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EUROPA E DIRITTO PENALE Francesco Viganò (Estratto da due contributi a firma dell’autore – dedicati rispettivamente alla ricostruzione dei rapporti tra le fonti europee e l’ordinamento italiano, e alle interazione tra tali fonti e il diritto penale sostanziale – già pubblicati in un supplemento ai numeri 7-8 del 2011 di Diritto penale e processo. Il testo è aggiornato al giugno 2011) Il presente estratto è inteso unicamente come supporto alla lezione svolta a Napoli il 23 settembre 2015 dall’autore. A) FONTI EUROPEE E ORDINAMENTO ITALIANO 1. Una materia per iniziati? Il diritto europeo è oggi un tema alla moda tra i penalisti e i processualpenalisti italiani: tra i teorici così come tra i pratici. I fraintendimenti e gli equivoci sono però in agguato non appena ci si avventuri in questo territorio, estraneo alla formazione tradizionale del penalista. Uno dei fraintendimenti più comuni – nel quale incorrono peraltro continuamente anche i media e i politici italiani – consiste ad es. nella confusione tra il quadro istituzionale e le fonti del Consiglio d’Europa e quello, tutt’affatto diverso, dell’Unione europea: tra la “grande” e la “piccola” Europa, insomma. Accade così di frequente di sentir parlare di diritto “comunitario” con riferimento a sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, o ancora di sentir citate sentenze della Corte “europea” senza che sia dato comprendere se si tratti di pronunce della Corte di Strasburgo o di Lussemburgo. Più in generale, affrontare qualsiasi tema concernente delle interazioni tra fonti europee (riconducibili all’una o all’altra Europa) e materia penale richiede una certa consapevolezza di fondo sugli sfondi storici, politici, istituzionali e propriamente giuridici sui quali si innestano le fonti europee medesime: senza la quale consapevolezza si rischia continuamente di compiere passi falsi come quelli appena menzionati. D’altra parte, le ormai numerosissime trattazioni monografiche e i pregevoli contributi della dottrina italiana su questo tema tendono a dare per scontati molti passaggi preliminari, che per molti studiosi del diritto e della procedura penale, così per moltissimi pratici, scontati non sono affatto: non foss’altro che perché gli sviluppi di cui parliamo sono in gran parte assai recenti, e i corsi universitari in cui si è formata la generazione dei penalisti sopra i quarant’anni spesso non contemplavano nemmeno il diritto comunitario come materia di studio

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EUROPA E DIRITTO PENALE

Francesco Viganò

(Estratto da due contributi a firma dell’autore – dedicati rispettivamente alla ricostruzione dei rapporti tra le fonti europee e l’ordinamento italiano, e alle interazione tra tali fonti e il diritto penale sostanziale – già pubblicati in un supplemento ai numeri 7-8 del 2011 di Diritto penale e processo. Il testo è aggiornato al giugno 2011)

Il presente estratto è inteso unicamente come supporto alla lezione svolta a Napoli il 23 settembre 2015 dall’autore.

A) FONTI EUROPEE E ORDINAMENTO ITALIANO

1. Una materia per iniziati?

Il diritto europeo è oggi un tema alla moda tra i penalisti e i processualpenalisti italiani: tra i teorici così come tra i pratici. I fraintendimenti e gli equivoci sono però in agguato non appena ci si avventuri in questo territorio, estraneo alla formazione tradizionale del penalista. Uno dei fraintendimenti più comuni – nel quale incorrono peraltro continuamente anche i media e i politici italiani – consiste ad es. nella confusione tra il quadro istituzionale e le fonti del Consiglio d’Europa e quello, tutt’affatto diverso, dell’Unione europea: tra la “grande” e la “piccola” Europa, insomma. Accade così di frequente di sentir parlare di diritto “comunitario” con riferimento a sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, o ancora di sentir citate sentenze della Corte “europea” senza che sia dato comprendere se si tratti di pronunce della Corte di Strasburgo o di Lussemburgo. Più in generale, affrontare qualsiasi tema concernente delle interazioni tra fonti europee (riconducibili all’una o all’altra Europa) e materia penale richiede una certa consapevolezza di fondo sugli sfondi storici, politici, istituzionali e propriamente giuridici sui quali si innestano le fonti europee medesime: senza la quale consapevolezza si rischia continuamente di compiere passi falsi come quelli appena menzionati. D’altra parte, le ormai numerosissime trattazioni monografiche e i pregevoli contributi della dottrina italiana su questo tema tendono a dare per scontati molti passaggi preliminari, che per molti studiosi del diritto e della procedura penale, così per moltissimi pratici, scontati non sono affatto: non foss’altro che perché gli sviluppi di cui parliamo sono in gran parte assai recenti, e i corsi universitari in cui si è formata la generazione dei penalisti sopra i quarant’anni spesso non contemplavano nemmeno il diritto comunitario come materia di studio

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obbligatorio. Lo scopo, davvero modesto, di questo contributo vuole essere allora quello di aiutare il lettore ancora ‘inesperto’, ma volonteroso, ad impadronirsi delle coordinate essenziali che gli permetteranno, speriamo, di meglio orientarsi in questa tematica: che è sì relativamente complessa, ma che non è una materia per iniziati. Come è stato tante volte ripetuto, il giudice penale italiano – ciascun giudice penale italiano – oggi è, e deve concepirsi come, il primo giudice del diritto europeo, della “grande” come della “piccola” Europa: diritto che è ormai divenuto parte integrante dello stesso ordinamento giuridico italiano, come cercheremo di meglio illustrare più innanzi. Nulla di originale, dunque, si potrà leggere nelle pagine che seguiranno, nelle quali anche le citazioni bibliografiche saranno davvero ridotte al minimo, per non sottrarre troppo spazio all’illustrazione, nella forma più piana possibile, dei passaggi fondamentali che ciascun studioso ed operatore del diritto penale dovrebbe oggi conoscere.

2. La “grande Europa”: il quadro istituzionale e l’attività del Consiglio d’Europa

Il primo compito da adempiere è, allora, quello di chiarire una volta per tutte la cruciale distinzione tra le due Europe cui facevamo cenno nell’introduzione. Partiamo dalla “grande Europa”, la cui data di nascita è del resto la più risalente. Siamo nel 1949, all’indomani della tragedia della seconda guerra mondiale, che aveva visto il continente europeo trasformato in un immenso campo di battaglia, teatro di atrocità forse senza precedenti nella storia. Dieci Stati (Italia, Francia, Benelux, Regno Unito, Irlanda e Paesi scandinavi), ai quali si aggiungerà l’anno successivo la Germania, fondano il Consiglio d’Europa: un’organizzazione internazionale con sede a Strasburgo, la cui missione istituzionale è quella di trasformare il continente martoriato in uno spazio in cui siano garantiti a) i diritti dell’uomo, b) la democrazia, c) lo Stato di diritto. Questi i tre obiettivi fondamentali che costituiscono, a tutt’oggi, lo scopo e la ragion d’essere del Consiglio d’Europa1. Ai dieci Stati fondatori si aggiungono gradatamente tutti gli Stati del continente europeo: a cominciare dalla Turchia, nello stesso 1949, passando per la Germania nel 1951, per giungere - dopo la caduta del muro di Berlino - a tutti gli Stati dell’ex blocco comunista e alla quasi totalità delle repubbliche ex sovietiche, Federazione russa in testa. In tutto, ad oggi, 47 Stati. Uno dei primi atti della neonata organizzazione internazionale fu la stipula della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma nel 1950: una solenne dichiarazione, che segue a brevissima distanza quella omologa adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite del

1 Per un primo quadro di insieme sul Consiglio d’Europa, sulle sue istituzioni e attività è di grande utilità la consultazione del sito ufficiale http://www.coe.int, al quale si rinvia qui per ulteriori approfondimenti. Uno degli elementi che oggettivamente può favorire la confusione tra “grande” e “piccola” Europa (e cioè l’Unione europea, di cui si di appresso nel testo) è l’identità della bandiera della due organizzazioni - dodici stelle disposte a cerchio su fondo blu -: bandiera che tutti ben conoscono anche in Italia, essendo ormai esposta in ogni edificio pubblico accanto a quella italiana. Dal sito del Consiglio d’Europa (http://www.coe.int/aboutCoe/index.asp?page=symboles) si apprende, peraltro, che tale bandiera era stata adottata originariamente (sin dal 1955) proprio dal Consiglio d’Europa, e che solo nel 1986 essa fu adottata – con il consenso del Consiglio d’Europa - come emblema anche delle allora esistenti Comunità europee, dalle quali sarebbe poi scaturita l’attuale Unione europea. La bandiera divenne così simbolo delle radici culturali comuni di tutti i popoli europei, evidenziandosi così al tempo stesso la comune ispirazione di fondo che lega i due quadri istituzionali europei - quello, appunto, della “grande” e della “piccola” Europa. Diverso, invece il logo del Consiglio d’Europa, che il lettore potrà direttamente visionare sul sito citato: il medesimo cerchio di stelle su sfondo blu che ritroviamo sulla bandiera, intersecato però tra una grande C dorata.

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1948, con la quale gli Stati membri del Consiglio d’Europa si impegnano a rispettare e a promuovere, nell’ambito delle rispettive giurisdizioni, i diritti e le libertà fondamentali dell’individuo sanciti dagli articoli 2-14 della Convenzione. Numerosi protocolli addizionali alla Convenzione, che riconoscono ulteriori diritti fondamentali o approfondiscono la tutela di quelli già sanciti dalla Convenzione, vengono stipulati negli anni e nei decenni seguenti. Parallelamente, il Consiglio d’Europa dà impulso a un gran numero di ulteriori convenzioni miranti a coordinare gli sforzi degli Stati membri contro talune forme particolarmente gravi di criminalità, che offendono i diritti fondamentali delle vittime (dal razzismo e la xenofobia, agli abusi sulle donne e sui bambini, al traffico di esseri umani) o che, comunque, minano alla radice i valori della democrazia e dello Stato di diritto (corruzione, riciclaggio, terrorismo, criminalità informatica). Il quadro istituzionale del Consiglio d’Europa è imperniato attorno a un Segretario generale e a due organi collegiali politici (l’uno, il Comitato dei Ministri, composto dai Ministri degli esteri degli Stati membri e dai loro rappresentanti permanenti; l’altro, l’Assemblea Parlamentare, composta da rappresentanti dei parlamenti nazionali), oltre che da vari organismi (come il Commissariato per i diritti umani o il Comitato per la prevenzione della tortura) che concorrono a perseguire i fondamentali obiettivi politici del Consiglio d’Europa attraverso una capillare attività di vigilanza sugli Stati membri e l’adozione di strumenti di soft law (come risoluzioni e raccomandazioni rivolte ai medesimi). Il quadro istituzionale si completa con un organo giurisdizionale, la Corte europea dei diritti dell’uomo, anch’essa con sede a Strasburgo e composta da un giudice per ciascuno Stato parte del Consiglio d’Europa2.

2.1. In particolare: il ruolo della Corte EDU

Prima di proseguire, qualche chiarimento terminologico, ancora una volta allo scopo di evitare confusioni. L’uso degli acronimi è, spesso, traditore. Dal momento che l’acronimo corrente CEDU potrebbe in sé riferirsi tanto alla Convenzione, quanto alla Corte europea dei diritti dell’uomo, è a mio avviso raccomandabile, secondo l’uso che si sta consolidando tra gli studiosi, riservare questo acronimo alla Convenzione europea, e utilizzare la diversa abbreviazione “Corte EDU” con riferimento, appunto, alla Corte. A questo uso mi atterrò, dunque, nel prosieguo. Naturalmente, a scanso di ulteriori equivoci, la Corte EDU (con sede a Strasburgo) non dovrà essere confusa con la Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE), che ha sede a Lussemburgo e che è una istituzione di quella “piccola Europa”, di cui diremo tra poco. Quali, allora, i compiti della Corte EDU di Strasburgo? La grande novità della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) nell’ambito del “diritto internazionale dei diritti umani” (international human rights law) fu, per l’appunto, quella di avere istituito un organo giurisdizionale con il compito, come recita l’art. 19 CEDU, di assicurare il rispetto da parte degli Stati parte degli obblighi scaturenti dalla Convenzione stessa, nonché da quelli scaturenti dai suoi protocolli addizionali. La Corte EDU non ha,

2 Anche qui, di grande utilità la consultazione del sito ufficiale della Corte (http://www.echr.coe.int/ECHR/homepage_en).

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invece, alcuna competenza in relazione alle numerose altre convenzioni promosse e stipulate nel quadro del Consiglio d’Europa, che pure incidono in misura non irrilevante, come vedremo, sulla potestà punitiva degli Stati membri: i suoi compiti sono dunque istituzionalmente limitati alla tutela dei diritti dell’uomo, in quanto riconosciuti e tutelati dalla CEDU e dai suoi protocolli addizionali. La Corte EDU è attualmente suddivisa in più sezioni distinte. Ciascun affare viene giudicato, a seconda dei casi, da un giudice monocratico, da un comitato di tre giudici, ovvero da una Camera composta di sette giudici. I casi più importanti sottoposti alla Corte vengono tuttavia deferiti dalle singole camere alla Grande Camera, composta da diciassette giudici. La Grande Camera è competente altresì a giudicare, in seconda e definitiva istanza, sui casi già decisi dalle singole camere, allorché una delle parti lo richieda e un collegio di cinque giudici della stessa Grande Camera ritenga che la questione oggetto del ricorso sollevi gravi problemi di interpretazione o di applicazione della Convenzione o dei suoi protocolli (art. 43 CEDU). L’art. 32 CEDU stabilisce che la Corte è competente a giudicare su «tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione di tali strumenti» (art. 32 CEDU). Del tutto peculiare è la disciplina della legittimazione attiva: il diritto di ricorrere contro lo Stato inadempiente non è attribuito infatti, come normalmente avviene nell’ambito del diritto internazionale, solo agli altri Stati contraenti (art. 33 CEDU, che disciplina il c.d. ricorso interstatuale), ma anche a ciascuna persona fisica, organizzazione non governativa o gruppo di privati che assumano di essere vittima di una violazione da parte di uno Stato membro (art. 34 CEDU), nel termine di sei mesi successivi all’infruttuoso esaurimento delle vie di ricorso delle quali l’individuo disponeva all’interno del proprio Stato (art. 35 CEDU). Per la prima volta nell’ambito del diritto internazionale, si afferma così il (rivoluzionario) principio che uno Stato può essere convenuto avanti a un tribunale, per rispondere delle violazioni dei propri obblighi convenzionali concernenti i diritti umani, da parte di qualsiasi individuo, non importa se cittadino dello Stato resistente o di altro Stato, firmatario o meno della Convenzione; e si attribuisce alla Corte il potere, una volta accertata e dichiarata con sentenza la violazione, di condannare lo Stato a riparare le conseguenze della violazione medesima, o comunque di accordare alla parte lesa un’”equa soddisfazione” di carattere pecuniario (art. 41 CEDU), attraverso una sentenza alla quale è riconosciuta forza vincolante per lo Stato nei cui confronti è pronunciata (art. 46 CEDU). In proposito, vale la pena di sottolineare come sia cresciuto, negli ultimi anni, il numero di sentenze con le quali la Corte non si è limitata a statuire un risarcimento in denaro in favore della parte lesa, ma abbia ingiunto allo Stato ritenuto responsabile l’adozione di misure individuali per restituire in integrum, laddove possibile, il ricorrente, o comunque per riparare alle conseguenze della violazione. Ad es., la Corte ha ingiunto allo Stato condannato di rimettere in libertà una persona illecitamente detenuta, ovvero di assicurare la riapertura di un procedimento penale svoltosi in violazione dei principi dell’”equo processo” di cui all’art. 6 CEDU, o ancora di astenersi dall’espellere o estradare una persona in uno Stato dove corra un rischio sostanziale di essere sottoposta a tortura. Per altro verso, a partire dal caso Broniowski c. Polonia del 2004, la Corte correda talvolta le proprie sentenze di condanna con una specifica ingiunzione allo Stato resistente di adottare misure generali per ovviare a carenze sistemiche dell’ordinamento interno, determinate da prassi amministrative o dalla stessa legislazione dello Stato, ritenute incompatibili con

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la CEDU o con i suoi protocolli. Tali carenze determinano ovviamente il ripetersi seriale della violazione accertata nel singolo caso, con conseguente sovraffollamento del suo casellario della Corte: la quale si vede, in simili ipotesi, investita da un gran numero di ricorsi aventi la loro origine non già in comportamenti anomali di singoli funzionari di uno Stato membro, ma - per l’appunto - in inadeguatezze strutturali dell’ordinamento di quest’ultimo. In simili ipotesi, la Corte evidenzia comprensibilmente come l’obbligo dello Stato sia anzitutto quello di riconoscere e tutelare all’interno del proprio ordinamento i diritti convenzionali (art. 1 CEDU); il che implica, in primis, l’obbligo di prevenire le violazioni, rimuovendo anzitutto gli ostacoli opposti dallo stesso ordinamento interno al pieno riconoscimento dei diritti medesimi. Altro strumento di cui la Corte sta facendo sempre maggiore uso è quello delle ingiunzioni ad interim rivolte allo Stato ai sensi della Rule 39 del regolamento della Corte, con le quali generalmente si ordina, su istanza urgente del ricorrente, allo Stato di astenersi da determinate condotte in ipotesi lesive di diritti fondamentali del ricorrente medesimo, in attesa della decisione definitiva della Corte3. Di questo strumento hanno fatto ad es. largo uso nel nostro Paese, negli ultimi anni, i difensori di sospetti terroristi di matrice islamica nei confronti dei quali venga disposta l’immediata espulsione dal territorio nazionale per ragioni di ordine pubblico o sicurezza nazionale, in relazione al rischio che gli interessati vengano sottoposti a tortura nel Paese di rimpatrio da parte delle locali forze dell’ordine o servizi segreti4. Uno dei problemi cruciali con cui la Corte deve confrontarsi è, peraltro, quello del suo ormai enorme carico di lavoro5, che è una conseguenza collaterale del successo crescente che questa istituzione sta raccogliendo presso il pubblico in un po’ tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, ove si sta diffondendo la percezione della Corte di Strasburgo come di un giudice di ultima istanza nelle questioni che attengono alla tutela dei diritti umani. Un giudice in certo senso sovraordinato anche rispetto alle corti supreme e alle corti costituzionali nazionali, che sempre più si avvertono - nei vari Stati membri - come in vario modo vincolate rispetto alle sentenze di Strasburgo. La quantità di ricorsi che affluiscono a Strasburgo comporta, però, tempi molto lunghi per le trattazioni delle singole questioni, che si snodano - tra la complessa fase istruttoria, in cui la Corte acquisisce ex officio le informazioni necessarie, la decisione di ammissibilità e la sentenza nel merito, eventualmente seguita dall’ulteriore sentenza definitiva della Grande camera - spesso nell’arco di tre-cinque anni dalla data di proposizione del ricorso. Altro problema spinoso è quello dell’esecuzione delle sentenze della Corte, che restano in ultima analisi affidate alla buona volontà degli Stati membri,

3 A quanto si apprende dal sito ufficiale della Corte, nel 2010 sono state decise oltre 3.500 istanze in base alla Rule 39, quasi la metà delle quali sono state accolte. 4 Cfr. ex multis la sentenza resa dalla Grande camera il 28 febbraio 2008 nel caso Saadi c. Italia (ric. n. 37201/06). 5 Ancora dal sito ufficiale della Corte si apprende ad es. che alla data del 31 maggio 2011 erano pendenti oltre 150.000 ricorsi già assegnati al giudice o al collegio competente, con un incremento dell’8% in soli cinque mesi rispetto al dato del 1 gennaio 2011 (quando i ricorsi pendenti erano meno di 140.000, di cui oltre 10.000 – pari al 7,3% - concernenti l’Italia). A tale dato devono poi sommarsi i circa 20.000 ricorsi ancora non assegnati ad alcun giudice. Dal report generale relativo all’attività della Corte nel 2010, si evince poi che nel corso dell’anno la Corte è riuscita a decidere soltanto 41.000 ricorsi circa (con oltre 38.000 decisioni di inammissibilità e circa 2.500 sentenze di merito): numeri in assoluto tutt’altro che irrilevanti, ma del tutto inadeguati a fronteggiare l’arretrato che si sta accumulando. Impressionanti, d’altra parte, i trend di crescita dei ricorsi nell’arco degli ultimi dieci anni: a fronte dei circa 150.000 ricorsi oggi pendenti avanti al collegio o al giudice monocratico competente, nel 2000 i ricorsi pendenti erano poco più di 15.000.

