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DISPENSA DI DIRITTO CIVILE
LE OBBLIGAZIONI: SOLIDALI, PECUNIARIE, DI GARANZIA.
Comitato scientifico
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Indice
1. LA NUOVA ESSENZA VALORISTICA DELLE OBBLIGAZIONI PECUNIARIE (SU
ASSEGNO CIRCOLARE): Cass., Sez. Un. 18 dicembre 2007, n. 26617
2. IL LUOGO DI ADEMPIMENTO DELLE OBBLIGAZIONI PECUNIARIE.
L’INTERVENTO DELLE SEZIONI UNITE: Cassazione civile, sez. un., 13/09/2016, n. 17989
3. LE SEZIONI UNITE FANNO IL PUNTO SULL'ANATOCISMO: Cass., Sez. Un. 4
novembre 2004, n. 21095
4. USURA E INTERESSI MORATORI:
4.1 Cassazione civile, sez. VI, 04/10/2017, n. 23192
4.2 Cass. 9 gennaio 2013, n. 350
5. USURA E COMMISSIONE DI MASSIMO SCOPERTO
5.1. Cass., sezioni unite 20 giugno 2018, n. 16303
6. L’USURA SOPRAVVENUTA
6.1. Cass., sezioni unite, 19 ottobre 2017, n. 24675
7. OBBLIGAZIONI SOLIDALI E CONDOMINIO
7.1 Cass. Sez. Un. 8 aprile 2008 n.9148
7.2 Cass. 29 gennaio 2015, n. 1674
8. LE SEZIONI UNITE SULLE OBBLIGAZIONI SOLIDALI IN TEMA DI ILLECITO
AQUILIANO: Cass. Sez. Un. 15 luglio 2009, n. 16503
9. PATTO COMMISSORIO E PATTO MARCIANO
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9.1 Cass., sez. II, sentenza 21 gennaio 2016, n. 1075
9.2 Cass. sentenza 28 gennaio 2015, n. 1625
9.3 Cass. sentenza 21 maggio 2013, n. 12462
9.4 Cass. sentenza 9 maggio 2013, n. 10986
9.5 Art. 2 del d.l. 59 del 2016
10. FIDEIUSSIONE, CONTRATTO AUTONOMO DI GARANZIA E POLIZZE
FIDEIUSSORIE
10.1 Cass., 14 giugno 2016, n. 12152
10.2 Cassazione civile, sez. I, sentenza 31 luglio 2015 n° 16213
10.3 Corte di cassazione, sez. III civile, sentenza 12 febbraio 2015, n.2762
10.4 Cassazione, Sezioni Unite, 18 febbraio 2010, n. 3947
11. LETTERE DI PATRONAGE
11.1 Corte di cassazione, sez. I civile, sentenza 9 febbraio 2016, n.2539
11.2 Cassazione civile, sez. III, 26/01/2010, n. 1520
ULTERIORI ARGOMENTI SPECIALISTICI DI PARTICOLARE INTERESSE
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OBBLIGAZIONI, VINCOLI NON GIURIDICI E OBBLIGAZIONI NATURALI
- Nozione di obbligazione e rapporto con i vincoli non giuridici e le obbligazioni naturali
(Cass. Sez. 1 - , Ordinanza n. 30114 del 14/12/2017; Cass. Sez. 1 - , Ordinanza n. 15954 del
27/06/2017);
- Obbligazione naturale, liberalità d’uso e donazione rimuneratoria (Cass., 30 settembre 2016,
n. 19578)
- Caratteristiche e regime dell’obbligazione naturale: obbligazione imperfetta o obbligazione
non giuridica?
- Obbligazione naturale e convivenza di fatto (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11330 del
15/05/2009; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 1277 del 22/01/2014; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 1266
del 25/01/2016). L’incidenza della legge Cirinnà 76/2016 sulle unioni civili.;
- trasporto oneroso, gratuito e di cortesia (Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 15313 del
20/06/2017; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 21389 del 08/10/2009; Cass. Sez. 3, Sentenza n.
17848 del 22/08/2007).
CLASSIFICAZIONI DELLE OBBLIGAZIONI
In base all’oggetto; positive e negative; generiche, generiche limitate e specifiche; fungibili e
infungibili; di dare , fare e non fare; le obbligazioni oggettivamente complesse (alternative,
facoltative, cumulative); divisibili e non
In base al tipo di soggetto: le obbligazioni professionali sono di mezzi o di risultato?
In base al numero dei soggetti: obbligazioni semplici e obbligazioni plurisoggettive (solidali e
parziarie)
In base al ruolo nell’economia del rapporto: obbligazioni principali, accessorie e sussidiarie.
Le obbligazioni di garanzia: caratteristiche generali, obbligazioni tipiche e atipiche. Casistica:
patto commissorio, contratto autonomo di garanzia, lettere di patronage. Le obbligazioni contigue
alla fideiussione, le obbligazioni di garanzia nell’assicurazione e nella vendita.
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LE OBBLIGAZIONI CUSTODIALI
- La custodia come fonte di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale (artt. 1177 e 2051
c.c.);
- Obbligazioni custodiali autonome ed accessorie: deposito, parcheggio, ormeggio, vigilanza
(Cass. [ord.] 11 gennaio 2018, n. 486; Cass., 28 ottobre 2014, n. 22807; Cass., 13 febbraio
2013, n. 3554; Cass. [ord.] 14 maggio 2018, n. 11671;
- La responsabilità ex recepto: il traporto di cose (art. 1693 c.c.), il deposito in albergo (art.
1785 c.c.); il deposito nei magazzini generali (art. 1787 c.c.), il deposito nelle cassette di
sicurezza (art. 1839 c.c.)
LE OBBLIGAZIONI SOLIDALI
- Nozione. Teorie sulla nozione di solidarietà (tesi della contitolarità e tesi della equivalenza);
- Le obbligazioni soggettivamente complesse “ad interesse comune” e “ad interesse
unisoggettivo”
- Solidarietà e sussidiarietà (Cass. Sez. 2 - , Ordinanza n. 22672 del 27/09/2017; Cass. Sez. U
- , Sentenza n. 22082 del 22/09/2017; Cass. Sez. 1 - , Sentenza n. 21567 del 18/09/2017;
Cass. Sez. 1, Sentenza n. 20891 del 31/07/2008; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 19985 del
30/08/2013);
- Rapporto con il condominio (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7459 del 14/04/2015; Cass. Sez. U,
Sentenza n. 9148 del 08/04/2008; Cass. Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 14530 del 09/06/2017;
Cass. Sez. 3 - , Sentenza n. 22856 del 29/09/2017);
- comunione di credito e di debito e comunione ereditaria (Cass Sez. 6 - 2, Ordinanza n.
27417 del 20/11/2017; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15894 del 11/07/2014; Cass. Sez. 1,
Sentenza n. 24449 del 01/12/2015);
- Le obbligazioni di conguaglio dei coeredi sono parziarie o solidali? (Cass., II, 14 dicembre
2009, n. 26170)
- I crediti del de cuius ipso iure dividuntur? (Cass., sez. unite, 28 novembre 2007, n. 24657)
- Solidarietà da concorso di respoonsabilità eterogenee: i presuppsoti (Cass., sez. unite, 15
lkuglio 2009, n. 16503)
- regresso (Cass Sez. 3 - , Ordinanza n. 3404 del 13/02/2018; Cass. 30174 del 2011),
surrogazione e rivalsa (cenni alla disciplina della legge Gelli-Bianco)
- art. 2055 c.c. e responsabilità degli amministratori e dei sindaci (Cass. Sez. 1, Sentenza n.
16952 del 10/08/2016; Cass. Sentenza n. 24715 del 04/12/2015; Cass., Sez. U, Sentenza n.
9100 del 06/05/2015; Cass Sez. 1 - , Sentenza n. 38 del 03/01/2017; Cass. Sez. 1 - ,
Sentenza n. 2500 del 01/02/2018);
- Fideiussione, e contratto autonomo di garanzia (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16825 del
09/08/2016; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 22233 del 20/10/2014; Cass. Sez. U, Sentenza n.
3947 del 18/02/2010). Le garanzie atipiche: polizza fideiussoria, fidejussione indennitaria,
promessa del fatto del terzo, lettere di patronage a contenuto informativo e a contenuto
impegnativo
- Transazione e obbligazioni solidali: Cass., I, 22 marzo 2011, n. 6486;
- Azione revocatoria e obbligazioni solidali : Cass. 22 marzo 2011, n. 6486.
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OBBLIGAZIONI PECUNIARIE
- Nozione (cenni sulle criptovalute).
Il nuovo concetto dematerializzato di obbligazioni pecuniarie
- Adempimento, pagamento con consegna di assegno circolare o bancario (Cass. Sez. Un.
26617/2007; Cass. Sez. Un. 13658/2010 sez. 3, Sentenza n. 14531 del 10/06/2013 Sez. 2,
Sentenza n. 20643 del 30/09/2014);
- Obbligazioni pecuniarie e limitazioni all’uso del danaro contante: art. 1 l. n. 197/1991 (Cass.
23 gennaio 2017, n. 1645);
- Il pagamento mediante carte di credito come delegazione passiva allo scoperto o cessione di
crediti futuri. La responsabilità per indebito utilizzo (d. lgs. 1° marzo 2018, n. 21 e art. 493
bis c.p.)
- Debito di valore e di valuta. In particolare, recesso legale e recesso contrattuale
dell’appaltatore tra debito di valuta e debito di valore: Cass., 7 marzo 2018, n. 5368. La
conversione del debito di valore in debito di valuta
- Il pagamento: sono obbligazioni portabili o chiedibili? Cass. sezioni unite 3 settembre
2016, n. 17989; sez. VI, ord. 4 gennaio 2017, n. 118.
- Interessi corrispettivi, compensativi, moratori;
- Il danno ex art. 1224, comma 2, c.c. : il nuovo regime scolpito da Cass. sezioni unite
19499/2008, basato sulla presunzione iuris tantum di una redditività bari ai rendimenti dei
titoli di Stato di durata non superiore a un annoda
- Anatocismo e usi negoziali e normativi. Anatocismo convenzionale, legale e usuario.
Anatocismo e debiti di valore (Cass., 27 giugno 2017, n. 15944). La capitalizzazione
trimestrale degli interessi bancari: evoluzioni giurisprudenziali e normative: la legge
49/2016. Rilevabilità d’ufficio della nullità. Il regime dell’azione restitutoria. Prescrizione e
anatocismo (Cass. 24418/2010). La legge 49/2016.Contratto autonomo di garanzia ed
eccezione di nullità della clausola anatocistica (cfr., in termini non coincidenti, Cass., 25
agosto 2017, n. 20397 e Cass., 10 gennaio 2018, n. 371).
- Il regime dell’usura: classificazioni (civile e penale; reale e pecuniaria; pecuniaria a
interessi e non; originaria e sopravvenuta). La riforma del 1999 e le successive evoluzioni
normative e giurisprudenziali. Per il calcolo della soglia occorre considerare anche la
clausola di massimo scoperto (Cass., sez. unite 20 giugno 2018, n. 16303). Cumulo di
interessi moratori e corrispettivi per verificare il superamento della soglia. L’usura
sopravvenuta è lecita ed esigibile (Cass., sezioni unite 19 ottobre 2017, n. 24675)’
NOTE INTRODUTTIVE
Le obbligazioni possono essere ricostruite e ordinate sulla base di diversi criteri, aventi riguardo ai
lati soggettivo e oggettivo del rapporto obbligatorio.
Con riferimento alla prestazione che ne costituisce l’oggetto, è possibile distinguere tra obbligazioni
di dare e di fare; obbligazioni generiche e specifiche; obbligazioni fungibili e infungibili.
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Sempre sul piano oggettivo, è possibile individuare le obbligazioni complesse, nel caso in cui
prevedano l’esecuzione di più prestazioni. Tali obbligazioni si articolano a loro volta in alternative,
facoltative e cumulative.
Con riguardo all’oggetto della prestazione, si distinguono – per la particolare rilevanza nel sistema
economico e per gli specifici problemi da esse poste – le obbligazioni pecuniarie.
Peculiare questione posta da tale specie di obbligazioni, di seguito partitamente esaminata nella
selezione giurisprudenziale, concerne l’efficacia estintiva con effetto liberatorio del debitore che
può essere determinata dalla consegna di assegni circolari in luogo del pagamento di denaro
contante.
Tale questione è stata affrontata dalle Sezioni Unite, con sentenza 18 dicembre 2007, n. 26617, che
hanno affermato la natura valoristica delle obbligazioni pecuniarie, nonché la loro specialità
rispetto al genus delle obbligazioni fungibili.
Si è in particolare rilevato come la consegna di assegni circolari, pur non equivalendo a pagamento
a mezzo somme di denaro, estingua l'obbligazione quando il rifiuto del creditore appaia contrario
alle regole di correttezza che gli impongono di prestare collaborazione all'adempimento
dell'obbligazione a norma dell'art. 1175 c.c.
L'orientamento è motivato considerando che gli assegni circolari, in ragione delle modalità di
emissione, assicurano al legittimo portatore il conseguimento della somma di denaro indicata.
Sebbene essi non siano denaro né possano svolgerne la funzione, la facilità della circolazione e la
sicurezza della convertibilità in denaro possono rendere contrario a buona fede e quindi illegittimo
il loro rifiuto da parte del creditore.
Con tale impostazione si introduce nel meccanismo estintivo dell'obbligazione pecuniaria il
principio della correttezza e della buona fede, nella prospettiva di adeguare il dato normativo alle
esigenze della realtà concreta ove la circolazione del denaro a mezzo assegni circolari garantisce
maggiore sicurezza e celerità, svincolandola da un aggancio a substrati fisici.
Con riferimento al piano soggettivo, il rapporto obbligatorio può essere definito complesso allorché
coinvolga più di due soggetti.
Come noto, allorché il creditore sia legittimato a pretendere la prestazione dovuta da uno qualsiasi
dei debitori, con effetto estintivo anche per gli altri, ovvero il debitore si liberi adempiendo
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interamente ad uno qualsiasi dei creditori, si avrà un’ipotesi di obbligazione solidale
(rispettivamente attiva e passiva).
Allorché invece il creditore possa esigere soltanto la parte di debito riferibile al singolo debitore, o
viceversa il debitore possa corrisponderla solo al suo creditore, si avrà un’obbligazione parziaria, a
sua volta distinguibile in obbligazione divisibile ovvero indivisibile.
Particolare rilevanza assume, con riguardo alla necessità di discernere tra obbligazioni solidali e
parziarie, l’approdo ermeneutico cui sono pervenute le Sezioni Unite con la sentenza 8 aprile 2008
n. 9148, ove, ritenuto che la solidarietà passiva, in linea di principio, esige la sussistenza non
soltanto della pluralità dei debitori e della identica causa dell'obbligazione, ma altresì della
indivisibilità della prestazione comune, si è concluso che in mancanza di quest'ultimo requisito e in
difetto di una espressa disposizione di legge, prevalga l’intrinseca parziarietà della obbligazione.
