morto il 1° maggio '65 - Lettera da me scritta alla madre. Cara signora: senza dubbio voi e gli amici di Frank avrete già appresa la triste nuova della sua morte, avvenuta qui in ospedale, dallo zio o dalla signora di Baltimora che si è incaricata dei suoi effetti personali (io non ho conosciuto né l'uno né l'altra, sapevo solo che venivano a visitare Frank). Vi scriverò poche righe - nella mia veste di amico casuale che gli è stato accanto sul letto di morte. Vostro figlio, il caporale Frank H. Irwin, fu ferito presso il Forte Fisher, Virginia, il 25 marzo 1865 - la ferita era al ginocchio sinistro, piuttosto brutta. Fu portato a Washington, e ricoverato nel padiglione C dell'Ospedale dell'Armeria il 28 marzo - la ferita peggiorò e il 4 aprile gli fu amputata la gamba un po' sopra il ginocchio - l'operazione fu eseguita dal Dr. Bliss, uno dei migliori chirurghi dell'esercito - fece tutto con le sue mani - c'era un brutto grumo di pus - la pallottola fu trovata nel ginocchio. Per un paio di settimane sembrò che le cose andassero benino. Andavo spesso a visitarlo e gli restavo vicino, dacché egli amava avermi con sé. Gli ultimi dieci o dodici giorni di aprile mi accorsi che la situazione era critica. Precedentemente aveva avuto febbri accompagnate da freddo. Passò l'ultima settimana di aprile per lo più in delirio - ma pur sempre mansueto e gentile. Morì il primo maggio. Causa determinante della sua morte fu la piemia, (l'assorbimento cioè del pus nell'organismo in luogo dello spurgo). Frank, a quel che ho potuto vedere, ha avuto tutto il necessario, come trattamento chirurgico, assistenza, ecc. C'era sempre chi lo vegliava, la maggior parte del tempo. Era così buono, beneducato e affettuoso, che anch'io non potei non amarlo intensamente. Avevo l'abitudine di andarci nel pomeriggio, e sedermi accanto a lui, cercando di rasserenarlo, e a lui faceva molto piacere - gli piaceva tirar fuori il braccio e posare la mano sul mio ginocchio - la teneva così a lungo. Verso la fine, la notte cominciò a farsi più smanioso, delirava - spesso si credeva ancora nel suo reggimento - dal modo di parlare a volte sembrava che fosse offeso nei suoi sentimenti da un rimprovero degli ufficiali per qualcosa di cui era affatto innocente - diceva, "Mai in vita mia mi si è creduto capace di una cosa simile, né lo sono mai stato!". Altre volte fantasticava di star parlando a dei bambini, pareva, o qualcosa del genere, suoi congiunti credo, e dava buoni consigli, e chiacchierava con loro a lungo. Per tutto il tempo in cui rimase fuori di senno, mai gli

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sfuggì una brutta parola o una sola idea cattiva. Qualcuno ebbe a notare che uomini in pieno possesso delle loro facoltà non mostravano, nei loro discorsi, metà del senno di Frank nel delirio. Sembrava ormai disposto a morire - era assai indebolito, povero ragazzo. Io non conosco la sua vita passata; ma sento che deve essere stata una vita onesta. In ogni caso, per come l'ho conosciuto qui, nelle circostanze più dure, con una ferita dolorosa e tra gente ignota, posso ben dire che si è comportato in modo davvero superiore, sempre così coraggioso e composto, così dolce e affettuoso. E ora come tanti altri uomini nobili e onesti, dopo aver servito da soldato il suo paese, egli ha ceduto la sua giovane vita proprio quando cominciava a sbocciare. Queste sono cose di grande tristezza - pure vi è un passo nelle scritture, "Dio fa bene ogni cosa", il cui significato più tardi si svelerà all'anima. Ho pensato che forse poche parole su vostro figlio, anche se da parte di uno sconosciuto, qualcuno che è stato con lui nei suoi ultimi istanti, avrebbero potuto servire a qualcosa -perché io ho amato questo ragazzo, sebbene l'abbia conosciuto solo per perderlo. Sono semplicemente un amico che di tanto in tanto visita gli ospedali per portare conforto a feriti e malati. W.W. LE TRUPPE RITORNANO 7 maggio. Domenica. Oggi mentre camminavo, circa un miglio o due a sud di Alexandria, mi sono imbattuto in parecchi grossi squadroni dell'armata del West (uomini di Sherman, si fanno chiamare), in tutto circa un migliaio di soldati, per lo più malaticci o convalescenti, diretti a un ospedale da campo. Codesti scaglioni frammentari che si snodavano lentamente - le inconfondibili fisionomie e i tipici dialetti del West - questi uomini sbattuti quaggiù, fuori latitudine, per così dire, dopo una grande campagna - m'incuriosirono, e mi misi a chiacchierare con loro, con qualche interruzione, per più di un'ora. Qualcuno era molto malato; ma tutti potevano camminare, eccetto forse certi nelle ultime file, che avevano ceduto e se ne stavan seduti per terra, spossati e avviliti. A questi io mi rivolsi, cercando di incoraggiarli, gli dicevo che il campo dov'erano diretti era appena un poco più su sulla collina, e così riuscii a farli alzare e riprendere il cammino, accompagnando bensì per un tratto di strada quelli in condizioni peggiori, aiutandoli io stesso o affidandoli a qualche camerata più forte per sostegno. 21 maggio. Visto oggi il generale Sheridan con il suo corpo di cavalleggeri - uno spettacolo forte e attraente. Erano in gran parte giovani (pochissimi di mezza età), ragazzi superbi, abbronzati, asciutti, tesi, con gli abiti logori, parecchi con pezzi di impermeabile che pendevano dalle spalle. Sfilarono a passo sostenuto, in lunghe file serrate, tutti schizzati di fango, una brigata dopo l'altra, certo non soldatini da giuoco. Sarei rimasto a guardarli per una settimana. Sheridan stava in piedi su un

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balcone, sotto un grosso albero, fumando freddamente un sigaro. La sua figura e i suoi modi mi impressionarono favorevolmente. 22 maggio. Passeggiata per Penusylvania Avenue e il tratto nord della Settima strada. La città è piena di soldati che corrono da tutte le parti. Ovunque ufficiali, d'ogni grado. Tutti con quell'aria logorata dalla vita all'aperto, tipica di chi è in servizio attivo. È uno spettacolo di cui non mi stanco mai. Tutte le truppe (o gran parte di esse) sono ormai qui, per la parata di domani. Le vedi sciamare per ogni dove, come api. LA GRANDE PARATA Da due giorni ormai gli ampi tratti di Pennsylvania Avenue fino a Treasury Hill e, seguendo la curva, intorno alla casa del Presidente e poi su fino a Georgetown e al ponte dell'acquedotto, sono ravvivati da un magnifico spettacolo, il ritorno delle truppe. Per due giorni interi resto qui a guardarli mentre passano a piedi o a cavallo con le grandi file che si snodano nitide per il viale, a passo sostenuto -fanteria, cavalleria, artiglieria, - qualcosa come 200.000 uomini. Qualche giorno dopo, un altro corpo d'armata, due; e ancora più tardi una gran parte dell'immensa armata di Sherman, risalita da Charleston, Savannah, ecc. SOLDATI DEL WEST 26-27 maggio. Le strade, gli edifici pubblici e i parchi di Washington brulicano ancora di soldati dell'Illinois, dell'Indiana, dell'Ohio, del Missouri, dello Iowa e di tutti gli Stati del West. Continuo a incontrarne, a parlare con loro. Spesso sono loro a parlarmi per primi, e sembrano sempre assai socievoli, felici di fare una bella chiacchierata. Questi soldati del West sono in genere più lenti degli altri, nei movimenti e anche intellettualmente: non hanno alcuna vivacità che possa dirsi spiccata. Sono di struttura più massiccia ed hanno una fisionomia più seria, vi guardano sempre quando passano per la strada. Sono esseri prevalentemente animali, ma in modo bello. Durante la guerra mi sono trovato varie volte con il 14° corpo, il 15°, il 17° e il 20°. Mi sento sempre attratto da questi uomini, e mi piace il loro contatto personale quando ci si trova raggruppati insieme, come accade sovente in questi giorni nelle carrozze pubbliche. Del generale Sherman pensano tutti un gran bene, lo chiamano "vecchio Bill" e talvolta "zio Billy". OPINIONE DI UN SOLDATO SU A. LINCOLN

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28 maggio. Oggi in ospedale, mentre vegliavo un soldato malato, del Michigan, un convalescente si alzò dal letto accanto, si avvicinò, e cominciammo subito a conversare. Era un uomo di mezza età; apparteneva al 2° reggimento della Virginia ma viveva a Racine, Ohio, dove aveva famiglia. Parlando del Presidente Lincoln disse: "La guerra è finita, molti sono scomparsi; e ora abbiamo perduto anche il più onesto, il più gentile, il più leale uomo d'America. Prendetelo nell'insieme, era l'uomo migliore che questo paese abbia mai prodotto. Per un po' la mia opinione è stata assai diversa; ma qualche tempo prima dell'assassinio, cominciai a pensarla proprio così". C'era, in questo soldato, una grande serietà (scoprii poi, continuando a parlare, che aveva conosciuto il signor Lincoln di persona, e piuttosto bene, anni prima). Era un veterano, questo era il suo quinto anno di servizio; cavalleggere, aveva preso parte a un gran numero di battaglie assai dure. DUE FRATELLI, UNO DEL SUD L'ALTRO DEL NORD 28-29 maggio. Sono rimasto a lungo stasera al capezzale di un nuovo paziente, un giovane di Baltimora sui 19 anni, W. S. P. (2° Maryland, sudista) - debolissimo, gamba destra amputata, non riesce quasi a dormire - ha preso grandi dosi di morfina, che come sempre si dimostra più costosa che efficace. Evidentemente molto intelligente e bene educato - affettuosissimo - si teneva attaccato alla mia mano, se l'accostava al viso, non voleva lasciarmi andare. Io indugiavo, confortandolo nella sua sofferenza, quand'egli a un tratto mi dice, "Non posso credere che voi sappiate chi sono io - né vi voglio ingannare - sono un soldato ribelle". Risposi che non lo sapevo, ma che non faceva alcuna differenza. Nelle visite quotidiane che gli feci dopo d'allora per circa due settimane, finché visse (ché la morte lo aveva segnato, ed era molto solo) imparai ad amarlteneramente, lo baciavo sempre, ed egli baciava me. In un padiglione vicino trovai suo fratello - ufficiale di alto grado, combattente dell'Unione, uomo religioso e di grande coraggio (colonnello K. Prentiss, 6° fanteria Maryland, 6° corpo, ferito il 2 aprile in uno degli scontri di Petersburg - tirò avanti per un poco, soffrì molto, morì a Brooklyn il 20 agosto '65). Erano rimasti colpiti ambedue nella stessa battaglia. Uno era unionista convinto, l'altro secessionista; ognuno combatté per la sua parte - feriti ambedue gravemente - riuniti qui dopo una separazione di quattro anni. Morirono ciascuno per la propria causa. ANCORA QUALCHE CASO TRISTE 31 maggio. James H. Williams, 21 anni, 3° cavalleria Virginia - il caso più notevole da me osservato di uomo robusto messo a terra da complicazioni di malattie (laringite, febbre, astenia e diarrea) - ha un fisico superbo, il colorito è rimasto bruno,

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ma arrossato e acceso dalla febbre - è in preda al delirio - la carne del gran petto e delle grandi braccia percorsa da tremiti, il polso che galoppa a una velocità tripla del normale-è immerso la più gran parte del tempo in una parvenza di sonno, ma con borbottii sordi e gemiti - un sonno senza riposo. Per quanto di fisico poderoso e così giovane, non sarà certo in grado di sopportare per molti giorni ancora lo sforzo e la temperatura divorante di ieri e oggi. La gola è mal ridotta, la lingua e le labbra riarse. Quando gli chiedo come si senta, riesce appena ad articolare un "sempre maluccio, vecchio mio", e mi guarda coi grandi occhi lucidi. Il padre è John Williams di Millensport, Ohio. 9-10 giugno. Sono rimasto stasera fino a tardi al capezzale di un capitano ferito, mio caro amico, ricoverato in uno di questi ospedali con una dolorosa frattura alla gamba sinistra, in un padiglione parzialmente vuoto. Le luci erano tutte spente, eccetto una piccola candela, lontana da noi. La luna piena entrava dalle finestre proiettando sul pavimento oblique chiazze d'argento. Tutto era immobile, anche il mio amico, silenzioso benché non potesse dormire; e io stavo lì seduto accanto a lui, muovendo lentamente il ventaglio, preso dalle meditazioni cui la scena invitava, il lungo padiglione pieno d'ombre, la bella e spettrale luce della luna sul pavimento, il candore dei letti, e qua e là la forma confusa di qualche paziente, le coperte gettate da un canto. Dopo le riviste militari dei giorni scorsi gli ospedali ospitano parecchi casi di insolazione e astenia da calore, molti del 6° corpo, a seguito della parata nel gran caldo dell'altro ieri (queste manifestazioni costano talora la vita a decine e decine di uomini). 10 settembre, domenica. Visitati gli ospedali Douglas e Stanton. Sono gremiti. Molti casi gravi, ferite che non voglion risolversi, vecchie malattie. Si nota più disperazione del solito nei visi di molti: la speranza li ha abbandonati. Sono passato da un padiglione all'altro, chiacchierando come sempre. Vi sono molti ricoverati provenienti dall'esercito secessionista, che ho già visti in altri ospedali, e mi hanno riconosciuto. Due di questi erano ormai prossimi a morire. IL VERO MONUMENTO A CALHOUN Oggi mentre ero intento a bendare una nuova amputazione, in una delle tende riservate ai casi speciali, ho udito due soldati che si parlavano da un lettino all'altro. Uno, prostrato dalla febbre ma già in via di miglioramento, era stato trasferito qui da poco, da Charleston; l'altro era quello che ora si usa definire "un vecchio veterano" (vale a dire, era un giovanotto del Connecticut, probabilmente sotto i venticinque, ma che aveva trascorso gli ultimi quattro anni in servizio attivo di guerra in ogni parte del paese). I due chiacchieravano del più e del meno. Il soldato con la febbre parlava del monumento a .Tohn C. Calhoun, descrivendolo (lo aveva visto). Allora il veterano disse "Anch'io ho visto il monumento a Calhoun. Quello che hai visto tu non è il vero

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monumento. Ma io l'ho visto. Ed è il Sud, nella sua desolazione e rovina un'intera generazione di giovani dai diciassette ai trent'anni quasi completamente distrutta o storpiata; le vecchie famiglie insultate - i ricchi impoveriti, le piantagioni coperte d'erbacce, gli schiavi lasciati liberi e divenuti i padroni, e il nome "sudista" insozzato d'ogni infamia - questo è il vero monumento a Calhoun". GLI OSPEDALI CHIUDONO 3 ottobre. Ormai rimangono solo due ospedali militari. Mi sono recato oggi nel più grande di questi (il Douglas), vi ho trascorso il pomeriggio e la serata. Vi si trovano molti casi tristi, ferite di vecchia data, malattie incurabili, e alcuni feriti degli scontri di marzo e aprile di fronte a Richmond. Pochi si rendono conto di quanto aspre e sanguinose siano state queste battaglie di chiusura: i nostri si esposero più del solito, continuando a incalzare anche senza vera necessità. Allora i sudisti lottarono con una disperazione straordinaria. Ambo le parti sapevano bene che una volta cacciata da Richmond la cricca dei ribelli, e occupata la città dalle truppe federali, il giuoco avrebbe avuto fine. I morti e i feriti furono insolitamente numerosi. Gli ultimi gruppetti di feriti sono stati portati qui in ospedale. Trovo molti ribelli, e oggi mi sono dato molto da fare per prendermi cura, insieme agli altri, dei più gravi fra questi. Domeniche di ottobre, novembre e dicembre. In questi mesi mi sono recato ogni domenica in visita all'ospedale Harewood, situato fuori città, tra i boschi - un luogo piacevole e appartato, un due o tre miglia a nord della collina del Campidoglio. La posizione è salubre, e il terreno intorno assai ineguale, pendii erbosi e boschetti di querce dai grandi alberi, belli a vedersi. Questo era uno degli ospedali più capaci, ora ridotto a quattro o cinque padiglioni occupati solo in parte, vuoti tutti gli altri, che sono un buon numero. A novembre, era l'unico tenuto aperto dal governo - tutti gli altri chiusi. Qui trovate le ferite peggiori, incurabili, malattie ostinate, e poveri ragazzi che non hanno una casa dove andare. 10 dic., domenica. Di nuovo una giornata dedicata in gran parte a Harewood. Manca circa un'ora al tramonto, mentre scrivo. Ho camminato per qualche minuto fino al margine del bosco per trovare conforto nel paesaggio e nell'ora. È un pomeriggio immobile, glorioso, tiepido, dorato dal sole. Unico rumore un gracchiar di cornacchie aggruppate su qualche albero a un trecento iarde di distanza. Sciami di moscerini che nuotano e danzano nell'aria in ogni direzione. Il fogliame delle querce è fitto sotto i tronchi nudi, e manda un aspro, delizioso profumo. All'interno dei padiglioni tutto è cupo. Vi abita la morte. Me la sono trovata subito dinanzi, appena entrato: il cadavere di un povero soldato, morto di febbre tifoidea. Gli inservienti ne avevano appena disteso le membra e coperto gli occhi con monete di rame, e ora lo stavano portando fuori.

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Le strade. Motivi di grande distrazione durante i tre anni passati sono state le lunghe passeggiate fuori Washington - cinque, sette, anche dieci miglia di cammino, più il ritorno; in genere insieme al mio amico Peter Doyle, che ama queste cose come me. Belle notti di luna, sulle perfette strade militari, solide e levigate - o qualche domenica - passeggiate deliziose, da non dimenticare mai più. Le strade che collegano Washington con i numerosi forti sparsi intorno alla città, nate dalla guerra, hanno avuto se non altro almeno un uso positivo. SOLDATI ESEMPLARI Anche a considerare solo quei soldati esemplari con cui ho avuto rapporti personali d'amicizia, credo che se dovessi compilarne una lista ne sortirebbe qualcosa di simile a un elenco municipale. Solo un numero esiguo è stato ricordato nelle pagine precedenti - i più sono morti - qualcuno vive ancora. C'è Reuben Farwell del Michigan (little Mitch); Benton H. Wilson, portabandiera, 185° New York; Wm. Stransberry, Manwill Winterstein, Ohio; Bethuel Smith; il capitano Simms, del 51° New York (ucciso dalle mine di Petersburgh); capitano Sam. Pooley e tenente Frederic Mc Ready, stesso reggimento. Nello stesso anche mio fratello George W. Whitman - in servizio attivo per tutti i quattro anni, riarruolatosi due volte - promosso (sovente subito dopo una battaglia) gradualmente a tenente, capitano, maggiore e tenente colonnello - prese parte alle azioni di Roanoke, Newbern, 2a Bull Run, Chantilly, South Mountain, Antietam, Fredericksburg, Vicksburg, Jackson, ai sanguinosi scontri del Deserto, Spottsylvania, Cold Harbor, e, più tardi, agli scontri attorno Petersburg; in uno di questi ultimi fu fatto prigioniero, e trascorse quattro o cinque mesi nelle prigioni militari sudiste, riuscendone a malapena vivo dopo una violenta febbre, e la fame e il freddo che v'aveva sofferto, seminudo, nell'inverno. (Che storia ha avuto quel 51° New York! Tra i primi a partire - marciando e combattendo ovunque - si trovò in mare, tra le tempeste, rischiando il naufragio - all'assalto di forti - batté in lungo e in largo la Virginia, di giorno e di notte, nell'estate '62 - poi il Kentucky e il Mississippi - quindi secondo arruolamento - e tutte le azioni e le campagne menzionate prima). Io trovo forza e conforto nella certezza che la capacità di produrre reggimenti come questo (ma centinaia, migliaia) è inesauribile negli Stati Uniti, e che in tutta la repubblica non esiste una sola contea o giurisdizione cittadina - né una sola strada, in qualsiasi città - che non possa e all'occasione non voglia tirar fuori un numero infinito di codesti soldati esemplari, se solo ve ne fosse bisogno. «CONVULSIONE»

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Riguardando le bozze delle pagine precedenti, ho provato una o due volte il timore che il mio diario non si riducesse, nel migliore dei casi, che a una infornata di reminiscenze redatte in modo convulso. Ebbene, sia pur così. Anch'esse non sono che particole della disperazione, del clima arroventato, del fumo e dell'eccitazione di quei giorni. La guerra stessa d'altronde, e lo stato d'animo che la precedette nell'opinione pubblica, non potrebbero descriversi meglio che con quella parola, convulsione. TRE ANNI: RICAPITOLAZIONE Durante questi tre anni negli ospedali, negli attendamenti o sui campi di battaglia, ho compiuto più di seicento visite o giri, e penso di aver assistito, calcolando tutto, dagli ottanta ai centomila tra malati e feriti, passando tra loro in veste per così dire di consolatore dello spirito e del corpo, nel momento di maggior bisogno. Tali visite variavano da un'ora o due a un intero giorno o nottata; ero solito infatti vegliare tutta la notte quando c'era un caso a me caro o particolarmente critico. Qualche volta finivo per stabilirmi direttamente in ospedale, e lì dormivo o vegliavo per parecchie notti di seguito. Quei tre anni (malgrado tutte le eccitazioni febbrili, le privazioni fisiche e i pietosi spettacoli) io li considero come il più gran privilegio, la maggior soddisfazione e, naturalmente, la lezione più profonda della mia vita. Posso dire che, nella mia opera di assistenza, furono compresi tutti, chiunque si trovasse sulla mia via, del Nord o del Sud, e che nessuno fu escluso. Tutto ciò ha risvegliato, portato alla superficie e chiarito impensate profondità di emozioni. Mi ha fornito le più fervide immagini del vero ensemble e della reale portata degli Stati. Mentre mi dedicavo a malati e feriti (e son stati migliaia di casi) del New England, New York, New Jersey e Pennsylvania, o del Michigan, Wisconsin, Ohio, Indiana, Illinois e di tutti gli Stati dell'Ovest, mi son trovato più o meno con gente di tutti gli Stati, Nord e Sud, senza eccezioni. Fui anche con molti che venivano dagli Stati di confine, soprattutto Maryland e Virginia, e in quei cupi anni 1862 e '63 scoprii nelle file dell'Unione molta più gente del Sud, specialmente Tennessiani, di quanto generalmente non si creda. Ho trovato tra i nostri feriti molti ufficiali e soldati secessionisti, e ho sempre dato loro tutto ciò che avevo, e cercato di confortarli, proprio come tutti gli altri. Ho anche passato parecchio tempo con i carrettieri dell'esercito, e in verità mi sono sempre sentito attratto verso di loro. Anche dai soldati di colore, malati o feriti, o nei campi dei profughi, mi recai sempre ogni qualvolta mi trovavo nelle vicinanze, e sempre feci per loro quanto potevo. RICAPITOLAZIONE ANCHE DEL MILIONE DI MORTI I morti di questa guerra - eccoli, disseminati sui campi e i boschi e le vallate e i campi di battaglia del Sud - la Virginia, la Penisola - la collina di Malvern e Fair

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Oaks - le rive del Chickahominy - le terrazze di Fredericksburg: - il ponte di Antietam - i sinistri dirupi del Manassas-la sanguinosa passeggiata del Deserto - la moltitudine di morti introvabili (il bollettino del Ministero della Guerra dà 25.000 soldati federali uccisi in battaglia e mai sepolti, 5.000 annegati -15.000 inumati da estranei, o durante le marce, frettolosamente, in località rimaste ignote - 2.000 tombe sepolte sotto la sabbia e il fango dalle piene del Mississippi -3.000 spazzati via da argini franati, ecc.) - Gettysburg, l'Ovest, il Sudovest - Vicksburg - Chettanooga - le trincee di Petersburg - il raccolto mietuto da quei possenti mietitori che sono il tifo, la dissenteria, le infiammazioni-e, più nere e più infami di tutto il resto, le fosse dei morti e dei vivi, i campi di Andersonville, Salisbury, Belle Isle, ecc. (nemmeno l'inferno descritto da Dante, con tutte le sue sofferenze, le sue degradazioni e sozzi tormenti, supera queste prigioni) - i morti, i morti, i morti, i morti - i nostri morti - nostri tutti, del Sud o del Nord, (e tutti, tutti, tutti, finalmente cari al mio cuore) - dell'Est o dell'Ovest - costa atlantica o valle del Mississippi - si sono trascinati a morire da soli in qualche luogo tra i cespugli, in burroni profondi, sui fianchi delle colline - (e lì, in angoli sperduti, ancora si scoprono ogni tanto i loro scheletri, ossa sbiancate, ciuffi di capelli, bottoni pezzi di vestiario) - i nostri ragazzi, una volta così belli, così allegri, che ci sono stati strappati - il figlio alla madre, il marito alla moglie, l'amico all'amico più caro - i gruppi di tombe sui campi della Georgia, delle Caroline, del Tennessee - le tombe abbandonate nei boschi o lungo la strada (centinaia, migliaia, obliterate) - i cadaveri trascinati a valle dai fiumi, ripresi, tumulati (a dozzine, a ventine, galleggiarono e scesero per il Potomac superiore dopo gli scontri di cavalleria e l'inseguimento di Lee che seguì Gettysburg) - alcuni giacciono in fondo al mare - il milione di morti d'ambo le parti, e i cimiteri speciali in quasi tutti gli Stati - gl'infiniti morti - (l'intero paese saturato, profumato dall'esalazione delle loro ceneri impalpabili distillate dalla chimica della Natura, e così per sempre, in ogni futuro chicco di frumento, in ogni pannocchia di granturco, e in ogni fiore che cresce e ogni respiro che respiriamo) - non soltanto morti del Nord che lievitano il suolo del Sud - ma migliaia, anzi decine di migliaia del Sud si sfanno oggi nella terra del Nord. E ovunque tra queste tombe senza fine - nei molti cimiteri militari della nazione (oggi ve ne sono, credo, più di settanta) - come allora nelle vaste trincee, deposito degli uccisi, Nord e Sud insieme, dopo le grandi battaglie - non solo dove in quegli anni passò la tempesta distruggitrice, ma irradiandosi da quel momento per tutte le contrade del paese rimaste intatte - noi vediamo, e le età a venire potranno ancora vedere, sui monumenti e sulle pietre tombali, isolate o in massa, per migliaia e decine di migliaia, la significativa parola IGNOTO. (Vi sono cimiteri dove quasi tutti i morti sono ignoti. A Salisbury, Carolina del Nord, per esempio, quelli noti sono solo 85 e gli ignoti 12.027, 11.700 dei quali sepolti nelle trincee. Un monumento nazionale è stato innalzato qui per volontà del Congresso, a contrassegnare il luogo - ma quale monumento visibile, materiale, potrà mai commemorare debitamente quel luogo?). LA GUERRA VERA NON ENTRERÀ MAI NEI LIBRI

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E così addio alla guerra. Non so che cosa sia stata o cosa possa essere per gli altri - per me, l'interesse principale l'ho trovato (e lo trovo ancora, rievocando) nella semplice truppa d'ambo gli eserciti, nei tipi incontrati negli ospedali, e persino nei morti sul campo. Per me, i punti che illustrano il carattere personale e le capacità latenti di questi Stati in quei due o tre milioni di americani, giovani e di mezza età, del Nord e del Sud, incorporati negli eserciti - e specialmente in quella parte di loro, un terzo o un quarto, che in un qualche momento del conflitto fu colpita da ferite o malattie - ebbero più importanza degli stessi interessi politici coinvolti nella guerra (dacché tanto, nel carattere di una razza, dipende da come essa sa affrontare la morte, dal modo in cui sopporta l'angoscia personale e la malattia. Così, negli sprazzi di emozione in certe situazioni critiche, nei tocchi indiretti e negli "a parte" di Plutarco, scopriamo una chiave interpretativa del mondo antico assai più penetrante di tutte quelle forniteci dalla storia più convenzionale). Gli anni a venire non sapranno mai la ribollente bolgia e il nero sfondo infernale di infinite scene e interni minori (non l'ufficiale cortesia, tutta di superficie, dei generali, non le poche battaglie famose) della Guerra di Secessione; ed è meglio che non lo sappiano - la guerra vera non entrerà mai nei libri. Nell'infrollito clima dei tempi che corrono, inoltre, la fervida atmosfera e gli eventi tipici di quegli anni rischiano di essere totalmente dimenticati. In ospedale io ho vegliato di notte al capezzale di un malato, uno che non aveva molte ore da vivere. Ho visto i suoi occhi lampeggiare e bruciare mentre si drizzava sul letto ricordando le crudeltà perpetrate sul fratello che si era arreso e, poi, le mutilazioni al cadavere. (Confrontate, nelle pagine precedenti, l'episodio di Upperville - i diciassette, uccisi come ho descritto, furono lasciati per terra. Poi che caddero morti, nessuno li toccò più - tutti, comunque, vollero accertarsene. I cadaveri vennero lasciati ai cittadini che li seppellissero o meno, a piacer loro). Questa è stata la guerra. Non una quadriglia in una sala da ballo. La sua storia interiore non sarà scritta mai - non solo, ma il suo aspetto pratico e quotidiano, i dettagli di azioni e passioni non saranno mai neppure suggeriti. Il vero soldato del 1862-65, Nord o Sud, coi suoi modi, il suo incredibile coraggio, le sue abitudini, azioni, gusti e linguaggio, la sua fiera amicizia, il suo appetito, la sua rozzezza, la sua superba forza animale, il suo passo ardito, e centinaia di luci e ombre della vita di campo, non mai precisate, tutto questo, dico, non sarà mai scritto - né forse deve né dovrebbe esserlo. Le note che precedono possono forse fornire qualche sprazzo fugace di quella vita, di quegli interni cupi che non saranno mai interamente trasmessi al futuro. La parte rappresentata dagli ospedali nel dramma del '61-65 merita invero di essere ricordata. In quel dramma dal molteplice intreccio, con le sue subitanee e strane sorprese, le profezie smentite, i momenti di disperazione, il terrore di interferenze straniere, le campagne interminabili, le battaglie sanguinose, gli eserciti possenti ma poco maneggevoli e inesperti, le coscrizioni e i premi - l'immensa spesa di denaro,

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una pioggia pesante e interminabile - e per tutto il paese, gli ultimi tre anni del conflitto, un'incessante, universale lamentazione funebre di mogli, genitori, orfani - il midollo della tragedia concentrato in quegli Ospedali Militari (sembrava talora che tutto l'interesse della nazione, Nord e Sud, non fosse che un solo, enorme ospedale centrale, e tutto il resto meri accessori) - là tutta la storia non narrata né scritta della guerra - infinitamente più grande (come la vita stessa) delle poche briciole e deformazioni che sempre si scrivono e si narrano. Pensate a quanto, e di che importanza, rimarrà - a quanto, sia civile che militare, è già rimasto - sepolto nella tomba, in un buio eterno. PARAGRAFO PER UN INTERREGNO Passano adesso molti anni prima che io riprenda il mio diario. Continuai a lavorare a Washington, al Ministero della Giustizia, per tutto il 66-67 e per qualche tempo dopo. Nel febbraio 1873 fui colpito da paralisi, lasciai il posto e emigrai a Camden, New Jersey, dove passai il '74 e il '75, piuttosto male in salute - ma poi cominciò a andar meglio; me ne andavo per settimane, a volte per mesi, in campagna, in una località deliziosamente rustica e solitaria nei pressi di Timber Creek, a dodici o tredici miglia dal punto in cui questo si versa nel Delaware. Alloggiando nella fattoria dei miei amici Stafford, appunto da quelle parti, passavo una buona metà del mio tempo lungo il torrente, nei campi e pei sentieri lì intorno. Ed è forse alla vita in codesto luogo che io devo la mia parziale ripresa (una sorta di seconda vita, o quasi - un rinnovo del contratto vitale) dalla prostrazione del '74-'75. Se solo, lettore caro, i miei appunti di quella vita all'aria aperta potessero avere per te la stessa sfolgorante luminosità che la diretta esperienza ebbe per me! Nel corso di quanto segue, il fattore infermità farà indubbiamente capolino qua e là, tra le righe (io mi definisco un semi-paralitico in questo periodo, e ringrazio umilmente il Signore che non vada peggio) - ma anch'io ho la mia parte di gioia, le mie ore di salute, e cercherò di metterle in evidenza (il trucco sta, ho scoperto, nell'abbassare di una buona misura il tono dei propri gusti e desideri; e trarre il massimo da cose negative, e apprezzare la semplice luce del giorno, e il cielo). NUOVI ARGOMENTI 1876-77. Scopro che i boschi a metà maggio e agli inizi di giugno sono il luogo migliore per scrivere.* Qui ho buttato giù quasi tutti gli appunti che seguono, seduto sui tronchi, su ceppi d'albero o appoggiato a una staccionata. Dovunque io vada infatti, estate o inverno, città o campagna, solo a casa o viaggiando, io devo prendere appunti (la mia passione dominante, tuttora forte malgrado l'età e la malattia, e persino l'approssimarsi della...- ma non bisogna ancora dirlo). E poi, sotto i brani che

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seguono - mentre taglio le t e metto i puntini sulle i di certo moderato vivere degli ultimi anni - mi piace immaginare le fondamenta di una profonda lezione ormai appresa. Dopo aver esaurito quel che t'offrono affari, politica, allegri simposi, amore e così via - e aver scoperto che niente di tutto ciò alla fine soddisfa o dura in eterno - che cosa ti resta? Resta la Natura; portar fuori dai loro torpidi recessi le affinità tra un uomo o una donna e l'aria aperta, gli alberi, i campi, il volgere delle stagioni - il sole di giorno e le stelle del firmamento la notte. Noi prenderemo l'avvio da queste convinzioni. La letteratura ha voli sì alti ed è condita di spezie così piccanti che le nostre note non potranno sembrare più che semplici boccate d'aria, sorsate d'acqua fresca. Ma questo fa parte della nostra lezione. Care, rasserenanti, salubri ore di ristoro - dopo tre anni di paralisi, immobilizzato - dopo il lungo spasmo della guerra, con le sue ferite e la sua morte. * Senza scusarmi per il brusco mutamento di scena e di atmosfera - dopo quel che ho raccontato nelle cinquanta o sessanta pagine che precedono - episodi transitori, grazie al cielo! - riporto il mio libro al solido e corroborante equilibrio della Natura concreta e aperta unica e permanente salvaguardia della sanità dei libri e della vita umana. Chissà (è un sogno, un'ambizione che porto in me) che le pagine seguenti non portino un raggio di sole, o odore d'erba e di granturco, o voce d'uccello, o splendore notturno di stelle, o mistica e fresca pioggia di fiocchi di neve, agli ospiti di accaldate case di città, a un operaio o a un'operaia stanchi dal lavoro? - o magari nella stanza di un malato o in una cella di prigione - quasi brezza rinfrescante, aroma della Natura, per una bocca arsa dalla febbre o un polso affievolito (N.d.A.). UN LUNGO VIOTTOLO DI CAMPAGNA Ognuno ha la sua piccola passione; io ce l'ho per un viottolo di campagna, chiuso ai lati da vecchie staccionate di castagno che muschi e licheni picchiettano di macchie verde-grigio, con cespi d'erbe e rovi che crescono lussureggianti negli spazi tra un mucchietto di pietre e l'altro, alla base dello steccato-nel mezzo, viottoli irregolari, tracciati dall'uso, e piste di cavalli e mucche - e poi tutto quel seguito di elementi caratteristici che, nella loro stagione, danno una nota o un profumo tipico al paesaggio - fiori di melo nel tardo aprile - suini, pollame - un campo di grano saraceno agostano - in un altro, le lunghe barbe pendole del granturco - e ancora lo stagno, lo slargo del ruscello, il bel solitario, con alberi vecchi e giovani, e altri recessi e scenari del genere. VERSO LA SORGENTE E IL RUSCELLO

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Così, sempre vagabondando, fino alla sorgente sotto i salici - musicale come tintinnio delicato di bicchieri - il getto d'acqua piuttosto consistente, della grossezza del mio collo, puro e cristallino, che sgorga dalla sua bocca laddove la sponda s'inarca come un gran sopracciglio cespuglioso e bruno, o un palato - gorgogliando, gorgogliando senza fine - che vuol dire e dice anzi, certamente, qualcosa (se solo si potesse tradurlo) - gorgogliando perennemente laggiù, in ogni momento dell'anno - senza chetarsi mai -oceani di menta e more l'estate - varietà di luce e di ombra - proprio il posto adatto ai miei bagni di luglio, di sole e anche d'acqua - ma soprattutto l'inimitabile dolcezza dei suoi gorgoglii, mentre resto seduto lì accanto, nei pomeriggi di caldo. Come quel suono, e tutto il resto, diviene parte di me giorno per giorno - tutto in armonia - l'aroma selvatico appena avvertibile, l'ombra screziata del fogliame, e tutte le influenze del luogo, una medicina della natura, una morale elementare. Continua a mormorare, ruscello, con quella tua inconfondibile voce! Anch'io esprimerò quanto di nativo, di sotterraneo, di passato, ho raccolto nel corso dei miei giorni-e ora anche te. Segui il tuo corso capriolando e serpeggiando - io con te, per un poco almeno. Mentre io vengo a trovarti stagione per stagione, tu non mi conosci né ti curi di me (ma perché esserne così certo? chi può dirlo?) - ma io imparerò da te, ti studierò - per ricevere, copiare, prendere la tua impronta. SVEGLIA DI PRIMA ESTATE Via dunque a sciogliere, slegare l'arco divino, così lungo e teso. Via da tende, tappeti, sofà, libri - dalla "società" - dalle case della città, dalle sue strade, da tutti i ritrovati e i conforti moderni - via verso il primitivo serpeggiante ruscello tra i boschi di cui ho parlato, con i suoi cespugli non cimati, le sue sponde erbose - via da legacci, stivali stretti, bottoni e tutto il ferreo sistema della vita civile - tutto quell'entourage artificiale, di negozi, macchine, studio, ufficio, salotto - via dal regno del sarto o dell'abito alla moda - e possibilmente da qualsiasi abito, per il momento, con la canicola che incalza, laggiù tra quelle ombrose solitudini d'acque. Via dunque anima mia (e tu lascia, lettore caro, che ti prenda da parte da solo e ti parli in perfetta libertà, senza badare alla forma, confidenzialmente) per un giorno e una notte almeno, per tornare alla nuda fonte di vita di tutti noi - al seno della grande, silenziosa e selvaggia Madre che tutto accoglie. Ahimé, quanti di noi sono ormai così saturi - quanti hanno deviato, allontanandosi tanto che il ritorno è quasi impossibile. Ma torniamo alle mie note, prendiamole come vengono, così a caso dal mucchio, senza una selezione particolare. C'è poco ordine nelle date: coprono confusamente un periodo di circa cinque o sei anni. Sono state buttate giù a matita sul momento e sul luogo, senza attenzione. I tipografi lo impareranno a loro spese, probabilmente, dato che un buon numero delle copie in mano loro deriva da quelle prime note vergate frettolosamente. UCCELLI MIGRANTI A MEZZANOTTE

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Vi è mai capitato di udire a metà notte il volo di uccelli che passano, eserciti sterminati, alti nell'aria e nel buio, mutando la loro sede all'inizio o alla fine dell'estate? È qualcosa che non si dimentica. Un amico mi ha svegliato la notte scorsa poco dopo le dodici perché udissi anch'io il particolare rumore di stormi insolitamente immensi che migravano verso nord (piuttosto tardi quest'anno). Nel silenzio, nell'ombra e nel delizioso odore di quell'ora (il profumo naturale che appartiene soltanto alla notte) mi parve rara musica. Si poteva sentire il loro movimento caratteristico - e una volta o due «l'impeto di ali possenti», ma più spesso un fruscìo vellutato, sostenuto - talora piuttosto vicino - tra un fischiare continuo, un cinguettare, e qualche nota di canto. Durò dalle 12 sin dopo le tre. A tratti era possibile distinguere chiaramente le varie specie di uccelli; riuscii a riconoscere il bobolinco, la tanagra, il tordo di Wilson, il passero testa-bianca, e di tanto in tanto dall'alto venivano le note del piviere. CALABRONI Maggio - mese di uccelli che sciamano, cantano, si accoppiano - il mese dei calabroni - mese del lillà in fiore - (e infine il mese della mia nascita). Sto prendendo queste note fuori all'aperto, poco dopo l'aurora, dalle parti del ruscello. Luci, profumi, melodie - pettazzurri, beccafichi e pettirossi ovunque - il loro concerto naturale, il chiasso, i vocalizzi. Come sottofondo, un picchio nelle vicinanze che tamburella il suo albero e, in distanza, la buccina di un gallo. Poi i freschi profumi della terra - i colori, i delicati beige e gli azzurri sfumati della prospettiva. Il verde lucente dell'erba ha acquistato, in questi due ultimi giorni di temperatura mite e di umidità, una tonalità nuova. Come si leva silenziosamente il sole nel gran cielo limpido, per il suo viaggio quotidiano! Come inondano ogni cosa i suoi tiepidi raggi, come fluiscono carezzevoli, quasi ardenti sul mio viso! Poco fa, ecco il gracidìo delle rane dello stagno, e il primo biancore del corniolo fiorito. E ora la bocca-di-leone, dorata, che in infinita profusione chiazza ovunque il terreno. Le bianche masse fiorite del ciliegio e del pero - le viole selvatiche coi loro occhi azzurri levati a salutare i miei com'io passo gironzolando al bordo del bosco - la vampa rosata dei meli in boccio - la luminosa sfumatura smeraldina dei campi di frumento - il verde più cupo della segala - una tiepida elasticità diffusa nell'aria - le macchie di cedro ricoperte da una profusione di piccoli frutti bruni - l'estate in pieno risveglio - i convegni di merli radunati in garruli stormi su qualche albero non lontano da dove io sto seduto, che riempiono del loro chiasso il luogo e l'ora.

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Più tardi. La Natura sfila in parata, a scaglioni, come i corpi d'armata d'un esercito. E tutti hanno fatto, e fanno ancora, molto per me. Ma negli ultimi due giorni è stata soprattutto la grossa ape selvatica, il calabrone o «bombo», come lo chiamano i bambini. Quando percorro passeggiando, o meglio claudicando, il tratto tra la casa e il ruscello, io attraverso di solito il viottolo cui ho già fatto cenno, fiancheggiato dalla vecchia staccionata tutta spaccature, schegge, interruzioni, buchi, ecc., che è la sede preferita di quegli insetti rombanti e pelosi. Su e giù lungo lo steccato e intorno e in mezzo essi sciamano e sfrecciano e volano a miriadi infinite. Spesso, mentre mi trascino lentamente, mi seguono in una mobile nuvola. Hanno un ruolo centrale nei miei vagabondaggi mattutini, meridiani o vespertini, e riescono talora a dominare il paesaggio in un modo per me incredibile, invadendo il sentiero in tutta la sua lunghezza - non dozzine, né centinaia, bensì migliaia. Grossi e vivaci e veloci, con fantastici slanci e quel ronzìo in perenne crescendo variato a tratti da qualcosa come uno strido, saettano in rapidi lampi, avanti e indietro, dandosi la caccia, e (sebbene così piccoli) mi comunicano un nuovo e spiccato senso di forza, di bellezza, vitalità e movimento. È questa forse la stagione degli amori? o qual'è allora il significato di tutta questa pienezza, vivacità, tensione, sfoggio? Camminando, pensavo di essere seguito da un unico sciame, ma osservando vidi che si trattava di una rapida successione di sciami che si alternavano, uno dopo l'altro. Scrivo seduto sotto un gran ciliegio selvatico - il calore del giorno temperato da qualche nuvola sparsa e da una fresca brezza, non troppo forte né troppo lieve - e qui resto seduto per un lungo, lunghissimo tempo, avviluppato nel profondo, musicale ronzìo di questi calabroni che a centinaia volteggiano, si librano, sfrecciano avanti, indietro, intorno a me - grossi insetti in giacchetta giallo chiaro, gran corpi rigonfi e lustri, testa tozza e ali di garza - vibrando quel loro perenne, ricco, pastoso ronzìo (non v'è qui forse lo spunto di una composizione musicale di cui esso dovrebbe costituire il sottofondo? una qualche «sinfonia del calabrone»?). Come tutto ciò mi nutre, mi culla, nel modo che più mi è necessario - l'aria aperta, i campi di segala, i pometi. Gli ultimi due giorni sono stati perfetti quanto a sole, brezza, temperatura, tutto; mai viste due giornate più perfette, e ne ho goduto immensamente. La mia salute va un pochino meglio, il mio spirito è in pace (e tuttavia si avvicina a gran passi l'anniversario della perdita più triste, del dolore più grande della mia vita). Altre note, altro giorno perfetto: in mattinata, dalle 7 alle 9, due ore immerso nei suoni dei calabroni e nella musica degli uccelli. Tra i meli e su un cedro qui accanto c'erano tre o quattro tordi dal dorso color ruggine, cantavano, ognuno dando il meglio di sé, e con gorgheggi di cui non ho mai udito l'eguale. Per due ore mi sono abbandonato a loro, ascoltandoli, assorbendo indolente la scena. Quasi ogni uccello da me osservato ha un suo periodo particolare ogni anno - limitato talora a pochi giorni - in cui dà il meglio del suo canto; e adesso è appunto il periodo di codesti tordi. Intanto, da una parte all'altra del sentiero, sfrecciano musicali, ronzanti, i calabroni. Ecco un altro grande sciame che mi fa da scorta mentre torno a casa, seguendomi al passo, come prima. Due o tre settimane più tardi - scrivo seduto presso il ruscello, sotto un liriodendro alto 70 piedi, tutto gonfio della fresca verzura della sua prima maturità -

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una cosa bella - perfetto in ogni ramo, ogni foglia. Brulica da capo a piedi di miriadi di queste api selvatiche alla ricerca del dolce succo dei fiori, e il cui sonoro e persistente ronzìo fa da contrappunto alla scena, al mio stato d'animo e all'ora. A chiusura del tutto citerò alcuni versi dal volumetto di Henry A. Beers: Mentre ero steso nell'erba alta passò un calabrone ubriaco, inebriato di succo di miele. La cinta d'oro intorno al corpo riusciva appena a tenergli la pancia gonfia d'umor di caprifoglio. Liquor di rosa e linfa di pisello gli avean colmato l'anima di canti; molto aveva bevuto nella tèpida notte, le cosce pelose eran umide di rugiada, e a che giochi bizzarri s'era dato mentre il mondo ruotava nell'ombra e nel sonno. Quante volte era sceso con labbra assetate a sugger di un fiore le nettàree dolcezze; e o scivolava sui petali vellutati o in stami intricati s'invischiava o, a capofitto nel polline caduto, ne usciva tutto spolverato d'oro; o inciampava con le grosse zampe sopra una gemma, e capitombolava in mezzo all'erba - e lì restava, in quel suo tono dolce di basso a brontolare - povero bombo, querulo beone! COCCOLE DI CEDRO Girando oggi in calesse per la campagna - una gitarella di dieci o dodici miglia - il piacere più grande m'è venuto proprio da questi frutti affatto particolari, la loro bellezza modesta e nuova (non li avevo mai visti così bene, o non li avevo mai notati prima), - quella profusione di seriche frange, o filacce giallo-chiaro, lunghe un pollice, che in numero infinito picchiettavano il verde cupo dei piccoli cedri - un ottimo contrasto col color bronzo delle zolle - le masse dei cespugli tutte ricoperte dai filamenti spumosi, come matasse di capelli arruffati su teste di elfo. Più tardi, passeggiando presso il ruscello, ne spiccai una dal suo cespuglio, che voglio conservare. Queste coccole di cedro durano tuttavia solo un breve spazio di tempo, poi subito si crepano e sfanno.

