Edicole Sacre nel territorio: aspetti di storia e religiosità popolare nel lughese

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Università Alma Mater Studiorum di Bologna Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di laurea in Storia Contemporanea TESI DI LAUREA EDICOLE SACRE NEL TERRITORIO Aspetti di storia e religiosità popolare nel lughese Candidato: DANESI ILARIA Relatore: PANCINO CLAUDIA a.a. 2011/2012

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Tesi di laurea triennale sulle edicole votive (edicole sacre, pilastrini, madonnine, cunicelle, tabernacoli....) e sul loro significato storico e culturale. Evoluzione del senso del sacro nell'immaginario popolare e significato geospaziale dell'edicola votiva come tipo architettonico: le edicole sacre e la loro collocazione geografica come testimoni del tempo. Aspetti artistici e di cultura popolare.

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Università Alma Mater Studiorum di Bologna

Facoltà di Lettere e Filosofia

Corso di laurea in Storia Contemporanea

TESI DI LAUREA

EDICOLE SACRE NEL TERRITORIO

Aspetti di storia e religiosità popolare nel lughese

Candidato: DANESI ILARIA Relatore: PANCINO CLAUDIA

a.a. 2011/2012

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INDICE

RINGRAZIAMENTI………………………………………………………………………………………………….p.4

Cap.1 INTRODUZIONE……………………………………………………………………………………….p.5

Cap.2 IL CUORE DEI PILASTRINI: LE TARGHE DEVOZIONALI……………………………………...p.15

Cap.3 SULLE IMMAGINI DEVOZIONALI E SULLA DIFFUSIONE DEL CULTO MARIANO………………………………………………………………………………………………………p.39

Cap.4 EDICOLE VOTIVE, ARTE E RELIGIOSITA’ POPOLARE………………………………………p.48

Cap.5 EDICOLE VOTIVE DEL COMUNE DI LUGO……………………………………………………..p.68

5.1 Le edicole del territorio lughese……………………………………………………………….p.69

5.2 Appendice……………………………………………………………………………………...…p.72

5.3 Catalogazione…………………………………………………………………………………...p.73

Cap.6 CONCLUSIONI……………………………………………………………………….……............p.151

BIBLIOGRAFIA……………………………………………………………………………………...…………...p.156

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RINGRAZIAMENTI

Desidero ringraziare innanzitutto la Prof.ssa Pancino, relatore di questa tesi, per la grande disponibilità e cortesia dimostratemi, e per tutto l’aiuto fornito durante la stesura.

Ringrazio il Prof. Mengozzi, a cui si deve la proposta di un percorso online sul territorio, appendice di questa tesi.

Un ringraziamento è rivolto a coloro i quali mi hanno supportato e consigliato durante il corso della ricerca, e in particolare Don Antonio Renzi, Don Davide Sandrini, Giuseppe Bellosi, Oriana Morelli, Giuseppe Martini, Giuliano Montanari, Gloria Pagani, per il tempo che mi hanno dedicato.

Un ringraziamento particolare va a Nicola Pasi e Roberta Darchini, per aver generosamente messo a disposizione la loro ricerca “I Segni della Memoria”, riferimento di fondamentale importanza per la stesura della catalogazione qui presente.

Ringrazio familiari, parenti e amici che hanno accompagnato gli anni di studi di cui questa tesi è corollario finale.

Ringrazio infine gli abitanti del Comune di Lugo che ho avuto modo di intervistare, e che sono in fondo i veri protagonisti di questo lavoro.

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INTRODUZIONE

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INTRODUZIONE

Oggetto di questa tesi sono le edicole votive, quelle particolari espressioni di religiosità privata e popolare che con nomi diversi punteggiano tutto il territorio italiano, urbano e soprattutto rurale, e che in Romagna vengono più comunemente definite pilastrini per la loro forma più diffusa: un pilastro quadrangolare o rotondo, su cui poggia una piccola cella contenente un’immagine sacra, che in Romagna è con grande frequenza in una targa ceramica, in un numero abbastanza definito di temi iconografici.

Lo studio si prefigge di individuare tutti i pilastrini tuttora esistenti o comunque rintracciabili nei loro resti nel territorio del Comune di Lugo e di costruirne una catalogazione; inoltre, di fornire un inquadramento generale di queste forme d’arte e devozione minore, della loro storia e della loro fruizione.

Catalogazioni delle edicole presenti in comuni limitrofi della provincia di Ravenna sono state oggetto di pubblicazione anche recentemente, mentre mancava una descrizione relativa al territorio lughese; territorio che, non lontano da Faenza e da Imola, ha potuto attingere a targhe ceramiche delle due più fiorenti fabbriche di produzione di immagini nei secoli di massima diffusione di queste forme devozionali, soprattutto Seicento e Settecento, in coincidenza con la fioritura del territorio, che dal suo centro cittadino, divenuto un polo commerciale di grande importanza,

si irradiava in un forese finalmente bonificato, nuovamente centuriato, punteggiato di pievi.

Per le grandi trasformazioni che il territorio ha subito (le deviazioni fluviali e le bonifiche idrauliche in età moderna, gli effetti del passaggio delle guerre, la meccanizzazione dell'agricoltura, la nuova viabilità e urbanizzazione, le grandi vie di comunicazione) si può ipotizzare che un gran numero di queste piccole strutture siano andate perdute, mentre quelle rimaste spesso risultano vuote o non contengono più l'immagine originaria.

A ciò si affianca la modestissima rappresentazione storica di queste edicole, che le rende a tutti gli effetti marginali, ai campi che delimitavano come alla storia ufficiale.

PER UNA DEFINIZIONE DI EDICOLA VOTIVA

Per questi manufatti manca una definizione precisa, ma è possibile individuare una categoria di monumenti di ispirazione devota, voluti e posti in essere dalla gente comune, che si è soliti designare con termini di derivazione di volta in volta popolare/dialettale oppure colta, che variano da zona a zona e nell’arco del tempo.

Tra questi termini è bene ricordare quelli più diffusi e frequenti: capitello, cappella, celletta, cippo, edicola,

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madonnina, maestà, nicchia, pilastrino, sacello, tabernacolo, targa, verginina.1

Alcune denominazioni sono tipiche di aree specifiche del nostro paese: pinture o pinturette nelle Marche ( a identificarne il carattere di immagine dipinta), marginette in area pisana (con uno slittamento di significato da immagine a margine, a indicarne la collocazione), cunnicelle a Bronte.

Il termine capitello è utilizzato con riferimento alla parola latina caput, cioè “capo”, “estremità”, “termine”, ed ha cioè diretta associazione con il luogo in cui i monumenti di questo tipo vengono edificati2; il termine è tuttora il più usato in Veneto (capitei). Altri termini come madonnina, verginina , targa, fanno riferimento diretto all’immagine devozionale stessa, in relazione al tema iconografico o alla configurazione dell’oggetto. Pilastrino e cippo rinviano alla forma architettonica del monumento, mentre nel caso di nicchia (cunnicella in siciliano) si evidenzia lo spazio che ospita l’immagine devozionale; questa può far parte di un manufatto

1 E. MORIGI, Le edicole devozionali. La terminologia, le forme, la fruizione , in (a cura di) E. MORIGI, B. VENTURI , Edicole devozionali del territorio ravennate. Comuni di Alfonsine, Bagnacavallo, Ravenna e Russi, Longo Editore, Ravenna 2004

2 G. FRANCESCHETTO, I capitelli di Cittadella e Camposanpiero. Indagini sul sacro nell’alto padovano, Roma, 1972 , cit. in M. MORIGI, Le edicole devozionali...cit.,p.13

costruito all'uopo ma più comunemente è incavata nella parete di un edificio rivolta all'esterno. Il termine tabernacolo, il cui significato principale rimanda ad uno specifico arredo sacro atto a contenere la pisside e il Santissimo Sacramento3, è di derivazione evidentemente colta, ma la somiglianza formale di alcune tabernacoli con gli oggetti studiati ha indotto a parlare di tabernacolo anche in riferimento ai nostri monumenti di devozione, usando il termine come sinonimo di edicola. Appunto, l’edicola, nel significato traslato si configura come un piccolo tempio o nicchia inquadrante un’immagine, dalla parola latina aedicula, diminutivo di aedes (“casa” o “tempio”), adibita quindi in origine ad ospitare una statua con funzione cultuale o sepolcrale4 . Dal mondo classico deriva anche il

3 C.PISONI , “Tabernacolo”, in Enciclopedia dell’arte medievale, a cura di A.M. ROMANINI, vol. XI (2000), coll.55-57. Per i romani il tabernaculum era la tenda augurale, il luogo dove si conservavano gli auspici. Per gli ebrei, il Tabernacolo era la tenda dove, durante il lungo viaggio dall'Egitto alla terra Promessa, si conservavano le tavole della legge, il candelabro e gli arredi sacri. In epoca cristiana, a partire dal IV Concilio Lateranense del 1215, con il nome tabernacolo o ciborio si indicò il luogo ove si conservava il SS. Sacramento, e in seguito, per estensione, si cominciò a definire tabernacolo qualsiasi struttura, all'interno o all'esterno delle chiese, atta a contenere immagini sacre

4G. BENDINELLI, “Edicola”, in Enciclopedia dell’arte antica, classica e orientale, a cura di R. BANCHI BANDINELLI, vol.III(1960), coll.214-216

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termine celletta, che riprende la parola cella, parte interna del tempio, dove era custodita la statua della divinità. Così anche sacello (sacellum) indica un piccolo luogo chiuso consacrato, una piccola cappella o oratorio. Quanto al termine maestà, deriva dal linguaggio colto in riferimento all’impostazione frontale della figura rappresentata, che richiama un modello dell’arte imperiale dall’Imperatore in trono in maiestate5.

Quanto detto sulla terminologia rende più semplice un’identificazione d’insieme sulla base di classificazioni strutturali e formali; per quanto riguarda invece le motivazioni propriamente ideologico-religiose, i nostri pilastrini si caratterizzano come espressione di devozione semplice e destinata a pubblica fruizione, che si manifesta nella collocazione del manufatto.

Ritroviamo questi segni del paesaggio sul ciglio delle strade, negli incroci, volti al pubblico passaggio in cortili privati, più raramente in campi coltivati.

La locazione dei pilastrini non è ovviamente causale e, benché il loro posizionamento attuale non possa considerarsene conseguenza diretta, si riallaccia a tradizioni molto più antiche del cristianesimo, che si

5 A. MAVILLA , Le maestà nell’alta Val Parma e Cedra, Ravenna, 1996, p.29

espressero in monumenti dalle analogie formali e sostanziali con le nostre edicole. Già i romani usavano collocare all’incrocio tra cardo e decumano il compitum, un cippo, quale segno identificativo del confine di proprietà: col passare del tempo questo simbolo si coprì di un significato religioso. Le zone di confine erano infatti sguarnite dalla protezione dei lari, le divinità familiari, e come tali erano vulnerabili all’attacco di entità malevole, le più temute delle quali erano gli spiriti dei trapassati. La religione romana era fondata su un reciproco rispetto dei limiti e delle regole stabilite fra umano e divino a cui corrispondeva la giusta protezione dei numina.6 I punti di confine, rappresentando concretamente il luogo di passaggio tra mondo terreno e “altro”, erano perciò di fondamentale importanza: i contadini usavano appendere sugli alberi dei crocicchi o confinali delle maschere ornate di corna con valore apotropaico, e i crocicchi stessi diventarono appannaggio della protezione di specifici lares, i lares compitales, oggetto di offerte votive.

Già nel periodo della tarda Repubblica questa usanza votiva cadde in disuso, ma il concetto di confine come area di compenetrazione tra mondo dei vivi e mondo dei morti rimase ben vivo nella mentalità della gente comune: non per niente una figura negativa come Ecate veniva definita “signora dei crocicchi”, e durante il periodo in cui si credette alle opere nefande della

6 Cfr. H.M.R. LEOPOLD , La religione di Roma, Genova, Fratelli Melita Editori, 1988

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stregoneria si ritenevano gli incroci luoghi frequentati da streghe e maghi.

Nel medioevo sopravvivevano infatti nelle campagne europee una serie di rituali cultuali precristiani che la chiesa non si curava più di tanto di combattere, considerandoli inizialmente innocui e gradualmente superabili. Così, e come si vedrà fino al Concilio di Trento, le pratiche divinatorie, i riti agrari di fertilità e fecondità, gli interventi magico-terapeutici, non scomparvero. Vennero in qualche modo cristianizzati attraverso una sorta di sovrapposizione, che li spinse progressivamente ai margini della legalità, senza però che si potesse impedire la sopravvivenza di frange di paganesimo a volte così intriso di simboli e formule cristiane da generare forme di religiosità popolare particolarissime.

Anche nella tradizione romagnola troviamo una serie di documenti che attestano la sopravvivenza di pratiche magico-stregoniche rurali perpetuate nei crocicchi,7 descrizioni che riflettono una visione della

7 Su stregoneria, culti pagani e tradizioni popolari in Romagna: N. MASSAROLI, Diavoli, diavolesse e diavolerie nella tradizione popolare romagnola. Alla noce di Benevento, in “La Piè”, n.7 (1923); M. PLACUCCI, Usi e pregiudizi dei contadini della Romagna, Forlì 1818; P. TOSCHI, Romagna tradizionale, Bologna 1952; G.G.BAGLI, Nuovo Saggio di Studi sui Proverbi, gli Usi, i Pregiudizi e la Poesia Popolare in Romagna, in “Atti e Memorie della R. Deputazione di Storia patria per le Province di Romagna”, Ser.III, vol, IV,1886, rist. an.Bologna, 1987; E. BALDINI , Paura e Maraviglia in Romagna, Ravenna, Longo Editore, 1988.

morte e delle antiche usanze tutt’altro che spaventosa, resa tale solo durante l’età moderna anche per le pressioni culturali della Chiesa ufficiale, che fecero via via svanire il ricordo delle motivazioni originarie dei riti stessi.

Non solo i crocicchi ma anche i boschi erano fulcro del connubio tra nuovi e antichi culti: nido delle paure ancestrali perché terreno del diverso;8 ai rami dei loro alberi si appendevano immagini sacre, traslando la devozione dal legno stesso all’icona, che poteva col tempo trovare altra collocazione in un’edicola o tempietto. Variate sono le raffigurazioni nella religiosità popolare romagnola di apparizioni mariane tra le fronde di un albero, basti pensare alla Madonna del Bosco di Alfonsine, alla Madonna dell’Albero a Ravenna, a quella del Piratello a Imola ecc.

Forse ancor più dei suoi corrispettivi più compiutamente architettonici, i tabernacoli arborei sono espressione non solo dell’immediata religiosità contadina, ma anche di un rapporto tra uomo e ambiente, sentito e personale. Era un rapporto vissuto spesso in maniera tragica a causa della dipendenza dagli agenti atmosferici e degli

8 V. FUMAGALLI, Il paesaggio dei morti. Luoghi d’incontro tra i morti e i vivi sulla terra nel Medioevo, in “Quaderni Storici”, n.50, Bologna ,1982, p. 419

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sconvolgimenti provocati da intemperie e terremoti. Bisogno di protezione dagli agenti esterni che determinavano la vita contadina e preghiera genericamente intesa compiutamente cristiana si fondono in questi luoghi di confine.

La presenza diffusa di manufatti con immagini sacre si ha nella nostra regione a partire dal Quattrocento9, ma in tutto il Paese assume dimensioni ben più ampie dopo la Controriforma, per l'impulso dato dalle gerarchie ecclesiastiche alla venerazione delle immagini di religiosità popolare in funzione antiprotestante, con una accentuazione del culto mariano, come vedremo, e una diversificazione a seconda dei luoghi, ufficializzando tradizioni di culti locali con le relative immagini che si diffusero grazie alla riproduzione ceramica.

Dal Cinquecento in poi c'è inoltre una fioritura degli Oratori, piccole chiese costruite nelle campagne dalle Confraternite, che sorgono spesso nel luogo dove sorgeva precedentemente un tabernacolo con una immagine ritenuta miracolosa, collocata poi all'interno della chiesetta.

Si sviluppano inoltre dei precisi cliché iconografici per i santi: ogni santo è rappresentato con caratteristiche e

9 P. GUIDOTTI, Madonne e santi nelle ceramiche devozionali. Una spia sul mondo di ieri, 1982, cit., cap. I; M. CECCHETTI, Targhe devozionali devozionali dell’Emilia-Romagna, Silvana Editoriale, Milano, 1984, cit., cap. II

attribuzioni particolari, facilmente riconoscibili dai credenti, ognuno deputato ad una particolare funzione.

L'invocazione alla protezione della Madonna e dei santi ebbe il culmine in occasione delle pestilenze del Seicento; ne seguì una venerazione delle immagini che da popolare divenne ufficiale: si pensi al culto della Madonna delle Grazie di Faenza , la cui effige fu rappresentata su moltissime case della città e si diffuse ben oltre i suoi confini.

Sbiadita nella cultura ufficiale dell'età contemporanea la fede nella capacità taumaturgiche dell'invocazione religiosa e attenuate molte paure ancestrali grazie al progresso scientifico, non si è tuttavia assistito al cessare della costruzione di edicole , poiché quasi tutti i pilastrini che vediamo attualmente sono di origine otto o novecentesca.

Sembra pertanto manifestarsi una generica disposizione d’animo che induce a sacralizzare i luoghi. L’immagine sacra, collocata in un crocicchio, un bivio, un guado, un crinale, proietta nella topografia del paesaggio naturale e architettonico il luogo di passaggio tra aree diverse , ed ha valore di presidio, data dalle implicazioni conflittuali che tali passaggi comportano sul piano simbolico10 Questo scopo di protezione è quel che resta dell’antico significato delle edicole. E’ un senso religioso che nelle campagne, e

10M.CECCHETTI, Targhe devozionali…, cit.,p.45

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la ricerca sul territorio ha dato modo di attestarlo, risulta più vivo di quanto l’apparenza non indichi. Defilate anche visivamente dai mutamenti del vivere moderno, queste edicole risultano spesso invisibili agli occhi del passante ignaro del loro significato.

Eppure nelle campagne si riscontra un perdurare di questa religiosità semplice che ancora si esprime nelle processioni del mese di maggio e nella committenza di targhe devozionali ceramiche. E’ una forma di religiosità popolare che ha sicuramente in larga parte risentito del progresso e degli sconvolgimenti oltre che paesaggistici anche sociali e del proprio sentire religioso, ma che non ha tuttavia del tutto perso quelle connotazioni originarie di legame col proprio vissuto quotidiano, col proprio territorio e con le proprie tradizioni, che questa ricerca si propone di esprimere.

FORME E COLLOCAZIONI11

Ogni qualvolta troviamo un'edicola con un’immagine sacra, non ci sfugge il dato comune di una collocazione su di un limite. E questo limite non è tanto e solo fattuale, quanto psicologico : una svolta che impone una scelta ; un varco che incute paura ; una soglia che induce al rispetto. O ancora, la scansione di uno spazio, che si misurava in ore di cammino: la fine di una strada o la metà di essa. Nell'esposizione (edicola è qualcosa di esposto) è implicito un valore di messaggio: l'edicola (e implicitamente il suo costruttore) dice qualcosa a chi passa.

In questo sta la più intima differenza con l'immagine votiva all'interno dell'arredo domestico . La stessa nicchia votiva sopra la soglia di casa, che pure sembra esprimere in modo così domestico un significato devozionale puro e privato, si colloca su un diaframma fra il dentro e il fuori: un dentro protetto e

11 Sulle specifiche tecniche delle edicole votive, diffusione, fruizione : M.CECCHETTI , Targhe devozionali… ; E. MORIGI, B. VENTURI, Le edicole devozionali…; F. S. CUMAN, La pietà popolare nelle edicole sacre, Padova, Centro Editoriale Cattolico Carroccio, 1994; G.TESEI, Le edicole sacre. Gli artistici simboli di devozione nelle vie della Capitale; Casa Editrice Anthropos, 1988; P. GUIDOTTI, Madonne e santi…; (a cura di) P. GUIDOTTI, G. L. REGGI, A. TARACCHINI, Catalogo della Mostra Ceramiche Devozionali nell’Area Emiliano-Romagnola, Imola, Grafiche Galeati, 1976.

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sicuro e un fuori imprevedibile e denso di rischi. La protezione dalle volontà malefiche prosegue all'interno con la collocazione di un'immagine sacra, anche qui caratteristicamente, al pianerottolo della prima rampa di scale, come se anche il passaggio al piano di sopra (passaggio un tempo oscuro, illuminabile con una candela che poteva spegnersi all'improvviso per lo spiffero di una finestra colpevolmente mal chiusa) innescasse antiche paure, razionali (dei ladri) o meno (dei morti); mentre l'insieme delle nicchie esterne costituisce una cintura protettiva corale. Anche nel nostro territorio, basta allontanarsi di poco dal centro abitato per vedere apparire le antiche nicchie fin dalle case della prima cintura cittadina, quasi a costituire una seconda cerchia di protezione, al di là delle vecchie mura scomparse. Si notano ancora, non a caso, nelle case d'angolo, o dove una strada a lungo sviluppo si immette in un'altra ( con significato del tutto analogo , in questo caso, al pilastrino), spesso nelle case coloniche di maggiore dimensione, perché, quantunque povera, la targa ceramica non era alla portata di tutti. Si può dunque ipotizzare che la nicchia votiva domestica rappresenti una forma devozionale di confine fra il privato e il pubblico.

Non molto presente in pianura, mentre ha una certa diffusione nell’Appennino tosco-emiliano, è l'esposizione definita “a frontale” . Si tratta di uno sviluppo della più semplice forma a nicchia e, come quest’ultima, trova collocazione nelle parerti esterne delle stalle, dei fienili e soprattutto delle abitazioni. Di solito il lavoro è ricavato da un blocco monolitico di

arenaria, al centro è scavato lo spazio in profondità per accogliere la targa in ceramica, attorno figurazioni simboliche o semplicemente decorative formano la cornice.

Slegata da un edificio, l'immagine doveva essere protetta; doveva esserle data una 'casa', in forma di piccola cella.. La forma più semplice e povera di protezione era il tabernacolo ligneo . Artisticamente certo non significativo, ha invece importanza storica perché rappresenta la forma più antica: la sua presenza nel paesaggio è documentata almeno dal Cinquecento, con stampe che illustrano libri liturgici e fogli volanti devozionali. La struttura del tabernacolo ligneo di norma consiste in un tempietto costruito con poche assicelle di legno: una per il fondo, una per la mensola, due per i fianchi e ancora due per il tettuccio a spioventi. Ne risulta quella sorta di “casetta”, aperta sulla fronte, molto tipica, fissata ad un albero o issata su di un palo ai bordi di un campo o all'interno di un orto, o in molte altre, diverse, sistemazioni. Per costruirla erano sufficienti le abilità più elementari esistenti all'interno della famiglia contadina ; una reticella metallica, una latta ritagliata e verniciata potevano servire come protezione dal vento e dalla pioggia. La povertà dei materiali e dei mezzi testimonia sull'origine popolare e spontanea non solo del tabernacolo ligneo stesso, ma del tabernacolo devozionale in genere, di cui quello ligneo è da considerarsi la situazione originaria che di solito dà poi vita a successivi, più solidi, insediamenti , e rappresenta la struttura elementare a cui si

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richiamano le forme di tutti i tipi di tabernacolo devozionale, anche quelle più complesse in muratura. Ne abbiamo reperito, nel lughese, soltanto un esempio.

Il tabernacolo arboreo rappresenta l'esposizione di un’immagine sacra in una architettura naturale e struttura vivente, che richiama immediatamente l'albero sacro di tante religioni , e comunque si ritrova sui confini , delle proprietà o di spazi territorialmente significativi.

L'albero confinale, rispetto al legno che regge il tabernacolo ligneo, è inamovibile, e garantisce la “stabilità” dell’esposizione nel tempo. Vengono scelti quindi alberi perenni , per lo più querce, roveri, olmi, frassini; se sono piante utilizzate per sorreggere filari, possono venire potate a fioriera, a nicchia , a padiglione. Se si tratta di grandi alberi, l'immagine è posta alla prima biforcazione. Già nei primi tre secoli dopo il Mille era frequentissimo che alberi venissero consacrati con la croce, poi con le immagine sacre: stampe, pitture e infine terrecotte.

La dedicazione mariana è sollecitata dal motivo iconografico dell'albero di Iesse 12, una figurazione composita che risulta dall'albero genealogico di Cristo con il paleocristiano arbor vitae e che porta alla sommità l'immagine della Vergine col Bambino . Molti

12 H. DELEHAYE, Les légendes hagiographiques, Bruxelles ,1955, cit.p.167

santuari portano dedicazioni mariane che includono la dedicazione “arborea” (dell’Olmo, del Faggio, dell’Acero, della Quercia, del Piratello, del Melo....) e ciò fa comprendere come la scelta di un tabernacolo arboreo comporti una particolare convinzione di sacralità del luogo o dell'immagine in essa primitivamente esposta. Nella ricerca, abbiamo reperito un piccolo numero di tabernacoli arborei, particolarmente suggestivi, specialmente se osservati al sorgere o al calare del sole.

Le cellette rappresentano una forma intermedia fra pietà privata e struttura di culto . Son piccoli tempietti di modesta altezza, contenenti una piccola camera e un altare ; hanno quindi pietra consacrata e sono soggette al diritto canonico. Possono rappresentare l'evoluzione di un precedente tabernacolo per cui la devozione popolare ha raggiunto intensità tali da coinvolgere l'autorità ecclesiastica. Quando raggiungono le dimensioni di un edificio ad una navata vengono chiamati oratori.

