El Aleph N. 12

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El Aleph Numero 12, in memoria di José Saramago, speciale Migjeni, intervista tripla a Pap Khouma, Ornela Vorpsi e Helena Janeczek francotirature

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El AlephNumero 12, in memoria di José Saramago, speciale Migjeni,intervista tripla a Pap Khouma, Ornela Vorpsi e Helena Janeczek

francotirature

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Rivista di cultura e letteratura contemporanea Anno V numero 12, novembre 2010Registrazione n.827 del 31 ottobre 2005 presso il Tribunale di Milano.

Testata calligrafica di Greta BizzottoHeartfelt Graphic Design Studio - www.heartfelt.itDisegno in copertina di AkAbIllustrazioni di Arianna Vairo

La citazione in quarta di copertina è tratta daJorge Luis Borges, L’Aleph, Adelphi, 1998.

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Indice

Editorialeph 5

racconti

La domenica sportiva, di Pietro Pancamo 9Paura del Porco, di Idolo Hoxhvogli 16Il nostro tempo, di Idolo Hoxhvogli 18

intervista tripLa Pap Khouma, Ornela Vorpsi e Helena Janeczek 21

speciaLe MigJeni

Storia di una di quelle, di Migjeni 32I canti non cantati, di Migjeni 44Note su Migjeni, di Astrit Cani 45

in MeMoria di José saraMago

José Saramago, lo scrittore civile e il romanziere “classico”di Michele Bertinotti 54

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La scrittura e lo sguardo: “os espelhos virados para dentro” in Cecità, di Piero Ceccucci 58L’anno della morte di Ricardo Reis: ironia e parodia come dialettica tra Storia e Finzione, di Orietta Abbati 66

recensioni

Il gioco delle parti, di Gero Micciché 76Il martirio di una nazione, di Andrea Coccia 79Gli incendiati, di Michele Bertinotti 82Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza, di Gero Micciché 84

fuMetto

Untitled, AkAb 89

Epistola XII, di Alessio Cupardo 98

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Editorialeph

Amata Lettrice, carissimo Lettore,rieccoci, dunque, con immenso piacere, sulle stesse pagine che hanno ospitato il nostro ultimo incontro. Ci eravamo lasciati con una speranza, quella di riuscire a continuare in questa nostra im-presa – folle, ingenua, a voi di deciderlo – e in qualche modo il solo fatto che ci ritroviamo qui, seppur dopo una lunga attesa, è la dimostrazione che quella speranza non è svaporata. Tutt’al-tro, perché El Aleph, grazie soprattutto a voi, continua a vivere. Ma se il passaggio di questi mesi ha sancito, almeno nel piccolo contesto aleffico, un successo, nel mondo che formiamo tutti i giorni stando insieme l’anno trascorso non ha certamente porta-to all’arresto di quella strana entropia che da qualche anno ne sta provocando il lento imputridire.

Al contrario, i segnali che questo nostro mondo offeso ci invia quotidianamente sono sempre più allarmanti: i disastri eco-logici e naturali suggeriscono scenari apocalittici; i moti sociali

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ai quattro angoli d’Europa e la crisi che ci strozza ci ricordano un lato della personalità della Storia che credevamo – o forse che credevano – neutralizzato per sempre. Ma non solo, perché l’escalation dell’anima grottesca della legge, quella che permet-te lo sfruttamento quotidiano del nostro lavoro, nega il diritto all’inclusione alla parte vitale della società – giovani e immigrati in primis – e rivela come proprio e unico fine la sopravvivenza della sfacciataggine del potere, ci spiazza, arrivando a minare e a frustrare le nostre già inferme speranze per il futuro, rendendoci immobili, passivi.

È da un contesto simile che è nato questo nuovo numero aleffico che ora vi porgiamo, amata Lettrice e carissimo Lettore, un numero che, più di ogni altro finora pubblicato, vuole scan-dagliare la landa desolata che ci attornia collezionando le ultime briciole di onestà e di bellezza in circolazione, facendole reagire tra loro, sperando di trovare tra i cocci qualche utile strumento di comprensione, per non arrendersi all’ineluttabile complessità del mondo e per cercare di conviverci, di capire.

Da un mondo in frantumi non poteva che nascere un Aleph multiforme e complesso, un Aleph che prova a far convivere nello stesso spazio più voci: prima di tutto quelle che compon-gono l’intervista tripla, di Pap Khouma, Ornela Vorpsi e Helena Janeczek, le cui penne hanno in comune una migrazione cultu-rale, ma anche quella di Migjeni, una voce inedita in Italia, che seppur lontana nel tempo (nello spazio non troppo), mantiene inalterata la sua forza.

Un Aleph che, inoltre, continua nel tentativo, speriamo frut-tuoso, di affiancare stili e linguaggi, unendo la forza dei racconti,

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in questo caso di Pietro Pancamo e Idolo Hoxhvogli, alla potenza delle immagini, nella fattispecie le due illustrazioni di Arianna Vairo e il fumetto di AkAb.

Ma questo che avete tra le mani, amata Lettrice e stimato Lettore, è soprattutto un numero segnato da un malinconico – ma non triste o lugubre – saluto a José Saramago, morto lo scorso 18 giugno, uno degli ultimi grandi maestri dell’arte di raccontare storie, autore di alcune delle più belle pagine della letteratura contemporanea, personaggio il cui profilo è qui rie-vocato dal nostro Michele Bertinotti e analizzato da Piero Cec-cucci e da Orietta Abbati, entrambi professori di letteratura por-toghese – rispettivamente all’università di Firenze e a quella di Torino – e amici del grande scrittore lusitano.

Ora è venuto il tempo di lasciarvi ai testi e alle immagini di questo nuovo Aleph, sperando che sia per voi una lettura inte-ressante e proficua, una di quelle capaci di offrire suggestioni e stimolare riflessioni.Buona lettura,un abbraccio.

La Redazione

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La domenica sportivadi Pietro Pancamo

Buon Gesù, autore dell’umanità squinternata che abita il mondo, ascolta il mio inchiostro e la mia voce: San Bifolco Primigenio era il tuo antico tempio, nonché luogo di culto, in cui noi con-tadini di Sant’Arello ci riunivamo per celebrare il mistero della morte e resurrezione.

Seduti sulle panche, prestavamo orecchio e attenzione alle omelie del parroco, don Giovanni Naiolo. Il quale «Diletti figlio-li», soleva annunciare ogni domenica dall’altare, «è il momento dell’Eucarestia: rendiamo grazie perciò a Dio», e un bell’applau-so all’ostia consacrata. E mentre noi fedeli battevamo le mani a scroscio, il prete sollevava con gesto intenso la pisside rilucen-te. Dopodiché, atteggiando il volto a mistico raccoglimento, la riabbassava lentamente estraendone infine un’impeccabile ostia tonda e immacolata, che porgeva ieratico ai bravi chierichetti. Essi, profondendosi in movenze solenni e aggraziate, s’impadro-nivano con reverenza del pio dischetto, contenente il tuo corpo.

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Quindi lo adagiavano delicatamente in un vezzoso sacchetto di seta profumata che, tramite una cordicella esile e un sistema di carrucole, issavano rapidamente in cima a un crocifisso podero-so. Proprio quello che don Naiolo aveva fatto erigere al centro del transetto, ordinando espressamente che arrivasse a sfiorare le capriate della chiesa.

Ebbene quando il sacchetto, al culmine della sua ascensione, s’arrestava a coprire in parte il cartiglio siglato dalla scritta inri, noi Sant’Arellini smettevamo all’istante di acclamare l’ostia, e subito iniziavamo a spostarci verso il portale di San Bifolco. No, non per uscire. Ma per suddividerci coreograficamente in due gruppi: uno per ciascun rione del nostro paese.

Io ero fra gli uomini della Zappa, che si sistemavano sempre a destra dell’ingresso; i rappresentanti della Forca si mettevano invece a sinistra.

A questo punto don Naiolo, arringandoci dal pulpito, escla-mava in toni profetici da imbonitore: «Alleluia, fratelli e sorelle! Voi conoscete le regole, o meglio i comandamenti, del Croci-fisso della cuccagna. Primo: a un mio cenno, il campione della Zappa e il portacolori della Forca, partendo dal limitare della navata mediana, si lanceranno di corsa e a precipizio in direzio-ne del crocifisso; secondo: si arrampicheranno veloci, a forza di muscoli; terzo: colui che, scalato il crocifisso spilungone, avrà saldamente abbrancato il venerabile sacchetto in cui i miei val-letti hanno testé sigillato l’ostia simbolica, vincerà senza dubbio alcuno un soggiorno gratuito a Evangelic World (il nuovo parco di divertimenti cattolico, di recente inaugurato dal Papa in Vati-cano). Ma soprattutto acquisirà per sé e il suo rione il diritto a

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usufruire, per questa domenica, del sacro e inviolabile servizio pubblico della divina Comunione.

Al contrario il perdente verrà escluso dall’Eucaristia e così gli appartenenti alla sua contrada. Che dovranno dunque sperare in una miglior fortuna, domenica prossima».

Sbrigato il cerimoniale delle istruzioni, don Naiolo si frugava ve-locemente e con affanno: ispezionati inutilmente i paramenti, inve-stigava trafelato nelle tasche della tonaca, tirandone fuori – con sol-lievo –una tua immaginetta spiegazzata. Col tipico gesto dell’arbitro che ostenta il cartellino, la mostrava per un attimo all’assemblea dei contendenti – dischiusi in due come nell’Esodo il Mar Rosso) – e subito avvicinatala al viso, la sfiorava con le labbra, simulando e rie-vocando a un tempo il famoso bacio di Giuda.

Era il segnale. Era il via! La battaglia si scatenava incontrol-labile. Devi sapere infatti, caro Gesù, che durante il discorso di don Giovanni sulle modalità e i premi della gara, i membri dei due rioni ne approfittavano per consultarsi e confabulare concitatamente. E al termine di una discussione tanto rapida quanto isterica e burrascosa, decidevano chi incaricare della prova. Così, quando il sacerdote ar-rivava a pronunciare le ultime frasi della sua introduzione, i prescelti (che di norma erano due baldi ventenni, d’età acerba ma di muscoli maturi) erano già pronti all’imbocco della navata centrale. E appena il parroco, in un silenzio religioso (o forse eretico e osceno, dato quello che stava per accadere), scoccava melenso il bacio di Giuda, altro non dovevano fare, i giovanottoni, che scaraventarsi furiosi alla ricerca della vittoria.

Si producevano allora in uno scatto furibondo e frenetico. Intanto, mentre sfrecciavano atletici e spalla a spalla lungo la

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stretta corsia che, passando fra i banchi della chiesa, conduceva al crocifisso, non trascuravano di picchiarsi ardentemente, nel virile e vicendevole tentativo di eliminarsi brutalmente. Ciascu-no dei due, insomma, desiderava rimanere solo e involarsi beata-mente, senza più intralci, a ghermire il sacchetto della discordia. Anzi della cuccagna.

La scazzottata deambulante e assassina imperversava fino ai tre preziosi gradini di travertino che, in San Bifolco, separano la navata centrale dal transetto. Il quale è occupato per intero da una piattaforma marmorea lievemente sopraelevata, su cui sorge l’altare e, poco più indietro, il crocifisso.

In genere, superata d’un balzo la piccola rampa, i due de-moni incolleriti ed eccitati, cessando di combattersi, schizzavano l’uno a sinistra, l’altro a destra dell’altare, raggiungendo poi – con impeto missilistico – la base del crocifisso. Qui i due razzi antropomorfi, ribollenti di energia e volontà d’imporsi, comin-ciavano immediatamente ad inerpicarsi verso l’alto, con colpi di reni impressionanti.

Chi stava davanti, scalciava imbizzarrito con l’obiettivo di calpe-stare in faccia l’inseguitore e buttarlo a terra con violenza; chi stava dietro, si difendeva dribblando con repentini scarti del collo i piedi irrequieti e focosi del rivale e si studiava, inoltre, di afferrargli una caviglia o un polpaccio, da scuotere e tirare crudelmente.

Se lo strattone era rude a sufficienza, il nemico crollava di botto sulla piattaforma, spesso fratturandosi qualche osso indi-spensabile e determinante.

Quando il concorrente che cadeva si sfracellava scomposta-mente perdendo la vita o comunque ogni possibilità di conti-

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nuare la lotta, subito dalla torma dei suoi compagni rintanati in fondo alla chiesa prorompeva al galoppo un sostituto che urlan-do: «All’attacco!» si proiettava – smanioso d’energia rombante e marinettiana – alla conquista del sacchetto.

Poi, transitando a passi forsennati sul corpo frantumato del pre-decessore, si scagliava su per il crocifisso protendendo la testa, la bocca e i denti a mordere – insaziabilmente! – le gambe e gli stin-chi del contradaiolo avverso. Costui, non ancora in cima, si sentiva dunque azzannare all’improvviso, con forza. E con una tale, atro-ce perizia che, per quanto abbarbicato al legno della croce, poteva anche abbandonare la presa, per un istante, scivolando irrefrenabile all’ingiù, a coinvolgere l’aggressore in una rovinosa catastrofe a due che aveva come destino inevitabile un tonfo marchiano al suolo.

Gli echi delle ossa, che piombando dall’enorme altezza del crocifisso si spezzavano nell’impatto, venivano subito coperti dagli schiamazzi luculliani di due nuovi sostituti che, sprintando nevrotici e dementi per la navata centrale, si tormentavano di pugni alla volta del crocifisso.

C’erano domeniche in cui i morti aumentavano a dismisura: si affastellavano sulla piattaforma, accatastandosi in uno strato consi-stente e funereo, che don Naiolo e i chierichetti provvedevano a sfoltire ogni dieci o quindici minuti, trasportando in sagrestia i cada-veri più ingombranti.

In questo modo i guerrieri dell’ostia avevano a disposizione uno spazio maggiore e, in prossimità del crocifisso, non erano costretti a rallentare o fermarsi per scavalcare con attenzione il cumulo dei de-funti. Che a me, non lo nascondo, fu molto utile, quando anch’io dovetti sobbarcarmi la fatica di strisciare in verticale verso il tra-

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guardo, ossia il sacchetto eucaristico, tanto ambito e disputato.Ero entrato in gara come sostituto starnazzando grida belli-

che e, con foga delirante, avevo disarcionato dalla croce il mio antagonista. Insistendo poi con ferocia alpinistica a issarmi e salire, stavo già per superare il tratto più difficile della scalata: quello in cui bisognava affrontare e valicare il tuo corpo ligneo e immobile, inchiodato per sempre nell’atto di sorbirsi eroica-mente la sofferenza del Golgota.

Per aiutarmi e filare via più spedito, pensai d’aggrapparmi al tuo braccio sinistro. E qui il disastro: l’infido arto – di mogano friabile e arrendevole, a causa dei denari scarsi avanzati a don Naiolo dopo le spese per il crocifisso – non resse minimamente il peso, troncandosi anzi – oserei dire con prontezza di riflessi – in corrispondenza del polso e dell’ascella. Mi rimase così in mano, mentre – sollecitamente – precipitavo a schiantarmi.

Per fortuna il mucchio soffice delle salme e dei feriti mi accolse gentilmente, attutendo la mia discesa a capofitto, che si concluse, allora, senza danni o contusioni, e con un semplice svenimento.

Però il terrore che provai mi spinse a ragionare. Mi chiarì le idee, cominciando a farmi nutrire seri dubbi sulla santità e opportunità di quel subdolo giochino, denominato “Crocifisso della cuccagna”. Un giochino regolarmente accompagnato e or-nato dal tifo indiavolato dei rioni. Perché se i più ginnici e robusti andavano gagliardamente al macello nel tentativo di accaparrarsi l’ostia, coloro che restavano in fondo a San Bifolco, in attesa di diventare eventualmente sostituti, si esibivano in cori sguaiati d’incitamento e supplica. Come dimenticarli?