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sotto la supervisione degli organi politici del Consiglio d’Europa (e segnatamente del Comitato dei Ministri). A seguito, peraltro, delle recenti modifiche introdotte alla CEDU dal Protocollo XIV, entrato in vigore il 1 giugno 2010, il Comitato dei Ministri può oggi, in forza del novellato articolo 46, investire la Corte di eventuali problemi di interpretazione delle sue sentenze, al fine di ottenere da essa una sorta di interpretazione autentica dei giudicati; e può - soprattutto - avviare una procedura di infrazione contro lo Stato che abbia omesso di adempiere correttamente ad una sentenza della Corte, al fine di ottenere una specifica declaratoria in tal senso quale premessa per l’adozione di ulteriori “misure” da parte del Consiglio dei Ministri. In assenza di qualsiasi potere sanzionatorio in senso stretto da parte degli organi politici del Consiglio d’Europa (a differenza di quanto accade in seno all’Unione europea, come tra breve vedremo), tali misure consisteranno essenzialmente in ulteriori pressioni politiche nei confronti dello Stato, e in particolare in risoluzioni ad interim, con le quali il Consiglio dei Ministri richiede ad es. allo Stato di provvedere entro un determinato termine o di giustificare le ragioni del ritardo, offrendo al contempo una collaborazione fattiva nel vagliare possibili soluzioni che consentano di raggiungere gli obiettivi indicati dalla Corte.

3. La “piccola Europa”: l’Unione europea

Un mondo affatto diverso è quello della “piccola Europa”: ossia dell’organizzazione che prende il nome, oggi, di Unione europea (UE)6.

3.1. Un po’ di storia: dal Trattato di Roma (1957) al Trattato di Lisbona (2007)

Anche qui, gioverà qualche sinteticissimo riferimento di carattere storico. Il punto di partenza sono ancora una volta le ceneri del secondo conflitto mondiale, sulle quali si innesta l’idea - sostenuta da statisti del calibro di Robert Schuman, Jean Monnet, Paul Henri Spaak, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Altiero Spinelli - di rafforzare la cooperazione economica tra gli Stati che si erano confrontati nelle due guerre che avevano sconvolto la prima metà del secolo, per eliminare in radice le cause di quella contrapposizione. Nasce così, nel 1951, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), che riunisce sei Stati - Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo - tra quelli che due anni prima avevano fondato il Consiglio d’Europa, con lo scopo di gestire in comune le risorse siderurgiche, che avevano costituito il principale casus belli nei decenni precedenti. Nel 1957, i sei Stati compiono poi un nuovo passo cruciale, fondando con il Trattato di Roma la Comunità europea per l’energia atomica (Euratom) e, soprattutto, la Comunità economica europea (CEE), o “mercato comune europeo”, avente per obiettivo la libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali al di là dei confini nazionali, da realizzarsi tra l’altro mediante un’unione doganale e l’adozione di politiche comuni in materia economica e sociale. Nei decenni successivi, le tre Comunità - che fin dal 1965 si dotano di un quadro istituzionale comune - allargano progressivamente la cerchia dei

6 Ancora una volta, al ‘neofita’ della materia potrebbe essere vivamente raccomandata una consultazione del sito ufficiale dell’Unione europea (http://europa.eu/index_it.htm).

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propri membri: nel 1973 si aggiungono il Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarca; tra il 1981 e il 1986 si uniscono la Grecia, la Spagna e il Portogallo; nel 1995 è la volta di Austria, Finlandia e Svezia; e negli anni successivi, definitivamente archiviata la guerra fredda, aderiscono tra gli altri una serie di Stati appartenenti al blocco ex comunista, sino a portare il numero complessivo dei membri agli attuali 27 Paesi. Nel frattempo, però, molte importanti novità hanno visto la luce. Intorno alla metà degli anni ottanta, comincia a prendere forma - sotto l’impulso decisivo del parlamentare europeo Altiero Spinelli - l’idea di trasformare le esistenti Comunità in una vera e propria Unione europea, nell’ambito della quale utilizzare il quadro giuridico e le istituzioni comunitarie già esistenti, sia pure con le necessarie modifiche atte a renderne più funzionali i meccanismi operativi, per meglio sviluppare politiche comuni in settori diversi da quelli propriamente economici: in particolare nell’ambito della politica estera e della sicurezza comune, nonché nell’ambito del contrasto alla criminalità transfrontaliera. Esigenza, quest’ultima, che comincia ad avvertirsi con sempre maggiore intensità dopo la stipula, nel 1985, del Trattato di Schengen, con il quale cinque Stati membri - cui più tardi si aggiungerà anche l’Italia, assieme a quasi tutti gli Stati delle Comunità - gettano le basi per la progressiva abolizione delle frontiere interne, in tal modo creando però nuove opportunità per la criminalità transfrontaliera, potenzialmente avvantaggiata dal venir meno dei controlli di polizia tra uno Stato e l’altro. Dopo la firma, nel 1986, dell’Atto Unico europeo, mirante a conferire nuovo slancio al progetto di creazione di un mercato unico europeo, si giunge così nel 1992 alla firma del Trattato di Maastricht (il Trattato sull’Unione europea: TUE), con la quale si istituisce per l’appunto l’Unione europea (UE). Tale nuova organizzazione ricomprende, in funzione c.d. di primo pilastro, la Comunità europea - a sua volta frutto della fusione tra la CEE e la CECA, e operante sulla base del Trattato di Roma del 1957 istitutivo della Comunità economica europea e successive modifiche (TCE) -; e risulta strutturata altresì attorno ad un secondo pilastro, che diviene sede della cooperazione intergovernativa in materia di politica estera e sicurezza comune, e ad un terzo pilastro, sede della cooperazione parimenti intergovernativa in materia di giustizia e affari interni (GAI), con riferimento in particolare alla cooperazione di polizia e giudiziaria per il contrasto a talune forme gravi di criminalità transfrontaliera. La neonata Unione europea viene dunque concepita, nel 1992, come una sorta di grande contenitore, istituito da un proprio Trattato (TUE), che ingloba - come parte di un tutto - la Comunità europea, che conserva la propria identità e il proprio diritto: primario (rappresentato dal TCE) e derivato (costituito dal corpus degli atti normativi e delle sentenze della Corte di giustizia emanati dalle istituzioni comunitarie a partire dal 1957). Accanto al diritto comunitario in senso stretto (concepito ora quale primo pilastro dell’Unione), si formano così i due corpora normativi autonomi rappresentati dal diritto di secondo e terzo pilastro dell’Unione, quest’ultimo con una naturale vocazione ad occuparsi dell’armonizzazione del diritto e della procedura penale degli Stati membri in vista di una loro più efficace cooperazione nella lotta alla criminalità transnazionale. Gli anni del dopo Maastricht segnano un periodo di tumultuosa espansione dell’Unione: sia dal punto di vista delle sue frontiere esterne, come si è visto, più allargate a est; sia dal punto di vista della sua capacità di incidere sulla vita quotidiana dei cittadini. Nel 1993 il mercato unico diviene una realtà; nel 1995 l’attuazione degli accordi di Schengen determina l’effettiva abolizione

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delle frontiere interne in quasi tutto lo spazio giuridico dell’Unione; e nel 1999 viene introdotta la moneta unica in molti Paesi europei. Nel frattempo, nel 1997 viene sottoscritto il Trattato di Amsterdam, entrato in vigore nel 1999, che consolida l’architettura a tre pilastri già sancita dal Trattato di Maastricht, introducendo tra l’altro nuovi strumenti normativi per rendere più agevole ed efficace la cooperazione tra gli Stati nel settore penale; cooperazione che verrà avvertita sempre più come una priorità dopo l’esperienza tragica dell’11 settembre 2001. I primi anni duemila sono, d’altra parte, ancora pervasi di slancio riformatore attorno al progetto di una Costituzione europea, che dovrebbe porre le basi per la creazione di una vera e propria struttura federale. Dopo la dura battuta d’arresto imposta dai referendum francese e olandese, che bocciano il testo del trattato costituzionale sottoscritto nel 2004, il Consiglio europeo di Lisbona dell’ottobre 2007 approva un nuovo trattato (il Trattato di Lisbona, appunto) che, pur abbandonando l’impegnativo riferimento alla Costituzione e all’idea federale, realizza una completa fusione tra Unione e Comunità in un unico soggetto di diritto internazionale denominato, appunto, Unione europea: con conseguente abbandono della denominazione “Comunità”, e sparizione della stessa distinzione tra i tre pilastri individuati dal Trattato di Maastricht. Più in particolare, il Trattato di Lisbona - entrato in vigore il 1° dicembre 2009 - modifica il Trattato dell’Unione (TUE), riservando ad esso le norme di principio su principi, scopi e architettura istituzionale dell’ormai unitaria organizzazione internazionale denominata, appunto, Unione europea; e, parallelamente, introduce profonde modifiche al vecchio Trattato di Roma, ribattezzandolo come Trattato sul funzionamento dell’Unione (TFUE), riservando ad esso le norme di dettaglio sulle competenze dell’Unione, sulle sue istituzioni e sui suoi atti. Quest’ultimo trattato disciplina ormai anche le norme relative alle competenze che appartenevano agli ex secondo e terzo pilastro, ed in particolare - per ciò che più rileva in questa sede - quelle relative alla cooperazione giudiziaria in materia penale e alla cooperazione di polizia, di cui agli attuali artt. 82-89 TFUE: con conseguente attrazione dell’armonizzazione del diritto e della procedura penale degli Stati membri tra le competenze dell’Unione tout court, alla pari di tutte le altre materie in passato disciplinate dal diritto comunitario in senso stretto. La stessa denominazione tradizionale di “diritto comunitario”, che pure continua ancor oggi a essere frequentemente utilizzata (anche nella Costituzione italiana, che all’art. 117, comma 1, si riferisce ai «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario»), è divenuta così impropria. Se prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona era necessario distinguere un diritto comunitario in senso stretto - coincidente con il diritto di primo pilastro - dal più ampio diritto dell’Unione, comprendente gli atti normativi di secondo e terzo pilastro, oggi la denominazione più corretta (e onnicomprensiva) è semplicemente quella di diritto dell’Unione, o più semplicemente di diritto UE: espressioni il cui uso si raccomanda (accanto ad altre parimenti corrette ma farraginose come “diritto eurounitario”) al posto di quella, sicuramente equivoca, di diritto “europeo” – quest’ultima essendo riferibile indistintamente al diritto dell’Unione europea e al diritto del Consiglio d’Europa, con il risultato così di ulteriormente alimentare quelle confusioni di cui parlavamo all’inizio di questo contributo.

3.2. Il quadro istituzionale e gli atti normativi dell’Unione

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L’Unione europea si caratterizza per una complessa struttura istituzionale, che si articola attorno a tre fondamentali organi politici: il Consiglio7, composto dai rappresentanti dei governi degli Stati membri; la Commissione, i cui membri sono nominati dai governi ma che agiscono poi senza vincolo di mandato, in rappresentanza esclusiva degli interessi delle Comunità; e il Parlamento, inizialmente composto da membri selezionati dai parlamenti nazionali, e a partire dal 1979 eletto a suffragio universale. Accanto agli organi politici, l’organizzazione dispone di un organo giurisdizionale, la Corte di giustizia, sulla quale torneremo diffusamente tra qualche istante. Rispetto al modello rappresentato dal Consiglio d’Europa poc’anzi esaminato, il dato saliente che caratterizza sin dalle origini le istituzioni comunitarie è rappresentato dalla loro competenza a emanare atti normativi (c.d. di diritto derivato, per distinguerli dalle fonti primarie del diritto comunitario rappresentate dai trattati internazionali istitutivi) e decisioni immediatamente vincolanti per gli Stati membri, senza necessità di passare dunque per i complessi meccanismi di ratifica che caratterizzano gli strumenti internazionali in genere. Tra questi atti normativi, una portata rivoluzionaria rispetto agli schemi usuali del diritto internazionale assume in particolare lo strumento del regolamento, definito dai trattati come norma direttamente applicabile (art. 288, comma 2, TFUE) dalle autorità amministrative e giurisdizionali degli Stati membri. Attraverso i propri regolamenti, dunque, l’Unione europea produce norme che non vincolano semplicemente gli Stati sul piano del diritto internazionale, ma che penetrano direttamente negli ordinamenti nazionali, affiancando le fonti interne - nelle sempre più numerose materie di competenza dell’UE - quali norme che il giudice degli Stati membri deve applicare per la soluzione delle controversie pendenti innanzi a sé. Un simile effetto non era originariamente previsto in relazione all’altra grande tipologia di fonti di diritto derivato dell’ordinamento comunitario, rappresentata dalle direttive, definite ancor oggi dall’art. 288, comma 3 del Trattato sull’Unione come norme che vincolano «lo Stato membro per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi». Lo schema parrebbe, qui, quello di obblighi che si impongono nell’ordinamento internazionale allo Stato membro, la cui concreta attuazione nell’ordinamento interno resta però affidata allo Stato stesso, il quale dovrà provvedervi entro il termine fissato dalla direttiva mediante le proprie fonti normative, le uniche vincolanti per il giudice. Tale schema, certamente corrispondente alla volontà degli Stati contraenti al momento della stipula del Trattato di Roma, fu però ben presto rivoluzionato da alcune storiche decisioni della Corte di giustizia - istituzione che conferì sin da subito al diritto comunitario uno spiccato carattere pretorio, attraverso sentenze che interpretavano con grande libertà il testo dei trattati e delle norme di diritto derivato in un’ottica, sempre coerentemente perseguita, di difesa e anzi di tendenziale espansione delle competenze comunitarie rispetto a quelle degli Stati membri, anche nei periodi di maggiore crisi delle Comunità sul piano politico8. Esempio emblematico di questa tendenza è proprio la giurisprudenza che prende origine dalla cruciale sentenza Van

7 Da non confondere ovviamente con il Consiglio d’Europa, e cioè con l’organizzazione internazionale che rappresenta la “grande Europa”, di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente. 8 Cfr. sul punto le fondamentali pagine di J.H.H. Weiler, The Transformation of Europe, in Id., Do the New Clothes Have an Emperor? and Other Essays on European Integration, 1999, 10 ss., spec. 31 ss.