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SCENE ESTIVE, INDOLENZA 10 giugno. Sono qui presso il ruscello, a scrivere - 5 e mezzo pomeridiane - niente può eguagliare il quieto splendore e la freschezza che mi circondano. A metà giornata s'è avuto un violento acquazzone, con tuoni e lampi, ma breve; e dopo, alto sopra di noi, uno di quei cieli non rari, forse, ma indescrivibili (per qualità, non nelle forme o nei dettagli) - di un azzurro terso con cumuli roteanti di nubi dalle frange argentate, e la pura luce di un sole abbagliante. Per sottofondo, alberi nella pienezza di teneri fogliami - e liquide, sottili, strascicate note d'uccelli, cui fan da supporto lo smanioso miagolio di una querula dumetella, e i deliziosi gridolìi e trilli di due martin-pescatori. Ho trascorso quest'ultima mezz'ora a osservarli nei loro giuochi d'ogni sera, dentro e sopra il pelo dell'acqua: evidentemente in una delle loro baldorie più vivaci. Si inseguono volteggiando in cerchi e mulinelli, tuffandosi d'un tratto con un guizzo gioioso, schizzando diamantine gocce di spuma - e poi via in un'impennata, le ali inclinate in voli pieni di grazia, talvolta così vicini a me ch'io posso agevolmente distinguerne il corpo piumato grigio-scuro e il collo d'un bianco latteo. PROFUMO DEL TRAMONTO, LE NOTE DELLA QUAGLIA, IL TORDO EREMITA 19 giugno, dalle 4 alle 6.30 pomeridiane. Seduto presso il ruscello, da solo - solitudine intorno, ma il paesaggio abbastanza vivido e luminoso - c'è il sole, e un vento piuttosto fresco (violenti sgrulloni di pioggia ieri notte), erba e alberi nella loro veste migliore - il chiaroscuro dei molti verdi, ombre e penombre, e negli interstizi il lampeggiar dell'acqua, con variegati effetti di luce - le note di flauto silvestre di una quaglia vicina - e, proprio ora, lo sciacquio di qualche raganella laggiù nello stagno - cornacchie che crocidano in distanza - un branco di maialini che grufola nella terra morbida presso la quercia dov'io sono seduto - alcuni mi si accostano, mi annusano, e sgambettano via subito, grugnendo. E sempre le limpide note della quaglia - il tremolìo dell'ombra delle foglie sulla carta mentre scrivo - il cielo altissimo, con nuvole bianche, e il sole che già scende a ponente - rondini riparie, molte, che sfrecciano veloci, vanno e vengono, i nidi scavati in un costone di marna qui vicino - l'aroma del cedro e della quercia, sempre più acuto come avanza la sera - profumo, colore, il bronzo-oro del grano ormai quasi maturo - campi di trifoglio dall'odore di miele - il granturco ormai alto, con le lunghe foglie fruscianti - le grandi chiazze verde cupo delle patate in pieno rigoglio, tutte picchiettate di bianco, i fiori - l'antica, verrucosa, venerabile quercia sopra di me - e sempre, commisto alla duplice nota della quaglia, il sospiro del vento tra un gruppo di pini qui accanto. Mi alzo per ritornare, ma indugio ancora a un delizioso canto d'epilogo (è il tordo eremita?) che viene da qualche angolo cespuglioso laggiù nella chiana, ripetuto

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più volte, lentamente, pensosamente. E questo tra le girandole delle rondini che volano a dozzine in anelli concentrici negli ultimi barbagli del tramonto, quasi scintille di un'aerea ruota. POMERIGGIO DI LUGLIO ALLO STAGNO Caldo rovente, ma tanto più sopportabile in quest'aria pura - i fiori rosa e bianco delle piante acquatiche, con grandi foglie a forma di cuore; la superficie di vetro dello stagno, le sponde fitte di cespugli, e i faggi pittoreschi, e l'ombra e il tappeto dell'erba; il fischio esile, tremulo, di un uccello che da qualche angolo nascosto viene a rompere questo silenzio caldo, indolente, quasi voluttuoso; di tanto in tanto una vespa) un calabrone, una pecchia o un bombo (mi ronzano attorno alle mani e al viso, ma non mi disturbano, come io non disturbo loro, dacché vengono, sembra, a esaminarmi, e non trovando nulla di interessante se ne vanno) - in alto, l'ampio spazio del cielo, così limpido, e lassù la poiana che spiega le sue lente ruote in un solenne intreccio di cerchi e spirali; quasi a fior d'acqua sullo stagno, due grandi libellule color ardesia, ali di merletto, che ruotano e sfrecciano e a tratti si librano immobili, le ali sempre frementi (non staran forse dando spettacolo per mio godimento?) - e lo stagno poi, coi suoi calami a forma di spada; le bisce d'acqua - talora il trasvolar veloce d'un merlo, il dorso picchiettato di rosso, di sbieco - i suoni che fanno più spiccata la solitudine, il caldo, la luce e l'ombra - lo starnazzare di un'anitra - (cavallette e grilli sono muti nella calura meridiana, ma già sento il canto delle prime cicale); - poi, a una certa distanza, lo sbacchiare e il frullare di una mietitrice che i cavalli tirano a passo veloce per un campo di segale dall'altra parte del ruscello - (ma che cos'era quell'uccello giallo o color ocra, grosso come una pollanca, il collo tozzo e le zampe distese, che ho appena visto svolazzare goffamente laggiù tra gli alberi?) - il profumo dominante, così delicato, eppur nettamente percepibile, pungente, d'erba e di trifoglio che ho nelle nari; e su tutto, in un grande abbraccio, il libero spazio del cielo, per i miei occhi e per la mia anima, trasparente e azzurro - e, librata laggiù ad occidente, una massa di quelle nuvole lanose tra il bianco e il grigio che i marinai chiamano «banchi di maccarelli» - il cielo con bioccoli argentei come riccioli di una capigliatura scomposta, che si espande e protende - un vasto simulacro senza voce, senza forma - e tuttavia forse la realtà più reale, quella in cui si formulano tutte le cose - chissà? CATIDI E LOCUSTE 22 agosto. Acute monodie di locuste, o suoni di catidi - odo questi a sera, le altre sia di giorno che di notte. Ho sempre ritenuto incantevole il gorgheggio mattutino degli uccelli, o quello della sera; ma sto scoprendo ora di poter ascoltare

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con altrettanto gusto questi strani insetti. Si sente adesso mentre scrivo un'unica locusta, poco prima di mezzogiorno, da un albero a un duecento piedi di distanza - un frullìo lungo, sostenuto, piuttosto forte, che si scandisce gradatamente in mulinelli e giri ritmati, crescendo in forza e velocità fino a un certo punto - poi una caduta palpitante, che va a smorzarsi quieta. Codesti slanci si protraggono per uno o due minuti. Il canto della locusta è molto appropriato alla scena - vien fuori a fiotti, ha un senso suo, è virile, è come un buon vino vecchio, non dolce, ma assai meglio che se fosse dolce. Ma la catide - come descrivere le sue frasi mordenti? Ce n'è una che canta su un salice proprio di fronte alla finestra aperta della mia camera da letto, a venti iarde di distanza; in queste ultime due settimane è stata lei a cullarmi al sonno quando la notte era bella. L'altra sera ho percorso in calesse un tratto di bosco di un cinquecento iarde, e ho udito catidi a miriadi - molto interessante, per una volta; ma io preferisco la mia solitaria vicina del salice. Ma lasciatemi dire ancora qualcosa sul canto della locusta, anche a costo di ripetermi: quel crescendo cromatico, prolungato e tremulo, simile a un disco d'ottone che turbini su se stesso emettendo ondate di note, principiando con un certo ritmo o misura che direi moderati, aumentando quindi rapidamente velocità ed enfasi fino a raggiungere un punto di grande energia e suggestione, per poi decrescere velocemente e con grazia fino a spegnersi del tutto. Non la canora melodia dell'uccello - nulla di simile - un musicista grossolano potrebbe anzi trovarlo affatto privo di melodia - ma un canto che certo svela a un orecchio più raffinato un'armonia tutta particolare; monotono - ma che ritmo in quel basso, ondulato ronzio come d'ottone, o cembali - o piuttosto dischi di rame che ruotino vorticosamente. LA LEZIONE DI UN ALBERO 1 settembre. Non ricorrerò all'albero più grande né al più pittoresco per illustrarla. Ecco di fronte a me uno dei miei preferiti, un bel pioppo giallo, dritto come un fuso, forse 90 piedi di altezza e quattro di spessore alla base. Come è forte, vitale, paziente! come eloquente nel suo silenzio! E come sa suggerirvi imperturbabilità e essenza, in contrasto con la caratteristica tutta umana della mera parvenza. E poi le qualità, quasi emotive, visibilmente artistiche, e eroiche, proprie dell'albero: così innocente e innocuo, e tuttavia così selvaggio. Esiste, e non dice verbo. Ma con la sua solida e inalterabile serenità come si fa beffe delle stagioni e di quel moscerino ventoso che è l'uomo, che al primo sbruffo di pioggia o di neve si precipita dentro casa. La scienza (o meglio la mezza scienza) deride ogni memoria di driadi e amadriadi e alberi parlanti. Ma, se non parlano, gli alberi si esprimono altrettanto bene della maggior parte dei discorsi, libri, poesie e sermoni - o piuttosto assai meglio. Direi anzi che quelle antiche reminiscenze driudiche sono quanto mai veritiere, e più profonde della maggior parte delle nostre reminiscenze. («Ritagliate l'avviso», come dicono i medicastri, potrebbe servirvi). Vai a sederti in una macchia o

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nei boschi, con uno o più di quei muti compagni, leggi quanto si è appena detto, e medita. Una delle lezioni che derivano dalla comunanza con un albero - forse la più grande lezione morale che ci venga comunque dalla terra, dalle rocce e dagli animali - è appunto questa medesima lezione di sostanza, di ciò che la cosa è senza riguardo alcuno per quel che l'osservatore (il critico) possa supporre o dire, o se gli piaccia o meno. Quale malattia peggiore - quale più generalmente diffusa tra noi, tutti e ciascuno, nella nostra letteratura, cultura, atteggiamenti dell'uno verso gli altri (e anche verso noi stessi), di quella morbosa preoccupazione per le apparenze (e in genere apparenze del momento), accompagnata dall'assenza totale o quasi di qualsiasi preoccupazione per i lati sani, di lenta maturazione, duraturi, reali del carattere umano, dei libri, dell'amicizia, del matrimonio - le fondamenta invisibili e il tessuto connettivo dell'umanità? (giacché la base del tutto, il nerbo, il gran simpatico, il solido nucleo interno dell'umanità, quello che dà l'impronta a ogni cosa, è necessariamente invisibile). 4 agosto, 6 pom. Luci e ombre, effetti prodigiosi sul fogliame degli alberi e l'erba - trasparenze di verdi, grigi, ecc., il tutto nella screziata pompa del tramonto. I vividi raggi cadono ora in molti luoghi inusi, sulla parte inferiore degli alberi, inclinata, scalfita, d'un color bronzo slavato, sempre in ombra tranne a quest'ora - ne investono adesso con forte luce l'antica eppure giovane rugosità colonnare, dispiegando ai miei sensi nuove e stupefacenti fattezze d'un fascino silenzioso e ispido, la solida corteccia, l'espressione di innocua impassibilità, le molte protuberanze e i nodi mai notati prima. Tra le rivelazioni di questa luce, di questa ora eccezionale e di questo stato d'animo, non ci si stupisce più delle favole antiche (dopo tutto, perché favole?) in cui gli uomini erano presi d'amore per gli alberi, rapiti in estasi dal mistico realismo della forza in essi racchiusa, tacita e irresistibile - forza, che dopo tutto è forse l'estrema, la più completa, la più alta forma di bellezza. Alberi che conosco bene qui. Querce (molte varietà - un quercione antico pieno di vita, verde, frondoso, cinque piedi di spessore alla base, sotto il quale vado a sedermi ogni giorno). Cedri, in quantità. Tulipiferi (il Liriodendro, della famiglia delle magnoglie - nel Michigan e nell'Illinois del Sud ne ho visti di alti 140 piedi, 8 di spessore alla base;* trapianto difficile; viene su meglio dal seme - i boscaioli lo chiamano pioppo giallo). Sicomori. Alberi della gomma, dolce e amara. Faggi Noci neri. Sassafrassi. Salici Catalpe

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Ebani Sorbo selvatico Noci americani Aceri, molti tipi Carrubi. Betulle Corniolo Pino L'olmo Castagno Tiglio Pioppo tremulo Abete rosso Carpine Alloro Agrifoglio * C'è, a un tiro di schioppo da Woodstown, un liriodendro la cui circonferenza misura venti piedi a tre piedi da terra, e il diametro quattro piedi a circa diciotto di altezza del tronco, che è spezzato tre o quattro piedi più su. Dal fianco volto a mezzogiorno è spuntato un braccio da cui s'alzano due rami, ambedue fino a novantuno, novantadue piedi circa dal suolo. Venticinque anni fa (o più) la cavità alla base del tronco era tanto ampia che nove uomini potevano pranzarci dentro, tutti insieme. Si crede che oggi potrebbero starvi in piedi da dodici a quindici uomini alla volta. Sembra che i terribili vènti del 1877 e '78 non gli abbiano arrecato danno, e i due rami metton fuori ogni anno i loro bocci, diffondendo subito nell'aria intorno il loro soave profumo. Si trova su una collina, completamente privo della protezione di altri alberi - Woodstown, N. Y. «Gazzetta», 15 Aprile '79 (N. d. A.). SCORCI AUTUNNALI 20 settembre. Sotto una vecchia quercia nera, lucida e verde, che alita aromi - in un boschetto che avrebbe potuto ospitare i druidi d'Albione - ravvolto nel tepore e nella luce del sole meridiano, e sfreccianti sciami d'insetti - tra il roco crocidio di molte cornacchie a un cinquecento iarde di distanza - eccomi seduto in solitudine, assorbendo, godendo ogni cosa. Il granturco ammassato in covoni conici d'un colore tra il ruggine e il giallo vizzo - un gran campo tutto picchiettato di zucche oro-scarlatto - e un altro, confinante, di cavoli, che fan bella mostra nel loro verde perlaceo screziato dalla luce e dall'ombra copiose - campi di meloni coi loro ovali rigonfi e le grandi foglie striate d'argento, ricciute, slabbrate - e molte altre immagini e suoni d'autunno - lo strido lontano d'un branco di faraone - e profusa su tutto la brezza settembrina, col suo ritmo pensoso tra le vette degli alberi.

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Un altro giorno. Il suolo tutto disseminato dei relitti d'una tempesta. Percorro lentamente la sponda del Timber, il torrente s'è abbassato, e mostra i segni della piena turbolenta dell'ultimo equinozio. Mi guardo intorno e faccio l'inventario - erbe e arbusti, dossi, viottoli, qua e là ceppi d'albero, alcuni levigati in cima (parecchi mi fanno da sedile quando mi riposo ora in un posto ora nell'altro, è da uno di questi che ora sto prendendo appunti) - molti fiori selvatici, macchioline bianche a forma di stella, o il rosso cardinalizio della lobelia, e i semi rotondi simili a ciliegie della rosa perenne, o le viti dai molti viticci che s'arrampicano avviluppandosi intorno agli alberi. 1, 2 e 3 ottobre. Ogni giorno di nuovo nella solitudine del ruscello. Sereno sole autunnale e brezza di ponente oggi (il 3) mentre sto qui seduto e dinanzi a me la superficie dell'acqua s'increspa con grazia al vento. Sopra un vecchio enorme faggio sul ciglio dell'acqua, imputridito e pencolante, quasi caduto nel ruscello, ma con le membra muschiose ancora ricche di vita e di foglie, scorrazza uno scoiattolo grigio in esplorazione, sventaglia la coda, balza a terra, al vedermi si ferma ritto sulle cosce (un indizio darwiniano?) e risale precipitosamente sull'albero. 4 ottobre. Nuvolo, ha rinfrescato; segni dell'inverno incipiente. Eppure bello qui, con le foglie che cadono fitte e la terra che ne è già fatta bruna; sfarzo di colori, tutti i toni del giallo, verdi pallidi e cupi, gradazioni di rosso dal più tenue al più carico - tutti incorniciati e smorzati dal bruno dominante della terra e dal grigio del cielo. Dunque sta venendo l'inverno, e io sono sempre malato. Rimango qui seduto tra queste visioni incantevoli e queste influenze vitali, e mi abbandono a quel pensiero, con tutto il suo errabondo corteo di meditazioni. IL CIELO - GIORNI E NOTTI - FELICITÀ 20 ottobre. Giorno terso, frizzante - aria asciutta e ricca d'ossigeno, un po' di brezza. Tra i salubri, silenziosi e splendidi miracoli che mi avvolgono e mi commuovono - alberi, acqua, erba, sole e prime brine - quello che oggi sto osservando di più è il cielo. Ha l'azzurro delicato e trasparente proprio dell'autunno, le sue uniche nuvole sono candide, piccole o poco più grandi, e trasmettono alla gran conca il loro movimento calmo e spirituale. Durante la prima parte del giorno (diciamo dalle 7 alle 11) si mantiene d'un azzurro puro ma vivido. Ma approssimandosi mezzogiorno il colore sbiadisce, si fa grigio per due o tre ore - poi ancora più pallido per un breve periodo, fino al tramonto - quest'ultimo mi fermo a contemplarlo mentre sfiamma tra gli interstizi di un poggio fitto di grossi alberi - dardi di fuoco e fantastico sfoggio di giallo-chiaro, rosso-bruno e scarlatto, con un disteso lucore argenteo obliquo sull'acqua - ombre diafane, frecciate di luce, sfavillìo, e colori vividi come nei quadri non si son mai visti.

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Non so perché né come, ma mi sembra che proprio grazie a codesti cieli (talora penso che pur avendoli naturalmente visti ogni giorno della mia vita, in realtà io non abbia mai visto i cieli prima d'ora) ho goduto quest'autunno alcune ore di meravigliosa contentezza - o non potrei forse dire di felicità perfetta? Ho letto che Ryron in punto di morte disse a un amico di non aver conosciuto in tutta la sua vita che tre ore di felicità. Sullo stesso argomento v'è anche l'antica leggenda tedesca della campana del re. Mentre mi trovavo lassù presso il bosco, con quel bel tramonto tra gli alberi, ripensavo a Byron e alla storia della campana, e si fece strada in me, di colpo, la consapevolezza che stavo vivendo un'ora di felicità. (Sebbene forse dei momenti migliori io non riesca mai a prender nota: quando giungono non posso permettermi di spezzare l'incanto redigendo memorie; mi abbandono allo spirito del momento, null'altro, e lo lascio fluire e trascinarmi nella sua placida estasi). Che cos'è, in fondo, la felicità? È questa un'ora di felicità, o qualcosa che le somiglia? - così impalpabile - solo un soffio, una sfumatura evanescente? Non saprei dirlo - mi lascerò il beneficio del dubbio. Forse nelle Tue profondità azzurrine, Tu sommamente luminoso, hai un rimedio per casi come il mio? (ah, lo sfacelo fisico e lo spirito tormentato di questi miei tre anni!) Non starai Tu ora distillandolo sottilmente, misticamente nell'aria, che piova invisibile su di me? Notte del 28 ott. I cieli di una trasparenza insolita - le stelle fuori a miriadi - il gran sentiero della Via Lattea con tutte le sue diramazioni, visibili solo in notti limpidissime - Giove, che sta tramontando a ponente, sembra un enorme schizzo lanciato a caso, e ha una piccola stella per compagna. Vestito dei suoi abiti bianchi Lentamente nella tonda arena deserta entrò il bramino, Conducendo un bimbo per la mano Come la luna Giove in un cielo notturno senza nubi. (Antico poema indù) Primi di novembre. All'altra estremità, la terra che ho descritto s'apre in un ampio pianoro erboso di più di venti acri, che declina leggermente dalla parte sud. Qui vengo solitamente a passeggiare quando voglio godermi la vista del cielo o alcuni effetti particolari, sia al mattino che al tramonto. Su questi campi oggi la mia anima è in pace e dilatata oltre ogni possibile descrizione, dopo l'intera mattinata trascorsa qui, grazie alla gran cupola di limpido azzurro, senza nubi, senza nulla di speciale, solo cielo e luce. Come dolce accompagnamento, foglie d'autunno, l'aria secca e frizzante, il lieve aroma - corvi che gracchiano in distanza - due grandi poiane che ruotano lente e aggraziate lassù - di quando in quando il murmure del vento, talora delicatissimo, - poi minaccioso tra gli alberi - un gruppo di contadini che caricano covoni in un campo di granturco non distante, e i cavalli che attendono pazienti.

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COLORI - UN CONTRASTO Un tal giuoco di colori e di luci, come variano le stagioni, le ore del giorno - le linee del lontano orizzonte dove l'orlo sfocato del paesaggio si perde nel cielo. Mentre ripercorro zoppicando il sentiero, al morire del giorno, ecco scoppia un tramonto incomparabile, zaffiro e oro liquefatti, pioggia di dardi tra i filari del granturco dalle lunghe foglie, a mezza via tra me e l'occidente. Un altro giorno. Il sontuoso verde-cupo dei magnoli e delle querce, il grigio dei salici d'acquitrino, i toni spenti dei sicomori e dei noci americani, lo smeraldo dei cedri (dopo la pioggia), e il giallo delicato dei faggi. 8 NOVEMBRE 1876 Mattinata plumbea, nuvolosa, non proprio freddo né umido, ma preludio dell'uno e dell'altro. Scendo quaggiù zoppicando, mi siedo presso lo stagno silenzioso - quanto lontana l'eccitazione con cui oggi milioni di persone nelle città attendono notizie dell'elezione del Presidente, avvenuta ieri, ne ricevono e discutono i risultati - in questo luogo tagliato fuori dal mondo, di cui nessuno si cura e che nessuno conosce. CORNACCHIE A STORMI 14 novembre. Un tiepido languore di sole mi inonda, mentre sto qui seduto presso il ruscello a riposare, dopo la mia passeggiata. Non suoni se non un gracidar di cornacchie, non movimenti se non le loro nere forme in volo riflesse dall'alto nello specchio dello stagno sottostante. Invero uno dei lineamenti essenziali della scena di oggi sono proprio queste cornacchie, il loro gracchiare incessante, vicino o lontano, e i loro innumerevoli stormi, processioni trasmigranti da un luogo all'altro, miriadi d'uccelli, che a volte quasi abbuiano l'aria. Mentre mi siedo un attimo sulla sponda a scrivere queste note, riflesse giù nello stagno scorgo le loro nere, nitide forme trasvolare lo specchio dell'acqua a una, a due, o in lunghe file. Tutta notte ho udito il chiasso del loro gran nido in un bosco vicino. GIORNATA D'INVERNO SULLA SPIAGGIA

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Un luminoso meriggio di dicembre ho trascorso recentemente sulla spiaggia del New Jersey, raggiunta in poco più di un'ora di treno sulla vecchia linea Camden-Atlantic. Ero partito per tempo, rinfrancato da un bel caffè forte e da una buona colazione (preparata dalle mani che amo, quelle della mia cara sorella Lou - come migliora allora il gusto delle vivande, come si assimilano facilmente, e vi dan forza, rendendo magari più piacevole l'intera giornata che viene). A cinque o sei miglia dal termine, la strada ferrata entrò in una vasta regione di prati salati, intersecati da lagune e frastagliati per ogni dove da corsi d'acqua. Il profumo dei caríci, delizioso alle mie narici, mi ricorda il mash, e la baia meridionale della mia isola nativa. Avrei potuto continuare a viaggiare felice fino a notte in quelle praterie marine piatte e odorose. Dalle undici e mezzo alle due rimasi quasi ininterrottamente sulla spiaggia, o in vista dell'oceano, ascoltandone il mormorìo roco e respirando a pieni polmoni le sue brezze tonificanti e gradite. Dapprima una corsa veloce di cinque miglia sulla sabbia dura - le ruote della nostra carrozza quasi non vi lasciavano segno. Poi, dopo pranzo (c'erano circa due ore libere), mi incamminai in un'altra direzione (direi di non aver visto né incontrato anima viva), e insediatomi in quella che all'apparenza sembrava la sala di ritrovo di un vecchio stabilimento di bagni, ebbi tutta per me la vista di un'ampia distesa di paesaggio - strano, aperto, vivificante - un'asciutta area di carici e d'erba indiana immediatamente di fronte e tutt'intorno a me - spazio, semplice spazio disadorno. Vascelli in distanza, e il remoto e appena visibile filo di fumo di un vapore diretto a terra; più chiari in vista, bastimenti, brigantini, golette, i più con tutte le vele spiegate al vento, che era robusto e costante. L'attrazione, il fascino del mare e della costa! Come ci si perde nella loro semplicità, vacuità persino! Che cosa c'è in noi, che viene risvegliato da quei suggerimenti diretti e indiretti? Quella distesa d'onde e di rena bianco-grigia, salata, monotona, ottusa - un'assenza così totale d'arte, libri, conversazioni, eleganza - così indescrivibilmente rasserenante persino in questa giornata d'inverno - austera, ma con un che di delicato, così spirituale - capace di smuovere impalpabili abissi di emozione, più sottili di qualsiasi poesia, pittura o musica ch'io abbia mai letto, visto o udito. (Ma a esser sinceri, non sarà proprio perché ho letto quelle poesie e ascoltato quella musica?) FANTASIE DELLA SPIAGGIA Sin da bambino avevo la fantasia, il desiderio di scrivere qualcosa, forse una poesia, sulla spiaggia marina - quella linea divisoria e allusiva, contatto, unione, il solido che sposa il liquido - quella cosa inafferrabile e strana (al modo che, immancabilmente, ogni forma oggettiva finisce per apparire allo spirito soggettivo), che significa molto di più di quanto non sembri a prima vista, per grandiosa che sia - fusione di reale e ideale, e l'uno fatto parte dell'altro. Ore e giorni ho passato, durante la mia giovinezza e prima virilità a Long Island, vagabondando per le spiagge di RocLaway e Coney Island o, più a est, fino agli Hamptons o Montauk. In

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quest'ultimo posto una volta (presso il vecchio faro, senz'altro in vista che lo scavallar del mare in ogni direzione, fin dove giungeva lo sguardo) sentii, ricordo bene, di dover un giorno scrivere un libro che desse forma a questo liquido, mistico tema. E rammento come venne in seguito l'intuizione che, anziché il tema di un particolare tentativo lirico, epico o letterario, la riva del mare dovesse costituire una influenza invisibile, la pervasiva presenza, nella mia composizione, di una misura e di un controllo. (Permettete che io dia qui un suggerimento ai giovani scrittori. Non so se, inconsciamente, io non abbia seguito la stessa norma con altre potenze naturali, oltre al mare e alla spiaggia - evitandole, evitando cioè ogni aprioristica intenzione di farne poesia, in quanto troppo vaste per un trattamento formale - ben contento se solo riuscissi indirettamente a suggerire che ci siamo incontrati e fusi, anche una volta sola, ma a sufficienza - che ci siamo realmente assorbiti a vicenda e ci comprendiamo). V'è un sogno, un'immagine, che per anni, a intervalli (molto lunghi a volte, ma sempre con la certezza del ritorno a tempo dovuto) mi si è silenziosamente ripresentata, e che io veramente credo, pur se mera finzione, entrata in larga misura nella mia vita d'ogni giorno - nei miei scritti senza dubbio, cui ha dato forma e colori. Questa è null'altro che un'interminabile distesa di sabbia bianco-sporco, dura e liscia e larga, con l'oceano che perennemente, maestosamente, vi si rovescia sopra con ritmo lento e misurato, e fruscìi e fischi e schiuma, e molti colpi sordi come di timpani scuri. Questa scena, quest'immagine, dico, mi si è ripresentata a volte per anni. Talora svegliandomi la notte posso udirne il suono e vederla nitidamente. IN MEMORIA DI THOMAS PAINE Conferenza tenuta alla Lincoln Hall di Filadelfia domenica 28 genn. '77, per il 140° anniversario della nascita di T. P. Circa trentacinque anni fa, a New York, alla Tammany Hall, di cui ero a quel tempo un frequentatore, conobbi casualmente e presi a praticare l'amico forse più intimo di Thomas Paine, e per certo il compagno più fedele dei suoi ultimi anni, il colonnello Fellows, un vecchio signore assai distinto che forse qualcuno degli sparsi superstiti di quel tempo e di quel luogo ricorda ancora. Se me lo permettete, vorrei prima descrivervi il Colonnello in persona. Era alto, portamento militare, direi sui 78 anni, capelli bianchi come neve, faccia ben rasata, molto accurato nel vestire, marsina azzurra con bottoni di metallo, panciotto di pelle scamosciata, pantaloni color beige, e il collo, il petto e i polsi su cui spiccava la biancheria più candida della terra. Bei modi in qualsiasi circostanza; buon parlatore ma non verboso, pienamente padrone di sé, equilibrato, vivace e limpido quant'altri mai. Godeva di ottima salute sebbene così anziano. Come impiego - era povero infatti - aveva un posto di usciere in qualche tribunale superiore: io usavo immaginarmelo ai bordi di una folla, molto pittoresco, con una lunga mazza in mano, con quella sua statura eretta e quella splendida testa scoperta, coi fitti capelli tagliati cortissimi. I giudici e i giovani avvocati, che lo avevano sempre in gran simpatia e rispetto, lo chiamavano Aristide. Era opinione

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generale tra questi che, se mai esisteva ancora, tra il municipio di New York e la Tammany, qualche residuo vitale di virile rettitudine e istinti di giustizia assoluta, questi erano da ricercarsi nel Col. Fellows. Egli amava i giovani, e gli piaceva intrattenersi con loro dopo una giornata di lavoro a chiacchierare a bell'agio tra un bicchiere di ponce e l'altro (tuttavia in queste occasioni egli non ne beveva mai più d'uno); e fu proprio nelle frequenti riunioni di questo genere, nella vecchia saletta interna della Tammany Hall di allora, che egli mi parlò a lungo di Thomas Paine. Durante uno di quei nostri incontri mi fece un resoconto dettagliato della malattia e della morte di Paine. In breve, da quei colloqui io uscii convinto, e lo sono ancora, che il mio vecchio amico, grazie ai suoi notevoli vantaggi, avesse ben calibrato mentalmente, moralmente e emotivamente l'autore di Common Sense e che, oltre a offrirmi un ritratto soddisfacente della sua persona e dei suoi modi, avesse colto con esattezza la misura interiore della sua personalità. L'atteggiamento pratico di Paine, come gran parte del suo credo teorico, era un misto della scuola francese e di quella inglese di un secolo fa, e il meglio di ambedue. Come molta gente dei tempi andati, beveva un bicchiere o due al giorno, ma non era né un bevitore né un intemperante, e men che mai un ubriacone. Viveva in modo semplice e sobrio, ma piuttosto bene - sempre allegro e cortese, forse ogni tanto un po' brusco, come chi ha idee perentorie e sue sulla politica, la religione eccetera. Che egli abbia svolto bene e saggiamente il suo lavoro per gli Stati nel difficile periodo della loro gestazione e durante la germinazione profonda del loro carattere, mi sembra fuori dubbio. Non saprei dire quanto di ciò che la nostra Unione oggi possiede e di cui usufruisce - l'indipendenza - l'ardente fede nei diritti fondamentali dell'uomo e il loro riconoscimento pratico - la separazione del governo da ogni potere ecclesiastico e dalle superstizioni - non saprei dire quanto di tutto ciò sia dovuto a Thomas Paine, ma sono propenso a credere che in buona parte decisamente lo sia. Non era tuttavia mia intenzione addentrarmi in una analisi o in un elogio dell'uomo Paine. Volevo riportarvi indietro di una generazione o due, e darvi per via indiretta la visione di un momento - e ventilarvi anche un'opinione, o meglio convinzione di quel tempo, molto onesta e credo autentica, frutto dei colloqui cui ho fatto cenno, di inchieste e contraddittòri, e confermata in seguito dal meglio delle mie informazioni - l'opinione cioè che Thomas Paine possedesse una nobile personalità, riconoscibile nella sua stessa persona fisica, viso, voce, abiti e modi, e in quel che potrebbe definirsi la sua atmosfera personale, il suo magnetismo; specialmente negli ultimi anni. Su questo io non ho dubbi. Quanto alle storie false e assurde che ancora circolano sulle circostanze del suo decesso, la cosa assolutamente fuor di dubbio si è che, com'egli visse una buona vita nel suo genere, così serenamente e filosoficamente trapassò, secondo che a lui si addiceva. Egli servì l'Unione, ancora in stato embrionale, con preziosissimo servigio - un servigio di cui ogni uomo, donna o bambino dei nostri trentotto stati sta oggi ricevendo in qualche misura i benefici; e quanto a me, con animo gioioso e reverente ecco io depongo il mio ciottolo sul tumulo della sua memoria. Come tutti sappiamo, questo momento richiede - ma ci sarà mai un momento che non lo richieda? - che l'America apprenda a soffermarsi con più attenzione su ciò che di più eletto possiede, il lascito dei suoi uomini più

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onesti e fedeli - che ne preservi debitamente la fama, se questa è riconosciuta - o che, se necessario, provveda a sgombrare le eventuali nubi che su tale fama si siano addensate e, lustrandola, la renda perennemente più nuova, più rispondente a verità, più luminosa. DUE ORE DI NAVIGAZIONE TRA I GHIACCI 3 febb. '77. Dalle 4 alle 6 del pomeriggio tra i ghiacci, durante la traversata del Delaware (di ritorno alla mia casa di Camden) senza riuscire a prender terra. Un battello solido e robusto il nostro, e abilmente pilotato, ma vecchio e bizzoso, e poco disposto a seguire il timone. (La forza, così importante in poesia e in guerra, è anche il primo requisito di un vapore che batta acque invernali, con lunghi banchi di ghiaccio da combattere). Vagammo per più di due ore, sballottati di qua e di là; l'invisibile flusso della marea ci trascinava spesso contro la nostra volontà per tratti lunghissimi, lenta ma irresistibile. Guardandomi intorno, mentre baluginava ormai il crepuscolo, pensai che scena più agghiacciante, artica, deprimente nella sua sinistra vastità non potesse presentarsi. Ci si vedeva ancora chiaramente: per miglia e miglia a nord e a sud, ghiaccio e ghiaccio e ghiaccio, spezzettato per lo più, ma con qua e là un grosso blocco isolato, e l'acqua che sembrava scomparsa. La costa, i moli, spiazzi, tetti, imbarcazioni, tutto ammantato di neve. Un sottile vapore invernale si librava intorno e sopra il paesaggio, acconcio accompagnamento a quella sterminata distesa bianchiccia, dandole appena una sfumatura tra il metallico e il bruno. 6 Febb. Di nuovo sul battello delle 6 pom., diretto a casa; la trasparenza delle ombre viene man mano riempita ovunque da fiocchi di neve curiosamente radi, ma grossissimi, che scendono piano, leggermente di sbieco. Sulle coste, vicino o lontano, l'intermittente bagliore dei lampioni a gas appena accesi. Ghiaccio ora in blocchi crestati, ora in banchiglie galleggianti, tra cui il nostro battello procede scricchiolando. La luce tutta permeata di quella particolare foschia vespertina, subito dopo il tramonto, che rende talora distintissimi oggetti molto lontani. OUVERTURES PRIMAVERILI - RICREAZIONI 10 febb. Oggi il primo ciangottìo di un uccello, già quasi canto. Ho notato poi una coppia di pecchie che piroettavano ronzando intorno alla finestra aperta, nel sole. 11 febbr. Nel rosa smorzato e oro pallido della luce che smuore, questa bella sera, ho udito il primo brusìo, la preparazione della primavera al risveglio - debolissimo - nella terra forse, o nelle radici, o era lo smuoversi degli insetti, non so - ma lo potevo sentire, mentre me ne stavo appoggiato a una staccionata (sono tornato

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per un poco alla mia dimora di campagna) con lo sguardo fisso sull'orizzonte, a ponente. Volgendomi a est, come s'infittirono le ombre, vidi Sirio balzar fuori in accecante splendore. E il grande Orione; e poco più a nord-est, il Gran Carro a pernio sull'asse. 20 febb. Un'ora solitaria e piacevole trascorsa al calar del sole presso lo stagno, esercitando braccia e torace e tutto il corpo su un gagliardo rampollo di quercia non più spesso del mio polso, alto dodici piedi - tirando e spingendo, e aspirando l'aria buona. Dopo aver lottato per un poco con l'albero, sento zampillare dal suolo la sua giovane linfa e il suo valore, e spandermisi brucianti per il corpo dalla testa ai piedi, come un vino di salute. Allora, come completamento e diversivo, mi tuffo nei miei vocalizzi: urlo brani declamatori, sentimenti, dolore, ira ecc. da poeti e drammi di repertorio - oppure mi riempio i polmoni e attacco i motivi e i ritornelli selvaggi che ho udito dai negri nel Sud, o i canti patriottici imparati nell'esercito. E ne sveglio di echi, parola mia! Al calar del crepuscolo, durante una pausa di queste mie ebollizioni, da qualche parte sull'altra riva del ruscello un gufo lanciò un tuù-tuù basso e pensoso (e anche un tantino sarcastico, a parer mio) che ripeté poi quattro, cinque volte. Forse un applauso per i canti negri - o forse un ironico commento al dolore, all'ira e allo stile dei miei poeti. UNA UMANA STRANEZZA Come avviene che nonostante la serenità e l'isolamento della solitudine, quaggiù nel silenzio della foresta o, come ho notato, nella desolazione della prateria o nella immobilità della montagna, soli, non ci si libera mai completamente dell'istinto di guardarsi attorno (io mai, e neppure altri, a quanto mi confidano), come se da un istante all'altro dovesse comparire qualcuno, balzando magari dalla terra, o da dietro un albero o una roccia? È forse un residuo ereditario, persistente, della primitiva sospettosità dell'uomo, avvezzo agli animali selvatici? O dei suoi selvaggi antenati addietro nel tempo? Non è affatto nervosismo, o paura. È come se qualcosa di ignoto fosse davvero in agguato tra quei cespugli, in quei luoghi deserti. Anzi, direi che sicuramente c'è - qualche non vista presenza vitale. PAESAGGIO POMERIDIANO 22 febb. Ieri e oggi, cielo pesante e pioggia fino a metà pomeriggio quando, mutato il vento, le nubi velocemente si ritrassero come un sipario, e il sereno apparve, e con esso il più bello, il più superbo e fantastico arcobaleno che io abbia mai visto, completo, smagliante alle estremità, che effondeva per tutto il cielo vaste irradiazioni di vapore luminescente, violetto, giallo, verdastro, tra cui dardeggiava il sole - un

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profluvio indescrivibile di colore e di luce, così sfarzoso e a un tempo delicato quale non avevo mai contemplato prima. E poi la durata: un'ora buona trascorse prima che l'ultima delle sue falde sparisse completamente. Il cielo dietro era tutto soffuso d'un traslucido azzurro, con molte nuvolette e creste bianche. A tanto si aggiunse un tramonto che, sontuoso, pieno, venne a saziare e a dominare ogni senso estetico e ogni facoltà dell'anima. Termino questo appunto presso lo stagno, luce appena quanto basta per discernere, tra le ombre della sera, i riflessi del cielo a ponente nello specchio dell'acqua. A tratti il flap di un luccio che balza increspando la superficie. S'APRONO I CANCELLI 6 apr. Primavera tangibile ormai, o almeno i suoi sintomi. Sono seduto in pieno sole, sul ciglio del ruscello, la superficie appena increspata dal vento. Tutto è solitudine, frescura mattutina, abbandono. Unica compagnia i miei due martin-pescatori che planano, piroettano, sfrecciano, si tuffano, separandosi a volte capricciosamente per poi tornare a volare appaiati. Ascolto, ripetuto innumerevoli volte, il loro gutturale zufolio; per un poco non v'è altro suono al di fuori di questo così particolare. Approssimandosi mezzogiorno altri uccelli cominciano a scaldarsi. Ecco le note esili del pettirosso, e un passaggio musicale in due parti, di cui una un gorgheggio limpido, delizioso, insieme alle voci di parecchi altri uccelli che non riesco a distinguere. A queste si unisce (eccolo, proprio ora) l'ansimare roco, intermittente, di certe raganelle smaniose al bordo dell'acqua. Di quando in quando il mormorio di una brezzolina vigorosa sibilante fra gli alberi. Poi, una povera fogliolina morta, gelata ormai da tempo, scende a spirale da chissà dove lassù riguadagnando in un selvaggio tripudio di libertà lo spazio e la luce, e precipita quindi nell'acqua, che l'afferra tenendola sospesa e subito l'ingoia sottraendola alla vista. Alberi e arbusti sono ancora nudi, ma i faggi han conservato dall'ultima fioritura molte delle loro foglie gialle e grinzose, molti cedri e pini sono tuttavia verdi, e l'erba non senza indizi della pienezza vicina. E su tutto una meravigliosa cupola di limpido azzurro, il giuoco della luce che viene e va, e immensi velli di nuvole candide che nuotano silenziosamente. LA SEMPLICE TERRA, IL SUOLO Anche il suolo - che altri tratteggino in punta di penna il mare, l'aria (lo faccio anch'io talvolta) - ma in questo momento io mi sento di scegliere come tema il semplice suolo, e null'altro. Questa terra bruna, qui (proprio tra la fine dell'inverno e gl'inizi della primavera e della vegetazione) - il rovescio di pioggia la notte e il fresco odore la mattina dopo - i lombrichi che sbucano contorcendosi dal terreno - le foglie morte, l'erba nascente, e la vita che urge sotto - lo sforzo per dare inizio a qualcosa -

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già qualche fiorellino negli angoli più riparati - in distanza la pompa smeraldina del grano invernale e dei campi di segale - gli alberi ancora nudi, con dei vuoti netti che lasciano intravvedere prospettive nascoste poi in estate - il duro maggese e i cavalli all'aratro, con il ragazzotto robusto che li incita fischiando - e intorno la grassa terra scura, rivoltata in lunghe strisce oblique. UCCELLI, UCCELLI, UCCELLI Un po' più tardi - tempo splendido. Un'insolita atmosfera melodica, in questi giorni (ultimi d'aprile e primi di maggio) dovuta ai merli; o meglio a tutte le possibili specie di uccelli, che svolano e fischiano e saltellano o se ne stanno posati sui rami. Mai dianzi ne ho visti e uditi e avuti intorno in sì gran numero, a farmi sommergere a saturare dai loro concerti, come in questo mese. Una vera marea, un'ondata dopo l'altra. Permettete che vi faccia la lista di quelli che trovo qui: Merli (moltissimi) Allodole (moltissime) Palombelle Dumetelle (moltissime) Civette Cuculi Picchi Beccaccini (in quantità) Paradisee Pipili Cornacchie (in quantità) Aironi notturni Scriccioli Pettirossi Martin-pescatori Corvi Quaglie Grigie Poiane Aquile Falchi Picchi verdi Cardellini Aironi Tordi Cince Doliconici

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Piccioni selvatici I primi a venire sono stati: Pettazzurro Allodola Piviere Rondone a petto bianco Vanello Piovanello Pettirosso Tordo di Wilson Beccaccia Picchio americano NOTTI STELLATE 21 maggio. Di nuovo a Camden. Ecco spuntare una di quelle notti d'insolita trasparenza, brulicanti di stelle, di un blu quasi nero, come a provare che esiste, nel non-giorno, qualcosa capace di umiliare il giorno più lussureggiante e fastoso. Dal tramonto fino alle 9 di sera, i più belli, i più rari esempi di chiaroscuro prolungato che si sian mai visti. Sono sceso al Delaware e ho compiuto la traversata più volte. Venere alta a occidente, come infocato argento. La gran felce sottile e pallida della nuova luna, sorta già da mezz'ora, affonda languida dietro una banda di vapori riaffiorandone subito dopo. Da sud folate leggiere di fragranza marina. Il crepuscolo, la delicata frescura, ogni particolare della scena così indicibilmente tonico e rasserenante - è questa una di quelle ore ricche di suggerimenti per l'anima che è impossibile chiudere in una definizione. (Ah, dove mai si troverebbe cibo per lo spirito, senza la notte e le stelle?) La vacua spaziosità dell'aria e l'azzurro velato dei cieli sembravano già miracoli bastanti. La notte, avanzando, assunse spirito e abiti di più distesa solennità. Io avevo quasi la consapevolezza di una presenza ben precisa, la Natura silenziosamente vicina. La grande costellazione dell'Idra protendeva i suoi tentacoli per più di metà della volta celeste. Il Cigno scendeva ad ali spiegate per la Via Lattea. La Corona Boreale, l'Aquila, la Lira, tutte su al loro posto. Da tutta la gran cupola, attraverso il nero-blu degli spazi, piovevano punte di luce, comunicazione con il mio essere. Il normale senso del moto e ogni concetto di vita animale sembravano rifiutati, apparivano frutti dell'immaginazione; subentrò invece uno strano potere, simile al placido riposo delle divinità egizie, ma non meno possente di quelle per essere così impalpabile. Poco prima avevo visto molti pipistrelli sospesi nel luminoso crepuscolo, le piccole forme nere che guizzavano qua e là sul fiume; ma ora erano

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completamente scomparsi. Andate anche la stella della sera e la luna. Tensione e pace giacevano quietamente assieme nelle fluide ombre dell'universo. 26 ag. La giornata è stata bella, e il mio morale in continuo forzando. Ed ecco viene la notte, diversa, ineffabilmente pensosa, con quello splendore tenero e moderato che le è proprio. Venere indugia a occidente in un voluttuoso fulgore mai esibito ancora questa estate. Marte si leva per tempo, e con lui il rosso broncio della luna che due giorni fa era piena; Giove sul meridiano della notte, e a sud la lunga spirale inclinata dello Scorpione con Aretusa incastonata sul collo. Marte incede adesso per gli spazi, signore assoluto; ogni sera, per tutto questo mese, sono uscito a cercarlo, alzandomi talora a mezzanotte per dare un altro sguardo a quella sua impareggiabile lucentezza. (Mi consta che un astronomo ha accertato poco tempo fa, con il nuovo telescopio di Washington, che Marte possiede per certo una luna, e forse due). Pallido e distante, ma vicino nel cielo, lo precede Saturno. VERBASCO A PROFUSIONE Grandi, placidi verbaschi, come avanza l'estate, fibra di velluto, delicato color verde smorto, sempre più fitti ovunque nei campi - aggruppati dapprima, quasi grosse coccarde della terra, in quei bassi cespi di grandi foglie, otto, dieci, venti foglie per pianta - rigogliosi sul terreno incolto di una ventina d'acri alla fine del sentiero, e in ispecie sulle spallette di terra a ridosso delle palizzate - per un poco vicini al suolo, ma poi subito scattanti verso l'alto - foglie larghe quanto la mia mano e, le più basse, lunghe il doppio - così fresche e rugiadose al mattino - gli steli adesso già alti quattro o cinque piedi, a volte anche sette o otto. I contadini, mi dicono, stimano il verbasco erba umile e disutile, ma io ho preso ad amarlo teneramente. Ogni oggetto racchiude in sé la sua lezione, in cui è implicita l'allusione a tutte le altre cose - e io ultimamente ho cominciato a pensare che tutto sia concentrato, per me, in queste erbacce gagliarde dai fiori gialli. Al mattino presto, quando esco e percorro il vialetto, mi fermo di fronte a quei soffici fiocchi lanuginosi e steli e grandi foglie su cui scintillano innumerevoli diamanti. Da un anno all'altro, e sono ormai due o tre estati, ci siamo dati silenziosamente convegno: e a intervalli sì lunghi di tempo io torno a sedermi o semplicemente a stare tra loro, meditando, insieme a tutto il resto, sulle molte ore e stati d'animo di parziale ripresa, sui momenti di salute o di squilibrio del mio spirito - qui veramente vicino alla pace. SUONI LONTANI L'ascia del boscaiolo, i tonfi misurati di un'unica trebbiatrice, il canto di un gallo nell'aia (con le immancabili risposte da altre aie) e il mugghiare delle mandrie -

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ma più di ogni altra cosa, vicino o lontano, il vento - tra gli alti vertici degli alberi o i bassi cespugli, quando ti lambisce leggiero mani e viso, in questo profumato meriggio di luce, il più fresco da molto tempo a questa parte (2 sett.) - Non voglio chiamarlo sospiro , per me rimane sempre un'espressione definita, sana, gioiosa, anche se monotona, e capace di molte variazioni, ora lente ora veloci, delicate o intense. Il vento nella pineta laggiù, come sibila! O sul mare, posso immaginarmelo in questo momento squassar le onde, con spruzzi di spuma che volano lontano, e il libero fischio, e l'odore del sale - e il grandioso paradosso per cui, nonostante tutto quell'agitarsi e quella irrequietezza, vi comunica in qualche modo un senso di infinito riposo. Altre note. Ma il sole e la luna, qui e in questa stagione! Mai più splendido in pieno giorno, il fantastico orbe imperiale, così vasto, così ardentemente e amorevolmente prodigo di calore - e mai più gloriosa luna, specialmente in queste ultime tre o quattro notti. E anche i pianeti maggiori - Marte mai visto così fiammeggiante, un globo di luce, con pallide sfumature gialle (dicono gli astronomi - sarà poi vero? - che da un secolo a questa parte non è mai stato così vicino alla terra) - e, ormai alto, padre Giove, che solo poco fa era vicinissimo alla luna - e a occidente, sparito il sole, la voluttuosa Venere, languida adesso e spoglia di raggi, come per un qualche divino eccesso. UN BAGNO DI SOLE - NUDITÀ Domenica 27 agosto. Un altro giorno libero da prostrazione e da sofferenze degne di nota. È anzi come se dal cielo sottilmente filtrassero in me nutrimento e pace, mentre mi trascino claudicando per questi viottoli di campagna e per i campi, nell'aria buona - quando sono qui seduto in solitudine con la Natura - aperta, muta, mistica, remota, ma palpabile ed eloquente Natura. Mi immergo nella scena, nel giorno perfetto. Chinandomi sulle limpide acque del ruscello, ecco, qui mi conforta il suo gorgoglìo sommesso, lì il murmure più roco della sua cascatella alta tre piedi. Venite, voi sconsolati, cui sia rimasta ancora qualche possibilità, sia pur latente - venite a godere le sicure virtù della sponda, del bosco e del campo. Per due mesi (luglio e agosto '77) io le ho assorbite, e ora esse cominciano a fare di me un uomo nuovo. Tutti i giorni completa solitudine - tutti i giorni almeno due o tre ore di libertà, bagni, niente chiacchiere, niente ingombri, niente abiti, libri, belle maniere. Debbo dirti, lettore, a che cosa io attribuisco la mia salute già tanto ristabilita? All'esser stato più o meno due anni senza decotti né medicine, e sempre, ogni giorno, all'aria aperta. La scorsa estate scoprii, un po' discosta dal mio ruscello, una valletta singolarmente solitaria, originariamente una grossa cava di marna, poi abbandonata, e riempita ora da cespugli, alberi, erba, un gruppetto di salici, uno spallone scosceso di terra e una polla di acqua deliziosa che la taglia giusto nel centro, con due o tre cascatelle. Qui usavo rifugiarmi nei giorni di gran caldo, e continuo a farlo questa

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estate. Qui acquista un senso il discorso del buon vecchio che asseriva di sentirsi raramente meno solo di quando era solo. Mai prima ero giunto così vicino alla Natura, e mai prima ella s'era tanto avvicinata a me. Seguendo un'antica abitudine, di tanto in tanto annotavo, lì per lì e quasi automaticamente, stati d'animo e paesaggi, ore, sfumature e contorni. In modo particolare vorrei oggi fermare sulla carta il senso di pienezza di questa mattinata, così serena e primitiva, così convenzionalmente straordinaria, naturale. Circa un'ora dopo colazione m'incamminai verso gli angoli solitari di codesta valletta, che io e certi tordi e dumetelle ecc. avevamo tutta per noi. Tra le cime degli alberi spirava un leggero vento di sud-ovest. Erano proprio il luogo e l'ora del mio bagno d'aria adamitico e delle mie frizioni da capo a piedi. Così, appesi gli abiti a una staccionata lì presso, ma tenendomi in capo la mia vecchia paglia a larghe tese e ai piedi un paio di scarpe da strapazzo, che divertimento queste ultime due ore! Dapprima a sfregar braccia, petto e fianchi con setole elastiche e dure finché non furon scarlatti - poi un mezzo bagno nelle limpide acque del ruscello - prendendo tutto con comodo, tra pause e riposi - andandomene di tanto in tanto a sguazzar scalzo in qualche gora nerastra lì intorno per ristorarmi i piedi con un untuoso bagno di fango - poi una seconda e una terza risciacquatura veloce nell'acqua cristallina del rivo - una strofinata con l'asciugamano di bucato - lente passeggiatine neghittose sull'erba, su e giù nel sole, variate da occasionali riposi e ulteriori frizioni con la spazzola - a volte tirandomi dietro da un posto all'altro la mia sedia pieghevole, dacché il mio raggio d'azione qui è piuttosto ampio, un centinaio circa di pertiche in cui mi sento completamente al sicuro da ogni intrusione (la qual cosa peraltro non mi innervosirebbe affatto, anche se dovesse incidentalmente accadere). Mentre camminavo lentamente sull'erba, il sole facendosi più vivido mise in risalto l'ombra che si muoveva con me. Parvemi allora che in qualche modo io mi stessi identificando con ognuna e tutte le cose intorno a me, nella loro condizione naturale. La Natura era nuda, e così ero io. Era una sensazione di troppo pigra, distesa e placida gioia per specularci su. Tuttavia i miei pensieri avrebbero potuto avere un'intonazione di questa sorta: Forse quell'intimo e mai perduto rapporto che noi conserviamo con la terra, la luce, l'aria, gli alberi, ecc., non dev'essere verificato solo attraverso gli occhi e la mente, bensì con tutto il corpo, che non mi lascerò accecare o bendare più che non gli occhi. Dolce, sana, tranquilla nudità della Natura! - oh, se la povera, malata, pruriginosa umanità cittadina potesse realmente tornare a conoscerti! Allora non è indecente la nudità? No, non in sé. Sono i vostri pensieri, la vostra sofisticazione, paura, rispettabilità, che sono indecenti. Vengono per noi dei momenti in cui queste nostre vesti divengono non solo troppo fastidiose a portarsi, ma indecenti in sé. Forse anzi colui o colei che non ha mai gustato la libera, esilarante estasi della nudità in seno alla Natura (e quante migliaia ve ne sono!) non ha mai realmente saputo che cosa sia la purezza - né che cosa siano in realtà fede, arte o salute. (Probabilmente l'intero complesso di altissima filosofia, bellezza, eroismo e forma illustrato dall'antica razza ellenica - il vertice più alto e la massima profondità che la civiltà abbia toccato in quei settori - procedette dalla loro concezione naturale e religiosa della nudità).