Alla parola pilastrino associamo un piccolo manufatto, la cui altezza è in genere poco maggiore di quella media di una persona, le cui forme ricordano, in dimensioni ridotte, quelle di un campanile. E' costituito da uno zoccolo che sorregge un fusto a sezione quadrata o rotonda, su cui poggia una cella o un tempietto con una nicchia ( a volte più di una) , coronato da una cuspide , a due o quattro spioventi o più raramente emisferica; sulla sommità è collocata una croce.

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I materiali sono poveri e dipendono dalla zona; più spesso di macigno scolpito sono quelli lungo le vie dell’Appennino tosco-emiliano, in muratura di laterizio invece quelli della pianura, con molte eccezioni e non rari casi di muratura mista. Sembrano ispirati ai campanili e come questi evolvono nelle linee e nel gusto, più sinuoso o più squadrato. In quelli del nostro territorio, la tipologia maggiormente frequente è una costruzione a pilastro in mattoni, a fusto quadrato sormontato da una cella quadrangolare, anch'essa costruita semplicemente in mattoni o talora più raffinata. Spesso fra il fusto e la cella c'è una cintura in rilievo; gli spioventi del tetto possono essere scolpiti oppure sormontati da coppi come la copertura delle case. In alcuni casi la modesta cuspide è costruita con mattoni digradanti, che realizzano un profilo a spigoli. La produzione dei materiali per i pilastrini doveva coinvolgere le fornaci, che accanto al lavoro seriale della produzione dei laterizi, dovevano riservare uno spazio, più specialistico, per pezzi "su misura" necessari ad assemblare un pilastrino, come cornici variamente modanate, mensole, tempietti, cuspidi. Ma in molti casi i pilastrini erano costruiti con materiali di recupero, mattoni e coppi ricavati dalla costruzione o demolizione di una casa, come ancora oggi ci viene raccontato.

La dislocazione dei pilastrini nel territorio riflette i criteri che abbiamo già ripetutamente indicato: biforcazioni, incroci, ponti, margini; si possono ritrovare in stretta vicinanza di un albero. La funzione protettiva generica delle immagini sacre si univa alla

funzione di allontanamento di forze del male laddove l'edicola veniva collocata sul luogo di un fatto di sangue. Un voto o una grazia ricevuta erano un altro motivo frequente che portava persone devote all'erezione di un pilastrino. Ma un ruolo importante che il pilastrino acquisiva era quello di punto di riferimento per segnalare strade e distanze nel mondo preindustriale. Nel rintracciare i pilastrini ancora esistenti, molte ricerche concordano nell’osservarne la collocazione su strade esistenti all’inizio del secolo XIX o molto più antiche,13 in particolare su strade un tempo di rilevante importanza per i transiti e oggi relegate a un traffico locale e secondario; questi umili manufatti quindi possono dirci molto sulle modificazioni del territorio.

13 A. BOLOGNESI, Tabernacoli e religiosità popolare nel territorio di Montale, Comune di Montale, 31 ottobre 2005

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IL CUORE DEI PILASTRINI: LE TARGHE DEVOZIONALI

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IL CUORE DEI PILASTRINI: LE TARGHE DEVOZIONALI

Intrinsecamente legata alla sacralità dell’edicola votiva è l’immagine devozionale in essa contenuta. Generalmente rappresentata da una targa o da una scultura a tuttotondo appositamente realizzata, l’immagine devozionale è destinataria delle preghiere dei fedeli e nella sua evoluzione storica e artistica è racchiuso il senso proprio dell’edicola come emblema di religiosità popolare: per questo motivo d’ora in avanti col termine “edicola sacra” e relativi sinonimi intenderemo indicare la struttura architettonica e l’immagine ad esso connessa.

Come detto le edicole devozionali vere e proprie “si distinguono da altre immagini o strutture devozionali di carattere privato, per la volontà di dar luogo a un monumento destinato ad una fruizione pubblica”,1 anche qualora questo rappresentasse la commemorazione di un evento privato.

Questa fruizione pubblica non è sottolineata esclusivamente dalla loro locazione, ma anche dalla scelta dell’immagine che essi custodiscono.

1 E. MORIGI E B. VENTURI (a cura di), Edicole devozionali…Cit.p.17

È stato detto che “la distinzione tra immagine di devozione e immagine di culto è resa dinamicamente possibile dall’intervento della categoria della popolarità” 2, è infatti attraverso il manifestarsi dell’attenzione collettiva che un’immagine di culto può divenire popolare e quindi essere riprodotta e diffusa come oggetto di devozione privata; allo stesso modo è per pura forza popolare che un’immagine della devozione privata può venire accolta ufficialmente in area ecclesiastica come oggetto di pubblico culto3, dal momento che dà vita per sua stessa natura a manifestazioni rituali non solenni, che però richiamano la partecipazione della collettività all’intorno. La sua popolarità si esprime nella sostanziale limitatezza di archetipi stilistici: molto di rado infatti, l’immagine sacra della targa è un’immagine originale, è al contrario prassi delle maestranze artigiane ricopiare su ceramica scene e figure tratte da incisioni a stampa, in cui la scelta del soggetto è in gran parte affidata alla committenza. E’ facile notare come normalmente questa prediliga immagini tratte dalle devozioni locali o archetipi iconografici particolarmente noti. 2 A. VECCHI , Il culto delle immagini nelle stampe popolari, p.39, Firenze 1968 3 M. CECCHETTI , Targhe devozionali…cit.p.35

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Il grande rilievo che la targa ha avuto nel paesaggio urbano e rurale ovviamente respinge l’esclusività di cause prettamente tecniche ,come il principio di “riproducibilità”, e comporta una riflessione sul “ricorso all’archetipo” come carattere proprio della prospettiva popolare di religiosità: come ogni altra immagine devozionale la targa si propone infatti non come “strumento” o “metodo di devozione”, ma come semplice “oggetto” o “affermazione radicale di religiosità” 4. Come osserva Maria Cecchetti,5 la targa non descrive il processo proprio dell’arte “alta”, in cui l’autore esprime all’interno dell’opera la sua individuale concezione del mondo, ma viceversa un prodotto artistico che risponde ad un “significato” univoco, precostituito, nei confronti di ogni considerazione filosofica e teologica.

Ecco che si rivela quindi particolarmente interessante l’analisi degli archetipi che dominano la scena artistica della zona esaminata.

4 A.VECCHI , Il culto delle immagini…cit. p.23 5M.CECCHETTI,Caratteri popolari…cit.p.41

BEATA VERGINE DEL MOLINO DI LUGO6

L’immagine della Madonna del Molino è una tavola in gesso conservata nell’omonimo Santuario di Lugo a lei dedicato. La targa ha origini sconosciute, ma è quasi certo che si tratti di una copia da originale rinascimentale, come attesterebbero alcuni elementi e stilemi tipici della produzione artistica dell’epoca presenti 6 Sulla Beata Vergine del Mulino di Lugo: A. GOLFIERI , La Madonna del Molino protettrice della città di Lugo: sunto storico, Lugo 1896; Madonna del Molino: Lugo, (a cura di) DON T. CAVALLINI, G. MAGNANI , Imola, 1993

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nell’immagine7. La Vergine è raffigurata a tre quarti, seduta, con il Bambino poggiato sulle ginocchia frontalmente, entrambi preziosamente ornati e incorniciati sullo sfondo da festoni floreali.

L’origine del culto, risalente alla fine del XV secolo, ci è nota grazie alla cronaca di Gian Battista Bolognesi8, notaio lughese dell’epoca al servizio degli Estensi. Non è da escludere tuttavia che il Bolognesi stesso sia stato influenzato nel suo narrare da credenze precedenti. Secondo la leggenda, in data 17 maggio 1496, un mercante faentino di ritorno da Ferrara cadde con il suo carro in un canale nella zona del Molinaccio, nei pressi di Lugo, infrangendo un’immagine in gesso di Vergine con Bambino che portava con se’. Ritenendo impossibile ripararla l’abbandonò sul luogo dell’incidente, ma alcuni giovani pastorelli una volta trovatala ne rimisero insieme i pezzi, e la riposero in un tabernacolo ligneo appositamente costruito. L’immagine, tornata a nuova vita, improvvisamente cominciò a risplendere di una luce tanto intensa da costringere i giovani alla fuga, attirando immediatamente le attenzioni dei devoti dei paesi limitrofi, che vi attribuirono poteri miracolosi. Il

7 B. VENTURI , Edicole e immagini devozionali tra realtà storia e tradizione in Edicole votive…(a cura di) MORIGI E VENTURI cit.,p. 43 8 Cfr. A. GOLFIERI, in La Madonna del Molino protettrice…cit.,pp. 181-187

duca Ercole d’Este, venuto a conoscenza dei numerosi miracoli, assecondò il desiderio dei sudditi erigendo una cappella; tuttavia, quando si sparse la notizia che questa sarebbe stata costruita sul luogo del prodigio e affidata ai Domenicani, incontrò l’opposizione della sua stessa gente, in quanto la zona del Molinaccio era ritenuta pericolosa, luogo di delitti e spiriti maligni. Il popolo insistette per affidare la custodia della sacra immagine ai Frati Minori di Lugo, e un sostenitore della causa, Gian Paolo Rondinelli, decise con un atto di forza di trasportarla di persona nella cittadina; ma l’impresa gli fu impedita dall’improvvisa ribellione al galoppo del proprio cavallo imbizzarrito e dalla contemporanea perdita di vista e udito, effetti miracolosi che terminarono altrettanto fulmineamente una volta desistito dal suo intento. Il 27 aprile 1497 l’immagine venne così affidata alla nuova chiesa di Santa Maria Nuova ,custodita dai Domenicani, che vi edificarono vicino un piccolo convento. Venne poi incoronata nel 1856 da papa Pio IX, mentre nel 1939 iniziarono i lavori per la nuova chiesa, terminata nel 1943.

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MADONNA DEL FUOCO DI FORLì9

Secondo quanto narrato da Giovanni di Mastro Pedrino nella sua Cronica,10 nella notte tra il 4 e il 5 febbraio 1428, a Forlì, un incendio distrusse una scuola lasciando intatti solo i muri e un’immagine in carta della Madonna. Questa, ritenuta miracolosa, fu trasportata in cattedrale la domenica seguente. Il 20 ottobre 1636 venne inaugurata, per la Madonna del Fuoco, una grande cappella; divenuta poi patrona della città e della diocesi di Forlì, fu oggetto di culto e devozione per molti

9 Sulla Madonna del Fuoco di Forlì: S.FABBRI, La Madonna del Fuoco di Forlì fra storia, arte e devozione, Cesena, 2003 10 S. FABBRI, La Madonna del fuoco di Forlì,. p.15 nota 1: GIOVANNI DI MASTRO PEDRINO, Cronica, I (1411-1436), II (1437-1464)

secoli: ancora oggi l’immagine è conservata nel duomo cittadino. La Madonna del Fuoco di Forlì è una xilografia impressa su carta tra la fine del XIV e gli inizi del XV, la più antica che si conosca in Italia11. Secondo Sergio Fabbri12 la sua nascita va attribuita per affinità stilistica al maestro Michele di Matteo, attivo a Bologna tra 1410 e 1469, oltre che a Venezia e Siena. La composizione ricalca lo schema del polittico gotico, con al centro la Vergine che tiene in braccio il Bambino sul proprio fianco destro, mentre intorno, all’interno di scomparti delimitati da colonne tortili, sono rappresentate scene tratte dal Vangelo (l’Annunciazione e la Crocifissione), coppie di Santi e Martiri, gli Apostoli, Santa Dorotea e forse la Vegine. Al centro la Madonna, coronata, ha alle proprie spalle il sole e la luna antropomorfizzati. Sovente si assiste ad una commistione iconografica tra la Madonna del Fuoco di Forlì e l’omonima Madonna di Faenza. 11 B. VENTURI, Edicole e immagini…cit.,p.38 12 S. FABBRI, La Madonna del Fuoco…cit.,pp.13-50

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MADONNA DEL FUOCO DI FAENZA13

Il 2 agosto 1567, in una casetta dell’oggi vicolo Ubaldini, nei pressi del monastero domenicano di Santa Cecilia, un incendio generato da una candela si espanse nella casa vicina. Nella stanza dimorava una vedova, la quale conservava un’immagine della Madonna con Bambino dipinta su legno appesa alla parete. L’incendio divampò tutta la notte, prima di essere spento l’indomani. Non fece vittime, ma tutto andò completamente

13 Sulla Madonna del fuoco di Faenza: A. DOLCINI , I sacri fuochi di Forlì e Faenza, Faenza, 1997; I sacri fuochi di Forlì e Faenza: arte per la fede: immagini sacre antiche e moderne, Forlì, 1998.

distrutto: tutto tranne l’immagine sacra. La targa divenne immediatamente oggetto di devozione e le si attribuirono guarigioni miracolose, venne eretto un altare sul posto e la devozione della Madonna del Fuoco venne ufficializzata. Nel 1570 si costruì una chiesa per ospitare i molti fedeli che giungevano in pellegrinaggio, chiesa oggi scomparsa. Dal 1609 la festa liturgica della Madonna del Fuoco di Faenza si celebra il 2 agosto. L’immagine è stata spostata dal monastero di Santa Cecilia a quello di Santa Caterina a seguito della soppressione Napoleonica del primo nel 1798; quindi collocata nella sua odierna casa, la chiesa di San Domenico, nel 1811. Iconograficamente l’immagine originaria raffigura la Vergine con una stella sulla spalla sinistra, il Bambino alla propria destra con in mano un globo sormontato da croce. È un dipinto probabilmente risalente al XV-XVI secolo, di stile bizantineggiante, forse quindi di provenienza ravennate. E’ interessante sottolineare come l’essenza miracolosa della Madonna del Fuoco venisse confermata dalla Chiesa con particolare celerità rispetto alle tendenze del periodo storico, in cui si assiste ad una maggior regolamentazione da parte del governo ecclesiastico in tema di nuove

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santità e devozioni. Sul fatto forse pesano anche le circostanze storiche: a Faenza era attivo un vivace movimento riformatore e antiecclesiastico (e come tale contrario alla sacralizzazione delle immagini), abbastanza compatto da sfuggire almeno parzialmente al giogo dell’inquisizione. Il miracolo venne quindi sfruttato per un definitivo regolamento di conti con i riformatori faentini :da un lato da parte delle autorità ecclesiastiche cattoliche cittadine; dall’altro da parte delle masse per isolare, subordinandolo al clero, quello che era il gruppo dirigente cittadino. 14

14 S. BOESCH GAJANO E L. SEBASTIANI (a cura di), Madonne di città e Madonne di campagna. Per un’inchiesta sulle dinamiche del sacro nell’Italia post-tridentina, in Culto dei santi. Istituzioni e classi sociali in età preindustriale, L’Aquila, Japadre, 1984, pp. 615-647

BEATA VERGINE DELLE GRAZIE DI FAENZA15

A Faenza il culto per la Beata Vergine delle Grazie risale ai primi del XV secolo. La Cronica Conventus Sancti Andreae de Faventia composta nel convento dei Domenicani verso la fine del XV secolo16, riporta la leggenda della sua origine: nel 1412 , mentre la peste sconvolgeva la città, una matrona di nome Giovanna raccontò di 15 Sulla Beata Vergine delle Grazie di Faenza: A. SAVIOLI , L’immagine della Beata Vergine delle Grazie di Faenza e le sue derivazioni , Firenze 1962; La Madonna delle Grazie di Faenza: notizie storiche, a cura dell’Arciconfraternita della Beata Vergine delle Grazie, Faenza, 2000 16 F. LANZONI , La Cronaca del Convento di Sant’Andrea di Faenza, Città di Castello 1911

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aver visto la Madonna che , con le braccia aperte e stringendo tre frecce spezzate per mano, le disse che la collera divina si sarebbe ugualmente spezzata se il vescovo avesse indetto un digiuno universale ed una processione penitenziale per tre giorni consecutivi. La visione della donna venne ascoltata e l’impegno immediatamente assolto, liberando la città dal terribile morbo.

Al termine della pestilenza fu dipinta un’immagine della Madonna su un muro della chiesa di Sant’Andrea, come voto per la liberazione dalla calamità. L’affresco, di mano ignota ma apparentemente dipinto da maestro di cultura tardogotica veneta, venne poi staccato dal muro e trasportato in cattedrale, e probabilmente proprio in quell’occasione andarono perse la metà inferiore del corpo e gran parte delle braccia, senza che tuttavia questo possa far dubitare dell’iconografia tipica con sei frecce, in quanto ampiamente attestata sin dal XVI secolo.17

All’epoca, l’immagine della Madonna protettrice, raffigurata secondo questa tipologia, era molto comune: veniva chiamata Madonna della Misericordia e la caratteristica che la contraddistingueva erano le frecce dell’ira divina che si spezzavano contro la sua veste, sotto alla

17 Ivi p.16 nota 5

quale cercavano riparo i fedeli.18 Alla Madonna delle Grazie in questa sua nuova veste venne consacrato un altare nella chiesa Di S.Andrea in Vineis (l’attuale San Domenico) il 12 maggio 1420, e da qui il culto ha avviato la sua diffusione. Molte volte ancora la città di Faenza si è rivolta alla Vergine delle Grazie. Dopo il 1630 , quando la città si salvò dalla peste, la Madonna venne incoronata, proclamata patrona e protettrice della città, di cui le furono offerte le chiavi in una solenne cerimonia avvenuta il 18 maggio 1631. Ancora, in occasione del terribile terremoto che colpì Faenza nel 1781, in cui vi furono gravissimi danni ma non vittime, il Magistrato fece voto alla Madonna che per cinquant’anni, nell’anniversario del terremoto (4 aprile), si sarebbe celebrata una festa in suo onore (festa che si celebra ancor oggi, in aggiunta alla festa omonima della seconda domenica di maggio). A seguito dell’epidemia di colera che andava diffondendosi per l’Italia, nel 1836 una seduta consiliare decise di esporre grandi rilievi in terracotta raffiguranti la Vergine sulle mura cittadine. L’immagine, riprodotta in sei copie e murata l’anno seguente nelle porte della città, fu realizzata da Don Valenti, e presenta al centro un ovale raffigurante l’apparizione della Madonna a Giovanna, sullo

18 B. VENTURI, Edicole e immagini, cit., p. 39

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sfondo una torre merlata del ponte romano oggi non più presente, e agli angoli quattro medaglioni con mezzobusto dei santi patroni faentini: Savino, Pier Damiano, Emiliano e Terenzio. 19

L’immagine è ancor oggi una delle più diffuse, tuttavia ci si imbatte spesso in una Madonna delle Grazie, il cui attributo fondamentale rimangono le sei frecce spezzate, rappresentata semplicemente a mezzobusto, o sorretta da una nuvola.

E’ stata proclamata il 25 marzo 1931, in occasione del III centenario della prima incoronazione, “Patrona Principale della città e della Diocesi”, titolo confermatole da Papa Pio XI che la volle nuovamente incoronata a suo nome. L’antica immagine, riportata su tavola nel 1948, è oggi venerata nella cattedrale della città.

19 Ibid.

BEATA VERGINE DEL PIRATELLO DI IMOLA20

Principale fonte per la genesi di questo culto sono le Cronache Forlivesi di Andrea Bernardi 21, secondo cui il 27 marzo 1489 un’immagine della Madonna, dipinta dentro la nicchia di un pilastro costruito vicino ad un pero sulla via Emilia, avrebbe parlato ad un pellegrino di passaggio, il cremonese Stefano Mangelli, svelando il desiderio di essere onorata in quel luogo. 20 Sulla Beata Vergine del Piratello di Imola: P. BEDESCHI, L’origine del culto della Madonna del Piratello e le sue oscurità: note critiche, Bologna 1965; B. VENTURI, Edicole ed immagini…cit.,pp.46-47 21 Andrea Bernardi, Cronche Forlivesi dal 1476 al 1517, pubblicare ora per la prima volta di su l’autografo, a cura di G.Mazzantini , Bologna , 1895-1897

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Comandato quindi al pellegrino di diffondere tra le genti la sua volontà, lo indirizzò ad Imola, riempiendogli le braccia di rose di bellezza mai vista e rare in quella stagione, perché non dubitassero della sua visione. Dopo che il Mangelli ebbe parlato col Governatore, una processione si recò al pilastrino, e molti prodigi si verificarono, generando il culto per la Madonna del Piratello.

Esistono tuttavia diverse lacune nella storia dell’origine di questa leggenda, a partire dallo stesso nome, rinvenuto in più versioni nei documenti antichi: Peradello, Peradelle, Pyradello, Paradello, Paratello, Pradello, Pratello, Pradel (dialettale). E’ però probabile che esso derivi da “Peradello”, il nome di un fondo esistente nella stessa località già molto tempo prima del racconto del Mangelli.22

Anche la datazione è incerta, difatti alcuni cronisti di pochi anni successivi al Bernardi parlano di un’immagine di carta collocata sul pero precedentemente a quella che parlò al Mangelli dal pilastrino. Sulla base delle sue ricerche

Bedeschi ritiene di doversi riferire a questa prima immagine, anticipando la data del miracolo al 27

22 P. BEDESCHI, L’origine del culto della Madonna del Piratello e le sue oscurità: note critiche, Bologna, 1965

marzo 1483. Il pilastrino sarebbe stato quindi costruito successivamente sul luogo della visione, ad ospitare un’immagine più pregevole e non deperibile. Questo affresco è tutt’ora conservato nel Santuario del Piratello di Imola ed il suo modello ha trovato larghissima diffusione nelle zone attorno alla città.

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MADONNA DEL BOSCO DI ALFONSINE23

Si tratta, come per la B.V. Del Molino, di un caso di devozione popolare locale che è diventata oggetto di culto ufficiale. “Verso la fine di marzo dell'anno 1714 si faceva taglio di pia[n]te per commando, e servizio de Sig.ri Spreti nel bosco di una sua tenuta, detta la Raspona [...]. Accadde dunq[ue] per disposizione di

23 Sulla Madonna del Bosco di Alfonsine: MARIA ELISABETTA ANCARANI ,Per Grazia Ricevuta, Ed. Il Girasole maggio 2001; A. SAVIOLI, Catalogo degli ex-voto di Madonna del Bosco, in Studi Romagnoli, XIX (1968) pp.253-257; Il Sacro, Le Opere e i giorni: per una storia della devozione popolare nei dipinti votivi della Madonna del Bosco, Alfonsine, 1983

quell'Iddio, il quale è l'arbitro sì della vita, che della morte d'ogn'uno, che una di quelle piante che si tagliavano, investita nello stesso tempo da più gagliardi colpi venne a cadere come all'improvviso con tutto il corpo et un suo grosso ramo percosse così malam[en]te, in testa un povero contadino che con un altro compagno s'affaticava con la scure alla piè d'un albero vicino per atterrarlo che vi rimase morto sotto miseram[en]te. Chiamavasi egli Domenico poco in testa...”24

Così esordisce nelle primissime pagine il “manoscritto Fiori”, documento oggi perduto di cui si conserva copia in due esemplari alla Biblioteca Classense di Ravenna , a cui dobbiamo le notizie sulla genesi della venerazione alla Madonna del Bosco, mentre la data la morte del bracciante, 10 aprile 1714, ci giunge dal registro dei morti della chiesa arcipretale di Alfonsine. La nascita del culto si lega dunque ad un evento luttuoso: durante la potatura nella tenuta “La Raspona” di Alfonsine di proprietà dei Marchesi Spreti, il contadino Domenico Pochintesta perse la vita a causa della caduta di un grosso ramo. Come da usanza in questi casi, per allontanare la disgrazia e commemorare il defunto, venne collocata su un albero attiguo al luogo dell’incidente un’immagine sacra, su iniziativa del fattore dei marchesi, Matteo Camerani,

AGOSTINO ROMANO FIORI ,Origine e progresso della devozione e concorso alla Immagine della B.V. del Bosco alle Alfonsine, cosiddetto “Manoscritto Fiori”, 1715, cit. in M. ANCARANI, Per Grazia Ricevuta…”p.17

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che donò una maiolica di sua proprietà raffigurante la Vergine col Bambino : “un quadretto di maiolica in bassorilievo con doppia cornice ottagonale; la Vergine vi era figurata seduta col Bambino in braccio, appena coperto da una benda a' lombi, e la madre con manto arabescato a fiori e coronata siccome il Bambino”25. Questa immagine col Bambino semisdraiato corrisponde ad un archetipo diffusissimo, in molteplici varianti, che origina dal modello rinascimentale di un anonimo scultore lombardo26.

