Ghost Track
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Ghost Track, ottobre 2012
Un racconto di Federica Frezza per la collana Click di Reader's Bench
Tutti i diritti sono riservati
Fare da manager ad una band non è una faccenda da poco:
all'inizio sei convinto che sia tutto locali, alcool gratis e
un fiume di donne, ma presto tutto un altro genere di
realizzazione si fa strada e ti accorgi che c'è ben altro.
Per prima cosa devi essere sempre presente per il gruppo,
pronto ad esaudire o placare ogni loro richiesta per quanto
bizzarra, il che, come si può facilmente intuire, diventa un
lavoro lungo e tedioso quando si abbia a che fare con
personalità, come dire... Forti.
Inoltre bisogna avere raffinatissime capacità
organizzative: probabilmente avrai a che fare con persone che
non sono in grado, per una ragione o per l'altra, di occuparsi
in modo efficace di se stesse, quindi devi sempre sapere al
posto loro dove debbano essere, quando e a fare cosa. Devi per
di più tenere presente che, quale che sia l'appuntamento, loro
saranno probabilmente in ritardo o impreparate per quanto
riguarda l'equipaggiamento o il vestiario o l'apporto
alcolemico richiesto dalla situazione. Insomma, quale che sia
il problema, tu devi sempre avere pronti parecchi piani di
riserva, io di solito arrivo alla M, alla M di maelstrom. A
volte M di minorenne, ma d'altronde è un alfabeto che cambia
con il vento (A di avvocato, B di bordello, C di cauzione, D
di denuncia, E di espatrio, F di ferita, ...)
Ma soprattutto, più di ogni altra cosa, è fondamentale
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che tu rimanga sempre e comunque calmo.
Che è qualcosa in cui non ho mai eccelso, e fino ad ora
ero convinto che fosse un pregio. Hai presente quelle persone
sempre tranquille e in pace, quelle che non si arrabbiano mai
in macchina, quelle che possono stare ferme, su una sedia a
guardare fuori da una finestra? Ecco, io non ci riesco. Mi
annoio in un bagno turco, durante un massaggio, nelle scene di
panoramiche al cinema. Non riesco neanche più a leggere con
piacere, per via di questa mancanza cronica di pazienza, salto
le pagine a piccoli mazzi solo per il gusto di sapere come
vada a finire e quando lo scopro non so perché debba
soddisfarmi, eppure non mi basta per tornare indietro e
scoprire il resto della trama che ho trascurato.
Quasi dimenticavo, ti dicono che dovrai fare dei
sacrifici, per fare carriera nel mondo della musica, anche
nell'approccio dietro le quinte che ho io. E tu ingenuamente
pensi non si fanno sempre e comunque, dei sacrifici? Per
qualsiasi cosa? E accetti senza pensarci due volte, o tre o
quattro, pensandoci comunque una volta in meno rispetto a
quanto sarebbe prudente fare.
E finisci, prima di rendertene conto, dove sono io.
Aspetta. Forse a pensarci bene, anche se per caso sei il
manager di una band, difficilmente sei nella posizione in cui
sono io.
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Non sto facendo il gradasso, credimi.
Perché io sono il manager della più grande band del
pianeta.
Penserai che io sia arrivato, vero? È soltanto perché
dalla pianura la montagna sembra riservare chissà quali grandi
sorprese. E forse, dovessi decidere di scalarla, potresti
voler prendere la seggiovia come ho fatto io invece di sudare
e piangere ogni singolo passo.
Auguroni.
Perché io sono arrivato, questo è vero. Ma non è granché,
qui dove sono. La mia vita è una rincorsa continua e farei di
tutto per andarmene, andarmene non so dove.
La sera prima tutto sembrava lontano.
"Non possiamo. Non farlo davvero."
"Sì che possiamo. Possiamo e lo faremo."
"E tu credi davvero che, anche ponendo che la cosa
funzioni, noi si possa essere in grado di controllarla?"
"E perché no, scusa! Tu devi sempre vedere tutto
negativo, ecco."
"Secondo te, se fosse così facile, potremmo davvero
essere i primi ad averci pensato? Alex dai, rifletti!"
