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Atti del convegno 26 febbraio 2016 CRO Aviano Medicina narrativa in oncologia V edizione ESPRESSIONI DI CURA

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Atti del convegno26 febbraio 2016CRO Aviano

Medicina narrativa in oncologiaV edizione

ESPRESSIONI DI CURA

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Centro di Riferimento Oncologico di Aviano 2017

ESPRESSIONI DI CURAMedicina narrativa in oncologia

V edizione

Atti del convegno

26 febbraio 2016CRO Aviano

a cura diLINDA M. NAPOLITANO VALDITARA

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COMITATO SCIENTIFICO - ORGANIZZATIVO DEL CONVEGNONicoletta Suter, Ivana Truccolo, Nancy Michilin, Marilena Bongiovanni, Paolo De Paoli, Mario Tubertini, Gruppo Patient Education & Empowerment CRO con il supporto di Enjoy Events s.r.l.

A cura diLinda M. Napolitano Valditara

© Centro di Riferimento Oncologico di Aviano - IRCCS - Istituto Nazionale TumoriVia Franco Gallini, 2 - 33081 Aviano (PN) - www.cro.it

Contatti Biblioteca Scientifica e per Pazienti 0434 659248 [email protected] 0434 659467 [email protected]

Questa pubblicazione ha licenza Creative Commons “Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia”. La paternità dei contributi di questa pubblicazione spetta agli autori e al Centro di Riferimento Oncologico di Aviano. È possibile distribuire, riutilizzare, creare opere derivate dall’originale, ma non a scopi commerciali, a condizione che venga riconosciuta la paternità dell’opera all’autore. Le opere derivate dovranno avere la stessa licenza (quindi a ogni derivato non sarà permesso l’uso commerciale).

Espressioni di cura. Medicina narrativa in oncologia. V edizione. Atti del convegnoISBN 978-88-9730-514-9

CROinforma. Atti. 5

© Centro di Riferimento Oncologico di Aviano

Collana CROinforma curata dalla Direzione Scientifica - BibliotecaResponsabile Scientifico: Paolo De Paoli (Direttore Scientifico CRO)

Coordinamento editoriale: Ivana Truccolo (Responsabile Biblioteca CRO)

Grafica e impaginazione: Nancy Michilin (Biblioteca CRO)

Indice

PAOLO DE PAOLI: Introduzione ...................................................................................... pag. 1

Parte I. Le narrazioni al CRO .................................................... pag. 3

1) IVANA TRUCCOLO, NICOLAS GUARIN: Un ponte fra due storie ....................................................... pag. 5

2) ALBERTO GARLINI: Il valore delle narrazioni ...................................................... pag. 10

3) PIERVINCENzO DI TERLIzzI, MARGhERITA VENTURELLI: Le parole salvano .................................................................. pag. 14

Parte II. Ancora riflessioni sulla Medicina Narrativa ......... pag. 19

1) SANDRO SPINSANTI: Narrazioni in medicina: paradossi e sinergie ..................... pag. 21

a) Al singolare o al plurale? b) Narrazioni per comprendere c) Narrazioni per guarire d) Narrazioni per praticare la buona medicina e) La medicina vestita di narrazione

2) FABRIzIO ARTIOLI: Narrazione e cura in oncologia: l’esperienza sul campo di un medico ................................. pag. 32

Parte III. Laboratori di Medicina Narrativa ......................... pag. 37

1) NICOLETTA SUTER: Introduzione ai laboratori del convegno ............................. pag. 39

a) Laboratori in un convegno di Medicina Narrativa? b) Perché educare alla Medicina Narrativa attraverso il laboratorio? c) Il laboratorio narrativo-esperienziale d) Conclusioni

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2) LINDA M. NAPOLITANO VALDITARA: Introduzione: le molte pratiche utili del narrare ................ pag. 48

3) DANIELE BRUzzONE: La cura nello sguardo: arti figurative e scrittura ............... pag. 56

a) Rimanere esseri umani b) La cura ha inizio dallo sguardo c) Un laboratorio di immagini e narrazioni d) Il significato dell’esperienza

4) MARCO DALLA VALLE: Curarsi con i libri: laboratorio di biblioterapia ................... pag. 65

a) I libri al centro b) Storia e metodologia c) Esempi pratici d) La chiarezza nei confini e) Leggere insieme f) Laboratorio simulato di biblioterapia g) Domande e risposte h) Restituzioni i) Per concludere: storia di un lettore-biblioterapista j) Suggerimenti per una lettura biblioterapeutica in campo sanitario

5) LORENzA GARRINO: Cinema e formazione: disease related movies per riflettere sulla cura ........................................................ pag. 82

a) L’utilizzo della cinematografia nella formazione b) L’esperienza laboratoriale c) Riflessioni scaturite dalla visione del film e dalla discussione successiva d) Gradimento e reazioni dei partecipanti

6) LINDA M. NAPOLITANO VALDITARA: La meditazione condivisa: laboratorio di pratiche filosofiche ........................................ pag. 92

a) Le pratiche filosofiche b) La pratica filosofica del Dialogo Socratico c) Strutturazione del laboratorio: c1) La dimensione temporale c2) L’oggetto narrativo d) La meditazione individuale e condivisa e) Restituzioni

7) ANNA DE ODORICO: Dai banchi dell’università al CRO ....................................... pag. 117

a) Dai banchi dell’università al CRO b) Prendersi cura di chi cura c) Coinvolgimento di soggetti diversi d) L’utilizzo delle immagini come oggetto narrativo e) La messa in parola f) La riflessione bidirezionale

8) PATRIzIA RIGONI: La poesia è cura: laboratorio di poesia .............................. pag. 126

a) Breve storia professionale b) Lavorare al CRO c) Quinto convegno di Medicina Narrativa d) La poesia è cura e) Il programma del laboratorio f) Il gruppo CRO g) Contributi e ricadute

9) NICOLETTA SUTER: Strumenti per il benessere degli operatori: laboratorio di scrittura autobiografica e riflessiva ............. pag. 134

a) Il background: a1) La narrazione nell’educazione continua dei professionisti sanitari a2) La scrittura di sé b) Il laboratorio: b1) L’idea b2) La realizzazione c) I feedback dei partecipanti d) Conclusione

10) NICOLETTA SUTER, IVANA TRUCCOLO: Benefici e rischi della Medicina Narrativa: il punto di vista dei partecipanti al convegno .................... pag. 153

Appendice ..................................................................................... pag. 161

Libri di testimonianze pubblicati dal CRO ............................... pag. 163

Antologie del concorso letterario pubblicate dal CRO ....... pag. 167

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La felicità della tua vita dipende dalla qualità dei tuoi pensieri.Marco Aurelio

Il convegno di Medicina Narrativa organizzato dal CRO di Aviano, giunto alla sua quinta edizione, è stato istituto per offrire un orizzon-te differente alle cure oncologiche. Per garantire un tasso qualitativo sempre più elevato, l’iniziativa si è affinata progressivamente coinvol-gendo non solo i pazienti ma anche le altre, fondamentali componenti che a diverso titolo fanno parte dei percorsi di cura.

Parimenti si è provveduto ad allargare la composizione della giuria del concorso artistico-letterario a un numero più elevato di mem-bri; essi non hanno direttamente a che fare con l’oncologia, ma sono componenti della parte letteraria e della società civile in senso ampio. E questo ha consentito di affinare significativamente le modalità di valutazione degli elaborati.

Vorrei infine sottolineare come, nell’ottica della trasparenza e del-la necessità di valutare dal punto di vista squisitamente scientifico quanto viene fatto, abbiamo inserito negli atti un capitolo su benefici e rischi della Medicina Narrativa.

Come sempre, un grandissimo grazie a tutti quelli che hanno dato il loro contributo con passione ed entusiasmo a questa edizione del convegno.

Paolo De Paoli

Introduzione

PAOLO DE PAOLIDirettore Scientifico del CRO di Aviano

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Parte ILe narrazioni al CRO

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Un ponte fra due storie

Ivana Truccolo, Nicolas Guarin

A cosa servono le narrazioni in medicina? Secondo Giorgio Bert, medico e antesignano della Medicina Narrativa in Italia1, le narrazioni possono “gettare un ponte fra le due rive di un fossato (incolmabile, ovviamente), fra la storia narrata con la voce della medicina [come disciplina] e quella narrata con la voce della vita vissuta”2.

La letteratura dei pazienti è ormai un genere trasversale e sempre più esteso che concepisce la scrittura – e, in generale, l’espressione di sé – come strumento di empowerment. Tutte le narrazioni nascono da un’esperienza di malattia, senza necessariamente parlarne, per for-nire una rappresentazione del mondo dal punto di vista del paziente. Alcuni studi di tipo qualitativo hanno dimostrato l’efficacia di queste espressioni durante il percorso di cura, sia che si tratti di scrittura spontanea o sulla base di stimoli, sia che si tratti di racconti, romanzi, testimonianze, poesie, fiabe, fotografie o disegni.

In ambito oncologico, il disagio emotivo è certamente uno dei sintomi più frequenti tra i pazienti in terapia. Il ricorso alla scrittura espressiva a uno stadio precoce della malattia può migliorarne il trat-tamento riducendone i sintomi fisici e psicologici: queste le conclusio-ni cui sono arrivati Gallo, Garrino e Di Monte nella loro analisi della letteratura sull’argomento3.

È con la stessa convinzione che nel 2012 il CRO di Aviano ha deciso di realizzare il concorso artistico-letterario “Espressioni di cura. Parole e immagini per narrare la malattia oncologica”. L’obiettivo è quello di

1 G. Bert, Medicina narrativa: storie e parole nella relazione di cura, Il pensiero scientifico, Roma 2007.2 Tratto dal post pubblico apparso sul profilo Facebook dell’autore il 18/11/2014.3 I. Gallo, L. Garrino, V. Di Monte, L’uso della scrittura espressiva nei percorsi di cura dei pazienti oncologici per la riduzione del distress emozionale: analisi della letteratura, “Professioni Infermieristiche”, 68(1), 2015, pp. 29-36.

I.1

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promuovere elaborati artistici inediti che esprimano il rapporto con la malattia oncologica. Il concorso rientra a pieno titolo nel programma istituzionale Patient Education & Empowerment dell’Istituto, volto a favorire la comunicazione tra i pazienti e il personale sanitario4.

Gli elaborati di questa edizione, come i precedenti, saranno utiliz-zati infatti per migliorare l’organizzazione dei percorsi di cura delle strutture sanitarie. Inizialmente rivolto ai soli pazienti oncologici, il concorso si è poi ampliato ad altre categorie includendo gli operatori sociosanitari e i caregiver, ovvero persone che si sono prese cura di pazienti con tumore (come familiari, amici, volontari ecc.).

Negli anni il concorso ha registrato un aumento costante di par-tecipanti passando dai 36 della prima edizione ai 56 del 2015, così suddivisi: 29 pazienti, 6 operatori e 21 caregiver. La maggioranza dei partecipanti è di genere femminile (43), proviene dal Nord Italia (51) e ha un’età media di 43 anni, in deciso calo rispetto all’edizione 2014 (51 anni).

Ulteriore novità riguarda le tipologie di elaborati con cui nel 2015 era possibile concorrere: oltre ai racconti, si potevano inviare una fotografia o un video.

In uno studio volto a esaminare come l’uso delle narrazioni pos-sa favorire l’educazione alla salute del seno in alcune donne anziane afro-americane, Williams-Brown, Baldwin e Bakos hanno enucleato sei categorie di storie: perdita, dolore, sofferenza, paura e preoccu-pazione, morte e, infine, preghiera e fede in Dio5. Questi sentimenti accomunano da sempre anche gli elaborati partecipanti al concorso. Il tema dell’edizione 2015 a cui i partecipanti dovevano attenersi era “L’incontro”.

La giuria chiamata a giudicare gli elaborati applicando dei criteri di giudizio – pertinenza con il tema, originalità del soggetto, qualità tecnica/capacità compositiva – era composta da esponenti del mondo socioculturale esterni all’Istituto, a eccezione della presidente:

4 I. Truccolo, C. Cipolat Mis, P. De Paoli (a c. di), Insieme ai pazienti. Costruire la patient educa-tion nelle strutture sanitarie, Il pensiero scientifico, Roma 2016.5 S. Williams-Brown, D.M. Baldwin, A. Bakos, Storytelling as a method to teach African Ame-rican women breast health information, “Journal of Cancer Education”, 17(4), 2002, pp. 227-30.

• Ivana Truccolo (presidente), responsabile Biblioteca Scientifica e per Pazienti CRO Aviano;

• Dafne Bertoncello, ex paziente oncologica;• Paolo Dal Pont, esperto di produzione di audiovisivi;• Piervincenzo Di Terlizzi, dirigente scolastico e insegnante;• Alberto Garlini, scrittore, tra i curatori della festa del libro Porde-

nonelegge;• Moira Piemonte, insegnante presso il liceo artistico “E. Galvani” di

Cordenons (PN);• Enzo Russo, scrittore;• Angela Ruzzoni, filologa;• Marta Santin, tecnico di laboratorio ed ex paziente oncologica;• Cinzia Spadola, insegnante, autrice ed ex paziente oncologica;• Anna Vallerugo, giornalista e traduttrice;• Daniele zanello, formatore esperto di didattica audiovisiva.

Da tempo però il concorso non si esaurisce nella giornata di pre-miazione. Con il patrocinio di alcuni enti come il Comune di Aviano, il Comune di Pordenone, l’Associazione Italiana Biblioteche del Friuli Venezia Giulia e la collaborazione della Mediateca Cinemazero di Por-denone, il concorso è riuscito ad andare oltre l’ambiente sanitario, di-ventando un appuntamento annuale a cui partecipano nuove e vecchie conoscenze. Alcuni vincitori sono stati coinvolti in altre iniziative per raccontare la loro esperienza di scrittura. Le antologie dei racconti edi-te ogni anno dal CRO sono state presentate alla comunità di Aviano e alla festa del libro Pordenonelegge, facendo sì che attorno al concorso – e alle storie dei partecipanti – si crei uno spirito comunitario. Inoltre il gemellaggio con l’iniziativa analoga realizzata dalla Fondazione Edo ed Elvo Tempia assieme alla ASL di Biella “Gim, paladino di un sogno” ha permesso al concorso una maggiore visibilità a livello nazionale.

L’iniziativa è sostenuta dalle donazioni del 5 × 1000 alla ricerca per-ché accostare la medicina basata sulle prove di efficacia (EBM) e la me-dicina basata sull’evidenza delle narrazioni (NBM) – che tiene conto della migliore letteratura, delle preferenze del paziente e del giudizio del clinico – può servire a superare sterili contrapposizioni. ziebland e herxheimer sostengono che le persone “sono naturalmente attratte

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dalle storie di altre persone. Tali storie aggiungono rilevanza all’infor-mazione medica e rendono i ‘dati di fatto’ gradevoli e difficili da dimen-ticare. Le esperienze dei pazienti non sono un’alternativa all’EBM, ma sono parte di essa”6. E, aggiungiamo noi, aiutano a “inverare” lo spirito dell’EBM così come lo intendeva Sackett7, in modo che la medicina non sia solo una mera applicazione di risultati della migliore letteratura, ma abbia un’attenzione rivolta anche al punto di vista dei pazienti e alla riflessione critica di medici e operatori sanitari.

Le narrazioni, dunque, non sono un fine, ma possono essere uno strumento utile.

6 S. ziebland, A. herxheimer, How patients’ experiences contribute to decision making: illustra-tions from DIPEx (personal experiences of health and illness), “Journal of Nursing Management”, 16(4), 2008, pp. 433-39. [Traduzione a cura degli autori].7 I. Truccolo, Omaggio a David Sackett, “Notizie GIDIF RBM”, 25(2), 2015, pp. 3-5.

Bibliografia• G. Bert, Medicina narrativa: storie e parole nella relazione di cura, Il pensiero scien-

tifico, Roma 2007.• I. Gallo, L. Garrino, V. Di Monte, L’uso della scrittura espressiva nei percorsi di cura

dei pazienti oncologici per la riduzione del distress emozionale: analisi della letteratura, “Professioni Infermieristiche”, 68(1), 2015, pp. 29-36.

• I. Truccolo, Omaggio a David Sackett, “Notizie GIDIF RBM”, 25(2), 2015, pp. 3-5.• I. Truccolo, C. Cipolat Mis, P. De Paoli (a c. di), Insieme ai pazienti. Costruire la

patient education nelle strutture sanitarie, Il pensiero scientifico, Roma 2016.• S. Williams-Brown, D.M. Baldwin, A. Bakos, Storytelling as a method to teach

African American women breast health information, “Journal of Cancer Education”, 17(4), 2002, pp. 227-30.

• S. Ziebland, A. Herxheimer, How patients’ experiences contribute to decision mak-ing: illustrations from DIPEx (personal experiences of health and illness), “Journal of Nursing Management”, 16(4), 2008, pp. 433-39.

IVANA TRuCCOLOResponsabile della Biblioteca Scientifica e per Pazienti del CRO di Aviano

NICOLAS GuARINCollaboratore della Biblioteca Scientifica e per Pazienti del CRO di Aviano

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Il valore delle narrazioni1

Alberto Garlini

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1 Il presente contributo è la trascrizione della lezione magistrale tenuta oralmente da Gar-lini il 25 febbraio 2016.

I.2 Le caratteristiche che rendono riconoscibile una storia sono: l’a-zione, i personaggi, le vicende, il nodo narrativo, il conflitto da sbro-gliare, l’esito. Questo modo di pensare le storie si può definire an-tropologico perché fa parte dell’uomo fin dall’inizio della sua storia. Nella Poetica di Aristotele – un libro importantissimo, il cui valore resta immutato nei secoli – la narrazione viene definita una mimesi di un’unica azione divisa in tre atti: il primo atto serve a impostare la storia, il secondo serve a svilupparla e il terzo a concluderla. Questa definizione è alla base di tutte le storie che vengono narrate oggi.

Syd Field e Christopher Vogler sono due grandi teorici della narra-tologia contemporanea. Field ha scritto Screenplay nel 1979, un testo canonico studiato ancora oggi, dove sostiene che la costruzione della storia avviene in tre atti, con alcuni momenti che dividono atto da atto, in particolare il primo, cosiddetto turning point o punto di svol-ta. Dopo che la storia è stata impostata, serve un momento in cui il conflitto deflagra. Vogler invece è stato per molto tempo a capo dei film della Disney e sostiene che una storia inizia quando dal mondo ordinario si passa al mondo dell’avventura. Questo meccanismo vale per la maggior parte dei romanzi che leggiamo e dei film che vediamo. Nel film La stanza del figlio di Nanni Moretti si vede inizialmente una famiglia felice e benestante, ma a un quarto della narrazione succede che il figlio va a fare un corso per sub e muore. Da quel momento na-sce l’elaborazione del lutto che porterà molte difficoltà. Dal mondo in cui non succede nulla si passa a dover fronteggiare qualcosa di nuovo e imprevisto. Il mondo dell’avventura porta con sé un nodo narrativo, un conflitto da sbrogliare di cui segue gli esiti fino alla fine.

Si tratta di un dato antropologico che riguarda anche le narrazioni di malattia. Nella maggior parte dei racconti che hanno partecipato al concorso “Espressioni di cura” è presente questo nodo narrativo: un certo giorno arriva una certa comunicazione e la vita cambia comple-tamente. Dal mondo ordinario si entra in un altro mondo a cui inizial-mente è difficile dare un senso. Ognuno di noi crea continuamente storie: ci raccontiamo una nostra storia che ci dà un senso, una spe-cificità, una ragione, per avere dei progetti, un avvenire. Queste storie hanno delle difficoltà che la psicoanalisi chiama il rimosso: ci sono al-cuni traumi che non riusciamo a inserire nella nostra narrazione e che

Che cos’è una narrazione? Una narrazione racconta delle vicende che accadono e sono compiute da alcuni personaggi. Contiene in sé un nodo narrativo, o comunque un conflitto che tiene insieme l’intera narrazione.

Se si pensa all’Odissea, la domanda, il nodo narrativo si cui si basa la storia è: riuscirà Ulisse ad arrivare a Itaca? L’opera racconta il viaggio di un uomo che vuole tornare a casa, utilizzando un tipico incastro in parallelo dove le vicende di Penelope, che i Proci concupiscono, si intrecciano a quelle di Ulisse che deve tornare in tempo per salvarla. Si tratta di due situazioni che muovono verso un esito comune che può essere bloccato o meno dall’arrivo dell’eroe. In un’altra grande narrazione fondante della nostra storia, l’Iliade, il problema è lo stesso: riusciranno gli Achei a conquistare Troia? Anche qui il conflitto, il nodo narrativo, l’azione primaria è molto semplice: chi dei due vincerà?

In questo momento le narrazioni classiche di genere costituiscono quasi il novanta per cento delle narrazioni che conosciamo. Si pensi al giallo, dove la domanda è: riuscirà l’investigatore a trovare l’assassino? O ai cosiddetti romanzi rosa in cui il nodo narrativo è sempre il se-guente: riusciranno i due innamorati, dopo che il conflitto sarà risolto, a essere felici insieme? Come scrive Tolstoj all’inizio di Anna Karenina: “Tutte le famiglie felici sono felici allo stesso modo, ogni famiglia in-felice è infelice a modo suo”. Non esiste una storia d’amore felice. Esistono solamente degli amori conflittuali che hanno dei problemi. Di questo conflitto si seguono gli esiti fino alla conclusione, che può essere positiva, negativa o neutra, a seconda del tipo di morale e mes-saggio che si vuole dare alla narrazione.

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dobbiamo nascondere. Quando ci troviamo di fronte a una situazione completamente inedita, siamo davanti all’origine delle narrazioni antro-pologiche del passato. Un mondo ordinario, un mondo dell’avventura e un tentativo di dare senso a questa nuova situazione. Leggendo i rac-conti, molto spesso, quasi sempre, ci si accorge che chi racconta cerca di trovare una ragione, un motivo, una speranza, un tema narrativo che possa risolvere il conflitto di base e riportare il personaggio al mondo ordinario. Il “ritorno con l’elisir”, come lo chiama Vogler. Il percorso diventa quindi un’occasione narrativa per uno sviluppo e una crescita personale. Anche se non sempre si torna al mondo ordinario con una saggezza confortante, bisogna fare in modo che la narrazione possa ricondurre a quel mondo.

Le narrazioni vengono utilizzate non solo per delle strategie indivi-duali, ma anche per strategie di gruppo. Si parla di epos, ghenos e logos come le fonti che riuniscono e rendono tale una popolazione. C’è la possibilità che la narrazione fondante di una popolazione, il cosiddetto epos, dia una sorta di vantaggio evolutivo. Le prime società che cono-sciamo si raccontavano storie che, vagliate con il metro odierno della scienza, non hanno alcun valore scientifico, ma che riuscivano a creare un gruppo. Questo non è un particolare riduttivo se si pensa che le forme narrative forti hanno più possibilità di creare delle comunità di persone attorno a queste storie.

L’Iliade e l’Odissea sono stati dei libri fondanti per tutte le popola-zioni che si riconoscevano nell’essere greche. In tutti i gruppi di cui si può far parte – medici, pazienti, italiani, europei – esistono delle narrazioni che dicono più o meno chi siamo e perché ci comportiamo eticamente in un determinato modo. Leggendo i racconti del concor-so ci si rende conto di come essere pazienti o vivere un certo tipo di esperienza di malattia abbia bisogno di una narrazione propria, con delle caratteristiche comuni che la rendono riconoscibile, avvicinando gli uni agli altri. Creare e diffondere una narrazione comunicabile, che possa aiutare chi si trova in mancanza di senso, può essere molto utile a livello di gruppo.

Per la ragione fondante e antropologica della necessità di una storia, per la funzione che la storia ha sull’individuo e all’interno del gruppo, formando un sentire comune, le narrazioni possono fornire dei van-

taggi anche ai pazienti, offrendo loro condizioni migliori per affrontare il percorso della malattia.

ALbERTO GARLINIScrittore e cocuratore della Festa del libro Pordenonelegge

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Le parole salvano

Inserire Pierluigi Cappello nella quinta edizione del convegno di Medicina Narrativa ha il potere di testimoniare, attraverso l’esperien-za esistenziale e poetica di Cappello, che le parole salvano.

Le parole scritte sono davvero la pallida traccia della condivisione di alcuni segni di un’esperienza poetica. Abbiamo scelto, per concre-tizzarlo, alcuni testi di uno dei più intensi e nitidi poeti italiani, Pierluigi Cappello: Margherita li ha letti con una giustezza di cui il silenzio del pubblico in sala ha reso l’adeguata misura, Piervincenzo ha provato a suggerire alcune tracce di lettura.

La parola di Pierluigi Cappello nasce da una creaturalità ungarettia-na. Questa creaturalità porta con sé il desiderio di nominare le cose, di assegnare loro, insieme con il nome, un posto nell’ordine di ciò che appare: altro sforzo di marcata ascendenza ungarettiana, il buio della parola rimanda al nulla di un indicibile segreto.

L’universo è duro, secco, arido, di un nitore che però si stempera nel trascorrere di una cosa nell’altra: la parola (che segue, nella conci-tazione dei versi, questa vicenda) appare, nella sua esattezza e ricerca di senso, un gesto di cura.

Su La luce toccataLa luce, dice il poeta nella conclusione: ma può benissimo intendersi,

per le ragioni che si sono appena dette, la parola. Il battito del giorno alla finestra innesca il ricordo di un luogo, di una vita semplice e precisa nei suoi gesti. Lo spazio per questa evocazione di una vita limpida e povera è infinitesimale, come si conviene allo spazio della rivelazione: è un millesimo, però decisivo, dell’esperienza del poeta.

Piervincenzo Di Terlizzi, Margherita Venturelli

I.3 Su In ospedaleIl testo esibisce esplicitamente la propria nudità autobiografica, bi-

partendosi. La prima parte è durezza, inverno, vecchiaia senza bellezza, un’impietosa collana di asprezze della vita. La seconda metà del testo è l’appuntamento per il fuori della guarigione: evocato dalla leggerezza dell’immagine del pilota acrobata, in realtà è la conquista del precario assetto di volo, che necessita di passare per la carne tagliata prima di essere guarigione.

Su Lettera per una nascitaAbbiamo preso confidenza, nei testi precedenti, con l’importanza

della parola netta, con le terre antiche e povere nelle quali l’esperienza del poeta ha nutrito la ricerca della parola: qui questi fili dell’ispirazio-ne convergono per dire l’esplosione gioiosa di una nascita, quella della nipote.

Richiamando ancora la matrice ungarettiana, Cappello ci ricorda di essere solo un uomo: ma il “solo” ha con sé l’urgenza dell’unicità e di quelle parole che parrebbero, come promette l’incipit del testo, facili, mentre facile è solo il gesto dell’avvio della scrittura, perché su quel “solo”, segno dell’unicità dell’esperienza, si gioca l’unicità della parola.

La parola di Cappello in realtà nasce da una misura pazientemente messa alla prova nell’arco del verso, secondo l’insegnamento del so-netto d’avvio del Canzoniere di Petrarca, nel quale (come acutamente notava Pietro Bembo) il grappolo di parole “Voi che ascoltate in rime sparse il suono” è stato girato e rigirato in tutte le possibili colloca-zioni, fino a produrre quella attesa.

Su Assetto di volo Creaturalità, unicità dell’esperienza, pazienza nella sofferenza:

la poesia che dà titolo a una delle raccolte principali di Cappello condensa le fila che abbiamo appena suggerito in un testo denso, intriso dell’irripetibilità del tempo, agostinianamente evocata, e di

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un desiderio di perfezione fatta dell’equilibrio di un attimo, prima del volo.

Si legge Pierluigi Cappello prima di sapere che è Cappello: si risco-pre la parola, la si ritrova in vita, si assiste alla sua rinascita, alla sua resurrezione. Si comprende che la poesia c’è; la parola che dice, che ha ancora da dire. Leggere Cappello rassicura dal timore che la parola poetica si sia smarrita.

Si subisce l’imperdonabile equivoco che la scrittura sia una non azione, passiva e imbelle. Questo torbido pensiero è l’effetto dei tempi sciagurati in cui viviamo, dove le stanze sono svuotate della parola e stipate di parole che non rispondono, che non si riconosco-no più in alcun alfabeto, dove la scrittura è desolatamente trascurata, disprezzata come un randagio preso a calci per strada. La nullità, il nulla, in stanze vuote.

È giunto, invece, il tempo dell’azione: di riannodare i fili, di rimet-tersi al telaio, dopo aver appreso faticosamente la virtù dell’attesa. Il silenzio e la pazienza: due grandi virtù che preparano all’azione. E la solitudine: perché l’approdo a un pensiero forte, al risveglio è sempre un naufragio dell’uomo solo e che resta tale.

Oggi l’intellettuale è ritornato solo: in questo sta la sua condizione. Quell’essere in via di estinzione si ritrova in stanze svuotate dagli ami-ci, non più cenacoli, non più convivi né comuni. Non più confronti né dialoghi. Mancano interlocutori, mancano dialoganti.

I tempi sono cambiati. Non si cerca più l’incontro con il lettore, d’incrociare lo sguardo di quell’unico, solo come te e capace lui solo di capire la scrittura che nel leggerla si dipana sotto i suoi occhi. Si ambisce, oggi, ai grandi numeri, al sopra-soglia, altrimenti non sei uno scrittore, sei solamente uno che scrive. In tanti scrivono; pochi, tuttavia, poche unità davvero, frequentano le stanze della scrittura, pochi vi sono ammessi, coloro che si esercitano, che si applicano, vi si dedicano. Non si scrive più per passione. E muore la passione per la scrittura.

Si sta in quest’epoca assistendo alla sua agonia, alla sua agonizzante deriva. Ma la scrittura deve morire per poter rinascere.

Non si rimane qui senza uno scopo.Pierluigi Cappello

PIERVINCENZO DI TERLIZZIDirigente Scolastico dell’Istituto di Istruzione Superiore “E. Torricelli” di Maniago (Pn)

MARGhERITA VENTuRELLIResponsabile della Biblioteca Civica del Comune di Aviano

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Parte IIAncora riflessioni sulla Medicina Narrativa

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Narrazioni in medicina: paradossi e sinergie

Sandro Spinsanti

a) Al singolare o al plurale?Medicina Narrativa: se ne parla abitualmente al singolare. Una que-

stione preliminare a ogni ulteriore considerazione riguarda la natura della narrazione che si interfaccia con la medicina: si tratta di un realtà plurale o singolare? Stiamo parlando di una sola pratica oppure di pratiche diverse?

Una rapida analisi fenomenologica ci permette di rilevare tre diversi contesti in cui la narrazione si intreccia con la medicina. Ci sono narra-zioni artistico-letterarie che hanno come tema la medicina nelle sue di-verse articolazioni; abbiamo racconti del vissuto di malattia e di percorsi di cura (che possiamo chiamare, genericamente, “racconti del dolore”); e c’è infine la narrazione che prende corpo nel rapporto che intercorre tra i professionisti della cura e chi ricorre al loro aiuto. Ci sentiamo quin-di autorizzati a parlare di narrazioni – al plurale – riferite alla medicina.

Il secondo chiarimento preliminare riguarda il concetto di paradosso. Lo possiamo assumere nell’accezione più semplice: una proposizione formulata in apparente contraddizione con l’esperienza comune, ma che all’esame critico si dimostra valida. Nel linguaggio quotidiano, il parados-so si articola nell’esclamazione: “Non ci posso credere!”. Ebbene, pos-siamo affermare che è paradossale che narrazione e medicina abbiano trovato un’intesa così profonda. Saremmo portati, d’intuito, a negare qualsiasi rapporto tra loro. La medicina, ovvero l’arte di curare i mali del corpo, la immaginiamo su un piano diverso rispetto alle parole, che costituiscono la trama della nostra vita sociale. Invece medicina e nar-razione hanno trovato, nei recenti sviluppi dell’arte della cura, modalità inedite di collaborazione. In tutt’e tre le accezioni di narrazione. Vedia-mo in dettaglio questa paradossale sinergia, a cominciare dalle narrazioni artistico-letterarie.

II.1

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b) Narrazioni per comprendereFino a pochi anni fa le narrazioni letterarie di malattia e di morte

erano molto rare. La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj era una piccola grande eccezione. Lo testimonia Atul Gawande, raccontando la sua formazio-ne universitaria1: durante il suo intero curriculum di studi una sola ora è stata dedicata a confrontare i futuri medici con la morte e la morta-lità, leggendo il romanzo breve di Tolstoj. Letto e subito accantonato come irrilevante per la formazione di un chirurgo.

La distanza tra medicina e narrazioni letterarie era favorita dal fat-to che queste ultime solo marginalmente si addentrano nei fatti pa-tologici e nei percorsi terapeutici che scandiscono la vita umana. Le narrazioni artistico-letterarie evitano in genere tematiche di questo genere. Nel 1930 Virginia Woolf in un saggio sulla malattia scriveva: “Considerato quanto sia comune la malattia, appare davvero strano che non figuri insieme all’amore, alle battaglie e alla gelosia tra i temi principali della letteratura. Verrebbe da pensare che romanzi interi siano stati dedicati all’influenza, poemi epici alla febbre tifoidea, liriche al mal di denti. Ma no; salvo poche eccezioni, la letteratura fa del suo meglio perché il proprio campo di indagine rimanga la mente”2.

Ai nostri giorni Virginia Woolf dovrebbe ritrattare completamente questa sua notazione, perché nel frattempo la narrazione letteraria, sia scritta che filmica e dei serial televisivi, si è impadronita dell’ambi-to della malattia, della morte e della cura, in tutte le sue dimensioni umane. Sia in quanto terapeuti che come fruitori della cura possiamo trarre un grande beneficio dalla frequentazione di queste narrazioni.

La narrazione letteraria si colloca in netto contrasto con il proce-dimento riduzionistico proprio della medicina, la quale si appoggia sul-le scienze esatte: il riduzionismo, tipico di queste, induce a mettere tra parentesi componenti essenziali della realtà umana, per cercare di spiegarla servendosi di elementi più semplici. L’attenzione è rivolta es-senzialmente alla struttura biologica del corpo, considerata a un livello sempre più fondamentale: la struttura cellulare, il tessuto fisico e chi-

1 A. Gawande, Essere mortale. Come scegliere la propria vita fino in fondo, tr.it., Einaudi, Torino 2014.2 V. Woolf, Sulla malattia, tr.it., Bollati Boringhieri, Torino 2000.

mico del vivente, il substrato genetico, fino alla dimensione molecolare. Questo riduzionismo è lo strumento giusto se si vuol spiegare la realtà della patologia: che cosa la provoca, come si può contrastarla. Ma non basta più se, invece, la si vuol comprendere. A questo scopo bisogna ricorrere a qual vasto corredo di saperi che confluiscono oggi nelle “scienze umane” (psicologia, sociologia, antropologia culturale, storia, diritto, etica ecc.). E interrogare le arti. La narrazione letteraria si col-loca a pieno diritto in questo contesto.

Bussiamo allora alla porta della letteratura per comprendere il vis-suto umano della cura, mentre la scienza medica si limita a spiegarci (e non è per nulla poco!) che cosa fare per combattere le malattie. Il contributo delle narrazioni letterarie alla crescita in umanità (ovve-ro ciò che rende “l’uomo più uomo”) è efficacemente descritto da Giorgio Cosmacini: “È tale la letteratura – fatta di poesie, di novelle, di saggi, di romanzi – che con le vicende di vita dei personaggi narrati aiuta a capire e a colmare il divario esistente, in medicina, tra l’obiet-tività dell’‘avere una malattia’ e la soggettività dell’‘essere malati’. Se l’obiettività è pertinente all’informazione medica, trattatistica o mass-mediale, la soggettività è propria di chi trova nella lettura ‘umanistica’ motivi, se malato, di sostegno e conforto alla solitudine e, se medico o altro curante, di miglior comprensione delle altrui ansie e paure, talora o spesso oscillanti tra lampi di speranza e buio disperante”3.

Chi si accosta a questi testi letterari lo fa per il piacere estetico, ovviamente. Ma la lettura comporta anche benefici personali di ordine terapeutico, tanto che qualcuno si sente autorizzato a parlare di “biblio-terapia” quando la narrazione artistico-letteraria è utilizzata per amplia-re l’orizzonte mentale ed emotivo circa i fatti che riguardano la cura4.

c) Narrazioni per guarireLa seconda forma di narrazione abbinata alla medicina che ha pre-

so piede negli ultimi decenni è la narrazione del dolore, ovvero il racconto di quello che si patisce quando si è costretti ad attraversare

3 G. Cosmacini, Medicina narrata, Dejaco, Mergozzo 2015, p. 25.4 In merito alla biblioterapia, si vedano, in questo stesso volume, le considerazioni nel contributo di Marco Dalla Valle [N.d.C.].

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il buio territorio della malattia. Anche questo tipo di narrazioni si è af-facciato solo di recente nella nostra vita sociale. A illustrare il cambio di scenario un solo riferimento: nel 1973 il giornalista Gigi Ghirotti ha fatto scandalo perché, dopo che gli è stato diagnosticato un cancro, è andato in televisione e ha parlato della sua vicenda clinica. Il servizio è poi diventato il libro Nel tunnel della malattia5.

In quegli anni portare in pubblico una vicenda che ruotava intorno alla patologia era una cosa scioccante: la tendenza di chi era colpito da una malattia in genere e da alcune in particolare, come il cancro, era di tacere. Cercava di nascondere, non ne parlava. Mentre oggi la pri-ma reazione di chi ha un fatto patologico grave è di mettersi in rete, raccontandola: tanto che siamo praticamente invasi da storie (auto)biografiche – in inglese misery reports – che raccontano le vicende della lotta per la salute e della convivenza con la malattia dal punto di vista di chi le ha vissute. Non c’è patologia che non abbia il suo refe-rente narrativo. La narrazione del dolore è diventato un argomento di condivisione quasi ossessiva: è un “selfie con malattia”.

Ai nostri giorni chiunque si sente pienamente autorizzato a met-tersi online e parlare del suo vissuto di malattia – dalla diagnosi alle terapie – giungendo nei casi più estremi a raccontare in diretta la propria morte. Un caso emblematico di narrazione del dolore è stato l’appello lanciato da Salvatore Iaconesi, che, dopo la diagnosi di un tumore al cervello, ha voluto condividere in rete la sua malattia6, chie-dendo ai cybernauti di aiutarlo a combattere la malattia e di accompa-gnarlo sulla strada della guarigione. Nel giro di poco tempo ha avuto un milione di contatti. Anche la sua vicenda è diventata un libro7.

Che cosa possiamo attenderci da questo tipo di narrazioni? Anche se l’affermazione può sembrare presuntuosa, possiamo osare di riven-dicare loro una funzione terapeutica: queste narrazioni collaborano alla guarigione. Ci sono cure fatte esclusivamente di parole. Accettata dapprima con molta diffidenza, la psicoterapia è riuscita col tempo a farsi prendere sul serio nella nostra società: non suona strano che tro-

5 Il libro è stato ripubblicato anche di recente con il titolo Il lungo viaggio nel tunnel della malattia, Franco Angeli, Milano 2002.6 www.artiopensource.net/salvatore-iaconesi7 S. Iaconesi, O. Persico, La cura, Codice, Torino 2016.

vare le parole per dire il proprio malessere sia considerato una vera e propria cura, nel senso del classico saggio di Marie Cardinal8. Ma il suo ambito è correntemente limitato alle patologie riconducibili ai disturbi dell’umore, delle relazioni, dell’ambito mentale. Per quanto riguarda i mali del corpo, la medicina sembra non aver bisogno delle parole. È il regno del fare, più che del parlare; gli strumenti di cui si serve la medi-cina per guarire sono bisturi e farmaci, non la narrazione. Sulle parole sembra cadere il discredito che si merita ciò che non gravita intorno al “fare” (fatti e non parole: è uno slogan semplicistico molto in voga ai nostri tempi).

È arrivato il momento di rimettere in discussione questo schema. Le parole sono importanti in medicina; ancor più, la narrazione è uno strumento di guarigione. Come valvola di sfogo per il dolore, anzitut-to. Come esorta Shakespeare nel Macbeth: “Date la parola al dolore […] Il dolore che non parla sussurra al cuore oppresso e gli ordina di spezzarsi”9.

Ma non solo: la narrazione della malattia e dei percorsi di cura è es-senziale per trovare un senso a ciò che si sta vivendo. Sia come profes-sionisti della cura che come persone curate. Ne fa fede l’esplosione di narrazioni che gravitano intorno alla malattia: invadono gli scaffali delle librerie, ma soprattutto il web. Scrivono i professionisti (qualche sito: nottidiguardia, camiciazzurri, infermierincontatto), scrivono i malati (lastranamalattia, pazientemanontroppo, lemalattierare); si scambiano informazioni e storie di associazioni. Il sito più esplicito – ucare – osa proporre “storie che curano”.

Ben vengano, dunque, macchinari sofisticati e pillole sempre più po-tenti per far fronte ai mali che ci affliggono: ma porte aperte anche alle parole. Non si tratta di sostituire le aspirine con le parole; in medicina c’è posto per i farmaci, ma anche per la narrazione.

Soprattutto la narrazione che avviene in rete, attraverso la condivi-sione di racconti di malattie e guarigioni, sta modificando il modello di cura: essa infatti rimette completamente in discussione il modello tradi-zionale della medicina paternalistica. Questo prevedeva che il paziente

8 M. Cardinal, Le parole per dirlo, tr. it., Bompiani, Milano 1976.9 W. Shakespeare, Macbeth, tr. it., in Id., Tutto il teatro, Newton Compton, Roma 2001.

