EDIZIONI COFINE - Poeti del Parco
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Finito di stamparemarzo 2004
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QUADERNI del Centro di documentazione della Poesia dialettale âVincenzo Scarpellinoâ
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40° ANNIVERSARIO1964-2004
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POETI DIALETTALI ABRUZZESI(da Luciani ai giorni nostri)
Allâinizio di questa rassegna antologica, ci pare opportuno precisare cheper noi il termine dialettale non ha nulla di riduttivo o, peggio, di spregia-tivo. Per noi il dialetto Ăš uno strumento linguistico che assurge a dignitĂ dilingua quando si fa compiuta espressione, cioĂš poesia. E qui parleremo,appunto, di poeti e di poesia.
Allâindomani dellâunitĂ dâItalia anche in Abruzzo si cominciĂČ a sentirelâesigenza di una ricognizione, piĂč diretta e meno retorica, della realtĂ regionale. Dietro la spinta del positivismo e del verismo, sâintrapreserostudi socio-economico-finanziari e fiorirono ricerche demologico-lingui-stiche ad opera soprattutto di Gennaro Finamore e di Antonio De Nino.Resisteva ancora, perĂČ, nella cultura dominante del tempo, il pregiudiziosecondo cui il dialetto, considerato strumento rozzo della mera praticitĂ ,fosse incapace di oltrepassare il ristretto orizzonte della cultura popolare.«Non mancavano neanche presso noi dei poeti in vernacolo» dirĂ piĂč tar-di Cesare De Titta [De Titta 1930] «ma questi, nel loro angusto mondopaesano, si limitavano agli scherzi, agli strambotti, alle satire, al genereinsomma mordace e piccante».
Tra i poeti di questo periodo ricordiamo Vincenzo Ranalli [Moretti2003], Fedele Romani [Allodoli 1920 e Tosti 1925], Luigi Brigiotti [Tosti1925; Campana 1914; Moretti 2003], Giuseppe Paparella [Finamore 1903;Verlengia 1956], Giustino e Camillo Razionale [Moretti 2003], ErmindoCampana [Giammarco 1969; Moretti 2003] e, soprattutto, Luigi Anelli[Giammarco 1969] per lâautenticitĂ del dialetto ed il nerbo vigoroso dellostile.
Le Stelle lucende (1913) di Alfredo Luciani operarono la prima svolta.Se ne avvide immediatamente Ermindo Campana, poeta palenese: «Que-sta poesia del Luciani, non soltanto per i suoi caratteri esteriori, ma piĂč an-cora per la sua intima essenza, mi pare si stacchi nettamente da quelladegli altri poeti di Abruzzo e solo non possa vivere e cantare e spasimare,se non nellâardore del suo cielo e nellâaltezza della sua solitudine». ConLuciani, in effetti, le tematiche si moltiplicano, la prospettiva poetica sislarga. Nel grande affresco della vita regionale trovano posto gli aspetti
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piĂč umili della quotidianitĂ e, insieme, le piĂč pressanti questioni morali ereligiose, felicemente drammatizzate nella plasticitĂ dellâipotiposi, al disotto della quale, perĂČ, di volta in volta, non Ăš difficile scorgere una dolen-te e sincera solidarietĂ umana oppure una vena di sorridente ironia; viritrovi le discussioni politiche e sociali del periodo precedente alla GrandeGuerra; câĂš la raffinata parafrasi del canto popolare e câĂš, ancora, un dupli-ce atteggiamento: da una parte le riserve ed il distacco con cui il colto bor-ghese guarda a certe attardate convenzioni sociali del borgo, dallâaltra lâin-quieto presentimento che lâavanzante modernitĂ possa metterne in crisi lacompagine antropologica.
Per converso, non Ăš propensa questa poesia ad unâapprofondita e costan-te introspezione psicologica; non conosce, perciĂČ, una vera e propriadimensione lirica. Per effetto, forse, della perdurante lezione veristica, ilsentimento dellâautore tende a relativizzarsi nella dialettica interpersonaledella scena rappresentata, a sciogliersi nel tessuto della sensibilitĂ colletti-va. Si capisce, allora, perchĂ© tanta parte della pagina lucianesca porti lostampo del registro narrativo, sempre sorretto da una fluida e scoppiettan-te vivacitĂ linguistica, da un verso che, pur nelle varie forme chiuse, attin-ge con la massima naturalezza alle infinite possibilitĂ del dialetto, certa-mente nobilitato ma pur sempre reso nella sua sostanziale identitĂ : maquestâultimo giudizio vale per la prima edizione di Stelle lucende, cioĂšquella del 1913. PerchĂ© câĂš il risvolto della medaglia. Si Ăš detto cheLuciani sia stato il primo a forgiare lo strumento di una koinĂ© abruzzese.
Vediamo, allora, i termini di questa operazione. Nella seconda edizione,che significativamente si chiamerĂ Stelle lucente (1921), si abbandonano iresidui della trascrizione fonetica, sostenuta dal Finamore, per abbraccia-re quella etimologica, caldeggiata dal De Titta dal â19 in poi. SicchĂ©, adesempio, le consonanti sonore successive a âmâ ed ânâ vengono norma-lizzate in sorde (nem bozze > nen pozze); si elimina il raddoppio della con-sonante iniziale nei casi in cui Ăš richiesto anche in italiano (se mme more> se me more). E fin qui siamo ancora entro lâambito della grafia. Le cosesi complicano quando il poeta comincia ad eliminare la metafonesi, sianominale, sia verbale (benditte li suspire > bendette li suspire; siĂ© > sa =sai; li viende > li vĂšnte; alliende > allente, ecc.): il che suona arbitrario adun ben costrutto orecchio abruzzese. La bella forma del condizionale(vulĂ©re) si adegua a quella del congiuntivo (vulĂ©sse) dellâarea chietino-frentana, verso cui tende un poâ tutta lâimpalcatura lucianesca. Ma nondobbiamo perĂČ passare sotto silenzio lâaltra spinta â quantitativamentenotevole â verso la normalizzazione italianizzante (ugni > ogni; tende >
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tinte; puâ > poi; cocce > teste; dejune > deggiune, ecc.). SicchĂ©, in defini-tiva, tale costruzione linguistica pare a noi piuttosto un idioletto che nonuna riuscita koinĂ©, situandosi essa a mezza strada tra una parziale regiona-lizzazione ed una consistente omologazione alla lingua nazionale.
La rivoluzione lirica, nel senso pieno del termine, si ebbe con la produ-zione dialettale di Cesare De Titta, che inizia con Canzoni abruzzesi(1919) e Nuove canzoni abruzzesi (1923) per proseguire poi con GentedâAbruzzo (1923), Terra dâoro (1925) ed Acqua, foco e vento (1929).
Da piĂč parti si Ăš insistito sulla tesi di un De Titta pascoliano.Bisognerebbe riflettere, perĂČ, sul fatto che la poetica di questo autore Ăš giĂ il lievito ispiratore di Elegie lontane, redatte tra il 1878 e il 1881, e diJuvenilia, composte tra lâ80 e lâ83. Certo, sono opere giovanili ed, in uncerto senso, appartengono alla preistoria poetica del Nostro; e, tuttavia, vicompaiono motivi ed intonazioni che ricorreranno, poi, con piĂč levigatafattura nelle opere maggiori. La prima opera del Pascoli, invece, Myricae,Ăš del 1891: non si vede, quindi, come il De Titta abbia potuto conformar-si ad uno stile ancora di lĂ da venire. Ma, a parte questo rilievo cronologi-co, la sensibilitĂ detittiana non inclina per nulla alla morbidezza affettuo-sa del fanciullino, ma si esprime sempre con sorvegliata virilitĂ , anche neimomenti di maggiore sconforto.
Eâ nel De poesi che il nostro poeta traccia le linee della sua stessa poe-tica. Ne riportiamo alcuni passi tratti dalla traduzione dello stesso autore.
Da vuote immagini appare ora illusa la maggior parte / dei poeti che vanno dietro acose strane // e godono addensare figure su figure per attirare / gli animi presi dainsolito stupore. // Questa non Ăš per me poesia o Ăš una poesia falsa, / sia che fluiscain versi liberi, sia che suoni in versi misurati: // questa non Ăš che apparenza, vanosuono di nomi, avvicendarsi / di larve spettrali e sfumante vaporositĂ . // Eâ qualcosadi vivo, non lume di inane specchio, / il fantasma che nella sua mente crea il poeta.// Il fantasma sorgendo non riluce come immagine dellâoggetto, / ma ti vien sotto gliocchi come lâoggetto stesso. [...] Sorge il fantasma dal cuor del poeta, nĂ© la poesia/ ti Ăš dâun tratto innanzi nella sua forma perfetta. // Il lampo rifulse e fu coperto dal-le tenebre, / tornĂČ a rifulgere e sparĂŹ di nuovo: // or luce attraverso lâombra e orombra attraverso la luce, / il fantasma appare e scompare; // ma invano fugge e cer-ca di nascondersi: / lâarte lo insegue se fugge, lo ritrova se si cela, // lâarte, rimossitutti i veli e tutte le tenebre, lo fa / splendere cosĂŹ che non possa piĂč coprirsi. // [...]Lâarte, paziente lavor di lima, come dice Orazio, / Ăš lo strumento del nobile artefice.// Ma non câĂš artefice se non câĂš fantasma: / se questo manca, a nulla ti giova lamano sapiente. // Stimi degni del nome di autori e di artefici / quelli che incrostandâoro lâavorio e decorano // di figure e di gemme un monile, se il loro avorio nondiviene / vivente, se il loro oro non diviene animato? // Io rimango freddo innanzi apitture e statue / che non rivelino i moti e il lume dellâanima. // [...] Ma come sul-
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la terra non viviamo una sola vita, / ma viviamo tante vite quante ci attorniano eimpressionano // con i loro influssi, e viviamo quelle vite che, come si dice, / portia-mo in noi dai nostri avi, // e viviamo molte altre vite, di cui sâignora lâorigine / e chepiĂč addentro ci sogliono agitare, // cosĂŹ mille vite di uomini e di cose rivivono nelpetto del poeta / e mille vite cantano nel suo canto, // e queste vite innumerevoli sifondono insieme in una sola / vita che tu chiami mondo del poeta o poema. // Quelloscrittore piĂč si eleva che piĂč profondamente attinge / discendendo nei penetrali delsuo cuore, // e ritrasporta alla luce piĂč anime anelanti / di ascendere in alto dal mon-do occulto. // Questo par che sia quel mondo subliminale che ha in sĂ© / arcane for-ze, delle quali stupisce la mente limitata. // Sentiamo in seno ciĂČ che la mente con-fessa di ignorare, / e spesso il poeta vede ciĂČ che i dotti negano. // [...] Questo mon-do, nascosto dentro di noi, tiene in sĂ© nascoste / le cause delle cose e il mistero e ilsilenzio della morte. // Quante vite, di cui sparirono le dolci figure, / ma le cui dolcianime non poterono morire! // Quanti sorrisi, lacrime, sospiri, gioie, trepidazioni! /Ora son mani carezzose come unâombra leggera, // or sono occhi sogguardanti dauna dubbia luce di sogno, / ora son voci profonde che chiamano senza voce. // Sonanime avvinte a noi da occulti legami / e che a noi tornano dolce opera di poesia, //e ritengono alcunchĂ© di voce misteriosa su le labbra / e un certo lume di sogno nelviso // [...] Oh anima nostra cercante di monte in monte la meta / che, vicina o lon-tana, non si tocca mai! // Di monte in monte, che divide unâimmensa lontananza, /da fiore a fiore, che nutre un breve giardino, // desiderando un paradiso promesso epiangendo un paradiso perduto, / desiderando le rose e trovando le spine, // cosĂŹ perquestâarte lâInferno di Dante non Ăš per noi / poesia meno divina del Paradiso, // nĂ©i demonii dal volto obliquo sono per noi meno belli / di quel che ci appaia un ange-lo dal volto luminoso // [...] Non sono belli per sĂ© nĂ© il monte nĂ© la valle nĂ© il mare,/ se non li fa belli la vivida luce dellâanima, // luce che il monte, la valle, il mare,come abbiamo giĂ detto, / svegliano nel cuore come lampo acceso da lampo. // Lavita del mondo, se non rivisse dentro il cuore dei poeti, / dilegua e subisce i danni ele vicende del tempo, // ma questa luce di vita, divenuta parola cosĂŹ che, uscita / daun sol petto, tutti i petti la ripetano come lor parola, // sino a quando parleranno gliardenti cuori, / tramandata attraverso le generazioni, sarĂ lampada luminosa. //
Pascolismo, dunque? Come sâĂš visto, non pare si possa giungere ad unatale conclusione, soprattutto tenendo presente la perfetta coincidenza inDe Titta di poetica e scrittura. E se proprio si volesse insistere sulla comu-nanza di certi tratti, come ad esempio la presenza del mistero nella paginadi entrambi i poeti, perchĂ© non vederne, orizzontalmente, il portato dellacoeva sensibilitĂ letteraria, oppure, verticalmente, la diversa genesi cultu-rale, che nel Nostro si rifĂ agli studi teosofici?
Ma tornando per un attimo ad Elegie lontane, Ăš bene ricordare come giĂ lĂŹ ricorra il tema dellâineluttabile tristezza per unâesistenza soffocata e sen-za sbocchi vitali, prigioniera di un amaro destino, mentre la vita â quellache scoppia di gioia e di feconditĂ â Ăš sempre altrove, nei prati, nei boschi,nei monti del suo Abruzzo, ma soprattutto nel caro borgo, da cui il poeta Ăš
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lontano, il borgo con le sue feste, le ridenti fanciulle, i balconi fioriti, leserenate. Si capisce, dunque, come presto o tardi il De Titta dovesse incon-trare il popolare e la poesia dialettale. «In generale â cosĂŹ dice nella prefa-zione al vocabolario di Domenico Bielli â la parte colta del nostro popo-lo non teneva in alcuna considerazione la lingua materna, definita comu-nemente lingua del volgo, ed era lontana le mille miglia dal pensare chepotesse assorgere ad espressione di arte, sebbene molti suoi canti dialetta-li, creduti dai piĂč creazione di contadini e di artigiani, fossero espressionedi arte finissima». E si riferiva ai pregiudizi che circolavano in Abruzzoancora aglâinizi del Novecento.
A quellâarte finissima il poeta di S. Eusanio volle tenersi stretto, nonsolo nelle Canzoni, ma anche nelle altre opere in lingua natia. La poesiapopolare era per lui uno dei suoi amori piĂč tenaci e profondi, uno dei refe-renti principali per il volo della sua ispirazione: ma di quei canti eglicoglieva soltanto uno spunto per piĂč libere ed aristocratiche movenze, inun intreccio inestricabile con le effusioni del suo cuore. La natura, le tra-dizioni della sua gente gli si presentano circonfuse di lucente bellezza: mala bellezza Ăš imprevedibile e misteriosa, capricciosa epifania, eterna tra-smigratrice dal desiderio alla memoria, dal presente alle piĂč remote lonta-nanze, dal sogno alla speranza; sorride raggiante nelle sue mille metamor-fosi e, certo, come lâamore, si concede ai mortali ma solo nella fugacitĂ diun palpito, trapassando poi di parvenza in parvenza, lasciando nellâanimaamaro rimpianto. PerĂČ â lo si Ăš giĂ visto â il fantasma della bellezza natu-rale non raggiunge le vette della suggestivitĂ se non Ăš riscaldato dalla com-mozione dell'anima, se il dato esterno non viene inondato dal soffio puri-ficatore della sua essenza piĂč vera, dal calore della piĂč profonda spiritua-litĂ . SicchĂ©, in virtĂč di tale poetica, anche quando il dettato attinge al les-sico delle piĂč umili realtĂ quotidiane, vien sollevato alla vaghezza delleimmagini piĂč gentili; oppure dallâaccettata banalitĂ di certe simbologiepopolari, ci si solleva di colpo in un'atmosfera di dolore universale.
Un poâ tutte le forme della poesia popolare vengono rivisitate dal DeTitta. Ad esempio, lo strambotto. Che, mentre allâorigine era lo strumentoprediletto della tenzone amorosa, laddove il giovanotto si pavoneggiavacon le sue profferte piĂč accattivanti e la ragazza rispondeva con atteggia-menti di civettuola ritrosia, nel Nostro â come nella Canzone de la fonte âsi fa espressione di un conflitto tra malinconia e gioiosa speranza.
E câĂš persino lâincanata (La canzone a ddispĂštte), con il suo linguaggiosarcastico, ma non tanto violento da non cedere il passo allâeffetto di unassolutorio sorriso. CosĂŹ, piĂč in generale, quando non inclina allâidealiz-
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zazione, la pagina detittiana incanta per la schiettezza dell'eloquio che,senza fronzoli nĂ© ambagi, scolpisce lâoggetto: un parlare tanto piĂč prezio-so perchĂ© ci permette oggi di riassaporare tanti cari termini desueti.
Poi câĂš lo stornello, rifatto con la solita chiamata nel metro del quinario,perĂČ seguito non piĂč da due endecasillabi, ma da due novenari.
E, infine, non vorremmo dimenticare la âpartenzaâ, il tema dellâaddioalla sua bella del pastore che scende in Puglia, trasformato qui nella tristeelegia di un cuore che se ne va «âm penetĂšnze / a lu cummĂšnte de la lun-tananze».
Gente dâAbruzzo Ăš del 1923, contemporaneo alle Nuove canzoni abruz-zesi. «Il sentimento che altrove canta per sĂ© â annota Vittore Verratti nel-la prefazione â viene qui drammatizzato in situazioni e figure che lo accol-gono indipendenti. CâĂš tutto lâaltro volto del De Titta, quello nel quale ilpoeta Ăš sospinto dal canto al gesto e tocca una ben rilevata capacitĂ didurata poetica... I personaggi acquistano cosĂŹ ampiezza e profonditĂ dischermo e, avvolti da una rozza corteccia, sono sempre espressi in unâatmosfera di favola, funzionale alle diversitĂ trasfigurative e agiografichedellâautore, in cui la parola nasce ad un tempo con la cosa e il ritmo tra-duce, senza ombre di artifici, le immagini». Ora â a parte la nostra riservasu quella discutibile ârozza cortecciaâ â concordiamo con il succitato cri-tico nel riconoscere in questâopera una grande sapienza coloristica, sen-sualitĂ e vitalismo. I dialoghi di questi poemetti lirico-drammatici vengo-no distribuiti nella pagina con grande scioltezza e naturalezza, nella mas-sima aderenza alla parlata popolare. Favola, dunque, folclore? SĂŹ e no.PerchĂ© qui non si descrive alla maniera dei demologi, non si sorride pater-nalisticamente â come in tanta letteratura del tempo â sulle usanze popo-lari, nĂ©, tanto meno, si fanno concessioni allâestetismo aristocratico dan-nunziano con tutto il carico di ribrezzo per la folla dei âbrutiâ (ricordiamoLe Vergini delle Rocce, la processione a Casalbordino ne Il trionfo dellamorte). Qui quello che interessa al poeta Ăš il sentimento degli umili prota-gonisti, che trapela e grida spezzando le inibizioni della tradizione com-portamentale: la difesa dellâonore, della dignitĂ , calpestati dalla irrespon-sabile stupiditĂ prima ancora che dalla malvagitĂ di ignobili ingannatori;il grido di dolore del povero derubato; la sofferenza, paradossamente vis-suta come espiazione della povertĂ e questa come ineluttabile, pur seassurdo, destino. SarĂ pure un richiamo esterno, ma per noi Ăš altamentesignificativo il fatto che due personaggi di Elegie lontane ritornino ora indue distinti poemetti: Cenzo che sfida la morte per andare a fare la sere-nata alla sua bella sotto un limpido cielo stellato, e Minco che, contro ogni
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speranza, perdutamente, continua a far piangere la sua chitarra sotto il bal-cone della sua amata, nonostante lei sia stata promessa ad un ricco preten-dente. Ma Giovina, un bel giorno, fugge di casa per raggiungere il suopovero, grande amore. Sua madre con le comari si dispera, ma dentro di séÚ felice.