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Gend & Loos del 19639, secondo cui le norme dei trattati e le stesse direttive possono produrre, a determinate condizioni, effetto diretto in favore dei singoli privati ai quali lo Stato membro non abbia riconosciuto un diritto loro spettante in base alla norma comunitaria in questione; con la conseguenza che il singolo potrà a questo punto direttamente invocare, avanti alle autorità amministrative e ai propri giudici interni, l’atto comunitario di diritto primario o derivato rimasto inadempiuto da parte dello Stato membro. Per quanto concerne le direttive, in particolare, la costante giurisprudenza della Corte riconosce il loro effetto diretto laddove: a) ne sia scaduto inutilmente il termine di attuazione da parte dello Stato; b) le loro norme siano chiare, precise e incondizionate (nel senso cioè che la loro applicazione non richieda l’emanazione di ulteriori atti comunitari o nazionali); c) riconoscano una posizione soggettiva favorevole all’individuo nei confronti dei pubblici poteri10. In quest’ottica, la dottrina dell’effetto diretto delle direttive viene a porsi come una sorta di meccanismo sanzionatorio contro lo Stato che non abbia adempiuto tempestivamente agli obblighi fissati dalla direttiva medesima, facoltizzando in definitiva il giudice interno a sostituirsi al legislatore nazionale nel riconoscere al singolo quei diritti o quei vantaggi che la direttiva rimasta inadempiuta esigeva che gli fossero riconosciuti11. E proprio questa ratio spiega - il punto è della massima rilevanza anche per il penalista, come si vedrà a tempo debito - perché dalle direttive non possa mai dedursi un effetto diretto sfavorevole all’individuo, anche laddove le norme della direttiva medesima siano chiare, precise e incondizionate e ne sia scaduto inutilmente il termine di attuazione12. Nel 1964, con la sentenza Costa c. Enel13, la Corte aggiunge poi un altro tassello alla forza cogente del diritto comunitario, riconoscendone il primato rispetto al diritto nazionale, e affermando conseguentemente l’obbligo a carico del giudice nazionale di disapplicare le norme interne contrastanti con norme comunitarie dotate di effetto diretto (come, nella specie, le stesse norme del Trattato). La Corte di giustizia sancisce così a chiare lettere - in polemica, tra l’altro, con una appena precedente pronuncia della Corte costituzionale italiana14 - il principio secondo cui le fonti comunitarie dotate di effetto diretto prevalgono dal punto di vista gerarchico rispetto alla generalità delle fonti primarie di diritto interno, non importa se precedenti o successive alle fonti comunitarie pertinenti, in forza della limitazione di sovranità cui gli Stati si sono assoggettati aderendo al Trattato. Un risultato, anche questo, rivoluzionario rispetto agli schemi usuali del diritto internazionale, in cui lo Stato resta in linea di principio libero di violare gli obblighi assunti mediante la stipula di un trattato, salva la sua responsabilità sul piano del diritto internazionale nei confronti degli altri Stati contraenti: mentre qui, addirittura, si individua ancora una volta nello stesso giudice

9 Corte di giustizia CE, sent, 5 febbraio 1963, Van Gend & Loos c. Amministrazione olandese delle imposte (causa C-26/62). 10 G. Tesauro, Diritto dell’Unione europea, 2010, 150 ss. Sull’effetto diretto delle direttive, si veda Corte di giustizia CE, sent. 5 aprile 1979, Ratti (causa C-148/78), spec. § 24; sent. 19 novembre 1991, Francovich (cause riunite C-6/90 e C-9/90). 11 G. Tesauro, Diritto dell’Unione europea, cit., 183. 12 Corte di giustizia CE, sent. 26 settembre 1995, Arcaro (causa C-168/95); Proc. penali c. X, sent. 12 dicembre 1996 (cause n. C-74/95 e 129/95), spec. § 23. L’impossibilità per la direttiva di produrre effetti contro un individuo indipendentemente da un atto dello Stato membro che ne dia attuazione spiega altresì perché essa non possa produrre effetti diretti c.d. orizzontali, ossia relativi ai rapporti interprivati, nei quali al diritto riconosciuto ad una parte corrisponda un corrispondente dovere a carico dell’altra. 13 Corte di giustizia CE, sent. 15 settembre 1964, Costa c. Enel (causa C-6/64). 14 C. cost. n. 14/1964.

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interno l’organo chiamato a sanzionare la violazione degli obblighi incombenti sullo Stato in forza della sua adesione all’ordinamento giuridico comunitario - sempre più profilato e autonomo rispetto al generico ordinamento giuridico internazionale -, mediante la disapplicazione della norma interna contrastante. Il percorso ideale della Corte di giustizia, infine, si completa nel 1978 con la sentenza Simmenthal15, nella quale - ancora in polemica con una di poco precedente presa di posizione della Corte costituzionale italiana16 - i giudici europei affermano che il potere-dovere di disapplicare la norma interna contrastante con una fonte di diritto comunitario dotata di effetto diretto spetta a ciascun giudice ordinario, non già alla Corte costituzionale in seguito ad un procedimento incidentale di legittimità costituzionale della norma interna. Principio, questo, cui come meglio si dirà più innanzi la stessa Corte costituzionale italiana si conformò qualche anno più tardi con la sent. n. 170/1984 (c.d. sentenza Granital), e che oggi costituisce un punto fermo tanto dal punto di vista del diritto comunitario quanto dal punto di vista del diritto di tutti gli Stati membri.

3.3. (Segue): le fonti c.d. di terzo pilastro in base ai Trattati di Maastricht e di Amsterdam

Si è visto poc’anzi che, a partire dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht nel 1993 e sino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (dicembre 2009), al diritto comunitario in senso stretto si sia affiancato un diritto di secondo e di terzo pilastro, nel neonato quadro istituzionale dell’Unione europea. Nell’ambito, in particolare, del terzo pilastro sono stati prodotti una serie di atti vincolanti per gli Stati membri in materia di cooperazione giudiziaria e di polizia, di immediato interesse per il penalista, che non hanno assunto la forma degli atti normativi tipici del diritto comunitario (regolamenti e direttive) appena esaminati, bensì una forma distinta, propria per l’appunto degli strumenti di terzo pilastro dell’Unione. Su tali atti conviene ora brevemente soffermarci, trattandosi di atti in gran parte ancora in vigore anche dopo Lisbona. Come già sottolineato, l’idea originaria alla base della creazione del secondo e del terzo pilastro dell’Unione era stata quella di sfruttare il quadro istituzionale comunitario per sviluppare una più stretta cooperazione intergovernativa tra gli Stati membri nelle materie interessate, anzitutto attraverso i classici strumenti di diritto internazionale con i quali si articola la cooperazione tra Stati: e dunque, in primis, attraverso la stipula di convenzioni, non diversamente da quanto accade nel parallelo quadro istituzionale del Consiglio d’Europa, in precedenza esaminato. Nel corso degli anni novanta, furono così approvate - e successivamente ratificate dagli Stati membri - alcune convenzioni, come ad es. quella del 1995 relativa alla protezione degli interessi finanziari dell’Unione europea (c.d. convenzione PIF). Accanto a tali strumenti, per così dire tradizionali, il Trattato di Maastricht prevedeva però la possibilità per le istituzioni dell’Unione (coincidenti, come si è detto, con le istituzioni comunitarie) di emanare, con il consenso unanime degli Stati membri espresso in seno al Consiglio, atti di diritto derivato anche nelle materie di secondo e terzo pilastro, tra cui - in particolare - azioni comuni

15 Corte di giustizia CE, sent. 9 marzo 1978, Simmenthal (causa C-106/77). 16 Cfr. in particolare C. cost. n. 232/1975.

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volte a stimolare, tra l’altro, l’armonizzazione legislativa degli Stati membri nelle materie di volta in volta interessate. Nell’ambito della cooperazione penale, fu ad es. approvata l’azione comune 98/699/GAI (dove 98 indica l’anno di emanazione, 699 il numero progressivo dell’atto e la sigla “GAI” sta per “giustizia e affari interni”, contrassegnante l’intera produzione normativa di terzo pilastro) mirante all’armonizzazione delle legislazioni penali e processuali penali degli Stati membri in materia di contrasto al riciclaggio e di sequestro dei proventi da reato. Ben presto ci si rese conto di quanto lo strumento classico della cooperazione internazionale - la convenzione - presentasse gravi svantaggi, in relazione in particolare alla lentezza dei procedimenti di ratifica all’interno dei singoli Stati membri, rispetto agli atti di diritto derivato previsti anche nel quadro del secondo e terzo pilastro: atti questi ultimi, come per l’appunto l’azione comune, approvati dal Consiglio (con un intervento soltanto in via consultiva del Parlamento europeo) e poi immediatamente vincolanti per gli Stati membri, senza necessità di passare per il vaglio defatigante dei parlamenti nazionali. Sicché, proprio questi più agili strumenti divennero in breve tempo gli strumenti principi della cooperazione in materia penale e processuale penale nell’ambito dell’Unione. Con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, nel 1999, allo strumento dell’azione comune fu sostituito quello delle decisioni quadro, definite espressamente dalla nuova versione dell’articolo 34 del TUE come atti normativi che - analogamente alle direttive - vincolano lo Stato quanto agli obiettivi da perseguire, lasciandolo libero nella scelta dei mezzi. Lo stesso articolo 34 escludeva peraltro espressamente che alla decisione quadro potesse essere attribuito effetto diretto nell’ordinamento giuridico degli Stati membri, in difetto di atti legislativi interni di trasposizione. Lo shock dell’11 settembre, che fece a tutti percepire la gravità delle minacce provenienti dalla criminalità transnazionale, determinò una brusca accelerazione dei processi decisionali in materia di terzo pilastro. Nell’arco di pochissimi anni vide così la luce un numero cospicuo di decisioni quadro in materia di diritto e processo penale, con le quali si imponevano obblighi agli Stati miranti ad introdurre procedure semplificate di estradizione, l’armonizzazione delle regole processuali, la prevenzione dei conflitti di giurisdizione e la previsione di regole minime, ai quali gli Stati erano chiamati a conformarsi, relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni ad essi applicabili (art. 31 TUE, nella versione risultante dal Trattato di Amsterdam). Decisamente ampia anche la gamma di materie interessate da tali strumenti, secondo le indicazioni dell’art. 29 del TUE allora vigente: prevenzione e repressione del razzismo e della xenofobia, della criminalità organizzata e del terrorismo, della tratta di esseri umani e dei reati contro i minori, del traffico di droga e di armi, della corruzione e della frode. Nel 2005, una importante sentenza della Corte di giustizia (Pupino)17, in un caso originato da un rinvio pregiudiziale promosso da un giudice italiano, statuì il principio che le decisioni quadro, pur non potendo esplicare effetti diretti nell’ordinamento interno ai sensi del trattato, obbligano tuttavia il giudice ad interpretare il diritto nazionale in conformità alla decisione quadro, quanto meno laddove ciò sia consentito dal dato letterale delle disposizioni interne. Tale pronuncia finì così per avvicinare - se non proprio a uniformare - il regime giuridico delle decisioni quadro (e cioè degli strumenti normativi tipici del terzo pilastro) a quello delle direttive (e cioè degli atti normativi

17 Corte di giustizia CE, sent. 16 giugno 2005, Pupino (causa C-105/03).

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caratteristici del diritto comunitario in senso stretto, o di primo pilastro), attribuendo loro una rilevanza - oltre che per i legislatori e i governi degli Stati membri - anche per il giudice penale interno, chiamato ad orientare la propria attività interpretativa in modo da corrispondere, per quanto consentito dalla lettera della legge nazionale, agli scopi perseguiti dal legislatore europeo. Ciò indusse ad es. il giudice italiano che aveva sollevato la questione nel caso Pupino ad ammettere un incidente probatorio per l’escussione di un teste minorenne con modalità protette, in un’ipotesi non espressamente prevista dalla normativa processualpenalistica allora vigente, interpretata però estensivamente (o addirittura analogicamente) proprio allo scopo di evitarne il contrasto con la decisione quadro 2001/220/GAI sulla posizione della vittima nel procedimento penale18.

3.4. (Segue): il sistema delle fonti dell’Unione europea in forza del Trattato di Lisbona

Il processo di progressiva ‘comunitarizzazione’ degli strumenti della cooperazione in materia giudiziaria e di polizia si chiude alla fine del 2009 con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che - nel quadro della già evidenziata dissoluzione dei tre pilastri nell’organismo unitario rappresentato dall’Unione europea - segna anche la scomparsa degli strumenti normativi tipici del terzo pilastro, tra i quali segnatamente le decisioni quadro. Le materie di (ex) terzo pilastro divengono ora, come già si è sottolineato, competenze dell’Unione tout court ai sensi degli artt. 82-89 del nuovo TFU; ed in tali materie è pertanto possibile all’Unione intervenire a pieno titolo con gli strumenti normativi ‘classici’ del regolamento e della direttiva. La politica dell’Unione perseguita nel post Lisbona in questi settori è stata, anzi, quella di avviare sin da subito un processo di graduale sostituzione e aggiornamento con altrettante direttive delle decisioni quadro esistenti, le quali pure resteranno transitoriamente in vigore sino alla loro abrogazione o modificazione ai sensi dell’art. 9 del Protocollo al Trattato di Lisbona sulle disposizioni transitorie. Tale politica ha condotto ad es. recentemente all’adozione della direttiva 2011/36/UE sulla prevenzione e la repressione della tratta degli esseri umani, che sostituisce - abrogandola - la previgente decisione quadro 2002/629/GAI avente il medesimo oggetto. Il mutamento della tipologia degli atti normativi in materia di cooperazione in materia giudiziaria e di polizia è, d’altronde, ben lungi dal rivestire importanza soltanto nominalistica. La dissoluzione del terzo pilastro nell’unico quadro normativo dell’Unione comporta, anzitutto, che la cooperazione in parola non possa più essere ritenuta come meramente intergovernativa: gli atti normativi con i quali tale cooperazione si realizza (il regolamento e, soprattutto, la direttiva) sono infatti adottati attraverso la procedura legislativa ordinaria disciplinata dall’art. 293 TFUE, avviata su proposta della Commissione e culminante nell’emanazione congiunta dell’atto da parte del Consiglio (che delibera a maggioranza qualificata) e del Parlamento europeo (mentre, come si ricorderà, le decisioni quadro erano emanate all’unanimità dal solo Consiglio, previa una mera consultazione del Parlamento europeo). Da un lato, dunque, la direttiva potrà vincolare anche uno Stato membro

18 Sul tema, sia consentito il rinvio a F. Viganò, Il giudice penale e l’interpretazione conforme alle fonti sovranazionali, in P. Corso, E. Zanetti (a cura di), Studi in onore di Mario Pisani, vol. II, 2010, 620 s., 644 s., 655.

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dissenziente; e, dall’altro, il contenuto degli obblighi stabiliti dalla direttiva sarà definito in esito a un processo decisionale nel quale giocano un ruolo essenziale anche istanze politiche del tutto distinte rispetto ai governi (come le forze politiche, anche di minoranza, rappresentate nel parlamento europeo), o comunque rispetto agli stessi funzionalmente indipendenti (come nel caso della Commissione). Nelle materie concernenti la cooperazione giudiziaria in materia penale e l’armonizzazione delle legislazioni penali degli Stati membri di cui agli artt. 82 e 83 TFUE, invero, ciascuno Stato membro il quale ritenga che un determinato progetto di direttiva possa incidere “su aspetti fondamentali del proprio ordinamento giuridico penale” può azionare quello che si suole definire come un “freno di emergenza”, chiedendo che della questione sia investito il Consiglio europeo (composto dai Capi di Stato e di governo dei Paesi membri) affinché assuma una decisione all’unanimità; in difetto di tale decisione, il procedimento legislativo si interrompe. In tal caso, tuttavia, almeno nove Stati membri potranno decidere di instaurare una cooperazione rafforzata sulla base del progetto di direttiva in questione, sul modello cioè di quanto accaduto nel caso degli accordi di Schengen o della stessa moneta unica, che come noto non coinvolgono la totalità dei Paesi membri dell’Unione. Infine, l’inadempimento degli obblighi scaturenti da una direttiva - anche in materia di cooperazione giudiziaria o di polizia - espone lo Stato membro ad una procedura di infrazione avanti la Corte di giustizia, su istanza della Commissione: procedura della quale diremo qualcosa tra qualche istante, e che non era invece prevista in caso di inadempimento di strumenti di terzo pilastro come le decisioni quadro19. I vincoli agli Stati membri anche in tema di diritto e procedura penale sono così destinati a divenire, in forza del Trattato di Lisbona, sempre più cogenti ed effettivi, secondo una caratteristica comune a tutti gli atti normativi del diritto (ex) comunitario.

3.5. Il ruolo della Corte di giustizia dell’Unione europea

Due parole, a questo punto, sulla Corte di giustizia20, che un ruolo tanto incisivo - come anticipato - ha giocato con le proprie sentenze nella stessa conformazione del diritto UE. La Corte ha sede a Lussemburgo, ed è competente ad «assicura[re] il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati» (art. 19 TUE), nonché più ampiamente dell’intero diritto dell’Unione. La sua denominazione ufficiale è, oggi, Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE), e come tale dovrebbe essere definita anche nell’uso corrente italiano, ad evitare le continue confusioni con la “cugina” Corte EDU di Strasburgo, inserita invece nel quadro istituzionale del Consiglio d’Europa. La Corte di giustizia comprende tre distinti organi giurisdizionali: la Corte in senso stretto, il Tribunale (competente fondamentalmente a conoscere dei ricorsi presentati da singole persone fisiche o giuridiche contro atti o condotte di organi dell’Unione che li concernono personalmente, oltre che di

19 Ai sensi dell’art. 10 del citato protocollo sulle disposizioni transitorie allegato al Trattato di Lisbona, peraltro, l’esclusione della competenza della Corte di giustizia per le procedure di infrazione contro lo Stato che non abbia adempiuto agli obblighi discendenti da una decisione quadro cesserà di avere effetto cinque anni dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. 20 Utilissima, anche in questo, una visita al sito web ufficiale http://curia.europa.eu.