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bussasse alla porta e si affidasse a chi ha la competenza, la conoscenza, la volontà e l’organizzazione per risolvere il problema o quanto meno per accompagnarlo nel percorso della cura. L’elemento fondante era la compliance: “Un malato comincia a guarire quando ubbidisce al medi-co”, sentenziava il clinico spagnolo Gregorio Marañón10. Ora i ruoli dei protagonisti della cura stanno cambiando.

Il medico, anche il più competente e aggiornato, deve accettare che la sua scienza è sotto la vigilanza della sua coscienza e non rappresenta più l’unico canale informativo aperto al paziente. Egli propone il percor-so terapeutico e le eventuali alternative, ma non le impone. Eventual-mente può offrire un consiglio, che il malato, però, non è obbligato né tenuto a osservare. Il paziente si informa e spesso cerca una seconda opinione. Andare in rete è una sorta di thousand opinion, con tutti i ri-schi che comporta, perché la rete ha qualche analogia con le discariche, dove si può trovare sì di tutto e di più, senza avere la garanzia che la cosa trovata sia buona, cioè che l’informazione condivisa sia corretta. Inoltre troppe informazioni possono essere per il paziente anche un rischio di confusione: potrebbero aumentare ancora l’incertezza, fino a produrre un senso di paralisi rispetto a decisioni drammatiche. È dun-que necessario che il cittadino che entra nella rete dei social faccia uso di un senso critico ancora più sviluppato.

Questo scenario ci obbliga a rimettere in discussione il concetto di empowerment nella relazione tra professionisti della cura e malato. La modifica dei rapporti di potere in ambito medico si può muovere in due diverse direzioni: quella della persona che viene effettivamente ‘potenziata’ attraverso la conoscenza e l’assunzione di responsabili-tà, ma anche quella della persona che vuole comandare il percorso di cura e guarigione e pretendere di guidarlo. Nella seconda ipotesi questa presa di potere può condurre a un drammatico isolamento del malato, che viene lasciato solo a decidere (secondo il brutale mo-dello: “Vuoi la pillola rossa o quella bianca? Decidi tu!”). Oggi non è inconsueto il caso del paziente che si rivolge al medico con una sua opinione già formata, quasi che il parere del medico sia una second

10 G. Marañón, El médico y su ejercicio profesional en nuestro tiempo, Editora Nacional, Madrid 1952.

opinion; e del medico al quale viene chiesto di essere compliant rispet-to a quanto stabilito dal paziente rispetto alla terapia. Così inteso e praticato, l’empowerment comporta una subordinazione del medico a un’autoreferenzialità assoluta del malato.

Allo stesso tempo dobbiamo rimettere in discussione quei modelli fasulli di attribuzione di potere, purtroppo molto diffusi nella pratica clinica, nei quali il consenso informato si riduce a una mera procedura burocratica per tutelare il medico e la struttura. La questione di fon-do non è chi “comanda nel processo di cura”, ma come percorrere insieme la strada che porta a decisioni condivise. Basterebbe che il medico si facesse la domanda: “Che cosa vuole sapere il malato che ho davanti a me?”.

Fornire al malato che ha appena ricevuto una diagnosi devastante tutta una serie di informazioni, comprese le percentuali di sopravvi-venza e di esito, potrebbe essere paralizzante e portare al disempo-werment. Le informazioni non richieste possono costituire anch’esse una forma di violenza. Per conoscere ciò che la persona vuole sapere e che cosa la rende unica, il buon professionista non ha altro stru-mento che la narrazione: cioè sollecitare il malato a raccontare la sua storia e disporsi ad ascoltarla. È questa, in buona sostanza, la Medi-cina Narrativa nella pratica clinica: uno strumento per arrivare a una decisione condivisa. Questa è anche la proposta formulata dalle Linee di indirizzo della Medicina Narrativa in ambito clinico-assistenziale nella conferenza di consenso convocata dall’Istituto Superiore di Sanità nel giugno 2014.

In questo documento troviamo la definizione di narrazione applicata alla medicina che ci porta direttamente nel terzo scenario evocato nelle riflessioni iniziali, ovvero nella narrazione come modalità di relazione clinica: “Con il termine Medicina Narrativa si intende una metodologia di intervento clinico-assistenziale basata su una specifica competenza comunicativa. La narrazione è lo strumento fondamentale per acquisi-re, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengo-no nella malattia e nel processo di cura. Il fine è la costruzione condivisa di un percorso di cura personalizzato (storia di cura)”11.

11 http://www.iss.it/binary/cnmr4/cont/Quaderno_n._7_02.pdf

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Da questa definizione vediamo profilarsi un modello di relazione terapeutica distante sia dalla sottomissione implicata dalla compliance proposta dalla tradizionale medicina paternalistica, sia dall’autonomi-smo esasperato che fa indebitamente ricadere sul malato decisioni e responsabilità.

d) Narrazioni per praticare la buona medicinaPotremmo dire che il nuovo paziente è quello che ha fatto proprio

il profilo che il filosofo Immanuel Kant assegnava al cittadino entrato nell’era dell’Illuminismo: un soggetto uscito dalla condizione di “mino-rità non dovuta” a cui fino ad allora si adattava. È quello stato a cui alludiamo, in senso positivo, con il termine inglese empowerment. A con-dizione di delimitarlo con chiarezza.

Usare un termine straniero che non ha il suo corrispettivo in italiano è già di per sé indice che ci muoviamo in un territorio per il quale non disponiamo di risorse terminologico-linguistiche e probabilmente nem-meno di quelle culturali. Un termine straniero come empowerment è una gruccia che utilizziamo per camminare anche molto faticosamente.

Spesso viene proposto ed enfatizzato il termine “alleanza”, ma an-che in questo caso è necessario riflettere sul significato della parola. Il termine di “alleanza” nella nostra eredità linguistico-religiosa (l’“antica alleanza” ebraica e la “nuova alleanza” cristiana) equivale ad affidarsi a un’entità potente che assicura la salvezza. Applicato alla medicina, può costituire una trappola, perché evoca una relazione sì tra alleati, ma che non hanno lo stesso potere: c’è qualcuno che concede l’alleanza e un altro che l’accetta; per restare nell’alleanza bisogna osservare ciò che stabilisce colui che concede l’alleanza (nel contesto religioso, i comandamenti; in quello medico ciò che viene prescritto dal curante).

Questo tipo di alleanza è essenzialmente asimmetrica. Per molto tempo la medicina si è esercitata su questo modello: il medico porta il paziente alla guarigione e il paziente deve aderire alla prescrizione. Se il paziente non è obbediente (compliant), infrange l’alleanza. Ma non è questo che la nuova medicina e la nuova cultura della cura richiedono: quando siamo malati non ci mettiamo nelle mani di un salvatore, ma ci adoperiamo perché si incontrino competenze diverse: quella del curan-

te, basata sulla scienza, e quella di colui che viene curato, basata sulla sua biografia. Tra l’uno e l’altro emerge il ruolo decisivo della narrazione.

e) La medicina vestita di narrazione“Tornate all’antico e sarà un progresso”: la nota esortazione di

Giuseppe Verdi è stata per lo più applicata all’ambito dell’arte. Possia-mo forse osare di riferirla anche alla medicina. Vale a dire alla pratica sociale dove il progresso si identifica con gli avanzamenti del sapere scientifico e della tecnologia; l’ambito dove oggi anche la scientificità dell’EBM (la medicina basata sulle prove di efficacia) viene giudicata in-sufficiente e si ragiona di “medicina di precisione”. Può suonare come una provocazione proporre alla medicina di ripensare la pratica quo-tidiana recuperando la parola, la più semplice e povera risorsa dell’ar-senale terapeutico. Qualcuno potrebbe pensare che la narrazione sia da assegnare a chi non dispone di sufficiente sviluppo economico e sociale da potersi permettere la medicina dei ricchi. Quasi che, in assenza di rimedi davvero efficaci, sia legittimo ripiegare sulla parola (che magari qualche maligno squalificherà come chiacchiere…).

I più generosi possono arrivare a pensare che la medicina delle pa-role sia appropriata limitatamente ai contesti multiculturali. Ma la vera sfida della Medicina Narrativa è di uscire dall’ambito ristretto che le potrebbe eventualmente riservare chi accetti il multiculturalismo, per affermare con decisione che la narrazione è necessaria per praticare la buona medicina sempre e dovunque. I paesi a più basso sviluppo tec-nologico non hanno per questo una medicina più povera dal punto di vista della relazione. Al contrario, possiamo immaginare che nella realtà culturale dell’Africa susciterebbe giustamente scandalo la pro-posta di praticare la medicina sprovvista di parola e di relazione, così come la conosciamo alla nostra latitudine. La Medicina Narrativa non è, perciò, un prodotto da esportare nei paesi poveri, ma un proposta per curare i mali che affliggono la ‘nostra’ pratica di cura.

Il primo passo verso questo approccio che si propone di recupe-rare l’antico consiste nel riconoscere che nel suo sviluppo recente la medicina ha imboccato dei vicoli ciechi. La pratica medica ha intro-dotto in poco tempo dei grandi cambiamenti rispetto al modello di

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rapporto terapeutico che ha prevalso per secoli. Questo non preve-deva che il medico comunicasse al malato diagnosi e prognosi; e tanto meno che indagasse che cosa era prioritario per la persona malata, in modo da decidere il percorso di cura insieme con lui/lei. Il buon medico prendeva le decisioni per il malato, magari condividendole, alle sue spalle, con i familiari. Il modello dell’informazione obbligatoria e del consenso esplicito a qualsiasi trattamento ha modificato questa prassi (che a ragione viene qualificata come “paternalistica”, perché il medico si comportava con il malato come un buon padre o madre si relaziona con un bambino piccolo, non in grado di comprendere e di esprimere il proprio interesse e la propria volontà). La Medicina Narrativa fa procedere oltre, correggendo al tempo stesso le defor-mazioni a cui il consenso informato è esposto.

La Medicina Narrativa può essere un’etichetta nuova per veicolare un’aspirazione antica: che coloro che forniscono la cura e i malati che la ricevono si incontrino anzitutto come esseri umani. L’“umanizzazione” dei trattamenti sanitari, che viene tanto spesso invocata, non passa attraverso i buoni sentimenti. Empatia e condivisione non guastano, certo; ma è essenzialmente la parola quella che costituisce il dono e il compito della nostra umanità.

Anche se in medicina oggi l’informazione dilaga, l’ascolto latita. Sen-za ascolto le decisioni cadranno sempre dall’alto, per quanti moduli di consenso informato si facciano firmare al paziente. La “conversazio-ne” – intesa non come chiacchierata amichevole, ma come scambio reciproco di saperi e di valori, nel rispetto dell’ineliminabile diversità di posizione tra chi richiede la cura e chi è in grado di erogarla – è l’anima della Medicina Narrativa. È in questo contesto che nascono le decisioni condivise: quelle tagliate su misura, come abiti di sartoria.

Bibliografia• M. Cardinal, Le parole per dirlo, tr. it., Bompiani, Milano 1976.• G. Cosmacini, Medicina narrata, Dejaco, Mergozzo 2015.• A. Gawande, Essere mortale. Come scegliere la propria vita fino in fondo, tr. it., Einaudi,

Torino 2014.• G. Ghirotti, Il lungo viaggio nel tunnel della malattia, Franco Angeli, Milano 2002.• S. Iaconesi, O. Persico, La cura, Codice, Torino 2016.• G. Marañón, El médico y su ejercicio profesional en nuestro tiempo, Editora Na-

cional, Madrid 1952.• V. Woolf, Sulla malattia, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2000.

Sitografia• http://www.iss.it/binary/cnmr4/cont/Quaderno_n._7_02.pdf• http://nottidiguardia.it/• http://srgvalentino.blogspot.it/• http://infermierincontatto.beepworld.it/• https://lastranamalattia.wordpress.com/• http://www.ucare.it/

SANDRO SPINSANTIFondatore e direttore dell’Istituto Giano di Roma

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Narrazione e cura in oncologia: l’esperienza sul campo di un medico

Fabrizio Artioli

Molti ritengono che per narrare storie, la propria o quella di altri, ci si debba immergere in una specie di mondo ‘a noi estraneo’, dal quale poter trarre conclusioni più o meno accattivanti per il lettore. Oppure che si debba avvertire, come un sottile piacere, che la storia che an-dremo a raccontare diventi vera solo nel momento in cui qualcuno la leggerà: una forma di transfert, nel quale noi finalmente diventiamo veri perché apparteniamo non più solo a noi stessi, ma anche agli altri. E più i sentimenti che raccontiamo sono per noi forti e violenti, più questa sensazione si acuisce.

Io non credo che sia così, o, meglio, può anche essere così: ma non credo che questa strada ci porti a realizzarci come scrittori, o meglio, a realizzare un progetto che coinvolga davvero il lettore in ciò che noi andiamo scrivendo.

La Medicina Narrativa ha una sua storia, ormai lunga: ma vi è un mo-mento ben preciso nel quale essa entra a pieno titolo a far parte di un percorso scientifico, intendendo per ‘scientifico’ ciò che avvicina l’uo-mo alla conoscenza di sé e del mondo che lo circonda. È nel 2001 che compare per la prima volta sul prestigioso “Journal of the American Medical Association” (rivista ufficiale dell’Associazione americana dei medici) un articolo firmato da Rita Charon, il quale introduce l’espres-sione Narrative Based Medicine, mutuandola dalla nota Evidence Based Medicine: la medicina che, nel secolo scorso, definì quello scientifico, basato appunto sulle evidenze rilevabili, come metodo di approccio alla medicina, fino ad allora ancora troppo legata all’empirismo.

Scrive dunque Rita Charon: “La Medicina Narrativa fortifica la prati-ca clinica con la competenza narrativa per riconoscere, assorbire, meta-bolizzare, interpretare ed essere sensibilizzati dalle storie della malattia;

II.2 essa aiuta medici, infermieri, operatori sociali e terapisti a migliorare l’efficacia di cura attraverso lo sviluppo della capacità di attenzione, ri-flessioni, rappresentazione e affiliazione con i pazienti e i colleghi”1.

La narrazione diventa così parte integrante del processo di cura: non solo, ma è in grado di migliorare l’atteggiamento degli operatori nei confronti dei malati e delle loro malattie. La Charon sembra offrire sì uno spunto di riflessione su un possibile significato della Medicina Narrativa, ma non risponde alla domanda di fondo: perché scriviamo?

Ciascuno può dare a questa domanda la risposta che più si avvicina alla sua sensibilità: ma io penso che in buona parte noi scriviamo perché scri-vere ci consente di guardare noi stessi da fuori, di cambiare la nostra visuale.

Le emozioni troppo forti – e la malattia, così come la scomparsa di una persona cara, inducono emozioni molto forti – ci costringono, come avviene nei sogni a essere troppo dentro al problema, tanto da sentire di non riuscire a gestirlo. Sentiamo allora il bisogno di “trascen-dere, di guardare oltre la mera esperienza, per non esserne schiacciati o impauriti”. In questo modo si domina la scena, si è nello stesso tempo attori e spettatori e qualche volta anche registi. Ma spesso l’attore trasmette angoscia e lo spettatore freddezza, un circolo vizioso da cui non si esce, come bene ci descrive Luigi Pirandello nell’opera teatrale L’uomo dal fiore in bocca, con i suoi tre personaggi: il malato angoscia-to, l’avventore freddo e distaccato e… lo scrittore, che partecipa dei sentimenti di entrambi2.

Si può essere freddi cronisti di una storia, anche personale, oppure immersi nel buio dell’angoscia dell’interprete, o nel freddo sentire di chi ci guarda dall’esterno (ad esempio un operatore); oppure si può entrare in una prospettiva assolutamente nuova, quella di chi abbia elaborato il proprio vissuto, forse anche la malattia, ponendosi in una prospettiva emozionale nuova, profonda, vera, che lo trasforma da scrittore cronista in scrittore narratore.

È vero che chi scrive lo fa innanzitutto per soddisfare un bisogno personale: ma se riesce a compiere il difficile passo di diventare narra-

1 R. Charon, Narrative Medicine. A Model for Empathy, Reflection, Profession and Truth, “The Journal of the American Medical Association”, 286(15), 2001, pp. 1897-1902.2 Cfr. L. Pirandello, Dalle novelle al teatro, a c. di P. Briganti, Mondadori, Milano 1990.

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tore, allora si affaccia l’idea che qualcun altro si possa riconoscere nella nostra storia e così forse può trovarne conforto; può capire che la malattia e l’angoscia possono essere dominate e potrebbe nascere un piccolo miracolo fra narratore e lettore, un miracolo che si chiama em-patia. Il lettore dovrà trovare la sua strada, ma non è più solo; nessuno si potrà sostituire al narratore, ma, forse, il fardello diventerà più lieve.

E quand’è il medico a diventare narratore? Se egli è anche protago-nista della storia, allora la partita si fa più dura, le parti si invertono e le emozioni diventano più confuse. Se invece si trova a raccontare storie di pazienti, il lavoro è duplice: egli non potrà mai essere narratore se non saprà farsi coinvolgere dall’‘altro’, arrivare fino a immedesimarsi in lui, ma con la capacità di mantenere sempre uno sguardo un po’ da fuori; egli deve, cioè, saper ‘entrare’ nell’altro e ‘uscire’ da lui, per poter vedere, per poter aiutare, per poter curare e anche narrare.

Questa è la relazione, un processo dinamico che si svolge davanti ai nostri occhi di operatori; sta a noi saperla cogliere, saperla vivere, in questo continuo coinvolgimento emotivo, per ritrovare poi la lucidità del distacco, per poter curare al meglio chi ci sta davanti, capendone le esigenze; ma anche per potere raccontare quanto accade, così come farebbe un narratore.

Scrivere diventa così un modo per mettere ordine nello svolgersi delle cose, ci consente di progettare e di spostare la nostra vita un pas-so in avanti, investendo energie ed emotività. Sì, scrivere è terapeutico.

Racconta una paziente: “E qui comincia la mia storia con il dottor […] fatta sicuramente di alti e bassi, è talmente efficiente e preciso che a volte fa arrabbiare. Come quando, ad esempio, ti telefona alle ore più impensate anche di domenica […] solo per spostarti un appuntamento della settimana dopo. Ma poi ricordi che ha fatto lo stesso quando aspet-tavi l’esito istologico e ti passa. Come quando in visita sfoglia e riordina la tua cartella, rileggendola dalla prima all’ultima riga, come per entrare nel personaggio e nella sua storia; dopo un quarto d’ora di questo silenzio sfibrante tu, lì davanti, non sai più che posizione assumere sulla sedia. Ma poi se ne esce con un “Buon compleanno, signora” (ma allora legge an-che le date inutili) e ancora una volta ti passa. Che dire? Santo Subito!”3

3 Libere di vivere, a c. di M. Russomanno, AMO, Carpi 2005, p. 48.

In un altro libro la giornalista Milena Bidinost, racconta con rabbia e orgoglio: “Ora, da quando il cancro ha abbandonato il mio corpo, non so più contro chi lottare. Il mio vero terrore è che il male ritorni e che questa volta sia per sempre. D’ora in poi il mio nemico sarà questo terrore […] Ma la mia storia mi ha insegnato: i miracoli esi-stono e sono opera della nostra forza di volontà”4.

Infine c’è il racconto di un medico ammalato di tumore, che cono-sce bene la propria prognosi e che descrive la vita come un “viaggio in mare, un viaggio che non può durare in eterno […] alla fine le possi-bilità sono due: che la malattia ti faccia naufragare, ma è possibile che tu riesca a condurre la navicella in porto, a raggiungere l’approdo”5.

Se fosse così, la speranza non coinciderebbe con la guarigione, ma con l’approdo, e ciascuno di noi a un certo punto della propria vita troverebbe la sua risposta al viaggio.

Bibliografia• M. Bidinost, Mi riprendo il biglietto. Un nuovo cielo dopo la chemio, L’Omino rosso,

Pordenone 2009.• C. Carapezzi, Note, a c. di A. Bonaretti, AMO, Carpi 2009.• R. Charon, Narrative Medicine. A Model for Empathy, Reflection, Profession and

Truth, “The Journal of the American Medical Association”, 286(15), 2001, pp. 1897-1902.

• L. Pirandello, Dalle novelle al teatro, a c. di P. Briganti, Mondadori, Milano 1990.• M. Russomanno (a c. di), Libere di vivere, AMO, Carpi 2005.

4 M. Bidinost, Mi riprendo il biglietto. Un nuovo cielo dopo la chemio, L’Omino rosso, Porde-none 2009, p. 11.5 C. Carapezzi, Note, a c. di A. Bonaretti, AMO, Carpi 2009, p. 92.

FAbRIZIO ARTIOLIDirettore di Medicina Interna Oncologica presso gli Ospedali di Carpi e Mirandola, Modena

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Parte IIILaboratori di Medicina Narrativa

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Introduzione ai laboratori del convegno

Nicoletta Suter

a) Laboratori in un convegno di Medicina Narrativa?

Non è usuale introdurre attività laboratoriali all’interno di un con-vegno, che di norma, attraverso il susseguirsi di numerose relazioni frontali, persegue l’obiettivo di approfondire la conoscenza in un de-terminato ambito del sapere.

Le precedenti quattro edizioni del convegno di Medicina Narrativa organizzato annualmente al CRO si sono in effetti svolte secondo questa modalità classica: l’intento era quello di analizzare a fondo il quadro teorico e i riferimenti epistemologici di una disciplina che va affermandosi in ambito sanitario, proponendo la ricerca di un’inte-grazione fra tutti gli ambiti della cura, nonché fra scienze cosiddette naturali e le scienze umanistiche.

La quinta edizione del convegno ha invece indossato un nuovo abito: cioè, come forse scriverebbe Sandro Spinsanti, è stata “vestita di narrazioni”1.

Lo spazio iniziale è stato affidato, come sempre, a due esperti di Medicina Narrativa, Sandro Spinsanti e Fabrizio Artioli, che nelle loro letture magistrali hanno introdotto i temi della giornata. In seguito un insegnante, ora direttore didattico, Piervincenzo Di Terlizzi, e una bi-bliotecaria, Margherita Venturelli, hanno onorato il poeta e scrittore friulano Pierluigi Cappello attraverso la lettura e il commento di alcu-ni testi. Il pubblico è stato così indotto a riflettere sul valore umano e curativo della poesia, sia per chi ascolta sia per chi scrive. Cappello, nel suo testo autobiografico Questa libertà, così spiega il suo legame con la letteratura:

1 S. Spinsanti, La medicina vestita di narrazione, Il pensiero scientifico, Roma 2016.

III.1

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Sono entrato in pronto soccorso la sera del 10 settembre 1983. Sono uscito dall’istituto di riabilitazione nella mattina del 16 marzo 1985. Sono date che si possono scrivere anche così: 10/09/1983 - 16/03/1985, con il trattino in mezzo. E benché inizio e fine abbiano importanza, è quel trattino teso fra loro come una fune che riempie di senso l’una e l’altra e, illuminando, avvicina le due sponde […] Dentro quel trattino fra due date posso metterci poche sicurezze […] Ma ciò che è rimasto in piedi e che ha rappresentato la linea continua tra la vita di prima e la vita di dopo, è stata la letteratura […] ho riempito in questo modo diversi quaderni, ma non ho riempito un tempo vuoto, perché è stato il tempo a riempirmi di sé. E ancora oggi considero quei balbettii le mie prime prove di poesia2.

Terminato lo spazio dedicato all’autore, sono stati allestiti set-te spazi di laboratori narrativo-esperienziali, condotti da facilitatori esperti, ripetuti in una sessione mattutina e una pomeridiana, tanto che ogni partecipante ha potuto iscriversi e frequentare due diverse attività durante la giornata. Le esperienze laboratoriali sono state poi riportate in plenaria dai facilitatori con un dibattito a seguire.

Ecco i titoli dei sette laboratori, illustrati dettagliatamente dai con-duttori/facilitatori nelle prossime pagine:1) Pratiche filosofiche e riflessività nella formazione degli operatori (Linda

M. Napolitano Valditara e Francesca Bisiani)2) Biblioterapia: obiettivi e modalità di applicazione con le persone malate

(Marco Dalla Valle)3) Maneggiami con cura: esperienza di laboratorio teatrale sul “prendersi

cura” (Franca Tragni e Luisella Notari)3

4) La scrittura riflessiva e autobiografica: strumenti per il benessere degli operatori (Nicoletta Suter)

5) La cura nello sguardo: arti figurative e scrittura (Daniele Bruzzone)6) Cinema e formazione: disease related movies per riflettere sulla cura

(Lorenza Garrino)7) Parole, emozioni e immagini: poesia come metafora della cura (Patrizia

Rigoni)

2 P. Cappello, Questa libertà, Rizzoli, Milano 2013, pp. 166-70.3 Di questo laboratorio purtroppo non c’è qui un contributo scritto.

b) Perché educare alla Medicina Narrativa attraverso il laboratorio?

Proviamo dunque a esplorare un po’ più a fondo questa metodolo-gia didattica per comprenderne il senso all’interno del convegno.

Con il termine “laboratorio” s’intende l’insieme di quelle situazioni formative in cui al partecipante, ma anche al formatore, è richiesto di mettersi in gioco non solo come identità professionale, ma anche come persona. Infatti questa metodologia tende a promuovere lo svi-luppo personale attraverso il lavoro su di sé e l’utilizzo del gruppo come catalizzatore di apprendimento collaborativo. Il formatore, come un regi-sta, partendo da un copione iniziale, realizza l’azione formativa svilup-pando un itinerario taylored (tagliato, confezionato) sui partecipanti, coinvolgendoli e rendendoli protagonisti non solo per ciò che attiene ai contenuti, ma anche per ciò che attiene alla sfera emotivo-affettiva e relazionale-sociale4.

Il termine “laboratorio” è polisemico: in senso stretto indica uno spazio didattico diverso dall’aula-madre, nella quale l’attività è prevalen-temente frontale, tipica della trasmissione culturale e dove al discen-te è richiesto prevalentemente l’ascolto. In senso largo è un’attività pedagogica che presenta la caratteristica dell’apprendimento attivo, cioè dell’imparare facendo: si tratta cioè di un contesto di azione, di uno spa-zio “mentale”, simbolico dove al discente è richiesto di interagire, fare, pensare, riflettere. Le attività di laboratorio portano il partecipante a imparare a pensare in modo riflessivo, cioè ad acquisire una propensione generale a riflettere sulla propria attività prima, durante e dopo il suo evolversi.

Il laboratorio è dunque uno spazio didattico in cui, grazie alla guida del facilitatore, si realizzano la meta-cognizione (cioè l’interrogazione sul proprio modo di pensare), la meta-emozione (cioè l’interrogazione sul proprio modo di sentire), e l’auto-formazione (rispondendo a do-mande del tipo “come hai imparato ciò che sai, che sai fare, ciò che sei oggi? Come racconti il tuo sapere? Quali desideri di formazione e di crescita hai?”).

4 M. Rotondi, Facilitare l’apprendere. Modi e percorsi per un apprendimento di qualità, Franco Angeli, Milano 20124, pp. 131-40.

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La didattica laboratoriale richiede dunque di passare dall’informa-zione alla formazione, incoraggiando nei partecipanti un atteggiamento attivo e di ricerca verso la conoscenza, che ne mobilita le capacità e l’apprendimento significativo per scoperta5. Essa inoltre va non a so-stituirsi, ma a integrarsi con attività didattiche frontali, coinvolgendo persone con diversi stili di apprendimento, stimolando curiosità, favo-rendo la condivisione della propria esperienza e migliorando l’appren-dimento in senso generale.

Troppo spesso le attività educative, anche nella formazione conti-nua in medicina, si fondano sull’assunto che la vita intellettuale di una persona si risolva esclusivamente attraverso l’attività teorica fondata sulla parola e sul libro, l’articolo e così via. Spesso l’agire e il riflettere sul fare e sul pensare non sono considerati importanti, oppure sono considerati solo aspetti di supporto al sapere teorico. Inoltre vi è una predominanza di logiche quantitative (come, ad esempio, attribuire va-lore all’attività didattica in base al numero di crediti!) su quelle della qualità dei contenuti, di logiche di apprendimento individuali e compe-titive rispetto a quelle che hanno il loro focus nel lavoro con il gruppo e nell’apprendimento di tipo collaborativo.

In particolare quest’ultimo diviene un allenamento fondamentale al lavoro in team, che di norma non viene insegnato nella formazione di base. Gli stessi curricula didattici universitari sono impostati in modo mono-disciplinare (gli studenti di medicina studiano e si confrontano solo con altri studenti di medicina, gli infermieri solo con studenti di infermieristica, e via dicendo), benché poi nei luoghi di lavoro emerga sempre più la necessità del lavoro in team, di fatto, però, da attuarsi in assoluta carenza di premesse formative adeguate.

Ma per lavorare efficacemente con altri non è sufficiente l’indi-cazione deontologica a farlo o la buona intenzione: occorre un alle-namento sia alla metodologia del lavoro di gruppo, sia ad acquisire tutte le abilità dell’intelligenza emotiva e sociale6. La partecipazione costante nel tempo ad attività di tipo laboratoriale incrementa certa-

5 D.P. Ausubel, Educazione e processi cognitivi. Guida psicologica per insegnanti, tr. it., Franco Angeli, Milano 19888.6 D. Goleman, Lavorare con intelligenza emotiva. Come inventare un nuovo rapporto col lavoro, tr. it., Rizzoli, Milano 2000.

mente queste competenze, che sono alla base del successo dei team di cura.

Recuperare il valore del sapere pratico attraverso le attività labo-ratoriali prevede come punto di partenza il fare un’esperienza all’in-terno di uno spazio didattico protetto, a cui seguono la riflessione, la costruzione di significati, fino all’ancoraggio con saperi teorici che non sono dati dal formatore a priori, ma vengono scoperti, individuati e rielaborati dai discenti.

c) Il laboratorio narrativo-esperienzialeIn questi ultimi anni, dopo la nascita del movimento della Medicina

Narrativa nel Nordamerica, anche in Italia si sta avvertendo l’esigenza di introdurre una pedagogia narrativa nei percorsi della formazione, sia universitaria che continua. Essa è intesa: come un approccio all’in-segnamento/apprendimento che privilegia la narrazione dell’esperien-za professionale dei discenti quale strumento di conoscenza e com-prensione di sé e degli altri; come dispositivo educativo per stimolare la riflessione sulla “cura” nelle sue diverse declinazioni7; come leva strategica volta ad allenare la competenza narrativa, cioè la capaci-tà di “accogliere, ascoltare, assorbire, comprendere, interpretare e rispondere con un paradigma narrativo alle storie di malattia delle persone”8.

Il nostro Istituto Superiore di Sanità ha già accolto questa impor-tante sfida. Nelle Linee di indirizzo per l’utilizzo della Medicina Narrativa in ambito clinico-assistenziale, per le malattie rare e cronico degenerative, alla quarta raccomandazione esso infatti enuncia: “Si raccomanda di introdurre la competenza narrativa in tutti i suoi aspetti e ambiti di applicazione nei percorsi formativi accademici e di sanità pubblica de-gli operatori sanitari e socio-sanitari. Si raccomanda la progettazione di percorsi multidisciplinari e interprofessionali”9.

7 L. Formenti (a c. di), Attraversare la cura. Relazioni, contesti e pratiche della scrittura di sé, Erickson, Trento 2009.8 R. Charon, Narrative Medicine. Honouring the Stories of Illness, Oxford University Press, New York 2006, p. 4.9 http://www.iss.it/binary/cnmr4/cont/Quaderno_n._7_02.pdf

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Il punto critico è però come insegnare agli studenti e ai professionisti la competenza narrativa, che è certamente un costrutto complesso e non disgiunto dall’allenamento di competenze comunicative e relazionali.

Ora, Charon, hermann e Devlin hanno sviluppato un modello d’in-terpretazione della competenza narrativa, che si sviluppa attraverso tre movimenti10: l’attenzione, la rappresentazione, l’affiliazione, processi che coinvolgono il livello cognitivo, emotivo e anche corporeo del singolo, con forte impatto nella relazione con l’altro (paziente, colle-ga, team, comunità sociale ecc.).

Per sviluppare competenze narrative vengono dunque proposte at-tività di “osservazione incarnata”, di close reading (letture ravvicinate) e di reflective writing (scritture riflessive): esse consentono di allenare abilità della comunicazione (l’ascolto attento e profondo, il fare do-mande, il dare feedback), abilità dell’intelligenza emotiva e sociale (fra cui l’empatia) e abilità peculiari di una pratica clinica e educativa rifles-siva11. Le Medical Humanities, riconosciute come un dispositivo peda-gogico per mettere in dialogo le scienze mediche e le scienze umane, portano l’attenzione su una conoscenza derivante da un processo di costruzione di significati da diversi punti di vista (filosofico, sociolo-gico, antropologico, storico, psicologico, teologico, etico ecc.) attra-verso stimoli provenienti da letteratura, teatro, cinema, arti visive, ma anche dalle storie narrate e scritte da pazienti, operatori, caregiver, storie autobiografiche e non autobiografiche12.

Forse adesso risulta più chiara la scelta di offrire ai partecipanti del convegno attività didattiche in forma di laboratori, in cui hanno potu-to fare esperienza di narrazioni attraverso svariati registri, all’interno di uno o più dei seguenti obiettivi:• sviluppare capacità di stare con se stessi e con gli altri; • sviluppare abilità relazionali nei contesti di cura;• aumentare la propria consapevolezza rispetto alle proprie pre-

10 R. Charon, N. hermann, M.J. Devlin, Close Reading and Creative Writing in Clinical Education: Teaching Attention, Representation, and Affiliation, “Academic Medicine”, 20 (2015), pp. 1-6.11 G. Bolton, Reflective Practice. Writing and professional Development, Sage, London 2014.12 L. zannini, ‘Medical Humanities’ e Medicina Narrativa. Nuove prospettive nella formazione dei professionisti della cura, Cortina, Milano 2008; J. Shapiro et al., ‘Medical Humanities’ and their Discontents: Definitions, Critiques and Implications, “Academic Medicine”, 84 (2009), pp. 192-98.

comprensioni cognitive e pre-significazioni emotive rispetto all’og-getto del laboratorio;

• imparare a sospendere il giudizio e comunque a percepirne l’in-fluenza nel lavoro di cura;

• ampliare le chiavi di lettura dei contesti proposti nel laboratorio;• sviluppare capacità espressive e creative;• sviluppare capacità di analisi, riflessione, valutazione;• aumentare la motivazione a innovare e sperimentare;• accrescere la consapevolezza dell’indispensabilità della narrazione

di sé e dell’altro nel lavoro di cura;• comprendere l’importanza della cura di sé come atto propedeuti-

co alla cura dell’altro;• imparare dagli altri13.

Molti di questi obiettivi intersecano il programma delle Life Skills Edu-cation for Children and Adolescents in School-Program on Mental: esso è stato lanciato nel 1993 dall’OMS per segnalare quanto sia importante promuovere, nell’infanzia e nell’adolescenza, l’acquisizione di compe-tenze relazionali e sociali, necessarie a fronteggiare problemi e sfide del vivere e funzionali alla realizzazione di un’esistenza sana, ricca di soddi-sfazioni. Nel documento dell’OMS tali competenze vengono così elen-cate: decision making, problem solving, pensiero creativo, pensiero critico, comunicazione efficace, capacità di relazioni interpersonali, autoconsa-pevolezza, empatia, gestione delle emozioni, gestione dello stress14.

Dunque, come non suggerire di estendere questa educazione an-che nel mondo universitario, nei luoghi di cura in senso più ampio e nella forma del long life learning?15.

d) ConclusioniLa scelta della formula pedagogica del laboratorio narrativo-espe-

rienziale è stata dunque innovativa all’interno di un convegno e certo lo è anche nei setting educativi delle professioni sanitarie in generale.

13 Rinvio ancora al testo di Shapiro citato alla nota precedente, e a quello di Rotondi citato sopra, alla nota 4.14 P. Marmocchi, C. Dall’Aglio, M. zannini, Educare le ‘Life Skills’. Come promuovere le abilità psicosociali e affettive secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, Erickson, Trento 2009.15 S. Polvani, Cura alle stelle. Manuale di salute narrativa, Emmebi, Firenze 2016.

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È anche in qualche modo una sfida, in quanto di Medicina Narrativa non si può solo parlare e discutere: essa ha bisogno urgente di rice-vere applicazioni concrete nella relazione di cura, nel team di colleghi, nella cura di sé come professionisti e nella promozione della salute della comunità16.

Immergiamoci ora nella lettura dei testi che, attraverso le tappe di un viaggio fatto di parole, immagini, emozioni, gesti ed esperienze, ci racconteranno come concretamente diventare un po’ più esperti di narrazioni.

A conclusione del viaggio vi proporremo ancora alcune note sull’efficacia percepita da parte dei partecipanti rispetto ai vantaggi e rischi della Medicina Narrativa negli ambiti di cura, attraverso un’ana-lisi critica dei loro testi prodotti al termine del convegno stesso.

Buona lettura.

16 Charon, Narrative Medicine: the essential Role of stories in medical Education and Communi-cation, in AA.VV., Creative Dialogues. Narrative and Medicine, Lady Stephenson Library, New-castle (UK) 2015; L. Mortari, Aver cura della vita della mente, Carocci, Roma 2013.

Bibliografia• D.P. Ausubel, Educazione e processi cognitivi. Guida psicologica per insegnanti, tr. it.,

Franco Angeli, Milano 19888.• G. Bolton, Reflective Practice. Writing and professional Development, Sage, London

2014.• P. Cappello, Questa libertà, Rizzoli, Milano 2013, pp. 166-70.• R. Charon, Narrative Medicine. Honouring the Stories of Illness, Oxford University

Press, New York 2006, p. 4.• Ead., Narrative Medicine: the essential Role of Stories in medical Education and Com-

munication, in AA.VV., Creative Dialogues. Narrative and Medicine, Lady Stephen-son Library, Newcastle (UK) 2015.

• Ead., N. hermann, M.J. Devlin, Close Reading and Creative Writing in Clinical Edu-cation: Teaching Attention, Representation, and Affiliation, “Academic Medicine”, 20 (2015), pp. 1-6.

• L. Formenti (a c. di), Attraversare la cura. Relazioni, contesti e pratiche della scrittura di sé, Erickson, Trento 2009.

• D. Goleman, Lavorare con intelligenza emotiva. Come inventare un nuovo rapporto col lavoro, tr. it., Rizzoli, Milano 2000.

• P. Marmocchi, C. Dall’Aglio, M. zannini, Educare le ‘Life Skills’. Come promuovere le abilità psicosociali e affettive secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, Erickson, Trento 2009.

• L. Mortari, Aver cura della vita della mente, Carocci, Roma 2013.• S. Polvani, Cura alle stelle. Manuale di salute narrativa, Emmebi, Firenze 2016.• M. Rotondi, Facilitare l’apprendere. Modi e percorsi per un apprendimento di qualità,

Franco Angeli, Milano 20124, pp. 131-40.• J. Shapiro et al., ‘Medical Humanities’ and their Discontents: Definitions, Critiques and

Implications, “Academic Medicine”, 84 (2009), pp. 192-98.• S. Spinsanti, La medicina vestita di narrazione, Il pensiero scientifico, Roma 2016.• L. zannini, ‘Medical Humanities’ e Medicina Narrativa. Nuove prospettive nella formazione

dei professionisti della cura, Cortina, Milano 2008.

Sitografia• http://www.iss.it/binary/cnmr4/cont/Quaderno_n._7_02.pdf

NICOLETTA SuTERResponsabile Centro Attività Formative del CRO di Aviano

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Introduzione: le molte pratiche utili del narrare

Linda M. Napolitano Valditara

Nell’editare, ancora una volta, i 15 contributi riferentisi al quinto convegno dal titolo “Espressioni di cura. Medicina narrativa in onco-logia”, tenutosi al CRO di Aviano il 26 febbraio 2016, e nel confezio-nare un ‘libro’ che efficacemente li contenga, devo constatare quanto cammino si sia fatto dalla prima edizione1.

Nelle varie edizioni del convegno, come al concorso letterario che lo affianca, è stata, di anno in anno, anzitutto data voce a soggetti diversi, allargandone progressivamente la platea, e questa è la prima grande ricchezza che mi pare si sia acquisita nel tempo: medici, infermieri, volontari, pazienti, parenti e ‘teorici’ come sono io, una volta all’anno raccolti insieme, fra momenti di minuta analisi teorica e altri d’intenso coinvolgimento emotivo, a monitorare ed esplorare quest’unico og-getto comune della Medicina Narrativa.

Rispetto allo standard ormai classico della sua applicazione – che fa carico al curante di acquisire skill narrative per ottimizzare il rapporto diagnostico e terapeutico col paziente – abbiamo quindi imparato come la Medicina Narrativa sia in realtà declinabile da prospettive diverse ma con identica utilità2. Sono le prospettive dei molti soggetti coinvolti in

1 ho avuto l’onore di curare io stessa gli atti delle quattro edizioni precedenti: un lavoro non sempre facile, dal quale nondimeno ho imparato molto. Cfr. dunque: Leggiamoci con cura: scrittura e narrazione di sé in medicina, I edizione, Aviano 16 settembre 2011, Centro di Riferimento On-cologico, Aviano 2012 (14 contributi); e, con lo stesso titolo, la II edizione, Aviano 12 ottobre 2012, Centro di Riferimento Oncologico, Aviano 2013 (11 contributi); la III edizione, Aviano 24 ottobre 2013, Centro di Riferimento Oncologico, Aviano 2014 (18 contributi), e la IV edizione, Aviano 13 novembre 2014, Centro di Riferimento Oncologico, Aviano 2016 (14 contributi).I contributi sono stati perciò, finora, in totale, 57; e, coi 15 di questa edizione, fanno 72.2 Lo rileva, in questo stesso volume, Sandro Spinsanti nel suo contributo Narrazioni in medicina: paradossi e sinergie, mostrando come la Medicina Narrativa non si declini affatto “al singolare” ma “al plurale” (romanzi di malattia, “racconti del dolore” e narrazioni emergenti nel rapporto medico-paziente) e come le diverse declinazioni tutte contribuiscano a far comprendere il fenomeno – questo sì, sempre singolare – della malattia.