Il capolavoro giunge nel 1925 con Terra dâoro, dove suoni e colori, rit-mo, forme ed onda interiore si fondono nel fantasma poetico, attraversatodalla segreta musica del fonosimbolismo. Si realizza al meglio lâaspira-zione espressa nel De poesi, sicchĂ© lâoggetto â se mai lo Ăš stato in De Tittaâ non Ăš piĂč un pallido riflesso di inane specchio ma lâoggetto stesso chedalla pagina balza vivo e lucente. Esemplare, in questo senso, La state,antologizzata da Franco Brevini ne La poesia in dialetto . Lâurgenza senti-mentale, che nelle pagine precedenti si distendeva giĂ in forme equilibra-te dallâarte, ulteriormente qui si raffina, tantâĂš che â come acutamenteosserva Adelia Mancini â «tra passato e presente, tra ricordo e realtĂ , attra-verso i lenti e graduali passaggi delle stagioni che si avvicendano con unrito che il tempo scandisce con tenace regolaritĂ , riso e pianto si confon-dono».
Con Terra dâoro si tocca il culmine dellâarte detittiana. Lâopera succes-siva, Acqua, foco e vento (1929), pur nella sperimentata sapienza lingui-stica e stilistica, appare come gravata dalla materia teosofica e moraleg-giante. Si ha lâimpressione che il poeta abbia voluto programmaticamenteesplicitare, sul piano della realizzazione poetica, la tesi contenuta nellâul-tima parte del De poesi. Ed Ăš proprio questa pregressa volontĂ di costru-zione architettonica che determina, a nostro avviso, il sostanziale insuc-cesso dellâopera.
In conclusione, a noi pare che lâesperienza poetica di De Titta non siariconducibile, come a piĂč riprese Ăš stato tentato, ad alcun indirizzo lettera-rio a lui coevo. Formidabile assimilatore delle piĂč svariate stagioni stili-stiche fiorite nelle letterature greca, latina ed italiana, dimostrĂČ, come tra-duttore, una grande capacitĂ di aderire mirabilmente alla pagina altrui: sipensi alla traduzione latina delle Elegie romane del DâAnnunzio. Di piĂč:qualche volta, come in A Mila di Codro, che fa parte de I Canti del ritor-no 1, ludicamente si mimetizza nello stile dellâamico Gabriele. Ma sololudicamente, perchĂ© la sua vera personalitĂ Ăš inconfondibile ed attendeancora una piĂč equa valutazione critica tra gli allori del parnaso italiano.
Alle concezioni ottocentesche della scrittura dialettale â e soprattutto al
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1 Si puĂČ leggerla in Poesie, vol. II dellâedizione Itinerari, 1987, pp. 262-63.
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filone caricaturale â si rifĂ , in qualche modo, Modesto Della Porta, auto-re di Ta-pĂč, lu trumbone dâaccumpagnamente . SenonchĂ©, diversamentedai poeti della generazione precedente, il poeta di Guardiagrele lascia tra-sparire un atteggiamento piĂč estroso e, insieme, piĂč riflessivo, nonchĂ© ilsoffio caldo di una grande simpatia umana. Al fondo della risata che con-clude la macchietta, avverti il sanguinare di una sensibilitĂ dolente, lo sde-gno represso per le ingiustizie sociali, il palpito di solidarietĂ per i poveriumiliati ed offesi. Altre volte, Ăš vero, la satira si fa dilagante e corrosiva,scadendo cosĂŹ nellâabnorme e nello sgangherato: vedi ad esempio Lu testa-mente de ziâ Carminucce (1933). La sua parlata Ăš prevalentemente disarti-colata ed ellittica e proprio per questo, forse, ha incontrato una grande for-tuna tra i ceti popolari dâAbruzzo. Ma quando il poeta si abbandona allâon-da della tenerezza (Serenate a mamma) o della suggestivitĂ musicale(Novena di Natale), raggiunge risultati di ottimo livello. «In alcuni com-ponimenti â scrive Vito Moretti â specie del libro postumo Poesie (1954)e delle inedite[Moretti 1999], Della Porta si fece interprete anche di impe-gno etico e politico che trova pochi riscontri nella poesia dialettale delprimo Novecento abruzzese».
Alla misura del sonetto tra il 1924 ed il 1949, quando pubblicaSclocchitte, si dedica Vittorio Clemente. Eâ questa una fase che potrem-mo definire preistorica: in una temperie generalmente prosaica â salvoqualche bella eccezione, come ad esempio La pescolle â il poeta si espri-me in un dialetto fortemente intriso di italianismi (galante, ricolme, ces-sata, stregate, reluccecheve, acquetate, ecc.) e indulge ad un tic abbastan-za fastidioso, qual Ăš quello di rendere con la âoâ italianizzante la âuâ pre-tonica abruzzese (per es.: lontane per luntane; montagne per muntagne;retrovĂ per retruvĂ , ecc.), stramberia non del tutto scomparsa nella riedi-zione del 1970. Nel â52 pubblica la famosissima Acqua de Magge, lodatada P. P. Pasolini nella prefazione che ne fece e, una diecina di anni fa,rimessa in discussione da Dante Maffia: «In realtĂ il poemetto non ha nul-la di proustiano, si muove piuttosto tra tinte e cadenze pascoliane e moret-tiane (le Poesie scritte col lapis) ricalcando, sia nel metro che nelle imma-gini, una sequela di stereotipi, che appartenevano alla poesia popolareabruzzese filtrata attraverso la lezione di Cesare De Titta, Modesto DellaPorta e Alfredo Luciani (conosciuti molto bene da Clemente) e attinte almagistero di Salvatore Di Giacomo». PiĂč in particolare, sarĂ interessantenotare come il modello tematico e tonale a cui Clemente si ispira gli pro-venga da Le jenĂšstre di De Titta, variato perĂČ nello sviluppo dei particola-ri [De Titta 1925].
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PiĂč consona al temperamento poetico di Clemente Ăš la scrittura fram-mentistica di Tiempe de sole e fiure (1955), non piĂč condizionata dallestrettoie della misura chiusa. Ora il ritmo aderisce meglio alle pieghe del-lâinvenzione, il verso acquista in scioltezza ed il mezzo espressivo, pur seinevitabilmente letterarizzato, si riaccosta alla vera identitĂ del dialettobugnarese (o, piĂč in generale, dellâarea peligna) per esprimere impressio-ni e veloci bozzetti di marca pascoliana.
Lo spirito della canzone popolare, sostenuto da ben piĂč alta consapevo-lezza artistica e allâinterno di una precisa intelaiatura strutturale, circolanel poemetto Canzune ad allegrie. Lo ritroveremo ancora, in SerenatelleAbruzzesi, raffinato in una temperie di delicata cantabilitĂ , dove tutta lasignificanza dellâidea poetica Ăš racchiusa nella breve struttura di una quar-tina seguita da una terzina, e dove lâultimo verso della quartina ripete esat-tamente il primo. In questa assoluta essenzialitĂ o â se si preferisce â nellimite di questo breve respiro sta, forse, il Clemente migliore.
Il periodo postdetittiano â che va dagli anni Trenta e, in qualche caso, siprolunga fino a tutto lâarco degli anni Cinquanta â vede fiorire le opere dipoeti come Luigi Dommarco [Giannangeli 1958 e 2002; Esposito 1989],Cesare Fagiani [Giannangeli 1958], Alfonso Polsoni [Esposito 1989],Edoardo Di Loreto [Esposito 1989], un poâ tutti cantori della natura, del-lâamore, della cordiale semplicitĂ del paesello rurale, con qualche stupe-fatto soprassalto per lâorrore del secondo conflitto mondiale. Tra questaschiera di poeti emergono le figure di Giuliante e di Sigismondi: il primoin quanto esponente della corrente lirico-elegiaca; il secondo perchĂ© fon-de armonicamente i tratti di questa tendenza con lâaltra che potremmodefinire lirico-realistica.
In una nota didascalica di Ro-zĂŹ, Guido Giuliante cosĂŹ scrive: «Ro-zĂŹ Ăšil verso della cingallegra che si sente a primavera allâalba. Eâ una nota lie-ve di vita; Ăš una delle piccole cose che fanno lieta la natura. Ma chi porgelâorecchio alle cose minute, presi come oggi si Ăš dallâansia del correre edallâaffannarsi, spesso dietro inutili chimere? E tra coloro che, in una tre-gua del rumore che ci circonda, ascoltano il verso, quanti sono coloro cheveramente porgono lâorecchio (ed il cuore) a cose minute e ne restano tur-bati?» Si svela, dunque, sin dalla sua prima opera, quale concezione dellavita e della poesia commuova la fantasia dellâautore che, come scrisseErnesto Giammarco [Giammarco 1957] guarda alla natura «con religiosoraccoglimento, come ad un rito». Ed Ăš proprio questâatmosfera di misticareligiositĂ che circonfonde creature, cose e situazioni, in un sentire di lie-ve e sorridente mestizia, tra colori soffici e tenui, contrappuntati da una
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musica discreta e vellutata: un mondo, insomma, tratteggiato da un chia-roscuro leggero, non privo di tensioni interne ma senza forti contrasti.Sono presenti stilemi detittiani e dellaportiani nel verso di Giuliante che,un poâ in tutta lâopera, ma specialmente in Sapisce, terra dâore, sperimen-ta le piĂč svariate combinazioni metriche.
Autore tra i piĂč apprezzati in Abruzzo di canzoni dialettali dâautore,Giulio Sigismondi Ăš insieme poeta musicalissimo e realistico, il cui versoconosce la magia delle immagini corpose e delicate. Ha al suo attivo unadiscreta produzione lirica e si Ăš cimentato in traduzioni di classici italiani:particolarmente felice quella del Sabato del villaggio.
Intanto, tra gli anni Cinquanta e Sessanta la poesia dialettale abruzzesetenta nuove strade: si fa tesoro della lezione ermetica, si guarda allâespe-rienza simbolista e, piĂč in generale, alla grande lirica europea delNovecento; si studiano i poeti ispano-americani.
Il primo a fornire una versione abruzzese dellâermetismo italiano ĂšMarco Notarmuzi, che nel 1952 si afferma con Vente de marze al premiolancianese âDe Titta-Della Portaâ, operando, quindi, il sorpasso su AlfredoLuciani e Cesare Fagiani, i âdue antichi vittoriosiâ, che furono dichiaratifuori concorso. AspetterĂ , perĂČ, il 1967 Notarmuzi, che lavora molto dilima, a pubblicare SerĂ©na, a cui nel 1981 seguiranno Le cingiallegre. Unadelle novitĂ â magari non la principale â Ăš che Notarmuzi rinuncia alla tra-sfigurazione mitico-patriarcale dellâAbruzzo operata dai poeti della sta-gione precedente e reinventa i suoi materiali disponendoli, hic et nunc,nello spazio circoscritto della sua esistenza quotidiana e bagnandoli di unarara, cristallina evidenza. Per il resto, la modernitĂ del poeta scannese stanella fusione di piani poetici diversi, ottenuta dal parallelismo di metaforeicastiche molto intense; nella musica affidata non tanto alla sequela metri-co-fonica, che pure Ăš sapiente, quanto piuttosto al susseguirsi delle imma-gini, o al dosaggio delle pause che chiamano il lettore alla collaborazione;nella introduzione di particolari simbolici â talora svianti e misteriosi â,immersi provvisoriamente in un vasto scenario di cieli e montagne, ma poiriassorbiti, e direi quasi risucchiati, da un movimento vertiginoso, dal bas-so verso lâalto, che si paca nello slargo di visioni cosmiche o primaverili.
Nelle Cingiallegre la tonalitĂ generale sâincupisce, il verso si fa piĂč pen-soso. Eâ stato notato dal Giammarco che «se il Notarmuzi ha inventato ilsuo dialetto, a questo fa difetto un codice leggibile, decifrabile e intelligi-bile che possa consentire perfetta comunicabilitĂ di contenuti poetici, cherimangono, invece, ancora chiusi nella pagina» [Giammarco 1981]. A noipare, invece, che lâoscuritĂ â come avvertiva Sklovskij â lungi dal nuoce-
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re alla poesia, le conferisca carattere e fascino dacchĂ© libera gli oggetti dal-lâinsignificanza indotta dallâusura linguistica. Ma poi, come vengono dis-posti gli oggetti un poâ in tutta lâopera notarmuziana e, in particolare, inquesta? La tecnica Ăš quella del correlativo oggettivo. Del resto, immaginie metafore (molto belle) qui non mancano; ma il poeta si affida soprattut-to alle connessioni emblematiche, scandite con sobrietĂ e nitore. A lui nonoccorre infrangere i legami logico-sintattici per creare il bellâeffetto; anziil suo maggior punto di forza, la sua originalitĂ risiedono proprio in unavibrante simbiosi tra connessioni arditissime e sintassi regolare. CâĂš unrapporto di necessitĂ , di stringente coerenza tra la disposizione oggettualee quella linguistica. Il risultato Ăš una straordinaria potenza di evidenzia-zione tridimensionale, di un fascinoso coinvolgimento emozionale edespressivo.
Con Epigrammi, lâopera piĂč recente, Notarmuzi introduce nella poesiaabruzzese un nuovo genere. Se nelle prime due opere, per una consapevo-le vocazione lirica (e piĂč precisamente per quellâatteggiamento che pos-siamo definire dellâimpersonalitĂ ), rimaneva come implicita la concezio-ne morale dellâautore, ora lâarmatura âermeticaâ si disserra per una piĂčaperta pronunzia, per un piĂč libero volo concesso a sentimenti, osserva-zioni e reazioni. Due fasi, due maniere diverse: dapprima quella puramen-te lirica di Serena e delle Cingiallegre, tutta tesa a decifrare gli echi dellanatura, che ci rimanda i moti stessi del nostro cuore; ora la seconda fase,in cui lâautore si dispone ad una piĂč vasta meditazione sulla vita, nei suoiaspetti talora misteriosi e tragici, altre volte ridanciani ed insensati. Eppurenon câĂš iato tra questi momenti: al contrario, nella loro complementarietĂ ,tutti insieme formano un unico grande affresco.
Poeta riconosciuto a livello nazionale Ăš Cosimo Savastano, vincitoredel premio Lanciano nel 1968, presente nellâantologia di Spagnoletti eVivaldi e in numerose altre, regionali e non. Esordisce con Che sarrĂ nel1965, un fascicolo di bozzetti paesani, in cui perĂČ subito si avvertonounâassoluta padronanza delle strutture metriche ed unâinsolita vivacitĂ lin-guistica. Una novitĂ : Savastano usa, sĂŹ, glâitalianismi ma, a differenza diClemente che li assumeva in proprio, se ne serve per attivare una maggio-re aderenza ai livelli diastratici del discorso. Segue nel â66 Amore amoree parleme dâamore, in cui raccoglie i canti popolari ascoltati dalla boccadella nonna, reimmergendoli nella sua interioritĂ ed elevandoli con sapien-ti variazioni ad un grado di raffinata aristocraticitĂ . La stessa temperie poe-tica la ritrovi lâanno seguente in DĂ©nte a na scionna, dove, accanto allamusicalitĂ sognante e tenera dellâelegia popolare, ritorna il realismo della
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prima opera ma questa volta non piĂč in chiave ironico-satirica ma in quel-la epica di una sofferta solidarietĂ con i contadini abruzzesi, avvezzi dasempre alle fatiche piĂč inumane per strappare un tozzo di pane alla cam-pagna pietrosa ed, infine, sfruttati e vinti, costretti pure a conoscere lâa-marezza dellâemigrazione verso paesi lontani e talora ostili. Letteraturadellâimpegno, della denuncia? Calore umano, piuttosto, testimonianza esolidarietĂ ; perchĂ©, infatti, la rappresentazione non ha nulla di ideologico,non intende rimpicciolirsi sullâasprezza della polemica politico-culturalema si risolve tutta in una statuaria trasfigurazione di valore universale.
PiĂč intrinsecamente lirico si fa il canto in Nu parlĂ zettenne e si effondead ampio spettro fra temi gioiosi e toni cupi, sul filo della memoria e del-la nostalgia, del presente e della storia, quando rievoca la tragedia deglisfollamenti durante la seconda guerra mondiale, la morte, le terribili deva-stazioni e, dopo la bufera, la gioia ostinata della vita che ricomincia. Eâ unlibro che si Ăš ulteriormente arricchito: di analogie, di sinestesie, dellâinfi-nito assoluto. E il fonosimbolismo, lo stile nominale, le elencazioni, ilsospiro di una ninna nanna, la baldanza scherzosa di una filastrocca infan-tile fanno risuonare un melodioso mondo di favola e, insieme, le ansiestruggenti di un malinconico presente.
Ad eccezione del fascicoletto giovanile, le altre opere di Savastano sonoscritte nella lingua antica di Castel di Sangro ed Ăš, questa, una innovazio-ne di grande momento. Con Nu parlĂ zettenne il poeta raggiunge il migliorequilibrio stilistico: che, con qualche preziosismo linguistico in piĂč, gover-nerĂ le pagine delle opere successive, Chi chiĂč e Jummelle de parole.
La poesia di Giuseppe Rosato non si lascia definire in una semplice for-mula o nella fisionomia di una singola stagione. In dialetto esordisce nelâ56 con la La cajola dâore, poi ricompare nellâ86 con Ecche lu fredde, unaraccolta di dieci brevi liriche composte dal â68 allâ83, a cui farĂ seguitoUgnâaddĂČ, un cartoncino di sei liriche pubblicato nel â91. Recentementehanno visto la luce LâĂčtema lune, con prefazione di Franco Loi, e E mĂłstĂ©mâ accuscĂŹ. Autore fecondo in lingua, Rosato ha scritto romanzi, varilibri di prosa, componimenti satirici e parodistici. Nella sua poesia italia-na ha imprecato alle lusinghe del consumismo, alla disgregazione sociale,ha sperimentato la fallacia o la caducitĂ degli affetti, il trionfo inevitabiledella stupiditĂ e appreso lâamara saggezza degli sconfitti. Non câĂš salvez-za, dice, persino lâutopia ci Ăš negata: non resta che lâironia o tacere persempre. Eppure il poeta non si Ăš piegato: nella nota introduttiva allaVergogna del mondo si chiede se sia lecito tornare a parlare di letteraturadellâimpegno, «che si pretenda â intanto dalla poesia â qualcosa di piĂč, e
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di diverso, di quanto da un certo tempo le si era fatto o rifatto canonico,rientrata nel ripiegamento su se stessa, ovvero nelle ragioni private, sem-pre piĂč raramente delegate a farsi testimonianza di una pena piĂč vasta». Einfine conclude: «In altre prove mi ero mostrato incline a non ignorarelâassunto di Giovenale, dei tempi (i suoi, ma poi puntualmente i nostri) chechiedono satira. Ora sembra opportuno dirottarsi sullâaltro imperativo chequel poeta latino sâera poi imposto di seguire: si natura negat, facit indi-gnatio versum. Lâindignazione ma piĂč ancora il dolore, la triste meravigliaper i diritti inascoltati, per lâingiustizia che diventa regola, per la vergognainaudita in cui si compie il governo del mondo». Ecco, vanno tenute pre-senti queste dizioni, per dir cosĂŹ, pubbliche di Rosato per meglio intende-re la vena intimistica e confidenziale, affidata alla poesia dialettale, consi-derata un poâ come rifugio e contrappeso al ruolo dellâintellettuale enga-gĂ©.