Il luogo era molto frequentato poiché da lì partiva “il Passetto”, il traghetto per attraversare il Po di Primaro, ora Reno, e in breve si diffuse la convinzione delle virtù dell'immagine. Nell’estate del 1714 , Antonia Battaglia, di Piangipane, malata ed inabile , chiese aiuto alla Vergine , ottenendo la guarigione; allo stesso modo guarì l’anno seguente una giovane alfonsinese. Camerani fu convinto a ricollocare l’immagine, dall'albero su cui era stata provvisoriamente installata, sull’albero originario, spoglio e pericolante: alla collocazione della sacra effigie questo immediatamente tornò a nuova vita. Una terza guarigione “miracolosa” si verificò nel Luglio 1715 per la malattia del figlio del notaio ravennate Andrea Baldassarre Bonanzi , che si affrettò ad “autenticare” la grazia. Si creò una grande affluenza di fedeli, che

25 G. F. RAMBELLI, Notizie Historiche della Beata Vergine del Bosco che si venera tre miglia lontano da Alfonsine, Imola 1834, cit. in ANTONIO SAVIOLI, L’immagine della madonna del bosco e la sua tradizione iconografica, in Il sacro, le opere e i giorni…cit.,p.11 26 Cfr. M.CECCHETTI, www.ceramichedevozionali.it

costruirono a venerazione dell'immagine un altare artigianale e due strutture che raccoglievano “voti, tavolette, archibugi, pistole spezzate, grucce, vezzi di coralli, anella, ed altri ornamenti femminili. Né a decorare il quadretto mancarono appresso bei doni, fra' quali un cristallo da ricoprirlo che mandava la pietà della contessa Samaritani ravignana”27. Ben presto cominciarono le controversie per il possesso dell’immagine. La prima, fra la famiglia Spreti, proprietaria del fondo, e la Diocesi di Faenza, si risolse in modo “miracoloso”. Infatti, nel luglio 1715 il Vescovo di Cervia Mons. Camillo Spreti, si fece consegnare le offerte , comunicando al cardinale Piazza l'intenzione di dedicare alla Madonna una chiesa. L'immagine fu richiesta dal Vicario generale di Faenza, Mons. Picarelli, tramite l'arciprete di Fusignano e provicario di Alfonsine Don Francesco Maria Rocchi. Quando il 16 agosto don Rocchi si presentò per portare con sé l'immagine a Faenza, tentò invano di staccarla dall’albero natio. Molta gente si era radunata all’intorno, e il fatto fu tramandato come nuovo miracolo ed indiscutibile segno della volontà divina. Viste le ulteriori controversie sorte fra la famiglia Calcagnini, forte del giuspatronato sulla chiesa parrocchiale alfonsinese, e gli Spreti, la questione fu presentata a Roma, su richiesta di don Tosini parroco di Alfonsine. La Sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari di Roma il 17 giugno 1717 sentenziò che 27 G.F. RAMBELLI, Notizie Historiche…,cit.,p.7, cit., in M. ANCARANI, Per grazia ricevuta…cit.,p.21

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la sacra immagine rimanesse dov'era, e che con le offerte raccolte ,oltre al contributo dei marchesi Spreti, le si erigesse una chiesa decorosa.

I lavori per la chiesa iniziarono nel 1717 e terminarono nel 1721. Il culto fu ampio per tutto il secolo ma si affievolì dal 1830 , per l’abbandono da parte dei cappellani della residenza presso il santuario, devastata dall’umidità ,e per il decadimento della famiglia Spreti. Il santuario fu preda di svariati furti, in aggiunta allo spoglio già subito dalle truppe napoleoniche. Si salvarono tuttavia numerosi ex-voto, tuttora conservati e visibili nella chiesa attuale. Dalla fine dell’Ottocento in avanti, con il mutato clima culturale e l’abbandono del “Passo” per la costruzione di un ponte, il santuario decadde ulteriormente e nel 1910 venne ceduto dagli Spreti alla diocesi di Faenza. In piena prima guerra mondiale gli alfonsinesi decisero di costruire un nuovo tempio, approfittando di un indennizzo dovuto alla demolizione dell’originario per l’ampliamento dell’argine del fiume. La nuova chiesa, edificata nel 1929, andò distrutta dai bombardamenti del ’44. Ricostruita nel 1952 , al suo interno conserva ancora l’immagine originaria, danneggiata ma nel complesso scampata ai bombardamenti, grazie al parroco dell’epoca ,che la nascose in un rifugio sotterraneo al di sotto della Canonica, questa invece andata completamente distrutta.

MADONNA DEL MONTICINO DI BRISIGHELLA28

Il culto nasce da un’edicola posta su una strada d’ingresso delle mura di Brisighella nel XVII, l’oggi scomparsa Porta Bonfante. La targa di Madonna con Bambino che racchiudeva , vantava poteri miracolosi, generando l’attenzione degli abitanti. Per questo motivo l’8 settembre 1662, giorno

28 Sulla Madonna del Monticino di Brisighella: P. ALPI, L. MALPEZZI, Il santuario del Monticino in Brisighella. Cenni storici- preghiere, Faenza 1996; A. POMPIGNOLI, La Madonna del Monticino, Imola, 1996; B. VENTURI, Edicole e immagini...cit.,pp.44-45

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dell’anno in cui tuttora se ne celebra la festività, venne ricollocata in un piccolissimo oratorio appositamente costruito nelle vicinanze. Il colle , chiamato fino a quel momento “Cozzolo” o “Calvario” fu ribattezzato “il Monticino”. Nel 1759 al posto della piccola cappella venne inaugurato un vero e proprio santuario, e quivi l’immagine fu solennemente incoronata.

La tipologia d’immagine, una Madonna a mezzobusto che con la destra tiene in piedi il Bambino mentre con la sinistra lo abbraccia, è tutt’ora molto diffusa in ambito emiliano- romagnolo, e se ne conoscono numerose varianti sempre sullo stesso modello, ma con nomi differenti: Madonna del Conforto nella Chiesa dei Cappuccini a Imola ; Madonna della Consolazione a Rocca delle Caminate a Forlì; Madonna delle Grazie a Tredozio; Madonna della Provvidenza o “Marconcina” a Imola, B.Vergine Auxilium Cristianorum a Castel d’Aiano; Beata Vergine della Salute a Solarolo; Beata Vergine del Soccorso a Bagnara di Romagna, e infine Beata Vergine di Sulo a Filetto.29

29 B. VENTURI, Edicole e immagini…cit.,p.45

MADONNA DEI SETTE DOLORI30

Si tratta in questo caso di una devozione di diffusione mondiale molto seguita anche in Romagna, la cui rappresentazione mostra La Vergine Maria in atteggiamento afflitto, con il cuore esposto sul petto, da cui si irradiano sette spade. 30 Sulla Madonna dei Sette Dolori (Addolorata): G.D. GORDINI, La festa dell’addolorata nella storia, in Ross zetar d’Rumagna, 1969; B. VENTURI , Edicole e immagini…cit.,p.50

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In epoca medievale, poiché erano state fissate a sette le gioie, si decise di adottare il medesimo numero, in ambito cristiano già denso di significato, anche per la venerazione dei dolori di Maria, corrispondenti alla profezia di Simeone31

sul destino della Madre di Dio: fuga in Egitto; smarrimento di Gesù dodicenne nel Tempio; cattura di Gesù; flagellazione e coronazione di spine; crocifissione; morte e trafittura del costato; deposizione dalla croce e sepoltura.32

La patria del culto è l’Olanda, dove un sacerdote, Giovanni de Counderberghe, istituì questa pia pratica nel 1491 fondando un santuario. Alla sua diffusione contribuì l’Ordine dei Servi di Maria , un cui convento si trovava anche , probabilmente dalla fine del XV secolo, a Russi, poco distante da Lugo, dove la festa dell’Ordine Servita si è tramutato nell’odierna festa cittadina, celebrata la terza domenica di settembre.

31 “E anche a te una spada trafiggerà l’anima” Luca, 2, 34-35 32 E. CAMPANA, Maria nel culto cattolico, I, Torino-Roma, 1933, pp.328-329.

VERGINE IMMACOLATA33

Esistono diverse varianti iconografiche dell’Immacolata, riconducibili a culti differenti. Tra le più diffuse, quelle dell’Immacolata Concezione, 33 Sulla Vergine Immacolata e sue derivazioni iconografiche : R. LAURENTIN, Maria, chiave del mistero cristiano: la più vicina agli uomini perché la più vicina a Dio, Cinisello Balsamo 1996; Breve storia della Beata Vergine Immacolata di Lourdes: con lode e litanie proprie, Vercelli 1889; Storia di Nostra Signora di Lourdes, narrata ai suoi devoti, Firenze 1890; R. LAURENTIN, Lourdes.Cronaca di un mistero, Milano 1996; P. GUIDA, Caterina Laboure e le apparizioni della Vergine alla Rue du Bac: per una rilettura del messaggio della Medaglia Miracolosa, Cinisello Balsamo, 1997.

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della Madonna della Medaglia Miracolosa e della Vergine di Lourdes, spesso difficilmente distinguibili l’una dall’altra a causa delle contaminazioni reciproche, tutti riconducibili al culto dell’Immacolata.

Fu il pittore spagnolo Francisco Pacheco del Rio a codificare nel Seicento gli attributi iconografici dell’Immacolata, precedentemente rappresentata nell’atto di calpestare il serpente dell’Eden: la Vergine Immacolata è una giovinetta vestita di bianco, coperta da un manto azzurro e con la vita cinta da un cordone francescano a tre nodi, le mani sul petto o giunte in preghiera, il capo cinto da una corona di dodici stelle e sotto i piedi la falce lunare con le punte rivolte verso il basso , simbolo di castità.34 Oggigiorno si assiste ad un prevalere della versione iconografica di Lourdes, estrapolata dalle descrizione di Santa Bernadette Soubirous. Come è noto, nel 1858 (11 febbraio – 16 luglio ) la Vergine apparve ripetutamente a Bernadette in una grotta, a Lourdes, con queste sembianze: “ una veste bianca chiusa da un nastro azzurro, un velo bianco sulla testa e una rosa gialla su ogni piede…un rosario in mano”35. Viene rappresentata con le mani giunte in

34 J. HALL, Dizionario dei soggetti e dei simboli dell’arte, Longanesi, 2007 35 R. LAURENTIN, Lourdes. Cronaca, cit., p.78

preghiera, così come la vide vestita Bernadette, e la sua diffusione iconografica si accompagna a quella del culto, indubbiamente tra i più sentiti a livello popolare. Sicuramente più riconoscibile la Madonna della Medaglia Miracolosa, che stando alla leggenda il 27 novembre 1830 apparve a Santa Caterina Laboure nella Cappella di Rue du Bac, a Parigi, e le diede il compito di far coniare una medaglia che indossata avrebbe elargito al portatore grandi grazie. La medaglia presenta da un lato l’immagine della Madonna con il capo circondato da dodici stelle, le braccia aperte verso il basso e i palmi, da cui escono fasci di luce, rivolti al riguardante. Il serpente è ai piedi della Vergine mentre sul bordo della medaglia è riportata questa invocazione: ‘ O Maria concepita senza peccato, pregate per noi che ricorriamo a Voi”. Sul retro, circondato da dodici stelle, sono impresse la lettera M sormontata da una croce e due cuori, uno circondato di spine e l’altro trafitto da una spada. Come detto, spesso si assiste ad una commistione tra le tre figure, benché l’immagine più diffusa rimanga quella di Lourdes, nei casi più eclatanti raffigurata all’interno di una struttura architettonica che riprende la grotta della visione.

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MADONNA DEL BUON CONSIGLIO36

L'immagine della Madonna del Buon Consiglio rappresenta la Madonna con il Bambino alla sua sinistra che abbracciandola le cinge il collo col braccio destro; entrambi sono sovrastati da un'ampia aureola. Deriva da un affresco di autore ignoto, secondo alcuni appartenente all'arte romana del XIII secolo, secondo altri opera tardo bizantina con influssi di scuola veneta.

36 Sulla Madonna del Buon Consiglio: G..MALIZIA, Il Santuario del Buon Consiglio a Genazzano, in A. RAVAIOLI ( a cura di ) Santuari cristiani del Lazio, Roma 1991, pp 319-329; R. ARULI, Immagini devozionali a Budrio, in Le tracce del sacro, pp.88-90

La devozione per questa Vergine risale almeno al 1356 e si è sviluppata a partire dal Santuario di Genazzano a Roma, eretto su un'antica chiesa del X secolo. Nel 1630 papa Urbano VIII sostenne che l'immagine era venuta da paesi lontani e nel 1730 si precisò la provenienza da Scutari, trasportata dagli angeli con al seguito i due pellegrini Giorgi e De Sclavis. Questa leggenda è nota presso gli albanesi che invocano questa madonna col titolo di Signora d'Albania. Il culto si è particolarmente diffuso in area fiorentina, da cui si è propagato fino all'Emilia Romagna attraverso la circolazione di stampe; è piuttosto frequente sull'Appennino.

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MADONNA DEL CARMINE O DEL CARMELO

Culto legato ai Carmelitani, ordine mendicante, rappresentato dallo scapolare, dono della Vergine all'ordine stesso, in una apparizione nel 1251. Iconograficamente è rappresentata in piedi col Bambino in braccio, entrambi incoronati e con lo scapolare in mano.

MADONNA DEL ROSARIO37

Nell'iconografia originale è rappresentata seduta, sorretta da una nuvola e circondata di rose, con il Bambino in braccio alla propria sinistra e un rosario nella mano destra. Spesso è accompagnata da san Domenico e santa Caterina da Siena., una delle piu' importanti patrone dell'Ordine Domenicano, a cui il culto del rosario è intimamente legato. La caratterizzazione data dall'oggetto ( lo scapolare, il rosario) fa sì che qualsiasi effige della Madonna possa definirsi Madonna del Carmine o del Rosario . Nelle 37 Sulla Madonna del Rosario: E.MORIGI , B.VENTURI, Edicole devozionali.., cit, p. 37 e pag.47.

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targhe che si rinvengono nelle edicole è sufficiente l'aggiunta pittorica di uno di questi oggetti per suggerire la dedicazione.

BEATA VERGINE DELL’ARGININO38

Questa immagine è venerata nel Santuario dell’Arginino nei pressi di Voltana, dedicato alla Madonna della Consolazione. La Vergine è rappresentata a mezza figura; con la mano sinistra

38 Sulla Beata Vergine dell’Arginino: www.ceramichedevozionali.com a cura di MARIA CECCHETTI; ANTONIO SAVIOLI, L'immagine della Madonna dell'Arginino di Voltana, in 250° Anniversario della Chiesa dell'Arginino 1727 - 1977, n. unico; IVO TAMPIERI, Stradario forse di Lugo, Tipolitografia Cortesi di W.Berti, Lugo 2000, cit.pp.126-127

regge un libro, con l'altra sostiene il Bambino che, in piedi, si protende in un abbraccio. Il modello , in diversi tipi iconografici, ha avuto larga diffusione nel Seicento: analoga ad esempio è l'iconografia della Madonna del Rio. Le varianti sono molte e dal XVIII secolo spesso entrambe le figure sono incoronate. Per lo “slancio gotico” del Bambino, si vorrebbe vedervi una derivazione quattrocentesca39, ma non si hanno notizie sicure sul prototipo. L'iconografia ha forti analogie con una Madonna col Bambino in alabastro di Diego de Siloe, cinquecentesca, conservata al Victoria Albert Museum di Londra. L’immagine originaria del Santuario dell'Arginino è stata arricchita da due corone d’oro, donate come ex- voto dalla comunità voltanese, con possibile maggior contributo di una famiglia, per la protezione durante la seconda guerra mondiale; di tale 'promessa' alla Vergine vi è traccia in un diario dell'allora parroco Don Proni conservato nella parrocchia di Voltana. Il Santuario dell’Arginino fu costruito in sei anni su un terreno di proprietà dei conti Emaldi, col contributo del conte capitano Marco e col concorso dei fedeli, e aperta il 2 novembre 1727. Il santuario è consacrato alla Madonna della Consolazione, come attesta una tavola lignea commemorativa ancora conservatavi, e deve il suo nome al podere “Arginino” su cui sorse la chiesa, dal latino agger, argine, con evidente riferimento alle antiche bonifiche del territorio. Tutta la zona sud del territorio lughese infatti origina da 39 M. CECCHETTI, Targhe devozionali.., cit., p.60

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depositi alluvionali dei fiumi Senio e Santerno nell'antica palude selvosa, costellata da alture su cui sorsero le prime pievi, navigabile con barche a fondo piatto; le bonifiche e le deviazioni dei corsi dei fiumi (in particolare del Santerno, deviato più volte, l'ultima nel 1783) nell'arco di quattro secoli hanno dato al territorio l'assetto attuale. Il mancato sviluppo del territorio circostante fece sì che il Santuario restasse isolato nella campagna. Nel dopoguerra per iniziativa del parroco Don Pier Ugo Poggi il Santuario fu restaurato, con inaugurazione nel 1957, e fu adempiuta la 'promessa' con la collocazione delle due corone auree. La B.V. dell'Arginino viene celebrata con una festa di alcuni giorni che si conclude il 15 di agosto, giorno dell'Assunzione.

BEATA VERGINE DI SAN LUCA DI BOLOGNA40

L’immagine della Madonna di San Luca di Bologna è un dipinto in tela su legno, raffigurante una Vergine con il Bambino in braccio,

40 Sulla Beata Vergine di San Luca: M. FANTI, La madonna di san luca nella leggenda e nella tradizione bolognese, Il Carrobbio, 1977; M. CECCHETTI, Targhe devozionali…,cit.,p.219; M. BACCI, Il pennello dell’evangelista: storia delle immagini sacre attribuite a San Luca, Pisa 1998; G.L. MASETTI- ZANNINI, La Madonna di San Luca; un santuario e una comunità, in Santuari locali e religiosità popolare nelle diocesi di “Ravennatensia”, cit. pp. 205-217.

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appartenente al tipo della Odighitria (colei che indica la via), in cui la Vergine con la mano destra indica nel Bambino la via da seguire ai propri fedeli. La tipologia è detta di “San Luca” ed identificata come tale a Bologna dalla metà del XVI secolo, in quanto, secondo, una tradizione cristiana risalente al VI secolo, l’evangelista Luca, patrono dei pittori, ne realizzò di sua mano una in questa posa. Alcune radiografie hanno recentemente scoperto che l’immagine conservata nell’omonimo santuario Bolognese non è in realtà la prima, ma si sovrappone ad un modello bizantino appartenente allo stile metropolitano (fine IX-X secolo). La redazione attuale si collocherebbe invece tra XII e XIII secolo , e sembra ascrivibile a mano occidentale, forse italiana, probabilmente influenzata dalle Madonne bizantineggianti dette “Madonne dei Crociati”. Non si conosce l’anno in cui fu portata a Bologna, forse in occasione dei pellegrinaggi o delle crociate a cui certamente i bolognesi parteciparono; tuttavia quella che era solo una tradizione, l’origine orientale della Madonna, sembrerebbe ora confermata dalle scoperte scientifiche.41 Il documento più antico di cui siamo in possesso risale soltanto al 1459 ed è un codice

41 B. VENTURI, Edicole e Immagini...cit.,pp. 48-49

scritto da Graziolo Accarisi42in cui si riportano tradizioni orali sul culto, già da tempo radicato. La divina immagine, dipinta da San Luca, sarebbe stata conservata precedentemente in Santa Sofia a Costantinopoli e portava con se’ un’epigrafe che ne richiedeva la collocazione in una chiesa dedicata all’evangelista sul Monte della Guardia. Un pellegrino chiese ed ottenne permesso di prendere l’immagine e cercare il Monte; giunto a Roma incontrò il nobile bolognese Pascipovero dei Pascipoveri che lo indirizzò al Colle della Guardia nei pressi di Bologna, dove l’immagine fu accolta. Il Santuario a lei dedicato fu fondato nel XII secolo da una giovane devota di nome Angelica che si era ritirata a vita eremitica sul colle e vi aveva fatto edificare una piccola chiesa. La comunità del colle si trasformò in monastica, mentre il culto rimase limitato sino al 1433, quando , nel timore di una carestia, il giureconsulto citato Graziolo Accarisi propose al Consiglio degli Anziani di recare in processione solenne l’immagine, imitando quanto fatto dai fiorentini con una loro “Madonna di San Luca”. Il 4 luglio i confratelli di Santa Maria della Morte si 42 G. ACCARISI, Historicus contextus trium Bononiensis Civitatis gloriarum hoc est templi D.Marie Virginis de Monte divinitus constructi, Imaginis eiusdem Deiparae quam D.pinxit Lucas miraculose acquisitae, Vexillique Aureae flammae dono regio recepti, Bologna, 1665.

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recarono al santuario per portare l’effigie in città, e la successiva processione coincise con il termine delle piogge torrenziali. Da allora il culto si diffuse, rinnovato ogni anno da una sentitissima processione e da altre discese in città in caso di particolari pericoli, e suggellato dall’incoronazione del 1603 per opera dell’arcivescovo cittadino Alfonso Paleotti. L’immagine oggigiorno diffusa nelle targhe devozionali ha caratteri decisamente più occidentali rispetto all’originaria, ma l’impostazione iconografica rimane la stessa. Vista la diffusione di questo modello nel Seicento è assai probabile che l’iconografia sia stata mediata nei secoli da alcune stampe.

MADONNA PATRONA DI FUSIGNANO43

Fino al 1570 patrono di Fusignano era S.Giovanni Battista, ma dalle cronache apprendiamo che in tali anni la città di si era ingrandita e perciò fu ampliata anche la chiesa arcipretale, ampliamento che si accompagno ad un incoraggiamento verso il culto della Vergine Maria Immacolata, scevra dal peccato originale come da istruzioni del Concilio di Trento. Gli abitanti di Fusignano, attraverso il Consiglio generale cittadino, decretarono la Vergine protettrice della 43 Catalogo del Museo Civico San Rocco di Fusignano, Arti Grafiche Stibu, 2007

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città e del suo territorio al pari del Santo, e benché nella chiesa arcipretale si trovassero già altre immagini mariane dal titolo del Rosario, del Carmine , ecc, vollero una nuova immagine da venerarsi sotto il titolo dell’Immacolata Concezione. ne furono presentate diverse, e la prescelta fu una piccola tela, dipinta ad olio da un padre cappuccino, Francesco da Ferrara, predicatore che si dilettava nel dipingere Madonne che lasciava in dono alle chiese ove si recava per la sua missione, come nel caso di Fusignano (1570). L’immagine, adorata sotto il titolo della SS.Concezione di Maria, dispensando ai suoi devoti molteplici benefici e miracoli, fu incoronata di stelle. Nel 1630 la popolazione fece costruire una nuova cappella, mentre dal 1807 la tela è inserita in uno scrigno argenteo (chiamato con termine dialettale “scaranèna”) di preziosa oreficeria. La protoimmagine è stata riprodotta in materia e con tecniche diverse. Assai diffuse furono le incisioni, specialmente ad opera della calcografia Marabini di Faenza del sec. XIX. Si nota anche una buona produzione di ceramica. Mons. Savioli ha negli anni raccolto numerose immagini a documentazione del culto: tra queste particolarmente interessante una targa in terracotta policroma su ingobbio eseguita a Faenza nella seconda metà del XVII secolo contenuta in una nicchia lignea datata 1671 e

ritrovata sul mercato antiquario dopo che fu sottratta da un pilastrino del paese. L’immagine curiosamente presenta nella corona dieci stelle, anziché le dodici volute dall’iconografia dell’Immacolata di ispirazione biblica. La Madonna Patrona Fusiniani è conosciuta e venerata anche al di fuori del territorio fusignanese: è patrona della chiesa di Purocielo, nelle colline di Brisighella, ed anche nella chiesa di S.Maria degli Angeli (chiesa dell’Osservanza a Brisighella) era venerata un’immagine identica, scomparsa alcuni anni fa. Purtroppo in molti dei pilastrini catalogati le targhe originarie non sono più presenti, vittime del tempo o più facilmente del valore commerciale che le ha rese ambite prede dei ladri. Sono state il più delle volte sostituite da targhe ceramiche del tutto simili, talvolta da più povere immagini a stampa. Alcuni manufatti poi sono stati spostati, a causa di incidenti stradali o perché d’ostacolo ai mutamenti urbanistici ,e solo dalle testimonianze dei locali possiamo ricostruirne la locazione originaria. Tutto ciò concorre a rendere più difficile l’analisi iconografica delle targhe devozionali, anche perché occorre specificare che coloro i quali venerano questi oggetti talvolta sono inconsapevoli delle implicanze iconografiche

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nascoste dietro ad ogni immagine, ma spesso sono loro stessi, siano gli artigiani, i committenti, i proprietari, i devoti ecc., a decidere esplicitamente tramite un’iscrizione la sua denominazione, indipendentemente dalle caratteristiche iconografiche e talvolta in relazione non all’immagine stessa ma alla provenienza.44

Escludendo difatti i culti più diffusi, facilmente riconoscibili anche da chi non ha un’approfondita cultura storico-artistica o religiosa, per i veri fruitori delle edicole devozionali un’immagine della Madonna, qualsiasi sia il suo appellativo, è semplicemente un’immagine mariana, e poco importa che in un’altra località la stessa immagine venga venerata con un nome differente.

44 B. VENTURI, Edicole e immagini…cit., pp.34-35

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SULLE IMMAGINIDEVOZIONALI E SULLA DIFFUSIONE DELCULTO MARIANO

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SULLE IMMAGINI DEVOZIONALI E SULLA DIFFUSIONE DEL CULTO MARIANO

Come si è visto, la quasi totalità delle edicole riporta un’immagine mariana, confermando il ruolo di assoluta protagonista delle devozioni, contadine e non, che la Vergine ricopre. Il protagonismo mariano agli occhi dei contemporanei può apparire del tutto naturale, a maggior ragione alla luce del cattolicesimo italiano, prevalentemente di tipo culturale o “etnico”, derivato cioè da consolidati meccanismi di appartenenza sociale, ascritta più che scelta, ereditato alla nascita insieme alle altre forme di appartenenza identitaria1. In realtà il culto della Vergine si è affermato attraverso fasi storiche travagliate, passando per contenziosi teologici che hanno messo a repentaglio la sua legittimità e quella delle stesse cellette erte nelle campagne, prima di vederla trionfare in ambito cattolico come interlocutore prediletto della devozione popolare.