III.2 una storia di malattia e di cura: tutte queste differenti voci sono utili a dare concretezza e sostanza a una medicina che voglia essere davvero centrata sul paziente (patient centered) e rispondente al ben noto para-digma bio-psico-sociale. Perché di fatto molti sono gli implicati in una storia di malattia, in ruoli e da punti di vista differenti, e l’integrazione delle loro voci, l’intreccio delle loro storie riesce a dare solido corpo a quella comunità di cura senza di cui nessuna vicenda di malattia evolve in modo positivo: dove, per parlare di ‘evoluzione positiva’, continuo a credere laterale, benché ovviamente auspicabile, poter far scorrere i titoli di coda dietro a un lieto fine, ma centrale – com’è in realtà diritto di ogni curato e dovere di ogni curante – aver la ragionevole certezza che la cura prestata sia (o sia stata) la più efficace e la più umana possibile.

L’integrazione in parola, di prospettive e competenze disciplinari diverse, è importante anche per un’altra ragione: perché ancora trop-po poco, negli ambiti della ricerca scientifica e delle successive diverse forme di cura, si è allenati a interagire tra figure specialistiche differenti e da prospettive diverse. Mentre, come di recente e autorevolmente si è notato, la medicina del futuro esigerà sempre più questa capacità d’integrazione: “la declinazione pratica di questo ‘sapere’ complesso ri-chiede l’apporto indispensabile e insostituibile di tante figure professio-nali sanitarie assai diversificate, che vanno molto oltre quelle classiche del farmacista, dell’infermiera e dell’ostetrica […] [mentre] c’è […] una chiara difficoltà a comunicare con medici appartenenti a specialità diverse […] la nostra generazione comincia ad avere solo adesso l’espe-rienza delle relazioni tra professioni diverse nella cura dei pazienti”3.

3 L. Vettore, G. Delvecchio, Dottori domani. Storie, dialoghi e riflessioni per una nuova educa-zione alle cure, Delfino, Roma 2016, p. 47, corsivo mio.Un’analoga difficoltà, devo dire, percepisco anche nel mio campo disciplinare, quello delle scienze umanistiche, dove sempre più micro-parcellizzato è l’impegno scientifico richiestoci (siamo divisi in Settori Scientifico Disciplinari, o SSD, dai quali non possiamo uscire pena lo scarso o nullo riconoscimento dei ‘prodotti’ della nostra ricerca): al contrario, l’interdiscipli-narietà in ogni ambito arricchisce i quadri di riferimento e concretizza i problemi affrontati. Com’è difficile che il lavoro di un chirurgo ortopedico riesca bene senza un ‘dialogo’ con l’anestesista e il fisioterapista, così il lavoro di uno storico della filosofia antica, come sono io, è certamente arricchito dallo scambio con uno storico dell’arte greca o della letteratura antica e il lavoro educativo (anch’esso lavoro di cura) è facilitato dalla collaborazione con pedagogisti e psicologi.

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Come abbiamo imparato, la Medicina Narrativa può e deve infat-ti avere un impiego non soltanto per migliorare la qualità della vita del paziente, non solo per rendere più efficace la sua interazione col curante, ma anche per migliorare le condizioni nelle quali il curante stesso eroga il suo lavoro, con motivazioni chiare e costantemente rinforzate e ribadite, con una capacità sempre migliore d’interagire col suo curato, come di lavorare in team con i colleghi ed entro la struttura che ne ospita l’attività.

Un secondo elemento di grande ricchezza emerge soprattutto da questo convegno, dove si è mirato non tanto e non solo, come nel-le altre occasioni simili, ad approfondire teoricamente che cosa sia la Medicina Narrativa, perché essa abbia senso, a quale fine operi e facendo perno su quali competenze (razionali ed emozionali) dei soggetti siano in essa implicati, ma si è voluto concretamente provare a operare per suo tramite, allestendo i laboratori dei quali la parte III di questo libro dà conto: il fine era quello di far fare ai partecipanti al convegno un’esperienza concreta dell’applicazione – su se stessi e a loro stesso vantaggio – della narrazione in medicina.

E qui devo confessare che il giorno del convegno, dopo aver letto i titoli dei laboratori allestiti dai miei colleghi (da Daniele Bruzzo-ne sull’uso delle immagini a Marco Dalla Valle sulla biblioterapia, da Lorenza Garrino sui film di malattia a Nicoletta Suter sulla scrittura autobiografica e Patrizia Rigoni sulla poesia), avrei volentieri lasciato la conduzione del mio laboratorio di pratiche filosofiche per andare a seguire i ‘loro’ laboratori e imparare da essi: tutti erano stimolanti e interessanti, tutti suscitavano la mia curiosità. Ma moltissimo ho im-parato non solo dai partecipanti al ‘mio’ laboratorio (che ovviamente non ho lasciato), ma anche, adesso, dai contributi che seguono, dalla restituzione per iscritto di quanto, nei vari laboratori, quel giorno, in contemporanea – sforzo organizzativo non da poco, grazie al perso-nale del CRO – si è provato a fare.

Incomprensibile a molti è, perciò, la mia posizione scientifica, di storica della filosofia antica, interessata addirittura alla Medicina Narrativa… Non posso che rinviare, per fondarla e illu-strarla, ai vari contributi da me proposti nei volumi citati alla nota 1.

Del taglio e valore pedagogico dei laboratori rende conto, certo meglio di me, Nicoletta Suter nella sua Introduzione, come di nuovo lei e Ivana Truccolo riflettono, alla fine della parte III, su quanto emerge del gradimento che i laboratori stessi hanno indotto nei partecipanti al convegno4. Io vorrei, qui, fare una considerazione diversa, a pro-posito di quello mi pare si possa chiamare l’oggetto o lo strumento narrativo e il suo uso.

Nei laboratori sono stati impiegati oggetti e strumenti narrativi fra loro diversi, ma nondimeno ricorrenti: immagini (da Bruzzone e da me), pellicole cinematografiche (da Garrino), poesie (da Rigoni), testi let-terari (da Dalla Valle e Suter) e perfino la scrittura autobiografica (da Suter e in parte anche da me). Può apparire a prima vista sconcertan-te e perfino segno di scarsa chiarezza d’idee che, in laboratori di Me-dicina Narrativa diretti a professionisti della cura, si possano impiega-re strumenti fra loro così differenti (per quale ragione mai, poi, sono reputati, tutti e alla pari, strumenti narrativi?); oppure, al contrario, che lo stesso strumento possa essere utilizzato in laboratori diversi. Se è facile chiarire che tutti questi sono strumenti narrativi perché raccontano, seppure per tramiti differenti, una storia, nella quale il destinatario può ritrovare la propria stessa storia e iniziare perciò, da lì, a riflettervi sopra, qualcuno potrebbe però eccepire “questo l’ho già visto usare in un altro laboratorio” e intendere come un arrampi-carsi sugli specchi l’uso del medesimo strumento (il brano letterario o l’immagine) in laboratori che pure s’intitolano differentemente. Mi pare, nondimeno, che un rilievo simile non sia stato fatto dai 110 par-tecipanti a questo convegno: e forse è già questo un buon risultato.

La cosa interessante da precisare in proposito, prima di provare a ragionare sul perché un simile uso sia non solo legittimo, ma una vera e propria risorsa della Medicina Narrativa, è che i conduttori dei laboratori sono stati contattati dal CRO individualmente, ognuno sulla base di esperienze e competenze maturate nel tempo, e che non c’è stato, prima del convegno, alcuno scambio fra noi e alcun confronto

4 Cfr. N. Suter, I. Truccolo, Benefici e rischi della Medicina Narrativa: il punto di vista dei par-tecipanti al convegno, dove sono state esaminate le 440 risposte date dagli iscritti al convegno ai quesiti loro proposti.

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su quanto ciascuno nel proprio laboratorio avrebbe allestito5. Noi or-ganizzatori e conduttori dei laboratori ci siamo visti e confrontati solo nel briefing finale, prima della chiusura del convegno, e provenivamo del resto da percorsi formativi e professionali, come da esperienze in Medicina Narrativa, anche molto differenti fra loro; di tale percorso ciascuno ha reso in qualche modo conto, su mia richiesta, qui, nel suo contributo scritto.

Ora, il fatto che, senza accordi preliminari, tutti ci si sia orientati a scegliere strumenti simili dovrebbe essere una garanzia sulla comune base tecnico-pratica della Medicina Narrativa: le pratiche del narrare sono quelle ed esattamente quelle, ed è a esse (immagini, film, racconti, po-esie, diari) che ci si affida in una formazione all’uso della relazionalità narrativa. Gli strumenti per indurre abilità e competenze a un approc-cio narrativamente esperto – con se stessi, coi pazienti, coi colleghi – di fatto sono quelli6.

Questa base tecnico-pratica, questi – come li chiamerebbe l’amico Dalla Valle – ‘attrezzi del mestiere’, pure comuni, non possono però essere impiegati in modo tecnicamente predeterminato e rigido: ogni conduttore può aver maturato esperienze personali diverse nel loro uso, può avere in merito una diversa preparazione teorica e addirittu-ra una diversa sensibilità personale rispetto alla loro gradevolezza ed efficacia. Nello strumento narrativo che usa, quale che sia, il condut-

5 A onor del vero uno scambio fra il biblioterapista Marco Dalla Valle e me c’è stato, se non altro perché, a Verona, con-dirigiamo, con altri, lo stesso Centro di ricerca, “Asklepios. Filosofia, cura, trasformazione” presso il Dipartimento Universitario di Scienze Umane: nondimeno lo scambio si è dovuto limitare, per mancanza di tempo, solo ad alcune informazioni base. La collaborazione fra Marco e me è comunque consolidata da altre attività svolte insieme negli ultimi anni, aventi sempre come focus l’impiego della MN e della biblioterapia.6 Al Convegno è stato allestito anche un Laboratorio teatrale, da Franca Tragni e Luisella Notari, dal titolo Maneggiami con cura: esperienza di laboratorio teatrale sul ‘prendersi cura’: di esso purtroppo non abbiamo qui una restituzione in un contributo scritto e il confronto è perciò, a posteriori, impossibile.Particolare strumento narrativo è, naturalmente, anche quello dell’esecuzione musicale: in parte l’ho utilizzato io nel mio Laboratorio (le campane tibetane), ma rinvio, in merito, p.es. all’attività dei Donatori di Musica, “rete di musicisti, medici e volontari, nata nel 2009 per re-alizzare e coordinare stagioni di concerti negli ospedali. L’esperienza emotiva e umana dell’a-scolto della musica dal vivo è un diritto di tutti, e in particolare di chi si trova ad affrontare situazioni critiche” (cfr. www.donatoridimusica.it). Nel 2016 sono stati realizzati 77 concerti negli ospedali italiani.

tore deve comunque credere lui per primo: solo così l’uso di esso sarà davvero efficace. E tale circostanza segnala un tratto importante, cioè che nessuno degli organizzatori-conduttori di un laboratorio di Medi-cina Narrativa può utilizzare uno strumento narrativo la cui presa, pri-ma, egli non abbia rilevato su di sé: questa immagine, questo film, questa poesia, questo brano letterario mi coinvolge, mi induce a pensare, su di me e sulla mia vita, e dunque credo e spero, raccontandotelo, che esso possa coinvolgere e far pensare anche te.

Inoltre, ed è questo l’aspetto più difficile, qui non si trattava sempli-cemente – come di solito si fa in un laboratorio – d’insegnare a ripetere meccanicamente la sequenza dei gesti necessari per praticare un’inie-zione endovenosa, per applicare un catetere o per imparare a usare un nuovo programma informatico: qui si trattava di utilizzare strumenti che inducano, nei destinatari, una postura nuova, una nuova maniera di disporsi dinnanzi a se stessi e agli altri, quella appunto, per dirla con Rita Charon, fondatrice della Medicina Narrativa, che “rende onore” alle storie. E al-lora, gli strumenti narrativi utili a far questo, benché siano di fatto quelli ricorrenti già richiamati, possono essere diversi, diversamente impiega-bili e perfino ibridabili, cioè mescolabili uno con l’altro (nel mio labora-torio ho usato l’immagine, la scrittura autobiografica e la lettura ad alta voce di testi letterari): del resto, nessuno dei conduttori sapeva, prima, a quale tipo di uditorio si sarebbe trovato a rivolgersi, quale preparazione ed esperienza di partenza, e dunque quale aspettativa, avrebbero avuto i partecipanti. Perciò ciascuno si è orientato su ciò che riteneva più effica-ce secondo la propria competenza e sensibilità personale e i partecipanti stessi hanno segnalato il loro maggiore o minore gradimento rispetto allo strumento narrativo di volta in volta impiegato.

La flessibilità e duttilità di cui sto parlando non significa però im-provvisazione; chi porta e condivide storie è dunque sempre in cam-mino, naviga per così dire sempre in mare aperto: ma questo non è per nulla un limite, bensì una straordinaria ed entusiasmante risorsa, che, quando si provi ad applicarla, credo affini l’elasticità mentale e la creatività necessarie per vivere. Cosa che nessuna semplice tecnica, da impiegare meccanicamente, saprebbe fare.

Io stessa ho imparato che non con tutti i destinatari si possono usare i medesimi strumenti narrativi e che anzi essi vanno scelti certamente

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rispetto al campo disciplinare e specialistico dei destinatari stessi: è im-possibile formare alla Medicina Narrativa nello stesso modo degli ope-ratori di hospice, il personale di una struttura come il CRO di Aviano o quello, per esempio, di un centro per la riabilitazione…

D’altra parte, costruire e consolidare una postura narrativamente esperta non è qualcosa che si possa concludere in due ore: i labora-tori del febbraio 2016 sono perciò dei semplici ‘assaggi’ di quello che un’educazione costante nel campo della Medicina Narrativa indur-rebbe nei destinatari (operatori sanitari, ma anche in chiunque lavori su di sé e per sé con la narrazione). E il corale gradimento di questa formula da parte dei partecipanti al convegno, con la matura consa-pevolezza anche dei rischi e limiti applicativi della Medicina Narrativa, conferma che forse non solo un’unica esperienza di laboratorio, ma dei corsi laboratoriali otterrebbero e davvero consoliderebbero i ri-sultati che il Ministero della Salute auspica vengano raggiunti tramite un’applicazione della Medicina Narrativa stessa7.

Quindi, nonostante tutto e il non poco già fatto, certamente c’è ancora molto da fare.

7 Cfr. http://www.iss.it/binary/cnmr4/cont/Quaderno_n._7_02.pdf

Bibliografia• Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina, Atti del convegno I,

Aviano 16 settembre 2011, a c. di L.M. Napolitano Valditara, Centro di Riferi-mento Oncologico, Aviano 2012.

• Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina, Atti del convegno II, Aviano 12 ottobre 2012, a c. di L.M. Napolitano Valditara, Centro di Riferimento Oncologico, Aviano 2013.

• Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina, Atti del Convegno III, Aviano 24 ottobre 2013, a c. di L.M. Napolitano Valditara, Centro di Riferimento Oncologico, Aviano 2014.

• Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina, Atti del Convegno IV, Aviano 13 novembre 2014, a c. di L.M. Napolitano Valditara, Centro di Riferi-mento Oncologico, Aviano 2016.

• L. Vettore, G. Delvecchio, Dottori domani. Storie, dialoghi e riflessioni per una nuova educazione alle cure, Delfino, Roma 2016.

Sitografia• http://www.iss.it/binary/cnmr4/cont/Quaderno_n._7_02.pdf

LINDA M. NAPOLITANO VALDITARAProfessore Ordinario di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Verona, studiosa di Medicina Narrativa

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La cura nello sguardo: arti figurative e scrittura

Daniele Bruzzone

Ci sono pochissimi occhi in cui esiste lo sguardo.Alberto Giacometti

Lo scopo delle Medical Humanities è quello integrarsi alla formazio-ne scientifica e tecnica dei professionisti della salute1: ciò allo scopo di prevenire e contrastare quelle modalità dell’agire – e, ancor prima, del pensare e del sentire – che minacciano di “dis-umanizzare” i luoghi della cura e di sottrarre al rapporto terapeutico la sua valenza etica e la sua matrice affettiva2. Per non smarrire e, anzi, affinare la sensibilità, l’attitudine relazionale, la capacità comunicativa ed empatica, che con-sentono di mettere in atto un’etica della cura davvero adeguata alla dignità delle persone, è indispensabile offrire a coloro che quotidiana-mente sono a contatto con situazioni di vulnerabilità e di sofferenza saperi e strumenti che li aiutino, da un lato, a non incorrere nell’affa-ticamento emotivo che l’inevitabile coinvolgimento talvolta produce e, dall’altro, a non cedere ai meccanismi difensivi del distacco e del cinismo che non di rado rischiano di privare i pazienti di ciò che è loro più necessario: la comprensione e la solidarietà di chi si prende cura di loro.

a) Rimanere esseri umaniSul frontespizio dell’antico edificio che ospitava l’Allgemeine Kran-

kenhaus di Vienna, per volere dell’imperatore Giuseppe II, fu scolpita all’atto della sua inaugurazione (1784) un’iscrizione che recita: “Saluti

1 L. zannini, Medical humanities e medicina narrativa. Nuove prospettive nella formazione dei professionisti della cura, Franco Angeli, Milano 2008.2 V. Iori (a c. di), Quando i sentimenti interrogano l’esistenza. Orientamenti fenomenologici nel lavoro di cura, Guerini, Milano 2006; D. Bruzzone, E. Musi (a c. di), Vissuti di cura. Competenze emotive e formazione nelle professioni sanitarie, Guerini, Milano 2007.

III.3 et solatio aegrorum”, dedicando cioè l’ospedale non solo alla guarigione, ma anche alla consolazione dei malati. Il dottor Viktor Frankl, che per oltre venticinque anni era stato il primario del reparto di Neurologia e Psichiatria del policlinico viennese, nel corso di un’intervista, cercando di riassumere il senso della sua vocazione terapeutica, diceva: “Volevo essere un buon medico, non un cattivo medico. E, soprattutto, volevo ciò nonostante rimanere un essere umano. Ci sto ancora provando”3. Il fatto stesso che un medico (tra i più noti del secolo scorso) possa ammettere il timore di perdere la propria umanità suggerisce che nel paradigma della medicina come scienza naturale si cela la possibilità (forse estrema, ma non remota) di smarrire la sua essenza originaria: quella, cioè, di un sapere che scaturisce dall’umana compassione.

Certo com-patire significa, almeno in parte, com-partire la sofferen-za dell’altro. Ed è proprio per evadere da questa inquietudine che la scienza tende, invece, a “oggettivare” ciò che vede. Non a caso, il principio fondamentale del metodo galileiano consiste nell’osservazio-ne. Beninteso: osservazione neutrale. Se questo sguardo si applica alla medicina, il suo oggetto non può che essere un corpo-cosa (Körper), un meccanismo che si “guasta” e si può riparare, non certo il corpo-esistenza (Leib), una vita cioè che sempre racchiude una coscienza e un progetto di sé4.

Il dipinto di Rembrandt La lezione di anatomia del dottor Tulp (1632), commissionato allora dalla Gilda dei Medici di Amsterdam, rappresen-ta bene il procedimento oggettivante della scienza: quello che l’illustre cerusico disseziona e mostra ai discepoli non è (o non è più) una per-sona, con una sensibilità, una vita emotiva, una storia da raccontare, ma solo una macchina o un apparato il cui funzionamento dipende dalle leggi della fisica e della biologia. Si tratta di una lezione: pertanto il dottore ha qualcosa da spiegare (Erklären); ciò che sfugge agli astanti

3 The Choice is Yours. The Life and Philosophy of One of the World’s Greatest Psychiatrists: Viktor Frankl, MD, PhD., a film directed by R. Yorkin Drazen, American Board of Internal Medicine Foundation, Philadelphia 2001. Per approfondimenti, si rinvia a D. Bruzzone, Viktor Frankl. Fondamenti psicopedagogici dell’analisi esistenziale, Carocci, Roma 2012.4 Il merito di aver ripristinato la dimensione esistenziale della corporeità, superando il dualismo cartesiano di res cogitans e res extensa, spetta in particolar modo alla fenomenolo-gia, a partire da E. husserl, Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 2002. Per una più ampia contestualizzazione storico-filosofica, cfr. U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2013.

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(tutti peraltro intenti a scrutarlo da vicino) è che dinanzi a loro c’è an-che qualcuno da comprendere (Verstehen)5. Non importa, alla scienza, l’identità o la storia di quel corpo (il volto è volutamente lasciato in ombra dall’artista); anzi: ciò che eccede la pura osservazione oggettiva viene intenzionalmente escluso.

Come in un altro quadro famoso, Ciencia y caridad (1897) che un giovanissimo Pablo Picasso dipinge a Barcelona, in piena temperie po-sitivista: dove un medico, ritratto nell’atto di misurare le pulsazioni cardiache, ha un contatto fisico con la paziente, ma a ben vedere non intrattiene con lei alcuna relazione (non si guardano, probabilmente non si parlano neppure); l’attenzione della donna, anzi, è tutta rivolta dall’altra parte del capezzale, dove una religiosa infermiera tiene in braccio il suo bambino. Forse l’artista vuole sottolineare che quella donna, benché sia un’ammalata, non ha smesso di essere una madre (chi si occupa di questa sua dimensione esistenziale, che trascende la sua condizione clinica?) e che, separando la scienza dalla carità, la competenza tecnica da quella emotiva, si finisce per disumanizzare inesorabilmente la cura. L’assenza di dialogo è, qui, anzitutto l’assenza di uno sguardo capace di vedere l’altro nella sua sofferenza più profonda; e viceversa: l’incapacità di vedere preclude ogni comunicazione che non sia puramente strumentale.

b) La cura ha inizio dallo sguardoIl lavoro di cura, dunque, ancor prima di tradursi in parole chia-

rificatrici o in gesti efficaci, esige l’esercizio dello sguardo6. È infatti, prima di tutto, in un determinato modo di vedere (o di non vedere) che si decide della qualità della relazione terapeutica. E poiché la cura inizia dallo sguardo, non è possibile non interrogarsi su quale cura dello sguardo debba avere il professionista, per non perdere di vista

5 L’opposizione metodologica tra spiegazione e comprensione, sviluppata nella seconda metà dell’Ottocento per distinguere le scienze naturali (Naturwissenschaften) dalle scienze umane (Geisteswissenschaften), è stata poi ripresa emblematicamente da K. Jaspers, Psicopato-logia generale, tr. it., Il pensiero scientifico, Roma 2000. 6 Per ulteriori approfondimenti sulla fenomenologia dello sguardo e degli altri sensi, si veda D. Bruzzone, L’esercizio dei sensi. Fenomenologia ed estetica della relazione educativa, Franco Angeli, Milano 2016.

l’esistenza e la dignità ferita7 che si trova dinanzi, riducendola magari a qualcosa di meramente oggettivo e fattuale.

Sotto questo profilo, l’impiego dell’arte figurativa nell’ambito delle Medical Humanities e della Medicina Narrativa può rappresentare una risorsa preziosa per educare lo sguardo a cogliere l’essenziale, a ritrova-re genuinità e trasparenza al di là del pre-giudizio scientifico, a lasciarsi interrogare da ogni paziente e da ogni situazione come da qualcosa di nuovo e irriducibile, invece di considerarlo (con una certa miopia) semplicemente come l’ennesimo “caso” di una categoria di fenome-ni perlopiù già noti. Se l’altro è un soggetto, d’altronde, non posso ridurlo a un oggetto (di conoscenza, di intervento) ma solo entrare con lui in uno scambio inter-soggettivo. In certo qual modo, l’opera d’arte – nella misura in cui non è una mera rappresentazione oggetti-va, ma contiene in sé un’intenzionalità – ci obbliga a questo esercizio di decentramento: mentre la guardiamo, essa ci ri-guarda. Esattamente come la presenza umana: inclusa quella del paziente, che non è sempli-cemente un altro-da-me, ma in certa misura è anche un altro-me. La sua situazione è, almeno potenzialmente, anche la mia (e senza questa comunanza probabilmente il gesto di cura non sorgerebbe); sicché nel suo destino ne va anche di me stesso.

c) Un laboratorio di immagini e narrazioniIl potenziale pedagogico dell’utilizzo dell’arte figurativa è corrobo-

rato dalle ricerche neurofisiologiche, che dimostrano come il cervello processi in modo più veloce e incisivo le immagini rispetto ad altri sti-moli sensoriali (ad esempio uditivi) e come il potere strutturante delle sollecitazioni figurative sia più profondo e pervasivo di quelle verbali8. Poiché, poi, le immagini stimolano risposte empatiche tramite l’attiva-zione dei neuroni specchio, esse appaiono più efficaci nel determinare scelte e comportamenti. Inoltre, certi tipi di immagini paradossali o ambivalenti (come quelle adottate in questo laboratorio) si prestano a

7 S. Moravia, L’esistenza ferita, Feltrinelli, Milano 1999; E. Borgna, La dignità ferita, Feltrinelli, Milano 2013.8 G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Cortina, Milano 2006.

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sollecitare la dimensione cognitiva nella forma della riflessività e della ricerca di senso9. Se associato alla pratica della scrittura, pertanto, l’u-so dell’opera d’arte come situazione-stimolo può contribuire all’affina-mento di quella capacità di attenzione e di quell’attitudine interrogativa che dello sguardo costituisce, in un certo senso, l’anima. La narrazione, infatti, specie quando associata alla dimensione estetica, rappresenta un potente veicolo formativo10.

Nel corso del laboratorio si sono proposti allo sguardo dieci dipin-ti di René Magritte (1898-1967):• Il seduttore (1953)• La firma in bianco (1965)• La riproduzione vietata (1937)• L’impero delle luci (1953-1954)• Il donatore felice (1966)• Chiaroveggenza (1936)• La risposta imprevista (1933)• La battaglia delle Argonne (1959)• La vittoria (1939)• La riconoscenza infinita (1963)

La scelta dell’autore è dovuta essenzialmente a una caratteristica delle sue opere che le rende particolarmente adatte a questo tipo di attività formativa: ognuno dei suoi quadri, infatti, contiene un parados-so, un elemento che contraddice il senso comune e, quindi, implicita-mente, sollecita una domanda. Non per nulla Magritte è ritenuto uno tra i maggiori esponenti del Surrealismo, il cui intento artistico non è di tipo mimetico o descrittivo, bensì simbolico e metafisico: non alla real-tà esterna, dunque, si rivolge l’artista, bensì a quella onirica e inconscia.

Si è chiesto ai partecipanti di esercitare per alcuni minuti su ciascu-na immagine proiettata uno sguardo riflessivo: non tanto, cioè, un’in-

9 Esiste un’ampia letteratura sull’esercizio dell’arte figurativa (pittura, scultura, cinema, fotografia, fumetto ecc.) come metodo per l’autoespressione. Poiché, però, l’obiettivo era in questo caso l’esercizio dello sguardo, l’arte non è stata usata come linguaggio espressivo (in senso pratico-poietico) ma essenzialmente come interlocutore di un dialogo possibile (in senso, dunque, squisitamente contemplativo).10 M. Dallari, La dimensione estetica della paideia. Fenomenologia, arte, narratività, Erickson, Trento 2005; M. Castiglioni (a c. di), Figure della cura. Gesti, immagini, parole per narrare, Guerini, Milano 2015.

tenzione interpretativa (“Secondo me, questo quadro significa…”), bensì un’interrogazione quasi autobiografica (“Questo quadro suscita in me…”, oppure “Questo quadro mi fa pensare a…”). Lo scopo, del resto, non era svelare un messaggio implicito né, tanto meno, decifra-re l’intenzione dell’artista, bensì lasciarsi interrogare dall’opera d’arte e cercarvi un nesso con la propria esperienza della cura.

Questo tipo di sguardo, più intimo e soggettivo, meno definitivo (o definitorio), somiglia maggiormente allo sguardo fenomenologico, che lo psichiatra Ludwig Binswanger assimila a quello dell’artista che “vede” nel paesaggio che ritrae non il paesaggio in sé, ma la relazione che esso instaura con la vita di chi lo osserva:

Quando van Gogh dipinge un albero frustato dal vento o un campo di gra-no, vede nell’albero non l’albero singolo, strutturato in un certo modo, bensì, come egli stesso scrive, “un dramma”; nel grano nuovo, non i singoli steli, bensì “qualcosa di indicibilmente puro e mite […] che suscita una commozio-ne analoga a quella suscitata per esempio dall’espressione di un bambino dor-miente”. Egli vede perciò uno stesso fenomeno nell’albero in lotta col vento e nel destino dell’uomo (un dramma), uno stesso fenomeno (la purezza, la dolcezza) nel grano nuovo e nel bambino dormiente. […] Non si tratta di un vedere con gli occhi, eppure si tratta di una presa di coscienza immediata, di un “vedere dentro” che non ha nulla da invidiare alla conoscenza sensoriale11.

Per ogni dipinto ciascun partecipante ha fissato per iscritto, di get-to, il pensiero o il ricordo o la sensazione che gli ha suscitato: una frase, un breve racconto, un verso, una singola parola. Al termine, per ogni quadro proposto, i partecipanti hanno condiviso le diverse im-pressioni e scritture, al fine di evidenziare la molteplicità degli sguardi e quindi dei significati di cui un “oggetto” apparentemente identico è suscettibile. Ne è risultata una sorta di scrittura collettiva che, nel suo insieme, rappresentava l’intero: ciò che, nella parzialità del suo “punto di vista”, nessuno poteva cogliere in modo esaustivo.

11 L. Binswanger, Sulla fenomenologia [1923], in L. Binswanger, A. Warburg, La guarigione infinita. Storia clinica di Aby Warburg, tr. it., Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 260-61 (il riferimento è alla Lettera n. 242 di van Gogh al fratello Theo del 5 novembre 1882).

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d) Il significato dell’esperienzaAl termine del tempo dedicato all’esercitazione, è stato chiesto

a ogni partecipante di esprimere liberamente il “guadagno” tratto dall’esperienza laboratoriale: a che cosa può servire l’esperienza este-tica nella formazione continua di un operatore sanitario? In che cosa può aiutarlo la contemplazione di un’opera d’arte, nelle diverse forme in cui si offre allo sguardo?

Il riscontro dei partecipanti restituisce la ricchezza delle diverse sensibilità presenti, ma conferma anche in modo sostanzialmente uni-voco la potenzialità del metodo. Pressoché tutti hanno trovato l’e-sperienza “stimolante e creativa” e perfino “illuminante” e ne hanno tratto un invito a “fermarsi a guardare con occhi diversi, più consa-pevoli e coscienti”, a “riabilitare l’occhio all’esercizio dello sguardo” e a “educare il modo di guardare”, a valorizzare “la molteplicità dei punti di vista”, a “collegare mente, cuore e corpo” e a “osservare le persone nella loro totalità”, ma anche a “guardare con attenzione dentro se stessi e gli altri” e a “riconoscere le proprie emozioni e i propri vissuti”.

Accostando l’arte come occasione di introspezione e di condivi-sione, alcuni hanno sperimentato la possibilità di riscoprire il prima-to del corpo e dei sensi rispetto alla logica e al pensiero, trovandovi “un modo straordinario di sovvertire il mentale”; altri vi hanno colto l’urgenza di “avvicinarsi al punto di vista dell’altro” “con lo sguardo attento che è in grado di cogliere anche un particolare”, o l’esigenza di apprendere “l’arte di perder tempo” come premessa indispensabile alla conoscenza dell’altro, o l’auspicio di “cambiare atteggiamento nei confronti di coloro con cui abbiamo a che fare nel lavoro”, cercando di “guardare con più attenzione e meditazione” ciò che a volte si dà per scontato e imparando a “vedere con altri occhi qualcosa che ci cammina accanto ogni giorno e per colpa del tempo o dell’incuria non ce ne accorgiamo”. Ne emerge, per un verso, l’esigenza di prestare “maggiore attenzione verso le persone in generale e in particolare verso i pazienti” e di “considerare che lo sguardo dell’altro potrebbe non vedere allo stesso modo la stessa cosa”, ma anche, d’altro canto, “l’importanza della pazienza” per capire veramente, del saper “guar-dare con cura” e “con occhi curiosi”, del “non accontentarsi delle

apparenze” e dell’“andare oltre le categorie e i pregiudizi”. Ma, in fin dei conti, questa è stata per tutti un’occasione per sottolineare l’im-portanza di “guardarsi dentro”, che forse è il requisito più significativo di chi fa un lavoro di cura. Perché forse soltanto chi è capace di avere un contatto profondo con se stesso può entrare in contatto con l’altro in modo autentico e non superficiale.

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Bibliografia• L. Binswanger, A. Warburg, La guarigione infinita. Storia clinica di Aby Warburg, tr.

it., Neri Pozza, Vicenza 2005.• E. Borgna, La dignità ferita, Feltrinelli, Milano 2013.• D. Bruzzone, Viktor Frankl. Fondamenti psicopedagogici dell’analisi esistenziale, Ca-

rocci, Roma 2012.• D. Bruzzone, L’esercizio dei sensi. Fenomenologia ed estetica della relazione educa-

tiva, Franco Angeli, Milano 2016.• D. Bruzzone, E. Musi (a c. di), Vissuti di cura. Competenze emotive e formazione

nelle professioni sanitarie, Guerini, Milano 2007.• M. Castiglioni (a c. di), Figure della cura. Gesti, immagini, parole per narrare, Guer-

ini, Milano 2015.• M. Dallari, La dimensione estetica della paideia. Fenomenologia, arte, narratività, Erickson,

Trento 2005.• U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2013.• E. Husserl, Meditazioni cartesiane, tr. it., Bompiani, Milano 2002.• V. Iori (a c. di), Quando i sentimenti interrogano l’esistenza. Orientamenti fenomeno-

logici nel lavoro di cura, Guerini, Milano 2006.• K. Jaspers, Psicopatologia generale, tr. it., Il pensiero scientifico, Roma 2000.• S. Moravia, L’esistenza ferita, Feltrinelli, Milano 1999.• G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio,

Cortina, Milano 2006.• L. Zannini, Medical humanities e medicina narrativa. Nuove prospettive nella formazione

dei professionisti della cura, Franco Angeli, Milano 2008.

DANIELE bRuZZONEProfessore Associato di Pedagogia generale e sociale, Facoltà di Scienze della Formazione, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

Curarsi con i libri: laboratorio di biblioterapia

Marco Dalla Valle

a) I libri al centroDefinire in modo esaustivo la biblioterapia è complicato. Molti au-

tori hanno provato a formulare una definizione soddisfacente affinché fosse chiaro a che cosa essa serve e come agisce. Fra le tante, che nei diversi campi sono state enunciate, alcune di queste definizioni posso-no dare un’idea di ciò che si intende per biblioterapia: • è una famiglia di tecniche per strutturare l’interazione tra il facilitato-

re e un partecipante, basandola sulla condivisione della letteratura;• è uno strumento che può essere usato per promuovere la salute

attraverso i libri;• è il processo di crescita verso uno stato di buona salute emotiva

attraverso la mediazione della letteratura;• è l’uso dei libri per aiutare le persone a risolvere i problemi;• è l’uso della lettura guidata per aiutare il lettore a crescere nella

consapevolezza di sé e per aiutare a pensare alla propria situazione particolare attraverso l’indagine critica1;

• è l’utilizzo creativo e ragionato con l’obiettivo di favorire il benes-sere della persona2.

Al centro del metodo scelto per il laboratorio svolto al CRO stanno, quindi, i libri: ma come spiegare le potenzialità e i meccanismi di funzio-namento di questo strumento, che ha sì una storia lunghissima, ma che in questo caso veniva usato in modo nuovo? Perché tutti i partecipanti trovassero il ‘passo’ giusto, il laboratorio ha fatto, inevitabilmente, un uso dei libri non tradizionale, ma molto vicino alla pratica stessa, crean-

1 C.E. Johnson et al., “Booking It” to peace: Bibliotherapy for Teachers, Bradley University, Peoria 2001, pp. 2-18.2 M. Dalla Valle, Esiste davvero la biblioterapia?, “Bi blioteche oggi”, 32 (2014), p. 45.

III.4

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do quindi momenti ricchi di scambi: ma a questi ne ha affiancati altri di ridotta interattività, per fornire le conoscenze metodiche minime.

Lo ripeto: spiegare e riuscire a far capire la biblioterapia è estrema-mente difficile. È necessario fornire riferimenti teorici, ma, ancora di più, far sperimentare le emozioni derivanti dalla lettura di un brano: inoltre occorre anche decodificare le nozioni indirette fornite da de-terminati testi, indicando come raggiungere i propri obiettivi profes-sionali partendo proprio dalle nozioni scoperte leggendo insieme.

Le due ore a disposizione sono state perciò suddivise secondo il seguente schema:• presentazione del laboratorio;• conoscenza fra i partecipanti;• lezione frontale divisa in tre parti;• lettura del racconto di Jorge Bucay, Il cercatore3;• discussione sulle emozioni suscitate e le nozioni offerte dal brano;• simulazione di un laboratorio di biblioterapia;• conclusioni e lettura di un brano tratto da Il midollo del leone di Italo

Calvino4.

b) Storia e metodologiaDopo la presentazione del docente e degli obiettivi dei lavori, il

laboratorio si è aperto con la presentazione dei singoli partecipanti, a cui sono stati chiesti il nome, la professione e le aspettative che nutri-vano verso il laboratorio che si accingevano a seguire.

La lezione frontale è durata circa 40 minuti ed è stata a sua volta divisa in tre parti.

La prima parte ha accennato alla storia della biblioterapia, partendo dalla catarsi aristotelica fino ai primi approcci in ambito psichiatrico nel XIX secolo e a un’illustrazione più dettagliata per il XX secolo. Infatti, il termine biblioterapia fu coniato da Samuel Crothers nel 19165. Suc-cessivamente, nel 1937, William Menninger pubblicò il saggio dal titolo

3 J. Bucay, Cuentos para pensar, Oceano, Mexico 2002, pp. 23-26.4 I. Calvino, Una pietra sopra, Mondadori, Milano 1980, pp. 3-18.5 Dalla Valle, Viaggio attraverso i primi cent’anni della biblioterapia, “Bi blioteche oggi”, 34 (2016), pp. 56-60.

Bibliotherapy6, considerato pietra miliare della biblioterapia in ambito clinico. Queste tappe fondamentali della prima metà del Novecento fu-rono accompagnate da una ricca esperienza di biblioterapia applicata ai veterani di entrambe le guerre mondiali, per aiutarli a superare i traumi che ne avevano riportato7. Con la conclusione delle azioni di guerra, ci fu una fioritura culturale che coinvolse anche la biblioterapia. Caroline Shroedes, nel 1949, discusse un’importante tesi di dottorato sul tema8: essa divenne fondamento della biblioterapia moderna, creando un mo-dello chiamato psicodinamico, ma che poteva essere utilizzato anche in ambito non psicologico. Incredibile fu la fioritura della biblioterapia ne-gli Stati Uniti durante gli anni Sessanta: l’American Library Association si fece promotrice di importanti studi sull’argomento e nel 1962 pubblicò un intero numero di “Library Trends”, rivista dell’associazione, sulla biblioterapia applicata nei diversi ambiti, clinici e non clinici9. E, se si dovette attendere fino al 1980 per vedere erogato da un’università il primo corso di biblioterapia10, gli anni precedenti e quelli successivi fu-rono comunque sempre ricchi di studi e applicazioni. Ancora oggi, negli Stati Uniti, lavora proficuamente un ente nato proprio dal lavoro svolto nei decenni del secondo Novecento: si tratta della IFBPT (International Federation of Biblio-Poetry Therapy) che forma i futuri biblioterapisti, sia medici sia di altre professioni, rilasciando, dopo un percorso di studi e un tirocinio supervisionato sul campo, una certificazione che cambia a seconda della professionalità di base del corsista11.

Non ci sono dubbi: oggi la biblioterapia è ancora in evoluzione. Le risorse disponibili e i bisogni da soddisfare si stanno modificando e, con essi, il modo di utilizzare i libri. In Italia siamo ancora agli albori. Nonostante ciò, abbiamo questa ricca tradizione anglosassone a di-sposizione, che, seppure proveniente da lontano, da un luogo dove il

6 W. Menninger, “Bibliotherapy”, in R.J. Rubin (Ed.), Bibliotherapy Sourcebook, Oryx Press, Phoenix (Arizona) 1978, pp. 12-21.7 Rubin, Using Bibliotherapy, Oryx Press, Phoenix (Arizona) 1978, p. 14-15.8 C. Shroedes, Bibliotherapy: A theoretical and Clini cal-experimental study, Unpublished doc-toral dissertation, University of California at Berkeley.9 https://www.ideals.illinois.edu/bitstream/handle/2142/6061/librarytrendsv11i2_opt.pdf? sequence=3&isAllowed=y.10 E. Dale Pehrsson, P. McMillen, A Bibliotherapy Evalutation Tool: grounding Counselors in the therapeutic Use of Literature, “The Arts in Psychotherapy”, 32 (2005), pp. 47-59.11 Cfr. http://www.ifbpt.org.