La lingua poetica di Rosato Ăš un raffinato, disinvolto dialetto lanciane-se, ricco di densitĂ semantica e di coloriture interlocutorie. In La cajoladâore â dicevamo â il verso, flessuoso e musicale, canta malinconie strug-genti, inesorabili solitudini, sorrisi muti, case senza balconi, cieli senzalune. Trentâanni dopo, in Ecche lu fredde, si rende ancor piĂč forbito e flui-do. Una sottolineatura: Rosato usa di preferenza lâendecasillabo, eppure Ăšcome se maneggiasse una pluralitĂ di versi liberi, tanta Ăš la varietĂ del rit-mo, degli accenti e delle inarcature.
Escavazione dellâio interiore negli ultimi due libri: con tutte le tituban-ze, gli slanci e le divagazioni che si possono facilmente immaginare. Unaricerca di un tempo mai veramente posseduto, se non nelle labili parvenzedei sogni, gratuitamente stravolte da qualche evento indecifrabile e bef-fardo. No, non puoi metterti a ricordare â dice il poeta: tutti gli accadi-menti ti si comprimono nella memoria e si confondono in un generico ieri.Il passato, con tutte le sue frustrazioni, bussa alle porte del presente pertentare di sottrarlo alle spire della non-vita; il presente vorrebbe ritrasfon-dersi nel passato per risarcirlo ma finisce per accartocciarsi su di esso.Ebbene, questa caduta delle distanze temporali, questa ambivalenza trapassato e presente Ăš una delle tensioni ispiratrici delle due opere e, insie-me, il sigillo inconfondibile della loro originalitĂ . CosĂŹ anche i luoghi: par-rebbero sempre gli stessi ma, intanto, non ci son piĂč le voci di un tempo,gli odori, i sorrisi delle persone care; persino il colore del cielo si Ăš stintoin una grigia e svogliata indifferenza. Ecco, questa spaesata solitudine nonpuĂČ che affacciarsi a dialogare con lâultimo spicchio di luna mentre sta peraffogare nellâoscuritĂ piĂč dura e cieca: il baratro. E non a caso la parola
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strafonne Ăš una delle piĂč ricorrenti. Ma câĂš qualche spiraglio? E sonoancora utili i bilanci, le scommesse sul mondo se, quando sta per calare ilsipario sulla scena della tua trama, ti accorgi che non hai spostato di unmillimetro la fiumana della vita?
Alla pendolaritĂ temporale, con la correlativa intercambiabilitĂ sceno-grafica, corrisponde un duplice atteggiamento psicologico: da una partelâabbandono al rimpianto, alla danza triste della memoria, all'evasione ver-so ipotesi di improbabili trascendenze e, dallâaltra, la lucida accettazionedelle ferree leggi che presiedono allâesistenza. Di qui, dunque, un atteg-giamento autoironico che alleggerisce la materia, modellata, a volte, finoalle piĂč celianti invenzioni.
Al versante epico-realistico sembra rivolta la poesia di AlessandroDommarco con il suo dialetto lessicalmente lussureggiante, dalla parolasapida, scolpita a tutto tondo; che mette a frutto le piĂč disparate possibili-tĂ diafasiche, i traslati coloriti e persino le locuzioni gergali (entrate perĂČda tempo nelle parlate abruzzesi); un dialetto che non rifugge, talora, nem-meno dal bilinguismo, incorporando espressioni latine, bresciane, napole-tane. Dunque, non un eloquio scelto, petrarchizzato â come direbbeOttaviano Giannangeli â ma quello che veramente senti (o, meglio, senti-vi) parlare nei vicoli di Ortona. Lingua della concretezza, dunque, e dellarealtĂ . E perciĂČ Dommarco si attrezza a trascrivere la frase nellâeffettivasua pronunzia. A tal fine, non sottovaluta lâimportanza degli accenti foni-ci (oltre, sâintende, di quelli tonici), non si fa prendere dalla pessima ten-tazione di evitare le metafonesi, evidenzia le aspirazioni delle vocali ini-ziali, correda di note il testo per una precisa contestualizzazione lessicale,storica e folclorica dei termini usati.
La Ortona di Dommarco Ăš, sĂŹ, il paese dellâanima e, tuttavia, ha una suaesatta determinatezza topografica ed antropologico-culturale. Ma non sipensi, nemmeno lontanamente, ad una celebrazione del microcosmo, tipi-ca dei dialettali di fine Ottocento, perchĂ© la poesia del Nostro non si gio-ca sul versante del bozzettismo, ma su quello interamente lirico: parliamo,ovviamente, di una lirica sorvegliata e virile, non facile alle tenere effu-sioni, una lirica che proietta sulle cose le vibrazioni dellâanima. Memoriadegli aspetti piĂč luminosi della natura, fugacitĂ della vita e ineluttabilitĂ del disfacimento, paura della morte e rimpianto per le gioie non godute:sono i temi ricorrenti nelle due opere, Tembe storte e Da mĂł ve diche addĂŹ-je, intessute di sensualismo e di forti sensazioni fisiche, con qualche eva-sione in direzione del frammentismo.
Giacinto Spagnoletti vede un influsso dei simbolisti europei nel tono dis-
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corsivo e nelle movenze ritmiche di Dommarco. Eâ innegabile, infatti, cheil Nostro sia stato attratto da quella stagione poetica: le sue traduzioni dipoeti francesi ed inglesi stanno lĂŹ a dimostrarlo. Da parte nostra aggiun-giamo che certe metamorfosi del vivente nel laido e nel putrido, presentiin alcuni testi di Dommarco2, richiamano certamente unâascendenza bau-delairiana, quella ad esempio della Charogne neâ Les Fleurs du mal, cosĂŹcome allo stesso poeta parigino si potrebbe ricondurre, oltre ad un certodisgusto per le brutture del consorzio umano, la contraddittorietĂ nellaconsiderazione della vita, vista a volte come unâavventura affascinante edirripetibile ed altre volte come un merdoso inferno. Detto questo, perĂČ, nonpare lecito estendere tali giudizi a tutta lâopera di Dommarco, il quale, pro-prio traducendo Il fauno di MallarmĂ©, scriveva nella prefazione di volersuperare, nei limiti del possibile, le anfibologie e le plurivalenze semanti-che dellâoriginale mediante soluzioni univoche, che avessero perĂČ il pre-gio di rendere intelligibile il pensiero dellâautore. Ecco dunque rifiutataquella che Ăš, forse, la piĂč qualificante tra le caratteristiche del simbolismo.SicchĂ©, non ci resta che riconsiderare la poesia di Dommarco alla luce delrealismo nostrano, che in qualche caso estremo diventa iper-realismo. Infondo, ha ragione Franco Brevini quando scrive: «Lâinterpretazione paso-liniana del Novecento dialettale privilegiava il momento della rottura.Ritengo invece che nella realtĂ molti legami non siano mai stati sciolti. Anoi che contempliamo lo svolgimento del secolo, invece che dalla metĂ ,come accadeva a Pasolini, ormai dal suo termine, il Novecento offreunâimmagine un poâ diversa. Ci appare infatti sia notevolmente unitario,nel senso che i filoni che lo percorrono si ripresentano dallâinizio alla fine,sia nel complesso meno staccato dallâOttocento. Se il novecentismo dia-lettale rappresenta unâesperienza nuova, Ăš indubbio che la lettura diPasolini abbia contribuito ad alterare pesi e misure, enfatizzando la nuovapoesia a discapito dellâimponente produzione che proseguiva la vecchiatradizione dialettale, con risultati spesso eccellenti» [Brevini 1999].
Critico autorevole e, al tempo stesso, poeta â sia in lingua che in dialet-to â Ottaviano Giannangeli dichiara egli stesso la qualitĂ della sua poe-tica: «Parlavo in dialetto perchĂ© trovavo di cattivo gusto [...] lâesporsi inuna dizione di poesia pura, orfica o ermetica, calligrafica (che, per defini-zione etimologica, non si addice allâoralitĂ ) e quasi anemica, non umoro-sa, non sanguigna, davanti a una massa di ascoltatori, di migliaia di per-
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2 Si vedano; ad esempio, A une châa mortâaccise, SiĂ©mbre fetusche, Addonna vĂš âstaffanne?, edaltri componimenti ancora, in Da mĂł ve diche addije.
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sone» [Giannangeli 1990]. Coltissimo e profondo conoscitore della poesiaeuropea del Novecento, non canta a voce spiegata ma colloquia con faresuadente, democratico, âantiliricoâ, e ti racconta non solo il suo Erlebnisquotidiano ma la storia della sua terra, dagli orrori della guerra fino al nonsenso di tanta parte della âciviltĂ â contemporanea. Eâ una poesia, la sua,che si addensa e si protende ben oltre lo spazio del singolo componimen-to, e finisce per coincidere con lâintero suo âlibroâ. Scrive nel dialetto del-la sua Raiano e, nello stesso tempo, sostenitore di una koinĂ© abruzzese, nedĂ lâesempio con esiti convincenti e aggraziati: lâabruzzese, insomma, inbocca ad una persona colta. In Arie de la vecchiaie la modernitĂ del suoverso si accentua e si fa sognante melodia.
Poesie dialettali di Ottaviano Giannangeli sono incluse in Poesia dialet-tale dal Rinascimento a oggi a cura di Giacinto Spagnoletti e CesareVivaldi (vol. II, Garzanti, 1991).
A dimostrazione di quanto sia vario e complesso il rapporto del poetacon il suo milieu, vogliamo parlare di Giovanni Spitilli. Esordisce conSpine fiurite, in cui avverti giĂ una spiccata personalitĂ , al di lĂ di certerisonanze provenienti da Gozzano, Alfredo Luciani e Modesto Della Porta.A parte certe pregevoli movenze memoriali ed introspettive, dipingeambienti paesani con nitida evidenza, ma li circonfonde poi di una delica-ta melanconia: ogni creatura, anche la piĂč umile ed insignificante, ha perqualche tempo un suo posto dâonore nel fluire del tempo, ma poi câĂš unfinire che tutto cancella e dissolve. SicchĂ© una tale poetica partorisce, inun secondo tempo, unâaltra raccolta, A la logge, in cui Spitilli fa il âritrat-toâ di personaggi reali, chiamati per nome e, comunque, riconoscibili dal-la comunitĂ silvarola. Non câĂš qui, ovviamente, nessuna satira; solo, semai, un poâ di benevola ironia, e in genere tanto sorridente affetto. Provin-cialismo? Bozzettismo? Dice il poeta nella nota introduttiva: «Pensi chilegge che se nel passato qualcuno si fosse preso la briga di descriverciuomini, fatti e cose del suo tempo, probabilmente oggi molte âfigurineâlocali non sarebbero andate perdute, nĂ© altre ci sarebbero giunte cosĂŹ sbia-dite, da rendercene difficile la identificazione. Un paese, secondo me, viveanche dei suoi tipi, dei suoi uomini di ogni giorno, oltre che di quelli eccel-lenti da rimettere in mostra nelle feste comandate. E câĂš, nella vita dâognipaese, un determinato momento, con determinati uomini che agiscono inun verso o nellâaltro, scavando segni, talvolta, suscettibili di prolunga-menti nel futuro. Con tutto il rispetto al passato di Silvi, io ho voluto fer-mare la mia attenzione sui silvaroli dâoggi; non tutti, Ăš chiaro, e neanchescelti per settori o per campioni, ma colti qua e lĂ secondo il momento e la
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fantasia, in maniera che di essi rimanga â e mi si perdoni la presunzione!â un âprofiloâ tra il serio e lo scanzonato, per quanti in avvenire avesserovoglia di conoscere qual era la vita di Silvi intorno agli anni settanta. Tuttoqui».
Questa tendenza si raffina e trova la sua piĂč congrua poeticitĂ inCrucistrate, dove il verso si ammanta di piĂč sfumate reticenze, di sotta-ciuta solidarietĂ umana. Allâinizio di ogni componimento il poeta apponeuna nota esplicativa sul tema trattato: ma non ce nâĂš bisogno perchĂ© per-sonaggi e situazioni, desunti dalla cronaca reale, si caratterizzano al mas-simo e, tuttavia, trasfigurandosi, si universalizzano.
Sempre insistendo sullo stesso tasto, ci pare che finora non sia statoabbastanza valorizzato il fatto che molti di questi nostri poeti, soprattuttonegli ultimi due decenni, si siano rivolti allo studio del territorio nei suoiaspetti artistici, archeologici, storici, linguistici e demologici, spesso com-pensando assenze o ritardi della cultura âufficialeâ: lavori generalmentecondotti con metodo scientifico e nientâaffatto imputabili di âlocalismoâ,ma estremamente meritori dal momento in cui da piĂč parti nel mondo ci sipreoccupa di salvare quanto piĂč Ăš possibile di civiltĂ che stanno cadendosotto i colpi di un globalismo selvaggio, di un consumismo sfrenato e diuna dissennata politica delle comunicazioni di massa. Li vogliamo chia-mare ânostalgiciâ o non sono piuttosto dei profeti, degli eroici resistenti?La lotta Ăš in corso e non câinteressa, per ora, chiederci se saranno tragica-mente sconfitti o se il loro messaggio sarĂ utilizzato per la costruzione diun mondo migliore.
Uno di questi poeti Ăš Evandro Ricci. La sua prima raccolta, Ju Surentenustre si muove sulla scia del neorealismo, tradotto â certo â in poesia, conqualche residuo di celiante bozzettismo. CâĂš da dire, perĂČ, che quando nonti trovi di fronte a squarci piĂč propriamente lirici, modulati con veritĂ diaccenti e soffusi di rassegnata mestizia, la vignetta di Ricci non ha nulla difolcloristico. Non Ăš denuncia ma constatazione di una realtĂ . Nella secon-da opera, Pe ju tratture il poeta rivive lâepica ma anche i drammi dellatransumanza abruzzese, mentre il linguaggio sâimbeve delle migliori ten-denze della lirica moderna. Ottaviano Giannangeli, nella prefazione,osserva che Ricci «non Ăš un arcade» ed aggiunge che egli si serve di undialetto non «filologicamente assaporato», ma genuino, autentico.Verissimo e â aggiungiamo noi â un dialetto che riporta alla luce terminiin buona parte scomparsi ed ignoti, ormai, perfino agli specialisti.
Se Pe ju tratture era un poema lirico-pastorale, lâopera successiva, LascĂ zzeca, Ăš un poema lirico-georgico e, come nella raccolta precedente,
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câĂš un duplice atteggiamento: da una parte il contadino-poeta canta leasprezze e le frustrazioni della sua cieca esistenza, dallâaltra il poeta-con-tadino universalizza il dolore come esperienza ineliminabile di ogni desti-no umano. In ogni caso lâautore Ăš sempre completamente assimilato allafolla dei suoi compaesani, di cui si fa portavoce: e il micro-cosmo diven-ta mondo intero.
Con Jile de core, il libro piĂč recente, si ritorna alla lirica: lâautore viesprime il disagio di vivere in un mondo snaturato, impoverito di valori edi umanitĂ , e si capisce benissimo come non possa essere considerato ope-ra a sĂ© stante, ma come in realtĂ con i due poemi precedenti formi un trit-tico, di cui Ăš, insieme, premessa culturale e momento conclusivo. In unmondo che si va sempre piĂč desertificando, soprattutto nelle coscienze, eraurgente recuperare le coordinate antropologiche di un Abruzzo certamen-te povero di mezzi, ma ricco di confidente solidarietĂ umana. Non Ăš mitiz-zazione, Ăš semmai una proposta di civiltĂ , utopica, metastorica quanto sivuole ma, comunque, in consonanza con lâidea che Ricci ha della poesia edel suo ruolo sociale.
Lo spopolamento dellâAbruzzo montano, con tutte le dissestanti conse-guenze sociali che ne derivano, Ăš la base culturale introiettata dalla scrit-tura di Vittorio Monaco, il quale esprime una liricitĂ inibita, impersona-le, che fa balzare dalla pagina le cose nel loro triste silenzio, in unâatmo-sfera di solitudine e di abbandono: lâerbasanta che si arrampica sui muriscalcinati, le case abbandonate dove ora «nasconde il covo il pipistrello edi gennaio il gatto a notte tarda si lamenta, dove entra dalle finestre ed esceil vento». Eppure, nel ritmo lento, musicale espressione di un mondo mutoe smemorato, avverti lâeco di un dolore universale che segretamente tra-figge ogni cosa. E la parola ha una profonditĂ insospettata, dove le imma-gini riassumono passato e presente, storie di vita spazzate via dal vento,interrogativi muti di una gente che non câĂš piĂč. Persino la supposta mortedel poeta Ăš un non-evento nellâindifferenza del tutto, appena appena tur-bata da un inesplicabile rintocco di campana che vibra nellâafa stagnantedei campi. Lâautore si Ăš espresso in parecchie opere ma recentemente hapubblicato una scelta antologica, Le canzone dâiĂč viĂšnte, dove ha raccoltoil meglio della sua produzione, sia in dialetto, sia in lingua. Il poeta viadotta gli schemi metrici tradizionali, quasi volesse ristrutturare nella for-ma i parametri psicologici e culturali sconvolti dalla perversa evoluzionestorico-sociale della realtĂ esterna. Il dialetto Ăš quello di Pettorano sulGizio. La traduzione letterale, dunque, avrebbe aiutato il lettore (ancheabruzzese) alle prese con un idioma senza precedenti letterari. Ma Monaco
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ha preferito la traduzione isometrica: in compenso abbiamo una nuovacreazione, un modo per prolungare la suggestivitĂ del testo originale.
Al gruppo dei poeti impegnati nel senso che abbiamo giĂ chiarito appar-tiene anche Pietro Civitareale, studioso delle letterature ispano-america-ne e della poesia francese contemporanea, critico letterario di fama inter-nazionale e finisssimo poeta, sia in lingua, sia nel suo dialetto natio diVittorito (Aq). Ha scritto Come nu suonne nel 1984, Vecchie parole nelâ90, Le miele de ju mmierne nel â98 e il recentissimo Quele che remane nel2003. GiĂ dalle sue prime prove Civitareale introduce nel panorama dellapoesia dialettale abruzzese una novitĂ di rilievo, la poetica dellâassenza,che, con le successive variazioni, ha conservato fino ai giorni nostri. Alloralâarticolazione verbale era lo strumento indispensabile per proiettare il tes-suto fantasmatico sullo schermo dellâespressione; nelle opere piĂč recenti,invece, le strutture linguistiche vengono scarnificate fino al limite estre-mo: e, paradossalmente, accade che le immagini si raddensino ad alta defi-nizione in una purissima icasticitĂ tridimensionale, sempre avvolta daunâatmosfera di misteriosa, inquieta suggestivitĂ . Quello di Civitareale Ăšpaesaggio della desolazione, ritmato da vuote attese e dal non-senso di cer-te presenze oggettuali, oppure Ăš giardino onirico, nicchia-rifugio per ladifesa della nostra residua umanitĂ . Eâ, questa, poesia neodialettale che siattua in ardite tramature di corpose e lucide presenze, immerse nella fasci-nazione di un ritmo pacato e risonante di arcane vibrazioni, e che spessofrantuma la linea espositiva mediante la diversificazione deittica, mentre ilcromatismo svaria dai fulgori dellâestate agli stralunati candori dellâinver-no. E, appunto, nellâopera del â98 Ăš la luna il deuteragonista lirico, quelloche fa il controcanto ironico e misterioso, figurazione di fallaci alletta-menti e, insieme, di un destino contro cui sâinfrangono attese ed illusioni.SicchĂ© Ăš proprio lâastro dâargento il simbolo che fornisce il collante siner-getico che si stende segretamente nel susseguirsi delle strofe, che immer-ge nel suo freddo chiarore quel paesaggio incantato che Ăš un poâ il leitmotiv di tutta la silloge. Una notazione interessante: per effetto di quellache abbiamo chiamato essenzialitĂ , scarnificazione linguistica, la tradu-zione in lingua raggiunge la stessa valenza poetica del testo dialettale, sal-vo una maggiore connotazione etnico-antropologica in questâultimo.