"Ma cosa ne sai che qualcuno non l'abbia mai fatto prima!
Guarda, mi vengono in mente al volo almeno dieci circostanze
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dall'aria sospetta, io indagherei."
"Vedi che sei un cretino?"
"Senti, siamo seri: Aqua? Keane? Mumford and sons? Pensi
davvero che Thom Yorke sia al suo primo giro su questo
pianeta, DAVVERO?"
"Beh, io dico che non possiamo."
"Certo che lo dici, Dave. È quello che dici sempre.
Stessimo a sentire te non potremmo fare mai niente."
"Se vuoi quella è la porta, accomodati."
"Signore, avanti..." Disse Nick emergendo dal buio della
stanza accanto. "Non c'è davvero ragione di litigare così."
Lunga pausa. "Jack? Dillo ai ragazzi che non c'è ragione di
litigare così."
Non sapevo cosa rispondere. I suoi occhi acuti e pungenti
erano veloci e mi scavavano dentro, mi sfogliavano come un
libro.
"Certo, hai ragione. Ragazzi dai, non litigate." Intonai
la frase con più sentimento possibile, come se fossi stato
addolorato davvero alla vista di due amici avventatamente sul
punto di darsele di santa ragione.
Se avessi avuto voglia di essere onesto avrei ammesso,
almeno a me stesso, che non ne ero affatto addolorato, ma
intrattenuto. Per tutta la vita ho approfittato spesso di un
preconcetto comune: l'associazione tra i miei occhi (grandi e
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profondi e del colore del cioccolato più dolce) e i pensieri
che custodiscono; data l'apparenza dei primi, i più danno per
scontato che i secondi non possano che essere, quasi di
conseguenza, teneri e accoglienti, alloggio di un animo
sensibile, osservatore e amante del silenzio.
È falso.
Se Nick aveva gli occhi glaciali, di quel blu menta
fredda che salta irrimediabilmente fuori quando i telegiornali
devono descrivere un criminale, io ho sempre saputo di abitare
dentro un viso da ragazzino. Ho sempre saputo che, in
posizione neutra, la mia bocca è perennemente stabile in un
accennato sorriso languido. Mi sono chiesto in più occasioni
se l'insieme potrebbe mai, nell'eventualità, tornarmi utile in
tribunale. Nessun vicino di casa potrebbe affermare "ho sempre
sospettato che ci fosse qualcosa che non andava in quel
ragazzo, con quello sguardo freddo...", nessuna comare
lamenterebbe "Mai un cenno o un saluto per le scale, sempre
con il muso!". Signori della giuria, ma guardate questo viso
da bimbetto, non penserete che possa essere capace di atti
così atroci! È evidente che il mio cliente è stato incastrato!
Mi è sempre piaciuto pensare che andrebbe così.
Ma sto divagando.
Quella sera, dicevo. Era appena il tramonto, e noi
eravamo tutti in casa di Nick, teoricamente per studiare.
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Ciascuno il suo libro, ben chiuso ancora nello zaino, ed un
mare di sigarette che si dissolvevano in una nuvola morbida,
che ormai ci conteneva come la nebbia di un sogno.
Forse Alex e Dave mi conoscevano abbastanza da sapere che
la loro lite mi divertiva. Forse si muovevano come scimmiette
ammaestrate. Io amo pensare che lo sapessero, da qualche
parte, ma che non avessero il coraggio di dirselo.
Li guardai abbassando un po' il viso e producendomi in un
sorrisetto innocuo, è uno stratagemma che mi rende appetibile
alle donne e simpatico agli uomini.
Poi guardai Nick. Anche lui, oltre la spocchia, il
linguaggio ricercato e le giacche di pelle, sapeva di non
essere in posizione decisionale. Perché quel ruolo, volente o
nolente, era mio.
"Allora?" Mi chiese Alex dopo quel momento di silenzio
generale che rischiava di protrarsi troppo a lungo e far
cadere tutte le maschere.
La mia maschera prevedeva che io fossi il saggio,
intelligente, sensibile consigliere che riflette prima di
parlare cui nessuno può fare a meno di dar retta.
Era divertentissimo.