Il culto mariano ha infatti straordinaria diffusione in ambito post-tridentino, incoraggiato dall’autorità ecclesiastica cattolica, da un lato per incanalare in una direzione dottrinalmente riconosciuta le reminiscenze pagane, dall’altro in aperto contrasto con le proposte iconoclastiche della teologia riformata,

1 P. APOLITO, La religione degli italiani,Roma, 2001, p.13

aprendo così un’epoca di forti tensioni che nel nostro Paese ha visto prevalere il cattolicesimo e con esso l’immagine della Vergine.

Si può affermare che l’età della controriforma è stata una delle epoche di più aspro confitto tra la cultura delle classi dominanti e quella delle classi popolari. Da una parte riti e credenze ammessi e ortodossi, dall’altra quella variegata molteplicità di tradizioni, vive soprattutto nelle aree marginali, che Lutero e Borromeo pur in due distinte direzioni cercarono di muovere verso una controllabile uniformità2.

Sforzi i cui frutti dovevano mostrarsi solo dopo diverso tempo a giudicare dalle cronache dell’epoca, che descrivono zone extraurbane lasciate al degrado, senza un controllo del governo diocesano reale, né una netta distinzione tra sacro e profano, clero e laicato.

Attraverso le visite pastorali, una nuova figura di sacerdote incaricata della cura animarum si andò a sostituire ai curati periferici, che non avevano la preparazione per diffondere i contenuti della religione ufficiale, in una miriade di chiese canonicamente officiate e oratori privati particolari che rientravano nelle gerarchie sociali e politiche della zona. In primo

2 La religione della Controriforma e le feste del Maggio nell’appennino tosco .emiliano, in “Critica storica”, XVIII (1981), pp.202-222. A.PROSPERI, Eresie e devozioni. La religione italiana in età moderna, Vol. III, Isola di Liri, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010

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luogo questa costellazione di chiese minori venne recuperata come spazio sacro esclusivo, superando l’usanza di ospitare genti e attrezzi di lavoro e proibendone l’ingresso nelle ore notturne. Inoltre “le cerimonie sacre allargano lo spazio sacro al di fuori della chiesa, estendendo di conseguenza le regole valide all’interno di essa” 3, ed è qui che si inserisce la figura della Madonna.

Se i retaggi del paganesimo con i suoi culti agresti erano fino a quel momento più o meno tollerati dalla Chiesa ufficiale, la ventata rigorista che il Concilio di Trento porta con se’ investe le pratiche tradizionali e si esprime anche nella rigida proibizione di nuovi culti e preventivo sospetto verso ogni episodio miracoloso.

In quest’ottica una delle tradizioni più radicate che si viene a modificare è sicuramente quella del Maggio. Il mese di maggio infatti, tradizionalmente visto come periodo dell’anno dedicato ai riti dell’amore e della fecondità che sfociava per sua natura in manifestazioni di tipo carnevalesco, non poteva sottrarsi all’occhio vigile della Riforma Cattolica.

Già prima del Concilio ai riti “pagani” di fertilità si era associata la ricorrenza di San Giacomo Apostolo nel giorno del primo Maggio. Nei Fasti (1516) 4 del carmelitano Battista Spagnolo Mantovano, si ricorda

3 Ibidem, p. 8 4 Cfr B.MANTOVANO, Die Fasti des Baptista Mantuanus vn 1516 als volkskundliche Quelle, Textauswahl, Übersetzung und Kommentar von Hans Trumpy, Nieuwkoop, B. De Graaf, 1979, cit., in A. PROSPERI , La religione della Controriforma…cit.,p.18

proprio la coincidenza della festa del santo e del tradizionale corteggiamento amoroso in cui i giovani all’alba raccoglievano frasche e mazzi di fiori da portare sulla soglia delle innamorate.

Anche il nobiluomo veneziano Marcantonio Michiel in una lettera da Roma del 4 maggio 1519 riporta che “il primo giorno di maggio si andarono a vedere i favori fatti dagli innamorati alle loro innamorate, cioè le porte dorate e ornate di fronte e corone di fiori con sonetti attaccati, e davanti alle porte allori ed altri alberi piantati, con i tonchi dorati, con quaglie, pernici, pezze di damasco, di raso, di velluto attaccate ai rami, con imprese [scritte simboliche di omaggio. ndr], e altre mille fantasie”5

Non vi è stupore né condanna alcuna nelle parole di uno e dell’altro, a dimostrazione che anche gli uomini di Chiesa accettavano in questi anni un rito antico ed amabile di corteggiamento, e a sottolineare ulteriormente il netto cambiamento di fine secolo. Lo sforzo di cristianizzazione del rito da parte delle gerarchie ecclesiastiche passa attraverso l’invito a dirigere alla Vergine Maria gli omaggi e le offerte floreali che i giovani avevano sino allora lasciato sotto le finestre delle ragazze. 6

È in particolare il grande protagonista del secolo di parte cattolica, Carlo Borromeo, a scagliarsi con

5 M. SANUTO, Diarii, XXVII, Venezia 1890, col. 273, cit., in O.NICCOLI, La vita religiosa nell’Italia moderna. Secoli XV-XVIII, Roma, Carocci, 1998, p.181 6 O. NICCOLI, La vita religiosa…cit.,p. 181

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energia contro il Maggio pagano, lasciandoci pagine tra le più indicative nel suo Memoriale rivolto alla sua diocesi milanese, stravolta dalla recente pestilenza: «Mondo adultero, mondo ingrato, mondo inimico di Dio, mondo cieco et pazzo, mondo brutto, usanze di mondo pestifere, pernitiose et detestabili…Dunque siano lontani da voi quei costumi pagani, quelle ricreationi dissolute delle genti che non hanno né cognitione di Dio né speranza d’altra vita che di questa presente. SI scancellino affatto le memorie et vestigii dei pagani»7.

Per il Borromeo, come specifica il V Concilio Provinciale (1579)8, il primo Maggio non può che essere esclusivamente ricorrenza dei santi Filippo e Giacomo, e l’usanza “ut incisae arbores frondescentes per urbes, oppida, vicos et pagos, in plateis ac triviis ludibundo spectaculo erigantur” da estirpare immediatamente per salvaguardare la moralità delle sue genti. Condanna applicata a Concordia (1587), a Piacenza e Savona (1589), a Ferrara e Cremona (1599) e ancora fino al 1642, quando il vescovo di Ceneda riprovava con particolare asprezza che ai rami del maggio venissero appesi doni «per sedurre gli animi delle ragazze»9.

7 Memoriale di monsignore illustrissimo, et reurendissimo cardinale di S. Prassede, arciuescouo, al suo diletto popolo della città et diocese di Milano, in Milano, appresso Michel Tini, stampator del seminario, 1579, cit., in A.PROSPERI, La religione…,cit,p.19 8 A.PROSPERI, La religione…, cit. p. 19 9 O.NICCOLI, La vita religiosa…, cit., p. 181

Ancora il Borromeo: «Accedit praeterea tum vulgi clamor, rum bellicorum instrumentorum, vehemens strepitus… et comessationes deinde et compotationes fiunt, quibuscum ebrietates, obscene dicta, inhonestate actiones, perniciosae ad omnia opera carnis illecebrae et alia plurima mala perpetuo coniucta sunt»10.Insomma, un insieme di pratiche immorali e l’ombra della superstizione sono alla base della netta condanna del Cardinale al Maggio contadino.

Al posto degli alberi pagani, il religioso suggeriva di erigere il Santo Albero della croce: «Arborum praetera loco, excitati imitatione sancti illius Apostoli Philippi, qui pro Dei gloria cruci affixus est, sacrosanctam arborem crucis, in qua auctor humanae redemptionis pependit Christus Dominus, tanto religiosius locis conspicuis publice erigant, quanto inutilius olim profanas eas arbores frondescentes erexerint»11.

Come suggerisce Adriano Prosperi quindi «l’albero della croce è scelto…non tanto per il tenue legame che esso poteva suggerire con la figura di San Filippo, quanto perché permetteva di conservare l’immagine stessa dell’albero pur dotandola di valori simbolici radicalmente diversi». Rifarsi all’albero della croce,

10 Acta Ecclesiae Mediolanensis, a Carolo cardinali S. Praxedis archiepiscopo condita, Federici card, Borromaei archiepiscopi Mediolani iussu undique diligentius collecta, & edita, Mediolani, ex officina typographica quon. Pacifici Pontij impressoris archiepiscopalis, 1599, p. 212 cit., in A. PROSPERI, La religione…,cit.p.19 11 Ibid.

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simbolo vegetale già carico di una tradizione ricchissima12, significava «accentuare il carattere cristiano dei riti della fecondità e della fertilità che caratterizzavano tradizionalmente il periodo tra le Rogazioni e L’Ascensione».13

L’usanza contadina prevedeva ancora sin dal medioevo che una giovane donna venisse nominata Contessa di Maggio, e, adorna di rami fioriti, venisse accompagnata per la città da un corteo che chiedeva ai passanti un’offerta in denaro, ma, come scrive a metà del Seicento Antonio Masini14 nella sua Bologna Perlustrata «hora si fanno Altarini con Imagini Sacre», alle quali i fedeli venivano invitati ad offrire fiori ed elemosine.

Di fronte a questi altari si indirizzavano o facevano tappa le processioni, anch’esse regolate dalla norma tridentina, sempre in un’ottica di controllo del governo ecclesiastico sulle peculiarità locali. Si richiedevano pertanto percorsi brevi, onde evitare ogni pretesto per soste con i consueti rischi di promiscuità ed eccessi alimentari; l’iniziativa era riservata ad alcuni ordini e confraternite religiose e la sua pratica rigorosamente regolamentata dai vescovi ; nelle sue Avvertenze Borromeo intimava «proveggasi ad ogni modo che le donne vi facciano oratione separate dagli uomini, con

12 Cfr. A. S.RAPPOPORT, Medieval legends of Christ, London, Nicholson and Watson, 1934, p.210 13 A.PROSPERI, La religione…, cit, p.20 14 A. MASINI, Bologna perlustrata , I, Bologna 1666, p.299

tele o altri drappi, finché si pongano le asse», in chiese separate in due parti ben distinte.

Di rado in realtà si trovano nei testi dei prelati controriformisti alternative in grado di polarizzare i comportamenti tradizionali fino a cambiarne i significati profondi. Lo stesso invito del Borromeo sull’albero della croce appare isolato e non si è in grado di individuarne il rapporto con la contemporanea diffusione della “vera croce” o con forme di devozione popolare che mostrino l’avvenuta fusione tra i due riti : ad esempio, riporta sempre Prosperi, le processioni di S.Pellegrino in Alpe dove nel mese di maggio i fedeli asportavano fronde da una grande croce di faggio a cui attribuivano virtù protettive dei raccolti.15 Più spazio nella normativa ecclesiastica trovarono il collegamento tra i maggi e le feste pagane e la decisa ostilità contro ogni forma di teatralità popolare in occasione di feste e processioni.

Altrove, ad esempio in Francia, per impedire la raccolta di fiori durante la celebrazione del maggio si organizzarono addirittura veglie notturne16 (mobilitazioni che ebbero per altro l’effetto imprevisto di mantenere viva la memoria dell’antica festa proibita); in Italia invece non ci fu una contrapposizione così netta, piuttosto un’abile

15 A.PROSPERI, La religione…, cit. p. 21 16 R. MUNCHEMBLED, culture popolaire et culture des élites dan la France moderne (XVe-XVIIIe siècles). Essai, Paris, Flammarion, 1978, cit., in A. PROSPERI, La religione...cit.p.23

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sovrapposizione di forme cristiane alle tradizioni contadine.

Ne furono autori i gesuiti. Fu ad essi che si dovette l’idea di sostituire sistematicamente la Madonna alle figure femminili destinatarie dei riti di fertilità, e fu sempre ai gesuiti che si dovette, tra la fine del Seicento e la metà del secolo XVIII, la devozione del mese “mariano”. Anche l’antica teatralità delle cerimonie agresti trovò un punto di raccordo, pur sempre regolamentato, nel teatro, tanto importante nei collegi e nell’opera missionaria gesuita.

Altrettanto importante per la diffusione del culto mariano e nello specifico della Madonna del Rosario, fu un evento contingente come la grande battaglia di Lepanto. Il culto della Madonna del Rosario era in realtà largamente praticato nel tardo medioevo, ma conosce una rinnovata fortuna a seguito della vittoria, avvenuta proprio il giorno della festa della Madonna del Rosario, e quindi attribuita alla sua intercessione. Quella del rosario è una devozione alla portata dei semplici: la recita collettiva dei cori non richiede uno sforzo individuale e risulta a carattere fortemente sociale, divenendo il primo collante del culto mariano.

Ad essa si associano altre devozioni che contribuiscono a costruire una religiosità spiccatamente femminile: alla venerazione del cuore di Gesù si affianca quella del cuore di Maria; al culto del Buon Pastore, quello della Divina Pastora; la devozione dell’Immacolata dilaga con la sua

iconografia dai capelli sciolti e capo coronato di stelle; e come detto si ha il mese del maggio17.

Il culto del rosario ci porta direttamente all’altro aspetto fondamentale nel trionfo della devozione mariana, ovvero la frattura religiosa tra cattolici e protestanti. Penetrata alla fine del Quattrocento negli ambienti che già sentono la necessità di una religiosità interiore, proprio grazie al suo poggiare su un senso nuovo, patetico ed intimo del dramma della Passione e della Redenzione, La Madonna del Rosario sarà fulcro dello scontro tra cattolicesimo e protestantesimo in tema di rappresentazione dell’immagine sacra e legittimità di un culto alternativo a quello del Cristo18.

Come si è detto infatti i cori del rosario venivano prevalentemente recitati ad alta voce e in comunione sociale o almeno familiare. Tale pratica aveva però svuotato, specialmente tra le classi meno colte, il significato profondo della meditazione sui misteri della vita di Cristo e della Vergine, «che costituiva il cuore della pietà confraternale del rosario…e si era andata esaurendo, sostituita dalla semplice enunciazione e dalla ripetizione meccanica delle preghiere a cui si aggiungeva, alla fine, la recitazione o il canto delle litanie lauretane»19. Era divenuta così, quella del rosario, il simbolo per eccellenza di una preghiera meccanica, ripetitiva, non compresa, a cui si affidava

17 O.NICCOLI, La vita religiosa…, cit., p. 180 18 Cfr. NICCOLI, La vita religiosa…cap.5 e in particolare p.179 19 Ibidem, p. 179

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un valore e da cui si attendeva un risultato sicuro in ragione dell’esatto adempimento di certe regole. Era la preghiera patrocinata dalla confraternita dell’ordine inquisitoriale ed arroccata attorno al Papa, i domenicani; era la preghiera che si rivolgeva alla Madonna come mediatrice, quando per Lutero e Calvino solo Cristo poteva svolgere questa funzione; per giunta era una preghiera la cui mediazione poteva liberare le anime del Purgatorio.20

Al rosario e alla Madonna la fazione protestante opponeva l’universalmente riconosciuta preghiera del Pater Noster, intesa come discorso individuale, interiore e ragionato.

Era una tematica particolarmente sentita; i verbali dell’inquisizione ci raccontano di discussioni violentissime per le strade in presenza di immagini votive alla Madonna e di conseguenti processi.

Fu Erasmo da Rotterdam il più feroce accusatore del rosario, delle reliquie, del culto di madonne e santi, delineati dall’ironia pungente del grande pensatore come una semplice deformazione delle pratiche legittime del buon cristiano, un tradimento al fondamento del cristianesimo stesso, ovvero la salvezza che si doveva all’unica mediazione del Cristo.

20 A.PROSPERI, La preghiera nelle polemiche religiose del Cinquecento italiano, in Eresie e devozioni…pp.165-184

Di pari passo cresceva la polemica sull’uso delle immagini, che poneva in questione l’idea stessa di religione, la possibilità di rappresentazione delle divinità, le modalità di relazione tra uomo e Dio.

La dottrina ufficiale più o meno diffusamente accolta era quella di san Gregorio Magno che giustificava le immagini come idiotarum libri, livello di scrittura inferiore che necessitava comunque per essere intesa dell’aiuto e dell’interpretazione di chi sapeva leggere e scrivere. Ma alle immagini, accusate di essere pagane o superstiziose, la cultura umanista protestante oppose il culto della parola21. Uno scritto del 1522 di Carlostadio invita apertamente all’iconoclastia22, in quanto le immagini erano strumento del clero per mantenere il popolo nell’ignoranza. Zwingli inveiva contro le immagini, che portavano l’uomo a volgersi dal mondo interiore a quello esteriore; nel cuore dell’Europa protestante le chiese venivano spogliate delle tavole fino a quel tempo venerate e persino Dűrer, le cui opere vennero salvate dall’intervento di Lutero, era tormentato dai dubbi sul ruolo del pittore.

Per contro la XXV sessione (1563) del concilio di Trento ribadì la legittimità del culto delle immagini

21 A. PROSPERI, La questione della preghiera nelle polemiche religiose del ‘500 italiano, in Eresie e devozioni., cit., p. 167 22 A.BODENSTEIN VON KARLSTADT, Von Abtuhung der Bylder und das keyn Bedtler unter den Christen seyn soll, Wittenberg, Nickell Schyrlentz, 1522, cit. In A. PROSPERI, La questione della preghiera…cit.p.168

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conformemente al secondo concilio di Nicea (783)23. Al clero cattolico faceva obbligo istruire i fedeli sul significato da attribuire alle immagini e al ruolo stesso degli intercessori presso Dio, combattendo al tempo stesso abusi e superstizioni, immagini dottrinalmente scorrette, indecenti o passibili di interpretazioni erronee. Nuovi miracoli o nuove reliquie venivano ammessi solo previo attento esame delle autorità religiose, e si moltiplicarono gli interventi teorici e pratici circa l’arte sacra nonché gli interventi diretti sul patrimonio artistico e il decoro degli edifici locali.

La funzione delle immagini consisteva nell’istruire, ma anche nel suscitare e nutrire la devozione. Il controllo sulle immagini giovava dunque ad incanalare le forme della devozione popolare: di conseguenza il discorso iconografico acquisiva particolare rilevanza. La Chiesa provvedeva a proporre temi, idee e sentimenti, da assecondare in forma pubblica o privata.

«La presenza dell’immagine è quella di un’interlocutrice silenziosa alla quale ci si può rivolgere in ogni momento…con lei si sviluppa un dialogo che può essere collettivo e corale o individuale e segreto. Sono forme antiche di dialogo, compresenti ma non ugualmente apprezzate e incoraggiate: fu proprio nel corso del XVI secolo che il dialogo silenzioso, tutto mentale, ottenne un riconoscimento e un incoraggiamento dai settori più sensibili e dinamici del mondo ecclesiastico, per

23 G.FILORAMO, D.MENOZZI (a cura di), Storia del Cristianesimo. L’età moderna, Bari, Laterza, 1997

esempio dai Gesuiti. Così, mentre la diffusione del libro a stampa si associava allo sviluppo della lettura come fatto individuale e silenzioso, si aveva un parallelo sviluppo della costruzione mentale di immagini, libera o guidata lungo i solchi di istruzioni apposite»24.

Solo con la normativa tridentina si impose una distinzione tra ciò che poteva essere conservato privatamente e quel che invece era esposto: distinzione necessaria per il diffondersi del collezionismo, per il conflitto tra culto della bellezza e severa moralità controriformista, per la necessità di risponde alle accuse protestanti contro l’immoralità cattolica, per l’esigenza pedagogica di indirizzare le immagini pubbliche all’educazione del popolo, in una proliferazione, controllata, di segni di devozione.

Ovviamente il confine tra diffusione e controllo è labile, e una cosa erano le caute distinzioni dei teologia, un’altra l’indirizzo che i conflitti religiosi assumevano nella via sociale, affidati alla mediazione di predicatori dai toni accesi e dalla vasta popolarità. Nella seconda metà del Cinquecento, nelle zone maggiormente toccate dai contrasti sul valore delle immagini, si assistete ad un proliferare di santuari e immagini miracolose, le cui origini si legarono agli anni della contestazione aperta da parte della minoranza riformista, come nel caso del culto della Madonna del Fuoco di Faenza.

24 A.PROSPERI, La questione…, cit., p. 310

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La volontà di contrastare le idee protestanti, e di ristabilire una tradizione di funzione protettiva di intercessione della Madonna, incentivò la produzione di immagini sacre, in un sistema in cui il miracoloso non scomparve, al contrario conobbe una diffusione capillare, semplicemente divenendo prerogativa del mondo ecclesiastico, che ne rivendicava l’esclusivo controllo. Un sistema di cui la Madonna, proprio perché Madre e capace di anteporsi all’ira divina, rappresentava la più efficace delle rappresentazioni.

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EDICOLE VOTIVE, ARTE E

RELIGIOSITA’POPOLARE

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EDICOLE VOTIVE, ARTE E RELIGIOSITA’ POPOLARE

Il rapporto tra arte religiosa popolare e arte religiosa colta è un aspetto non marginale del più generale rapporto tra cultura popolare “subalterna”, e cultura dotta, “egemonica".

Madonne e santi dei nostri tabernacoli esprimono l’aspetto religioso di quella cultura popolare che viene generalmente presentata, sulla linea dell’

interpretazione gramsciana1,come espressione delle

1

Nella concezione gramsciana, il 'folklore' può esser considerato come la “concezione del mondo e della vita”, in grande misura implicita , di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo “ufficiali”…che si sono succedute nello sviluppo storico” (A. GRAMSCI ,Quaderno 27, 1975, vol. III, p. 2311). Il popolo non può avere concezioni del mondo elaborate, sistematiche e organizzate, in quanto le risorse per produrre questa elaborazione sono nelle mani dei ceti dominanti. Per questo il folklore si configura come “agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia, della maggior parte delle quali, anzi, solo nel folclore si trovano i superstiti documenti mutili e contaminati” (Q27, ibid, p. 2312).In altre parole, il folklore si costituisce per “caduta” di elementi residuali e talvolta fossilizzati della cultura alta. Tuttavia il folklore non è soltanto un deposito inerte di disorganiche sopravvivenze , ma è in grado di esprimere “una serie di innovazioni, spesso creative

classi subalterne, in posizione dialettica con quelle egemoniche. Classe subalterna che in questo caso coinciderebbe con quella contadina.

L'osservazione di queste forme di arte minore rivendica un inserimento a pieno diritto nel concetto di cultura di ogni attività dell'uomo, a cominciare dalle sue attività materiali , dal lavoro manuale delle arti e dei mestieri fino allo stesso paesaggio come sintesi culturale della vita dell'uomo; e comporta una ricerca delle influenze reciproche fra cultura popolare, e cultura “alta”.

Ricerca di estrema difficoltà perché , come affermava

Ginzburg2, “cultura dominante e cultura popolare

giocano una partita ineguale, i cui dadi sono truccati” , essendo la storia dei poveri ben raramente scritta, e incertamente tramandata.

e progressiste, determinate spontaneamente da forme e condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in contraddizione, o semplicemente diverse, dalla morale degli strati dirigenti” (ibid., p. 2313). In quanto “riflesso delle condizioni di vita culturale del popolo”, il folklore manifesta dunque una differenza irriducibile rispetto al progetto culturale egemonico: ne rappresenta il limite, il segnale che esso non riesce mai completamente ad esaurire la pensabilità della vita.

2

C. GINZBURG, Introduzione, in P. BURKE, Cultura popolare nell'Europa moderna', Oscar studio Mondadori, 1980.

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Le più importanti riflessioni storiografiche sul rapporto tra cultura popolare (anche nella sua accezione più riduttiva di cultura materiale) e cultura “alta” sono sorte nel ventennio ’60-’80. Pur essendo tutt’ora punti di riferimento fondamentali che hanno avuto il merito di riscoprire il punto di vista delle classi subalterne, i lavori di quegli anni possono risentire, agli occhi dei contemporanei, della forte caratterizzazione “di classe” figlia delle tensioni sociali del periodo. Non è compito di questa ricerca occuparsi di questo dibattito, di natura più prettamente antropologica, ci limitiamo a citare i capisaldi di una storiografia che ha visto grande partecipazione nel nostro Paese. Le note dal carcere di Antonio Gramsci, le ricerche di Ernesto de

Martino sulla religiosità e la magia nel Sud,3 ma anche

un romanzo come “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi , hanno insegnato a guardare con ottica antropologica le realtà italiane specialmente nel Meridione, superando gli steccati di una disciplina prevalentemente filologica e classificatoria che era

3

De Martino vede nel folklore sia un riflesso e un supporto ideologico dell’oppressione delle classi subalterne, sia, al tempo stesso, un potenziale veicolo di emancipazione , individuando forme di “folklore progressivo”, in cui i codici espressivi tradizionali venivano creativamente piegati ad esprimere contenuti di contestazione sociale, manifestando esplicitamente la volontà delle plebi rustiche del Mezzogiorno di “irrompere nella storia” (E. DE MARTINO E, Il calendario del Popolo, n.7, 1951-1952).

andata costituendosi sugli studi della tradizione popolare, che lo stesso Gramsci aveva definito come una pratica erudita di raccolta del pittoresco, priva di rapporti con i problemi della comprensione storica. Nel dopoguerra, altri si lanciavano in quella che Alberto M. Cirese ha definito “la nuova tematica socio-culturale”: vale a dire il tentativo di collegare lo studio della cultura popolare a una più vasta comprensione storica e socio-politica delle condizioni di vita dei ceti subalterni.