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cause che non presentano peculiare interesse per il penalista) e il Tribunale della funzione pubblica, specializzato nell’ambito del contenzioso del pubblico impiego dell’UE. Il nostro interesse di penalisti può dunque concentrarsi sulla Corte (in senso stretto), composta da 27 giudici e da 8 avvocati generali, scelti di comune accordo tra gli Stati membri, ma operanti in piena indipendenza e senza alcun vincolo di mandato. Gli affari vengono decisi, secondo i casi, da sezioni di tre o cinque giudici, ovvero dalla Grande sezione, composta da 13 giudici, per le cause più complesse e importanti. La decisione è assunta a maggioranza e, a differenza di quanto accade per la Corte EDU di Strasburgo, non sono motivate né rese pubbliche eventuali opinioni dissenzienti. Fra le numerose competenze della Corte, di particolare rilievo è quella di pronunciarsi, in via pregiudiziale, sull’interpretazione dei trattati nonché sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione. L’art. 267 TFUE prevede, in effetti, che ciascun giudice di uno Stato membro può domandare alla Corte (e anzi deve domandare, se si tratta di un giudice di ultima istanza) di pronunciarsi su tali questioni, allorché reputi la loro soluzione necessaria ai fini della decisione del procedimento pendente innanzi a sé. Su tale procedimento, cruciale per la comprensione delle interazioni tra diritto e procedura penale interna e diritto UE, occorre soffermarsi con qualche dettaglio. Anzitutto, a differenza di quanto si è detto in relazione alla Corte EDU di Strasburgo, la facoltà di proporre ricorso non è concessa all’individuo interessato (persona fisica o giuridica che sia), ma soltanto al giudice nazionale procedente, il quale - su istanza di parte o d’ufficio - sospenderà il procedimento rinviando gli atti alla Corte, previo evidentemente un proprio vaglio sulla fondatezza del dubbio prospettato dalla parte e sulla rilevanza ai fini della decisione: del tutto analogamente, dunque, rispetto a quanto avviene nel procedimento incidentale di legittimità costituzionale. A differenza però di quanto accade in quest’ultimo procedimento, l’oggetto del rinvio pregiudiziale non è qui la norma interna che dovrebbe essere applicata, e che in ipotesi risulti contraria al diritto UE; bensì è la stessa norma UE, rispetto alla cui interpretazione o alla cui legittimità al metro dello stesso diritto UE - in relazione a possibili vizi di incompetenza o di forma, di violazione dei trattati o di sviamento di potere - il giudice nazionale nutra dei dubbi. Nel caso Pupino, poc’anzi citato, il giudice nazionale chiese ad es. alla Corte non già di statuire sulla legittimità al metro del diritto UE della normativa processualpenalistica italiana pertinente (che era peraltro già stata oggetto di un giudizio di legittimità costituzionale avanti alla Corte costituzionale promosso dallo stesso giudice e conclusosi con una sentenza di non fondatezza21), bensì di chiarire se la decisione quadro sulla posizione della vittima nei procedimenti penali dovesse essere interpretata nel senso di imporre agli Stati membri l’adozione di particolari cautele - quali l’interrogatorio anticipato e con modalità protette - nell’assunzione della testimonianza di bambini vittime di maltrattamenti, sì da prevenire fenomeni di vittimizzazione secondaria nel corso del dibattimento e di interferire con il processo di naturale rimozione del trauma subito. Naturalmente, nel caso di rinvio pregiudiziale di interpretazione, è possibile (ed anzi frequentemente accade, come nello stesso caso Pupino) che l’intenzione reale del giudice nazionale sia quella di chiedere alla Corte se la

21 C. cost. n. 529/2002. Cfr. ancora F. Viganò, Il giudice penale e l’interpretazione conforme, cit., 620.

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norma nazionale che egli sarebbe tenuto ad applicare nel caso concreto sia o meno compatibile con il diritto UE. Per ottenere una tale risposta, il giudice ben potrà domandare alla Corte se la norma pertinente del diritto UE osti a una normativa nazionale come quella che viene in considerazione nel caso di specie. Nel caso di risposta affermativa da parte della Corte, il giudice nazionale sarà così tenuto a dare la prevalenza nella soluzione della controversia alla fonte di diritto UE (così come autoritativamente interpretata dalla Corte di giustizia), previa disapplicazione della norma interna dichiarata incompatibile con la norma UE nel caso in cui quest’ultima sia dotata di effetto diretto, o comunque - come avvenne nel caso oggetto della sentenza Pupino - attraverso una interpretazione conforme della norma interna al diritto UE. Di un tale meccanismo si è fatta recente applicazione, altresì, in materia di diritto penale dell’immigrazione, laddove la Corte di giustizia - in una sentenza dell’aprile di quest’anno - ha ritenuto che la direttiva UE 2008/115/CE in materia di rimpatri, dotata di effetto diretto e oggetto di rinvio pregiudiziale d’interpretazione da parte di un giudice italiano, ostasse alla norma incriminatrice prevista dall’art. 14, comma 5 ter, d.lgs. 286/1998: così interpretata la direttiva da parte della Corte, il giudice del rinvio ha conseguentemente disapplicato la norma interna, gerarchicamente subordinata al diritto UE22. Un’altra competenza della Corte di rilievo per le materie penalistiche è quella a giudicare dei ricorsi per annullamento degli atti delle istituzioni UE (compresi quelli a carattere normativo, come i regolamenti, le direttive o - sino al Trattato di Lisbona - le decisioni quadro) ai sensi dell’art. 263 TFUE. Oggetto di questa tipologia di ricorsi è dunque la stessa legittimità dell’atto UE. Alla Corte sono riservati i ricorsi proposti da uno Stato membro contro il Parlamento o contro il Consiglio, ovvero da un’istituzione UE contro un’altra istituzione UE, mentre i privati possono impugnare gli atti che li riguardino individualmente e personalmente avanti il Tribunale ovvero possono - come si è visto poc’anzi - contestare in via incidentale, nelle controversie che li riguardino, la legittimità degli atti normativi UE, sollecitando il giudice a sottoporre alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale di validità avente ad oggetto gli atti medesimi. Alcune importanti sentenze della Corte in materia di competenze penali dell’UE furono pronunciate in seguito a ricorsi per annullamento promossi dalla Commissione (come la sentenza Commissione c. Consiglio del settembre 200523, su cui dovremo a tempo debito ritornare, nella quale la Corte annullò per incompetenza una decisione quadro adottata dal Consiglio ai sensi dell’art. 34 dell’allora vigente TUE, e dunque nell’ambito del terzo pilastro, in una materia di competenza riservata al diritto comunitario in senso stretto, e sulla quale si sarebbe dovuto dunque legiferare con la procedura di codecisione tra Consiglio e Parlamento disciplinata allora dal TCE). Infine, ulteriore competenza di rilievo ai nostri fini è quella che concerne i ricorsi per infrazione proposti (normalmente) dalla Commissione, in forza dell’art. 258 TFUE, contro gli Stati membri che non abbiano adempiuto agli obblighi imposti dal diritto UE. Di tale rimedio la Commissione si avvale, in particolare, quando lo Stato membro non abbia trasposto, o non abbia a suo avviso trasposto correttamente, nel proprio ordinamento una direttiva entro il termine fissato. La procedura - preceduta da una fase non contenziosa al

22 Su tale vicenda, cfr. più ampiamente infra, F. Viganò, Il diritto penale sostanziale, 20 s. 23 Corte di giustizia CE, sent. 13 settembre, Commissione c. Consiglio (causa C-176/03).

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termine della quale la Commissione, sentito lo Stato, prescrive allo Stato di adeguarsi agli obblighi discendenti dal diritto UE entro un termine fissato - si conclude con una sentenza che accerta l’inadempimento e prescrive allo Stato di adeguarsi agli obblighi violati. L’ulteriore inadempimento dello Stato alle misure stabilite dalla Corte può dar luogo ad una seconda procedura di infrazione, la quale si concluderà - persistendo l’inadempimento - con la condanna dello Stato al pagamento di una somma forfettaria o di una penalità, spesso assai gravosa per le casse statali. Il che conferisce, come è facile intuire, a questa procedura un carattere dissuasivo ben più intenso in rapporto agli strumenti di cui - come si è visto - dispone il Consiglio d’Europa (anche dopo l’entrata in vigore del protocollo XIV, di cui si è dato conto in precedenza) per assicurare il rispetto da parte degli Stati degli obblighi scaturenti dalle sentenze della Corte EDU. D’altra parte, come parimenti si è avuto modo di evidenziare, una delle conseguenze più significative del Trattato di Lisbona in materia di diritto e processo penale è per l’appunto rappresentata dalla possibilità di sottoporre gli Stati a procedure di infrazione per l’inadempimento di obblighi fissati ora, anche rispetto a tali materie, attraverso direttive, e non più attraverso le meno cogenti decisioni quadro, il cui inadempimento non esponeva finora lo Stato ad alcuna conseguenza sanzionatoria. Due parole infine sui numeri della Corte. Il suo casellario è infinitamente meno affollato rispetto a quello della Corte EDU24. Anche i tempi medi di definizione dei procedimenti sono assai più contenuti di quanto non accada a Strasburgo: nel 2010 la durata media di un procedimento avviato con rinvio pregiudiziale si è assestata, ad es., attorno ai 16 mesi. I tempi, inoltre, divengono assai più rapidi nell’ipotesi in cui il ricorso venga trattato con procedura urgente ai sensi dell’art. 104 ter del regolamento della Corte, come accade nell’ipotesi in cui - in materia di sicurezza e giustizia (ex terzo pilastro) o di immigrazione - l’individuo interessato nel procedimento di rinvio sia in stato di detenzione, o comunque limitato nella propria libertà personale: ad es., nel già menzionato recente rinvio pregiudiziale di un giudice italiano, avente ad oggetto la compatibilità dell’art. 14 d.lgs. 286/98 con la direttiva rimpatri e nel quale l’imputato nel procedimento penale a quo si trovava per l’appunto di stato di custodia cautelare, è stato deciso con sentenza dalla Corte in meno di tre mesi dalla ricezione del ricorso. Morale: la Corte di giustizia è un’istituzione che funziona egregiamente, così come egregiamente funziona lo strumento del rinvio pregiudiziale, che consente a ciascun giudice (ordinario o costituzionale, di legittimità o di merito) di uno Stato membro di interloquire direttamente con il massimo organo di giustizia dell’Unione sull’interpretazione e la stessa validità delle norme UE. Uno strumento, peraltro, che andrebbe azionato con un doveroso senso di self-restraint, per evitare che il casellario della Corte venga inutilmente affollato da questioni che potrebbero essere agevolmente risolte dal giudice interno, che è - dopo tutto - chiamato, in qualità di primo giudice del diritto UE, ad applicare direttamente questo diritto, nel rispetto dei suoi principi e dei suoi canoni ermeneutici.

24 Come si apprende dalla statistiche pubblicate sul sito della Corte, nel corso del 2010 sono state definiti 522 procedimenti, a fronte di 631 cause nuove delle quali è la Corte stata investita – in maggioranza ricorsi pregiudiziali, il cui numero è peraltro negli ultimi anni oggetto di un forte trend di crescita (385 nel 2010 contro 302 nel 2009) –. Parimenti contenute le pendenze (799 procedimenti in tutto al 31 dicembre 2010).

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4. L’impatto delle fonti europee sull’ordinamento interno

Quale l’impatto degli obblighi riconducibili al quadro istituzionale delle due Europe nell’ordinamento italiano? Cerchiamo qui di ricapitolare i termini essenziali della questione, soffermandoci in particolare sugli aspetti davvero importanti per il cultore e il pratico delle materie penalistiche. A questo fine, occorrerà però tenere ancora una volta rigorosamente distinti i discorsi che concernono la “grande” e la “piccola” Europa, i cui strumenti normativi hanno tuttora un tasso di vincolatività e una capacità di penetrazione diversi nell’ordinamento italiana.

4.1. Le fonti UE dotate di effetto diretto

Conviene, questa volta, partire dalla “piccola” Europa: dunque dal diritto dell’Unione europea, e precisamente da quelle fonti dotate di effetto diretto nell’ordinamento degli Stati membri, rispetto alle quali i principi sono da tempo consolidati anche presso la giurisprudenza italiana. Come si è già avuto modo di evidenziare, la Corte di giustizia affermò perentoriamente, nel caso Simmenthal del 1978, che il principio del primato del diritto comunitario impone al giudice (ordinario) interno, di merito o di legittimità, di applicare direttamente la norma comunitaria comunque dotata di effetto diretto - alle condizioni stabilite dalla stessa giurisprudenza della Corte di giustizia - nella controversia pendente innanzi a sé, all’occorrenza disapplicando la norma interna contrastante, senza investire della questione la Corte costituzionale. Dopo una lunga resistenza, mirante ad accentrare su di sé il controllo di compatibilità della norma interna con il diritto comunitario per il tramite del parametro rappresentato dall’art. 11 Cost.25, la Corte costituzionale italiana aderì pressoché totalmente a questa impostazione con la già menzionata sentenza Granital (n. 170/1984). In forza di questa pronuncia, i cui principi sono sempre stati riaffermati nella giurisprudenza successiva, un’eventuale questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto il contrasto tra una norma di legge italiana e una fonte UE dotata di effetto diretto deve anzi considerarsi inammissibile, spettando esclusivamente al giudice ordinario la risoluzione del conflitto mediante la disapplicazione della norma di legge interna: la quale continuerà a questo punto a sopravvivere nell’ordinamento italiano (non essendo stata né abrogata né dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale attraverso una sentenza avente effetti erga omnes), ma non potrà trovare applicazione nel caso di specie, né in tutti i casi analoghi che si presenteranno in futuro ad altri giudici ordinari che ne condividano la valutazione di incompatibilità con il diritto UE. In un ordinamento, come quello italiano, caratterizzato da un controllo di costituzionalità accentrato in capo alla Corte costituzionale, il controllo di conformità delle leggi al diritto UE viene così ad essere assoggettato ad un sindacato diffuso, affidato ai giudici ordinari; i quali avranno a questo punto come interlocutore naturale non già la Corte costituzionale - radicalmente ‘tagliata fuori’ in questa materia -, ma la stessa Corte di giustizia, alla quale potranno rivolgersi per ottenere, in caso di dubbio ermeneutico, l’interpretazione autentica del diritto UE pertinente. Operazione, quest’ultima, ovviamente pregiudiziale rispetto alla stessa valutazione

25 Si vedano le tappe del percorso compiuto dalla Corte costituzionale italiana in M. Cartabia, J.H.H. Weiler, L’Italia in Europa, Bologna, 2002, 163 ss.

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relativa alla incompatibilità del diritto italiano con quello comunitario. In proposito, la stessa Corte costituzionale ha avuto modo di sottolineare il vincolo del giudice ordinario alle sentenze interpretative della Corte di giustizia, così come alle sentenze da questa pronunciate in esito a un ricorso per infrazione26: vincolo che deriva dal ruolo attribuito dai trattati alla Corte di interprete qualificato del diritto comunitario (oggi del diritto UE). Con la conseguenza, assai rilevante, che una pronuncia della Corte di giustizia che precisa il significato di una norma UE dotata di effetto diretto avrà essa stessa effetto diretto per il giudice italiano, che sarà tenuto dunque a conformarsi al decisum della Corte. Decisum che, è bene rammentarlo, nelle sentenze rese in esito a rinvii pregiudiziali non riguarda soltanto il caso concreto discusso avanti il giudice del rinvio, ma - così come accade per le sentenze della nostra Corte costituzionale - ha valenza erga omnes, determinando la portata generale e astratta della norma comunitaria autoritativamente interpretata dalla Corte.

4.2. La Convenzione europea, i protocolli addizionali e le altre fonti riconducibili al quadro istituzionale del Consiglio d’Europa

Quanto sinora osservato vale - si noti - per le sole fonti UE dotate di effetto diretto. Quid iuris, però, per la generalità delle fonti europee (riconducibili al quadro istituzionale della “grande” o della “piccola” Europa che siano) le quali non possiedano questa caratteristica? Il problema è rimasto a lungo assai controverso nell’ordinamento italiano, sino all’intervento - nel 2007 - di due notissime sentenze ‘gemelle’ della Corte costituzionale (le n. 348 e 349) che hanno dettato una serie di principi fondamentali con riferimento specifico alla CEDU e ai suoi protocolli addizionali, ma applicabili in effetti alla generalità delle norme internazionali che vincolano l’ordinamento italiano, ivi comprese dunque le altre convenzioni in materia penale e processuale penale elaborate in seno al Consiglio d’Europa (diremo invece nel prossimo paragrafo della sorte delle norme dell’Unione europea non dotate di effetto diretto). Dal punto di vista del diritto internazionale, anche prima delle sentenze ‘gemelle’, un dato era invero pacifico: tanto dalla CEDU e dai suoi protocolli addizionali, quanto dalla generalità delle convenzioni sottoscritte in seno al Consiglio d’Europa discendono precisi obblighi a carico dello Stato italiano, che ad essi si è volontariamente sottoposto mediante la sottoscrizione e la ratifica dei relativi strumenti, e che resta così esposto ad una responsabilità internazionale nei confronti degli altri Stati del Consiglio d’Europa nell’ipotesi di una loro violazione. La questione che restava controversa concerneva però la possibilità che a questi obblighi internazionali venisse riconosciuto uno specifico rilievo anche nel sistema interno delle fonti del diritto italiano. Le citate sentenze della Corte costituzionale hanno finalmente fatto chiarezza sul punto. Tutti gli obblighi internazionali assunti dallo Stato italiano attraverso strumenti convenzionali - all’interno o all’esterno del Consiglio d’Europa: e dunque anche in sede ONU, NATO, OCSE, etc., ovvero nel quadro di convenzioni bilaterali - condizionano, ai sensi dell’articolo 117 comma 1 Cost., il legittimo esercizio del potere legislativo statale e regionale; con la conseguenza che una legge, statale o regionale, contrastante con tali obblighi dovrà essere dichiarata costituzionalmente illegittima nell’ordina-mento

26 C. cost. n. 118/85 e 389/1989.

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italiano. Nel caso, dunque, in cui il giudice ordinario si trovi a dover applicare una norma di legge interna di cui sospetti il contrasto con un (qualsiasi) obbligo internazionale gravante sul nostro paese, dovrà in primo luogo sperimentare la possibilità di una interpretazione conforme della norma interna alla pertinente norma internazionale, sì da eliminare in via ermeneutica tale contrasto. Laddove ciò non sia possibile, il giudice non potrà direttamente disapplicare la legge contrastante con gli obblighi internazionali, come accade in relazione al diritto UE dotato di effetto diretto; ma dovrà sollevare questione incidentale di legittimità costituzionale con riferimento alla legge medesima, per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost. e - mediatamente - con la norma internazionale pertinente, la quale assurgerà a parametro c.d. interposto di legittimità costituzionale. Le sentenze ‘gemelle’ hanno peraltro precisato che la norma internazionale sulla quale si fonda l’obbligo in ipotesi contrastante con la legge interna resta ad un livello subordinato rispetto alle norme costituzionali, la Corte riservandosi una funzione ultima di controllo sulla compatibilità degli stessi obblighi internazionali con quelli, poziori, discendenti direttamente dalla Costituzione: di talché la legge interna, pur contrastante con gli obblighi internazionali, sfuggirà alla dichiarazione di incostituzionalità laddove gli obblighi internazionali medesimi risultino, a giudizio della Corte, a loro volta contrari alla Costituzione. Rispetto poi alle specificità della CEDU e dei suoi protocolli addizionali, la Corte costituzionale ha sottolineato come il significato degli obblighi internazionali scaturenti da tali strumenti non possa essere desunto dal loro mero dato testuale, ma debba essere ricostruito sulla base della giurisprudenza della Corte EDU, alla quale gli Stati parte hanno espressamente conferito (art. 32 CEDU) il potere di interpretare autoritativamente gli strumenti medesimi. La Corte costituzionale ha così riconosciuto che la Corte di Strasburgo non è - come talvolta si afferma anche da parte di voci autorevoli nel nostro Paese - un mero giudice delle violazioni convenzionali nel caso concreto, ma svolge una cruciale funzione di interpretazione ‘autentica’ degli obblighi discendenti dalla CEDU e dai protocolli addizionali. Funzione, del resto, essenziale agli occhi della Corte EDU, che è ben consapevole della propria missione di indicare agli stessi giudici nazionali (ordinari e costituzionali) i criteri per declinare tali obblighi in maniera uniforme, nell’intero spazio giuridico europeo: così da consentire ai giudici medesimi di svolgere il ruolo di primi giudici della Convenzione, assicurando così essi stessi agli individui sottoposti alle rispettive giurisdizioni un pieno ed uniforme diritto ad un “ricorso effettivo” contro le violazioni convenzionali, ai sensi dell’art. 13 CEDU, riservando l’intervento della Corte - nella logica di sussidiarietà desumibile dalla regola del previo esaurimento dei ricorsi interni di cui all’art. 35 CEDU - alle sole ipotesi in cui le giurisdizioni interne abbiano fallito nel loro compito di fornire adeguato rimedio all’individuo vittima di una violazione27. Per quanto, infine, tale profilo non sia stato enfatizzato dalle sentenze ‘gemelle’ della Corte costituzionale, non c’è dubbio che la CEDU e i suoi protocolli addizionali - così come la generalità degli strumenti convenzionali dei quali l’Italia è parte - siano stati incorporati nel diritto interno attraverso la clausola di “piena e intera esecuzione” contenuta nella rispettiva legge di autorizzazione alla ratifica. Tale incorporazione comporta la conseguenza - come si insegna in Italia da epoca ben anteriore alle sentenze n. 348 e