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sistema culturale e l’organizzazione socio-sanitaria sono estremamen-te diversi dai nostri, può servirci da guida. Modificandola per renderla applicabile alla realtà italiana, essa potrà aiutarci a trasformare, anche qui, i libri anche in un’incredibile opportunità, applicabile sì ai contesti di malattia, ma utile a ciascuno di noi.

Nella seconda parte della lezione frontale sono stati approfonditi i meccanismi e le dinamiche che stanno alla base della biblioterapia, a partire dal modello psicodinamico elaborato nella dissertazione di dottorato di Shroedes: esso prevede tre tappe, cioè identificazione, catarsi e introspezione12.

L’identificazione segnala un meccanismo facilmente intuibile in ogni lettore: leggendo un romanzo, è possibile identificarsi in uno o più dei suoi personaggi, oppure ritrovare una situazione simile che si sia vissuta in prima persona. È possibile veder descritti particolari stati d’animo e sentimenti, che il lettore può confrontare con i propri, tro-vando similitudini e differenze fra quanto letto e quanto vissuto. Va specificato che l’identificazione non è destinata a esser trovata sempre in trame simili alla propria vita: essa si sviluppa là dove il lettore trova una similitudine che può essere anche irreale, ma che comunque crea un’emozione e suscita un ragionamento. Ad esempio, un lettore può identificarsi nella vittima oppure nel carnefice, ma non per questo, nella vita, sarà l’una oppure l’altro: semplicemente, il poter vestire i panni di altri può aiutare a capire meglio se stessi e l’identificazione di sé passa anche attraverso la comprensione dell’altro, del suo sentire e delle sue scelte.

La fase successiva descritta da Schroedes, la catarsi, non è dissimile da quella descritta da Aristotele nella sua Poetica13: essa è la condizione di trasformazione emozionale e purificazione che lo Stagirita riteneva avvenisse negli spettatori delle tragedie teatrali. Diverse teorie di filo-sofia della lettura hanno appurato che questo processo avviene anche nei lettori. Non solo: in particolare, le teorie sulla ricezione del testo hanno stabilito che ogni lettore reagisce in modo diverso allo stesso libro, alla stessa vicenda narratavi. Avviene in lui una sorta di riscrittu-

12 C. Shroedes, Application of dinamic Personality Theory to the Dynamics of the aesthetic Expe-rience; Implications for Psycotherapy, in Rubin (Ed.), Bibliotherapy sourcebook cit., pp. 77-122.13 Aristotele, Poetica, a c. di D. Lanza, Rizzoli, Milano 1987, p. 135.

ra del testo, generata dalle sue peculiarità cognitive ed emotive, esse stesse rielaborate dall’esperienza, più o meno lunga, di vita e rese, tra-mite questo meccanismo psicologico, più esplicite e chiare a colui che legge14.

Per ultima, giunge la fase dell’introspezione, in cui il tempo e la ri-flessione permettono che la purificazione catartica diventi solidamen-te stabile, le sequenze emozionali ancora più consapevoli e le conse-guenti visioni e scelte valoriali ancora più deliberate e personali.

Grazie a questo modello, negli Stati Uniti si svilupparono studi e sperimentazioni che permisero l’applicazione della biblioterapia nei campi più diversi. Ciò favorì la nascita di nuovi modelli, che portarono alla distinzione della biblioterapia in due branche: la biblioterapia clinica, utilizzata da psichiatri e psicologi, e la biblioterapia dello sviluppo, stru-mento per le professioni laiche (ovvero non mediche)15.

c) Esempi praticiLa terza parte della lezione frontale ha avuto come focus l’utilizzo

pratico della biblioterapia attraverso esempi concreti: un libro può essere consigliato, discusso in gruppo, letto ad alta voce, confrontato con altri, sezionato in parti per utilizzarne solo alcune. Ma può anche diventare il trampolino di lancio per sbloccare una comunicazione difficile16.

Il primo esempio è quello di un paziente quarantenne colpito da infarto miocardico acuto: fumatore, obeso, è un uomo sposato con due figli che è nel pieno della fase della negazione. Rifiuta di ascoltare le raccomandazioni di medici e infermieri, fingendo che il proble-ma non esista, ma è evidentemente preoccupato (la comunicazione non verbale lo rivela), probabilmente per il suo futuro lavorativo e i dubbi sulla sua futura capacità di provvedere alla propria famiglia.

14 L. Ferrieri, P. Innocenti, Il piacere di leggere. Teorie e pratiche della lettura, Unicopli, Milano 1998, pp. 15-35.15 P.S. McMillen, D. Pehrsson, Bibliotherapy for hospital patients, “Journal of hospital Librarian-ship”, 4(1), 2004, pp. 73-81 (open access in internet: http:// digitalcommons.library.unlv.edu/lib_articles/34).16 J.L. Cohen, The Experience of Therapeutic Reading, in “Western Journal of Nursing Re-search”, 16 (1994), pp. 426-37.

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Eppure, ogni tentativo per raccogliere e condividere le sue difficoltà da parte del personale sanitario sono vane. Rimane muto davanti alle informazioni dei medici e si sottrae alle spiegazioni degli infermieri. Se quest’uomo è un lettore e tiene i propri libri sul comodino, un infermiere, avendo competenze di biblioterapia, può iniziare a par-lare con lui partendo proprio dai volumi che vede, condividendo col paziente le opinioni sullo scrittore e sulla trama del romanzo. Si avvierà in questo modo una conversazione informale e serena, assolutamente ‘altra’ dalle questioni sanitarie. Il paziente riconoscerà nell’infermiere non il professionista della salute, ma il lettore, su un piano paritario e su un argomento piacevole e condivisibile. I giorni successivi, quello stesso infermiere potrà tentare un approccio più specifico, magari avendo scambiato prima qualche battuta sulla lette-ratura. Potrà così chiedere se sente l’astinenza dal fumo, informan-dolo della possibilità di essere aiutato, ad esempio con dei cerotti alla nicotina; o interrogarlo delicatamente sul fatto di sentire l’esigenza d’informazioni su come calare di peso. Ebbene, nella maggior parte dei casi, un approccio simile – centrato sull’interesse comune alla lettura – porta a un’apertura del paziente e alla possibilità di aiutarlo: mentre in precedenza evitava in ogni modo di sentirsi dire qualsiasi cosa e di affrontare il problema, ora, presa fiducia, egli inizia ad aprir-si e a porre domande.

I lettori sono una comunità distribuita nel mondo a macchia di leopardo: non hanno una patria, ma quando si incontrano si ricono-scono. È per questo riconoscersi, in un rapporto di reciproca stima e onestà che, successivamente, il paziente supererà il timore di quello che potrebbe sentirsi dire. Il rapporto di fiducia che nasce non si basa su un rapporto tra curante e curato, ma su una condizione paritaria tra lettori in cui il curante viene percepito non più come figura sanitaria che potrebbe giudicare le cattive abitudini di vita o portare brutte notizie, ma come figura positiva d’aiuto che parla lo stesso linguaggio e che comprende la difficile situazione in essere.

Gli esempi di biblioterapia illustrati durante il laboratorio si sono poi susseguiti brevemente su diversi fronti: dal fumetto disegnato per spiegare ai bambini una pratica chirurgica, all’utilizzo della saga di har-ry Potter per elaborare il lutto dovuto alla morte di un genitore, fino

alla lettura di brani o di interi libri per aiutare a venire a patti con una malattia cronica.

d) La chiarezza dei confiniIn qualsiasi modo venga utilizzata la biblioterapia, rimane indiscuti-

bile un punto: i confini della propria professione vanno mantenuti fer-mi. Ogni tipo di materiale letterario può essere utilizzato con obiettivi differenti e ogni professionista ha i propri: quelli dell’infermiere sono diversi da quelli dello psicologo. E anche se entrambi lavorano per lo stesso paziente, ognuno deve rimanere all’interno delle proprie com-petenze professionali. Certamente, l’infermiere potrebbe collaborare con lo psicologo e addentrarsi oltre il proprio ambito di autonomia, ma supervisionato da lui.

Non esiste materiale letterario che metta al riparo dalla possibilità di sconfinare in competenze professionali non proprie. Per questo motivo è possibile asserire che è non il testo, ma l’abilità del profes-sionista a mantenere l’uso del testo stesso in un limite preciso: è lui che traccia i confini e non il testo utilizzato.

Purtroppo non è raro che l’utilizzo della biblioterapia venga evitato a favore di strumenti più neutrali o, quantomeno, che nella loro de-nominazione non includano la parola “terapia” che tanto spaventa17, dimenticando che in origine essa è stata fusa con “biblio” per indicare il curare, lo stare accanto, e non il guarire in senso medico18. L’errore insito nella possibilità di sconfinare in un ambito professionale diverso dal proprio in questo modo gestito generandone un altro, forse non meno grave: ovvero evitando pratiche utili come la biblioterapia che, invece, potrebbero rendere più completa la professionalità sia degli psicologi sia degli infermieri.

e) Leggere insiemeGiunti alle letture, è iniziato il vero coinvolgimento dei partecipanti:

leggere insieme, di qualsiasi laboratorio si tratti, è il fulcro della biblio-

17 J.L. Jones, A closer Look at Bibliotherapy, “Young Adult Library Service”, 5 (2006), p. 24.18 Rubin, Bibliotherapy Sourcebook, cit., p. XI.

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terapia. I testi non vanno cercati e poi affrontati avendo come riferi-mento quando ne scrivono i critici letterari: essi vanno scelti secondo il grado di istruzione, l’amore che se ne ha, la capacità di affrontare un determinato argomento, la scala di valori, il gusto personale, il proble-ma da affrontare della persona o del gruppo da gestire.

In questo caso il mio obiettivo era far sperimentare quanta emozione un testo può evocare: ho scelto quindi uno scritto di Jorge Bucay dal tito-lo Il cercatore, la cui lettura è stata seguita dai commenti dei partecipanti.

Il cercatore racconta di un uomo, definito come un cercatore in senso astratto, che si mette in viaggio e si ritrova in un cimitero, sulle cui lapidi è scritto il nome del defunto e la data esatta della morte espressa in anni, mesi e giorni: nessuno dei defunti sepolti in quel luogo, stando ai numeri incisi sulle loro lapidi, supera gli undici anni. Questa consapevolezza rattrista il cercatore, ma, mentre piange per essa, gli viene incontro il custode del cimitero: egli spiega come quella notazione in anni, mesi e giorni non si riferisca all’età del defunto, ma al periodo in cui egli ha gioito nella propria vita, periodo segnato, mo-mento per momento, in un quaderno regalato da ogni genitore ai figli al quindicesimo compleanno. E quei momenti di gioia, rappresentati dalle sensazioni per il primo bacio o per l’innamoramento o per un qualsiasi momento di felicità, sono per gli abitanti di quel paese l’unico vero tempo vissuto e per questo degno di essere considerato vita.

Il racconto è molto emozionante e il contributo dei partecipanti, dopo questa lettura, è stato decisivo per avviare la discussione. Non è stato necessario porre domande-stimolo se non l’invito a esprimere le proprie sensazioni e i propri pensieri: la grande forza evocativa, pur nella brevità di questo brano, ha permesso di iniziare a capire e vivere insieme il suo straordinario potere.

I partecipanti, ascoltandosi vicendevolmente, hanno avuto la possi-bilità di capire quanti punti di vista diversi sono possibili, pur generati dallo stesso brano. ho poi ragionato con loro sulle tante possibilità che un biblioterapista ha di utilizzare domande-stimolo per dirigere il gruppo su un argomento evocato dal testo piuttosto che su un altro: tutto questo ha permesso di capire meglio quanto, pur nell’indubbia difficoltà, sia efficace l’utilizzo di un testo selezionato con metodo e quindi della biblioterapia.

f) Laboratorio simulato di biblioterapiaho poi cercato di simulare un laboratorio di biblioterapia, avendo

come obiettivo la comprensione dei diversi significati del dolore in ambito socio-sanitario, ma visto dal punto di vista dell’operatore. Il tentativo era di far sperimentare la biblioterapia come utenti, avendo la consapevolezza dei meccanismi che stanno alla sua base: in particolare, miravo a far com-prendere le possibilità applicative nella pratica professionale quotidiana.

La scelta iniziale dei testi in vista di un laboratorio di biblioterapia viene solitamente fatta considerando gli obiettivi fissati e il tipo di platea a cui ci si rivolge: viene quindi scelto un vasto numero di brani potenzialmente utilizzabili, nella consapevolezza che solo una parte verrà di fatto adoperata. La selezione di quelli effettivamente utilizzati viene fatta in itinere, a seconda delle reazioni dei partecipanti: an-che in questo caso è successa la stessa cosa. Per questo motivo, pur partendo da una serie di brani da cui potevo scegliere, uguali per en-trambi i gruppi, anche in questo caso, dove l’argomento e gli obiettivi erano i medesimi, le peculiarità dei singoli partecipanti ha indirizzato in modo differente la discussione, e, quindi, la scelta dei testi.

Il meccanismo della scelta dei materiali per un gruppo di biblioterapia è ben diverso da quello solitamente utilizzato in una situazione tradizio-nale d’insegnamento: in un gruppo d’istruzione tradizionale, un docente insegna una materia ai discenti, i quali, ognuno con le proprie capacità e coi propri limiti, devono apprendere il massimo e il meglio possibile da testi scelti preliminarmente dal docente. In un gruppo di biblioterapia avviene esattamente il contrario: un docente studia le caratteristiche del gruppo costituitosi con un obiettivo predefinito, e sceglie i testi adatti per permettere a tutti i partecipanti di raggiungerlo. È conseguenza naturale che gruppi diversi, pur con il medesimo obiettivo, necessitino di testi differenti.

Non nascondo che la mia esperienza mi ha convinto come buona parte delle reazioni dei partecipanti nei gruppi di biblioterapia dipenda dall’entusiasmo che io stesso, come facilitatore biblioterapista, riesco a metterci. L’amore e la passione per i libri – del facilitatore come dei partecipanti – sono parte integrante del background formativo neces-sario per utilizzare la biblioterapia in ogni campo professionale. Tutti gli studi svolti finora sono concordi nell’affermare che non è possibile

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utilizzare la biblioterapia dove l’utente non abbia almeno un minimo interesse per la lettura: io – dall’esperienza ormai non breve che ne ho fatto e in gruppi e situazioni differenti – credo fermamente che questo valga anche per i biblioterapisti. Ci sono eccellenti conoscitori di let-teratura ai massimi livelli accademici che non potrebbero essere buoni biblioterapisti, perché, pur apprezzando le lettere, non sono in grado di riconoscere nei libri le potenzialità “terapeutiche” non appartenenti all’alta letteratura, perché non riescono a condividere la passione per la lettura in modo empatico, non sono in grado di riconoscere i bisogni della persona e capire quali testi sarebbero adatti a soddisfarli, consi-derando non il proprio gusto letterario, ma quello dell’altro.

g) Domande e risposteNella fase del laboratorio succeduta alla lettura – ovvero il por-

re domande-stimolo per evidenziare ciò che il testo condiviso aveva prodotto nei partecipanti – è diventato naturale un colloquio franco e produttivo. I partecipanti appartenevano ai gruppi professionali più diversi: psicologi, bibliotecari, infermieri, educatori, volontari. Nel la-boratorio del mattino era presente anche un’ex paziente. Ognuno di loro, in modo diverso, era accomunato, oltre che dalla tecnica profes-sionale, dalla passione per i libri. In questo modo le letture proposte, le citazioni di titoli e autori, gli esempi sull’utilizzo dei libri in ambito clinico/educativo hanno permesso di parlare agevolmente dei testi che apprezzavano maggiormente, degli autori preferiti, della loro esperien-za lavorativa e degli interrogativi che nascevano in loro riguardo la possibilità di fare della letteratura preferita uno strumento di lavoro.

È utile, infatti, che coloro che vogliono utilizzare la biblioterapia inizino dalle competenze già in loro possesso: risulta inevitabile e non è affatto inutile che il genere letterario prediletto divenga lo stru-mento di partenza per muovere i primi passi nell’ambito della biblio-terapia. In molti casi, i libri possono essere efficaci anche senza che l’intervento del facilitatore vada oltre il consiglio letterario: proprio per questo, però, la conoscenza dei libri che si consigliano non può essere approssimativa. E dove si renda necessario creare un labora-torio o anche un setting face-to-face, si deve riuscire a utilizzare i testi con professionalità, ma anche attraverso una relazione empatica che

parte, inevitabilmente e ancora una volta, dalla comune passione per i libri: in caso contrario, si rischia un rapporto freddo e non produtti-vo, in cui il discente si sentirebbe subalterno del docente.

h) RestituzioniAl termine del laboratorio, per meglio valutarne l’efficacia, ho

somministrato un breve questionario, con una batteria di sei afferma-zioni alle quali indicare il grado di accordo attraverso la scala Likert di gradimento (da assolutamente in disaccordo, con gradimenti intermedi, fino ad assolutamente d’accordo). Le affermazioni erano le seguenti: • la biblioterapia può essere un metodo che dà buoni risultati anche

in ambito clinico;• la letteratura può arrivare dove altre tecniche faticano a giungere; • l’esperienza del laboratorio di biblioterapia è riuscita a dimostrar-

mi in modo pratico l’efficacia dell’utilizzo dei libri;• prima di questo laboratorio non ero a conoscenza di questo metodo;• prima del laboratorio ero già convinto che la biblioterapia fosse un

buon metodo;• mi piacerebbe approfondire la mia formazione sulla biblioterapia

per arrivare a utilizzarla nella mia realtà professionale.

Il gruppo del mattino era formato da 22 persone, mentre quello del pomeriggio da 15. Nell’osservare i dati non ho preso in conside-razione né il sesso né altre variabili: i gruppi erano disomogenei per età e professionalità.

ho calcolato i risultati anzitutto percentualmente: è emerso che le risposte nei due gruppi sono sovrapponibili con differenze modeste, tenendo in considerazione i pochi numeri su cui si è lavorato. Dai questionari si evince che la maggior parte dei partecipanti considera la biblioterapia un buon metodo anche in ambito clinico e che considera possibile che la letteratura riesca ad arrivare dove altre tecniche fa-ticano a giungere. Il laboratorio è stato considerato utile per trovare dimostrazione pratica dell’efficacia nell’utilizzo dei libri.

La maggioranza dei partecipanti avevano già dall’inizio una perce-zione positiva dell’utilità della biblioterapia, seppure la metà di loro

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dichiari di non aver avuto conoscenza del metodo prima di parteci-pare al laboratorio. Questo fornisce l’idea che l’utilità dei libri è chia-ramente sentita da quanti sono dei lettori, senza bisogno di cono-scerne il motivo, ma partendo dalle sensazioni che da sempre genera in loro. Si conferma così l’idea che la passione per i libri può essere il primo gradino per molti professionisti per imparare a utilizzare la biblioterapia.

i) Per concludere: storia di un lettore-biblioterapista

Il tipo di laboratorio scelto è connaturato nella biblioterapia stessa: i piccoli gruppi (in questo caso il numero dei partecipanti era supe-riore di qualche unità rispetto ai 10-13 che un gruppo di biblioterapia richiederebbe, ma non ha inciso sull’obiettivo prefissato) sono ideali per lavorare in modo interattivo e permettere una conoscenza mag-giore della materia e lavorare proficuamente sulle sue basi. Cioè: con-dividere l’amore per i libri (personalmente l’ho avuto sin da bambino), utilizzare un brano o un libro precedentemente letto come base per domande-stimolo che andranno ad avviare la discussione è quanto permette al facilitatore di gestire il gruppo senza perdere di vista i bisogni formativi del singolo.

ho gestito un gruppo di biblioterapia per la prima volta nel 2010 e si trattava di quindici adulti, di cui solo due maschi, all’interno dell’U-niversità Popolare di Sona (VR): allora, le uniche indicazioni a me note, rispetto al modo di utilizzare la biblioterapia, erano puramente teoriche. ho potuto così iniziare a sperimentare una biblioterapia italiana, adatta alla nostra popolazione e al nostro modo di pensare. Ancora oggi tengo corsi nello stesso luogo e alcuni corsisti sono gli stessi del 2010. Per questo ogni anno porto nuovi libri e nuove idee per sviluppare un setting di biblioterapia da esportare poi in altre realtà e accrescere la mia conoscenza. Ma questa conoscenza è difficile da trasmettere ad altri senza riprodurre il metodo e farlo sperimentare.

Seguendo gli studenti del corso di Infermieristica dell’Università di Verona che desiderano scrivere una tesi sulla biblioterapia, mi sono

accorto quanto il solo studio di una bibliografia, anche se mirata, non basti a far capire a fondo il metodo: d’altro canto, senza le basi teori-che fondamentali risulta vano far comprendere la scientificità dell’ap-proccio e il ragionamento che stanno alla base della costruzione di una seduta o di un progetto di biblioterapia.

È l’interazione concreta, volta a volta, con i partecipanti che è riu-scita, almeno per me, ad aumentare in modo esponenziale le possibilità di comprensione e di applicazione diversificata ed efficace di un meto-do nel quale, ovviamente, credo.

In quell’interazione si mettono in moto non solo le capacità cogni-tive, ma anche quelle emotive. La lettura emoziona e in ambito for-mativo (non solo per trasmettere le conoscenze sulla biblioterapia) queste emozioni sono in grado di favorire l’apprendimento, che non passa per i canali tradizionali, ma attraverso una capacità recettiva ben più efficace e importante per noi operatori sanitari: il cuore.

j) Suggerimenti per una lettura biblioterapeutica in campo sanitario

Molti articoli scritti sulla biblioterapia contengono, al termine dell’e-sposizione, un elenco di libri utili da utilizzare nei laboratori, dividen-doli per argomenti: il problema, per noi italiani, è che quei testi sono in lingua diversa dall’italiano e quindi inutilizzabili per lo scopo.

Di seguito e sulla base dell’esperienza concreta che ne ho fatto, come lettore e come biblioterapista, inserisco un elenco non esaustivo di libri che – come si desume dal brevissimo riassunto fatto per ognu-no – parlano di dolore, di morte e di ambienti sanitari, senza tralascia-re, però, la speranza: di libri che, perciò, potrebbero essere utili a chi lavora in campo sanitario.

Seppur divisi in tre argomenti, nessuno di essi parla solamente del tema principale: ciascuno sconfina sugli altri argomenti, completa e lancia nuovi interrogativi, come non aspettasse altro che essere uti-lizzato non solo da chi individualmente ami leggere, ma anche nella condivisione fra colleghi e in un laboratorio di biblioterapia.

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Cura e assistenzaLe scarpe appese al cuore di Ugo RiccarelliUn uomo si trova a dover subire un trapianto cuore-polmoni in un paese straniero, dove, al di là della lingua, riceve comunque l’assistenza necessaria.Cosa sognano i pesci rossi di Marco VenturinoUn medico e un paziente raccontano la propria esperienza, in capitoli alterni, che rendono una visione molto realistica delle contraddizioni dell’assistenza e del curare.L’imperatore del male di Siddhartha Mukherjee La storia del cancro viene scritta in questo libro come fosse un ro-manzo, con inserti di vita in ospedale per non dimenticare che non c’è la malattia, ma il malato.Non smettere mai di abbracciarmi di Alessandra MerighiA capitoli alterni due realtà differenti: un’adolescente ribelle e addo-lorata e una giovane malata di tumore. Due destini differenti, ma non così diversi.Hanoi di Adriana LisboaUn ragazzo si trova con poco tempo da vivere. Solo, perso nel dolore, trova conforto nelle persone attorno a sé.

Morte e accompagnamentoLa morte amica di Marie de hennezelUna psicologa racconta in modo semplice ed efficace l’accompagnamento al morente negli hospice, con suggestioni utili all’attività professionale.I miei martedì col professore di Mitch AlboomUn uomo incontra per caso l’ex professore dell’università, prossimo alla morte, ma pieno di vita. Si incontreranno più volte per imparare insieme da questa esperienza.Accabadora di Michela MurgiaNella tradizione sarda l’accabadora è una donna che aiuta a cessare le sofferenze di quanti chiedono il suo aiuto. Controverso, è un romanzo che riesce a osservare diversi punti di vista.

La solitudine del morente di Norbert EliasOrmai novantenne, Elias ragiona sulle difficoltà del morente in maniera incredibilmente precisa e lucida attraverso un saggio filosofico chiaro e dettagliato.

Speranza nonostante la sofferenzaIl vizio di vivere Rosanna BenziAutobiografia di una donna vissuta in un polmone d’acciaio, ma che non ha mai rinunciato all’entusiasmo e alla consapevolezza del suo essere donna.Cosa ti manca per essere felice di Simona AtzoriBallerina e motivatrice, Simona Atzori è nata senza braccia, ma ha sa-puto fare della propria vita un capolavoro.Nati due volte di Giuseppe PontiggiaUn padre con un figlio disabile ripensa alla sua incapacità di aiutarlo. Ne risulta un’analisi dei problemi, ma anche delle risorse che si pos-sono e si devono mettere in campo nei momenti difficili.Veronica decide di morire di Paulo CoelhoUna giovane suicida viene salvata e nonostante questo è infelice. Sto-ria di una ricerca della felicità di vivere che spesso ci è accanto.

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Bibliografia• Aristotele, Poetica, a c. di D. Lanza, Rizzoli, Milano 1987.• J. Bucay, Cuentos para pensar, Oceano, Mexico 2002.• I. Calvino, Una pietra sopra, Mondadori, Milano 1980.• J.L. Cohen, The Experience of Therapeutic Reading, “Western Journal of Nursing

Research”, 16 (1994), pp. 426-37.• E. Dale Pehrsson, P. McMillen, A Bibliotherapy Evalutation Tool: grounding Counselors in

the therapeutic Use of Literature, “The Arts in Psychotherapy”, 32 (2005), pp. 47-59.• M. Dalla Valle, Viaggio attraverso i primi cent’anni della biblioterapia, “Bi blioteche

oggi”, 34 (2016), pp. 56-60.• M. Dalla Valle, Esiste davvero la biblioterapia?, “Bi blioteche oggi”, 32 (2014), p. 45.• L. Ferrieri, P. Innocenti, Il piacere di leggere. Teorie e pratiche della lettura, Unicopli,

Milano 1998, pp. 15-35.• C.E. Johnson et al., “Booking It” to peace: Bibliotherapy for Teachers, Bradley Uni-

versity, Peoria 2001, pp. 2-18.• J.L. Jones, A closer Look at Bibliotherapy, “Young Adult Library Service”, 5 (2006),

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• W. Menninger, Bibliotherapy, in R.J. Rubin (Ed.), Bibliotherapy Sourcebook, Oryx Press, Phoenix 1978, pp. 12-21.

• R.J. Rubin, Using Bibliotherapy, Oryx Press, Phoenix 1978.• C. Shroedes, Bibliotherapy: A theoretical and Clini cal-experimental study, Unpublished

doctoral dissertation, University of California at Berkeley.• C. Shroedes, Application of dinamic Personality Theory to the Dynamics of the aesthetic

Experience; Implications for Psycotherapy, in R.J. Rubin (Ed.), Bibliotherapy sourcebook cit., pp. 77-122.

Sitografia• https://www.ideals.illinois.edu/bitstream/handle/2142/6061/librarytrendsv11i2_

opt.pdf?sequence=3&isAllowed=y• http://www.ifbpt.org

MARCO DALLA VALLE Infermiere presso l’Unità Coronarica dell’Ospedale di Borgo Trento (VR). Si occupa di biblioterapia anche attraverso il suo blog (www.biblioterapiaitaliana.it)

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Cinema e formazione: disease related movies per riflettere sulla cura

Lorenza Garrino

a) L’utilizzo della cinematografia nella formazioneNella formazione, un grande impegno è attivare un lavoro di rifles-

sione orientato a superare la barriera di autocontrollo razionale, per far sì che emergano immagini, considerazioni ed emozioni che rappresen-tino in qualche modo un’esperienza originaria, spontanea e autentica.

Lo strumento filmico, che, per immediatezza ed efficacia, risponde bene a questi bisogni formativi, dev’essere valorizzato in un’epoca come la nostra e in un contesto come quello sanitario, in cui i nume-rosi dilemmi impongono di saper riconoscere e individuare valori e principi della persona assistita. Tale compito richiede abilità di com-prensione e d’azione che proprio il dispositivo filmico induce, per la sua straordinaria efficacia narrativa e didascalica, per la sua capacità di penetrazione nelle pieghe dell’interiore e per l’intrinseca forza di rap-presentazione. Il cinema nella formazione dei professionisti della cura trova perciò la sua applicazione prevalentemente nelle discipline uma-nistiche, etiche, cliniche e di promozione della salute, proprio perché è in grado di emozionare e coinvolgere, ma anche di fornire elementi per insegnare qualcosa o consentire di elaborarlo criticamente. Il ci-nema è evento e rappresentazione e ha una grande presa sul pubblico per la capacità che ha di trasportare lo spettatore in un’altra realtà. Rappresenta una possibilità, un luogo “naturale” dove è consentito provare, ma anche conoscere, riconoscere, metabolizzare, rendere tollerabili le emozioni, i sentimenti e le situazioni limite. Il cinema, poi, potenzia il ruolo della narrazione come motore della riflessione e l’autoriflessione.

La domanda che si pone può essere, quindi: perché il film risulta mol-to più efficace, nell’esprimere un medesimo messaggio, rispetto a libri,

III.5 articoli di giornale, trasmissioni televisive e, in generale, altre espressio-ni artistiche? Da che cosa esattamente derivano la forza espressiva e l’immediatezza del cinema?

La visione di un film si svolge su due piani: uno evidente e uno nasco-sto, uno di verosimiglianza di quanto narrato sullo schermo, l’altro che rende possibile la ‘nostra’ visione, la credenza in ciò che stiamo vedendo.

Altro elemento importante è proprio il luogo fisico e temporale dove comunemente si assiste a un film, cioè la sala cinematografica, che, con la sua accogliente oscurità e con quel particolare senso che induce di “isolamento collettivo”, ispira un livello di ricettività del tutto speciale.

Per tutto ciò, l’immagine filmica può rivelarsi un fondamentale aiu-to nei processi di formazione: centrale, in tal senso, è l’affrontare i processi formativi non solo secondo una razionalità puramente logi-ca, il cui canone faccia riferimento alla spiegazione di tipo lineare, ma di introdurre, nel processo di comprensione del reale, un elemento affettivo o, meglio ancora, una chiave ermeneutica, come elemento essenziale di accesso al mondo.

Le storie dei personaggi filmici e letterari, anche se non sono veramente accadute, sono accolte come portatrici di una verità esi-stenziale indubitabile: esse catturano l’attenzione, stupiscono, sfida-no, stimolano la fantasia, in un succedersi di collegamenti non solo razionali ma emozionali. La visione del film, o di sequenze filmiche, fa risuonare dentro lo spettatore una possibilità di confronto tra quan-to visionato e il proprio vivere quotidiano, soprattutto il proprio sistema di “attribuzione di senso” rispetto al tema trattato. Queste storie rappresentano perciò un laboratorio di esperienze, di pensie-ro indispensabile per crescere in umanità, una possibilità di esplorare temi e problemi, contribuendo allo sviluppo della comprensione di se stessi e degli altri.

Nella formazione, l’utilizzo riflessivo e autoriflessivo delle arti vi-sive ha la finalità di sviluppare nuovi atteggiamenti nei confronti di se stessi e delle funzioni svolte, imparando – nell’applicazione in campo sanitario – a riflettere sui modi con cui si apprendono e si vivono la relazione con il malato e le esperienze di malattia dei pazienti.

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b) L’esperienza laboratorialeIl laboratorio è stato allestito con l’intento di sviluppare attraverso

lo stimolo filmico, le competenze professionali, inducendo a riflettere sulle pratiche di cura, a esplorare i significati e il senso dell’esperienza di malattia e a sviluppare la sensibilità all’ascolto interiore e alla com-prensione della persona assistita.

Il laboratorio narrativo-esperienziale ha avuto una durata comples-siva di tre ore ed è iniziato con la visione di alcuni estratti del film Verso il sole di Michael Cimino (1996), della durata complessiva di 40 minuti (Box 1).

Box 1: Trama del film Verso il sole (M. Cimino, 1996)

Nel film prescelto, Michael Reynolds, medico di successo, è incarica-to di visitare un detenuto, un ragazzo Navajo di nome Blue, di sedici anni, al quale resta solamente un mese di vita per uno stato di tumore avanzato. Ma Blue ha un obiettivo molto legato alla sua cultura, ben diversa da quella del medico: egli vuole trovare un lago leggendario, situato tra le cime della montagna sacra, le cui acque potrebbero guarire tutte le malattie, come un indiano della sua tribù gli ha rac-contato una volta. Blue tenta la fuga e rapisce Reynolds, obbligandolo a uscire dalla città. Inizia così un lungo viaggio nello Utah, in Arizona e nelle montagne del Colorado. Un viaggio fatto di incontri, di ostacoli e di discussioni, durante il quale s’instaura fra i due una relazione di fiducia. Reynolds comprende che per Blue è molto importante tro-vare quel lago: perciò cercano insieme di raggiungerlo. I due arrivano presso il luogo dove vive l’antico indiano Navajo che prende con sé Blue negli ultimi momenti di vita. Dopo questo incontro per Reynolds il lavoro, la professione, le cose della vita non sono più le stesse.

Al termine della proiezione, sono stati forniti ai partecipanti al-cuni spunti di riflessione sul film appena visto: attraverso una traccia scritta, è stato loro chiesto d’individuare gli episodi più significativi sul piano della cura e di analizzare le dinamiche interne e i compor-tamenti dei personaggi, al fine di capire i meccanismi sottostanti que-sto processo. Una volta analizzate le dinamiche, i partecipanti hanno evidenziato gli espedienti di cura posti in atto nel film, valutandone l’efficacia e stimandone il risultato raggiunto (Box 2).

Box 2: Spunti di riflessione per l’analisi del film

Rispetto al film che hai visto, Verso il sole (M. Cimino, 1996), breve-mente per scritto:1. Indica gli episodi e i personaggi che ritieni più significativi sul

piano della cura nell’ambito della vicenda rappresentata;2. Analizza le dinamiche interne ai comportamenti e alle azioni di

cura da te individuate;3. Evidenzia gli espedienti e le strategie di cura posti in atto e rap-

presentati nel film, valutandone l’efficacia e la bontà;4. Esprimi con una metafora o una analogia l’idea di cura che il film

ha in te suscitato;5. Proponi il titolo che tu daresti al film che hai visto.

c) Riflessioni scaturite dalla visione del film e dalla discussione successiva

Dai partecipanti sono stati evidenziati i seguenti aspetti: • già durante la prima visita il medico decide di cambiare l’approccio

con Blue: egli esce dalla camera e poi vi rientra, ponendosi in modo diverso con il paziente. Rivedersi nell’azione e modificare il proprio comportamento è un segno di attenzione nei confronti dell’altro costitui-sce un punto di partenza nel favorire un rapporto di fiducia;

• durante il viaggio Reynolds condivide i vissuti e le emozioni di Blue. Il complesso processo di condivisione contribuisce a tessere progressiva-mente un rapporto di fiducia;

• il medico mostra di possedere dei valori veri nei quali credere e per i quali è pronto ad assumersi dei rischi. Sia Blue sia il dottore beneficiano del rapporto che vanno instaurando, ma il secondo supera l’approccio puramente tecnico-razionale per lui, come pro-fessionista, abituale. Gli esiti della vicenda legati al rapporto di fiducia portano a un cambiamento degli atteggiamenti nei confronti di se stessi, della professione e delle cure;

• durante il viaggio Reynolds cerca di comprendere la ragione della ricerca del lago sacro. Chi, dunque, si prende cura di chi? Chi dà e chi riceve nel rapporto che viene delineandosi?

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Box 3: Titoli alternativi del film proposti dai partecipanti

La bellezza ci salveràLa montagna incantataSerpente elettrizzatoInsieme verso il soleIl grande viaggioLa metamorfosiAiutami a prendermi cura di teAccadeIl ragazzo e la montagnaRitorno a meSpecchiarmi per riflettere

d) Gradimento e reazioni dei partecipantiLa maggior parte dei partecipanti ha sottolineato come il laborato-

rio abbia corrisposto alle aspettative: attraverso il film è stato possibi-le mettere a fuoco e approfondire diversi aspetti legati alla cura e alla relazione con la persona assistita. Anche il successivo lavoro di analisi e di confronto è stato percepito come utile approfondimento della tematica. Coloro che erano interessati allo sviluppo delle competen-ze legate alla gestione dello strumento filmico hanno manifestato il loro soddisfacimento rispetto alla proposta metodologica (Box 4).

Box 4: Estratti dal gradimento dei partecipanti in relazione alla soddisfazione delle aspettative

• Il laboratorio ha risposto alle mie aspettative perché ha svilup-pato l’utilizzo filmico mettendo in evidenza aspetti diversi della cura: dalla relazione ad approcci diversi della cura stessa, alla costruzione della fiducia.

• Sì, è stato uno spunto da poter riportare nella mia professione, con un tempo ben gestito, dove la parte pratica e quella di ascol-to sono state accompagnate dalla riflessione. Ho sperimentato il

film come strumento di metodo. Sono stato stimolato all’appro-fondimento. Purtroppo il tempo era breve.

• Sì, è stato utile cimentarsi sulla parte pratica e provare ad analiz-zare il film. La docente ha mostrato una grande passione per ciò che fa e per l’approfondimento.

• Non ho molta esperienza in questo ambito e non mi sono por-tata via niente di nuovo.

• Sì, mi ha fornito una chiave di lettura della filmografia quale me-todologia di cura.

• Il film è stato interessante e molto utile per la formazione con gli studenti infermieri. La tematica ha risposto alle mie aspettative soprattutto per la scelta filmica utile.

• Sicuramente sì, perché mi ha aiutato a capire come l’arte e la scrittura siano uno strumento prezioso sia per il paziente che per gli operatori. La rappresentazione cinematografica mi ha consentito di riflettere su alcuni punti fondamentali del rapporto medico-paziente, sui differenti punti di vista e sull’importanza di creare un rapporto di empatia nella relazione di cura. ha rispo-sto alle mie aspettative e portato a nuovi ragionamenti e idee.

I partecipanti sottolineano come l’attività laboratoriale sia stata uno stimolo per apprendere o scoprire qualcosa di nuovo, oppure per vedere con altri occhi qualcosa di conosciuto. È stata un’esperienza importante per valorizzare il film come risorsa rivolta a tutti, aperta a molte interpretazioni, che permette di avvicinarsi agli aspetti emo-tivi legati alle diverse situazioni di fragilità. Analizzare le dinamiche e condividere i significati aiuta a progredire, a evolvere e a modificare i nostri comportamenti verso una tutela personale e un miglioramento dell’atteggiamento di cura (Box 5).

Box 5: Estratti dal gradimento dei partecipanti in relazione allo stimolo per apprendere qualcosa di nuovo

• L’attività proposta si è rivelata utile in particolare per riuscire ad allenare lo sguardo. Ascoltare le diverse letture di una visione o di un’esperienza attraverso gli occhi degli altri.

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• È stato uno stimolo perché porta a una riflessione interiore e l’ascolto di altri punti di vista allarga il pensiero.

• Bisognerebbe allenarsi e soffermarsi di più sui particolari anche della vita quotidiana perché non passi solo come un film, senza toccarci dentro e farci crescere.

• Sì, la condivisione di scene e particolari della proiezione evocano in ciascuno di noi “professionisti della cura e non” commenti ed emozioni diversi e quindi utili per ampliare le nostre vedute.

Rispetto alla possibilità di applicare qualche aspetto sperimentato nel laboratorio nella pratica quotidiana lavorativa, relazionale e per-sonale, i partecipanti si sono espressi positivamente: essi dichiarano di aver trovato utili gli spazi di riflessione, che hanno consentito di dare un nome alle emozioni. hanno inoltre sottolineato come la lettura dei bisogni dell’utente possa passare anche attraverso diverse modalità e arti, quali la cinematografia, il teatro, le arti pittoriche. È stato sotto-lineato come importante lo stimolo dato dalle domande, semplici ma profonde, e come l’uso di strumenti audiovisivi evocativi e arricchenti per la pratica quotidiana possa sviluppare la riflessione personale e quella sul proprio operato, promuovere la condivisione nei gruppi di lavoro e costituire un generale stimolo al miglioramento (Box 6).

Box 6: Estratti dal gradimento dei partecipanti circa la possi-bilità di applicare qualche aspetto nella pratica quotidiana

• Lo strumento proposto attraverso il laboratorio è senz’altro applicabile alla mia professione. In particolare l’utilizzo del film, quale narrazione di un vissuto, reale o immaginario, può aprire la possibilità di elaborazione e quindi di proposta di un modo di vedere più semplice.

• Indubbiamente sì; tutto ciò che ci tocca le corde interiori può es-sere applicabile in ogni ambito. Nel mio ambito di salute mentale è auspicabile l’utilizzo di tali laboratori.

• Sicuramente sia come passione che già c’era (il cinema), che conti-nuerò ad approfondire; e poi anche il messaggio del film stesso, che ha dato degli strumenti da portare nel mio modo di agire nel lavoro.