Nella demarcazione tra autentiche elaborazioni delle classi subalterne e prodotti fittiziamente “popolari” sta il nuovo, grande interesse per il folklore di questa storiografia: mentre la “cultura di massa” è artificiosa e ha effetti alienanti e di ottundimento ,al contrario, il folklore è vero, genuino e in un certo senso “naturale”. L’interesse per la categoria di “popolare” si estende oltre l’ambito prettamente storico, basti pensare alle ricerche di Dario Fo sull’autonomia della cultura

“bassa”4 o l’opera di un’intellettuale come Pier Paolo

Pasolini, la cui poetica è interamente incentrata sulla

4

Ricerche sfociate nella sua produzione teatrale e in particolare nel Mistero Buffo: una cultura che nasce dal basso e si alimenta dei ritmi del lavoro e della vita reale, e su cui la cultura dominante interviene con intenti di controllo , ovvero alimentandosene ma sempre modificando e rendendo irriconoscibile la più stretta origine popolare

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critica della modernizzazione di massa e dell’industria culturale, alla quale sono contrapposte l’autenticità e l’innocenza (peraltro irrimediabilmente perdute) di un mondo rurale non ancora toccato dal “progresso”.

Eppure, ciò che viene meno nel ventennio 1950-70 sono proprio quelle condizioni che, nella prospettiva di

Cirese5, garantivano l’autonomia della cultura

contadina in quanto cultura subalterna: l’isolamento, la perifericità, l’impossibilità di accesso all’istruzione e ai mezzi di comunicazione, in altre parole, le condizioni che rendevano possibile la corrispondenza fra la condizione sociale di subalternità e l’esistenza di una “cultura subalterna” distintiva e peculiare, “isolabile” e analizzabile nei termini di una cultura in senso antropologico. Quando il riferimento non è più un

5

Cirese riformula i principi gramsciani nella teoria dei dislivelli interni di cultura: riferendoci “ai comportamenti e alle concezioni degli strati subalterni e periferici della nostra stessa società” ci troviamo di fronte a dislivelli culturali interni, mentre con dislivelli esterni intendiamo il rapporto con le “società etnologiche o “primitive””. La cultura popolare è riconoscibile come tale in riferimento alle condizioni sociali di egemonia e subalternità, come si configurano all'interno di concreti contesti storici.. La diversità culturale si accompagna alla diversità della condizione sociale: diversità nella quale “si manifesta la disuguale partecipazione dei diversi strati sociali alla produzione ed alla fruizione dei beni culturali” (cfr. A.M. CIRESE, Cultura egemonica e culture subalterne,cit.p.12, 1971)

mondo contadino periferico e isolato (irrimediabilmente svanito a causa dei cambiamenti

della modernità), l’assunto non funziona più”.6

UN APPARATO MITICO

Una chiave esplicativa centrale della religiosità popolare è infatti l'immobilismo della società che la esprime, di tipo economico e politico, ma anche geografico.

Il tempo del contadino è scandito da nascite e morti, semine e raccolti, speranze, delusioni, paure, successi, sopravvivenze. Il rapporto decisivo fra religiosità e cicli naturali si esprime in un apparato mitico in cui l'esperienza stagionale del lavoro e dell'attesa dei risultati è narrata come un alternarsi della morte e della vita, mai interamente prevalenti né reciprocamente autonomi. I vivi non smettono di riferirsi ai morti, cui non li legano solo affetti e memorie, ma anche uno scambio simbolico di preghiere da un lato e protezione e garanzie dall'altro. La potenza solutrice dei santi taumaturghi , la cui efficacia è per il fedele certa, qualora ci si rivolga a loro con la devozione e l'insistenza necessaria , è in qualche modo una modalità cristianizzata della forza

6

Cfr. F. DEI, in www.fareantropologia.it consultato il 20/9/2011

51

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di protezione sacrale dei morti.7 L'alternanza vita-

morte si esprime in un ciclo dell'anno diviso in due parti, l'una primaverile-estiva, l'altra autunnale-invernale; la prima rappresentata da feste diurne, solari, che spesso celebrano santi adulti o una Madonna con bambino, figure vitali e feconde; la seconda da feste notturne, con santi bambini o vecchi, o una Madonna senza bambino, figure lontane dalla dimensione fecondante. Ma questa dualità non è mai rigida, ogni elemento rivela sempre ambiguamente l'altro, le figure che rappresentano una mediazione fra opposti diventano centrali.

Il ciclo di vita individuale è suddiviso anch'esso in fasi, il passaggio fra le quali è rappresentato con precise e dense scansioni rituali e sacramentali. Comportamenti magico-religiosi si addensano attorno ad ogni passaggio, accompagnando i sacramenti cattolici con funzione di garanzia magico-simbolica.

Se i cicli rituali dell'anno e della vita proteggono il tempo della vita sociale e individuale, lo spazio, come ambiente della produzione e riproduzione del lavoro, della famiglia , della comunità, è protetto da simboli potenti e comportamenti rituali adeguati: processioni nei paesi in onore di santi patroni, sotto il cui manto tutta la comunità pone se stessa e lo spazio abitato, delimitato da percorsi processionali circolari, che separano l'abitato dall'esterno, o tangenziali, che

7

P. APOLITO, La religione degli italiani…cit.pp.19-20

tagliano assi di preminenza sociale e sacrale; poi pellegrinaggi fuori dall'abitato, verso montagne o valli, un altrove che delimita o esorbita da confini , un'infrazione controllata; o processioni '”avviluppanti”, rappresentanti la volontà di proteggere mediante un rito adeguato un'intera zona abitata, rafforzando le cinte murarie con un altro muro fatto di preghiere e con una fortificazione invisibile , effettuate in tempo di pestilenza ma riallacciantesi ad antichissimi riti di circumambulazione intesi a proteggere la collettività

da ogni tipo di aggressione. 8

LA POPOLARITA’ DELLE TARGHE DEVOZIONALI

Come può quindi essere interpretata l'immagine devozionale , in particolare nella sua collocazione in tabernacoli esterni , in luoghi di passaggio? Possiamo darne una convincente interpretazione in assenza, come spesso accade, di notizie storiche affidabili e dettagliate sull'epoca e la ragione della loro edificazione? E possiamo dare analogo valore a pilastrini edificati in pieno Settecento, ovvero nell'Ottocento unitario, o nel dopoguerra ?

Sulla scorta della non ampia massa di studi disponibili, proviamo quindi a tratteggiare una

8

J. DELUMEAU, La processione come rito protettore , in Rassicurare e proteggere, ed. Rizzoli, 1992, p.146

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possibile linea d’identità squisitamente popolare di questa produzione architettonica e artistica minore, sia nel suo rapporto con l'arte colta, sia nella sua dialettica con la religiosità ufficiale, sia in rapporto alla società contadina di cui era espressione, in particolare nella realtà emiliano-romagnola.

L’immagine religiosa, specialmente se collocata lungo percorsi di vita quotidiana o in luoghi di quotidiana fatica, non può essere analizzata solo come manufatto artistico, secondo stereotipi più o meno conformi a modelli colti. Occorre analizzare queste testimonianze della religiosità e della ritualità in riferimento ai fruitori , e come stimoli offerti al senso religioso soggettivo del passante. Tenendo conto di questo aspetto la targa devozionale non può essere vista solo come simbolo di una cultura o di una sottocultura, ma anche della personale pietà dei

devoti.9

L'aggettivo “devozionale” dato alla targa ha come detto un preciso fondamento critico, tributario degli

indirizzi di Alberto Vecchi10

: allude a quell'aspetto della religiosità che pur avendo sede pubblica e pur

9

A. ARDIGÒ, Oggetti devozionali, simboli culturali e soggettività, in Ceramiche devozionali dell’Emilia Romagna. Religione arte e classi subalterne, Atesa Editrice, 1977, pp.11-12

10

A. VECCHI, Il culto delle immagini…cit., pp. 39-43.

essendo in rapporto dialettico con i modi della liturgia ufficiale, è attuazione specifica della pietà privata.

La collocazione delle targhe nei tabernacoli e la sua distribuzione nel paesaggio architettonico e naturale costituisce una vera e propria “segnaletica religiosa”, che interessa primariamente luoghi che sono propri di una concezione topologica dello spazio: l'immagine sacra ha un valore di presidio, date le implicazioni conflittuali che comportano sul piano simbolico passaggi fra aree topologicamente diverse.

Sull'origine dei tabernacoli dalla tradizione pagana si è già detto nel capitolo introduttivo; ancora più immediatamente si ravvisa l'origine dei tabernacoli arborei nell'albero sacro dell’idolatria antica, riconsacrato alla nuova realtà spirituale prima con la croce e poi le immagini sacre: l'albero (che si rapporta con gli inferi tramite le radici, e col cielo tramite le fronde) conserva un’eccezionale polivalenza di significati evocatori (immagine del cosmo, simbolo della vita, della fecondità, ricettacolo delle anime degli

antenati.)11

.

Gli elementi di continuità tra gli antichi culti e credenze non poi così lontane nel tempo, specialmente nelle aree marginali, trovano la loro ragione più profonda nel bisogno di soccorso di fronte al mistero della solitudine, della notte e del domani; per questo la

11

Cfr. M. ELIADE, Trattato di storia delle religioni, Einaudi, 1954.

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strada, il trivio e la porta di casa, simboli e realtà di luoghi di passaggio, sono posti sotto la protezione della divinità.

Questa sacralizzazione dei luoghi e questa architettura minore sorge quasi sempre per volontà di singoli . Il tabernacolo , e l'universo che porta con se’ , è espressione di un mondo rurale (contadino, artigianale, pastorale) che si presenta in una estrema semplicità di mezzi, di espressione e di elaborazione, in aderenza a sentimenti elementari di ordine biologici, magico-religiosi. Espressioni immediate della fiducia nelle virtù terapeutiche e consolatrici di alcuni santi, una fiducia nelle “cose prodigiose”, una religiosità intesa come speranza di salvezza gratuita, di interventi improvvisi di salvezza o preservazione dal male e dalla morte.

Individuandone l'edificazione per iniziativa privata, o per ex-voto di singole persone, o per volontà testamentarie (legati pii), o per devozione di un singolo ad un santo omonimo, o più raramente per iniziativa di un 'vicinato', si può quindi identificare nella storia dei tabernacoli 'una memoria collettiva di

esclusi' 12

che non veniva presa in considerazione dalla cultura ufficiale, né laica, né religiosa, quest'ultima in particolare, per la sua struttura

12

P. GUIDOTTI, Ceramiche devozionali nell’area emiliano-romagnola, Galeati, 1976, p.25

gerarchica, sempre diffidente per ogni iniziativa autonoma da parte dei fedeli.

A questo proposito, è importante rilevare, suggeriva Guidotti nel 1976, “la nessuna o scarsissima rilevanza che i tabernacoli hanno nella letteratura ecclesiastica specialmente, almeno fino al Novecento, è molto significativa per la tesi sulla popolarità ex lege di

queste espressioni devozionali”.13

In effetti, l'interesse ecclesiastico per i tabernacoli è ristretto all'età della Controriforma, e fu promossa in primo luogo da preoccupazioni sull'ortodossia, dovendosi vigilare sul rapporto dei fedeli con il soprannaturale, per evitare il proliferare di superstizioni, e per controllare le immagini perché “ogni lascivia doveva essere evitata” (questo portò fra l'altro alla scomparsa delle immagini della Madonna che allatta, largamente diffuse nei secoli precedenti ).

Come meglio illustrato nel capitolo sul culto mariano, il decreto tridentino, con l'intento pedagogico di usare le immagini come libro per chi non sapeva leggere, portò allo sviluppo di una pittura di pietà e legittimò i restauri di opere precedenti, e d'altra parte, per contrastare le idee iconoclaste dei riformatori protestanti, incoraggiò

13

Ibidem. A proposito di questa “nessuna rilevanza” cita lo Hierolexicon sive sacrum dictionarium di DOMENICO MACRI del 1712; il Lessico Ecclesiastico illustrato ,opera redatta da Professori, Doctori e Sacerdoti del 1900, il Rituale Romano

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lo sviluppo del culto delle immagini. Adriano Prosperi cita come esemplare il caso di Faenza, dove ad un'esecuzione degli eretici seguì l'organizzazione del culto dell'immagine della 'Madonna del Fuoco' scampata ad un incendio (le immagini della vera fede

non bruciano)14

.

Gli studi di Maria Cecchetti15

individuano i caratteri di popolarità delle immagini sacre, nella particolare forma ceramica che è la targa devozionale emiliano romagnola, in una serie di elementi, fra cui la committenza. La committenza infatti solo raramente è espressa dai ceti aristocratici o benestanti (come nei casi di targhe faentine includenti stemmi nobiliari o di compagnie religiose), i quali in genere non si rivolgono all'officina ceramica perché preferiscono la dimensione colta dell'incisione a stampa. Le committenze ecclesiastiche hanno carattere privato (come sarebbe confermato dalla frequenza di iscrizione dedicatorie che recano il nome di un sacerdote) e “si adeguano ai modi della religiosità popolare ripetendone le scelte iconografiche e collocative”. La committenza viene quindi individuata

14

A. PROSPERI. Il concilio di Trento: una introduzione storica, Piccola Biblioteca Einaudi, 2001.

15

M. CECCHETTI , Targhe devozionali…cfr. cap.1

nei piccoli artigiani od operai; nella campagna tale condizione può essere raggiunta dai contadini, soprattutto coloni a mezzadria in pianura , e piccoli proprietari in collina; non certo dai braccianti . I mezzi economici per progettare e commissionare un'edicola potevano essere in possesso di quello strato di ceto medio che in città come in campagna si collocava tra i nobili proprietari terrieri e i contadini veri e propri

dall'altra: mercanti, bottegai, artigiani, impiegati .16

La distribuzione di committenze relativamente eterogenea avrebbe comportato una partecipazione al mercato da parte di fabbriche diverse per gradi di formazione culturale, e con prodotti a costi e qualità proporzionali. La targa piana dipinta, per lo più rivestita del costoso smalto di maiolica, opera eseguita in unicum da un pittore esperto nella realizzazione di figura e caratterizzata da dediche personali, è oggetto eseguito su singola commissione e nella nostra regione è comune solo all'area faentina dove le officine dispongono della relativa specializzazione. Per la maggior parte dei casi , invece, la targa è un oggetto con modesti costi di produzione. Infatti la targa modellata da stampo, quasi sempre ricoperta del più economico ingobbio, viene prodotta serialmente e decorata dal pittore di vasellame senza altra partecipazione di esperti; del

16

L. PEDRAZZI, Ceramiche devozionali ,sistema di comunicazioni, sistema sociale, In Religione, arte e classi subalterne. Ceramiche devozionali in Emilia Romagna, ATESA editrice

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vasellame domestico condivide il mercato , nelle piazze di paese e nelle feste dei santuari, a volte con l'autorizzazione della Chiesa ma senza dubbio fuori dei suoi interessi economici. “L'omogeneità che, sul piano estetico, mostra la più popolare targa plasticata da stampo può essere vista proprio come l'espressione di una identità socio-culturale fra

committente, esecutore e fruitore”17

.

Così, sempre la Cecchetti individua un altro carattere di “popolarità” nell’esposizione pubblica della targa, una iconostasi che , pur sorgendo da iniziativa privata, “comporta il consenso corale, se non la collaborazione, del popolo” e “produce di per sé manifestazioni rituali non solenni, che però segnano in modo tangibile il fluire attorno della vita quotidiana, richiamando la partecipazione della collettività”; “l'insediamento architettonico avviene con il contributo delle esperienze artigianali più prossime, della famiglia, del borgo, del quartiere; cosicché la tipologia delle collocazioni porta, nelle forme architettoniche e plastiche, nella poetica epigrafica, i segni di una

cultura omogenea”.18

Altro fondamentale carattere di 'popolarità' è la riproducibilità, che ancora la Cecchetti analizza

17

M. CECCHETTI, targhe devozionali…cit.p.43

18

Ivi, p.39

attraverso la storia della targa e della sua “fortuna”, di cui diamo di seguito una sintesi.

Fin dall'inizio i ceramisti non intesero coniare prodotti d'arte. Le immagini riprodotte nelle targhe molto raramente sono originali; la prassi corrente del ceramista era quella di ricopiare sul vasellame scene e figure tratte da incisioni a stampa. Le scelte della committenza d'altra parte prediligevano in modo ripetitivo immagini delle devozioni locali e tendevano a mantenere vivi alcuni archetipi iconografici; il metodo per calco risultava quindi un procedimento tecnico perfettamente adeguato ad un principio formale che garantisce validità e riconoscibilità dei segni.

La ricerca delle origini delle targhe ceramiche parte dal disco maiolicato con il monogramma di Cristo conservato al Museo di Cluny, che porta la data 1475; come i catini ceramici di molta architettura medievale era inserito su una superficie muraria, ma diversamente da questi era collocato più in basso, in modo da essere ben visibile. Nel Quattrocento e poi nel Cinquecento fiorisce in Italia la produzione robbiana, che però conserva i caratteri di cultura 'alta' ed esclude la ripetitività; il contributo robbiano stentò a penetrare in Emilia Romagna e dove lo fece non trovò imitazione nelle fabbriche locali. Le targhe emiliano-romagnole erano piuttosto influenzate da scultori peregrinanti fra Romagna e Toscana, portatori di una cultura “barbara” in loro ancora permanente, che trovarono sicuro approdo nelle botteghe ceramiche. In

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un'anonima scuola del tardo Quattrocento si trova un corpus di plastiche maiolicate con tutti i caratteri che la Cecchetti ascrive al genere-targa: “iconografie popolari, accettazione del principio di ripetitività, comunicazione per simboli terragni ed elementari, espressione che scaturisce dal “fare” naturalisticamente atteggiato”. Sono Deposizioni, Natività e Madonne plasticate a tuttotondo e ad altorilievo, con incorniciature ceramiche che fanno tutt'uno con l'immagine, con policromia in arancio, blu, bruno, giallo e verde. I primi esempi di ceramica ottenuta da stampo che si conoscano sono la cosiddetta “Madonna Guidi” e la Madonna del Museo Boymans di Rotterdam, il cui prototipo plastico è attribuito a Michele da Firenze, artista “nomade” fra Toscana e Romagna.

La produzione quattrocentesca, detta “fiammingheggiante” non sembra avere grande continuità nel Cinquecento, durante il quale però ci fu il passaggio di numerosi archetipi alle botteghe artigiane dell'Emilia Romagna da parte di maestri della scultura rinascimentale, toscani e lombardi. Le Madonne prodotte in questo periodo, pur prodotte in serie, hanno un grado di raffinatezza che le identifica come “misurate” sulle possibilità economiche della media borghesia urbana (policromia naturalistica, motivi architettonici con disegno monumentale e classico, superfici spesso dorate).

Per l'iconografia, eccezionalmente importanti sono figure di Madonna col Bambino risultate da un modello

attribuito attribuito allo scultore fiorentino Benedetto da Maiano, in tre fondamentali tipi iconografici , (il marmo originale di uno dei quali è un bassorilievo stiacciato ora alla Gallery of Art of new York ) : fondamentale per la varietà di materiali in cui è stato tradotto, per l'ampiezza dell' area geografica della sua diffusione e per la continuità nel tempo della sua trasmissione.

Ma c'è anche un caso, sia pure eccezionale , in cui una targa può avere trasmesso un'idea compositiva d un'opera di scultura “alta”. L'immagine è caratterizzata dal gesto della Madonna che abbraccia il Bambino con il braccio destro, col bimbo in piedi sulla sinistra che si protende verso di lei con uno slancio “gotico”, mentre la madre con l'altra mano in basso regge un libro; il volto della Madonna è di tre quarti, il manto è ampio e leggero e si appunta sul petto. L'immagine, che ha molte repliche ancora collocate in zona bolognese, è ripresa con sorprendente analogia in un rilevo in alabastro , conservato al Victoria and Albert Museum of London, dello scultore spagnolo Diego de Siloe, che ebbe un soggiorno italiano.

Nel Cinquecento poi vi fu anche una produzione di targhe “istoriate” in genere riproducenti stampe di Raimondi, Mantegna, Dűrer ma con caratteri di raffinatezza e originalità.

Fu nel Seicento che la targa assunse il carattere di un prodotto dalle più' modeste pretese artigianali, allargandosi la richiesta del mercato e avendosi una più vasta diffusione anche in tabernacoli rurali.

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La popolarizzazione della targa appare come una netta innovazione, e per lo più simultanea in tutto il territorio regionale. Le cause non sono tecniche (non vi erano state innovazioni particolari ), ma sono legate alla politica che la Chiesa aveva intrapreso dopo il Concilio di Trento sule immagini di devozione, e probabilmente alle grandi epidemie di peste che sconvolsero l' Europa e portarono a un impennarsi delle pratiche devozionali.

E dal Seicento si nota maggiore circolarità fra “alto” e “basso”, con presenza di nuove immagini e stratificazione di simbolizzazioni con precisi intenti teologici insieme a concettualizzazioni elementari e pragmatiche. Le incisioni a stampa del tempo individuano uno schema iconologico, e va ricordato che la stampa su carta richiedeva un imprimatur ecclesiastico; mentre sulla targa ceramica tale controllo era di fatto impossibile. Lo scultore quindi riproduceva una tantum l'immagine della stampa, spesso con semplificazioni compositive o esaltando particolari, secondo una selezione che ha significazioni del tutto popolari; poi interveniva il pittore-decoratore, con frequenti trasgressioni alla simbologia policroma dell'iconografia ufficiale, poiché lavorava in totale autonomia. Le nuove immagini nacquero dove vi erano fabbriche e furono inizialmente la Madonna del Duomo di Carpi, La B.V. di San Luca di Bologna, la B.V. Della Ghiara di Reggio Emilia e la B.V. Delle Grazie di Faenza ; comparvero, ma più rari, alcuni Santi.

Le varie fabbriche emiliano-romagnole producevano ceramiche plasticate serialmente da stampo, con rivestimento ad ingobbio e disegno graffito sotto vetrina; esclusivamente faentine erano le targhe rivestite in maiolica e dipinte in unicum su fondo bianco. Nel gruppo delle ceramiche plasticate ad ingobbio graffito, in base all'iconografia fa gruppo a sé Imola.

Dal Seicento anche la fabbrica faentina sembra adeguarsi, sotto la spinta della committenza, ad una produzione più divulgata; vi furono alcuni grandi maestri pittori (Battista Mazzanti, Stefano Accarisi, Stefano Galamini ;Francesco Cavina, Francesco Vicchi) da cui discenderanno scuole che ne perpetuano i modi grafici irrigidendone le cadenze formali (lineamenti dei volti segnati con pochi tratti a forma di accento circonflesso, positura dei corpi sbilanciata sui fianchi)

Nel Settecento la targa plasticata da stampo diviene un elemento sempre più caratterizzante il paesaggio architettonico quotidiano, con uno sviluppo straordinario dei temi iconografici che richiamano precise devozioni locali; varietà e riproducibilità qualificano la popolarità della targa settecentesca. I disegni uscivano dalle sempre più attive stamperie locali e il passaggio all'immagine ceramica cominciava ad essere mediato da modellatori in stucco e ancor più da intagliatori in legno. Permangono i caratteri di fissità e frontalità proprie dell'immagine devozionale. Era un fatto comune che una bottega potesse

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appropriarsi del rilevo costruito da un'altra semplicemente calcando un esemplare già in commercio; così può capitare che una targa sia presa a soggetto per nuove targhe: ad esempio, la Madonna del Bosco di Alfonsine, la cui immagine ceramica secondo la leggenda devota era esposta su un albero nel 1715, fu riprodotta a stampa dall'incisore Randi, e da questa stampa fu poi riprodotta in territorio faentino in molte targhe ceramiche.

Tecnicamente il Settecento vide l'abbandono dell'ingobbio di colore terroso in favore di un ingobbio quasi bianco imitante la maiolica, detto perciò mezzamaiolica o bianchetto; e una policromia squillante e intensa, pur con limitata presenza, per motivi tecnici ,del rosso. Fra le immagini più ricorrenti si ritrova la madonna del Duomo di Carpi,nella particolare incorniciatura che segue il profilo della mandorla composta da angeli musicanti e più raramente la madonna della Ghiara di Reggio Emilia. Ma la produzione emiliana è sovrastata dalla produzione imolese, che aveva un mercato vasto e capillare. Vi predominava l'iconografia della Madonna del Piratello, e altre con temi iconografici più circoscritti, mentre larghissimo era il mercato dei tipi rinascimentali, spesso adattati alla dedicazione del “Carmine” o del ”Rosario” semplicemente con l'aggiunta in pittura delle corone o degli scapolari. A Forlì la produzione era piuttosto povera come plasticatura ma raffinata nella policromia; la Madonna del fuoco forlivese si distingue per i simboli antropoformizzati del sole e della luna. Riconducibili

all'area faentina sono targhe del Settecento con la tecnica ceramica della mezzamaiolica, meno costosa rispetto alla maiolica , e con alta qualità pittorica del rivestimento policromo. Sono presenti quasi tutti i tipi mariani più tradizionali della regione, ma il più straordinario ventaglio di tipologie è nell'iconografia del massimo culto faentino, quello della Beata Vergine delle Grazie, che ha come denominatore iconografico le due terne di frecce 'scavezzate' strette nelle mani della Vergine.