I pĂ©ndele âje tĂ©mpe di Luigi Susi ci rivela un poeta che un tempo sisarebbe detto impegnato, se non fosse che le ragioni esistenziali finisconocon il prevalere nella partitura della sua lirica. Molti poeti, consapevol-mente o meno, tendono a dare di sĂ© unâimmagine idealizzata e, nello stes-so tempo, compatta, immutabilmente idealizzata, come se la legge fonda-
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mentale dellâuniverso potesse davvero concedere agli umani una tale inva-riabile coerenza. Susi, invece, percorre un altro itinerario: marinaio di mil-le naufragi â come lui stesso si definisce â ricerca la sua identitĂ umanafacendo continuamente i conti con il destino che sempre la condiziona etalora la incrina, o addirittura, la stravolge; imprecando alle conseguenzedi un ordine sociale ingiusto, che molto spesso assegna allâindividuo unruolo piuttosto simile ad una gabbia che non ad una pedana che agevoli ilsalto; gridando la sua impotenza e la sua amarezza di fronte allâincomuni-cabilitĂ tra gli uomini e, in ogni caso, rimettendo in discussione sĂ© stessoper depurarsi dalle scorie inerti che ogni uomo si porta addosso. Assolutaschiettezza, ansia di veritĂ : di qui lâinvito che il nostro autore rivolge aipoeti ed agli intellettuali a non traviare il lettore con tematiche dâevasionee maniere mistificanti, ed a rivolgere lâattenzione, piuttosto, allâumanitĂ sofferente, per lenire, fin dove Ăš possibile, qualche piaga sociale.
Il titolo rimanda allâarmonia dissonante della vita, che stride oscillandodal bene al male, dalla speranza allo sconforto, senza che sâintraveda maiuna certezza definitiva se non nel tramonto che, alla fine, si spegnerĂ negliocchi di ogni singolo uomo. Le nostre radici â Ăš il pensiero di Susi â affon-dano dietro i confini del tempo, che bara con noi stemperando le amarez-ze in âameni inganniâ e noi siamo condannati a vagare tra terra grigia ecielo opaco, dove non germoglia ancora il fiore del nuovo. E invano legenerazioni attendono che le promesse si avverino. Le ore del destino tes-sono da sole, mute, la tela dellâesistenza ed allâumanitĂ non resta che chie-dere perdono dei suoi errori e cercare, cercare sempre a tentoni. Eâ comerovistare in una scansia, tra ragnatele, polvere e scartoffie, ma lâalba nuo-va Ăš sempre lontana.
La cifra stilistica di Susi â conquistata lavorando il dialetto di Trasaccoâ Ăš un impasto sinfonico di ritmi insoliti e di tensioni semantico-lessicalicaratterizzate da intensi colori e vibrazioni segrete, da coinvolgenti solle-citazioni psicologiche e pacificati abbandoni, da echi digradanti e miste-riosi silenzi. Dettato, insomma, di una forte personalitĂ che, mentre spazianei cieli della fantasia e tra le cupe volute dellâinquietudine, non si nega aitemi ultimi della vita e della morte.
Ad unâarea piĂč propriamente lirico-elegiaca appartiene la poesia diCamillo Coccione, che scrive nel dialetto di Poggiofiorito (Chieti), pur seimmerso nellâamalgama di una naturale koinĂ© frentana. In VulĂŹje di cante,sua prima silloge, compaiono, sĂŹ, spunti e richiami delle tematiche preva-lenti in questi ultimi decenni (un distorto industrialismo, il consumismo, lacaduta degli antichi valori, la disgregazione del mondo rurale tradiziona-
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le, la droga, ecc.), ma tutta questa materia, invece di proporsi come mes-saggio autoreferenziale, e tanto meno di agitarsi come bandiera polemica,si solleva su un piano di piĂč raffinata meditazione e rappresenta soltantolo sfondo della sensibilitĂ coccioniana, lâelemento dialettico che meglioserve a disegnare lâinterioritĂ del poeta. La poesia di Coccione, infatti, Ăšlirica nel senso pieno del termine, in quanto al centro dellâispirazione câĂšsempre lâio poetante, con la sua chiaroveggente memoria, le sue tormen-tate introspezioni, i suoi slanci affettivi; una lirica che non si consuma tut-ta in un sospiroso ed oleografico lamento nostalgico (come avviene neipoeti meno ispirati), ma si dilacera tra le alienazioni del mondo modernoe, piĂč in generale, al filo spinato della condizione umana. Di qui la propo-sta di un sopramondo: che non Ăš ontologicamente vuoto o stridente nellesue contraddittorie coordinate (si pensi a tanta parte della produzione sim-bolista e surrealista), ma vivo, immanente, alla portata della nostra espe-rienza terrena, anche quando le immagini si fanno terse fino al bagliorenella loro eterea spiritualitĂ . Eâ forte, dunque, la tendenza di questa poeti-ca alla soggettivizzazione del reale; ma quando la tensione della metaforatenderebbe a rarefare il discorso e a trascorrere nel metafisico, ecco il con-trappeso della descrizione realistica, del particolare minuzioso. Dieci annidopo, in Scenne âm bacce a ssole, il discorso si fa piĂč asciutto, piĂč nervo-so e teso; gli enjambements piĂč frequenti. Avverti in questa fase lâaccu-mularsi della delusione, dellâumana stanchezza; sicchĂ© la frustrazione, ipresagi oscuri, lâincombere onnipresente della morte premono per accam-parsi come tonalitĂ dominante. Vacilla gravemente la speranza, aumenta-no il senso di vuoto, lo scetticismo; compaiono lâautoironia ed una rasse-gnata ma difficile compassione per le vittime di qualsiasi alienazione, lâin-comunicabilitĂ , il disincanto.
Queste ultime tendenze si accentuano ancora di piĂč in Valle Cicchitte.Qui, a differenza delle precedenti opere che privilegiavano lâendecasilla-bo sciolto, predomina il verso libero con una sua musicalitĂ talora som-messa ed interiorizzata, altre volte teso e nervoso, mentre il discorso, nelrespiro breve del frammento, si comprime in poche ma densissime imma-gini.
Con Marcello Marciani la poesia abruzzese ha conosciuto recentemen-te uno dei punti piĂč alti della libertĂ semantico-sintattica con un procede-re ludico-sperimentalista che si divarica nettamente dagli orientamenti edai risultati residui delle generazioni post-detittiane. Nel suo verso la real-tĂ , sensibile o affettiva, viene frantumata in una miriade di schegge ericomposta secondo un ordine fantastico finalizzato ad una superiore esi-
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genza creativa. Di qui la girandola caleidoscopica delle immagini, la libe-ra uscita delle sensazioni, lâesplosione iridescente delle analogie concate-nate allâinfinito, lâespansione continua ma non risolta degli echi e degliammiccamenti, orchestrati dal gioco sapiente delle allitterazioni. La lette-rarietĂ di Marciani non conosce le morbidezze un poâ stucchevoli del giĂ sentito, ma Ăš scabrosa come tutte le autentiche novitĂ . Per questo poeta,infatti, il dettato sâintesse di parole-cose, atte a rinominare le creature delmondo sfregiate dalle devastazioni dellâhomo civilis. E, dunque, le sueparole sono oggetti a tutto tondo, collocati non nel ristretto spazio di pal-coscenico e fondale, ma in quello illimitato di una realtĂ tridimensionale,senza un centro di gravitĂ che li obblighi a disporsi secondo un ordine con-venzionale: fluttuano e roteano per pulsioni capricciose o perchĂ© hanno giĂ realizzato, per conto loro, un disegno imprevedibile, utopico, che il letto-re Ăš chiamato a scoprire nelle sue valenze simboliche o psicologico-affet-tive. PerchĂ©, infatti, unâaltra caratteristica di Marciani Ăš la sua estremaritrosia a scoprirsi: il che, ovviamente, comporta un sovraccarico nel rigodi sensi centrifughi, ricondotti, perĂČ, allâunitĂ poetica nell'ambito com-plessivo della composizione. Spesso avverti una sorta di popolana, stra-fottente ironia che si sciorina, per lo piĂč, nella calma struttura dell'endeca-sillabo, spesso sdrucciolo e arricchito di frenanti enjambements. Moltocurati, in genere, i giochi fonici del significante, realizzati con lo strumen-to di un dialetto che spesso esalta i termini rari o addirittura caduti indesuetudine: di qui un senso di frastornante spaesamento.
Aglâinizi della sua vocazione letteraria Vito Moretti considera la linguamaterna come il percorso obbligato per lâesplorazione della propria storiainteriore e sociale. Guardandosi intorno, il poeta vede una provincia son-nacchiosa, attardata in atteggiamenti sterili e superati, sia nella sfera delleattivitĂ civili che in quella letteraria: per non dire, poi, dei tanti voltagab-bana «pronti a riverniciare le croci sui tabernacoli violentati dagli ultimibriganti di questâItalietta provocatoria». Di qui, dunque, una poesia lonta-nissima dal farsi rifugio o evasione: al contrario un discorrere che, ad ognipasso â problematicamente, ma anche con un forte senso della responsa-bilitĂ esistenziale â postula una piĂč radicale moralitĂ che faccia piazzapulita delle ipocrisie sociali su cui si poltrisce e ci si danna. I falsi splen-dori mitici del passato municipale non incantano il Nostro: egli non sâillu-de nemmeno sulle attese di un futuro che, pensato illuministicamente,dovrebbe sanare le vecchie ferite del mondo. Una poetica di questo tiponon poteva non esprimersi nelle forme della lirica moderna ed europea. Cipiace, perĂČ, a questo proposito â per meglio accostarci alla produzione
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morettiana â riportare unâannotazione di Tullio De Mauro nella prefazio-ne a DĂ©ndre a na storie: «Rimarcare la non paesanitĂ dellâorizzonte liricodi Moretti non comporta un meccanico giudizio positivo di valore controun altrettanto meccanico giudizio di disvalore che in modo grossolana-mente ingiustificato dovrebbe colpire chi sceglie determinatamente direstare nel microcosmo dâun paese...». Ad ogni modo, i poeti abruzzesi delpassato dicono poco o nulla al giovane Moretti: egli guarda, piuttosto aLoi, a Pierro, a Scataglini, a Zanzotto, a Guerra, oltre che a Butitta, Paso-lini, Marin, che in varia misura hanno concorso alla sua maturazione.SicchĂ©, tra le caratteristiche della sua scrittura neodialettale, vanno sotto-lineate la nervosa scansione della frase e lâoriginalitĂ dellâangolo di visua-le che ti fa vedere gli oggetti in una dimensione altra e sotto nuova luce.Per non dire, poi, del merito grande che Moretti si Ăš guadagnato per averampliato e rinnovato il vocabolario poetico abruzzese.
SenonchĂ©, nellâopera piĂč recente,âNnanze a la sorte, Moretti â per suastessa ammissione â restringe lâarea topografica del suo pubblico e si riac-costa allâoralitĂ , al registro colloquiale della sua gente. Questa conversio-ne â a nostro avviso â Ăš esemplare per constatare quanto sia semplicisticolo schema critico di chi vorrebbe i dialettali da una parte e i neodialettalidallâaltra, divisi senza alternative da un solco invalicabile. Sâintende chein questa fase Moretti non ripudia affatto le risorse stilistiche tesaurizzatenelle precedenti stagioni. Anzi, in questo che per noi Ăš il suo capolavoro,si smorza certa durezza polemica delle fasi anteriori ed alle voragini del-lâinquietudine subentra una mesta saggezza sulla vita e sul destino degliuomini, una saggezza che si fa canto ed armonia.
Poeta musicalissimo Ăš Mario DâArcangelo che sta curando la stampadella sua prima raccolta.
La sua musicalitĂ Ăš insita, sĂŹ, nel modo sapiente di mescidare la diversadurata dei versi liberi, ma Ăš affidata, oltre che alle allitterazioni, allâinten-sitĂ fonica delle parole, alla mimesi del mondo naturale con i suoi moti ele sue pause; ed Ăš spesso esaltata ed ebbra, altre volte giocata sullâeffettodel diminuendo e dellâevanescenza. Ne Ăš ben consapevole lâautore quan-do, a proposito della sua pronunzia, parla di musica da concerto, «dove fada soprano e prima voce questa parlata che mi trema in gola per quanto sadi mamma». Per lui il dialetto, piĂč che un recupero, Ăš piuttosto una riaf-fermazione della propria identitĂ socio-antropologica, Ăš tradizione di affet-ti domestici, di care memorie, comunanza ininterrotta di amore con i vivie con chi non câĂš piĂč. Ancora: Ăš continuare lâopera dei padri, nella stessacontrada, «dove ascolti crescere le radici sotto terra e puoi ricostruire, via
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dopo via, da capo a fondo un colloquiare antico [...]. Dovunque tu sia, âesclama il poeta â parola ormai sepolta dalla polvere degli anni, voglioridarti vita, urlarti in gola».
La tastiera poetica di DâArcangelo narra di colline accecate dal sole, sol-cate dal vento, di rupi e strapiombi, di siepi entro cui scherzano chiazze diluce. Religione del grano e fantasmagoria di creature alate, sentite comesorelle e, perciĂČ, amate teneramente: sono loro, per tanti aspetti, i prota-gonisti del libro. Deliziosi e nitidi quadretti coesistono armonicamente conil flusso di coscienza; fragranze dimenticate, estrosi chiaroscuri, profondi-tĂ spaziale, disegno dai contorni lucidi ed ariosi: ecco alcune caratteristi-che di questa poesia che nelle varianze della natura, in un vibrante sen-sualismo pampsichistico e, dunque, nella comunione piĂč profonda con leradici dellâessere, trova le ragioni piĂč alte della sua ispirazione. La poeti-ca di DâArcangelo, venata da un segreto sentore di attesa, ripudia il pessi-mismo o lo supera nella proposta della speranza e della consolazione. Lostile, spesso nominale, Ăš ricco di metonimie, di analogie. Frequente lâinfi-nito assoluto, tipica lâapostrofe alle creature del mondo, in una modulataeloquenza che non ha nulla di retorico ma Ăš il canto stesso della terra e delvento.
Ecco, avremmo voluto parlare ancora di altri poeti meritevoli, ma lo spa-zio a disposizione, come si vede, Ăš piuttosto scarso. A noi, perĂČ, premevaporre sotto osservazione certe tendenze della poesia dialettale abruzzese,sulle quali finora molto poco si Ăš riflettuto.
Nicola Fiorentino
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ANTOLOGIA
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ALFREDO LUCIANI
In Bibliografia della critica: Campana 1914; Tosti, 1925; Pasolini - DellâArco 1952;Giannangeli 1958, 1996, 2002; Giammarco 1958; Esposito 1980; Oliva 1982; Oliva-DeMatteis 1986; Brevini 1990; Spagnoletti-Vivaldi 1991; Civitareale 1997.
da Stelle lucende
La lune
âNa sere nem mâaveve ânnamurate(se jâ le diche ân ge crete nisciune,pecchĂ© li pazze stanne a Mmacerate)ânduvine mboâ? de nu chiare de lune!
Jâ me sendeve come âmbreiacate,e mme mettive a ppiagneâ ângenucchiune:chelu chiare de lune mâeve ândratedendrâallu core: e ttu vuoâ cchiĂč ffurtune?
Nen zacce: chela pace, chelâariette, câavĂ© passate ân gocce a ugni ffiore;lâaria turchine, tende de viulette,
chele cemate, curunate dâore...Me vutive alla lune, e jĂ© diciette:â Nghe ttutte âste bbellezze, puâ se more?
La luna â Una sera non mâero innamorato / â se io lo dico non ci crede nessuno, / perchĂ©i pazzi sono (ricoverati) a Macerata â / indovina un poâ? di un chiaro di luna! // Io mi sen-tivo come ubriacato, / e mi misi a piangere ginocchioni: / quel chiaro di luna mâera entra-to / dentro al cuore: e tu vuoi piĂč fortuna? // Io non so: quella pace, quellâarietta, / châerapassata in testa ad ogni fiore; / lâaria turchina, tinta di violetto, // quelle cime colorate dâo-ro... / Mi voltai alla luna e dissi: / «Con tutte queste bellezze, poi si muore?» (Trad. diOttaviano Giannangeli).
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CESARE DE TITTA
In Bibliografia della critica: Tosto 1938; Illuminati 1949; Giancristofaro 1957; Giammarco1958, 1969; Giannangeli 1958, 2002; Pasolini 1960; Oliva-De Matteis 1986; Esposito1989; Spagnoletti-Vivaldi 1991; Mancini 1992; Verratti 1992, 1996, 1997.
dalle Canzoni abruzzesi
Lu piante de le fĂČje
Lu cielâĂš cchiuse e cchiuse Ăš la muntagne,le fĂČjje ggialle casche a unâa une,e ssi cĂČjje la âlive, e la campagnetra la nĂšbbie aresĂłne di canzune...SĂšmpre sta nĂšbbie, amore, gna si cĂČjjela âlive, e ccaschâallâĂ rbere le fĂČjje!
Sâalzâa lu ciele tantâ e ttante scalegne tra nu sonne che nen sacce dire;sajje cantĂšnne lâĂ nemâ e rrecĂ leda ân ciele ân tĂšrre e jjĂštte nu suspire...PuĂČrteme tra la nĂšbbie, tra le rame,na scale, amore, a llâĂ neme che cchiame.
âN cimâ a na scale ci sta na fijoleche âm mezzâ a llâatre voce fa da prime,e, gna vulĂ©ssâ aretruvĂ â lu sole, sâaalzâ aalze e sse ne va cchiĂč ân cime...Ah cchela voce che ffa da suprane,amorâ amore, falle cantĂ â piane!
Le fĂČjje fa nu piante peâ la vĂŹe, e lu cantâ aresĂłne entrâa lu coregne nu salutâafflitte, gne nâaddĂŹedi tante tante cose bbielle che ssi more, di tante care nuode che ssâasciĂČjje, amore, tra lu piante de le fĂČjje.
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Il pianto delle foglie â Il cielo Ăš chiuso e chiusa Ăš la montagna, / le foglie gialle cadono auna a una, / e si colgono le olive, e la campagna / tra la nebbia risuona di canzoni... /Sempre questa nebbia, amore, quando si colgono / le olive, e cadono dagli alberi le foglie!// Si alzano verso il cielo tante e tante scale / come in un sogno che non so ridire; / sale can-tando lâanima e ridiscende / dal cielo in terra ed emette un sospiro... / Portami tra la neb-bia, tra i rami, / una scala, amore, allâanima che chiama. // In cima ad una scala ci sta unafigliola / che tra le altre voci fa da prima, / e, come volesse ritrovare il sole, / si alza, si alzae se ne va piĂč in alto... / Ah, quella voce che fa da soprano, / amore, amore, falla cantar pia-no! // Le foglie fanno un pianto per la via, / ed il canto risuona entro al cuore / come unsaluto afflitto, come un addio / di tante cose belle che muoiono, / di tanti cari nodi che sisciolgono, / amore, tra il pianto delle foglie. // (Trad. di Nicola Fiorentino)
da Terra dâoro
La mĂšnele di frubbare
I
Iâ âvĂ© sentite a ddire a llâurtulane:«Menelucce, nen faâ la presentĂłse,stu garbinĂšlle sĂčbbete sâappose, e rresiente a ffischiĂ â lu maestrane».