Lasciai qualche sguardo disegnato con cura a vagare tra
di loro, prima di parlare, perché rimanesse loro impresso e
potessero appieno rendersi conto che, comunque fossero andate
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le cose, quello sarebbe stato un momento da ricordare.
"Io dico che lo faremo, e lo faremo bene. C'è da fare
soldi a palate."
La discussione si chiuse così.
Come potessero non rendersi conto che pilotavo le loro
vite era un mistero.
Che se ne rendessero conto, in realtà, era probabile.
Che me lo lasciassero fare comunque era,
indiscutibilmente, follia.
Era tutto cominciato da una frase innocua: "Ti immagini
un universo in cui Cobain non sia morto?"
Ma Alex a quel punto era vicinissimo ad una laurea in
fisica che era il sogno di un ragazzino che aveva letto Asimov
anche al catechismo e Dave aveva subito così tante delusioni
amorose che aveva la rubrica piena dei numeri di maghi,
veggenti e assortiti aiuti spirituali.
Nick, qualsiasi attività stesse svolgendo, sembrava
sempre momentaneamente occupato, in attesa che qualcosa di
autenticamente divertente si affacciasse all'orizzonte.
Io guardavo. Non fu difficile intravvedere come tutte
queste linee avrebbero finito per scontrarsi.
"Pensi davvero che sia possibile?" Dissi una notte ad
Alex prima di lasciarlo da solo a lavorare in garage. Lui
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sollevò il viso dal saldatore, si alzò la maschera per
fissarmi dritto negli occhi.
"Sì. Davvero." Mi disse.
Venti giorni più tardi il macchinario era pronto.
Sul pavimento un mosaico di pentacoli e scritte in lingue
dimenticate promettevano di chiamare esattamente chi
aìvolevamo noi.
Alex ci convocò a casa sua, la madre, ignara di tutto, ci
offrì una limonata come se avessimo ancora avuto i pantaloni
corti e le ginocchia sbucciate.
L'accesso al garage era stato vietato a tutti e la
famiglia di Alex aveva docilmente obbedito, ben conscia da
sempre degli strani interessi del primogenito.
Salutammo sua madre con preoccupanti sorrisi da bimbi
studiosi e ci dirigemmo verso l'autorimessa.
"Non è stato facile, sapete."
"Posso solo immaginare."
"Ho basato il tutto sui muoni, per la teoria
dell'universo ombra, non visibile, ma coesistente al nostro.
Gliela facciamo vedere noi a quelli del CERN."
"Ancora non ti va giù, eh?"
"Lascia stare. Dicevo. Il tutto si ispira principalmente
ai lavori di Niels Bohr e Warner Karl Heisenberg attorno al
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1927, la dualità onda-corpuscolo. Non potreste capire."
Blaterava Alex senza sosta mentre, delicatissimo come se fosse
stato impegnato a spogliare una bella donna, sollevava lembi
di un'enorme copertura sotto cui, braccio per braccio,
spuntava la struttura del macchinario. "Il problema
naturalmente era trovare l'accesso a multipli universi ombra.
Ma..." Tolse l'ultimo lembo "Ce l'ho fatta."
La macchina era spaventosa, a vedersi. Una congerie di
cavi, punte e viti degna del più terrificante studio
dentistico del mondo. Il metallo di cui era composta aveva le
provenienze più assortite, quindi c'erano parti di acciaio
brillante, ferro ruvido, punti di ruggine, parti verniciate.
Un mostro da animare con un fulmine per tormentare gli incubi
di tutte le macchine normali fino alla fine dei tempi. Al
centro, come in un ripugnante nido artificiale, una sedia da
ufficio, la cui struttura in metallo era collegata a troppi
fili colorati per potercisi sedere con tranquillità. Un solo
piccolo monitor, con pesanti scritte verdi, parlava con Alex
dicendogli come il sistema stesse procedendo.
"Funziona?" Chiese Nick.
"Ho dato solo un'occhiatina. E da quello che posso aver
visto direi di sì. Ci servono solo due cose, adesso: decidere
la formazione una volta per tutte e... Il vero problema: i
corpi ospite."