Con riguardo al momento adempitivo dell’obbligazione, particolare importanza riveste il disposto
dell’art. 2740 c.c., ove si stabilisce che “Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni
con tutti i suoi beni presenti e futuri”.
A fianco a tale garanzia, definita generica e avente per oggetto l’intero compendio patrimoniale del
debitore, l’ordinamento contempla le garanzie patrimoniali specifiche, con riferimento alla
categoria di diritti e obblighi accessori preordinati ad assicurare l’adempimento delle obbligazioni.
Le caratteristiche di tali garanzie, articolate in reali e personali (queste ultime tipiche e atipiche),
sono esaminate nella selezione giurisprudenziale.
Deve comunque mettersi sin da ora in luce che, al fine di contemperare la tutela degli interessi
creditori con quelli del debitore, nonché al fine di salvaguardare il principio della par condicio
creditorum, il Codice civile contempla il divieto di patto marciano, ossia di quel patto con il quale si
conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa
data in garanzia passi al creditore. Tale patto è nullo in virtù del disposto dell’art. 2744 c.c.
Diverso dal patto commissorio è il patto marciano, alla cui stregua il trasferimento del bene
costituito in garanzia è subordinato alla stima del suo valore ad opera di un terzo al momento
dell’inadempimento, così che l’eventuale valore eccedente rispetto al credito rimanga nella sfera
giuridica del debitore, per tal via non depauperato, insieme agli altri creditori che eventualmente
concorrono sul suo patrimonio, dalla perdita di tale valore.
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A tal fine, particolarmente rilevante è quanto statuito dalla Corte di Cassazione con sentenza 21
gennaio 2016, n. 1075, ove si è affermato che l’art. 2744 c.c., sancendo il divieto del patto
commissorio, postula che il trasferimento della proprietà della cosa sia sospensivamente
condizionato al verificarsi dell'evento futuro ed incerto del mancato pagamento del debito,
sicché detto patto non è configurabile qualora il trasferimento avvenga, invece, allo scopo di
soddisfare un precedente credito rimasto insoluto.
Nella specie, la Corte di Cassazione ha ritenuto congruamente motivata la decisione impugnata che
aveva escluso che l'operazione fosse finalizzata ad uno scopo di garanzia in quanto parte del prezzo
della compravendita era stato utilizzato per ripianare debiti scaduti verso l'amministratore della
società acquirente e nei confronti di terzi, mentre per i debiti non ancora esigibili nei confronti di
terze società, la rateizzazione mensile del prezzo residuo poteva considerarsi una delegazione di
pagamento di tali preesistenti obbligazioni da parte del "debitor debitoris".
Diversamente, la vendita con patto di riscatto o di retrovendita stipulata fra il debitore ed il
creditore, ove determini la definitiva acquisizione della proprietà del bene in mancanza di
pagamento del debito garantito, è nulla per frode alla legge, in quanto diretta ad eludere il divieto
del patto commissorio.
Principale elemento sintomatico della frode è costituito dalla sproporzione tra l'entità del debito e il
valore dato in garanzia, in quanto il legislatore, nel formulare un giudizio di disvalore nei riguardi
del patto commissorio, ha presunto, alla stregua dell'"id quod plerumque accidit", che in siffatta
convenzione il creditore pretenda una garanzia eccedente il credito, sicché, ove questa sproporzione
manchi - come nel pegno irregolare, nel riporto finanziario e nel cosiddetto patto marciano (ove al
termine del rapporto si procede alla stima del bene e il creditore, per acquisirlo, è tenuto al
pagamento dell'importo eccedente l'entità del credito) - l'illiceità della causa è esclusa.
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Selezione giurisprudenziale
1. LA NUOVA ESSENZA VALORISTICA DELLE OBBLIGAZIONI PECUNIARIE
(SU ASSEGNO CIRCOLARE): Cass. Sez. Un. 18 dicembre 2007, n. 26617
NOTA INTRODUTTIVA
Nel nuovo regime dematerializzato dell’obbligazione pecuniaria, il solo fatto dell'adempimento, da
parte del debitore, della propria obbligazione pecuniaria con un altro sistema di pagamento
(ovverosia di messa a disposizione del "valore monetario" spettante) - sistema che, comunque,
assicuri ugualmente la disponibilità della somma dovuta - non legittima affatto il creditore a
rifiutare il pagamento stesso essendo all'uopo necessario che il rifiuto sia sorretto anche da un
giustificato motivo, che il creditore deve allegare ed all'occorrenza anche provare (in applicazione
del suesposto principio, la Corte ha rigettato il ricorso di parte creditrice avverso la decisione dei
giudici del merito, secondo cui il pagamento mediante assegno bancario in luogo di denaro
contante era da considerarsi idoneo ad estinguere l'obbligazione, anche in assenza di previo
accordo tra le parti, mentre l'ingiustificato rifiuto della creditrice di ricevere tale assegno era da
ritenersi contrario ai principi di correttezza e buona fede).
Nelle obbligazioni pecuniarie, il cui importo sia inferiore a 12.500 euro o per le quali non sia
imposta per legge una diversa modalità di pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta,
in moneta avente corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno circolare; nel primo
caso il creditore non può rifiutare il pagamento, come, invece, può nel secondo solo per giustificato
motivo da valutare secondo la regola della correttezza e della buona fede oggettiva; l'estinzione
dell'obbligazione con l'effetto liberatorio del debitore si verifica nel primo caso con la consegna
della moneta e nel secondo quando il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica
della somma di denaro, ricadendo sul debitore il rischio dell'inconvertibilità dell'assegno.
2. Il motivo pone la questione se nelle obbligazioni pecuniarie abbia efficacia estintiva solo il
pagamento in moneta contante, oppure anche mediante consegna di assegni circolari.
La questione si risolve in quella se il creditore possa rifiutare senza giustificato motivo il
pagamento che il debitore intenda effettuare con assegni circolari e pretendere che avvenga
con la corresponsione di denaro contante, pena l'inadempimento e gli effetti conseguenti di
"mora debendi".
Il tema dell'indagine è quindi il carattere obbligatorio della modalità del pagamento con
dazione di moneta avente corso legale e correlativamente la rifiutabilità di mezzi alternativi di
pagamento.
(omissis)
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3. Secondo l'orientamento largamente prevalente nella giurisprudenza di questa Corte l'invio di
assegni circolari o bancari da parte del debitore obbligato al pagamento di somme di denaro
si configura come "datio in solutum" o più precisamente come proposta di "datio pro
solvendo", la cui efficacia liberatoria dipende dal preventivo assenso del creditore (che può
manifestarsi anche con comportamento concludente) ovvero dalla sua accettazione che è
ravvisabile quando trattenga e riscuota l'assegno; in tale ipotesi la prestazione diversa da quella
dovuta è da ritenere accettata con riserva, quanto al definitivo effetto liberatorio, dell'esito della
condizione "salvo buon fine" o "salvo incasso" inerente all'accettazione di un credito anche
cartolare, in pagamento dell'importo dovuto in numerario.
3.1. L'orientamento risale alla sentenza 22.7.1973, n. 2200, ed è stato seguito dalle sentenze
14.4.1975, n. 1412; 3.7.1980, n. 4205; 5.1.1981, n. 24; 16.2.1982, n. 971; 8.1.1987, n. 17;
19.7.1993, n. 8013; 3.2.1995, n. 1326; 3.4.1998, n. 3427; 21.12.2002, n. 18240; 10.2.2003, n. 1939;
10.6.2005, n. 12324; 14.2.2007, n. 3254.
La sua più completa espressione è nella sentenza 10.6.2005, n. 12324, il cui "iter" argomentativo si
articola nelle seguenti proposizioni.
Il dato letterale dell'art. 1277, comma 1, c.c. comporta che i debiti pecuniari si estinguono con
moneta avente corso legale; sebbene l'assegno sia bancario che circolare costituisca, a differenza
della cambiale, mezzo di pagamento, la consegna o trasmissione di esso, salva diversa volontà delle
parti, si intende fatta "pro solvendo" e non "pro soluto" con esclusione dell'immediato effetto
estintivo del debito; l'invio di assegno circolare in luogo della somma di denaro configura
violazione sia degli artt. 1277 e 1197 c.c. (rappresentando una "datio pro solvendo" in assenza di
consenso del creditore) che dell'art. 1182 c.c. (secondo il quale l'obbligazione avente ad
oggetto denaro deve essere adempiuta al domicilio del creditore) in quanto comporta la sostituzione
del domicilio del creditore con la sede dell'istituto bancario presso cui è riscuotibile l'assegno; l'art.
1277 c.c. è norma derogabile che cessa di operare, rendendo inapplicabile il principio secondo cui il
creditore di somme di denaro non è tenuto ad accettare in pagamento titoli di credito anche se
assistiti da particolari garanzie di solvibilità dell'emittente come gli assegni circolari, quando esista
una manifestazione di volontà espressa o presunta del creditore in tale senso; non si può ritenere che
la consegna di assegni circolari, pur non equivalendo al pagamento in contanti, estingue
l'obbligazione quando il rifiuto del creditore appare contrario alle regole di correttezza che gli
impongono di prestare la sua collaborazione ai sensi dell'art. 1175 c.c. in quanto la collaborazione è
dovuta solo per ricevere l'oggetto della prestazione e non un oggetto diverso; i principi sopra esposti
valgono se il debito pecuniario non supera l'importo di euro 12.500; se lo supera vige una
particolare disciplina (d.l. 143/1991 convertito in L. 197/1991) che conserva, tuttavia, piena valenza
all'art. 1227.
3.2. Il concetto fondamentale è che l'adempimento dell'obbligazione pecuniaria avviene attraverso il
trasferimento della moneta contante attuato con la consegna materiale di pezzi monetari nelle mani
del creditore.
L'obbligazione pecuniaria è assimilata al debito di dare una quantità di cose fungibili (i pezzi
monetari).
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La titolarità della disponibilità monetaria è collegata al possesso e la sua circolazione importa la
dazione di pezzi monetari considerati quali cose da trasferire in proprietà al creditore.
Come è stato osservato, l'adempimento con denaro contante realizza l'attribuzione della moneta al
creditore con gli strumenti del terzo libro del codice civile attraverso le categorie del possesso e
della proprietà.
4. Secondo altro orientamento assolutamente minoritario nella giurisprudenza di questa Corte la
consegna di assegni circolari, pur non equivalendo a pagamento a mezzo somme di denaro,
estingue l'obbligazione quando il rifiuto del creditore appare contrario alle regole di
correttezza che gli impongono di prestare collaborazione all'adempimento dell'obbligazione a
norma dell'art. 1175 c.c.
Sono espressive di questo orientamento le sentenze 16.2.1998, n. 1351; 7.7.2003, n. 10695.
L'orientamento è motivato considerando che gli assegni circolari in ragione delle modalità di
emissione assicurano al legittimo portatore il conseguimento della somma di denaro indicata.
Sebbene essi non siano denaro né possano svolgerne la funzione, la facilità della circolazione e la
sicurezza della convertibilità in denaro possono rendere contrario a buona fede e quindi illegittimo
il loro rifiuto da parte del creditore.
Pertanto, se il creditore non ha un apprezzabile interesse a ricevere il denaro contante né ha
ragione di dubitare della regolarità ed autenticità degli assegni, la consegna di essi estingue
l'obbligazione di pagamento sia pure con la clausola implicita del buon fine.
L'obiezione che il creditore deve recarsi presso la banca per riscuotere l'assegno, mentre di
regola ha diritto di ricevere la prestazione al suo domicilio, è superata con il riferimento alla
crescente considerazione sociale degli assegni circolari e con il fatto che normalmente il creditore
ha un conto bancario sul quale deposita denaro e titoli.
4.1. La valutazione si sposta dal comportamento del debitore a quello del creditore ed ha come
oggetto la verifica della legittimità del rifiuto del pagamento a mezzo assegno circolare alla luce del
principio della correttezza e della buona fede oggettiva.
Il principio, desunto dall'art. 1175 (che impone l'obbligo di comportarsi secondo le regole della
correttezza) e dall'art. 1375 c.c. (che stabilisce che il contratto deve essere eseguito secondo buona
fede), costituisce il limite oltre il quale il rifiuto del creditore diventa illegittimo ed il pagamento
con assegno circolare spiega efficacia solutoria salvo buon fine.
Con tale impostazione si introduce nel meccanismo estintivo dell'obbligazione pecuniaria il
principio della correttezza e della buona fede nella prospettiva di adeguare il dato normativo
alle esigenze della realtà concreta dove la circolazione del denaro a mezzo assegni circolari
garantisce maggiore sicurezza e celerità, svincolandola da un aggancio a substrati fisici.
4.2. In dottrina si è osservato che sulla base del criterio della correttezza dell'adempimento si
possono raggiungere i medesimi risultati dell'ordinamento tedesco che al § 362 del BGB stabilisce
il principio che il rapporto obbligatorio si estingue quando la prestazione dovuta ha efficacia per il
creditore e, cioè, quando si è definitivamente consolidata nel patrimonio dello stesso; questo
principio ha consentito alla giurisprudenza tedesca di affermare che il pagamento eseguito mediante
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mezzi alternativi (nel caso mediante bonifico bancario) diventa definitivamente efficace per il
creditore quando la somma di denaro entra nella sua piena e libera disponibilità (BGH 28.10.1998
in Neue Juristiche Wochenschrift, 1999, 210).
4.3. Costituisce riflesso dell'orientamento minoritario l'affermazione contenuta nella sentenza di
questa Corte 6.9.2004, n. 17961, secondo la quale l'assegno circolare è considerato a tutti gli effetti
equivalente al denaro contante, per cui il pagamento effettuato tramite la consegna di tale assegno
estingue immediatamente l'obbligazione.
Si tratta, peraltro, di un "obiter" privo di supporto giustificativo.
Contiene una chiara esposizione dell'orientamento la sentenza 19.5.2006, n. 11851, laddove rileva
che questa Corte non ha affermato che l'assegno circolare costituisce un mezzo di pagamento, ma
soltanto che il rifiuto di esso nei rapporti tra debitore e creditore può essere contrario al principio di
buona fede, stante la sicurezza del buon fine ed il minimo aggravio per il creditore, pur senza
prendere posizione sulla questione ed anzi confermando che l'assegno circolare rimane un titolo di
credito con tutte le conseguenze che ne derivano in base alla legge sulla circolazione del titolo.
Condivide l'orientamento minoritario la sentenza 19.12.2006, n. 27158, secondo la quale, se è vero
che la consegna di un assegno circolare al creditore non equivale alla consegna di denaro contante,
è altrettanto vero che, costituendo l'assegno circolare un mezzo di pagamento e non sussistendo
alcun pericolo di mancanza della provvista presso la banca obbligata al pagamento, la "datio" di tale
assegno secondo gli usi negoziali, come è prassi per i pagamenti delle società di assicurazione o,
comunque, come accettata dal creditore, è sicuramente idonea ad estinguere l'obbligazione senza
che occorra un preventivo accordo delle parti in tale senso o il rilascio di una quietanza liberatoria.