27 Più ampiamente, sul punto, F. Viganò, Il giudice penale e l’interpretazione conforme, cit., 641, nota 71.

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349/2007 - che le norme contenute nella convenzione assumano (quanto meno) il medesimo rango della legge di autorizzazione alla ratifica, ossia - normalmente - il rango di legge ordinaria, e che come tali siano direttamente applicabili da parte del giudice italiano. Proprio in tale ordine di idee la giurisprudenza ordinaria italiana, già da epoca precedente allo storico intervento della Corte costituzionale, aveva direttamente posto parziale rimedio a violazioni convenzionali a danno di singoli individui accertate dalla Corte EDU e tuttora in atto, valorizzando anche l’obbligo discendente dall’art. 46 CEDU a carico dello Stato italiano - in tutte le sue articolazioni e poteri, compreso quello giudiziario - di dare esecuzione alle sentenze della Corte EDU28. Un simile modus procedendi non sembra di per sé contrario ai principi enunciati dalla Corte costituzionale nelle sentenze “gemelle”, le quali si preoccupano soltanto di escludere che il giudice possa addirittura (come accade invece rispetto al diritto UE) disapplicare una norma interna irrimediabilmente contrastante con l’obbligo internazionale: senza però escludere che la norma, incorporata nell’ordinamento italiano in forza della legge di autorizzazione alla ratifica, possa trovare diretta applicazione da parte del giudice in spazi non regolati – o non inequivocabilmente regolati – in maniera incompatibile da un’altra norma interna. Altro è, insomma, la disapplicazione della norma interna contrastante con quella sovranazionale, che presuppone il riconoscimento di una vera e propria primazia di quest’ultima rispetto alla prima, nei termini valevoli per il diritto UE; altro è la mera diretta applicazione al caso di specie della norma sovranazionale, allorché quest’ultima riempia in una lacuna del dato normativo interno, senza determinare la disapplicazione di alcuna norma interna incompatibile, quest’ultima operazione essendo possibile anche con riguardo a norme comunque incorporate nel diritto interno in forza della clausola di “piena e intera esecuzione” contenuta nella legge di autorizzazione alla ratifica, come - in particolare - la CEDU e i suoi protocolli addizionali.

4.3. Le norme UE non dotate di effetto diretto

Restava, dopo le sentenze ‘gemelle’ del 2007, il problema dello status delle norme di diritto UE non dotate di effetto diretto, e che come tali si sottraggono al meccanismo della diretta applicazione disegnato dalla Corte costituzionale nella sentenza Granital (n. 170/1984), cui abbiamo più volte fatto riferimento. Il nodo è stato recentemente sciolto dalla Corte costituzionale con la sent. n. 28/2010, concernente il lamentato contrasto tra una disposizione del testo unico ambientale che sottraeva alla generale disciplina (nella specie penalmente sanzionata) in materia di rifiuti una determinata tipologia di sottoprodotti (le ceneri di pirite), che invece avrebbero dovuto essere assoggettati a tale disciplina in base alla direttiva 2006/12/CE, così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Il giudice remittente, rilevato il contrasto della norma interna con quella UE, osservava tuttavia che quest’ultima non avrebbe potuto essere direttamente invocata contro l’imputato, stante il principio consolidato nella stessa giurisprudenza della Corte di giustizia - discendente del resto dai principi generali in tema di effetto diretto delle direttive, a suo tempo ricapitolati - secondo cui una direttiva non può mai determinare, di per sé stessa e in difetto di una legge

28 Su alcune di queste pronunce, cfr. infra, O. Mazza, La procedura penale, 44 s.

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interna di attuazione, la responsabilità penale di un individuo o il suo aggravamento29. Il giudice sollevava quindi questione di legittimità costituzionale della norma interna, lamentandone il contrasto con gli articoli 11 e 117 comma 1 Cost. La Corte - dopo aver rammentato che “l’efficacia diretta di una direttiva è ammessa, secondo la giurisprudenza comunitaria e italiana, solo se dalla stessa derivi un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti dello Stato inadempiente”, e non invece quando, come nella specie, da essa si vorrebbe derivare un obbligo, per di più penalmente sanzionato, a carico del cittadino - accolse l’eccezione, dichiarando la norma impugnata illegittima per contrasto con entrambi i parametri costituzionali invocati dal remittente: l’art. 11, in relazione alla limitazione di sovranità derivante dall’adesione all’ordinamento giuridico dell’UE; e l’art. 117 comma 1, in relazione ai “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario” (oggi dell’UE) alla legislazione statale e regionale. In forza della citata pronuncia, la Corte costituzionale ha così nella sostanza assimilato le norme UE non dotate di effetto diritto alla generalità delle fonti internazionali esaminate nel precedente paragrafo, quanto alla loro idoneità a determinare l’illegittimità costituzionale della norma interna contrastante; idoneità che dovrà essere sempre dichiarata, dunque, dalla Corte costituzionale e non dal giudice ordinario, al quale resterà qui preclusa la strada della disapplicazione della legge interna contrastante. L’unica peculiarità, peraltro verosimilmente sprovvista di rilievo pratico, concernerà in questi casi la possibilità di invocare, oltre all’art. 117 comma 1, l’ulteriore parametro rappresentato dall’art. 11 Cost., tradizionale punto di riferimento della giurisprudenza costituzionale in materia di rapporti tra diritto interno e diritto UE30.

4.4. Le norme della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona

Un ultimo problema che occorre affrontare, prima di concludere questa lunga panoramica, concerne l’impatto sul diritto italiano delle norme della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) dopo l’entrata in vigore, il 1° dicembre 2009, del Trattato di Lisbona. Qualche parola preliminare sulla Carta, prima di entrare in medias res. Pur nell’assenza di ogni esplicito riferimento nel Trattato di Roma, da oltre quarant’anni la giurisprudenza della Corte di giustizia riconosce che i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo costituiscono principi fondamentali del diritto comunitario, che come tali segnano altrettanti limiti invalicabili alla stessa azione delle istituzioni comunitarie, oltre che degli Stati membri allorché attuino il diritto comunitario31. La loro prima comparsa esplicita nei trattati risale però al Trattato sull’Unione di Maastricht, il cui articolo F (poi divenuto articolo 6 nella versione post Amsterdam) affermava che l’Unione

29 Corte di giustizia CE, sent. Kolpinghuis Nijmegen, sent. 8 ottobre 1987 (causa C-80/86); sent. 3 maggio 2005, Berlusconi (sent. C-387/02). 30 La Corte ha fatto applicazione di tali principi anche nella successiva sent. n. 227/2010, nella quale è stata dichiarata illegittima una disposizione della legge italiana di trasposizione della decisione quadro 2002/584/GAI per contrasto – tra l’altro – con la decisione quadro medesima, e cioè con un atto normativo di terzo pilastro dell’UE pacificamente sprovvisto di effetto diretto ai sensi dell’art. 34 del TUE nella versione introdotta dal Trattato di Amsterdam. 31 Cfr. sul punto Corte di giustizia CE, sent. 12 novembre 1969, Stauder (causa C-29/69); sent. 28 ottobre 1975, Rutili (causa C-36/75).

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“rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali [...] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario”. È solo nel 2000, però, che l’Unione si dota di una propria Carta dei diritti fondamentali (CDFUE), proclamata congiuntamente a Nizza dal Parlamento, dal Consiglio e dalla Commissione. Dopo un lungo periodo di incertezza circa il preciso status giuridico di tale strumento, e sul suo effettivo grado di vincolatività per gli Stati membri, il Trattato di Lisbona risolve ogni dubbio dichiarando solennemente che “l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea [...], che ha lo stesso valore giuridico dei trattati” (art. 6 comma 1 TUE). L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha, così, posto gli interpreti - anche italiani - di fronte alla questione se l’attribuzione del medesimo valore dei trattati alla Carta implicasse anche il riconoscimento di un possibile effetto diretto e della primazia delle sue norme all’interno dell’intero spazio giuridico UE, con conseguente possibilità per il giudice nazionale di disapplicare le eventuali norme di diritto interno contrastanti, senza necessità di denunciare tale contrasto avanti alla Corte costituzionale. La rilevanza pratica della questione è, d’altra parte, acuita dai complessi rapporti intercorrenti tra la Carta e la CEDU. La Carta, per cominciare, contiene più diritti di quelli riconosciuti dalla CEDU e dai suoi protocolli addizionali (in particolare in materia di diritti sociali), ma per altro verso è più laconica di quella rispetto ad alcuni diritti e libertà fondamentali. Proprio per evitare possibili discrasie tra la Carta e i paralleli strumenti del Consiglio d’Europa, peraltro, la Carta contiene una disposizione di raccordo, secondo cui laddove essa contenga “diritti corrispondenti” a quelli garantiti dalla CEDU, “il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti” dalla CEDU medesima, salva restando la possibilità che la Carta conceda a tali diritti una “protezione più estesa” (art. 52 comma 3 CDFUE). Le “spiegazioni” relative alla Carta (delle quali i giudici dell’Unione e degli Stati membri devono tenere “debito conto” nell’interpretazione della Carta: art. 6 comma 1 TUE e art. 52 comma 7 CDFUE) chiariscono, da un lato, che il riferimento alla CEDU comprende anche i protocolli addizionali, e dall’altro che il significato e la portata dei diritti garantiti sono determinati non solo dal testo di tali strumenti, ma anche dalla giurisprudenza della Corte EDU e della stessa Corte di giustizia. La CEDU e i suoi protocolli addizionali, nell’interpretazione fornitane in particolare dalla Corte EDU, divengono così una sorta di standard minimo nella tutela dei diritti fondamentali, al quale l’Unione può derogare soltanto “verso l’alto”, assicurando ai diritti individuali in gioco una protezione più estesa di quella assicurata a Strasburgo. Uno standard minimo, peraltro, estremamente pervasivo, dal momento che pressoché tutti i diritti e le libertà riconosciuti dalla CEDU e dai suoi protocolli trovano una puntuale corrispondenza all’interno della Carta, la quale dunque finisce per inglobare in pratica la totalità delle garanzie assicurate degli strumenti del Consiglio d’Europa. Non solo: l’art. 6 comma 2 TUE dichiara solennemente che “l’Unione aderisce alla Convenzione europea”, anticipando così l’esito del negoziato - tuttora in corso - che dovrebbe sfociare in un prossimo futuro nella formale adesione dell’Unione al quadro convenzionale, e che segnerà così la sottoposizione formale dello stesso diritto UE al sindacato in materia di tutela dei diritti umani esercitato dalla Corte EDU.

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Questo complesso intrico di rapporti ha indotto molti commentatori a ritenere, anche nel nostro Paese, che la stessa CEDU (e i relativi protocolli addizionali) fossero stati ormai nella loro quasi totalità incorporati nel diritto UE, condividendone il medesimo status - segnatamente, l’idoneità a produrre effetti diretti favorevoli all’individuo, con conseguente potere-dovere in capo al giudice ordinario italiano di disapplicare le norme interne contrastanti non solo con le norme della Carta, ma anche con il complesso delle norme della CEDU e dei suoi protocolli addizionali, così come interpretate dalla giurisprudenza di Strasburgo. Con il risultato singolare di lasciare alla Corte costituzionale italiana il compito di sindacare i soli contrasti delle leggi italiane con quei (pochi) diritti e libertà fondamentali riconosciuti dalla nostra Costituzione, ma non dalla Carta né dalla CEDU e dai suoi protocolli addizionali. Non sorprendentemente, con la recentissima sent. 80/2011 la Corte costituzionale ha respinto questa prospettiva, che sarebbe riuscita davvero ‘eversiva’ per il nostro sistema di controllo di costituzionalità accentrato, e che avrebbe travolto - a distanza di poco più di tre anni - i principi enunciati dalle sentenze ‘gemelle’ del 2007 in materia di rapporti tra fonti internazionali (e in ispecie CEDU) e ordinamento italiano. Chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di una norma in materia di procedimento di prevenzione in relazione all’art. 117 comma 1 Cost. con riferimento all’art. 6 CEDU, così come interpretato dalla pertinente giurisprudenza di Strasburgo, la Corte costituzionale si è posta il quesito preliminare se la questione propostale fosse ammissibile alla luce dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. In effetti, se la CEDU fosse stata davvero “incorporata” nel diritto UE con lo “stesso valore giuridico dei trattati” per effetto dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, allo stesso art. 6 CEDU - in quanto norma concretizzante lo standard minimo di tutela del “diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale” di cui all’art. 47 della Carta - si sarebbe dovuto attribuire un effetto diretto, secondo i noti principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia in relazione - appunto - alle norme dei trattati; di talché, se la premessa fosse stata corretta, sarebbe stato compito dello stesso giudice ordinario valutare il denunciato contrasto tra la disposizione di legge interna e la norma convenzionale, per pervenire eventualmente alla disapplicazione della prima in quanto incompatibile con la seconda. La Corte costituzionale, tuttavia, ha giustamente sottolineato che la stessa Carta afferma, all’art. 51 comma 1, che essa si applica all’Unione e agli Stati membri “esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”, e che comunque (art. 52 c. 2 CDFUE) la Carta “non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione” - disposizione, quest’ultima, che compare con ancora maggiore energia nell’art. 6 comma 2 TUE (“le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati”). Ciò significa, in buona sostanza, che i principi della Carta - e, per suo tramite, i principi della CEDU e rispettivi protocolli addizionali, così come interpretati dalla giurisprudenza di Strasburgo - opereranno esclusivamente all’interno dell’ambito di applicazione del diritto UE, senza avere la pretesa di imporsi al di fuori di tali ambiti - come nel procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione, oggetto della questione di specie, che certamente ricade in un ambito non regolato dal diritto UE. Mentre, dunque, la CEDU e i suoi protocolli addizionali hanno una vocazione universale per quanto riguarda il loro campo di applicazione (nel

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senso, cioè, che vincolano lo Stato parte in ogni sua attività e competenza), ma hanno per converso uno status giuridico più debole nel nostro ordinamento rispetto agli strumenti normativi UE, la Carta condivide lo status forte proprio delle norme dei trattati UE (dotati di primazia sul diritto interno, e potenzialmente in grado di produrre effetti diretti e disapplicazione da parte del giudice ordinario delle norme di legge interne con essi contrastanti), ma ha per converso un ambito di applicazione limitato ai soli campi di materie concretamente interessati dalla normazione dell’UE. La sentenza appena menzionata della Corte costituzionale riafferma, dunque, la validità in linea di principio della soluzione individuata con le sentenze ‘gemelle’ del 2007 in relazione alla CEDU e alle altre fonti di diritto internazionale pattizio. Tuttavia, la linea argomentativa seguita dalla Corte apre necessariamente alle prospettive di un possibile utilizzo da parte del giudice ordinario della Carta - e pertanto delle stesse norme della CEDU e dei suoi protocolli, che ne concretizzano il livello minimo di tutela - negli ambiti di applicazione del diritto UE. Ambiti di applicazione che stanno, peraltro, diventando sempre più numerosi: anche nella materia penale e processuale penale, nelle quali l’Unione - come già si è avuto modo di rammentare - sta procedendo a ritmi forzati a sostituire le previgenti decisioni quadro con altrettante direttive, dettanti norme sull’armonizzazione dei precetti e delle sanzioni così come sulla cooperazione giudiziaria in materia penale. Negli ambiti interessati da tali direttive (si pensi alla già vigente direttiva in materia di tutela penale dell’ambiente32, o a quella sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nel processo penale33) i principi della Carta, e mediatamente della CEDU e dei relativi protocolli, potranno dunque presto esplicare i loro effetti diretti, eventualmente previo coinvolgimento della Corte di giustizia affinché ne chiarisca la portata in rapporto alle disposizioni del diritto UE di volta in volta in considerazione: con un dialogo che, dunque, potrebbe in futuro svolgersi direttamente tra giudice ordinario e Corte di giustizia, senza più passare per la Corte costituzionale34.

32 Direttiva 2008/99/CE. 33 Direttiva 2010/64/UE. 34 Uno dei possibili ‘canali’ di tale dialogo potrebbe essere rappresentato dallo strumento della questione pregiudiziale di validità della norma di una direttiva UE (fedelmente trasposta nella legislazione nazionale), della quale il giudice (ordinario) nazionale sospetti il contrasto con un diritto fondamentale riconosciuto dalla Carta (direttamente, o tramite il riferimento alla CEDU e ai suoi protocolli). In tale ipotesi, la Corte di giustizia sarebbe chiamata a sindacare il (mancato) rispetto dei diritti fondamentali da parte dello stesso legislatore UE, con il risultato eventualmente di invalidare lo stesso atto normativo dell’UE: ciò che spalancherebbe la strada alla disapplicazione, da parte del giudice interno, della norma di trasposizione interna, rimasta ormai senza base nel diritto UE e riconosciuta anzi come contraria agli stessi diritti fondamentali che vincolano anche il giudice nazionale nell’attuazione del diritto UE. D’altra parte, ben potrebbe il giudice interno sottoporre alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale di interpretazione di una norma della Carta, onde stabilire se essa osti all’applicazione di una norma interna attuativa di una direttiva, il cui contenuto però non fosse vincolato dalla direttiva medesima: in caso di risposta affermativa da parte della Corte, il giudice ben potrebbe (e anzi dovrebbe) disapplicare la norma interna, del quale la Corte avrebbe riconosciuto il contrasto con la Carta.