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Molte ore simili, sparse nelle due ultime estati - ad esse io attribuisco in gran parte la mia parziale ripresa. Qualche benpensante potrà ritenere insulso, se non proprio pazzoide, questo modo di impiegare il proprio tempo e i propri pensieri. Può anche darsi che lo sia. LE QUERCE E IO 5 sett. '77. Scrivo (sono le 11 del mattino) sotto una folta quercia nei pressi del ruscello, dove ho trovato riparo da un acquazzone improvviso. Ero sceso quaggiù (alla prima schiarita, un'ora fa, dopo un'intera mattinata di tetra acquerugiola) per praticare il semplice esercizio quotidiano di cui ho parlato e che tanto mi piace - tirare quel giovane rampollo di noce lassù - barcollando per poi arrendermi al suo fusto eretto, a un tempo flessibile e duro - forse perché parte della sua fibra elastica e della sua limpida linfa passi nei miei muscoli invecchiati. In piedi sull'erba, mi sottopongo per circa un'ora a queste sferzate di salute, ma con moderazione e a intervalli inalando l'aria fresca a grandi sorsate. Per riposarmi durante i miei vagabondaggi lungo il ruscello, ho sempre tre o quattro posticini naturalmente ospitali - a parte la sedia che mi trascino dietro e che uso soltanto in determinate occasioni. In altri luoghi appropriati ho scelto come attrezzi della mia palestra naturale, oltre al noce già menzionato, certi rami di faggio o caprifoglio, robusti ed elastici e facilmente raggiungibili, per esercitar braccia, torace e i muscoli del busto. Subito posso sentirne il vigore e la linfa montare in me come mercurio al calore. Mi afferro con carezzevole presa ai rami e agli alberelli sottili nell'intrico di sole e d'ombra, lotto per un poco contro la loro gagliardia innocente - e in quello so che la loro virtù si trasfonde in me. (O forse è un vicendevole scambio - forse gli alberi ne sono più consapevoli di quanto io abbia mai pensato). Ma adesso, piacevolmente imprigionato qui sotto la grande quercia - la pioggia che stilla e il cielo coperto di nuvole plumbee - solo lo stagno da un lato, e dall'altro una chiazza d'erba punteggiata dai lattei fiori delle carote selvatiche - il suono di un'ascia che picchia su una catasta di legna lontana - in questo paesaggio monotono (come lo definirebbe molta gente), come avviene che io sia tanto (quasi completamente) felice e solo? Perché qualsiasi intrusione, anche di persone a me care, spezzerebbe l'incanto? Ma sono poi solo? Certo giunge per tutti un momento - e forse è già giunto per me - in cui si sente con tutto il proprio essere, e in ispecie con la parte emotiva di esso, quella identità tra l'io soggettivo e la Natura oggettiva che Schelling e Fichte amano tanto sottolineare. Come avvenga non so, ma spesso io percepisco qui una presenza - nei momenti di chiarezza ne sono anzi certo, e né chimica né logica né estetica sapranno mai darmene la benché minima spiegazione. Per tutto il tempo delle due scorse estati essa ha corroborato e nutrito come non mai dianzi il mio corpo e la mia anima malati. Ti ringrazio, invisibile medico, per il tuo dolcissimo farmaco silenzioso, per i tuoi giorni e le tue notti, per le acque e l'aria, le rive, l'erba, gli alberi e, perché no, la gramigna!

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CINQUE VERSI Mentre la pioggia mi costringeva sotto il riparo della mia gran quercia (perfettamente all'asciutto e a mio agio, e tutt'intorno il ticchettio delle gocce), ho annotato il sentimento di quest'ora in una piccola strofa di cinque versi, che ora voglio leggervi: Oziando con la Natura Ricettivo e a mio agio Distillo l'ora presente Quale e dove che sia - E sul passato, l'oblio. Mi segui, caro lettore? e ad ogni modo, ti piace? PRIMA GELATA (APP.) Ho visto la prima brina vera nel luogo dove mi son fermato durante la mia solita passeggiata mattutina, all'alba del 6 ottobre: su tutto il prato ancora verde, un velo leggiero, grigiazzurro, che conferiva all'intero paesaggio una nuova magnificenza. Non ebbi per osservarla che pochi minuti, ché il sole sorse senza nubi e con ricco tepore, sicché quando ritornai per il sentiero s'era già mutata in scintillanti chiazze d'umido. Camminando, notò le turgide capsule del cotone selvatico (canapa indiana, la chiamano qui) che scoppiando rivelano il loro contenuto serico e spumoso e i semi scuri, d'un marrone rossiccio: ecco un coniglio che trasalisce; io strappo una manciata di balsamico semprevivo e me la infilo nella tasca dei pantaloni per profumarmene. MORTE DI TRE GIOVANI 20 dicembre. Non so perché oggi ho cominciato a pensare a come muoiono i giovani - non con tristezza o sentimentalismo, ma gravemente, realisticamente, e forse un po' come scrittore. Lasciate ch'io vi esponga i tre casi seguenti, tolti da un fascio di appunti personali che in questo pomeriggio di pioggia, solo nella mia stanza, ho preso a rovistare, tirando le fila e meditando. Chi è che non viene toccato nel vivo da questo argomento? Non so veramente come sia per gli altri, ma per me non solo

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non esiste nulla di triste o di deprimente in casi come questi - al contrario, come reminiscenze le trovo dolci, fortificanti, salutari. ERASTUS HASKELL. [Mi limito qui a trascrivere parola per parola una lettera scritta di mio pugno in un ospedale militare, sedici anni fa, durante la guerra di secessione]. Washington, 28 luglio 1863. - Cara M., - Scrivo queste righe in ospedale, dal letto di un soldato cui non credo siano rimaste molte ore di vita. Il suo destino è stato duro - sembra abbia solo 19 o 20 anni - Erastus Haskell, compagnia K, 141° N. Y. - in servizio per circa un anno, e infermo o seminfermo per una buona metà - è stato sulla penisola - poi fu distaccato per entrare nella banda come suonatore di piffero. Quando era già malato, il medico gli disse di non farsi lasciare indietro dagli altri - (probabilmente continuò a lavorare e a marciare per troppo tempo). È un ragazzo timido e, mi sembra, assai sensibile - modi gentili - non si lamenta mai - sulla penisola, malato, restò in un vecchio magazzino - febbre tifoidea. Lo hanno portato qui la prima settimana di luglio - viaggio pessimo, senza comodità né nutrimento, soltanto duri sbalzi e freddo quanto bastava per far ammalare un uomo sano (è quel che succede a molti in questi spaventosi viaggi) - arrivato qui l'11 luglio - giovane silenzioso, carnagione bruna, tipo spagnolo, con grandi occhi blu-scuro, un'aria un po' strana. Il Dr. F. di qui diede poco peso alla malattia - disse che si sarebbe rimesso presto, ecc.; ma io la pensavo assai diversamente, e lo dissi a F., tante e tante volte (rischiai di litigare con lui a questo proposito, sin dal primo momento) - ma lui rideva, e non mi dava ascolto. Circa quattro giorni fa dissi al dottore che a mio avviso ormai quel ragazzo non lo avrebbe salvato più - ma ancora una volta F. rise di me. Mutò parere il giorno dopo - io avevo fatto venire il capochirurgo della postazione - questi disse che il giovane probabilmente sarebbe morto, ma che avrebbero lottato per lui con tutte le forze. Gli ultimi due giorni è rimasto disteso respirando a fatica, ansimando - uno spettacolo penoso. Io gli sono stato vicino forse ogni giorno e ogni notte da quando è arrivato. Il caldo lo fa soffrire molto - dice poco o nulla - da tre giorni ogni tanto sragiona - tuttavia mi riconosce sempre - mi chiama «Walter» (talora ripete questo nome più e più e più volte, a se stesso, in modo assorto e distaccato). Suo padre vive a Breesport, contea di Chemung, N. Y., è un operaio, con una famiglia numerosa, un uomo solido e religioso; anche la madre è ancora in vita. Ho già mandato loro una lettera, e oggi scriverò ancora - sono mesi che Erastus non riceve una parola da casa. Vorrei ora, mentre sono qui seduto a scriverti, che vedessi l'intero quadro, M. Questo ragazzo è disteso supino a un passo da me, le mani avvinghiate sul petto, i neri capelli tagliati corti; è immerso nel sopore, respira faticosamente, ogni respiro uno spasmo - tutto ciò è troppo crudele. È un nobile ragazzo - io lo considero ormai al di là di ogni speranza. Spesso rimane a lungo senza nessuno vicino. Io sto qui quanto più mi è possibile. WILLIAM ALCOTT, pompiere. Camden, Novembre 1874. Lunedì scorso, nel pomeriggio, al funerale di questo giovane cresciuto qui e conosciuto da tutti, si

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radunarono la vedova, la madre, i parenti, i compagni della caserma dei vigili del fuoco e altri amici (io ero uno di questi, da poco tempo, è vero, ma il nostro affetto era divenuto intimo e profondo in quelle otto settimane passate notte e giorno accanto alla sedia dove iniziò il suo rapido declino, e al letto di morte). Sebbene non vi sia forse nulla degno di speciale nota, vorrei dedicare qualche parola alla sua memoria. Per carattere e qualità, egli m'appariva un esemplare non inappropriato di quella vena perenne della buona razza media americana che fluisce e scorre sotto questa schiuma di superficie. Di maniere sempre assai quiete, pulito nella persona e negli abiti, di buon carattere, puntuale e industrioso nel lavoro fino al giorno in cui non poté più lavorare, egli non fece che vivere la sua vita disciplinata, quadrata, discreta, nell'umile ambito che le era proprio, e certo assolutamente spontanea (benché credo esistessero in lui profonde, inarticolate correnti di emozioni di vita intellettuale, non sospettate da chi lo conosceva - e tanto meno da lui stesso). Non era un parlatore. I suoi problemi, quando ne aveva, li teneva per sé. Come in vita era stato sempre alieno da querimonie, così non si lamentò mai durante la malattia finale. Era una di quelle persone, Billy Alcott, alle quali coloro che ne dividono la vita non si sognano mai di attribuire alcun particolare talento, o grazia - eppure tutti, inconsciamente, concretamente, lo amavano. Anch'io lo amavo. All'ultimo, dopo un lungo periodo passato con lui - dopo ore e giorni di respirazione penosa, ansimante, la maggior parte del tempo in stato di incoscienza (benché invero il mal sottile che covava da tempo nel suo organismo, una volta scoppiato, avesse fatto rapidi progressi, c'era ancora in lui una grande vitalità, e rimase difatti in coma quattro o cinque giorni prima della fine) - a tarda notte mercoledì 4 novembre, mentre eravamo intorno al suo letto in silenzio, vi fu una sospensione improvvisa - un respiro più profondo, una pausa, un fievole sospiro - un altro - un respiro più fioco, un altro sospiro - un'altra pausa infine e appena un tremito - e il volto del povero giovane divorato dal male (aveva solo 26 anni) scivolò piano sulla mia mano sopra il cuscino, nella morte. CHARLES CASWELL [Estraggo quanto segue, fedelmente, da una lettera speditami in data 29 settembre dal mio amico John Burronghs da Esopus-on-Hudson, Stato di New York]. Quando ci giunse il vostro quadro S. non c'era - si trovava al capezzale del fratello malato, Charles, che morì, evento questo che mi ha rattristato molto. Charlie era più piccolo di S., e un giovane oltremodo attraente. Lavorava con mio padre, ormai da due anni. Era, direi, il miglior esemplare di giovane bracciante che io abbia mai conosciuto. Voi lo avreste amato. Era come una delle vostre poesie. Con la sua gran forza, i suoi capelli biondi, la sua allegria e il suo spirito di adattamento, la sua generale buona volontà, i modi virili e silenziosi, era un giovane difficilmente eguagliabile. È stato assassinato da un vecchio dottore. Aveva una febbre tifoidea e il vecchio pazzo lo salassò per ben due volte. Visse fino a debellare la febbre, ma gli mancò la forza di lottare. Era quasi sempre in stato di delirio. Al mattino (morì poi nel pomeriggio), mentre S. era in piedi chino su di lui, lo baciò. S. disse poi di aver compreso in quel momento che la fine era prossima (non lo abbandonò un istante, giorno e notte, fino all'ultimo). Quando mi trovavo a casa in

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agosto e Charlie era sulla collina che falciava, era uno spettacolo vederlo camminare nel frumento. Qualsiasi lavoro era un giuoco per lui. Non aveva più vizi di quanti ne abbia Natura, ed era amato da tutti quelli che lo conoscevano. Vi ho scritto questo di lui perché giovani simili vi appartengono: era della vostra razza. Se lo aveste conosciuto! Aveva la dolcezza di un bambino, e la forza, il coraggio e l'alacrità di un giovane vichingo. Suo Dadre e sua madre sono poveri: posseggono un pezzo di terra duro e incolto. La madre lavora nei campi col marito quando il lavoro preme. Ha avuto dodici figli. GIORNATE DI FEBBRAIO 7 febbraio 1878. Sole splendido oggi, con una lieve foschia, aria abbastanza tiepida, e tuttavia frizzante, mentre me ne sto qui seduto all'aperto, nel mio rifugio campestre, sotto un vecchio cedro. Per due ore ho girovagato pigramente tra i boschi e lo stagno, tirandomi dietro la mia sedia, scegliendo qua e là un posticino privilegiato dove sedermi un poco - poi in piedi di nuovo, e via in cammino, lentamente. Qui tutto è pace. Certo mancano i rumori e la vitalità dell'estate; ma oggi anche quelli invernali, si direbbe. Io mi dò bel tempo esercitando la voce con declamazioni, cantando su tutti i toni ogni singola vocale e suono dell'alfabeto. Non un'eco; solo il gracchio di un corvo solitario che trasvola a qualche distanza di qui. Lo stagno è un'unica distesa piatta e lucente, senza un'increspatura - un grande specchio alla Claude Lorrain in cui o vado studiando il cielo, la luce, gli alberi nudi, e di quando in quando una cornacchia che mi vola alta sul capo schioccando l'ali. Nei campi bruni sono rimaste poche chiazze bianche di neve. 9 febb. Dopo aver girellato per un'ora eccomi in fase di ritiro e di riposo, seduto presso lo stagno, in un angolino tiepido al riparo dalla brezza, a prender queste note, poco prima di mezzogiorno. Quali aspetti e influssi emotivi ha la Natura! Anch'io, come tutti, sento questa tendenza moderna (visibile in tutti gli atteggiamenti intellettuali, la letteratura e la poesia che vanno per la maggiore) a svolgere ogni cosa in pathos, ennui, morbosità, insoddisfazione, morte. E tuttavia vedo chiaramente come codesti effetti e poteri non siano affatto insiti nella Natura, quanto piuttosto dovuti alla deformazione, malattia o sciocchezza dell'anima nostra - qui, in questo scenario libero e selvaggio, così sana e felice, così pulita, vigorosa, dolce! Metà pomeriggio. Uno di quei miei posticini è a sud del granaio, ed è qui che mi trovo adesso, seduto su un tronco a riparo dal vento, ancora a crogiolarmi al sole. Vicino a me, le mucche pascolano tra le stoppie. Ogni tanto una vacca o un torello (com'è ben fatto e focoso!) viene a raschiare e a sgranocchiare l'altro capo del tronco su cui sono seduto. Si percepisce chiaramente il fresco odore del latte, e anche il profumo di fieno che viene dalla stalla. L'ininterrotto fruscio delle stoppie secche, il

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sospiro profondo del vento attorno agli spigoli del tetto, il grugnito dei maiali, il fischio lontano di una locomotiva e a tratti la cantata di un gallo, sono gli unici suoni. 19 febb. Freddo pungente iersera - sereno e non molto vento - luna piena, e uno splendido tappeto di costellazioni e stelle piccole e grandi - Sirio fulgidissima, tra le prime a levarsi preceduta da Orione pluristellato, sfolgorante, enorme, a caccia col suo cane e la sua spada. La terra indurita dal gelo, e sullo stagno una rigida, lucente lastra di ghiaccio. Attratto dal quieto splendore della notte, mi avventurai fuori per una breve passeggiata, ma fui ricacciato indietro dal freddo: troppo severo per me, anche stamane quando sono uscito alle 9, sicché son dovuto tornare indietro un'altra volta. Ma ora che è quasi mezzogiorno, mi sono crogiolato al sole per tutta la strada, lungo il sentiero (questa fattoria ha una bella esposizione a sud) ed eccomi qua seduto al riparo di un ciglio di terra, vicinissimo all'acqua. Già volavano intorno i pettazzurri, e odo un gran pigolare e cinguettare, e anche due o tre canti veri e propri, sostenuti anzi piuttosto a lungo nel tepore e nella brillantezza meridiani (ma ecco, una canzone vera! viene fuori coraggiosa, a più riprese, come se il cantore ce la mettesse proprio tutta). Poi, mentre il mezzogiorno si fa più intenso, ecco l'agile trillo del pettirosso - a mio sentire la più gioiosa tra le melodie d'uccelli. A tratti, come battute e pause musicali, (emergendo su quell'indistinto murmure che, per quanto silenzioso il paesaggio, è sempre presente a un orecchio delicato) gli scricchiolii del ghiaccio rappreso sul ruscello che si schianta cedendo gradualmente ai raggi del sole - ora con un sospiro smorzato - ora con strattoni testardi e rochi soffi d'ira. (Dice Robert Burns in una lettera: «Non credo esista cosa al mondo che mi dia tanto, non so se dire piacere - qualcosa comunque che mi esalta, mi rapisce - quanto camminare per la parte riparata d'un bosco in una nuvolosa giornata d'inverno, e ascoltare il vento di bufera che ulula tra gli alberi e spazza la pianura. È la mia miglior stagione di preghiera». Alcune delle sue poesie più caratteristiche furono appunto composte tra questi scenari e in queste stagioni). L'ALLODOLA MATTOLINA 16 marzo. Mattinata incantevole, limpida, abbagliante, il sole già alto da un'ora, l'aria frizzante al punto giusto. Che impronta riceve tutta la mia giornata, prima ancora di cominciare, dal canto di quell'allodola mattolina appollaiata laggiù, a venti pertiche di distanza, sul piolo di una staccionata! Due o tre note di liquida semplicità, ripetute a intervalli, piene di spensierata gaiezza e di speranza. Con il suo tipico modo di muoversi, lento e tutto sfarfallii, e con la rapida e silenziosa azione delle ali, trasvola un po' più in là, si posa su di un altro piuolo, poi un altro ancora, e così dall'uno all'altro, sempre sfarfallando e cantando, per molti minuti. LUCI DEL TRAMONTO

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6 maggio, 5 pom . È questa l'ora dei più strani effetti di luce e di ombra - tali da far delirare un colorista - lunghi dardi d'argento fuso avventati orizzontalmente tra gli alberi (in questo periodo nel loro più tenero e luminoso verde), ogni foglia e ramo della smisurata verzura un accesso miracolo, poi prostrati e completamente distesi sulla interminabile erba nella sua fresca maturità, dando a ogni stelo il suo fulgore individuale, oltre a quello d'insieme, in guise sconosciute a ogni altra ora del giorno. Io so certi posti particolari dove riesco a cogliere codesti effetti in tutta la loro perfezione. Una gran chiazza di luce è posata sull'acqua, con molti barbagli e scintillìi sulle increspature, cui contrasta il verde cupo e la bruna trasparenza delle ombre che s'abbuiano veloci sullo sfondo, e a tratti per tutta la lunghezza della sponda. Queste, insieme alle grandi frecciate di fuoco che il sole calando scaglia orizzontalmente tra gli alberi e sull'erba, producono effetti sempre più straordinari, sempre più superbi, irreali, di accecante ricchezza. PENSIERI SOTTO UNA QUERCIA - UN SOGNO 2 giugno. Oggi, quarto giorno di una buia tempesta da nord-est, con vento e pioggia. Ier l'altro era il mio natalizio. Sono entrato così nel sessantesimo anno. Ogni giorno della tempesta, protetto da calosce e da un telo impermeabile, sono sceso regolarmente allo stagno, sistemandomi al riparo della gran quercia; qui mi trovo ora, mentre scrivo queste righe. Le buie nubi color del fumo rotolano in furioso silenzio da una parte all'altra del cielo; tutt'intorno a me oscillano le tenere foglie verdi; sopra il mio capo il vento continua con quella sua roca musica pacificatrice, possente sussurro della Natura. Seduto qui in solitudine ho meditato sulla mia vita - ho connesso eventi e date come anelli di un'unica catena, senza tristezza né esultanza, ma in qualche modo oggi, qui, sotto la quercia e nella pioggia, con un insolito spirito di concretezza. Ma la mia grande quercia - massiccia, vitale, verde, cinque piedi di spessore alla base: passo molto del mio tempo seduto vicino o sotto di essa. E poi il liriodendro qui accanto - l'Apollo dei boschi - alto e aggraziato e tuttavia robusto e tutto nervi, inimitabile nella pendula massa delle foglie e nello slancio delle membra; quasi che la bella, vitale e fogliuta creatura potesse camminare se solo volesse. (L'altro giorno caddi in una specie di trance o sogno in cui vidi i miei alberi prediletti farsi avanti e passeggiare su e giù e tutt'in giro, in modo assai curioso - e uno di loro bisbigliarmi, chinandosi su di me nel passarmi accanto, Facciamo questo, oggi, eccezionalmente, soltanto per te). PROFUMI DI TRIFOGLIO E DI FIENO

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3,4,5 luglio. Tempo sereno, caldo, invitante - è stata una buona estate - l'erba e il trifoglio oramai in gran parte mietuti. Il loro profumo familiare e delizioso riempie le stalle e i viottoli. Passando si vedono i campi d'un color bianco-grigiastro appena sfumato di giallo, i fasci di biade un po' dappertutto, i carri che passano lenti, e i contadini nei campi che aiutati da ragazzotti robusti lanciano i covoni e fanno il carico. Tra poco il granturco metterà le barbe - ed ecco allora ovunque, negli Stati del centro e del sud, gli sterminati battaglioni lanceolati, ricurvi, sventolanti - lunghi e smaltati piumaggi verde scuro per il gran cavaliere, la terra. Odo le allegre note della mia vecchia conoscenza, la quaglia maschio; ma è troppo tardi per il caprimulgo (seppur ho udito ancora l'altro ieri notte un ritardatario, tutto solo). Seguo con gli occhi l'ampio volo maestoso di una poiana, talvolta altissimo, talaltra abbastanza basso da poterne discernere le forme stagliate contro il cielo, persino le penne aperte. Mi è accaduto negli ultimi tempi di scorgere qui una volta o due una aquila volare basso alle prime luci della sera. UNO SCONOSCIUTO 15 giugno. Ho notato oggi un nuovo, grande uccello, della grossezza di una pollastra - un falco superbo, corpo bianco e ali scure - suppongo fosse un falco a causa del becco e dell'aspetto complessivo - solo che aveva un grido nitido, forte' alquanto musicale, una sorta di squilla, che andava ripetendo più volte, a intervalli, dal vertice di un maestoso albero morto che pende sull'acqua. Rimase lassù a lungo, e io sull'altra riva a osservarlo. Poi piombò giù di colpo, andando quasi a radere l'acqua - si levò lentamente, una visione magnifica, e veleggiò con ferme ali distese, senza un solo battito, due o tre volte attraverso lo stagno, vicino a me, in ruote ben visibili, quasi per mio speciale diletto. Una volta mi passò sulla testa, vicinissimo, e distinsi chiaramente il rostro uncinato e i duri occhi irrequieti. IL FISCHIO DEGLI UCCELLI Quanta musica (selvaggia, semplice, primitiva senza dubbio, ma agra e dolce insieme) v'è nel semplice fischiar che fanno gli uccelli - che è poi i quattro quinti della loro espressione. Ve n'è di ogni sorta e stile. Durante questa ultima mezz'ora, mentre me ne stavo qui seduto, qualche pennuto amico laggiù tra i cespugli non ha fatto che ripetere quel ch'io chiamerei una sorta di fischio «vibrato». E adesso è comparso un uccello delle dimensioni circa di un pettirosso, tutto d'un color morato, che vola tra i rovi - testa, ali e ventre rosso cupo, non smagliante - ma non canta, a quanto m'è parso. 4 del pom. Ecco un vero concerto intorno a me - una dozzina di uccelli diversi che ce la mettono tutta. Abbiamo avuto piogge abbastanza frequenti, e

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ovunque sono visibili i segni della loro azione vivificante. Mentre finisco queste righe, seduto su un tronco ai bordi dello stagno, si ode in distanza un gran cinguettare e gorgheggiare, e nei boschi qui presso un piumato eremita che canta deliziosamente - non molte note, ma una musica ricca di simpatia quasi umana - protratta per un lungo, lunghissimo tempo. FIORI DI MENTA 22 ag. Non un essere umano in vista, quasi si direbbe che non esistano. Dopo il primo dei miei due brevi bagni quotidiani, resto qui a sedere per un poco, tra lo scroscio musicale del ruscello e le variazioni cromatiche di una dumetella irrequieta laggiù tra i cespugli. Due ore fa, passando per i campi e il vecchio sentiero, diretto quaggiù, mi sono fermato varie volte a osservare il cielo, o i boschi sulla collina a un miglio di distanza, o i pometi. Che contrasto, pensando alle strade di New York o di Filadelfia! Ovunque gran chiazze di pallidi fiori di menta, che esalano nell'aria, specialmente a sera, il loro forte aroma. Ovunque astree in fiore, e le roselline della fava selvatica. NOI TRE 14 luglio. I miei due martin-pescatori frequentano ancora lo stagno. Nel gran sole, la brezza e la perfetta temperatura di oggi (è mezzogiorno) sto qui seduto presso uno dei molti ruscelli gorgoglianti, intingendo nel flusso cristallino una penna ad acqua che uso per scrivere queste righe, e studiando un'ennesima volta la coppia pennuta che frulla e scherza sull'acqua tanto basso da sfiorare la superficie. Ma in verità parrebbe che siamo in tre. Da circa un'ora li osservo indolente e mi unisco a loro mentre sfrecciano e virano e s'impennano nelle loro aeree capriole, scomparendo a volte per qualche minuto più su, lungo il ruscello, per poi tornare invariabilmente a eseguire la più gran parte dei loro voli proprio sotto i miei occhi, quasi sapessero che io apprezzo e assorbo la loro vitalità, spiritualità e costanza, e quelle rapide, effimere, delicate linee di palpabile ma quieta elettricità ch'essi vanno disegnando per me contro la distesa dell'erba, gli alberi e il cielo azzurro. Nel mentre, il ruscello bisbiglia, borbotta, e le ombre dei rami intorno a me si frastagliano nella luce del sole, e il fresco vento che viene da nord-nord-ovest sospira appena tra i fitti cespugli e i vertici degli alberi. Tra le cose belle e gli oggetti d'interesse che ora cominciano a mostrarmisi in abbondanza in questo luogo solitario, noto il colibrì, la libellula con le sue ali di garza color ardesia, e molte varietà di farfalle belle e semplici, che svolazzano pigramente tra le piante e i ciuffi di fiori selvatici. Il verbasco è scattato su dal suo nido di larghe foglie in un gran culmo che torreggia a volte fino a un'altezza di cinque o sei piedi,

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ora tutto tempestato di escrescenze di fiori dorati. Le asclepiadee (su una di esse mentre scrivo vedo posarsi una grande, fantastica creatura arancione e nera) sono anch'esse fiorite, con una delicata bordura rossa; e si vedono profuse ciocche di infiorescenze piumose ondeggiare al vento su esili steli. Ne scorgo moltissime, queste e altre ancora, in ogni direzione, sia che vada in giro o resti seduto. Nell'ultima mezz'ora un uccello in mezzo ai cespugli ha continuato insistente a modulare un suo semplice canto, dolce e melodioso. (Mi sono decisamente convinto che alcuni di questi uccelli cantino e altri volino e sfarfallino qua intorno per mio speciale diletto). MORTE DI WILLIAM CULLEN BRYANT New York City. 13 giugno, arrivato con il treno delle 14 a Jersey City da Filadelfia Ovest; quindi subito dai miei amici, il signore e la signora J.H.J., la loro grande casa e grande famiglia (e gran cuore) dove mi sento perfettamente a mio agio, e in pace - nella parte alta della Quinta Avenue, presso la Ottantaseiesima, fresca e ventilata, da cui si dominano le fitte frange boscose del parco - spazio e cielo in abbondanza, cinguettio d'uccelli, aria relativamente fresca e priva di odori. Due ore prima di partire avevo letto l'annunzio del funerale di William Cullen Bryant, e subito sentii il forte desiderio di assistervi. Avevo conosciuto il signor Bryant più di trenta anni fa, era stato particolarmente gentile con me. Saltuariamente, ma per anni, in tutto quel periodo, continuammo a vederci e a fare chiacchierate. Lo stimavo un uomo a modo suo assai socievole, un essere cui ci si affeziona. Eravamo ambedue buoni camminatori, e quando io lavoravo a Brooklyn egli veniva parecchie volte a prendermi, a metà pomeriggio, e allora si cominciava a girare senza meta per miglia, fino a scuro, spingendoci verso Bedford o Flatbush, facendoci compagnia. In queste occasioni egli mi fece dei quadri precisi dell'ambiente europeo - le città, i paesaggi, l'architettura, l'arte, specialmente l'Italia - dove aveva viaggiato a lungo. 14 giugno. - Il funerale. Dunque il vecchio cittadino e poeta, buono, incorrotto, nobile, giace in quella bara sigillata - e questo è il suo funerale. Scena solenne e semplice, che colpisce lo spirito e i sensi. Notevole assembramento di teste grigie, gente famosa - l'inno così bene eseguito, e le altre musiche - la chiesa sempre in ombra, anche adesso che mezzogiorno è vicino, con quella luce che entra dalle vetrate policrome - il discorso in lode del bardo che amò così appassionatamente la Natura e seppe cantarne così bene aspetti e stagioni, appropriatamente chiuso da questi versi ben noti: Contemplavo il cielo stupendo E il cerchio di verdi montagne E pensai che quando avverrà Ch'io riposi in seno alla terra Sarebbe bello, nel giugno fiorito Quando i rivi hanno voci gioiose

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E i boschi un suono di festa Che il becchino scavasse la tomba nella ricca e verde terra montana. GITA SULLO HUDSON 20 giugno. Sul Mary Powell, un godimento senza precedenti. Giornata estiva deliziosa, calda al punto giusto - il panorama sempre nuovo, ma sempre bellissimo, su ambo le rive (risalimmo il fiume di un centinaio di miglia) - le alte pareti pietrose, a strapiombo, delle Palisades - bella Yonkers, bella Irvington - colline interminabili, per lo più in linee arrotondate, fasciate di verde - gobbe lontane simili a spalle enormi ravvolte in veli azzurri - i frequenti toni di grigio e di bruno delle rocce più elevate - e poi il fiume, che ora si stringe ora s'espande - le molte vele bianche di yacht e cutter, etc., quali vicine, quali in distanza - il rapido succedersi di bei villaggi e città (il nostro è un battello veloce, e fa poche fermate) - la Race - e West Point pittoresca, come del resto tutta la costa - le residenze lussuose e spesso adorne di torri che occhieggiano continuamente tra i boschi nei loro chiari colori allegri - di tutte queste cose è fatto lo scenario. FELICITÀ E LAMPONI 21 giugno. Eccomi sulla riva occidentale dello Hudson, 80 miglia a nord di New York, presso Esopus, nella bella e spaziosa villetta di campagna di John Burroughs chiusa tra pergole di caprifoglio e di rose. Il luogo, i giorni e le notti perfette di giugno (che van facendosi fresche e frizzanti), l'ospitalità di J. e della signora B., l'aria, la frutta (e in particolare il mio piatto preferito, lamponi e ribes mescolati con zucchero, freschi di rovo e ben maturi, li colgo io stesso con le mie mani) - la camera che occupo la notte, il letto impeccabile, l'ampia veduta che s'apre dalla mia finestra sullo Hudson e le rive opposte, meravigliosa all'ora del tramonto, e il musicale rullìo dei treni che passano lontano laggiù - il tranquillo riposo - l'alba precoce cui Venere fa da araldo - il silenzioso zampillìo dell'aurora, l'indescrivibile gloria della luce e del primo calore, in cui (non appena il sole è abbastanza alto) io mi faccio una superba frizione e sfregatura con l'apposita spazzola (la strigliata finale sulla schiena è opera di Al. J. che è qui con noi) - tutto ciò serve a rianimare la mia carcassa di invalido con un soffio di vita nuova, per l'intera giornata. Poi, dopo qualche boccata d'aria mattutina, ecco il delizioso caffè della signora B., insieme a panna, fragole e varie cose sostanziose, per colazione. UNA TIPICA FAMIGLIA NOMADE

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22 giugno. Questo pomeriggio siamo andati (J.B.,Al e io) a fare un bel giro in campagna. Paesaggio con gli immancabili muriccioli di pietra (certuni vecchissimi e venerabili, maculati di scuro dai licheni), molti carrubi, assai belli, acque che corrono gorgogliando, spesso su pendìi rocciosi - tutte queste cose e molto altro. È una fortuna che le strade siano così buone qui (e lo sono davvero), perché il percorso è tutto salite e discese, e talora parecchio ripide. B. ha un cavallo di prim'ordine, forte, giovane, dall'andatura insieme dolce e veloce. Dalla parte del fiume la contea di Ulster presenta una gran quantità di terreni e colline affatto disabitati, con un fantastico rigoglio di cespugli e fiori selvatici, e quanto a alberi, mi sembra, una vitalità mai vista - abeti eloquenti, ricchezza di carrubi e aceri bellissimi, oltre al balsamo di Gilead che esala all'intorno il suo aroma. Nei campi e al bordo della strada, insoliti ciuffi di margheritoni selvatici a stelo alto, bianco-latte e giallo-oro. Sorpassammo per via un gran numero di nomadi, soli o a coppie - e un gruppo, una famiglia, su un carro sconquassato a un solo cavallo, con certe ceste che evidentemente essi costruivano e rivendevano - l'uomo alla guida, seduto su un'assicella in basso - la donna al suo fianco, sparuta, con un bimbetto tutto infagottato in braccio, i piedini arrossati e la parte inferiore delle gambette che sbucavan fuori proprio dalla parte nostra, che li stavamo sorpassando - dietro, nel carro, vedemmo due (forse tre) bambini accucciati. Era un quadro strano, commovente e alquanto triste. Se mi fossi trovato solo e a piedi, mi sarei certo fermato per far due chiacchiere. Ma sulla via del ritorno, circa due ore dopo, li ritrovammo un buon tratto più in là, sempre sulla stessa strada, in sosta da una parte, il carro staccato, in uno spiazzo solitario, che preparavano evidentemente il campo per la notte. Il cavallo, sciolto, se ne stava non lontano a brucare placido l'erba. L'uomo si dava da fare intorno al carro, il ragazzo aveva radunato un po' di legna secca e stava accendendo il fuoco - un poco più avanti incontrammo la donna, a piedi. Non riuscii a scorgere il suo viso sotto il gran cappello da sole, ma in qualche modo la sua figura, e il passo, parlavano di infelicità, terrore, privazioni. Teneva ancora in braccio il suo bambino denutrito fasciato di stracci, e in mano due o tre di quelle ceste, che stava evidentemente portando alla casa più vicina nella speranza di venderle. Una ragazzina scalza sui cinque anni le trotterellava accanto attaccata alla gonna. Ci fermammo a chiedere il prezzo dei cesti, che comprammo. Mentre pagavamo, ella continuò a tenere il viso celato nell'ombra del cappello. Quando, una volta ripartiti, ci fermammo di nuovo, Al. (in cui si era evidentemente destata la compassione), ritornò all'accampamento a comprare un'altra cesta. Riuscì finalmente a intravedere il viso di lei, e s'intrattenne a parlarle per un poco. Occhi, voce e gesti erano quelli di un cadavere azionato elettricamente. Era molto giovane - l'uomo con cui viaggiava, di mezza età. Povera donna - che storia nascondevano le vicende della sua vita, per giustificare quell'atteggiamento di paura indescrivibile, quegli occhi vitrei, il suono vuoto di quella voce? MANHATTAN DALLA BAIA

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25 giugno. Tornato a New York ieri sera. Oggi sul mare, per un giro nella grande baia a sud-est di Staten Island - navigazione difficile, gran sballottio, e vista libera - la lunga distesa di Sandy Hook, le alture di Navesink e i molti battelli che entravano e uscivano. Siamo risaliti passando nel bel mezzo di tutto ciò, in pieno sole. Sono state belle soprattutto le ultime due ore, o l'ultima. S'era levata una moderata brezza di mare, e tuttavia sulla città e le acque adiacenti restava una nebbiolina sottile che non nascondeva nulla, anzi aggiungeva qualcosa alla bellezza della scena. A mio avviso, mentre scrivo con questa brezza delicata e questa temperatura marina, non esiste al mondo in codesto genere di spettacoli nulla che possa superare quanto ho di fronte. A sinistra il North River coi suoi sfondi lontani - più vicino, tre o quattro navi da guerra pacificamente ancorate - la costa del Jersey, le rive del Weehawken, le Palisades, l'azzurro che gradualmente recede e in lontananza si perde - a destra l'East River - le coste frangiate d'alberi di imbarcazioni - le maestose torri del ponte, simili a obelischi, una per lato, immerse nella foschia e tuttavia ben stagliate, gemelli giganti che si lanciano liberi e aggraziati intrecci di fili da una parte all'altra della tumultuosa corrente che galoppa al di sotto (la marea s'inverte proprio adesso) - l'ampio specchio d'acqua affollato in ogni direzione - no, non affollato, bensì brulicante, come stelle in cielo, di vascelli d'ogni sorta e dimensione, a vela e a vapore, ferry che bordeggiano, battelli costieri che arrivano e partono, e i grandi signori dell'oceano, color nero-acciaio, moderni, magnifici per dimensioni e potenza, con il loro inestimabile carico di vite umane e merci preziose - e, staccate dal resto, quelle creature di grazia e di meraviglia che sbandano spericolate qua e là, quei bianco-sfumati, sfreccianti rondoni di mare (mi chiedo se esiste altrove mare o costa capace di umiliarli) sempre con l'alberatura inclinata e la fiera, pura bellezza di falchi in azione - panfili e golette newyorkesi di prima classe che, con questa bella giornata e il vento buono, corrono il libero mare. E in mezzo, scattante verso l'alto, frangiata di navi, moderna, americana eppur stranamente orientale, Manhattan a forma di V, con la sua massa compatta, le sue guglie, i suoi edifici raggruppati al centro che sfiorano le nuvole - il verde degli alberi e tutto il bianco, il marrone e il grigio delle architetture armoniosamente fusi, ai miei occhi, sotto un miracolo di cielo limpido, luce deliziosa dall'alto e foschia di giugno sulla superficie sottostante. UMANA, EROICA NEW YORK L'impressione complessiva personale di New York e Brooklyn che sto ricavando da questa visita (quando sarà dunque che i due municipi vengano riuniti sotto l'unico nome di Manhattan?) - quello cioè che io definirei il paesaggio umano interiore ed esteriore di queste grandi moltitudini oceaniche in perenne fermento - è

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per me uno dei piaceri più grandi. Dopo un'assenza di molti anni (me ne andai allo scoppio della guerra di secessione, e da allora non sono più tornato a vivere qui) eccomi pieno di curiosità a riprendere contatto con le folle, le strade che conosco così bene, con Broadway, i ferry, il lato ovest della città, la democratica Bowery - con le sembianze e gli atteggiamenti umani che s'incontrano in tutti questi luoghi, o intorno ai moli, o in mezzo al perpetuo viavai delle vetture a cavallo, nei battelli gremiti di gitanti o in Wall Street e Nassau Street, di giorno - e di notte nei locali di divertimento - qualcosa di vorticoso, rigurgitante e fluido come le acque che lo circondano - umanità sterminata, in tutti i suoi vari stadi - Brooklyn, anche - tutto questo ho riassorbito nelle ultime tre settimane. Non v'è bisogno di ricorrere ai dettagli - basti dire in breve che (fatte le dovute riserve sui lati in ombra e le venature marginali di una città di un milione di anime) il risultato finale delle impressioni di queste vaste città, con le loro qualità umane, è per me confortante, potrei dire eroico, al di là di ogni definizione. Vivacità, figure generalmente ben fatte, occhi limpidi che ti guardano in faccia, una combinazione singolare di reticenza e padronanza di sé, e un'indole buona e socievole - il prevalere di una gamma conforme di modi, gusti, intelligenza, più di quanto non si trovi certamente in qualsiasi altro luogo del mondo - e la fioritura palese di quel senso di cameratismo personale al quale io guardo come al più sottile e più tenace legame futuro di questa variegata Unione - tali cose non solo sono sempre visibili qui, in questi imponenti canali di umanità, ma costituiscono ovunque la norma e la media. Direi che oggigiorno - e qui sfido cinici e pessimisti, ma con piena nozione delle loro riserve - uno studio valutativo e penetrante dell'attuale umanità newyorkese potrebbe fornire la prova più diretta fino ad oggi della riuscita della Democrazia - nonché della soluzione pratica di quell'altro paradosso, la compatibilità di un individuo libero perfettamente sviluppato e la collettività dominante. Giunto ormai alla vecchiezza, invalido e malato, dopo aver soppesato per anni i molti punti dubbi e i pericoli di questa nostra repubblica - e pienamente conscio di tutto quanto può dirsi dall'altra parte - io vado scoprendo durante questa mia visita a New York, nel rapporto e nel contatto quotidiano con le sue miriadi di persone (proporzioni enormi, oceani, maree) il farmaco migliore e più efficace di cui l'anima mia abbia mai usufruito - e l'ambiente fisico e lo sfondo di terre e d'acque più grandioso che il globo offra - voglio dire l'isola di Manhattan e Brooklyn, che il futuro dovrà ricongiungere in una sola città - sede di una democrazia superba, e al centro di un superbo scenario naturale. ORE PER L'ANIMA 22 luglio 1878. Tornato a vivere in campagna. Meravigliosa coincidenza di tutto ciò che riesce a creare il miracolo di certe ore dopo il tramonto - così vicine, e insieme tanto lontane. I giorni perfetti, ho osservato, o quasi perfetti, non sono dopo tutto così rari: ma rare sono le combinazioni che determinano notti perfette, anche nello spazio di tutta una vita. Stasera abbiamo una di quelle perfezioni. Il tramonto

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aveva lasciato le cose alquanto nitide; le stelle più grandi si mostrarono non appena lo permisero le ombre. Poco dopo le otto, d'improvviso s'alzarono tre o quattro grandi nuvole nere, apparentemente da punti diversi, le quali galoppando sotto gran buffi vorticosi di vento, ma senza tuoni, dilagarono ovunque sottraendo gli astri alla vista, e preannunziarono un violento temporale dovuto al caldo. Ma non ci fu temporale, e nuvole, buio e tutto, trascorsero e si dileguarono con la stessa fulmineità con cui s'erano levate; poco dopo le 9, fino alle 11, l'atmosfera e l'intera veduta sopra di noi erano in quello stato di eccezionale chiarezza e gloria cui ho alluso poc'anzi. A nordovest ruotava il Gran Carro con l'asse verso la Stella Polare. A oriente, un poco verso sud, la costellazione dello Scorpione già al culmine, con la rossa Antares rutilante sul collo; intanto il maestoso Giove, levatosi già da un'ora e mezzo, fluttuava superbo a est (niente luna fin dopo le 11). Una estesa parte del cielo sembrava esser stata sottoposta a gran zampilli di fosforo. Lo sguardo penetrava più a fondo, più lontano di sempre; i corpi celesti fitti come spighe di grano in un campo. Non che vi fosse una particolare brillantezza - niente di così nitido come in certe pungenti notti d'inverno, bensì una strana luminosità soffusa ovunque, agli occhi, ai sensi, all'anima. Quest'ultima entrava nella cosa in modo particolare (sono convinto che esistano in natura certe ore, specie dell'atmosfera, mattini e sere, indirizzate all'anima; in tal senso la notte trascende il giorno più superbo). Adesso veramente, se mai era accaduto prima, i cieli testimoniavano la gloria di Dio. Era invero il cielo della Bibbia, dell'Arabia, dei profeti e dei poemi più antichi. Là, assorto e immobile (mi ero appartato per assorbire la scena da solo, e godermi intatto l'incanto), silenziosamente penetrarono in me la ricchezza, i remoti spazi, la vitalità, la brulicante pienezza, pur distaccata e chiara, di quella conca stellare slanciata sopra il mio capo, così libera, interminabilmente alta, protesa a est, a ovest, a nord e a sud - e io sotto, nel centro, solo un punto, ma in cui tutto s'incorporava. E invero come per la prima volta, la creazione silenziosamente lasciò piovere in me, attraverso me, la sua placida inesprimibile lezione, superiore - oh, così infinitamente superiore! - a tutte le lezioni dell'arte, dei libri, dei sermoni e della scienza antica e nuova. L'ora dello spirito - ora di adorazione - il visibile suggerimento di Dio nello spazio e nel tempo - adesso chiaramente delineati, come forse mai più. L'ineffabile additato ovunque - ne erano lastricati i cieli. La via Lattea, quasi una sinfonia sovrumana, un'ode di universale vaghezza sdegnosa di sillabe e suoni - lampeggiante sguardo di Divinità rivolto all'anima. E tutto in silenzio - la notte e le stelle indescrivibili - lontanissime, tacite. L'ALBA. 23 luglio. Stamane, un'ora o forse due prima del sorgere del sole, uno spettacolo elaborato sul medesimo scenario, ma di bellezza e significato assai dissimili. La luna ben alta, già oltre il primo quarto, luminosissima - l'aria e il cielo di un qual cinico nitore, la verginale freddezza di Minerva - non il peso del sentimento o del mistero, o l'estasi indefinibile della passione - non quel senso religioso della molteplicità del Tutto distillata e sublimata in unità, della notte or ora descritta. Ogni stella adesso si mostra per quello che è, semplicemente, stagliata contro l'etere incolore; il carattere del mattino che si annunzia, ineffabilmente dolce e fresco e

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limpido, è tuttavia solo per il senso estetico, per una purezza senza sentimento. Ho parlato dei lineamenti della notte - ma oserò fare altrettanto con l'alba senza nubi? (Che sottile legame è mai questo tra un'anima umana e il levarsi del giorno? Simili, e tuttavia non due sole notti o due spettacoli mattutini che possano dirsi veramente simili). Preceduto da una stella immensa, quasi ultraterrena nella sua effusione di bianco splendore, con due o tre lunghi raggi ineguali di diamantina lucentezza che si perdevano giù nella fresca aria antelucana - un'ora così, e poi il sole. L'ORIENTE. Che argomento per una poesia! E invero dove trovarne uno più pregnante, più splendido - più idealistico e reale a un tempo, più sottile e delicatamente sensuoso? L'Oriente che risponde a tutti i paesi, le epoche, i popoli; che tocca tutti i sensi, qui, adesso, senza mediazioni, e tuttavia così indescrivibilmente remoto - con tali retrospettive nel tempo! L'Oriente - così esteso, fino a perdersi - l'Oriente, i giardini dell'Asia, grembo primo della storia e del canto - procreatore di tutte quelle strane e fosche cavalcate - Fiorente di sangue, pensoso, rapito nella meditazione, caldo e appassionato, In ampie vesti fluttuanti, acri profumi, Il volto arso dal sole, l'anima intensa, occhi lucenti. Sempre l'Oriente - antico, così inconcepibilmente antico! Ma egualmente qui, ancora nostro - fresco come una rosa, per ogni mattino, per ogni vita, oggi - e così per sempre. 17 sett. Altra presentazione - stesso tema - di nuovo poco prima del sorgere del sole (una delle ore che prediligo). Il cielo grigio, terso, un tenne bagliore nel viola opaco dell'oriente, il fresco odore fragrante, la rugiada - le mandrie di buoi e cavalli che pascolano laggiù nei campi - e di nuovo la stella Venere, levatasi da due ore. Quanto a suoni, lo stridìo dei grilli nell'erba, la buccina sonora del gallo, il crocidare lontano d'una cornacchia mattiniera. Silenzioso, sulla densa bordura di cedri e di pini, s'alza abbagliante, vivido, il rosso disco di fiamma; in basso, le cortine di bianco vapore si dissolvono vorticando. LA LUNA. 18 maggio. Ieri sera andai a letto per tempo, ma mi trovai sveglio poco dopo la mezzanotte, e rigiratomi un poco in uno stato d'insonnia e di febbre mentale, mi alzai, mi vestii, uscii e m'incamminai per il mio sentiero. La luna piena, già su da un tre o quattro ore - una spruzzata di nuvole per lo più leggiere, che viaggiavano pigre - Giove alto da un'ora a levante, e qua e là per l'ampio spazio del cielo il casuale occhieggiare di una stella, poi subito spento. Così, meravigliosamente velata e diversa (l'aria già con quel profumo di prima estate, nient'affatto umida o pungente) Diana emergeva languida, a volte nel suo più ricco fulgore per alcuni minuti, poi di nuovo parzialmente coperta. Lontano, un caprimulgo passava e ripassava senza fine le sue note. Era quell'ora silenziosa tra l'una e le tre.