5. Nella dottrina più recente prevale la tesi che la regola, secondo la quale il denaro contante è
l'unico mezzo legale di pagamento delle obbligazioni pecuniarie, va "scardinata" e va riconosciuta
efficacia solutoria a mezzi alternativi di pagamento che eliminano il trasferimento materiale di
moneta, come l'assegno circolare, dovendosi intendere per "somma di denaro" la funzione ideale del
mezzo monetario.
In questo ambito si distingue fra moneta scritturale incentrata sulle scritturazioni bancarie, che
riposa in definitiva sulla garanzia che offrono le banche, ed altri sistemi di pagamento, come la
cambiale, precisandosi che l'effetto satisfattorio si realizza con la creazione della disponibilità
monetaria a favore del creditore.
L'idea di fondo è la smaterializzazione del denaro con trasformazione del diritto reale sui pezzi
monetari in diritto di credito ad una determinata somma di denaro.
Nella prospettiva della smaterializzazione il principio nominalistico (in base al quale il debitore si
libera dal proprio debito con una quantità di moneta corrispondente a quella "nominalmente" dovuta
a prescindere dalle variazioni del suo potere di acquisto) riguarda la disciplina dei mezzi di
pagamento e, cioè, la determinazione della quantità della somma da offrire in pagamento e non la
qualità dei mezzi di pagamento.
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La linea di tendenza è verso l'eliminazione degli spostamenti di moneta contante, oltre che per
esigenze di semplificazione della tecnica dei pagamenti (evitando l'impiego di notevoli quantità di
numerario), perché la custodia, la circolazione e lo scambio attraverso moneta contante sono
valutati inefficienti ed insicuri specialmente per importi rilevanti.
L'adempimento dell'obbligazione pecuniaria è inteso non come atto materiale di consegna
della moneta contante, bensì come prestazione diretta all'estinzione del debito, nella quale le
parti debbono collaborare osservando un comportamento da valutare per il creditore secondo
la regola della correttezza e per il debitore secondo la regola della diligenza.
Ove avvenga con mezzi diversi, l'adempimento si può considerare efficace e liberatorio solo quando
realizza i medesimi effetti del pagamento per contanti e, cioè, quando pone il creditore nelle
condizioni di disporre liberamente della somma di denaro, senza che rilevi se la disponibilità sia
riconducibile ad un rapporto di credito verso una banca presso la quale la somma sia stata
accreditata.
Si è osservato che nell'ordinamento manca una regola di parificazione della moneta avente corso
legale a quella scritturale; tale regola si può, però, desumere da un'abbondante legislazione speciale
che si inserisce nella generale tendenza alla decodificazione caratteristica dell'epoca attuale.
6.1. Nell'interpretazione della normativa codicistica sul sistema di pagamento dei debiti pecuniari
non si può prescindere dai numerosi interventi legislativi infittitisi negli ultimi tempi che hanno
introdotto sistemi alternativi, rendendoli frequentemente obbligatori.
In questo ambito assumono particolare rilievo il d.l. 3.5.1991, n. 143, convertito con modificazioni
in L. 5.7.1991, n. 197, che pone il divieto di effettuare pagamenti mediante trasferimento di denaro
contante e titoli al portatore per somme superiori ad euro 12.500, ed il d. l. 4.7.2006, n. 223,
convertito con modificazioni in L. 4.8.2006, n. 248, secondo cui i compensi in denaro per l'esercizio
di arti e professioni sono riscossi esclusivamente mediante assegni non trasferibili o bonifici o altre
modalità di pagamento bancario o postale nonché mediante sistemi di pagamento elettronici, salvo
che per importi inferiori ad euro 100.
A seguito di questi interventi l'area di applicazione della normativa codicistica si è a tal punto
ristretta che il sistema di pagamento da essa previsto è diventato addirittura marginale.
Né vale l'osservazione che siccome il d.l. 143/1991 conserva valenza all'art. 1277 c.c. il creditore ha
il diritto di pretendere il pagamento in moneta avente corso legale, sia pure attraverso
l'intermediario abilitato che subentra nella posizione del debitore (Cass. 10.6.2005, n. 12324), in
quanto la convertibilità in denaro è tipica di qualsiasi sistema alternativo di pagamento, con la
precisazione che il rischio di convertibilità e, cioè, l'eventualità che la banca non sia in grado di
garantire la conversione in moneta legale dipende in definitiva dal grado di affidabilità della banca.
6.2. La disciplina del sistema codicistico di pagamento delle obbligazioni pecuniarie è contenuta
negli artt. 1277, 1182, 1197 c.c.
6.3. Come già detto, l'interpretazione dell'art. 1277 privilegiata dalla prevalente giurisprudenza di
questa Corte è che i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato ed il
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creditore può rifiutare qualsiasi altro mezzo di pagamento, compreso l'assegno circolare che pure è
assistito da una particolare affidabilità e sicurezza in relazione alle modalità di emissione.
In dottrina si è osservato che l'art. 1277 non riguarda le modalità di pagamento, ma il sistema
valutario nazionale e la necessità, quindi, che i mezzi monetari impiegati si riferiscano ad esso,
evidenziando che secondo la concezione moderna il denaro è unità ideale di valore cui
l'ordinamento attribuisce la funzione di unità di misura dei valori monetari o secondo una
concezione più raffinata "ideal unit", astratta unità ideale monetaria creata dallo Stato.
6.4. Considerato che nell'ambiente socio-economico l'assegno circolare e quello bancario
costituiscono mezzi normali di pagamento; che la circolazione del denaro tende a realizzarsi con
strumenti sempre più sofisticati affrancati dalla consegna materiale di numerario per ragioni di
sicurezza e velocizzazione dei rapporti; che collateralmente alla disciplina codicistica è cresciuta
una legislazione che ha introdotto sistemi alternativi di pagamento, rendendoli spesso obbligatori, si
impone un'interpretazione evolutiva, costituzionalmente orientata, dell'art. 1277 che superi il dato
letterale e, cogliendone l'autentico senso, lo adegui alla mutata realtà.
6.5. Si ritiene, pertanto, che l'espressione "moneta avente corso legale nello Stato al momento
del pagamento" significa che i mezzi monetari impiegati si debbono riferire al sistema
valutario nazionale, senza che se ne possa indurre alcuna definizione della fattispecie del
pagamento solutorio.
Ed in altri termini la moneta avente corso legale non è l'oggetto del pagamento che è rappresentato
dal valore monetario o quantità di denaro.
6.6. Con questa interpretazione dell'art. 1277 risultano ammissibili altri sistemi di pagamento,
purché garantiscano al creditore il medesimo effetto del pagamento per contanti e, cioè, forniscano
la disponibilità della somma di denaro dovuta.
Tale effetto sicuramente produce l'assegno circolare con il quale, stante la precostituzione della
provvista, tramite l'intermediazione di una banca si realizza il trasferimento della somma di denaro
con la messa a disposizione del creditore.
Il rischio di convertibilità e, cioè, l'eventualità che per qualsiasi ragione la banca non sia in grado di
assicurare la conversione dell'assegno in moneta legale rimane a carico del debitore, il quale si
libera solo con il buon fine dell'operazione.
6.7. Occorre precisare che lo schema della "datio pro solvendo" con l'applicazione della regola
stabilita dall'art. 1197 c.c. rimane estraneo all'impiego del mezzo alternativo di adempimento in
quanto la moneta avente corso legale non è l'oggetto del pagamento, costituito dal valore monetario
o quantità di denaro, per cui tale mezzo non è niente altro che una diversa modalità di
adempimento.
Diversamente opinando, si perverrebbe alla inaccettabile conclusione che sistemi diversi di
pagamento, imposti per somme superiori a 12.500 euro, non siano ammessi per somme inferiori.
6.8. La raggiunta conclusione non trova ostacolo nell'art. 1182 c.c. sul luogo dell'adempimento.
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Vale in proposito considerare che l'obbligazione pecuniaria non è assimilabile all'obbligazione di
dare cose fungibili, sicché non risulta perfettamente adattabile lo schema di tale tipo di
obbligazione, mentre assume rilevanza l'interesse del creditore alla giuridica disponibilità della
somma invece che al possesso dei pezzi monetari.
In questa prospettiva il concetto di domicilio del creditore non coincide con il suo domicilio
anagrafico soggettivamente riconducibile alla persona fisica, ma deve essere oggettivizzato e può
individuarsi nella sede (filiale, agenzia o altro) della banca presso la quale il creditore ha un conto.
6.9. Mentre se il debitore paga in moneta avente corso legale il debito pecuniario di importo
inferiore ad euro 12.500 o per il quale non sia imposta una diversa modalità di pagamento, il
creditore non può rifiutare il pagamento e l'effetto liberatorio si verifica al momento della consegna
della somma di denaro, se il debitore paga con assegno circolare o con altro sistema che assicuri
ugualmente la disponibilità della somma dovuta, il creditore può rifiutare il pagamento solo per
giustificato motivo che deve allegare ed all'occorrenza anche provare; in questo caso l'effetto
liberatorio si verifica quando il creditore acquista la concreta disponibilità della somma.
La valutazione del comportamento del creditore va fatta in base alla regola della correttezza e della
buona fede oggettiva.
7. Il contrasto va, pertanto, risolto nel senso che "nelle obbligazioni pecuniarie, il cui importo sia
inferiore a 12.500 euro o per le quali non sia imposta per legge una diversa modalità di
pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente corso legale nello
Stato o mediante consegna di assegno circolare; nel primo caso il creditore non può rifiutare il
pagamento, come, invece, può nel secondo solo per giustificato motivo da valutare secondo la
regola della correttezza e della buona fede oggettiva; l'estinzione dell'obbligazione con
l'effetto liberatorio del debitore si verifica nel primo caso con la consegna della moneta e nel
secondo quando il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica della somma di
denaro, ricadendo sul debitore il rischio dell'inconvertibilità dell'assegno".
2. IL LUOGO DI ADEMPIMENTO DELLE OBBLIGAZIONI PECUNIARIE.
L’INTERVENTO DELLE SEZIONI UNITE: Cassazione civile, sez. un., 13/09/2016, n. 17989
Nota introduttiva e massima
Con questa sentenza importante le Sezioni unite, sanandoun contrasto giurisprudenziale, hanno
chiarito che Le obbligazioni pecuniarie da adempiere al domicilio del creditore a norma dell'art.
1182, comma 3, c.c. sono - agli effetti sia della mora "ex re", sia del "forum destinatae
solutionis" - esclusivamente quelle liquide, delle quali cioè il titolo determini l'ammontare o
indichi criteri determinativi non discrezionali; ai fini della competenza territoriale, i presupposti
della liquidità sono accertati dal giudice in base allo stato degli atti, ai sensi dell'art. 38, comma 4,
c.p.c.
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Sintesi della decisione
Approdata la questione al vaglio delle Sezioni Unite, la Corte, in via preliminare, ripercorre i due
principali orientamenti in ordine al concetto di obbligazione pecuniaria rilevante ai sensi
dell’articolo 1182 del codice di procedura civile, comma 3:
a) secondo un primo e tradizionale indirizzo (ex multis, Cass. 22326/2007), ove la somma di
danaro oggetto dell’obbligazione debba essere ancora determinata dalle parti o, in loro sostituzione,
liquidata dal giudice mediante indagini ed operazioni diverse dal semplice calcolo aritmetico, trova
applicazione l’articolo 1182, comma 4, secondo cui l’obbligazione deve essere adempiuta al
domicilio che il debitore ha al tempo della scadenza;
b) in virtù di un secondo orientamento (ex plurimis, Cass. 7674/2005; 12455/2010; 10837/2011), il
forum destinatae solutionis previsto dall’articolo 1182, comma 3, è applicabile in tutte le cause
aventi ad oggetto una somma di denaro qualora l’attore abbia richiesto il pagamento di una somma
determinata, non incidendo sulla individuazione della competenza territoriale la maggiore o minore
complessità dell’indagine sull’ammontare effettivo del credito, che attiene esclusivamente alla
successiva fase di merito. Più in particolare, secondo quest’ultimo orientamento, è irrilevante che la
prestazione richiesta non sia convenzionalmente prestabilita, essendo sufficiente ad integrare il
requisito della liquidità dell’obbligazione ed a renderla, dunque, “portabile”, che l’attore abbia agito
per il pagamento di una somma da lui puntualmente indicata.
Così individuati i termini del contrasto, la Suprema Corte, con una precisazione importante,
perimetra la base del suo intervento stabilendo che «il contrasto non riguarda la necessità del
requisito della liquidità affinché un’obbligazione pecuniaria debba essere adempiuta al domicilio
del creditore; riguarda piuttosto il modo di intendere tale requisito».
Tanto premesso, le Sezioni Unite ritengono che «il contrasto così determinatosi rispetto
all’orientamento, in precedenza costante, che richiedeva la effettiva liquidità dell’obbligazione, in
base al titolo, ai fini della qualificazione dell’obbligazione stessa come portabile, per gli effetti di
cui al combinato disposto dell’articolo 1182 del codice civile, comma 3, e articolo 20 del codice di
procedura civile, vada risolto confermando l’orientamento tradizionale».
La Corte rileva che le obbligazioni pecuniarie illiquide hanno una “particolarità”, posto che ai fini
dell’adempimento del debitore è necessario un “passaggio ulteriore”, e, cioè, un ulteriore titolo,
convenzionale o giudiziale.
Questa particolarità è foriera di importanti conseguenze rispetto alla disciplina di tale categoria di
obbligazioni.
Ed invero, la nozione di obbligazione portabile, di cui all’articolo 1182 del codice civile, comma 3,
rileva non soltanto ai fini dell’individuazione del forum destinatae solulionis contemplato
dall’articolo 20 del codice di procedura civile, seconda parte, ma anche ai fini del prodursi della
mora ex re ai sensi dell’articolo 1219 del codice civile, comma 2, n. 3, che esclude la necessità della
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costituzione in mora “quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al
domicilio del creditore”, come appunto stabilito per le obbligazioni pecuniarie dall’articolo 1182,
comma 3, cit..
Ebbene, la Corte nega che la mora ex re possa verificarsi anche per le obbligazioni pecuniarie
illiquide.
Infatti, se tra le obbligazioni pecuniarie “portabili” contemplate da tale disposizione rientrassero
quelle illiquide, la mora – e con essa la responsabilità ai sensi dell’articolo 1224 del codice civile –
scatterebbe automaticamente anche a carico del debitore la cui prestazione non sia in concreto
possibile perché l’ammontare della sua prestazione è ancora incerto: il che, sottolineano i Giudici di
legittimità, «sarebbe ingiustificato, nonché contrario al sistema, il quale esclude la responsabilità
del debitore la cui prestazione sia impossibile per causa a lui non imputabile (articolo 1218 c.c.)».