Iâ pure avĂ© paure di frubbare,cortâ e mmalecavate, cortâ e amare,
e ttâavesse vulute dire iâ pure:«Menelucce, neâ mmĂ©ttere li fiure».
II
Ma stamatine, gna mi soâ âffacciatea llâorte e tti soâ viste âm bacce a ssoletutte palme dâargente tra nu voleallĂ©gre di cellucce, âncantecate
ti soâ ditte tra mĂ©: «ĂĂź fatte bbone!La bbellĂ©zze nâ abbade a la staggione,
la bbellézze cumpare gna cumpare,o bbianca menelucce di frubbare!».
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Il mandorlo di febbraio â I - Avevo udito dire allâortolano: / «Mandorluccio, non fare lâim-prudente, / tra breve il garbinel piĂč non si sente, / e ripiglia a fischiare il tramontano». //Avevo anchâio timore di febbraro, / mese corto e malnato, corto e amaro, // e anchâio te lâa-vrei voluto dire: / «Non fiorir, mandorluccio, non fiorire!» // II - Ma quando stamattina hogiĂč guardato / nellâorto e in faccia a sole tâho veduto / tutto rami dâargento tra il saluto / eil volo degli uccelli, lĂŹ incantato // tâho detto tra di me: «Hai fatto bene! / La bellezza Ăš cosĂŹ,vien quando viene, // la bellezza non bada al tempo, / o caro mio bianco mandorluccio difebbraro!» // (Traduzione isometrica dellâautore)
Le jenĂšstre
I
Dope nâacque di magge ti cunsuolea rreguardĂ â lu mĂłnne. Ăcche, sfenĂšstre,e vvide gna reluce sottâa ssolela ripe tutte fiure di jenĂšstre.
Ma peâ cquante pĂł rĂšssere massĂ©rebbielle ssi fiure, fu peâ mmĂ© cchiu bielle
tantâannâ arrĂ©te: Ă©re ggiuvenettĂ©lle,e ccome mmo fiurĂ© la primavĂ©re.
II
Iâ passĂ©, dope lâacque, peâ sta vĂŹe,e, âmbacc-i-a la spallĂ©tte de lu ponte,trĂ© fijĂłle guardave allochâ ammontecheli fiure che ffa menĂŹâ vulĂŹe.
«à ttante bbielle, ma chi ci si ântipe?Ci va le lape!» Une dicĂŹ ridĂšnne.
E cchelu rise mi mittÏ le scénne,e ccujve li fiure de la ripe.
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III
Li jettĂ© âbballe, e ssi spannĂ© li âddurepeâ llâ Ă rie. E hisse stave nche le vraccestĂ©se, e rridĂ© gna je âmbunnĂ© la faccelâacque che spruvelave da li fiure.
E mmo lâune e mmo lâatre dicĂ©: «JĂštte!»Iâ nen sapĂ© che fĂ cuntente prime...
Ă ttantâ anne, e lu core Ă©ntrâ a lu pĂšttesuspire, sâareguardâ allĂłche ân cime.
Le ginestre â I - Dopo unâacqua di maggio ti consoli / a rimirare il mondo. Ecco, sfinestra,/ e vedi come brilla sotto il sole / la ripa tutta fiori di ginestre. // Ma per quanto sian belliquesta sera / quei fiori, per me furono piĂč belli // tantâanni dietro: ero giovinettello, / e fio-riva comâor la primavera. // II - Passavo, dopo lâacqua, in questa via, / ed appoggiate almuricciuol del ponte / tre figliole rivolta avean la fronte / lassĂč a quei fior che fan venirvolĂŹa. // «Son cosĂŹ belli, ma chi mai ci sale? / - una disse ridendo. - Ci van lâapi!» // E ilriso di colei mi mise lâale, / e colsi le ginestre de la ripa. // III - GiĂč le buttavo, e si span-dean gli odori / per lâaria. Ed esse stavan con le braccia / tese, e ridevan quando su la fac-cia / gli spruzzava talor lâacqua dai fiori. // Or lâuna or lâaltra mi diceva: «Butta!» / Nonsapevo chi far contenta prima... // Eâ tantâanni, e il mio cuore dentro il petto / sospira, seriguardo lĂ in cima. // (Traduzione isometrica dellâautore)
da Acqua, foco e vento
La fonte
Che ccĂłse dice lâacque de la fonte?Mo tâapiense ca ride e mmo ca piagne.Lâajje sentite âm mĂšzzâ a la campagne, sottâ a la fratte e ppoâ sottâ a lu ponte:
fa gne une che ttĂ© tante secrite,tante recuorde, e cchiame e ssâannascĂłnne...Che ccĂłse dice lâacque che sâaffĂłnnesottâ a li chiuoppe, dentrâ a li cannite?
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Da tante tĂšmpe lâacque va âlu mare,la vita nostre Ăš tutte nu mistĂ©re.Iâ quande guarde ân ciele cierte sĂ©reche nen ci sta la lune e llâarie Ăš cchiare,
e vvĂ©de che stĂ©lle che nâtĂ© finee ssĂšnte chela fonte che nen cĂšsse,iâ mi ci pĂšrde, gna mi si purtĂ©sseverse lu mare lâacque che ccamine.
MâarevĂ© âm mĂšnte lâanne châĂš ppassiĂštee cquanta ggiuventĂč Ăšcche Ăš mmenute,c-i-Ă rise, c-i-Ă cntate, e ssâĂš pperdutenu ggiorne a ccampesante tra la crĂ©te.
QuillâĂ©re come nnuâ, quillâ a sentitecome nnuâ stu parlĂ â misterĂŻose,quille pure vulĂ© sapĂ©â caccĂłsee pprime de sapĂ©rle se nâĂš ite.
Le vite nuostre passe a unâ a unee ccome llâacque se ne va luntane.Da tante tempe parle sta funtane:quelle che ddice neâ le sa neçiune.
La fonte â Che cosa dice lâacqua de la fonte? / Or ti pare che rida, ora che pianga. / Lâhosentita lĂ in mezzo a la campagna, / sotto la siepe e poi lĂ sotto il ponte: // fa comâun châab-bia in cuor tanti segreti, / tanti ricordi, e chiami e si nasconda... / Che cosa dice lâacqua chesâaffonda / lĂ sotto i pioppi, lĂ dentro i canneti? // Da tanto tempo lâacqua corre al mare, lavita nostra Ăš tutta nel mistero. / Io, quando guardo in alto certe sere / che non esce la lunae lâaria Ăš chiara, // e vedo quelle stelle senza fine / e sento quella fonte che non cessa, / iomi ci perdo, quasi mi traesse / giĂč verso il mare lâacqua che cammina. // Mi tornano al pen-sier gli anni passati / e quanta gioventĂč Ăš qui venuta, / ci ha riso, ci ha cantato, e sâĂš per-duta / un giorno a camposanto tra la creta. // Quelli eran come noi, quelli han sentito / comenoi questo suon misterĂŻoso, / anche quelli volean saper qualcosa / e prima di saperla sonpartiti. // Passan le vite nostre ad una ad una / e come lâacqua se ne van lontano. / Da tan-to tempo parla sta fontana: / quello che dice non lo sa nessuno. // (Traduzione isometricadellâautore)
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MODESTO DELLA PORTA
In Bibliografia della critica: Giannangeli 1958, 1969, 2002; Oliva-De Matteis, 1986;Esposito 1989; Spagnoletti-Vivaldi 1991.
da Ta-pĂč, lu trumbone dâaccumpagnamente
Serenate a mamme
O Maâ, se quacche notte mi veâ âmmenteti vujje faâ na bella âmpruvisate;tâaja minĂŹâ a purtĂ â âna serenateânche stu trumbone dâaccumpagnamente.
Neâ rideâ, Maâ... Le sacce: lu strumenteĂš ruzze e chi le sone nen teâ fiate.Ma zitte, ca se ccĂČjje lu mumente,capace che lâaccucchje na sunate.
Quande lu vicinate sâarisbĂšjje,sentĂšnne sunĂ â, forse puâ dire:Vijatâ a jsse coma sta cuntente!
Ma tu che mi cunusce nen ti sbĂšjje:li sĂź ca ogni suffiate Ăš nu suspire,li sĂź ca ogni mutive Ăš nu lamente!
Serenata a Mamma â O mamma, se qualche notte mi passa per la testa (e mi decido), / tivoglio fare una bella improvvisata; / ti devo venire a portare una serenata / con questo trom-bone dâaccompagnamento. // Non ridere, mamma... Lo so: lo strumento / Ăš rozzo e chi losuona non ha fiato. / Ma, zitta, che se colgo il momento buono, / forse la porto a termineuna suonata. // Quando il vicinato si risveglierĂ , / sentendo suonare, forse dirĂ : / «Beato lui,comâ Ăš contento!» // Ma tu che mi conosci non ti sbagli: / lo sai che ogni soffiata Ăš un sospi-ro, / lo sai che ogni motivo Ăš un lamento! // (Traduzione di Nicola Fiorentino)
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VITTORIO CLEMENTE
In Bibliografia della critica: Pasolini-DellâArco 1952; Pischedda 1953; Merciaro 1954;Giammarco 1958; Giannangeli 1958, 1959, 1969, 1970, 1995, 2002; Oliva-De Matteis1986; Esposito 1989; Spagnoletti-Vivaldi 1991; Civitareale 1997.
da Prime canzĂŽne
âMmatine dâautunne
Quanta malengunie chesta âmmatinepâ âllu ciele bianchicce, senza cante!Iâlla campagne Ăš triste âmma ânnu piante,cumma ânnu piante dĂŽce senza fine...
CĂ schene âllâ foglie da âl piantechiane chiane nchâ nu fruscie dâ trine...De tante âbbelle rose allu ciardineo quante spine soâ remaste, quante!
Soâ sfiurite llâ rose, i chiane chianesvanĂŹscene glie suonne; entra âllu coredâ la âbbella stagione ce remane
nu recuordâ nchâ ânnâ ombre dâ dulore...âNa vĂŽcia chiara canta da luntane: Povere amore miâ, povere amore!
Mattino dâautunno â Quanta malinconia questa mattina / per il cielo bianchiccio, senzacanti! / E la campagna Ăš triste come un pianto, / Ăš come un pianto dolce senza fine... // Ecadono dagli alberi le foglie / piano piano con un fruscio di trine... / Di tante belle rose nelgiardino / oh quante spine son rimaste, quante! // Son sfiorite le rose, e piano piano / anchei sogni svaniscono; entro il cuore / della bella stagione ci rimane // un ricordo, ed unâom-bra di dolore... / Canta una voce chiara da lontano: / Povero amore mio, povero amore! //(Traduzione isometrica di Ottaviano Giannangeli)
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da Sclocchitte
Lu paisitte mĂŹ
Ammonte pe la coste sta agguattatelu paisitte mĂŹ tra gli vignete;nâatre chiĂč bielle iâ ne nnâhai truvategirĂšnne pe stu munne annanze e arrete.
Tra lu verde de vigne e dâulivetesâaffacce a guardĂ abballe alla vallateddo lu fiume se fa tante cantatetra duâ file de pioppe e de cannete.
Cante lu Saggittarie fresche e chiaree le uagliune cĂ ntene dâamoreân mezze alla ierve ân fiore de lu prate.
Lu paisitte mĂŹ Ăš belle e care:ce sta mamma, la casa, lu mio core;lu chiĂč belle Ăš de tutta la vallata.
Il paesetto mio â Ammonte per la costa sta agguattato / il paesetto mio di tra i vigneti; /uno piĂč bello non ne ho mai trovato / in giro per il mondo avanti e dietro. // Tra il verdedelle vigne e degli ulivi / sâaffaccia a guardar giĂč per la vallata / dove il fiume si fa tantecantate / tra due file di pioppi e di canneti. // Il Sagittario canta, fresco e chiaro, / e le fan-ciulle cantano dâamore / in mezzo allâerba in fiore delle prata. // Il paesetto mio Ăš bello ecaro: / ci sta mamma, la casa ed il mio amore; / il piĂč bello Ăš di tutta la vallata. //(Traduzione isometrica di Ottaviano Giannangeli)
da Tiempe de sole e fiure
Autunne
A calate de serenu fuoche a arde a na campagna stesefine alla finitore de lu munne.E quille grille, mpunte dâangunie,
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a chiamĂ da nu funnede liette pe sta vĂŹe.Nu file, appene, de fiate: cri, cri;a quanne a quanne.
Ma chi lâĂŽ sentĂŹ?Sâha finate lu munne, a luna scite.
Autunno â Al calar della sera / un fuoco ad ardere in una campagna / distesa fino alla finedel mondo. / E quei grilli lĂ , in punto di agonia, /a chiamare da un fondo / di letto a questavia. / Un filo, appena, di fiato: cri, cri; / a quando a quando. / Ma chi vuole udirlo? / Il mon-do sâĂš finito, a luna uscita. // (Traduzione isometrica di Ottaviano Giannangeli)
GUIDO GIULIANTE
In Bibliografia della critica: Giammarco 1956, 1957, 1958, 1977; Giannangeli 1958, 1969;Amoroso, 1961; Esposito 1980; Moretti 1998 e 1998b.
da Lâaddore de lu nide
Sunne dâamore
Oh, ândindalĂČ de pecure a lu stazze!MurmulijĂ de cante de pastorecâaretratte la spose su la mazzeânche âna frĂ©zze a lu mezze de lu core!
E cante, e penze, e sonne entre a la grottenu lette pronte entre a âna casarelleaddĂČ poâ repusĂ quande la notteaccenne e treme ân ciele mille stelle.
E le pecure sonne primavereân che la muntagne piene de lâaddorede mentucce e la fonte quande Ăš sere.
Frusce a crichelijĂ ... sunne dâamore!
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Lu ândindalĂČ dentre a lu stazze neregni nu rentocche va fine a lu core.
Sogni dâamore â Oh, dindalon di pecore nello stazzo! / Mormoricchiare di canti del pasto-re / che incide la figura della sposa sulla mazza / con la freccia in mezzo al cuore! // E can-ta, e pensa, e sogna entro la grotta / un letto pronto in una casetta / dove possa riposarequando di notte / ammiccano e tremano in cielo le stelle. // E le pecore sognano la prima-vera / con la montagna odorosa / di mentuccia e la fonte quando Ăš sera. // Fronde che cric-chiano... sogni dâamore! / Il dindalon dentro lo stazzo nero / come un rintocco fin dentroal cuore. // (Traduzione di Nicola Fiorentino)
GIULIO SIGISMONDI
In Bibliografia della critica: Giannangeli 1958, 1969, 1991; Esposito 1989; Fiorentino2001.
dalla raccolta Da cente e cente vocche
Vulesse...
Vulesse diventĂ nu venticelle,nu venticelle fresche e prufumate, pâaccarezzarte tutte la jurnatesse trecce nere e folde, Carmenelle.
Lu sfizie mi levesse, lu capricce,di pazziĂ â nu ccone nche ssi ricce.
Vulesse diventĂ lâacqua che passe,lâacqua che passe sottâa lu vallone:mentre tu sciacque o struçe lu sapone,iâ sse manucce belle ti tuccasse.
Nu sfizie, nu capricce mi levessese tra mezzâa sse dite ti passesse.
Vulesse diventĂ â, se no... lenzole,
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une di quisse che tu turce e sbĂšttee dope, quantâĂš larghe, le viâ mmettea la fratte de spine, âmbacc-i-a sole.
E torce e pungicĂ â iâ mi facesse,ma âbracc-i-a me la sere tâaccujesse.
Vorrei... â Vorrei diventare un venticello, / un venticello fresco e profumato, / per accarez-zarti tutta la giornata / codeste tue trecce nere e folte, Carminella. // (CosĂŹ) lo sfizio mitoglierei ed il capriccio / di giocherellare un poâ con i tuoi riccioli. // Vorrei diventare lâac-qua che passa, / lâacqua che passa giĂč al vallone: / mentre tu sciacqui o strofini il sapone,/ io le tue manucce belle ti toccherei. // Uno sfizio, un capriccio mi toglierei / se tra le tuedita potessi passare. // Vorrei diventar se no... lenzuolo, / uno di quelli che tu torci e sbatti/ e poi vai / a spanderlo in tutta la sua larghezza / sulla fratta di spine a prender sole. // Etorcere, e pungicare io mi farei / ma tra le mie braccia la sera ti accoglierei. // (Traduzionedi Nicola Fiorentino)
MARCO NOTARMUZI
In Bibliografia della critica: Giannangeli 1958; Giammarco 1967, 1981; Desiderio 1992;Fiorentino 1992, 1995.
da Seréna
Seréna
Ju viende straccia lâaria e a cchiane a cchianela neve ci allustrisce e ce fa jĂ©le.Nu canecorre sfrustune rende a nu candonee ân giĂ©letutte le stelle viĂ©ne âm brecessone.Fa fridde.Ce jĂšlane ji penziĂ©re e le parole,ma addumane, addumane, quande sole.
Notte dâinverno â Il vento straccia lâaria e, a poco a poco, / la neve si fa lustra e poi gelo./ Un cane / corre guardingo (e con la coda tra le gambe come se fosse inseguito da una fru-
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sta) rasentando un muro / e in cielo / tutte le stelle vanno in processione. / Fa freddo. / Sigelano i pensieri e le parole, / ma domani, domani, quanto sole. // (Traduzione dellâautore)
da Le cingiallegre
La luna
La luna che cresce a memoriae canda la gloriade tutte le stelle, jennotte Ăš zumbata a ccavallepe farce na corza dâargiende.Ma doppe nu puoche ce pende: la frusta e la nĂčvela lassa,desopra alla terra ci abbassae, zitta, ce mette a arrecchiĂ i chĂšne che stiene a abbajjĂ .
La luna â La luna che cresce a memoria / e canta la gloria / di tutte le stelle, / stanotte Ăšmontata a cavallo / per farsi una corsa dâargento. / Ma dopo un poco si pente: / la frusta ela nuvola lascia, / sulla terra si abbassa e, zitta, si mette ad origliare / i cani che stanno adabbaiare. // (Traduzione dellâautore)
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COSIMO SAVASTANO
In Bibliografia della critica: Clemente 1966; Scarpitti 1967; Giannangeli 1982; Oliva-DeMatteis 1986; Esposito 1989; Spagnoletti-Vivaldi, 1991; Fiorentino 1992; Civitareale1997; Russo 2000.
da DĂ©nte a na scionna
Amore pe rejale
Amore amore e parleme dâamoree parleme de suonne e tenerezzedamme la pacia tu che le carezze,damme de ssâuocchie tia ru splendore...
Amore amore e parleme zettenneamore amore quande vĂš le stellefamme purtĂ peâ le lucecappelletanta parole che nâ ce puone ântenne...
Tanta parole nate da ssu coreche sta luntane e sbatte tale e qualeche sta luntane e palpeta dâamore.
Lâamore Ă© rusce come lu crugnalee come pane-e-casce tĂš lâaddoreamore damme amore peâ rejale...