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Questa prodigiosa scena notturna, come seppe subito distendermi, placarmi! Non v'è forse per noi nella luna qualcosa, un rapporto o uno stimolo della memoria, che nessun poema e nessuna letteratura è riuscita sinora a cogliere? (pure in ballate antichissime e primitive, io mi sono imbattuto in versi, spunti che sembravano suggerirlo). Dopo qualche tempo le nubi diradarono scomparendo quasi del tutto, e la luna proseguendo il suo fluttuante cammino, tremula e mutevole, portava con sé delicati effetti cromatici di pellucido verde e vapori rossastri. Permettete che io concluda questi appunti con un brano di non so quale scrittore (estratto dal Tribune del 16 maggio 1878): Nessuno mai si stanca della luna. Dea per il privilegio della sua eterna bellezza, ma vera donna per il tatto che le è proprio, ella conosce il fascino che nasce dal mostrarsi raramente, apparire di sorpresa e trattenersi per poco; non porta mai lo stesso abito per due notti di seguito, e mai allo stesso modo nella medesima notte; si raccomanda alla gente pratica per la sua utilità e si fa adorare per la sua inutilità da poeti, artisti e innamorati di ogni terra, si presta a ogni simbolismo a ogni emblema: è l'arco di Diana, lo specchio di Venere e il trono di Maria; è una falce, uno scialle, un sopracciglio, un volto di uomo o di donna a seconda che sia lei o lui a guardarla, è l'inferno del folle, il paradiso del poeta il giocattolo del bambino lo studio del filosofo e mentre i suoi adoratori, incapaci di staccarsi dai suoi maliosi sembianti, ne seguono i passi, ella sa serbare il suo femmineo segreto - il suo secondo volto - sconosciuto e inconoscibile. Continuando. 19 febbraio 1880. Poco innanzi le dieci di sera, di nuovo freddo e cielo completamente sgombro, lo scenario in alto, verso sud-ovest, di fantastica e brulicante magnificenza. La luna nella sua terza fase - i gruppi delle Iadi e delle Pleiadi con il pianeta Marte in mezzo - tutta spiegata da un capo all'altro del cielo la grande X egizia (Sirio, Procione e le stelle maggiori delle costellazioni della Nave, della Colomba e di Orione); a oriente, appena spostata verso nord, Boote e, sul suo ginocchio, Arturo, già su da un'ora, che continua a scalare il cielo, grosso e ambiziosamente sfavillante, quasi volesse contendere a Sirio la supremazia stellare. Il sentimento delle stelle e della luna in notti come queste mi offre tutti i liberi margini e le inafferrabili linee della musica e della poesia fusi nella più assoluta esattezza geometrica. PSICHI PAGLIERINE E ALTRE 4 agosto. Vista deliziosa! Seduto all'ombra - giorno caldo, il sole che splende da un cielo senza nubi, mattino inoltrato - percorso con lo sguardo un campo di dieci acri lussureggiante di trifoglio (seconda fioritura) - il rosso avvinato, maturo, dei fiori e le chiazze marrone che in agosto screziano ovunque il verde-cupo predominante. Su tutto palpitano miriadi di farfalle giallo-chiaro che, ora sfiorando la superficie del

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campo, ora tuffandosi e oscillando, infondono nella scena una curiosa animazione. Le belle creature, insetti spirituali, psichi paglierine! Di quando in quando una di loro lascia le compagne e sale nell'aria, ora a spirale ora in linea retta, frullando verso l'alto, sempre più, fino a svanire letteralmente alla vista. Lungo il sentiero poco fa, mentre venivo, ho notato un punto, forse dieci piedi quadri, dove se n'erano radunate più di un centinaio a dar spettacolo, una sarabanda o divertimento da farfalle, e qui s'avvitavano e ruotavano, a capofitto e di traverso, ma sempre restando nei confini. Codeste creaturine sono spuntate di colpo negli ultimi pochi giorni, e sono adesso copiosissime. Se siedo all'aperto o passeggio, è raro ch'io mi guardi attorno senza vederne da qualche parte due (sempre in due) che svolano per l'aria in amorosi armeggi. E poi quel loro colore inimitabile, la fragilità, il modo così singolare di muoversi - e quello strano e frequente abito di abbandonar lo sciame e salirsene su nel libero etere, apparentemente per non tornarne mai più. Osservando il campo, ovunque il delicato sfavillio di queste ali gialle, e i molti fiori nivei della carota selvatica graziosamente reclini sugli steli alti e affusolati - e quanto a suoni, il gridio gutturale d'un lontano branco di galline faraone mi giunge all'orecchio, stridulo e tuttavia in qualche modo musicale. E adesso, da nord, un brontolío smorzato di tuoni prodotti dalla calura - e sempre il basso ronfare del vento che s'alza e precipita tra le vette degli aceri e dei salici. 20 agosto. Nugoli di farfalle (venute a sostituire i calabroni di tre mesi fa, ormai scomparsi) continuano a svolazzare avanti e indietro, d'ogni specie, bianche, gialle, brune, porporine - a tutti il lampo di una splendida creatura che ti passa accanto pigramente su ali che paiono tavolozze d'artista tanto son screziate d'ogni colore. Sulla linea dello stagno ne scorgo parecchie, bianche, che passano da una parte all'altra seguitando indolenti il loro volo capriccioso. Vicino a dove sono seduto, cresce un'erba selvatica dall'alto stelo coronato da una profusione di fiori rosso-sangue, su cui vanno a posarsi e a trastullarsi i nivei insetti, talora in gruppi di quattro o cinque. Di tanto in tanto un caprimulgo visita questa medesima pianta, e io lo osservo mentre va e viene, si libra o frulla elegantemente qua e là. Codeste farfalle bianche creano nuovi bei contrasti di contro ai puri verdi del fogliame d'agosto (abbiamo avute piogge copiose negli ultimi tempi) e al bronzo lucente della superficie dello stagno. Potete persino addomesticarli, questi insetti: io ho un farfallone quaggiù, grosso e bello, che mi riconosce e viene a cercarmi, e gli piace ch'io lo tenga sul palmo della mano. Un altro giorno, più, tardi. Un gran campo di dodici acri di cavoli maturi, con quella tinta dominante di un verde-malachite, e sopra di essi, e in mezzo, miriadi delle medesime farfalle bianche che volano e fluttuano in ogni direzione. Risalendo il sentiero oggi ne ho visto come un gran globo vivo, di due o tre piedi di diametro, decine e decine in grappoli, che avanzavano rotolando nell'aria e sempre aderendo a quella forma di sfera, a forse sei o otto piedi dal suolo. RICORDO NOTTURNO

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25 agosto (9-10 del mattino). Seduto sul bordo dello stagno, tutto è quiete, l'ampia superficie liscia distesa innanzi a me - l'azzurro del cielo e le nuvole bianche che vi si rifrangono - e a tratti, riflessa, la fuggitiva sagoma di un uccello. Ieri sera sono rimasto quaggiù con un amico fin dopo la mezzanotte: ogni singola cosa un miracolo di splendore - la gloria delle stelle e il disco perfetto della luna - nuvole passeggere, argentee, o d'una luminosità giallastra - di quando in quando masse di vaporosa nuvolaglia luminescente - e in silenzio al mio fianco il mio caro amico. Le ombre degli alberi, le chiazze di luna sull'erba - la dolce brezza e l'odore appena avvertibile del granturco qui vicino che va maturando - la notte indolente e spirituale, indicibilmente ricca, tenera, suggestiva - qualcosa che ti filtra attraverso l'anima, e per lungo tempo poi continua a nutrire, alimentare, confortare la memoria. FIORI DI CAMPO. Questa è stata (e lo è ancora) una grande stagione per i fiori selvatici: ve ne sono oceani, ai bordi delle strade dei boschi, lungo le sponde dei ruscelli e le linee delle vecchie palizzate, e disseminati ovunque in profusione nei campi. Assai diffuso è un certo fiore di otto petali d'un giallo-oro chiaro e luminoso, con al centro un ciuffetto marrone della grandezza circa di un mezzo dollaro d'argento; l'ho notato ieri per un lungo tratto di strada, che rivestiva fitto le sponde dei ruscelli. C'è poi una bella erba tutta coperta di fiori azzurri (l'azzurro delle tazzine da tè cinesi che le nostre prozie serbavano gelosamente) che mi fermo sempre a ammirare, poco più grande di una moneta da dieci centesimi, e molto diffusa. Il bianco comunque è il colore dominante: la carota selvatica di cui ho già parlato; e anche il fragrante semprevivo. Ma ve n'è d'ogni sfumatura e bellezza, soprattutto in quelle macchie semiaperte di quercioli e cedri nani piuttosto frequenti qua intorno - astree selvatiche d'ogni colore. Nonostante la prima folata di gelo questi tipetti gagliardi si mantengono in pieno fiore. Anche le foglie degli alberi - certune cominciano a farsi gialle, o d'un verde sbiadito e opaco. Già è visibile il cupo rosso-vivo del sommaco e dell'albero della gomma, e il color paglierino del corniolo e del faggio. Permettete che io dia qui i nomi di alcuni tra questi fiori perenni, queste erbe amiche che ho imparato a conoscere nell'una o nell'altra stagione durante le mie passeggiate in questi paraggi: Azalea selvatica Dente di leone Caprifoglio selvatico Millefoglie Rose selvatiche Coreosside Verga aurea

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Pisello selvatico Consolida reale Vite del Canada Croco precoce Sambuco Calamo aromatico (grandi distese) Elleboro Rampicanti, gelsomino della Virginia Girasole Maggiorana odorosa Camomilla Serpentaria Viole Ginocchietto (o sigillo di Salomone) Clematide Melissa dolce Sanguinaria Menta (moltissima) Magnolia dei paludi Geranio selvatico Asclepiedee Eliotropo Pratolina (molta) Bardana Crisantemo selvatico UNA GENTILEZZA RIMANDATA PER TROPPO TEMPO Le note che precedono mi ricordano qualcosa. Poiché le creature che io amo maggiormente ritrarre sono state sempre sottovalutate da quelli che se ne servono per i loro quadri, volumi e poesie - io qui, a inadeguata testimonianza della mia gratitudine per molte ore di pace e conforto in periodi di seminvalidità (ma per nulla certo che prima o poi non abbiano a metter su arie per il complimento) dedico la seconda metà di questi «Giorni rappresentativi» a Api Merli Libellule Tortore acquatiche Verbasco, tanaceto, menta peperita. Macaoni (grandi e piccoli, certi splendidi)

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Lucciole (sciami, milioni di lucciole indicibilmente belle e strane di notte sullo stagno e sul ruscello) Bisce d'acqua dolce Cornacchie Maggiolini Zanzare Farfalle Vespe e calabroni Dumetelle (e tutti gli altri uccelli) Cedri Liriodendri (e tutti gli altri alberi) e ai luoghi e ai ricordi di quei giorni e del ruscello. IL FIUME DELAWARE: GIORNI E NOTTI 5 aprile 1879. Con il ritorno della primavera nel cielo, nell'aria e nelle acque del Delaware, ritornano anche i gabbiani. Non mi stanco mai di contemplarne l'ampio e agile volo, le spirali, o quando oscillano lenti senza un colpo d'ala o guardano in basso col becco ricurvo o si tuffano in acqua a caccia di cibo. I corvi, parecchio numerosi durante tutto l'inverno, sono scomparsi col ghiaccio. Non se ne vede neppur uno adesso. Sono rispuntati invece i battelli a vapore - in gran movimento, lindi, ridipinti a nuovo per il lavoro estivo - il Columbia, l'Edwin Forrest (il Republic non si è ancora visto), il Reybold, il Nelly White, il Crepuscolo, l'Ariele, il Warner, il Perry, il Taggart, il Jersey Blue - persino il vecchio e sconquassato Trenton - per non parlare poi di quegli impertinenti torelli delle acque, i rimorchiatori. Ma lasciate che riassuma e cataloghi il tutto - il fiume stesso, dal mare sino a qui - Capo Island da una parte e il faro di Henlopen dall'altra - l'ampia distesa della baia a nord, e poi giù verso Filadelfia, fino a Trenton; le scene che conosco meglio (vivendo per la maggior parte del tempo a Camden guardo le cose da quel punto di vista) - i grossi transatlantici che entrano e escono, a pieno carico, arroganti e neri - il grande spazio che separa le due città, tagliato a mezzo dall'isola di Windmill - qualche volta una nave da guerra, magari straniera, all'ancora, coi suoi cannoni e i boccaporti, le scialuppe, i marinai abbronzati, la cadenza regolare dei remi la gaia folla che si raccoglie nei giorni «di visita» - le molte golette a tre alberi, grandi e belle (una delle costruzioni marinare che ha avuto maggior fortuna da queste parti negli ultimi anni), certune nuove e elegantissime con le loro vele bianco sporco e l'alberatura in legno di pino giallo - i cutter che volano col vento buono (ecco ne vedo uno venire a vele spiegate, la controranda splendente al sole, altissima e pittoresca, creatura di bellezza tra il cielo e l'acqua) - i moli gremiti che frangiano la città - le bandiere di nazioni diverse, la risoluta croce inglese accampata sullo sfondo sanguigno, il tricolore francese, lo stendardo del grande impero della Germania del Nord, i colori italiani e spagnoli - non di rado, nel pomeriggio, l'intera scena ravvivata

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da una flottiglia di yacht che tornano pigramente, nell'aria quasi ferma, da Gloucester dove han preso parte a una gara; e il vapore Hamilton della guardia di finanza, di forme nitide e snelle, in mare aperto, la bandiera che sventola perpendicolare a poppa - e a volger lo sguardo a nord, ecco lunghe filacce di vapore d'un bianco lanoso, o di color fumo nero-sporco, che s'allungano a ventaglio e si spiegano in diagonale dalle coste di Kensington o Richmond, nel vento di ovest-sud-ovest. SCENE SUL FERRY E SUL FIUME, SERATE DELLO SCORSO INVERNO Poi il ferry di Camden. Di giorno, eccitazione, varietà, gente, gran daffare. Di notte, che silenziose ore di meraviglia e di pace, durante la traversata in battello, quasi sempre solo - su e giù per il ponte, a poppa o a prua. E allora, quale comunione con le acque, l'aria, il chiaroscuro squisito - il cielo e le stelle che non hanno parole, niente per l'intelletto, e tuttavia così eloquenti, così comunicativi per l'anima. E gli uomini del ferry - certo non sanno che cosa abbiano voluto dire per me, giorno e notte - quanti penosi stati di inerzia, noia, debolezza abbiano dissipato con quei loro modi aperti e con la loro presenza. E i piloti - capitan Hand, Walton e Giberson di giorno, capitan Olive di notte; Eugene Crosby le cui braccia giovani e forti mi hanno sostenuto tante volte, abbracciato, scortato in salvo a bordo sopra i vuoti del ponte, tra mucchi di bagagli; e invero tutti i miei amici del ferry, il sovrintendente capitano Frazee, e poi Lindell, Hiskey, Fred Ranch, Prince, Watson e una dozzina d'altri. Infine lo stesso ferry con le sue scene curiose - un bimbo che viene alla luce all'improvviso in una sala d'aspetto (un fatto vero - e accaduto più di una volta) - talora un veglione in maschera, fino a tarda notte, con l'orchestra, a ballare e piroettare come matti sul gran ponte, con quegli abiti fantastici indosso; talvolta il signor Whitall, l'astronomo (che ogni tanto viene a mettermi al corrente su questioni di stelle, con una lezione dal vivo, e risposte per qualsiasi domanda) - oppure una bella famiglia prolifica, un gruppo di otto, nove, dieci, persino dodici! (ieri, nella sala di soggiorno del ferry, durante la traversata, madre e padre con otto figli, diretti a est, non so dove). Ho già accennato ai corvi. Li osservo sempre dal battello. Hanno una parte importante nelle scene invernali sul fiume, di giorno. In quella stagione, si scorgono ovunque le loro sagome nere stagliate contro la nave e il ghiaccio - ora nel remeggio del volo, ora su qualche banco di ghiaccio più o meno grosso alla deriva sulla corrente. Un giorno il fiume era completamente sgombro - c'era solo una lunga cresta di ghiaccio spezzato, una fettuccia sottile che vidi correre trascinata dalla corrente, piuttosto veloce, per più di un miglio: su questa cresta bianca stavano radunati i corvi - centinaia - una buffa processione - («mezzo lutto», fu il commento di qualcuno li intorno). Poi il salone d'imbarco, per i passeggeri in attesa - la vita illustrata in tutti i suoi aspetti. Prendiamo una delle mie descrizioni buttate giù sul posto due o tre settimane fa, a marzo. Pomeriggio, circa le tre e mezzo, comincia a nevicare. C'è stato uno

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spettacolo a teatro, una matinée; tra le quattro e mezzo e le cinque, ecco una fiumana di signore che rientrano alle loro case. La sala non ha mai presentato una scena così gaia e vivace - donne e ragazze del Jersey, piacenti, ben vestite, decine e decine, continuano a rifluire qui per quasi un'ora - occhi luminosi e visi accesi, venendo dall'aria aperta - qualche sbruffo di neve rimasto sul cappello o sugli abiti, quando entrano - l'attesa di cinque o dieci minuti - il chiacchiericcio e le risate (le donne si divertono un mondo tra di loro, tra battute scherzose, pranzetti e effusioni d'allegria) - Lizzie, l'inserviente della sala d'attesa, con quel suo fare simpatico - e come accompagnamento i vari scampanellìi e le sirene a vapore dei battelli in partenza, con le loro pause ritmiche sulla nota bassa di fondo - i quadretti domestici, madri circondate da una frotta di figli e figlie (una visione deliziosa) - bambini, gente di campagna - ferrovieri in uniforme e berretto azzurro - i personaggi più svariati della città e della campagna rappresentati qui, o almeno suggeriti. Poi, fuori, qualche passeggero in ritardo che corre a balzi frenetici per raggiungere il battello. Verso le sei la corrente umana gradualmente infittisce - ora una ressa di veicoli, furgoni, cataste di colli ferroviari - ora una mandria di bestie che provoca una certa eccitazione, i mandriani armati di pungoli con cui battono i fianchi fumanti dei bestioni terrorizzati. Nella sala imbarco si concludono affari, si civetta, si fa all'amore, si danno éclaircissements e si fanno proposte - ecco il simpatico Phil con la sua faccia onesta e il suo pacco di giornali del pomeriggio - oppure Jo, o Charley (quest'ultimo la settimana scorsa si è gettato dal molo e ha salvato una massiccia signora che stava per affogare) che si accingono a ricaricare la caldaia dopo averla ripulita con un lungo palanchino. Oltre a tutta questa «commedia umana», il fiume offre nutrimenti di più alto livello. Ecco alcune mie note dell'inverno scorso, così come furono buttate giù sul momento. Notte di gennaio. Viaggi piacevoli sul grande Delaware. Marea piuttosto alta, con forte riflusso. Poco dopo le otto, fiume pieno di ghiaccio, per lo più in pezzi, ma con certi blocchi più grossi che, urtati dalla nave, la fan tremare e cigolare tutta benché costruita in solido legno: essi dilagano nella chiara notte di luna sin dove si spinge il mio sguardo, strani, irreali, argentei, baluginanti. Tra urti, tremiti, e talora fischi come di mille serpenti, sale la marea, e a noi che avanziamo ora seguendola ora tagliandola, essa offre un grandioso accompagnamento musicale che ben si accorda allo spirito della scena. Sopra di noi, lo splendore indescrivibile; ma c'è un che di altero, di sprezzante quasi, nella notte. Mai prima avevo sentito, in quei silenziosi, infiniti astri lassù, tanto sentimento latente, quasi passione. In una notte simile si capisce perché, sin dai tempi dei Faraoni e di Giobbe, la cupola celeste costellata di pianeti ci abbia fornito le critiche più sottili e più profonde all'orgoglio, la gloria e le ambizioni umane. Altra notte d'inverno. Non conosco nulla di più pieno che trovarmi, in una limpida e fresca raggiante notte di luna, sul ponte ampio e solido di un potente battello che avanza, altero e irresistibile, frantumando lo spesso marmo di questo

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ghiaccio scintillante. L'intero fiume ne è ora ricoperto - qua e là blocchi immensi. C'è un'aria di sortilegio nella scena - dovuta in parte alla qualità della luce, con le sue sfumature azzurre, il crepuscolo lunare - solo le stelle più grandi resistono al raggiar della luna. Temperatura rigida, piacevole se ci si muove, secca e ricca di ossigeno. Ma questo senso di potenza - la spinta tenace e sprezzante, imperiosa, della nostra nuova macchina, così forte, che s'apre la strada come un vomere tra blocchi di ghiaccio grandi e piccoli. Un'altra. Nello spazio di due ore ho compiuto più volte la traversata, per mero piacere - alla ricerca di una quieta eccitazione. Il cielo e il fiume hanno subìto intanto varie metamorfosi. Il primo ha mostrato per qualche tempo due immensi scaglioni di cirri, a ventaglio, tramezzo ai quali viaggiava lenta la luna, ora irradiando e trascinando seco un'aureola di un trasparente colore bruno-fulvo, ora inondando l'intera estensione del cielo di un verde-chiaro brillante e vaporoso, per il quale, come attraverso un velo illuminato, la si vedeva muoversi con discreto passo femmineo. Poi un'altra traversata, e il cielo era assolutamente terso, e Diana in tutto il suo fulgore; a nord il Gran Carro, con la doppia stella sul timone visibile meglio del solito. E poi lo scintillante solco di luce nell'acqua, ondulato, danzante. Tante trasformazioni, tanti quadri e poemi inimitabili. Un'altra ancora. Stanotte studio le stelle mentre attraversiamo, cogliendo il momento favorevole (siamo in febbraio avanzato, il cielo di nuovo limpidissimo). Alte a ponente le Pleiadi, che occhieggiano con delicati scintillìi nel morbido cielo. Ecco Aldebaran alla testa delle Iadi a forma di V, e proprio sopra di noi Capella con i suoi piccoli. Ma il più maestoso, completamente spiegato in alto a sud, è Orione, immenso, disteso, capocomico della compagnia, con la splendente rosetta gialla sull'omero, e i suoi tre Re - e un po' spostata verso est, Sirio, tacitamente arrogante, fantastica stella solitaria. A tarda sera, arrivati a terra, mentre indugiavo lì intorno o passeggiavo lentamente (non riuscivo a staccarmi dalla bellezza rasserenante della notte) mi giungeva dalla stazione di deposito di Jersey Ovest l'eco delle grida dei ferrovieri che spostavano e manovravano treni, macchine, ecc.: nel totale silenzio d'ogni altra cosa e per una qualche qualità acustica dell'aria, esse avevano effetti musicali, emotivi, mai immaginati prima. Rimasi lì per lunghissimo tempo, ascoltandoli. Notti del 18 marzo 1879. Una di quelle notti calme, piacevolmente fresche, dell'inizio della primavera, squisitamente limpide e senza nubi - l'atmosfera ancora di quel raro colore blu-nero, vitreo, prediletto dagli astronomi. Alle otto di sera lo scenario sopra di noi è senza dubbio di una bellezza più che solenne, senza precedenti. Venere molto bassa a ponente, enorme e fulgida quasi volesse superare se stessa prima di sparire. Fecondo orbe materno - ecco io ti riprendo. Ricordo quella primavera che precedette l'assassinio di Abramo Lincoln, quando vagando enza pace lungo le rive del Potomac, nei dintorni di Washington, io ti guardavo lassù triste come me:

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Quando passeggiammo su e giù per il cupo mistico azzurro, Quando percorremmo in silenzio la trasparente notte di ombre, Quando seppi che avevi qualcosa da dirmi, da come ti spiegavi su di me ogni notte, Quando scivolasti dal cielo fin quasi a toccarmi (e le altre stelle guardavano), Quando insieme errammo per la notte solenne. Col tramonto di Venere, enorme fino all'ultimo e luminosissima ancora sulla linea dell'orizzonte, quale spettacolo offre in questo momento la vasta conca celeste! Subito dopo il tramonto era visibile Mercurio - una visione rara. Arturo s'è levato adesso a oriente, un poco verso nord. In calma gloria tutte le stelle di Orione mantengono il loro posto d'onore, al culmine, a sud - il Cane spostato un poco sulla sinistra. Ed ecco levarsi tra le ultime la Spiga, bassa, un poco velata; Castore, Regolo e le altre splendono tutte con insolita chiarezza (fino al mattino non si vedranno né Marte né Giove né luna). Sul filo del fiume il tremolìo di molte luci - un paio di miglia più su, due o tre enormi ciminiere vomitano ininterrotte, liquide fiamme, come di vulcano, illuminando ogni cosa intorno, e a tratti una sostanza vetrosa, elettrica, forse calcio, bagliori d'inferno dantesco, in lunghi dardi, terribili, di orrida potenza. Nelle notti di fine maggio, mi piace osservare durante la traversata i gavitelli dei pescatori coi loro lumicini - così graziosi, fiabeschi - come i lumini dei morti - che ondeggiano delicati e solitari sulla superficie delle acque immerse nell'ombra, fluttuando sulla corrente. PRIMO GIORNO DI PRIMAVERA A CHESTNUT STREET L'inverno allenta la sua presa, e ci ha già concesso un assaggio preliminare di primavera. La mitezza e la luminosità di ieri pomeriggio (dopo una mattinata di nebbia che le diede, per contrasto, maggior risalto) presentarono Chestnut Street - diciamo tra Broad Street e la Quarta - nel suo aspetto migliore da tre mesi a questa parte, con i suoi angoletti, i negozi, e la gente vestita per lo più con colori allegri (mi sovviene mentre scrivo). Ho fatto una passeggiata tra l'una e le due Si notava indubbiamente sui marciapiedi una quantità di gente dall'aspetto stento, ma i nove decimi di quel panorama umano di miriadi di persone in movimento apparivano, sotto ogni punto di vista, prosperosi e ben nutriti, gente insomma a cui non mancava nulla. In ogni caso è stato un piacere trovarsi a Chestnut Street ieri. I venditori ambulanti sui marciapiedi («bottoni da camicia, tre per cinque centesimi») - il simpatico ometto degli zufoli - i venditori di bastoni da passeggio, giocattoli, stuzzicadenti - la vecchia accoccolata come un fagotto sulle pietre fredde dell'impiancito col suo cesto di fiammiferi, spilli e fettucce - la giovane madre negra che mendicava seduta con in braccio due piccoli gemelli color caffè - la bellezza della serra rigurgitante di fiori rari a palazzo Baldwin, presso la Dodicesima, uno sfarzo di rossi e di gialli, di gigli

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nivei e di orchidee incredibili - l'esposizione di pollame, carne e pesce di prima qualità nei ristoranti - i negozi di chincaglierie pieni di oggetti di vetro e di statuette - i succulenti frutti tropicali - gli omnibus che devono avanzare a fatica, scampanellando - i veicoli a un cavallo dell'ufficio postale, una sorta di grassi birocci, sempre di corsa e sempre stipati di postini che vanno e vengono, così sani, virili e belli a vedersi nelle loro uniformi grigie - le curiosità, i quadri, i libri costosi nelle vetrine - i poliziotti giganteschi, a ogni angolo o quasi - queste cose verranno facilmente riconosciute e ricordate come tratti caratteristici della strada principale di Filadelfia. Chestnut Street infatti, come ho scoperto, non è priva di individui e di motivi singolari, anche a paragone delle grandi «passeggiate» di altre città. Non sono mai stato in Europa, ma ho acquistato familiarità, attraverso anni di esperienza, con quella grande arteria di New York (o del mondo?) che è Brondway, e possiedo una certa conoscenza personale, da girellone, di St. Charles Street a New Orleans, di Tremont Street a Boston, oltre agli ampi trottoirs di Pennsylvania Avenne a Washington. È certamente un peccato che Chestnut Street non sia diciamo due o tre volte più ampia; ma in qualsiasi bella giornata questa strada esibisce una vivacità, un movimento, una varietà difficilmente superabili (occhi vividi, volti umani, magnetismo, donne eleganti che passeggiano su e giù - e tutte le belle cose nelle vetrine - non sono forse più o meno le medesime in tutto il mondo civile?) Come volano rapide incontro le figure! Un viso dolce, uno fiero, uno di pietra; Uno lucente di spensierato riso - L'altro coi segni di lacrime segrete. Qualche giorno fa si vide lo spazio dietro il cristallo della vetrina di uno dei magazzini d'abbigliamento a sei piani, diviso in modo da formare un recinto per bestiame in miniatura, abbondantemente cosparso di fieno e trifoglio fresco (si sentiva l'odore da fuori) su cui riposavano due splendide pecore, grasse, ben cresciute ma giovani - le più belle creature della specie che io abbia mai visto. Rimasi a lungo, con la folla, a osservarle - una ruminava distesa, l'altra, ritta, guardava fuori con gli occhi pazienti orlati di spessa lanugine. Il manto era di color fulvo chiaro con striature di un nero lucente - una scena decisamente singolare, nel bel mezzo di quell'affollato passeggio di dandy, nababbi e belle donzelle. SULLO HUDSON, VERSO LA CONTEA DI ULSTER 23 aprile. A New York per una breve visita, e partenza per un'escursione. Lascio la dimora ospitale, familiare, dei miei buoni amici, il signore e la signora J.H. Johnston - prendo il battello delle 4 pomeridiane, che risale lo Hudson per un centinaio circa di miglia. Bel tramonto e bella serata - piacevole soprattutto quell'ora dopo la fermata a Cozzen - la notte rischiarata dalla mezzaluna e da Venere che ora

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nuotava in tenera gloria e ora si celava dietro le alte rocce e le alture della sponda occidentale, cui ci tenevamo accosto (gli altri dieci giorni li trascorro nella contea di Ulster e dintorni, con frequenti scarrozzate sia al mattino che alla sera, osservazioni del fiume e brevi vagabondaggi). 24 aprile, mezzogiorno. Poco più di tanto e il sole diventerebbe opprimente. Le api tutte fuori a far raccolta di cibo sui salici e altri alberi. Le osservo mentre ritornano sfrecciando nell'aria o si posano sugli alveari, le zampe tutte gialle del dorato alimento. Un pettirosso solitario canta qui presso. Me ne sto seduto in maniche di camicia a un bovindo aperto sulla scena indolente - la lieve foschia, le colline di Fishkill in lontananza - sul fiume, al largo, un cutter con la vela maestra tutta inclinata, e due o tre barchette da pesca. Sulla ferrovia di fronte, lunghi treni merci appesantiti talvolta da serbatoi cilindrici di petrolio - trenta, quaranta, cinquanta vagoni in un'unica fila che avanzano ansimando e rombando spiegati alla vista, il suono tuttavia smorzato dalla distanza. GIORNATE DAI B., FUOCHI D'ERBE, CANTI DI PRIMAVERA 26 aprile. Allo spuntar del sole, la pura e limpida voce dell'allodola mattolina. Un'ora dopo le note rade e semplici e tuttavia deliziose, perfette, del passero delle siepi - verso mezzodì il trillo acuto del pettirosso. La giornata è tra le più belle e dolci finora - un tepore penetrante - un velo amabile nell'aria dovuto in parte a vapori di caldo, in parte ai fuochi d'erbe che chiazzano ovunque le campagne. Qui accanto un gruppo di aceri rossi silenziosamente esplode in punte di color cremisi, tra un incessante brusio di api affaccendate. Bianche vele di lance e golette scivolano su e giù per il fiume; sulla riva opposta, quasi senza interruzione, lunghe file di vagoni, con un rollìo poderoso, o un fioco scampanellare. Ecco i primissimi fiori selvatici nei boschi e sui prati, l'aromatico corbezzolo, l'erba epatica, azzurra, il fragile anemone e gli aggraziati fiorellini bianchi della sanguinaria. Mi avventuro alla loro scoperta, in lenti vagabondaggi. Mi piace, camminando lungo le strade, vedere i fuochi dei contadini, a chiazze, che bruciano la sterpaglia, l'erba, frasche; e come il fumo strisci piatto a terra, prendendo un'inclinazione di sbieco, e s'alzi poi lentamente, allontanandosi e infine perdendosi. Mi piace il suo odore acre - le folate arrivano sino a me - più gradite di un profumo francese. Di uccelli ve n'è moltissimi; di qualsiasi tipo siano, o di due o tre tipi soltanto, stranamente non se ne vede traccia, finché d'un tratto, un qualche tiepido, esuberante giorno di sole in aprile (e financo in marzo), eccoli qui! da un ramoscello all'altro, da siepe a siepe, a amoreggiare e a cantare, e quali s'accoppiano, quali preparano il nido. Ma i più sono en passant - due settimane, un mese da queste parti, e poi via. Come in ogni sua fase la Natura serba il suo ritmo vitale, copioso, eterno. Tuttavia una gran quantità di uccelli sosta da queste parti per tutta la stagione, o gran parte di essa - questo è tempo di amori, periodo di nidi. Trovo a volare sul fiume corvi, gabbiani e

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falchi; odo il grido pomeridiano di questi ultimi che sfrecciano attorno preparandosi a nidiare. Tra breve s'udrà il rigogolo, e il nasale mìu-mìu della dumetella; e poi l'uccello del paradiso, il cuculo e le bigie. Tre canti tipici della primavera risuonano continuamente - quello dell'allodola mattolina, così dolce, sveglio e risentito (quasi dicesse, «ma non vedete?» oppure, «ma non capite?») - le note gaie, piene, umane del pettirosso (sono anni che cerco un termine conciso, o un'espressione, che definisca e descriva questa voce d'uccello) - e il fischio d'amore del picchio dorato. Gl'insetti sono tutti in giro, copiosissimi, a mezzogiorno. 29 aprile. Mentre percorrevamo lentamente la strada in vettura, udimmo subito dopo il tramonto il canto del tordo. Ci fermammo senza una parola, e restammo a lungo in silenzio. Quelle note deliziose ci inondarono i sensi e l'anima - un inno dolce, senz'arte, spontaneo e semplice, che s'allargava nell'aria crepuscolare come i toni di flauto dalle canne di un organo - rimbalzando nitido sino a noi dalla base di un roccione perpendicolare dove, nei recessi di qualche fitto gruppetto di giovani alberi, doveva trovarsi l'uccello. INCONTRO CON UN EREMITA Durante uno dei miei vagabondaggi sulle colline ho scoperto un vero eremita; vive in un angolo solitario, difficile a raggiungersi, con una bella vista e un pezzetto di terra di due pertiche quadrate. È un uomo di mezza età, piuttosto giovanile, nato e cresciuto in città, è stato a scuola, ha viaggiato in Europa e in California. L'avevo già incontrato una o due volte sulla strada e ci si era salutati, scambiando solo qualche parola; poi, la terza volta, mi chiese di proseguire con lui e di fermarmi alla sua capanna (un complimento quasi senza precedenti, a quanto mi fu riferito da altri in seguito). Era d'origine quacquera, credo; parlava senza sforzo e con una certa libertà, ma senza aprirsi mai sulla sua vita, storia o tragedia che fosse. UNA CASCATA D'ACQUE NELLA CONTEA DI ULSTER Vado annotando questi pensieri al centro di uno scenario selvaggio di boschi e colline, dove siamo venuti a vedere una cascata. Non avevo mai visto abeti più belli o più fitti, parecchi assai grandi, alcuni vecchi e canuti. C'è un tale sentimento in loro, riservato e irsuto - quel ch'io chiamo morso-del-tempo e lasciatemi solo - e quel ricco tappeto di felci, rampolli di tasso e muschio, già screziato dai fiori selvatici dell'estate incipiente. Su tutto e intorno a tutto, il liquido e monotono gorgoglio della cascata, rauca, impetuosa, abbondante - le acque fulvo-verdastre, d'una trasparenza cupa, che precipitando rapide giù tra le rocce chiazzandosi di lattea schiuma - una colata d'ambra in corsa, larga trenta piedi, nata lassù tra le alture e i boschi e che ora il

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volume rende sempre più tumultuosa - un salto ogni cento pertiche, e a volte anche ogni tre o quattro. Una foresta primitiva, druidica, solitaria e selvaggia - in un anno non arriveranno quassù dieci visitatori - ovunque rocce spaccate - sopra di noi l'ombra, e sotto i piedi il folto tappeto di foglie e, appena avvertibile, un aroma selvatico e delicato insieme. WALTER DUMONT E LA SUA MEDAGLIA Passeggiando ieri lungo la strada maestra, mi fermai a osservare un uomo che a breve distanza arava un campo pietroso con una coppia di buoi. Un lavoro del genere abbonda per solito di arri! e ha!, agitazione, chiasso ininterrotto, bestemmie; ma dovetti notare quanto diverso, quanto semplice e silenzioso e tuttavia tenace, efficiente, fosse il lavoro di questo giovane aratore. Si chiamava Walter Dumont, contadino figlio di contadini, che lavoravano per conto proprio. Tre anni prima, quando il vapore Sunnyside naufragò in una pungente notte di gelo qui sulla costa occidentale, Walter si mise in mare con la sua barca - fu il primo ad accorrere - si aprì un varco nel ghiaccio fino a riva, riuscì a assicurare una corda di salvataggio, eseguì insomma un lavoro di prim'ordine per prontezza, coraggio, rischi affrontati, e salvò molte vite. Qualche settimana più tardi, mentre si trovava una sera a Esopus tra i soliti oziosi che affollano il negozio principale e l'ufficio postale, ecco arrivare al silenzioso eroe l'insospettato dono di una medaglia d'oro ufficiale. La consegna avvenne lì per li, in modo improvvisato, ma egli arrossì, esitava a prenderla, e non trovò niente da dire. VEDUTE SULLO HUDSON È stata un'idea geniale quella di costruire la ferrovia dello Hudson proprio sulla costa. A superare le difficoltà ha già pensato natura: una buona ventilazione da un lato è assicurata - e non si è d'impiccio a nessuno. Senza interruzione laggiù, notte e giorno, vedo e sento locomotive e vagoni rombare e ruggire, mandar fiamme e fumo - a meno d'un miglio di distanza, e in piena vista di giorno. A me piace sia guardare che ascoltare. Gli espressi passano come un lampo, tuonando; di treni merci (lunghissimi i più) ne passano non meno di un centinaio al giorno. Di notte vedete lontanissime le luci di testa che s'approssimano, avanzano implacabili come meteore. Il fiume di notte ha le sue bellezze particolari. I pescatori di alose escono con le loro barche e mollano le reti - uno siede avanti e rema l'altro a poppa, in piedi, le lascia filare con mano esperta - la linea viene man mano contrassegnata con minuscoli galleggianti con su dei candelotti, che scivolando sull'acqua comunicano un sentimento indescrivibile e paiono raddoppiare la luce. Anche mi piace osservare a notte i rimorchiatori con le loro luci tremule, e ascoltare il roco ansito dei vapori; o

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scovare nell'ombra le fantomatiche forme di cutter e golette, bianche, silenziose, indefinite laggiù. E poi lo Hudson nelle chiare notti di luna. Ma vi è un altro spettacolo, e il più sublime. Talvolta nel più aspro infuriare di una tempesta di vento, pioggia, grandine o neve, apparirà sul fiume una grande aquila che si innalzerà ora con volo fermo ora con gran colpi d'ala, ma sempre affrontando la burrasca, magari precipitandovisi dentro, o a volte letteralmente posandosi su di essa. È come leggere qualche sublime tragedia o epopea naturale, come ascoltare la squilla di trombe marziali. Lo splendido uccello gode del tumulto degli elementi - è in armonia con esso, da pari a pari - ne è l'estremo complemento artistico. Le penne che oscillano appena - la posizione della testa e del collo - l'irresistibile volo, con qualche diversione occasionale - qui un avvitamento, là un'impennata - le nere nuvole in corsa e, sotto, la furia dell'acqua - il sibilo della pioggia, lo strido lamentoso del vento (forse il ghiaccio in collisione che brontola) - e lei che vira o s'impunta di colpo, e adesso, come per amor del nuovo, s'abbandona al turbine, facendosene trasportare a una velocità spaventosa - ma per riprendere il controllo e tornare a attaccare, signora della situazione e della tempesta - nel cuore di essa, signora di potenza e di gioia selvaggia. Talora, a mezzo di un pomeriggio di sole (come adesso mentre scrivo) ecco il vecchio vapore Vanderbilt avanzare maestoso (odo nettamente il ritmico sciaguattio di pale delle eliche) tirandosi dietro con lunghe gomene un immenso e eterogeneo corteo («la vecchia scrofa coi maialini», dice la gente del fiume). Prima viene una gran chiatta con su una sorta di casa, e l'alberatura che torreggia al di sopra del tetto; poi i barconi del canale, legati e agganciati tra loro in un lungo convoglio, a gruppi - quello nel mezzo con un alto pennone da cui sventola una gran bandiera sgargiante - altri con le quasi immancabili filze di abiti lavati di fresco, stesi ad asciugare; due lance e una goletta affiancate al cavo di rimorchio - poco vento e contrario - e tre lunghe chiatte, nere e vuote, che chiudono la fila. C'è gente sulle imbarcazioni: uomini che oziano, donne con cappelli da sole, bambini; e tubi di stufe col loro filo di fumo. DUE AREE CITTADINE IN ORE PARTICOLARI New York, 24 maggio 1879. Forse non vi sono altri quartieri in questa città (eccomi qui di nuovo, per poco) che offrano scene umane più brillanti, animate, gremite, spettacolari, in questi bei pomeriggi di maggio dei due che ho intenzione di descrivervi sulla base di osservazioni personali. Primo: quell'area che comprende la Quattordicesima (e precisamente il breve tratto tra Broadway e la Quinta), Union Square e adiacenze, e segue ancora Broadway un mezzo miglio circa in senso opposto. I marciapiedi qui sono larghi, gli spazi ampi e liberi, e inondati adesso dal liquido oro che le ultime due ore di sole sfolgorante hanno lasciato. Nei giorni in cui l'ho osservata, alle cinque del pomeriggio, codesta area avrà contenuto forse trenta o quarantamila persone, tutte ben vestite, tutte in movimento, moltissime piacenti,

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parecchie belle donne, spesso gruppi di giovani, o di bambini con le bambinaie - i marciapiedi stipati ovunque, un vero e proprio groviglio (e tuttavia niente urti, niente confusione), con chiazze di colori vivaci, gran viavai e abiti di gusto (penso che oggi le donne vestano meglio di quanto non abbiano mai fatto, e così gli uomini). Come se New York in questi pomeriggi volesse mostrare ciò di cui è capace esibendo il suo materiale umano, le forme e le fisionomie più scelte, la sua profusione di movimento, vesti, lustro, magnetismo e felicità. Secondo: anche qui dalle 5 alle 7 del pomeriggio: tutto quel tratto della Quinta dai cancelli di Central Park (sulla Cinquantanovesima) fino alla Quattordicesima, particolarmente sulla salita della Quarantesima e giù per il pendio. Un Mississippi di cavalli e vetture di lusso, non decine né dozzine, bensì centinaia e migliaia - la grande arteria ne appare piena, gremita - una fiumana in moto, scintillante, frettolosa, per più di due miglia (mi chiedo se non si creino punti di intoppo, ma penso che non succeda mai). Questa è ai miei occhi in ogni senso la vera meraviglia di New York. Mi piace salire su uno degli omnibus della Quinta e percorrerla tutta, solcando quella rapida processione. Mi chiedo se Londra, o Parigi, o qualsiasi altra città del mondo, possa esibire un carnevale di equipaggi quale ho veduto qui già cinque o sei volte, in questi bei pomeriggi di maggio. PASSEGGIATE E CHIACCHIERE A CENTRAL PARK 16-22 maggio. Adesso quasi ogni giorno faccio la mia visitina a Central Park - me ne sto seduto, o gironzolo in lente passeggiate, o scarrozzo qua e là. In questo mese l'intero luogo mostra la sua faccia migliore - il pieno rigoglio degli alberi, il bianco e il rosa copiosi dei cespugli in fiore, il verde smeraldo dell'erba che dilaga ovunque ancora picchiettata dal giallo delle bocche-di-leone - la singolarità dei numerosi roccioni grigi, tipici di qui, che spuntano all'intorno per miglia e miglia - e su tutto, tre giorni su quattro, la pura bellezza del nostro cielo estivo. Mentre me ne sto placidamente seduto (prime ore del pomeriggio) dalla parte che guarda la Novantesima, piuttosto fuori, il poliziotto C.C., un giovane dal bel fisico e dalla carnagione dorata, si avvicina, si ferma accanto a me. Diventiamo subito amici, e di conseguenza loquaci. È newyorkese, nato e cresciuto qui; poiché glielo chiedo, mi parla della vita delle guardie addette ai parchi di New York (mentre parla tiene orecchi e occhi ben aperti, vigili, ma ogni tanto s'interrompe e si sposta in modo da abbracciare completamente con lo sguardo la strada da ambo le parti e tutt'intorno). La paga è di 2 dollari e 40 al giorno (sette giorni su sette) - arrivano qui e restano in servizio otto ore consecutive, che è la somma di lavoro loro richiesta su ventiquattro ore. Codesto lavoro presenta più rischi di quanto non si supponga - se ad esempio un cavallo o più cavalli sfuggono di mano (cosa che avviene giornalmente), ci si aspetta in tal caso non solo che la guardia stia pronta ma che, sprezzando la propria incolumità, riesca a fermare la bestia o le bestie (farlo cioè, senza pensare alla faccia o alle ossa), e dare inoltre il fischio d'allarme perché le altre guardie possano

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ripeterlo, avvertendo così le vetture che passano su e giù per i viali. Accade di continuo che gli uomini rimangano feriti. V'è in loro molta alacrità e una forza tranquilla. (Pochi apprezzano, l'ho pensato spesso, la capacità ulissica, la temerarietà, la scattante prontezza che i giovani e i lavoratori americani dimostrano nei casi di emergenza, il loro spirito pratico, la devozione spontanea e l'eroismo - i pompieri, gli impiegati delle ferrovie, gli equipaggi dei battelli a vapore e dei ferry, la polizia, i conduttori di treni e i vetturini - tutta la splendida media della gente del nostro paese, città e campagna). Tuttavia è un bel lavoro, e in fin dei conti piace ai poliziotti addetti ai parchi. Osservano la vita, e l'eccitazione li tiene su. Le difficoltà non stanno tanto, come si potrebbe pensare, nell'avere a che fare con vagabondi e teppisti, o nel tenere «lontano dall'erba» la gente. I guai peggiori, a chi lavori regolarmente in un parco, vengono da febbri malariche, raffreddori e simili. UN BEL POMERIGGIO, DALLE 4 ALLE 6 Diecimila vetture a tutta velocità per il Parco in questo pomeriggio perfetto. Che spettacolo! e io l'ho visto tutto - osservato da vicino, e con comodo. Baroccini privati, calessini e coupé, bei cavalli - cani da salotto, lacché, gente alla moda, forestieri, cappelli con coccarde, sottosella frangiati - insomma l'oceanica piena di tutta la ricchezza e l'aristocrazia di New York. Era un circo imponente e sfarzoso, interminabile, su vasta scala, che nella bellezza del giorno, sotto il limpido sole e la molle brezza, appariva pieno di movimento e di colore. Gruppi familiari, coppie, o vetture con una sola persona - ovviamente molta eleganza - molto «stile» (ma forse, anche in questa direzione, poco o nulla di pienamente giustificato). Dietro i vetri degli equipaggi più ricchi ho scorto volti quasi cadaverici, tanto apparivano esangui e svogliati. In verità, la cosa nel suo insieme metteva in scena un'America assai meno genuina, nello spirito come nei modi, di quel ch'io mi aspettassi da uno spettacolo di massa di quella scelta. Come testimonianza di ricchezza sfrenata, agi e «aristocrazia», come s'è già detto, era straordinario. Tuttavia ciò che vidi in quelle ore (e altre due volte, due pomeriggi che scelsi per gustarmi la stessa scena) viene a confermare un pensiero che mi ossessiona ogni volta che rimetto gli occhi sugli alti livelli di ricchezza e mondanità di questo paese, diffusi o eccezionali che siano - il pensiero cioè che costoro vivano in fondo a disagio, troppo consci di se stessi, ammantati di troppi sudari, e ben lontani dall'essere felici; che non esista nulla in loro che noi, gente povera e semplice, si debba invidiare - e che in luogo del perenne profumo dell'erba, dei boschi e delle rive, il loro sia un sentore di saponette e essenze, prezioso forse, ma che anche ricorda la bottega del barbiere - qualcosa ad ogni modo che nel giro di poche ore si fa rancido e stantio. Forse lo spettacolo del maneggio è stato il più grazioso. Molti cavalieri in gruppo (tre sembrava essere il numero preferito), quali in coppia, chi solo - diverse signore - spesso cavalli isolati o intere comitive che sfrecciavano al galoppo - di norma, equitazione eccellente - e poi qualche vero purosangue. Avanzando il