Questa “interpretazione restrittiva” della nozione di obbligazione portabile risulta, inoltre, coerente
anche con il favor debitoris che ispira la regola generale di cui all’articolo 1182, comma 2, n. 4 cit.
Inoltre - prosegue il Supremo Collegio - «le indicate esigenze di protezione del debitore, che sono a
fondamento dell’interpretazione restrittiva dell’articolo 1182 del codice civile, comma 3,
richiedono evidentemente che la liquidità del credito sia ancorata a dati oggettivi, mentre
sarebbero frustrate se essa si facesse coincidere con la pura e semplice precisazione, da parte
dell’attore, della somma di denaro dedotta in giudizio, pur in mancanza di indicazioni nel titolo….
In tal modo, infatti, non il dato oggettivo della liquidità del credito radicherebbe la controversia
presso il forum creditoris, bensì il mero arbitrio del creditore stesso, il quale scelga di indicare una
determinata somma come oggetto della sua domanda giudiziale, con conseguente lesione anche del
principio costituzionale del giudice naturale».
Alla stregua delle precedenti argomentazioni ed in sostanziale adesione dell’orientamento
tradizionale, per i Giudici Supremi rientrano nella previsione di cui all’articolo 1182 del
codice civile, comma 3, esclusivamente le obbligazioni pecuniarie liquide, il cui ammontare,
cioè, sia determinato direttamente dal titolo ovvero possa essere determinato in base ad esso con un
semplice calcolo aritmetico.
Con una “puntualizzazione” importante: «liquidità significa che la somma dovuta risulta dal titolo e
dunque non è necessario, per determinarla, un ulteriore titolo negoziale o giudiziale. L’ammontare
della somma dovuta potrà risultare direttamente dal titolo originario, che la precisi, oppure solo
indirettamente dallo stesso, allorché questo indichi il criterio o i criteri applicando i quali tale
somma va determinata.
Deve trattarsi, però, di criteri stringenti, tali, cioè, che la somma risultante dalla loro applicazione
sia necessariamente una ed una soltanto: questo è ciò che si intende affermare allorché si ammette
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una liquidità scaturente da semplici operazioni aritmetiche. Se, infatti, il risultato dell’applicazione
dei predetti criteri non fosse obbligato, residuando un margine di scelta discrezionale, il credito non
potrebbe dirsi liquido, perché quel margine di discrezionalità non potrebbe essere superato se non
mediante un ulteriore titolo (convenzionale o giudiziale)».
Precisa, inoltre, la Corte che «dovendo la liquidità del credito essere effettiva, il principio che la
competenza va determinata in base alla domanda non può essere esteso sino al punto di consentire
all’attore di dare dei fatti una qualificazione giuridica diversa da quella prevista dalla legge, o di
allegare fatti (ad esempio un contratto che indichi l’ammontare del credito) privi di riscontro
probatorio. Resta fermo, ovviamente, che tali fatti sono accertati dal giudice, ai soli fini della
competenza, allo stato degli atti secondo la regola di cui all’articolo 38 del codice di procedura
civile, u.c.».
Alla luce del delineato iter argomentativo, la Suprema Corte ha, in conclusione, respinto l’istanza di
regolamento, giungendo all’enucleazione del seguente principio di diritto:
«Le obbligazioni pecuniarie da adempiersi al domicilio del creditore, secondo il disposto
dell’articolo 1182 del codice civile, comma 3, sono – agli effetti sia della mora ex re ai sensi
dell’articolo 1219 del codice civile, comma 2, n. 3, sia della determinazione del forum destinatae
solutionis ai sensi dell’articolo 20 del codice di procedura civile, ultima parte, – esclusivamente
quelle liquide, delle quali, cioè, il titolo determini l’ammontare, oppure indichi i criteri per
determinarlo senza lasciare alcun margine di scelta discrezionale, e i presupposti della liquidità sono
accertati dal giudice, ai fini della competenza, allo stato degli atti secondo quanto dispone l’articolo
38 del codice di procedura civile, u.c.».
3. LE SEZIONI UNITE FANNO IL PUNTO SULL'ANATOCISMO: Cass. Sez. Un. 4
novembre 2004, n.21095
Massima e nota di sintesi
La Suprema Corte, pronunciandosi a Sezioni Unite, hanno stabilito che "le clausole di
capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi dovuti dal correntista devono considerarsi nulle
anche se contratte prima dell'orientamento giurisprudenziale che nella primavera del 1999 ne ha
negato la legittimità". In sostanza, la Suprema Corte ha attribuito valore retroativo all'inesistenza
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dell'uso normativo della capitalizzazione triestrale degli interessi. Fino al 1999, l'art. 1283 del
codice civile, il quale prevede che "in mancanza di usi contrari, gli interessi passivi scaduti
possono produrre interessi (anatocisti) solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di
convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei
mesi", era stato interpretato, da pronunzie giurisprudenziali filobancarie, nel senso di poter
attribuire alla locuzione "salvo usi contrari" un valore quasi negoziale. Le Banche, pertanto,
capitalizzavano trimestralmente gli interessi, sfruttando il bisogno dei correntisti di porre in essere
una serie di operazioni bancarie, principalmente prestiti e scopertura di conto corrente. Con le
sentenze n. 2374 e n. 3096 del 1999, il Supremo Giudice aveva già stabilito che "gli usi contrari,
suscettibili di derogare al precetto di cui all'art. 1283 c.c., sono non i meri usi negoziali ex art.
1340 c.c. ma esclusivamente i veri e propri usi normativi, di cui agli articoli 1 e 8 disp. Prel. C.c.,
consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato
comportamento (usus), accompaganato dalla convinzione che si tratta di comportamento (non
dipendente da un mero arbitrio soggettivo) ma giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a
una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell'ordinamento giuridico". Gli "usi" cui
fa riferimento l'art. 1283 cod. civ. sono, dunque, esclusivamente, quelli normativi in senso tecnico.
La motivazione
1. La questione di massima, in ragione della cui particolare importanza gli atti della presente causa
sono stati rimessi a queste Su, ai sensi dell’articolo 374, cpv, Cpc si risolve nello stabilire se -
incontestata la non attualità di un uso normativo di capitalizzazione trimestrale degli interessi
a debito del correntista bancario - sia o non esatto escludere anche che un siffatto uso
preesistesse al nuovo orientamento giurisprudenziale (Cassazione 2374/99 e successive
conformi) che lo ha negato, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con la precedente
giurisprudenza.
(omissis)
4.1. Il parametro di riferimento è costituito dall’articolo 1283 del Cc (Anatocismo) e, in particolare,
dall’inciso “salvo usi contrari” che, in apertura della norma, circoscrive la portata della regola, di
seguito in essa enunciata, per cui «gli interessi scaduti possono produrre interessi [(a)] solo dalla
domanda giudiziale o [(b)] per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre, che si
tratti di interessi dovuti da almeno sei mesi».
4.2. Come è noto, in sede di esegesi della predetta norma, le richiamate sentenze (2374, 3096, 3845)
della primavera del 1999, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con pronunzie del
ventennio precedente (6631/81; 5409183; 4920/87; 3804/88; 2444/89; 7575/92; 9227/95; 3296/97;
12675/98), hanno enunciato il principio - reiteratamente, poi, confermato dalle successive sentenze
12507/99; 6263/01; 1281, 4490, 4498, 8442/02; 2593, 12222, 13739/03, ed al quale ha dato
comunque immediato riscontro anche il legislatore (che, con l’articolo 25 del D.Lgs 342/99 ha,
all’uopo, ridisciplinato le modalità di calcolo degli interessi su base paritaria tra banca e cliente) –
(principio) per cui gli “usi contrari”, idonei ex articolo 1283 Cc a derogare il precetto ivi stabilito,
sono solo gli usi “normativi” in senso tecnico; desumendone, per conseguenza, la nullità delle
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clausole bancarie anatocistiche, la cui stipulazione risponde ad un uso meramente negoziale ed
incorre quindi nel divieto di cui al citato articolo 1283.
4.3. Al di là di varie ulteriori argomentazioni, di carattere storico e sistematico, rinvenibili nelle
pronunzie del nuovo corso, destinate più che altro ad avvalorare il “revirement” giurisprudenziale,
emerge dalla motivazione delle pronunce stesse come, nel suo nucleo logico-giuridico essenziale
l’enunciazione del principio di nullità delle clausole bancarie anatocistiche si ponga come la
conclusione obbligata di un ragionamento di tipo sillogistico. La cui premessa maggiore è
espressa, appunto, dalla affermazione che gli “usi contrari”, suscettibili di derogare al
precetto dell’articolo 1283 Cc, sono non i meri usi negoziali di cui all’articolo 1340 Cc ma
esclusivamente i veri e propri “usi normativi”, di cui agli articoli 1 e 8 disp. prel. Cc,
consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato
comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratta di comportamento (non
dipendente da un mero arbitro soggettivo ma) giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a
una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico (opinio
juris ac necessitatis).
E la cui premessa minore è rappresentata dalla constatazione che «dalla comune esperienza
emerge che i clienti si sono nel tempo adeguati all’inserimento della clausola anatocistica non
in quanto ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe
auspicabile fossero esistenti nell’ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti
dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell’associazione di categoria,
insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva al tempo stesso
presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari.
Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico
in cui, sostanzialmente, consiste l’opinio juris ac necessitatis, se non altro per l’evidente
disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e
interessi dovuti dal cliente».
4.4. Ora di questo sillogismo, che costituisce la struttura portante del nuovo indirizzo, del quale si
sollecita il riesame, neppure la banca ricorrente mette in discussione la premessa maggiore, mentre
quanto alla sua premessa minore la contestazione che ad essa si muove, attiene, sul piano
diacronico, al solo profilo della portata retroattiva che il nuovo indirizzo ha inteso attribuire alla
rilevata inesistenza di un uso normativo in materia di capitalizzazione trimestrale degli interessi
bancari. Si sostiene, infatti, in contrario che la giurisprudenza del ‘99 abbia correttamente accertato
l’inesistenza attuale, ma erroneamente escluso l’esistenza pregressa della consuetudine in parola.
E si auspica per ciò, dunque, che essa vada superata nel senso di constatare che «la
convinzione degli utenti del servizio bancario della normatività dell’uso di capitalizzazione
trimestrale degli interessi, originariamente sussistente, è venuta meno dopo lungo tempo» [id
est: la consuetudine si è estinta per desuetudine in relazione al venire meno della opinio iuris del
comportamento sottostante] «proprio a seguito di quello stesso processo di mutamento di
prospettiva che ha indotto la Cassazione medesima a mutare il proprio precedente
orientamento».
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Ed a sostegno di tale assunto la difesa della ricorrente argomenta: a) che l’opinio iuris della prassi di
capitalizzazione degli interessi dovuti dal cliente sarebbe stata esclusa dalla criticata giurisprudenza
assumendo a parametro un quadro normativo, come evolutosi a partire dai primi anni ‘90, non certo
retrodatabile all’epoca in cui, in un contesto radicalmente diverso, quella prassi si era instaurata,
con adesione degli utenti dei servizi bancari, che ne avrebbero pienamente presupposto la
normatività; b) che, comunque, la stessa precedente giurisprudenza che per un ventennio aveva
reiteratamente ritenuto, ove pur erroneamente, l’esistenza di un uso normativo di capitalizzazione
degli interessi bancari avrebbe, per ciò stesso, costituito “elemento di fondazione o consolidazione
dell’uso stesso”. Nessuno dei riferiti, pur suggestivi, argomenti si lascia però condividere.
4.5. L’evoluzione del quadro normativo - impressa dalla giurisprudenza e dalla legislazione degli
anni ‘90, in direzione della valorizzazione della buona fede come clausola di protezione del
contraente più debole, della tutela specifica del consumatore, della garanzia della trasparenza
bancaria, della disciplina dell’usura ha innegabilmente avuto il suo peso nel determinare la
ribellione del cliente (che ha dato, a sua volta, occasione al revirement giurisprudenziale)
relativamente a prassi negoziali, come quella di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti
alle banche, risolventesi in una non più tollerabile sperequazione di trattamento imposta dal
contraente forte in danno della controparte più debole.
Ma ciò non vuole dire (e il dirlo sconterebbe un evidente salto logico) che, in precedenza, prassi
siffatte fossero percepite come conformi a ius e che, sulla base di una tale convinzione (opinio
iuris), venissero accettate dai clienti. Più semplicemente, di fatto, le pattuizioni anatocistiche,
come clausole non negoziate e non negoziabili, perché già predisposte dagli istituti di credito, in
conformità a direttive delle associazioni di categoria, venivano sottoscritte dalla parte che aveva
necessità di usufruire del credito bancario e non aveva. quindi, altra alternativa per accedere ad un
sistema connotato dalla regola del prendere o lasciare. Dal che la riconducibilità, ab initio, della
prassi di inserimento, nei contratti bancari, delle clausole in questione, ad un uso negoziale e
non già normativo (per tal profilo in contrasto dunque con il precetto dell’articolo 1283 Cc),
come correttamente ritenuto dalle sentenze del 1999 e successive.
4.6. Né è in contrario sostenibile che la “fondazione” di un uso normativo, relativo alla
capitalizzazione degli interessi dovuti alla banca, sia in qualche modo riconducibile alla stessa
giurisprudenza del ventennio antecedente al revirement del 1999. Anche in materia di usi
normativi, così come con riguardo a norme di condotta poste da fonti-atto di rango primario,
la funzione assolta dalla giurisprudenza, nel contesto di sillogismi decisori, non può essere
altra che quella ricognitiva, dell’esistenza e dell’effettiva portata, e non dunque anche una
funzione creativa, della regola stessa.
Discende come logico ed obbligato corollario da questa incontestabile premessa che, in presenza di
una ricognizione, pur reiterata nel tempo, che si dimostri poi però erronea nel presupporre
l’esistenza di una regola in realtà insussistente, la ricognizione correttiva debba avere una
portata naturaliter retroattiva, conseguendone altrimenti la consolidazione medio tempore di
una regola che troverebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenza che, erroneamente
presupponendola, l’avrebbero con ciò stesso creata.
Ciò vale evidentemente, nel caso di specie, anche con riguardo alla giurisprudenza (costituita, per
altro, da solo dieci tralaticie pronunzie nell’arco di un ventennio) su cui fa leva l’istituto ricorrente.
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La quale - a prescindere dalla sua idoneità (tutta da dimostrare e in realtà indimostrata) ad
ingenerare nei clienti una “opinio iuris” del meccanismo di capitalizzazione degli interessi, inserito
come clausola insuscettibile di negoziazione nei controlli stipulati con la banca - non avrebbe
potuto, comunque, conferire normatività ad una prassi negoziale (che si è dimostrato essere) contra
legem.