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B) FONTI EUROPEE E DIRITTO PENALE SOSTANZIALE

5. Introduzione

Le relazioni tra diritto penale sostanziale e fonti europee sono state negli ultimi anni oggetto di approfonditi studi, molti dei quali di taglio monografico; sicché sarebbe semplicemente folle volerne dare conto esaustivamente nel poco spazio qui a disposizione. Nell’ottica però di fornire - ancora una volta - un primo orientamento al teorico e al pratico del diritto con le idee ancora, comprensibilmente, un po’ confuse su un argomento in larga misura nuovo per l’orizzonte della scienza penalistica, può forse riuscire utile fissare alcune coordinate essenziali dei problemi in discussione, affidando poi al lettore interessato ogni necessario approfondimento. Una buona chiave di lettura, in materia di diritto penale sostanziale, è quella che distingue tra effetti riduttivi ed effetti espansivi del diritto penale svolta dalle norme europee che vengono di volta in considerazione1. A questa distinzione si atterrà la trattazione che segue, nella quale occorrerà però accuratamente distinguere - una volta ancora! - tra fonti riconducibili al quadro istituzionale della “grande” e della “piccola” Europa: Consiglio d’Europa, da un lato, e Unione europea, dall’altro.

6. Diritto UE e diritto penale sostanziale

6.1. Effetti riduttivi

Conviene però, questa volta, prendere le mosse dal quadro istituzionale dell’UE, la cui incidenza sul diritto penale italiano è quantitativamente maggiore, e certamente più studiata da parte della dottrina. E conviene - non foss’altro che per ragioni storiche - puntare l’attenzione anzitutto sugli effetti riduttivi del diritto penale (dell’area del penalmente rilevante, ovvero dell’afflittività della sanzione penale) esercitati dal diritto UE. Sul punto, per il vero, non occorre soffermarsi molto, anche perché qualsiasi buon manuale di diritto penale contemporaneo dà conto puntualmente delle coordinate del problema. L’Unione europea, tanto per cominciare, ha una indiscussa competenza sanzionatoria amministrativa, ma non ha una propria competenza penale in senso stretto: non ha, cioè, il potere di porre in essere norme incriminatrici direttamente applicabili dai giudici nazionali, né di stabilire - a fortiori - le relative pene. Taluno discute, invero, oggi come ieri sulla possibilità che l’Unione possa in futuro emanare direttamente, attraverso regolamenti, norme incriminatrici provviste di una sanzione penale in materia di tutela dei propri interessi finanziari, in forza - oggi - del combinato disposto degli articoli 86 comma 2 e 325 TUE2. Il punto, di notevole interesse per gli esperti,

1 Questa dicotomia non esaurisce, in realtà, l’area delle possibili interferenze tra fonti sovranazionali e diritto penale: cfr. per tutti A. Bernardi, L’europeizzazione del diritto e della scienza penale, Torino, 2004. 2 Cfr. sul punto C. Sotis, Il Trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, in Cass. pen., 2010, 326 ss. Cfr. altresì i contributi di G. Grasso, Il Trattato di Lisbona e le nuove competenze penali dell’Unione europea, e di R. Sicurella, Questioni di metodo nella costruzione di una teoria delle competenze

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non può qui essere ulteriormente discusso; ma il dato certo è che una simile competenza, quand’anche esistente, non è sinora mai stata esercitata. Ciò non toglie, tuttavia, che il diritto UE esplichi importanti effetti sul diritto penale degli Stati membri; e che, tra questi effetti, quello che per primo si è imposto all’attenzione degli interpreti e dei giudici italiani è il possibile effetto di neutralizzazione di una norma penale interna o della sanzione penale prevista per la sua violazione, le quali indebitamente comprimano un diritto o comunque un’area di libertà riconosciuto al singolo dal diritto UE, sanzionando penalmente l’esercizio di tale diritto o di tale libertà ovvero comprimendolo mediante la sanzione penale3. Sin dalla fine degli anni settanta la Corte di giustizia ha affermato che, in simili ipotesi, il giudice nazionale dovrà disapplicare la norma nazionale incompatibile con il diritto UE, dotato - come si è visto nel precedente saggio - di primazia su quello interno; e per l’effetto dovrà assolvere l’imputato, perché - secondo la formula assolutoria più adottata dalla giurisprudenza italiana in questi casi - “il fatto non sussiste”. La norma incriminatrice rimane, in queste situazioni, formalmente in vigore; ma la sua applicazione - soprattutto allorché sia intervenuta una sentenza della Corte di giustizia che, sollecitata da un giudice italiano, abbia fornito erga omnes una interpretazione del diritto UE incompatibile con la norma italiana - ne risulta paralizzata. Esempi di una simile interazione abbondano nell’esperienza del nostro diritto penale. Si pensi, per qualche caso recente, alle norme penali in materia di raccolta di scommesse, che la Corte di giustizia, in esito a un lungo dialogo a distanza con i giudici italiani, dichiarò infine incompatibili con le norme del Trattato (dotate come tali di effetto diretto in favore degli autori dei reati previsti dalla normativa penale italiana) che sanciscono la libera circolazione dei servizi e la libertà di stabilimento4. Ovvero si pensi alla complessa vicenda concernente le norme incriminatrici di condotte di ‘pirateria’ di determinate opere dell’ingegno su supporto informatico, risultate transitoriamente illegittime al metro del diritto comunitario - secondo il giudizio della Corte di giustizia - in ragione dell’inopponibilità al singolo dell’obbligo di apporre il marchio SIAE, in difetto di tempestiva comunicazione alla Commissione da parte dello Stato italiano delle regole sottese a tale marchio che pongono limiti alla libertà di circolazione dei prodotti, secondo le disposizioni di una direttiva alla quale è stata riconosciuta effetto diretto liberatorio nei confronti degli imputati dei reati de quibus5.

dell’Unione europea in materia penale, entrambi pubblicati in Studi in onore di Mario Pisani, vol. IV, 2010, rispettivamente alle pp. 2307 ss. e 2569 ss. 3 Cfr. sul punto Corte di giustizia CE, sent. 11 novembre 1981, Casati (causa C-203/80); sent. 2 febbraio 1989, Cowan (causa C-186/87); sent. 16 giugno 1998, Lemmens (causa C-226/97). 4 La nostra Cassazione aveva a lungo sostenuto – addirittura con una pronuncia a sezioni unite (Cass., Sez. un., 26 aprile 2004, n. 23271, Gesualdi) – la compatibilità della disciplina penale italiana con le norme comunitarie in parola, affermando che le norme incriminatrici nazionali fossero funzionali alla tutela di un controinteresse (l’ordine pubblico) che, nella stessa ottica comunitaria, poteva costituire un legittimo limite alle libertà sancite dal Trattato; ma tale posizione fu alla fine sconfessata da una pronuncia della Corte di giustizia (CG, sent. 6 marzo 2007, Placanica, cause riunite n. C-338/04, 359/04 e 360/04), la quale – sollecitata dai giudici di merito italiani – affermò che la disciplina italiana doveva considerarsi incompatibile con gli obblighi comunitari. Conseguentemente, la stessa Cassazione dovette riconoscere che quelle norme incriminatrici – ancorché mai abrogate dal legislatore italiano, e pertanto formalmente ancora in vigore – non avrebbero più potuto trovare applicazione da parte dei giudici italiani (Cass., Sez. III, 28 marzo 2007, n. 16928, S.F.), in ragione proprio del loro contrasto con il diritto comunitario, così come autoritativamente interpretato dal suo giudice “ultimo”, la Corte di giustizia. Per una ricostruzione più dettagliata della vicenda, si consenta il rinvio a Viganò, L’influenza delle norme sovranazionali nel giudizio di “antigiuridicità” del fatto tipico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 1068 ss. 5 Più in particolare, si trattava delle le norme incriminatrici di cui agli artt. 171-bis e 171-ter della legge sul diritto d’autore (n. 633/1941). L’art. 171-bis riguarda la pirateria di programmi per elaboratore (software), e

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Un caso recentissimo - particolarmente eclatante per il notevolissimo impatto sulla prassi quotidiana dei giudici penali - nel quale è stata affermata l’incompatibilità di una norma incriminatrice con il diritto UE concerne il delitto di inottemperanza all’ordine di allontanamento intimato dal questore di cui all’art. 14 comma 5-ter del testo unico in materia di immigrazione (d.lgs. 286/98) nella versione precedente al d.l. n. 89/2011. Il 24 dicembre 2010 era inutilmente scaduto nel nostro ordinamento il termine di attuazione della direttiva 2008/115/CE, che prevede una disciplina dei rimpatri dei cittadini extra-UE il cui soggiorno nello Stato membro sia irregolare, che per molti versi risultava incompatibile con la disciplina del t.u. allora vigente. In particolare, l’art. 15 della direttiva prevede, quale misura di extrema ratio adottabile nei confronti dello straniero non cooperante con la procedura di rimpatrio, la possibilità di disporne il trattenimento in un centro di permanenza temporanea, alle condizioni e con le garanzie giurisdizionali tassativamente stabilite dalla direttiva, per un periodo massimo di sei mesi prorogabili in casi eccezionali sino a diciotto mesi complessivi; e il successivo articolo 16 dispone che il trattenimento non può di regola avvenire in carcere, salvo casi eccezionali e, comunque, assicurando la separazione dello straniero trattenuto, dai detenuti ordinari. Il citato art. 14 comma 5-ter del testo unico prevedeva, invece, che lo straniero non cooperante con la procedura di rimpatrio, il quale avesse trasgredito l’ordine di lasciare entro cinque giorni intimatogli dal questore sulla base di un previo decreto prefettizio di espulsione, fosse sottoposto alla pena della reclusione da uno a quattro anni, elevabili sino a cinque anni nel caso in cui la violazione fosse reiterata (art. 14 comma 5-quater t.u.). La natura elusiva di un tale meccanismo rispetto agli obblighi discendenti dalla direttiva fu presto denunziata in dottrina6 e da parte di numerosi giudici di merito già a partire dalla scadenza del termine di attuazione della direttiva: attraverso la previsione di una (pesante) pena detentiva contro lo straniero che non cooperi con la procedura espulsiva, lo Stato italiano creava di fatto un titolo autonomo di privazione della libertà personale a carico dello straniero medesimo, che finiva per sommarsi indebitamente al periodo eventuale di detenzione amministrativa nei centri di identificazione e di espulsione, pure previsto dal testo unico, e che soprattutto si sottraeva alle garanzie e ai limiti inderogabili (anche in termini di durata massima) previsti dai citati articoli 15 e 16 della direttiva UE. Ciò determinava – secondo uno

banche dati; l’art. 171-ter concerne CD, DVD e altri supporti contenenti musica, filmati, immagini, etc. Entrambe le norme prevedono, tra le condotte incriminate, la vendita di prodotti privi del contrassegno SIAE. Taluni giudici di merito italiani adirono con un ricorso pregiudiziale la Corte di giustizia, dubitando della compatibilità di tali incriminazioni con le direttive 83/189 CEE e 98/34 CE, le quali hanno istituito una procedura di informazione in forza della quale lo Stato membro che introduce regole con le quali pone limiti alla commercializzazione di prodotti (cd. “regole tecniche”, ai sensi dell’art. 1 della direttiva 98/34/CE), è obbligato a darne comunicazione alla Commissione UE, che può cosi procedere a verificarne la compatibilità con il principio di libera circolazione delle merci. Con la sentenza del 8 novembre 2007, Schwibbert (causa C-20/05), la Corte di Giustizia ha stabilito: a) che l’obbligo di apporre il marchio SIAE costituisce una regola tecnica ai sensi delle sopraccitate direttive; b) che, se lo Stato membro non adempie all’obbligo di comunicazione di una “regola tecnica”, questa non può essere opposta ai privati, con la conseguenza che il giudice nazionale dovrà disapplicarla. Ebbene, secondo quanto statuito dalla Cassazione in seguito alla sentenza della Corte di giustizia, le norme incriminatrici che prevedono la mancata apposizione del marchio SIAE non possono trovare applicazione, e l’imputato deve essere assolto “perché il fatto non sussiste”, quanto meno con riferimento alle condotte compiute sino al momento in cui l’Italia ha effettivamente comunicato alla Commissione la regola tecnica del marchio SIAE (ciò che è avvenuto il 23 febbraio 2009 per i software – cfr. Cass., Sez. III, 28 ottobre 2009 n. 424210 – e il 21 aprile 2009 per CD e DVD – cfr. Cass., Sez. III, 22 settembre 2010 n. 39730). 6 F. Viganò, L. Masera, Illegittimità comunitaria della vigente disciplina delle espulsioni e possibili rimedi giurisdizionali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, 560 ss, e Inottemperanza dello straniero all’ordine di allontanamento e “direttiva rimpatri” UE: scenari prossimi venturi per il giudice penale italiano, in Cass. pen., 2010, 1710 ss.

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schema concettuale caratteristico del diritto comunitario – la frustrazione dell’effetto utile della direttiva in relazione allo scopo di tutela, da essa perseguito, della libertà personale dello straniero durante la procedura espulsiva7. Numerosi giudici di merito ritennero che il contrasto della norma incriminatrice italiana con la direttiva fosse tanto evidente da non imporre la necessità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia; altri giudici preferirono invece battere quest’ultima strada, anche in relazione all’assenza – nel testo della direttiva in questione – di un esplicito divieto di ricorrere alla sanzione penale per assicurare l’enforcement della procedura di rimpatrio nei confronti dello straniero non cooperante. Investita di un ricorso nel quale era stata chiesta dal giudice remittente l’applicazione della procedura urgente prevista dall’art. 104 ter del Regolamento della Corte, in ragione dello status detentionis in cui si trovava l’imputato, la Corte pronunciò la propria sentenza (El Dridi) lo scorso aprile 2011, statuendo in effetti che la direttiva 2008/11/CE osta a una normativa che, come quella italiana, “preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo”8. Per l’effetto – precisò la Corte – il giudice italiano ha l’obbligo di disapplicare la norma incriminatrice de qua, in quanto in contrasto con gli articoli 15 e 16 della direttiva, ai quali deve essere riconosciuto – dopo l’inutile scadenza del termine di attuazione – effetto diretto nell’ordinamento degli Stati membri. Si tratta infatti di norme chiare, precise e incondizionate, dalle quali discende il riconoscimento del diritto in capo allo straniero a non essere sottoposto, durante la procedura espulsiva, a limitazioni di libertà ulteriori e più gravose di quelle consentite dalla direttiva medesima9. Gli effetti della sentenza El Dridi hanno, a questo punto, travolto non solo i processi in corso per il delitto di cui all’art. 14 comma 5-ter e quater t.u., ma anche le sentenze di condanna già passate in giudicato per i delitti medesimi: la nostra giurisprudenza ha infatti ritenuto l’applicabilità dell’art. 2 comma 2 c.p., secondo cui “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penali”10. La sopravvenuta incompatibilità di una incriminazione con una norma di diritto UE dotata di effetto diretto (a partire, nel nostro caso, dalla data della scadenza del termine di attuazione della direttiva) è stata così assimilata ad un’abolitio criminis, in ragione dell’esigenza – corrispondente anche al canone della retroattività della legge penale più favorevole, che è esso stesso principio generale di diritto UE, sancito dall’art. 49 comma 3 della Carta – di evitare che un individuo possa continuare a scontare una pena per un fatto che, secondo la valutazione della Corte di giustizia, oggi non può più essere assoggettato ad una sanzione penale detentiva. Nel caso appena esaminato la Corte ha dunque ritenuto non tanto

7 F. Viganò, L. Masera, Addio articolo 14: nota alla sentenza El Dridi della Corte di Giustizia UE in materia di contrasto all’immigrazione irregolare, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, e ivi per ogni riferimento. 8 Corte di giustizia UE, sent. El Dridi, sent. 28 aprile 2011 (causa C-61/11 PPU). 9 A tale decisiva considerazione, che sta alla base del riconoscimento dell’effetto diretto della direttiva de qua, la Corte aggiunge l’ulteriore considerazione che l’incriminazione italiana, nella versione allora in vigore, frustrava l’effetto utile della direttiva anche sotto l’ulteriore profilo per cui l’arresto e l’esecuzione della pena detentiva in effetti rallentava la procedura di espulsione, ritardando il conseguimento dell’obiettivo finale dell’allontanamento dello straniero, cui lo Stato è tenuto in forza della direttiva (§ 59). 10 Cass., Sez. I, sent. 28 aprile 2011 (dep. 1° giugno 2011), n. 22105, P.M. in proc. Tourghi, in www.penalecontemporaneo.it.