• Già nell’esperienza lavorativa avevo sperimentato l’utilizzo dei film per formazione. Mi ha invogliato ancor più ad approfondire. Si, soprattutto che il parere del gruppo è molto forte e muove molte energie e idee. Bisogna scegliere titoli e stimoli giusti di film perché sono applicabili a tutti gli ambiti succitati.

• Sì, bisogna usare il cinema e l’arte figurativa per far apprende-re e far riflettere. Ogni tanto serve fermarmi e riflettere sulla situazione, mettermi dall’altra parte e vedere l’altro cambiando prospettiva, soffermarmi come ho potuto fare analizzando il film: ma nella vita quotidiana è una cosa che raramente faccio. Sì. Uso dell’allenamento all’analisi e sguardi alternativi per imparare e fa-vorire pratiche diverse. Tutto si collega alla realtà, non ci sono né divisioni né separazioni. È un impegno quotidiano.

• Penso che sia utile sia a livello personale come riflessione sul proprio vissuto, sia come strumento di riflessione come tutor didattico e come strumento di formazione. Il percorso formativo affrontato trovo sia utile col mio lavoro teatrale, per la pecu-liarità degli spunti e per la diversificazione delle offerte. Trovo difficile creare spazi di proiezione-riflessione se non in contesti fuori dal lavoro.

In conclusione possiamo affermare come l’utilizzo cinematografico e filmico contribuisca a potenziare l’osservazione e l’ascolto, con la finalità di migliorare la qualità delle azioni.

Nel quadro d’impiego di questa metodologia didattica e formati-va e per una questione di correttezza intellettuale e metodologica, sottolineiamo l’importanza di esplicitare sempre l’orizzonte della scena pedagogica che sottostà alla decisione di utilizzare la filmo-grafia e la profondità degli intrecci sopra definiti. Solo così possia-mo intendere la formazione come una possibilità liberatrice, che può definire l’educazione come esistenza, come esperienza vissuta dell’uomo in quanto cultura. Il concetto di formazione-educazione ha come elementi forti il soggetto, l’esperienza, l’altro, la costru-zione di senso della propria esperienza; in altri termini il discorso formativo prende avvio dal ritenere costantemente la formazione come esperienza vissuta, sulla quale operare costantemente. Aven-do chiaro lo sfondo pedagogico, risulta più semplice o per lo meno si è criticamente avvertiti dell’uso che si fa del film, nella selezione

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del film, nei contenuti, nei montaggi filmici e nei loro dispositivi didattici.

Vorrei terminare con le parole di un/a partecipante: “Mi piacereb-be molto costruire una sala cinematografica in cui proiettare spezzoni di filmati utili al lavoro terapeutico con i pazienti. Sì, perché l’arte visiva può distruggere barriere fisiche di linguaggio cercando di soddi-sfare i bisogni esistenziali dei pazienti. Lo sguardo diventa l’inizio della cura, i primi gesti di cura”.

Bibliografia• D. Bergonzo, L. Garrino, V. Dimonte, Il cinema per la formazione medica e infer-

mieristica: analisi della letteratura, “Tutor”, 10, 2010, pp. 1-13.• G. Bert, Medicina narrativa: storie e parole nella relazione di cura, Il pensiero scien-

tifico, Roma 2007.• P.G. Blasco, M.G. Blasco, M.R. Levites, G. Moreto, Educating through Movies: How

Hollywood Fosters Reflection, “Creative Education”, 2(3), 2011, pp. 174-80.• P.G. Blasco, G. Moreto, A. Roncoletta, M.R. Levites, M.A. Janaudis, Using Movie

Clips to Foster Learners Reflection: Improving Education in the Affective Domain, “Fam-ily Medicine”, 38(2), 2006, pp. 94-96.

• J. Carpenter, B. Stevenson, E. Carson, Creating a Shared Experience Using Movies in Nursing Education, “Nurse Educator”, 33(3), 2008, pp. 103-4.

• R. Charon, Narrative Medicine. Honouring the Stories of Illness, Oxford University Press, New York 2006.

• D. D’Incerti, M. Santoro, G. Varchetta, Schermi di formazione, Guerini, Milano 2000.• D. Darbyshire, B. Baker, A systematic review and thematic analysis of cinema in

medical education, “Medical humanities”, 38(1), 2012, pp. 28-33.• S. DasGupta, R. Charon, Personal Illness Narratives: using reflective Writing to teach

Empathy, “Academic Medicine”, 79, 2004, pp. 351-56.• L. Garrino, L’utilizzo dei filmati per lo sviluppo della competenza emotiva nella relazione

di cura: una proposta formativa, “Tutor”, 7, 2007, pp. 100-6.• L. Garrino, A. Gargano, M.G. Bedin, Tisser des liens de confiance dans la relation

formative. Le cinéma comme outil pédagogique, “Perspective soignante”, 35, 2009, pp. 114-27.

• L. Garrino, La medicina narrativa nei luoghi di formazione e di cura, Centro Scienti-fico, Milano 2010.

• L. Garrino (a c. di), Strumenti per una medicina del nostro tempo: Medicina narrativa, Metodologia Pedagogia dei Genitori e International Classification of Functioning (ICF), Florence University Press, Firenze 2015.

• L. Garrino, A. Gargano, M.G. Bedin, Le cinéma dans la formation en éthique des professionnels de la santé, in M. Dupuis, R. Gueibe, W. hesbeen, Les formations aux metier de la Santé. Du projet de formation au projet pedagogique en pratique, Seli Arslan, Paris 2013.

• L. Garrino, S. Gregorino, L’immagine filmica nella formazione alle cure: Indicazioni Metodologiche e Pratiche di Utilizzo, “MEDIC”, 19 (2011), pp. 17-24.

• V. Masini, Medicina narrativa. Comunicazione empatica ed interazione dinamica nella relazione medico-paziente, Franco Angeli, Milano 2005.

• L. Mortari, L. Saiani, Gesti e pensieri di cura, McGraw hill, Milano 2013.• J. Oh, J. Kang, J.C. De Gagne, Learning concepts of cinenurducation: An integrative

review, “Nurse Education Today”, 32, 2012, pp. 914-19.• J. Shapiro, L. Rucker, The Don Quixote Effect: Why Going to the Movies Can Help

Develop Empathy and Altruism in Medical Students and Residents, “Families, Systems, & health”, 22(4), 2004, pp. 445-52.

• L. Tesio et al., Scene di integrazione: l’utilizzo del cinema nella formazione all’interculturalità, “Tutor”, 13, 2013, pp.15-21.

• C.M. Weber, H. Silk, Movies and Medicine: An Elective Using Film to Reflect on the Patient, Family, and Illness, “Family Medicine”, 39(5), 2007, pp. 317-19.

• L. Zannini, Medicina narrativa e Medical Humanities, Cortina, Milano 2008.

LORENZA GARRINORicercatore in Scienze Infermieristiche, Università degli Studi di Torino

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le stesse Medical Humanities, le quali – come alcuni dei “facilitatori esperti” presenti al convegno teorizzano anche qui, nelle presentazio-ni dei loro laboratori – operano non coi/sui ragionamenti e le teorie, ma – semmai – colle/sulle emozioni e le esperienze?

Una definizione utile si trova in un testo di Moreno Montanari: egli qualifica come orientato appunto sulle “pratiche filosofiche” il movi-mento, non solo italiano, ma internazionale e ormai alquanto ampio e variegato, che “negli ultimi venticinque-trent’anni ha cercato di rilan-ciare una funzione sociale e non accademica della filosofia, declinando-la in nuove pratiche che sappiano accogliere e prendersi cura delle domande esistenziali delle persone, richiamandosi, in maniera più o meno diretta e fedele, alla funzione che la filosofia ricopriva nell’antichità”2.

Il punto, per me che sono una storica della filosofia antica (quel-la, per intenderci, che studia Socrate, Platone, Aristotele, Epicurei e Stoici), è proprio questo richiamo a qualcosa che non sarebbe nuovo, né – come molti credono e forse perfino temono – una semplice, indebita scimmiottatura di quanto le scienze umane e le pratiche di counselling oggi già propongono e praticano. Mettere la filosofia ‘in pratica’ rispondendo, come precisa Montanari, alle domande esisten-ziali delle persone e alla richiesta di “cura” da esse emergente, non sa-rebbe che riprendere quanto già la filosofia antica faceva alle origini della nostra cultura: ciò che, per varie ragioni, si sarebbe nei secoli perduto e che le varie tecniche di counselling riprenderebbero oggi, presentan-dolo invece come una novità e spesso ascrivendosene la paternità3.

2 M. Montanari, Hadot e Foucault nello specchio dei Greci. La filosofia antica come esercizio di trasformazione, Mimesis, Milano-Udine 2009, p. 176, corsivo mio. Sono trattati qui due pen-satori francesi, Pierre hadot (morto nel 2004) e Michel Foucault (morto nel 1984), che più di tutti hanno mostrato, nei loro libri, questo modo particolare, pratico appunto, di proporre e vivere la filosofia già nel mondo antico.3 Sulle ragioni storiche del perdersi della visione antica della filosofia quale “stile di vita” (tèchne toû bìou), cfr. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France 1981-1982, tr. it., Feltrinelli, Milano 2003 (or. 2001), pp. 18-21, e P. hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, tr. it., Einaudi, Torino 2005 (or. 2002), capp. 3 e 7.Sul rapporto fra pratiche filosofiche e psicoterapie, cfr. Giacometti (a c. di), Sofia e psiche. Consulenza filosofica e psicoterapie a confronto, Liguori, Napoli 2010. Per anni, per indicare le ‘pratiche filosofiche’, si è usata la formula ‘consulenza filosofica’ (la si sente spesso ancora): essa, negli anni ’80, fu usata per tradurre in italiano il nome della prima Società fondata in Germania da Gerd Achenbach, la Gesellschaft für Philosophische Praxis, alla lettera ‘Società per la prassi filosofica’. L’aver tradotto coi termini ‘consulenza’ e ‘counselling’, oltre a perdere tutta

La meditazione condivisa: laboratorio di pratiche filosofiche

Linda M. Napolitano Valditara

a) Le pratiche filosoficheAl convegno sulla Medicina Narrativa tenutosi al CRO nel 2016 mi

è stato affidato il compito di organizzare e condurre un laboratorio di “pratiche filosofiche” per gli operatori sanitari. Il compito, prima ancora della sua fase attuativa, era denso di questioni preliminari da sciogliere, di cui anche qui vanno riprese le principali: bisogna chiarire anzitutto che cosa siano le ‘pratiche filosofiche’, che cosa il Dialogo Socratico e perché questo – scelto quale metodo da impiegare nel laboratorio – sia una pratica filosofica; occorre poi chiarire che cosa tutto ciò (pratica filosofica e Dialogo Socratico) abbia a che fare con la Medicina Narrativa su cui il convegno verteva1.

La conoscenza delle pratiche filosofiche non è diffusa e spesso an-che chi miri a saperne qualcosa si trova davanti non poca confusione in merito. Del resto, come ammettere che la filosofia – materia che tutti ricordiamo dalle scuole superiori come astratta e talora, per ciò stesso, astrusa – preveda una declinazione ‘pratica’? Come ammet-terlo, per giunta, in un ambiente come quello medico-sanitario, dove ancor oggi, per indicare ciò che ha al più una pretesa teorica di verità, ma che non si ritiene dimostrabile e men che meno praticabile, si usa proprio la qualifica di ‘filosofico’? Ancora: come ammetterlo entro

1 Uso le maiuscole per ‘Dialogo Socratico’ perché L. Marinoff, nel molto discusso Platone è meglio del Prozac, tr. it., Pickwick, Casale Monferrato 2001 (or. 2000), riprendendo quello socratico come metodo dei suoi lavori di gruppo, lo ritiene però inconcludente e dunque da scriversi con le iniziali minuscole: mentre solo il dialogo da lui stesso praticato sarebbe capace di giungere a una conclusione e dunque meritevole del maiuscolo.Non concordo con questa tesi: nei Dialoghi giovanili di Platone è vero che Socrate non arriva a dar risposta alle domande che pone, ma solo a mostrare che le risposte fornitegli dall’inter-locutore si contraddicono; ciò però non significa che il metodo, com’è proposto nei Dialoghi, sia di per sé incapace di arrivare a una conclusione e a risposte condivisibili dagli interlocutori.

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A me, per credere a questo assunto e sentirmi impegnata a dimo-strarne tenuta e veridicità, basta ricordare che il primo a parlare di “cura di sé”, intesa come attenzione alla richiesta di senso sulla propria vita, è proprio Platone, in un dialogo risalente all’inizio del IV secolo a.C., l’Alcibiade primo. Egli vi usa, per la prima volta nella storia cultura-le dell’Occidente, l’espressione epimèleia heautoû, cura di sé appunto: questa indica però non – scontatamente – la cura terapeutica che ri-para un malanno o guarisce un disagio (inglese: cure), bensì quella pro-motiva (inglese: care) che fa fiorire potenzialità e scoprire e impiegare risorse interiori e che, se manca, benché non ci renda malati, non può che farci soffrire4.

Quella ‘cura’ che ogni malato richiede tanto quanto e forse anche più delle cure tecnico-riparative somministrategli e rispetto alla quale Me-dical Humanities e Medicina Narrativa svolgono un ruolo fondamentale.

Tale cura filosofica di sé non si traduce infatti solo in visioni generali dell’uomo, del mondo, della vita, della sofferenza, della morte, tutti temi comunque ben presenti nei Dialoghi di Platone e che ancora let-teralmente incantano i miei studenti all’università, o i non pochi uditori degli interventi sempre più frequenti richiestimi fuori dall’accademia.

la potenza di pràxis, termine di origine grecoantica, ha creato numerosi fraintendimenti con le psicoterapie e le varie forme di counselling. Perciò io preferisco usare l’espressione ‘pratiche filosofiche’ e, potendo, recupererei perfino il termine di Achenbach: prassi filosofica. Cfr. G. Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità di vita, tr. it., Feltrinelli, Milano 2009 (or. 1987).Sull’uso delle tecniche di counselling in campo sanitario, soprattutto per l’acquisizione di abilità relazionali, cfr. G. Del Vecchio, L. Vettore, Dottori domani. Storie, dialoghi e riflessioni per una nuova educazione alle cure, Delfino, Milano 2016, pp. 162-67, con la relativa bibliografia.4 Sulla cura filosofica di sé, la letteratura sarebbe ormai amplissima: mi permetto di rinvia-re, per una ricostruzione sintetica dello status quaestionis e della letteratura recente, al primo paragrafo del mio Cura, eros, felicità. In margine all’antropologia di Platone, “Thaumàzein. Rivista di filosofia” online, 1 (2013), pp. 121-48.Punto centrale di differenza fra le pratiche filosofiche e le odierne forme di counselling e le psicoterapie è questo non reputare patologico (cioè malattia) ogni tipo di sofferenza e, di conseguenza, non reputare ogni ‘cura’ come riparativo-terapeutica. Ogni essere umano può soffrire moltissimo (p. es. della perdita di un proprio caro, del proprio invecchiare, per una patologia fisica), ma tale sofferenza non lo segnala come malato: nondimeno egli ha bisogno di curarsi di sé dando senso alla sofferenza che prova.La filosofia si oppone alla corrente ‘medicalizzazione’ di ogni sofferenza argomentando che non ogni male di cui l’uomo soffre sia una malattia da eliminare, e che, perciò, non ogni ‘cura’ debba avere carattere terapeutico.

La cura platonica di sé esige una postura interiore5. Questa cura induce un modo concreto di stare al mondo, da tradursi in atti quotidiani ben precisi e ripetuti:a) l’interrogazione costante di se stessi e della propria vita, dei valori che la

guidano e delle opinioni che la nutrono, come delle proprie aspirazioni, paure, angosce e in generale delle emozioni che si vanno esperendo;

b) l’aspirazione a esser consapevoli di quei valori, di quelle opinioni, come delle proprie emozioni, e a fondare le prime e governare le seconde nel modo più personale e autonomo: non vivendo, dunque, solo perché l’educazione ricevuta, la moda, la tradizione, l’abitudine, i mass-media mostrano e insistono che ‘si vive’ e ‘si sente’ così6;

c) il costante esercizio a trovare motivazioni fondate e personali a ciò che si crede vero e al comportamento che divenga, perciò, meritevole del nostro costante desiderio e della nostra quotidiana fedeltà.La platonica cura di sé è non può essere che una filosofia tradotta in

pratica, cioè un vedere, un sentire e un agire integralmente ‘trasfor-mati’ rispetto a se stessi e al mondo. Il perno di tutto potrebbe essere proprio il poter ripetersi, ogni giorno: ‘ora so che la mia vita ha questo

5 Anche quest’esigenza, nel darsi cura di sé, di maturare poco a poco una vera e globale postura interiore differenzia le pratiche filosofiche da tutte le tecniche di counselling: nessuna pratica filosofica è riducibile a una semplice tecnica da impiegare, automaticamente o stru-mentalmente, senza una globale adesione a esse del proprio sé. Perciò anche il laboratorio al convegno non era che un ‘assaggio’ di quanto andrebbe fatto in veri e propri cicli laboratoriali di pratiche filosofiche.Il termine ‘pratiche filosofiche’ è, poi, usato al plurale perché non uno, ma molti sono gli ‘esercizi spirituali’ che possono contribuire a indurre e consolidare questa postura interiore: hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., pp. 43-68, ne elenca alcuni, cioè l’imparare a vivere; l’imparare a dialogare, l’imparare a morire (!); l’imparare a leggere.6 Uso non l’espressione – peraltro frequentissima – ‘gestire’ le proprie emozioni, bensì ‘governare’ le proprie emozioni: la prima è di derivazione finanziario-aziendalistica (si gestisce il proprio conto corrente, oppure un pacchetto di azioni), la seconda rende meglio il greco àrchein, governare appunto.Governare sottolinea come non si tratti solo di conoscere e organizzare tecnicamente a pro-prio vantaggio il ‘pacchetto’ emozionale che ci si trova in mano: si tratta di conoscerlo, di far emergere il più possibile le ragioni di ogni emozione esperita e di trovare le risorse – se una risulti disfunzionale o ‘afflittiva’ – per trasformarla nel suo contrario oppure in un’emozione diversa, che dia meno dolore tanto quanto indurrà ad agire diversamente.Nessuno di noi, infatti, è responsabile delle emozioni che prova, ma solo del modo in cui, a partire dall’emozione che prova, poi si comporta. L’emozione esperita, del resto, dipende dalla nostra visione del mondo: dandosi cura di ri-meditare tale visione, è possibile che l’emozione stessa che ne deriva si trasformi.

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senso e che esso è, propriamente, il senso che io, finché mi sarà pos-sibile, scelgo di vivere e desidero e amo vivere’.

Poiché con sole due ore per gruppo laboratoriale non vi sarebbe stato il tempo di spiegare ai partecipanti tutto ciò, abbiamo chiesto agli organizzatori di fornire preventivamente, a quanti si sarebbero iscritti, un breve vademecum (una sola pagina) di presentazione dove il labora-torio era introdotto così:

MATERIALI E SUPPORTI FORNITI (1):Nel nostro laboratorio applicheremo la pratica filosofica più antica, cioè il Dialogo Socratico.Avremo il supporto sonoro del più autorevole sostegno riconosciuto alla meditazione: le campane tibetane, suonate ‘in diretta’ apposita-mente per noi.Il nostro scopo è creare, pur nella brevità del tempo concessoci, uno spazio di sosta e tranquillità per riflettere insieme su aspetti centrali legati alla professione di cura e sanitaria.Per partecipare al laboratorio non sono necessarie nozioni di filosofia o di storia della filosofia.Ogni essere umano, in quanto ‘portatore di lògos’ (= parola/ragione), può partecipare attivamente alla pratica del Dialogo Socratico e rica-varne un utile in termini di maggiore consapevolezza e serenità.Per partecipare occorrono soltanto disponibilità:alla riflessione autentica e profonda;al confronto con gli altri delle proprie opinioni;alla creazione condivisa di prospettive nuove che il Dialogo Socratico faccia emergere.

b) La pratica filosofica del Dialogo SocraticoUn brano di Platone spiega quanto anticipato fin qui, mostrando

che ogni pratica filosofica si lega al dialogo, come Socrate lo conduce-va per le strade e nelle piazze di Atene, e a quella che oggi chiamiamo Medicina Narrativa.

Dice dunque il generale Nicia, presentando Socrate all’amico Lisimaco:

Mi pare che tu [Lisimaco] non sappia che chi più si trova vicino a Socrate […] e più dialoga con lui, anche se prima ha iniziato a discutere di tutt’altro, non può smettere di farsi condurre da lui nel discorso, fino a che non abbia dato ragione di se stesso, del modo in cui ora sta vivendo e di che vita abbia vissuto in passato: e, quando abbia iniziato a far questo, Socrate non lo lascerà anda-re prima di averlo messo alla prova su tutte queste cose, in modo minuzioso e al limite della tortura. Io che lo conosco bene, so che non si può sfuggire a un simile trattamento da parte sua e che dovrò a mia volta sottopormici ancora. Ma io, Lisimaco, ho piacere a starci insieme, perché credo che non ci sia niente di male a richiamarci su quanto abbiamo fatto o stiamo facendo in modo non bello: ma che, anzi, chi non fugge davanti a questo trattamento si faccia più accorto per il tempo a venire, purché lo voglia e sia convinto […] di aver da imparare finché vive e non creda che sia la vecchiaia a farlo saggio7.

Il Dialogo Socratico inizia dunque col porre una domanda: nella tra-dizione socratica originaria, ripresa nei Dialoghi di Platone, essa suona come “che cos’è x?” (di solito una virtù, oggi noi diremmo un valore, come amicizia, devozione, saggezza, coraggio, giustizia ecc.). Con la sua domanda – in un momento storico simile al nostro quanto alla perdita e revisione di valori fino ad allora solidi e tradizionali – Socrate mirava a trovare una definizione di x tale da coprire tutti i casi che di quel x s’incontrassero. Trovare una definizione di amicizia che ‘rendesse ra-gione’ di tutti i legami di amicizia, una definizione di coraggio capace di ‘dar conto’ di tutte le azioni coraggiose, d’indicare il tratto che ognuna e tutte le azioni devono esibire per esser dette, appunto, casi di ami-cizia o di coraggio.

Talvolta egli formulava la domanda in un altro modo, cioè chiedeva: “che cosa dici che è x?”, o anche “che cosa chiami x?”. Egli, dunque, chie-deva a ognuno degli interlocutori incontrati nelle piazze, case e palestre di Atene la propria opinione personale su x, la ‘resa di conto’ di quanto la propria esperienza e storia personale permettesse loro di dirne8. Più o meno, dunque: tu, Nicia, che sei un famoso generale e sei stato in guerra, che cosa dici, stando alla tua esperienza personale e storia di vita, che sia il coraggio? Tu, Menone, che sei un bravo oratore e hai riscosso successo nel far conferenze sull’eccellenza umana, che cosa, stando alla

7 Platone, Lachete, 187e-188b, la tr. it. dal greco antico e i corsivi sono miei.8 ho trattato la diversa formulazione della domanda socratica di partenza ne Il sé, l’altro, l’intero. Rileggendo i Dialoghi di Platone, Mimesis, Milano-Udine 2010, pp. 118-23.

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tua esperienza personale e storia di vita, dici debba possedere un uomo per dirsi eccellente? Che idea te ne sei fatto, tu, che esperienza hai avuto, tu, di questo valore? E perciò che cosa, adesso, dici che questo valore è? Come lo chiami, come lo definisci?

Inizia a emergere qui il legame fra Dialogo Socratico e narrazione: come quest’ultima implica un affinamento delle competenze a raccon-tare la propria storia e, insieme, a comprendere le storie altrui (ciò che sta alla base della Medicina Narrativa), così già Socrate mirava a trarre dai propri interlocutori un sapere basato sulle loro storie ed espe-rienze di vita, a ricevere risposte che fossero frutto di quelle storie ed esperienze e che quindi in qualche modo le narrassero.

Nel brano citato a inizio paragrafo questo appare chiaro: non im-porta di che cosa l’interlocutore si trovi a parlare con Socrate perché, “anche se prima ha iniziato a discutere di tutt’altro, non può smettere di farsi condurre da lui nel discorso, fino a che non abbia dato ragione di se stesso, del modo in cui ora sta vivendo e di che vita abbia vissuto in passato”. Ciò che ognuno di noi ora crede sia amicizia, coraggio, sa-lute, malattia, sofferenza, morte, vita ecc., ciò che ognuno, invitato a parlarne, può dirne, la parola stessa che usa per nominarlo dipendono esattamente dall’idea che se ne è fatto nella sua storia di vita, dall’espe-rienza che ne ha avuto e che ora, appunto, il Dialogo Socratico lo chiama a narrare e a restituire9.

La domanda socratica – quale che sia il suo specifico tema – mira far sì che l’interlocutore ‘renda ragione’ (lògon didònai) di sé, del modo in cui in vive e sta vivendo; dunque a far emergere quanto al paragrafo precedente (punto a) ho indicato come primo passo di una pratica filosofica quale forma di cura di sé: l’interrogazione costante di se

9 Un esempio personale a supporto di questo legame fra ‘nome’ dato alle cose ed espe-rienza vissuta: la mia generazione ha assistito alla nascita anche in Italia del femminismo e io lavoro in un’università dove si studia il problema femminile. Varie mie colleghe pretendono, proprio per sottolineare la parità fra uomo e donna, che davanti al loro cognome non sia messo l’articolo determinativo femminile ‘la’ (dunque si chiamano, l’una l’altra, Rossi, Bian-chi, Verdi, lasciando impregiudicato se si tratti, ogni volta, di maschi o femmine). Io invece – che, pur non avendo mai ‘militato’ nel femminismo, né avendolo mai studiato, mi reputo serenamente pari a ogni maschio che incontri – desidero invece che l’articolo preceda il mio cognome (‘la’ Napolitano), proprio perché sia chiaro che colei che parla o che scrive è una donna. Banalmente, perché nella mia storia di vita è stato importante esserlo… e si tratta solo di un articolo!

stessi e della propria vita, del valore su cui questa poggia, dell’opinio-ne che crede vera, di quanto in essa suscita emozione e dirige, poi, atteggiamenti e azioni10.

Ma non basta. Socrate non si accontenta che l’interlocutore rac-conti la sua esperienza di vita, narri l’idea che si è fatto di x e casomai confidi e condivida l’emozione che x gli suscita: egli, nel Dialogo So-cratico, pretende di più. Prima di chiarire questo ‘di più’, devo preci-sare (come già ho fatto altrove) che talvolta a me pare invece che nei focus group, o nelle pratiche laboratoriali usate anche al convegno, benché ci si proponga di riflettere sull’esperienza, invece la narrazione delle esperienze vissute e la messa in comune delle storie personali siano reputate non solo necessarie, ma, alla fine, anche sufficienti e che la riflessione condotta insieme sia meno di quella che potrebbe/dovrebbe essere.

Certamente porre la propria esperienza dinnanzi a sé, attraverso la verbalizzazione nel gruppo o addirittura la messa per iscritto, è importante: perché già questo narrarla ne implica in qualche modo l’oggettivazione. Utile è il fatto che, narrandomi, io comprenda e sen-ta quantomeno che sono io ad avere un problema, piuttosto che sen-tirmi – angosciosamente – immerso in un problema che in qualche modo… ha me. Compiere questo passo – narrazione/oggettivazione della propria storia – non è per nulla poco.

Esso, per basilare che sia, però non basta: riflettere sull’esperienza vissuta non significa solo ‘narrarla’ o ‘esprimerla’ ad altri, alleggeren-done così in qualche modo il peso, oppure limitarsi a confrontarla con l’esperienza altrui, per concludere (come molti dei partecipanti ai laboratori effettivamente hanno fatto), che diversi sono i modi, tutti legittimi, di vedere e sentire una stessa questione, e aumentare così la propria disponibilità ad accettare modi diversi dai propri.

Dialogare socraticamente sull’esperienza, riflettere su di essa, signi-fica soprattutto chiedersi se l’esperienza stessa, il valore su cui essa si basa e l’emozione e l’azione che essa induce:

10 Questo legame fra Dialogo Socratico e narrazione di sé è per lo più trascurato dalla let-teratura tradizionale: cercherò di metterlo in luce in un mio lavoro ora in uscita per Mimesis: Il dialogo socratico. Fra tradizione storica e pratica filosofica per la cura di sé.

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a) siano coerenti fra loro e con altri elementi esistenziali importanti per chi risponde/narra;

b) se quel valore, quella conoscenza, quell’emozione e quell’azione siano tutto ciò che in merito si può conoscere, credere, sentire e agire, o se non siano possibili, in quel campo, conoscenze, opinioni, emo-zioni e azioni diverse o perfino opposte.Questa richiesta di coerenza non solo logica, ma esistenziale e so-

prattutto questa interrogazione sull’alternativa, questa “conversione” o “rigiramento” dello sguardo, credo sappia porle solo, o soprattutto, la filosofia11.

E credo che lo strumento capace di farlo sia, appunto, il Dialogo So-cratico, il quale, per questo, è non solo la più antica delle pratiche filoso-fiche (di certo più antica, checché se ne pensi, di ogni tecnica di counsel-ling), ma anche la più basilare delle pratiche di ‘cura’: cioè quella che ogni altra pratica di fatto – e spesso senza rendersene conto – impiega12.

11 Cfr. in merito già il mio Oltre la narrazione: il nostro bisogno di filosofia, in Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina, Atti del convegno IV, Aviano 13 novembre 2014, a c. di L.M. Napolitano Valditara, Centro di Riferimento Oncologico, Aviano 2016, pp. 30-65, soprattutto 47-56 (sullo stesso brano del Lachete qui proposto a inizio paragrafo).La coerenza esistenziale è – banalmente – quella che tutti pretendiamo, dagli altri e prima ancora da noi stessi, fra le cose dette e le azioni compiute (cfr. Platone, Lachete, 188 c-d; Gorgia, 482 b-c; Fedro, 279 b-c).Quanto alla ‘conversione dello sguardo’, richiamavo, nel saggio ora citato (ivi, p. 255), anche il passo 518c-d della Repubblica, in cui a tale ‘conversione’ Platone allude col termine periago-ghè, ‘rigiramento su se stessi’.Nel laboratorio al CRO il passo dell’interrogazione sull’alternativa, mirante a indurre tale ‘ri-giramento’ dello sguardo, è stato compiuto ponendo ai partecipanti, come vedremo, doman-de opposte sul medesimo oggetto: “credi che valga x?”, “oppure credi forse che valga non-x?” e inducendoli a riflettere sulle conseguenze derivanti dall’una e dall’altra alternativa. L’Aristo-tele del secondo libro della Metafisica chiamerebbe questo: “procedere attraverso le aporie”, diaporêsai kalôs: ma il metodo che esplora ipotesi opposte (cioè che qualcosa sia così, ma anche non così) è teorizzato già da Platone nel Parmenide, 135e-136a.12 In effetti, anche in altri laboratori al convegno è stata usata la domanda su che cosa il brano filmico, o quello del libro, la poesia recitata o l’immagine mostrata suscitassero nei partecipanti, o ispirassero loro, in rapporto appunto all’esperienza di vita di ciascuno. Un’analogia è stata no-tata, nel questionario finale, anche da una partecipante al laboratorio di pratiche filosofiche (cioè che anche le riunioni fatte nel suo reparto utilizzassero un metodo simile a quello del nostro laboratorio, cosa di cui però solo ora, dopo avervi partecipato, ella si dichiarava consapevole).Credo però che solo nel laboratorio di pratiche filosofiche si sia chiesto se l’oggetto narrativo ispirasse o suggerisse x oppure forse anche non-x (interrogazione, appunto, dell’alternativa): e anche questo aspetto è stato sottolineato da alcuni partecipanti nei questionari finali (cfr. sotto, Restituzioni).

Non per caso, nel brano citato a inizio paragrafo, l’interrogare di Socrate è paragonato a una ‘tortura’: perché egli continua a interroga-re l’interlocutore, non lasciandolo andare, ma neppure lo abbandona lui, prima di aver ‘testato’ la coerenza delle risposte ch’egli dà e prima di aver raggiunto lo scopo del suo dialogare.

Anche questo è indicato in modo chiaro; precisa Nicia, pur dicendo di sapere che lui stesso dovrà sottoporsi alla “tortura” socratica: “io ho piacere a star insieme [a Socrate], perché credo che non ci sia niente di male a richiamarci su quanto abbiamo fatto o stiamo facendo in modo non bello: ma che, anzi, chi non fugge davanti a questo trattamento si faccia più accorto per il tempo a venire, purché lo voglia e sia convinto […] di aver da imparare finché vive e non creda che sia la vecchiaia a farlo saggio”.

Dunque non c’è nulla di male nell’assillante richiesta socratica di render ragione della propria vita, delle proprie opinioni, delle proprie emozioni e azioni: la sua interrogazione mira appunto a rilevare quanto si sia fatto o si stia facendo “in modo non bello”, cioè inconsistenze, fra-gilità o contraddizioni del proprio quadro esistenziale, valori inverificati, opinioni non fondate, emozioni non confessate o di cui ci vergogna, azioni a cui ci si sente obbligati e nelle quali però non ci si riconosce. Tutto quel ‘non-curato’ che può dare e anzi certamente dà sofferenza, anche prolungata e profonda, a chi peraltro non può, a causa di tutto questo dolore che prova, esser qualificato malato o pazzo. Per rilevare tutto questo, e divenire però “per il futuro più accorti”, occorre sotto-porsi, appunto, alla ‘tortura’ (bàsanos) del Dialogo Socratico13.

Il brano conclude che ognuno di noi esseri umani è di fatto e sem-pre in cammino: ci si sottopone volentieri alla ‘tortura’ del Dialogo Socratico, se si ha chiaro che non basta l’età, cioè la quantità di vita vissuta, a renderci saggi e che invece sempre, finché si vive, ci sarà qualcosa da imparare (e che, perciò, farà soffrire). Da imparare una saggezza – un perché dei valori in cui crediamo, delle opinioni che

13 In greco antico il bàsanos è la ‘prova’ a cui si sottopone qualcosa per testarne il valore, e, letteralmente, la pietra usata per testare la purezza dell’oro: valori, opinioni, sentimenti e azioni che siano frutto di un’autentica e protratta meditazione personale e di una storia coe-rente di vita difficilmente, sottoposte alla ‘prova’ del Dialogo Socratico, mostrano debolezze, fragilità o incoerenze. Esse sono l’‘oro puro’ rimasto in fondo al crogiolo che ogni giorno – dolorosamente – ‘testa’ il valore e la consistenza della vita che ci curiamo di darci e di vivere.

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nutriamo, delle emozioni che proviamo, delle azioni che compiamo – che non si acquisisce senza la postura di cura di sé tipica della pratica filosofica e realizzata tramite il Dialogo Socratico: la postura di chi – per dirla ancora con Platone – sa, come essere umano, di non esser sapiente come un dio, né privo di sapienza come una bestia, ma di po-tere e dovere per la vita intera appunto, continuare a essere “amante di sapienza”, philòsophos appunto14.

Nel vademecum proposto preliminarmente ai partecipanti tutto questo era sintetizzato così:

MATERIALI E SUPPORTI FORNITI (2):Qualche notizia sul Dialogo SocraticoÈ la modalità di comunicazione-riflessione praticata dal filosofo Socrate ad Atene nel V secolo a.C., secondo la testimonianza lasciatecene da Platone (427-347 a.C.) nelle sue opere, non per caso aventi anch’esse la forma di dialoghi.Questa particolarissima forma di dialogo (interrogazione, esame delle opinioni, confutazione di quelle parziali o infondate, ricerca condivisa di opinioni nuove più fondate) ha trovato grandi commentatori e imitato-ri nella riflessione del ’900: sia in campo filosofico (Martin Buber), sia in sede pedagogica (Leonard Nelson, Gustav Heckmann), sia oggi, almeno in parte, in campo psicologico (Paul Watzlawick, Giorgio Nardone).Nel campo delle pratiche filosofiche – cioè dei tentativi odierni di riap-plicare la filosofia alla vita quotidiana, com’era nell’antichità - è forse la pratica per eccellenza.Infatti, “da un punto di vista antropologico l’uomo è l’animale che, per diventare adulto (vale a dire per essere responsabile e per inserirsi – se possibile creativamente – in una cultura) ha bisogno di una serie ininterrotta di dialoghi”15.Vero ciò, va anche ricordato che “comunicazione” è, oggi, una sorta di “parola-valigia che entra in ogni forma di discorso e di vita […] [ma essa] significa entrare in relazione con la nostra interiorità e con quella degli altri. Nella convinzione che ‘comunicazione’ sia sinonimo di cura”16.

14 Cfr. Platone, Simposio, 203d, col mio commento in ‘Amante di sapienza per la vita intera’. PLATONE, ‘Simposio’. 203 d 7, in L. Cardullo, D. Iozzia (a c. di), Bellezza e virtù. Studi in onore di Maria Barbanti, Bonanno, Acireale-Roma 2014, pp. 151-66.15 M. Trevi, Dialogo sull’arte del dialogo, Feltrinelli, Milano 2008.16 E. Borgna, Parlarsi. La comunicazione perduta, Einaudi, Torino 2015.In questa presentazione, inoltre, si faceva riferimento ad alcuni testi importanti per la cono-

c) Strutturazione del laboratorioDue persone mi hanno aiutato a preparare e strutturare, passo dopo

passo, il laboratorio: Anna De Odorico, consulente filosofico di trasfor-mazione, e Francesca Bisiani, operatrice del benessere ed esperta del massaggio vibrazionale sonoro. Da anni con queste due persone ho rap-porti non solo di amicizia, ma di condivisione filosofica e perciò di fiducia in quanto andavamo a fare: fiducia derivante dal fatto che ognuna non solo l’ha studiato in teoria, ma l’ha sperimentato anzitutto e con esiti positivi su se stessa e per condividerlo poi con altri.

Anna ha messo a disposizione l’esperienza già fatta al CRO, dove aveva allestito e guidato dei focus group con gli operatori, per il tirocinio del suo Master in “Consulenza filosofica come via di trasformazione”17; Francesca ha fornito un supporto basilare, mettendoci a disposizione la sua esperienza nell’uso, a fini di meditazione, delle campane tibetane, che, durante il laboratorio, ha suonato in diretta.

Ecco come quest’ultimo – particolarissimo – aspetto era presentato nel vademecum preliminarmente fornito ai partecipanti:

MATERIALI E SUPPORTI FORNITI (3):Qualche notizia sulle campane tibetaneSono strumenti considerati da molti popoli come capaci di emettere una forma pura di suono, ovvero di vibrazione poli-armonica: perciò sono definiti strumenti vibrazionali. Prodotte in Tibet, Nepal, India, ma anche in Cina, Giappone e Corea, le campane hanno però una prove-nienza e storia ancora avvolte nel mistero. Sono composte di sette metalli diversi, ognuno tradizionalmente legato a uno dei pianeti del sistema solare: oro/sole; argento/luna; mercurio/Mercurio; rame/Venere; ferro/Marte; stagno/Giove; piombo/Saturno.

scenza del dialogo, socratico e non: M. Buber, Il Dialogo. Parole che attraversano, ed. ebook 2013 (or. 1984), e Il principio dialogico e altri saggi, tr. it., San Paolo, Milano 2014, nonché B. Casper, Il pensiero dialogico. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner e Martin Buber, tr. it., Morcel-liana, Brescia 2008 (or. 1967); P. Dordoni, Il dialogo socratico. Una sfida per il pluralismo soste-nibile, con scritti di L. Nelson, G. Heckmann e M. Specht, Apogeo, Milano 2009; G. Nardone, A. Salvini, Il dialogo strategico. Comunicare persuadendo: tecniche evolute per il cambiamento, Ponte alle Grazie, Milano ed. ebook 2012.17 Il Master era attivato all’Università di Verona, Dipartimento di Scienze Umane, fino al 2016: cfr. l’elaborato finale A. De Odorico, Prendersi cura di chi cura, Master di II livello “Con-sulenza filosofica come via di trasformazione”, Biennio 2013-2015.

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Il suono emesso cambia non solo rispetto alla modalità di percussione (battito o strofinamento), ma in base a diverse caratteristiche della campana, quali la proporzione con cui sono presenti i diversi metalli, lo spessore e la forma. Chiamata anche singing bowl (= ciotola can-tante), è un valido supporto per tutte le pratiche che necessitano di rilassamento e meditazione. Quanto a quest’ultimo aspetto, molte ricerche evidenziano come, quando vengano suonate, le campane tibetane emettano onde alfa, simili alle onde cerebrali, regolari e sincronizzate, caratterizzate da frequenze fra gli 8 e i 12 hertz: tali onde sono rilevabili durante la veglia a occhi chiusi e nei momenti precedenti l’addormentamento (cfr. http://www.iobenessere.it/campane-tibetane/).Per Francesca, che suonerà per noi le campane, il loro ‘canto’, posto tradizionalmente in armonia con le vibrazioni delle sfere celesti, ha la meravigliosa capacità di portare chi le ascolta a raggiungere appunto le frequenze alfa delle onde cerebrali tipiche degli stati meditativi più profondi. Il corpo umano stesso, inoltre, non è che un insieme di vibrazioni e onde, il cui equilibrio energetico ottimale è garantito da una ‘risonanza’ con la frequenza armoniosa originaria18.