4.7. Della insuperabile valenza retroattiva dell’accertamento di nullità delle clausole anatocistiche,
contenuto nelle pronunzie del 1999, si è mostrato subito, del resto, ben consapevole anche il
legislatore. Il quale - nell’intento di evitare un prevedibile diffuso contenzioso nei confronti degli
istituti di credito - ha dettato, nel comma 3 dell’articolo 25 del già citato D.Lgs 342/99, una norma
ad hoc, volta appunto ad assicurare validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione degli
interessi inserite nei contratti bancari stipulati anteriormente alla entrata in vigore della nuova
disciplina, paritetica, della materia, di cui ai precedenti commi primo e secondo del medesimo
articolo 25.
Quella norma di sanatoria è stata, però, come noto, dichiarata incostituzionale, per eccesso di
delega e conseguente violazione dell’articolo 77 Costituzione, dal Giudice delle leggi, con
sentenza n. 425 del 2000.
L’eliminazione ex tunc, per tal via, della eccezionale salvezza e conservazione degli effetti delle
clausole già stipulate lascia queste ultime, secondo i principi che regolano la successione delle leggi
nel tempo, sotto il vigore delle norme anteriormente in vigore, alla stregua delle quali, per quanto si
è detto, esse non possono che essere dichiarate nulle, perché stipulate in violazione dell’articolo
1283 Cc (cfr. Cassazione 4490/02).
(omissis)
4. USURA E INTERESSI MORATORI
NOTA INTRODUTTIVA
Il principio del favor debitoris, assurto a criterio generale conformante la disciplina del diritto delle
obbligazioni (come si evince da recenti arresti giurisprudenziali, da ultimo la citata pronuncia delle
Sezioni Unite in tema di obbligazioni “portabili” e “chiedibili” di cui sopra), trova ormai costante
applicazione anche in materia di usura.
In particolare, con riguardo alla determinazione del tasso soglia integrante tale patologica
fattispecie, appare ormai in via di superamento la tesi tradizionale, che escludeva la sommatoria di
interessi corrispettivi e moratori, argomentando principalmente sulla base della diversità di ratio e
funzione dei medesimi (gli interessi corrispettivi come fisiologica remunerazione del capitale
investito, in ottica riequilibratrice, gli interessi moratori quali sanzione imposta a seguito del ritardo
nell’adempimento, secondo una logica prettamente punitiva).
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Le due sentenze di seguito riportate, invece, manifestano una progressiva tendenza
giurisprudenziale protesa all’esaltazione del criterio del favor debitoris, a tutela della parte debole
del rapporto obbligatorio e, per l’effetto, all’ammissibilità del cumulo tra frutti civili corrispettivi e
moratori, con un più agevole superamento della soglia di usurarietà.
4.1 Cassazione civile, sez. VI, 04 ottobre 017, n. 23192
In tema di contratto di mutuo, l'art. 1 della legge n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un
tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia
gli interessi corrispettivi che quelli moratori.
4.2 Cass. 9 gennaio 2013, n. 350
Ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p., e dell'art. 1815 c.c., co. 2, si intendono usurari gli
interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o
comunque convenuti, a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori. Infatti il
riferimento, contenuto nel D.L. n. 394 del 2000, art. 1, co. 1, agli interessi a qualunque titolo
convenuti rende plausibile - senza necessità di specifica motivazione - tale assunto.
3.2.- Quanto al profilo sub b) (usurarietà dei tassi) va rilevato che parte ricorrente deduce che
l'interesse pattuito (inizialmente fisso e poi variabile) era del 10.5%, in contrasto con quanto è
previsto dal D.M. 27 marzo 1998, che indica il tasso praticabile per il mutuo nella misura
dell'8.29%.
Tale tasso dovrebbe ritenersi usurario a norma della L. n. 108 del 1996, art. 1, comma 4, tanto più
ove si consideri che fu richiesto per l'acquisto di un bene primario quale la casa di abitazione e che
dovrebbe tenersi conto della prevista maggiorazione di 3 punti in caso di mora.
La censura sub b), nella parte in cui ripete l'assunto - già correttamente disatteso dalla Corte di
merito - secondo cui la natura usuraria discenderebbe dalla finalità del mutuo, contratto per
l'acquisto della propria casa, è infondata in quanto, ai sensi del nuovo testo dell'art. 644 c.p.,
comma 3, sono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge ovvero "gli
interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo
alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano
comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all'opera
di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o
finanziaria".
E, a tale scopo, non è sufficiente dedurre che il mutuo è stato stipulato per l'acquisto di
un'abitazione.
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La stessa censura (sub b), invece, è fondata in relazione al tasso usurario perchè dalla trascrizione
dell'atto di appello risulta che parte ricorrente aveva specificamente censurato il calcolo del tasso
pattuito in raffronto con il tasso soglia senza tenere conto della maggiorazione di tre punti a titolo di
mora, laddove, invece, ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p., e dell'art. 1815 c.c., comma 2, si
intendono usurari gli interessi che superano il
limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a
qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori (Corte cost. 25 febbraio 2002 n. 29: "il
riferimento, contenuto nel D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, agli interessi a qualunque titolo
convenuti rende plausibile - senza necessità di specifica motivazione - l'assunto, del resto fatto
proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi
moratori"; Cass., n. 5324/2003).
(omissis)
4.- Quanto al secondo motivo, la censura è infondata, posto che, pur trattandosi di questione (di
diritto) rilevabile d'ufficio (nullità della convenzione di interessi usurari), gli elementi in fatto sui
quali la questione era fondata e, dunque, l'indicazione del tasso applicato contenuta (soltanto) nella
comparsa conclusionale non poteva che essere ritenuta tardiva, tenuto conto della necessità che i
motivi di appello, ex art. 342 c.p.c., siano specifici e che con la comparsa conclusionale non
possono essere dedotte nuove circostanze di fatto che non siano state già dedotte con l'atto di
appello.
E' vero, infatti, che la deduzione della nullità delle clausole che prevedono un tasso d'interesse
usurario è rilevabile anche d'ufficio, non integrando gli estremi di un'eccezione in senso stretto,
bensì una mera difesa, che può essere avanzata anche in appello, nonchè formulata in comparsa
conclusionale, ma ciò a condizione che "sia fondata su elementi già acquisiti al giudizio" (Sez. 1,
Sentenza n. 21080 del 28/10/2005).
5 USURA E COMMISSIONE DI MASSIMO SCOPERTO
5.1. Cass., sezioni unite 20 giugno 2018, n. 16303
Nota introduttiva
Quale rilevanza assume la Commissione di massimo scoperto nel periodo anteriore all'entrata in
vigore delle disposizioni di cui all'art. 2-bis d.l. n. 185/2008 agli effetti del superamento del tasso
soglia usura?
A questo complesso e dibattuto interrogativo rispondono finalmente le Sezioni Unite con sentenza
n. 16303/18, depositata il 20 giugno.
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Le Sezioni Unite chiariscono in primo luogo che la nozione di commissione di massimo scoperto –
da considerare ai fini del decidere – è quella indicata dalla Banca d'Italia nelle citate Istruzioni per
la rilevazione del TEGM ai fini della legge sull'usura ove chiarito che tale commissione «nella
tecnica bancaria viene definita come il corrispettivo pagato dal cliente per compensare
l'intermediario dell'onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione
nell'utilizzo dello scoperto del conto. Tale compenso – che di norma viene applicato allorché il
saldo del cliente risulti a debito per oltre un determinato numero di giorni – viene calcolato in
misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento». Questa
definizione, per l'esattezza, compare testualmente per la prima volta nell'aggiornamento delle
Istruzioni del luglio 2001, ma alla medesima nozione si rifanno anche le Istruzioni precedenti, che
espressamente prendono in considerazione la CMS calcolata sull'ammontare del massimo scoperto.
Le Sezioni Unite riassumono poi le diverse pronunce assunte dalle Sezioni semplici sulla
questione in discorso.
In particolare, ad avviso della Seconda Sezione penale (sentenza 19 febbraio 2010, n. 12028)
«il chiaro tenore letterale del quarto comma dell'art. 644 c.p. (secondo il quale per la
determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni
a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate all'erogazione del
credito) impone di considerare rilevanti, ai fini della determinazione della fattispecie di usura,
tutti gli oneri che un utente sopporti in connessione con il suo uso del credito. Tra essi rientra
indubbiamente la commissione di massimo scoperto, trattandosi di un costo indiscutibilmente
collegato all'erogazione del credito, giacché ricorre tutte le volte in cui il cliente utilizza
concretamente lo scoperto di conto corrente, e funge da corrispettivo per l'onere, a cui
l'intermediario finanziario si sottopone, di procurarsi la necessaria provvista di liquidità e tenerla a
disposizione del cliente. Ciò comporta che, nella determinazione del tasso effettivo globale praticato
da un intermediario finanziario nei confronti del soggetto fruitore del credito deve tenersi conto
anche della commissione di massimo scoperto, ove praticata».
A conferma di tale interpretazione, la Seconda Sezione Penale richiama quanto disposto dall'art. 2–
bis, commi 1 e 2, d.l. n. 185/2008 il quale disciplina la commissione di massimo scoperto,
ridimensionandone l'operatività e precisa che «gli interessi, le commissioni e le provvigioni
derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della
banca, dipendente dall'effettiva durata dell'utilizzazione dei fondi da parte del cliente, dalla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono comunque rilevanti ai fini
dell'applicazione dell'art. 1815 c.c., dell'art. 644 c.p. e degli artt. 2 e 3 l. 7 marzo 1996, n. 108».
Tale norma, infatti, ad avviso del Collegio penale, «può essere considerata norma di interpretazione
autentica del quarto comma dell'art. 644 c.p. in quanto puntualizza cosa rientra nel calcolo degli
oneri ivi indicati, correggendo una prassi amministrativa difforme». Nello stesso senso, cfr. Cass.
14 maggio 2010, n. 28743; 23 novembre 2011, n. 46669; 3 luglio 2014, n. 28928.
Sul fronte opposto la prima Sezione Civile, con sentenze del 22 giugno 2016, n. 12965 e 3
novembre 2016, n. 22270, hanno smentito, in consapevole contrasto con la Seconda Sezione
penale appena richiamato, l'assunto del carattere interpretativo e dunque retroattivo, dell'art.
2-bis d.l. n. 185/2008. È stato quindi escluso che, per il periodo precedente l'entrata in vigore
di tale norma, possa tenersi conto delle commissioni di massimo scoperto ai fini della verifica
del superamento in concreto del tasso soglia dell’usura presunta, anche in considerazione di
una esigenza di simmetria e omogeneità tra i criteri di determinazione, da un lato, del tasso
effettivo globale (TEG) applicato in concreto nel rapporto controverso ai sensi del quarto
comma dell'art. 644 c.p., e, dall'altro, del tasso effettivo globale medio (TEGM), rilevante ai
fini della definizione in astratto del tasso soglia, cui confrontare il tasso applicato in concreto;
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e ciò in quanto tutti i decreti ministeriali di rilevazione del TEGM, ai sensi dell'art. 2, comma 1, l. n.
108/1996, emanati nel medesimo periodo, recependo le Istruzioni della Banca d'Italia determinano
tale tasso senza comprendere nel calcolo l'ammontare delle commissioni di massimo scoperto.
Ad avviso delle Sezioni Unite, la commissione di massimo scoperto non può non rientrare tra
le «commissioni» o «remunerazioni» del credito menzionate sia dall'art. 644, comma 4, c.p.
(determinazione del tasso praticato in concreto) che dall’art. 2 comma 1, l. n. 108/1996
(determinazione del TEGM), attesa la sua dichiarata natura corrispettiva rispetto alla
prestazione creditizia della banca.
Sempre ad avviso delle Sezioni Unite, tale conclusione non muta neppure considerando che i
decreti ministeriali di cui all’art. 2, comma 1, l. n. 108/96 non includono le commissioni di massimo
scoperto nel computo del TEGM. Siffatta mancata inclusione non è idonea ad escludere che la legge
possa imporre di tener conto delle commissioni di massimo scoperto nel calcolo del tasso praticato
in concreto e del TEGM e, quindi, del tasso soglia con il quale confrontare il primo. Ritengono al
riguardo le Sezioni Unite che la mancata inclusione della commissione di massimo scoperto
dovrebbe semmai imporre al giudice ordinario di prendere atto della illegittimità dei decreti e di
disapplicarli. Tale illegittimità, tuttavia, non avrebbe fondamento poiché, secondo le Sezioni Unite,
è corretto che la commissione di massimo scoperto non sia stata inclusa nei decreti ministeriali
emanati in data anteriore all’entrata in vigore dell’art. 2–bisd.l. n. 185/2008. Quei decreti
ministeriali danno in realtà atto dell’ammontare medio delle commissioni di massimo scoperto
seguendo le indicazioni al tempo fornite dalla Banca d’Italia, secondo le quali, appunto, le CMS
non entravano nel calcolo del TEG, dovendo invece essere rilevate separatamente. La presenza di
tale dato nei decreti ministeriali è dunque sufficiente, secondo le Sezioni Unite, per escludere la
difformità degli stessi rispetto alle previsioni di legge perché consente comunque la piena
comparazione tra i corrispettivi della prestazione creditizia praticati nelle fattispecie concrete ed il
tasso soglia: ciò sostanzia la funzione propria dei decreti in questione. L'art. 2, comma 1, l. n.
108/1996 stabilisce, infatti, che «il Ministro del Tesoro, sentiti la Banca d'Italia e l'Ufficio italiano
dei cambi, rileva trimestralmente il tasso effettivo globale medio, comprensivo di commissioni, di
remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse, riferito ad anno, degli
interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari [...] nel corso del trimestre precedente
per operazioni della stessa natura. I valori medi derivanti da tale rilevazione [...] sono pubblicati
senza ritardo nella Gazzetta Ufficiale». La funzione dei decreti in questione è dunque
essenzialmente di rilevazione dei dati necessari ai fini della determinazione del tasso soglia, in vista
della comparazione, con questo, delle condizioni praticate in concreto dagli operatori. Ebbene,
anche la rilevazione dell'entità delle CMS è contenuta nei decreti emanati nel periodo precedente
all'entrata in vigore dell'art. 2–bis d.l. n. 185/2008. La circostanza che tale entità sia riportata a
parte, e non sia inclusa nel TEGM strettamente inteso, è un dato formale non incidente sulla
sostanza e sulla completezza della rilevazione prevista dalla legge, atteso che viene comunque resa
possibile la comparazione di precise quantità ai fini della verifica del superamento del tasso soglia
dell'usura presunta, secondo la ratio ispiratrice dell'istituto. Tale dato formale – soggiungono le
Sezioni Unite – è destinato a cedere rispetto a consolidati principi di conservazione degli atti
giuridici.