La targa di devozione ottocentesca da popolare tende a diventare 'popolareggiante', acquisendo coscienza già all'atto della fabbricazione, della destinazione sociale del suo mercato; il secolo XIX di nuovo non apporta che uno spiccato processo di serializzazione. Gran parte della produzione ottocentesca romagnola è attribuibile alla fabbrica imolese dei Bacci ,che dal 1874 diviene Associazione Cooperativa Ceramica; tale produzione fu contaminata dalla moda neorobbiana, con diffusione della bicromia bianco-turchino.

Con ciò iniziò anche la decadenza della targa emiliano-romagnola; la serialità e perfetta riproducibilità ora tecnicamente possibili, senza gli effetti del consumo degli stampi, portava alla sclerotizzazione delle immagini (pur emergendo lo stile di alcuni valenti pittori, di cui ancora non si identifica il nome : il “Pittore della Madonna del Lago”, il “Pittore del 1836”). La targa industriale passa attraverso un diverso sistema di riproduzione

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dell'immagine che non è più la stampa ma la fotografia. Inoltre le “'nuove”' targhe sembrano vincere sulle vecchie per la dimensione consumistica del nuovo mercato, che le predilige acriticamente; il fenomeno assume carattere nazionale.

Con l'avanzare del secolo, lo stile delle opere si fa sempre meno originale ; verso la fine del secolo, la targa assume una dimensione intellettualistica: pittori come il Marabini o il Calzi si dedicano alla copia di opere famose del passato e finisce la fortuna della targa dipinta come “oggetto comune”.

Ci siamo dilungati in questo excursus storico-artistico anche per mostrare come l'arte popolare abbia intrattenuto con l'arte colta, più o meno intensamente nei vari periodi, un processo di osmosi ; anche quando è di derivazione colta, però, l'attributo iconografico del popolare è simbolizzazione : accenna per segni, e quindi approda ad una sua individualità espressiva rispetto al modello colto. Allontanata dal contesto originario , l'arte popolare risulterebbe inerzia espressiva , ma si parla di ripetizione in funzione di una collettività da comune destino; l'individualità, l'unicità irripetibile, sono privilegi dell'arte colta.

Da un lato sta la dinamica razionalizzante della religiosità ufficiale, o meglio dell'arte a committenza ufficiale, col suo carattere tendente al trascendente, al contemplativo, al teorico e al tempo stesso al compromesso mondano e all'ideale estetico; dall'altro

la corporeità e fisicità di matrice contadina volta alla

promozione nei fruitori di emozioni religiose19

.

In questa dialettica, senza dimenticare gli interni movimenti di interscambio, il carattere creativo dev'essere rivendicato anche nella corporeità, perché non vi può essere pura passività imitativa quando ci si riporta ad una preoccupazione apotropaica e propiziatoria e a una “mitizzazione” del vissuto quotidiano.

I SANTI

Un altro carattere di popolarità è esplicito nella scelta dei soggetti. Può stupire la scarsità della figura del Cristo: la preferenza è per figure che “intercedono” presso Dio o sono dotati di un’autonoma potestà. Si è già detto del culto mariano e della sua uniformazione “dall'alto”, e tuttavia la popolarità della Vergine è dovuta anche alla sua immagine di maternità, che la Chiesa ha deliberatamente incentivato e che spinge l'uomo ad identificarla con la propria madre e con la fecondità stessa della sua terra. Ed è facile notare come i santi adorati dalle genti della campagna siano santi “artigiani” o ancor più facilmente “contadini”, non certo perché tali furono, ma perché in tal modo furono

19

P. GUIDOTTI, Un rapporto dialettico: arte “popolare” e arte “colta”. Elementi per una analisi del fenomeno religioso popolare, in Ceramiche devozionali in Emilia – Romagna. Religione Arte e Classi subalterne, cit.p.27, Atesa Editrice

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delineati per un tratto della loro leggenda , non sempre per altro facilmente rilevabile, o per anonime elaborazioni fantastiche; e sono tutti santi maschili, in

conformità con la mentalità agricola20

.Un elenco sommario comprende: Sant'Antonio Abate, invocato come protettore degli animali da stalla e da cortile; Sant'Antonio da Padova, il santo del pane ; san Vincenzo Ferreri invocato contro le tempeste e protettore dei raccolti; san Francesco d'Assisi, contestatore dell' incipiente borghesia dei consumi e degli sprechi; San Rocco, protettore degli spaccapietre, invocato contro la peste e contro la silicosi o malattia di San Rocco, caro per il pane che il cane gli offre , talora invocato anche contro le tempeste. San Sebastiano militare di truppa anch'egli invocato contro la peste (ai due santi in tutto l'appennino e nel piano furono dedicati decine di cappellette ed oratori dopo la terribile peste del 1630); San Bartolomeo, invocato contro la paura; san Cristoforo, che traghetta a spalla e che occupa il posto che in tempi arcaici era stato delle divinità pagane preposte a tutelare i viaggi. e inoltre San Giovanni Battista, invocato a testimone di verità sulle piazze dei mercati al momento dell'accordo (San Giovanni non vuole inganni), e solennizzato con riti legati a tradizioni solari e culti agresti dalla sera del 24 maggio, la cui rugiada ha virtù purificatrici.

20

ibidem

Sono insomma santi che, per un motivo o per un altro, dovevano essere sentiti familiari a chi legava la propria sopravvivenza all’imprevedibilità degli agenti naturali.

E tuttavia le origini degli attributi iconografici dei santi “campagnoli” sembrano rivelare un carattere composito, a sottolineare la commistione alto-basso nella cultura contadina.

Un esempio splendidamente indicativo in questo senso è il Sant’Antonio Abate : questi è generalmente rappresentato in compagnia del fuoco e del maiale e considerato protettore degli animali da stalla e da cortile.

Gli attributi che accompagnano i santi vengono interpretati, qualunque sia la loro origine, in aderenza alla propria esperienza empirica, realistica, come espressione della potestà che determinati santi hanno su un’area del mondo evocata da quei segni.

Ludovico Antonio Muratori, seguendo il suo rigore teologico e la sua polemica antidevozionalistica , vede in questo tipo di lettura l’interesse del “popolo ignorante” di avere a portata di mano santi specialisti, una sorta di secondo olimpo di patroni dediti a specifici settori del mondo come gli antichi “falsi Dii” 21

21

L.A. MURATORI, Della regolata devozione, Venezia, 1751,p.224

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Nel caso specifico, all'opposto, secondo Muratori la fiamma doveva indicare il fuoco di carità del santo, e il maiale la sua vittoria sulle passioni.

È ovvio, che ci troviamo di fronte non tanto ad una dicotomia rozzo/raffinato , come voleva Muratori, uomo del Settecento, ma a due intelligenze: la lettura di quei simboli da parte del volgo non è riconducibile a meri interessi pratici e utilitaristici, ma ad una logica propria della forma mentis concreta del popolo. Il simbolo fuoco letto come carità è figlio dell’intelligenza logico-formale, astratta, dell’agiografo sapiente, ma è percepito dal popolo in maniera elementare, come

fenomeno fisico del fuoco che arde.22

Quando poi il segno , elaborato nell’ambito di una cultura astratta e simbolo di qualcosa che lo trascende, sopravvive al tramonto di quella cultura, può non essere più possibile un’interpretazione colta, diventa altro, può trasformarsi come decorazione e significato.

La rappresentazione popolare e la sua assimilazione sono anche creazione, una creazione che semplicemente subordina l’elaborazione intellettualistica astratta originaria, per approdare ad un “realismo”, ad una immediatezza che appare “volgare” all’intelligenza colta che rarefà il dato nel simbolo.

22

P. GUIDOTTI , Madonne e santi…cit.p.40

Secondo Charles Cahier, nel suo titolo del 186723

, occorre partire dalla biografia dei santi e dal loro ambito storico , in cui i segni devono richiamarsi ai fatti proprio perché devono distinguere il santo, delineando un concetto di “popolare” che va quindi di pari passo con la propria riconoscibilità in un dato territorio. Fa quindi ricondurre il simbolo del fuoco al “fuoco di Sant’Antonio”, malattia curata dall’ordine ospedaliero degli antoniani nel XI secolo; il maiale ricorda un episodio anch’esso legato ai frati ospedalieri, ovvero il privilegio loro concesso di lasciar liberi i propri maiali per le strade dei borghi purchè opportunamente segnalati da una campanella al collo; inoltre altri due attributi tipici del santo, il tau e il bastone, richiamano l’uno, ancora una volta, un’insegna ospedaliera, quindi la cura che il santo ebbe per i deboli; l’altro la vecchiaia del santo, vissuto, secondo la leggenda, per ben 105 anni.

Se si propende come Cahier per una lettura agiografica, ecco che bisogna supporre un oblio della biografia stessa in funzione di un’interpretazione arbitraria di quei segni, piegati ai bisogni e alle speranze della povera gente. Espressione quindi, concordemente a Muratori, di un sentimento religioso pragmatico-utilitaristico , non avulso da venature

C

C. CAHIER, Caractèristiques des Saints dans l’art populaire , Paris 1867, cit.in P.GUIDOTTI , Madonne e santi…cit.p.41

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magiche, ma in questo caso derivato da precise indicazioni biografiche e non simbolico-astratte.

Altre ipotesi ,come quella di Hippolyte Delehaye24

, più prudentemente accennano alla possibilità dell’uno e dell’altro processo, a seconda dei casi. Non bisogna dimenticare, infatti , che quando si parla di agiografia si parla non di una biografia storica , ma di racconti essi stessi leggendari , volti a sollecitare , attraverso il meraviglioso, sentimenti devozionali.

Sembra quindi più saggia quella lettura simbolica composita, incentrata sulle peculiarità del pensare contadino, non unicamente derivante dall’ignoranza delle fonti originarie, né esclusivamente utilitaria.

Indubbiamente questo do ut des è ben presente e radicato nella devozione contadina per sua stessa natura: si è già ricordata l’origine pagana dei tabernacoli e delle processioni, e nelle cavedagne dei campi durante le rogazioni si alzavano le invocazioni a fame, peste et bello libera nos Domine, a gulgure et tempestate libera nos Domine.

E la richiesta utilitaristica si rileva anche nella tradizione di dipingere le immagini di questi santi ( fra cui anche il san Giorgio che uccide il drago e il san Cristoforo che traghetta a spalle ) fra ghirlande di

24

H.DELEHAYE, Les légende…, cit, in P. GUIDOTTI, Madonne e santi…cit.,p.44

rose e margherite sui carri agricoli (barrocci) e sui plaustri delle aie; nel generale anonimato di questi

umili decoratori si ricordano 25

Maddalena Venturi e Colomba Bassi di Granarolo faentino, decoratrici analfabete richieste da tutti i carradori di Romagna fra fine ottocento e gli anni venti del novecento.

Accanto a questa religiosità che prega per avere, che mantiene un ruolo preponderante, s’innerva però anche la preghiera come forma di pietà, di venerazione, più incentrata sul sentimento religioso che non sulla salvaguardia della casa e del lavoro quotidiano, un atteggiamento di devozione diretta che rimanda al mistero cristiano della salvezza.

LE EPIGRAFI

Questa devozionalità è immediatamente più esplicita nel culto della Madonna, non deputata ad una tutela esclusiva del mondo contadino, e a cui ci si rivolgeva perciò con preghiere di saluto affettuoso ( Vi saluto o Madre Viola -assistetemi innanzi ch'io moia) , espresso nelle epigrafi che eccezionalmente accompagnano i tabernacoli. Molto spesso peraltro le epigrafi contengono un invito perentorio al saluto, che evidenzia immediatamente il ruolo di presidio

25

L.ORSINI, La culla degli Sforza, in Rivista mensile del TCI, anno XXII, n.10-1917

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dell'immagine sacra nel passaggio fra luoghi topologicamente diversi.

L’invito a salutare Maria è antico nell’epigrafica

tabernacolare. Guidotti26

rintraccia la più antica epigrafe in un tabernacolo a Ca' di Carpineta , datata 1442 :

'Ola tu che passi per la via ferma e saluta'

invito che trascrive con un filtro selettivo e creativo insieme le parole di dolore biblico di Geremia “o vos omnes qui transitis per viam attendite et videte si est dolor similis sicut dolor meus” . Le parole bibliche recitate nella liturgia, divennero familiari alla gente che le adattò al suo particolare sentire, ponendole in bocca alla Madonna Dolorosa . L'invito a fermarsi e salutare è ripetuto nelle rare epigrafi rinvenute, in genere molto più recenti ( ottocentesche) riportate dal Guidotti; a volte altri tabernacoli lungo una stessa via riportano una risposta che è una domestica familiare preghiera 'Passo per questa via e vi saluto, Maria; Voi salutate Gesù da parte mia”.

A dimostrare che si tratta di schemi generali può servire una raccolta, non commentata, di 'umili invocazioni poste sui muri dei capitelli' veneti contenuta in un volume a cura di P. Fiorenzo Silvano Cuman a margine di una Mostra fotografica sui

26

P. GUIDOTTI, Ceramiche devozional…,cit.,p.22

capitelli veneti27

; se alcuni mostrano una finalità consolatoria ( Qui venga chi mi ama-che pace non ha / Qui venga chi brama-salute e pietà ) molti ripetono lo schema quattrocentesco che intima al passante di fermarsi e salutare rendendo omaggio o addirittura “il dazio” ( O passegger, chiunque tu mai sia, fermati, prega e porgi l'elemosina a Maria; Chi passa per questa via, paghi il dazio con un'Ave Maria'; Pensa, o passegger,che passan l' ore, quando men si pensa , allor si muore) . Non solo preghiera e invocazione alla divinità dunque, ma obbligo la cui omissione può portare disgrazia. L'essenzialità dell'azione richiesta rispecchia fedelmente l'elementarità di una vita che non conosce che l'essenziale. E se un sasso proveniente da Chiapporato, nel nostro appennino, sollecita: 'Và con fede che Dio ti vede', è nell'elementarità dei fruitori l'origine di particolari furti che avvenivano nel Cinquecento, quando si registravano “cavamenti degli occhi delle immagini sante dei tabernacoli”, che potevano aver motivazioni diverse, incluse infiltrazioni luterane iconoclaste o vendette contro cose care a persone odiate, ma “specialmente, l'ansia di quei poveri cristi che, timorosi d'esser veduti nelle loro misere faccende da quegli occhi immobili scrutatori, cercano di accecarli per eliminare pericolosi testimoni alla corte del cielo, perché non è ben netta per una psicologia primitiva la

27

F.S. CUMAN, Voci sui “capitei”, Marostica, Edizioni I.R.S.E.P.S., 1988, p. 238.

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distinzione fra l'immagine della cosa e la cosa

stessa”28

.

UNA PRIMA CONCLUSIONE

Queste opere minori, queste edicole , sono quindi popolari come oggetto concreto , finalità, realizzazione (il soggetto delle tavole, il colore, la materia usata ecc.), fruizione ; hanno intenti popolari in senso “divulgativo”; i luoghi della produzione, le maestranze, sono a tutti gli effetti “popolari”.

Se poi la religiosità popolare è “un’espressione di affettività soggettive che vuole accostare il divino

all’orizzonte mentale dell’uomo”,29

allora la popolarità deriva da una precisa modalità espressiva, da un “sentire” per cui la divinità è avvertita vicina, presente nella dimensione quotidiana dell’uomo.

In questo senso la devozione popolare è trasversale, vive di un pensiero non dogmatico e non esclusivo di un dato ceto o classe.

28

Cfr P. GUIDOTTI , Ceramiche devozionali…, cit., cap.I

29

M. MESLIN , Il fenomeno religioso popolare , in Sacra Doctrina, n. 61, gennaio-marzo 1971 , pag. 8

Le immagini devote, popolari per loro “res” in quanto stabiliscono un rapporto diretto tra credente e divinità, possono sicuramente in questo senso essere facilmente utilizzate come tassello di un organico sistema di istituzioni e simboli funzionali al controllo da parte della Chiesa ufficiale, ma se si allarga il discorso al loro uso e al loro significato per il popolo, non possono più essere viste come una mera ricezione

passiva30

, perché si inseriscono in una consapevole

“economia sacra” 31

in cui dipendenza economica, flussi stagionali e senso religioso si intrecciano.

Proprio nella loro duplice funzione, privata e di pubblico annuncio, pilastrini e relative ceramiche esprimono una religiosità semplice e tuttavia intensa. Con la loro simbiosi tra pubblico e privato essi risultano estranei alla problematica che vede o la forte divaricazione tra vertici istituzionali e gruppi di base in contrapposizione, o la docilità di un popolo fedele ma

passivo.32

30

AAVV, Culture subalterne e domino di classe, in Classe, giugno, 1975

31

I.POIRIER, Problémes d'ethnologie économique, in Ethnologie gènérale, Parigi, Enciclopedie de la Pléyade,1968,pag.1555

32

L. PEDRAZZI, Ceramiche devozionali…cit.p.44

65

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Si può dire anzi, con Zardin 33

, che occorra dare più risalto alle dimensioni collettive e al lato conformistico, generale, dei modelli religiosi elementari, concepiti come risorse che si possono condividere spartendole fra fruitori immersi nella totalità del corpo sociale, e che debba essere fatta riemergere in primo piano la pluralità dei modi concomitanti di “appropriazione'”, cioè di accoglienza e di adattamento a scopi e secondo regole di lettura fra loro divaricabili, degli stessi contenuti di una tradizione culturale comune, portata a contatto con le parti e le diverse articolazioni del corpo sociale.

Le trasformazioni socio-culturali ed economiche del novecento sono state troppo rilevanti perché le forme arcaiche della religiosità potessero sopravvivere. Per il progresso tecnologico, oltre che per i cambiamenti nelle classi sociali: la città illuminata di fine Ottocento era una città più sicura ; l'invenzione dell'automobile rendeva sicuro il viaggio anche nelle remote campagne ; la medicina riusciva a dare rassicurazioni per la conservazione della salute, potendosi separare così la salute fisica dalla salvezza. Furono in molti, a cominciare dal XVIII secolo, a cercare sempre meno la sicurezza nell'aldilà e sempre più quella accessibile

33

Cfr. D. ZARDIN, La “religione popolare” : interpretazioni storiografiche e ipotesi di ricerca' .Memorandum, 2001

in terra con mezzi umani34

. Senza contare, in età contemporanea, forme di iconoclastia di stampo anticlericale, liberale o socialista .

Tuttavia, man mano che ci si approssima alla fine del Novecento, non solo si risveglia l'interesse per le targhe come attenzione storica all'arte popolare, creando fra l'altro, a testimonianza di una de-sacralizzazione diffusa, il fenomeno degenere del furto delle immagini originali per alimentarne un mercato; ma si assiste anche ad una riesumazione di forme che potremmo definire arcaiche, come pellegrinaggi, feste patronali ecc., che vengono riattualizzate o reinventate.

Non si tratta di anacronismi ma forse, se non altro per la popolazione più anziana ancora strettamente legata al proprio territorio, di un bisogno delle comunità locali di affermare una identità collettiva sentita come minacciata da veloci processi di mutamento sociale e culturale, e del tentativo di recuperare una dimensione religiosa collettiva. La Chiesa stessa riscopre il valore del culto delle immagini sacre contro la secolarizzazione (“la nostra tradizione più autentica ,che condividiamo pienamente coi fratelli ortodossi, ci insegna che il linguaggio della bellezza, messo a servizio delle fede, è capace di raggiungere il cuore degli uomini e di far loro conoscere dal di dentro ciò che osiamo rappresentare nelle immagini, Gesù

34

J. DELUMEAU, Rassicurare...cit.cap.588

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Cristo”35

) e contro il consumismo (“la riscoperta dell'icona cristiana aiuterà anche a far prendere coscienza dell'urgenza di reagire contro gli effetti degradanti, e talora spersonalizzanti, delle molteplici immagini che condizionano la nostra vita nelle

pubblicità e nei mass-media”).36

Esiste però, in aggiunta a tutto questo, anche un “senso del paesaggio” che prescinde da quello religioso, e che lo vive come sintesi di storia e cultura umana nell'ambiente. I pilastrini, con il loro carico di simbologia e la loro distribuzione sul territorio, contribuiscono indirettamente a ridare “senso” ad uno spazio e ad un paesaggio stravolto e reso incomprensibile dalla cementificazione.

35

GIOVANNI PAOLO II; Duodecimum Saeculum ,Lettera Apostolica, all'Episcopato della Chiesa cattolica per il XII centenario del Concilio di Nicea, 4 dicembre 1987

36

ibidem

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EDICOLE VOTIVE DEL COMUNE

DI LUGO

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LE EDICOLE DEL TERRITORIO LUGHESE

Negli ultimi anni, nell’ambito degli studi di cristianistica, si è rivolto particolare interesse al fenomeno della sacralizzazione del territorio e alla percezione individuale e collettiva dello spazio sacro.1 I maggiori sforzi degli studiosi si sono concentrati sul fenomeno dei santuari, dei quali si è da poco concluso il censimento per tutte le regioni italiane 2, ma sono state in larga parte trascurate quelle pratiche cultuali minori legate alla cosiddetta tradizione popolare.

A causa della scarsità di fonti scritte ci si è dovuti quindi attenere alle testimonianze orali e fotografiche, con le ovvie problematiche che ne derivano. Le scarne informazioni sulla storia dei singoli tabernacoli rinvenuti sono esclusivamente frutto delle brevi interviste con relativi proprietari, abitanti della zona, parroci di paese. Proprio a causa della natura orale e deficitaria delle fonti, alcune schede appariranno puramente descrittive, ed in particolare le informazioni cronologiche saranno necessariamente indicative laddove non si abbiano datazioni precise. Occorre inoltre ricordare che le edicole sono soggette a

1 Santuari locali e religiosità popolare nella diocesi di Ravennatensia, (a cura di) M. TAGLIAFERRI, Imola, 2003. 2 Censimento condotto in collaborazione tra MIUR, CNR e Ecòle française de Rome. Risultati fruibili sul sito www.santuaricristiani.it

modifiche, restauri, talvolta persino spostamenti veri e propri, ed in particolare targhe ed epigrafi vengono sostituite in caso di furto o viceversa in onore di particolari commemorazioni: non si deve perciò confondere la datazione originaria del pilastrino con quella riportata sulla relativa targa o epigrafe. Ancora in relazione al problema delle fonti, le testimonianze di cui non è stato possibile verificare la veridicità tramite altre interviste, o che lasciavano in qualche modo dubbi sull’attendibilità, sono state comunque riportate in quanto hanno acquisito valore storico come memoria popolare, segnalando tuttavia le possibili discrepanze con la realtà dei fatti.

Per quanto riguarda strettamente la materia analizzata, si è già detto della mancanza di una definizione univoca ed inequivocabile: nel corso di questa ricerca più di un termine è stato utilizzato per descrivere quelle che più globalmente si sono definite “edicole devozionali”; nel caso della catalogazione si è scelto di aderire più specificatamente alla composizione architettonica del manufatto, distinguendo quindi in tabernacoli a pilastro, tabernacoli arborei, cellette.

Si è deciso di escludere quelle forme ibride in cui all’interno di un cippo commemorativo di un evento luttuoso è presente anche un’immagine devozionale, che tuttavia non è preponderante all’interno della composizione, né graficamente né a livello simbolico.

Allo stesso modo sono state escluse dal censimento le nicchie delle abitazioni : benché in molti casi si

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riscontri la medesima funzione evocativa e la medesima commistione di pubblico e privato, questa tipologia è parsa richiamarsi più ad una funzione di presidio domestico, e la grande varietà e disomogeneità degli esempi avrebbe reso oltremodo difficoltosa (e non del tutto coerente) la catalogazione. Se ne sottolinea comunque la vastissima diffusione nonché la sempre continua committenza, a dimostrazione di un sentimento che non ha cessato di esistere ma è solo confluito in forme più sobrie e personali rispetto al tabernacolo, nonché più pragmaticamente semplici da collocare e conservare.

Per quanto riguarda invece le targhe devozionali, presenti in buona parte delle nostre edicole, laddove non vi fossero informazioni aggiuntive per testimonianza diretta dei proprietari ,ci si è attenuti ad un’analisi stilistica. Per una maggiore chiarezza si delineano brevemente alcuni cenni su tecniche e terminologia ceramica. Le tipologie ceramiche fondamentali sono tre: la terracotta; la terracotta maiolicata e policroma; la terracotta ingobbiata con policromia sotto vetrina. In quest’ultimo caso si tratta di una tecnica più economica rispetto alla maiolica vera e propria (che è uno smalto perfettamente coprente dall’aspetto vetrificato),consistente nel ricoprire l’immagine con un fine strato di argilla bianca o colorabile al fine di conferirgli un aspetto maiolicato e predisporlo alla decorazione3. Il genere comprende

3 Catalogo del Museo Civico San Rocco di Fusignano, (a cura di) E. GENNARO, Arti Grafiche Stibu, 2007

due famiglie principali, quella delle targhe plasticate con raffigurazione a rilievo e quella delle targhe piane con raffigurazione disegnata e dipinta4. Il termine targa è usato ad indicare tali ceramiche fin dalle origini della loro vicenda critica, mentre l’aggettivo devozionale è più recente5 ed ha un preciso fondamento critico, perché include la categoria della popolarità, alludendo a quell’aspetto della religiosità che, pur avendo manifestazioni in sede pubblica e pur essendo in rapporto dialettico con i modi della liturgia ufficiale, è attuazione specifica della pietà privata. 6

E’ bene tenere presente che non solo sovente i pilastrini subiscono modifiche e spostamenti , ma che il paesaggio stesso è mutevole e ancor più lo sono i suoi confini amministrativi, per loro natura effimeri. Si è deciso di suddividere i manufatti in circoscrizioni, in quanto il territorio lughese è attraversato da confini diocesani oltremodo frastagliati. Inoltre si è deciso di comprendere nel censimento anche quei tabernacoli locati immediatamente al di fuori degli attuali confini amministrativi, in quanto considerati dagli abitanti, il più delle volte ignari di questi limiti invisibili, come facenti parte del proprio territorio.