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pomeriggio, il numero delle carrozze cominciò a scemare, mentre quello dei cavalieri sembrava aumentare. Si trattennero a lungo - vidi delle figure aggraziate e dei bei volti. PARTENZA DEI TRANSATLANTICI 15 maggio. Gita di tre ore sulla baia questo pomeriggio, dalle 12 alle 3, per scortare il Città di Bruxelles fino allo Stretto, e accomiatarci con un cordiale «buon viaggio» da alcuni amici in partenza per l'Europa. Il nostro piccolo e focoso rimorchiatore, il Seth Low, seguiva a brevissima distanza il grosso e nero Bruxelles, affiancandolo ora da una parte ora dall'altra, ma sempre tenendosi al passo, talvolta anzi passando in testa (come il puledro purosangue che precede l'elefante reale). Fin dal primo momento la scena nel suo insieme era caratteristicamente newyorkese, animata e veloce: la gran folla di gente elegante, di bell'aspetto, all'estremità del molo (uomini e donne venuti ad accompagnare gli amici in partenza e augurar loro buon viaggio) - i fianchi della nave brulicanti di passeggeri - gruppi di marinai dal volto abbronzato, ufficiali in uniforme ai loro posti - il pacato susseguirsi degli ordini, mentre la nave leva spedita gli ormeggi e si stacca puntualissima - i volti emozionati, gli addii, i fazzoletti che sventolano, sul molo molti sorrisi e qualche lacrima - e le facce, i sorrisi e i fazzoletti che rispondono dalla nave (esiste qualcosa di più sottile e bello di questo giuoco di volti tra due folle che si rispondono - qualcosa di più toccante?) - il maestoso transatlantico che silenziosamente fende le acque della baia, lento e superbo - e noi che acceleriamo seguendola per qualche miglio affiancati, per poi virare e tornare indietro tra una babele di selvaggi urrà, saluti gridati, fischi laceranti di sirene, mani che mandano baci e fazzoletti che sventolano. Queste partenze di transatlantici, di mattina o nel pomeriggio - credo non esista medicina migliore per chi si trovi in uno stato di svogliata vaghezza. Mi piace scendere al porto il mercoledì o il sabato, i giorni dei transatlantici - osservare i bastimenti, i moli affollati, i passeggeri che sbarcano, il trambusto e il movimento generale, le facce protese e attente, le voci squillanti (una straniera che ha molto viaggiato, una musicista, mi diceva l'altro giorno che le folle americane secondo lei posseggono le più belle voci del mondo), la veduta complessiva delle grandi e belle navi nere, tutte in gruppo e con le fiancate allineate - nello scenario della nostra baia, con quel cielo azzurro di sopra. Due giorni dopo il giorno ora descritto, assistetti alla partenza del Britannic, del Donau, dell' Elvetìa e dello Schiedam, tutti alla volta dell'Europa - uno spettacolo magnifico. DUE ORE SUL «MINNESOTA»

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Dalle 7 alle 9 a bordo della nave-scuola della marina statunitense Minnesota ammarata nel North River. Verso il tramonto il capitano Luce ci mandò a prendere con la sua lancia, a un capo della Ventitreesima strada, e ci ricevette a bordo con una ospitalità da ufficiale e una cordialità da marinaio. Il Minnesota ospita diverse centinaia di giovani che vengono addestrati per equipaggiare efficientemente la marina federale. L'idea mi piace molto; ed anche mi piace, a quanto ho potuto constatare stasera, il modo in cui la cosa viene condotta su questo enorme vascello. Sotto, in plancia, erano radunati un centinaio di allievi, pronti a offrirci qualche esercizio canoro con l'accompagnamento di un melodion suonato da uno del gruppo. Cantarono con grande trasporto; ma la parte migliore restava comunque lo spettacolo offerto dai giovani stessi. Girai un poco tra loro prima che il canto avesse inizio, chiacchierando per alcuni minuti amichevolmente. Provengono da tutti gli Stati; chiesi se vi fosse nessuno del Sud, ma ne trovai solo uno, un ragazzo di Baltimora. L'età varia, sembra, dai quattordici ai diciannove-venti anni. Sono tutti americani di nascita, prima di essere ammessi devono passare un rigido controllo medico: ragazzi ben sviluppati, carne solida, occhi brillanti che vi fissano con franchezza, sani, intelligenti - non riuscireste a trovare fra loro né un fannullone né un essere servile - in ognuno v'è la promessa di un uomo. Nella mia vita mi sono trovato molte volte a riunioni pubbliche di gente giovane o anziana, in scuole e collegi; ma confesso di non essermi sentito mai così confortato, quasi soddisfatto (sia della scuola in sé che della splendida testimonianza del nostro paese, della nostra razza composita, in quei campioni-promessa delle sue capacità medie, del suo futuro) come in mezzo a quella varia rappresentanza di ogni parte degli Stati Uniti sulla nave-scuola. («Ma ci saranno uomini là?» fu la secca e pregnante risposta di Emerson a uno che gli veniva sciorinando le ricche possibilità materiali e le statistiche di una qualche regione del West o del Pacifico). 26 maggio. Di nuovo a bordo del Minnesota. Il tenente Murphy è venuto gentilmente a prelevarmi con la sua lancia. Ho goduto in modo particolare quelle brevi corse all'andata e al ritorno - i marinai abbronzati e forti, dall'aria così sveglia e esperta, che spingevano a lunghi colpi di remo la barca che ci trasportava, immergendoli con forza di fianco secondo lo stile militare. Vidi i ragazzi, divisi per compagnie esercitarsi con armi di piccolo calibro; conversai un poco con il cappellano Rawson. Alle 11 ci radunammo tutti per la colazione intorno a una lunga tavola nello spazioso quadrato degli ufficiali - io con gli altri - un pranzo in ogni senso cordiale, ospitale, abbondante - cibo copioso, e del migliore; feci conoscenza con diversi nuovi ufficiali. Questa seconda visita, con le sue osservazione, i discorsi (due o tre chiacchiere qua e là con i ragazzi), non fece che confermare le mie prime impressioni. GIORNI E NOTTI DI PIENA ESTATE

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4 agosto. Mattino - seduto all'ombra del salice (mi sono di nuovo ritirato in campagna) - in mezzo al ruscello un uccellino si tuffa e svolazza a suo gusto, così vicino che potrei toccarlo. Evidentemente non mi teme - mi prende per qualcosa che fa parte del paesaggio, le rive terrose, i cespugli in libera crescita, le erbe selvatiche. Ore 8 pom. Questi ultimi tre giorni sono stati perfetti per la stagione (quattro sere fa, pioggia copiosa con tuoni e lampi violenti). Scrivo queste note seduto presso il ruscello mentre osservo i miei due martin-pescatori nei loro giuochi vespertini. Creature gioiose, forti, belle! Le ali scintillano ai raggi inclinati del sole mentr'essi turbinano attorno, ora tuffandosi e schizzando acqua, ora svolando su e giù per il ruscello, per lunghi tratti. Dovunque io vada nei campi, lungo i sentieri, in angoli appartati, ecco sbocciare la carota selvatica con i suoi fiori bianchi, quel tocco delicato di fiocchi di neve che ne corona lo stelo esile oscillante leggiadro alla brezza. IL PALAZZO DELL'ESPOSIZIONE - IL NUOVO MUNICIPIO - GITA SUL FIUME Filadelfia, 26 agosto. La notte scorsa e stasera, cielo eccezionalmente terso, dopo due giorni di pioggia; splendore di luna e splendore di stelle. Trovandomi fuori nei pressi del grande Palazzo dell'Esposizione, nella parte occidentale di Filadelfia, e vedendolo illuminato, pensai di entrarvi. C'era un ballo, democratico ma piacevole; molte giovani coppie impegnate nel valzer e nella quadriglia e una buona orchestra d'archi. Mi abbandonai per più di un'ora a quello spettacolo e a quei suoni - a lente passeggiatine su e giù per i locali spaziosi - appartandomi talora a riposare in una poltrona, restando a lungo con lo sguardo fisso all'alto soffitto, grandioso veramente, con quei leggiadri e multiformi intrecci di ferro battuto, rette e angoli, toni di grigio, giuochi di luce e ombra che svanivano in contorni sfocati - a gustarmi, negli intervalli dell'orchestra, i superbi assolo, le volute e i capricci del grande organo dall'altra parte dell'edificio - ad adocchiare nel corridoio accanto, o più lontano, l'ombra fugace di una figura, o un gruppo, o un'occasionale coppia di innamorati. Sulla via di casa, mentre percorrevamo Market Street in una vettura aperta estiva, qualcosa ci obbligò a una sosta tra la Quindicesima e Broad Street, e io ne approfittai per scendere a osservare meglio il nuovo edificio in marmo del municipio, ormai compiuto per tre quinti, di proporzioni maestose - una scena leggiadra e solenne ai lume di luna - ogni cosa, le facciate, le miriadi di linee bianco-argento, le teste scolpite e i cornicioni, inondate dal vellutato fulgore - silenzio, magia, bellezza - ecco, ora so che una volta finita, questa splendida massa non potrà mai avere su nessun altro l'effetto che ebbe su di me durante quei quindici minuti. Da allora per tutto il resto della serata, sono rimasto lungo il fiume. Guardo la Corona Boreale a forma di C (con la stella Alshacca che anni fa, una notte, rifulse improvvisamente di allarmante splendore). La luna nella terza fase, visibile in cielo per quasi tutta la notte. E volgendomi ad est, ecco le mie Pleiadi, rimaste assenti per tanto tempo e di nuovo così gradite ai miei occhi. Per un'ora assaporo la scena vitale e

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rasserenatrice al suono delle onde che sciacquano basse - nuove stelle intanto si levano una dopo l'altra silenziosamente a oriente. Sul battello mentre attraversiamo il Delaware, un mozzo, F. R., mi racconta di una donna che non più di due ore fa si è gettata in acqua e è affogata. È accaduto a metà percorso del canale - è saltata giù dalla parte anteriore del battello, e questo le è passato sopra. Lui l'ha vista risalire dall'altra parte, nel turbinio dell'acqua, lanciare in alto le braccia e le mani serrate (mani bianche e braccia nude come un lampo alla luna) e quindi sparire. (Scoprii in seguito che questo giovane non aveva esitato a tuffarsi in acqua prontamente cercando di raggiungere a nuoto la povera creatura, e che aveva compiuto gli sforzi più coraggiosi, seppur sfortunati, per salvarla; ma, parlando, questa parte della storia non venne nemmeno accennata da lui). RONDINI SUL FIUME 3 sett. Nuvole e umido, vento che soffia verso est; non vera e propria nebbia, ma aria assai pesante d'umidità - piacevole, per cambiare. Ho notato un numero inconsueto di rondini in volo - descrivono cerchi o sfrecciano rapide a pelo dell'acqua, aggraziate oltre ogni dire. Quando il ferry era ancorato al molo, volavano fitte intorno alla prua; e quando ci staccammo, al di là delle teste di molo e del gran tratto d'acqua, potei seguirne con lo sguardo il movimento vorticoso, cappi e nastri che s'intersecavano e tagliavano a fior d'acqua. Benché io abbia visto rondini tutta la vita, mi parve di non averne mai compresa la singolare bellezza e il valore che assumono nel paesaggio. (Tempo fa, continuando a osservare per un'ora il volo di questi uccelli da una grande e vecchia rimessa di campagna, mi sovvenne il libro ventiduesimo dell'Odissea, dove Ulisse uccide i Proci portando gli eventi all'éclarcissement, mentre Atena, in veste e corpo di rondine, guizza per gli alti spazi dell'aula, si poggia su una trave e lascia cadere uno sguardo compiaciuto sulla scena della carneficina, sentendosi nel suo elemento esultante, felice). INIZIO DI UN LUNGO GIRO NEL WEST Nei tre o quattro mesi che seguirono (da sett. a dic. 1879) compii un bel viaggio nel West, arrivando fino a Denver, Colorado, e di lì penetrando nella regione delle Montagne Rocciose, quel tanto che è bastato per ricavarne una buona idea generale. Partii dalla stazione Ovest di Filadelfia una sera di metà settembre, dopo le nove, in un confortevole vagone letto. Nessun ricordo delle due o trecento miglia attraverso la Pennsylvania; il mattino seguente colazione a Pittsburg. Bella veduta della città e di Birmingham - nebbia e umido, fumo, fornaci di carbone, fiamme, case di legno stinto, gruppi enormi di chiatte per il trasporto del carbone. Adesso un poco di bel paesaggio, la Virginia occidentale, i Panhandle e, attraversato il fiume, l'Ohio.

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Una giornata in quest'ultimo Stato, poi l'Indiana - e infine il rollio mi prepara al sonno della seconda notte, mentre voliamo con la velocità della folgore attraverso l'Illinois. NEL VAGONE-LETTO Che strano, acutissimo piacere passare la notte nella mia cuccetta in questo lussuoso vagone-reggia tirato da una potente Baldwin - che ha in corpo (e riesce a trasfonderlo anche nel mio) il movimento più veloce, la forza più irresistibile! È tardi, forse mezzanotte, forse più tardi ancora - distanze ravvicinate come per magia - passiamo veloci Harrisburg, Columbus, Indianapolis. L'elemento del rischio non fa che aggiungere gusto alla cosa. E si va oltre, rombando e mandando lampi, lanciando a volte alti nitriti, o forse squilli di trombe, nel buio; oltre le case degli uomini, le fattorie, i granai, il bestiame - i silenziosi villaggi. E poi la carrozza-letto, con le tendine tirate e le luci basse - e nelle cuccette gli uomini assopiti, molte donne con i figli - mentre continuiamo a correre, a volare come fulmini nella notte - come stranamente profondo e dolce è il loro sonno! (Dicono che il francese Voltaire avesse all'epoca sua individuato nell'opera lirica e nella nave da guerra le raffigurazioni più significative della crescita dell'umanità e del progresso dell'arte oltre la barbarie primitiva. Chissà se il sagace filosofo, trovandosi qui in questo periodo, e anzi viaggiando in questo stesso vagone da New York a San Francisco, con le stesse attrezzature perfette per il cibo e per il sonno, non deciderebbe di adottare come esempio tipico uno di questi vagoni-letto americani). MISSOURI Avremmo dovuto coprire un percorso di 960 miglia da Filadelfia a St. Louis in 36 ore, ma avemmo un incidente e alcune serie avarie alla locomotiva per circa due terzi del viaggio, il che ci fece ritardare. Così, fermatomi solo per la notte, per questa volta, a St. Louis, proseguii verso ovest. Attraversando da un capo all'altro lo Stato del Missouri sulla linea St. Louis-Kansas City, Ferrovia del Nord, in una bella giornata di primo autunno, pensai di non aver mai posato lo sguardo su un paesaggio pastorale di maggior bellezza. Per più di duecento miglia un succedersi di praterie, perfette da un punto di vista agricolo agli occhi di un uomo della Pennsylvania o del New Jersey, e punteggiate qua e là di belle aree boscose. Tuttavia ammessa la bellezza della regione, questa non è la parte migliore (sotto questa zona corre uno strato di argilla e di roccia impermeabile che trattiene troppo l'acqua, «affoga la terra nella stagione umida e l'arrostisce in quella secca», mi ha detto cinicamente un agricoltore). Verso sud si hanno delle zone più ricche, per quanto forse i luoghi più pittoreschi dello Stato si trovino nelle contee nord-occidentali. Nel complesso mi appare chiaro (ora in particolar modo, anche per tutto quello che ho visto e imparato

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nel frattempo) che il Missouri, per clima, suolo, posizione, frumento, pascoli, miniere, ferrovie, e insomma per tutto ciò che abbia qualche importanza materiale, si colloca in primo piano tra gli Stati dell'Unione. Sulla situazione generale del Missouri, sia politicamente che socialmente, ho udito ogni sorta di opinioni, e anche abbastanza severe - ma per quel che mi riguarda, io mi sentirei al sicuro e a mio agio ovunque tra i missouriani. Producono tabacco in abbondanza, qui; in questo periodo si vedono grandi ammassi di foglie di un colore chiaro tra il grigio e il verde, staccate e stese ad asciugare su impalcature provvisorie o bastoni allineati. Somiglia parecchio al verbasco, così familiare a chi vive nell'Est. LAWRENCE E TOPEKA, KANSAS Pensavamo di fermarci a Kansas City, ma al nostro arrivo trovammo un treno già pronto e una folla ospitale di gente del luogo disposta a accompagnarci fino a Lawrence, verso cui proseguii. Ci vorrà del tempo prima che io riesca a dimenticare le belle giornate trascorse a L. in compagnia del giudice Usher e dei suoi figli (particolarmente John e Linton), vera gente del West e del tipo più nobile; o le giornate, simili, trascorse a Topeka; o la fraterna gentilezza dei miei amici della ferrovia, dei vari funzionari del municipio o dello Stato. Lawrence e Topeka sono centri grossi, molto attivi, semirurali, graziosi. In quest'ultimo ho compiuto due o tre lunghi giri, in una vettura tirata da un paio di cavalli focosi sulle strade levigate. LE PRATERIE (E UN DISCORSO MAI PRONUNCIATO) In occasione di un grande comizio a Topeka - forse quindici o ventimila persone, per le «nozze d'argento» dello Stato del Kansas - era stato erroneamente annunciato sui manifesti che io avrei letto una mia poesia. Dacché sembrava che vi si attribuisse parecchia importanza, e non volendo io apparire sgarbato, appuntai in fretta il discorsetto che segue. Per sfortuna (o fortuna) mi stavo talmente divertendo e riposando in compagnia dei ragazzi U., tra una chiacchierata e un buon pranzo, che lasciai scorrere le ore e non mi recai più al raduno a leggere il mio discorsetto. Ma eccolo egualmente: Amici miei, i vostri manifesti mi han messo in programma con una poesia, ma io non ho poesie - non ne ho composta nessuna per l'occasione. E posso onestamente dire che ora ne sono contento. Sotto questi cieli che risplendono nella bellezza di settembre - di fronte a un paesaggio cui voi siete usi, ma che è nuovo per me - queste sterminate, solenni praterie - nella libertà, il vigore e il sano entusiasmo che si respirano nella perfetta aria del West, in questo sole autunnale - a me sembra che una poesia sarebbe quasi un'impertinenza. Ma se proprio volete che vi dica qualcosa,

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potrei parlarvi di queste praterie: esse mi colpiscono straordinariamente tra tutti gli spettacoli naturali che vedo o ho già visto durante questa mia prima vera visita al West. Sono giunto qui volando per più di mille miglia, attraverso il bell'Ohio e l'Indiana e l'Illinois, terre del grano, e il grande Missouri, dove c'è di tutto e cresce di tutto; ho parzialmente esplorato, in questi ultimi due giorni, la vostra graziosa cittadina, e dal colle Oread, nei pressi dell'università, ho spinto lo sguardo su vaste distese di verde vivo, in ogni direzione - e ancora, ripeto, più che mai mi sono sentito colpito, e lo resterò tutta la vita, da quel tratto singolare nella topografia del vostro mondo, il Middle West, - quel grande Qualcosa che dilaga sterminato nelle sue infinite proporzioni, e che esiste in codeste praterie, qualcosa in cui si fondono reale e ideale, e bello come i sogni. Mi chiedo invero se le popolazioni di questo territorio all'interno del West sappiano quanta nobile arte essi posseggano in queste praterie e di che originalità, e tutta vostra - quanta parte di ciò che influenzerà il vostro futuro carattere, ampio, patriottico ed eroico e nuovo, sia racchiusa in esse - come esse eguaglino sulla terra la maestà e la superba monotonia dei cieli, e l'oceano con le sue acque - quale potere di liberazione serenità nutrimento esse abbiano per l'anima? E poi, per qualche sottile ragione, non sono loro che ci hanno dato i nostri moderni capi americani, Lincoln e Grant? - uomini che s'incontrano ovunque, uomini comuni - caratteri in primo luogo pratici e realistici e tuttavia (a chi abbia occhi per vedere) provvisti delle più nobili fondamenta ideali, davvero superbe. Non vediamo forse in loro preannunciate le future razze che popoleranno queste praterie? Non che gli stati «Yankee» e quelli sull'Atlantico e in ogni altra parte dell'Unione - il Texas e gli stati del Sud-Est e quelli che costeggiano il Golfo del Messico - l'impero sulla costa del Pacifico - i territori e i laghi e la linea canadese (è ancora lontano, ma verrà il giorno in cui l'intero Canadà sarà incluso) - non che tali Stati non siano in ragione eguale, integrale e indissolubile, questa Nazione, il sine qua non del Nuovo Mondo nei suoi aspetti umani, politici e commerciali. Ma quest'area centrale, privilegiata, di (più o meno) duemila miglia quadrate, mi sembra destinata a essere la culla di quelle che io definirei le idee e le realtà tipiche dell'America. IL VIAGGIO CONTINUA: DENVER. UN INCIDENTE DI FRONTIERA Il viaggio di cinque o seicento miglia da Topeka a Denver mi condusse attraverso una varietà di contrade tutte inconfondibilmente western, americane, fertili, e di proporzioni immense. Seguiamo per un lungo tratto la linea del fiume Kansas (personalmente preferisco l'antico nome, Kaw), un'estensione di terra grassa e scura, famosa per il suo grano, chiamata la Cintura d'oro - poi pianure e pianure, per ore - la contea di Ellsworth, il centro dello Stato - e qui debbo fermarmi un momento per raccontarvi una caratteristica storia dei tempi andati - la scena, esattamente il luogo dove sto passando ora - l'anno, il 1868. Durante una rissa avvenuta in un qualche

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raduno pubblico in città, un certo A. aveva sparato a un certo B., ferendolo ma senza ucciderlo. I cittadini sobri di Ellsworth si consultarono e decisero che A. meritava una punizione. Poiché desideravano dare un buon esempio e farsi una reputazione di città dedita a tutt'altro che a linciaggi, costituirono un tribunale ufficioso e vi trascinarono ambedue gli uomini per una deliberazione processuale. Come ha inizio il processo, viene introdotto il ferito a porgere testimonianza. Ma al vedere il nemico ammanettato e inerme, B. all'improvviso fa un balzo in avanti in un accesso d'ira e spara, colpendolo alla testa - a morte. La corte viene aggiornata all'istante e i membri, all'unanimità e senza una sola parola di dibattito, portano l'assassino B. fuori città, ferito com'è, e lo impiccano. Arriviamo in orario a Denver, città questa di cui mi innamoro a prima vista; e più vi rimango, più questo sentimento si consolida. Una delle giornate più piacevoli l'ho passata in gita a Leadville, raggiunta via cañon Platte. UN'ORA SULLA VETTA DEE KENOSHA Appunti dalle montagne Rocciose, vergati per lo più sulla linea del South-Park tornando da Leadville dopo una gita di un giorno, e in particolare durante quell'ora in cui ci toccò di sostare (con mia grande soddisfazione) sulla vetta del Kenosha. Avanzando il pomeriggio, nuovi vasti splendori s'accumulano in quest'aria pura, sotto il fulgido sole. Ma è meglio cominciare dall'inizio della giornata. L'apparizione del cañon Platte proprio all'alba dopo una corsa di dieci miglia in treno da Denver nell'oscurità del primissimo mattino - l'opportuna sosta all'imboccatura del cañon con una buona colazione a base di uova, trota e deliziose focacce al forno - poi, ripreso il viaggio e inoltratici nella gola, tutte le meraviglie, la bellezza, la selvaggia potenza della scena - il torrente impetuoso, sgorgato dalle nevi, che scroscia sempre in vista da un lato - il sole abbacinante e sulle rocce le luci del mattino - le svolte e gli scoscendimenti della strada ferrata che si contorce intorno alle angolature, o su e giù per i pendii - in distanza squarci di picchi montani, a centinaia, alture titaniche estese a nord e a sud - l'enorme roccia giustamente chiamata la Cupola - ed altre simili, semplici ed elefantiache, mentre passiamo in un lampo. UNA «SCOPERTA» EGOCENTRICA «Ho scoperto la legge della mia poesia»: era questo il sentimento che, senza parole ma sempre più deciso, si faceva strada in me mentre, un'ora dopo l'altra, passavo attraverso quell'inesorabile eppur gioioso abbandono degli elementi - quella pienezza di materia, totale assenza d'arte, libero giuoco di primigenia Natura - l'abisso, la gola, il torrente cristallino, solchi profondi iterati per centinaia di miglia -

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la grande duttilità e l'assoluta mancanza di rigidezza - le forme fantastiche, immerse in trasparenze brune, rosso-pallido e grigie, che torreggiano da un'altezza ora di mille ora di due o tremila piedi - qua e là sulle vette, enormi massi in bilico che si perdono tra le nuvole, visibili solo i contorni sfumati avvolti in vapori violacei. («Nei più solenni spettacoli della Natura - dice un antico scrittore olandese, un ecclesiastico - di fronte alle profondità dell'oceano, se questo fosse possibile, o di fronte agli infiniti mondi che ruotano nella notte sopra di noi, l'uomo considera tali cose e le soppesa, non in se stesse o in astratto, bensì in rapporto alla sua propria personalità, in che modo cioè esse possono influire su di lui, dare un colore al suo destino»). NUOVI SENSI, NUOVE GIOIE Seguiamo la corrente d'ambra e di bronzo che scroscia nel suo letto con frequenti cascate, schiumando bianca come neve. Passiamo il cañon in volo - montagne non solo da una parte e dall'altra, ma in apparenza, finché non ci avviciniamo, proprio di fronte a noi - a ogni metro il lampo di un paesaggio nuovo, e ogni lampo una sfida a qualsiasi descrizione - abbarbicati sui fianchi rocciosi, quasi perpendicolari, pini, cedri, abeti rossi, cespugli scarlatti di sommaco, chiazze d'erba selvatica - ma su tutto, dominatrici, quelle torri di roccia, roccia, roccia, soffuse di delicate variazioni cromatiche, e sopra ancora il limpido cielo d'autunno. Nuovi sensi, nuove gioie sembra che nascano. Dite quel che volete, ma un tipico cañon delle Rocciose, o una di quelle sterminate estensioni piatte simili a un oceano che si vedono nel Kansas o nel Colorado, viste in condizioni favorevoli, rispecchiano e forse esprimono, di certo risvegliano, tutte quelle sublimi, sottilissime emozioni elementari dell'anima umana che né sculture o templi di marmo da Fidia a Thorwaldsen, né quadri o reminiscenze o poemi, e nemmeno la musica, sanno risvegliare. FORZA-VAPORE, TELEGRAFI ETC. Durante una sosta di dieci minuti al torrente Deer, scendo per godermi l'impareggiabile combinazione di alture, roccia e bosco. Ripartiamo veloci - granito giallo nel sole, con le sue guglie e i suoi minareti naturali, i suoi turriti avamposti lassù - poi lunghe fughe di roccioni a picco, color rinoceronte e quindi arancio-resina e giallo sfumato. Tra le cose che mi danno maggior piacere, la frizzante atmosfera del Colorado, fresca ma sufficientemente mite. Ovunque segni della instancabile presenza dell'uomo e della sua attività di pioniere, dura come il volto della natura - rifugi scavati a dozzine nella roccia e abbandonati - la baracca di travi, il palo del telegrafo, il fumo di un focolare improvvisato o di un falò - a intervalli piccoli assembramenti di capanne di tronchi, o compagnie di ispettori del suolo e di

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costruttori di linee telegrafiche nelle loro comode tende. E, una volta, un ufficio sistemato sotto una tenda da cui si potevano inviare, tramite l'elettricità, messaggi in qualsiasi parte del mondo! Sì, tracce manifeste dell'uomo di questi tempi, impegnato in una temeraria lotta contro le sinistre visioni dell'antico cosmo. In diversi luoghi segherie a vapore con cataste di tavole e tronchi, e gli sbuffi dei fumaioli. Il cañon che di tanto in tanto si slarga in uno spiazzo erboso di pochi acri. Verso la fine, in uno di codesti luoghi (il treno si era fermato ed io ero sceso per sgranchirmi le gambe) guardando il cielo, o piuttosto le vette delle montagne, ecco un enorme falco, forse un'aquila (spettacolo raro da queste parti) che s'alza pigramente, si libra nell'etere sulle ali, adesso precipita fino a farsi vicinissima, poi su di nuovo, in cerchi languidi, solenni - poi alta, sempre più alta, piega verso nord, e gradualmente scompare alla vista. LA SPINA DORSALE DELL'AMERICA Prendo queste note né più né meno che dalla vetta del Kenosha, dove siamo tornati nel pomeriggio a goderci un lungo riposo - 10.000 piedi sul livello del mare. Da questa immensa altezza il South Park si stende sotto i miei occhi per cinquanta miglia. Catene e picchi montuosi disposti secondo tutte le possibili varietà della prospettiva e tutte le sfumature della panoramica, sfrangiano la vista a ogni distanza, piccola o media o anche così grande da rendere indistinte le cose - quando non si perdono sull'orizzonte. Abbiamo ormai raggiunto, penetrato anzi le Rocciose (quella che Hayden chiama Catena Frontale) per un centinaio di miglia circa; e benché codeste giogaie si diramino in tutte le direzioni, specialmente a nord e a sud, migliaia di miglia più oltre, io ho potuto ammirarne gli esemplari più eccelsi, e almeno so che cosa sono, che aspetto hanno. E anche qualcosa di più - poiché essi caratterizzano zone e aree di mezzo globo e sono in effetti la spina dorsale del nostro emisfero. Come l'uomo a detta degli anatomisti, non è che una spina dorsale fornita di una testa, due piedi, un torace e varie ramificazioni, allo stesso modo l'intero mondo occidentale è, in certo senso, non altro che una espansione di queste montagne. Nel Sud America si chiamano le Ande, nell'America centrale e nel Messico le Cordigliere; nei nostri Stati hanno nomi diversi - in California la catena della Costa e quella delle Cascate - quindi, più verso est, la Sierra Nevada - ma al di sopra di tutte, e più centrali, queste, le Montagne Rocciose propriamente dette (con varie altezze tutte al di sopra dei 14.000 piedi, come i picchi Lincoln, Grey, Harvard, Yale, Long e Pike - ad est le cime più alte degli Allegani delle Andirondacks, delle Catskill e delle Montagne Bianche variano dai 2000 ai 5500 piedi - solo il monte Washington, nell'ultima catena, tocca i 6.300 piedi). I PARCHI

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Nel cuore di tutto questo si trovano splendidi contrasti, come i bacini depressi dei parchi del Nord, del Centro e del Sud (in questo momento io mi trovo di fianco a quest'ultimo, steso sotto di me) ciascuno delle dimensioni di una di quelle ampie, livellate, quadrangolari, erbose contee del West, e ognuno cintato da un muro di alture; in ogni parco nasce un fiume. Quelli che sto indicando sono i più ampi del Colorado, ma l'intero Stato, come anche lo Wyoming, l'Utoh, il Nevada e la California occidentale, sono costellati di simili radure e spiazzi, tra le loro sierre e le loro gole, molti dei quali, i più piccoli, di paradisiaca grazia e perfezione, con i loro speroni montuosi, i loro corsi d'acqua, e un'atmosfera e delle sfumature di colore senza eguali. LINEAMENTI ARTISTICI Non venite a parlarmi di andare in Europa a visitare rovine di castelli feudali, resti di colossei o palazzi reali - quando potete venire qui. Anche la varietà che vi si offre: dopo le praterie dell'Illinois e del Kansas, più di mille miglia (le dolci e morbide terre del frumento e del granturco di dieci milioni di future campagne democratiche), ecco spuntare e mostrarsi in ogni possibile forma queste masse che nulla hanno di utilitaristico, che mettono una cappa al cielo, e da cui emanano una bellezza, un terrore e una potenza sconosciuta anche a Dante o a Michelangelo. Sì, io penso che, per essere definitivamente assimilato, il bolo alimentare non solo della poesia e della pittura ma anche dell'oratoria e persino della metafisica e della musica adeguate al Nuovo Mondo, esiga per prima cosa delle nutrienti visite in questi luoghi. Acque montane. Il carattere etereo e di contrasto spirituale dell'intera regione risiede a mio avviso, in quei corsi d'acqua così particolari di cui non è mai priva - nevi che da zone più alte, inaccessibili, si sciolgono e precipitano senza sosta per le gole. Nulla che sia paragonabile alle acque dei grandi pascoli, o ai ruscelli dalle sponde fitte di boschi e d'erbe, o a qualsiasi altra cosa del genere in altri luoghi. Le forme che codesto elemento assume nei vari paesaggi del globo non saranno mai comprese appieno dall'artista che non abbia studiato questi straordinari ruscelletti. Effetti di cielo. Ma forse, guardandomi attorno, lo spettacolo più prezioso sta nelle sfumature dell'atmosfera. Le praterie - attraversandole in viaggio - e codesti monti e parchi sembrano rivelare nuove luci e nuove ombre. Inimitabili, ovunque, le gradazioni dell'erba e gli effetti del cielo - in nessun altro luogo mai spettacoli come questi, lilla e grigi d'una simile trasparenza. Mi viene spontaneo pensare a qualche eccellente pittore di paesaggi, qualche buon colorista che dopo aver lavorato per un poco da queste parti a schizzi e abbozzi, disdegni ogni sua precedente opera (quelle che fanno la delizia degli amatori delle mostre d'arte tradizionali) come torbida, rozza e artificiosa. Un'infinita varietà si dispiega sotto i vostri occhi: lassù, oltre la linea dei boschi, un nudo colore nocciola-pallido; qua e là in distanza chiazze di neve, in qualsiasi periodo dell'anno (ma non alberi né fiori né uccelli a quelle gelide altezze).

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Mentre scrivo distinguo nella nebbia azzurrina la Catena Nevosa, bella e remota, le sue chiazze di neve chiaramente visibili. IMPRESSIONI DI DENVER Nella protratta luce crepuscolare della più splendida delle sere, facemmo ritorno a Denver: vi rimasi per diversi giorni, dedicandomi a tutt'agio alle mie esplorazioni e annotando impressioni di cui penso di servirmi per tagliare un poco questi appunti, elencando cioè semplicemente ciò che vidi. La cosa migliore erano gli uomini, i tre quarti grandi, pratici, calmi, pronti, americani. E il denaro! poiché qui davvero lo fabbricano. Fuori, nelle fonderie (le più grandi e più perfezionate del mondo per i metalli preziosi) ho visto lunghe file di tini e vaschette coperti di gorgoliante acqua in ebollizione e pieni di argento liquido, quattro o cinque pollici, ogni tino del valore di svariate migliaia di dollari. Il sovrintendente che mi stava guidando nella visita prese a rimestarlo con una paletta di legno, con noncuranza, come si rimesterebbero dei fagioli. Poi grossi lingotti d'argento, ciascuno del valore di 2.000 dollari, e accastati in gruppi di venti, decine e decine di gruppi. In un campo di minatori sulle montagne avevo visto, pochi giorni prima, mucchi di verghe d'argento grezzo per terra, all'aperto, simili a quelle piramidi che i pasticceri dispongono sui tavoli dei pranzi chic a New York (una tale leccornia per uno scrittore povero come me, che vien voglia d'intingerci la penna - e questo par proprio il momento giusto perché la produzione d'argento del Colorado e dell'Utah, insieme alla produzione aurea di California, Nuovo Messico, Nevada e Dakota, apporta alla produzione monetaria mondiale un contributo notevolmente superiore ai cento milioni). Città, questa Denver, disposta assai bene - particolarmente belle Laramie Street, la 15ma, la 16ma e Champa Street, e altre ancora - qua e là enormi magazzini in pietra e acciaio con vetrine di cristallo - ogni strada fornita di cunette dove corre acqua montana - molta gente, «affari», modernità - e tuttavia non senza un certo sapore selvatico, tutto suo. Posto di cavalli da corsa (molte giumente coi loro puledri) - e ho veduto anche molti e grossi levrieri per la caccia all'antilope. Qua e là gruppi di minatori, chi arriva chi parte, assai pittoreschi. Uno dei giornali locali ha voluto un'intervista, e mi ha attribuito poi queste parole, come lasciate cadere per caso: «Ho visitato e ho vissuto in tutte le grandi città di quel terzo della Repubblica che dà sull'Atlantico - Boston, Brooklyn con le sue alture, New Orleans, Baltimora, la solenne Washington, la grande Filadelfia, le popolose Cincinnati e Chicago - e per trent'anni in quella meraviglia bagnata da maree tumultuose e scintillanti, la mia New York, la city del Nuovo Mondo, anzi del mondo intero - e tuttavia a Denver, e facendomi irrorare dalle sue cariche di ozono atmosferico e umano per tre o quattro giorni soltanto, mi sento ora come chi, incontrando certe persone, prova subito verso di loro un caldo trasporto, e non riesce a capire perché. Neanch'io saprei dire perché, ma arrivato in città nella sottile foschia

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di un tardo pomeriggio di settembre, dopo averne respirato l'aria, aver dormito bene la notte e vagabondato a mio piacere a piedi o in vettura guardando la gente che arriva e che parte dagli alberghi, e assorbendo il magnetismo climatico di questa regione stranamente affascinante, ho sentito crescere continuamente in me un sentimento di affetto per questo luogo, il quale, nonostante la sua subitaneità, si è fatto così definito e forte che sento di doverlo registrare». E tanto basti circa il mio sentimento per questa città regina di pianure e di vette, tra le quali essa si stende in quella sua atmosfera deliziosa e rara, a più di 5.000 piedi sul livello del mare, irrigata da acque montane - un lato, ad est, che guarda sulle praterie per forse mille miglia - e dall'altro lato, a ovest, sempre in vista di giorno nel loro drappeggio di foschia violetta, innumerevoli cime di monti. Sì, veramente mi sono innamorato di Denver, e ho sentito persino il desiderio di venire a trascorrere qui i giorni del mio declino, fino alla morte. VERSO SUD - POI DI NUOVO A EST Lasciata Denver alle 8 del mattino sulla linea «Rio Grande», direzione sud. Sempre montagne in vista, a una distanza che appare stranamente ravvicinata, come in un lieve velo, ma pur nitide e solenni - le forme coniche, i colori, i pendii stagliati contro il cielo - centinaia, e sembravano migliaia, interminabili collane di monti, cime e pendii ravvolti in quella foschia grigiazzurra, più o meno lieve, per più di cento miglia sotto il sole d'autunno - la visione più spirituale della natura oggettiva che io abbia mai goduto, o financo creduto pensabile. A tratti la luce s'avviva, creando contrasti di sfumature giallo-argento da una parte contro un grigio ombrato e cupo dall'altra. Ho osservato a lungo Pike's Peak, rimanendone un poco deluso (forse mi aspettavo qualcosa di sbalorditivo). Sulla sinistra il nostro sguardo spazia sulle praterie; qua e là recinti per il bestiame, ovunque cactus e salvia dei campi, mandrie al pascolo. E così per circa 120 miglia, fino a Pueblo. In quest'ultima città ci imbarchiamo sul comodo e ben attrezzato treno della linea di Atchison-Topeka-Santa Fè, dirigendoci a est. DESIDERI INCOMPIUTI. IL FIUME ARKANSAS Avrei voluto raggiungere la regione del fiume Yellowstone - vedere soprattutto il Parco Nazionale, i geyser e la zona degli hoodoo o folletti maligni, nello stesso territorio; in realtà cominciai a avere qualche dubbio a Pueblo, dove era la biforcazione - volevo valicare il passo Veta - volevo proseguire sulla linea di Santa Fè spingendomi a sud verso il Nuovo Messico - ma finii per indirizzarmi a est, lasciandomi alle spalle provocanti visioni del Colorado sud-orientale, Pueblo, il monte Calvo, i picchi della catena Spagnola Sangre de Christos, la curva «Mile-shoe»

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(che era, a detta del mio amico veterano della locomotiva, «la signora delle curve ferroviarie dell'universo»), il forte Garland tra le pianure, il passo Veta e i tre picchi della Sierra Blancas. Il fiume Arkansas ha un ruolo piuttosto importante nel complesso di questa regione - ora lo vedo, ora ne seguo con gli occhi la sponda nord, alta e rocciosa, tagliata a picco, per miglia e miglia; lo attraverso e riattraverso molte volte mentre si avvolge e contorce come un serpe. Le pianure esibiscono qui una varietà anche maggiore del solito - talora una distesa sterile che s'allunga per decine e decine di miglia - poi terra verde, fertile e erbosa, di simile vastità. Qua e là immensi greggi (a scrivere di queste pianure si sente la necessità di parole nuove - i termini lontano, grande, vasto e simili, sono insufficienti). UN PICCOLO ACCOMPAGNATORE SILENZIOSO: LA COREOSSIDE Qui occorrerà dedicare qualche parola a un minuscolo accompagnatore, sempre presente, anche adesso, ai miei occhi. Da Barnegat fino Pike's Peak, per tutta la durata del viaggio, sono stato seguito da un simpatico amico floreale, o meglio da milioni di codesti amici - null'altro che un tenace fiorellino selvatico a cinque petali, giallo, caratteristico dei mesi di settembre e ottobre, che penso cresca ovunque negli Stati del centro e del nord. Lo avevo notato sullo Hudson e a Long Island, lungo le rive del Delaware e qua e là nel New Jersey (anni fa anche nel Connecticut, e un autunno presso il lago Champlain). Durante questa gita mi ha seguito regolarmente, con quello stelo sottile e quei bocci dorati, da Cape May alla valle del Kaw, e poi lungo i cañons fino a queste pianure. Nel Missouri ne ho veduto prati immensi, sfolgoranti. All'incirca nella parte ovest dell'Illinois, quando mi svegliai la mattina in treno, nella mia cuccetta, la prima cosa che vidi scostando le tendine e guardando fuori fu il suo viso aggraziato, il collo reclino. 25 sett. Mattina presto - andiamo ancora a est dopo aver lasciato Sterling, Kansas, dove ho sostato per un giorno e una notte. Il sole è su da circa mezz'ora: non può esservi nulla di più fresco e più bello di quest'ora in questa regione. Vedo un bel campo dei miei fiori gialli in pieno rigoglio. A intervalli, mentre passiamo veloci, gruppetti di graziose case a due piani, come puntolini. Sull'immensa distesa piatta come un pavimento, visibile per un raggio di venti miglia in ogni direzione nell'aria pulita, domina l'autunnale monotonia di un'erba rosso-fulva - biche di fieno e recinti per bestie spezzano il paesaggio - frotte di galline selvatiche trasaliscono quando passiamo rombando. Bel paesaggio tra Sterling e Florence (a S., andato a salutare E. L. mio vecchio-giovane amico soldato dei tempi di guerra, e sua moglie e suo figlio). LE PRATERIE E LE GRANDI PIANURE IN POESIA

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(dopo aver viaggiato per l'Illinois, il Missouri, il Kansas e il Colorado) Per quanto meraviglioso sia immaginare già nato colui che vedrà codeste praterie, le grandi pianure e la vallata del Mississippi, abitate forse da cento milioni di persone, la più prospera e progredita popolazione del mondo, non posso fare a meno di pensare che ancora più meraviglioso sarebbe vedere queste impareggiabili regioni d'America fuse tutte nell'alambicco di un poema perfetto, o altra opera estetica compiutamente western, fresca e libera - assolutamente nostra, senza la minima traccia o sapore di suolo, ricordi, realtà, tecnica o spirito europei. I miei giorni e le mie notti, viaggiando qui - che cosa esilarante! - e non l'aria soltanto, o il senso di vastità, ma ogni paesaggio, ogni caratteristica locale. Ovunque qualcosa di tipico - i cactus, i garofani, l'erba dei bufali, la salvia selvatica - la prospettiva che recede, l'ampio circolo dell'orizzonte a qualsiasi ora del giorno, specialmente al mattino - questo trasparente, puro, fresco, rarefatto nutrimento dei polmoni, sconosciuto prima - le chiazze nere e le striature lasciate da conflagrazioni di superficie - il solco profondo del «parafuoco»- la linea inclinata dei parapetti costruiti lungo tutta la strada ferrata per proteggerla dalla neve che s'accumula d'inverno - i cani delle praterie e i branchi d'antilopi - gli strani «fiumi asciutti» - di tanto in tanto un rifugio scavato nel terreno o un recinto - il forte Riley e il forte Wallace - e quelle cittadine delle piane del nord come navi sul mare, Coda d'aquila, Coyote, Cheyenne, Agate, Monotony, Kit Carson - e sempre i formicai e i pantani frequentati dai bufali - sempre le mandrie di bovini e i cow-boys («spunzonatori di vacche»), una classe per me stranamente interessante, occhi vivi di falco, carnagioni abbronzate, cappelli a larghe tese - a quanto pare sempre a cavallo, con le braccia abbandonate, sollevate un pochino, che oscillano mentre essi cavalcano. LA CATENA SPAGNOLA. SERA SULLE PIANURE Tra Pueblo e il Forte Bent, verso sud, in un momento di sole di un sereno pomeriggio, riesco a cogliere delle fuggevoli ma ottime vedute della Catena Spagnola. Ci troviamo nel sud-est del Colorado - oltrepassiamo immense mandrie di bestiame, la nostra superba locomotiva ci trascina via volando - attraversiamo due o tre volte il fiume Arkansas, che seguiamo per molte miglia e di cui mi si offrono belle vedute - talora, per un lungo tratto, le sue sponde pietrose, a piombo, non molto alte, allineate - poi le sue spianate di fango. Passiamo Forte Lyon - molte case di cotto - pascoli sterminati, convenientemente punteggiati qua e là da quelle grandi mandrie - puntuale, il sole cala a occidente - un cielo d'un limpido colore di perla sopra ogni cosa, e poi la sera sulle grandi pianure. Un paesaggio quieto, pensoso, sconfinato - i roccioni perpendicolari dell'Arkansas, a nord, velati nel crepuscolo - una sottile linea violacea sull'orizzonte a sud-ovest - la palpabile freschezza dell'aria, il lieve aroma - un cow-boy attardatosi dietro qualche capo ribelle della sua mandria - un carro di

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emigranti che avanza a fatica, i cavalli lenti e stanchi - due uomini, forse padre e figlio, seguono a piedi, a rilento, - e soffusi su tutto, l'indescrivibile chiaroscuro e il sentimento (più profondo di quello che v'ispira il mare) che percorre da una parte all'altra queste infinite regioni selvagge. IL VERO PAESAGGIO AMERICANO Se vogliamo parlare in senso lato della capacità e dell'indubitabile futuro destino di quest'area di pianure e praterie (più vasta invero di qualsiasi regno europeo), essa ci appare come l'inesauribile terra del grano e del mais, della lana, del lino, del carbone e dell'acciaio, della carne di bue e di porco, di burro e formaggi, mele e uova - la terra di dieci milioni di poderi vergini (a vederla, adesso, selvaggia e improduttiva; ma gli esperti dicono che, una volta irrigata, può crescervi tanto grano da nutrire il mondo intero). Quanto al paesaggio (propongo qui il mio pensiero e il mio sentire) benché sappia quel che si sostiene comunemente, e cioè che gli scenari naturali più splendidi sono offerti dallo Yosemite, dalle cascate del Niagara, dallo Yellowstone superiore e simili, mi chiedo se in fondo le Praterie e le grandi Pianure, pur se a prima vista colpiscano meno, non siano più durature, non soddisfino maggiormente il senso estetico, non eccellano su tutto il resto e non costituiscano il tipico paesaggio del Nord America. E infatti di tutto il viaggio, nonostante la gran varietà di spettacoli, la cosa che più mi ha colpito e che più a lungo rimarrà in me sono proprio codeste medesime praterie. Giorno per giorno, una notte dopo l'altra, si sono dispiegate ai miei occhi, a tutti i miei sensi - ma - soprattutto a quello estetico - generosamente, in silenzio. Persino la più semplice statistica che le concerne sembra straordinaria. IL FIUME PIU' IMPORTANTE DEL MONDO. La valle del fiume Mississippi con i suoi tributari (codesto corso d'acqua con le sue diramazioni copre gran parte dell'argomento) abbraccia più di un milione e duecentomila miglia quadrate, in massima parte praterie. È di gran lunga il fiume più importante del globo, e lo si direbbe pianificato a vederlo correre lento da nord a sud attraverso una dozzina di climi diversi tutti sani e favorevoli all'insediamento umano, con la foce che si mantiene tutto l'anno sgombra di ghiacci, e il corso che costituisce un'arteria di commercio e di traffico sicura e poco costosa, dalla zona temperata settentrionale a quella torrida. Nemmeno l'imponente Rio delle Amazzoni (pur se di volume maggiore) con un corso che va da ovest a est, né il Nilo in Africa o il Danubio in Europa o i tre grandi fiumi della Cina possono paragonarsi al Mississippi. Solo il mar Mediterraneo ha avuto nel passato un ruolo storico commisurabile a quello che il Mississippi è destinato ad avere in futuro. Tramite le regioni del suo

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bacino, irrigate e saldate insieme dai rami secondari (il Missouri, l'Ohio, l'Arkansas, il fiume Rosso, il Yazoo, il St. Francis e altri) esso già amalgama venticinque milioni di uomini, non soltanto dei più pacifici e produttivi, ma anche dei più irrequieti e bellicosi della terra. La sua vallata, o bacino, sta rapidamente concentrando il potere politico dell'Unione - si penserebbe quasi che essa sia l'Unione - o che lo sarà tra non molto. Provate a eliminarla, insieme alle sue diramazioni - che cosa rimarrebbe? Dai finestrini del treno, passando per l'Indiana, l'Illinois, il Missouri, o fermandosi un giorno qua uno là lungo la linea Topeka-Santa Fè, nel Kansas meridionale, e in verità dovunque io sia andato in questa regione, per centinaia e migliaia di miglia, i miei occhi sono stati rallegrati da distese primitive e fertili, alcune già parzialmente popolate, ma nel complesso di gran lunga, immensamente più integre e intatte (e per gran tratti più belle e feconde, nella loro mai solcata innocenza) che non i costosi e bei campi delle più ricche campagne dello Stato di New York, della Pennsylvania. del Maryland o della Virginia. LA PRATERIA: ANALOGIE. LA QUESTIONE DEI BOSCHI. Il termine prairie è francese, e significa letteralmente prateria. Le analogie cosmiche delle pianure della nostra America del Nord sono le steppe dell'Asia, le pampas e gli llanos del Sud America. Certuni ritengono che in origine le praterie fossero alvei lacustri; altri attribuiscono l'assenza di foreste agli incendi che annualmente vi divampano (causa, secondo la credenza popolare, dell'estate di San Martino). La questione dei boschi ben presto si farà seria. Pur se la costa atlantica, la regione delle Rocciose e la zona meridionale della valle del Mississippi sono ricche di boschi, esistono estensioni di centinaia e migliaia di miglia dove o non cresce albero o spesso ha prevalso una inutile distruzione; e la questione della coltura delle foreste e del rimboschimento dovrebbe a questo punto imporsi a quei pensatori che guardano alle generazioni avvenire degli Stati delle praterie. LETTERATURA DELLA VALLE DEL MISSISSIPPI Un giorno di pioggia, nel Missouri, me ne stavo sdraiato a riposare dopo una lunga escursione - sfogliai dapprima un grosso volume trovato lì, Milton, Young, Gray, Beattie e Collins, ma ci rinunciai alla fine - pur godendo per un poco, come tante altre volte, la lettura del Lamento dell'ultimo menestrello e del Marmion di Walter Scott, eccetera - interruppi, misi da parte il libro, e presi a considerare l'idea di una poesia che a tempo debito venisse a esprimere e a servire la feconda regione al centro della quale io mi trovavo, e di cui ho dato fuggevoli cenni. È sufficiente un solo attimo di concentrazione, ovunque ci si trovi negli Stati Uniti, per vedere con chiarezza come tutti i poeti più pubblicati e più diffusi nelle biblioteche oggigiorno,