La comparazione di cui trattasi è soltanto più complessa perché le commissioni di massimo
scoperto, essendo rilevate separatamente secondo grandezze non omogenee rispetto al tasso degli
interessi, devono conseguentemente essere oggetto di comparazione separata – ancorché coordinata
– rispetto a quella riguardante i restanti elementi rilevanti ai fini del tasso effettivo globale di
interesse, espressi nella misura del TEGM. D’altronde, la Banca d'Italia, nel Bollettino di Vigilanza
n. 12 del dicembre 2005, ha chiarito che la verifica del rispetto delle soglie di legge richiede,
accanto al calcolo del tasso in concreto praticato e al raffronto di esso con il tasso soglia, «il
confronto tra l'ammontare percentuale della CMS praticata e l'entità massima della CMS applicabile
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(cd. CMS soglia), desunta aumentando del 50% l'entità della CMS media pubblicata nelle tabelle».
Tali modalità appaiono, secondo la decisione in commento, rispettose del dettato normativo
rispondendo all’esigenza di realizzare una comparazione piena, sotto tutti gli aspetti rilevanti
secondo la legge, delle condizioni praticate in concreto con quelle previste quale soglia dell’usura e
di rilevare il superamento di tale soglia tutte le volte in cui la banca abbia effettivamente preteso dal
cliente corrispettivi eccedenti la stessa.
La massima: Cass., sezioni unite, 20 giugno 2018, n. 16303
Con riferimento ai rapporti svoltisi, in tutto o in parte, nel periodo anteriore all'entrata in vigore
delle disposizioni di cui all'art. 2-bis d.l. n. 185/2008, inserito dalla legge di conversione n. 2 del
2009, ai fini della verifica del superamento del tasso soglia dell'usura presunta come determinato
in base alle disposizioni della l. n. 108/1996, va effettuata la separata comparazione del tasso
effettivo globale d'interesse praticato in concreto e della commissione di massimo scoperto (CMS)
eventualmente applicata – intesa quale commissione calcolata in misura percentuale sullo scoperto
massimo verificatosi nel periodo di riferimento – rispettivamente con il tasso soglia e con la "CMS
soglia", calcolata aumentando della metà la percentuale della CMS media indicata nei decreti
ministeriali emanati ai sensi dell'art. 2, comma 1, della predetta l. n. 108, compensandosi, poi,
l'importo della eventuale eccedenza della CMS in concreto praticata, rispetto a quello della CMS
rientrante nella soglia, con il "margine" degli interessi eventualmente residuo, pari alla differenza
tra l'importo degli stessi rientrante nella soglia di legge e quello degli interessi in concreto
praticati».
_____________________
Ragioni della decisione
1. Il contenuto dei due ricorsi, articolato in tre motivi di censura, è sostanzialmente identico, per cui
se ne svolgerà un’unica trattazione.
2. Con il primo motivo di censura, denunciando violazione degli artt. 93, 95, 98 e 99 legge fallim. e
degli artt. 24 e 111 Cost., si lamenta che il Tribunale abbia preso in esame eccezioni e deduzioni
formulate dalla curatela tardivamente nel corso del giudizio di opposizione, non essendo state
dedotte né in sede di verifica del passivo, né con la memoria di costituzione davanti al Tribunale.
Soltanto a seguito dell’iniziativa di quest’ultimo di disporre consulenza tecnica estesa all’operatività
del conto anticipi su fatture, infatti, la curatela – che con la memoria si era doluta del solo addebito
delle competenze relative a detto conto – aveva contestato anche l’addebito delle poste relative al
capitale, ossia all’erogazione delle anticipazioni stesse.
3. Con il secondo motivo, denunciando omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, si lamenta
che il Tribunale non abbia dato alcuna risposta all’eccezione d’inammissibilità di tali nuove
deduzioni di controparte.
4. I due motivi, da esaminare congiuntamente data la loro connessione, non possono trovare
accoglimento.
In base al contenuto della memoria di costituzione davanti al Tribunale, come riprodotto negli stessi
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ricorsi per cassazione, la curatela aveva concluso in via principale per il rigetto totale
dell’opposizione per "inopponibilità, nullità e mancanza di prova", e soltanto in via gradata aveva
chiesto escludersi, in particolare, l’addebito per competenze maturate sul conto anticipi. Era dunque
dovere del Tribunale verificare anzitutto la fondatezza della pretesa creditoria nella sua totalità. Né
può sostenersi che esso si sia pronunciato su eccezioni formulate tardivamente dalla curatela e non
rilevabili d’ufficio, dato che la semplice contestazione degli elementi costitutivi della pretesa attorea
(nella specie, la sussistenza delle anticipazioni) non costituisce eccezione in senso proprio (non
introducendo in giudizio nuovi elementi di fatto), bensì mera difesa, che il convenuto può articolare
in qualsiasi fase del giudizio di primo grado. Inoltre il curatore, che ben può dedurre contro
l’opponente eccezioni non formulate già in sede di verifica, non trovando applicazione, nel giudizio
di opposizione a stato passivo, la preclusione di cui all’art. 345 cod. proc. civ. in tema di ius
novorum (Cass. 31/07/2017, n. 19003; 04/06/2012, n. 8929; 18/05/2012, n. 7918), a maggior
ragione può dedurre in tale giudizio nuove difese.
Né, infine, l’avere il giudice trascurato o disatteso l’eccezione d’inammissibilità di deduzioni
difensive avversarie, come lamentato con il secondo motivo di ricorso, costituisce vizio di omesso
esame ai sensi dell’art. 360, n. 5), cod. proc. civ., oggetto del quale dev’essere invece un "fatto",
non già un’eccezione o argomentazione difensiva.
5. Con il terzo motivo, denunciando violazione dell’art. 2 legge 7 marzo 1996, n. 108, dell’art. 1,
comma 1, d.l. 29 dicembre 2000, n. 394, conv. in legge 28 febbraio 2001, n. 24, dell’art. 2 bis,
comma 2, d.l. n. 185 del 2008, cit., e dell’art. 644 cod. pen., viene posta la questione della
computabilità delle commissioni di massimo scoperto agli effetti del superamento del tasso soglia
dell’usura, di cui all’art. 644, comma terzo, primo periodo, cod. pen..
Ad avviso delle ricorrenti il computo delle commissioni di massimo scoperto a tali effetti è stato
introdotto soltanto con l’art. 2 bis d.l. n. 185 del 2008, mentre per il periodo anteriore all’entrata in
vigore di tale disposizione – periodo nel quale rientra interamente il rapporto dedotto in giudizio,
chiusosi nel marzo del 2008 – esso non era previsto, come aveva chiarito anche la Banca d’Italia
con le "Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura"
emanate il 30 settembre 1996 e confermate fino al secondo trimestre 2009. Tali Istruzioni
espressamente escludevano le commissioni di massimo scoperto dalla rilevazione del tasso effettivo
globale medio (TEGM) da indicare nei decreti ministeriali previsti dall’art. 2, comma 1, legge n.
108 del 1996, cit., disponendo che la loro entità fosse rilevata separatamente. Sarebbe pertanto
contraddittorio sanzionare l’applicazione in concreto di commissioni di massimo scoperto, non
essendo queste prese in considerazione ai fini della determinazione del TEGM nei decreti
ministeriali; e comunque, se le commissioni fossero state prese in considerazione, nei decreti
predetti, ai fini della determinazione del TEGM, e quindi del tasso soglia dell’usura (determinato,
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com’è noto, aumentando il primo nella misura indicata dall’art. 2, comma 4, legge n. 108 del 1996),
quest’ultimo, risultando conseguentemente più elevato, in concreto non sarebbe stato superato nel
caso in esame.
6. Con riferimento alla questione sollevata con tale motivo, la Prima Sezione ha ritenuto di investire
le Sezioni Unite, come si è anticipato sopra in narrativa, a composizione di un contrasto di
giurisprudenza o comunque in considerazione della particolare importanza della questione di
massima.
6.1. Va premesso, per la precisione e la migliore comprensione di quanto si osserverà, che la
nozione di commissione di massimo scoperto che viene qui in considerazione è quella indicata dalla
Banca d’Italia nelle già citate Istruzioni per la rilevazione del TEGM ai fini della legge sull’usura,
essendo queste richiamate sia nei ricorsi che nel decreto impugnato. In esse si legge che tale
commissione "nella tecnica bancaria viene definita come il corrispettivo pagato dal cliente per
compensare l’intermediario dell’onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida
espansione nell’utilizzo dello scoperto del conto. Tale compenso – che di norma viene applicato
allorché il saldo del cliente risulti a debito per oltre un determinato numero di giorni – viene
calcolato in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento".
Questa definizione, per l’esattezza, compare testualmente per la prima volta nell’aggiornamento
delle Istruzioni del luglio 2001, ma alla medesima nozione si rifanno anche le Istruzioni precedenti,
che espressamente prendono in considerazione la CMS calcolata sull’ammontare del massimo
scoperto.
6.2. Il contrasto rilevato dall’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite è insorto, come
accennato, tra la Seconda Sezione penale e la Prima Sezione civile.
6.2.1. Con la sentenza 19/02/2010, n. 12028 la Seconda Sezione penale ha affermato che "il chiaro
tenore letterale del quarto comma dell’articolo 644 cod. pen. (secondo il quale per la
determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a
qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate all’erogazione del credito)
impone di considerare rilevanti, ai fini della determinazione della fattispecie di usura, tutti gli oneri
che un utente sopporti in connessione con il suo uso del credito. Tra essi rientra indubbiamente la
commissione di massimo scoperto, trattandosi di un costo indiscutibilmente collegato
all’erogazione del credito, giacché ricorre tutte le volte in cui il cliente utilizza concretamente lo
scoperto di conto corrente, e funge da corrispettivo per l’onere, a cui l’intermediario finanziario si
sottopone, di procurarsi la necessaria provvista di liquidità e tenerla a disposizione del cliente. Ciò
comporta che, nella determinazione del tasso effettivo globale praticato da un intermediario
finanziario nei confronti del soggetto fruitore del credito deve tenersi conto anche della
commissione di massimo scoperto, ove praticata".
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A conferma di tale interpretazione, la sentenza richiama poi l’art. 2 bis d.l. n. 185 del 2008, cit., il
quale al primo comma disciplina la commissione di massimo scoperto, ridimensionandone
l’operatività, e aggiunge, al secondo comma, che "gli interessi, le commissioni e le provvigioni
derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della
banca, dipendente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente, dalla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono comunque rilevanti ai fini
dell’applicazione dell’articolo 1815 del codice civile, dell’articolo 644 del codice penale e degli
articoli 2 e 3 della legge 7 marzo 1996, n. 108". Tale norma, infatti, ad avviso di quel Collegio,
"può essere considerata norma di interpretazione autentica del quarto comma dell’art. 644 cod. pen.
in quanto puntualizza cosa rientra nel calcolo degli oneri ivi indicati, correggendo una prassi
amministrativa difforme".
La seconda Sezione penale ha poi confermato tale orientamento con le sentenze 14/05/2010, n.
28743; 23/11/2011, n. 46669; 03/07/2014, n. 28928.
6.2.2. Due successive decisioni della Prima sezione civile – le sentenze 22/06/2016, n. 12965 e
03/11/2016, n. 22270 – hanno invece smentito, in consapevole contrasto con la Seconda Sezione
penale, l’assunto del carattere interpretativo, e dunque retroattivo, dell’art. 2 bis d.l. n. 185 del 2008,
cit.. Per tale ragione esse hanno quindi escluso che, per il periodo precedente l’entrata in vigore di
tale norma, possa tenersi conto delle commissioni di massimo scoperto ai fini della verifica del
superamento in concreto del tasso soglia dell’usura presunta, anche in considerazione di
un’esigenza di simmetria e omogeneità tra i criteri di determinazione, da un lato, del tasso effettivo
globale (TEG) applicato in concreto nel rapporto controverso, ai sensi del quarto comma dell’art.
644 cod. pen., e, dall’altro, del tasso effettivo globale medio (TEGM), rilevante, come si è visto, ai
fini della definizione in astratto del tasso soglia, cui confrontare il tasso applicato in concreto; e ciò
in quanto tutti i decreti ministeriali di rilevazione del TEGM, ai sensi dell’art. 2, comma 1, legge n.
108 del 1996, emanati nel medesimo periodo, recependo le istruzioni della Banca d’Italia, di cui si è
detto, determinano tale tasso senza comprendere nel calcolo l’ammontare delle commissioni di
massimo scoperto.
6.3. Ritengono queste Sezioni Unite che l’art. 2 bis d.l. n. 185 del 2008, cit., non possa essere
qualificato norma di interpretazione autentica dell’art. 644, quarto comma, cod. pen..
6.3.1. Non è inutile premettere che Cass. pen. 12028/2010, cit., ha verosimilmente richiamato tale
norma perché essa conteneva, al comma 1, un espresso riferimento alle commissioni di massimo
scoperto (delle quali implicitamente ammetteva la validità, sia pure nel più ristretto ambito di
operatività cui è cenno nella sentenza in esame, disponendo che "sono nulle le clausole contrattuali
aventi ad oggetto la commissione di massimo scoperto se il saldo del cliente risulti a debito per un
periodo continuativo inferiore a trenta giorni ovvero a fronte di utilizzi in assenza di fido..."), onde
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il secondo comma, avente ad oggetto la disciplina della rilevanza, tra l’altro, delle "commissioni" ai
fini della determinazione sia del TEG in concreto, sia del TEGM – e dunque del tasso soglia – in
astratto, non poteva non essere letto come comprensivo anche di tale tipo di commissioni.
Il primo comma dell’art. 2 bis, peraltro, è stato poi abrogato dall’art. 27, comma 4, d.l. 24 gennaio
2012, n. 1, conv., con modif., nella legge 24 marzo 2012, n. 27, mentre la disciplina delle
commissioni di massimo scoperto, ivi contenuta, era stata poco prima sostituita dall’art. 117 bis
d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (t.u.b.), inserito dall’art. 6 bis d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, conv.,
con modif., nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, che a pena di nullità consente la previsione nei
contratti di apertura di credito, "quali unici oneri a carico del cliente", di "una commissione
onnicomprensiva calcolata in maniera proporzionale rispetto alla somma messa a disposizione del
cliente e alla durata dell’affidamento, e un tasso di interesse debitore sulle somme prelevate...",
imponendo inoltre per detta commissione il limite massimo dello "0,5 per cento, per trimestre, della
somma messa a disposizione del cliente". Con il che la commissione di massimo scoperto come
definita nelle Istruzioni della Banca d’Italia più volte menzionate, oggetto del presente giudizio, è
stata definitivamente superata.
Tuttavia ciò non assorbe, evidentemente, la questione del carattere interpretativo e retroattivo
dell’art. 2 bis d.l. n. 185, cit..
6.3.2. La ragione per cui va escluso il carattere interpretativo di tale disposizione consiste nel rilievo
(già formulato dai richiamati precedenti della Prima Sezione civile) che il suo testo non contiene
alcuna espressione che evochi tale natura, ma contiene, anzi, chiarissimi indizi in senso contrario.