«Signore alé, Signore oh hò», berciava la Zappa a una sola

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voce, «la vittoria dacce ‘m bò!», «Alé-lu-ià, Alé-lu-ià», replicava-no i Forcaioli con cadenze da stadio, «siam truci come ultrà e la vittoria abbiamo già!»

«Dio vi odia e vi distruggerà», ribatteva la Zappa, declaman-do all’unisono un insulto in rima:

Vi seppellirà schifosi indegninella cappelladegli Scrovegni!

Le preghiere si riducevano, insomma, a squallide e inviperite gazzarre verbali da incontro di calcio e nel frattempo don Naiolo sorrideva estasiato, dal pulpito: «Oh fratelli, è miracoloso», tripu-diava giulivo, «il fervore con cui partecipate alla Messa! Sì! Sì, pe-corelle incontaminate del Buon Pastore: implorate l’Onnipotente, fomentatelo a esaudirvi! Ed Egli vi obbedirà! Alé-lu-ià!»

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Paura del porco – Riscritture I, Benjamin di Idolo Hoxhvogli

Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese. KarL Marx e friedrich engeLs

Il vero lettore deve essere l’autore ampliato.novaLis

Esiste un impianto. È un’installazione fatale che predispone, prov-vede con certosina lucidità, seziona e ordina. Questo strano mecca-nismo è invincibile. Risponde a qualunque mossa con un semplice e perfetto gesto che ne garantisce il trionfo: come in Kempelen, Poe e Benjamin. Ma non è un gioco, né una narrazione, né una visione. Un pupo siede davanti alla storia. La storia è posta su di un mondo che l’uomo comune crede di poter compiutamente osservare. In realtà dentro al mondo è seduto un maiale, dal quale il fantoccio è segretamente condotto. Quel pupo, detto “finanza”, vince sempre contro il diritto perché guidato dall’astuto verro.

Questo impianto agli occhi del giusto è il mattatoio dell’agnel-lo, dove l’innocuo è assassinato, e il mansueto trucidato. È l’an-damento della storia che sempre variamente declina il medesimo tema: il rivolo di sangue scivolato via dall’ultimo belato, la sconfit-ta del diritto, la strage compiuta dalla genia del porco. Un angelo rovescia lo sguardo sulla Borsa. Mentre a noi si mostra una serie di

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derivati, egli scorge una sola terrificante sciagura che accatasta ban-che su banche, e poi carne su carne. L’angelo chiede a Dio di potersi fermare, catturare i banchieri per farli a pezzi. Chiede a Dio di poterne squartare gli avidi intestini, di poter finalmente sollevare la spada della giustizia: una spada lunga come l’universo e larga come la storia. La spada perennemente fiammeggiante del messia.

Ma Dio non può nulla in questo mondo. È troppo debole e precario. Troppo macero è il legno della sua croce. La lama del messia non è più arroventata dalla fiamma divina: l’ingiustizia ne ha spento l’ardore, la disperazione ne ha scalfito la sostanza, l’ul-tima lacrima ha estinto ogni fuoco.

Dai palazzi scoppia poi una tempesta. È scaturita dall’eruttare e grugnire schizofrenico del porco. L’angelo è travolto. L’avidità, la bramosia del verro è questo uragano. La gola ingorda dei nota-bili, le fauci bavose della sua corte non riescono a tacere: devono dilaniare anche l’ultima polpa.

L’avvenire non ha un ultimo istante. Non vi sarà alcuna notte per il porco. Non vi saranno selve da cui non trarrà nascondi-mento. Non vi saranno pietre ostili al passo. Non vi sarà un mes-sia pronto a scannarlo. Per il fantoccio i campi saranno sempre arati. Nessuna corsa impazzita lo trascinerà suicida. Troppo dura e feroce è la zampa del porco. Troppo furioso il suo gesto. Mille i suoi volti: porco economico, porco politico, porco stupratore, porco pedofilo. È un porco incontenibile: non c’è freddo che possa ghiacciarlo, non un caldo può soffocarlo, non un orgasmo può accontentarlo. Non vi è una falange capace di contenerlo. È irrefrenabile perché abita ovunque. È un porco che fa orrore, perché è un porco senza redenzione.

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Il nostro tempo – Riscritture II, Kafkadi Idolo Hoxhvogli

Nel paese dei bugiardi, la più piccola verità fa più rumore di una bomba atomica.gianni rodari

Un giorno, peregrinando per l’Europa, la Legge decide di met-tersi in viaggio per l’Italia, un Paese che non ha mai visitato. Prende così Il nostro tempo, treno-merci carico di frattaglie e chincaglierie. Non ha confuso il convoglio, né la destinazione. Ha tutto il necessario ed è in regola con lo sportello. Semplicemen-te, pur ferma nel suo spicciolo di prenotazione, le è cambiato il treno tra le gambe.

«Andiamo in Ipalia, l’Italia non sappiamo dove sia», le fa il con-trollore. «Non importa gentile amico, debbo andare ovunque, non possono esserci luoghi qui in Occidente che non abbia visitato. L’Ita-lia? Sarà per un’altra volta», risponde serena la Legge.

Giunta in Ipalia si accorge che quanto accade tra le sue mura subito precipita nell’oblio. È un oblio che ingoia vetri, vite, pezzi e pizze di legno e dolori. Al suo centro c’è il palazzo di R.P., un uomo immenso, lucido, patinato e ripetuto ovunque. Un uomo

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buono, così buono che i bambini piangono dalla vergogna quan-do lo vedono sugli schermi e i giornali. Un uomo così alto che il cielo non può contenerne il sorriso. Un uomo così bello che il sole vi trova sollievo e nutrimento. Un uomo così saggio che Napoleone sembra un pelo più basso. R.P. è magico e magnifico.

L’ingresso del suo palazzo è custodito da un maiale. La Legge, curiosa, si presenta pregando di essere ricevuta. Il porco, udita la richiesta, le risponde che sicuramente potrà essere accolta: «R.P. non vede l’ora di incontrarla, è da molto tempo che la sta aspettando, ma in questo momento non posso farla entrare. Cara Legge, devo poi avvertirla che sono solo il primo tra i novecen-toquarantacinque maiali a guardia del palazzo. Per raggiungere R.P. deve ottenere il beneplacito di ogni singolo porco delle due camere che lo precedono», continua impettito il maiale.

La Legge incredula rimane ad aspettare, domandandosi in cuor suo perché il palazzo di R.P. sia impenetrabile. «Ogni luogo dovrebbe essermi accessibile», pensò in una stupida melanconia.

Passano gli anni, si sommano le richieste e confondono gli impeti indefinibili provenienti dal palazzo. La Legge si rivede sgarrupata nello sguardo sempre sorridente del porco – è però un sorriso privo di letizia – e specchia la sua impotenza nella superficie dorata di un palazzo divenuto nel frattempo reggia e corte principesca. Una corte salata, salata dal pianto degli uomi-ni morti nel farsi della sua perfezione.

Stanca dell’attesa si permette una domanda: «In ogni luogo alla mia venuta sono stati spalancati i battenti, perché questo pa-lazzo mi tiene alla porta?» Proprio in quel momento arrivano dall’interno dell’edificio tre imponenti maiali bavosi: un maiale

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nero, un maiale rosso e un maiale bianco. Hanno in mano un decreto. «C’è stato un errore – risponde il porco dopo aver letto il lodo – la Legge non è mai entrata in questo palazzo, né mai vi potrà accedere. Dal palazzo di R.P. la Legge può solo uscire».

Udite queste parole la Legge strabuzzò gli occhi, ma non ebbe il tempo di rispondere. I porci stavano già cedendo il passo a una signorina in minigonna e calze a rete. Voleva lavorare in televisione, e fu accolta con tutti gli onori.

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Intervista tripla a Pap Khouma, Ornela Vorpsi e Helena Janeczeka cura della Redazione

Di numero in numero, è per noi sempre più difficile far prescin-dere il lavoro letterario da quello sguardo sull’attualità che ci spinge a non chiudere gli occhi (ma ci porta, anzi, a strabuzzarli basiti) sulle storture del contesto sociale in cui ci troviamo a vi-vere e, quotidianamente, a operare.

L’Italia sta diventando oggi un Paese inquietante. E noi, inquietati, fra le tante cose, da quella paura del diverso che in questi anni oscuri è stata inoculata agli italiani come un veleno da una certa distorta politica (sostenuta da una desolante e pro-strata intellettualità), abbiamo voluto ragionare sull’essere stra-nieri in un Paese straniero, indagando gli esiti letterari di questa alterità, che i più categorizzano come “letteratura migrante”. Più o meno di questo abbiamo parlato con tre scrittori che hanno adottato la nostra lingua per parlare della cultura dei loro luoghi d’origine. Una albanese, un senegalese e una tedesca di origine polacca: immigrati in un Paese di ex emigrati.

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Sono molti gli scrittori che hanno scritto in una lingua diversa dalla propria. Cosa comporta a livello di habitus mentale, almeno nella tua esperienza, l’utilizzo di una lingua appresa?

orneLa vorpsi: Penso – e utilizzo questo “penso” con cautela, perché si tratta di processi a volte molto sotterranei e verbalizzando (forse) si fa un torto – penso che nella mia esperienza di scrivere in un’altra lingua, come primo approccio c’è stata una scelta organica fatta dalle mie viscere. Se dovessi compiere un’analisi (come spesso mi viene chiesto) direi: avevo (ho) bisogno di una lingua che non porti in sé l’infanzia (la mia infanzia). Avevo (ho) bisogno di una lingua con la quale non ho e non ho avuto legami, il cui ricordo possa scuoiarmi la pelle. È il caso dell’italiano, del francese e di tutte le lingue che non conosco. Quindi a livello di habitus mentale si dovrebbe trattare di una forma di sopravvivenza, e mi riferisco anche a una sopravvivenza di tipo creativo.

pap KhouMa: Il mio è un caso particolare perché, avendo fatto le scuole francesi, ho sempre scritto in una lingua che non era la mia. Non so se sia una fortuna o una sfortuna. Posso dire però che il francese è stato una scelta imposta dalla storia del mio Paese, men-tre l’italiano è stata una mia scelta. E attraverso l’italiano mi si sono imposti gli schemi mentali (volente o nolente, consapevolmente o meno) che questa lingua veicola. Quando vado in Francia o in Se-negal, nel giro di qualche giorno riacquisisco la lingua francese, con i suoi schemi mentali, le sue particolarità i suoi modi di dire. È un continuo esercizio che ti porta a riflettere molto sulle parole.

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heLena JaneczeK: Nel mio caso l’italiano è una lingua appresa sin dall’infanzia, vale a dire con la modalità di un bilinguismo un po’ diverso da quello più comune, quando sono i genitori a trasmettere le loro lingue. Trascorrevo tutte le estati in Italia e usavo l’italiano con i miei amici, i loro genitori, gli amici dei miei che a loro volta lo parlavano con le persone intorno. Fa una gran-de differenza, perché diventa subito una lingua affettiva, legata all’esperienza. A parte questo, credo che le persone che cresco-no con più lingue probabilmente hanno un’attitudine diversa. Sanno sin da subito che le cose non coincidono con i loro nomi, che possono averne di diversi ed esiste persino la possibilità che la parola nella lingua x non trovi corrispondenza nella lingua y. E credo che questo formi una consapevolezza che è d’aiuto per chi passa come scrittore da una lingua all’altra. Mi vengono in mente l’esempio di Conrad o di Nabokov. Entrambi sapevano già una lingua diversa da quella materna – il francese – prima di passare all’inglese. Personalmente non considero il tedesco la mia lingua più di quanto non lo sia l’italiano; in ogni caso, nessuna delle due lingua è la mia lingua madre. La mia lingua madre sarebbe il po-lacco, ma i miei genitori hanno evitato di trasmettermelo. Tutto questo può essere complicato e non rappresentare la norma o la media, però mi sento di dire che anche chi mantiene un legame forte con una lingua d’origine fa dell’italiano (o dell’inglese, o di qualunque altra lingua) la “propria” lingua nel momento in cui decide di usarla con delle finalità letterarie.

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Qual è per te il valore della distanza, culturale e lin-guistica in primis, come punto di partenza per riflettere sul tuo Paese di origine e su quello in cui vivi?

orneLa vorpsi: È una questione molto complessa. Per me è im-portante (adesso) scrivere in una lingua straniera per le ragioni che ho citato nella mia prima risposta. Però una cosa è certa quanto la morte: tutte le lingue che utilizzo sono sotterfugi per portare la mia creatività dove voglio, e l’Albania, la lingua, il vissuto, il mio popo-lo, quel sole, sono presenti come le pietre nelle fondamenta di una casa. La distanza, sia quella legata a una lingua, sia quella geografica o temporale, è molto importante: permette di vedere diversamen-te. Ad esempio, se vai vicino a un affresco di Giotto, molto vicino, noterai la trama del muro, la porosità, le imperfezioni, e così perdi di vista la composizione. Una volta allontanati (alla giusta distanza), vedi la scena, riacquisti il “valore”. Con la distanza, in un certo senso, sei e non sei più parte “in causa”, lo sguardo è modificato. La distanza rende un po’ “stranieri” rispetto al proprio sangue. Penso che sia un processo proficuo. Sposta i limiti, mette in discussione, permette di conoscere altre terre, l’altro.

pap KhouMa: La distanza è un valore senz’altro positivo, perché aiuta a riflettere sul proprio Paese. Ma è anche un modo per relazionarsi, tanto con le proprie origini quanto con la quotidia-nità. Sono infatti le abitudini che mi mancano quando viaggio, la sicurezza che sanno trasmettere. Ogni Paese impone le proprie abitudini, ed è proprio attraverso il loro cambiamento che mi rendo veramente conto della diversità di due Stati.

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heLena JaneczeK: Se ho cominciato a scrivere in italiano è perché si tratta ormai della lingua per me più facile, sentita, ricca e al tempo stesso quotidiana. Ossia quella meno distante. Poi nel mio caso non c’è un senso di appartenenza riconducibile al Paese in cui sono nata – la Germania – però senz’altro aver fatto espe-rienza di diverse culture, società, lingue contribuisce a formare uno sguardo più critico, dialettico e forse soprattutto più largo. Questo vale spesso anche per scrittori italiani che hanno vissuto o vivono all’estero.

Ragionando sulle dinamiche di integrazione, fino a che punto può arrivare l’apertura culturale verso l’al-tro? Qual è la giusta misura tra protezione della propria identità di partenza e necessità di accogliere la cultura del Paese ospitante?

orneLa vorpsi: Divido le questioni: 1. Fino a che punto può arrivare l’apertura culturale verso l’altro? Direi fino a un certo punto, fino a una certo grado di relatività che è per eccellenza il nostro stato di essere e quello del mondo. Succede la stessa cosa in amore, quando due persone si incontrano. Dove ciò non succede, quella deve essere terra di comprensione, flessibilità, educazione di se stessi e della so-cietà (rileggere l’Etica di Spinoza, farlo un libro di politica di Stato). 2. Qual è la giusta misura tra protezione della propria identità di partenza e necessità di accogliere la cultura del Paese ospitante? La giusta misura? Cercherò di definirla, tremando, e solo perché mi viene richiesto di farlo, perché è una questione di enorme rilevanza e responsabilità. Ecco la giusta misura, secondo il mio umile punto

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di vista: il buon senso, essere buoni a priori, educarsi entrambi, mi ripeto: Spinoza ancora. Ricordarsi che questa esistenza non ha nien-te di ovvio, che è miracoloso e a volte tremendo e soprattutto raro incontrarsi, e che siamo qui per un breve lasso di tempo.

pap KhouMa: “Integrazione” è una parola che non mi piace, perché è un concetto vuoto, che si presta a troppe interpretazioni e manipo-lazioni. Posso dire come mi sono comportato da quando, 26 anni fa, mi sono trasferito in Italia. Nei primi dieci anni cercavo di tenermi strette le abitudini e le tradizioni del mio Paese di origine. Era una forma di rispetto, per me e soprattutto per la mia famiglia. Quan-do sono riuscito a tornare in Senegal, però, mia madre si è stupita di quanto fossi cambiato, nonostante i miei sforzi. Ciò di cui molti non si rendono conto, parlando di integrazione, è che si tratta di un concetto doppio: sei costretto ad affrontarlo sia nel Paese in cui vai a vivere, sia nel tuo Paese di origine. È una condizione particolare, difficile, perché ti mette sempre sotto giudizio. La soluzione a cui sono giunto? Fregarmene del concetto di integrazione e sperare di essere giudicato per la mia individualità.

heLena JaneczeK: Credo che le questioni identitarie sia bene la-sciarle gestire dai singoli, che poi non esclude che possano sen-tirsi rappresentati da una comunità di appartenenza. Credo che la battaglia più importante riguardi i semplici diritti, a comincia-re da quello della cittadinanza. Per chi è nato e cresciuto in Italia. Per chi vive e lavora qui da molti anni, paga le tasse, contribuisce alla cosa comune. Chi assolve a questi doveri di cittadino dovreb-be avere dei diritti. Quello di culto, ad esempio. Non si tratta di

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convincere nessuno che il multiculturalismo è una risorsa posi-tiva, ma di ottenere il giusto. Giusto secondo gli stessi parametri della “cultura del Paese ospitante”, ossia di ciò che fonda una democrazia moderna.