Proprio considerando la mutevolezza di questi manufatti e della loro locazione, un punto di riferimento fondamentale è stato rappresentato dalla

4 M.CECCHETTI, Targhe devozionali...,cit.,p.35 5 P.GUIDOTTI, La dimensione popolare…in Mostra..,1976, cit. p.22 6 A. VECCHI, il culto delle immagini…,cit.,pp.39-43

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ricerca inedita “I Simboli della Memoria”, svolta nel 1997 da Nicola Pasi e Roberta Darchini7 : grazie alla loro precisa catalogazione del patrimonio artistico minore lughese è stato possibile confrontare il paesaggio delle edicole odierno con quello di fine secolo, valutando così quali di queste si siano conservate, quali siano andate perdute, quali siano state restaurate e quali per contro siano state abbandonate durante questo lasso di tempo. Le fotografie sono tutte originali e realizzate nel corso del 2011, salvo i casi, opportunamente segnalati, in cui è apparso utile riportare le istantanee del 1997 del censimento detto, a titolo di confronto.

Un altro prezioso strumento si è rivelato l’utilizzo di google maps8, che , riportando per il comune di Lugo fotografie satellitari del 2009, ha dato modo di osservare i mutamenti di questo ultimo , breve periodo. Anche in questo caso le discrepanze sono state indicate in scheda.

Si è infine deciso di riportare memoria di quei tabernacoli che, stando ai due parametri di raffronto sopracitati, erano segnalati sul territorio lughese fino a poco tempo fa e che oggi non risultano più presenti, poiché si ritiene che un segno dell’uomo faccia storia anche quando non esiste più.

7 N. PASI, R. DARCHINI, I Simboli della Memoria,1997. Reperibile presso Archivio Urbanistico del Comune di Lugo 8 http://maps.google.it

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APPENDICE

Preciso intento di questa ricerca è v alorizzare il patrimonio storico-artistico rappresentato dalle edicole votive, per questo sin dal titolo si propone di considerare questi manufatti in stretto rapporto col territorio che li ospita. Come sarà ormai chiaro infatti, la loro stessa esistenza ha ragione d’essere all’interno di una pr ecisa collocazione spaziale che ne caratterizza forma, fruizione ed origine: per questo si è deciso di realizzare una mappa che indichi con precisione la loro posizione all’interno del complesso reticolo delle nostre strade.

Il percorso è reperibile online, e t ramite il servizio di google maps offre una panoramica del comune ,in cui le edicole vengono segnalate correlate da anteprima fotografica e descrizione fedelmente riportata dalla schede della catalogazione. La copertura della zona è pressoché totale e sono implementati i servizi street view e google earth ,facilmente accessibili grazie alle istruzioni, che permettono attraverso panoramiche tridimensionali di “vedere” il pilastrino nella sua tangibile collocazione.

Sperando così di facilitare la ricerca sul territorio a tutti gli appassionati o s emplicemente di incuriosire chi avesse percorso quotidianamente queste strade senza mai prestare fino ad oggi particolare attenzione a questi segni della memoria:

http://maps.google.it/maps/ms?msid=208736663960659192474.00048b1c7c6aacb3e79ca&msa=0

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Circoscrizione diVOLTANA

.1 VIA GOBBI n.4

.2 VIA PASTORELLA n.29

.3 VIA PASTORELLA

.4 VIA FIUMAZZO n.853

.5 VIA FIUMAZZO / VIA PURGATORIO

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VIA GOBBI n. 4

Tabernacolo del XVIII secolo raffigurante la Madonna dell’Addolorata, attualmente inglobato da mura private. Pre-senta una targa devozionale in terracotta a bassorilievo dipinto necessitante di restauro perchè lacunosa in alcune sue parti tra cui il volto. Si tratta di una targa plasticata da stampo, in terracotta ingobbiata con policromia sotto ve-trina. La Vergine è rappresentata a figura intera, su nubi, con le braccia abbandonate verso il basso e le mani giunte. Sul petto convergono le sette spade emblematiche della Madonna dell’Addolorata o Dei Sette Dolori. Lo schema sembra ispirarsi ad un modello, molto replicato in sculture a tuttotondo, dovuto alla bottega dei Ballanti-Graziani. La targa è stata restaurata una prima volta alcuni decenni fa dagli attuali proprietari, secondo i quali il pilastrino fu costruito a seguito della morte di una donna.

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VIA PASTORELLA n.29

Tabernacolo a pilastro dell'ultimo quarto di XX secolo, dedicato all'Immacolata Concezione (Madonna di Lourdes) sito nel cortile dellistituto scolastico delle suore paesano. Presenta una scultura a tuttotondo in gesso ,in buono stato di conservazione. La Vergine è rappresentata in piedi su un basamento a sezione quadrata, ha la tunica fermata alla vita da una fascia di colore azzurro e tiene le mani giunte al petto. Il capo è coperto da un velo e circondato dall'aureola.Anzichè alla strada in questo caso ci troviamo di fronte ad un’edicola rivolta verso l’edificio, il che si spiega con la funzione di “protezione” rivolta ai bambini.

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VIA PASTORELLA

Tabernacolo a pilastro raffigurante la Beata Vergine dell'Arginino. Recentemente restaurato per volontà della parroc-chia di Voltana che vi recita il rosario durante l’annuale processione, presenta una targa plasticata a stampo, in ter-racotta, di forma rettangolare e cornice modanata con svasatura verso l'interno. La Vergine è rappresentata a mezza figura; con la mano sinistra regge un libro, con l'altra sostiene il Bambino che, in piedi, si protende in un abbraccio. Non si tratta della targa originaria e si è persa memoria della nascita del pilastrino e dei suoi costruttori

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VIA FIUMAZZO n. 853

In località Chiesanuova è sito questo tabernacolo a pilastro, rinnovato nell’ultimo quarto del XX secolo ma già presen-te quando la famiglia attuale proprietaria acquistò la casa. Ubicato in cortile di casa privata, si presenta sormontato da una scultura a tuttotondo moderna in materiale e plastico in buono stato di conservazione, raffigurante l’Immacolata Concezione (Madonna di Lourdes). Annualmente fa qui tappa la processione del rosario.

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VIA FIUMAZZO / VIA PURGATORIO

Tabernacolo a pilastro della seconda metà del XX secolo.Presenta una targa plasticata da stampo in gesso, raffig -rante la Beata Vergine del Molino. Oltre alla riproduzione, che si presenta in cattivo stato di conservazione a causa di una crepa trasversale, il tabernacolo presenta sulla facciata una lapide con la seguente incisione: AVE MARIA. A RICORDO DEL CENTENARIO DELL’APPARIZIONE DELLA VERGINE S.S. 1858-1958.

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Circoscrizione diSAN BERNARDINO

.6 VIA NULLO BALDINI / VIA DEL PARTIGIANO

.7 CARRAIA GHEDINI

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VIA DEL PARTIGIANO / VIA NULLO BALDINI

Tabernacolo a pilastro del secondo dopoguerra, in buono stato di conservazione e ubicato in un cortile privato. Pre-senta una targa devozionale in terracotta bassorilievo raffigurante una Madonna con Bambino poggiato sulle ginoc-chia ed intento ad afferrare un rametto di palma. L'iscrizione incisa recita "Signore benedici queste case risorte" e si riferisce all’origine del pilastrino. Difatti le case del quartiere furono ricostruite al termine della seconda guerra mon-diale utilizzando le pietre della chiesa antistante, completamente distrutta. Come segno di ringraziamento gli abitanti costruirono il tabernacolo ora inglobato nella recinzione.

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VIA CARRAIA GHEDINI

Tabernacolo a pilastro della seconda metà del XX secolo dedicato alla Beata Vergine del Piratello di Imola, ubicato nel cortile privato di un podere di campagna. La bella targa da stampo policroma è antecedente, probabilmente ese-guita nella prima metà del XIX dalla fabbrica imolese , sul celebre modello iconografico attribuito a Sano di Pietro. Sul bordo inferiore reca la dedica “B.V. del Piratello”. Stando agli abitanti del luogo la targa si trovava inizialmente appesa all’adiacente albero ed era di proprietà degli allora affittuari del podere. Trasferitesi, i proprietari portarono l’immagine con se’ ma a seguito di un lutto familiare preferirono privarsene. Venne allora ricollocata sul terreno originario, di pro-prietà della curia, dove venne costruito appositamente il pilastrino che ora la conserva.

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Circoscrizione di VILLA SAN MARTINO

.8 VIA PIGNO

.9 VIA PROVINCIALE BAGNARA

.10 VIA SAmmARTINA / VIA P.BAGNARA

.11 VIA LUNGA SUP. / VIA CANTONCELLO

.12 VIA VILLA / VIA SAmmARTINA

.13 VIA PROVINCIALE BAGNARA

.14 VIA PEDERGNANA SUPERIORE

.15 VIA GRILLI

.16 VIA PROVINCIALE BAGNARA / VIA fONDA-GNOLO

.17 VIA PROVINCIALE BAGNARA 52

.18 VIA TIGLIO DSTRO / PEDERGNANA SUP.

.19 VIA PILASTRINO

.20 VIA PIRATELLO / VIA SAN VITALE

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VIA PIGNO n. 2

Celletta ubicata in un crocicchio di campagna, presenta al suo interno una targa plasticata da stampo in terracotta maiolicata e policroma, raffigurante la Vergine col Bambino abbracciati, nonché una stampa cartacea raffigurante la Madonna incoronata e altri saltuari oggetti di devozione. Gli abitanti del luogo, località Malcantone, la chiamano “Ma-donna della frae merca”, un intraducibile nome dialettale dato alla strada, e stando ai loro racconti fu costruita in segno di ringraziamento a seguito di un incidente col carro senza conseguenze gravi. Necessita di restauro e riverniciatura a causa di graffiti sul lato settentrional

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VIA PROVINCIALE BAGNARA

Celletta in buono stato di conservazione che si affaccia sulla via principale di Villa San Marino. Al suo interno sono conservate due immagini: una terracotta maiolicata a bassorilievo della seconda metà di XX secolo, raffigurante la Vergine seduta, a figura intera, con Bambino poggiato sulle ginocchia e chinato in avanti; e una Madonna della Seg-giola.

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VIA SAMMARTINA / VIA PROVINCIALE BAGNARA

Tabernacolo a pilastro della seconda metà XX secolo, dedicato alla Beata Vergine delle Grazie.La targa ,in terracotta maiolicata e policroma raffigura la Beata Vergine delle Grazie, rappresenta-ta a mezza figura, con corona sul capo, tra le mani due terne di frecce spezzate. Il tabernacolo ha subito re-centemente un’evidente modifica di cella e copertura, come mostrato dal confronto fotografico. Anche l’imma-gine devozionale si presenta diversa rispetto alla precedente, sempre raffigurante la Madonna delle Grazie.

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VIA LUNGA SUPERIORE / VIA CANTONCELLO

Tabernacolo a pilastro della seconda metà del secolo scorso, presenta una maiolica tondeggiante di gusto robbiano raffigurante la vergine con bambino. A causa della sua collocazione nei pressi di un incrocio pericoloso non è più tappa delle precessioni mariane, ma la rinnovata presenza di lumini e fiori attesta la cura degli abitanti del luogo per questo manufatto.

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VIA VILLA / VIA SAMMARTINA

Tabernacolo a pilastro di fine XX secolo, presenta una targa plasticata da stampo in terracotta maiolicata e policroma, raffigurante Madonna con Bambino e l’invocazione “O’Maria, Madre di Dio, Proteggi i nostri Bambini”. Il tabernacolo è stato recentemente restaurato e risulta uno dei meglio curati del comune. Nel 1997 appariva di colore bianco e in cattivo stato di conservazione.

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VIA PROVINCIALE BAGNARA

Tabernacolo a pilastro di grande eleganza e apparentemente tra i più antichi della zona. A causa di una violenta tem-pesta ha subito recentemente alcuni danni e necessita pertanto di restauro. Presenta una stampa tipografica su carta dietro una grata protettiva. A causa della sua pericolosa posizione non riceve ormai da tempo la visita delle proces-sioni primaverili.

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VIA PEDERGNANA SUPERIORE

Tabernacolo a pilastro della seconda metà XXmo secolo, dedicato alla Beata Vergine delle Grazie. La targa devozio-nale di fine secolo in terracotta maiolicata e dipinta raffigura la Vergine con le tipiche frecce spezzate ed è sostitutiva della targa originaria, rubata. Il tabernacolo , divelto a causa di un incidente, è stato recentemente restaurato, e viene curato con particolare affetto dagli abitanti del quartiere che ogni anno a maggio vi recitano il rosario.

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VIA GRILLI

Tabernacolo a pilastro datato 1997, accoglie una scultura a tuttotondo in materiale plastico ,rappresentante l’iconogra-fia tipica dell’Immacolata Concezione (Vergine di Lourdes): in piedi su basamento di sezione quadrata , con le mani giunte sul petto e volto contornato da velo ed aureola. L’iscrizione, incisa sulla facciata della targa, recita: “ A ricordo dei fratelli Albonetti Vincenzo e Antonio. Un amico pose. 20- V -1997” ed è evidentemente evocativa dell’evento lut-tuoso che ne ha ispirato la nascita.

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VIA PROVINCIALE BAGNARA / VIA FONDAGNOLO

Tabernacolo arboreo di grande fascino, si colloca su una vecchia quercia all’incrocio tra due strade e presenta una stampa tipografica inserita in una celletta lignea: la Vergine è rappresentata a mezza figura, seduta con il Bambino sulle ginocchia, e sullo sfondo è raffigurato un paesaggi

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VIA PROVINCIALE BAGNARA 52

Imponente tabernacolo a grotta ubicato nel cortile della chiesa di Villa San Martino. Al suo interno due statue a tutto-tondo in gesso raffigurano come da tradizione la Madonna di Lourdes e , inginocchiata, Santa Benedetta in preghiera. L’epigrafe sovrastante è quasi totalmente illeggibile a causa dell’edera che la ricopre. Un’altra piccola targa indica la grotta come “roccia di Lourdes”

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VIA TIGLIO DESTRO / VIA PEDERGNANA SUPERIORE

Tabernacolo a pilastro abbattuto nel corso di un incidente stradale, i suoi resti si trovano ancora sul posto, un crocic-chio negli immediati pressi di Villa San Martino, anche se già tecnicamente facente parte del Comune di Sant’Agata. oltre al corpo del pilastrino si è conservata anche la targa devozionale, intatta, raffigurante un volto di Madonna coro-nata di stelle (Madonna Patrona di Fusignano) su tavola in gesso.

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VIA PILASTRINO

I resti di questo tabernacolo si trovano su un tratto di strada divisa tra il Comune di Lugo e il comune di Sant’Agata, nella campagna attorno a Villa San Martino. la strada prende il nome proprio dal manufatto di cui riporta notizia anche Ivo Tampieri nel suo “Stradario Forese” del 2000 (ma che raccoglie ricerche decennali): “...quanto al toponimo “Pila-strino” dal quale la strada prende il nome, i più vecchi del luogo mi assicurano che esisteva un pilastrino a metà circa della strada, ora caduto e non più ripristinato.”1

1 IVO TAMPIERI, Stradario forese, guida del Comune di Lugo, cit.p.255, Walberti, Lugo 2000

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Tabernacolo a pilastro bifronte, si trova ai limiti del confine comunale di Sant’Agata, nelle immediate vicinanze di Lugo,ed è per questo stato inserito nella catalogazione. Presenta due nicche entrambe ornate di targhe raffiguranti la Mater Divini Amoris, la prima su targa dipinta a smalto, la seconda in maiolica a bassorilievo di gusto robbiano.

VIA PIRATELLO / VIA SAN VITALE .20

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.21 VIA STORTA n.13

.22 s.p.n. mACALLO / VIA PALLAZZA

.23 s.p.n. mACALLO / VIA CONfINE LEVANTE

.24 VIA CONfINE LEVANTE

.25 VIA CONfINE LEVANTE

Circoscrizione di SAN POTITO

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VIA STORTA n. 13

Imponente tabernacolo a grotta di stampo moderno dedicato all’Immacolata Concezione (Madonna di Lourdes), re-alizzato nel 1982 dall’artigiano Adriano Zanotti di Cesena, secondo i canoni classici della grotta con le due sculture a tuttotondo della Vergine e di Santa Bernadette in preghiera, con l’aggiunta di alcune variati artistiche contemporanee (una fontanella interna e la particolare conformazione della roccia che richiama in certe sue forme altri simboli cristia-ni). Ubicato nel cortile privato della casa natale della Venerata Nilde Guerra, ora in parte adibita a museo della donna in processo di beatificazione, fu voluto dal fratello, che da ateo convinto si convertì qualche tempo dopo la morte in giovane età della sorella.

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S.p.n. 21 MACALLO E SAN POTITO / VIA PALAZZA

Tabernacolo a pilastro degli anni ‘90, in cui non è più presente la targa devozionale originaria né quella successiva-mente posta in sostituzione. Attualmente vi è stata posta una statuina a tuttotondo del Cristo. Il tabernacolo è proprietà della famiglia Martini di Bagnacavallo e come le altre edicole di san Potito accoglie la processione del rosario nell’ul-tima sera di maggio.

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s.p.n. MACALLO / VIA CONFINE LEVANTE

Tabernacolo a pilastro in buono stato di conservazione, presenta una targa in terracotta dipinta e policroma con cor-nice incisa. La Vergine è rappresentata a figura intera, seduta, col Bambino in piedi sulle ginocchia. Secondo alcuni abitanti del paese il tabernacolo sarebbe stato eretto in memoria di un uomo assassinato da Stefano Pelloni (il Pas-sator Cortese) nell’Ottocento, per aver svelato i suoi movimenti ai militari papalini, ma vi sono buone possibilità che si tratti di una sovrapposizione di notizie tramandatasi erroneamente, in quanto la medesima storia viene riportata per altre edicole del vicino comune di Bagnacavallo. Come le altre edicole di san Potito è sosta delle processioni che si svolgono l’ultima sera di maggio

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VIA CONFINE LEVANTE

Tabernacolo ligneo a pilastro, collocato sulla sezione attualmente di pertinenza bagnacavallese della via ConfineLevante, conosciuta anche come Confine di Lugo. Presenta una targa devozionale in terracotta raffigurante la Ma-donna del Piratello. Le immagini satellitari datate 2009 reperibili online e l’opera già citata di Morigi-Venturi “Edicole devozionali nel territorio ravennate”, ci danno un’idea dei mutamenti nel tempo di questo manufatto. Quando la fami-glia Pirazzini acquistò il podere dai fratelli Bagnaresi l’edicola era già presente, ed era anzi sostitutiva dell’originaria immagine, rubata, ivi posta per un evento di cui si è persa la memoria. Per paura di nuovi furti l’immagine fu allora col-locata all’interno della cella metallica ed inglobata nel tronco di un albero sapientemente potato ora non più presente, sostituita da un cespuglio. Anche la parte lignea del corpo è stata aggiunta di recente, così come la tettoia spiovente.Ancor oggi gli abitanti si riuniscono a maggio per recitarvi il rosario e ricordano come in passato erano soliti concludere le celebrazioni la prima domenica di giugno con una processione guidata da Don Renzi di S.Potito.

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VIA CONFINE LEVANTE

Così come il precedente anche questo tabernacolo arboreo si trova all’interno dei confini amministrativi di Bagnaca-vallo, ma sorge sulla via dal nome indicativo di Confini di Lugo, altrimenti detta Confine Levante, e per questo motivo è stato inserito nella catalogazione. Il tabernacolo presenta un altorilievo in terracotta policroma, raffigurant la Vergine che abbraccia il Bambino dormiente, a mezza figura. L'effigie è sostitiva di quella originale andata perduta

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Circoscrizione diBELRICETTO

.26 VIA FIUMAZZO

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VIA FIUMAZZO

Tabernacolo a pilastro in buono stato di conservazione e secondo le fonti orali già presente all’inizio del secolo scor-so. Si trova nelle immediate vicinanze dell’antica chiesa paesana e presenta all’interno della nicchia una scultura ad altorilievo in terracotta dipinta, raffigurante la Vergine con Bambino, appoggiato sulla spalla sinistra, ovviamente non originaria. Viene curato dai cittadini che vi porgono omaggi floreali e vi si recano ancora in processione per la tradizio-nale cerimonia del rosario e in altre occasioni particolari.

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Page 104: Edicole Sacre nel territorio: aspetti di storia e religiosità popolare nel lughese

Circoscrizione di SANTA MARIA IN FABRIAGO

.27 VIA CASAZZA / VIA VIOLA MONDANIGA

.28 VIA MONDANIGA

.29 VIA CURIEL 20

.30 VIA CURIEL

.31 VIA VIOLA MONDANIGA / VIA POLLINA

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Page 105: Edicole Sacre nel territorio: aspetti di storia e religiosità popolare nel lughese

VIA CASAZZA / VIA VIOLA MONDANIGA

Tabernacolo a pilastro datato 1956. Presenta una targa plasticata da stampo della seconda metà del XX secolo, in cui la Madonna del Buon Consiglio (Beata Vergine dell’Arginino è rappresentata come da iconografia tradizionale a mezza figura, reggente con la mano destra il Bambino, con la destra un libro. L’iscrizione a caratteri applicati recita “Ave Maria Ricordo Missione 1956”. Posta a metà strada tra la chiesa medievale di Campanile e il cimitero del paese, l’edicola riceve la visita delle processioni.

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Page 106: Edicole Sacre nel territorio: aspetti di storia e religiosità popolare nel lughese

VIA MONDANIGA

Tabernacolo arboreo di recente costruzione, ubicato a fianco della pieve medievale di Campanile. All’interno dell’edi-cola lignea si collocano una Madonna a tuttotondo ed altre piccole attenzioni devote come santini e rosari. Il perfetto stato dell’edicola è ovviamente garantito dalla locazione.

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VIA CURIEL n. 20

Semplice tabernacolo a pilastro della seconda metà del XXmo secolo, dedicato all’Immacolata Concezione (Madonna di Lourdes) , proprietà dell’ente ecclesiastico e ubicato nel cortile della “Scuola Materna Immacolata”. Un’imponente colonna è sormontata da un basamento a sezione quadrata che a sua volta sostiene la Vergine, in piedi e con le mani giunte al petto, coronata da aureola. Inizialmente il pilastrino si trovava pochi metri oltre e guardava verso la chiesa, una volta spostato è stato volto verso il paese.

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VIA CURIEL

Tabernacolo arboreo costruito negli ultimi anni e ubicato nel cortile della chiesa di Santa Maria in Fabriago. Presenta due nicchie ricavate nel tronco, la prima occupata da una scultura a tuttotondo della Vergine, la seconda , non visibile dalla strada perché sul lato opposto, dal San Giuseppe.

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Page 109: Edicole Sacre nel territorio: aspetti di storia e religiosità popolare nel lughese

VIA VIOLA MONDANIGA/ VIA POLLINA

Tabernacolo a pilastro della seconda metà di XX secolo. Il manufatto si presentava in stato di abbandono già alla ca-talogazione del 1997, come si può osservare dalle foto, e si presenta oggi ulteriormente danneggiato. La strada su cui sorge è una stretta viuzza di campagna, nche on riceve più la visita delle processioni.

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Page 110: Edicole Sacre nel territorio: aspetti di storia e religiosità popolare nel lughese

Circoscrizione diSAN LORENZO

.32 VIA NUOVA FIUMAZZO

.33 VIA MAZZOLA/ VIA CHIESA CATENE

.34 VIA FIUME VECCHIO

.35 VIA FIUMAZZO

.36 VIA FIUMAZZO/ VIA VECCHIOFIUME

.37 VIA VECCHIA FIUMAZZO

.38 VIA 2 AGOSTO

.39 VIA LUNGA INFERIORE / VIA PULINA

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Page 111: Edicole Sacre nel territorio: aspetti di storia e religiosità popolare nel lughese

VIA NUOVA FIUMAZZO

Tabernacolo a pilastro dedicato alla Beata Vergine del Molino: in cattivo stato di conservazione presenta una targa plasticata da stampo in cemento dell’ultimo quarto di secolo, anch’essa danneggiata in molte sue parti e probabil-mente originaria. La Vergine è rappresentata frontalmente, a mezza figura, e abbraccia il Bambino, in piedi e ignudo, appoggiato alla sua spalla sinistra. Aureole di perline circondano il capo delle due figure

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Page 112: Edicole Sacre nel territorio: aspetti di storia e religiosità popolare nel lughese

VIA MAZZOLA / VIA CHIESE CATENE

Tabernacolo a pilastro del secolo scorso, da alcuni anni inglobato in cortile privato. In buono stato di conserva-zione, presenta una targa devozionale in terracotta maiolicata e policroma, con una cornice decorata da frut-ta di gusto robbiano. La Vergine è rappresentata in figura intera, seduta con il Bambino sulle ginocchia che porge le mani ad una colomba. La targa, della seconda metà del XX secolo, proviene da fabbrica faentina.