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Ci vuole una certa attitudine, non facilmente reperibile
sul mercato, per fare il kamikaze. Ed era esattamente di
questa merce così rara che eravamo in cerca. È evidente che i
parametri di ricerca andavano regolati in modo preciso:
"Senza tetto? Non so, tossici, o gente scappata di casa?"
"Devono essere belli, però. O marci in modo affascinante,
quanto meno."
"Quanti?"
"Facciamo tre?"
"Un trio... Non so, fa tanto anni Novanta."
"Quattro allora."
"Vada per quattro."
La decisione della formazione fu, senza tema di suonare
troppo tragico, un inferno. Prova a mettere insieme quattro
persone per decidere quali grandi musicisti del passato vadano
fatti rivivere e voglio proprio vedere quanto ci mettereste
voi a trovare un accordo. Per noi ci vollero tre settimane e
mi ricordo solo qualche stralcio e urlo qua e là: "Kurt alla
chitarra ce lo mettiamo?" "Beh, almeno in nome del fatto che
tutta l'idea è venuta da lui. Seconda chitarra, però" "È
evidente che prima chitarra mettiamo Lennon."
"Noel Redding al basso?"
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"Non dire cretinate, Alex, al basso, ovviamente, Sid
Vicious."
"Batteria?"
Decidemmo per Keith Moon alla batteria.
Pensammo che il frontman, tra tutti loro, sarebbe emerso
da solo.
E da un certo punto di vista fu proprio così.
Vennero legati alla sedia uno per uno. Nessuno aveva la
forza di farsi domande, o la voglia di combattere, o qualcosa
per cui restare.
Sono i nomi che certamente conosci, perché sono su ogni
rivista, cartelloni giganteschi, radio in giro per il mondo.
Louis fu il primo. Lo trovammo avvolto in cartoni umidi
in un angolo di Urlwin Walk, a Brixton, aveva molto freddo.
I capelli naturalmente chiari ci fecero pensare proprio a
Kurt e ritenemmo fosse un buon inizio; erano solo un po'
troppo lunghi e un po' più radi, ma bastò un buon
parrucchiere. A vederlo oggi lo diresti mai? Appunto.
Louis fece solo un paio di domande, la terza fu sedata da
un pacchetto di sigarette e da un panino che smembrò in pochi
morsi.
Quattro ore più tardi di Louis non c'era più traccia, e
Kurt scopriva cosa fosse il mondo senza di lui.
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Nell'universo accanto, in un'inaspettata tragedia
automobilistica nelle spire di uno svincolo autostradale,
perdeva la vita Mr Cobain, di anni quarantacinque, con un
passato ormai lontano di rockstar maledetta.
Shane fu reclutato alla mensa del lunedì. Ci colpirono le
dita lunghe con cui stringeva la scodella di plastica. Gli
occhi felini con un guizzo infantile dentro, le spalle
perfette perché orde di ragazze più o meno giovani potessero
immaginarsele intorno.
John Lennon per qualche ragione non fu molto
accondiscendente quando, una volta preso il controllo del suo
nuovo guscio, gli spiegammo il piano.
"Io suonare con il nome di un altro?!?" Gridava. Gli
spiegammo perché, nel nostro universo, lui non ci fosse.
"Posso incontrarlo?"
"CHI! Mark David Chapman? Certo che no! È ancora in
galera!"
"Perchè?"
"Perchè hanno paura che lo ammazzino appena metta un
piede fuori."
"Oh. Pensate che mi riconoscerebbe?"
"Ne dubito. Giudica tu stesso." Gli passammo uno
specchio. Anche se appariva così diverso io sapevo chi ci
fosse dietro quello sguardo e non potevo fare a meno di
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sentirmi in soggezione. "Nemmeno Yoko saprebbe dire che sei
tu."
"Yoko è ancora viva?"
"Ehm... Qui sì."
Alex fece una veloce ricerca al computer per mostrargli
un'immagine recente. "Vuoi dirmi che anche io sono così
vecchio?!?"
"Non più." Gli disse Nick, mostrandogli il suo nuovo
riflesso allo specchio.
Per Keith Moon fu più facile che per tutti gli altri.
Pensammo che a livello fisico fosse necessaria una
preparazione di un certo livello, quindi contattammo un
giovane insegnante di batteria, Neal.