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vuoi importati dalla Gran Bretagna vuoi copiati e scimmiottati qui, siano estranei ai nostri Stati pur se vengono letti copiosamente da noi tutti. Ma per poter comprendere appieno come molte di quelle pagine siano non solo assolutamente in opposizione ai nostri tempi e alle nostre terre, ma anche limitate e rattrappite, e quali anacronismi e assurdità esse rappresentino rispetto ai fini dell'America, occorre dimorare o viaggiare per alcun tempo nel Missouri, nel Kansas o nel Colorado, e stabilire un rapporto con la gente e la natura di quei luoghi. Verrà mai il giorno - per quanto lontano nel tempo - in cui quei modelli e quei manichini che ci arrivano dalle Isole Britanniche - e anche le preziose tradizioni dei classici - saranno solo reminiscenze, meri oggetti di studio? L'aria pura, la primitività, l'ampiezza e la prodigalità senza limiti, la strana mistione di delicatezza, continenza e forza, di reale e ideale, e di tutti i nobili e originali elementi di codeste praterie, delle Montagne Rocciose e del Mississippi e del Missouri - appariranno mai nella nostra poesia e nella nostra arte a costruirne in qualche modo un modello? (talora penso che l'ambizione del mio amico Joaquin Miller di immettere tali elementi nella sua arte e illustrarli, basti da sola a staccarlo dalla gran massa). Non molto tempo fa mi trovavo in battello nella baia di New York, e contemplavo il tramonto dietro le lontane alture verde cupo di Navesink, spaziando con lo sguardo su quella inimitabile distesa di coste e imbarcazioni e mare, intorno a Sandy Point. Poi un intervallo di una settimana o due; ed ecco sotto i miei occhi gli sfumati contorni della Catena Spagnola. Nelle duemila e più miglia che intercorrono tra questi due punti, seppur di una varietà paradossale, infinita, è certamente in atto una fusione strana e totale che va gradualmente temperando, cementando e integrando ogni cosa. Ma ai fini di una tale cementazione) fattore assai più sottile, più vasto e più solido che non le leggi degli Stati o la base comune del Congresso e della Corte Suprema, o la tetra saldatura delle nostre guerre nazionali, o i giunti d'acciaio delle ferrovie, e insomma di tutti i progressi di fusione e d'impasto della nostra storia materiale e economica passata e odierna, sarebbe a mio avviso una grande opera della fantasia, o complesso di opere, o letteratura, palpitante e viva, nell'edificazione della quale le Pianure, le Praterie e il fiume Mississippi con l'ampio e variegato dominio della sua vallata, costituissero lo sfondo concreto da una parte - e dall'altra, l'umanità, le passioni, le lotte e le speranze d'America qui e adesso (quell'éclaircissement già in atto, sulla scena del Nuovo Mondo, di tutto il dramma di guerre, avventure e evoluzioni ordito sinora dal Tempo) fornissero il sottile fuoco dell'ideale. REPORTAGE DI UN INTERVISTATORE 17 ott. '79. Uno dei giornali di St. Louis riporta oggi alcune mie notazioni estemporanee sulla letteratura americana, e in particolare del West, in questi termini: «Siamo andati ieri a trovare il signor Whitman, e dopo una conversazione in certo senso frammentaria gli abbiamo chiesto a bruciapelo: Lei ritiene che avremo una letteratura veramente americana? A me sembra - egli rispose - che il nostro compito

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oggi consista nel gettare le fondamenta di un paese grande nella produzione, nell'agricoltura, nel commercio, nelle vie di comunicazione e in tutto ciò che ha rapporto con il benessere di masse enormi di uomini e famiglie, inclusa la libertà di parola, l'organizzazione ecclesiastica ecc. Queste cose noi le abbiamo già fondate, e le stiamo anzi sviluppando su una scala più grande che non sia mai stato fatto sino ad oggi, e l'Ohio, l'Illinois, l'Indiana, il Missouri, il Kansas e il Colorado mi appaiono come la culla e il fecondo terreno proprio di tali fatti e idee. Ci si dovrà preoccupare anzitutto della prosperità materiale in tutte le sue varie forme, insieme a quegli altri fattori che ho menzionato, comunicazioni e libertà. Una volta che queste cose abbiano dato i loro frutti e si siano fatte stabili, allora una letteratura degna di noi comincerà a prender volto e forma. La superiorità e la vitalità dell'America si trovano nella massa del popolo, e non nelle classi elevate come avveniva nel vecchio mondo. La grandezza del nostro esercito durante la guerra di secessione si è rivelata nella semplice truppa, e lo stesso avviene per la nazione. La vitalità di altri paesi risiede in una cerchia ristretta, una classe, ma la nostra risiede nella massa del popolo. Gli uomini che ci guidano non hanno molta importanza, non l'hanno mai avuta, ma la media della nostra gente ha un valore immenso, che va oltre la storia. Penso sovente che sarà questa la via, in tutti i settori, incluse letteratura e arte, per la quale si manifesterà la nostra superiorità. Non avremo grandi figure né grandi leader, ma la media sarà grande, di una grandezza senza precedenti». LE DONNE DEL WEST Kansas City. Ciò che vedo in fatto di donne nelle città di prateria non mi soddisfa molto. Sto scrivendo queste righe seduto oziosamente in un negozio di Main Street a Kansas City; sui marciapiedi passano fiumi di gente. Le signore (la stessa cosa a Denver) sono tutte vestite alla moda, hanno nel volto, nei modi e nei gesti l'aria della «distinzione»; e tuttavia non hanno, sia nel fisico sia nella mentalità adatta a loro, alcun segno di nobile e innata originalità di spirito o di corpo (che gli uomini invece certamente posseggono, e adatta a loro). Sono «intellettuali» e alla moda, ma dall'aria dispeptica e in genere bamboleggiante; unica loro ambizione è, evidentemente, scimmiottare le sorelle della costa atlantica. Per bilanciare e completare la superba mascolinità del West, e per mantenerla e perpetuarla, dovrebbe comparire qualcosa di molto diverso, e che precorresse i tempi. IL GENERALE SILENZIOSO 28 sett. '79. Dunque il generale Grant, dopo aver fatto il giro del mondo, è ritornato a casa - sbarcato ieri a San Francisco dalla nave Città di Tokio, proveniente dal Giappone. Che uomo è, e che storia la sua! e che illustrazione, la sua vita, delle

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capacità di quella natura individuale americana comune a noi tutti. Certi critici scettici si chiedono, «che cosa mai ci trovi, la gente, in Grant» per farne tanto chiasso; dichiarano (cosa indubbia peraltro) che egli arriva a malapena al livello medio di cultura letteraria e scolastica dei nostri giorni, che è totalmente privo di spiccata genialità e di qualsiasi sorta di eccellenza tradizionale. Giusto: ma egli sta a provare che un agricoltore medio del West, un operaio, un barcaiolo, trascinato dal flusso e forse dai capricci delle circostanze fino a una posizione di incredibili responsabilità militari e civili (certo la storia non ne ha mai presentato di più ardue neppure a chi era nato re, né ha mai fornito bersaglio più facile all'invidia e agli attacchi) può riuscire a destreggiarsi bene e continuare a portare avanti il paese e se stesso con autorità anno per anno - comandare più di un milione di uomini - combattere più di cinquanta battaglie campali - dirigere per otto anni un paese più vasto di tutti i regni d'Europa messi insieme - e infine ritirarsi silenziosamente (col suo sigaro in bocca) e farsi una passeggiatina per il globo tra corti e consorterie, re, zar e mikado, tra lo sfarzo e i cerimoniali più splendidi, con la medesima flemma con cui avrebbe passeggiato dopo il pranzo sotto il portico di un albergo del Missouri. Questo, dico io, è quel che piace alla gente - a me sicuramente piace - direi che trascende Plutarco. Come avrebbe incantato quegli antichi greci! Un uomo semplice, non altro - niente arte, niente poesia - solo senso pratico, e capacità di eseguire, o fare del suo meglio per eseguire, i compiti che il destino gli assegnava. Un normale commerciante dedito agli affari, conciatore, agricoltore dell'Illinois - poi generale della repubblica durante la terribile lotta intestina, la guerra di tentata secessione - quindi presidente (compito di pace, più difficile della stessa guerra) - nulla di eroico, secondo le fonti ben informate - e tuttavia il più grande degli eroi. Gli dèi, i fati, sembrano essersi concentrati su di lui. I DISCORSI DEL PRESIDENTE HAYES 30 sett. Il presidente Hayes dunque se n'è venuto nel West, spostandosi senza quasi farsi notare da un punto all'altro, in compagnia della moglie e con un piccolo seguito di alti ufficiali, applaudito ovunque, e facendo un discorso al popolo ogni giorno, talvolta anche due volte al giorno. A codeste allocuzioni - tutte improvvisate, qualcuno direbbe anzi non destinate a durare - vorrei dedicare qualche nota. Sono abili discorsi a tu per tu, bonari, su argomenti facili e non troppo profondi; ma a me danno un'idea nuova dell'oratoria - di una diversa e tempestiva teoria e pratica di quell'arte, assai mutata rispetto alle regole classiche e adattata ai nostri tempi, alle nostre occasioni, alla democrazia americana e alle popolazioni che affollano il West. Ho sentito criticare questi discorsi come privi di dignità; per me sono esattamente quello che devono essere, se consideriamo le circostanze e da chi vengono e a chi sono rivolti. Sotto, vi sono le mète di Hayes - consolidare in fraterna unione gli Stati, incoraggiarne lo sviluppo materiale e industriale, moderarne e a un tempo espanderne

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l'equilibrio individuale vincolando il tutto e i singoli con gli irresistibili e duplici legami non solo degli scambi commerciali, ma anche del cameratismo umano. Da Kansas City proseguii per St. Louis dove mi trattenni per circa tre mesi insieme a mio fratello T.J.W. e alle mie care nipotine. NOTE SU ST. LOUIS Ott, nov., dic., '79. Le risorse di St. Louis sono la sua posizione, la sua incontestabile ricchezza (un lungo accumularsi nel tempo di commerci, patrimoni solidi - una media probabilmente più alta che in qualsiasi altra città), la vastità senza pari del paesaggio circostante, pianori grandi e ben disposti, pronti per l'espansione futura - e il grande Stato di cui essa è il cuore. St. Louis combina a livello di perfezione qualità del Nord e del Sud, qualità indigene e anche forestiere, forse; riunisce in un sol punto i corsi del Mississippi e del Missouri, e la sua elettricità tutta americana ben si accompagna alla sua flemma tedesca. La Quarta, la Quinta e la Terza sono strade di negozi, vistose, moderne, metropolitane, con folle frettolose, veicoli, omnibus, un gran vociare, gente dappertutto, merci costose, vetrine di cristallo, facciate a struttura metallica spesso di cinque o sei piani. A St. Louis potete comprare qualsiasi cosa (come in tutte le grosse città del West, quanto a questo) con la stessa facilità e convenienza che sui mercato dell'Atlantico. Girando per la città, vi capiterà di vedere cose che vi ricordano una civiltà più vecchia e forse decaduta. In alcune località del West l'acqua non è buona, ma qui suppliscono con gran copia di ottimo vino e con inesauribili quantità della migliore birra del mondo. Ci sono qui immensi mattatoi di bovini e suini; e ho veduto con i miei occhi greggi di pecore di 5.000 capi (a Kansas City avevo precedentemente visitato uno stabilimento dove vengono uccisi e inscatolati 2.500 suini in media al giorno, dal primo all'ultimo giorno dell'anno, per l'esportazione; un altro a Atchison, Kansas, delle stesse proporzioni; e altri ancora, quasi uguali, in altri luoghi. E quelli di qua altrettanto grandi). NOTTI SUL MISSISSIPPI 29, 30, 31 ott. Una meraviglia, con la luna piena di settembre, argentea e abbagliante. Ogni notte negli ultimi tempi ho preso ad andare al fiume, a godermi il ponte al lume della luna. E in verità è una costruzione d'una bellezza e perfezione insuperabili, ed io non me ne stanco mai. Il fiume adesso è molto basso; ne notavo oggi il colore, un azzurro più limpido del solito. Odo lo sciabordio dell'acqua appena increspata, l'aria è fresca e frizzante, e il paesaggio straordinariamente nitido in ogni direzione, alla luce lunare. Si sta facendo tardi e sono ancora fuori: è così affascinante, favoloso, qui. L'aria pungente della notte, e i vari influssi, e il silenzio,

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con quelle eterne remotissime stelle, mi fanno bene. Sono stato piuttosto male recentemente. Ed ecco, quasi al centro del territorio nazionale, queste belle visioni notturne del Mississippi. SULLA NOSTRA TERRA «Dopo cena fate sempre una passeggiata di un mezzo miglio», dice un vecchio proverbio, aggiungendo acutamente: «e se possibile, che sia sulla vostra terra». Io mi chiedo se esista altro paese che offra più opportunità del nostro per una passeggiata di questo genere - o se altre epoche l'abbiano mai offerta. Nessuno, mi par di scoprire, può neanche cominciare a conoscere la realtà geografica e democratica della indissolubile Unione americana di oggi, né a sospettare come sarà in futuro, finché non esplori questi Stati dal Centro e non si soffermi per qualche poco, con spirito di osservazione, sulle praterie o tra le città industriose o presso il possente padre delle acque. Una corsa di due o tremila miglia «sulla propria terra», senza interruzioni, sarebbe impossibile in qualsiasi altro paese al di fuori degli Stati Uniti, e in qualsiasi altra epoca prima d'oggi. Se volete capire cos'è una ferrovia, e che data segna per il progresso civile - e come riesca a dominare la rozza natura adattandola ai fini umani, su una scala minima non altrimenti che su una grandissima - venite nel cuore del continente americano. Tornai a casa, a Est, il 5 gennaio 1880, dopo aver percorso tra andata e ritorno e vari giri più di diecimila miglia. Ripresi subito la mia vita appartata tra i boschi o presso il ruscello, e i miei bighellonaggi per le città e, saltuariamente, una certa disquisizione di cui si parlerà subito. IL SIGNIFICATO DI EDGAR POE 1 genn. '80. Nel diagnosticare questa malattia chiamata umanità - assumendo per l'occasione quello che appare lo stato d'animo più frequente nella personalità e negli scritti del mio personaggio - ho pensato che i poeti, a qualsiasi livello della lista, offrono gli indizi più decisivi. Comprendendo in un'unica massa tutti gli artisti, musicisti, pittori, attori e così via, e considerandoli, singolarmente e nell'insieme, come raggi o flange di quella furiosa ruota turbinante che è la poesia, centro e asse del tutto - dove altro mai potremmo investigare altrettanto bene le cause, gli sviluppi, i contrassegni del tempo - l'essenza e la malattia del secolo? Per consenso unanime non esiste per uomo o donna nulla di meglio di una vita nobile e perfetta, moralmente senza incrinature, felicemente equilibrata nell'attività, fisicamente sana e pura, e che dia alla parte emotiva, simpatetica della natura umana, quanto le è dovuto e non più - una vita, in tutte queste manifestazioni, non affannosa, ma fervida, e instancabile sino alla fine. E tuttavia v'è un'altra forma di personalità,

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molto più cara alla sensibilità artistica (che si compiace dei giuochi più violenti di luci e di ombre), la quale, seppur mai veramente attingendo la perfezione del carattere, la bontà e l'eroismo, mai li perde di vista e anzi tra fallimenti e pene e momentanee cadute più e più volte vi ritorna: e mentre spesso li viola, continua ad aderirvi appassionatamente fino a quando mente e muscoli e voce obbediscano a quel potere che definiamo volizione. Questo tipo di personalità lo troviamo più o meno in Burns, Byron, Schiller e George Sand - ma non in Edgar Poe. (Tutto ciò è il risultato della lettura di un suo nuovo volume di poesie che son venuto facendo, ad intervalli, in questi ultimi tre giorni - me lo portavo nei miei vagabondaggi giù allo stagno, e un poco alla volta ho finito per leggerlo tutto). Ma il servigio che Poe rende al carattere delineato all'inizio è proprio in quel contrasto, quella contraddizione totale, che è seconda solo a una piena esemplificazione. Quasi privi di ogni traccia di principi morali? o del mondo concreto e dei suoi eroismi, o dei più semplici affetti del cuore, i versi di Poe testimoniano una intensa disposizione per la bellezza tecnica e astratta, con un'arte della rima portata all'eccesso, una incorreggibile propensione ai temi notturni, e un sottofondo demoniaco dietro ogni pagina - e, a una valutazione finale, rientrano con ogni probabilità tra le luci elettriche della letteratura d'immaginazione, fulgide, abbaglianti, ma senza calore. V'è nella vita e nelle reminiscenze del poeta, un indescrivibile magnetismo, come nelle sue poesie. A chi sapesse seguirne le fila sottili a ritroso nel tempo, queste ultime rivelerebbero senza dubbio uno stretto legame con la nascita dello scrittore e i suoi precedenti, la fanciullezza e la gioventù, il suo fisico, la sua cosiddetta educazione, gli studi e i compagni, la vita letteraria e sociale di Baltimora, Richmond, Filadelfia e New York a quel tempo - e non solo i luoghi e le circostanze in sé, ma spesso, molto spesso, un singolare spirito di disprezzo e di reazione a queste e a quelli. Il brano che segue, da un articolo sullo Star di Washington del 16 novembre 1875, potrà forse offrire a chi lo desideri un ampliamento del mio punto di vista su questa interessante figura, questa emanazione della nostra epoca. V'era stata in quei giorni a Baltimora una pubblica traslazione dei resti di Poe, con la dedica di un monumento tombale alla sua memoria: «Trovandosi in visita a Washington in quei giorni, "il vecchio Grigio" venne a Baltimora, e benché sofferente per una forma di paralisi acconsentì a salire, zoppicando, sul palco, e a prendervi silenziosamente posto, ma si rifiutò di fare qualsiasi discorso spiegando: "Ho sentito il forte impulso a venire qui ed essere anch'io presente, oggi, in memoria di Poe, e ho obbedito, ma non sento il minimo impulso a far discorsi, e anche a questo, miei cari amici, tocca obbedire". Conversando comunque in una cerchia di conoscenti dopo la cerimonia, Whitman disse: "Per lungo tempo, e anzi fino a poco tempo fa, provai avversione per gli scritti di Poe. Volevo allora per la poesia, e voglio ancora, la limpida luce del sole, l'aria fresca - la forza e il potere della salute, non del delirio, sia pure tra le passioni più tempestose - e sempre sullo sfondo degli eterni principi morali. Pur non soddisfacendo questi requisiti, il genio di Poe si è conquistato uno speciale riconoscimento, e anch'io sono giunto ad ammetterlo senza riserve, e ad apprezzare sia il genio che l'uomo.

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Ebbi un sogno, una volta, in cui vidi un vascello in mare, a mezzanotte, nel cuore della tempesta. Non era una gran nave a piena alberatura, né un maestoso vapore che avanzasse sicuro nella bufera: sembrava piuttosto uno di quei superbi, piccoli panfili che avevo visto spesso cullarsi graziosamente all'ancora nelle acque di New York, o lungo lo stretto di Long Island - e che ora con le vele a brandelli e l'alberatura in pezzi volava senza controllo attraverso quella furia di nevischio e venti e onde nella notte. Sul ponte stava una figura sottile, fragile, bella, un uomo che non si distingueva bene, ma che sembrava godersi tutto il terrore, la tenebra, il sommovimento di cui era il centro e la vittima. Quella figura del mio tetro sogno potrebbe ben esemplificare Edgar Poe, il suo spirito, le sue vicende e le sue poesie - anch'esse non altro che tetri sogni".». Si potrebbe dire molto di più, ma io desideravo soprattutto sviluppare l'idea accennata all'inizio. La portata di un'epoca, i punti deboli dei suoi argini, le sue correnti profonde (sovente più significative delle più grosse correnti di superficie) vengono infallibilmente indicate dai suoi poeti. Il gusto del voluttuoso e dell'irreale che in misura così straordinaria si è impossessato degli amatori di poesia del secolo decimonono - che può voler dire? L'inevitabile propensione della cultura poetica al morboso, alla bellezza abnorme - la sostanza malaticcia di quel pensiero che si limita alla tecnica in sé, alle raffinatezze - la rinuncia a tutte le realtà concrete di prima mano, perenni e democratiche, il corpo, la terra e il mare, il sesso e simili e la loro sostituzione con valori di seconda o terza mano - che peso hanno negli attuali studi di patologia? UN SETTIMINO DI BEETHOVEN . 11 febbraio '80. Buon concerto stasera nel foyer dell'Opera di Filadelfia - orchestra piccola ma di alto livello. Mai la musica s'era insinuata così profondamente in me, placandomi e saziandomi - mai come questa volta mi aveva testimoniato il suo potere di elevazione spirituale, la sua impossibilità di definizione. Fu in particolare durante uno dei grandi settimini di Beethoven, nell'esecuzione di strumenti ben scelti e perfettamente coordinati (violini, viola, clarino, corno, violoncello e contrabbasso), ch'io fui rapito, e vidi e assorbii molte meraviglie. Squisiti abbandoni, talvolta come se la Natura ridesse su un pendio nel sole; «sostenuti» gravi e continui, come di venti; un suono di corno nell'intrico della foresta, con gli echi che muoiono; un dolce sciacquio d'onde che subito però si gonfiano in marosi grevi e mugghianti, furiose staffilate d'acqua; e intercalati, striduli scrosci di risa; a tratti un'aria di sortilegio, com'è della Natura stessa in certi momenti - ma per lo più spontaneità, facilità noncuranza - spesso la sensazione delle positure dei bambini quando giocano o dormono nudi. Mi faceva bene anche semplicemente osservare i violinisti manovrare l'archetto con tanta maestria - ogni singolo movimento uno studio. Mi abbandonai, come faccio talvolta, sino a uscir da me stesso. Mi occorse allora l'immagine di un ricco boschetto di uccelli in canto e, nel mezzo, un semplice duetto armonico, due

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anime umane che venivano proclamando il loro spirito pensoso, la loro disposizione di gioia. UN ATTIMO DI NATURA SELVAGGIA 13 febbraio. Attraversando il Delaware, ho visto oggi, proprio sopra il mio capo, un grande stormo di oche selvatiche, non molto alto, spiegato a V, stagliarsi contro la nuvolaglia meridiana color fumo-chiaro. Riuscii a coglierne una visione superba per un momento - lo stormo prima, poi il loro sfilare sempre più a sud-est, fino a scomparire a poco a poco (la mia vista, all'aperto, e su grandi distanze, è ancora ottima, ma debbo usare gli occhiali per leggere). Strani pensieri si fusero in me durante quei due o tre minuti, forse meno, in cui il cielo fu solcato da queste creature - l'aereo regno dello spazio - persino quel color grigio-fumo predominante ovunque (niente sole) - le acque di sotto - il rapido volo degli uccelli, apparsi per un solo attimo - a suggerirmi in quel lampo l'intera visione della Natura nella sua vastità, con la sua eterna, primitiva freschezza, i mai penetrati recessi del mare, del cielo, delle rive - per dileguarsi poi nella lontananza. ORE D'OZIO NEI BOSCHI 8 marzo. Di nuovo in campagna, ma in un posto nuovo - scrivo seduto su un tronco nei boschi - caldo, sole, mezzogiorno. Rimasto qui a oziare nel fitto degli alberi, fusti altissimi di pini, querce, noci, con un folto sottobosco di allori e di viti - il suolo ricoperto ovunque di ramaglia, foglie morte, scheggiame, muschio - tutto così solitario, antico, cupo. Viottoli (chiamiamoli così) che portano in un luogo o nell'altro (come formatisi non so, dacché sembra che non venga mai nessuno, né uomini né bestiame). Temperatura oggi intorno ai 60 F., vento tra le punte degli alberi; rimango seduto a ascoltare il suo rauco sospiro lassù (e i momenti di immobilità) per un tempo lunghissimo, che vario con passeggiatine senza meta per le vecchie strade e i viottoli, o con esercizi di lotta con i giovani quercioli, per evitare alle mie giunture di arrugginirsi. Cominciano ad apparire pettazzurri, pettirossi, allodole mattoline. Il giorno dopo, 9 marzo. Tempesta di neve al mattino, protrattasi per gran parte del giorno. Ma ho fatto egualmente una passeggiata di più di due ore, tra il cadere dei fiocchi, per gli stessi boschi e sentieri. Niente vento, e tuttavia sempre quel greve murmure musicale tra i pini, piuttosto forte, curioso, come un suono di cascata ora sospeso, ora a pieno flusso. Tutti i sensi, vista, udito, olfatto, delicatamente gratificati. Ogni fiocco di neve restava là dove cadeva, sui sempreverdi, gli agrifogli, gli allori, ecc., le innumerevoli foglie e i rami accatastati che si gonfiavano bianchi, rifiniti da cimose smeraldine - le alte colonne verticali dei pini, color bronzo in cima - un lieve

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aroma di resina che si mescolava all'odore della neve (ché ogni cosa ha il suo odore, persino la neve, se solo riuscite a individuarlo - non esistono due luoghi, forse nemmeno due ore, dovunque andiate, esattamente eguali - quanto diverso l'odore del meriggio da quello della mezzanotte, e l'inverno dall'estate, o un attimo di vento da un momento di quiete!). UNA VOCE DI CONTRALTO 9 maggio, domenica. Visita questa sera ai miei amici J. - buona cena, cui ho fatto onore - vivace chiacchierata con la signora J., e con I. e J. Più tardi mentre me ne stavo seduto fuori guardando il viale, all'aria della sera, il coro e l'organo della chiesa all'angolo opposto eseguirono l'inno di Lutero, Ein feste berg, con molta grazia. La melodia era intonata da una bella voce di contralto. Per quasi mezz'ora là nel buio (ci fu una buona fila di strofe in inglese) piovve la musica, precisa e calma, con lunghe pause. L'argentea, piena raggiera della Lira si levò silenziosamente sopra la linea indistinta del tetto della chiesa. Nell'ombra degli alberi filtravano le luci multicolori delle vetrate. E sotto tutto questo - sotto la Corona Boreale alta lassù, e nella fresca brezza della sera, nel chiaroscuro della notte - la liquida pienezza di quella voce di contralto. STRAORDINARIA VISIONE DEL NIAGARA 4 giugno '80. Per veramente penetrare un grande quadro, o libro, o brano di musica, architettura o scenario sublime - o anche per la prima volta la normale luce del sole, o il paesaggio, o persino il mistero dell'individualità, tra tutti il più curioso - sopravvengono nella vita di un uomo cinque fortunati minuti, inseriti in un concorso fortuito di circostanze, che portano a culminazione in un breve lampo anni di letture e viaggi e pensamenti. Questo caso me l'ha offerto oggi verso le due del pomeriggio, il Niagara, con la superba severità del suo movimento, dei colori e della mole maestosa, in una breve, indescrivibile visione. Stavamo attraversando assai lentamente il Ponte Sospeso - senza mai davvero fermarci, ma in verità quasi fermi - il giorno terso, assolato, calmo - e io fuori sulla passerella. Le cascate si spiegavano completamente alla vista, a circa un miglio di distanza, ma chiarissime, e senza che se ne udisse il rombo - un murmure soltanto. Il fiume vorticava verde e bianco molto sotto di me - le alte rive scure, il fitto fogliame, molti cedri color bronzo, in ombra; e a fondere nel suo arcuato abbraccio tutta quell'immensa materia, un cielo terso con poche nuvole bianche, limpido, spirituale, silenzioso. Breve visione, e calma quanto breve - da ricordare per sempre. E invero sono queste le cose ch'io vado serbando insieme alle rare briciole di ore felici della mia vita, cose legate ai ricordi, al passato - la furiosa tempesta di mare che vidi una volta, un giorno d'inverno, al largo di Fire Island -

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Booth padre nella parte di Riccardo, quella serata famosa di quarant'anni fa al vecchio Bowery - l'Alboni nella scena dei figli nella Norma - le visioni notturne sui campi di battaglia, ricordo, dopo gli scontri in Virginia - o quella singolare sensazione alla luce della luna e delle stelle sulle grandi Pianure, nel Kansas occidentale - o le regate veloci nella baia di New York, con una brezza robusta e un buon panfilo, al largo di Navesink. È insieme a queste cose, ripeto, ch'io colloco adesso quella visione, quel pomeriggio, quell'accordo integrale, quei cinque minuti di assimilazione perfetta del Niagara - non la gran gemma maestosa in solitario rilievo, bensì incastonata e completata da tutta la varietà e pienezza del suo indispensabile contorno. GITA IN CANADA' Per tornare un po' indietro: lasciai Filadelfia (incrocio Ninth-Green Street) alle otto di sera del 3 giugno su un vagone-letto di prima classe della linea di Lehigh Valley (Pennsylvania del Nord) che passa per Bethlehem, Wilkesbarre, Waverly e (via Erie) continua per Corning fino a Hornelsville, dove giungemmo alle 8 del mattino, in tempo per una generosa colazione. Devo dire di non aver mai passato una nottata così buona in treno - una marcia dolce e stabile, il minimo di sobbalzi e tutta la velocità compatibile con la sicurezza. Così, senza cambiare, fino a Buffalo; e di qui a Clifton, dove arrivammo nel primo pomeriggio; e poi via verso London, Ontario canadese, altre quattro ore - meno di ventidue in tutto. Sono alloggiato presso i miei amici Dr. Bucke e Signora, nella loro casa ospitale situata tra i vasti e graziosi praticelli del nosocomio. UNA DOMENICA TRA GLI ALIENATI 6 giugno. Assistito oggi al servizio religioso (episcopale) nel corpo centrale del nosocomio, in un'ampia sala dall'alto soffitto, al terzo piano. Semplici panche, pareti a calce, molte sedie da pochi soldi, nessun ornamento o colore, e tuttavia ogni cosa scrupolosamente pulita e aggraziata. Forse trecento persone, la maggior parte pazienti. Tutto, le preghiere, il breve sermone, la ferma e sonante voce del pastore, mi colpì profondamente; ma più di ogni altra cosa, al di là di ogni descrizione e evocazione, quell'uditorio. Mi era stata data una poltrona vicina al pulpito, per cui mi trovavo seduto col viso alla congregazione, eterogenea ma assolutamente composta e ordinata. Qua e là i bizzarri abiti e berretti di alcune donne, parecchie vecchissime e grigie, come le teste dei quadri antichi. Oh, gli sguardi che venivano da quelle facce! Ce n'erano due o tre che probabilmente non dimenticherò mai. Niente di segnatamente brutto o repulsivo - strano forse, ma non riuscii a scorgerne una che potesse definirsi tale. Solo la nostra comune umanità, la mia e la tua, dappertutto:

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Lo stesso vecchio sangue - Lo stesso rosso sangue fluente... e tuttavia, dietro la maggior parte di esse s'indovinava un tale sfondo di tempeste, di naufragi e misteri, di appassionati amori, torti, sete di ricchezze, problemi religiosi, crucci - tutti i dolori e le tristi vicende di vita e di morte riverberati in quei volti impazziti (eppure in questo momento così calmi, come acqua ferma) - e ora che da ognuno di essi s'irraggiava l'elemento della devozione, non era forse questa la pace di Dio che supera ogni intendimento, per strano che possa sembrarvi? Io posso dire soltanto che mentre me ne stavo lì seduto, continuai a volgere attorno lunghi sguardi indagatori, risvegliando, così almeno mi parve, pensieri insospettati, problemi senza risposta. Poi il coro, e buono, con accompagnamento di melodion. Dopo il sermone cantarono «Guidami, luce gentile». Si unirono in molti al bell'inno, di cui il pastore lesse l'introduzione, «Anche durante il giorno Egli li guidò con una nuvola, e per tutta la notte con un bagliore di fuoco». Poi le parole: Guidami, luce gentile, nel buio che opprime, Guidami sulla mia via. La notte è scura, la mia casa lontana; Guidami sulla mia via; Sostieni il mio piede; non spero vedere Il paesaggio lontano: un passo mi basta. Non sempre fui tale, né mai ti pregai Di guidarmi per via Volli sceglier da solo la strada; ma ora Guidami tu per la via. Amai il dì festivo, e sdegnando i timori L'orgoglio guidò il mio volere: dimentica gli anni. Un paio di giorni dopo mi recai al padiglione degli «Incurabili», con un permesso speciale del Dr. Beemer, e visitai quasi tutte le corsie, sia quelle maschili che femminili. Da allora ho compiuto molte altre visite del genere al nosocomio, e anche ai padiglioni distaccati all'intorno. Stando a quel che ho visto, questo è uno degli istituti più progrediti del genere, più perfezionati e meglio amministrati, per umanità e razionalità, in tutta l'America. È una vera cittadina, con molti edifici e un migliaio di abitanti. Vengo a sapere che il Canadà, e in particolare questa grande e popolosa provincia, l'Ontario, possiede il maggior numero e le migliori istituzioni benefiche in tutti i settori. RICORDO DI ELIAS HICKS

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8 giugno. Oggi una lettera da Detroit, della signora E.S.L., in un piccolo plico postale, accompagnata da una vecchia e rara incisione raffigurante la testa di Elias Hicks (da un ritratto a olio eseguito da Heury Inman per J.V.S., sessanta anni fa se non più, a New York). Nella lettera, tra l'altro, queste righe su E.H.: «Da bambina ho ascoltato tante volte i suoi sermoni, e partecipato insieme a mio padre e a mia madre a molte riunioni di cui egli era il centro, e in cui tutti sempre erano così deliziati e stimolati dalla sua conversazione. So che voi meditate di scriverne, o parlarne e mi son chiesta se possediate un suo ritratto. Giacché io ne posseggo due, ve ne invio uno». SPLENDIDO SVILUPPO AUTOCTONO Tra pochi giorni andrò al lago Huron, e può darsi che abbia qualcosa da dire su quella regione e la sua gente. Da quanto posso già vedere, direi che la giovane popolazione originaria del Canadà stia maturando, dando vita a una razza solida, democratica, intelligente, radicalmente sana, e di indole altrettanto buona, individualista e americana quanto la media della nostra gente migliore. Tra noi, poi, mi piace pensare che codesto elemento, anche se forse non costituisce ancora la maggioranza promette però di diventare il lievito che alla fine farà lievitare l'intera massa. UN PATTO DOGANALE TRA STATI UNITI E CANADA' La stampa più liberale qui sta discutendo la questione di un patto doganale tra Stati Uniti e Canadà. C'è la proposta di formare un'unione a scopi commerciali, - di abolire completamente la barriera doganale e ambedue i corpi di funzionari in servizio tra i due paesi, e di raggiungere l'accordo per una tariffa unica i cui proventi andrebbero divisi tra i due governi sulla base della popolazione. Si dice che una grande percentuale dei commercianti canadesi sia favorevole a un tal passo, stimando che la cosa tornerebbe materialmente utile agli affari del paese, perché eliminerebbe le restrizioni ora esistenti nel commercio tra Canadà e Stati Uniti. Quelli che si oppongono a questa proposta ritengono sì che darebbe incremento al benessere materiale del paese, ma anche che finirebbe per allentare i legami tra Canadà e Inghilterra; e questo sentimento fa passare in secondo piano il desiderio di prosperità commerciale. C'è da chiedersi se tale sentimento può continuare a reggere alla tensione cui è sottoposto. Molti ritengono che le considerazioni commerciali dovranno alla fine prevalere. Sembra anche opinione comune che tale patto o unificazione doganale porterebbe in pratica più benefici alle province canadesi che agli Stati Uniti. (A me sembra un inevitabile portato dei tempi che il Canadà formi,

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prima o poi, due o tre grandi stati sovrani e indipendenti insieme al resto dell'Unione americana. Il San Lorenzo e i laghi sono destinati a segnare non una linea di confine, bensì un grande canale mediano o interno di comunicazione). LA LINEA DEL SAN LORENZO 20 agosto. Premesso che i miei tre o quattro mesi in Canadà avevano come scopo tra gli altri l'esplorazione della linea del San Lorenzo, dal Lago Superiore fino al mare (gli ingegneri qui insistono nel considerarla come un unico corso d'acqua di più di duemila miglia, che include i laghi, il Niagara e tutto), e che ho attuato solo in parte il mio progetto (ma dopo le sette o ottocento miglia percorse mi sembra che la questione Canadà sia davvero definita da questa linea d'acque con i suoi lineamenti eccezionali e le sue caratteristiche di commercio e umanità, oltre a molte altre) - premesso tutto ciò, eccomi a scrivere queste note circa mille miglia a nord di Filadelfia (da cui sono partito, via Montreal e Quebec), nel cuore di regioni che toccano punti più alti di orrore e di bellezza selvaggia, (e una sorta di quieta «timorosità» pagana, e tuttavia sono regioni cristiane ma inabitabili e solo parzialmente fertili) che forse in qualsiasi altra parte della terra. Il tempo si mantiene perfetto; qualcuno potrà definirlo un po' fresco, ma con il mio vecchio pastrano grigio indosso io lo trovo ottimo. Le giornate sono ricche di sole e di ossigeno. Passo la più gran parte del mattino e del pomeriggio sul ponte di prua del vapore. IL SELVAGGIO SAGUENAY Più di cento miglia risalendo queste acque nere - sempre gagliarde e profonde (centinaia di piedi, talvolta migliaia), sempre con alte balze di roccia come sponde, verdi e grigie - un paesaggio simile, a volte, a certe parti dello Hudson, ma assai più marcato e sdegnoso. I dossi si levano più alti, si tengono in file più serrate. Il fiume è più diritto, la corrente è più risoluta, e il colore, seppur d'un nero - inchiostro, squisitamente levigato e brillante sotto il sole d'agosto. Davvero diverso, il Saguenay, da ogni altro fiume - gli effetti sono diversi - il giuoco d'ombre e di luci più audace e veemente. Una singolarità e una semplicità di un raro fascino (come il canto dell'organo nella «Favorita», a mezzanotte, dal vecchio convento spagnuolo - un'unica frase, semplice e monotona e spoglia - ma indicibilmente penetrante, solenne, magistrale). Gran posto questo per gli echi: mentre il nostro battello era ormeggiato al molo di Tadousac (Tagiù-sac), in attesa, e il fumaiolo mandava getti di vapore, io fui sicuro d'aver udito un'orchestra suonare su all'albergo tra le rocce - riuscii anzi a individuare qualche motivo. Solo quando il fumaiolo cessò capii di che si trattava. Poi, a capo Eternity e a punta Trinity il pilota che azionava la sirena

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produsse simili meravigliosi effetti, echi indescrivibilmente strani, mentre eravamo ammarati nella baia tranquilla, sotto l'ombra delle due rupi. CAPO ETERNITY E CAPO TRINITY Ma i due capi, grandi, alteri, silenti: dubito che esista al mondo un promontorio o altura o luogo di rinomanza storica o altro del genere che possa superarli (li ho di fronte, sotto gli occhi, mentre scrivo). Sono semplicissimi, non è che sbigottiscano - almeno non hanno sbigottito me - ma vi restano nella memoria per sempre. Sono vicinissimi l'uno all'altro, fianco a fianco, due monti che balzano su dritti dal Saguenay. Un buon tiratore riuscirebbe a colpirli ambedue con una pietra, passando - o almeno così sembra. Poi hanno forme ben distinte l'una dall'altra, come un perfetto corpo maschile da un perfetto corpo femminile. Capo Eternity, nudo, si leva come già detto direttamente dall'acqua scabro e severo (e tuttavia di una bellezza indescrivibile) fino a un'altezza di quasi duemila piedi. La rupe Trinity, persino un po' più alta, scatta anch'essa su dall'acqua, con una sommità arrotondata come una gran testa con una corta capigliatura di verde. Io mi considero ben ripagato delle mie mille miglia di viaggio se ho potuto vedere e fermare nella memoria questa fantastica coppia. Mi hanno commosso più profondamente di qualsiasi altra cosa del genere che abbia mai contemplato. Se appartenessero all'Europa o all'Asia, ne sentiremmo senza dubbio parlare in ogni sorta di poemi e rapsodie rispedite almeno dodici volte all'anno ai nostri giornali e riviste. LA BAIA DI CHICOUTIMI E HA-HA No davvero - la vita, i viaggi, i ricordi non mi hanno mai offerto né possono avere in serbo per me, per la gioia del mio spirito, episodi, panorami e vedute più indimenticabili di quelli della baia di Chicoutimi e Ha-ha - i giorni e le notti su e giù per questo fiume selvaggio e affascinante - montagne gibbose, certune brulle e grigie, altre d'un rosso spento, altre tutte ammantate d'un verde groviglio di fogliame o di vigne - le grandi, tranquille, eterne rocce dovunque - le lunghe striature di schiuma screziata, un quaglio lattiginoso nel grembo scintillante della corrente - il piccolo duealberi color giallo-sporco con le sue vele rattoppate ala contro ala, che ci si avvicina risalendo vivace la corrente, con a bordo un paio di uomini bruni dai capelli neri - e forti ombre che continuano a cadere sui contorni grigio-chiaro o gialli delle colline per tutta la mattinata, mentre il nostro battello passa a un tiro di schioppo da loro - e su ogni cosa sempre la pura e delicata distesa del cielo. E poi gli splendidi tramonti, le visioni della sera - le solite vecchie stelle (appena un poco diverse, mi pare, trovandoci così a nord), Arturo e la Lira e l'Aquila e il gran Giove come un

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globo d'argento, e la costellazione dello Scorpione. E poi le luci della Corona Boreale, quasi ogni notte. GLI ABITANTI - UN BUON TENORE DI VITA Per quanto cupo, roccioso e nereggiante d'acque si presenti il paesaggio da queste parti, non dovete pensare che non vi s'incontrino calore umano, comodità e buon tenore di vita. Prima di cominciare a prender note, ho fatto stamane un'ottima colazione a base di trota salmonata e, per finire, lamponi selvatici. Incontro ovunque sorrisi e cortesia - fisionomie in genere stranamente simili a quelle che si vedono negli Stati Uniti (rimasi oltremodo sorpreso nel constatare la medesima rassomiglianza in tutta la provincia di Quebec). Generalmente gli abitanti di questa aspra regione (le contee di Charlevoix, Chicoutimi e Tadousac, e il territorio del Lago St. John) sono gente semplice e tenace, dedita a far legname nei boschi, alla caccia degli animali da pelliccia, alla navigazione e alla pesca o alla raccolta di bacche, e solo in minima parte all'agricoltura Stavo proprio guardando un gruppo di giovani barcaioli che cenavano di buon'ora - niente altro che un'immensa pagnotta in cui era certo finito almeno uno staio di farina, dalla quale tagliavano grossi tocchi con un coltello a serramanico. Dev'essere un paese terribile d'inverno, questo, quando gelo e ghiaccio vi s'insediano compatti. NOMI COME COCCOLE DI CEDRO (Di nuovo a Camden e nei boschi del Jersey) Ho pensato una volta di chiamare questa raccolta Come coccole di cedro (e anche oggi credo che non sarebbe stato un brutto titolo, né inappropriato). Un mélange di ozi, di tempo passato a guardarmi attorno o in lente camminate, a star seduto o far viaggi - un pizzico di pensiero messo lì come sale, ma ben poco - non solo l'estate, ma tutte le stagioni - non solo giorni, ma notti - qualche riflessione letteraria - libri e scrittori esaminati, Carlyle, Poe, Emerson sfogliati sempre sotto il mio cedro, all'aria aperta, e mai in biblioteca - in genere le scene che chiunque può vedere, ma con un po' dei miei capricci, meditazioni, egotismo - veramente un frutto dell'aria aperta e soprattutto dell'estate - sia preso singolarmente che a grappoli - selvatico e spontaneo e talvolta acidulo - per vero assai più simile alle coccole del cedro di quanto non appaia a prima vista. Ma sapete cosa sono? (mi sto rivolgendo adesso al signore di città, o a qualche delicata frequentatrice di salotti). Viaggiando per strade maestre o attraverso lande e campagne in qualsiasi parte di questo paese, negli Stati del Centro, dell'Est, dell'Ovest o del Sud, noterete in certe stagioni dell'anno le folte chiome lanose del

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cedro tutte punteggiate di mazzi di bacche azzurro-porcellana, grosse a un dipresso come chicchi di lambrusca. Ma prima una parola sull'albero: tutti sanno che il cedro è un legno sano, poco costoso e democratico, striato di bianco e di rosso - un sempreverde - che non viene coltivato - che tiene lontane le tarme - che cresce all'interno o sulla costa, in qualsiasi clima, caldo o freddo, su qualsiasi suolo - di fatto sembra preferire luoghi sabbiosi, brulli e isolati - contento se aratro, fertilizzanti e accette da pota si tengono al largo e lo lasciano in pace. Tante volte, dopo una gran pioggia, quando le cose sono tutte lucenti, mi sono fermato durante i miei vagabondaggi, nel Sud o nel Nord o all'estremo Ovest, a gustarmi quel suo verde cupo, pulito e dolce dopo l'acquata, e maculato profusamente da quei frutti d'un azzurro limpido e deciso. Il legno del cedro è utile - ma che utilità potranno mai avere quei grappoli di coccole asprigne? Una risposta soddisfacente non c'è. È vero che certi erboristi le propinano pei malanni di stomaco, ma il rimedio è perfido quanto la malattia. Poi un giorno durante uno dei miei giri nella contea di Camden, scoprii una vecchia pazza che andava raccogliendo quei grappoli con gran zelo e gioia. Ella manifestava, come mi venne riferito in seguito, una sorta di infatuazione per codeste bacche, e ogni anno ne raccoglieva e collocava grandi mazzi nella sua stanza, a profusione in tutti gli angoli. Avevano uno strano potere sulla sua povera testa travagliata, le procuravano pace e mansuetudine (ma era innocua, e abitava da quelle parti con una sua figlia assai ben maritata). Se vi sia un rapporto tra quei grappoli e l'uscir di senno non saprei dire, ma anch'io ho per loro una debolezza tutta speciale. Veramente il cedro mi piace comunque - mi piace quel suo essere ispido e nudo, quell'aroma appena avvertibile (così diverso da tutte le rarità dei profumieri), il suo silenzio, la sua equanime accettazione del gelo invernale e della calura estiva, di piogge o siccità - e il riparo che a volte m'ha offerto da queste - le associazioni che stimola (insomma, io non sono stato mai capace di spiegare perché amo qualcuno o qualcosa). Il servigio per cui ora in particolare sono in debito verso il cedro è che, mentre mi vado aggirando in cerca di un nome per la mia progettata raccolta, esitante e perplesso - dopo averne rifiutato una lunga, lunghissima lista, alzo gli occhi, ed ecco! proprio la parola che mi ci vuole. In ogni caso non vado più oltre - la ricerca mi stanca; prendo quel che qualche spirito invisibile mi ha gentilmente messo davanti. Oltre tutto, chi vorrà dirmi che non esiste sufficiente affinità tra molti di questi brani o granulazioni (o perlomeno il fascio di sterpi che li ha prodotti) e quelle coccole azzurre? La loro crescita selvatica, senza usi - un certo aroma di Natura che mi piacerebbe tanto avere nelle mie pagine - lo scarno suolo da cui fioriscono - quel loro accontentarsi d'esser lasciate in pace - l'ottusa, sorda ripugnanza a qualsiasi domanda (affinità di carattere, quest'ultima, tra tutte la più vicina e la più cara). E per concludere, caro lettore, quanto alla questione del titolo per questa raccolta, accontentiamoci di averlo, un nome - qualcosa che la individui e la leghi assieme, che cementi tutte quelle note vegetali, minerali, personali, improvvise impennate critiche, rozzi cicalecci filosofici, sabbie sparse e arbusti - senza crucciarci se certe pagine non vanno sotto il loro titolo con impeccabile appropriatezza e amabilità (è una questione profonda, irritante, inesplicabile, questa dei nomi. Mi ha impegnato seriamente per tutta la vita).*

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Dopo di che, il titolo Come coccole di cedro si vide posto fuori combattimento; ma io non posso permettermi di gettar via quanto sono venuto annotando laggiù sul sentiero, al riparo del mio vecchio amico, un tiepido meriggio di ottobre. Tra l'altro non sarebbe gentile nei riguardi del cedro. * Nel risvolto del mio taccuino trovo una lista di suggerimenti (poi abbandonati), di titoli per questo volume, o parti di esso; ad esempio: Mentre ronza il bombo di maggio E fiorisce in agosto il verbasco E fiocca d'inverno la neve E ruotan nel cielo le stelle Via dai libri, via dall'Arte, Ora solo il Giorno e la Notte - conclusa la lezione, Ora soltanto il Sole e le Stelle. Note di un semi-paralitico Settimana per settimana Braci di giorni morenti Anatre e germani Flusso e riflusso Chiacchiere a lume di candela Echi e fughe Come me... rugiade vespertine Postille Qui e là, a 63 anni Cumuli e cirri Barbe di mais... ramaglia Prima e dopo... Vestiboli Scintilla dei 60 e dopo Sabbie sulle rive dei 64 anni Come voci al vespro, nascoste o lontane Germi autoctoni... embrioni Ala contro ala Note e richiami Solo verbaschi e calabroni Gorgoglii di stagno... Tête-à-Tête Echi di una vita del 19° sec. nel Nuovo Mondo Flange dei cinquant'anni Abbandoni, note frettolose Mosaico di vita, istanti nativi Tipi e semitoni Cianfrusaglie... relitti marini