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l’incompatibilità con il diritto UE del precetto penalmente sanzionato, affermando anzi esplicitamente che la direttiva 2008/115/CE non osterebbe in assoluto ad una norma penale che incriminasse talune condotte di mancata cooperazione dello straniero alla procedura espulsiva; quanto piuttosto della sanzione detentiva prevista dalla norma incriminatrice allora vigente, che indebitamente comprime un’area di libertà personale garantita dal diritto UE allo straniero, corrispondente a un suo diritto fondamentale riconosciutogli dall’art. 5 CEDU così come interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo (puntualmente citata dalla Corte di giustizia) e dallo stesso art. 6 della Carta. L’ultimo rilievo sollecita a chiedersi – prima di concludere la nostra breve riflessione sugli effetti riduttivi del diritto penale esplicabili dal diritto UE – se i diritti fondamentali, così come riconosciuti dalla Carta (alla quale è oggi, come si è visto, attribuito il medesimo valore giuridico dei trattati), dalla CEDU e dai protocolli addizionali nell’interpretazione della Corte EDU, potranno nel prossimo futuro giocare un ruolo significativo di contenimento del potere punitivo statale, in particolare ad opera della giurisprudenza della Corte di giustizia. Quest’ultima non nasce, invero, come corte orientata alla tutela dei diritti umani, la sua giurisprudenza essendo piuttosto ispirata alla difesa (e anzi, spesso, all’affermazione proattiva) delle competenze e dell’effettività delle politiche dell’UE rispetto agli Stati membri. Ma è evidente che, stretta da un lato dalla necessità di prevenire conflitti con le corti costituzionali degli Stati membri nella materia sensibile della tutela dei diritti fondamentali in materia penale e processuale penale, e dall’altro dalla prospettiva di una futura sottoposizione del diritto UE al controllo ultimo di compatibilità con i diritti fondamentali da parte della ‘cugina’ Corte di Strasburgo per effetto della prossima adesione dell’UE alla CEDU, la Corte di giustizia sarà fatalmente condotta ad assumersi sempre più il ruolo di vera e propria corte costituzionale sovranazionale, ‘guardiana’ – come tale – dei diritti fondamentali con i quali naturalmente interferisce la materia del diritto e della procedura penale, la cui armonizzazione tra gli Stati membri è divenuta ormai a pieno titolo una competenza dell’Unione. Un ruolo significativo, a questo riguardo, potrebbe ad es. essere giocato in futuro dal principio di proporzionalità della sanzione penale rispetto alla gravità del reato, sancito dall’art. 49 comma 3 della Carta con una disposizione senza corrispondenza nella CEDU e che, pertanto, sembra offrire all’individuo assoggettato a sanzione penale una protezione più ampia di quella offerta dal diritto di Strasburgo. Nelle (ormai numerosissime) materie rientranti nell’ambito di applicazione del diritto UE, potrebbe in effetti porsi la questione se determinati quadri edittali previsti dal legislatore interno – in attuazione del diritto UE – non appaiano “sproporzionati” ai sensi della Carta; con l’effetto di aprire la strada a futuri rinvii pregiudiziali da parte anche di giudici italiani, in relazione alla compatibilità di tali quadri edittali con il principio posto dall’art. 49 comma 3 della Carta, e alla successiva disapplicazione dei quadri edittali medesimi in caso di risposta negativa da parte della Corte.

6.2. Effetti espansivi dell’area del penalmente rilevante: a) la situazione pre-Maastricht

Se quello della riduzione dell’area del penalmente rilevante – o comunque della dimensione afflittiva della sanzione penale – costituisce il settore più consolidato nel quale il diritto UE spiega la propria influenza in materia di

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diritto penale sostanziale, tutt’altro che trascurabili – ed anzi di rilievo sempre maggiore – sono gli opposti effetti espansivi dell’area del penalmente rilevante, e della stessa entità delle sanzioni, esercitati dal diritto UE. Anche qui, gioverà qualche brevissima indicazione storica. Il diritto comunitario anteriore al Trattato di Maastricht, in linea di principio, non poneva alcun obbligo a carico degli Stati di tutelare determinati interessi di rilievo comunitario mediante lo strumento specifico del diritto penale: l’obbligo, esplicitato con formula di rito nelle direttive, era piuttosto quello di assicurare una tutela “effettiva, proporzionata e dissuasiva” all’interesse di volta in volta in questione. Un obbligo, dunque, di risultato più che di mezzi. Dal punto di vista pratico, peraltro, era (ed è tuttora) assai frequente che i legislatori nazionali esercitassero la discrezionalità loro concessa dalle norme comunitarie optando proprio per la sanzione penale, quanto meno per i casi più gravi di violazione che il diritto comunitario fa obbligo di sanzionare in modo effettivo, proporzionato e dissuasivo. Il che evidenzia subito un primo profilo di macroscopica influenza del diritto comunitario (oggi UE) sulla concreta conformazione del diritto penale interno (e italiano in ispecie), che si riempie di incriminazioni che costituiscono la diretta attuazione di direttive comunitarie nelle materie più diverse (dall’ambiente alla sicurezza sul lavoro alla protezione dei consumatori, solo per fare alcuni esempi), ancorché tali direttive di per sé non impongano allo Stato l’adozione della sanzione penale. Un vero e proprio obbligo di azionare la potestà sanzionatoria penale comincia ad affacciarsi in via pretoria nel 1989, con la famosa sentenza sul mais greco11, oggetto di innumerevoli e pregevoli riflessioni da parte della dottrina italiana. In estrema sintesi, la sentenza afferma che lo Stato membro è tenuto ad apprestare agli interessi di diretta pertinenza comunitaria (e in particolare agli interessi finanziari della Comunità, oggetto di possibili frodi da parte dei privati beneficiari di sovvenzioni europee) una tutela in concreto adeguata, e comunque equivalente a quella apprestata ai propri interessi di analoga natura. Con il corollario che qualora – come normalmente accada – lo Stato membro abbia apprestato per i propri analoghi interessi una tutela di carattere penale, tale tutela dovrà essere necessariamente estesa anche ai corrispondenti interessi comunitari. Nasce così il primo obbligo di criminalizzazione di fonte comunitaria, statuito in via non legislativa ma giurisprudenziale.

6.3. (Segue): b) dal Trattato di Maastricht al Trattato di Lisbona

Un secondo passaggio decisivo è rappresentato dalla nascita dell’Unione, e in particolare dal suo terzo pilastro istituito dal Trattato di Maastricht e rinforzato dal Trattato di Amsterdam. La cooperazione intergovernativa istituita in questo quadro in materia giudiziaria e di polizia si attua infatti attraverso una serie di atti normativi (convenzioni e azioni comuni, in un primo tempo; decisioni quadro poi) che impongono agli Stati membri, sulla base di modelli del resto già sperimentati nell’ambito del più generale diritto internazionale pattizio, precisi obblighi di criminalizzazione, fissando le caratteristiche fondamentali del precetto da sottoporre a sanzione e, con sempre maggiore dettaglio, la stessa misura della sanzione che lo Stato è tenuto

11 Commissione c. Grecia, sent. 21 settembre 1989 (causa C-68/88).

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a prevedere. Beninteso, l’obbligo è sempre destinato ad essere adempiuto da leggi statali, che sole vincoleranno gli individui; ma le scelte – per utilizzare un linguaggio caro ai penalisti – sulla meritevolezza e sulla necessità della sanzione penale cominciano a essere compiute sempre più a Bruxelles, piuttosto che nei parlamenti nazionali – chiamati, a questo punto, ad una normazione di dettaglio attuativa di scelte fondamentali compiute altrove. Il passaggio successivo è rappresentato, ancora una volta, da una sentenza della Corte di giustizia del 2005 (Commissione e Parlamento c. Consiglio)12, con la quale fu affermata per la prima volta la competenza delle norme di diritto comunitario in senso stretto (o di primo pilastro, nell’architettura ‘templare’ di Maastricht ed Amsterdam) ad imporre tout court agli Stati membri l’adozione di sanzioni penali contro determinate condotte lesive di interessi comunitari, e dunque a prevedere veri e propri obblighi di criminalizzazione anche indipendentemente dalle condizioni enucleate nella sentenza sul mais greco. La prassi seguita dalle istituzioni comunitarie negli anni immediatamente precedenti questa sentenza era stata, in effetti, quella di introdurre simili obblighi di criminalizzazione a tutela di interessi schiettamente comunitari (come l’ambiente, o il controllo esterno delle frontiere) attraverso l’adozione di decisioni quadro (e cioè di strumenti di terzo pilastro) associate a corrispondenti direttive (strumenti di primo pilastro), nelle quali si forniva la complessiva regolamentazione della materia. Una tale prassi rifletteva la diffusa convinzione che l’estraneità della materia penale alle competenze del diritto comunitario precludesse agli strumenti normativi di primo pilastro, come le direttive, di imporre veri e propri obblighi di criminalizzazione, che avrebbero invece potuto essere adottati nell’ambito della cooperazione intergovernativa di terzo pilastro. Con la sentenza citata del 2005, la Corte accoglie invece il ricorso per annullamento proposto dalla Commissione contro la decisione quadro 2003/80/GAI relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale, ritenuta lesiva delle competenze riservate al diritto comunitario in senso stretto (di primo pilastro). Con tale decisione, la Corte riconosce agli strumenti di primo pilastro la competenza a imporre agli Stati membri, nelle materie che – come l’ambiente – rientrano nelle competenze del diritto comunitario, l’obbligo di munirsi di sanzioni penali contro le condotte ivi descritte, sia pure senza poter indicare – come la Corte precisa nel successivo caso Commissione c. Consiglio del 200713 – la misura della sanzione penale da adottare. La prassi legislativa successiva alla sentenza del 2005, e a quella successiva del 2007, ha condotto in effetti all’adozione di alcune direttive che, innovando rispetto agli schemi sino a quel momento consolidati del diritto comunitario, hanno previsto specifici obblighi di incriminazione a carico degli Stati membri. Un esempio per tutti è rappresentato dalla nuova direttiva 2008/99/CE in materia di tutela penale dell’ambiente, che sancisce ora l’obbligo a carico degli Stati di adottare sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive contro una serie di condotte, dettagliatamente descritti dalla direttiva e la cui criminalizzazione gli Stati membri sono chiamati ad assicurare nei rispettivi sistemi penali.

6.4. (Segue): c) la situazione attuale

12 Commissione e Parlamento c. Consiglio, sent. 13 settembre 2005 (causa C-176/03). 13 Commissione c. Consiglio, sent. 23 ottobre 2007 (causa C-440/05).

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Il percorso si completa, nel 2009, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che – abolita la distinzione in tre pilastri – detta all’art. 83 TFUE le coordinate dell’intervento dell’Unione in materia penale. Più nel dettaglio, il primo paragrafo della norma prevede la possibilità che il Parlamento e il Consiglio, deliberando mediante direttive secondo la procedura legislativa ordinaria, possano stabilire “norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni”; sfere di criminalità puntualmente individuate nell’elenco tassativo dell’alinea seguente, che ricomprende nove materie (terrorismo, tratta di esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traffico illecito di armi, riciclaggio di denaro, corruzione, contraffazione di mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità organizzata). La previsione sistematizza, dunque, quelle che prima del Trattato di Lisbona erano le competenze penali “di terzo pilastro” dell’UE (svincolando peraltro il ravvicinamento delle legislazioni penali degli Stati membri dalle esigenze di cooperazione giudiziaria cui nel sistema previgente era subordinato)14. Il secondo paragrafo dell’art. 83 TFUE ammette invece che, sempre attraverso lo strumento della direttiva, possano essere introdotte “norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni” nel caso in cui il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri si riveli “indispensabile per garantire l’attuazione efficace di una politica dell’Unione in un settore che è stato oggetto di misure di armonizzazione”, e dunque in materie già oggetto delle competenze di primo pilastro, nelle quali la giurisprudenza della Corte di giustizia poc’anzi esaminata aveva già riconosciuto al Parlamento e al Consiglio a imporre obblighi di criminalizzazione agli Stati membri. La formulazione inequivoca della disposizione in esame – vale la pena di rilevarlo – fa peraltro cadere ogni preclusione alla fissazione di regole minime circa la misura della sanzione penale: ben potrà dunque, in futuro, il legislatore europeo esprimere indicazioni vincolanti per i Parlamenti nazionali non solo in merito all’an, ma anche al quantum di pena.

6.5. (Segue): d) gli effetti degli obblighi di criminalizzazione sul diritto penale taliano

Quali gli effetti degli obblighi di criminalizzazione di fonte UE sul diritto penale italiano? Ancora una volta, occorre ribadire che la responsabilità penale dell’individuo può sempre e solo discendere da una legge interna che dia attuazione al diritto UE. Quest’ultimo, in effetti, non ha sinora mai preteso di dettare norme penali direttamente applicabili (e come tali immediatamente vincolanti gli individui), ma si è sempre rivolto agli Stati membri perché traducessero in disposizioni di legge nazionali – queste sì idonee a fondare una responsabilità penale individuale – le valutazioni europee in ordine alla meritevolezza e alla necessità di pena. La competenza penale dell’UE, in altre parole, era e resta – anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona – una competenza soltanto indiretta, ossia “una competenza a richiedere agli Stati di emettere norme di

14 Cfr. per tutti C. Sotis, Il Trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, cit., 334.

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tutela penale”15 per realizzare lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia (ex terzo pilastro, ora primo paragrafo dell’art. 83 TFUE) o per tutelare gli interessi dell’Unione medesima (ex primo pilastro, ora secondo paragrafo dell’art. 83 TFUE). La possibilità, cui in precedenza già si è accennato, di desumere una competenza penale diretta dell’UE dall’art. 86 TFUE – che prefigura l’istituzione, a partire da Eurojust, di una procura europea “competente per individuare, perseguire e rinviare a giudizio (…) gli autori dei reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, quali definiti dal Regolamento previsto nel paragrafo 1” – è infatti tutta da verificare, e rimarrebbe comunque confinata alla protezione degli interessi finanziari dell’Unione16. Poiché, dunque, le scelte di politica criminale delle istituzioni comunitarie necessitano della cooperazione sia pure “coatta” dei Parlamenti nazionali17, è d’obbligo chiedersi cosa accade quando gli Stati membri non adempiano agli obblighi di criminalizzazione di matrice europea (e dunque, in ultima analisi, se gli stessi siano o meno giustiziabili). L’abolizione della suddivisione in pilastri e la sostituzione dello strumento della decisione quadro (attraverso il quale, come si è visto, l’UE esprimeva la gran parte delle proprie scelte di politica criminale) con quello della direttiva rendono ora attivabile – ad opera della Commissione o degli altri Stati membri – il procedimento per infrazione a carico dello Stato inadempiente, il quale potrà certamente concludersi con la condanna dello Stato interessato al pagamento di una sanzione pecuniaria; ciò che peraltro costituisce, come dimostra la prassi, un mezzo di pressione afflittivo e dissuasivo, spesso idoneo a persuadere all’adempimento “spontaneo” degli obblighi comunitari anche gli Stati più riluttanti. La procedura di infrazione non produce, tuttavia, alcuna conseguenza per gli individui che abbiano tenuto una condotta in violazione dei precetti comunitari18. Nei noti casi Niselli19 e Berlusconi20 la giurisprudenza italiana aveva, per vero, tentato di recuperare una sorta di effetto diretto in malam partem alle norme comunitarie (di primo pilastro) dalle quali si pretendeva di ricavare, in via ermeneutica, un vero e proprio obbligo di tutela penale degli interessi rispettivamente in gioco (ambiente e trasparenza societaria). I giudici del rinvio assumevano, più in particolare, il contrasto tra le norme interne che introducevano un trattamento ingiustificatamente favorevole per talune condotte lesive dei due interessi comunitari, da un lato, e le pertinenti direttive, che esigevano invece la previsione di sanzioni “effettive, proporzionate e dissuasive” contro le condotte medesime, dall’altro. Dopo aver riconosciuto nel caso Niselli la contrarietà di dette norme al diritto comunitario, senza neppure porsi - però - il problema dell’effetto della propria pronuncia nel diritto interno, nel caso Berlusconi la Corte di giustizia rifiutò di affrontare la questione, rilevando che in ogni caso dalla direttiva in

15 Così C. Sotis, Il Trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, cit., 331. 16 Cfr. sul punto le riflessioni – coincidenti quanto alle conclusioni, ma diverse per ciò che concerne il percorso argomentativo – di G. Grasso, La Costituzione per l’Europa e la formazione di un diritto penale dell’Unione europea, in G. Grasso – R. Sicurella (a cura di), Lezioni di diritto penale europeo, Milano, 2007, 692, e di C. Sotis, Il Trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, cit., 341. 17 Cfr. sul punto A. Bernardi, Brevi osservazioni in margine alla sentenza della Corte di Giustizia sul falso in bilancio, in www.forumcostituzionale.it, § 8. 18 Cfr. sul punto A. Bernardi, Brevi osservazioni in margine alla sentenza della Corte di Giustizia sul falso in bilancio, cit., § 7. 19 Corte di giustizia CE, sent. 11 novembre 2004, Niselli (causa C-457/02).. 20 Corte di giustizia CE, sent. 9 luglio 2005, Berlusconi (cause C-387, 391 e 403/02).

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materia di trasparenza societaria non avrebbe potuto derivarsi un effetto sfavorevole per l’imputato in forza della propria consolidata giurisprudenza (secondo cui “una direttiva non può avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati”21). Morale: l’inadempimento degli obblighi di criminalizzazione da parte dello Stato può essere sanzionato sul piano del diritto dell’Unione mediante la procedura di infrazione, ma non comporta alcun effetto pregiudizievole diretto per gli individui. Due precisazioni si impongono, tuttavia, a questo riguardo. La prima concerne il possibile effetto in malam partem dell’obbligo di interpretazione conforme, che vale tanto per le direttive quanto per le decisioni quadro, come la Corte ha affermato con chiarezza nella sentenza Pupino: il divieto di analogia in materia penale non osta infatti alla legittimità di interpretazioni conformi alle fonti sovranazionali che siano meramente estensive della portata di norme incriminatrici, purché esse risultino compatibili con il tenore letterale delle stesse22. La seconda attiene, invece, al margine di manovra della Corte costituzionale nella (sia pur circoscritta) ipotesi in cui la norma interna sottragga indebitamente alla sanzione penale una classe di soggetti o di condotte. Non si tratta di scenari futuribili: nella sent. n. 28/2010 il giudice delle leggi ha, infatti, dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme del t.u. ambientale (d.lgs. 152/2006) che, per l’appunto, sottraevano alla disciplina penale generale in materia di rifiuti - provvista di sanzione penale - le ceneri di pirite, e cioè una particolare tipologia di sottoprodotti che, in virtù della direttiva 2006/12/CE e dell’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia, avrebbero dovuto invece esservi assoggettate.

7. Diritto penale e “grande Europa”. In particolare, il ruolo della CEDU e dei protocolli addizionali

La dicotomia “effetti riduttivi vs. effetti espansivi” del penalmente rilevante può essere proficuamente impiegata anche per vagliare l’incidenza sul diritto penale italiano delle norme adottate nell’ambito del Consiglio d’Europa (in primis, quelle della CEDU e dei Protocolli addizionali, sulla cui applicazione vigila – come ho avuto modo di chiarire nel precedente contributo – la Corte EDU di Strasburgo). Si tratta di profili sui quali, negli ultimi anni, si è finalmente appuntata l’attenzione degli studiosi di diritto penale sostanziale, fino a qualche tempo fa concentrati in modo pressoché esclusivo sui vincoli di fonte costituzionale all’attività legislativa e giudiziaria23. La vastità degli argomenti che potrebbero essere trattati in questa sede impone di limitare il campo di indagine agli aspetti che più da vicino interessano il diritto penale italiano e di rinviare ai precedenti contributi in materia per i relativi approfondimenti nonché per i riferimenti giurisprudenziali e dottrinali.