Nei lavori preparatori a tre, di per sé assai arricchenti per tutte noi, abbiamo individuato alcuni obiettivi, reputati insieme basilari da conse-guire nel tempo dato per ogni laboratorio; per ogni obiettivo abbiamo poi definito gli strumenti che meglio permettessero di raggiungerlo.

c1) La dimensione temporale Era nostro obiettivo che in quelle due ore ogni partecipante espe-

risse un tempo ‘diverso’, durante il quale non stava solo imparan-do/applicando l’ennesima tecnica nuova: stava sperimentando un

18 Molti partecipanti, nei questionari finali, hanno segnalato, come vedremo, la positività dell’esperienza fatta con le campane tibetane: uno solo (l’unico, su 19, che, fra l’altro, assegna al laboratorio un punteggio negativo) dichiara di aver trovato “curioso l’uso delle campane a scopo terapeutico” (corsivo mio).Ma né in questo vademecum, né durante il laboratorio si è mai accennato al fatto che le cam-pane fossero usate “a scopo terapeutico”. Dopo la visione dei questionari finali, Francesca Bisiani, da me interpellata sul punto, ha ribadito – con motivazioni analoghe a quelle indicate da Marco Dalla Valle per il laboratorio di biblioterapia – che un “uso terapeutico” delle cam-pane tibetane non era e non è tra i suoi fini e che anzi ella ha ben chiaro che non debba esserlo. Le campane erano solo un supporto alla meditazione, per le ragioni spiegate – crediamo senza possibilità di fraintendimento – già nel vademecum.

distacco dalla frettolosità quotidiana, di rientro autentico e profondo in sé e di rapporto con altri altrettanto aperto, intenso e vero. Un tempo che, sperimentato in quell’occasione, potesse anche da sé ritrovare e rivivere, se una situazione di stress o d’incertezza glie-ne avesse in seguito segnalato il bisogno.

Per conseguire quest’obiettivo strumento basilare erano appunto, le campane tibetane: ne sono state portate e deposte in terra, su una coperta e accanto ai partecipanti riuniti in cerchio, una ventina, di varie misure, ed esse sono state suonate in apertura e chiusura del laboratorio e nelle fasi della scrittura meditativa individuale.

Strumenti secondari per quest’obiettivo erano dei gesti simbolici: all’inizio del laboratorio ogni partecipante è stato invitato – dopo la presentazione delle ‘conduttrici’ – a prendere, da un cesto de-posto al centro, un piccolo sacchetto trasparente, contenente dei sassolini e chiuso da un nastrino colorato. Ognuno è stato invitato a scegliere quello che più gli piacesse e a tenerlo un po’ fra le mani, mentre Francesca si muoveva attorno, suonando una campana e invitando i partecipanti a chiudere gli occhi e a respirare profon-damente (gesti compiuti anche dalle ‘conduttrici’ Linda e Anna). È stato precisato che quel sacchetto simboleggiava la vita di ogni partecipante, con le sue inevitabili ‘pesantezze’ e ‘asperità’ (i sasso-lini), ma anche coi suoi tratti positivi e amabili (i colori del nastro). Ognuno, dopo aver tenuto il sacchetto fra le mani per prendere coscienza della propria vita, quando se la fosse sentita lo avrebbe ‘deposto’ a terra accanto a sé: a segnalare che i problemi esisten-ziali erano in quel tempo non negati o fuggiti, ma ‘messi da parte’, ‘scaricati’, proprio per consentire, distaccandosene, di meditarci su. Alla fine del laboratorio ognuno è stato invitato a ‘riprender su’ e a portarsi via il suo sacchettino esistenziale: la vita di sempre aspettava ognuno di noi fuori di lì e l’auspicio era che l’averne, per un po’, ‘scaricato’ il peso la rendesse più vivibile.

L’eccezionalità del tempo del laboratorio stava quindi fra un’aper-tura e una chiusura siglate da gesti simbolici.

La chiusura è stata ulteriormente ribadita dalla consegna finale, a ogni partecipante, di un cordoncino dorato, con cui legare, arroto-landoli, i fogli su cui aveva scritto le proprie meditazioni durante

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il laboratorio: una sorta di ‘mini-diploma’ delle riflessioni di cui, in quel tempo speciale, era stato lui stesso capace.

Un tempo, quindi, e una capacità che, se l’avesse voluto, avrebbe potuto ritrovare anche in seguito.

MATERIALI E SUPPORTI FORNITI (4):- sacchettino ‘esistenziale’;

- cordoncino dorato per chiudere il foglio delle proprie riflessioni.

c2) L’oggetto narrativo Nei laboratori allestiti al CRO son stati usati vari oggetti narrativi:

racconti, poesie, film, immagini. Anche noi abbiamo scelto un og-getto narrativo costituito da un’immagine: dopo la presentazione reciproca dei partecipanti, ognuno, aprendo la cartellina consegna-tagli, ha infatti trovato una riproduzione a colori, in A4, de Il com-pianto sul Cristo morto di Sandro Botticelli19. Ognuno è stato invitato a osservare l’immagine e a rispondere, per iscritto, a delle doman-de, compito per cui sarebbe stato dato un certo tempo, durante il quale Francesca avrebbe accompagnato la meditazione individuale col suono delle campane; gli esiti di quanto scritto sarebbe poi stato messo in comune nella meditazione condivisa20.

Perché si è scelta – fra vari oggetti narrativi – un’immagine? Per due ragioni: anzitutto, essendo per noi basilari, con la condivisione nar-rativa, altre fasi strutturali del laboratorio (meditazione individuale e meditazione condivisa) e poiché queste prendevano tempo, sulle due ore globali assegnateci ne avevamo in proporzione poco per iniziare condividendo un racconto o una poesia. L’immagine, icono-grafica o filmica, è strumento narrativo il cui impatto, al fine di nar-rare una storia, è invece più diretto e immediato21: ognuno avrebbe

19 È una tempera su tavola (170 × 71), dipinta fra il 1495 e il 1500, inizialmente per una pala d’altare di una chiesa fiorentina: il dipinto è esposto oggi al Museo Poldi Pezzoli di Milano.20 Meditazione individuale e meditazione condivisa sono illustrate subito di seguito.21 Interessanti, qui, le analoghe considerazioni di Daniele Bruzzone (per il laboratorio sulle immagini iconografiche) e di Lorenza Garrino (per quello sulle disease related movies). Qualcuno, nei questionari finali, ha dichiarato di sentire più adatto alle proprie corde uno strumento narra-tivo diverso dalla nostra immagine, forse, appunto, un oggetto letterario (cfr. sotto, Restituzioni).

dunque, da solo, guardato la stessa immagine proposta agli altri e avrebbe poi riflettuto sulla ‘storia’ che vedeva narrata in essa22.

Perché, poi, è stata scelta questa immagine? È stato subito chiarito che il focus non era sul carattere religioso del dipinto, cioè sul fatto che rappresenti la Passione di Gesù, e la formulazione delle domande rendeva altrettanto chiaro che non occorresse improvvisarsi critici d’arte per ragionarvi sopra (anche se in merito c’è stato poi, soprat-tutto nel Gruppo 1, un dibattito). Il compianto sul Cristo morto, opera della maturità di Botticelli, ha un’elevata intensità espressiva, sia per i colori che impiega (su cui in effetti i partecipanti hanno ragionato), sia – ancor di più – per lo stretto intreccio che propone fra i corpi dei sette personaggi rappresentati. Essi sono letteralmente ‘legati’ uno all’altro, a costituire una sorta di piramide umana orientata verso l’alto, e ognu-no è in contatto fisico stretto con uno o più di quanti gli stanno attorno, a loro volta uniti ad altri23. Ciascuno e tutti i personaggi, quindi, pur non guardandosi (molti hanno gli occhi chiusi o socchiusi), sono presentati come materialmente, carnalmente legati nella stessa sofferenza, centrata sul cadavere del Gesù, ciascuno e tutti sono accomunati nel dolore della sua perdita, in un contatto di gambe e mani che sorreggono e carezzano, detergono e stringono, di volti che si nascondono a pian-gere o si appoggiano uno all’altro per sostenersi vicendevolmente.

L’immagine è stata scelta proprio perché narra con grande intensità la storia di una sofferenza (quella della fragilità umana e della morte) che chiama tutti, senza differenze, all’appello e che dunque tocca tutti; ma che, insieme, coinvolge tutti nel rapporto – stretto, fisico, carnale – con l’altro e nella possibilità, proprio perché nessuno può

22 Anche Anna De Odorico ha lavorato con le immagini nei focus group a suo tempo alle-stiti al CRO (e così Nicoletta Suter nel laboratorio di scrittura riflessiva): ma ne proponeva molte, diverse, invitando ciascun partecipante a scegliere quella che sentiva più rappresenta-tiva di sé (cfr. il suo Elaborato finale, citato sopra).23 Al centro, esanime, si trova Gesù, appena deposto dalla Croce, che è sorretto in grembo alla Madonna e circondato alle estremità dalle tre Marie (in basso a sinistra, la Maddalena si china sui piedi trafitti dai chiodi, ripetendo il gesto del primo incontro). La Madonna, a sua volta, reggendo il figlio morto, pare venir meno ed è sorretta da san Giovanni. In alto, a chiudere questa sorta di dolorante piramide umana, sviluppata in verticale verso l’oscurità del sepolcro aperto in cima, sta Nicodemo, con in mano la corona di spine e i chiodi appena tolti dal corpo martoriato del defunto: il suo sguardo, rivolto al cielo, pare sottolineare l’i-naccettabile enormità di quanto appena accaduto.

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chiamarsi fuori dal dolore, di esser valido sollievo e supporto al dolo-re altrui. Fin dall’inizio l’immagine ci è parsa adatta a rappresentare il contesto spirituale profondo del lavoro di cura, nel suo male (il dolore che tocca a tutti) come nel suo bene (la ‘cura’ stessa che, proprio perché il dolore non esclude nessuno, ognuno senta, mo-ralmente ed empaticamente, di poter dare all’altro sofferente).

d) La meditazione individuale e condivisaDunque, dopo i gesti simbolici iniziali, la presentazione sia del-

le ‘conduttrici’ che dei partecipanti e la consegna e apertura delle cartelline, è stato assegnato un tempo preciso (15 minuti) perché ognuno riflettesse sull’immagine propostagli e, supportato nella con-centrazione dalle campane tibetane, mettesse per iscritto le proprie riflessioni.

Queste miravano a rispondere, intanto, a due domande poste nel secondo foglio della cartellina; e cioè: “che cosa vedi di negativo nell’immagine propostati?” e “si lega questo negativo in qualche modo al tuo lavoro?”. Per ogni domanda ognuno disponeva di cinque righe per stilare una risposta aperta.

Alla fine dei 15 minuti, è stato interrotto il suono delle campane tibetane e i partecipanti sono stati invitati a condividere, uno per uno e in un dialogo di circa mezz’ora, le riflessioni appena fatte individual-mente: una delle conduttrici ha sintetizzato per iscritto sulla lavagna a fogli mobili quanto progressivamente emergeva da tale messa in comune delle riflessioni individuali (concetti e parole chiave). Duran-te questo giro, si è cercato anche, con ulteriori domande poste ogni volta, di chiarire e precisare il più possibile quanto ognuno veniva proponendo (‘che cosa dici che è…?’; ‘che cosa chiami…?’).

Finito questo primo ‘giro’, è iniziato il secondo, dove alla medita-zione individuale dei partecipanti sono state proposte, con le stesse modalità procedurali, spaziali e temporali, altre due domande: “che cosa vedi di positivo nell’immagine propostati?” e “si lega questo posi-tivo in qualche modo al tuo lavoro?”24.

24 All’indicazione iniziale “che cosa vedi di negativo in quest’immagine?”, una partecipante al primo laboratorio ha subito chiesto che cosa dovesse fare rispetto al ‘positivo’ che ella

Per entrambi i ‘giri’ si è precisato che non esistevano risposte giu-ste o sbagliate alle quattro domande poste: ognuno doveva rispondere ciò che, rispetto all’immagine e alle domande stesse, il proprio vissuto gli suggeriva come importante.

Possono emergere ora altri tratti importanti della struttura-zione e conduzione del laboratorio, che doveva sì – come evi-denziato anche per altri laboratori – essere flessibile tanto da accogliere le personalità specifiche di chi vi avrebbe partecipato, ma, nello stesso tempo, svolgersi secondo modalità e tappe preci-se: queste, se non prefiguravano i contenuti emersi, lasciati appunto tutti alla riflessione individuale e condivisa dei partecipanti, dove-vano però soddisfare le modalità proprie del Dialogo Socratico; e cioè ognuno:• andava aiutato a scavare nella propria storia di vita e professionale25;• doveva provare a rispondere a domande binarie (come precisato

sopra), essendo indotto a riflettere dunque su tutte le opzioni possi-bili rispetto al problema posto26;

• doveva poter mettere in comune e veder comprese e accolte le proprie riflessioni e risposte27;

poteva piuttosto trovarvi e le è stato risposto che avesse pazienza, poiché era previsto un successivo spazio preciso anche per questo.Non nego che la successione delle domande opposte, prima richiesta del negativo, poi ri-chiesta del positivo, sia stata pensata sia perché la forte espressività dolorosa dell’immagine proposta non prendesse tutto il campo, sia perché l’eventuale guadagno del positivo fosse ciò che – da una singola e così breve esperienza laboratoriale – i partecipanti si portassero a casa. In un ciclo laboratoriale la successione delle domande opposte positivo-negativo do-vrebbe essere certamente più articolata e flessibile.25 Vedi, all’inizio del paragrafo b, il brano platonico del Lachete: “rendere ragione della propria vita”.26 Si vedano sopra, alla nota 11, i riferimenti al brano aristotelico della Metafisica e a quello platonico del Parmenide.27 Socrate, nell’Apologia (29d-30b), afferma di interrogare e ascoltare chiunque incontri, vecchio o giovane, cittadino e straniero.Ovviamente, se qualcuno avesse preferito non condividere le proprie riflessioni, sarebbe stato rispettato: nondimeno, poiché le modalità di svolgimento del Dialogo Socratico erano state preliminarmente spiegate nel vademecum, c’è da chiedersi perché ci si dovrebbe liberamente iscrivere a un ‘evento’ al quale non s’intende partecipare. Comunque se poi, nel corso del laboratorio, fossero emerse emozioni troppo forti da condividere, o da condividere in quel momento, la persona sarebbe stata rispettata nel suo desiderio di restare in silenzio.

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• doveva sentirsi compartecipe dell’elaborazione di eventuali conte-nuti condivisi raggiunti tramite il lavoro fatto insieme28.Si chiarisce qui, e rispetto alla precisa scansione temporale delle

varie fasi del laboratorio (due ore sono state comunque brevissime), la ragione per cui si è dovuto chiedere agli organizzatori di prevedere per questo laboratorio il numero chiuso, cioè un tetto di 10 parte-cipanti per ognuna delle due sessioni (mattutina e pomeridiana) di svolgimento. Come già precisato dai teorici e praticanti del Dialogo Socratico, un numero minore di partecipanti darebbe infatti luogo a poche risposte da condividere, un numero maggiore non consenti-rebbe a tutti i presenti di proporre e mettere in comune la propria riflessione29. Data tale richiesta preliminare del numero chiuso, ab-biamo ora un campione molto piccolo di questionari finali (19) e non possiamo, come altri, riferirci al numero degli iscritti come dato su cui tarare il gradimento del laboratorio: nondimeno, per piccolo che sia, credo il campione sufficiente per una prima idea dell’efficacia della formula laboratoriale proposta.

Va precisato infine che questa, nella versione appena ricostru-ita, è stata proposta al CRO per la prima volta: personalmente, oltre a tentar di utilizzare sempre, alla fine di una lezione fronta-le, il Dialogo Socratico coi miei studenti, soprattutto magistrali, e oltre ad averlo usato entro il Master veronese “Consulenza filosofica come via di trasformazione”, avevo già sperimentato, in altre strutture sanitarie, almeno parte delle pratiche qui messe insieme. Avevo utilizzato, con destinatari, come quelli del CRO, non preparati in campo filosofico, sia la formula della lettura di un brano, di un aforisma o di una poesia e della successiva discus-sione comune, sia quella della narrazione condivisa e successiva discussione dei vissuti dei partecipanti. Erano invece nuove sia la modalità delle domande opposte (interrogazione dell’alternativa), sia quella della riflessione individuale per iscritto e della succes-

28 La ‘responsabilità condivisa’, ma soprattutto di chi risponde, per le conclusioni raggiunte nel Dialogo Socratico, è punto importante che cerco di evidenziare nel lavoro in uscita su questo tema (cfr. sopra, nota 10).29 Cfr. Dordoni, Il dialogo socratico, cit., p. 175, per Eckmann (il massimo dei partecipanti è 12, ma Eckmann dichiara, ivi, nota 15, di trovare “preferibile” un gruppo da 7 a 9); Marinoff, Platone è meglio del Prozac, cit., pp. 350-51.

siva messa in comune dialogica, sia quella dell’uso in gruppo delle campane tibetane (avevo provato personalmente, e con esiti pie-namente positivi, il massaggio vibrazionale sonoro).

Soprattutto era nuova l’ibridazione, in un’unica formula laboratoria-le, di queste pratiche: su questo punto mi sento però d’insistere30. Le pratiche filosofiche non sono, come già detto, riducibili a pure tecni-che, da applicare in modo automatico e fisso: esse, già nell’uso fattone nell’antichità sono, invece, molte e diverse31. Dovendo poi tradurre in un’applicazione concreta, di volta in volta e rispetto agli interlocu-tori e alla singola occasione, un’unica postura interiore di fondo, nulla vieta appunto una loro ibridazione, cioè l’uso, di caso in caso, solo di una delle pratiche, solo di alcune, oppure di tutte.

Gli operatori dell’hospice di Latisana, anni fa, non erano certo pre-parati a letture filosofiche: per cui, dovendoli introdurre a una medi-tazione condivisa, ho preferito usare lo strumento dei bellissimi Canti di Rabindranath Tagore32. I miei studenti magistrali di Scienze Filosofi-che sono, invece, allenati al ragionamento individuale, ma molto meno a metterlo per iscritto (come dimostrano – ahimé – i loro elaborati scritti per la tesi): dunque con loro preferisco usare il Dialogo Socra-tico classico, ch’essi conoscono del resto anche teoricamente, cioè la meditazione condivisa orale. Gli iscritti al Circolo lettori di Verona sono abituati alla lettura di fiction e dunque con loro posso, per in-trodurli alla Medicina Narrativa, aumentare l’uso di documentazioni narrative (citazioni letterarie). Con gli operatori sanitari intervenuti al convegno del CRO, data l’unicità dell’occasione e la ristrettezza del tempo concessoci, abbiamo preferito usare in contemporanea più prati-che e più mezzi, nella speranza che in qualcuno o in tutti persone così diverse, e di cui preliminarmente non sapevamo nulla, si sarebbero ritrovate e avrebbero compreso che cosa, in quelle due ore, stavamo tentando di fare insieme con loro33.

30 Lo faccio anche nell’Introduzione a questo testo da me curato.31 Cfr. il riferimento in merito fatto sopra, alla nota 5.32 Cfr. R. Tagore, Gitanjali (= Offerta di canti), zelig, Verona 2005.33 Come già precisato, la strutturazione, con operatori sanitari, non di un solo laboratorio, ma di veri e propri cicli laboratoriali di pratiche filosofiche non solo sarebbe formativamente molto più efficace, ma potrebbe prevedere l’articolazione di moduli organizzati, di volta in volta, diversamente, sia fra loro, sia dal laboratorio appena descritto.

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Il campione dei questionari finali è piccolo sì: ma questo lavoro preparatorio, di strutturazione accurata del laboratorio e di ibrida-zione delle pratiche utilizzatevi, non pare sia stato inutile, perché le restituzioni superano del tutto, in positività, le nostre attese.

MATERIALI E SUPPORTI FORNITI (5):- cartellina personalizzata, con l’immagine scelta in A4; fogli con le domande già predisposte;- lavagna a fogli mobili su cui sintetizzare i punti salienti emersi dalla meditazione condivisa.

e) RestituzioniIl questionario finale somministrato dagli organizzatori prevedeva,

come ricorda nel suo contributo Nicoletta Suter, quattro domande: • “Il laboratorio ha risposto alle sue aspettative? Le chiediamo di mo-

tivare sia il sì che il no”;• “L’attività laboratoriale è stata uno stimolo per apprendere o per sco-

prire qualcosa di nuovo o per vedere con altri occhi qualcosa di cono-sciuto?”;

• “Se 0 corrisponde a nessuna utilità e 10 a utilissimo, quanto è stato utile sperimentare questa pratica narrativa?”;

• “Pensa che ci sia qualcosa di applicabile al suo quotidiano (lavora-tivo, relazionale, personale) di quanto appreso e sperimentato nel laboratorio?”.Parto dalla terza domanda, quella sul grado di utilità, che, preve-

dendo una risposta numerica (da 0 a 10), segnala esiti più oggettivi delle altre. Il laboratorio di pratiche filosofiche ha ricevuto, quanto alla sua utilità, i seguenti risultati in ordine decrescente: otto 10, tre 9, cinque 8, due 7 e un 2 (= 19; media: 8, 58).

Come filosofa non posso non ritenermi soddisfatta di una simile media e proprio perché riferita all’“utilità”: Aristotele sosteneva in effetti che tutte le altre discipline sono più utili della filosofia, ma nes-suna più necessaria.

Mi pare però doveroso riflettere – in forma del tutto anonima – sull’ultimo risultato, sia perché è l’unico negativo, sia perché lo è in

modo flagrante (è addirittura un 2). All’ultima domanda questo parte-cipante risponde – ovviamente – con un secco ‘no’ (cioè che non vi sia, nel Laboratorio, nulla di applicabile al suo quotidiano). Rispondendo alla prima domanda (cioè se il laboratorio abbia risposto alle sue aspetta-tive), dichiara: “Conoscevo già le pratiche filosofiche e trovo che, per formazione professionale, non sono affini al mio modo di pensare e operare. Comunque, è stata un’esperienza interessante perché mi ha permesso di conoscere un po’ di più questo approccio”. Alla seconda domanda (cioè se l’attività laboratoriale sia stata uno stimolo per ac-quisire qualcosa di nuovo), risponde: “No, i temi trattati, anche se da un punto di vista diverso, mi sono da tempo noti.” E aggiunge, come già accennato: “Curioso è stato l’inserimento delle campane tibetane a scopo terapeutico”34.

Dunque, in due risposte su quattro, l’interessato ripete di co-noscere già “da tempo” sia le pratiche filosofiche, sia i temi in esse trattati; tale ribadita conoscenza non gli impedisce però d’intendere come “terapeutico” l’uso di uno strumento (nello specifico le campa-ne tibetane) che nessuna pratica filosofica si sognerebbe mai di fare: di ‘questo’ mezzo come di alcun altro, proprio perché – come ricor-dato sopra – le pratiche filosofiche non hanno, né vogliono avere uno “scopo terapeutico”. Perciò, non ci si può non chiedere quanto effet-tiva sia questa dichiarata conoscenza delle pratiche filosofiche, quan-to fondato il giudizio negativo espresso e se esso non sia piuttosto dettato da quella scarsa “affinità” col modo di operare e pensare che questo stesso partecipante attribuisce alla sua diversa “formazione professionale”. È ben difficile che scopra qualcosa di nuovo chi parte già aspettandosi di non scoprire nulla.

Un’altra critica viene mossa da due partecipanti quanto a una ca-renza nella “sintesi finale” delle riflessioni, che entrambi attribuisco-no però al “poco tempo” disponibile: credo che questa critica vada senz’altro accettata, come anche la ragione addotta per la carenza rilevata. Sapevamo fin dall’inizio che due ore con 10 partecipanti sa-rebbero state poche: inoltre, era per noi prioritario porsi domande che facessero esperire sia la temporalità particolare sia la postura

34 Cfr. quanto già rilevato sopra, alla nota 17.

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interiore propria del Dialogo Socratico. Ci pareva molto che i parte-cipanti imparassero a interrogarsi in questo modo e a vivere questo particolare tipo di tempo, forse anche più di specifiche risposte di sintesi delle riflessioni fatte. Significativo mi pare perciò che un par-tecipante dichiari: “ho ricevuto spunti di riflessione che voglio appro-fondire in autonomia”.

Un altro partecipante dice di trovare “stimolante il confronto e l’a-scolto di altre persone anche se spesso il concetto di narrazione si discosta in maniera sostanziale dal mio”: anche in questo caso credo interessante che egli dichiari di aver ‘scoperto’ modi della narrazione diversi dal suo.

Un altro, pur attribuendo un 10 di utilità, precisa giustamente che “la modalità riflessiva è certamente il modo più utile per far sì che l’uomo evolva […] in ambito lavorativo, relazionale, professionale una via da percorrere sine saccenza e velleità di usare soltanto questa modalità”. ho già parlato io stessa dell’utilità di usare pratiche diverse e non certo solo questa.

Ora i giudizi positivi: in tre casi si precisa che il laboratorio sia stato “di più” di quanto atteso, in uno che abbia risposto “molto” alle aspettative. Esso è definito: “molto interessante”, “potente”, “interes-sante e stimolante”, “eccellente”, “entusiasmante”. Uno sottolinea “la potenza, la profondità, l’intensità dell’esperienza. Unica. Totalizzante”.

Molti segnalano: l’importanza della condivisione di punti di vista ed emozioni diverse, come mezzo per aumentare la forza interiore (in un caso si parla di un “momento di intimità emozionale”); la possibilità di fare chiarezza sui propri vissuti; la possibilità di “riconoscere altre VERITÀ oltre le proprie verità”; “la validità di una pratica riflessiva e filosofica per guardare, conoscere, comprendere la realtà”.

Sulle campane tibetane: molti hanno segnalato il fatto di non averle sperimentate mai prima, la loro utilità a far sentire “rilassati e a rice-vere i pensieri degli altri partecipanti”, a favorire “l’autoriflessione” e l’apprezzabilità della “sollecitazione fisico-emotiva” da esse indotta.

Alcuni hanno rilevato anche l’interrogazione dell’alternativa: “de-scrivere le sensazioni positive e negative percepite e condividere con gli altri del gruppo è stato un esercizio dell’arte maieutica”; “anche

la ricerca degli aspetti negativi e positivi della stessa immagine mi ha stimolato a cercare dentro e fuori me stessa”; “interessante l’uso dell’immagine per evocare emozioni e condivisione in gruppo (esplici-tare il positivo e negativo)”.

Una partecipante dichiara: “Sono certa che applicherò sia nel lavo-ro in ospedale con colleghi e pazienti quanto appreso, sia in famiglia e nelle relazioni personali. Credo che in tutti gli aspetti della mia vita ne farò tesoro. Grazie”.

E un altro riassume in modo sinteticamente perfetto anche il focus filosofico alla base del laboratorio: “mi ha fatto capire che noi siamo impotenti verso gli eventi della vita, ma che amare noi stessi e gli altri può fare la differenza”.

Be’, quarantuno anni di riflessione e pratica filosofica non mi per-mettono di dire né di più, né di meglio.

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• R. Tagore, Gitanjali (= Offerta di canti), zelig, Verona 2005.• M. Trevi, Dialogo sull’arte del dialogo, Feltrinelli, Milano 2008.

LINDA M. NAPOLITANO VALDITARAProfessore Ordinario di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Verona, studiosa di Medicina Narrativa

Dai banchi dell’università al CRO

Anna De Odorico

Ancora adesso, nelle terre di Carewall, tutti raccontano quel viaggio. Ognuno a modo suo.Tutti senza averlo mai visto. Ma non importa. Non smetteranno mai di raccontarlo.Perché nessuno possa dimenticare di quanto sarebbe bello se, per ogni mare che ci aspetta, ci fosse un fiume, per noi. E qualcuno – un padre, un amore, qualcuno – ca-pace di prenderci per mano e di trovare quel fiume – immaginarlo, inventarlo – e sul-la sua corrente posarci, con la leggerezza di una sola parola, addio. Questo, davvero, sarebbe meraviglioso. Sarebbe dolce, la vita, qualunque vita. E le cose non farebbero male, ma si avvicinerebbero portate dalla corrente, si potrebbe prima sfiorarle e poi toccarle e solo alla fine farsi toccare. Farsi ferire, anche. Morirne. Non importa.Ma tutto sarebbe, finalmente, umano. Basterebbe la fantasia di qualcuno – un padre, un amore, qualcuno. Lui saprebbe inventarla una strada, qui, in mezzo a questo silenzio, in questa terra che non vuole parlare. Strada clemente, e bella. Una strada di qui al mare.

Alessandro Baricco, Oceano mare

a) Dai banchi dell’università al CROSono passati diversi anni da quando decisi di iscrivermi al Corso di

studi in Filosofia presso l’Università di Udine. Allora non avevo ben chiaro quali fossero i motivi che mi spingevano a quella decisione: ma poi, più frequentavo le lezioni, più riuscivo a intravvedere una sorta di utilità nelle parole che studiavo e piano piano ho cominciato a sentire che la filosofia ‘circondava’ la mia vita e che quanto imparavo sui banchi universitari, apparentemente astratto e lontano, sapeva invece guidarmi nelle decisioni di ogni giorno e aiutarmi nei momenti di difficoltà.

Una vocina interiore continuava a ribadire che la filosofia non è solo una serie di parole astruse e astratte scritte su vecchi libri: capire quale sia il potere di quelle parole è stato per me un vero e proprio viaggio.

III.7

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Dopo la laurea magistrale in Scienze Filosofiche, mi sono iscritta al Master veronese “Consulenza filosofica come via di trasformazione”, nella convinzione rafforzata che la filosofia avesse un valore enorme e potesse essere utile in molti contesti, diversi dai banchi della scuola superiore e dell’università. Per completare il Master ho avuto la pos-sibilità (ma devo dire l’onore) di svolgere un breve tirocinio presso il CRO di Aviano.

Il progetto che ho proposto, Prendersi cura di chi cura, prevedeva diversi incontri con due focus group; purtroppo poi, a causa dei tem-pi stretti e di alcune difficoltà organizzative, sono riuscita a svolgere solo la prima parte del progetto. Nonostante ciò, queste poche ore di lavoro condiviso sono state ricchissime, non solo dal punto di vista della mia ricerca, ma soprattutto dal punto di vista umano.

Sono stata poi invitata al convegno sulla Medicina Narrativa tenu-tosi al CRO nel 2016, come figura di supporto per la conduzione dei laboratori di pratiche filosofiche guidati da Linda M. Napolitano Valdi-tara, mia relatrice durante la laurea magistrale e il Master.

Nonostante i due progetti siano diversi tra di loro, è possibile ritrovare diversi aspetti comuni, su cui vale forse la pena fare una riflessione, soprattutto per evidenziare le particolarità e potenzialità di una cura filosoficamente orientata (non terapeutica).

b) Prendersi cura di chi curaIl progetto Prendersi cura di chi cura, che ho elaborato come tiroci-

nio per il Master, era nato dalla convinzione che le pratiche filosofiche possano essere d’aiuto anche ai curanti: prendersi cura di sé (care) è, infatti, una pratica imprescindibile per potersi prendere cura degli altri (cure). Con questo progetto ho voluto “rendere onore” – per usare le parole della fondatrice della Medicina Narrativa, Rita Charon – a tutti i soggetti, professionisti e volontari, che in un modo o nell’altro sostengono i malati e le loro famiglie di fronte alla realtà del cancro1.

1 R. Charon, Narrative Medicine: honoring the Stories of Illness, Oxford University Press, New York 2006. La Charon si riferisce qui alle storie dei pazienti, che vanno appunto ‘onorate’ cioè prese in considerazione, dai curanti: ma anche questi ultimi e tutti i caregiver hanno a loro volta storie a cui rendere pari onore perché sono altrettanto utili.

Poiché li si considera dei tecnici, raramente ci si interroga sul modo in cui i curanti vivano il loro lavoro e su come questo influisca sulle loro esistenze; questo aspetto, anzi, viene troppo spesso dimenticato, tralasciato o dato per scontato, come questione vivibile e risolvibile individualmente. Ci si dimentica di quanto sia importante, come vero e proprio strumento professionale, la cura di sé e lo star bene con se stessi e con il proprio lavoro (care) per poter offrire all’altro le cure e le attenzioni migliori (cure).

La filosofia può dunque offrirsi come strumento di indagine e rifles-sione per poter pensare e trasformare le pratiche di cura, a partire, appunto, dalla cura di sé: prendersi cura di sé ha significato, all’interno del contesto del CRO, partire dal proprio vissuto e dalle proprie espe-rienze e capire che cosa possa aiutare a migliorare il rapporto con il proprio lavoro, con i pazienti, con i colleghi, attraverso la ridefinizione del senso stesso della cura e del proprio lavoro.

Si tratta certamente di un percorso lungo, che richiederebbe di-versi momenti e luoghi di incontro e riflessione, scambi di opinioni e momenti di solitudine per far decantare quanto smosso dall’emergere di idee nuove e sentimenti spesso celati. La prima tappa di questo per-corso è esplorare, conoscere e prendere coscienza del contesto in cui ci si trova e in cui si vuole andare a operare. Come detto prima, il tempo a mia disposizione era davvero poco e ho quindi cercato il modo mi-gliore per portare a termine almeno questa prima parte del progetto, imprescindibile per poter eventualmente continuare un percorso filo-sofico di cura più articolato e complesso. Ho deciso di concentrarmi su poche ma fondamentali domande: chi siete? qual è il vostro lavoro? quali sono gli aspetti postivi e negativi del vostro lavoro? qual è il vostro rap-porto con la filosofia?

c) Coinvolgimento di soggetti diversiCon il progetto Prendersi cura di chi cura ho voluto dunque rivolger-

mi a tutte le figure che entrano in contatto con i pazienti nelle diverse fasi della cura. Nella complessa e articolata organizzazione del CRO di Aviano, non sono solo medici e infermieri a entrare in relazione con i malati e le loro famiglie, ma anche gli psicologi, gli addetti al call center

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e alla biblioteca, i tecnici di laboratorio, le lettrici e gli insegnanti volon-tari. Tutte queste figure ricoprono un ruolo preciso nel percorso di guarigione e sono egualmente importanti: tutti entrano in contatto con le storie e il dolore dei curati e ne vengono a propria volta attraversati.

Nei singoli reparti di ogni struttura sanitaria esistono già alcuni grup-pi di lavoro in cui regolarmente vengono discussi i singoli casi da un punto di vista medico; in questi momenti di incontro, però, il vissuto del personale non è preso in considerazione: è difficile, perciò, confessare al proprio collega o al proprio superiore quelle che s’immagina siano percepite come debolezze e cadute di professionalità, soprattutto nei momenti di attrito o conflitto. Anche per questo motivo ho trovato utile costituire dei gruppi di lavoro composti da figure eterogenee, pro-fessionalmente diversificate e provenienti da reparti diversi.

Già in questo possiamo intravvedere un primo aspetto in comune con i laboratori di pratiche filosofiche condotti dalla Napolitano: i suoi due gruppi, infatti, erano composti anch’essi da figure professio-nali diverse, provenienti da ambienti e luoghi di lavoro diversi. Credo – anzi crediamo – che parlare e aprirsi di fronte a persone poco o per nulla conosciute possa agevolare lo scambio di opinioni e renda più semplice la narrazione di sé e della propria esperienza. Nonostante la provenienza da reparti e ruoli professionali differenti, molte pro-blematiche sono infatti comuni e questo riconoscimento permette ai partecipanti di far cadere quel velo di vergogna che spesso cela sofferenze e debolezze e mette a tacere eventuali richieste di aiuto.

d) L’utilizzo delle immagini come oggetto narrativo

L’immagine rappresenta oggi un canale privilegiato della comunica-zione; viviamo costantemente immersi in stimoli visivi, siamo bombar-dati da immagini che per lo più agiscono su di noi in un modo anche rilevante, ma del quale non siamo consapevoli. Utilizzando le immagini impariamo, ci informiamo sulle ultime notizie (un tempo si leggeva il giornale, oggi si guarda il telegiornale), utilizziamo social network (che basano il loro funzionamento proprio sullo scambio di foto), siamo circondati dalla pubblicità, comunichiamo azioni ed emozio-

ni utilizzando emoticon sui nostri smartphone. In questo panorama, l’utilizzo dell’immagine rappresenta da un lato un aiuto, dall’altro una sfida. Cerco di spiegarmi meglio.

Poiché i momenti dedicati dai curanti a se stessi sono molto pochi se non nulli, prendere parola e aprirsi di fronte ad altre persone resta comunque non facile. Nel progetto Prendersi cura di chi cura ho utiliz-zato l’immagine come mezzo per agevolare lo scambio e rendere l’am-biente più familiare. Ai partecipanti al focus group ho proposto delle fotografie e dei disegni a tema vario (case, alberi, frutta, semi, animali, fotografati o disegnati ecc.), volutamente prive di collegamenti diretti con la medicina, la malattia o il dolore, per permetterne l’utilizzo più ‘aperto’ possibile. I partecipanti hanno scelto una o due immagini attra-verso le quali si chiedeva loro di presentare se stessi e il proprio lavo-ro. Spesso i partecipanti hanno scelto l’immagine senza avere chiaro il motivo della propria scelta: ma, nel momento in cui poi è stato chiesto loro di parlare di sé a partire appunto dall’immagine preferita, si sono aperte suggestioni e collegamenti impensati, che hanno portato alla luce le motivazioni della scelta.

L’utilizzo delle immagini mi ha permesso dunque di ottenere un gran numero di informazioni, molte più di quelle che avrei ottenuto limitandomi a chiedere: chi sei? che lavoro fai? Sono emersi infatti senti-menti, vissuti, esperienze, valori del tutto inaspettati, che per la mag-gior parte del tempo vengono tenuti celati agli occhi dell’altro, quando non ai propri stessi occhi.

Il lavoro condotto a partire dalle immagini obbliga a una interroga-zione e a una riflessione approfondita, che portano a loro volta a uno spostamento di prospettiva, convergendo su una domanda centrale apparentemente banale: chi sei? Interrogarsi sul sé, scegliere quale parte di se stessi mostrare all’altro, trovare le parole più adatte per illustrarla, ascoltare a propria volta attentamente le parole dell’altro: tutte queste pratiche, seppur apparentemente molto semplici, difficil-mente vengono esercitate al di fuori di questi spazi.

Anche il laboratorio di pratiche filosofiche guidato dalla Napoli-tano è ruotato attorno a una immagine e, come già anticipato da lei stessa, in quel caso la scelta – pure diversa dalla mia poiché propone-va un’immagine intensamente dolorosa – non è stata casuale.

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L’immagine, quale che sia e quali che siano le sollecitazioni che è chiamata a veicolare, è un oggetto narrativo immediato, in grado di suscitare, mediante forme e colori, suggestioni del tutto inaspettate, indipendentemente dal soggetto rappresentato.

Ma allora perché usare le immagini può essere, come ho detto poco fa, anche un rischio e una sfida? Proprio perché, immersi come siamo in un mondo fatto di immagini, in modo inconscio siamo portati ad affidare un significato già stabilito a tutto ciò che vediamo: ogni rappresentazione, ogni foto, ogni disegno sono già carichi e densi di senso, tutto è già decifrato. Di fronte a Il compianto sul Cristo morto di Botticelli non è stato semplice dimenticarne subito l’aspetto re-ligioso già codificato e conosciuto. Il rischio è quindi quello di non riuscire a scindere la propria intima visione dal preconcetto e di non riuscire a staccare l’immagine dal contesto in cui è nata o è collocata. Nella quotidianità non è richiesto e non si sente il bisogno di com-piere una vera riflessione di fronte a ciò che vediamo: non siamo più abituati a pensare quando siamo posti di fronte a una immagine e, proprio perché essa è già codificata, non siamo abituati a interrogarci sulle sensazioni e sulle emozioni che suscita in noi; siamo quasi ane-stetizzati. Ecco qui, dunque, la sfida: farsi colpire da un’immagine, farsi toccare, farsi prendere e, di conseguenza, poterla usare come mezzo utile per la riflessione e la successiva trasformazione e cura di sé.

e) La messa in parolaUn primo fondamentale momento per la cura di sé è il mettere in

parola la propria esperienza. È questa la pratica filosofica che ho prin-cipalmente usato nella conduzione dei focus group.

Trovare degli spazi in cui poter enunciare e condividere il proprio sentire è utile innanzitutto per poter prendere coscienza del sé. Come ho già ricordato, spesso, di fronte all’imperativo di prestazione, non si ammettono i propri sentimenti, percepiti come segno di debolezza2. L’immaginario collettivo vuole infatti curanti infallibili, impenetrabili, in grado di gestire (o addirittura eliminare) le proprie emozioni; ma gli esseri umani sono fatti anche di sentimenti e metterli a tacere vuol dire

2 Cfr. Byung-Chul han, La società della stanchezza, tr. it., nottetempo, Roma 2012.

negarsi in quanto persone. Bisogna quindi riabilitare le emozioni degli operatori e i primi a doversi autorizzare a farlo sono i curanti stessi. Bisogna fare i conti con le proprie emozioni3.

La cura di sé ha inizio con l’ascolto di sé e delle proprie emozioni alla luce delle esperienze. La pratica della nominazione consiste nel parlare dei propri vissuti esperienziali, nel dare un nome ai propri sentimenti e nel condividerli con altre persone. Dare un nome al proprio sentire, grazie alla potenza simbolica del linguaggio, rende ‘reale’ la realtà: una volta pronunciata la parola, questa si mostra, diventa dato tangibile, si apre. L’emozione prende forma, diventa reale e così si allarga, la si può ascoltare e guardare senza farsene travolgere4.