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Ancora e sempre (N.d.A.). MORTE DI THOMAS CARLYLE 10 febb. '81. Dunque la fiamma del lume, dopo una lunga consumazione e tremuli guizzi, si è spenta del tutto. Come autore rappresentativo e figura di letterato, nessun altro come Carlyle lascerà in eredità al futuro più significativi indizi della nostra era tempestosa, dei suoi violenti paradossi, il clangore, i tormentati momenti del parto. Inoltre egli appartiene al ceppo più nostro della razza: né latino né greco, ma definitivamente gotico. Ispido, montagnoso, vulcanico, era una rivoluzione francese in persona, assai più di qualsiasi suo libro. Per certi rispetti, sino a tutt'oggi nel secolo decimonono, la mente più preparata e acuta, anche dal punto di vista accademico, di tutta la Gran Bretagna; solo che aveva un corpo sofferente. Tracce di dispepsia si trovano in ogni sua pagina, e talvolta la riempiono. Tra le lezioni della sua vita - una vita peraltro di una lunghezza sorprendente - potrebbe includersi questa - come dietro il computo del genio e della morale vi sia sempre lo stomaco, a dare una sorta di voto decisivo. Due elementi contrastanti e in lotta sembrano essersi contesi quest'uomo, tirandolo talora in direzioni opposte come cavalli selvaggi. Era uno scozzese cauto, conservatore, conscio di che fetido sacco di chiacchiere sia gran parte del radicalismo moderno; ma poi il suo gran cuore chiedeva riforme, mutamenti - sovente in terribile contrasto con il suo caustico ragionare. Nessuno scrittore ha mai messo tanto lamento e tanta disperazione nei suoi libri, scoperti talvolta, ma più spesso latenti. Mi viene in mente quel passo nelle poesie di Young in cui, come la morte incalza più e più da presso la sua preda, l'anima si getta da una parte e dall'altra invocando, gridando e imprecando, per sfuggire al destino universale. Di pecche, per non dire macchie vere e proprie, dal punto di vista di un americano, ebbe la sua parte, e grave. Non nei meriti puramente letterari (pur grandi), e nemmeno come «facitore di libri», bensì nell'aver immesso nella compiaciuta atmosfera dei nostri tempi un turbamento, un'agitazione provocatrice, inquisitiva, sconvolgente, sta il valore ultimo di Carlyle. È tempo che i popoli di lingua inglese si facciano un'idea esatta di che cosa sia la spina dorsale del genio, vale a dire la forza. Quasi dovessero sempre trovarselo tagliato e cucito all'ultima moda! come un mantello da signora! Che provvidenziale servigio ci rende costui! Come riesce a scuotere i nostri comodi circoli letterari, con un pizzico dello spirito profetico e dell'antica ira ebraica - ché tale la sua veramente può dirsi. Lo stesso Isaia non fu né più sprezzante né più minaccioso: «La corona dell'orgoglio, gli ebbri di Efraim, saranno calpestati sotto i piedi: E la gloriosa bellezza che adorna la testa della grassa valle sarà un fiore presso a vizzire». (Il termine profezia viene spesso adoperato in modo improprio: sembra ristretto al mero significato di predizione. Ma non è questo il senso primo della parola ebraica che si traduce con «profeta»: questa indica un uomo il cui spirito ribolle e

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trabocca come una fonte, grazie a una spinta interiore, divinamente spontanea, in cui si rivela Dio. La predizione non è che una parte secondaria della profezia. Il punto centrale sta nel rivelare ed effondere i suggerimenti divini che premono nell'anima per venire alla luce. Questa è in breve la dottrina degli Amici o Quacqueri). E poi la semplicità e, sotto le manifestazioni di fragilità, la forza straordinaria di quest'uomo - un gagliardo nodo di quercia che non si riusciva a logorare - un vecchio contadino vestito di scuro e non di bell'aspetto - le sue stesse debolezze affascinavano. Che cosa ci importa che abbia scritto sul Dr. Francia, e Shooting Niagara, e La questione dei negri, e che non sentisse nessunissima ammirazione per i nostri Stati? (mi chiedo anzi se non abbia pensato o detto la metà delle cattive parole che ci meritiamo). Guardate come solca da leviatano i mari della letteratura e della politica moderna! È fuor di dubbio, quanto a quest'ultima, che si dovrebbe per prima cosa constatare dal vivo lo squallore, il vizio e la testardaggine radicati nella gran massa della popolazione delle isole britanniche, e la burocrazia, la fatuità, il servilismo che dominano ovunque, per cogliere il significato ultimo delle sue pagine. Per questi motivi (benché egli non fosse né un radicale né un cartista) io considero quello di Carlyle come il commento, anzi la protesta di gran lunga più indignata contro i frutti del feudalesimo contemporaneo in Gran Bretagna - la miseria e la degradazione crescente dei senzatetto, di quei venti milioni che non possiedono nulla mentre poche migliaia o meglio poche centinaia si godono l'intero paese, il denaro e i posti al sole. Commercio e navigazione, clubs e cultura, e prestigio, e armi, e una classe raffinata e selezionata di borghesi e di aristocratici, con tutto il comfort dei tempi moderni, non riescono minimamente a salvare e tanto meno a giustificare una simile, stupefacente ingordigia. Il miglior modo di accertare quanto egli abbia lasciato al suo paese, sarebbe di considerare, o cercar di considerare per un momento il quadro del pensiero britannico, il risultato d'insieme degli ultimi cinquant'anni, così come si presenta oggi, ma lasciando fuori Carlyle. Sarebbe come un esercito senza artiglieria. La parata rimarrebbe sempre vivace e ricca - Byron, Scott, Tennyson e molti altri - cavalleria, fanteria veloce, sventolio di bandiere - ma il gran rombo finale, così caro all'orecchio del veterano, e che determina la vittoria e le sorti, quello mancherebbe. Negli ultimi tre anni qui in America ci sono arrivate sparse immagini di un uomo vecchissimo, assottigliato nel corpo, solitario, senza moglie né figli, steso su un divano, che solo una indomita forza di volontà teneva lontano dal letto, ma non più in grado, negli ultimi tempi, di uscire all'aria aperta. Ho trovato queste notizie di tanto in tanto in brevi descrizioni sui giornali. Non più di una settimana fa ho letto un articolo del genere, proprio prima di uscire per la mia solita passeggiatina serale tra le otto e le nove. Nella bella notte fresca, insolitamente limpida (5 feb. '81) mentre camminavo su uno spiazzo aperto vicino casa, le condizioni di Carlyle, la sua morte imminente - o forse già accaduta - mi riempirono di pensieri che eludevano ogni espressione, e si fondevano curiosamente con la scena. Il pianeta Venere, alto da un'ora ad occidente, di nuovo in tutta la sua pienezza e fulgore (dopo essersi mostrato scarno e languido per quasi un anno), con in più un sentimento che non avevo mai notato prima - non meramente voluttuosa, la Venere di Pafo, inondante, affascinante - ma ora con una

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calma gravità, un'alterigia imperiosa - la Venere di Milo, adesso. Più in alto verso lo Zenit, Giove, Saturno, e la luna poco oltre il primo quarto sfilavano in processione seguiti dalle Pleiadi, dalla costellazione del Toro e dalla rossa Aldebaran. Non una nube in cielo. Orione marciava a gran passi a sud-est con la sua cintura scintillante - appena più sotto era sospeso Sirio, sole della notte. Ogni singola stella dilatata, più vitrea, più vicina di sempre. Non come in certe notti terse quando le stelle più grandi offuscano completamente le altre. Ogni stellina o grappolo di stelle, tutti nitidamente visibili, e egualmente vicini. Ogni singola gemma in mostra sulla chioma di Berenice, qualcuna mai vista. A nord-est e a nord, il Falcetto, la Capra con i suoi capretti, Cassiopea, Castore e Polluce, e le due Orse. E intanto, questa silente indescrivibile visione, che assorbiva e impregnava totalmente di sé la mia ricettività, era tutta percorsa dal pensiero di Carlyle che moriva. (Per rasserenare, spiritualizzare e, nell'ambito del possibile, sciogliere il mistero della morte e del genio, considerateli sotto le stelle, a mezzanotte). E ora che si è partito di qui sarà possibile che Thomas Carlyle, che la chimica della natura subito dissolverà in cenere e i venti disperderanno, rimanga ancora una identità? In guise che eludono forse tutti gli argomenti, il sapere e le speculazioni di diecimila anni - e ogni definizione concepibile da senso mortale - esiste egli ancora, essere definito e vitale, spirito, individuo - che forse adesso vaga nello spazio tra quei sistemi stellari che, pur nella loro suggestiva assenza di confini, non sono che il semplice orlo di più illimitati e suggestivi sistemi? Io non ho dubbi. In una bella notte, a domande come queste l'anima riceve risposte nel silenzio, le migliori che possano darsi. Per me è la stessa cosa - quando mi sento depresso da qualche evento particolarmente triste o da un problema angoscioso, attendo di poter uscire sotto le stelle a cercare quella spiegazione estrema senza parole. ALTRI PENSIERI E NOTE Carlyle da un punto di vista americano. Esiste certamente oggi un inesplicabile rapporto (più stuzzicante proprio per la sua intima contradditorietà) tra lo scrittore scomparso e gli Stati Uniti d'America - quanto duraturo, non ha importanza.* Mentre il nostro mondo occidentale assume forme sempre più definite, esprimendosi in strutture e frutti sconosciuti prima d'oggi, è straordinario con che nuovi sensi noi volgiamo lo sguardo ai prodotti più rappresentativi delle crisi e delle figure eminenti del Vecchio Mondo. È fuor di questione che con la morte di Carlyle e la pubblicazione delle memorie di Froude, l'interesse non solo per i libri del famoso scozzese, ma per qualsiasi inezia che lo riguardi - la sua dispepsia, le sue furie la famiglia, la moglie modello, la carriera a Edimburgo, in quel solitario nido nella brughiera di Cralgenputtock, e i tanti anni a Londra - è oggi probabilmente più vasto e vivace da noi che non nella sua terra d'origine. Io poi (riuscita o meno) se dovessi attraversare l'Atlantico e considerare le

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oscure predizioni di quest'uomo sui destini dell'umanità e della politica, vi opporrei decisamente (è questa l'idea che mi viene) un altro e assai più profondo oroscopo sui medesimi temi - quello di G. F. Hegel.* Anzitutto un'idea, un mai realizzato vagheggiamento di questa «pallida ombra del pensiero» - questo britannico Amleto di Cheyne Row, più sconcertante di quello danese, con tutti i suoi stratagemmi per riacconciare le giunture rotte e spaventose del governo del mondo, e in special modo le sue slogature democratiche. Carlyle ebbe in sorte il triste destino di vivere e trovarsi al centro ed essere in larga misura l'incarnazione dei tormenti e delle angosce di parto dell'ordine antico nel momento in cui, tra fitti cumuli di morbosi orrori, stava dando alla luce il nuovo. Ma provate a immaginarvelo (lui o i suoi genitori prima di lui) venire in America e farsi conquistare dalle incoraggianti realtà e dall'attività del nostro popolo, del nostro paese - crescere e lavorare qui, risolutamente, faccia a faccia con noi, e possibilmente nel West - respirando la nostra aria e le nostre possibilità sconfinate - dedicando il suo pensiero alle teorie e agli sviluppi di questa Repubblica nella realtà dei suoi fatti, quasi sono esemplificati nel Kansas, Missouri, Illinois, Tennessee o Louisiana. Dico fatti, e un guardare in faccia le cose - così diverso dai libri, e da tutti quei cavilli e elenchi di dati di biblioteca di cui il nostro uomo (si diceva arguta mente di lui, quando aveva trent'anni, che non esisteva un altro in tutta la Scozia che avesse spigolato tanto e visto tanto poco) si è quasi esclusivamente nutrito, e che anche la sua mente robusta e vitale nel miglior dei casi non faceva che riflettere. Poco mancò che qualcosa del genere non si verificasse. Nel 1835, dopo più di una dozzina d'anni di tentativi e di oscurità, l'autore di Sartor Resartus si trasferiva a Londra, poverissimo, già ipocondriaco senza scampo, il suo Sartor universalmente dileggiato, nessuna prospettiva letteraria, e fermamente deciso a un ultimo lancio di dadi nella partita delle lettere, risolveva di comporre e dare alle stampe un libro sul tema de La Rivoluzione Francese - e di abbandonare per sempre il mestiere di scrittore qualora non ne traesse premio o guiderdone più alto di quanto ottenuto sino allora, e di emigrare in America. Ma l'avventura ebbe un esito fortunato, e non ci fu emigrazione. L'opera di Carlyle nella sfera della letteratura, così com'egli l'iniziò e la svolse, è simile, per uno o due aspetti fondamentali, a quella di Emanuele Kant nella filosofia speculativa. Ma mancavano allo scozzese la stomatica flemma e l'imperturbata placidità del saggio di Konigsberg né, al contrario dell'altro, egli seppe mai capire i propri limiti o fermarsi quando l'ultimo era stato toccato. Egli spazza via giungla e viti velenose e sterpaglia - o se non altro mena loro fieri e ripetuti colpi, picchiando di santa ragione. Kant fece la medesima cosa nell'ambito suo, ed era quanto poteva fare, niente di più; le sue fatiche hanno lasciato un terreno perfettamente preparato - e mai forse servizio più grande fu reso da essere mortale. Ma lo spasmo, lo iato di Carlyle sembra a me consistere (e lo si legge ovunque nei suoi scritti) in quel suo credere fermamente, tra un turbine di nebbie e furie e contraddizioni, di possedere una chiave per la cura dei mali del mondo e che usarla fosse la sua sacra missione.* V'erano tuttavia due ancore, ancore di tonneggio, per stabilizzare come ultima risorsa la nave carlyliana. Di una si dirà subito. L'altra, la più importante forse, era da

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vedersi solo in una qualche spiccata forma di energia personale, una misura estrema della volontà e un impeto adeguato - un uomo, o degli uomini, «nati per comandare». Correva probabilmente in ogni vena e flusso del sangue dello scozzese) qualcosa che questo tipo di elemento o carattere riusciva a scaldare più di ogni altra cosa al mondo, e che a mio avviso ne fa il primo celebratore e propugnatore in letteratura - più di Plutarco, più di Shakspere. Le grandi masse non significano nulla per lui - o almeno null'altro che materia nebulosa e rozza; per lui, solo i grandi pianeti e i soli fulgenti. Mentre le idee lo lasciavano quasi invariabilmente tiepido o freddo, era immancabile che una personalità possente, di prima grandezza, risvegliasse in lui la passione del panegirico e una gioia selvaggia. Nel qual caso anche l'ideale del dovere, di cui si tratterà immediatamente, si trovava all'istante sminuito e degradato. Tutto ciò che viene compreso sotto i termini "repubblicanesimo" e "democrazia" gli riuscì sgradito sin dal primo momento, e con l'avanzar degli anni gli divenne anzi odioso e disprezzabile. Per le capacità di franchezza e di penetrazione che egli indubbiamente possedeva, era meravigliosa la pertinacia con cui ignorava i nuovi orientamenti. Per esempio la promessa, la certezza anzi del principio democratico di offrire a ciascuno e tutti gli stati del mondo attuale, non solo un corpo legislativo ed esecutivo perfetto, ma l'unico metodo efficace per educare su larga scala con sicurezza, seppur lentamente, la gente a governarsi e organizzarsi volontariamente da sé (meta ultima di ogni sviluppo politico e di tutti gli altri) - di ridurre gradualmente al minimo il fattore governo in quanto tale, sottoponendo i vari organi e il loro operato ai telescopi e microscopi di commissioni e partiti - e, cosa tra tutte la più grande, di offrire, non il ristagno o un ligio contento, che han fatto il loro tempo con il feudalesimo e il clericalismo del mondo antico e di quello medioevale, bensì una vasta e sana e ricorrente azione di flusso e riflusso per quelle profonde correnti sotterranee che hanno ormai in modo visibile travolto gli antichi impedimenti - tutto ciò sembra non essere mai entrato nel pensiero di Carlyle. È stata una cosa splendida come abbia rifiutato sempre, fino all'ultimo, qualsiasi compromesso. Era stranamente antiquato. Al suono di quella voce, di fronte a quella figura aspra, pittoresca e imponente, si ha l'impressione di venire trasportati dalle Isole Britanniche di oggi a più di duemila anni fa, nel territorio tra Gerusalemme e Tarso. Il suo biografo più completo, e il migliore, dice giustamente di lui: «Era un maestro e un profeta, nel senso ebraico della parola. Le profezie di Isaia e Geremia sono divenute parte della eterna eredità spirituale del mondo, dacché gli eventi hanno provato che essi avevano rettamente interpretato i segni dei tempi, e le loro profezie si sono avverate. Come loro, Carlyle credeva di avere uno speciale messaggio da consegnare alla nostra epoca. Resta da vedere se la sua fede fosse esatta e il suo messaggio veto. Egli ci ha detto che tutte le idee di libertà politica a noi più care, non i corollari connessi, sono mere illusioni, e che il progresso che finora è parso accompagnarle non è altro che un progresso verso l'anarchia e la dissoluzione sociale. Se aveva torto, vuol dire che ha fatto un cattivo uso delle sue facoltà. I principi del suo insegnamento allora sono falsi. Si è offerto come guida su una strada di cui non aveva conoscenza alcuna; suo stesso desiderio sarebbe stato, in quel caso, il più rapido oblio della sua persona e della sua opera. Se, d'altra parte, ha avuto

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ragione, e se, come i suoi grandi predecessori, ha saputo veramente leggere nelle tendenze di questa nostra epoca moderna e il suo insegnamento verrà autenticato dai fatti, allora anche Carlyle si collocherà tra i veggenti ispirati». Come rettifica aggiungerò che in nessuna circostanza, e comunque il tempo e gli eventi abbiano a provar falsi i suoi foschi vaticini, il mondo di lingua inglese dovrebbe dimenticare quest'uomo, o mancare di rendere omaggio alla sua insuperata coscienza, al suo metodo singolare e alla sua fama di onestà. Mai convincimenti furono più seri e genuini. Mai vi fu uomo meno fatuo e meno opportunista. Mai il progressismo politico ebbe un nemico più degno di sincero rispetto. L'altro punto fondamentale della dottrina di Carlyle era l'idea del compimento del dovere (che è solo un nuovo codicillo - ammesso e non concesso che sia particolarmente nuovo - agli ingialliti lasciti del principio dinastico, gli ammuffiti commi della legittimità e della regalità). Sembra che la sua intolleranza arrivasse talora alla follia se persone il cui pensiero non era peraltro men profondo del suo, gli rammentavano che codesta formula, per quanto preziosa, era in fondo piuttosto vaga, e che esistono molte altre considerazioni valide per una valutazione filosofica di ciascuno e di tutti i settori della storia generale, o delle questioni individuali. Insomma, io non conosco nulla di più sorprendente di questa mente (forse la più ponderosa, la più acuta ed erudita del tempo) che per tutto il secolo XIX fino a oggi ha continuato a far balzi e singulti in atteggiamento di sfida e scontento per ogni cosa, sdegnosamente ignorando (sia per costituzionale incapacità sia perché, più probabilmente, egli voleva una ben precisa panacea, qui e subito) l'unico conforto e l'unica soluzione possibile. Indipendentemente dal mero intelletto, esiste nella formazione di ogni superiore identità umana (nella sua completezza morale, considerata come un insieme, e non per il lato morale soltanto ma per la totalità dell'essere, incluso il fisico) un meraviglioso "qualcosa" che senza processi logici e spesso senza l'aiuto della cultura (benché a mio avviso mèta e culmine di ogni cultura degna di tal nome) perviene a un'intuizione dell'assoluto equilibrio nel tempo e nello spazio di tutto questo multiforme, folle caos di frodi, frivolezze e sporca avidità - questa quadriglia di idioti e finzione incredibile e precarietà universale che chiamiamo mondo; cioè una visione spirituale di quel nesso divino, il filo che tiene insieme l'intera congerie delle cose, tutta la storia e il tempo, e tutti gli eventi, per quanto meschini, per quanto importanti, come un cane al guinzaglio nella mano del cacciatore. Di codesta visione spirituale, radice e centro della mente umana - di cui il semplice ottimismo non spiega che la superficie, le zone periferiche - Carlyle era privo, forse in gran parte, ma forse del tutto. Al contrario egli sembra essere stato perseguitato, nel dramma della sua azione mentale, da uno spettro mai esorcizzato dall'inizio alla fine (gli studiosi di greco, mi pare, trovano che questa stessa fantastica, beffarda apparizione non abbandona mai Aristofane nelle sue commedie) - lo spettro della distruzione del mondo. Quanti trionfi o fallimenti della vita umana, in guerra e in pace, i più grandi anche, possono dipendere da un piccolo nucleo segreto, poco più di una goccia di sangue, una pulsazione, un respiro! È indubbio che tutte queste gravi questioni, la

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democrazia in America, il carlyleismo, il temperamento necessario per una analisi veramente profonda della politica o della letteratura s'imperniano intorno a un solo semplice punto di filosofia teoretica. Il tema più profondo che possa occupare la mente dell'uomo - il problema dalla cui soluzione dipendono in modo sottile e definitivo, per una adeguata esposizione e disamina, la scienza, l'arte, le fondamenta e gli scopi delle nazioni e ogni altra cosa, inclusa una intelligente felicità umana (qui, oggi, 1882, New York, Texas, California, o qualsiasi altra epoca o paese), è senza dubbio implicito nel quesito: Qual è il nesso che fonde e spiega - quale il rapporto tra il Me (radicale, democratico), l'identità umana fatta di intelligenza, emozioni, spirito etc. da una parte, e il Non Me (conservatore) dall'altra, la totalità oggettiva dell'universo materiale con le sue leggi, con tutto ciò che esse sottendono nello spazio e nel tempo? Emanuele Kant, benché abbia spiegato o parzialmente spiegato, potrebbe dirsi, le leggi dell'intelletto umano, ha lasciato la questione aperta. La risposta, o accenno di risposta di Schelling (e assai valida e importante nei suoi limiti) è che la medesima intelligenza e passione, sia generale che particolare, e persino gli ideali di bene e di male esistenti in un individuo allo stato di formulazione cosciente, esistono allo stato inconscio o in intuibili analogie nell'intero universo della Natura esteriore, in tutti i suoi oggetti grandi e piccoli, in tutti i suoi movimenti e processi - rendendo in tal modo convertibili, identificandole anzi in nucleo ed essenza, l'impalpabile mente dell'uomo e la Natura concreta, nonostante il dualismo che le separa. Ma la definizione più completa della questione ci è stata data da G. F. Hegel, e rimane a tutt'oggi la parola più autorevole sull'argomento. Adottando in sostanza lo schema che si è or ora compendiato, egli lo sviluppa e fortifica, e vi immerge ogni cosa, colmando così per la prima volta certe serie lacune, sì che il tutto diviene un coerente sistema metafisico, e una risposta sostanziale ( se mai risposta possa darsi) - un sistema che, pur dovendo io ammettere chiaramente che l'intelletto del futuro potrà fare aggiunte, revisioni, se non addirittura ricostruirlo del tutto, sfolgora comunque oggi nella sua interezza illuminando il pensiero dell'universo e spiegandone il mistero alla mente umana, con una consolante sicurezza scientifica finora ignota. Secondo Hegel la terra intera (antico fulcro di pensiero, questo, già nei Veda, e senza dubbio anche prima, ma mai finora portato in primo piano con tanta assolutezza, con la scorta anche eccessiva dei fatti e dello scientismo moderni, e presentato come unico accesso al singolo e al tutto) nella sua infinita varietà, il passato, l'ambiente di oggi e tutto ciò che potrà accadere in futuro, i contrasti tra lo spirituale e il materiale, il naturale e l'artificiale, tutte queste cose insomma agli occhi di colui che vede per ensemble non sono che lati, pieghe inevitabili, gradini e nessi diversi nell'infinito processo del pensiero Creativo: il quale, tra un numero sterminato di contraddizioni e fallimenti apparenti, è tenuto insieme da una unità centrale e mai infranta - non contraddizioni e fallimenti, quindi, bensì irradiazioni di un'unica finalità logica e eterna; l'intera massa delle cose che perennemente e senza mai deviare tende e fluisce verso 1'utile e la morale, essenze permanenti, come i fiumi agli oceani. Come la vita costituisce l'unica legge e lo sforzo incessante dell'universo visibile, e la morte l'altro lato, quello invisibile, allo stesso modo 1'utile, e la verità, e

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la salute, sono leggi continue e immutabili dell'universo morale, mentre il vizio e la malattia, malgrado tutte le loro perturbazioni, non ne sono che espressioni transeunti, anche se infinitamente più diffuse. Alla politica in ogni sua parte, Hegel applica un principio e una fede simili, universali. Nessun partito particolare, né alcuna forma di governo sono veri in modo assoluto o esclusivo. La verità consiste in giusti rapporti di oggetti tra loro. Una maggioranza o una democrazia potrebbero governare in modo altrettanto eccessivo, e avere effetti altrettanto malefici, quanto un'oligarchia o il regime di un despota - anche se molto meno probabile. Ma il gran male è sempre una violazione, sia dei rapporti cui si è appena fatto cenno, sia della legge morale. Ciò che è capzioso, ingiusto, crudele, e ciò che vien detto innaturale, seppure non solo permessi ma anzi in certo senso inevitabili (come l'ombra alla luce) nello schema divino, per l'intrinseca costituzione di quello stesso schema sono cose parziali, incongrue, momentanee, e seppur abbiano in superficie una supremazia schiacciante, sono per certo destinate al fallimento dopo aver causato molto soffrire. La teologia, Hegel la traduce in scienza.* Tutte le apparenti contraddizioni della natura Deifica secondo le definizioni che ne han dato le varie epoche, nazioni, chiese e punti di vista, non sono che espressioni frazionarie e imperfette di una unità essenziale, da cui esse procedono tutte - rozzi tentativi, parti difformi, da esser considerati a un tempo distinti e uniti. In breve (per metter la cosa a modo nostro, e tirar le somme) quel pensatore o analizzatore o spettatore il quale per una inscrutabile combinazione di saggezza acquisita e naturale intuizione accetti più pienamente, in perfetta fede, l'unità morale e la sanità dello schema creativo nella storia e nella scienza, in tutta la vita e in ogni tempo, presente e futuro, costui è sia il più vero adoratore e sacerdote cosmico, che il più profondo filosofo. Mentre colui che, sopraffatto dalla sua persona e dalle circostanze, vede solo tenebre e disperazione nella somma delle opere della provvidenza divina, e perciò diniega e prevarica, per quanta pietà aleggi sulle sue labbra è il più radicale dei miscredenti e peccatori. Esporre qui Hegel un poco liberamente ** mi dà una maggior sicurezza - non solo per aver trovato un buon contrappeso alla lettera e allo spirito di Carlyle - recidendoli separatamente e in fascio fin dalle radici, e da sotto le radici - ma anche per controbilanciare le dottrine degli evoluzionisti, dal momento della recente morte di Darwin e della sua meritata apoteosi. Per quanto indicibilmente preziose per la biologia, e quindi indispensabili a una giusta valutazione e direzione negli studi, queste infatti non possono comprendere ne spiegare ogni cosa - e anche dopo che tali grida han toccato il diapason, dovrà ancora essere alitata l'ultima parola o sussurro che fluttui per sempre alto al di sopra di esse e di ogni metafisica schematica. Seppure i contributi che i tedeschi Kant e Fichte e Schelling hanno lasciato in eredità al genere umano (come anche l'inglese Darwin nel suo campo) sono indispensabili alla cultura americana del futuro, io direi che in tutti, anche i migliori, se paragonati alle folgoranti e alate visioni degli antichi profeti e exaltés, dei poeti e della poesia spirituale di tutti i paesi (la Bibbia ad esempio), sembra esservi, e anzi certamente v'è, qualcosa di manchevole - un che di freddo, una incapacità di gratificare le più profonde emozioni dell'anima - un'assenza di quella luce viva: trasporto, calore, che

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sanno darvi gli antichi poeti e exaltés, ma non i moderni filosofi, anche i più acuti, almeno fino ad oggi. Nel complesso, e per ciò che c'interessa, il nome di Carlyle si colloca certamente nella lista insieme a quei nobilissimi medici morali dell'epoca attuale or ora menzionati - e insieme a Emerson e altri due o tre - per drastica e forse distruttiva che sia la sua ricetta, mentre la loro è assimilativa, normale e tonica Feudali come sono nel profondo, e invero proliferazione e irradiazione mentale del feudalesimo, i suoi libri presentano tuttavia alcune affinità e lezioni sempre valide per l'America democratica. Nazione o individuo, noi riceviamo certamente le più profonde lezioni dalla dissimiglianza, da un'opposizione sincera, dalla luce proiettata anche con disprezzo su punti pericolosi e responsabilità. (Michelangelo invocava la speciale protezione del cielo contro gli amici e gli adulatori più affezionati; coi nemici scoperti poteva cavarsela da solo). Per molti aspetti particolari Carlyle era in verità, come lo definisce il Froude, uno di quegli antichi profeti ebraici, un novello Micah o Abacuc. Le sue parole talora traboccano come sospinte da una ispirazione abissale. Preziosi sempre, uomini siffatti; e oggigiorno più preziosi che mai. I suoi toni crudi, irritanti, ingiuriosi, contraddittori - che cosa v'è di più desiderabile, in mezzo alle voci leziose e forbite dell'America d'oggi, adoratrice di Mammona, livellatrice di Gesù e Giuda, col suo strepito di sovranità e suffragi? Egli ha rischiarato il nostro secolo diciannovesimo con la luce di un intelletto di prim'ordine, possente, penetrante e perfettamente onesto, rivolto alla vita politica e sociale, alla letteratura e alle figure più rappresentative d'Inghilterra e d'Europa - seppur perennemente insoddisfatto e pronto a denudare senza pietà ogni piaga. Ma mentre denuncia la malattia e va tuonando e infuriando, egli stesso, nato e cresciuto nella medesima atmosfera, ne è una cospicua illustrazione. * A giudicare dai suoi libri, dalle sue antipatie personali, ecc., il futuro troverà difficile spiegare la presa profonda di questo scrittore sulla nostra epoca, e il modo in cui egli ne ha colorito i metodi e il pensiero. Quanto alla sua influenza su di me, sono certamente in imbarazzo a spiegarla. Ma ormai non può esistere panorama o anche visione parziale del secolo decimonono che non includa, e vistosamente, Carlyle. Nel suo caso (come in tanti altri, opere letterarie o artistiche, personalità umane, eventi) v'è un qualcosa di impalpabile che ha avuto più peso di ogni aspetto palpabile. Inoltre io non trovo testo migliore (è sempre importante avere come punto di partenza un contemporaneo con idee precise e sue, anche se contrarie alle nostre) per mettere in circolazione, ad uso domestico, certe speculazioni e certi confronti. Vediamo dunque a che cosa assommano, queste dottrine reazionarie, queste paure e sprezzanti analisi della democrazia - anche se vengono dalla mente più erudita e sincera d'Europa. (N.d.A.). * Parte non minima né trascurabile del caso (un tocco, forse di quell'umorismo con cui la storia e il fato amano controbilanciare la loro serietà) è il fatto che sebbene nessuno dei miei due pensatori durante la sua vita considerò gli Stati Uniti degni di seria attenzione, le principali opere di ambedue avrebbero potuto non

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inappropriatamente essere raccolte oggi e rilegate in volume sotto il cospicuo titolo «Speculazioni ad uso del Nordamerica e della Democrazia colà, con riferimenti alla Metafisica, incluse Lezioni e Avvertimenti (Incoraggiamenti, anche e dei più grandi) da parte del Vecchio Mondo al Nuovo» (N.d.A.). * Spero di non cadere io stesso nell'errore che imputo a lui, di prescrivere cioè uno specifico per mali inevitabili. La mia massima aspirazione probabilmente non è altro che di confutare la vecchia, esclusiva pretesa del potere curativo degli individui di prima categoria, come leader e governanti, proponendo invece la forza delle idee, con i loro movimenti e risultati generali. Una di queste potrebbe essere la tipica teoria americana della democrazia e della modernità - ma dovrei dire piuttosto è la democrazia, ed è la modernità. (N.d.A.). * Devo molto all'estratto di J. Gostick. (N.d.A.). ** L'ho ripetuto deliberatamente, non solo in opposizione al pessimismo e all'idea della decadenza del mondo che è sempre latente in Carlyle, ma in quanto rappresenta il punto di vista più decisamente americano che io conosca. A mio avviso le formule di Hegel sopra citate costituiscono una giustificazione essenziale, conclusiva, della democrazia del Nuovo Mondo nei domini creativi del tempo e dello spazio. V'è in esse qualcosa che solo la vastità, la molteplicità e la vitalità dell'America sembrerebbero poter comprendere, mettere in prospettiva e illustrare, persino originare, o per cui sarebbe adatta. Mi sembra strano che siano nate in Germania, e nel vecchio mondo. Mentre un Carlyle, direi, è proprio il legittimo prodotto che ci si aspetterebbe dall'Europa. (N.d.A.). DUE VECCHIE CONOSCENZE. UN PASSO DI COLERIDGE Fine aprile. Me ne sono scappato al mio rifugio agreste per un paio di giorni, che sto trascorrendo presso lo stagno. Ho già riscoperto i miei martin-pescatori (ma uno solo - la compagna non c'è ancora). In questa bella mattinata luminosa, giù al ruscello, è venuto fuori a un tratto a far baldoria descrivendo anelli, dandosi arie trillando a tutto spiano. Mentre scrivo queste righe si dà buon tempo con svolazzi e cerchi sopra le parti più larghe dello stagno, contro la cui superficie si tuffa, una, due volte, con un sonoro splaff - la schiuma che vola nel sole - bello! Si è degnato di venirmi vicinissimo, e ne distinguo chiaramente il manto bianco e grigio-scuro, e la forma singolare. Nobile, grazioso uccello! Ora sta appollaiato sul ramo di un vecchio albero, molto in alto, e si sporge sull'acqua - sembra che mi stia osservando mentre prendo note. Mi sfiora l'idea che mi riconosca. Tre giorni dopo. Il mio secondo martin-pescatore è qui, con il suo, o la sua, compagna. Ho visto i due insieme, volare in cerchi vorticosi. Avevo udito in distanza quel che molte altre volte pensai fosse il distinto e stridulo staccato degli uccelli - ma non fui sicuro che le note venissero da

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loro due finché non li vidi insieme. Oggi a mezzogiorno sono ricomparsi, ma apparentemente solo per faccende, o per fare un po' di ginnastica, ma poco. Non più quei giuochi folli, pieni di libera gioia e movimento, su e giù per un'ora. Certo in questo momento hanno preoccupazioni, doveri, responsabilità di covata. I giuochi sono rimandati alla fine dell'estate. Non credo che potrei completare meglio l'appunto odierno che con questi versi di Coleridge, curiosamente appropriati, e in più di un senso: Tutta la natura sembra al lavoro - le chiocciole lasciano la tana, Si svegliano le api, - gli uccelli spiccano il volo, E l'inverno che sonnecchia nell'aria Ha sul volto ridente un sogno di primavera; E intanto io, unica cosa oziosa Non ho miele né amore, né casa, né canto. UNA SETTIMANA A BOSTON 1 maggio '81. È come se ormai in America tutti i sistemi e i mezzi di viaggio fossero stati messi a punto, non solo per quanto riguarda la velocità e le comunicazioni dirette, ma per la comodità di donne, bambini, invalidi e vecchioni come me. Sono venuto, senza cambiare, con un diretto che percorre quotidianamente la distanza tra Washington e la metropoli Yankee. Basta montare su un vagone-letto a Filadelfia, appena fa buio, e dopo un'ora o due passate a rimuginare, vi fate preparare il letto, se vi piace, tirate le tendine, e vi c'infilate - attraversate volando il Jersey fino a New York - nel dormiveglia vi arriverà il suono smorzato di uno sbalzo, uno scossone o due - vi trasportano nell'incoscienza da Jersey City con il battello di mezzanotte tutt'intorno alla Battery e sotto il gran ponte fino al binario della linea di New Haven - qui riprendete il vostro volo verso est e la mattina dopo, di buon'ora, vi svegliate a Boston. Tutte cose sperimentate di persona. Volevo andare alla Revere House. Un signore alto, che non conoscevo (mio compagno di viaggio, diretto a Newport, avevamo chiacchierato un poco qualche momento prima), mi aiutò a attraversare la folla della stazione, mi procurò una vettura, mi ci mise sopra con la mia valigia, e dicendo piano, con un sorriso «Ora vorrei che lasciaste a me la corsa», pagò il fiaccheraio e prima che io potessi rimostrare, con un inchino sparì. Occasione della mia gita, suppongo sia meglio dirlo qui, era una lettura pubblica del saggio «Morte di Abramo Lincoln», nel sedicesimo anniversario di quella tragedia: conferenza che ebbe luogo puntualmente la sera del 15 aprile. Poi indugiai a Boston per una settimana - mi sentivo abbastanza bene (umore propizio, la malattia stazionaria) - girai dappertutto, vidi tutto quel che c'era da vedere, specialmente gli esseri umani. L'immenso sviluppo materiale di Boston - il commercio, la finanza, magazzini all'ingrosso, la pletora di merci, le strade e i marciapiedi gremiti di folla - costituivano naturalmente il primo, sorprendente

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spettacolo. Durante il mio viaggio nel West, lo scorso anno, pensai che senza dubbio l'insegna della futura prosperità sarebbe stata ben presto brandita da St. Louis o Chicago o dalla bella Denver o magari da San Francisco; ma questa insegna la vedo ora piantata altrettanto risolutamente qui a Boston, e con la stessa certezza di restarvi; prove di abbondanza di capitale - e invero non v'è altro centro del Nuovo Mondo che la superi in questo (metà delle grandi ferrovie del West sono costruite con il denaro degli Yankee, che ne incassano i dividendi). La vecchia Boston con le sue strade a zig-zag e una moltitudine di angoletti (stringete in pugno un foglio di carta da lettere, lasciatelo cadere, spianatelo, e eccovi una mappa della vecchia Boston) - la nuova Boston con le sue case grandi e costose, per miglia e miglia - Beacon Street, Commonwealth Avenue e un centinaio di altre. Ma il meglio, nei nuovi orientamenti ed espansioni di Boston come di tutte le città della Nuova Inghilterra, è in altra direzione. LA BOSTON DI OGGI Nelle lettere (interessanti ma dubbie) che riceviamo dal Dr. Schliemann circa i suoi scavi laggiù nella remota regione omerica, noto che le città, le rovine, etc., man mano ch'egli le tira fuori dalle loro sepolture, si mostrano disposte a strati - cioè a dire che sulle fondamenta di un nucleo più antico, di solito assai profondo, esiste sempre un'altra città, o altro blocco di rovine, e su questo, sovrimposto, un altro ancora - e talvolta anche più - ciascuno dei quali rappresenta uno stadio di crescita o sviluppo, ora lento ora rapido, diverso sempre dal precedente, ma, senz'ombra di dubbio, nato da quello e su di esso poggiato. Nell'ambito degli sviluppi morali, emotivi, eroici ed umani (il fulcro di una razza, a mio avviso) qualcosa del genere deve essersi verificato qui a Boston. La metropoli del New England oggi potrebbe descriversi come una città piena di sole (c'è qualche altra cosa che causa questo calore, più determinante dei venti e delle condizioni metereologiche, benché queste non siano da disprezzarsi), gaia, accogliente, piena di ardore, vivacità, con un certo languore, una magnanima tolleranza, ma non disposta a farsi menar pel naso; amante della buona tavola e del bere, preziosa negli abiti quanto la sua borsa le permette; e ovunque, nella media delle case, delle strade e della sua gente migliore, quell'inafferrabile qualcosa (ritenuto in genere il clima, ma non è così - è un che di indefinibile nella razza, il pernio appunto del suo sviluppo) che da dietro il vortice di animazione, studi e affari emana una disposizione generale alla felicità e alla gioia, ben distinta dalla disposizione saturnina all'indolenza. Mi fa pensare alle immagini che ci arrivano (dai libri del Symonds per esempio) delle gaie città della Grecia antica. E infatti v'è parecchio di ellenico a Boston, persino la gente sta diventando più bella - bene in carne, movimenti più sciolti, facce colorite. Non ho mai visto (benché questo non sia "greco") tante belle donne dai capelli grigi. Durante la conferenza mi sono sorpreso più di una volta a interrompermi per osservarle, tante, sparse ovunque nell'uditorio -

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facce sane di mogli e di madri, straordinariamente attraenti e belle - tanto che credo che nessun'altra epoca o terra al di fuori della nostra potrebbe esibirne di simili. IL MIO TRIBUTO A QUATTRO POETI 16 aprile. Visita breve ma piacevole a Longfellow. Io non sono di quelli che vanno a cercar la gente a casa, ma dacché l'autore di Evangeline, molto gentilmente, si era preso il disturbo di venirmi a trovare a Camden tre anni fa, quando ero malato, ho sentito non solo l'impulso di rinnovare il piacere già provato in quella occasione, ma il dovere di farlo. È stata l'unica personalità che io abbia cercato di vedere a Boston, e non dimenticherò facilmente quel suo viso luminoso e il raggiante calore della sua cortesia, quelle maniere che si suol definire "di vecchia scuola". E ora proprio qui sento l'impulso di interpolare qualcosa circa quei quattro grandi che hanno impresso su questo primo secolo di America il marchio di nascita della letteratura poetica. Recentemente, in una rivista, uno dei miei recensori - che dovrebbe informarsi meglio - ha parlato del mio «atteggiamento di spregio, disdegno e intolleranza» verso i nostri maggiori poeti, - del mio «deriderli» e delle mie «prediche» sulla loro «inutilità». Se v'è nessuno che desidera conoscere quel che penso - e che ho pensato e professato per lungo tempo - su di loro, sono più che disposto a dirlo. Io non riesco a immaginare sorte migliore per l'iniziazione e l'avvio poetico di questi Stati di quella toccata loro con Emerson, Longfellow, Bryant e Whittier. Per me, Emerson sta sicuramente in testa al gruppo, ma quanto alla precedenza da assegnare agli altri sono in forse. Ognuno è illustre, ognuno completo, ognuno inconfondibile. Emerson per la dolcezza, il sapore vitale della sua melodia, per le sue rime filosofiche e le sue poesie di una limpidezza d'ambra, come il miele delle api selvatiche che egli ama cantare. Longfellow per la ricchezza del colore, le forme aggraziate e gli episodi che narra - tutto ciò che rende bella la vita e raffinato l'amore - per cui egli può ben competere con i cantori d'Europa sul loro stesso terreno, con un'opera che nel complesso appare altrettanto rifinita se non migliore delle loro (con una sola eccezione). Bryant, che suscita le prime intime pulsazioni poetiche di un mondo possente - bardo del fiume e del bosco, che sa evocare il sapore dell'aria aperta, con profumi come di campi di fieno, di uve e filari di betulle - sempre sotterraneamente amante delle trenodie - l'inizio e la conclusione della sua lunga carriera contrassegnati da canti di morte, tra cui, qua e là, poesie o brani di poesie ove vengono toccate le più alte verità, entusiasmi, doveri universali - e una morale altrettanto perenne e cupa, se non ugualmente tempestosa e fatidica, di quella di Eschilo. Mentre in Whittier, con quei suoi tempi particolari - la passione traboccante per l'eroismo e la guerra a dispetto del suo quacquerismo, e quei versi simili a volte al passo cadenzato dei veterani di Cromwell - in Whittier vivono lo zelo e l'energia morale che fondarono la Nuova Inghilterra - la splendida rettitudine e l'ardore di Lutero, Milton, George Fox - non vorrei né oserei dire la loro caparbietà e ristrettezza

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- seppure certamente il mondo oggi ha bisogno, e ne avrà sempre, proprio di questa ristrettezza e caparbietà. I QUADRI DI MILLET. ALTRE NOTE RECENTI 18 aprile. Percorse tre o quattro miglia fino alla casa di Quincy Shaw, per vedere una collezione di quadri di J. F. Millet. Due ore di rapimento. Mai dianzi ero stato penetrato così a fondo da questo tipo di espressione. Sono rimasto per un lungo, lunghissimo tempo dinanzi al Seminatore. Credo sia quello che la gente del mestiere designa come Primo Seminatore, poiché l'artista ne eseguì una seconda e poi una terza copia, secondo alcuni migliorando continuamente. Ma io ne dubito. V'è in questo qualcosa che sarebbe assai difficile riprodurre - una sublime cupezza, e una genuina furia rattenuta. Oltre a questo capolavoro ve n'erano molti altri (non dimenticherò mai la semplice scena vespertina de L'abbeveratoio), tutti inimitabili, tutti perfetti come quadri, opere di pura arte; e in più, mi parve, con quell'estrema, impalpabile finalità etica da parte dell'artista (molto probabilmente inconscia) che io cerco sempre. A me tutti questi quadri narravano l'intera storia di quanto precedette e necessitò la grande rivoluzione francese - il soffocamento protratto delle masse di un popolo eroico, ricacciate nella terra, in povertà abietta, nella fame - ogni diritto negato - un'umanità che per generazioni si tentò di conculcare - e malgrado tutto la forza della Natura, titanica qui, resa più violenta e audace dalla stessa repressione - terribile nell'attesa di erompere, pronta alla vendetta - la pressione sulle dighe, e finalmente il crollo - l'assalto alla Bastiglia - l'esecuzione del re e della regina - l'uragano di massacri e di sangue. Ma chi può meravigliarsene? Potremmo augurarci l'umanità diversa? Potremmo augurarci gente di legno o di pietra? O che non vi sia giustizia nel destino o nel tempo? La vera Francia, base di tutto il resto, si trova certamente in questi quadri. Comprendo in questa valutazione Il riposo nei campi, Gli zappatori, L'Angelus. C'è gente che immagina sempre i francesi come una razza minuta, alta cinque piedi o cinque e mezzo, e invariabilmente frivola e leziosa. Niente del genere. La gran massa della popolazione francese, prima della rivoluzione, era di alta statura e, come adesso, industriosa e semplice. La rivoluzione e le guerre napoleoniche abbassarono la statura media, ma si rialzerà. Se non per altro, dovrei comunque serbare il ricordo della mia breve visita a Boston per avermi schiuso il mondo nuovo dei quadri di Millet. L'America avrà mai un simile artista, cresciuto in lei, nato dal suo corpo e dalla sua anima? Domenica 17 aprile. Un'ora e mezzo trascorsa oggi, nel tardo pomeriggio, in silenzio e penombra, nella grande navata della Memorial Hall di Cambridge, le pareti

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fittamente ricoperte da piccole lapidi con il nome di studenti e laureati di questa università caduti nella guerra di secessione. 23 aprile. Ho fatto bene a ritirarmi in buon ordine, poiché se fossi rimasto un'altra settimana sarei stato soffocato di gentilezze, pranzi e bevute. UCCELLI. UN AVVERTIMENTO 14 maggio. Di nuovo a casa; una scappata tra i boschi del Jersey. Tra le 8 e le 9 del mattino, concerto grosso d'uccelli, da angoli diversi, in armonia con il fresco aroma, la pace e la naturalezza che mi circondano. Sto notando, in questi ultimi tempi, il tordo rossiccio, grande come un pettirosso o forse un tantino meno, petto e dorso chiari, striati irregolarmente di scuro - coda lunga - se ne sta appollaiato per ore, in questi giorni, ingobbito in cima a un grosso cespuglio o a un grosso albero, cantando allegramente. Poiché sembra piuttosto domestico, mi avvicino spesso per ascoltarlo; mi piace osservare i movimenti del becco e della gola, la strana inclinazione del corpo, il flettersi della lunga coda. Odo il picchio, e alla sera e al mattino presto la musicale spola del caprimulgo - a mezzodì il gorgheggio delizioso del tordo, e il mìu-u-u della dumetella. Di molti non conosco il nome; ma non vado particolarmente a caccia di informazioni (non dovete mai saper troppo, né esser mai troppo precisi o scientifici con uccelli e alberi e fiori e barche - un certo qual margine e persino vaghezza, magari ignoranza e superstizione, vi aiutano a godere di queste cose, e del sentimento della Natura in generale, sia essa pennuta, boscosa, fluviale o marina. Non cercate, ripeto, di sapere con troppa esattezza il perché e il percome. Le mie note sono state scritte estemporaneamente, nella spaziosità del New Jersey centrale. Per quanto esse descrivano ciò che ho visto - ciò che ho avuto sotto gli occhi - sono sicuro che l'esperto di ornitologia, il botanico o l'entomologo vi troveranno ben più di una svista). DAL MIO TACCUINO DI CITAZIONI Nel resoconto di questi giorni, interessi, momenti di ritrovata salute, non dovrei dimenticare di includere un certo taccuino vecchio e consunto, con tutti i miei brani preferiti, che mi sono portato in tasca per tre anni e ho riletto e assorbito ripetutamente, ogni volta che il mio stato d'animo mi ci portava. Predisposto da queste influenze naturali, da questa salubre libertà, io lascio che una poesia o un bel suggerimento penetrino in me profondamente (anche un nonnulla allora vuol dire molto): Stralci dal mio taccuino di citazioni giù al ruscello:

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Nella mia faretra - dice il vecchio Pindaro - ho molte frecce veloci, che parlano al saggio, ma che abbisognano di un interprete per le teste vuote. Un uomo che ci vogliono secoli a creare e secoli a comprendere. (H. D. Thereau) Se odiate un uomo non uccidetelo, lasciate piuttosto che viva. (detto buddista) Le spade famose son fatte di scheggiame di scarto ritenuto inservibile. La poesia è l'unica verità - l'espressione di una mente solida che parla secondo l'ideale, e non le apparenze. (Emerson) Formula di giuramento presso gli Indiani Shoshone: «La terra mi ascolta. Il sole mi ascolta. Posso mentire?». Prova suprema di una civiltà non è né il censo né l'ampiezza delle città o dei raccolti - bensì il tipo di uomo che il paese esprime. (Emerson) Il vasto etere non è che il volo di un'aquila, Tutta la terra, la patria di un uomo coraggioso. (Euripide) Le spezie tritate liberano il pungente aroma, I profumi calpestati emanano le loro dolcezze Vuoi che la loro forza sia tutta svelata? Getta l'incenso nel fuoco. Matthew Arnold parla de «l'immenso Mississippi della falsità chiamato Storia». Il vento spira a nord, il vento spira a sud, Il vento spira a ovest e ad est Comunque spiri il libero vento Per qualche nave sarà sempre il migliore. Non andar predicando agli altri che cosa dovrebbero mangiare, mangia piuttosto come a te si conviene e taci. (Epitteto ) Victor Hugo fa ragionare e parlare un asinello a questo modo: Uomo, fratello mio, se vuoi sapere il vero, Ambedue dalle stesse cieche mura siamo chiusi;

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Massiccio è il cancello e la cella robusta. Pure guarda dal buco della chiave, e di' Che questa è conoscenza; ma non cercare La chiave che apra il fatale lucchetto. «William Cullen Bryant - scrive il critico di un giornale newyorkese - mi sorprese una volta dicendo che la prosa è il linguaggio naturale del comporre, e che egli si chiedeva come potesse venire in mente a qualcuno di scrivere poesia». Addio! non conobbi il tuo merito; Ma ora che non sei più qui, vieni stimato; Così in terra viaggiarono ignoti gli angeli: Volarono via, e furono riconosciuti. (Hood) John Burroughs, parlando di Thoreau, scrive: «Egli migliora con l'età; e infatti ci vuole l'età per togliergli un poco della sua asprezza, e maturarlo completamente. Al mondo piace chi sa odiare e rifiutare quasi quanto chi sa amare e accettare - solo che gli piace molto più tardi». Louise Michel al funerale di Blanqui (1881): Blanqui esercitò il proprio corpo a sottomettersi alla sua alta coscienza e alle sue nobili passioni, e sin da giovane ruppe con tutto ciò che v'è di sibaritico nella civiltà moderna. Senza la forza di sacrificare l'io, le grandi idee non daranno mai frutti. Dall'alta fiamma della fornace Balzò una massa d'argento fuso, Che poi, temperato in tre pezzi, Uscì ad affrontare il destino. Dal primo fu tratto un crocefisso, Finì nella bisaccia di un soldato; Dal secondo un fine medaglione Per le ciocche di un figlio perduto; Dal terzo, un bracciale caldo e lucente Per il braccio di una donna infedele. Pena possente è quella d'amore, Ed è dolore quel dolor lasciare; Ma di tutti il più grande dolore È quello di amare senza amore. Maurice F. Egan su De Guérin:

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Ebbe cuor di pagano ma anima cristiana Seguiva Cristo e sospirava per Pan, Finché cielo e terra non si fusero in lui: Come se Teocrito in Sicilia Imbattendosi nella Figura crocefissa Avesse perso i suoi dèi nella pace profonda di Cristo. E se prego, la sola preghiera Che muove per me le mie labbra È, lasciami se vuoi questa mente, E dammi la libertà. (Emily Brontè) Viaggio sul non-conoscere, Lo eviterei se potessi; Preferirei camminare nel buio con Dio, Che andare da solo nella luce; Preferirei camminare per fede con Lui Che scegliere con i miei occhi la via. Da una recente conferenza del Prof. Huxley: Personalmente, condivido il sentimento di Thomas Hobbes di Malmesbury, che «scopo di ogni speculazione è una azione o cosa da compiersi». Non ho infatti né grande rispetto né particolare interesse per il «conoscere» in sé. Principe di Metternich: Napoleone era l'uomo al mondo che più profondamente disprezzava la razza. Aveva una mirabile intuizione dei lati più deboli della natura umana (e tutte le nostre passioni non sono che debolezze o cause di debolezze). Era un piccolo uomo con un carattere straordinario. Era ignorante quanto può esserlo un sottotenente: ma un notevolissimo istinto suppliva alla deficienza di cultura. A causa della sua scarsa opinione degli uomini, non conosceva altra paura che quella di mettere un piede in fallo. Rischiò tutto, e fece quindi passi immensi verso il successo. Gettandosi in un agone prodigioso, riuscì a stupire il mondo e a farsene padrone, quando gli altri in genere non arrivano nemmeno a padroneggiare il proprio cuore. Poi volle andare sempre più in là; finché non si ruppe il collo. DI NUOVO LA SABBIA E IL SALE DEI LUOGHI NATII.