Sono convinto che, dovunque Neal sia, goda al pensare che
le sue dita oggi suonino sotto i tocchi di chi ha ritmato gli
Who. Non apparve neanche stupito quando Dave lo colpì in testa
con la bottiglia, non una minima reazione.
Poi arrivò il turno di Sid. E Sid, evidentemente per
natura, porta complicazioni.
Non riuscivamo a trovare un candidato adatto, non importa
dove cercassimo e quanto tentassimo di allentare i nostri
rigidi standard. Poi incontrammo Penny Brown.
Penny Brown è una ragazza splendida, come ogni grande
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fotografo, produttore o stilista può confermarti. Non facile,
lavorare con lei, questo no. Ma bella da fare paura.
Era la notte del 14 settembre, e noi stavamo perdendo le
speranze: Kurt/Louis aveva serie difficoltà di coordinazione,
il pensiero mancino di Kurt collideva con il corpo destrimane
di Louis e il risultato era che non si poteva lasciare in giro
niente di fragile. John/Shane si divertiva a stampare a poco
prezzo immagini dei Beatles e ad autografarle per venderle a
prezzi stratosferici su ebay. Keith/Neal era gravemente
lunatico: un momento l'entusiasmo fatto persona, l'attimo dopo
un tornado in grado di ridurre una stanza in una discarica.
Aveva ripreso uno dei passatempi preferiti del Keith Moon del
nostro universo, cioè far andare giù per il water esplosivi e
mortaretti di ogni genere che esplodendo causavano
terrificanti danni al sistema fognario del quartiere di Alex.
La scusa di una grave grastroenterite non avrebbe retto ancora
a lungo.
Con una compagnia del genere quella sera avevamo deciso
di uscire a bere qualcosa, semplicemente perché era un venerdì
ed il nostro sangue ci ordinava di farlo.
Finimmo in un locale minuscolo e puzzolente, il Silver
Bullet. Tristi scritte sui vetri ad annunciare la quiz night
del martedì, un triste capolinea degli autobus dall'altra
parte della strada, anche il buttafuori era triste quando
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arrivammo, ci sorrise neanche fossimo i Re Magi carichi di
doni. "La band di stasera è grande, vedrete!" Ci disse mentre
ci stampava una S (S di siringa, o di Sparizione, o di
Scenata) sul dorso della mano.
La band di quella sera non la vedemmo neanche. Perché a
cantare per loro e ad attrarre l'attenzione di tutti i
presenti, c'era Penny Brown.
Non so se ti sia mai capitato di incontrare una di quelle
persone un po' luccicanti. Penny Brown era così. Non ti
guardava spesso negli occhi, mentre le parlavi, ma quando lo
faceva, santo Dio. Il sangue bolliva e si gelava allo stesso
tempo. La caricammo in macchina invitandola ad una festa, lei
aveva bevuto e non esitò. Era seduta con me sul sedile di
dietro, e mentre mi raccontava della sua coinquilina Beth cui
aveva insegnato a darsi lo smalto, per un attimo, ebbi un
momento di dubbio.
Per fortuna, proprio mentre stavo per mandare all'aria
tutto, le suonò il telefono. La suoneria era Cheryl Cole con
Fight for This Love.
Mi resi immediatamente conto che quel corpo con Sid
Vicious dentro non avrebbe potuto far altro che migliorare.
John Simon Ritchie a.k.a. Sid Vicious, che a due universi
dal nostro non aveva mai neanche fumato una sigaretta, suonava
il basso per diletto, ed era, privo di sostanze psicotrope,
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timido e riservato.
Non fu semplice fargli accettare il suo nuovo corpo
femminile, perché continuava a tastarsi il seno con gioiosa
incredulità.
"Ma... Adesso, non saprei dire così su due piedi, ma
immagino che io continui a sentirmi attratto dalle donne, è un
problema?"
"Assolutamente no. Anzi. Che non ti venga in mente di
farne mistero."
Quando Sid si ambientò, a sole sei ore dall'ingresso in
Penny, pensammo che il nostro lavoro fosse finito. Alex si
stava persino preparando a spiegare il telone per ricoprire il
macchinario chiacchierando da solo sul cosa fare dei pezzi una
volta che fosse smantellato.