La pratica della nominazione, se condivisa, può già produrre un im-portante ‘spostamento’: ascoltare la parola dell’altro e sentirla risuona-re e vibrare con la propria mostra come i vissuti siano spesso simili e in questo modo il senso di solitudine e isolamento si attenua. Ascoltare le parole altrui può aiutare a riconoscere i propri sentimenti e a far luce su ciò che prima veniva celato perfino a se stessi e che non ci si auto-rizzava neppure a provare.

Mettere in parola è, allora, un momento imprescindibile per poter iniziare una riflessione condivisa, in quanto permette di creare un lin-guaggio comune, da poter utilizzare durante altri laboratori esperienziali di gruppo e sul lavoro. Nominare, infatti, fa fare dei tagli, crea delle aper-ture che consentono di vedere cosa c’è al di là dei muri che ci confinano.

La pratica filosofica della nominazione e quella del Dialogo Socratico sono strettamente legate e anzi dipendenti l’una dall’altra, come dimo-strato dal laboratorio condotto dalla Napolitano: il Dialogo Socratico, partendo da domande poste ai partecipanti, chiama infatti anch’esso alla narrazione di sé e delle proprie esperienze e narrare significa a sua volta oggettivare, mostrare e quindi mettere in parola, dare nome.

La pratica della nominazione può essere rafforzata dalla scrittura; a differenza della sola riflessione verbale, avvenuta durante i focus group

3 Cfr. L.M. Napolitano Valditara, Narrazione ed empatia nelle relazioni di cura, in Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina, Atti del convegno II, Aviano 12 ottobre 2012, a c. di L.M. Napolitano Valditara, Centro di Riferimento Oncologico, Aviano 2012, pp. 66-77.4 A.M. Piussi, Appunti dalle lezioni presso il Master in Consulenza filosofica come via di trasfor-mazione, Università degli Studi di Verona, Verona 2015.

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da me condotti, la scrittura, richiesta invece nei laboratori di pratiche filosofiche, porta con sé l’ulteriore vantaggio di poter leggere e quindi vedere ciò che viene scritto. Il pensiero accompagnato dall’atto pra-tico della scrittura viene quindi rinforzato dal dato visivo: se lo vedo messo nero su bianco, ciò che scrivo diventa reale e si pone davanti a me, tanto da poterlo analizzare. La scrittura di sé porta a uno ‘svuo-tamento’ che, se viene poi condiviso, può riempire l’anima di qualcosa di nuovo concretamente utilizzabile. La professionalizzazione e la spe-cializzazione portano con sé una perdita di senso della parole usate: la nominazione, la scrittura e la lettura condivisa possono colmare questa perdita.

f) La riflessione bidirezionaleUltimo punto di contatto tra i focus group da me rivolti al perso-

nale del CRO e i laboratori di pratiche filosofiche che ho contribui-to ad allestire, con Napolitano e Bisiani, è l’interrogazione e l’invito alla riflessione tanto sul positivo quanto sul negativo legato alla propria professione e alla propria esperienza. Le domande che io ho a suo tempo posto nei focus group (che cosa c’è di positivo e di negativo nel tuo lavoro?) e le domande a cui la Napolitano invitava i partecipanti ai laboratori a rispondere, prima per iscritto e poi verbalmente nel gruppo, essendo bidirezionali aprivano a 360 gradi la riflessione, invi-tando a guardare alla propria esperienza tanto per gli aspetti positivi quanto per quelli negativi. Questa, che potremmo chiamare allora “riflessione bidirezionale”, è tipica, come mostra la Napolitano, della cura filosofica ed è efficace a valere un doppio distacco da sentimenti ed emozioni negati, afflittivi e troppo intensi: questi non solo vengono oggettivati tramite la nominazione e la messa in parola, ma sono per dir così ‘ricalibrati’ attraverso un nuovo sguardo – non più esclusiva-mente negativo – rivolto alle esperienze fatte.

Forse non è breve la strada percorsa dall’università a queste espe-rienze di cura filosofica: e sono testimone del fatto, che curando gli altri, ci si cura anche in prima persona; sempre che lo si faccia… filosoficamente.

Bibliografia• G.B. Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità di vita, tr. it.,

Feltrinelli, Milano 2009.• G. Bert, Medicina Narrativa: storie e parole nella relazione di cura, Il pensiero scien-

tifico, Roma 2000.• Byung-Chul Han, La società della stanchezza, tr. it., nottetempo, Roma 2012.• F. Bottaccioli, Filosofia per la medicina, medicina per la filosofia. Cina e Grecia a

confronto, Tecniche nuove, Milano 2010.• A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Fel-

trinelli, Milano 2009.• Diotima, La sapienza di partire da sé, Liguori, Napoli 1996.• K. Jaspers, Il medico nell’età della tecnica, tr. it., Cortina, Milano 1991.• L.M. Napolitano Valditara, Narrazione ed empatia nelle relazioni di cura, in Leggiamoci

con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina, Atti del convegno II, Aviano 12 ot-tobre 2012, a c. di L.M. Napolitano Valditara, Centro di Riferimento Oncologico, Aviano 2012, pp. 66-77.

• A.M. Piussi, Appunti dalle lezioni presso il Master in Consulenza filosofica come via di trasformazione, Università degli Studi di Verona, Verona 2015.

• M. zambrano, La confessione come genere letterario, tr. it., Mondadori, Milano 2000.

ANNA DE ODORICOConsulente filosofico di trasformazione; borsista di ricerca del Centro di Ricerca e Formazione, Udine; cultore della materia del Dipartimento di Medicina, Università di Udine

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La poesia è cura: laboratorio di poesia

Patrizia Rigoni

La poesia non è fuori, è dentro!Che cos’è la poesia?

Non chiedermelo più,guardati allo specchio:

la poesia sei tu!Roberto Benigni nel film La tigre e la neve (2005)

a) breve storia professionaleDa molti anni conduco laboratori narrativi. Nel 2000 ho aperto a

Trieste Azienda Parola, un’impresa personale che si occupa di mettere al centro della sua attività il valore della parola, la sua capacità di dire e di rivelare, ma anche di trasformare, organizzare, e persino guarire. ho iniziato portando nei gruppi di lavoro le fatiche e le piacevolezze della pagina bianca, quelli che potevano essere i trucchi del mestiere di scrittore. L’ho fatto con ragazzi delle scuole superiori, con donne e uomini in condizione di fragilità, dentro a quelle fratture che si spalan-cano a causa di malattie, lutti, sradicamenti, separazioni; là dove il pro-cesso identitario subisce forti prove, e va ri-conquistato, ri-costruito.

Proprio a partire da queste esperienze – e dalla raccolta di centinaia di autobiografie pubblicate in volumi – ho lavorato con più attenzio-ne e sempre più passione sulla questione della formazione narrativa dentro le strutture sanitarie, collaborando soprattutto con infermieri, medici, psicologi, tecnici della riabilitazione, tutti gli operatori che ave-vano a che fare con le vite degli altri, e che in qualche modo, grazie al processo narrativo, potevano creare nuovo dialogo, e soprattutto avviare e governare processi terapeutici di benessere e guarigione.

A poco a poco, nella scoperta sempre più evidente dei processi maieutici che la parola metteva in moto, mi sono specializzata sulla

III.8 Medicina Narrativa. Mi sono trovata sempre più coinvolta in quello che le parole facevano succedere sia a livello personale, ma via via – come a effetto domino – anche sulle relazioni professionali, e poi ancora sugli organismi rappresentativi, fino a coinvolgere nella rifles-sione l’intera struttura.

La Medicina Narrativa infatti non lavora soltanto su aspetti comu-nicativo-relazionali (come verrebbe da pensare), né soltanto su aspet-ti organizzativi (che pure vengono messi in discussione), ma anche nella creazione di aspettative future, verso la volontà di tradurre in azioni concrete tutto quello che il dire – personale e collettivo – può muovere e rimescolare.

Le parole diventavano – e diventano sempre, il verbo presente in questo caso è proprio obbligatorio – una risorsa di conoscenza e ascolto, ma anche di trasformazione di motivazioni e atteggiamenti, requisiti fondamentali per un diverso modo di leggersi e leggere la realtà, e quindi anche di metterci le mani sopra, verso il miglioramento delle cose.

b) Lavorare al CROAvevo già avuto il piacere di un’esperienza di conduzione narrativa

al CRO, nel 2013, con un percorso dal titolo Di soglia in soglia, ispirato al libro di Paul Celan, rivolto a due gruppi di operatori: un percorso letterario che mettesse a fuoco il limite, la frattura. Proprio dentro quel senso di vertigine, quando il dolore scuote tutti i vecchi riferimenti.

È stata una delle mie esperienze professionali più coinvolgenti, per più motivi: il primo motivo si annidava nella forza stessa del luogo, con l’anfiteatro delle montagne dietro e i terremoti esistenziali dentro; il secondo nella qualità del tema, nella forza espressiva dei contenuti (Celan, la cui famiglia perì nei campi nazisti, scrive questo libro nel ten-tativo di ri-costruirsi una casa, nella quale idealmente custodire quanto aveva potuto salvare dalla prima: il ricordo e la lingua materna); ma il terzo e forse ancora più significativo – almeno dal punto di vista tecnico ma soprattutto umano – stava nella competenza disciplinare degli operatori, per quello che il CRO aveva avviato come processo di ricerca, nella scelta della Medicina Narrativa come nuova formazione.

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Lo dimostrava la disponibilità di tutti i partecipanti a raccontare le pro-prie esperienze di soglia, con coinvolgimento e capacità di mettersi in gio-co in prima persona, ma soprattutto con quella straordinaria versatilità nell’interpretare punti di vista diversi – del malato, dei familiari, dei dirigen-ti scientifici, dei colleghi – operazione che riesce nella scrittura soltanto quando – almeno in parte – se ne è tentata l’esperienza in prima persona.

Gli operatori portavano nel gruppo lunghe pratiche di attenzione, condivisioni di scelte ed esperienze dolorose, dimensione empatiche – con pazienti e famiglie – già sottoposte a revisioni critiche, ma anche verificate con colleghi, nelle battaglie e negli sforzi e, per fortuna tante volte, anche nei successi terapeutici.

c) Quinto convegno di Medicina NarrativaCosì come nel 2013, anche per questa edizione 2016, nella gior-

nata del quinto convegno di Medicina Narrativa, mi sono stati offerti due gruppi di lavoro, uno al mattino e uno alla sera. Con stupore, ma anche con grande gioia, mi è stato attribuito il laboratorio di poesia.

Poesia viene dal greco antico, dalla voce verbale poiéo, che significa curiosamente fare, creare, produrre. Quindi la cosa meno pratica e con-creta del mondo ha un nome che significa azione, fabbricazione, opera-tività1. Questo scarto tra senso comune e significato originario segnala sempre una rivelazione, e qui il segreto profondo è che la poesia effetti-vamente fa. La parola poietica è una parola-che-fa2: nel senso che mette in moto una trasformazione che ci costringe – come Benigni nel suo film La tigre e la neve (2005), quando si butta per terra e alza gli occhi al soffitto, dicendo: “È da distesi che si guarda il cielo” – a vedere il mondo in modo nuovo, forse più scomodo, ma sorprendente. Perché la parola, quando è poetica, sfonda la realtà-per-come-sembra, apre una porta e fa

1 È Aristotele, nelle sue opere, a codificare il termine ‘poetica’, dal greco poietikè tèchne, ‘arte del produrre discorsi con metro’, riferita alla sapienza compositiva – originariamente orale, non scritta – degli aedi arcaici e dei cantori della Grecia classica [N.d.C.].2 Ancora secondo Aristotele, la parola poetica (soprattutto della poesia tragica) è quella che induce nell’ascoltatore terrore e pietà, cioè una sorta d’immedesimazione nelle (e conte-stuale purificazione dalle) passioni vissute dai personaggi portati sulla scena. Dunque anche la storia del termine dà ragione all’Autrice sul dato che la poesia faccia, cioè trasformi il sentire non solo di chi la produce, ma anche di chi l’ascolta [N.d.C.].

entrare la luce, non si accontenta mai dell’apparenza. La parola poetica permette di ri-creare il mondo includendo quel che prima non appariva, quel che era indicibile.

Per questo la poesia ci riguarda tutti da molto vicino, nella nostra condizione universale di umanità; e per questo credo che rappresenti il punto più alto della letteratura. Certo, nella letteratura sono entu-siasmanti la capacità della trama, l’architettura, la scelta della caratte-rizzazione dei personaggi. Ma nella poesia la parola è tutto, la parola è il cuore del frutto, è quel soffio d’aria che ci passa sul corpo, è il momento di un’illuminazione; è soprattutto, almeno per me, il senso ultimo e profondo delle cose. La poesia ci riporta alla nostra unicità di individui, alla nostra complessità valoriale ed etica, alla nostra continua domanda di attaccamento alla vita.

Poesia è quando la vita sembra semplice, quando scivola; quando la contemplazione diventa altissima forma di conoscenza; quando siamo stupefatti dalla bellezza umana, da quella che può essere capace di fare; quando siamo storditi di paesaggio e di natura; quando anche il dolore rallenta, e noi ci stupiamo dell’incanto che ci colpisce.

d) La poesia è curaEra questo il titolo che avevo scelto per il mio laboratorio, dopo

averci molto pensato. Usare la parola cura in un ospedale, tanto più in un ospedale oncologico, tanto più nell’eccellenza specialista del CRO, dove la scienza e la medicina hanno responsabilità così urgenti, così drammatiche, così complesse, mi sembrava un atto quasi spavaldo, su cui volevo riflettere.

Ma più riflettevo e più mi sembrava di poterlo dire. Perché la poesia ci rende più leggeri dove serve, e ci dà peso dove serve. Certo, non la poesia delle rime nauseabonde, non la poesia di cuore amore, ma quel-la poesia che è fatta di coraggio e onestà, di libertà e verità. La poesia che diventa azione, la poesia che ‘fa’. Una poesia che ci metta a nudo, e dica quello che molte volte cerchiamo di coprire. Una poesia che ci riporti al bandolo della nostra matassa, ma anche che ci faccia pescare nella ricchezza della nostra temporalità, al tesoro di quello che abbia-mo costruito, nelle dimensioni affettive e intellettuali che abbiamo ten-

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tato di perseguire, dentro il tessuto dei sentimenti e delle aspirazioni, nella nostra fragilità, nei nostri più profondi dubbi. E non c’è nulla che curi di più, anche in situazioni di grave stress, come poter ricomporre il nostro valore, quello di figli come di genitori, di professionisti come di amici, di malati come di operatori.

La poesia è cura, sì, era un buon titolo. Perché alla fine le forti espe-rienze della vita ci rendono tutti uguali, e ricordarcelo fa sempre bene. Naturalmente sapendo che non è solo la poesia che ci cura. Ci curano – oltre la scienza, oltre la medicina – anche l’arte, l’amore, la musica, la natura, persino del buon cibo gustato con chi amiamo.

e) Il programma del laboratorioLa poesia soffre del complesso di essere considerata lontana, inaf-

ferrabile, a volte quasi straniera, come se appartenesse a pochi pre-scelti, che difficilmente si possono comprendere. La scuola non aiuta purtroppo, le scelte editoriali e di mercato non aiutano. Ma in realtà tutti, proprio tutti, abbiamo sempre avuto a che fare con la poesia, fin da bambini, quando il nostro linguaggio era denso di stupefazione e di purezza, di creatività e di intuizione. La poesia è là che si annida. Era – ed è ogni volta – il grande nodo che volevo sciogliere, costruito su un gigantesco equivoco degli adulti e del loro parziale sistema di pensiero. Volevo recuperare l’intimità perduta con la poesia.

Non lezione frontale, ma gruppo esperienziale, parola che si fa. Poesia che si scrive e si compone in diretta. Riflessione corale sul carico poetico di ogni parola per ciascuno di noi, così strettamente legato a quello che siamo e siamo stati: perché nessuna parola è poetica per definizione, ma tutte lo possono diventare; persino la parola più logorata, più apparen-temente consumata e banale, può acquistare poesia dentro una diversa cornice, quando va ad affondare le sue radici nelle nostre vite, nella ric-chezza dell’evocazione, in quel profumo, nel saper cogliere l’attimo in cui ci appare tutto chiaro.

Proprio in quel balenare irripetibile del comprendere anche le po-vere parole quotidiane diventano poetiche, brillano. Trovarle, ritro-varle, è un’emozione straordinaria, che ci apre di nuovo la strada, ci incide con pudore e dolcezza la via.

Così, tutti gli esercizi del laboratorio La poesia è cura lavoravano su questa profonda convinzione: che in un tempo davvero esiguo ciascu-no di noi potesse riuscire ad afferrarne almeno una, di queste parole che brillano. Certo, avrei dovuto chiamarla, la poesia. Perché non appare se non la si chiama. Mi sarei fatta aiutare dai grandi maestri, che hanno avuto il coraggio di abitarla. Rilke, Szymborska, Tomiolo, Meneghello, Scabia, erano lì tutti con noi, con la forza delle loro righe. E poi avevamo ancora articoli di autori e scrittori che continuassero a raccontarci che cosa fosse la poesia, cosa si dice quando si parla di poesia; perché spesso è proprio lei che ci è venuta a mancare quando siamo smarriti, e spesso è ancora lei che ci riempie di pienezza, senza che noi la si riconosca con il suo nome.

f) Il gruppo CRONon mi aspettavo di vedere così tanti iscritti. La sete di poesia per

me è sempre un buon segno. Ancora una volta il CRO mi ha stupita.Inizialmente un po’ intimiditi i miei ‘allievi’ si sono fidati, non ci hanno

messo molto a lasciarsi portare dalle quartine e dalle filastrocche, dal loro ritmo di gioco della mente, di lievità. Capivano che ci avrebbero aiutato ad aprire delle porte.

Grazie a questa curiosità aperta e alla sete di ascoltare, ma soprat-tutto a un’inesausta capacità autocritica dovuta al bisogno di cercare – che sono sicura sia seminata dalla confidenza quotidiana con i ribal-tamenti del destino, con le leggi inesorabili della vita e della morte – il laboratorio ha velocemente costruito una caldissima e partecipata at-mosfera dove altissimo è stato l’ascolto ma molto fertile la produzione.

Metafore e versi, giochi di rima e riflessioni quasi filosofiche: tutti potevano raccontarsi, tutti sembravano accendersi in rivelazioni pro-gressive, in piccoli momenti di gioia condivisa. C’era una musica che girava, e credo tutti l’abbiamo sentita. Avremmo voluto aggiungere an-cora commenti, ancora confronti, leggere tutti i pezzi: il tempo diven-tava sempre più breve, troppo breve, e ci lasciava con la voglia aperta di continuare.

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g) Contributi e ricaduteDalle valutazioni degli allievi che hanno partecipato al laboratorio

e che Nicoletta Suter e i suoi collaboratori si sono spesi a riportare e a raccogliere generosamente – come ogni volta –, emerge un quadro che non può che lusingarmi, non solo a livello personale, ma soprat-tutto nel rinforzo della convinzione professionale. La parola è uno strumento di infinita ricchezza. La poesia è cura.

Dalle tre colonne del file – aspettative sul laboratorio, apertura di mondi sconosciuti, possibilità di applicare alcune scoperte nel quo-tidiano (personale, relazionale, professionale) – i commenti di tutti i partecipanti confermano che la poesia permette di trovare quello che c’era, e che ci eravamo dimenticati; permette di avvicinarsi a un altro modo di pensare, a un altro modo di trapassare la realtà, di indagare, di capire il mondo degli altri ma anche di capirci noi.

Sapere che: “si risuona di musica propria, ci si riempie di grazia-gioco e cura d’amore, che c’è una dimensione nuova che si racconta, che si apre la profondità che parla all’inconscio, che si può vivere per immagini, che si raggiunge un approdo senza destinazione, che si prova una boc-cata d’ossigeno, che si aprono finestre da troppo tempo chiuse, che si scopre una modalità precisa e dedicata, che la poesia ha effetto terapeu-tico” può costruire differenza, può avviare salute. E non è solo salute per i malati, è una salute rivolta alla bellezza, è salute culturale per tutti noi.

La poesia è quella musica speciale che insieme unisce passato pre-sente e futuro, e ci rende più vivi. Ed è proprio questo renderci più vivi che ci fa venire idee, non solo per scrivere poesie evidentemente – certo leggerne una al giorno ci farebbe bene come mangiare una mela – ma per lavorare meglio, per credere a quello che facciamo, per non annoiarci mai di fronte a quello che ci capita, e per trovarne sempre un senso.

Tanto più dentro alle soglie, tanto più nel ruolo di operatori di una struttura pubblica dove si affollano vite sconosciute e casuali con cui improvvisamente si devono condividere pezzi di cammino. Nessun operatore CRO si è dimenticato della forza d’azione della poesia, di quella poiesis. La riflessione sull’uso della parola circolava dal proprio

mondo personale all’ambito professionale – e vorrei poter riportare tutti i commenti della terza colonna – perché ambito professionale altro non è che ambito di relazione, di confronto, di identificazione e capacità di com-passione: chi abbiamo davanti è innanzitutto umano, e non è detto che riesca a dire tutto quello che vuole dire, non è detto che trovi le parole per dirlo. ‘La poesia allarga le menti, e unisce i pen-sieri’. Se la parola poetica sfonda la realtà-del-come-sembra e va più a fondo, entra da un’altra parte, aiuta chi abbiamo di fronte e si ritrova fragile sui suoi passi, allora saperla usare significa avere una possibilità in più di ascoltare, e soprattutto dirigere le azioni. Poiesis. Quel fare.

Nascere, amare, costruire, camminare, cercare. E poi ammalarsi, e perdere la direzione. Ammalarsi chiede poesia, guarire chiede poesia. Capire chiede poesia. Lavorare chiede poesia.

Materiale utilizzato nel laboratorioArticoli di giornali• La poesia mediterranea è uno stato d’animo?, “La Stampa”, 1985.• Versi sulle soglie dell’eternità, “Il Sole 24 Ore”, 2001.• Scabia e il tremito del ‘fare poesia’, “Il Gazzettino”, 2011.

Poesie• Eugenio Tomiolo, El mondo xe pitura.• Luigi Meneghello, Quaggiù nella biosfera.• Rainer Maria Rilke, Appunti sulla melodia delle cose.• Giuliano Scabia, Il poeta albero.• Wisława Szymborska, Attimo.

PATRIZIA RIGONIScrittrice, formatrice e fondatrice di Azienda Parola

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Strumenti per il benessere degli operatori: laboratorio di scrittura autobiografica e riflessiva

Nicoletta Suter

a) Il backgrounda1) La narrazione nell’educazione continua dei professionisti sanitari

La formazione narrativa degli operatori sanitari ha in generale nella pratica della scrittura e nello specifico nella scrittura di sé un grande punto di forza1. L’intento è quello di favorire, a partire dagli studi accademici per proseguire poi nella formazione continua, una mag-giore consapevolezza dell’utilizzo delle pratiche narrative, riflessive e di scrittura, nei contesti di cura sanitaria e educativa, promuovendo l’acquisizione di competenze a vari livelli:• nell’area delle conoscenze, intende favorire l’acquisizione di quadro

epistemologico e valoriale di riferimento entro cui collocare le pratiche narrative, riflessive e di scrittura autobiografica;

• nell’area delle abilità, intende allenare studenti e operatori all’utiliz-zo della scrittura: sia come strumento di riflessione sul sé, sull’altro e sulla relazione di cura; sia come strumento di cura di sé, per la promozione del proprio benessere;

• nell’area degli atteggiamenti/comportamenti: intende far comprende-re all’operatore la propria responsabilità narrativa quando si trova a narrare la storia di cura attraverso le varie forme di documenta-zione clinico-sanitaria2;

1 D. Demetrio, Educare è narrare. Le teorie, le pratiche, la cura, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 63-69.2 G. Bernegger, Storie che fanno bene, storie che fanno male. Esercitare la responsabilità e le competenze narrative: una proposta didattica, in M. Castiglioni (a c. di) Figure della cura. Gesti, immagini, parole per narrare, Guerini, Milano 2015, pp. 45-46.

III.9 • nell’area dei valori: intende ripensare il significato di cura sia in am-bito clinico che educativo, costruendo una connessione con i temi della salute e della resilienza3.Introdurre studenti e operatori a questa pratica significa dunque

promuovere un approccio narrativo all’esperienza e uno sguardo nar-rativo all’interno del lavoro di cura, per favorire l’acquisizione di una nuova ‘postura’ nel mondo e nella relazione con gli altri e anche una capacità riflessiva del tutto nuova. Significa altresì aiutarli a cogliere la differenza tra il modello di pensiero ‘paradigmatico’, razionale, ri-duttivistico e lineare, e il pensiero narrativo, il quale invece utilizza un approccio fenomenologico all’esperienza, indagata secondo le leggi della complessità.

Il verbo ‘narrare’ deriva dal latino gnarus, con il significato di consapevole: il riferimento è alla situazione nella quale, esponendo o rappresentando, a voce, per iscritto o con altri mezzi, vicende e fatti reali o fantastici, vissuti in prima persona e non, si renda anche il destinatario consapevole di qualcosa che prima non sapeva4. La narrazione, dunque, è un’operazione cognitiva: l’esperienza viene organizzata attraverso il racconto e acquista significato proprio at-traverso la forma data al racconto stesso. La forma della narrazione rivela come colui che narra pensi alla propria esperienza e permet-te di dare ordine e mettere argine al caos dei pensieri, attraverso il canovaccio che viene a costituirsi con il racconto. Tuttavia in qualsiasi momento può avvenire la trasgressione: è possibile infatti partire da una narrazione all’indicativo e arrivare a un racconto al congiuntivo, che apra cioè a nuovi scenari (“è stato […] ma è anche possibile che sia”)5.

Nel contesto moderno, educare attraverso la narrazione può signi-ficare allenare a un pensiero che sovverte, in quanto porta a esporsi alla riflessione su di sé, ad accogliere l’interferenza costituita dalla pre-

3 L. Garrino, La medicina narrativa nei luoghi di formazione e di cura, Centro Scientifico, Torino 2010, pp. 27-38.4 A. Smorti, G.P. Donzelli, La medicina narrativa in pediatria. Come le storie ci aiutano a capire la malattia, SEID, Firenze 2015, p. 26.5 C. Malvi (a c. di), La realtà al congiuntivo. Storie di malattia narrate dai protagonisti, Franco Angeli, Milano 2011, p. 14.

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senza dell’altro e ad acquisire un nuovo atteggiamento, prima indivi-duale (io) e poi relazionale (noi).

a2) La scrittura di séIl verbo ‘scrivere’ ha radice etimologica nel latino antico, con il

significato di ‘segnare lettere e parole con lo stilo sopra tavolette in-cerate’. La scrittura, da un punto di vista pedagogico, è considerata un ‘vincolo’ o un dispositivo volto a generare processi di apprendimento: quindi non un esercizio fine a se stesso, ma uno strumento per cono-scere se stessi (atteggiamenti, posture mentali, sguardi, punti di vista), gli altri, la propria pratica di cura, il mondo.

Per quanto riguarda anzitutto la conoscenza di sé, la scrittura aiuta infatti a esplorare/esplicitare:• la connessione tra i nostri modelli di pensiero, i nostri stili personali

e i nostri valori; • i nostri vissuti e le nostre esperienze, con i significati che a esse

attribuiamo;• le nostre verità ‘latenti’, che determinano la nostra visione, la no-

stra postura e i nostri atteggiamenti verso gli altri e il mondo, la nostra identità professionale e, di conseguenza, il nostro compor-tamento e le relazioni che intratteniamo6.La pratica della scrittura autobiografica ha un grande potere e valo-

re pedagogico, perché genera una continuità fra l’esperienza del passa-to e del presente e la previsione/attesa del futuro, cioè una continuità nella linea del tempo al di là della frammentazione quotidiana. Oltre a questo, apre a più interpretazioni, allenando all’assunzione di diversi punti di vista: scrivere obbliga infatti a rappresentare l’esperienza nel qui e ora, sottoponendola alla domanda e al dubbio. È una pratica che connette in modo dinamico i vissuti, genera risonanze emotive e aiuta a interrogare fatti vissuti ed esperienze fatte.

Il testo narrativo-autobiografico è un modo di oggettivare il vissuto, che diventa qualcosa di ‘altro’ rispetto al narratore: sul testo si può

6 Garrino, L’utilizzo dei diari nella formazione infermieristica, “Tutor”, 7 (2007), pp. 94-99; R. Massa, La clinica della formazione, in A. Rezzara (a c. di), Dalla scienza della pedagogia alla clinica della formazione, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 153-60.

ritornare per riflettere, interpretare, per trovare nuovi o altri punti di vista, per fare scoperte o trovare conferme7.

La scrittura, ancora, aiuta a creare uno spazio riflessivo, facilitando la ricerca e la scoperta interiore, portando a un processo di autocom-prensione profonda, fondamentale per chi si occupa di relazione di cura, sia in ambito clinico che educativo8.

Il testo scritto può essere anche sottoposto allo sguardo dell’altro, per esempio nel momento in cui, durante una sessione formativa, si condividano le scritture in coppie, terzetti o piccoli gruppi: l’altro può osservare, riflettere, interpretare, fare un confronto con la propria esperienza e poi fornire allo scrittore nuovi e diversi punti di vista.

La scrittura della propria esperienza aiuta a creare un ponte nelle rotture biografiche (come una malattia o altri eventi marcatori, legati ad amore, lavoro, gioco, morte): scrittura e auto-narrazione infatti, connet-tendo biologia e biografia, possono divenire fattore produttivo di resi-lienza, perché sono utili a dare voce a emozioni, sentimenti e pensieri, ad attribuire nuovi significati alle esperienze e a creare l’opportunità di ri-raccontare un evento o una storia in termini di crescita e di evoluzione9.

Se è vero che le persone imparano di più nei momenti di passaggio e nelle crisi di transizione, la scrittura può servire a tornare su quei momenti, recuperandovi memorie di incontri ed eventi, di rotture e perdite, di fratture e ponti, di morti e rinascite, cioè il prima e il dopo e tutti i preziosi significati connessi al processo del ricordare, del nar-rare e del riflettere. Questi momenti di passaggio o crisi nel mondo della cura non mancano e toccano la vita dei pazienti e dei familiari tanto quanto quella dei curanti.

Nei processi formativi, e quindi nei laboratori narrativo-esperien-ziali, la scrittura di sé si sviluppa in un tempo individuale e in un tempo di gruppo: la riflessione insieme ad altri sulle esperienze fatte e scritte individualmente rende possibili la condivisione e la concettualizzazione di quelle esperienze e le persone possono apprendere attraverso e

7 Castiglioni, L’approccio narrativo nella formazione degli operatori medico-sanitari, in Deme-trio, Educare è narrare, cit., pp. 181-213.8 L. Montagna, C. Benaglio, zannini, La scrittura riflessiva nella formazione infermieristica: background, esperienze, metodi, “Assistenza Infermieristica e Ricerca”, 3 (2010), pp. 140-52.9 Castiglioni, La parola che cura, Cortina, Milano 2016, pp. 55-64.

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grazie al gruppo-aula. La rielaborazione dell’esperienza in gruppo ha, perciò, un valore aggiunto: nell’incontro fra i loro diversi mondi e pun-ti di vista, le persone si scambiano infatti e si prestano non solo storie, ma anche e soprattutto riflessioni e perciò risorse e strategie. La for-mazione diviene allora un luogo di apprendimento collaborativo, in cui si impara a riflettere su quanto appreso dalle storie di vita proprie e degli altri, su quali conferme si sono trovate nel gruppo, su quali dubbi sono emersi e quali elementi hanno contribuito a curare una qualche ferita, perdita, frustrazione, dolore.

Dovremmo perciò imparare a considerare la narrazione in gene-rale e in particolare la scrittura di sé una pratica riflessiva e una forma di cura (di sé e degli altri), da coltivare nella formazione di base delle professioni sanitarie e poi lungo tutto l’arco della vita professionale.

b) Il laboratoriob1) L’idea

Le narrazioni accompagnano da sempre la mia esistenza: mi sono allenata alle pratiche di lettura e scrittura grazie prima ai miei genitori e poi ai maestri e agli insegnanti che mi hanno guidato a vivere nel mondo. Nello specifico, questa pratica laboratoriale ha le sue radici in due esperienze formative importanti e in una convinzione maturata progressivamente in me come formatore.

La prima esperienza fa riferimento agli workshop di Medicina Narra-tiva che ho frequentato alla Columbia University di New York sotto la guida della professoressa Rita Charon e del suo team: in queste occa-sioni, ho potuto fare pratica di lettura “ravvicinata”, di scrittura rifles-siva e del modo con cui le Medical Humanities possano essere utilizzate per promuovere lo sviluppo della competenza narrativa. ho anche po-tuto comprendere come questo metodo possa essere utilizzato al di là della cultura o della lingua di appartenenza e che anzi i testi narrativi tratti dalla letteratura (prosa o poesia), dall’arte, dal cinema, quando opportunamente selezionati in relazione al tema di riflessione, possono promuovere l’affiliazione all’interno del gruppo di apprendimento10.

10 Charon, N. hermann, M.J. Devlin, Close Reading and Creative Writing in Clinical Education: Teaching Attention, Representation, and Affiliation, “Academic Medicine”, 20 (2015), pp. 1-6.

La seconda esperienza si riferisce alla frequenza del Corso di per-fezionamento “Pratiche narrative e di scrittura nella cura educativa e medico-sanitaria”, presso l’Università Bicocca di Milano, che ha conso-lidato in me sia gli aspetti valoriali che la forza del metodo narrativo: ho avuto infatti l’opportunità di fare esperienza di diverse modalità di applicazione dell’approccio narrativo attraverso discipline che possono arricchire il contesto della medicina e che offrono altri e nuovi punti di vista (la pedagogia, l’antropologia, la sociologia, la psicologia, la filosofia).

Questo laboratorio nasce anche dalla convinzione (diventata tale negli anni, proprio attraverso l’esperienza di formatore sul campo), che la formula educativa vincente sia quella che offre all’adulto la pos-sibilità di essere protagonista del proprio processo di apprendimento: cosa particolarmente vera quando il sapere si acquisisca facendone esperienza. In questo modo viene ribaltato il processo classico di in-segnamento, che privilegia il momento teorico-informativo rispetto a quello esercitativo ed esperienziale. In laboratorio si parte invece dal fare ed è poi la riflessione sull’esperienza a portare, in forma colla-borativa attraverso l’insegnante e il gruppo, ad acquisire per scoperta informazioni e strumenti utili ad agire nella vita, da un punto di vista sia professionale che personale11.

b2) La realizzazioneQuesta proposta laboratoriale per il convegno di Medicina Narra-

tiva è stata progettata e realizzata secondo una scaletta di attività, che qui di seguito viene descritta nel dettaglio; l’intento è dare ai lettori spunti di riflessione sia sui contenuti che sul metodo utilizzato.

Autopresentazione del conduttore e dei partecipanti al laboratorioSono presenti circa 20 persone per ciascuno dei due gruppi laboratoriali, la cui composizione è multi-professionale, com-presi alcuni volontari e insegnanti non appartenenti al mon-do sanitario. Le presentazioni avvengono in modo snello:

11 M. Rotondi, Facilitare l’apprendere. Modi e percorsi per una formazione di qualità, Franco Angeli, Milano 2012, pp. 131-40.

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chi vuole racconta anche “ho scelto questo laboratorio per-ché…” ed emergono svariate motivazioni, quali: la curiosità, la voglia di approfondire il lavoro con la scrittura, il desiderio di trovare strumenti per il benessere degli operatori ecc.

Presentazione degli obiettivi e delle attività del laboratorio e realizza-zione del patto formativo

Dalla mia esperienza risulta fondamentale trovare fin da subito un accordo sul programma e su diritti/regole del gruppo. Da una parte, quindi, occorre incrociare le aspet-tative dei partecipanti con la proposta del formatore; dall’altra, bisogna chiarire che in un laboratorio narrativo esperienziale i partecipanti hanno il diritto di dire/non dire, di fare/non fare le attività proposte. Regola principale è la riservatezza, cioè il trattare con delicatezza i racconti personali/intimi delle persone, affinché ciascuno si senta libero di esprimersi se lo desidera.

Proposta di un close reading in plenariaPer close reading si intende la lettura attenta di un testo, per avvertire il potere delle parole e per comprenderne il significato: in genere viene data ai partecipanti l’indica-zione di tenere una matita o una penna a portata di mano, per sottolineare durante la lettura parole o frasi ritenute significative. Il close reading è un’esercitazione che ha l’o-biettivo di prendere confidenza con un testo scritto (in prosa o in poesia), per catturarne sia la sintattica (struttu-ra) sia la semantica (i significati): si tratta di un allenamen-to importante per poter acquisire competenze narrative fondamentali, in quanto ogni narrazione, anche orale, del paziente, del familiare, del collega ecc., ha una struttura e le parole fanno riferimento a significati attribuiti dal nar-ratore e interpretati dal lettore/ascoltatore. Dopo questi due passaggi sul testo, è possibile fare anche una analisi performativa o dialogica, che porta a comprendere gli ef-

fetti di quella narrazione nel contesto in cui viene pro-dotta12. Questo tipo di analisi aiuta a riflettere su quanto e come una storia possa agire a livello di relazioni, nuove percezioni della realtà, cambiamenti di punti di vista, indi-cazioni concrete per un processo di miglioramento ecc.Per questo laboratorio è stato scelto un brano tratto dal libro Con gli occhi del nemico, di David Grossman13. In bre-ve, Grossman, scrittore di nazionalità israeliana, in questo libro si chiede cosa possa fare uno scrittore per aiutare il proprio paese a ritrovare la pace: egli decide di scrivere e raccontare personaggi e storie in grado di far entrare i lettori nei panni altrui, di pensare con la testa di un’altra persona, in modo che possano guardare la realtà con occhi diversi dai propri. E tutto ciò anche se l’altro in questione è un nemico.Grossman ritiene che, quando si è conosciuto l’altro dall’interno, non si possa più essere completamente in-differenti nei suoi confronti: ci risulterà difficile ignorarlo, fare come se fosse una ‘non persona’. Non si potrà più rifuggire dalla sua sofferenza, dalla sua ragione, dalla sua storia; e forse si diventerà anche più indulgenti con i suoi errori. L’autore vive in un paese in guerra e questo libro vuole accendere una speranza, indicando una possibile via di uscita dal tragico labirinto del conflitto tra israe-liani e palestinesi. Per l’autore scrivere diventa un mezzo per rendere il mondo meno estraneo e nemico, il dolore meno paralizzante e insopportabile, il linguaggio meno po-vero e fossilizzato dagli stereotipi dell’odio e della paura.Le pagine per il close reading sono state dunque scelte per due motivi:• innanzitutto in quanto sono incentrate sul ‘perché’ della

scrittura e quindi sugli effetti che essa ha nella vita co-gnitiva, emotiva, relazionale dell’autore. Questo ‘perché

12 C. Kohler Riessman, Narrative Methods for human Sciences, Sage, London 2008. 13 D. Grossman, Con gli occhi del nemico, tr. it., Mondadori, Milano 2007, pp. 40-45.

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scrivere’ viene dunque riproposto ai partecipanti del la-boratorio in relazione alla propria storia e professione;

• in secondo luogo queste pagine sollecitano la riflessio-ne su come si faccia a immaginare di stare nei panni altrui e su che cosa accada quando si provi a farlo, sforzandosi di pensare con la sua testa o di guardare la realtà con i suoi occhi. Questo è quello che in genere è richiesto quando si vuole entrare in relazione empatica con un’altra persona, operazione, al di là delle buone intenzioni, molto difficile e per nulla scontata. Quindi è importante riflettere sia sulla capacità di entrare in empatia con qualcuno, sia sugli ostacoli e le resisten-ze che impediscono di raggiungere quest’obiettivo. E Grossman propone addirittura di tentare l’operazione con colui che ci è nemico!

Il close reading viene realizzato dando voce, per ogni para-grafo, a quel partecipante che spontaneamente si propone per la lettura.

Analisi approfondita del testo partendo da domande del conduttoreDopo il close reading in un primo tempo si crea un silenzio meditativo, molto importante: ciascuno torna con i propri occhi sul testo a rivedere quanto sottolineato, o a rilegge-re qualche passaggio.In seguito il formatore sollecita con delle domande un’a-nalisi approfondita del testo: “Cosa vi ha colpito di questo testo? Cosa avete sottolineato come importante/signifi-cativo? Quali emozioni avete provato durante la lettura? Quali riflessioni vi sono venute in mente?”. In seguito il formatore propone la trascrizione su una lava-gna a fogli mobili delle parole/frasi chiave contenute nelle riflessioni dei partecipanti.Le riflessioni nei due diversi gruppi portano alle trascri-zioni riportate nella seguente tabella:

1° gruppo 2° gruppo

• Le parole chiave del testo sono con-flitto, paralisi, vulnerabilità

• Dinanzi a un conflitto così devastante resta solo il silenzio

• In Grossman c’è un’urgenza di scri-vere, che è come una sensazione fisica

• La scrittura “scioglie”, è una medici-na, dà felicità, è una opportunità, porta dolcezza e libertà, coraggio, profondità, energia

• La scrittura permette anche di stare nel punto di vista del nemico e permette di comprenderlo

• La scrittura crea consapevolezza del qui e ora, aiuta a comprendere e vivere il momento presente

• La scrittura permette di “respirare” anche nel dolore, nel conflitto, questo crea piacere e sensazione di vitalità

• La scrittura come opportunità per ciascuno di noi, per gli altri

• La scrittura è un dono

• La scrittura mette ordine

• Grossman dice che quando siamo tristi scriviamo del passato, quando siamo felici scriviamo del presente o del futuro e questo dà spazio all’imma-ginazione, alla vita, crea opportunità

• La scrittura crea parole che possono essere una cura, una guarigione

• La scrittura aiuta a scomporre, a sciogliere, crea un movimento per interrompere la paralisi, il ghiaccio, la putrefazione

• La scrittura crea un luogo (aiuta a tornare a casa, a mettere dei confini) e un tempo (passato, presente, futuro); il luogo può essere sia interno (dentro di me) che esterno (il mondo fuori)

• La scrittura permette di nuovo di respirare, ci rimette a contatto con il corpo e con i nostri sensi

• La scrittura ci porta verso un lin-guaggio di parole vere

• Nel testo la ripetizione “Io scrivo” è come un mantra, che ci porta a sentire la forza della scrittura

• In questo racconto lo scrittore fa emergere il conflitto esterno vittima/ag-gressore, ma anche il conflitto interno: vi è una presa di coscienza di ciò che accade quando guardo veramente attra-verso gli occhi del nemico, scopro che anche lui è un essere umano, come me

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Riformulazione riassuntiva delle riflessioni emerseDa parte del conduttore, che dedica 5 minuti per ricom-porre quanto espresso dal gruppo e dare risalto alle pa-role o a concetti chiave emersi.