La letteratura migrante è diventata un contenitore letterario ben definito a livello tematico, il cui baricen-tro è, nella maggioranza dei casi, la propria esperienza. In questo modo gli scrittori cosiddetti “migranti” non rischiano di ritrovarsi rinchiusi, sia per colpa loro, sia per una certa tendenza del mercato editoriale, in una casella da cui è difficile uscire?

orneLa vorpsi: Sì, gli scrittori cosiddetti “migranti” si trovano spesso rinchiusi in questa “categoria”, che non fa altro che minimizzarli. È un fatto che non mi piace, perché cancella l’individuo, e noto che il “fenomeno” comincia a diventare logoro. Quindi meglio lasciar perdere.

pap KhouMa: L’etichetta non mi preoccupa. Non mi preoccupa l’idea di scrivere altri dieci libri sull’emigrazione, perché ci sono esperienze forti che i cosiddetti “scrittori migranti” sentono di dover trasmettere letterariamente. Credo che sia un tema come un altro. Da quanti millenni si parla d’amore? Il tema non si esaurisce, tutt’al-tro. La vera sfida è proprio quella di rinnovare questo tema.

heLena JaneczeK: Da un lato è inevitabile che ci siano molti libri che raccontano queste esperienze e che vengano quindi proposte

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dal mercato con questa etichetta. E – etichetta o no, “ghettiz-zazione” o no – si tratta di narrazioni che toccano un nerbo di ciò che oggi avviene. Penso che però occorra rendersi conto che esiste oggi una letteratura transnazionale spesso di altissimo va-lore che va ben oltre. Penso ad esempio a Roberto Bolaño: esule cileno, vissuto in El Salvador, Messico, infine in Spagna. Non è un “migrante” in senso stretto. È uno scrittore letterario-lettera-rio, formato su Borges ma anche sul romanzo europeo, che però mette al centro dei suoi romanzi moltissime vicende terribili dei Paesi in cui ha vissuto. Questo sguardo largo e questa libertà di mezzi e temi usati la si trova in autori venuti dall’Est, dalle ex colonie, indiani, africani, mediorientali. È la globalizzazione che porta a rendere troppo stretta la nozione di letteratura naziona-le così come si è formata storicamente nell’Ottocento. In Italia, dove l’immigrazione di massa è recente, non si è ancora arrivati a cogliere che è in atto qualcosa che oltrepassa le vicende della migrazione, la mediazione fra due culture definite e così via.

Cosa ne pensi della tendenza europea, sia sociale che legislativa, a vedere l’esterno da sé come altro, quasi sem-pre nemico, con la conseguente chiusura delle frontiere e l’istituzione del concetto di “fortezza Europa”?

orneLa vorpsi: Penso che sia un grande errore, che ha i tratti di una profonda ignoranza, perché l’incontro con l’altro, con l’esterno, fa parte della vita e del senso della vita. Mi fa venire una profonda tristezza. Io sono avida di incontri, di scambi, di terre dove do e prendo. Questo è vivere. Il mondo appartiene

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agli uomini, e speriamo che siano sempre più educati. I fran-cesi hanno un’espressione che esiste anche in italiano, ma che in francese mi piace di più: se façonner, façonner soi-même. Cioè farsi, lavorarsi, modellarsi, educarsi nel cammino. Non si tratta di buonismo, non sono buonista. Penso che se façonner sia la cosa più difficile da raggiungere. Penso che se l’umanità volesse una sfida, ebbene, è questa qui: se façonner. Più saremo educati, più le frontiere saranno obsolete e ridicole. A quel meraviglioso punto (Dio, quanto sono idealista) le frontiere potremmo metterle al Centre Pompidou come un’opera d’arte concettuale.

pap KhouMa: L’Europa si perderà. Fino agli anni Novanta c’era un Paese che nessuno conosceva, l’Albania. I comunisti dicevano che era il paradiso. Quando hanno aperto le frontiere gli albane-si erano disorientati, perché non conoscevano il mondo. Que-sto è il rischio che corre ogni Paese che intende chiudersi alla diversità. Sì, perché la diversità è veicolo di cultura. E ciò che più stupisce è che molti Paesi, tra cui l’Italia, dopo aver formato professionalmente o scolasticamente una persona straniera, la costringono ad andarsene. Dunque è anche un discorso stupido, poco vantaggioso per il Paese che si chiude. Ma la prima chiusura rimane la discriminazione, perché viene compiuta al di là del Paese d’origine e del colore della pelle.

heLena JaneczeK: Nessuno crede veramente che la globalizza-zione sia reversibile. Nemmeno la Lega. Gli immigrati vivono e lavorano anche laddove gli si mettono bastoni fra le ruote: per le moschee, vietando la consumazione del kebab in strada… E

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la gestione dell’immigrazione è difficilissima per tutte le società, anche quelle dove resta più forte il consenso agli ideali di ugua-glianza, tolleranza, integrazione. L’accannimento delle risposte razziste e di chiusura è direttamente proporzionale alla loro so-stanziale impotenza. Il che non è affatto rassicurante. Visto che la politica non ha il coraggio di dire “facciamo quel che possiamo, un po’ alla volta, senza bacchetta magica, perché in ogni caso sono processi che dureranno decenni e decenni”, si passa a pro-clami e decisioni sempre più aggressive e violente.

orneLa vorpsi è nata a Tirana, ha vissuto a Milano dal 1991 al 1997 e ora vive a Parigi. In Italia ha pubblicato Vetri rosa per Nottetempo, Il paese dove non si muore mai, La mano che non mordi e Bevete cacao Van Houten! per Einaudi.

pap KhouMa è nato a Dakar e vive a Milano dal 1984. Direttore della rivista online di letteratura della migrazione “El Ghibli”, in Italia ha pubblicato Io, venditore di elefanti e Nonno Dio e gli spiriti danzanti e Noi italiani neri, tutti per B.C.Dalai.

heLena JaneczeK è nata a Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, ma vive in Italia dal 1983. È redattrice di “Nuovi Argomenti” e “Nazione Indiana”. In Italia ha pubblicato Lezioni di tenebra e Cibo per Mondadori e Le rondini di Montecassino per Guanda.

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Speciale Migjeni

Perché pubblicare Migjeni? Ma soprattutto: chi è Migjeni? Come ci spiega Astrit Cani nella nota finale, Migjeni è uno degli scrit-tori più noti in Albania. È un classico della letteratura albanese, si potrebbe aggiungere, il Manzoni dei manuali scolastici di Tirana, il poeta e il narratore al quale vengono tributati teatri, istituzioni culturali, pagine culturali dei quotidiani. Migjeni è una figura con la quale, implicitamente o esplicitamente, ogni scrittore al-banese contemporaneo si deve confrontare. E se le traduzioni, per quanto necessariamente traditrici, sono innanzitutto viatico di cultura, quella di Migjeni apre le porte a un Paese che gli italiani pensano di poter conoscere soltanto attraverso la televi-sione. Ebbene, le opere di Migjeni proposte in questo numero di El Aleph, per la prima volta tradotte in Italia, vogliono essere il primo passo per conoscere uno scrittore e una cultura che, nonostante la minima distanza geografica, ci sembrano così sco-nosciuti, ignoti, profondamente distanti.

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Storia di una di quelledi Migjeni

Chi non la ricorda? Chi, o amico, non la ricorda? Chiedi di chi parlo? Ma di lei, di una di quelle. E chi è una di quelle? Ma sono tante! Quale giovane (o vecchio) non ne conosce almeno dieci? Perché loro sono numerose, perché ci sono molti uomini e molto denaro, e quindi di conseguenza devono esserci tanti corpi in vendita… dunque chi è questa donna che è una di quel-le? Ma Luke! Luke! Non vi ricordate della Luke? Non credo… voi non me la dite giusta. Vorreste anche negare di conoscerla. Scusatemi, ma qui non va quel famoso detto: chi osa vince. Col pretesto che siete delle persone rispettabili… Ma non abbiate ti-more, non vi giudicherò, per questo, meno rispettabili! Perché, se non lei, conoscete di sicuro una delle sue sorelle, ed è come se conosceste Luke. La loro vita è uguale. Tutte si somigliano e tutte vi danno quel che cercate – avanti coi contanti.

E in verità la buona Luke, la misericordiosa Luke (perché lei era una specie di dea) – la desiderata Luke, non diceva di no

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a nessuno. Venivano gli studenti, senza cattive intenzioni, solo per accompagnare qualche amico, studente anch’egli... Quando aveva finito col primo, Luke chiedeva all’altro: «Quanti lekë hai in tasca?»

«Quattro», rispondeva quello.«Allora vieni», e lo stesso domandava al secondo, al terzo, al

quarto, conducendoli a turno in camera sua. Eppure la sua tariffa era di tre franchi. Ma Luke era più generosa e umana di chi do-vrebbe esserlo per dovere.

Quando gli studenti andavano da lei per la prima volta ar-rossivano, ma quando tornavano, prima di entrare guardavano a destra e a sinistra per assicurarsi che non li vedesse nessuno, poi volavano attraverso la porta veloci come proiettili. A volte Luke assumeva un contegno serio e li sgridava: «Cosa siete venuti a fare? Cosa cercate? Qui non c’è quello che cercate…»

Gli studenti ci restavano di pietra, balbettavano qualche pa-rola, si guardavano l’un l’altro, rossi in volto, ed erano lì lì per andarsene, quando a un tratto Luke scoppiava in una sonora risa-ta e, ridendo di cuore, li prendeva per mano tirandoli in camera. Altre volte nascevano dei litigi, quando ad esempio uno di loro le baciava il braccio o le accarezzava il viso come ha il diritto di ac-carezzare la propria donna solo l’uomo che l’ha sposata davanti a un prete o al muezzin. Luke gli diceva allora: «Smettila furfante, stai fermo», e gli tirava uno schiaffo.

Il giovane non si muoveva, rideva e cercava di afferrarle la mano. Quando, chiacchierando, facevano tardi al caffè, Luke di-ceva: «Andatevene, che adesso arriveranno i vostri papà», oppu-re si rivolgeva soltanto al più giovane: «Vattene, adesso, che si

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è fatto tardi e deve venire tuo padre», e poi scoppiava a ridere. Capitava qualche volta che il giovane se la prendesse e le rispon-desse: «Mio padre è una persona di tutto rispetto, non è come me…»

Allora i compagni e Luke ridevano forte per la goffaggine e l’ottusità del giovanotto.

Qualcuno, scherzando, le chiedeva: «Luke, per amor di Dio, dove hai messo la tua giacchetta?»«Vieni a vederla in camera mia.»«Con grande piacere…»«Ma i tre franchi li hai?»«Sì, ho tre lekë.»«Vattene, pulcino… con tre lekë vuole vedere l’America…»Ma ho già detto che Luke era più generosa di tanti altri a

cui spettava di dovere. Lei accoglieva anche qualche giovane che non guadagnava ancora, soltanto per tre lekë, naturalmente se lui voleva.

Intorno al nome di Luke e specialmente intorno al suo corpo si era creata una specie di aureola, come intorno alle teste dei santi. Tanto che a qualcuno dispiaceva che la si chiamasse “puttana”.

Si tentava dunque, per evitare il senso troppo dispregiativo di quella parola, di sostituirla con altre, equivalenti ma meno crude, come ad esempio “donna problematica”, “donnina allegra” e altri nomignoli simili, letti in qualche libro.

E specialmente a uno, che non pronunciava mai parole volga-ri, dispiaceva che Luke fosse detta prostituta. E non solo lui non la chiamava mai così, ma sentendo tale parola in bocca a qualcun

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altro provava all’orecchio un senso di fastidio, come quando si sente qualcuno graffiare un piatto con la forchetta. Perciò, quella parola era per lui una violenta dissonanza nell’armoniosa melo-dia che Luke prometteva. Chiamare Luke in quel modo era come chiamare “donna” il prete soltanto perché indossa una sottana.

Fu lui a diffondere tra i compagni l’uso di appellativi che gli sembravano più adatti a designare quella donna.

Genera la madre terra; genera creature con e senza spirito; genera e crea come in milioni di anni così in secondi; genera forme che si riscaldano l’una con l’altra per generare a loro volta altre forme facendo continuare il ciclo della vita. E sono la stessa cosa il desiderio del verme e il desiderio dell’uomo. Soltanto il verme non sa, non ha coscienza di generare, mentre l’uomo lo sa, lo comprende, lo sente con le sue energie che si consumano, che devono consumarsi. E in questo, solo in questo, non in qual-che altra superiorità immaginaria, ma nella coscienza di trasmet-tere la vita consiste la differenza tra il verme e l’uomo. Il verme lavora, fa il suo dovere di verme e perpetua la sua specie; l’uomo crea, produce opere di architettura, arte, letteratura e perpetua la specie umana. Perché le energie devono consumarsi, secondo la capacità di ciascun individuo – queste energie che provengono tutte da una stessa sorgente.

La malinconia, gli affanni del pensiero e molte volte anche il nervosismo sono effetto di energia accumulata e che non sa dove espandersi. E la fantasia dei giovani crea allora aureole di santi attorno al corpo di una donna che si vende, che ha unito l’istinto di generare all’interesse materiale, costretta in modo diretto o indiretto dalla società.

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Così, nella camera di Luke si consumavano le energie dei giovani. Del resto se questo non fosse accaduto lì, sarebbe acca-duto altrove, in modo innaturale, raffinato, che senso e intelletto hanno inventato.

«Luke, così e così… quanto sono belli i tuoi occhi…» le di-ceva il giovane. Lei taceva.

«Come hai bello questo… questo… e quest’altro…»«Finiscila, buffone… Spicciati a terminare la faccenda per

cui sei venuto.»Un’impennata sentimentale nella più cruda intimità, un

respiro affannoso, a volte qualche morso, oppure un sospiro o anche qualche manata sul corpo nudo.

A volte anche Luke era assalita da una sconfinata tristezza. Quel qualcosa che noi chiamiamo anima le faceva male; però solo qualche volta, perché se ciò si fosse verificato più spesso il padrone l’avrebbe cacciata via, perché in quei momenti Luke rompeva bicchieri, piatti, specchi, qualunque cosa che si trovasse tra le mani. E in quei momenti non accettava visite. Forse all’ani-ma di Luke dispiaceva che tutte le energie dei giovani si esauris-sero invano su di lei? Forse anche lei voleva generare? Come ge-nera la madre terra e ogni altra creatura? Che tristezza provava, quasi un dolore fisico, quando si ricordava di essere una donna che non genera! Le sarebbe persino bastato avere una bambola, un giocattolo a cui dedicarsi per dimenticare tutte quelle brutte ore in cui si vedeva imbrattata di fango!