Amore per regalo â Amore amore e parlami dâamore / e parlami di sogni e tenerezze / dam-mi la pace tua con le carezze, / dammi di codesti occhi tuoi lo splendore... // Amore amo-re e parlami sussurrando / amore amore quando verranno le stelle / fammi portare dalle luc-ciole / tante parole che non si possono intendere... // Tante parole nate dal tuo cuore / chesta lontano e batte tale e quale / che sta lontano e palpita dâamore. // Lâamore Ăš rosso comeil corniolo / e odora come pane e cacio / amore dammi amore per regalo. // (Traduzione diNicola Fiorentino)
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da Nu parlĂ zettenne
Nâallucche
Alla ândrasatte ân ciele ce scurettee cheâ na botta jĂč re vuttelunecome crellĂ de vrite e de cumbietteiettate a vranche ân miezze a re candune.
E quande fu nu chiĂČvere appacatena screiazzata a frunne de chiupperafreiette allâaria peâ nâurle straziate.
Nâ ce sa chi fu. Na risa de sammuchesgrellate a viente doce, a prima sera,doppe lâacquata de le ciammaruche.
Un urlo â Allâimprovviso in cielo si fece scuro / e con un momento giĂč i goccioloni / comescricchiolare di vetri e di confetti / gettati a piene mani in mezzo ai massi. // E quando fuun piovere pacato / una sferzata fra le fronde del pioppeto / stridette nellâaria per un urlostraziato. // Non si sa chi fu. Una risa di sambuco / sgorgĂČ nel vento dolce, sul far della sera,/ dopo la pioggia improvvisa di prima estate. // (Traduzione dellâautore)
Chi nâarreturnarrĂ
Dia, le case sfracanate!Arruscenite ciâene paja e sciene,streppune ciâene fatte vigna e âliva.Dia, le sĂčlcre chine de sementa!
Ciele a huardĂ ciâene lassate allorae terre a camenĂ sotte alle stelleancora teâ la gente de ru munne,selve e pantane e vuosche peâ refuggesenza na lesca âmana de ândremmappa,fermiche sperte ân miezze a re desierte
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![Page 44: EDIZIONI COFINE - Poeti del Parco](https://reader031.fdocument.pub/reader031/viewer/2022012015/6159f63a896e6f04002522b3/html5/thumbnails/44.jpg)
rende a re sciume gialle e renazzuse,pajuche come nuâ dâantica cama.
Chi nâarreturnarrĂ rende alle case?
Mura dellâuorte sfrandumate e spasea nâĂ rvene seccate de cerascia, Ă rvene stracche mia de sciurite.
Chi vi tornerĂ â Dio, le case frantumate! / Ci hanno arroventato paglia e fieno, / in dis-seccate radici ci hanno ridotto vigna e olivo. / Dio, i solchi pieni di sementi! // Cielo a guar-dare ci hanno lasciato allora / terre in cui vagare sotto le stelle / trovano ancora le genti delmondo / e selve ancora e boschi come rifugio / senza neppure una fetta di pan di segala /formiche sperse in mezzo al deserto / lungo fiumi gialli e sabbiosi, / pagliuzze come noi diantica pula. // Chi tornerĂ fra le case? // Mura dellâorto frantumate e sparse / intorno al cilie-gio disseccato, / mio albero stanco di fiorire. // (Traduzione dellâautore)
GIUSEPPE ROSATO
In Bibliografia della critica: Giannangeli 1969; Esposito 1989; Spagnoletti-Vivaldi 1991;Serrao 1992; Fiorentino 1992, 2002; Civitareale 1997; Loi 2002.
da La cajola dâore
Tre file
Ci sta nu file chiare allâorizzonnema âccuscĂŹ chiare e lente, stammatine,âccuscĂŹ bbianche ca pare si cunfonneciele e muntagne, senza cchiĂč cunfine.
Nu file di ricorde, assoprâa quelle,si sturcine e sâareturcine, strette
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a na fenestrâaperte, a nâora bbelledi chi sa quande, châarenasce âm pette.
Nu tette a nâatru tette e a nâatre stennenu fume lente che sâunisce e pijela vie de lu ciele; e va tremennepecchĂ© Ăš nu file de malincunie.
Tre file â Ci sta in cielo un filo chiaro allâorizzonte / ma cosĂŹ chiaro e lento, stamattina, /cosĂŹ bianco che pare si confondano cielo e montagne, senza piĂč confini. // Un filo del ricor-do, sopra a quello, si svolge e si riavvolge, stretto / ad una finestra aperta, a unâora bella /di chi sa quando, che rinasce in petto. // Un tetto ad un altro tetto e ad un altro stende / unfumo lento che si unisce e piglia / la via del cielo; e va tremando / perchĂ© Ăš un filo di malin-conia. // (Traduzione di Nicola Fiorentino)
da LâĂčtema lune
ResentĂŹâ a trezzecĂ rese lu vetrea la fenestre a notta fonne e dĂŹrese:lu sfrusce de la neve! gna pĂŽ Ăšsseâ?dope la stellijĂ te de ierserechi ce putĂ© penzĂ â... E a notta fonnegna le vedisse tutte chelu bbiancheappenâarrĂ©tâa la persiane, e mĂ©ttesea staâ a sentĂŹâ ca lu relogge sĂŽnepe chi sa quala cchiĂč ore de notte.Chelu sĂŽne quarchiate, chelu sĂŽneche se fa resentĂŹâ ma come quandegiĂ se nâavesse ite a lu sprufonne.
Risentire scuotersi il vetro alla finestra, a notte fonda, e dirsi: il fruscio della neve! comepuĂČ essere? dopo la stelleggiata di ieri sera chi poteva pensarci... E a notte fonda come selo vedessi tutto quel bianco appena dietro le persiane, e mettersi a stare a sentire che lâo-rologio suoni per chissĂ piĂč quale ora di notte. Quel suono ottuso, quel suono che si farisentire ma come se giĂ se ne fosse andato a inabissarsi. (Traduzione dellâautore)
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ALESSANDRO DOMMARCO
In Bibliografia della critica: Mazza, 1971; De Mauro 1980; Giachery 1980; Oliva-DeMatteis 1986; Mazza 1986; Spagnoletti-Vivaldi 1991; Fiorentino 1992; Esposito 1992,1995; Giannangeli 2002.
dalla raccolta Da mĂł ve diche addĂŹje
Me lâajja fĂš durĂš âstu âccone tĂšmbe
Me lâajja fĂšâ durĂšâ âstu âccone tĂšmbeca nâĂłre mâha da rĂšsseâ âna jurnĂšte.Me vuĂłjje fĂšâ tuttâuĂłcchie, tutte mĂšnepeâ stregneâ, pâarrubbarme âsta marinee âste cuĂłlle e âstu ciĂ©le. Lâajja bbĂ©veâ,âstu tĂšmbe che mâha ârmaste, che ggna parleggiĂ ze ne vĂš e zza pĂšrze, âstu âccungillede tembe che mmâattĂČcche, che nen zaccese cquande me nâattĂČcche, lâajja bbĂ©veâa âna ânzigne peâ vvĂČte, piĂšna piĂšne,e nân-da za nâha pirdĂŹ manghe âna hĂłcce.Ca se ppasse, âstu tĂšmbe, neâ llâartrĂłve:âstu tĂšmbe dĂŽce gni lu scandarĂšllelassĂštâa hĂšlle ân-gime a la capanne,âstu tĂšmbe de vulĂŹjje e ângurdinĂŹzie,piĂ©ne e ssucĂłse gni ânu purtihalle.
Devo farmelo durare questo poâ di tempo â Devo farmelo durare questo poâ di tempo, cheunâora mi deve durare quanto un giorno. Voglio farmi tuttâocchi, tutto mani per stringere,per rubarmi questa marina e questi colli e questo cielo. Devo berlo, questo tempo che mi Ăšrimasto, che parlando giĂ se ne va e si Ăš perduto, questo cosĂŹ poco tempo che mi spetta, chenon so quanto me ne spetti, devo berlo un poâ per volta, pian piano, e non ne deve andarperduta una goccia. ChĂ© se passa, questo tempo, non lo ritroverĂČ piĂč: questo tempo dolcecome il racimolo dâuva che Ăš stato lasciato lĂ in cima alla pergola, questo tempo di vogliae di ingordigia, pieno e succoso come unâarancia. (Traduzione dellâautore)
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A une châha mĂČrtâaccise
VĂłcchâarrapĂšrte tutte sganganĂšteche nem bĂł cchiĂč strillĂšâ, uĂłcchie scacchiĂšteânghiuvĂšte da la lĂčtema pavure.Ma nâ-de penĂšâ, stiĂ© âm-bona cumbagnĂŹje:pecchĂ© tu sciĂ© sultande une qualungheâ âna morre tra ânu muĂłcchie de manuĂČppre âde tutte le cristiĂšne muĂłrtâ accisechâattĂČcche a âsta jurnĂšte: e âsta jurnĂšte, dĂ©ndre a llâammazzatore de âstu mĂłnne,hĂ© ânu juĂłrne gni ânnâĂątre, tutte âmbussede sanghe de cristiĂšne che peâ ân-dĂšrre,senza sparagne, gni âna piĂłva scure,arcasche scingelĂšte e zzâigniliscetra le prĂ©te e la prĂČvvele. A âsta piĂłveche mmĂš nâ-allĂšnde tutte zâaddicrĂ©jjela tĂšrre che lâarcĂ©ve: e a âstu cungimeattucchelĂšte e nnĂ©re, appiccecĂłgne,zâarsĂšnde gni ânu cice, arcacce fiure(dĂ dĂšâ lu panem nostrum quotidianumhodie et cras, siĂšmbre bbianghe e ssapurite)e nnen ze âmbuzzenisce e nnen ze frĂ ciche.HĂš da lu prime juĂłrne de la viteche âstu cungĂšrte alĂ©gre de bbiastĂ©me,de maldizzune e stride e piagne e rrajjehĂš de le fĂšste la cchiĂč fĂšsta mĂšjje:e ssole finarrĂ quande lu mĂłnne, pulite da la lĂčtema addacquĂštecome da âna ruscĂŹjja calla calle,ze ne jarrĂ a ffĂ â fĂłtte e statte bbĂłne.
A uno che Ăš morto ucciso â Bocca aperta tutta sgangherata che non puĂČ piĂč gridare, occhisbarrati, inchiodati dallâultima paura. Ma non ti dar pena, stai in buona compagnia: perchĂ©tu sei solamente uno qualunque â una spiga di frumento in un mucchio di covoni â di tut-ti i morti ammazzati che spettano in sorte a questa giornata: e questa giornata, nellâam-mazzatoio che Ăš il mondo, Ăš un giorno come un altro, tutto fradicio di sangue cristiano che
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per terra, senza risparmio, come una pioggia scura, ricade sparpagliato e si raffredda tra lepietre e la polvere. A questa pioggia, che mai non lascia, tutta si ricrea la terra che la rice-ve: e a questo concime aggrumato e nero, appiccicoso, si sente soddisfatta e grassa, ribut-ta fiori (deve dare il panem nostrum quotidianum hodie et cras, sempre bianco e saporito)e non impuzzisce e non si infradicia. Eâ dal primo giorno della vita che questo concertoallegro di bestemmie, di maledizioni e strida e pianti e rabbia Ăš delle feste la festa miglio-re: e solo finirĂ allorchĂ© il mondo, pulito dallâultima innaffiata come da una lisciva caldacalda, se ne andrĂ per sempre a farsi fottere e statte bbĂłne. (Traduzione dellâautore)
Che hĂš? neâ hĂš nnjiĂšnde
A nu mumĂšndete scuĂłrde pecundrĂŹje e scundrature.Che hĂš? Ne hĂš nnijĂšnde: mĂšre e ssĂłle,ânu puĂłnie de mirĂŹcule de frattee na vĂšvvetta dâacque a llâAcquabbĂšlle.
Che Ăš successo? Oh, niente! â Dâun tratto ti dimentichi tetraggini e cattivi incontri. Che Ăšsuccesso? Oh! niente: mare e sole, un pugno di more di fratta e una bevuta allâAcquabella.(Traduzione dellâautore)
OTTAVIANO GIANNANGELI
In Bibliografia della critica: Merciaro 1954; Giammarco 1958; Giannangeli 1958, 1959,1969; Esposito 1989; Spagnoletti-Vivaldi 1991; Fiorentino 1992; Civitareale 1997.
da Lu libbre dâOttavie
Li tedescheLâotte settembre
Mo che succede?... Suone de campane,la gente che sâabbracce a ogni puntone, nse cunosce e se basce. Lâarmistizie!Eâ finite la guerre. RevĂ© fijjemealla case. Addavere? Chi lâha ditte?
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E mo che sâha da fa? Nghi li Tedescheo nghe li Merecane?... La matineappresse, va pe lâarie na squadrijjede bumbardiere. EmbĂ©, sĂČ merecaneo tedesche? AddĂČ vanne? E chi le sa?Aveme vinte, aveme perse? E chi,chi mai le po' sapĂ©? PoverâItaliema proprie a te tâaveva capetĂ sta sorta strane, a te stu carnevale?Vulavame lâimpere e mo nen sememanche sicure chiĂč alle case nostre.
I Tedeschi. Lâotto settembre â Ora che succede?... Suono di campane, / la gente che sâab-braccia ad ogni angolo, / non si conosce e si bacia. Lâarmistizio! / Eâ finita la guerra. Tornamio figlio / a casa. Davvero? Chi lo ha detto? / E ora che si ha a fare? Con i Tedeschi / ocon gli Americani?... La mattina / dopo, va per lâaria una squadriglia / di bombardieri.Ebbene, sono americani / o tedeschi? Dove vanno? E chi lo sa? / Abbiamo vinto, abbiamoperso? E chi / chi mai puĂČ saperlo? Povera Italia, / ma proprio a te doveva toccare / questasorte strana, a te questo carnevale? / Volevamo lâImpero ed ora non siamo / nemmeno sicu-ri piĂč alle nostre case. //
da Arie de la vecchiaie
«A ti che vu sapÚjecheste frasette fine...»(Nonne sta ascise allócheaccante allu camine.)
«... pâammentĂ le canzunepeâ fĂ sentĂŹ alla gente...»(Se sente pe la cappenâazzunejĂ de viente.)
«... ecche na bella coseche mâhaje recurdate...»(La cose tra la vampesâĂš belle che scriate.)
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«A te che vuoi sapere / queste frasette fini...» / (Nonna Ăš seduta lĂŹ / a un lato del camino.)// «... per inventar canzoni / da far sentire a gente...» / (Si sente per la cappa / un ronzaredi vento.) // «...ecco una bella cosa / che mi sono ricordata...» / (La cosa tra la vampa / belbello si Ăš screata.) (Traduzione isometrica dellâautore)
E camine camineâmmezzâa chesta restĂłppela puntute,e chiĂč nen te recuorde(tiempe luntane,dope nu mese appene), tra lu grane,sottâa chelâora calle,i fiuritte turchine, tutte na seta gialle,lu papambre che adoppie piane piane.
E cammini cammini / in mezzo a questa stoppia che ti graffia, / e piĂč non ti ricordi / (tem-po lontano, / appena dopo un mese), di tra il grano, / sotto a quellâora calda, / i fioretti tur-chini, / tutta una seta gialla, / il papavero che ti assonna, piano. (Traduzione isometrica del-lâautore)
GIOVANNI SPITILLI
In Bibliografia della critica: Esposito 1989; Ursini 1993.
da Spine fiurite
Lâipodermoclisi
Cale la hocce, cale... cale... caletirata da âna lacreme di viteche sâarpicce qua sottâa sti firitecome nu fucarelle di Natale.
Ogne vene divente nu canalechâarcoje acqua di fonte, acqua pulite;pinzijre stucche, fraciche, avvilite
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sbatte li scelle come li cucale;
voâ rivulĂ ju âmmezzâa li cannejedi li fusse, ju sottâa li critunechâa settembre trimave di cicale;
voâ rivedĂš lu sole che sâasbejeâmmezzâa li nide di li curniciune...Cale la hocce, cale... cale... cale...
Lâipodermoclisi â Cade la goccia, cade... cade... cade... / tirata da una lagrima di vita / chesi riaccende qua, sotto a queste ferite, / come un fuocherello di Natale. // Ogni vena diven-ta un canale / che raccoglie acqua di fonte, acqua pulita; / pensieri spezzati, disfatti, avvi-liti / battono le ali come i gabbiani; // vogliono riprendere il volo giĂč, in mezzo alle can-nucce / dei fossi, giĂč (nella valle) dove si trovano i terreni argillosi / che a settembre tre-mavano di cicale; // vogliono rivedere il sole che si risveglia tra i nidi dei cornicioni... Cadela goccia, cade... cade... cade... // (Traduzione di Nicola Fiorentino)
Gnora Cuncette
(La fortuna si divertĂŹ con lei. Nata marchesa, conobbe gli splendori del suo casato e lamiseria nera di chi, morendo, ha bisogno perfino della caritĂ dâuna bara. Eâ la stessa allaquale mi rifaccio nella poesia âLu falignameâ, vincitrice del concorso di Casoli di Chieti,edizione 1974).
Gnora CuncĂš, massere mâarpijatela smanie dâarsintĂŹ sottâa li stelleli voce chiare di ssi guajunelleche cante canzunette spinzirate.
E sole sole qua mi soâ llucatesu sta scalette, anninze a stu cangelel, ma nin sente «La lune a la Majelle»e «Amore, amore che mmi siâ purtate?».
Fa lu fredde e, pirciĂČ, gnora CuncĂš,tĂŹ chiuse la vitrine? e ci sta âncore
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Deline e Tutunelle a lu tilare?
e dovâha jte li ruselle chiareche tante bbille sâaffaccĂ©â da forenghi li ggiranie rusce e li panzĂ©?
Signora Concetta â Signora Concetta, stasera mi ha ripreso / la smania di riascoltare sottole stelle / le voci chiare delle giovinette / che cantano canzonette spensierate. // E solo soloqua mi sono appostato / su questa scaletta, davanti al tuo cancello, / ma non sento «La lunee la Majella» / e «Amore, amore, che mi hai portato?». // Fa freddo e, perciĂČ, signoraConcetta, / hai chiuso la vetrina? e ci stanno ancora / Delina e Tutunella al telaio? // e doveson finite le rosette chiare / tanto belle, che si sporgevano dalla finestra / con i gerani ros-si e le panzĂ©? // (Traduzione di Nicola Fiorentino)
Lydia Pico
O Lydia, chi li sa pi cche furtunedi Criste, tĂŹ na mane che ssa ârcojetutte li signe de la primavere:
nu ciuffe di ginestre a li critune,na mmalvarose cche lente si sfoje,nu paese che sfuma ne la sere...
Belle! sâĂš belle, o Ly! Tu nghi ssa manea chi si trova sopra na paranzesenza timmone pi nu mare strane
jtte signale fatte di spiranze.