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Page 113: Edicole Sacre nel territorio: aspetti di storia e religiosità popolare nel lughese

VIA FIUME VECCHIO

Tabernacolo a pilastro , fino a pochi anni fa presentava una stampa della Madonna patrona di Fusignano, attualmente vi è invece posta una stampa della Madonna del Sacro Cuore. E’ collocato nel cortile di una casa attualmente disabi-tata ma sul ciglio della strada.

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Page 114: Edicole Sacre nel territorio: aspetti di storia e religiosità popolare nel lughese

VIA FIUMAZZO

Tabernacolo a pilastro da molti anni in stato di abbandono, mancante attualmente di targa devozionale e ricoperto di rampicanti. La posizione pericolosa su strada di continuo passaggio ne spiega il pessimo stato di conservazione.

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Page 115: Edicole Sacre nel territorio: aspetti di storia e religiosità popolare nel lughese

VIA FIUMAZZO / VIA VECCHIO FIUME

Tabernacolo a pilastro apparentemente antecedente al XX secolo e forse successivamente restaurato. Attualmente vi si trova una semplice stampa cartacea della Madonna del Sacro Cuore. Al loro arrivo gli antichi proprietari ,abitanti la casa a fianco del pilastrino , vi trovarono un’antica targa rappresentante la Madonna delle Grazie, attualmente conser-vata nell’atrio della propria abitazione per preservarla dai furti. Gli stessi proprietari non hanno informazioni riguardo la datazione del tabernacolo stesso, e si può solo ipotizzare che, essendo stata valutata la targa come settecentesca, anche il corpo del pilastrino appartenga al medesimo periodo.

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Page 116: Edicole Sacre nel territorio: aspetti di storia e religiosità popolare nel lughese

VIA VECCHIA FIUMAZZO n.19

Tabernacolo a pilastro in cortile privato , quasi completamente ricoperto da rampicanti. La targa plasticata da stampo in gesso, rappresentante la Vergine a mezza figura con in braccio il Bambino, su sfondo architettonico, è stata inte-grata dall’attuale proprietario dopo che la precedente era stata rubata. Non si è in grado di ricostruire l’origine del pilastrino ma è sicuramente antecedente alla seconda guerra mondiale. Come in tutta San Lorenzo si svolgono anche qui le processioni del maggio.

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Page 117: Edicole Sacre nel territorio: aspetti di storia e religiosità popolare nel lughese

VIA 2 AGOSTO n 28

Tabernacolo a pilastro della seconda metà di XX secolo, ubicato in cortile privato. Presenta una targa plasticata da stampo in cui la vergine è rappresentata a figura intera, seduta col Bambino sulle ginocchia, intento a cogliere un rametto di palma. La targa è in terracotta e risale alla metà del secolo scorso, proveniente da fabbrica imolese. L’iscri-zione recita “Signore, benedici queste case risorte”. La medesima targa è stata rinvenuta nel pilastrino [n.6] di San Bernardino a cui questo sembra rifarsi anche architettonicamente. Si ricorda che anche San Lorenzo venne quasi completamente rasa al suolo durante la seconda guerra mondiale

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VIA LUNGA INFERIORE/ VIA PULINA

Tabernacolo a pilastro di fine Ottocento, restaurato e spostato di pochi metri rispetto alla collocazione originaria. Presenta una targa maiolicata e riflessata a stampo raffigurante la Beata Vergine del Mulino dell’omonimo santuario lughese. Fu costruito pare in memoria di un abitante del paese, che qui morì a seguito di un incidente col carro mentre trasportava dell’uva.

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Circoscrizione di BIZZuNO

.40 VIA CANAL VECCHIO / VIA CHIESA CATENE

.41 VIA SANTA LUCIA

.42 VIA BIZZUNO / VIA COCORRE

.43 VIA QUARANTOLA / VIA BIZZUNO

.44 VIA QUARTANTOLA / VIA SANT’ANTONO

.45 VIA SANT’ANTONIO

.46 CARRAIA SABBIONI

.47 VIA QUARANTOLA / VIA ZIRONA

.48 VIA PROVINCIALE MAIANO / VIA CANAL-VECCHIO

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VIA CANALVECCHIO / VIA CHIESA CATENE

Questo pregevole tabernacolo accoglie una targa devozionale in gesso dipinto dell’ultimo quarto di secolo, raffigurantela Madonna. Il tabernacolo, che nel 1997 si trovava in stato di totale abbandono e ricoperto di edera, è stato ora ripulito e si presenta ornato di lanterne ,fiori e lumini votivi. Secondo gli abitanti del posto fu eretto in segno di ringraziamento a seguito di una caduta da cavallo senza particolari conseguenze. Nella casa a fronte si trova anche una nicchia che guarda sulla strada ,con una targa devozionale ritrovata integra nel fosso dopo il bombardamento che distrusse la casa stessa. Ancora vi si svolgono le processioni mariane.

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VIA SANTA LUCIA

Tabernacolo a pilastro della seconda metà di XX secolo. In buono stato di conservazione, presenta una targa in terracotta policroma raffigurante una moderna Vergine a mezza figura con le mani congiunte al petto. Un tempo lungo questa via di campagna sfilava una ricca processione, ma da tempo , stando agli abitanti della casa, non si svolge più alcuna manifestazione di culto.

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VIA BIZZUNO/ VIA COCORRE

Tabernacolo a pilastro della seconda metà del XX secolo, presenta una targa plasticata da stampo in gesso, raffig -rante la Vergine seduta ,a mezza figura, che accosta il volto al Bambino posto alla sua destra. Ottimamente conser-vato viene curato dai proprietari del podere in cui è ubicato.

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VIA QUARANTOLA / VIA BIZZUNO

Tabernacolo a pilastro dedicato alla Madonna del Sacro Cuore, presente almeno dal dopoguerra. Sfoggia una targa plasticata in terracotta maiolicata e policroma, datata 1997. L’iscrizione dipinta sotto l’immagine recita: “ Mater Mi-sericordiae a.d. 1997 Missioni Popolari Bizzuno S.B. Ceramicata”, mentre un’altra iscrizione dipinta sulla facciata “A ricordo della missione popolare 2-9 febbraio 1997. Dio ti ama, Cristo è venuto per te”. Fino a qualche anno fa si pre-sentava dipinto di colore bianco poi deterioratisi.

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VIA QUARANTOLA / SANT’ANTONIO

Tabernacolo a pilastro dedicato all’Immacolata Concezione (Madonna di Lourdes) , della seconda metà di XX secolo. Presentava originariamente una scultura a tuttotondo rappresentante la Vergine in piedi su un basamento di sezione quadrata, andata rubata. Attualmente presenta un piccolo altorilievo col volto della Vergine e del Bambino La posizio-ne pericolosa, all’estremità di un incrocio, ne spiega lo stato di degrado.

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VIA SANT’ANTONIO

Tabernacolo a pilastro dedicato alla Beata Vergine del Molino. In stato di conservazione mediocre, la targa dell’ultimo quarto di XX secolo raffigura l’omonima madonna rappresentata a mezza figura che abbraccia il Bambino in piedi e ignudo, poggiato alla sua spalla sinistra. Il tabernacolo è di proprietà di un abitante della vicina Bagnacavallo.

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CARRAIA SABBIONI

Tabernacolo a nicchia dedicato alla Madonna del Piratello, datato 1997. Presenta una targa plasticata da stampo in terracotta maiolicata e policroma, proveniente da fabbrica imolese, donata ai proprietari dall’allora parroco Don Renzo in funzione della processione che tuttora passa lungo la via. L’immagine venerata nell’omonimo santuario di Imola è qui arricchita da ornati che si ispirano al frontale d’argento che protegge l’affresco antico.

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VIA QUARANTOLA / ZIRONA

Tabernacolo a pilastro dell’ultimo quarto di XX secolo. Presenta solo i residui della piccola scultura ad altorilievo, rap-presentante la Vergine col capo reclinato che si accosta al volto del Bambino, che conteneva fino a pochi anni fa. Si presenta in stato di conservazione mediocre anche a causa della posizione su strada particolarmente trafficata

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VIA BIZZUNO

Tabernacolo a pilastro di recente costruzione, presenta una semplice colonna linea, che funge da base per una statua a tuttotondo dell’Immacolata Concezione (Madonna di Lourdes), sormontata da un tettuccio spio-vente. Si trova all’interno del cortile della chiesa parrocchiale.

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Questa bella celletta si erge immediatamente al di là del confine tra comune di Lugo e comune di Fusigna-no, ma la sua genesi è in qualche modo legata al lughese: difatti il confine fisico è rappresentato da un ca-nale (lungo cui corre appunto via Canalvecchio), e qui pare si arrestò un’epidemia suina che risparmiò le at-tuali terre fusignanesi. Come segno di ringraziamento venne costruita la celletta, che ancora è meta delle processioni mariane e che contiene attualmente al suo interno una semplice stampa tipografica della Madonna.

VIA PROVINCIALE MAIANO / VIA CANALVECCHIO .49

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Circoscrizione di CA’ DI LuGO

.50 VIA ASCENSIONE / VIA CENNACHIARA

.51 VIA BEDAZZO / VIA SANT’ANDREA

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VIA ASCENSIONE / VIA CENNA CHIARA

Questo tabernacolo a pilastro in materiale povero della seconda metà del secolo scorso, presenta una scultura in gesso su base lignea in buono stato di conservazione, raffigurante la Madonna con Bambin

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SANT’ANDREA / BEDAZZO

Tabernacolo a pilastro dedicato alla Beata Vergine del Molino. In cattivo stato di conservazione, presenta una targa plasticata da stampo in gesso di fine XX secolo, in cui la Vergine è raffigurata a mezza figura mentre abbraccia il Bambino , poggiato in piedi e ignudo sulla sua spalla sinistra.

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Circoscizione diASCENSIONE

.52 VIA fIUmAZZO / VIA PIRATELLO

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Tabernacolo a pilastro, in buono stato di conservazione, ornato da una scultura a tuttotondo della Madonna in mate-riale plastico.

VIA FIUMAZZO / PIRATELLO.52

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Circoscrizione di Lugo Nord

.53 VIA CANALE INFERIORE A SINISTRA

.54 VIA PIRATELLO

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VIA CANALE INFERIORE A SINISTRA

Tabernacolo a pilastro dell’ultimo quarto di secolo, ubicato in cortile privato e in buono stato di conservazione. Quan-do, nel 1962, gli attuali proprietari comprarono la casa, lo trovarono in condizioni mediocri e decisero di rispistinarlo, utilizzando i materiali rimanenti dalla ristrutturazione dell’edificio. Presenta la targa originaria, una terracotta a rilievo dipinta raffigurante la Madonna con Bambino, San Giovannino , San Giuseppe e Sant’Anna del XVIII secolo

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VIA PIRATELLO

Tabernacolo a pilastro inaugurato nel 2011 in un’area verde all’interno di un centro comerciale. E’ dedicato alla Ma-donna del Molino di Lugo, di cui presenta la classica raffigurazione ceramica. Una targa in ceramica dipinta recita: “Rallegrati o’Maria, piena di grazia”.

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Circoscrizione diLuGO EST

.55 VIA DEL PERO

.56 VIA DEL PERO

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Tabernacolo a pilastro in materiale povero e mediocre stato di conservazione, presenta una stampa tipografica raf -gurante la Madonna.

VIA DEL PERO .55

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VIA DEL PERO

Tabernacolo arboreo collocato su un albero al ciglio della strada, nel cortile di un complesso di fabbrica dismesso, ma di proprietà di un’anziana signora abitante nella casa a fronte. Presenta una scultura a tuttotondo della Madonna di Lourdes che le fu donata in gioventù dall’allora parroco del paese, di ritorno da un viaggio alla grotta dell’apparizione

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Circoscrizione diLuGO OVEST

.57 VIA PAUROSA / VIA TRENTO

.58 VIA PAUROSA

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Tabernacolo a Pilastro dedicato alla Beata Vergine del Piratello, seconda metà del XXmo secolo. Ubicato in cortile privato, presenta una targa plasticata da stampo in terracotta ingobbiata riproducente l’immagine venerata nell’omo-nimo santuario di Imola: in questo modello di targa l’immagine originale è riprodotta in tutti i dettagli , compreso il particolare della mano del Bambino che stringe una cocca del manto materno. L’iscrizione recita “a ricordo della con-sacrazione della parrocchia. 27-9-1959”

VIA PAUROSA / VIA TRENTO.57

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VIA PAUROSA

Splendido tabernacolo a vela del XVIII secolo, tra i più antichi della zona e necessitante di restauro.Si erge nella zona a Sud del centro abitato di Lugo, dove si estendeva la Massa di Sant’Ilaro, fulcro originario della città.1

A.TAMBURINI, N.CANI, Lugo, archeologia e storia di una città e di un territorio,cit.pp.40-44 Walberti, 1991

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Circoscrizione diLuGO SuD

.59 VIA SAN GIORGIO

.60 VIA SAN GIORGIO / VIA CROCE COPERTA

.61 VIA SAN GIORGIO / VIA PECORACOTTA

.62 VIA TORRAZA / VIA FELISIO

.63 VIA TORRAZZA / VIA MADONNA DELLE STUOIE

.64 VIA MADONNA DI GENOVA / VIA ZAGONA-RA

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VIA SAN GIORGIO

Tabernacolo a pilastro recentemente restaurato. Presenta una piccola immagine di Madonna velata che copre par-zialmente i resti dell’immagine originaria perduta.

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VIA CROCE COPERTA / VIA SAN GIORGIO

Tabernacolo a pilastro dedicato alla Beata Vergine del Piratello, della seconda metà del XX secolo. Fu prima spostato, circa vent’anni fa, per scavare il fosso, poi distrutto da un incidente e ricostruito, come attestano le foto. L’attuale targa ceramica ingobbiata e policroma che riproduce l’immagine venerata nel santuario di Imola è anch’essa sostitutiva della targa inizialmente conservata. Nella prima foto , datata 1997, si può apprezzare la forma originaria dell’edicola.

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VIA SAN GIORGIO / VIA PECORACOTTA

Questo tabernacolo a pilastro è stato recentemente ricostruito dopo anni di totale abbandono (il tabernacolo si pre-sentava sino a pochi anni fa – come dimostra la foto del 1997- totalmente ricoperto di edera impossibile alla vista ed è stato successivamente abbattuto e ripristinato- come mostrano le immagini satellitari del 2009 in cui il tabernacolo non compare) . In pietra , contiene un’immagine moderna con i volti della Madonna e del Bambino protetti da una grata. La strada che prosegue dal lato opposto dell’incrocio, Via San Francesco, è stata ribattezzata Via Pilastrino

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VIA TORRAZZA / VIA FELISIO

Tabernacolo a pilastro architettonicamente pregevole ma in cattivo stato di conservazione, Presenta una nicchia co-perta da grata ma mancante attualmente della targa devozionale.

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VIA TORRAZZA / MADONNA DELLE STUOIE

Questo tabernacolo a pilastro della seconda metà del XX secolo non è più presente in quanto abbattuto: i resti si tro-vano tutt’ora presenti ai piedi dell’albero. Nella prima foto il pilastrino come si presentava nel 1997.

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Tabernacolo a pilastro in buono stato di composizione e contenente ancora la targa originaria, questa purtroppo gra-vemente deteriorata. È stato spostato di pochi metri in occasione della costruzione dell’attigua rotonda stradale, ma le pressioni della popolazione locale hanno consentito la sua salvaguardia. Non sono state rinvenute notizie riguardo alla sua datazione ma è sicuramente antecedente alla seconda metà del XX secolo, come attestano le fonti orali.

.64 VIA MADONNA DI GENOVA / VIA ZAGONARA

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CONCLUSIONI

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CONCLUSIONI

Giunti al termine della rassegna, vale la pena tracciare un resoconto delle impressioni ricavate dalla ricerca sul territorio. Una ricerca fatta soprattutto di dialogo con chi il territorio lo vive e lo ha vissuto attraverso i mutamenti che tanto hanno influenzato il nostro stile di vita e con esso anche il rapporto col sacro e le sue manifestazioni.

L’universo simbolico, entro cui si muoveva il contadino delle nostre campagne, i cui ritmi di vita e di lavoro erano scanditi dal susseguirsi delle stagioni e dal suono delle campane, è rimasto ormai solo nella memoria di pochi anziani, che ricordano come il rapporto con il soprannaturale fosse non un fatto privato, ma impegnasse coralmente tutta la comunità.

Oggigiorno tale condivisione è venuta meno perché, assieme alla dilatazione degli spazi e alla contrazione del tempo che hanno caratterizzato gli ultimi decenni, il centro degli interessi dei singoli fedeli non sono più esclusivamente il proprio paese con la sua specifica parrocchia. La vita del parrocchiano, come di ogni altro cittadino, si svolge in gran parte al di fuori di questi: le voci dei parroci e degli abitanti delineano questa progressiva perdita da parte della chiesa di paese del suo antico ruolo di fulcro nella vita associativa dei piccoli centri campagnoli, una forza aggregatrice non solo dal punto di vista strettamente religioso. Questo processo di disgregazione ha portato ad una individualizzazione della vita religiosa in cui il fedele non avverte più il vincolo della comunità

ma vive la propria religiosità in modo personale. L’evolversi da una società agricola e statica ad una moderna e dinamica ha comportato quindi mutamenti anche nella partecipazione dell’osservante alla vita parrocchiale del paese, da sempre fulcro e base, come indicava Le Bras1, della vita religiosa. Tutto ciò, suggerisce Donatella Fantini2, ha fatto sì che si passasse dalla ritualità vera e propria, che comprendeva riti di passaggio, di purificazione o apotropaici, alla ritualizzazione: gli stessi gesti cioè che un tempo rappresentavano una dimensione simbolica e sacrale fortemente partecipativa, hanno oggi per molti assunto un carattere di pura routine, quando non sono scomparsi.

Ci sembra che nel perdurare delle principali testimoni di questa tendenza, le processioni mariane, con la loro ancora sentita partecipazione popolare, confluiscano sia l’aspetto puramente religioso sia un certo senso di tradizione e di appartenenza, quasi una riproposizione per certi versi nostalgica di gesti legati all’infanzia e ad una socialità e religiosità comunitaria che si vanno perdendo. E proprio come tali tuttavia queste manifestazioni non vengono svilite, ma acquistano nuovo senso, come rielaborazione di gesti e valori che rischierebbero di scomparire del tutto se non fosse insita nella loro attuazione quella

1 GABRIEL LE BRAS, Studi di Sociologia religiosa, Milano, Feltrinelli, 1969, p. 33 2 DONATELLA FANTINI, Aspetti della religiosità popolare fra manifestazioni di fede ed espressione culturale nell’area romagnola dopo il Concilio Vaticano II, in Usi e Costumi di Romagna, a curi di MARIO TURCI, Imola, La Mandragora, 1994

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meccanicità, quel tradizionalismo ma anche quella partecipazione teatrale e collettiva che ha consentito loro di sopravvivere, pur non indenni, al passare dei secoli.

Oggi le processioni non avvengono più necessariamente nei modi e nei tempi tradizionali ( fissati al 25 aprile e nei tre giorni precedenti l’Ascensione, con processioni stazionali durante le quali si recitavano le litanie dei santi, le invocazioni, infine un elenco di mali da cui si chiedeva la liberazione), ma continuano ad attirare una moltitudine di fedeli ogni anno, anche se il percorso si è generalmente accorciato e la manifestazione stessa non ha più la stessa solennità.

Oltre agli antichi riti stagionali perpetuatisi attraverso le processioni, un altro aspetto della religiosità popolare che sopravvive si lega al culto della figura di Maria, ancor oggi una delle devozioni più importanti del mondo cattolico sia a livello ufficiale che popolare. Il Concilio Vaticano II, se da un lato ha promosso forme di devozione più sobrie ed incentrate sulla figura del Cristo, ha dall’altro dato vigore, pur scevra da vecchie pratiche superate, alla devozione mariana; l’esortazione apostolica Marialis Cultus di Paolo VI nel 1974 e gli ultimi pontificati l’hanno senza dubbio incentivato. Nei tabernacoli del lughese la Madonna è assoluta protagonista, rappresentata generalmente nelle sue varianti locali (specialmente la B.V. del Molino di Lugo) o come Madonna di Lourdes. In particolare negli ultimi anni la Vergine secondo la leggenda apparsa nel sud della Francia sembra avere

un ruolo di primo piano nel cuore dei fedeli della zona, come dimostrano in gran numero le immagini e le sculture relativamente recenti che ornano i pilastrini rinvenuti.

Che queste effigi, nei casi dei tabernacoli più curati, siano puntualmente sostituite ogni qualvolta vengono rubate per essere vendute al mercato antiquario minore, è sintomatico dell’importanza loro attribuita. Per quanto riguarda i tabernacoli lasciati invece al degrado, sono qui abbastanza evidenti i segni lasciati dal vivere moderno: i pilastrini posti su strade un tempo percorse dai viandanti e ora dorsali su cui sfrecciano auto ad alta velocità sono i primi ad essere abbandonati, evidentemente per la pericolosità della loro posizione. Al contrario alcuni tabernacoli di estrema campagna sono tuttora meta di devozione, favorita dall’intimità della locazione.

Se poi un tempo erano costruiti come forma di ringraziamento o invocazione di protezione e in quanto tali tappa delle processioni, alcuni tabernacoli più recenti sono stati al contrario costruiti su percorsi già passaggio di processioni, e innalzati proprio per volontà di partecipare attivamente a quella manifestazione di fede.

Di alcuni tabernacoli non si conosce o non sono più espressamente manifesti committente e motivazione originaria, sono divenuti parte integrante del territorio e a questo in realtà appartengono secondo gli abitanti, che spesso se ne prendono cura in prima persona, a sottolineare la fruizione al tempo stesso privata e pubblica di queste architetture.

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Si può notare come alcuni pilastrini siano stati rinnovati non solamente nelle targhe devozionali ma anche nelle epigrafi, generalmente incise in onore di missioni o ricorrenze particolari: occorre perciò prestare attenzione a non confondere l’eventuale datazione dell’epigrafe con quella della costruzione del tabernacolo. Si tratta comunque, salvo rarissime eccezioni, di opere della seconda metà del XX secolo. La quasi totale assenza di testimonianze più antiche ha sicuramente risentito tra, le altre cause, dei bombardamenti della seconda guerra mondiale che ingenti danni hanno provocato nelle zone trattate; dei cambiamenti nel territorio; della situazione idrica e delle bonifiche tardive (l’ultima deviazione del Santerno risale al 1783 con l’immissione nel Po di Primaro nei pressi di Passogatto, l’assestamento idrico attuale è stato però completato solo nel primo Novecento), di alcune fasi di intense lotte sociali sfociate in aperto sfregio delle opere religiose (è il caso ad esempio della “settimana rossa”, durante la quale sono andati distrutti alcuni oratori delle nostre campagne). Facile notare infine come ben pochi siano i pilastrini costruiti negli ultimissimi anni. Un certo rinnovamento c’è solo nei tabernacoli arborei, mentre l’unico tabernacolo a pilastro di recente datazione è quello nuovissimo di via Piratello, per altro costruito in posizione insolita anch’essa segno dei tempi: una piccola aiuola verde all’interno del parcheggio di un centro commerciale. Ovviamente ciò si accompagna a quanto detto sul mutamento del ritmo di vita e del senso religioso dell’uomo moderno, ed a anche una motivazione logistica: spesso queste strutture sono d’intralcio ai mutamenti urbanistici e ad eventuali

lavori pubblici e non; sul ciglio delle strade risultano pericolosi; all’interno dei campi coltivati, già di per se’ di diversa dimensione rispetto ai secoli passati, ostacolano il passaggio di mezzi agricoli sempre più imponenti. Ma, a sottolineare come ancora la gente vi sia affettivamente legata, le autorità comunali si trovano a dover affrontare l’opposizione della popolazione alla richiesta di spostare queste testimonianze per necessità urbanistiche, e soprattutto continua, fiorente, la richiesta di ceramiche devozionali indirizzate alle meno problematiche nicchie domestiche.

Infatti, per quanto riguarda queste espressioni, che si è qui deciso di non catalogare senza tuttavia ignorarne il fortissimo legame coi tabernacoli per la comune funzione, la richiesta è più che mai viva, ed è d’altronde sufficiente guardarsi attorno percorrendo le nostre strade per rendersi conto di quante abitazioni presentino una nicchia e di quante di queste ospitino effettivamente un’immagine devozionale. Indubbiamente il grande prestigio delle scuole faentina e imolese influisce sulla diffusione dell’arte religiosa ceramica nella nostra regione, incentivando una committenza che si rifà per altro a modelli il più delle volte tradizionali. Ma sembrerebbe errato ricondurre il perdurare di un’usanza secolare esclusivamente a valori artistici, almeno quanto sublimarlo in un sentire esclusivamente religioso o ad una necessità di legame diretto col proprio passato e il proprio territorio.

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In definitiva, si può vedere attorno al culto delle edicole una religiosità autentica, ma una religiosità oggigiorno sempre meno ostentata e intimamente legata alle tradizioni locali anche da un punto di vista puramente sociale. Una forma di devozione forse particolarmente sentita proprio perché vissuta anche come sporadico richiamo a ritmi di vita più lenti ed intensi rispetto alla frenesia quotidiana.

Ecco quindi che lo studio di questi manufatti non abbraccia solo la storia della Chiesa o la storia locale, la storia dell’arte o la storia del folklore, ma si presenta come riflessione aperta ai più svariati stimoli; come analisi trasversale all’interno di una società dall’essenza molteplice più di quanto la definizione di “subalterna” non faccia trasparire; come esperienza tangibile; come studio del territorio sul territorio.

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BIBLIOGRAFIA

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