In un cristallino giorno d’inverno, mentre soffiava la tramon-tana e il gelo aveva ricoperto tutto di brina, Luke era scesa in città. Fino a quel giorno la sua storia era stata semplice, ma piena

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di sofferenze, come quella di tutte le donne della montagna. Da lontano la vita di città sembrava bella, e in ogni caso lì era pos-sibile guadagnarsi da vivere – specialmente se si era giovani e si godeva di buona salute. Ma quando Luke ebbe il primo aborto vide chiaramente che, per quelle che non hanno di che vivere, tutto ha la stessa importanza. Avrebbe voluto fare qualcosa, ma le dissero:

«Fermati, stupida. Tu sei giovane… puoi guadagnare dei soldi e coi soldi, in città, troverai facilmente un marito, per avere un po’ d’affetto in vecchiaia.»

Luke era abbastanza intelligente da capire in fretta la menta-lità della città in cui viveva.

In breve riuscì a raggranellare duecento napoleoni. Coi tre lekë degli studenti e coi tre franchi dei signori, contando e ricon-tando con la bramosia di un avaro, accumulò quella bella somma di denaro.

Mentre guadagnava, Luke pensava che avrebbe poi trova-to un cuore, smarrito come il suo, per aiutarsi a vicenda nella vecchiaia.

Non chiedeva molto. Non desiderava neppure uscire a pas-seggio sottobraccio al marito, né aspirava a quei diletti cui posso-no solamente aspirare le donne che si sono sposate ancora in pos-sesso dell’onore e dell’innocenza. Desiderava soltanto trovare rifugio in una casetta e attendere la vecchiaia accanto a un marito con cui scambiare qualche parola, vicino al fuoco, nelle lunghe e fredde notti invernali, e poter così, l’una e l’altro, allontanare la noia della vita.

Questo era l’ardente desiderio di Luke.

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Duecento napoleoni sono duecento vessilli di trionfo sban-dierati sulle dolorose vicissitudini della miseria. Sono duecento gridi di vittoria nella lotta della vita, sono duecento urrah!

Coi suoi duecento napoleoni Luke sogna di costruire un ca-stello e di entrarvi insieme a un altro cuore, smarrito come il suo.

Là, in silenzio, nel quieto porto di un focolare, avrebbe ricor-dato le lotte epico-sentimentali del passato. Pace! Pace! Come per una nave che, sbattuta dalle onde del mare e mezza fracassa-ta, giunge infine in porto.

E un giorno Luke passò dalla casa pubblica a una privata. In-sieme al marito. Che non era giunto a lei sotto le spoglie di un cavaliere romantico o di un grande spirito desideroso di lenire le sofferenze del mondo – bensì sotto quelle di un calderaio fallito.

«Il nostro mestiere è morto, ormai. Ora sono arrivati i re-cipienti di zinco e solo nelle vecchie famiglie si trovano ancora utensili di rame, e anche quelli non li usano più, hanno comin-ciato ad appenderli come oggetti antichi», diceva il calderaio, alzando il bicchiere giallo della rakia. «Forse un buon capitale potrebbe dare nuova vita al mio lavoro, ma dove trovarli que-sti soldi?» continuava masticando qualcosa. «Se riesci a regolare questa faccenda mi salverai», disse poi al padrone del locale in cui si trovava Luke, mentre pagava la sua bevuta.

E la faccenda fu regolata. Sposò Luke per potere migliorare, coi soldi di lei, il proprio lavoro.

Lavoro! Lavoro! Perdere la testa per tanto lavoro, così da non saper più cosa fare coi soldi!... pensava il calderaio.

E Luke pensava: un porto tranquillo, un caldo focolare do-

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mestico, così come a volte ne ho visti, e l’attesa della vecchiaia. Ma poi, perché non osare sperare anche qualche gioia della vita, visto che lei e il marito sono tra i trenta e i quarant’anni? sognava Luke. Ma i sogni si lacerarono come camicie tessute con tele di ragno, e restò solo la banale crudezza della vita reale. Non prova-te dunque a realizzare i vostri sogni: lasciate che siano solamente dei sogni e accontentatevi (se potete accontentarvi dei sogni). Altrimenti andrete incontro alla disperazione, com’è successo alla coppia di questa breve storia, senza data documentata.

Dei duecento napoleoni di Luke ne sparirono dapprima cento. Sembrava portati via da un fiume in piena, come i frutti della terra che trascina via quando esce dal suo letto.

«Se ne sono andati perché non sei capace di badare agli affari tuoi. Ti imbrogliano, ti truffano, perché non sai cosa fare», gli diceva la moglie con un tono metà lacrimoso, metà offensivo.

«Sta’ zitta!» replicava lui con rabbia.«Sì, sì, sto zitta… e Luke se ne andava in cucina pronta a

versare calde lacrime su quei cento napoleoni gettati dalla fine-stra. «Ah, è inutile», sospirava attizzando il fuoco per preparare il caffè al marito.

Pensava all’avvenire e si vedeva di nuovo in balia dei signori. Ma chi l’ha sfruttata quando era giovane, straziando con gli arti-gli la sua giovinezza, adesso non saprà più che farsene di lei. Non le farà nemmeno l’elemosina. Chi può fare l’elemosina a chi un tempo è stata una donnaccia? E allora verrà la morte, la morte lenta, per fame; non una morte istantanea, ma una morte lenta che s’infiltra piano piano, giorno per giorno, quella morte di cui muoiono in montagna i suoi fratelli e le sue sorelle.

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Quando portò il caffè al marito, che stava alla finestra con lo sguardo perso nel crepuscolo della sera, lui si girò.

«Dammi un napoleone, che mi serve per un affare…»«Sì, prendi», disse lei e, con rabbia disperata, con un gesto

volgare, gli tirò un ceffone.«Sei abituata a questo. Si vede quel che sei e quel che eri», le

disse il marito che in quel momento non aveva voglia di venire alle mani; le sputò addosso.

Era raro che ci si limitasse a questo. Di solito venivano alle mani. All’inizio era lui a picchiare la moglie, e lei non replicava. Ma quando incominciò a pestarla con più frequenza, anche Luke tirò fuori la sua forza fisica. E lei era più forte (aveva acquistato quella forza un tempo, allenandosi con le amiche e coi ragazzi in montagna, quando faceva il pastore) perché suo marito era basso e debole e aveva soltanto la spocchia del maschio.

Presto lui cominciò a trascurare la casa. Luke poteva vede-re come di giorno in giorno andassero sparendo anche gli altri cento napoleoni, ma sembrava che ormai non se ne disperasse più. Si era abituata, come il malato si abitua alla propria malattia. Qualche volta il marito tornava a casa ubriaco. E allora era inevi-tabile lo scontro. Si prendevano, lottavano, e quando lui riusciva a mettere sotto Luke, le strappava i vestiti e dava sfogo al suo desiderio. Luke allora chiudeva gli occhi e provava terrore della vita, mentre nel ricordo passavano come in parata i visi di tutti quei maschi che aveva sopportato su di sé, e infine il viso scuro e brutto di suo marito, il solo di cui adesso portasse il peso.

Perché, e lo ammettevano anche i vicini, che abitavano nello stesso cortile – lei era fedele al marito, e non voleva aver più

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nulla a che fare con gli altri uomini. Tanto che avrebbe potuto essere d’esempio persino alle mogli dei vicini.

«Uh! Che vada in malora! Si dà tante arie, come se fino a ieri non fosse stata in un…» si sfogavano a volte le donne, con rabbia.

Luke non lavorava più, si serbava fedele al marito – ma lui non portava più un soldo a casa, né per il pranzo né per la cena. I soldi della moglie scorrevano con la velocità di un ruscello mon-tano, e di questo se ne rendeva conto lo stesso marito. Sempre più frequentemente, quando tornava a casa, non trovava nien-te da mangiare. Sul volto di sua moglie vedeva ormai delinearsi quell’amarezza che la fame e le angosce di una vita misera dipin-gono sui volti.

«Io me ne vado!»«Dove vai?»«A lavorare nei villaggi… Ti manderò i soldi da laggiù…»;

«qualche soldo» – voleva dire – ma, e non seppe nemmeno lui perché, non lo disse. Lo vinse un senso d’incertezza, e guar-dò davanti a sé, non osando fissare in viso Luke, che gli disse: «Vengo con te».

«Con che vivrò, come potrò vivere?» continuava a pensare tra sé, e provava orrore all’idea che sarebbe di nuovo rimasta alla mercé della strada e della gente.

Ed eccoci in un villaggio cui piace farsi chiamare cittadina. È l’ultimo paese raggiungibile in macchina. Dietro, verso est, non ci sono più strade, ma soltanto mulattiere.

La gente finisce qui soltanto a causa del caro vita. (Ma ogni tanto si può vedere anche qualche turista).

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Un giorno, mentre l’automobile stava per lasciare questo villaggio cui piace farsi chiamare cittadina, centro di prefettura, arrivò, in mezzo a due gendarmi, una donna con le mani legate.

«Oh! Ma è la Luke!» gridò uno degli uomini assembrati in-torno all’automobile.

«Ma da dove viene?»«Dov’è stata?»«Perché tra due gendarmi?»«Ha forse commesso qualche reato?»«Guarda, le hanno persino legato le mani.»Luke guardava gli uomini e sorrideva.«Ma guarda, perché mi hanno legato le mani? Eh? Ih! Ih! Ih!»«Poveretta!» sospirò una montanara, passando con un carico

di legna sulla schiena.E gli uomini cominciarono a fare giochi di parole, ricordando

alla donna impazzita la sua vita.Lei li guardava con lo sguardo di chi ha perso il senno e sor-

rideva ancora:«Ih! Ih! Ih! Perché mi hanno legato le mani? Ih! Ih! Ih!»Un ragazzo, un impiegato, forse seriamente o forse per

scherzare, le offrì un mazzo di fiori secchi. E lei lo ringraziò sorridendo, con un gesto cerimonioso. «Grazie, caro signore. Ih! Ih! Ih!» e cercava, con le sue mani legate, di tenere dritti i fiori.

L’automobile partì. E Luke, col volto segnato dalla sofferen-za, con gli occhi da folle, con quel suo Ih! Ih! Ih! fu portata in manicomio.

In manicomio, con quel suo Ih! Ih! Ih! narrerà la storia della propria vita.

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Ma saranno pochi a comprendere quel suo Ih! Ih! Ih!Suo marito, il calderaio vagabondo, laggiù in qualche sperdu-

to villaggio di montagna, da dove ha inviato Luke al manicomio, forse in quel momento, lavorando a una saldatura, riderà del de-stino di quella donnaccia che era sua moglie.

«Grazie a Dio me ne sono liberato.»

Prima traduzione di Jolanda KodraVersione curata da Astrit Cani e Michele Bertinotti

Non risulta che questo componimento sia stato pubblicato sui periodici al tempo in cui Migjeni era convalescente a Torino, quando ebbe modo di pubblicare molte delle sue prose su “Për-pjekja shqiptare”. È invece certo che fu scritto prima del 31 di-cembre 1936. Apparve per la prima volta nel volume Migjeni - Vepra (“Migjeni - L’opera”), a cura di Skendër Luarasi (1954).

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I canti non cantatidi Migjeni

Giù nel mio profondo dormono i canti non cantatiche né la sofferenza né la gioia hanno ancora sciolto, che dormono e aspettano un giorno più beatoper esplodere, e venir cantati senza tema o impaccio.

Giù nel mio profondo i miei canti indugiano...e sono il vulcano che dorme pacato, ma quando sarà giorno riverserà tuttoin mille splendidi colori che non muoiono.

Verrà mai il giorno per ridestare i canti?O forse i secoli si burlano di noi ancora?No! Ecco che la libertà comincia a fioriree ne sento dal Sole (allegorico) l’onda.

O miei canti che dormite mie reliquie che mai avete sfiorato un alto cuoresolo io gioisco di voi come un bambinoio – vostra culla, e vostra tomba pure.

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Note su Migjenidi Astrit Cani

1. Quando nacque Migjeni, in Albania si era ancora sotto i turchi. Si era ancora Anatolia. L’Albania divenne indipendente nel 1912, ma nel 1913, per effetto delle guerre balcaniche, le Grandi Po-tenze decisero di dare in pasto alle vincitrici Serbia e Grecia più della metà dei territori albanesi, considerati turchi. La maggior parte degli albanesi viveva in condizioni di enorme arretratezza e miseria, e l’occupazione straniera congelò questa triste verità.

Ad ogni modo, Scutari, dove Migjeni era nato e cresciuto, non verteva in brutte condizioni. Dopo una influenza veneziana durata secoli, passò tutta la Prima Guerra Mondiale sotto l’oc-cupazione austriaca (gli austriaci la favorivano in tutto), se pure sotto la minaccia di montenegrini e serbi. Ai tempi Scutari aveva ancora la sua importanza. Situata in riva al più grande lago dei Balcani, con sbocco sull’Adriatico, ci fiorivano il commercio e l’artigianato. La navi partivano attraverso il fiume Buena, allo-ra ancora navigabile, dirette principalmente verso l’Italia. Vi fa-cevano tappa carovane da ogni parte dei Balcani. E fu così fino

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negli anni Trenta, periodo in cui il ventenne Migjeni conobbe lo splendore della sua breve e intensa vita creativa. Ai tempi di Mi-gjeni maturo, l’Albania era un regno. Il regno di Ahmet Zogu. A 17 anni Zogu era stato firmatario dell’Indipendenza Nazionale, progetto che voleva fare dell’Albania una repubblica democrati-ca. Individualista accortissimo, aveva reagito alla rivoluzione de-mocratica dell’arcivescovo Noli (1924), riuscendo a costringerlo all’esilio grazie all’aiuto degli jugoslavi, ai quali regalò terre in segno di ringraziamento. Zogu aveva provveduto a far fuori gli altri fautori di quella rivoluzione. E dopo tre anni dalla nomina a presidente, decise di diventare re Zog I, cambiando unilateral-mente la Costituzione e rispolverando una sua lontana discen-denza da Scanderbeg, eroe dell’Albania. Paradossalmente Noli fu il suo rappresentante negli States.

Gli anni Trenta vengono oggi unanimemente considerati il periodo più felice per la letteratura albanese. Per la prima volta si traducevano i contemporanei. Joyce, Freud, Croce e altri. Il Noli, conoscitore di 18 lingue, aveva felicemente tradotto e pub-blicato le maggiori opere di Shakespeare, la prima parte del Chi-sciotte, e le Rubaiyyat di Omar Khayyam, queste ultime proprio durante il suo governo rivoluzionario durato soli sei mesi.

Fu proprio il periodo in cui eravamo maggiormente aperti alle influenze delle grandi letterature, quello in cui producemmo le cose più originali della nostra letteratura. Questo è il tempo di Migjeni, un tempo fecondo e paradossale. La popolazione alba-nese all’interno del regno non superava gli 800.000 abitanti, di cui solo il 20% viveva in città. Il processo di alfabetizzazione era appena agli inizi. Soltanto a Scutari c’erano 30 periodici. Era un

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periodo molto proficuo. Lo stato funzionava, e la cultura ne trae-va vantaggio. Lasgushi (pseudonimo del poeta Llazar Gusho), ha raccontato che ai tempi era riuscito a comprare casa grazie alla vendita dei suoi due libri di poesie, che oggi come allora vengo-no considerati capolavori.

Per l’Albania, come per altri, gli anni Trenta si sarebbero conclusi in modo assai inglorioso. Con l’occupazione fascista del 7 aprile 1939, il re scappò con l’oro che aveva raccolto dal popo-lo in cambio di carta moneta...