Input alla scrittura (reflective writing)Da parte del conduttore, che detta per tutti questo titolo: “Quella volta che tu ti sei preso cura di me”. I partecipanti hanno 10-15 minuti per scrivere il proprio testo e poi qualche minuto per sottolineare/cerchiare cinque parole significative del proprio scritto (quelle parole che balzano agli occhi e che hanno un significato particolare in questo contesto). L’input o prompt dato dal conduttore vuole ora focalizzare l’attenzione sul tema della cura. In genere par-liamo (molto) e scriviamo (poco) della cura che offriamo agli altri nel nostro ruolo di operatori sanitari. Spostare l’attenzione alla cura ricevuta ha il significato di stimolare la riflessione sugli effetti che la cura di qualcun altro ha avuto su di noi, per capire in seconda battuta gli effetti che noi possiamo produrre in altre persone.Il tema della cura è centrale nelle professioni di aiuto e qui si chiede di indagarlo attraverso il pensiero narrativo: si tratta di cercare una storia nella propria memoria e di metterla per iscritto, per avere di fronte a sé un testo su cui riflettere e giungere, attraverso il metodo induttivo, a comprendere quali elementi abbiano realizzato la cura. Quando si parla di cura si va alla radice di azioni, compor-tamenti, atteggiamenti che dalle origini dell’umanità hanno permesso alla vita di esistere e di continuare. È mettere mano a qualcosa che ci ricorda profondamente la nostra radice umana e ci fa comprendere l’essenzialità di gesti che promuovono la vita, a partire dalle cure materne. Infatti il prompt non chiede di circoscrivere la ricerca a episodi di cura sanitaria, ma lascia libero lo scrittore di scandagliare nella memoria esperienze diversificate di cura ricevuta.

Invito ai partecipanti a formare delle coppieAll’interno delle coppie ciascuno legge il proprio scritto all’altro, che ascolta con attenzione. L’ascoltatore, dopo la lettura sollecita domande di approfondimento e dà un feedback non giudicante. Vengono condivise anche le cin-que parole sottolineate da ciascuno e ogni coppia riflette sulle dieci parole condivise, fino a trovarne tre-cinque che rappresentano i testi di quella coppia. Questo esercizio ha una durata globale di circa 20 minuti.Il lavoro a coppie permette di condividere in un’area pro-tetta, intima, il proprio racconto, a volte anche con una persona sconosciuta prima dell’esperienza laboratoriale. Nella coppia si fa esperienza di lettura, di ascolto vero, profondo, di condivisione e si riceve un feedback con gli occhi e orecchi dell’ascoltatore. Si fa cioè esperienza di quelli che sono i passaggi tipici del processo empatico! In genere questa esperienza lascia un segno nei partecipan-ti, che scoprono la possibilità di entrare in contatto con un altro essere umano a partire dalla condivisione di una storia e comprendono, come operatori, la difficoltà che un paziente può avere a raccontare la propria storia a un operatore sconosciuto.

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Condivisione in plenaria delle cinque parole individuate da ogni coppiae trascrizione in lavagna a fogli mobili

Nella tabella seguente le parole delle coppie:

1° gruppo

Laboratorio mattino

2° gruppo

Laboratorio pomeriggio

• Anticipare, conforto, gioia, infinito

• Diario, rotto, incollato

• Fiducia, ammirazione, amore

• Strada, scioglimento, altezza

• Amore, colore, guaritore, io, tu

• Sete, fragile, posto giusto, risalita, paura

• Deriva, interpretare, alfabeto, aiutar-mi, vittoria

• Anghiari, passi, insonne, leggera, la tua presenza

• Carezze, sempre, reciprocità amore, tenacia, gratitudine

• Paura, calore, sorriso, dolore, grati-tudine, intenso, soffocante

• Amorevolmente, riconoscimento, bi-sogno, fortunatamente, ex post

• Scoprire, leggerezza, chiarezza, im-provviso, conoscere, urgenza, esplorare

• Falsità, mercé, maschere, ho rispetto

• Cuore, mano, stretta, spalle, immagi-ni, affidarsi, essenza

• Grazie, trasformazione, leggerezza, imparare, presenza, consigli, vicinanza, umiltà

• Silenzioso richiamo, dolore, stare, fermarsi, colore, prendere per mano

• Solitudine, visibilità, riconoscere, bi-sogno, vicinanza, aiuto, forza, parole, grazie

• Incontro di sorrisi, abbraccio, ascol-to, credere, speranza, coraggio, ricono-scere

• Odissea, mondo dei libri, scavare, su-perare, identità, leggera, storie

Segue un momento riflessivo in cui le parole e gesti di cura fanno emergere pensieri, emozioni, idee così riassu-mibili:• pensare alla cura vuol dire preoccuparsi della cura di sé e cura dell’altro;• la cura può essere considerata come ‘ponte’ durante le difficoltà della vita;

• le parole della cura emerse nelle coppie fanno molto riferimento al linguaggio del corpo e ai sistemi percettivi (visivo, auditivo, cinestesico);• i conflitti relazionali ed etici nei luoghi di cura sono molti, vi è l’urgenza di uno spazio per lavorare sulla pro-pria fatica come operatori, perché ognuno ha la sua parte di sofferenza;• viene avvertita con forza la necessità di approfondi-mento degli strumenti della comunicazione, finalizzata all’umanizzazione delle cure;• il laboratorio ha permesso di sperimentare l’affiliazio-ne, percepita come condivisione e anche legame che si instaura tra persone, sentendo l’energia del gruppo;• il sentimento di gratitudine si è imposto con forza per-ché, attraverso il lavoro sia in plenaria che in coppia, i partecipanti hanno potuto sperimentare il donare e il ri-cevere, la cura data e la cura ricevuta. Anche ascoltare con attenzione l’altro che legge il proprio scritto è un atto di cura.

Metariflessione in plenaria, guidata dalle domande del conduttore• Com’è stato scrivere un episodio di cura ricevuta? Quali emozioni, ricordi, riflessioni sono stati sollecitati? Ci sono state difficoltà a scrivere? Quali?• Com’è stato leggere a un’altra persona il proprio scrit-to? E ricevere lo scritto dell’altro? Ci siamo sentiti ascol-tati e compresi? Quale feedback ci è stato dato?• Che cosa è emerso del concetto di cura in questo esercizio? Quanti significati?• Riflettere sul tema della cura ha fatto emergere nuovi bisogni (formativi, progettuali, personali ecc.)?• Quali scoperte sono state fatte con questo laborato-rio? Quali dubbi sono emersi?• Perché utilizzare la lettura attenta (close reading) e la scrit-

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tura riflessiva (reflective writing) nella formazione degli opera-tori della cura?• Qualcuno vuole aggiungere qualcosa a conclusione di questo lavoro?Molte sono le parole di questa riflessione, poi anche state trascritte dai partecipanti nel test narrativo di fine corso. Le frasi più significative sono riportate nel paragrafo successivo.

Esercizio conclusivo“Dall’immagine alla parola”. Ogni partecipante viene invi-tato a scegliere una delle immagini in A4 sparpagliate su di un tavolo (le immagini hanno come soggetto la natura, volti umani, animali, forme simboliche ecc.) e, a partire dall’immagine, pensare a un messaggio da lasciare al grup-po. Tutti i partecipanti si dispongono in cerchio nell’aula e senza un ordine preciso, ognuno esprime il cosiddetto “messaggio in bottiglia”. Sono messaggi che esprimono emozioni, auguri di buon lavoro e buon cammino, di gra-titudine al gruppo.

Il conduttore ringrazia e congeda il gruppo augurando a tutti di conti-nuare a praticare la scrittura.

c) I feedback dei partecipantiPer ogni laboratorio frequentato, al termine dell’esperienza pra-

tica, ai partecipanti è stato chiesto di rispondere per iscritto a varie domande. Qui di seguito riporto alcune risposte significative relative al laboratorio di scrittura, trascritte in forma assolutamente anonima allo scopo di dare voce ai protagonisti del laboratorio stesso.

“Il laboratorio ha risposto alle sue aspettative? Le chiediamo di motivare sia il sì che il no”.

Sì, perché l’analisi dello scritto ha permesso di individuare altri punti di vista e integrarli nel proprio pen-siero. Inoltre si è potuto individuare altri collegamenti e quindi trasporre nel proprio quotidiano i contenuti, le strategie apprese

Assolutamente sì. ha dato stru-menti per utilizzare la scrittura riflessi-va in vari ambiti con punti di vista ampi che possono far crescere le persone e stimolarle a una riflessione interna ed esterna profonda

Cura e scrittura. Scrivere per met-tere ordine nella propria vita, scrivere per sentirsi liberi

Sì, perché sono convinta che le parole hanno un significato preciso e che devono essere ponderate perché possono curare ma anche ferire

… mi ha permesso ancora una vol-ta di confrontarmi con la mia capacità di relazioni con persone sconosciute e di constatare quanto le mie difficoltà siano comunque condivisibili e i temi di riflessione siano comuni. Il gruppo intero ha concordato sulla necessità di trovare canali utili a ricaricare le ener-gie ‘mangiate’ nella relazione di cura di se stessi e degli altri

ha risposto alle mie aspettative per la potenza e l’efficacia della scrittura nel far emergere parti di sé che si tra-ducono in consapevolezza. L’importan-za della condivisione come parte inte-grante/imprescindibile dell’esperienza

… la scrittura è una medicina per curare una malattia, scrivere per esse-re liberi, per conoscerci. Scrivere per mettere ordine nella propria vita

… ho capito che scrivere è uno stru-mento prezioso per elaborare la soffe-renza, le difficoltà, per conoscersi e per conoscere gli altri entrando in empatia

“L’attività laboratoriale è stata uno stimolo per apprendere o per scoprire qualco-sa di nuovo o per vedere con altri occhi qualcosa di conosciuto?”

… Scrittura come auto-narrazione. Scrittura per prendersi cura anche di noi stessi

Vale sempre la pena di ricordarci che dovremmo metterci più spesso nei panni del ‘nemico’

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L’attività di laboratorio nell’aspetto della scrittura autobiografica, la condivi-sione e la sintesi effettuata dal condut-tore ha permesso di riflettere sui diver-si punti di vista, individuare gli aspetti comuni e come possa essere possibile integrarli nell’attività assistenziale

Sì, scrivere è vita. Leggere ciò che si è scritto e ascoltare ciò che gli altri hanno scritto è l’apertura dell’altro e l’altro è il mondo che noi non cono-sciamo

È stato uno stimolo per capire che c’è ancora molto da apprendere e sco-prire e di sicuro la Medicina Narrativa può diventare un solido strumento e risorsa nella mia professione

ho scoperto che un modo per prendersi cura di sé è prendersi cura riflessiva della propria mente, perce-pendo il tempo come amico anche se nella malattia

Certo ribadisco che sentire pro-fessionisti con altre storie personali e lavorative, confrontarsi e condividere per ‘riempirci di forza ed energia’ da portare come prezioso bagaglio nei nostri contesti lavorativi personali e familiari è straordinario

Ottimi gli spunti di condivisione e i contenuti emersi, portano a nuove co-noscenze e voglia di approfondimento e condivisione […] e un desiderio for-te di scrivere

“Pensa che ci sia qualcosa di applicabile al suo quotidiano (lavorativo, relazionale, personale) di quanto appreso e sperimentato nel laboratorio?”

Nel mio lavoro […] penso che un “laboratorio di scrittura” possa faci-litare l’espressione delle emozioni da parte degli utenti

La scrittura è sempre applicabile sia in ambito personale che lavorativo

Questa esperienza può essere calata in ogni luogo, famiglia, lavoro, ambiente extralavorativo. Ti facilita la comprensione degli altri, ti fornisce nuovi strumenti per ascoltare e com-prendere ciò che ti sta attorno

Sì, l’importanza di mantenere un aspetto umano nella cura, non dimen-ticarmi mai di chiamare il paziente per nome, di presentarmi e coinvolgerlo in prima persona, facendo attenzione alla sua storia, al suo contesto di vita e a quello di cui ha bisogno

Penso di aver capito che si può aiu-tare gli altri e lavorare bene se per pri-ma cosa si è coscienti di sé, dei propri limiti e risorse. Da soli non si riesce a fare molto, è importante essere inseri-ti in un gruppo

… fare della narrazione il proprio luogo di vita e di rimessa in discussio-ne delle proprie categorie e delle di-cotomie del reale. La consapevolezza che l’incontro con l’altro avviene nella narrazione e in quella narrazione si impara a prendere gli occhi dell’altro

d) ConclusioneSono sempre più convinta che, nell’educazione degli adulti, il for-

matore possa e debba transitare dal ruolo di esperto di contenuti a quello di facilitatore di processi di apprendimento e accompagna-mento al cambiamento, lungo tutto l’arco della vita professionale delle persone, riconoscendone risorse, valore, piena dignità. Questo è anche il bisogno che i discenti hanno espresso durante e dopo il laboratorio con le proprie scritture, assieme all’idea che il prendersi cura di chi cura costituisca un passaggio essenziale per una cura di qualità, dei sofferenti e dei loro familiari, e anche per promuovere sia il benessere e la motivazione del curante, che il clima all’interno dei team di lavoro.

Ritengo dunque di grande valore etico sostenere in sanità lo svilup-po di programmi educativi fondati sulle pratiche narrative, autobio-grafiche e riflessive, che privilegiano l’apprendimento attivo e l’imparare facendo, dimensione dove interagire, fare, pensare, riflettere è richie-sto in prima persona al discente stesso.

La formazione dei professionisti è un cardine irrinunciabile, ma reg-ge all’interno di un progetto più ampio, che coinvolge anche la cura e la ricerca, i pazienti tanto quanto i curanti e gli amministratori. Infatti, solo attraverso un approccio sistemico è possibile governare la complessità e mantenere la direzione dell’umanizzazione e personalizzazione delle cure14.

14 I. Truccolo, C. Cipolat Mis, P. De Paoli (a c. di), Insieme ai pazienti. Costruire la patient education nelle strutture sanitarie, Il pensiero scientifico, Roma 2016.

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Bibliografia• G. Bernegger, Storie che fanno bene, storie che fanno male. Esercitare la responsa-

bilità e le competenze narrative: una proposta didattica, in M. Castiglioni (a c. di), Figure della cura. Gesti, immagini, parole per narrare, Guerini, Milano 2015.

• M. Castiglioni, L’approccio narrativo nella formazione degli operatori medico-sanitari, in D. Demetrio, Educare è narrare. Le teorie, le pratiche, la cura, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 181-213.

• EAD., La parola che cura, Cortina, Milano 2016.• R. Charon, N. Hermann, M.J. Devlin, Close Reading and Creative Writing in Clinical

Education: Teaching Attention, Representation, and Affiliation, “Academic Medicine”, 20 (2015), pp. 1-6.

• D. Demetrio, Educare è narrare. Le teorie, le pratiche, la cura, Mimesis, Milano-Udine 2013.

• L. Garrino, L’utilizzo dei diari nella formazione infermieristica, “Tutor”, 7(2007), pp. 94-99.

• D. Grossman, Con gli occhi del nemico, tr. it., Mondadori, Milano 2007.• C. Malvi (a c. di), La realtà al congiuntivo. Storie di malattia narrate dai protagonisti,

Franco Angeli, Milano 2011.• R. Massa, La clinica della formazione, in A. Rezzara (a c. di), Dalla scienza della

pedagogia alla clinica della formazione, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 153-60.• L. Montagna, C. Benaglio, L. Zannini, La scrittura riflessiva nella formazione infer-

mieristica: background, esperienze, metodi, “Assistenza Infermieristica e Ricerca”, 3 (2010), pp. 140-52.

• C. Kohler Riessman, Narrative Methods for human Sciences, Sage, London 2008.• M. Rotondi, Facilitare l’apprendere. Modi e percorsi per una formazione di qualità,

Franco Angeli, Milano 2012.• A. Smorti, G.P. Donzelli, La medicina narrativa in pediatria. Come le storie ci aiutano

a capire la malattia, SEID, Firenze 2015.• I. Truccolo, C. Cipolat Mis, P. De Paoli (a c. di), Insieme ai pazienti. Costruire la

patient education nelle strutture sanitarie, Il pensiero scientifico, Roma 2016.

NICOLETTA SuTERResponsabile del Centro Attività Formative del CRO di Aviano

Benefici e rischi della Medicina Narrativa: il punto di vista dei partecipanti al convegno

Nicoletta Suter, Ivana Truccolo

In occasione della compilazione del test finale di apprendimento, è stato chiesto ai partecipanti al convegno 2016 di rispondere ad alcune domande: esse avevano l’obiettivo d’indagare il loro punto di vista sui ‘benefici’ che i programmi di Medicina Narrativa possono apportare ai pazienti e ai loro familiari, agli stessi curanti e all’organizzazione sa-nitaria nel suo complesso. È stata però posta anche una domanda sui ‘potenziali rischi’ percepiti dagli stessi, rispetto all’utilizzo delle narra-zioni nei luoghi di cura.

Sono 110 i partecipanti che hanno risposto a queste domande aper-te, la maggior parte costituita da operatori sanitari: ma erano presenti anche counsellor, insegnanti, volontari, alcuni pazienti e alcuni operatori con una storia di malattia alle spalle. Le risposte ridate nei questionari dopo trascrizione sono state sottoposte a un’analisi tematica.

Presentiamo qui di seguito i principali temi emersi nelle risposte a ciascuna domanda, con la precisazione che questi sono comparsi più volte e contemporaneamente in più risposte, ma sono qui illustrati separatamente solo per dare ordine alla scrittura. In realtà essi sono spesso fra loro interconnessi, cioè l’uno richiama l’altro. Per ogni tema emerso viene proposta una breve didascalia quale riassunto delle ri-sposte più significative data dai partecipanti.

a) Quali benefici/vantaggi possono trarre i pazienti e le loro famiglie dai programmi di Medicina Narrativa?

Dare voce, potersi esprimere: la narrazione dà voce al vissuto del paziente e dei familiari, che diventano testimoni della loro esperienza

III.10

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soggettiva; essa facilita l’espressione di emozioni, di pensieri e questo crea sollievo e anche la possibilità di essere compresi.

Empowerment: il paziente diviene il protagonista della sua storia di vita e il vero esperto della sua malattia; la narrazione lo riposiziona al centro del processo di cura.

Autocomprensione: il processo di autoconoscenza e comprensio-ne di sé da parte del paziente viene facilitato dalla narrazione, orale ma ancor di più quando è scritta.

Ordine e senso: raccontarsi, scrivere di sé aiuta a fare ordine nel caos provocato dalla malattia, aiuta a ricomporre la frattura biografica, met-tendo in moto la ricerca di un senso/significato dell’esperienza vissuta.

Cura di sé, autoguarigione, valore terapeutico: la narrazione ac-quista un valore terapeutico proprio perché propone alla persona di prendersi cura di sé e di riprendere il cammino verso un processo di guarigione interiore.

Crescita personale: raccontarsi, scrivere di sé aiuta a rielaborare il vissuto, a trasformare il dolore e la sofferenza, a recuperare risorse interiori per ripartire, per aprirsi a nuovi programmi di vita.

Aderenza/compliance: l’utilizzo della narrazione nel processo di cura migliora la compliance del paziente col curante e dunque l’aderenza al piano terapeutico.

Benessere: raccontarsi porta leggerezza, serenità, fiducia, sollievo, speranza.

Affiliazione/legame: la condivisione delle narrazioni facilita il soste-gno reciproco, la socializzazione con altri (malati, familiari, operatori), crea nuovi legami, aiutando le persone a uscire dalla solitudine e dall’i-solamento provocati proprio dalla malattia.

Creatività: raccontarsi, scrivere di sé rivela al narratore risorse di cui egli stesso non era consapevole e apre a strategie creative per affrontare il dolore, la sofferenza, la crisi dovuta alla malattia.

Ascolto ed empatia: l’utilizzo della narrazione nel processo di cura fa sì che il malato e i suoi familiari si sentano ascoltati con attenzione, compresi e sostenuti, senza giudizio. La relazione si connota di calore umano ed empatia, migliorando così la comunicazione fra le persone.

Dignità umana: quando il malato percepisce che il curante accoglie la sua narrazione, egli si sente accettato come persona, al di là della sua malattia.

b) Quali benefici/vantaggi possono trarre gli operatori sanitari dai programmi di Medicina Narrativa?

Apertura mentale: le pratiche narrative aiutano a cogliere i diversi punti di vista dei soggetti coinvolti nella cura, promuovendo sguardi nuovi e nuove chiavi interpretative dei fenomeni correlati alla cura.

Competenze relazionali: attenzione, presenza, ascolto del pazien-te, comprensione empatica sono indispensabili a una relazione di cura efficace e di qualità; questi atteggiamenti e abilità vengono al-lenati e potenziati attraverso i percorsi educativi basati su approcci narrativi.

Cura del paziente: la cura si fa più attenta alla persona (non solo alla malattia), completa (perché migliora la conoscenza dei suoi bi-sogni e valori, globalmente della sua storia), personalizzata (perché caratterizzata da umanità, rispetto, tutela della dignità).

Cura dei linguaggi: l’utilizzo di un approccio narrativo aiuta gli ope-ratori a cogliere il valore e i significati del linguaggio delle parole e del corpo, sia come lettura della comunicazione del paziente, sia come modalità comunicativa dell’operatore nella relazione di cura, sia come ricerca di linguaggi che permettano la comprensione reciproca.

Vicinanza/affiliazione: la narrazione avvicina le persone fra loro, permette loro di incontrarsi come esseri umani al di là delle differen-ze (valori, storie di vita, ruoli ecc.).

Valore del tempo: c’è un tempo della cura che va riconosciuto e protetto, sia che si tratti della cura delle persone sofferenti, sia che riguardi il prendersi cura di sé e della propria storia in quanto curante.

Cura di sé: autoconoscenza, autoconsapevolezza, gestione delle emozioni sono alcuni dei passaggi fondanti il processo di crescita per-sonale per coloro che si prendono cura di altri (in particolare nelle situazioni di disagio severo, malattia cronica, sofferenza e dolore).

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Benessere: la narrazione e in particolare la scrittura riflessiva sono strumenti potenti per la comprensione profonda di sé e della pro-pria identità lavorativa; tali strumenti sostengono la rielaborazione di vissuti professionali critici. Le pratiche narrative, quando diventano parte dello stile professionale, migliorano benessere e soddisfazione professionale, aiutano a gestire lo stress lavorativo e possono essere un fattore protettivo dal burn out.

Apprendimento: le pratiche narrative aiutano a nutrire la dimen-sione umana dei curanti, anche attraverso l’utilizzo della letteratura, dell’arte, del cinema; grazie alla riflessione sull’esperienza favorisco-no nuovi apprendimenti quali: comprendere che i disagi si possono trasformare in risorse, imparare a chiedere aiuto e non solo a darlo, impegnarsi nel comprendere i passaggi critici della vita lavorativa e a farvi fronte, potenziare i fattori protettivi di resilienza.

c) Quali benefici/vantaggi può trarre l’organizzazione sanitaria dai programmi di Medicina Narrativa?

Le pratiche narrative innescano circuiti virtuosi che secondo i par-tecipanti apportano numerosi benefici anche a livello organizzativo:• miglioramento dell’efficacia (e raggiungimento degli obiettivi di salute);• maggiore appropriatezza delle cure;• personalizzazione e umanizzazione dell’assistenza;• empowerment e maggiore coinvolgimento dei pazienti (e loro famiglie);• maggiore comprensione delle persone (pazienti, familiari, operatori)

e dei loro bisogni da parte dell’organizzazione;• riduzione dei costi;• riduzione dei contenziosi;• riduzione dei conflitti (con gli assistiti, fra gli operatori);• miglioramento del benessere degli operatori;• miglioramento del clima organizzativo;• miglioramento del lavoro di squadra;• potenziamento dell’apprendimento collaborativo nelle organizzazioni;• stimoli nuovi per l’autoapprendimento degli adulti;• possibilità di imparare dagli errori.

d) Quali sono i potenziali rischi dell’utilizzo delle narrazioni nei luoghi di cura?

Dalle risposte dei partecipanti emergono queste principali ‘etichet-te’ di rischio:

Superficialità e banalizzazione: rischio emergente quando non si tenga conto che le pratiche narrative possono innescare dinamiche importanti a livello emotivo, che richiedono capacità di gestione delle reazioni individuali di ogni persona.

Autoreferenzialità: rischio possibile quando si crei uno sbilancia-mento perché il curante narra troppo di sé e ascolta troppo poco la narrazione del paziente.

Abuso di narrazioni di sé nel web: la proliferazione dell’auto-narra-zione in internet attraverso i vari social network oggi disponibili può sminuire il valore dello strumento narrativo se lo stesso non viene gestito accuratamente e se non si chiarisce la finalità della narrazione stessa.

Assolutizzazione del metodo: accade quando venga potenziato l’approccio narrativo a discapito dell’Evidence Based Medicine, senza favorire la giusta integrazione tra i due paradigmi.

Eccessivo coinvolgimento emotivo del curante: poiché le pratiche narrative mettono in gioco la persona e le sue emozioni, un rischio è quello di non aver appreso a gestirle in modo efficace e in relazione al contesto e, quindi, di lasciarsi coinvolgere troppo dalla storia del pa-ziente, di entrare “troppo” in empatia, di non definire adeguatamente il confine tra sé e l’altro.

Relegare la narrazione al lavoro della mente: rischio possibile quan-do non si tenga conto che le narrazioni non sono solo quelle orali o scritte e che anche il corpo “racconta” le sue storie. Quindi narrare non è un fatto solo cognitivo, ma molto potente anche a livello emo-zionale, cinestesico, propriocettivo ecc.

Inesperienza di formatori e curanti: le pratiche narrative hanno il loro focus nelle relazioni di cura, dove le persone arrivano con il loro mondo della vita, i vissuti, le emozioni, i disagi. Maneggiare que-sti elementi richiede una competenza specifica, che non può essere improvvisata. È perciò buona regola che i formatori che utilizzano le

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pratiche narrative abbiano compiuto percorsi educativi specifici e che loro stessi siano in un processo costante di autoformazione.

Resistenze: la medicina che fa riferimento esclusivo al paradigma biomedico porrà sicuramente ostacoli all’introduzione delle pratiche narrative nel lavoro di cura; anche le persone che non sono ancora pronte al lavoro su di sé criticheranno la Medicina Narrativa sminuen-done il valore; potrebbe esserci anche resistenza rispetto all’uso della scrittura riflessiva, perché scrivere non è facile, ancor più difficile è scrivere del proprio dolore, disagio, dei propri errori, smarrimenti ecc. Molto spesso queste resistenze sono legate anche al preconcetto che la Medicina Narrativa operi solamente attraverso materiale prove-niente dalle storie di malattia. In realtà, molta parte del lavoro in for-mazione riguarda una ricerca delle risorse e dei talenti delle persone e spesso porta alla scoperta di capacità (di scrittura, di espressione creativa ecc.) sconosciute anche agli stessi operatori.

Riservatezza: narrarsi comporta svelare molto di sé all’altro ed è perciò importante tutelare le informazioni contenute nei racconti per tutelare la persona, così come si tutelano tutti i dati sensibili dei pa-zienti; questa tutela va garantita anche nei contesti formativi, quando a raccontarsi è l’operatore.

Esclusione della Medicina Narrativa dalla cura: per alcuni questo è il rischio più grande, perché la buona medicina può solo includere le narrazioni e non vi sono rischi se queste vengono utilizzate “con cura”.

e) ConclusioniI feedback dei partecipanti riassunti in questa sezione offrono cer-

tamente numerosi spunti di riflessione. Da una parte, abbiamo trova-to molte conferme in merito all’utilità delle pratiche narrative nella relazione di cura, nella formazione degli operatori e a sostegno di una vision dell’organizzazione sanitaria che sceglie di mettere le per-sone al centro e prima di ogni altra cosa. Dall’altra parte, questi stessi feedback mettono in luce alcune criticità che vanno adeguatamente gestite per non rallentare e ostacolare un processo di cambiamento di cui la medicina oggi ha più che mai bisogno.

Siamo molto contenti di aver dato voce ai partecipanti del conve-gno su questi temi e a loro va il nostro grazie più sentito per aver con-tribuito a mettere in moto idee e riflessioni per il futuro “narrativo” della medicina. Tutti gli stimoli ricevuti rappresentano per noi organiz-zatori un grande impegno per consolidare il lavoro fin qui svolto e an-che per approfondire le nuove tracce emerse, sulle quali continuere-mo a lavorare con serietà e competenza, per consolidare il paradigma narrativo ai vari livelli: nell’educazione continua, nell’organizzazione, nella relazione di cura, nella costruzione di reti con la comunità.

Infine, un ringraziamento speciale va alle studentesse Sara Mozzon e Silvia Baldasso, del Liceo Leopardi-Majorana di Pordenone, che durante il loro stage al CRO nel 2016 hanno trascritto i test dei partecipanti.

NICOLETTA SuTERResponsabile del Centro Attività Formative del CRO di Aviano

IVANA TRuCCOLOResponsabile della Biblioteca Scientifica e per Pazienti del CRO di Aviano

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Appendice

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Libri di testimonianze pubblicati dal CRO

Caro G.A.S. volevo dirti che… : il quaderno di pazienti e familiari al CRO / a cura della Biblioteca per Pazienti del CRO di Aviano. - 2. ed. - Aviano : Centro di Riferimento Oncologico, [2004]. - 96 p. : ill. color. ; 21 cm.

È una raccolta di scritti e disegni nata dall’idea di un Gruppo di Animatori Sociali (G.A.S. appunto), che hanno svolto attività di animazione al CRO dal 1998 al 2001. Questi volontari hanno messo a disposizione di tutti un “quadernone” che, a poco a poco, si è riempito di pensieri, poesie, lettere, disegni, ricette che le persone desideravano condividere con gli altri. La Biblioteca Pazienti del CRO, in collaborazione con la Biblioteca Civica del Comune di Aviano, ha pensato di ‘dare voce’ a questo scrigno di umanità. La prima edizione, del 2002, è piaciuta a quanti vi si sono avvicinati tanto che, nel 2004, ne è seguita una seconda, aggiornata, riveduta e corretta.

La Biblioteca Scientifica e per Pazienti del CRO di Aviano ha a disposizione una vasta scelta di libri di testimonianze di malattia e di Medicina Narrativa. Il catalogo della Biblioteca è consultabile all’indirizzo: http://www.biblioest.itDi seguito invece i libri pubblicati dal Centro di Riferimento Oncologico di Aviano.

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Passaggio al CRO: voci di pazienti, volontari e cittadini / redazione a cura della Biblioteca per Pazienti del CRO di Aviano. - Aviano : Centro di Riferimento Oncologico; Comune, [2006]. - 141 p. : ill. ; 24 cm.

Oltre a 500 scritti di pazienti, familiari e persone che, a vario titolo frequentano l’ospedale, sono qui raccolte testimonianze di volontari che collaborano con l’Istituto, allo scopo di rendere più accogliente l’assistenza, e pensieri di cittadini del Comune di Aviano che ci danno un’idea di come il CRO venga percepito nel territorio.

Non chiedermi come sto ma dimmi cosa c’è fuori : testimonianze di giovani malati di tumore / [testi scritti dai ragazzi in cura presso l’Area Giovani del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano ; responsabili del progetto Maurizio Mascarin e Ivana Truccolo ; foto di Attilio Rossetti; disegni di Ugo Furlan]. - Milano : Mondadori Electa; Aviano : Centro di Riferimento Oncologico, ©2008. - 213 p. : ill. ; 23 cm.

Nel 2006 prende forma, al CRO di Aviano, un’Area dove protagonisti indiscussi sono i giovani ospiti segnati dalla malattia oncologica. In ogni stanza e nel corridoio vengono collocati dei diari: una sorta di invito ai ragazzi a lasciare un ricordo di sé attraverso scritti, pensieri, poesie, lettere nei quali esprimere sensazioni, angosce, paure, ma anche momenti di felicità e soddisfazione quando il male viene domato e sconfitto. Dopo due anni, i medici e gli operatori del CRO hanno letto i quaderni e raccolto i ‘fiori’ che in essi sono sbocciati. Ne è nato un volume di testimonianze, reso vivo e ‘parlante’ dalle fotografie scattate da Attilio Rossetti ai giovani ricoverati e dai disegni di Ugo Furlan.

Continueranno a fiorire stagioni : pensieri raccolti in un istituto tumori, illustrati da giovani studenti / a cura di Centro di Riferimento Oncologico di Aviano-Biblioteca Pazienti ; Istituto Statale d’Arte-Liceo Artistico Enrico Galvani di Cordenons. - Aviano : Centro di Riferimento Oncologico, [2011]. - 173 p. : ill. ; 21 x 30 cm.

Le centinaia di testimonianze, annotate nei quaderni tra il 2006 e il 2011 da tante persone “di passaggio” al CRO, trovano in quest’opera un completamento nell’espressione visiva del disegno, del colore, delle elaborazioni grafiche e delle fotografie che i ragazzi dell’Istituto Statale d’Arte “E. Galvani” di Cordenons hanno realizzato, ispirandosi non solo ai testi, ma anche alle sensazioni derivate dalla lettura e dallo scambio di emozioni con quanti, ogni giorno, per motivi diversi, entrano in contatto con l’ospedale.

CIP non ha paura : racconto per immagini e testimonianze di pazienti anziani in cura presso l’Oncologia Medica del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano / a cura di Dipartimento di Oncologia Medica e Biblioteca per Pazienti del CRO di Aviano ; fotografie di Pierpaolo Mittica da un’idea del Prof. Umberto Tirelli. - Aviano : Centro di Riferimento Oncologico; Lestans : Centro Ricerca e Archiviazione della Fotografia, ©2010. - 154 p. : in gran parte ill. ; 22 x 24 cm.

Nel corso del 2007, è stato avviato un programma di cura per l’anziano oncologico presso Il CRO di Aviano. Da allora i pazienti seguiti sono quasi cinquecento. Per alcuni di essi la malattia è diventata un’esperienza di vita e di solidarietà con il personale e con il luogo di cura. Da qui è nata l’idea di dar loro voce. Sette anziani, sette storie ritratte dal fotografo Pierpaolo Mittica.

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Scriviamoci con cura : pazienti oncologici raccontano come levare l’ancora con la scrittura : intonazione all’estate che arriva : antologia di racconti / a cura del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano. - Aviano : Centro di Riferimento Oncologico, [2012]. - 191 p. : ill. ; 21 cm. ((In testa al frontespizio: Premio letterario.

Questa antologia raccoglie i racconti dei cinque vincitori della prima edizione del premio letterario “Scriviamoci con cura” 2012, seguiti da alcune selezioni di storie narrate da altri partecipanti. Nel ripercorrere le tappe della malattia, gli autori ci regalano delle testimonianze profonde, umane e soprattutto universali. Un cammino fatto di dubbi e attese, passando per la terapia e la vita in ospedale. Un percorso pieno di domande compiuto con determinazione e curiosità, dove il bisogno di narrare, di condividere, di rompere il muro delle frasi fatte e dell’indifferenza impone una riflessione. La caduta e la rinascita di chi ha convissuto e convive con il male. La capacità di rialzarsi e affrontare il futuro con un sorriso. Una forte dichiarazione di speranza e di fiducia nella vita.

Antologie del concorso letterario pubblicate dal CRO

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Scriviamoci con cura : un racconto per levare l’ancora con la scrittura : 2. edizione 2013 : antologia di racconti / a cura del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano. - Aviano : Centro di Riferimento Oncologico, [2013]. - V, 155 p. : ill. ; 21 cm. ((In testa al frontespizio: Premio letterario.

Questa antologia raccoglie i nove racconti vincitori della seconda edizione del concorso letterario “Scriviamoci con cura” 2013, seguiti da selezioni di storie narrate dagli altri partecipanti. Il concorso, quest’anno, si è rivolto a pazienti oncologici ma anche a operatori sociosanitari. Nel tempo della malattia, caratterizzato da un ribaltamento delle priorità e da un susseguirsi di domande, gli autori si immergono in viaggi reali e metaforici come esploratori in grado di vedere e nominare le cose, definendone i confini. Vicende intime che diventano universali, dove i protagonisti tentano di riconquistare un nuovo modo di stare al mondo.

Scriviamoci con cura : un racconto per levare l’ancora con la scrittura : 3. edizione 2014 : antologia di racconti / a cura del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano. - Aviano : Centro di Riferimento Oncologico, [2015] - V, 205 p. : ill. ; 21 cm. ((In testa al frontespizio: Premio letterario.

Questa antologia raccoglie gli undici racconti vincitori della terza edizione del concorso letterario “Scriviamoci con cura” 2014, seguiti da selezioni di storie narrate dagli altri partecipanti. Il concorso, quest’anno, si è rivolto a pazienti oncologici, operatori sociosanitari e caregiver. Una raccolta densa e potente, narrata con passione ma anche con leggerezza e levità: perché ogni racconto possiede una luce propria, un tratto emotivo, una qualità umana. Tante voci che spingono a una lettura attiva e partecipe, ricordando quanto sia importante, e possibile, guardare e vivere in modi diversi.

Espressioni di cura : parole e immagini per narrare la malattia oncologica : 4. edizione 2015 : antologia di racconti / a cura del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano. - Aviano : Centro di Riferimento Oncologico, [2016]. - V, 201 p. : ill. ; 21 cm. ((In testa al frontespizio: Premio artistico-letterario.

Questa antologia contiene i racconti e le fotografie della quarta edizione del concorso artistico-letterario “Espressioni di cura”, organizzato dal CRO di Aviano e rivolto a pazienti oncologici, operatori sociosanitari e caregiver. Partendo da un unico tema, gli autori creano personaggi e immagini vivide, in grado di narrare l’esperienza della malattia con potenza e capacità evocativa. Un bambino di nove anni descrive la malattia della madre dal suo particolare punto di vista. Una donna assiste al concerto del suo gruppo preferito e, grazie alla complicità del figlio, recupera un rapporto di amicizia che sembrava terminato. Osservando un bellissimo ragazzo arrabbiato con la vita, un’operatrice impara ad affrontare le avversità. Una figlia rievoca sua madre attraverso alcuni oggetti che le sono appartenuti. Una donna dal corpo segnato scopre come l’amore può rivelarsi anche nei luoghi più inaspettati.Storie di incontri e decisioni, lotte e riscatti, cambiamenti e riconciliazioni, dove i protagonisti abitano uno spazio comune fatto di scorci quotidiani e bruschi imprevisti, di rivelazioni capaci di illuminare il volto sconosciuto delle cose. Un susseguirsi di voci e sguardi molteplici, in attesa di una consapevolezza che regala un’apertura verso il futuro e la possibilità di osservare il mondo in maniera diversa.

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Finito di stampare a maggio 2017da Tipografia Sartor Srl - Pordenone

Stampato su carta certificata FSC MIX CREDITIl marchio FSC

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CROinforma è la collana di informazione divulgativa del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, rivolta a pazienti e cittadini. Tratta argomenti inerenti alla ricerca, prevenzione, cura dei tumori. Prevede tre sezioni: Piccole Guide, Pieghevoli, Atti. Si articola in diverse serie: LA RICERCA CHE CURA; INFORMAZIONI SCIENTIFICHE; PERCORSI DI CURA; ISTRUZIONI ALL’USO DI...; AREA GIOVANI; CIFAV INFORMAZIONE SUL FARMACO.

Tutte le pubblicazioni di questa collana sono disponibili presso la Biblioteca Pazienti del CRO di Aviano e nel sito www.cignoweb.it

Il contribuente che, con il 5 per mille della dichiarazione dei redditi, vuole sostenere la ricerca scientifica al CRO dovrà inserire il Codice Fis-cale del CRO nello spazio “FINAN-zIAMENTO DELLA RICERCA SANITARIA” e firmare nel riquadro corrispondente.Le scelte di destinazione dell’otto per mille dell’Irpef e del cinque per mille dell’Irpef sono indipendenti tra loro e possono essere espresse en-trambe.

Codice Fiscale CRO Aviano: 00623340932

Questa attività fa parte del programma di Patient Education & Empowerment del CRO supportato dal destinato alla ricerca che cura.

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CROinforma. Atti

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ISBN: 978-88-9730-514-9