21 Corte di giustizia CE, sent. 8 ottobre 1987, Kolpinghuis Nijmegen (causa 80/86). 22 Sul tema, sia consentito il rinvio a F. Viganò, Il giudice penale e l’interpretazione conforme alle fonti sovranazionali, in P. Corso, E. Zanetti (a cura di), Studi in onore di Mario Pisani, vol. II, 2010, 668 ss. 23 E. Nicosia, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e diritto penale, 2006; A. Esposito, Il diritto penale ‘flessibile’, 2008; F. Viganò, Diritto penale sostanziale e convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 43, cui si rinvia anche per tutti gli ulteriori rif. bibl.

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7.1. Effetti riduttivi

Cominciamo dunque con gli effetti riduttivi, che – come vedremo – non discendono solo dalle norme che si focalizzano sulle garanzie precipuamente penalistiche (essenzialmente gli artt. 7 e 6 § 2 CEDU), ma anche da altre disposizioni convenzionali, quali gli artt. 2, 3, 5, 8, 9, 10 CEDU. Essi possono avere ad oggetto tanto il precetto penale – circoscrivendo, dunque, l’ambito di applicazione di una norma incriminatrice – quanto la sanzione ad esso correlata24. Come ipotesi emblematica di effetti riduttivi che esplicano la loro efficacia sul precetto penale, può essere qui menzionata la giurisprudenza della Corte EDU che si è preoccupata di definire i limiti dei diritti di cronaca e di critica in rapporto alle esigenze di tutela della reputazione individuale: i giudici di Strasburgo – spesso chiamati a bilanciare i diritti sanciti dagli artt. 8 e 10 della Convenzione in relazione a ipotesi di diffamazione di politici e magistrati – non sembrano, ad es., accordare rilievo al requisito della continenza, cui l’orientamento della Cassazione subordinava invece, specie in passato, l’operatività della scriminante di cui all’art. 21 Cost25. Più numerose le ipotesi in cui dalle garanzie convenzionali discendono effetti riduttivi che incidono sulla sanzione penale. Dalla proibizione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti di cui all’art. 3 CEDU discende, ad esempio, il principio cd. di non refoulement, ossia il divieto di procedere all’espulsione (anche sub specie di misura di sicurezza, una volta scontata la pena) di cittadini extracomunitari laddove gli stessi corrano il rischio di essere assoggettati nello Stato di destinazione a trattamenti contrari a detta norma: la recente pronuncia della Grande camera nel caso Saadi c. Italia26 ha riaffermato la portata assoluta del suddetto divieto, che discende dalla inderogabilità, ai sensi dell’art. 15 della Convenzione, della proibizione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti sancita dall’art. 3 CEDU27. La Corte europea ha poi recentemente censurato il nostro paese in relazione all’automatismo con cui il codice penale italiano prevede la perdita definitiva del diritto di voto – in conseguenza della pena accessoria dell’interdizione legale perpetua – da parte del condannato in caso di condanna all’ergastolo, ritenendo che tale meccanismo contrasti con l’art. 3 del primo protocollo addizionale alla CEDU28. Ancora, il diritto di Strasburgo – muovendo da una nozione autonoma di “legge” e “materia penale”29 – estende le garanzie di legalità e irretroattività della pena in malam partem, sancite dall’art. 7 CEDU, a tutte le misure che abbiano sostanzialmente carattere penale, al di là della qualificazione operata dal legislatore nazionale. Ciò si riverbera, nel nostro ordinamento, in relazione all’istituto della confisca, tradizionalmente considerato quale misura di sicurezza assoggettata dall’art. 200 c.p. all’opposto principio del tempus

24 Per un panorama, per quanto non più aggiornatissimo, di questi effetti, cfr. F. Viganò, Diritto penale sostanziale, cit., 475 s. 25 Sul punto, cfr. F. Viganò, Il giudice penale e l’interpretazione conforme, cit., 630. 26 Corte EDU, sent. 28 febbraio 2008, Saadi c. Italia. 27 F. Viganò, Diritto penale sostanziale e convenzione europea, cit., 51. 28 Corte EDU, sent. 18 gennaio 2011, Scoppola c. Italia (n. 3), su cui cfr. ampiamente A. Colella, Terza condanna dell’Italia a Strasburgo in relazione all’affaire Scoppola: la privazione automatica del diritto di voto in caso di condanna a pena detentiva contrasta con l’art. 3 Prot. 1 CEDU, in www.penalecontemporaneo.it. 29 Cfr. sul punto, da ultimo, V. Zagrebelsky, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, in V. Manes,V. Zagrebelsky (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, Milano, 2011, 69 ss.

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regit actum30. Questa giurisprudenza della Corte penetra nel diritto penale interno principalmente attraverso lo strumento dell’interpretazione conforme, con la quale i giudici optano – tra più alternative ermeneutiche compatibili con il tenore letterale delle norme interne – per quella che consente di evitare il contrasto con gli obblighi internazionali gravanti sul nostro paese. Proprio in tema di confisca, ad es., si è fatto sempre più frequentemente ricorso alla giurisprudenza di Strasburgo in tema di art. 7 CEDU per sostenere l’irretroattività di ipotesi speciali di confisca di nuova introduzione legislativa: è il caso, ad esempio, dell’estensione della confisca per equivalente di cui all’art. 322 ter c.p. ai reati tributari, avvenuta ad opera della l. 244/200731; o della confisca obbligatoria dell’autoveicolo, introdotta per le contravvenzioni di cui agli artt. 186 e 187 cod. str. dal d.lgs. 92/2008, convertito in l. n. 125/200832. È verosimile, peraltro, che nel prossimo futuro sarà la stessa Corte costituzionale ad intervenire per porre rimedio a violazioni convenzionali, invalidando norme penali interne incompatibili con gli obblighi discendenti dalla CEDU e dai suoi protocolli addizionali, così come interpretati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Ciò potrebbe accadere, ad es., in relazione alla questione poc’anzi menzionata della perdita definitiva del diritto di voto conseguente alla condanna all’ergastolo: dal momento che la norma di cui all’art. 29 c.p. non consente una interpretazione conforme, l’unica via per eliminare il contrasto rilevato a Strasburgo tra quella disciplina e l’art. 3 del primo protocollo consiste nel sottoporre la questione alla Corte costituzionale per violazione degli obblighi internazionali gravanti sul nostro paese, in quanto richiamati dall’art. 117 comma 1 Cost.; e ciò al fine di sollecitare il giudice delle leggi, quanto meno, a una sentenza di accoglimento parziale in grado di fornire al giudice poteri discrezionali che gli consentano di valutare se la pena accessoria in questione sia in concreto proporzionata alla gravità del fatto33.

7.2. Effetti espansivi

Per inquadrare invece gli effetti espansivi del penalmente rilevante è necessario prendere le mosse dalla constatazione che, negli ultimi decenni, si è assistito a un cambio di paradigma nei rapporti tra diritto penale e diritti fondamentali: se tradizionalmente la preoccupazione è stata quella di accordare ai diritti fondamentali tutela dal diritto penale, sta ora gradualmente emergendo l’esigenza di assicurare agli stessi protezione

30 F. Viganò, Diritto penale sostanziale e convenzione europea, cit., 53. 31 F. Viganò, Il giudice penale e l’interpretazione conforme, cit., 628. Hanno riconosciuto la funzione essenzialmente sanzionatoria della misura, con conseguente applicabilità del principio di irretroattività sancito dall’art. 7 Cedu, Cass., Sez. II, 8 maggio 2008, n. 21566, e Sez. III, 24 settembre 2008, Canisto, in Cass. pen. 2009, 3417 ss. con nota di F. Mazzacuva, Confisca per equivalente come sanzione penale: verso un nuovo statuto garantistico. 32 Su cui cfr. F. Viganò, G.L. Gatta, Natura giuridica della confisca del veicolo nella riformata disciplina della guida in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di stupefacenti: pena o sanzione amministrativa accessoria? Riflessi sostanziali e processuali, in www.penalecontemporaneo.it. Si rammenta inoltre che Corte cost. n. 196/2010 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 186 comma 2 lett. c) cod. str., nella versione antecedente alla l. n. 120/2010, per contrasto con gli artt. 117 comma 1 Cost. e 7 Cedu, così come interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo; e che la successiva giurisprudenza di legittimità ha mostrato di attenersi alle indicazioni provenienti dalla Corte europea, giungendo ad affermare l’inammissibilità di un’applicazione retroattiva della nuova ipotesi di confisca. 33 Per questa conclusione, cfr. A. Colella, Terza condanna, cit.

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mediante il diritto penale34. Il diritto riconosciuto all’individuo non può più essere concepito, dunque, come mero limite alla pretesa punitiva statale, ma diviene in taluni casi oggetto necessario della tutela penale35. La Corte EDU afferma in effetti che sui legislatori nazionali incombe un duplice ordine di doveri che si inquadrano nella più generale categoria degli obblighi positivi (id est, non di mera astensione ma di intervento): in prima battuta, il dovere di vietare la commissione di fatti lesivi del diritto fondamentale; e in seconda battuta, il dovere di assicurare che le norme che vietano i suddetti comportamenti trovino effettiva applicazione nell’ordinamento nazionale (così che il diritto che di volta in volta viene in considerazione non sia teorico e illusorio, ma concreto ed effettivo). La Corte richiede talora l’introduzione di norme incriminatrici idonee a prevenire e a sanzionare la violazione di un determinata norma convenzionale: emblematica, in tal senso, la sentenza Siliadin36, con cui i giudici di Strasburgo hanno condannato la Francia in ragione della mancanza, dell’ordinamento penale interno, di una disposizione realmente idonea a reprimere le condotte di riduzione in schiavitù e servitù e di sottoposizione a lavoro forzato; ciò che integrava una violazione strutturale dell’art. 4 Cedu. Seguendo un itinerario argomentativo del tutto analogo, essa potrebbe in futuro giungere a identiche conclusioni in relazione all’assenza, nell’ordinamento italiano, di una norma incriminatrice della tortura (in violazione anche dell’obbligo di penalizzazione espresso di cui all’art. 4 della Convenzione ONU contro la tortura del 1984): il ricorso proposto nel settembre 2010 da alcuni dei manifestanti detenuti nel carcere di Bolzaneto nel luglio 2001 potrà verosimilmente costituire l’occasione perché i giudici di Strasburgo rilevino l’insufficienza delle fattispecie codicistiche (dalle percosse alle lesioni, dalla violenza privata all’abuso di autorità contro arrestati e detenuti) che, in assenza di una norma incriminatrice ad hoc della tortura, sono utilizzate nella prassi applicativa per reprimere episodi di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, assai più frequenti anche nel nostro paese di quanto non si potrebbe immaginare37. La Corte ha altresì condannato più volte gli Stati parte in relazione all’eccessiva ampiezza di cause di giustificazione (quali il reasonable chastisement nell’ordinamento inglese38, o l’uso legittimo delle armi da parte della forza pubblica nell’ordinamento greco39 e bulgaro40) che rendano non punibili fatti lesivi della vita o dell’integrità fisica, in violazione degli artt. 2 e 3 Cedu. Con riferimento alle scriminanti della legittima difesa e dell’uso legittimo

34 Sulla tematica cfr. F. Viganò, Obblighi convenzionali di tutela penale?, in V. Manes,V. Zagrebelsky (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, Milano, 2011, 243-244; nonché ora, più ampiamente, Id., L’arbitrio del non punire. Sugli obblighi di tutela penale dei diritti fondamentali, in Studi in onore di Mario Romano, vol. IV, 2011, 2645 ss., cui si rinvia anche per le necessarie indicazioni giurisprudenziali. 35 F. Viganò, Obblighi convenzionali, cit., 244. Nello stesso senso, V. Manes, La lunga marcia della Convenzione europea e i “nuovi” vincoli per l’ordinamento (e per il giudice) penale interno, in V. Manes,V. Zagrebelsky (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, Milano, 2011, 49 ss. 36 Corte EDU, sent. 26 luglio 2005, Siliadin c. Francia. 37 F. Viganò, Diritto penale sostanziale, cit., 63, nonché, più di recente, Obblighi convenzionali di tutela penale?, cit., 297-298. 38 Corte EDU, sent. 23 settembre 1998, A c. Regno Unito. 39 Corte EDU, sent. 20 dicembre 2004, Makaratzis c. Grecia. 40 Ex multis, Corte EDU, sent. 6 giugno 2005, Nachova e a. c. Bulgaria.

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delle armi previste dagli artt. 52 e 53 del codice penale italiano la Corte non è, per il momento, giunta a conclusioni analoghe. Nella sentenza Giuliani del marzo 201141 essa ha, anzi, escluso che vi siano profili di frizione tra le suddette norme e l’art. 2 § 2 Cedu, in ragione dell’interpretazione convenzionalmente orientata delle stesse che si è affermata nella giurisprudenza di merito e di legittimità. A dispetto del dictum della Corte nel caso Giuliani, c’è tuttavia da dubitare che le cose stiano realmente in questi termini per la scriminante codicistica di cui all’art. 53 c.p. e, soprattutto, per le altre ipotesi di uso legittimo delle armi previste dalle leggi speciali (ad esempio in materia di contrabbando, dove l’ordinamento italiano prevede una fattispecie del tutto simile a quella censurata dalla Corte in numerose sentenze contro la Turchia42)43: non si può, dunque, escludere che la Corte ritorni in futuro sulla propria valutazione (come sembra peraltro prefigurare la sentenza Alikaj44, soltanto di pochi giorni successiva a Giuliani, con cui la Corte ha condannato l’Italia per la violazione dell’obbligo positivo, discendente dall’art. 2 CEDU, di regolare in modo minuzioso l’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine, in conformità con gli UN Basic principles on the Use of Force and Firearms by Law Enforcement Officials). Infine, la Corte insiste con particolare vigore, negli ultimi anni, sulla necessità che le indagini e i processi penali aventi ad oggetto violazioni dei diritti più importanti riconosciuti dalla Convenzione (come il diritto alla vita e il diritto a non essere sottoposti a tortura) non si concludano con la dichiarazione di prescrizione del reato, o con il proscioglimento per amnistia del reato: i responsabili di queste violazioni devono dunque, secondo la Corte, essere effettivamente puniti da parte degli Stati parte della Convenzione, con una pena proporzionata alla gravità della violazione medesima. In buona sostanza, la Corte afferma dunque l’esistenza di veri e propri obblighi di tutela penale dei più importanti tra i diritti fondamentali riconosciuti della CEDU, quanto meno contro le aggressioni più gravi (e cioè, in particolare, contro le aggressioni intenzionali, commesse da privati individui ovvero da organi dello Stato); obblighi di tutela che non si esauriscono semplicemente nel dovere di prevedere – in astratto – una sanzione penale nel caso di violazione, ma che comportano altresì il dovere di attivare indagini, di rinviare a giudizio e di condannare il responsabile, assicurando l’effettiva esecuzione della pena una volta che questi sia riconosciuto colpevole. La violazione di questi obblighi da parte dello Stato comporta, ad oggi, una sua mera responsabilità sul piano internazionale, e in particolare la sua condanna da parte della Corte alla corresponsione di un’equa soddisfazione (di carattere pecuniario) in favore della vittima, né la Corte né gli organi politici del Consiglio d’Europa potendo attivare – come si è visto – una procedura di infrazione di efficacia comparabile a quella prevista all’interno dell’Unione europea. Tuttavia, non può escludersi che anche rispetto agli

41 Corte EDU, sent. 24 marzo 2011 (Grande Camera), Giuliani e Gaggio c. Italia, su cui cfr. A. Colella, Con una decisione presa a maggioranza, la grande camera esclude la violazione sostanziale e procedurale dell’art. 2 Cedu in relazione all’uccisione di Carlo Giuliani durante il G8 di Genova del 2001, in www.penalecontemporaneo.it. 42 Ex multis, Corte EDU, sent. 22 settembre 2009, Beyazgül c. Turchia. 43 F. Viganò, Diritto penale sostanziale e convenzione europea, cit., 65 ss., nonché Id., L’influenza delle norme sovranazionali nel giudizio di “antigiuridicità”, cit., 1079 ss. 44 Corte EDU, sent. 29 marzo 2011, Alikaj e altri c. Italia, su cui cfr. A. Colella, La Corte “condanna” l’Italia per la violazione sostanziale e procedurale dell’art. 2 Cedu in relazione all’uccisione di un diciannovenne albanese ad opera di un agente di polizia, in www.penalecontemporaneo.it.

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obblighi in parola la Corte costituzionale possa in futuro intervenire per colmare le lacune di punibilità messe in luce dalle sentenze della Corte EDU, sulla base della propria già citata giurisprudenza in materia di norme penali di favore. Ciò potrebbe accadere, ad es., in relazione a norme interne che fissino in maniera eccessivamente ampia i confini della giustificazione di condotte lesive del diritto alla vita, come accade rispetto a talune norme scriminanti che consentono a pubblici ufficiali italiani di utilizzare armi chiaramente al di là di quanto consentito dall’art. 2 CEDU. In simili ipotesi, nulla osterebbe verosimilmente a una dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme in questione, per contrasto con l’art. 117 comma 1 Cost. con riferimento all’art. 2 CEDU così come interpretato dalla giurisprudenza pertinente di Strasburgo, con conseguente riespansione dell’ambito applicativo generale delle norme incriminatrici dell’omicidio o delle lesioni personali45. Né suonerebbe stravagante immaginare che, nel prossimo futuro, la Corte costituzionale possa censurare l’attuale disciplina della prescrizione del reato di cui agli artt. 157 ss. c.p., nella parte in cui consente che fatti di tortura – comunque qualificati ai sensi del diritto interno – possano per l’appunto prescriversi, in violazione dell’obbligo in capo allo Stato – che la Corte EDU deduce dall’art. 3 CEDU – di assicurare l’effettiva punizione dei responsabili di tali violazioni: obbligo che comporta, come si è visto, l’illegittimità, dal punto di vista convenzionale, della previsione stessa di termini prescrizionali per i reati in questione46.

45 Più ampiamente sul punto F. Viganò, Obblighi convenzionali di tutela penale?, cit., 291. 46 Sul punto, si consenta ancora una volta il rinvio a F. Viganò, L’arbitrio del non punire, cit., 2680 ss.