2. Migjeni ebbe una vita tragica. Perse sua madre da piccolo, e poi il padre e la nonna. Dopo il ginnasio andò seminarista a Ma-nastir (oggi Bitola, città a maggioranza slava nella Macedonia). Rientrato a Scutari ottenne una borsa di studio per Oxford, che rifiutò. Cominciò a insegnare in un villaggio a 7 chilometri da Scutari. Faceva la strada in bicicletta, e contrasse la tubercolosi, malattia ai tempi ancora incurabile anche nella progredita Euro-pa. Poi accettò la nomina in una scuola elementare di Puka, nella speranza che l’aria di montagna avrebbe giovato ai suoi polmoni. Il suo stipendio serviva a mantenere la sua famiglia.

A Puka rimase profondamente colpito dalla povertà dei mon-tanari e dalle condizioni miserevoli in cui vivevano i suoi allievi.

Si occupava contemporaneamente di diverse scuole e cercava di aiutare la gente della zona provando a sollecitare i rappresen-tanti del ministero a Tirana. Questo periodo di duro lavoro fu anche quello in cui scrisse le sue prose e completò la sua raccolta in versi sciolti, chiamata Versi liberi. Nei suoi rientri in città Mi-gjeni frequentava giovani con simpatie comuniste, ma non fece

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mai parte di nessun gruppo in particolare. Pubblicava regolar-mente sul periodico “Illyria”, dove videro la luce alcune delle sue migliori prose: Umile Socrate o maiale soddisfatto, O... o, Il suicidio del passero, In chiesa, Il piccolo Luli... Nell’arco del 1935 aveva finito i Versi liberi. Nell’estate di quell’anno gli fu prescritto il ricovero in sanatorio, e partì per Atene, ma vi ritornò senza pas-sarvi il mese poiché non poteva far fronte alle spese.

Quando i Versi liberi uscirono per i tipi di Gutenberg a Tirana la loro circolazione fu bloccata dalla censura di Stato. Ma Migjeni era già conosciuto e riconosciuto. Si diresse a Torino, dove sua sorella studiava matematica, città che raggiunse poco prima del Natale 1937. Si stabilì dalla sorella in via della Rocca, dove oggi si trova una targa che tiene viva la sua memoria.

Senza pensare molto alla malattia, sperava di iscriversi all’università, ma non gli riuscì perché Tirana non gli fece avere in tempo i documenti. A marzo fu ricoverato al sanatorio San Luigi e in agosto, nella speranza di riacquisire la salute, andò al sanatorio di montagna a Torre Pellice. Vi rimase qualche settima-na in compagnia della sorella e di altri studenti albanesi.

Nella notte del 26 agosto, dopo un ultimo profondo respiro, Migjeni si spense prima ancora di raggiungere la soglia dei ven-tisette anni.

3. L’impatto che Migjeni ha avuto sulla letteratura albanese è grande e profondo.

La sua fortuna critica è paradossale. È costruita su una note-volissima quantità di scritti a lui dedicati, dei quali, però, ci rima-ne poco o niente di valido. Durante gli anni del regime comunista

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la sua opera fu oggetto di una interpretazione critica totalmente aberrante. Hanno cercato di rendere retroattivamente Migjeni un poeta da realismo socialista. In realtà, lui ha influenzato ve-ramente i servi del realismo socialista, essendo lo scrittore che ha trattato per primo e con maggior successo i problemi sociali delle classi basse. Ma dubito che Migjeni avrebbe accettato di buon grado la totale negazioni di ogni libertà che la dittatura di Hoxha impose a tutti i livelli, e in primo luogo agli artisti. E sono sicuro che l’estetica di Migjeni non ha niente da condividere con il programma culturale promosso da Partito del Lavoro Albane-se. Hanno cercato di leggere la sua rabbia come odio, e hanno sfruttato la sua dissidenza dal regime per demonizzare re Zogu. Ma comunque sia, possiamo affermare che anche l’orda dei servi del potere nutriva un grande rispetto per Migjeni.

Accenniamo alcune aberrazioni, che solo il terrore era riu-scita a mantenere in piedi. Ecco il capo ufficiale degli scrittori albanesi, il serbo Dhimitër Shuteriqi, che legge così i versi dei “Canti non cantati”:

Ja! Ja! Se liria filloi me lulëzueDhe e ndjej nga Dielli (alegorik) valën.

Ecco! Ecco! Che la libertà incomincia a germogliareE ne sento dal Sole (allegorico) l’onda.

Questo “Sole”, secondo Shuteriqi era uno Stato, per la pre-cisione era l’Unione Sovietica. Il problema dei critici come Shu-teriqi era l’instabilità dei loro giudizi, dovuta alla totale falsità della loro interpretazione. Seguendo questa logica, dopo la rot-

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tura con l’Unione Sovietica (ai tempi di Krusciov era punibile a morte ogni elogio alla Russia), questo Sole doveva essere la Cina o addirittura oggi, per aggiornare l’interpretazione di Shuteriqi, gli Stati Uniti d’America.

Il Sole, se proprio dobbiamo dirlo, è la gioventù albanese, ha un volto umano, anche molto famigliare al poeta.

Ancora Mark Gurakuqi diceva: “Migjeni conosceva molte lingue straniere; leggeva parecchi autori diversi tra loro. Queste letture, certamente, come per chiunque, hanno avuto anche su di lui una influenza, sia questa positiva (Tolstoj, Gor’kij, Maja-kovskij) o anche negativa (Schopenhauer, Nietzsche e fino a un certo punto Dostojevskij)”.

Sui libri di scuola si diceva che avesse predetto l’avvento del partito comunista nella poesia “Che nasca un uomo” – di impo-stazione chiaramente nietzscheana; o addirittura che Le forme del superuomo, che reca il sottotitolo “Ditirambo nietzscheano” non avesse nulla a che vedere con Niçe (questa la trascrizione albane-se del nome del filosofo). Una simile interpretazione aberrante reca anche la firma di Kadaré (cfr. il saggio L’uragano interrotto).

Oggi ci consola il fatto che prima e durante quel periodo, Migjeni fu all’attenzione di Koliqi (scrittore e filologo di stanza a Roma), di Pipa (di stanza in America) e di Camaj (fondatore della cattedra di lingua e letteratura albanese a Monaco di Bavie-ra). E ci rattrista il fatto che nei testi scolastici l’opera di Migjeni viene ancora letta in chiave puramente sociale.

Se Migjeni ha avuto un’importanza enorme nella letteratura albanese è perché ha messo al centro della percezione estetica la vita, la vita quotidiana, la necessità di liberarla. Non dobbiamo

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liberarci dalla vita quotidiana, bensì dobbiamo liberare la vita quotidiana. Questo è il socialismo di Migjeni.

In questo senso Migjeni è tra i più grandi utopisti albanesi, in un tempo in cui l’utopismo non era ancora una moda estetica, come neanche il socialismo.

Migjeni rivolse il genio della lingua albanese – il pathos – alle persone più comuni; i suoi eroi non sono né i padri della nazio-ne (tipo Risorgimento albanese – Rilindja) né le madri coraggio della letteratura di indipendenza, ma i “figli del nuovo secolo”, con i loro problemi esistenziali – uno su tutti il lavoro – ma anche con la loro incredibile grinta e voglia di abbracciare le speranze del nuovo secolo.

In questo senso la svolta che Migjeni rappresenta è uno dei momenti più sensati e più felici della letteratura albanese. Una svolta al momento giusto. Con lui abbiamo una vera sensibilità da condividere qui e ora, e anche un grande senso del presente e della vita.

La lotta di Migjeni non era una guerra, anche se in albanese le parole coincidono.

Migjeni era ateo, ma il suo ateismo è qualcosa che in Albania capiscono anche i più religiosi tra i religiosi. Era un poeta, parte-cipe della umanità e della divinità. Del presente e dell’immorta-lità. Sul suo ateismo possiamo dirla con Feuerbach:

Il presente è estremamente prosaico, determinato, immodifi-cabile, compiuto, esclusivo; nel presente la rappresentazione coincide con la realtà; in esso quindi gli dei non trovano posto né spazio di azione; il presente è ateo. Ma il futuro è il regno della poesia, il regno della possibilità e della causalità illimita-

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te – il futuro può essere in un modo o nell’altro, può essere come lo desidero o come lo temo; non è ancora divenuto schiavo della dura sorte dell’irrevocabilità; oscilla ancora tra essere e non-essere, al di sopra della realtà e dell’evidenza “comuni”; appartiene ancora a un mondo diverso, invisibile, a un mondo che non è messo in movimento dalle leggi della gravità, ma solo dai nervi sensoriali.1

Con Migjeni il presente entra nel futuro, diventa poesia. Gran parte della Rilindja aveva cantato il passato remotissimo e felice dei nostri avi, gli Illiri, oppure le gesta di un solo uomo: Scanderbeg, oppure le bellezze naturali e caratteriali di terre e genti albanesi... Il futuro luccicava qua e là, nella più buia incer-tezza... di questa nazione orfana che gli diede i natali.

Ma nessuno come Migjeni seppe vedere nel presente. E per quanto mi riguarda, quello che io cerco di vedere attraverso i suoi occhi, non è la povertà, né lo squallore morale che ebbe a denunciare, ma lo spirito di cambiamento – la gioventù, la gio-vinezza... e gli occhi di qualche ragazza che lui mirò con “amore discreto”, e che lo hanno ricambiato e gli avrebbero dato motivo di combattere ancora più tenacemente, se fosse vissuto ancora.

Scutari, luglio 2010

1. cit. L. Feuerbach, L’essenza della religione, Laterza, Bari 2003.

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C’è chi passa tutta la vita a leggere senza mai riuscire

ad andare al di là della lettura, restano appiccicati alla

pagina, non percepiscono che le parole sono soltanto delle

pietre messe di traverso nella corrente di un fiume, sono lí

solo per farci arrivare all’altra sponda, quella che conta è

l’altra sponda.

La caverna, 2000

Dicono che il regno è malgovernato, che non c’è giustizia

e non si accorgono che la giustizia c’è come deve esserci,

con la sua benda sugli occhi, la sua bilancia e la sua

spada, che altro vorremmo, ci mancherebbe proprio che

fossimo noi i tessitori della fascia, i verificatori dei pesi,

gli armigeri del taglio, costantemente intenti a rammen-

dare i buchi, ad aggiustare le cadute, a rifare il filo alla

spada e infine a chiedere al giustiziato se è contento della

giustizia che gli si fa, vinta o persa che sia la causa.

MeMoriaLe deL convento, 1982

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José Saramago, lo scrittore civile e il romanziere “classico”di Michele Bertinotti

Aveva appena pubblicato Caino, e stava già scrivendo un nuovo libro, quando il 18 giugno scorso Saramago ha lasciato i suoi letto-ri. Di lui è stato scritto molto, e non sempre con l’intento di discu-tere del suo stile o del suo posto nell’olimpo della letteratura (se un olimpo, effettivamente, esiste). In questo senso ci ha pensato il premio Nobel ad attribuirgli il giusto peso, lasciando però aperta tutta una serie di questioni legate soprattutto al suo modo di con-cepire la letteratura, all’intrico tra parola e spirito civile che ha raggiunto, ad esempio nel racconto La sedia (pubblicato in Oggetto quasi, una raccolta del 1984 che molti sembrano aver dimentica-to), uno dei massimi livelli. Raramente come in questo racconto – seguendo le vicende dei tarli che, smangiucchiandosi una sedia, fecero cadere il dittatore Salazar, provocandogli dei danni irrever-sibili al cervello e ponendo di fatto fine alla dittatura – la sua fan-tasia, la letteratura e la critica sociale si sono mai scoperte tanto.

Saramago è uno scrittore che ha fatto (e farà sempre) discute-

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re. Uno scrittore, come ha detto il giorno della sua morte Mario Baudino sulla “Stampa” , prendere o lasciare, da adorare o, al con-trario, da detestare. Uno scrittore che si presta più di ogni altro all’attacco personale, che a un certo punto della sua vita ha deciso che la critica doveva oltrepassare la letteratura, trasformarsi in parola viva, pronunciata ad alta voce.

È un paragone forse avventato, ma Saramago non può non ricordare Pasolini. Due figure letterariamente lontanissime – il primo che si abbandonava alla fantasia, alla favola; il secondo che si immergeva tra le borgate romane – ma che hanno condiviso uno spirito quasi oltranzista di critica alla società. Sono stati due scrittori civili, che sentivano la necessità di pronunciarsi su tutto e tutti, il cui sguardo cercava di interpretare i fenomeni politici e sociali più diversi. Saramago è stato (o si è) investito, come Pa-solini, di un ruolo intellettuale oggi come oggi quasi scomparso: un misto di vate e di saggio, capace di imporsi all’attenzione del pubblico più vasto e meno specializzato.

Pasolini e Saramago sono state due persone che non riusci-vano ad accettare la società così com’era; non ne accettavano i caratteri culturali più importanti, lo spirito che ispirava la vita politica ed economica. Entrambi provenivano o facevano riferi-mento a un mondo contadino mai rinnegato, anzi: rivendicato con forza come fonte di sapere; e le posizioni così nette di alcune loro asserzioni provengono proprio da questa saggezza popolare ormai dispersa, o in ogni caso mutata, unita alla rabbia di vedere i caratteri migliori di quella società svanire di fronte a un generale imbarbarimento della cultura. È la vecchia posizione dello scrit-tore apocalittico, scettico per principio (che in Saramago, però,

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non declina mai verso il più cupo pessimismo, essendo sempre animata dalla speranza di un cambiamento), quella stessa posi-zione che a volte ha imposto (a entrambi) analisi affrettate e, so-prattutto, intransigenza e nettezza di giudizio, ma che ha offerto a tutti un esempio di impegno, di critica, estremamente positivo. Sono scrittori civili che, per adesione nei confronti delle loro po-sizioni o per distacco, fanno riflettere sulla società e sull’uomo, fornendo almeno una grande lezione.

E in qualche modo entrambi riconducevano la radice di ogni male al potere, alla sua strumentalizzazione, con il candore che solo una società contadina (intrinseca alla loro formazione), pote-va permettere loro di fare. Non sono tanto le bordate o le accuse dirette a governi e personaggi politici che vogliamo ricordare in questo articolo, bensì un atteggiamento sospettoso nei confronti del potere, un atteggiamento perennemente scettico che impone (o dovrebbe imporre) continua vigilanza (e spirito critico).

Ma Saramago, oltre che scrittore civile, era abile narratore e cultore dello stile. Ha creato uno stile inimitabile: estrema-mente letterario ma allo stesso tempo popolare, “leggibile”, af-fabulatorio. Saramago era dotato delle qualità narrative e della fantasia (del fascino) del narratore classico. Come un romanzie-re dell’Ottocento teneva tra le mani i fili che muovevano i suoi personaggi, li faceva muovere sulla scacchiera a suo piacimento, quasi mai abbandonandoli al loro destino, al loro “carattere”. Non c’è pagina in cui il lettore non si renda conto di questa assoluta padronanza, di questo potere.

I personaggi sono pedine affidate al discorso dell’autore, che indirizza continuamente il suo pensiero con continui interventi.

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Ma è anche vero che Saramago si rivolgeva al lettore, si appellava a lui, lo blandiva, gli porgeva domande, in un modo del tutto novecentesco. Lo provocava, poneva le basi, attraverso questi in-terventi, dell’ironia con cui affrontava la sua satira, la sosteneva. Gli interventi del narratore sono funzionali (oltre che allo svolgi-mento dell’intreccio) al discorso civile; in questo, forse, risiede la sua grande abilità narrativa: nell’unire al gusto dell’affabula-zione, al romanzesco, al fantastico, il suo sguardo sulla società.