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25 luglio '81. Punta Rochaway, Long Island. Bella giornata passata in gita quaggiù tra la sabbia e il mare, con una brezza costante dall'oceano, il sole, l'odore di carici, lo scroscio dei cavalloni, un misto di rombi e di sibili, ricciute creste lattiginose. Ho fatto un bagno delizioso, ho passeggiato nudo come ai bei tempi sulle sabbie grige e tiepide della riva - i miei compagni fuori in barca, dove l'acqua è più fonda - (e io a gridar loro gli anatemi di Giove contro gli dèi, dall'Omero di Pope). 28 luglio. A Long Branch. 8,30 del mattino, a bordo del Plymouth Rock, di fronte alla 23ma, New York, in partenza per Long Branch. Un'altra bella giornata, bei panorami, le coste, le imbarcazioni, la baia - tutto è ristoro per il mio corpo, lo spirito mio (io trovo l'atmosfera umana e oggettiva di New York City e di Brooklyn più affine a me di qualsiasi altra). Un'ora dopo. Sempre sul vapore, ora si gusta bene l'odore della salsedine - il lungo e pulsante scroscio dell'acqua come il battello si muove verso il mare - le alture di Navesink e i molti vascelli che passano - ma l'aria è la cosa più bella. Trascorsa a Long Branch la più gran parte del giorno, sceso a un buon albergo, preso tutto con comodo - fatto un pranzo eccellente e quindi un giro di più di due ore per la località, specialmente Ocean Avenue, la più bella corsa che si possa immaginare, sette o otto miglia tutte lungo le spiaggie. In ogni direzione ville costose, palazzi, milionari (ma, tra questi ultimi, pochi che io stimi paragonabili al mio amico George W. Childs, la cui integrità e generosità e genuina semplicità di carattere sono al di sopra di qualsiasi ricchezza mondana). NEW YORK SOTTO LA CANICOLA Agosto. Per un poco nella grande città. Anche nel cuore della canicola c'è sempre di che divertirsi a New York, se solo non perdete la testa e sapete prendere tutta la sana allegria ch'essa vi offre. E non ci si sta peggio di quel che pensi molta gente. Un uomo di mezza età, con molto denaro in tasca, mi racconta di aver passato un mese in tutte le località alla moda e di avervi sperperato una piccola fortuna, soffocando tuttavia dal caldo e sentendosi ovunque a disagio, finché se n'è tornato a casa, a New York, e vi ha passato queste due settimane ben contento e di buon umore. La gente dimentica che se qui fa caldo, altrove fa ancora più caldo. New York ha una tale posizione tra quei due fantastici bracci di mare ricchi di ozono, da offrirvi anche le condizioni più favorevoli del mondo per la salute (se solo si potesse dimezzare il sovraffollamento di certi suoi caseggiati). Scopro ora di non aver mai apprezzato a sufficienza la bellezza dei due terzi superiori dell'isola di Manhattan. Sono alloggiato a Mott Haven, e in questi dieci giorni ho acquistato una certa familiarità con la zona sopra la Centesima strada, e lungo il fiume Harlem e Washington Heights. Rimarrò per alcuni giorni con i miei amici, il signore e la signora J.H.J., e la loro festosa brigata di ragazze. Sto dando gli ultimi ritocchi alla nuova edizione di Foglie d'Erba - il libro definitivo finalmente. Vi lavoro per due o tre ore, poi vado a oziare sulle rive del fiume Harlem; proprio ora mi sono concesso

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una lunga ricreazione di questo tipo. Il sole velato quanto basta, una molle brezza da sud, il fiume rigurgitante di schifi grandi e piccoli (canotti leggerissimi) che sfrecciano su e giù, taluni con un solo uomo, e a tratti uno più lungo con sei o otto giovani che fanno pratica - visioni elettrizzanti. Al largo sono ancorati due bei panfili. Mi attardo a godermi il tramonto, il riverbero della luce, il cielo striato, alture, distanze, ombre. 10 ag. Gironzolando con varie soste per un'ora o due questo pomeriggio pei tratti più appartati della riva, o seduto a mezzavia del colle sotto un vecchio cedro, col centro della città bene in vista, vedo radunarsi parecchie comitive di giovani, gruppetti in genere di due o tre ragazzi, qualcuno più numeroso, che vanno a bagnarsi o a nuotare lungo la battigia, o da un vecchio molo qui vicino. Uno strano e simpatico carnevale - che arriva a riunire un centinaio di ragazzetti e di giovani, dal comportamento assai democratico ma sempre composto. Le risate, le voci, chi chiama e chi risponde - il balzo e quindi il tuffo dei bagnanti dalla lunga impalcatura del molo abbandonato, dov'essi si arrampicano e restano ritti in lunghe file, nudi e rosati, con movimenti e pose che eccellono qualsiasi scultura. Aggiungete a tutto questo il sole, così fulgido, l'ombra verde-cupo delle colline dall'altro lato, l'ambrato rollio delle onde, che al sopraggiungere della marea trascolorano in una trasparenza di tè - i tonfi frequenti dei ragazzi che scherzano tra loro, allegri - le gocce scintillanti degli spruzzi e la bella brezza che spira da ovest. «L ULTIMA CARICA DI CUSTER» Sono stato oggi a vedere questo quadro, appena terminato, di John Mulvany, che si è recato sul luogo nel lontano Dakota, tra i forti e la gente di frontiera, soldati e indiani, e vi è rimasto questi ultimi due anni, con l'intenzione di ritrarre la realtà o per lo meno quanto gli riusciva di cogliere. Rimasi per più di un'ora seduto dinanzi al quadro, completamente assorbito dalla visione d'insieme. Una gran tela, direi venti o ventidue piedi per dodici, gremitissima ma non confusa, e animata da un tale fervido giuoco di colori che vi ci vuole un poco per abituarvici. Non vi sono artifizi; non pesanti giuochi di ombre; tutto, a prima vista, vi è penosamente reale, da schiacciarvi; v'occorrono nervi buoni per osservarla. Quaranta o cinquanta figure, forse più, perfettamente finite in ogni dettaglio, al centro; e un numero tre volte più grande, se non più, in tutto il resto - torme di Sioux selvaggi coi loro copricapi di guerra, frenetici, i più montati su pony, che passano a sciami come un uragano di dèmoni nello sfondo, tra il fumo. Vi sono una dozzina di figure meravigliose. Decisamente una fase autoctona e western dell'America, quella delle frontiere - colta al suo culmine, tipica, mortale, straordinariamente eroica - niente di simile nei libri, non in Omero, non in Shakspere; più fosca e sublime di ambedue, tutta originale e nostra, e tutta dato di fatto. Un numero enorme di giovani muscolosi e abbronzati che circostanze terribili hanno ridotto agli estremi - la morte aleggia su di loro e tuttavia

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non uno che mostri timore o perda la testa, ognuno spreme la sua paga fino all'ultimo centesimo prima di vendere la vita. Custer (i capelli tagliati corti) sta ritto al centro, il braccio teso e gli occhi dilatati, impugnando una pesante pistola da cavalleggere. C'è anche il capitano Cook, parzialmente ferito, sangue sul fazzoletto bianco che gli fascia la testa, che punta freddamente la carabina, ginocchio a terra (il suo corpo fu poi trovato accanto a quello di Custer). I cavalli uccisi o semivivi che servono da trincea danno un tocco particolare alla scena. In primo piano giacciono i corpi di due erculei indiani, che stringono ancora i loro Winchester, molto caratteristici. Tutti quei soldati, i loro visi e atteggiamenti, le carabine, i tipici cappelli del West con le larghe tese, i nugoli di fumo delle armi da fuoco, i cavalli morenti che nell'agonia roteano occhi quasi umani, le torme di Sioux sullo sfondo coi copricapo di guerra, le figure di Custer e Cook - e invero tutta la scena, terribile, ma con una sua bellezza, un suo fascino che si imprimono nella memoria. Nonostante il forte colore e la crudezza dell'azione, una sobrietà greca sembra pervaderla. Un cielo luminoso e una limpida luce avvolgono ogni cosa. Mancano quasi completamente i tratti tradizionali dei quadri di guerra europei. La fisionomia dell'opera è realistica e western. Io l'ho osservata soltanto per circa un'ora - ma bisognerebbe vederla molte volte, studiarla e ristudiarla. Potrei guardare un'opera simile a piccoli intervalli per tutta la vita, senza mai stancarmi; per me è un vero tonico; e sottintende poi quel proposito etico che tutta la grande arte deve avere. L'artista mi diceva che si era parlato di mandare l'opera all'estero, forse a Londra. Io gli consigliai, se doveva farlo, di portarla a Parigi; penso che lì saprebbero forse apprezzarla, anzi ne sono certo. E poi mi piacerebbe mostrare a Messieur Crapeau che anche in America si sanno fare certe cose. VECCHIE CONOSCENZE RICORDI 16 ag. «Segna questo giorno con un gesso bianco», soleva dire un mio vecchio amico cacciatore quando la fortuna era stata insolitamente buona con lui, e tornava a casa stanco morto ma con un bel paniere colmo di pesci e uccelli. Ebbene, la mia giornata, oggi, giustificherebbe un segno del genere. Tutto propizio fin dal primo momento. Un'ora di fresca eccitazione, percorrendo dieci miglia sull'isola di Manhattan prima in ferrovia e poi con l'omnibus delle 8. Poi, ottima colazione al ristorante Pfaff, 24ma strada. Il padron di casa in persona, mio vecchio amico, comparve immediatamente sulla scena a darmi il benvenuto insieme alle ultime notizie e, non senza aver prima sturato una panciuta bottiglia del miglior vino della sua cantina, a chiacchierare dei bei tempi di prima della guerra, tra il '59 e il '60, e delle allegre cene nel suo locale, allora a Broadway presso Bleecker Street. Ah gli amici, e i bei nomi, e gli habitués, quei tempi, quel luogo! I più sono morti - Ada Clare, Wilkins, Daisy Sheppard, O'Brien, Henry Clapp, Stanley, Mullin, Wood, Brougham Arnold - andati, tutti. Eccoci dunque Pfaff e io al tavolino, uno di fronte all'altro, a commemorarli in uno stile che avrebbe avuto la loro completa

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approvazione, e precisamente con gran bicchieri di champagne pieni fino all'orlo, traboccanti, centellinati lentissimamente, in astratto silenzio, fino all'ultima goccia. (Pfaff è un generoso restaurateur tedesco, silenzioso, massiccio, gioviale e, direi, il miglior conoscitore di champagne d'America). UNA SCOPERTA DELLA VECCHIAIA Il meglio, forse, è sempre cumulativo. Il mangiare e il bere uno li vuole freschi per l'occasione, e subito, da non pensarci più - ma io non darei un centesimo per quella persona, o poesia, per quell'amico o città, o opera d'arte che non risultasse più gradita la seconda volta della prima - e più ancora la terza. Anzi, io credo che nessuna delle qualità più grandi si riveli mai a prima vista. Nella mia esperienza personale (di persone, poesie, luoghi, caratteri) è molto raro che il meglio mi si discopra subito (non v'è norma assoluta peraltro) - talora erompe improvvisamente, talaltra mi si dischiude in modo furtivo, magari dopo anni di involontaria familiarità e di acritica consuetudine. UNA VISITA, INFINE, AR.W. EMERSON Concord, Mass. Sono qui in visita - tempo elastico, dolce, da estate di San Martino. Arrivato oggi da Boston (un piacevole viaggio di 40 minuti in treno, attraverso Somerville, Belmont, Waltham, Stony Brook, e altre cittadine vivaci), scortato dal mio amico F.B. Sanborn fino alla sua ampia casa, e qui accolto dalla gentilezza e ospitalità della signora S. e della loro bella famiglia. Sto scrivendo all'ombra di alcuni vecchi noci e olmi' poco dopo le quattro del pomeriggio, sul portico di casa, a un tiro di pietra dal fiume Concord. Di fronte a me, dall'altra parte del fiume, su un campo e sul fianco di una collina, uomini che raccolgono e abbarcano fieno, probabilmente la seconda o terza fienagione. La distesa color verde smeraldo e bruciato, i poggi, quei venti o quaranta piccoli covoni che punteggiano il terreno, i carri stipati, i cavalli pazienti, l'azione lenta e forte degli uomini coi loro forconi - tutto questo nel meriggio che si va spegnendo tra chiazze gialle di sole screziate da lunghe ombre - lo strido acuto del grillo, araldo del crepuscolo - una barca con due figure che scivola senza rumore sul fiumicello e passa sotto l'arco del ponte di pietra - il velo d'umidità dell'aria che si abbassa lieve, il cielo e il senso di pace che s'espandono in ogni direzione e sopra di me - tutto ciò mi pervade e conforta. Stessa sera. Una fortuna migliore non mi era mai toccata; una lunga e felice serata in compagnia di Emerson, e in un modo che non avrei potuto augurarmi migliore o diverso. Per circa due ore egli è rimasto tranquillamente seduto, accanto a

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me, dove potevo osservarne il viso nella luce migliore. Il salottino della signora S. era pieno di gente del vicinato, molti visi freschi e attraenti, donne, per lo più giovani, ma anche anziane. Il mio amico A.B. Alcott e sua figlia Louisa erano arrivati per tempo. Un gran conversare - tema, Henry Thoreau - nuovi spiragli sulla sua vita e le sue vicende, lettere sue e dirette a lui - una delle più belle da Margaret Fuller, altre da Horace Greeley, Channing, etc. - e una dello stesso Thoreau, quanto mai strana e interessante. (Io senza dubbio devo esser sembrato ben balordo alla compagnia che assiepava la stanza, dal momento che non presi pressocché parte alla conversazione; ma, come dice il proverbio svizzero, avevo «la mia mucca da mungere»). Il posto in cui sedevo e la mia posizione rispetto agli altri erano tali che, senza essere offensivo o alcunché del genere, potevo guardare direttamente in viso Emerson, il che feci per buona parte di quelle due ore. Entrando, egli si era rivolto con parole brevi e compite a varie persone della compagnia, ma poi si era sistemato nella sua poltrona, tirata un tantino indietro, e per quanto sembrasse ascoltare, e con interesse, rimase in silenzio per tutta la conversazione e la discussione. Un'amica andò a sederglisi accanto, semplicemente, in segno di speciale attenzione. Egli aveva un bel colore in viso, gli occhi limpidi, e quella sua ben nota espressione di dolcezza e, immutato, l'antico sguardo penetrante. L'indomani. Parecchie ore a casa di Emerson, e pranzo con lui. Vecchia dimora familiare (vi abita da trentacinque anni) di cui la posizione, l'arredamento, la spaziosità, l'abbondanza unita ad una eleganza spoglia, suggeriscono un benessere democratico, una moderata opulenza e un'ammirevole semplicità d'altri tempi - il lusso moderno, con la sontuosità e l'affettazione che lo caratterizzano, vi è appena accennato, se non ignorato del tutto. Parimenti il pranzo. Naturalmente il meglio della giornata (domenica 18 settembre '81) è stato osservare Emerson in persona. Come già notato, le guance di un colorito sano, una bella luce negli occhi, un'espressione cordiale, e quel tanto di conversazione che meglio si conveniva, vale a dire non più di una parola o una breve frase quando era indispensabile, e quasi sempre accompagnata da un sorriso. Oltre a Emerson, la signora Emerson con la figlia Ellen, il figlio Edward con la moglie, i miei amici F.S. e la signora S., e altri, parenti o intimi. La signora Emerson, riprendendo il tema della sera precedente (io ero seduto accanto a lei) mi fornì ulteriori e più ricche informazioni su Thoreau, il quale, durante il viaggio di Emerson in Europa, aveva vissuto per qualche tempo con la famiglia, dietro loro invito. POSTILLE DA CONCORD Sebbene la serata dai Sanborn e il memorabile pranzo di famiglia dagli Emerson mi abbiano piacevolmente - e indelebilmente - occupato la memoria, non voglio tralasciare altre impressioni di concord. Mi recai al Vecchio Presbiterio, attraversai l'antico giardino e penetrai nelle stanze, notando la strana atmosfera, l'erba

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e i cespugli mal tenuti, i piccoli vetri alle finestre, i soffitti bassi, l'odore aspro, i rampicanti che ingraticciavano la luce. Mi recai al campo di battaglia di Concord, che si trova lì vicino, osservai la statua di French, il Minuteman, lessi la poetica epigrafe di Emerson alla base, m'attardai sul ponte, sostai infine presso la tomba degli ignoti soldati inglesi sepolti qui il giorno dopo la battaglia dell'aprile '75. Poi, continuando l'escursione (grazie alla mia amica Miss M. e ai suoi focosi pony bianchi, che ella stessa guidava), una mezz'ora alla tomba di Hawthorne e di Thoreau. Scesi dal calesse proseguendo naturalmente a piedi, e sostai a lungo a meditare. Riposano uno accanto all'altro in un angolo piacevole e boscoso della collina del cimitero, la Valletta del sonno. La superficie piatta della tomba del primo era fittamente rivestita di mirti, con una siepe di tuia; l'altra aveva una pietra scurita, poco elaborata, con iscrizioni. A fianco di Henry Thoreau giace suo fratello John, in cui sembravano riposte molte speranze, ma che morì giovane. Proseguimmo quindi per lo stagno di Walden, quello specchio d'acqua splendidamente incastonato nel verde, dove trascorsi più di un'ora. Nello spazio tra i boschi dove Thoreau aveva la sua dimora solitaria c'è adesso, a contrassegno, un grosso tumulo di pietre; ne volli portare una anch'io, e deporla sul mucchio. Sulla via del ritorno vidi la Scuola di filosofia, ma era chiusa, e certo non l'avrei fatta aprire solo per me. Non lontano, mi fermai alla casa di W.T. Harris, l'hegeliano, che uscì di casa e si trattenne piacevolmente a chiacchierare con me che ero rimasto seduto in carrozza. Non dimenticherò facilmente questi giri per Concord, e soprattutto quell'incantevole mattinata domenicale con la mia amica Miss M. e i suoi pony bianchi. IL PARCO DI BOSTON. ANCORA EMERSON 10-13 ott. Passo buona parte del mio tempo nel Parco, in queste giornate e sere deliziose - ogni mattina dalle 11,30 fino all'1 circa - e quasi sempre un'altra ora al tramonto. Conosco ormai tutti i grandi alberi, specialmente i vecchi olmi lungo Tremont e Beacon Street; sono arrivato anzi, con la maggior parte di loro, a una comprensione socievole e silenziosa, mentre passeggio nell'aria piena di sole (ma abbastanza fresca e frizzante) per i grandi viali non asfaltati. Proprio tra questi vecchi olmi, su e giù per questo medesimo tratto nei pressi di Beacon Street, un luminoso e pungente meriggio di febbraio di ventun anni fa, ho passeggiato per due ore in compagnia di Emerson, allora nel fiore degli anni, vivo, dotato di magnetismo fisico e morale, agguerrito in tutto, e capace di controllare a suo piacimento le emozioni come l'intelletto. Per tutte quelle due ore, egli parlò e io ascoltai. Fu una disamina, un passare in rassegna, una rivista, un attacco e inseguimento (come un reggimento ben schierato, artiglieria, cavalleria, fanteria) di tutto quanto potrebbe dirsi contro quella parte (peraltro fondamentale) della costruzione della mia poesia rappresentata da Figli d'Adamo. Più preziosa dell'oro, per me, quella dissertazione - da cui scaturì, e per sempre, questa lezione strana, paradossale: ogni punto della diatriba di Emerson era inconfutabile, mai requisitoria di giudice fu più completa e convincente, o i

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singoli capi meglio esposti - ma poi, nel fondo dell'anima, io sentii chiara e inequivocabile la convinzione che avrei dovuto disobbedire a tutto e seguitare per la mia strada. «Allora? - disse Emerson alla fine, fermandosi - che avete da rispondere a tutte queste cose?». «Solo che - fu la mia franca risposta - mentre non saprei come controbattere, mi sento più che mai deciso a aderire alla mia teoria, e a esemplificarla». Dopo di che ci recammo alla «American House» dove facemmo un buon pranzo. E da allora non titubai più né fui mai sfiorato da scrupoli (come invece, devo confessare, era accaduto prima due o tre volte). UNA NOTTE OSSIANICA. GLI AMICI MIGLIORI Nov. '81. Di nuovo a Camden. Attraversando stanotte il Delaware in lunghe tappe, tra le 9 e le 11, lo scenario in alto è assai singolare - cortine di vapori, come di garza, volano via veloci, incalzate da nuvole pesanti che gettano una coltre d'inchiostro sulle cose. Poi uno squarcio di cielo, di quella trasparenza tra il nero e il grigio-acciaio che ho già notato in simili circostanze, e contro il quale la luna raggia per pochi istanti in calmo fulgore, proiettando giù sulle acque una larga strada barbagliante di luce; poi di nuovo le masse di vapori in corsa - in assoluto silenzio, ma galoppando come sospinti dalle furie, ora sottili, ora più densi - veramente una notte ossianica - e nel mezzo del turbine, per una qualche tenera suggestione, ecco gli amici assenti o morti, del tempo antico, del passato - mentre dalle nebbie si spandono le note dei canti gaelici («Benedetto il tuo spirito, o Carril, nel cuore dei tuoi vènti vorticosi! O potessi venire nella mia casa quando sono solo, la notte! Ma tu veramente vieni, amico mio. Tante volte sento la tua mano leggera sulla mia arpa appesa al muro laggiù, l'orecchio ne coglie il flebile suono. Perché non mi parli nell'ora del dolore, e non mi dici quando potrò vedere i miei amici? Ma tu passi, svanisci tra il brontolio delle raffiche: il vento fischia nei capelli grigi di Ossian»), Ma più che altro sono quei subiti mutamenti di luna, quelle cortine di vapori in corsa e di nuvole nere, con quell'azione rapida nel soprannaturale silenzio, a richiamare alla mente l'antichissima credenza irlandese che fenomeni siffatti fossero i preparativi per accogliere gli spiriti dei guerrieri appena caduti («Eravamo quella notte a Selma, intorno alla forza della conchiglia. Il vento si sentiva fuori tra le querce. Lo spirito della montagna ruggiva. Il soffio del vento venne frusciando per la sala, sfiorò piano la mia arpa. Era un suono funebre e fioco, come la canzone della tomba. Fingal fu il primo a udirlo. Dal suo petto s'alzarono affollati sospiri. Alcuni dei miei eroi sono tristi, disse il grigio re di Morven. Sull'arpa sento suono di morte. Ossian, tocca la tremula corda. Fa che si parta il dolore, sì che i loro spiriti possano volare con gioia alle boscose colline di Morven. Toccai l'arpa al cospetto del re; il suono era funebre e fioco. Sporgetevi dalle vostre nubi, dissi, spettri dei miei padri! piegatevi. Abbandonate il rosso terrore della vostra condotta. Ricevete il condottiero che cade, sia che venga da terra lontana o sorga dal mare ondoso. Si prepari il suo abito di nebbia, la sua lancia fatta di nuvola. Ponetegli al fianco una meteora

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semispenta, nella forma della spada dell'eroe. E, oh! sia dolce il suo aspetto, che gli amici si possano deliziare della sua presenza. Sporgetevi dalle vostre nubi, dissi, spettri dei miei padri, piegatevi. Tale fu il mio canto a Selma, al tremulo suono leggero dell'arpa»). Non so come né perché proprio adesso, ma anch'io vado sognando e pensando ai miei amici migliori nelle loro case lontane - William O'Connor, Maurice Bucke, John Burroughs, la signora Gilchrist - amici dell'anima mia - amici fedeli dell'altra mia anima, la mia poesia. SOLO UN NUOVO FERRY 12 genn. '82. Uno spettacolo come quello che il Delaware presentava iersera un'ora prima del tramonto, nel lungo tratto tra Filadelfia e Camden, merita l'inserimento di uno speciale paragrafo. Era alta marea, con una dolce brezza da sud-ovest, l'acqua d'un color fulvo pallido, e quel tanto di movimento che bastava a rendere le cose gaie e vivaci. A questo aggiungete l'approssimarsi di un tramonto di inusitato splendore, un vasto tumulto di nubi tra molti vapori dorati e una profusione di raggi e bagliori accecanti. Nel mezzo di tutto ciò, nel luminoso pallore della luce pomeridiana, ecco venire sul fiume il nuovo grande battello, il Wenonah, un oggetto quanto mai grazioso a guardarsi, mentre sfiora la corrente leggero e veloce, tutto bianco e lindo, ricoperto di bandiere trasparenti rosse e blu che volano nella brezza. Solo un nuovo ferry, e tuttavia paragonabile, nella sua perfezione, ai piú aggraziati prodotti della sapiente Natura, e capace di competere con essi. Alti nell'etere trasparente, quattro o cinque immensi falchi marini si libravano con grazia o descrivevano cerchi, mentre quaggiù, tra lo sfarzo pittoresco del cielo e del fiume, nuotava questa creatura artificiale di bellezza, movimento e potenza, a suo modo non meno perfetta. MORTE DI LONGFELLOW Camden, 3 aprile '82. Sono appena tornato da una escursione in un'antica foresta dove amo di tanto in tanto rifugiarmi, lontano da salotti, strade asfaltate, giornali e riviste - e dove un limpido mattino, nel fitto dell'ombra di pini e cedri e grovigli di antichi allori e viti selvatiche, mi colse di sorpresa la notizia della morte di Longfellow. In mancanza di meglio, lasciate che io intrecci delicatamente un virgulto della dolce edera che si snoda così copiosa qui tra le foglie morte ai miei piedi, con i pensieri di quella mezz'ora trascorsa là in solitudine e silenzio, e la deponga come mio tributo sulla tomba del bardo morto. Sembra a me che Longfellow, nella sua voluminosa opera, non solo eccella per lo stile e le forme di espressione poetica che contrassegnano l'età attuale (una

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idiosincrasia, quasi una malattia di melodia verbale), ma che offra quanto in poesia v'è di più caro al cuore e al gusto degli uomini in genere (e dovrebbe esserlo, nell'ordine naturale delle cose). Egli è certamente il tipo di bardo e di antidoto più necessario a queste nostre razze anglo-sassoni, materialistiche, prepotenti, adoratrici del danaro - e soprattutto all'epoca attuale, in America - un'epoca tirannicamente regolata sulle esigenze dell'industriale, il mercante, il finanziere, il politico e l'operaio a giornata - per i quali e tra i quali egli giunge come il poeta della melodia, della cortesia e del rispetto - poeta del dorato crepuscolo del passato, in Italia, Germania, Spagna e Nord Europa - poeta di ogni umana gentilezza - e poeta universale delle donne e dei giovani. Dovrei certo pensare a lungo prima di rispondere se mi venisse chiesto di indicare l'uomo che ha fatto di più, e in più valide direzioni, per l'America. Dubito che sia mai esistito giudice o conoscitore di poesia più fine e intuitivo. Di molte delle sue traduzioni dal tedesco o dallo scandinavo si dice che siano migliori degli originali. Egli non stimola né sferza. L'effetto che viene da lui è simile a un buon bicchiere, o a una bella boccata d'aria. Non per questo è tiepido, anzi sempre vitale, e ha un sapore suo, e movimento e grazia. Si muove a uno splendido livello medio: non canta passioni eccezionali, né le contorte avventure dell'umanità. Non è un rivoluzionario, non vi porta niente di offensivo o di nuovo, non mena colpi forti. Al contrario, i suoi canti guariscono e placano, e se eccitano, si tratta di una eccitazione salutare e piacevole. Perfino la sua ira è gentile, di seconda mano (in The Quadroon Girl per esempio, e in The Witnesses). Nei canti di Longfellow l'elemento della pensosità non è mai superfluo. Persino nella sua traduzione giovanile, il Manrique, il movimento è quello di un vento, o marea, robusto e costante, che anima e sostiene. Non che tra i suoi molti temi venga evitata la morte; ma v'è sempre un che di trionfante, quasi, in quei suoi versi e modi originali di trattare il pauroso argomento - come nella chiusa alla disputa di The Happiest Land: Allora la figlia del padrone Al cielo alzò la mano Dicendo: «Non disputate più, Là è la terra più felice». Alla poco cortese accusa, o lagnanza, che manchi in lui sia ogni genuinità autoctona come ogni specifica originalità, risponderò solo che l'America e il mondo possono ben dirsi reverentemente grati - e mai forse abbastanza - per questo uccello canoro elargitoci dai secoli, senza chiedere che le sue note siano diverse da quelle degli altri cantori; aggiungendo a ciò quel che ho sentito dire dallo stesso Longfellow, e cioè che prima che il Nuovo Mondo abbia una sua degna originalità e possa proclamare se stesso e i suoi eroi, dovrà saturarsi a fondo di originalità altrui, e imparare a considerare con rispetto gli eroi vissuti prima di Agamennone. ATTIVITÀ GIORNALISTICA

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Reminiscenze (dal «Camden Courier»). Ero seduto a bordo del grosso ferry Beverly una o due sere fa, durante la mia solita traversata serotina del Delaware, quando fui avvicinato da due giovani reporter miei amici. «Ho un messaggio per voi, - disse uno - quelli del C. mi hanno incaricato di dirvi che gradirebbero un pezzo con la vostra firma per il primo numero. Potreste far questo per loro?». «Mi sa di sì», dissi; «e su che potrebbe essere?». «Mah, qualsiasi cosa sui giornali, magari su quel che avete fatto voi stesso, quelli che avete fondato voi». E se ne andarono, perché avevamo toccato la costa di Filadelfia. L'ora era bella e dolce, con una lucente mezzaluna; Venere che tramontava a ovest in un eccesso di fulgore, e il grande Scorpione spiegato per più di metà della sua lunghezza a sud-est. La traversata continuò tranquilla per un'ora nella bella scena notturna, mentre le parole dei miei giovani amici risvegliavano una lunga catena di reminiscenze. Cominciai quando non ero che un ragazzino di undici o dodici anni, scrivendo pezzetti sentimentali per il vecchio Long Island Patriot di Brooklyn; questo accadeva pressappoco nel 1832. Subito dopo mi pubblicarono uno o due articoletti nell'allora decantato e alla moda Mirror di New York City. Ricordo con quale malcelata eccitazione aspettavo ogni giorno il grosso, grasso, rosso, lento e vecchissimo fattorino inglese che distribuiva il Mirror a Brooklyn, finché, avutone uno, lo sfogliavo e tagliavo le pagine con le dita tremanti; e con che ritmo raddoppiato mi battesse il cuore a vedere il mio pezzo sulla bella carta bianca, in caratteri nitidi. Ma la mia prima vera impresa fu il Long Islander, a Huntington, la mia bella cittadina natale, nel 1839. Avevo allora circa venti anni. Per due o tre anni avevo insegnato in scuole di campagna in varie parti della contea di Suffolk e Queens, ma quel che mi piaceva era la stampa; ci avevo lavorato un poco da ragazzo, appresa l'arte del compositore, e mi sentivo incoraggiato a iniziare un giornale nella regione dove ero nato. Andai a New York, comprai pressa e arnesi, pagai un assistente ma finii per fare quasi tutto il lavoro da solo, compresa la stampa. Tutto sembrava andare per il meglio (fu solo la mia irrequietezza a impedire di costituirmi poco a poco una proprietà duratura). Comperai un buon cavallo, e ogni settimana facevo il giro della regione distribuendo il mio giornale, dedicando a questo compito un giorno e una notte. Non ho mai fatto gite più felici - scendere dalla parte meridionale, a Babylon, seguire la strada sud fino a Smithtown e Comac, poi via a casa. L'esperienza di quei giri, quei campagnoli con le loro mogli, così cari e all'antica, le soste lungo i campi di fieno, l'ospitalità, i bei pranzi, una seratina ogni tanto, le ragazze, le corse per la brughiera, tutto ciò ha continuato a tornarmi alla memoria fino a oggi. Fui poi all'Aurora il quotidiano di New York City - una sorta di «collaboratore indipendente». Scrivevo anche regolarmente per il Tattler, un giornale della sera. Lavorai più o meno regolarmente a questi, con qualche lavoretto esterno, finché non cominciai a dirigere il Brooklyn Eagle, dove ricoprii per due anni uno dei posti migliori della mia vita - paga buona, il proprietario una brava persona, comodi il lavoro e l'orario. La crisi del partito democratico scoppiò pressapoco in quel periodo

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(1848-49): io ruppi insieme ai radicali, e questo portò a litigi sia con il «capo» sia con il partito, cosicché persi il posto. Ero adesso senza lavoro, quando inaspettatamente mi fu offerta l'occasione (accadde una sera durante l'intervallo nel foyer del vecchio teatro di Broadway, vicino a Pearl Street, a New York City) di andare a New Orleans alla redazione del Crescent, un quotidiano che si sarebbe dovuto lanciare in quella città, e dietro il quale c'era un grosso capitale. Uno dei proprietari, che si trovava al nord a caccia di materiale, mi incontrò mentre passeggiavo nel foyer, e sebbene non ci fossimo mai visti prima, dopo quindici minuti di conversazione (e un bicchierino) raggiungemmo un accordo formale, per cui mi pagò subito duecento dollari per vincolarmi al contratto e sostenere le spese fino a New Orleans. Partii due giorni dopo; me la presi comoda dal momento che il giornale non sarebbe dovuto uscire prima di tre settimane. Il viaggio e la vita nella Louisiana mi piacquero molto. Tornato a Brooklyn uno o due anni dopo, fondai il Freeman, dapprima settimanale, poi quotidiano. Ben presto scoppiò la guerra di secessione, e fui travolto anch'io dalla corrente che si dirigeva a sud, dove trascorsi i tre anni che seguirono (come dagli appunti precedenti). Oltre a principiarne, come già detto, ho avuto a che fare nella mia vita con una lunga lista di giornali, a più riprese e in luoghi diversi, talora nelle circostanze più strane. Durante la guerra, gli ospedali di Washington avevano, tra gli altri strumenti di ricreazione, un giornaletto che stampavano lì, in quell'ambiente di ferite e di morte, la Armory Square Gazette, cui collaborai anch'io. La stessa cosa accadde, casualmente, parecchio tempo dopo con un giornale - credo si chiamasse The Jimplecute - del Colorado, dove mi trovavo momentaneamente. Nel 1880, trovandomi nella provincia di Quebec, in Canadà, entrai in una stranissima, piccola e antica tipografia francese, presso Tadousac. Era di gran lunga più primitiva e arcaica di quella del mio amico di Camden, William Kurtz, in Federal Street. Ricordo, da ragazzo molti tipi caratteristici di vecchi stampatori, una razza rara a trovarsi ai giorni d'oggi. IL GRAN FERMENTO DI CUI SIAMO PARTE Seduto oggi in solitudine nella penombra del ruscello, i miei pensieri presero a fluttuare su vaste correnti mistiche - convergendo principalmente su due punti o centri. Uno dei temi da me vagheggiati per un poema mai compiuto, è sempre stato il duplice impulso dell'uomo e dell'universo - e in quest'ultimo, il fermento incessante,*la desquamazione della natura (il concetto darwiniano di evoluzione, suppongo). E in verità, che cos'è la Natura se non mutamento, in tutti i suoi processi visibili, e ancor piú in quelli invisibili? O che cos'è l'umanità con la sua fede, il suo amore, il suo eroismo, la sua poesia, persino la sua morale, se non emozione?

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*«Cinquantamila anni fa la costellazione dell'Orsa Maggiore o Gran Carro era una croce di stelle; tra centomila anni l'immaginario carro sarà capovolto, e le stelle che formano la cassa e il timone avranno mutato posto. E in moto sono le caliginose galassie, le quali turbinano inoltre in grandi spirali, quali in un senso quali nell'altro. Ogni singola molecola di materia nell'intero universo oscilla avanti e indietro; ogni particella dell'etere che riempie lo spazio è in vibrazione, come un corpo gelatinoso. La luce stessa è un tipo di movimento, il calore un altro, l'elettricità un altro ancora, e così il magnetismo, il suono. Tutti i sensi dell'uomo sono risultato del movimento; ogni percezione, ogni pensiero, non altro che movimento di molecole cerebrali tradotto da quella indefinibile sostanza che chiamiamo mente. I processi di crescita, di esistenza e decadimento, sia di interi mondi che di organismi microscopici, non sono che movimento». (N.d.A.). ALLA TOMBA DI EMERSON 6 maggio '82. Sostiamo senza tristezza presso la recente tomba di Emerson - con una gioia anzi e una fede solenne, orgoglio quasi - la benedizione della nostra anima non ridotta a un semplice: «Riposa guerriero, il tuo compito è finito», poiché è certamente al di sopra dei guerrieri del mondo colui che giace qui simboleggiato. Un uomo giusto, equilibrato in se stesso, pieno d'amore, comprensivo, e sano e limpido come il sole. Né sembra tanto la persona di Emerson che siamo qui oggi a onorare - quanto piuttosto la coscienza, la semplicità, la cultura, gli attributi migliori dell'umanità, applicabili tuttavia se necessario alle cose di ogni giorno, e alla portata di tutti. Siamo così abituati a pensare che una morte eroica possa scaturire solamente da battaglie o tempeste, o da possenti duelli, o da occasioni drammatiche e rischi (non ce lo hanno forse insegnato per secoli in tutti i poemi, in tutti i drammi?), che ben pochi, anche tra coloro che più sinceramente piangono la recente dipartita di Emerson, sapranno apprezzare in pieno la matura grandezza di questo evento in cui pace e giustezza s'incontrano, come nella luce vespertina sul mare. Quante volte in futuro ritornerò sulle ore felici in cui, non molto tempo fa, ho contemplato quel volto buono, quegli occhi limpidi, la bocca che sorrideva in silenzio, la persona eretta malgrado l'età avanzata - fino all'ultimo capace di tanta vivacità e cordialità, e con una tale assenza di decrepitezza, che persino il termine venerabile non pareva adatto per lui. Forse questa vita, giunta adesso alla perfezione del suo sviluppo mortale, e a cui più nulla potrà apportare mutamento o danno, trova la sua aureola più luminosa non nei suoi splendidi risultati intellettuali o estetici, bensì nel fatto di costituire, nella sua interezza, una delle poche (ahimé quanto poche!) perfette e inconfutabili giustificazioni dell'intera classe dei letterati.

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Potremmo ben dire, come Abramo Lincoln a Gettysburg, «Non siamo noi che veniamo a benedire un morto - noi veniamo colmi di reverenza a ricevere da lui, se è possibile, una qualche benedizione per noi stessi e per il nostro lavoro quotidiano». MENTRE SCRIVO - PERSONALE (da una lettera a un amico tedesco). 31 maggio '82. «Da oggi sono entrato nel mio sessantaquattresimo anno. La paralisi che mi colpì circa dieci anni fa ha persistito, se pur con alterno corso - sembra ora essersi a poco a poco stabilizzata, e probabilmente continuerà a questo modo. Mi stanco con facilità, sono molto impacciato nei movimenti e non posso camminare a lungo; ma il morale è eccellente. Esco in pubblico quasi ogni giorno - ogni tanto faccio una lunga gita, in treno o in battello, centinaia di miglia - vivo per lo più all'aria aperta - sono abbronzato e robusto (peso 190 libbre) - continuo la mia attività e mantengo vivo il mio interesse per la vita, la gente, il progresso e le questioni del giorno. Mi sento piuttosto bene per circa due terzi del tempo. La mentalità che ho sempre avuto, quale che fosse, è rimasta affatto inalterata, benché nel fisico io sia semi-paralizzato e verosimilmente destinato a rimanerlo finché vivo. Ma lo scopo principale della mia vita sembra raggiunto - ho gli amici più devoti e appassionati, dei parenti affettuosi - e quanto ai nemici, per la verità non me ne curo», DOPO AVER SFOGLIATO UN CERTO LIBRO Ho tentato di leggere un dotto volume, stampato splendidamente, sulla «teoria della poesia», che ho ricevuto stamane per posta dall'Inghilterra - ma alla fine vi ho rinunziato. Ecco qui alcune note buttate giú d'estro subito dopo, così come le trovo tra le mie carte: Nella giovinezza e nella maturità la Poesia è ricca di luce e della variegata pompa del giorno; ma come a poco a poco l'anima prende il sopravvento (senza tuttavia escludere i sensi) il Crepuscolo diviene la vera atmosfera del poeta. Anch'io ho cercato e cerco ancora il sole più luminoso, e compongo i miei canti in conformità. Ma avanzando gli anni, le mezze-luci della sera significano per me molto di più. Il giuoco della Fantasia, con gli oggetti della natura sensibile come simboli, e la Fede - e con Amore e Orgoglio come invisibile impulso e forza motrice del tutto, creano quel curioso giuoco di scacchi che è una poesia. Professori e critici di poco conto non fanno che chiedere «Che cosa significa?». Ma la sinfonia di un buon musicista, un tramonto, le onde che rotolano sulla spiaggia - che cosa significano? Non v'è dubbio che nel senso più sottile e elusivo significhino qualcosa - a quel modo che l'amore, e la religione, e una grande poesia significano

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qualcosa; - ma chi potrà scandagliare e definire quei significati? (Non intendo qui fornire un alibi alla mancanza di controllo e ai voli frenetici - ma piuttosto giustificare l'anima che spesso si delizia di ciò che rimane indefinibile per l'intelletto e il calcolo). Il meglio della tradizione poetica potrebbe assomigliarsi a una conversazione al crepuscolo tra interlocutori distanti e nascosti, di cui ci giungano solamente pochi e spezzati mormorìi. Quel che non riusciamo a cogliere è molto di più - e forse l'essenziale. I più grandi brani di poesia vanno accostati solamente a una certa distanza, a quel modo che talvolta cerchiamo di notte le stelle, non fissandole direttamente, ma spostando lo sguardo da una parte. (A un amico e studente di poesia). Desidero soltanto metterti in rapporto. Il tuo cervello, il tuo cuore, la tua stessa evoluzione, devono non solo capire la materia, ma in gran parte fornirla. CONFESSIONI FINALI - CRITERI LETTERARI Queste garrule note si approssimano dunque alla fine. Saranno certo occorse ripetizioni, errori tecnici nell'ordine delle date, nella precisazione di dettagli botanici, astronomici, ecc., e forse anche altrove; - perché tra raccogliere, scrivere, spedire il materiale seduta stante, con questo caldo (fine luglio e tutto agosto '82), e non tener sospesi gli stampatori, ho dovuto andar di fretta, non un minuto da perdere. Ma per quanto riguarda la più profonda veracità dell'insieme - i riflessi di oggetti, scene, effusioni della Natura, sui miei sensi e sulla mia ricettività, quali essi m'apparvero - lo sforzo di offrire, a dai l'avesse a cuore, qualche squarcio autentico, i giorni rappresentativi della mia vita - e infine lo spirito e i rapporti di buona fede tra autore e lettore su tutti gli argomenti delineati, entro i loro limiti - su tutto ciò sento di poter avanzare aperte pretese. La sinossi della mia vita giovanile, Long Island, New York City e così via, e le note di diario della guerra di secessione, narrano da sole la loro storia. Il mio piano, nell'iniziare ciò che costituisce ampiamente la parte centrale del libro, era all'origine di raccogliere suggerimenti e dati per un poema sulla Natura, che avrebbe dovuto sviluppare le esperienze di una persona durante poche ore, con inizio in pieno mezzogiorno e continuando poi per tutto il resto della giornata - spinto a questa idea, credo, dal tardo pomeriggio della mia vita, ormai sopraggiunto. Ma subito scoprii che avrei potuto muovermi più a mio agio offrendo la narrazione di prima mano. (V'è poi quella lezione umiliante che si apprende nelle ore serene di una bella notte o una bella giornata: quando la natura sembra riguardare tutte le forme ricercate di poesia e d'arte come qualcosa di quasi impertinente). Così continuai, negli anni che seguirono, in varie stagioni e località diverse, a dipanare il filo del mio pensiero sotto la notte e le stelle (o nella mia stanza, quando vi ero confinato dai postumi della malattia), o a mezzogiorno spaziando con lo

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sguardo sul mare, o in battello su al Nord, quando solcavo il nero grembo del Saguenay - di tutto prendendo nota nell'ordine cronologico più assurdo, per poi cominciare a stampare qui direttamente da quegli appunti estemporanei, con le stagioni a malapena raggruppate, e senza nemmeno una correzione - con un tale timore di far svanire quella fragranza di aria libera di sole o di stelle che poteva essere rimasta attaccata a quelle righe, che non ho più avuto il coraggio di ficcarci il naso o di limarle. Ogni tanto (non spesso, e più che altro per contrasto) mi portavo in tasca un libro, o magari un gruppetto di pagine strappate da un volume mal ridotto o da un'edizione da pochi soldi; avevo quasi sempre qualcosa del genere a portata di mano, ma non lo prendevo se non quando lo stato d'animo lo richiedeva. In tal modo, completamente al di fuori di ogni convenzione letteraria, ho riletto molti autori. Di una certa fame di lettura io non riesco a spogliarmi, ma poi alla fine mi sorprendo a vagliarla alla luce della Natura - premessa essenziale, la definiscono molti; in realtà risultato culminante di ogni cosa, leggi, rapporti e prove. (Non è mai venuto in mente a nessuno che i criteri decisivi applicabili a un libro esulano totalmente dall'ambito tecnico e grammaticale, e che ogni opera veramente di prim'ordine ha ben poco o nulla a che fare con le regole e i metri dei critici ordinari? o con lo stucco esangue del dizionario di Allibone? Io ho immaginato che l'oceano e la luce del giorno, la montagna e la foresta, immettessero il loro spirito in un giudizio sui-nostri libri. Ho immaginato che una qualche disincarnata anima umana pronunciasse il suo verdetto). NATURA E DEMOCRAZIA - MORALE Più di ogni altra cosa la Democrazia si accorda con l'aria aperta: solo a contatto con la Natura è solare, robusta, sana - proprio come l'Arte. V'è bisogno di qualcosa che temperi l'una e l'altra - che le controlli trattenendole dagli eccessi, dalla morbosità. Prima di andarmene ho voluto rendere una testimonianza speciale a un criterio, un insegnamento antichissimo. La Democrazia americana con le sue miriadi di personalità, fabbriche, laboratori, magazzini ed uffici - le sue strade e case di città gremite di gente con la loro vita multiforme e sofisticata - se non trarrà vita e fibra da un regolare contatto con la luce e l'aria e i prodotti della natura, i paesaggi agricoli, gli animali, i campi, gli alberi, gli uccelli, il calore del sole e il libero cielo, è certamente destinata a vacillare e impallidire. A condizioni diverse da queste, noi non avremo mai grandi razze di artigiani, operai e gente comune (unica mèta specifica dell'America). Io non so concepire uno stadio fiorente ed eroico della Democrazia negli Stati Uniti, né possibilità per essa di sopravvivere, senza l'elemento della Natura come parte essenziale - il suo elemento cioè di salute e di bellezza - che stia veramente alla base di tutta la politica, la sanità, la religione e l'arte del Nuovo Mondo. E infine, la morale: «La virtù - diceva Marco Aurelio - cos'è mai se non un sentimento entusiastico e vivo di armonia con la Natura?». Forse veramente gli sforzi

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dei veri poeti e dei fondatori delle religioni e delle letterature di ogni epoca, sono stati e saranno sempre, nel nostro tempo come in quello a venire, essenzialmente gli stessi - richiamare cioè gli uomini dalle loro deviazioni testarde e dalle loro malsane astrazioni alla divina media, senza prezzo, originale e concreta.