Depongono, infatti, nel senso della natura innovativa della disposizione sia l’espressa previsione, al
comma 2, di una disciplina transitoria da emanarsi in sede amministrativa, in attesa della quale il
modo di determinazione del tasso soglia "resta regolato dalla disciplina vigente alla data di entrata
in vigore della legge di conversione del presente decreto fino a che la rilevazione del tasso effettivo
globale medio non verrà effettuata tenendo conto delle nuove disposizioni", sia la previsione, al
comma 3 (poi abrogato dal d.l. n. 1 del 2012, cit.), che "i contratti in corso alla data di entrata in
vigore della legge di conversione del presente decreto sono adeguati alle disposizioni del presente
articolo entro centocinquanta giorni dalla medesima data".
Né il carattere interpretativo della norma potrebbe plausibilmente essere riferito non già alla
disciplina della determinazione in astratto del TEGM, bensì alla sola disciplina della rilevazione del
superamento in concreto del tasso soglia, vale a dire non al comma terzo, primo periodo, bensì al
comma quarto dell’art. 644 cod. pen., da interpretarsi dunque nel senso che le commissioni di
massimo scoperto siano computate nel calcolo del TEG applicato in concreto, pur non essendone
previsto il computo ai fini della determinazione del TEGM (e dunque del tasso soglia). Nessuna
espressa indicazione in tal senso, infatti, si ripete, risulta dal testo legislativo. Inoltre una tale
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asimmetria contrasterebbe palesemente con il sistema dell’usura presunta come delineato dalla
legge n. 108 del 1996, la quale definisce alla stessa maniera (usando le medesime parole:
"commissioni", "remunerazioni a qualsiasi titolo", "spese, escluse quelle per imposte e tasse") sia –
all’art. 644, comma quarto, cod. pen. – gli elementi da considerare per la determinazione del tasso
in concreto applicato, sia – all’art. 2, comma 1, legge n. 108, cui rinvia l’art. 644, terzo comma,
primo periodo, cod. pen. – gli elementi da prendere in considerazione nella rilevazione trimestrale,
con appositi decreti ministeriali, del TEGM e, conseguentemente, per la determinazione del tasso
soglia con cui va confrontato il tasso applicato in concreto; con ciò indicando con chiarezza che gli
elementi rilevanti sia agli uni che agli altri effetti sono gli stessi.
6.4. L’esclusione del carattere interpretativo, e quindi retroattivo, dell’art. 2 bis d.l. n. 185 del 2008
non è decisiva, però, per la soluzione della questione, che qui interessa, della rilevanza o meno delle
commissioni di massimo scoperto ai fini della verifica del superamento del tasso soglia dell’usura
presunta secondo la disciplina vigente nel periodo anteriore alla data dell’entrata in vigore di tale
disposizione, e dunque in particolare quanto ai rapporti esauritisi in tale periodo, come il rapporto
dedotto nel presente giudizio (del resto, nella stessa giurisprudenza penale di legittimità, sopra
illustrata, il richiamo dell’art. 2 bis, cit., e la sua ritenuta natura interpretativa costituivano un
argomento di mero rincalzo, di conferma, cioè, di un risultato ermeneutico già raggiunto per altra
via).
6.4.1. Infatti la commissione di massimo scoperto, quale "corrispettivo pagato dal cliente per
compensare l’intermediario dell’onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida
espansione nell’utilizzo dello scoperto del conto... calcolato in misura percentuale sullo scoperto
massimo verificatosi nel periodo di riferimento", secondo la definizione richiamata all’inizio, non
può non rientrare tra le "commissioni" o "remunerazioni" del credito menzionate sia dall’art. 644,
comma quarto, cod. pen. (determinazione del tasso praticato in concreto) che dall’art. 2, comma 1,
legge n. 108 del 1996 (determinazione del TEGM), attesa la sua dichiarata natura corrispettiva
rispetto alla prestazione creditizia della banca.
Nei precedenti della Prima Sezione civile sopra richiamati e in parte della dottrina, tuttavia, si
sottolinea la circostanza che i decreti ministeriali di cui all’art. 2, comma 1, appena richiamato, non
includono le commissioni di massimo scoperto nel computo del TEGM, e quindi del tasso soglia,
sicché sarebbe illegittimo prenderle in considerazione ai fini della determinazione del tasso
praticato in concreto, e ciò in considerazione di quella esigenza di simmetria di cui si è detto più
sopra, per la quale tra l’uno e l’altro tasso, da porre a confronto, deve esservi omogeneità.
Tale obiezione non è persuasiva.
L’indicata esigenza di omogeneità, o simmetria, è indubbiamente avvertita dalla legge, la quale,
come si è già osservato, disciplina la determinazione del tasso in concreto e del TEGM prendendo
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in considerazione i medesimi elementi, tra i quali va inclusa, per quanto pure sopra osservato, anche
la commissione di massimo scoperto, quale corrispettivo della prestazione creditizia. La circostanza
che i decreti ministeriali di rilevazione del TEGM non includano nel calcolo di esso anche tale
commissione, rileva invece ai fini della verifica di conformità dei decreti stessi, quali provvedimenti
amministrativi, alla legge di cui costituiscono applicazione, in quanto la rilevazione sarebbe stata
effettuata senza tener conto di tutti i fattori che le legge impone di considerare. La mancata
inclusione delle commissioni di massimo scoperto nei decreti ministeriali, in altri termini, non
sarebbe idonea ad escludere che la legge imponga di tenere conto delle stesse nel calcolo così del
tasso praticato in concreto come del TEGM e, quindi, del tasso soglia con il quale confrontare il
primo; essa imporrebbe, semmai, al giudice ordinario di prendere atto della illegittimità dei decreti e
di disapplicarli (con conseguenti problemi quanto alla stessa configurabilità dell’usura presunta,
basata sulla determinazione del tasso soglia sulla scorta delle rilevazioni dei tassi medi mediante un
atto amministrativo di carattere generale).
6.4.2. L’ipotesi di illegittimità dei decreti sotto tale profilo, tuttavia, non avrebbe fondamento,
perché non è esatto che le commissioni di massimo scoperto non siano incluse nei decreti
ministeriali emanati nel periodo, che qui interessa, anteriore all’entrata in vigore dell’art. 2 bis d.l.
n. 185 del 2008, cit. Dell’ammontare medio delle CMS, espresso in termini percentuali, quei decreti
danno in realtà atto, sia pure a parte (in calce alla tabella dei TEGM), seguendo le indicazioni
fornite dalla Banca d’Italia nelle più volte richiamate Istruzioni come formulate sin dalla prima
volta il 30 settembre 1996 e come successivamente aggiornate sino al febbraio 2006, le quali
chiariscono che "la commissione di massimo scoperto non entra nel calcolo del TEG. Essa viene
rilevata separatamente, espressa in termini percentuali" e che "il calcolo della percentuale della
commissione di massimo scoperto va effettuato, per ogni singola posizione, rapportando l’importo
della commissione effettivamente percepita all’ammontare del massimo scoperto sul quale è stata
applicata" (l’aggiornamento successivo, effettuato nell’agosto 2009, uniformandosi al disposto
dell’art. 2 bis d.l. n. 185 ddl 2008, cit., nel frattempo entrato in vigore, inserisce invece la CMS nel
calcolo del TEGM).
La presenza di tale dato nei decreti ministeriali è sufficiente per escludere la difformità degli stessi
rispetto alle previsioni di legge, perché consente la piena comparazione – tenendo conto di tutti gli
elementi che la legge prevede, comprese le commissioni di massimo scoperto – tra i corrispettivi
della prestazione creditizia praticati nelle fattispecie concrete e il tasso soglia: nel che si sostanzia,
appunto, la funzione propria dei decreti in questione, la quale è dunque adempiuta.
L’art. 2, comma 1, legge n. 108 del 1996 stabilisce, infatti, che "il Ministro del Tesoro, sentiti la
Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi, rileva trimestralmente il tasso effettivo globale medio,
comprensivo di commissioni, di remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte
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e tasse, riferito ad anno, degli interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari (...) nel
corso del trimestre precedente per operazioni della stessa natura. I valori medi derivanti da tale
rilevazione (...) sono pubblicati senza ritardo nella Gazzetta Ufficiale". La funzione dei decreti in
questione è dunque essenzialmente di rilevazione dei dati necessari ai fini della determinazione del
tasso soglia, in vista della comparazione, con questo, delle condizioni praticate in concreto dagli
operatori.
Ebbene, anche la rilevazione dell’entità delle CMS è contenuta nei decreti emanati nel periodo
precedente all’entrata in vigore dell’art. 2 bis d.l. n. 185 del 2008. La circostanza che tale entità sia
riportata a parte, e non sia inclusa nel TEGM strettamente inteso, è un dato formale non incidente
sulla sostanza e sulla completezza della rilevazione prevista dalla legge, atteso che (come si è già
anticipato e come ci si accinge a spiegare più puntualmente nel paragrafo che segue) viene
comunque resa possibile la comparazione di precise quantità ai fini della verifica del superamento
del tasso soglia dell’usura presunta, secondo la ratio ispiratrice dell’istituto. Tale dato formale – è
appena il caso di aggiungere – è destinato a cedere rispetto a consolidati principi di conservazione
degli atti giuridici.
6.4.3. La comparazione di cui trattasi si rivela soltanto più complessa (peraltro non
eccessivamente), perché le commissioni di massimo scoperto, essendo rilevate separatamente
secondo grandezze non omogenee rispetto al tasso degli interessi (a differenza degl’interessi, si
calcolano sull’ammontare della sola somma corrispondente al massimo scoperto raggiunto nel
periodo di riferimento e senza proporzione con la durata del suo utilizzo), devono
conseguentemente essere oggetto di comparazione separata – ancorché coordinata – rispetto a
quella riguardante i restanti elementi rilevanti ai fini del tasso effettivo globale di interesse, espressi
nella misura del TEGM.
La stessa Banca d’Italia, del resto, preso atto degli orientamenti che andavano profilandosi nella
giurisprudenza di merito sulla rilevanza delle commissioni di massimo scoperto agli effetti
dell’usura presunta, nel Bollettino di Vigilanza n. 12 del dicembre 2005 ha indicato modalità di
comparazione che tengono conto appunto dell’esigenza di non trascurare, nel confronto, l’incidenza
delle commissioni di massimo scoperto.
Secondo tali indicazioni, la verifica del rispetto delle soglie di legge richiede, accanto al calcolo del
tasso in concreto praticato e al raffronto di esso con il tasso soglia, "il confronto tra l’ammontare
percentuale della CMS praticata e l’entità massima della CMS applicabile (cd. CMS soglia),
desunta aumentando del 50 % l’entità della CMS media pubblicata nelle tabelle" (il comma 4
dell’art. 2 legge n. 108 del 1996, prima della modifica introdotta con il d.l. 13 maggio 2011, n. 70,
conv., con modif. nella legge 12 luglio 2011, n. 106, prevedeva appunto che il tasso soglia era
costituito dal TEGM aumentato della metà). "Peraltro – prosegue la Banca d’Italia l’applicazione di
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commissioni che superano l’entità della "CMS soglia" non determina, di per sé, l’usurarietà del
rapporto, che va invece desunta da una valutazione complessiva delle condizioni applicate. A tal
fine, per ciascun trimestre, l’importo della CMS percepita in eccesso va confrontato con
l’ammontare degli interessi (ulteriori rispetto a quelli in concreto praticati) che la banca avrebbe
potuto richiedere fino ad arrivare alle soglie di volta in volta vigenti ("margine"). Qualora
l’eccedenza della commissione rispetto alla "CMS soglia" sia inferiore a tale "margine" è da
ritenere che non si determini un supero delle soglie di legge".
Tali modalità (cui fa sostanzialmente cenno la stessa Cass. Sez. Prima civile n. 12965 del 2016, cit.)
appaiono rispettose del dettato normativo, rispondendo all’esigenza di realizzare una comparazione
piena, sotto tutti gli aspetti rilevanti secondo la legge, delle condizioni praticate in concreto con
quelle previste quale soglia dell’usura, e di rilevare il superamento di tale soglia tutte le volte in cui
la banca abbia effettivamente preteso dal cliente corrispettivi eccedenti la stessa.
Può pertanto enunciarsi il seguente principio di diritto:
"Con riferimento ai rapporti svoltisi, in tutto o in parte, nel periodo anteriore all’entrata in vigore
delle disposizioni di cui all’art. 2 bis d.l. n. 185 del 2008, inserito dalla legge di conversione n. 2 del
2009, ai fini della verifica del superamento del tasso soglia dell’usura presunta come determinato in
base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, va effettuata la separata comparazione del tasso
effettivo globale d’interesse praticato in concreto e della commissione di massimo scoperto (CMS)
eventualmente applicata – intesa quale commissione calcolata in misura percentuale sullo scoperto
massimo verificatosi nel periodo di riferimento – rispettivamente con il tasso soglia e con la "CMS
soglia", calcolata aumentando della metà la percentuale della CMS media indicata nei decreti
ministeriali emanati ai sensi dell’art. 2, comma 1, della predetta legge n. 108, compensandosi, poi,
l’importo della eventuale eccedenza della CMS in concreto praticata, rispetto a quello della CMS
rientrante nella soglia, con il "margine" degli interessi eventualmente residuo, pari alla differenza
tra l’importo degli stessi rientrante nella soglia di legge e quello degli interessi in concreto
praticati".
Il terzo motivo di ricorso va dunque accolto nella parte in cui si lamenta che il Tribunale non abbia
tenuto conto dell’entità delle CMS, come rilevate nei decreti ministeriali di cui si è detto, ai fini
della determinazione della soglia di legge oltre la quale si verifica l’usura presunta.
7. In conclusione, respinti i primi due motivi dei ricorsi e accolto il terzo, il decreto impugnato va
cassato, in relazione alla censura accolta, con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il quale si
atterrà al principio di diritto sopra enunciato e provvederà anche sulle spese del giudizio di
legittimità.
P.Q.M.
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La Corte rigetta i primi due motivi dei ricorsi, accoglie il terzo, cassa il decreto impugnato nei sensi
di cui in motivazione e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Napoli
in diversa composizione.
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6 LE SEZIONI UNITE NEGANO L’USURA SOPRAVVENUTA
6.1. Cass., sezioni unite, 19 ottobre 2017, n. 24675
Con la sentenza n. 24675 del 2017, le Sezioni Unite hanno risolto l’importante contrasto sulla
questione relativa all'incidenza del sistema normativo antiusura, introdotto dalla legge 7 marzo
1996, n. 108 sui contratti stipulati anteriormente alla sua entrata in vigore, anche alla luce della
norma di interpretazione autentica di cui all'art. 1, comma 1, d.l. 29 dicembre 2000, n. 394, conv.
dalla legge 28 febbraio 2001, n. 24. La soluzione raggiunta dal massimo consesso nomofilattico
è stata nel senso che, in continuità con il primo dei due orientamenti giurisprudenziali in
contrasto, deve essere negata la configurabilità dell'usura sopravvenuta, essendo il giudice
vincolato all'interpretazione autentica degli artt. 644 c.p. e 1815, secondo comma, cod. civ., come
modificati dalla legge n. 108 del 1996 (rispettivamente all'art. 1 e all'art. 4), imposta dall'art. 1,
comma 1, d.l. n. 394 del 2000, cit.; interpretazione della quale la Corte costituzionale ha escluso la
sospetta illegittimità, per violazione degli artt. 3, 24, 47 e 77 Cost., con la sentenza 25 febbraio
2002, n. 29.