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La scrittura e lo sguardo: “os espelhos virados para dentro” in Cecitàdi Piero Ceccucci

Disperata, si è accasciata su quel terreno sporchissimo, im-pastato di fango nero, e, priva di forze, di tutte, è scoppiata a piangere. I cani l’hanno circondata, […] uno la lecca in faccia, forse lo hanno abituato fin da cucciolo ad asciugare i pianti. La donna gli tocca la testa, scorre la mano sul dor-so inzuppato, e le altre lacrime le piange abbracciata a lui.1

In una intervista del giugno 2008, Saramago affermava:

Mi piacerebbe essere ricordato come lo scrittore che ha cre-ato il personaggio del cane delle lacrime. È uno dei momenti più belli da me realizzati come scrittore. Se in futuro sarò ricordato come “quel tipo che fece quella cosa del cane che aveva bevuto le lacrime della donna”, sarò contento. Se qual-cuno cercasse in ciò che ho scritto un determinato messag-gio, oserei dire per la prima volta che quel messaggio è lì.La compassione di quella donna che tenta di salvare il gruppo in cui si trova il marito è equivalente alla compassione di quel cane che si avvicina ad un essere umano disperato e che, non potendo fare niente altro, gli beve le lacrime.2

Credo che la citazione, posta in epigrafe, chiosata dalle pa-

1. José Saramago, Cecità, tr. di Rita Desti, Einaudi, Torino 1996, p. 225.2. José Saramago, Non sono un esempio di quel che è vivere a questo mondo, intervista di Maria José Oliveira, in “Público”, Lisbona 15 giugno 2008, p. 6.

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role stesse di Saramago, appena riportate, venga – maxima aucto-ritate – a inscenare uno dei nodi centrali del discorso narrativo dello scrittore portoghese, recentemente scomparso, attorno cui si avviluppano e da cui si dipanano, senza soluzione di conti-nuità, a partire dai primi romanzi, tutti gli altri elementi discor-sivi che ne costituiscono la cifra ideologica e di rappresentazio-ne. Intendo fare diretto riferimento allo sguardo straniato con cui, in Cecità, avvolge con amaro disincanto, fino al pessimismo e allo scetticismo – senza però che mai venga meno quella sua “(com)passione solidale” verso l’altro – la realtà umana nel suo agire e rapportarsi con un mondo, inteso come organizzazione di società civile, nella quale egli non si riconosce. Uno sguardo pre-occupato, alienato, che lo porterà a dire, qualche tempo dopo, con duri accenti quasi di tipo nichilistico: “Il mondo è un inferno. Non è necessario che ci minaccino con l’altro inferno, perché già vi stiamo dentro”;3 uno sguardo “rovesciato”, dunque, un modo di guardare diverso e obliquo, proteso a perscrutare la verità velata e nascosta che instancabilmente attraversa e pervade tutta la sua opera e che sottende una visione oggettivata,4 di natura quasi ontologica, del male nel mondo. In Cecità, fino alle ulti-missime fatiche, in un crescendo intenso di toni scorati, il male non viene più unicamente considerato, come nei primi lavori, quale conseguenza di una organizzazione sociale ingiusta e per-

3. Ibidem.4. «Se non sempre gli “eroi” sono assunzioni chiare e assai meno lineari del Bene (...), al di fuori di essi resta il Male, un male oggettivato nella e per la Storia (…). Tale Male og-gettivato, dove in una forma sensibile l’umanità vive le esperienze disumane, o antiuma-ne per eccellenza»; Eduardo Lourenço, Saramago un ‘teólogo’ sul filo del rasoio, in «Espacio/Espaço Escrito», nn. 9 e 10, Inverno 1993/94, Badajoz, p. 128.

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versa, ma anche, soprattutto, come relazionato alla natura stessa dell’uomo, imperfetta e tendenzialmente corrotta. L’individuo, allorché la sua ragione viene sopraffatta dagli eventi e prendono negativamente il sopravvento oscuri istinti, innati in lui, cessa di essere quell’homo socius, quell’homo faber, artefice di civiltà e di cultura, di progresso insomma, per mutarsi, chiudendosi in se stesso, nel suo egoismo e nella propria meschinità, in homo malus, in homo homini lupus.

Glossa il narratore:

La coscienza morale, che tanti dissennati hanno offeso e molti di più rinnegato, esiste ed è esistita sempre, non è una inven-zione dei filosofi del Quaternario, quando l’anima non era ancora che un progetto confuso. Con l’andare del tempo, più le attività di convivenza e gli scambi genetici, abbiamo finito con il ficcare la coscienza nel colore del sangue e nel sale del-le lacrime, e, come se non bastasse, degli occhi abbiamo fatto una sorta di specchi rivolti all’interno, con il risultato che, spesso, ci mostrano senza riserva ciò che stavamo cercando di negare con la bocca.5

Quegli occhi che, come “specchi rivolti all’interno”, dise-gnando configurazioni narrative in cui si rivela la presenza enun-ciativa dell’io narrante che commenta e interviene – spesso con seria ironia – dicono di uno sguardo di non accettazione del male che pervade l’esistenza delle umane genti e che, nella denuncia del quale, viene a cercare e sollecitare la complicità del lettore. Con questi, infatti, istituisce e modella forme solidali di (com)passione e di pietas che si intessono nella maglia della testualità

5. José Saramago, Cecità, cit., p. 19.

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discorsiva, facendo del narrato nel suo complesso un messaggio non sulla vista o sulla sua assenza, ma sulla possibilità o meno di costituzione delle immagini, che consentano nella comune vi-sione del mondo un terreno di intesa e di intenti tra narratore e lettore.

In tal modo, Saramago in Cecità, come del resto in tutti gli altri romanzi, con i quali intreccia un fitto dialogo intratestua-le e, in ultima analisi contro ogni apparenza, un innegabile con-tinuum narrativo – riesce a mobilitare la coscienza del lettore che, convocato a un ruolo estremamente attivo, quale ideale “co-autore”, nel punto di vista pervenutogli e adottato, si rende (cor)responsabile della “verità” adombrata e trova la giusta sol-lecitazione a mettere in campo uno sguardo altrettanto alienato della realtà, una lettura al rovescio del mondo fenomenico; una “critica violenta allo status quo e alla responsabilità di quelli che passivamente lo accettano”,6 di coloro, insomma che sono “ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono”.7 E ha ragio-ne, quindi, il medico quando afferma: “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo”.8

Si tratta, come lucidamente sottolinea una delle più attente studiose saramaghiane, del princípio de inversão,9 del principio di inversione, che si esplicita in un punto di vista differente che

6. Maria Alzira Seixo, «Os espelho virados para dentro. Configurações narrativas do espaço e do imaginário em Ensaio sobre a Cegueira», in José Saramago: il bagaglio dello scrittore, a cura di Giulia Lanciani, Bulzoni Editore, Roma 1996, p. 197.7. José Saramago, Cecità, cit., p. 310.8. Ibidem.9. Beatriz Berrini, Ler Saramago: o romance, Editorial Caminho, Lisbona 1998, p. 95.

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poggia sulla lei da leitura invertida do real,10 sulla legge della lettura rovesciata del reale, e che sul piano della scrittura e del discorso testuale sospinge il lettore ad una permanente subversão perante o real, de modo de vê-lo e interpretá-lo como se fosse a primeira vez.11

È, questo, in Saramago, un atteggiamento non inedito e che, come detto sopra, viene a porsi come cifra scritturale già a co-minciare dal Manuale di pittura e calligrafia e che trova dapprima, nella rivisitazione della Storia a partire dai romanzi successivi,12 il momento di più intensa e insistita riflessione.

E, a questo proposito, senza inoltrarci in inutili divagazioni, non compatibili del resto con l’economia degli spazi concessi, non possiamo non ricordare che è proprio in relazione alle vi-cende umane, passate e presenti, che egli rivolge il suo sguardo indagatore più critico e leva alta la sua voce fuori dal coro, per rilevare il non visto e il non detto, ricordare gli esclusi, recupe-rarne la dignità di uomini, ricollocare come atto di giustizia le loro fatiche e le loro sofferenze, la loro dignità, al centro di quel cammino in progress, non sempre lineare e diretto, spesso caoti-co, che l’umanità non di rado alla deriva – come nella presente epoca e come ci dicono Cecità e i suoi ultimi romanzi – è chiama-ta a compiere, mossa da un oscuro destino verso un’altrettanto oscura meta.

Tuttavia è il presente che, indagato soprattutto negli ultimi

10. Ivi, p. 93.11. “Un permanente sovvertimento di fronte al reale, in modo da vederlo e interpretarlo come se fosse la prima volta” (Ivi, pp. 95-96). 12. Mi riferisco in special modo a Una terra chiamata Alentejo, Memoriale del convento, L’anno della morte di Ricardo Reis, Storia dell’assedio di Lisbona e, per certi aspetti anche a Il Vangelo secondo Gesù Cristo.

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scritti che con insistenza – quasi con ossessione – ci ha lasciato in eredità e in testimonianza, preoccupa il nostro scrittore.

Gli anni Novanta del secolo scorso, con i loro terribili scon-volgimenti epocali, il loro carico di odio – si pensi, per limitar-ci a un solo, tragico esempio, alle inaudite e devastanti vicende delle guerre fratricide nei Balcani – hanno rovesciato in questo primo decennio del nuovo secolo ondate di intolleranza e di paure, generando cieli corruschi di terrorismo, insani conflitti, squilibri economici e perverse forme di globalizzazione, a cui sono chiamate a pagare, oggi come sempre, le classi più deboli e meno protette.

È, questo, un presente che sconvolge e che getta il cuore nel panico, al quale Saramago di certo non può rimanere insensibile. Sulla Storia ha sempre gettato e ancora getta il suo sguardo in-quieto e non acquiescente. Ma ora è l’oggi che sembra inquietar-lo, che non gli dà tregua, che – nonostante la grave, fatale malat-tia che l’ha colpito – lo sospinge, pur nella fiacchezza ormai del corpo, a far udire forte e sdegnata, vibrante di passione civile, o meglio, di accesa “compassione solidale”, la sua voce di non rassegnazione, che potremmo sintetizzare con il detto evange-lico: Et si omnes… ego numquam,13 anche se tutti (tacessero), io giammai.

Tuttavia il presente non costituisce, come è ovvio, uno iato, una frattura con il passato, anzi, come il narratore è venuto a con-fermare ripetutamente, ne è una continuazione e una continuità. Siamo, insomma, noi tutti, che viviamo la contemporaneità,

13. Matteo, XXVI, 33.

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eredi del tempo, siamo eredi di culture, siamo, per usare una metafora che qualche volta ho usato, una parte di un mare. Il mare è lì, c’è un’onda che cammina in direzione della spiag-gia, che non potrebbe muoversi senza il mare che le sta die-tro, e su questa onda che sta rotolando c’è una piccola linea di spuma che avanza verso la spiaggia, dove andrà a disfarsi. Penso che siamo la spuma che è trasportata nell’onda, che quell’onda è essa stessa sospinta dal mare, che il mare è il Tempo, tutto il Tempo che è alle nostre spalle, tutto il Tempo vissuto, che ci trasporta e ci sospinge. […] Questo può fare di me qualcuno che si preoccupa della Storia, […] che si pre-occupa della relazione con il tempo passato. Ma […] che c’è un’altra preoccupazione mia, che niente ha che vedere con il passato, e che è il destino dell’onda che va a spagliarsi e a morire sulla spiaggia.14

Credo che questa citazione sia folgorante nel messaggio che lascia transitare e che possa chiarire meglio di qualsiasi erme-neusi, pur sapientemente condotta, il senso dello sguardo stra-niato saramaghiano sul presente che attraversa la testualità tutta di Cecità per spagliarsi, come onda sulla spiaggia, su tutti i testi successivi, rendendone perspicua e corretta la lettura. Quegli specchi rivolti all’interno, di cui ci dice Saramago, alla luce di quanto si rivela nel breve brano riportato, acquisiscono ora piena significazione ideologica, venendo a conferire lucida e sapiente referenzialità all’intero suo corpus narrativo che, ora che egli ci ha lasciato, acquisisce un significato e una lucentezza parti-colari e parlerà per i decenni a venire all’intelletto delle future generazioni.

14. José Saramago, A Estatua e a Pedra, a cura di Giancarlo De Pretis, Ed. Dell’Orso, Torino 1999, p.35.

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A noi che l’abbiamo conosciuto e amato continuerà attraver-so la memoria a riempire i nostri cuori. Del resto, come dice la metafora, finiremo tutti come la spuma dell’onda del mare con lo spagliarci sulla spiaggia e finire il nostro tempo. E, come recita il poeta:

Sul verde cupo dell’ampio fiumei circonflessi bianchi dei gabbiani…Sull’anima l’aleggiare inutiledi ciò che non fu, né può essere, e è tutto.15

15. Fernando Pessoa, Il mondo che non vedo, a cura di Piero Ceccucci, BUR, Milano 2009, p. 993.

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L’anno della morte di Ricardo Reis: ironia e parodia come dialettica tra Storia e Finzione di Orietta Abbati

La scelta dell’Anno della morte di Ricardo Reis nell’ampio e stra-ordinario corpus letterario che José Saramago ha lasciato quale preziosa eredità intellettuale a tutti i suoi lettori, nasce non solo dall’evidente e riconosciuto suo alto valore estetico-letterario, ma anche da un ricordo personale che ha segnato l’inizio di una lunga e, per me, feconda e gratificante amicizia,1 durante la quale per oltre vent’anni ho potuto accompagnare da vicino e da un

1. Avevo conosciuto José Saramago nell’aprile del 1985, in occasione di una sua visita all’università di Perugia, dove io muovevo i miei primi passi di aspirante docente uni-versitaria. Lui stesso era ancora quasi del tutto sconosciuto in Italia (la Feltrinelli aveva pubblicato solo da qualche mese il Memoriale del convento). Tuttavia la sua eloquenza affa-bulatrice, unita alla straordinaria disponibilità e capacità di ascoltare gli altri e di mettersi su un piano di annullamento delle differenze, mi avevano dato il coraggio di avvicinarlo e di conversare con lui a più riprese. L’anno successivo, trovandomi a Lisbona – anche per espresso invito dello scrittore – sono andata a fargli visita, vivendo l’esperienza, unica e avvolgente, di rivisitare con lui i luoghi di ambientamento del romanzo in questione. In quel giorno nasceva una lunga e, almeno per me, insperata amicizia, fatta di ammirazione e di stima.

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osservatorio privilegiato, il percorso umano e intellettuale del grande scrittore.

In un tiepido pomeriggio di dicembre, era il 1986, ho potu-to godere dell’onore e dell’emozionante esperienza di “seguire i passi di Ricardo Reis” per le vie e viuzze, piazze e larghi della labirintica Lisbona, accompagnata dal creatore letterario di que-gli spazi trasferiti nelle pagine del romanzo in cui l’eteronimo di Fernando Pessoa deambulava agli inizi del 1936. È stato come rileggere di nuovo la Storia, anzi entrare nella Storia stessa, nar-rata dalla viva voce di Saramago che a ogni passo sembrava an-nullare la distanza tra realtà e finzione, rendendo perspicua e semplice la complessa e sorprendente trama dell’Anno della morte di Ricardo Reis.

In un successivo momento, all’emozione dell’esperienza, si è sovrapposta l’esigenza analitica, la necessità di mettere in luce i meccanismi della fascinazione narrativa di Saramago, certo sol-lecitata e resa più intensa dall’ascolto della sua voce, ma che nel testo comunque si sostanzia in una ben precisa tecnica di scrittu-ra attraverso cui il lettore entra quasi in simbiosi con lui.