Poi successe qualcosa, nessuno avrebbe potuto prevederlo,
non credo ci fosse nulla che nessuno di noi avrebbe potuto
fare.
Successero mille cose tutte insieme, ma fu un secondo
soltanto, al massimo due: Kurt/Louis urtò il tavolo da lavoro,
un vaso pieno di chiodi e viti si infranse a terra facendo
saltare Dave come fanno i topolini con gli elefanti; Alex si
voltò di scatto per controllare che non si fosse rotto niente
di insostituibile, Keith/Neal preso alla sprovvista ebbe un
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sobbalzo e un paio di pop-rock (lo trovavo ironico) gli
scivolarono dalla tasca, eplodendo prontamente appena toccato
il pavimento, come quando in un western il cattivo spara per
terra per far ballare il buono. Al che Sid/Penny si accasciò
su una vecchia poltrona colto/a da un lieve malore, io mi
chinai su di lui/lei per controllare che stesse bene, Nick si
avvicinò per fare lo stesso, ma... Immagino sia scivolato su
un bullone o qualcosa del genere.
Un istante, ti dico, niente di più. Cadde all'indietro
atterrando proprio sulla poltrona al centro del macchinario,
che Alex non aveva ancora scollegato, alcuni cavi gli piovvero
addosso come macerie di un crollo. Alex si avvicinò per
liberarlo, appena il tocco di un polpastrello e lo vidi
decollare a quattro metri di distanza e sbattere contro la
parete. Nick era attraversato da lampi azzurri che lo
scuotevano come una marionetta rotta.
Fu Dave ad avere la prontezza di abbassare la pesante
leva del generatore che alimentava la macchina.
Il garage sprofondò nel buio più assoluto, un buio da
grotta senza uscita.
Qualche minuto trascorse così, immagino, poi dal
silenzio, sentimmo una voce che conoscevamo, ma con dentro una
nota diversa:
"I WANT TO BREAK FREE! Ssssì! Finalmente! Mio Dio, queste
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corde vocali sono terribili!"
Ci volle quasi un anno di prove. Le personalità che
avevamo scelto non si amalgamavano senza qualche grumo ogni
tanto, ma alla fine mettemmo fuori un demo incredibile. Lo
trovi soltanto in edizione limitata, quando un collezionista
al verde se ne deve separare per non meno di qualche migliaio
di sterline, ormai. Iniziammo a suonare in giro e il
passaparola fece il resto. Finirono sulla copertina di Rolling
Stone prima di avere un album in vendita.
Alex non si riprese mai del tutto. Hai mai visto
l'autista un po' strambo del nostro tour bus? Ecco, quello è
Alex; non te la prendere se quando gli parli non ti risponde,
non lo fa per cattiveria, sono gli spasmi.
Dave l'hai sicuramente visto sul palco, è il roadie che
si occupa delle chitarre.
Ed io sono quello calmo, che assiste ai concerti dalle
quinte con le braccia conserte.
Quello calmo, che respira lentamente, conto uno quando
inspiro e due quando espiro, mi si calma il battito cardiaco,
così.
E mentre conto e mi si calma il battito cardiaco penso a
Nick, a Penny, a Louis e Neal e a Shane, che nessuno sa se ne
siano andati. E a quei cinque universi cui abbiamo tolto una
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scheggia di luce per illuminare con una fiammata di mercurio
il buio che ci ha coperto qui.
"Federica Frezza è una che fugge. Ha trent'anni e qualcosa, ma portandoli abbastanza bene e mentendo spesso deve sempre fare i conti per ammettere che siamo arrivati a trentadue. Ha frequentato Lettere Moderne a Bologna dove è nata e vissuta, periodo desolato che non ricorda con piacere. Da un paio
d'anni vive e lavora a Londra come giornalista musicale. Il suo primo libro, esaurito in versione cartacea, è stato recentemente rimesso in commercio in formato e-book tramite amazon e il sito www.federicafrezza.net. Una sua storia breve è uscita nel 2011 Regno Unito nella raccolta All the king's horses incontrando recensioni estremamente generose. Fuma molto, è un po' pigra e potrebbe parlare anche con un sasso."