Lydia Pico - O Lydia, chi lo sa per quale dono / di Cristo tieni una mano che sa raccoglie-re / tutti i segni della primavera: // un ciuffo di ginestre ai terreni argillosi, / un geranio chelento si sfoglia, / un paese che sfuma nella sera... // Bello! caspita sâ Ăš bello, o Lydia! Tucon la tua mano / a chi si trova sopra una paranza / senza timone per un mare strano // lan-ci segnali fatti di speranza. // (Traduzione di N. Fiorentino)
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EVANDRO RICCI
In Bibliografia della critica: Giannangeli 1966, 1969, 1990; Fiorentino 1992, 1997, 1999,2003.
da La scĂ zzeca
La terra de lu grane fatte aspetta,schiarita da jurnata appena nata:ure de grane i rose de ju solese mmĂŹschiane a ji lĂšmpe de sarrĂšcchie,a lâaria ancora fresca de mmatinache se strascina lâalma de la nottenzieme a na trina tĂŹnnera de sunne, a la voce de cĂŹtele affamate.CrĂŹcchiane le restĂČppele tajjatea ju cunfine de na vigna verdeonda nu mile jetta nâombra docetra ji felĂšre pĂŹne de sapore.Ju sole scaravenda giĂ ju raggetra le manette i n-cima a le manĂČppiempastate cheâ la pajja i ju sudore,cheâ pĂČlvere de jâĂšnne tra le mĂšnequasce tuttâossa, scure de fatĂŹja.Ju ciele azzurre pare dâartefatta.Ju stĂČmmache reclama. A lâampruvvisese vede a na viarella nu canistren-cima a nu cape de chepĂŹjje nire:camina a passe piane, cumma nâondache cĂčnnela na barca m-mizze a mare,m-mizze a ju mare dâure de lu grane.Du ucchie nire lĂčcene a ju sole, nu pitte pare schioppa la blusetta...Ju timpe sâĂš fermate. La sarrĂšcchiasâapposa tra lu grane ancora rittese no sâarrecenisce n-faccia a sole.Nu giuvenutte pĂŹne de speranze
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aiuta a pusĂ n-terra ju canistre,a spanne ju mantile de vucatede line bianche che resente ancoraju sune de navetta a ju telare.Se ntrĂšcciane le mĂšne vulĂŻose,pĂŹjjane la pagnotta, ju carratĂŹjjepĂŹne de vine frische de candina,sbĂČtane ju scartucce de sardelleche mĂŹttene a le lĂšsche de lu panepanonte dâujje gialle de Raiane.La scĂ zzeca Ăš giĂ pronta, a nu muminteugnune sa stu pane quante vale.Lâure de lâujje i lâure de lu granese mmĂŹschiane a lu batte de du corepe dĂ segnefecate a na maggĂŹ.Ucchie de sole de la metetura,ucchie che va cerchĂšnne nu suspireappĂŹccia n-core mille i chiĂč faville, racconda ji segrĂšte de le stelle.M-mizze a lu grane sta ju fiurdalise,ce sta la vocca bella de na rosa,ju pitte châĂš ju fiure de nu gijje:nu lampe ce sâapposa de giuĂŹjje................................................
La terra del grano matura aspetta, / schiarita dalla giornata appena nata: / oro del grano erose del sole / si mischiano ai lampi dei falcetti, / allâaria ancora fresca del mattino / che sitrascina lâanima della notte / insieme con una trina tenera di sogni, / alla voce di un bam-bino affamato. / Scricchiolano le stoppie tagliate / a confine di una vigna verde / dove unmelo getta unâombra dolce / tra i filari pieni di sapore. / Il sole scaraventa giĂ il raggio / trale âmanetteâ e sui covoni / impastati con la paglia e col sudore, / con la polvere degli annitra le mani / quasi tuttâossa, nere di fatica. / Il cielo azzurro sembra artificiale. / Lo stoma-co reclama. Allâimprovviso, / appare su un sentiero un canestro / sul capo dai capelli neri:cammina a passo adagio, come unâonda / che culla una barca in mezzo al mare, / in mez-zo al mare dâoro del grano. / Due occhi neri brillano al sole, / un petto sembra che scoppila blusetta... / Il tempo si Ăš fermato. Il falcetto / si posa tra il grano ancora dritto / altrimentisi arroventa al sole. / Un giovanotto pieno di speranze / aiuta a posare a terra il canestro, /a stendere la tovaglia di bucato / di lino bianco che risente ancora / il suono di navetta deltelaio./ Si intrecciano le mani vogliose, / prendono la pagnotta, il carratello / pieno del vino
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fresco di cantina, / svolgono lâinvolto di sardine / che mettono fra le fette di pane / untodellâolio giallo di Raiano. / La scazzeca Ăš gia pronta, in un momento / ciascuno sa quantovale questo pane. / Lâoro dellâolio e lâoro del grano / si mischiano al battito di due cuori /per dare significato ad una magia. / Occhio di sole della mietitura, / occhio che va cercan-do un sospiro, / accende nel cuore mille e piĂč scintille, / racconta i segreti delle stelle. / Inmezzo al grano sta il fiordaliso, / ci sta la bocca bella di una rosa, / un petto che Ăš un fioredi giglio: / un lampo ci si posa di gioiello. // (Traduzione dellâautore)
VITTORIO MONACO
In Bibliografia della critica: Esposito 1989; Di Nola 1989; Civitareale 1992, 1997;Auciello 1999; Giannangeli 2002.
da Le canzone dâiĂč viĂšnte
Casa antica
SâappĂ©cciane le stĂšlle chiĂč funnuteân cima a la lĂČggia de la casa antica.Da tanne che nen sâĂ©pre la scaĂčta,de viĂšrne e âstate, iĂč tarle e la fermica.
Nu rĂ©jje a iĂč ciardine trĂ©ma e canta âe da luntane nâĂ utre rĂ©jâ respĂłnne.IĂč viĂšnte tira ancĂČura a cima pianta,chemmĂ na vĂłta cĂ scane le frĂČnne...
I sĂ©nte a la fenĂšstra a nâĂłra tarde,mĂšntre rezĂ©lla i stĂ©jje de le âstateresĂ jje âche na vĂłce de vastardedau fĂłnne de le stalle abbandunate.
Casa antica â Si accendono le stelle piĂč remote / sulla terrazza della casa antica. / Dal gior-no che non si apre la corrode, / estate e inverno, il tarlo e la formica. // Un grillo nel giar-dino trema e canta, / e un grillo gli fa eco da altre soglie. / Il vento soffia ancora a cimapianta, / e come un tempo cadono le foglie... // Lo senti alla finestra ad ora tarda, / mentreramazza i resti dellâestate, / salire con la voce di un bastardo / dal fondo delle stalle abban-donate. // (Traduzione isometrica dellâautore)
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Nen Ă© la neve
Nen Ă© la nĂ©ve chĂšlla che moâ fiĂČccaabballe peâ le rue appecundritee la rabbĂšila, jilata, adĂČnda tĂČcca.
Te strĂ©gne âsse quattrâossa renzecchiteâm bacce la vampa lĂšnta de na ciĂČccae pĂ©nse a nâĂ utre tiempe - che Ă© fenite...
E ânnâĂ© la neve, fĂłre, che sfarina!Soâ iâĂšnne tia, le bĂ©ne de na vĂłta, che nĂ©nguene peâ lâaria selarina:
na grascia antica, che tu sci raccĂłtae moâ se spreca spiĂšrte pâi chemine âa doâ ân ce sta nesciune che te âscota.
Non Ăš la neve â Non Ăš la neve, quella che ora fiocca / a valle per le rue immalinconite / ele ricopre, fredda, dove tocca. // Stringi le tue quattro ossa rinsecchite / accanto al fuocolento di una ciocca / e pensi a un altro tempo, ormai finito... // E non Ăš neve, fuori, che sfa-rina! / Sono i tuoi anni, il bene di una volta, / che franano nellâaria decembrina: // ricchez-za antica, che tu hai raccolta / ed ora va sprecata sui camini â / dove non câĂš nessuno cheti ascolta. // (Traduzione isometrica dellâautore)
Quande
Quande che mâĂšva muĂšrte,iĂč tiĂšmpe Ăšva de âstate.Le case mĂšzze apĂšrte,le pĂČrte remannate...
Abbale pâiĂč quartĂŹareiĂč sĂłle a le fenĂšstreflammĂšva peâ la via âsĂłla, âmma nu desĂšrte.
Nu cane se parĂšva
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le mĂČsche âche la cĂłda.La jĂšrva se secchĂšvapeâ le FerrĂ ine ân sĂłda.
Nu ântĂČcche de campanacaschĂšva sĂČupre i tĂ©tteâche na vĂłce luntana â e remanĂšva zĂ©tte.
PecchĂ©, pecchĂ© sunĂšva,ân guĂšcce, chĂšlla campana?Nesciune addemmannĂšva,ân ce stĂšva nu crestiane...
Na luce senza fiatepeâ le campagne spiĂšrteabbruscĂšva la âstate âmĂšntre che mâĂšva muĂšrte.
Quando â Lâora della mia morte / il tempo era dâestate. / Le case semiaperte, / le porte unpoâ accostate... // A valle, nel quartiere, / il sole alle finestre / raggiava sulla via â / sola,come un deserto. // Un cane allontanava / le mosche con la coda. / Lâerba intorno seccava/ per le scarpate in soda. // Un tocco di campana // cadeva sopra i coppi // con la voce lon-tana â / e restava in ascolto. // PerchĂ©, perchĂ© suonava, / sorda, quella campana? / Non câe-ra, a domandarselo, / unâanima cristiana... // Una luce affocata / per i campi di agosto /incendiava lâestate â / lâora della mia morte. // (Traduzione isometrica dellâautore)
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PIETRO CIVITAREALE
In Bibliografia della critica: Giannangeli 1969; Moretti 1984; Esposito 1989; Serrao 1992;Fiorentino 1992, 2002; De Matteis 2003.
da Le miele de ju mmierne
Ma quande jesce la lĂŹune
La notte Ăš nu mĂŹurearrete a Ăšutre mĂŹure.ChiĂč nen vanne a rabbĂ©urei cavejje alle funtanei manche na vĂ©uce se sentesperze peâ la campagne.
Ma quande jesce la lĂŹunese scataste ju prĂ©ime mĂŹurei nâĂ utre i nâĂ utrâanchĂ©ure.
AllĂ©ure ju lebbre calea pasce peâ le prĂ terei ogni chĂ©use Ăš accuscĂŹchiare, tĂ©nere, argentate.Ju tore cheâ le cornembacce ajju ciele,lâĂšdere ammonte peâ la case,la sĂ uce ncamurcatedentre lâacque de ju fiume.
Ma quando esce la luna â La notte Ăš un muro / dietro altri muri. / PiĂč non tornano a bere /i cavalli alle fontane / e nemmeno una voce si sente / spersa per la campagna. // Ma quan-do spunta la luna / crolla il primo muro / e un altro e un altro ancora. // Allora la lepre scen-de / a pascolare per i prati / e ogni cosa Ăš cosĂŹ chiara, / tenera, argentata. // Il toro con lecorna / contro il cielo, / il rampicante su per la casa, / il salice riverso / nellâacqua del fiu-me. // (Traduzione dellâautore)
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SprefunnĂ tra le piume
Soprâa i vetre la lĂŹuneha stĂ©ise na strĂ©iscede lĂŹuce, ha recamate i mĂŹurede suttĂ©ile fĂ©ile dâargiente.
SprefunnĂ tra le piumenĂ ire de ju suonne,nnâavĂ© paĂŹure de lâombre,de i jĂ©ile lunghe de ju mmierne.
Sprofondare tra le piume â Sui vetri la luna / ha steso una striscia / di luce, ha ricamato lepareti / di sottili fili dâargento. // Sprofondare tra le piume / nere del sonno, / non temerele ombre, / i lunghi geli dellâinverno. // (Traduzione dellâautore)
da Quele che remane
Ju giardéine
Chenosce nu giardéineluntane da ogne remméure.
Duâ fĂ©ile de piante,nu ragge ncantate de solenu cierchie dâore,tre farfalle che vĂČlene.
Come nu ciejje annascuostedentrâallâombra maje,uarde ju munne de fore,come dentrâa na vetrĂ©ine.
Il giardino â Conosco un giardino / lontano da ogni rumore. // Due filari di alberi, / un rag-gio obliquo di sole, / un cerchio dâoro / tre farfalle che volano. // Come un uccello nasco-sto / nella mia ombra, / guardo il mondo di fuori, / come allâinterno di una vetrina. //(Traduzione dellâautore)
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LUIGI SUSI
In Bibliografia della critica: Esposito 1989; Fiorentino 1998, 2002.
da I pĂ©ndele âje tĂ©mpe
SĂłgne trĂčvele dâamore
SĂłgne. LimĂČsene de sĂłgne a notte colma.Sule, sĂ©nza cchiĂč la porta âlle vulĂŹje;ddĂł mâaspettive tu, lampe de ggioia, de fantascĂŹje carnale;chempagna de piacĂ©re i sfoghe de passione;ventre de respire i spĂ sime dâamore.SĂ©nza ti, sĂČ pĂČlline sperdute, addĂł va i vĂ©nte...a i prate nnaridite, a lle maggese secche, a i canalune grigge,ddĂł la bbufera Ăš prĂłvela de rocce,lamĂ©nte de pantĂ seme a i vrecciare.Dimme se tâĂ©nca pĂšrde...
Stise alla sepĂŹna,a i mare âlle sirene vĂ©rgine ânn amĂłre,fra ciĂ ncare nzecchite i bbarghe ân sosta;ripa de tramonte ncenerite,c'abbĂŹja ân cĂ©le vole de gabbiane sĂ©nza mĂ©ta,me jĂštte a sĂłgne trĂčvele dâamore.Ore de sĂłnne funnea lle carezze sciĂČrgne de ll'onde nzennelĂŹte.Jâamore nĂłstre, curte cumma i sĂČle a lla veranda;cumma vola i mmĂČre i trĂšne fra le piante;fiamma de papĂŹle a pĂČca cera;junte a mmĂšsa via... me vĂš âzĂłnne.SĂłgne ncipate a llâalghe, se cĂčnniane, se ntrĂ©cciane,mmĂ i pulpe che sse rrĂČpre, sâabberrĂŹta.SĂłgne de lĂłta a i fiume piatte, rusce,ddĂł cĂ gnane culore seppie de rena i fanghe,a spanne lâova nere... uva de mare.SĂłgne, sĂłgne trĂčvele d'amore,
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conchĂŹje sgombre a jĂ© capricce âllâonde.Dimme se tâĂ©nca pĂšrde...
Dorme a lla sepĂŹna sĂłgne che se squĂ jjane a lla sabbia.Sabbia de stelline i cannelĂŹcchje,ânn Ăš lĂ©tte de manĂłppje, addĂł le strette, i bbace,fra fantascĂŹje dâetĂšrne i frevelĂŹccetenĂ©vane i sapore âlla pajjĂŹccia, âlle rane a i solliĂłne;ddĂł mâ addepijĂ©va i cante lamentusede cicevĂ©tte i cane pecurale;ddĂł nen ze colma cchiĂčlâamara solitĂčddine âje tĂ©mpe sĂ©nza ti.DĂŹmme se tâĂ©nca pĂšrde...
SĂ©nza ti, sĂČ cante a vĂłcca chiusa, barcarolede pescatore a i mare âlle leggĂšnde, âje mistĂ©re,sotte i cĂ©le mute, a llâagunĂŹja.SĂ©nza ti, stise a lla bbattigia,addĂł i silenzie Ăš mmarme, Ăš ggele...limĂČsene de sĂłgne trĂčvele dâamore.Dimme se tâĂ©nca pĂšrde...
Sogni torbidi dâamore â Sogni. Elemosine di sogni a notte fonda. / Solo, senza piĂč la por-ta dei desideri; / dove mâaspettavi tu, lampo di gioia, di voglie carnali; / compagna di pia-ceri e sfoghi di passione; / ventre di respiri e spasimi d'amore. / Senza te, sono polline sper-duto, dove va il vento... / al prato inaridito, alle maggesi arse, ai canaloni grigi, / dove labufera Ăš polvere di rocce, / lamento di fantasmi al brecciaio. / Dimmi se devo perderti... //Disteso supino, / al mare delle sirene vergini in amore, / fra gamberi insecchiti e barche insosta; / riva di tramonti inceneriti, / che avvia al cielo voli di gabbiani senza meta, / mi but-to a sogni torbidi d'amore. / Ore di sonni profondi, / alle carezze scialbe delle onde inson-nolite. / L'amore nostro, breve come il sole alla veranda; / come vola e muore il treno fragli alberi; / fiamma di stoppino a poca cera; / giunto a metĂ strada... mi viene nel sonno. /Sogni intessuti alle alghe, si cullano, si intrecciano, / come il polipo che si apre, si avvol-ge. / Sogni di loto al fondo piatto, rosso, / dove cambiano colore seppie di arena e fango, /a spandere uova nere... uva di mare. / Sogni, sogni torbidi d'amore, / conchiglie vuote aicapricci delle onde. / Dimmi se devo perderti... // Dormo supino ai sonni che si sciolgonoalla sabbia. / Sabbia di stelline e cannolicchi, / non Ăš il letto di covoni, dove le strette, i baci,/ fra le voglie di eterno e brividi, / avevano il sapore della pagliccia del grano al solleone;/ dove mâincantava il canto lamentoso / di civette e cani pastori; / dove non si ricolma piĂč/ lâamara solitudine del tempo senza te. / Dimmi se devo perderti... // Senza te, sono cantia bocca chiusa, barcarole / di pescatori al mare delle leggende, dei misteri, / sotto il cielomuto, in agonia. / Senza te, disteso alla battigia, / dove il silenzio Ăš marmo, Ăš gelo... / ele-mosine di sogni torbidi dâamore. / Dimmi se devo perderti.... // (Traduzione dellâautore)
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CAMILLO COCCIONE
In Bibliografia della critica: Mariani 1988; Esposito 1989; Civitareale 1997; Fiorentino1998, 2004; Serrao 1998.
da VulĂŹje di cante
La vije piâ llâeterne
Surriente bbianche latte entrâa la notte,cristalle chiare chi la mente spannepiâ luntananze duce e âmmaculate,cristalle come nâacque senza fonne.
Ă prĂČvile di stelle âm prucissioneo alme scite da lu prihadĂČriechâarranghe ân ginucchiune âm paradise?Ă luce che ci-avvise e chi ci-ambarela vija ggiuste piâ la vite eterne?Zi sperde lu pinzĂźre e zi cunfonne,prufonne nere, sazie di paure:lu mare gne na lacrime Ăš na hocce,lu monne Ăš la âmbrije di nu vachee iâ mâarduce niente, mi sfirmiche.MâarhĂšmbie li pulmune di sulenziee penze a Ddiâ, chi forse sente a vattegne a vatte sta lu core entrâa stu pette.
La strada per lâeterno â Sorgente bianco-latte nella notte, cristallo chiaro che la mentespande per lontananze dolci e immacolate, cristallo come unâacqua senza fondo. Ă polve-re di stelle in processione o anime uscite dal purgatorio che salgono in ginocchio in para-diso? Ă luce che ci avvisa e che ci insegna la strada giusta per la vita eterna? Si sperde ilpensiero e si confonde, profondo nero, sazio di paura: il mare come una lacrima Ăš una goc-cia, il mondo Ăš come lâombra di un seme e io mi riduco niente, mi sbriciolo. Mi riempio ipolmoni di silenzio e penso a Dio, che forse sento battere, come sta battendo il cuore nelmio petto. (Traduzione dellâautore)
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da Scenne âm bacce a ssole
Paese mé
Senza forze lu vente, senza fiatela pisciarella dâacque a la cannelle,senza pace le puche stelle ân ciele.âN gire, peâ le ruhelle, mura murecorre la lune appressâallâombre scure,e hĂ© lu fiate jilate de lu monne,di scarapinge tra lampiune armurteche, di bbotte, ti sinte dentrâallâusse,paese mĂ© di fiure e di silenzie,paese bbelle, campisante spase.
Paese mio â Senza forza il vento, senza fiato / la pisciarella dâacqua alla fontana, / senzapace le poche stelle in cielo. / In giro, per i vicoli, furtivamente / corre la luna dietro leombre scure, / ed Ăš il respiro gelido del mondo, / dei pipistrelli tra i lampioni spenti / che,dâimprovviso, senti nelle ossa, / paese mio di fiori e di silenzi, / paese bello, camposantoaperto.// (Traduzione delâautore)
da Valle Cicchitte
Ă tutte nu mirlette a ffiure bbianchela vije, gna nu sone di campanecripacce lâarie di malincunije.