Mi riferisco, tra le altre, alla parodia e all’ironia, che del resto costituiscono i tratti strutturali e caratterizzanti dell’intero discorso macrotestuale saramaghiano. Prima di addentrarci in questo ambito, che per complessità e implicazioni necessita di una immersione profonda nelle modalità narrative di Saramago, è necessario tenere presente un ulteriore elemento di caratte-re generale che in questo romanzo, in particolare, rivela tutta la fascinazione di una struttura discorsiva fra le più complesse e articolate, la quale rinvia necessariamente a un progetto e a

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una visione del mondo consegnati alla finzione letteraria. Ossia ogni testo, e questo testo, diviene luogo di riflessione, terreno di confronto tra il possibile, tra l’interrogazione e il dubbio, dove il narratario appare tenacemente trattenuto da una forza centripe-ta che, impedendogli ogni intento evasivo, lo sollecita all’eser-cizio ermeneutico; esercizio non scontato al quale, tuttavia, il narratore-autore viene incontro, attraverso il ricorso a continue intrusioni metanarrative e alla costruzione incessante e sempre vigile di una intima dialettica con lui che, se da una parte può rassicurarlo, dall’altra lo sospinge ad andare oltre, a non fermarsi e saziarsi di presunte certezze. Al lettore, a sua volta, è richiesta competenza, perspicacia e collaborazione. Soprattutto al lettore dell’Anno della morte di Ricardo Reis, dal momento che il testo rivela sin dal titolo tutta la complessità dell’articolazione di una materia narrativa eterogenea e dalle evidenti e codificate conno-tazioni letterarie.

L’anno annunciato dal titolo è il 1936, il cui ruolo travalica la semplice funzione temporale per farsi personaggio, un convitato di pietra speciale, con il quale il protagonista Ricardo Reis è in-dotto a confrontarsi. Questi, infatti, continua a vivere nel mondo saramaghiano in un gioco di inversione in cui l’autore crea la realtà, immaginaria ma verosimile, dell’intreccio romanzesco, a partire dalla finzione pessoana.

Ma il 1936 è un anno cruciale per l’Europa, segnato dall’ini-zio della sanguinosa guerra civile in Spagna, dal consolidamento dello Estado Novo in Portogallo, dall’atteggiamento sempre più minaccioso del nazismo in Germania e del fascismo di Musso-lini in Italia, che sembrano preannunciare la deflagrazione del

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secondo conflitto mondiale. Nel testo saramaghiano il 1936 è presente con tutto il suo peso storico e si pone come sfida al protagonista Ricardo Reis, cantore dell’indifferenza, per il quale come recita paradigmaticamente un verso delle sue odi posto in epigrafe al testo, “Saggio è colui che si contenta dello spettacolo del mondo”.

Saramago getta letteralmente tale “spettacolo del mondo” da-vanti agli occhi del protagonista; pone l’uno di fronte all’altro, due elementi antitetici, il primo per essere pura finzione lettera-ria, di cui conserva le connotazioni caratterizzanti, vale a dire il culto dell’indifferenza, la pratica dell’atarassia, fissate nelle odi; il secondo, emblematizzato nel fatale anno 1936, che non può certo trascorrere nell’indifferenza di chi in quel tempo agisce.

Ora, tenendo in debito conto e dando per acquisita la parti-colare e ormai ampiamente indagata relazione fra Storia e Fin-zione nella narrativa saramaghiana, l’autore in questo romanzo, al fine di condurre in modo perspicuo la rappresentazione di un modo assurdo e inaccettabile di pensare e di agire di fronte alla trivialità di una realtà nazionale e internazionale preoccupante e gravida di conseguenze epocali, ricorre a modalità narrative ma-croscopicamente evidenti, facendo ampio ricorso alla parodia e all’ironia, nonché alla parodia ironica. Si tratta, però di una paro-dia e di una ironia che superano lo schematismo classificatorio di varie definizioni che sostanzialmente riprendono l’impostazione classica, risalente ad Aristotele.

Qui è presente un tipo di parodia che, non limitandosi alla semplice costituzione di un genere/sottogenere, agisce come costante espressiva del linguaggio letterario. Più che presentarsi

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come semplice controcanto, infatti, essa si pone – come teorizza Genette2 – quale procedimento conoscitivo capace di utilizzare materiali eterogenei volti alla costruzione di un risultato auto-nomo e di una più agevole veicolazione del messaggio. Perché la parodia in Saramago agisce proprio sul piano del discorso e, affiancandosi quasi sempre all’ironia, si configura come potente strumento capace di attivare e rimarcare il distanziamento criti-co tra testo parodiato e nuovo testo.

Del resto, neanche l’ironia viene convocata nel suo senso tradizionalmente codificato, di tropos, circoscrivendo il proprio campo d’azione a una parola o a una frase isolata, o al solo feno-meno semantico rappresentato dall’antifrasi.

È attraverso questo circuito virtuoso e virtuale, tracciato nel testo, che il narratore inserisce il suo discorso o i suoi discorsi i quali, come una ragnatela, si diramano in più direzioni.

Certamente quello sulla Storia ha un peso centrale, come d’altronde testimoniano, nel corso della narrazione, i riferimen-ti, costanti e disseminati sistematicamente in quasi tutte le oltre quattrocento pagine del romanzo, alla situazione politica nazio-nale ed europea e alle vicende del 1936.

La presenza della Storia, in effetti, accompagna e impregna di sé la finzione letteraria, ubbidendo alle sue regole. Essa appare essenzialmente relazionata alla figura del protagonista Ricardo Reis, ma anche a quella degli altri personaggi secondari, sui quali un narratore onnisciente esercita la propria autorità, spesso de-legata, ma non in modo neutro, anche ad altre fonti di informa-

2. Cfr. Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1997, pp. 3-54.

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zione, come stampa e radio.Così la Storia si affaccia nella vita del protagonista, apparen-

temente senza seguire un percorso lineare ma assecondando, piuttosto, la casualità delle sue azioni, pur contrapponendo-si costantemente al mondo mentale di Ricardo Reis, al fine di provocare un momento di rottura, di riflessione, di presa d’atto della realtà, nella vita informe e statica del poeta per il quale, parafrasando uno dei suoi più conosciuti componimenti,3 è più importante la finta battaglia combattuta sulla scacchiera da due impassibili giocatori, che la reale guerra e la morte violenta di persone innocenti.

Alla battaglia fittizia giocata a scacchi da Ricardo Reis, Sara-mago contrappone, mettendola in scena – con il suo sguardo, ormai sempre più preoccupato – la scacchiera reale della Storia dell’Europa del 1936, sulla quale si stanno definendo drammati-ci destini per i popoli della penisola iberica.

Fra i diversi contesti, storico-politici e sociali, presenti nella tessitura del testo, quello che precede e accompagna le prime fasi della guerra civile in Spagna assume un rilievo assiologico, divenendo il perno del discorso saramaghiano, attraverso il quale il narratore orienta ideologicamente l’interpretazione e la rifles-sione sui fatti e sulla situazione nazionale portoghese, come sul più vasto destino dell’Europa. Il riverbero, insomma, degli acca-dimenti della convulsa Spagna costituisce il pretesto per costru-ire un discorso intorno alla propria realtà di tipo pedagogico.

Le notizie, provenienti dalla vicina Spagna, transitano in prima istanza attraverso la stampa, che Ricardo Reis legge di-

3. Si tratta della poesia I giocatori di scacchi di Ricardo Reis.

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strattamente, più per far trascorrere il tempo che per una reale esigenza di informarsi sui fatti del mondo.

Il narratore, tuttavia, orienta, suggerisce la lettura, creando antifrasticamente un effetto di contrasto tra la ricezione passi-va generata dall’indifferenza di Ricardo Reis e il peso della no-tizia che dovrebbe, invece, mettere sull’avviso il lettore. Basta leggere,come rapido esempio, il seguente brano del testo di pro-paganda del regime, intitolato La Cospirazione, il cui oscuro auto-re enfatizza e mistifica le valutazioni di ordine politico e sociale del Portogallo da parte della stampa dei paesi vicini:

La situazione del paese ha suscitato i commenti entusiastici della stampa estera […] il nome del Portogallo e degli statisti che lo governano sono citati in tutto il mondo, la dottrina politica istituita fra noi è motivo di studio in altri Paesi, si può affermare che il mondo ci guarda con simpatia e ammi-razione, i grandi periodici di fama internazionale ci mandano i loro inviati speciali al fine di raccogliere elementi per co-noscere il segreto della nostra vittoria. Il capo del governo, infine, è strappato alla sua pertinace umiltà […] e proiettato nel mondo dalle colonne dei servizi speciali, la sua figura rag-giunge i vertici e le sue dottrine si trasformano in apostolati.4

Subito dopo, appare inevitabile e folgorante il commento ironico del narratore:

Alla fin fine non valeva la pena che Dio ci cacciasse dal suo Paradiso se in così poco tempo l’abbiamo riconquistato. 5

Seguito persino dal giudizio lapidario di Ricardo Reis, che

4. José Saramago, Romanzi e racconti, vol. I, 1977-1984, a cura di P. Collo, Mondadori, Milano 1999, p. 1286.5. Ivi, p. 1287.

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esclama: “Che idiozia”, seppure dettato da una sensazione di tedio.

Insomma, la parodia ironica informa significativamente mo-dalità di scrittura e discorso narrativo, consentendo al soggetto dell’enunciazione di mescolare con sapienza tanti ed eterogenei elementi, al punto da celare, e con forme non rare di giocoso divertissement, gli scarti tra testo e intertesto, che in questo ro-manzo si elevano in una serrata e inattesa dialettica tra Storia e Finzione, attraverso cui José Saramago inscena un confronto ar-guto ed esteticamente straordinario con il maggiore poeta por-toghese del XX secolo.

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Il gioco delle partidi Matteo Colluradi Gero Micciché

Scrivere biografie non è mai stata operazione semplice. Scri-vere una biografia su un premio Nobel come Luigi Pirandello, su cui tanto si è detto, senza cadere nel banale o impantanarsi nello stagno dei luoghi comuni e delle ripetizioni è operazione ancora più ardua ai giorni nostri.

Ma Matteo Collura, scrittore e giornalista del “Corriere della sera”, non è certo un novizio in quanto a narrare vite di scrittori. Dopo Il maestro di Regalpetra, in cui si addentrava nella vita di un siciliano illustre come Leonardo Sciascia, eccolo adesso cimentarsi col più noto e tradotto dei suoi concittadini.

C’è da rimarcare immediatamente la bravura di Collura nel resoconto biografico per la capacità di addentrarsi nel profondo lato umano dello scrittore agrigentino, di sviscerarlo nelle sue an-tinomie, nelle problematiche contraddizioni di uomo, portando avanti il discorso su Pirandello “uomo” in parallelo a quello sul “personaggio”.

Saltano all’occhio sin dalle prime pagine di questo saggio con-dotto con uno stile narrativo preciso, calibrato, aggraziato, mai

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eccessivo, due astratti protagonisti di quest’opera: la solitudine e il senso perpetuo d’indomita infelicità che accompagnarono Pi-randello in ogni momento della vita, come chiaramente si evince dalle lettere fra Marta Abba, sua musa e amore inappagato, e il maestro; una solitudine a volte conseguente al contesto sociale e al suo sentirsi inadeguato ad esso, altre volte fortemente cercata (che è forse un’altra maniera di manifestarsi del senso di inadeguatezza che certi artisti hanno nei confronti del mondo, il fuggire da una realtà che non si accetta e in qualche modo rifiutarla).

Vari gli aspetti messi in luce da Collura finora poco presi in considerazione o diversamente valutati dai precedenti biografi. Dal rapporto con le donne (la moglie Antonietta, la figlia Liet-ta, la sorella Lina, oltre ovviamente alla preponderante Marta Abba), alle mistificazioni nei confronti dei parenti, alle ambizioni di successo nel periodo americano, all’idiosincrasia verso l’allora nascente cinematografo, all’ipocrisia borghese al quale neanche il maestro riuscì culturalmente a sottrarsi, fino al rapporto col fa-scismo, sul quale Collura, a differenza di molti che prima di lui hanno trattato vita e visione del mondo pirandelliana, non esita a prendere posizione ferma e per niente giustificazionista riguardo il sostegno al partito di Mussolini (tesseratosi nel 1924, l’anno più “nero” del fascismo), pur conferendo adeguata dimensione a quel-lo che era l’impegno politico di Luigi Pirandello, in verità anche lì più solidale all’idea che all’attività di partito; e probabilmente anche interessato al progetto di un Teatro Nazionale di prosa finan-ziato dal governo fascista.

Collura prende in mano l’opera pirandelliana e la scardina con l’apriscatole della nota biografica, prendendo del maestro lettere,

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appunti, diari, note e comparando, rileggendone il lavoro di let-terato attraverso la lente d’ingrandimento della vita di colui che della stessa esistenza e delle sue contraddizioni ha fatto la propria opera. Del resto, Pirandello è probabilmente uno di quegli auto-ri dei quali si potrebbe dire che abbiano scritto un’unica grande opera, divisa in tanti scritti come effluvi di un unico sistema di pensiero, che talvolta si è pure contraddetto, risultando anche in questo “umano troppo umano”.

Non interessa a Collura un’esegesi astratta, filosofica o psico-logica dell’opera pirandelliana: ne Il gioco delle parti è preponde-rante l’indagine dell’uomo e della sua vita attraverso le pagine che ci ha lasciato e che, a conti fatti, sono la sua stessa vita, come lo stesso autore scrive a Crémieux: “Voi desiderate qualche mia nota biografica e io mi trovo assai imbarazzato a fornirvela e questo, mio caro amico, per la semplice ragione che ho dimenticato di vivere, l’ho dimenticato al punto da non saper dir niente, pro-prio niente, della mia vita. Potrei forse dirvi che non la vivo, ma che la scrivo. Di modo che se voi vorrete sapere qualche cosa di me, potrei rispondervi: aspettate un po’, mio caro Crémieux, che mi rivolga ai miei personaggi. Forse saranno in grado di fornirmi qualche informazione su me stesso”.

Non è l’ennesima apologia di Pirandello, questo Gioco delle parti: il titolo dice tutto del dualismo, anzi del pluralismo d’ani-me che dentro Pirandello albergava e proliferava. E il sottotito-lo è più che esaustivo e appropriato nel definire la vita borghe-se di quest’uomo come “straordinaria”: straordinaria perché ordinariamente e profondamente umana nel suo essere fragile e contraddittoria.

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Il martirio di una nazionedi Robert Fiskdi Andrea Coccia

Si presume che la lingua debba esprimere i pensieri, libe-rare le idee, renderci liberi. Ma i vicedirettori e le agenzie di stampa usavano quelle parole come pigri e insignificanti sostituti. La lingua dei cliché non ci aiutava a liberare la mente. Le parole ci imprigionavano.

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L’odore dei cadaveri che emergono dalle macerie di Shatila, il ronzio delle mosche, il sibilo dei colpi di mortaio, i boati dei jet israeliani che sfrecciano su Beirut. E poi le voci, da quelle dei protagonisti politici – Yasser Arafat, Bashir Gemayel, Walid Jum-blatt, Saad Haddad e molti altri – a quelle dei protagonisti sul campo – i miliziani di Amal, di Hezbollah, dell’Olp, delle falangi maronite, i soldati siriani e israeliani – fino a quelle dei civili, vittime sacrificali del carro armato della Storia, che in Libano ha schiacciato sotto i propri cingoli decine di migliaia di innocenti. Questi sono solo alcuni degli ingredienti che fanno del Martirio di una nazione un libro potente, fatto di acute analisi politiche e di vivide descrizioni degli agghiaccianti risultati che queste poli-tiche si sono lasciate dietro, un libro di riferimento per la scrit-tura giornalistica, che riesce nell’arduo obiettivo di dipanare la matassa delle dinamiche politiche, religiose, militari e sociali che hanno straziato il Libano negli ultimi 40 anni.

Il ritratto del Libano che emerge dal racconto di Fisk, che dal 1976 vive a Beirut come inviato prima del “Times” poi dell’“Indi-

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pendent”, rispecchia la complessità di questa terra, la sua natura di porta tra Oriente e Occidente ma, soprattutto, la sua essenza di campo da gioco ad uso di battaglie che debordano dai suoi brevilinei confini nazionali: battaglie entro cui innumerevoli pe-dine multicolori si muovono, scambiandosi di posto, mischian-dosi, rompendo e rinnovando alleanze e inimicizie, lasciandosi dietro – ed è questa la terribile costante – devastazione, morte e miseria.

Nelle strade di Beirut ridotte in macerie da quasi vent’anni di guerra civile, Fisk, insieme ai suoi colleghi, sfreccia in macchina schivando colpi di mortaio e tentativi di rapimenti, correndo da una parte all’altra della città e del Paese, inseguendo massacri, scontri a fuoco e assedi, parlando con la popolazione, con i mi-liziani e con i soldati, rischiando la vita per restare fedele alla propria missione ed essere “testimone della storia”.

Nella sua breve introduzione, Fisk propone una similitudi-ne che sembrerebbe rendere bene, ai nostri occhi appisolati di spettatori della Storia, la complessità del lavoro del giornalista in una realtà di guerra: “I giornalisti siedono ai margini della storia come i vulcanologi possono inerpicarsi fino alla bocca di un cratere fumante cercando di guardarvi dentro, allungando il collo per cercare di scorgere, oltre il bordo friabile e attraverso il fumo e la cenere, quello che avviene all’interno”.

In realtà, inoltrandosi nelle quasi 800 pagine del reportage, si scopre che l’immagine evocata da Fisk non è completamente esauriente e che forse, peccando un poco di lirismo, risulta su-perficiale. Sì, perché a differenza di un vulcanologo che fissa il fumo cercando di intravedere qualcosa, nella realtà Robert Fisk,

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come molti altri suoi colleghi, non si accontenta di contemplare il fumo, di restare affacciato alla bocca del cratere, al contrario ci si immerge completamente, muovendosi nel denso fumo fino ad avvicinarsi a tal punto al nocciolo ustionante della questione da scoprirne le dinamiche profonde e individuarne il senso.

Uno dei pilastri della sua idea di giornalismo è una sorta di fedeltà religiosa al contatto diretto con le fonti, una religione che sostituisce a un dio unico potente dispensatore di univoche verità – dalle cui labbra pendono non pochi pseudogiornalisti dei nostri giorni – una multiforme schiera di infinite divinità mi-nuscole, ognuna portatrice della propria piccola ma ineluttabile verità, del proprio punto di vista. Ed è proprio questa assoluta fedeltà alla conoscenza diretta dei fatti, delle dinamiche e delle persone che fa della carriera di Fisk, e di questo libro in partico-lare, una lunga e preziosa lezione di giornalismo, una di quelle letture di cui sarà essenziale ricordarsi tra qualche anno, quando il declino dell’arte del riportare i fatti, in atto da ormai qual-che decennio, toccherà il fondo, quando il principio di onestà e la fedeltà alle fonti dirette saranno concetti talmente annichiliti che il semplice nominarli riporterà gli ascoltatori a quella strana sensazione che si prova la mattina, quando, destati nel pieno di un vivido sogno, ci si ricorda a mala pena qualche timido detta-glio, poche e confuse frazioni oniriche sufficienti soltanto a darci l’impressione di aver dimenticato qualcosa di importante.

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Gli incendiatidi Antonio Morescodi Michele Bertinotti

Romanzo d’amore, fantastico, spy-story, Gli incendiati di Antonio Moresco è un libro di difficile definizione. Si parte con un uomo profondamente solo, che si ritrova a fuggire da una collina in fiamme, e si finisce nel bel mezzo di una battaglia tra l’esercito dei morti in rivolta contro i vivi. In mezzo, una donna dai denti d’oro succube di un cacciatore di schiavi russo a capo di un’as-sociazione mafiosa, sparatorie da film hollywoodiano, fughe nell’Est Europa. La qualità principale del romanzo è appunto questa: di non poter essere definito, di aprirsi a molteplici in-terpretazioni sulla base di una trama estremamente romanzesca, come non si era mai incontrata in Moresco.

Nonostante questa decisa svolta verso una narrativa d’azione, i caratteri del suo stile possono essere rintracciati anche negli Incendiati: quell’attenzione al bios, alla materia, al corpo, che è una delle più evidenti peculiarità della letteratura di Moresco. Il sesso, il rapporto fisico con la donna, ha un significato che trava-lica la fisicità, la sua minuziosa descrizione: è il punto di partenza per una sorta di rigenerazione, di ribellione; è il sintomo della

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rivolta dei due anonimi protagonisti a quel sistema mafioso che aveva imprigionato la donna e che regge le sorti di gran parte dell’umanità. Ed è un modo di concepire il sesso estremamente diverso da quello, violento, praticato dai sodali del cacciatore di schiavi.

Antonio Moresco fa propria senza dubbio l’eredità del Sade pasoliniano: il sesso violento come simbolo del potere. Ma c’è un altro riferimento che mi pare di avere individuato, e che dà l’idea di come, attraverso una prosa romanzesca, si possano apri-re mondi letterari. È impressionante, infatti, la somiglianza tra le linee generali degli Incendiati e quelle delle Notti bianche di Dostoevskij. Non so se Moresco abbia letto questo breve roman-zo, ma i due protagonisti, almeno all’inizio, si ricordano mol-tissimo. Il sognatore delle Notti bianche è un uomo che si sente terribilmente solo, proprio come il protagonista del romanzo di Moresco. E come lui, sente che la sua solitudine è aggravata dallo svuotamento della città in prossimità dell’estate. E anche lui, infine, in questa situazione narrativo/esistenziale, è destinato a incontrare una donna, una sconosciuta misteriosa e affascinante.

Da questo momento in poi le due storie si separano, anche se il nucleo del romanzo rimane simile: la donna – la Nasten’ka di Dostoevskij e quella, anonima, degli Incendiati – ha un pote-re salvifico e, nel caso di Moresco, lo libera dalla schiavitù di se stesso. La differenza sostanziale tra i due romanzi è che quel “minuto intero di beatitudine” di dostoevskijana memoria – l’il-lusione della felicità – si realizza veramente in Moresco, anche se a costo della vita.

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Guida pratica al sabotaggio dell’esistenzadi Roberto Mandracchiadi Gero Micciché

È proprio il caso di dirlo: su certi autori El Aleph ci ha sempre visto lungo. Era il novembre 2007 quando sul numero 7 veniva pubblicato il racconto Le aste di Roberto Mandracchia.

A tre anni esatti di distanza ci troviamo tra le mani il suo primo romanzo e quel che viene da chiedersi in questi casi è da dove cominciare. Sempre difficili, gli incipit, quando si deve dissertare su qualcosa.

Ma per questa Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza è tutto più semplice: questo è un romanzo che non inizia mai.

Basta confrontare la scena d’esordio, in cui l’anonimo pro-tagonista spegne la sigaretta sulla spalla di Marta, e confrontarlo col resto del libro per rendersi conto che si è di fronte soltanto a uno dei brandelli strappati con violenza dal corpo esistenziale del narrato. Non è un gigante che va crescendo man mano che cammina, questa storia, non ha la pretesa di formarsi di pagina in pagina per poi dar vita a una storia unitaria: Mandracchia disse-ziona il cadavere del vissuto adolescenziale universale scegliendo con precisione da medico legale (un po’ come la intendeva Hip-

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polyte Taine) il taglio da tracciare. Se non fosse per i richiami alla prigionia che condurrà il lettore sino all’inevitabile epilogo, si potrebbe avere proprio la sensazione di trovarsi dinanzi ai cocci sparsi di un vaso di cristallo scaraventato violentemente contro il muro.

Le microstorie narrate pagina per pagina sono arti espunti e poi scagliati con veemenza nel gorgo biancastro della carta sotto la lente d’ingrandimento del nichilismo, dell’iperbole negativi-sta, del cinismo estremo e senza vie di mezzo.

Mandracchia dà vita a un caotico Grand Guignol dell’esistenza attraverso gli occhi rabbiosi e sfibrati di un io narrante che fa-gocita e vomita il mondo circostante dopo la centrifuga. I mali della generazione y (passatemi la semplicistica dicitura sociolo-gica) escono allo scoperto dalla prosa scarnita ed essenziale sulla quale galoppa il romanzo in piccole frasi lapidarie del tipo: “Io continuo a rigettare tutto il niente che ho dentro”.

Tutto questo si svolge sul palcoscenico di una Agrigento tra-vestita da Garogenti, che è come un girone infernale in cui s’in-nesta il girotondo masochistico dei tre protagonisti principali, l’io narrante, Marta, figura cinica e quasi stirneriana della quale il protagonista è innamorato, e Gero. Garogenti è il ricettacolo di tutti i mali, la pista da ballo sulla quale si consuma l’esiziale fandango delle finzioni umane, dalle amicizie evanescenti e insin-cere ai rapporti matrimoniali marciti nell’ipocrisia del mantene-re le apparenze. C’è del pirandelliano (e forse era inevitabile) nel gioco di maschere che tira le fila dei personaggi del romanzo: ma quanto di pirandelliano c’è in Guida pratica al sabotaggio dell’esi-stenza viene letteralmente asfaltato dal caterpillar del nichilismo,

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del torbidume che anima queste laide figure prive di ideali fermi o sentimenti positivi, o fin troppo disilluse per lasciarvi spazio. Nulla si salva, nulla ha possibilità di redenzione: né la lotta poli-tico-ideologica, né i valori tradizionali, né i sentimenti puri, né lo spirito. Tanto meno Dio: “Mia madre dice sempre che tutto il mondo, compresi noi patetici individui, è frutto di un disegno intelligente del Creatore. Sarei curioso di conoscere il quoziente intellettivo di Dio. Davvero”.

La narrazione si dipana in un frammischiarsi dei piani tem-porali e spaziali, e il rischio è grosso per un autore così giovane: ciò nonostante, Mandracchia riesce ad alternare con sapienza le parti di cui si compone il romanzo, che si succedono l’una all’al-tra come sequenze cinematografiche, divise da dissolvenze poli-cromatiche, repentine interruzioni della dinamica degli eventi e intermezzate da considerazioni nette e lapidarie su Garogenti o da aneddoti adolescenziali ambientati tra la strada e il liceo. Non mancano le digressioni oniriche a rendere ancora più ossessivo il senso di vuoto e di tormento che trascolora le cose: i sogni sono spesso, in letteratura, strumenti atti a caricare di valenza simbo-lica il narrato, e in questo romanzo il loro uso non assume valen-za diversa: “Vedo in sogno tre scimmiette e tutte e tre hanno un volto umano. Io non parlo; Marta non sente; Gero non vede”.

Mandracchia qui sintetizza la fragilità delle relazioni umane intrecciando l’adolescenza con l’indefettibile sicilianità dal quale lui stesso, agrigentino di nascita e formazione, non può esimersi.

Questa commistione dell’elemento “umano” con quello me-ramente “siciliano” si manifesta in tutta la sua potenza in un passo in cui il protagonista e Marta sono seduti sul ramo di un ulivo sa-

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raceno e lei racconta l’omicidio dei genitori da parte della mafia: “Le torsioni dell’albero, quegli spasmi che si accumulano da de-cenni, mi sembrano riverberare l’imbarazzante scattare a vuoto delle mie azioni. Il dolore del fallimento incessante. L’angoscia di non cambiare nulla, proprio nulla, di ciò che mi ha sempre as-sediato. E io ero sempre uguale a me stesso con un piede dentro una scatola che ormai stava andando in fiamme. Ero il calco di un calco di un calco di un calco di me stesso. Ero come una culla che pur muovendosi restava inchiodata al suolo”.

L’ulivo saraceno, arbusto tipico del paesaggio siculo, diviene simbolo catalizzatore di tutti gli elementi negativi che gravano sull’anima degli umani: il dolore tortuoso e inespresso, l’immu-tabilità delle cose, l’impotenza di fronte agli eventi, l’irredimi-bilità dell’essere di fronte al disegno prepotente dell’esistenza.

Il tutto condotto con ritmo musicale, per certi versi jazzisti-co, con leitmotiv sapientemente innestati (l’eterno ritorno su Garogenti, il mantrico ripetersi di formule come “quando dico noi intendo io e Marta”) come fossero standard dai quali dare il “La” all’improvvisazione.

Con una lingua scarna e ridotta ai minimi termini, Mandrac-chia dà vita a un romanzo recrudescente, a una narrazione che azzanna di episodio in episodio ( come già si potrebbe desumere dall’epigrafe di Jack London: non a caso il sottotitolo dell’opera doveva essere proprio “romanzo a morsi”), a una storia cruda e viscerale le cui pagine trasudano budella e trachee e umori inter-ni che ribollono e si fanno parola come miasmi contaminatori.

E poco importa se il finale è per certi versi fin troppo preve-dibile o scontato, perché il romanzo centra l’obiettivo di resti-

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tuire al lettore nella maniera più vivida e cruda il ritratto di una generazione ridotta al nulla – ancor prima di essersi inverata nel tessuto intricato e fatiscente dell’esistenza, destinata a rimanere irrealizzata: “Siamo assenze rimandate. Ecco cosa siamo”.

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Vedo l’alba sui tetti che mi redarguisce e il tuo pensiero che non m’abbandona.Sono quasi due settimane che non ci sentiamo, quasi due settimane dopo la resa.Il porro che hai condotto in necrosi, è andato, senza benefici evidenti; lascia solo un orrida metafora.Ho deciso di provare a trattenere le lacrime e le chiamate, ma non escludo di poter cadere in fallo da un momento all’altro, del resto dopo mesi a dormire di fianco a te, l’assenza mi sommerge.So che ti dispiace, ma io mi ammalo sempre. Non do attenzione alla caba-la e gioco tutto su un ambo impossibile, gioco 123456 al superenalotto.Mi manchi (retorico).Mi manchi (è vero).Manca alla mia bocca la rugiada delle tue gambe, alle mie mani i tuoi seni enormi.Mi manca tutto quello che non so di te, tutto quello che non saprò.Mi dici che tu non sei come t’ho conosciuta, che ti dispiace.Dispiace anche a me, e forse un’altra non mi sarebbe neanche piaciuta.Non ci sono né colpe né colpevoli, né vittime né carnefici. Ci siamo Io e Te.Io, che vado come un treno monorotaia...Tu, che spero cerchi la via verso te stessa...Spero di rifare l’amore con te almeno tre volte, meglio trentatré.Intanto provo a non cadere in tentazione, mantengo l’ascetismo e la misantropia;tu non entrare nel mio campo visivo.Ciao dottoressa B.Un pezzo di cuore resta a te, fai attenzione.

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Direttore responsabileFederico Viganò

RedazioneMichele Bertinotti, Andrea Coccia,

Alessio Cupardo, Gero Micciché

Consulente di RedazioneBarbara Gizzi

CollaboratoriOrietta Abbati, AkAb, Astrit Cani, Piero Ceccucci, Idolo Hoxhvogli, Pietro Pancamo, Arianna Vairo

Disegno in copertina di: AkAbIllustrazioni di: Arianna Vairo

Testata Calligrafica: Greta BizzottoHeartfelt Graphic Design Studio - www.heartfelt.itProgetto grafico: Stefano Rossi - [email protected]: Andrea Coccia e Michele Bertinotti

Stampa serigrafica delle copertine: Stefano Rossi

Soci sostenitori:Paolo Coccia, Giorgio Fumagalli,

Daniele Magni, Marco Curto, Amedeo Bruccoleri (Libreria Capalunga)

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Contatti:[email protected]

francotirature.blogspot.comwww.elaleph.it

finito di stampare nel mese di novembre 2010 presso “La Meridiana 2” - Società Cooperativa Sociale

Via E. Curiel 46 20050 Mezzago (MI)

copertina stampata a mano in 500 esemplarisu carta Cordenons dalì 200gr.

presso il “Laboratorio Serigrafico Legno” di Cermenate (CO)

Salvo diverse indicazioni, il contenuto di El Aleph (immagini e testi)è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons - creativecommons.org