- Ă tutto un merletto a fiori bianchi / la strada, nel mentre un suono di campana / screpolalâaria di malinconia. // (Traduzione dellâautore)
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MARCELLO MARCIANI
In Bibliografia della critica: Fiorentino 1993, 1998; Serrao 1992; Civitareale 1997.
dalla Rivista Abruzzese, 1993, n. 1
Marâaddoâ
Mare tosche maravalledi scazzĂŹlle e mascalubbre,mastrille âmpjite dâĂłjje,mucchelĂštte, schiĂłle, voccaâncullate che ân se poâ sgulĂ âcchiiĂč peâ scujje e peâ trabocche,acquavicce prene dâacheâmbelate a menĂšstre e vave,verdesecche1 e vasse marese ân tâaffunne e nen tâarrepeche fĂłneche de grane checasciaforte che sciacquajje2
puâ nnasconne e svuscecĂ â tu?Mare sfilĂłgne, martufe ecuchelĂłne, pantanellevalechijate a strĂłpele,panzâallesse de lu cioceusse e corie je fĂź âmperĂ âtu, varlese a nnuâ, vajasse?MarâarrĂ©te martavĂšlledi rusciulĂ©tte e cannizze,sĂź nu sonne dâantecĂłrienche castelle de selĂčstre,âssu lenzole nche li sise,sĂź na lenze sĂź na lamenu lappe de lune allocâa...âbballâaddĂł? ândĂł chela ândacchedi luscia dâacque? anneccheallâĂ nema tĂ©, quatrale?
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Spirdogne e doce tĂ© ajajĂ ââssâĂ nete che je âncoje, vaa steppelĂ â mucurĂŹcceâstu garbenelle châarvĂłtechemagge, âddore, pungecanne, curaĂŹne3 di cchiĂč âmore:la dodda sane châaddĂłâ vĂźstrafuchenne tu, marrĂčcce?
Marracine, marpĂŻole4...Marâa nnuâ: ddĂłâ sta lu mare?
Mare dove â Mare tossico malora / di chiazzelle e di vaiolo, / trappola riempita dâolio, /moccetti, cocchiume, bocca / incollata che non puĂČ sgolarsi / giĂč per scogli e per trabocco,/ acqua di scolo pregna dâaghi / infilzati in erbe e bave, / verdesecco e basso mare / se nontâaffondi e non tâapri / che granaio che / cassaforte che grandi orecchini / puoi nasconderee rimescolare tu? / Mare filaccioso, balordo e / ciottolone, pozzanghera / sguazzata nel ciar-pame, / pancia lessa del diavolo / ossa e cuoia ci fai ghiacciare / tu, piaga in noi, bagascia?/ Mare indietro reticella / di trigliette e canniccio, / sei un sogno di anticaglia / con fuochidâartificio di lampi, / che lampadetta ha cullato / questo lenzuolo con i seni, / sei una len-za sei una lama / un orlo di luna lĂ ... / giĂč dove? dove (Ăš) quellâintaglio / di acquazzone?viene qua / dentro lâanima tua, bambino? / Stridulo e dolce sta balbettando / questâanelitoche ci sorprende, va / a staccare muffe / questo garbinello che risolleva / maggio, odore,trafitte, / corallina di piĂč amori: / la dote intera che dove vai / affogando tu, mulinello? //Monello magliare di fili... / Poveri noi: dove sta il mare? (Traduzione dellâautore)
1 Verdesecche: vanume, sorta di malattia del grano che rende le spighe appunto verdi esecche.
2 Sciacquajje: i tipici orecchini, grandi e vistosi, delle vecchie contadine.3 CuraĂŹne: corallina; specie di alga marina usata, nella medicina popolare, in forma di
decotto per curare i bambini nelle infestazioni da ossiuri o ascaridi.4 MarpĂŻole: fascio di fili di ordito fermati sullâorditoio.
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da Pagine, Roma, gennaio-aprile 1998, n.22.
La durmecchiare
E iâ mâareponne a sta cestarellefinâa cche cresce lu cĂŹtele belle.Finâ a cche cresce e me poâ maretĂ âmâaccuzze e lu tempe nen teâ da passĂ .
Ecche... Ăš nu rusce dâove che sâappĂŹccecheâm bacce lu jorne che me sbele...
lĂ ssemesole, nte âncarecĂ â di me, su vasceteâ nen me lâascioje sta âncretature, nofalle sta zitte ssa cummedie abballeche pije le scale e ciĂčfelâa le recchie,ma che ci-appure pecchĂ© tu me rĂšscechenche la ciambotte di ssu monne fesse.
Ma chi ci-appure addoâ poâ iâ sta vieche me scĂČtele a vusse a vurravurre.Sta via baggiane, di brillucche e spicchie.Di sole che me âncoje me spagheggie.A ecche mmezze soâ gne na pianellescurtecone sbusciate da ssi tacche.A chi lâarconte ca me soâ âddurmitepe nu trentanne e moâ mâarsbeje e treme.
Chi ce lâappure che parlĂ â me pĂ rlenessi musse giargianise ssi scattateche vanne e venne dentrâa nu tutĂčpeâ ântrunarme la cocce peâ sapĂ©âchi so iâ da ddoâ venghe chi mâha sciote...Aah che tâacconte?... me soâ appapagnateâbballâa nu sonne longhe gne na vizieâm pizze a nu tempe che me se schenosce.
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Che vutarelle Ăš lu tempe che jochenche le sunne le frezze di stu sanghe!Vallâa capĂŹ chedâ Ăš ssu vuccaloneche parle nche lu vente e nâpare senne.Soâ na vecchia bardasce scincelatese peâ tre vote quidicianne tenghe.A chi lâacconte ca lu tempe meâĂš na precoche âmpese a nu strafonne.
La dormigliona â E io mi conservo in questo cestino / fino a che cresce il bel bambino./Fino a che cresce e mi puĂČ maritare / mi accuccio e il tempo non deve passare. // Ecco... Ăšun tuorlo dâuovo che si spiaccica / in faccia il giorno che mi scopre... lasciami / sole, noncurarti di me, questo bacio / tuo non mi scioglie questo impietrimento, no, / fallo star zittoquesto chiasso dabbasso / che sale le scale e fischia alle orecchie, / ma chi lo sa perchĂ© tumi raschi / con la banda di questo mondo fesso. // Ma chi lo sa dove puĂČ andare questa via/ che mi scuote a spinte a riffa e raffa. / Questa via boriosa, di gioielli e specchi. / Di soleche mi insidia mi spaventa. / Qua in mezzo sono come una pianella / ritardataria bucata daquei tacchi. / A chi lo racconto che mi sono addormentata / per un trentâanni e ora mi sve-glio e tremo. // Chi puĂČ saperlo che parlare mi parlano / questi musi forestieri questi dispet-tosi / che vanno e vengono dentro un brusio / per rimbombarmi in testa per sapere / chi sonoio da dove vengo chi mi ha sciolto (le catene).../ Aah che ti racconto?... mi sono appisola-ta / in basso a un sogno lungo come un vizio / a margine di un tempo che mi sconosce. //Che mulinello Ăš il tempo che gioca / con in sogni le frecce di questo sangue! / Vallo a capi-re cosâĂš questo pettegolone / che parla con il vento e non mette giudizio. / Sono una vec-chia ragazza scarmigliata / se per tre volte quindici anni tengo. / A chi lo racconto che iltempo mio / Ăš una pesca appesa a un fuorimondo. // (Traduzione dellâautore)
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VITO MORETTI
In Bibliografia della critica: Giammarco 1986; De Mauro 1988; Serrao 1992, Fiorentino1992; Civitareale 1997; Pamio 2000.
da DĂ©ndre a na storie
Ma sottâa li pide la tĂšrre
Quande che nu jurne, forse,o quande che nu mumĂšnde Ă duratesotte le poppe humbie de jaccestu lĂčteme autunne,forse quande che nu stucche la piovesoprâa li nide, o quande che na lame de fumele voce a pperdefiate ndĂłrne a li fucarĂ cchiede lu bbosche; dapĂč, le nĂšbbie marine,da le palahĂčstre a strafonnee da li vĂŹtrie munnate de le bbarbacane,Ă nnâaperte la vocche a decĂšmbre a spĂ©se la lĂčtema lune de lâannedĂ©ndrâa li culpe lĂšste de le tosce.
Ma sottâa li pide la tĂšrre,che tĂš recurde de ugne qquartee che le crĂŻature snide a li perdune,trammocche giĂ a mmurĂŹ m-mezzâa le cretee le prumesse de le villeggiande repĂ he a staggionede neve Ă©ndre lu ggire larghe de li vinde.
MatĂčrene accuscĂŹli signe civile de le oree se fa penetenzie lu mbrĂšstete de futureĂ©ndre le vĂ©ne fonne de li penzire.
Ma sotto i piedi la terra â Quanto un giorno, forse, / o quanto un momento Ăš durato / sot-to le gemme gonfie di ghiaccio / questâultimo autunno, / forse quanto un rintocco la piog-gia / sui nidi, o quanto una lama di fumo / le voci a perdifiato intorno ai falĂČ / della mac-
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chia; poi, le nebbie marine, / dalle balconate a precipizio / e dai vetri sgombri dei lucerna-ri, / hanno aperto la bocca a dicembre / e speso lâultima luna dellâanno / dentro i colpi lestidelle tossi. // Ma sotto i piedi la terra, / che ha ricordi di ogni quarto / e che le creature sni-da ai perdoni, / giĂ trabocca a morire nelle argille / e le promesse delle villeggianti ripagaa stagioni / di neve nel giro largo dei venti. // Maturano cosĂŹ / i segni civili delle ore / e sifa penitenza il prestito di futuro / nelle vene fonde dei pensieri. // (Traduzione dellâautore)
da âNnanze a la sorte
Vecchie paese
Vulesse spĂšrdeme dendre a sta nebbie,che me sâajotte, dendre a stu strafonnede vecchie paese che pare sciteda nu dellĂčvie lundaneo da nu âmmĂšrene che piane pianesi stenne verse abbrile, a ciaulijĂ nghe li hatte.
Ma tĂš poche da scappĂ chi de matine pĂšnze a lu scurede la sere o fa jummĂšlle de recurdea ogne pindonee arevuscĂ©gne longhe longhetra vejje e ssonnela catene de cende nume: cenderetaje de lĂ mie che fa nu monne,na mijĂŹche de giuvinezze,forse la storie de nâĂČmmenene.
Vecchio paese â Vorrei smarrirmi in questa nebbia, / che mâingoia, in questo abisso / di vec-chio paese che sembra uscito / da un lontano diluvio / o da un inverno che piano piano / sistende verso aprile, a ciarlare / con i gatti. // Ma ha poco da fuggire / chi di mattina pensaal buio / della sera o fa gomitoli di ricordi / in un angolo / e fruga lungo lungo / nel dor-miveglia / la catena di cento nomi: cento / riquadri di soffitto che fanno un mondo, / unabriciola di giovinezza, / forse la storia di un uomo. // (Traduzione dellâautore)
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MARIO DâARCANGELO
In Bibliografia della critica: Fiorentino 1998; alcune sue liriche sono state pubblicate nel-lâantologia Poeti dâAbruzzo (Edizioni Settembrata Abruzzese, Pescara 1998, vol.IV) e dal-la rivista âPeriferieâ (Roma, 2003, n.27).
Settembre
Ste nuvele che passepe cile areschiarate de settembrepenze ca purtarranne le recurderepuste a la memorie de lu monne.
Tu lâaretruve, se ce huirde dentre,recunzegnate sane da lu tempe,
mo châha sbanite maggee lu chiove jamĂ se nâha rejĂŹte,lu ruscegnole Ăš nustalgia doce,lu hallucce de marze ha revulate.StĂŹnnete, terra mĂ©, a vraccia apertetra culle e busche e sĂčleche de ventearecumposte appresse a la vumire.
E sunne le jurnatede feste pe le prate,
le strĂČppele de sole allucentite,lu cante de le starne a le ssulate.
Settembre â Le nuvole che passano / nel cielo rischiarato di settembre / io penso che tra-sportino i ricordi / che il mondo fissa nella sua memoria. // Tu li ritrovi, se ci guardi den-tro, / riconsegnati integri dal tempo, / ora che maggio Ăš svanito / e lâassiolo ormai Ăš ripar-tito, / lâusignolo Ăš una dolce nostalgia, / lâupupa Ăš rivolata. / Stenditi, terra mia, a bracciaaperte / tra colli e boschi e solchi di vento / ricomposti appresso al vomere. / E sogna legiornate / di festa per i prati, / le stoppie rilucenti di sole, / il canto delle starne alle assola-te. // (Traduzione dellâautore)
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Quande sta puesie
Quande sta puesie, amore,poppa jettate da la pianta tĂš,
se sperdarrĂ piagnennepe lâare de lu monne,
nemmanche allore, penze, perdarrĂ tutte le fronne.
Avaste ca lu vente jâareportenu cante e nu suspire,
avaste ca la frattese mette a recantĂ
cente mutive,e ca da longhe lâareschiare doce
la stessa luceche dentre a na peschire
ci aretratteve lâalme e le penzire.
Quando questa poesia - Quando questa poesia, amore, / germoglio esploso dalla tua radi-ce, / si smarrirĂ piangendo / per lâaia del mondo, / nemmeno allora, penso, perderĂ / tuttele foglie. // Basta che il vento le riporti / un canto ed un sospiro, / basta che la siepe / simetta a ricantare / cento motivi, / e che da lungi la rischiari dolce / la stessa luce / che inuno specchio dâacqua / ci rifletteva lâanima e i pensieri. // (Traduzione dellâautore)
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BIBLIOGRAFIA DEGLI AUTORI
Anelli Luigi (Vasto, 1860-1944), Fujjâammesche, Vasto, 1892; Vocabolario Vastese,Tipografia Editrice L. Anelli, 1901.
Brigiotti Luigi (Teramo, 1859-1933), Nu recurde de lâEspusizione didattica, Teramo, G.Fabbri, 1899; La gennasteca nova (monologo), Teramo, Rezzi Appignani, 1903; Na chiac-chierate de gnore Paule, Teramo, 1904; La torre de lu Doome (poemetto in terzine),Teramo, Giorchi, 1906; Nu vicchie bandeste (monologo), Teramo, 1912; Lu panegirechede Petrarca; Strada facenne, 1ÂȘ ed. Teramo, 1929; 2ÂȘ ed. Pescara, 1959.
Campana Ermindo (Palena, 1883-1940) pubblicĂČ la prima antologia di poeti dialettaliabruzzesi, Voci dâAbruzzo (Vasto 1914), contenente anche suoi componimenti.
Civitareale Pietro (Vittorito, 1934; vive a Firenze), Come nu suonne, Firenze, Poesiarte,1984, pref. Alessandro Dommarco; Vecchie parole, Vigonza (PD), Biblioteca Cominiana,1990, pref. Vito Moretti; Le miele de ju mmierne, Faenza, Mobydick, 1998, pref. GiovanniTesio, postfaz. O. Giannangeli; Quele che remane, I libri del Quartino, Torino, Stampa,cop. ALICE, 2003.
Clemente Vittorio (Bugnara, 1895 - Roma, 1975), Prime canzĂŽne, Roma, TipografiaAbruzzese, 1924; La Madonna Addulerate, Sulmona, Tipografia Angeletti, 1925; Siabenedetta Roma, estratto âStrenna dei Romanistiâ, Roma, Editore Staderini, 1945;Sclocchitte, Milano, Editore Gastaldi, 1949; Acqua de Magge, Roma, Edizioni Siciliane,1952, pref. P. P. Pasolini; Tiempe de sole e fiure, Caltanissetta, Editore Salvatore Sciascia,1955; La Passione di N. S. GesĂč Cristo, dai Canti abruzzesi, Estratto dalla rivista âPiazzadi Spagnaâ, Roma, 1958; Canzune ad allegrie, Lanciano, Edizioni Quadrivio, 1960;Serenatelle Abruzzesi, Roma, Edizioni La Carovana,1965; Canzune de tutte tiempe, conintroduzione e versioni isometriche di Ottaviano Giannangeli (Lanciano, Itinerari, 1970):Ăš, praticamente, lâopera omnia dellâautore.
Coccione Camillo (Roma, 1940. Vive a Poggiofiorito), Lanciano, VulĂŹje di cante, OGA,1988, pref. Giuseppe A. Mariani; Scenne âm bacce a ssole, Poggiofiorito, 1998, pres. N.Fiorentino; Valle Cicchitte, S. Atto, Edigrafital, 2004, pref. N. Fiorentino.
DâArcangelo Mario (Chieti, 1944. Vive a Casalincontrada), Come la jerve allâalbe, S.Atto(TE), Edigrafital, 2004, pref. Achille Serrao, postfaz. N. Fiorentino.
Della Porta Modesto (Guardiagrele, 1885-1938), Ta-pĂč, lu trumbone dâaccumpagnamen-te. Lâopera, del 1933, ha avuto varie successive edizioni, tutte piĂč o meno insoddisfacentisecondo il Comune di Guardiagrele che ne ha curato in proprio lâultima, del 2002.
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Luciani Alfredo (Pescosansonesco, 1887 - Pescara, 1969), Stelle lucende. Canzoniereabruzzese, con lettera di Gabriele DâAnnunzio, Ortona, Bonanni, 1913; Poesie, Napoli,Riccardo Ricciardi editore, MCMXXI; La vera storie de San Gabbriele, Edizioni LâEco, S.Gabriele (Teramo), 1952; Poesie, Pescara, Trebi, 1963; Lâopera in dialetto, a c. diOttaviano Giannangeli, LâAquila, Edizioni Textus, 1996.
Marciani Marcello (Lanciano, 1947) ha al suo attivo parecchi libri di poesia in lingua. Ăancora inedita in volume la sua produzione in dialetto, conosciuta perĂČ attraverso lâantolo-gia Via Terra [Serrao, 1992] e varie riviste tra cui âil Belliâ [Fiorentino, 1992], âRivistaAbruzzeseâ [Fiorentino, 1993], âDiverse Lingueâ (Udine, n. 10, 1991; n. 13, 1994; n.19/20, 1998), âPagineâ [Fiorentino, 1998], âPeriferieâ (Roma, n. 13, 2000). Dal 1988 Ăšsegretario organizzatore del Premio Nazionale âLancianoâ di poesia dialettale.
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GLI ALTRI QUADERNI
del Centro di documentazione della poesia dialettale«Vincenzo Scarpellino»
n. 1Dialetto e Poesia nel Gargano. Panorama storico-bibliograficodi Cosma Siani, presentazione di Achille Serrao, Ed. Cofine, 2002
n. 2Dialettali e neodialettali in inglese
di Annalisa Buonocore, prefazione di Cosma Siani, Ed. Cofine, 2003
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INDICE
POETI DIALETTALI ABRUZZESI (da Luciani ai giorni nostri) 3
ANTOLOGIA
Alfredo Luciani 29
Cesare De Titta 30
Modesto Della Porta 35
Vittorio Clemente 36
Guido Giuliante 38
Giulio Sigismondi 39
Marco Notarmuzi 40
Cosimo Savastano 42
Giuseppe Rosato 44
Alessandro Dommarco 46
Ottaviano Giannangeli 48
Giovanni Spitilli 50
Evandro Ricci 53
Vittorio Monaco 55
Pietro Civitareale 58
Luigi Susi 60
Camillo Coccione 62
Marcello Marciani 64
Vito Moretti 68
Mario DâArcangelo 70
BIBLIOGRAFIA DEGLI AUTORI 72
BIBLIOGRAFIA DELLA CRITICA 75
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