L'ordinanza di rimessione e la questione di diritto
La prima Sezione civile, investita della cognizione del ricorso, con ordinanza interlocutoria n. 2484
del 31 gennaio 2017, ha rilevato un contrasto al suo stesso interno in ordine alla questione
dell’efficacia della normativa antiusura sui contratti sorti anteriormente all'entrata in vigore della l
n. 108 del 1996 ma che hanno avuto vigenza anche successivamente ad essa.
Una delle opzioni interpretative esclude che, all'esito dell'interpretazione autentica intervenuta ex
art. l d.l. n. 394 del 2000 convertito nella l. n. 24 del 2001, il superamento del tasso soglia degli
interessi corrispettivi originariamente convenuti in modo legittimo (senza oltrepassare il limite
dell'usurarietà), in corso di esecuzione del rapporto possa determinarne ex artt. 1339 e 1418 cod.
civ. la riconduzione entro il predetto tasso soglia stabilito dalla legge così come integrata dal d.m.
periodicamente emanati al riguardo. Viene valorizzato, da quest'orientamento, il dato testuale
dell'art. l del d.l. n. 394 del 2000 ed in particolare la locuzione "indipendentemente dal loro
pagamento". La legittimità iniziale del tasso convenzionalmente pattuito spiega la sua efficacia per
tutta la durata del contratto nonostante l'eventuale sopravvenuta disposizione imperativa che, per
una frazione o per tutta la durata del contratto successiva al suo sorgere, ne rilevi la natura usuraria
a partire da quel momento in poi.
Questo orientamento, formatosi su fattispecie consistenti in contratti stipulati prima dell'entrata in
vigore della l. n. 108 del 1996 ha trovato recente conferma nella sentenza 19 gennaio 2016 n. 801
così massimata: "I criteri fissati dalla legge n. 108 del 1996, per la determinazione del carattere
usurario degli interessi, non si applicano alle pattuizioni di questi ultimi anteriori all'entrata in
vigore di quella legge, siano esse contenute in mutui a tasso fisso o variabile, come emerge dalla
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norma di interpretazione autentica contenuta nell'art. 1, comma 1, del d.l. n. 394 del 2000 (conv.,
con modif., dalla l. n. 24 del 2001), che non reca una tale distinzione”.
In precedenza il medesimo principio è contenuto nella sentenza 19 marzo 2007 n. 6514 (in
motivazione) e 27 settembre 2013 n. 22204 in motivazione.
Parallelamente all'orientamento illustrato se ne sviluppato uno speculare, di recente confermato
dalla pronuncia 17 agosto 2016 n. 17150 così massimata: "Le norme che prevedono la nullità dei
patti contrattuali che determinano la misura degli interessi in tassi così elevati da raggiungere la
soglia dell'usura (introdotte con l'art. 4 della l. n. 108 del 1996), pur non essendo retroattive,
comportano l'inefficacia "ex nunc" delle clausole dei contratti conclusi prima della loro entrata in
vigore sulla base del semplice rilievo, operabile anche d'ufficio dal giudice, che il rapporto
giuridico, a tale momento, non si era ancora esaurito".
Questa pronuncia, unitamente a molte altre relative a fattispecie identiche, non contiene nello
sviluppo motivazionale, il riferimento espresso alla citata norma d'interpretazione autentica (art. 1
d.l. n. 394 del 2000) ed al successivo avallo della Corte Costituzionale (si richiamano al riguardo
anche le sentenze 14/ marzo 2013 n. 6550, n. 602 del 2013; n. 17854 del 2007). Nella pronuncia 31
gennaio 2006 n. 2140 si fa, invece, espresso riferimento, a differenza che nelle altre, all'intervenuta
legge d'interpretazione autentica degli artt. 1 e 4 della l. n. 108 del 1996 e alla sentenza della Corte
Costituzionale n. 29 del 2002. Ugualmente il richiamo si ritrova nella sentenza n. 11638 del 2016.
La soluzione e la motivazione adottate dalle Sezioni unite
Le Sezioni unite – con la segnalata sentenza – hanno risolto il contrasto accreditando l’orientamento
che nega la configurabilità dell'usura sopravvenuta, essendo il giudice vincolato all'interpretazione
autentica degli artt. 644 c.p. e 1815, secondo comma, cod. civ., come modificati dalla legge n. 108
del 1996 (rispettivamente all'art. 1 e all'art. 4), imposta dall'art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000,
cit.; interpretazione della quale la Corte costituzionale ha escluso la sospetta illegittimità, per
violazione degli artt. 3, 24, 47 e 77 Cost., con la sentenza 25 febbraio 2002, n. 29, e della quale non
può negarsi la rilevanza per la soluzione della questione in esame.
È priva di fondamento, infatti, la tesi della illiceità della pretesa del pagamento di interessi a
un tasso che, pur non essendo superiore, alla data della pattuizione (con il contratto o con
patti successivi), alla soglia dell'usura definita con il procedimento previsto dalla legge n. 108,
superi, tuttavia, tale soglia al momento della maturazione o del pagamento degli interessi
stessi.
La ragione della illiceità risiederebbe nella violazione di un divieto imperativo di legge, il divieto
dell'usura,e in particolare il divieto di pretendere un tasso d'interesse superiore alla soglia dell'usura
come fissata in base alla legge.
Sennonché, il divieto dell'usura è contenuto nell'art. 644 c.p.; le (altre) disposizioni della legge n.
108, cit., non formulano tale divieto, ma si limitano a prevedere (per quanto qui rileva) un
meccanismo di determinazione del tasso oltre il quale gli interessi sono considerati sempre usurari a
mente, appunto, dell'art. 644, comma terzo, c.p. novellato (che recita: «La legge stabilisce il limite
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oltre il quale gli interessi sono sempre usurari»). L'art. 2, comma 4, legge n. 108, cit. (che recita: «Il
limite previsto dal terzo comma dell'art. 644 del codice penale, oltre il quale gli interessi sono
sempre usurari, è stabilito nel tasso ...») definisce, sì, il limite oltre il quale gli interessi sono sempre
usurari, ma si tratta appunto del limite previsto dal terzo comma dell'art. 644 del codice penale,
essendo la norma penale l'unica che contiene il divieto di farsi dare o promettere interessi o altri
vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità.
Deve, perciò, concludersi che è impossibile affermare, sulla base delle disposizioni della legge n.
108 del 1996, diverse dagli artt. 644 c.p. e 1815, secondo comma, cod. civ. come da essa novellati,
che il superamento del tasso soglia dell'usura al tempo del pagamento, da parte del tasso
convenzionale inferiore a tale soglia al momento della pattuizione, comporti la nullità o l'inefficacia
della corrispondente clausola contrattuale o, comunque, l'illiceità della pretesa del pagamento del
creditore.
Va pertanto enunciato il seguente principio di diritto: «Allorché il tasso degli interessi concordato
tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell'usura come
determinata in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o
l'inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata
anteriormente all'entrata in vigore della predetta legge, o della clausola stipulata successivamente
per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula; né la pretesa del
mutuante di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato può essere qualificata,
per il solo fatto del sopraggiunto superamento di tale soglia, contraria al dovere di buona fede
nell'esecuzione del contratto».
La sentenza in rassegna mette, dunque, la parola fine alla teorica sulla cosiddetta “usurarietà
sopravvenuta”, valorizzando il dettato normativo della legge di interpretazione autentica e,
dunque, l’attenzione dell’interprete, ai fini della valutazione dell’usura, soltanto sul momento
della pattuizione degli interessi.
MASSIMA
Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 18 luglio – 19 ottobre 2017, n. 24675
Presidente Rordorf – Relatore De Chiara
Allorché il tasso di interessi, inferiore al tasso soglia al momento della stipula, nel corso del
rapporto superi la soglia dell’usura, in conseguenza dell’oscillazione delle rilevazioni trimestrali,
non si verifica la nullità o inefficacia della clausola di determinazione degli interessi.
La pretesa del mutuante di riscuotere gli interessi secondo il tasso originario, inoltre, non può
essere qualificata, per il solo fatto di eccedere detta soglia, contraria al dovere di buona fede
nell’esecuzione del contratto.
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MOTIVAZIONE
1. Con il primo motivo di ricorso, denunciando vizio di motivazione e violazione di norme di
diritto, si contesta la qualificazione del mutuo oggetto di causa come fondiario sulla base del solo
richiamo, nel contratto, del d.P.R. n. 7 del 1976, cit., a prescindere dall’accertamento dei necessari
requisiti oggettivi.
2. Con il secondo motivo, denunciando violazione di norme di diritto e vizio di motivazione, si
contesta che, comunque, la qualificazione del mutuo come fondiario comporti l’inapplicabilità delle
disposizioni della legge n. 108 del 1996. In base a tali disposizioni si soggiunge - il tasso d’interesse
che al momento della pattuizione non ecceda la soglia dell’usura determinata secondo il
meccanismo previsto dalla medesima legge, ma che superi poi tale soglia nel corso del rapporto, è
comunque illegittimo e comporta la nullità della relativa clausola contrattuale. Il che fa sorgere la
necessità di individuare un tasso sostitutivo ai sensi degli artt. 1419 e 1339 cod. civ., non essendo
invocabile la previsione di gratuità del mutuo di cui all’art. 1815, secondo comma - come
modificato dalla stessa legge che è esclusa dall’interpretazione autentica di tale disposizione
imposta dall’art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000, cit. Il tasso sostitutivo va individuato - si
conclude - quantomeno in quello meno favorevole al mutuatario, ossia il tasso soglia, come ritenuto
dal giudice di primo grado.
3. I due motivi, da esaminare congiuntamente data la loro connessione, non possono trovare
accoglimento, anche se la motivazione della sentenza impugnata va corretta nei sensi che seguono
(art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ.).
3.1. È infatti privo di fondamento - come denunciato nella prima parte del secondo motivo di
ricorso - l’assunto, da cui muove la Corte d’appello, che il carattere fondiario del mutuo dispensi
dall’osservanza delle disposizioni della richiamata legge n. 108 sull’usura. Basterà osservare, in
proposito, che nessuna disposizione o principio normativo (del resto non specificato nella sentenza
impugnata) giustifica tale assunto e che non v’è, del resto, alcuna ragione per sottrarre l’importante
settore del credito fondiario al divieto di usura e ai meccanismi approntati dalla legge per renderlo
effettivo.
3.2. Conseguentemente il primo motivo di ricorso, attinente alla qualificazione del mutuo come
fondiario, è assorbito.
3.3. Il fondamento, però, della prima parte del secondo motivo di ricorso non è sufficiente a far
cadere la decisione impugnata, essendo infondata, invece, la seconda parte dello stesso motivo,
avente ad oggetto la questione per la quale la Prima Sezione ha ritenuto necessario l’intervento di
queste Sezioni Unite.
Essa riguarda l’applicabilità o meno delle norme della legge n. 108 del 1996 ai contratti di mutuo
stipulati prima dell’entrata in vigore di quest’ultima e consiste, più precisamente, nel chiarire quale
sia la sorte della pattuizione di un tasso d’interesse che, a seguito dell’operatività del meccanismo
previsto dalla stessa legge per la determinazione della soglia oltre la quale un tasso è da qualificare
usurario, si riveli superiore a detta soglia.
Peraltro la questione della configurabilità di una "usura sopravvenuta" si pone non soltanto con
riferimento ai contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996, come nel
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caso in esame, ma anche con riferimento a contratti successivi all’entrata in vigore della legge
recanti tassi inferiori alla soglia dell’usura, superata poi nel corso del rapporto per effetto della
caduta dei tassi medi di mercato, che sono alla base del meccanismo legale di determinazione dei
tassi usurari: meccanismo basato, appunto, secondo l’art. 2 della legge n. 108, sulla rilevazione
trimestrale dei tassi medi praticati per le varie categorie di operazioni creditizie, sui quali viene
applicata una determinata maggiorazione. E si pone, in teoria, con riguardo sia ai tassi contrattuali
fissi che a quelli variabili, anche se in pratica sono essenzialmente i primi a fornire la casistica
sinora nota, dato che la variabilità consente normalmente di assorbire gli effetti del calo dei tassi
medi di mercato. La questione sorse immediatamente all’indomani dell’entrata in vigore della legge
n. 108. La giurisprudenza di legittimità iniziò ad orientarsi nel senso dell’applicabilità della legge ai
rapporti pendenti alla data della sua entrata in vigore, con conseguenze sul tasso d’interesse
contrattuale, sia pure riferite alla sola parte del rapporto successiva a tale data (cfr. Cass. Sez. III
02/02/2000, n. 1126; Cass. Sez. I 22/10/2000, n. 5286; Cass. Sez. I 17/11/2000, n. 14899).
Ciò indusse il legislatore ad intervenire appunto con la già richiamata norma d’interpretazione
autentica di cui all’art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000, che recita: "Ai fini dell’applicazione
dell’articolo 644 del codice penale e dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si
intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi
sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro
pagamento".
Si determinò, quindi, nella giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Corte (quasi tutta riferita
a contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996) il contrasto tra due
orientamenti richiamato nell’ordinanza di rimessione.
Un primo orientamento (cfr. Cass. Sez. III 26/06/2001, n. 8742; Cass. Sez. I 24/09/2002, n. 13868;
Cass. Sez. III 13/12/2002, n. 17813; Cass. Sez. III 25/03/2003, n. 4380; Cass. Sez. III 08/03/2005,
n. 5004; Cass. Sez. I 19/03/2007, n. 6514; Cass. Sez. III 17/12/2009, n. 26499; Cass. Sez. I
27/09/2013, n. 22204; Cass. Sez. I 19/01/2016, n. 801) dà alla questione della configurabilità dell’
usura sopravvenuta risposta negativa. Ciò in quanto la norma d’interpretazione autentica attribuisce
rilevanza, ai fini della qualificazione del tasso convenzionale come usurario, al momento della
pattuizione dello stesso e non al momento del pagamento degli interessi; cosicché deve escludersi
che il meccanismo dei tassi soglia previsto dalla legge n. 108 sia applicabile alle pattuizioni di
interessi stipulate in data precedente la sua entrata in vigore, anche se riferite a rapporti ancora in
corso a tale data (pacifico essendo, peraltro, nella giurisprudenza di legittimità, che la legge n. 108
del 1996 non può trovare applicazione quanto ai rapporti già esauritisi alla medesima data).
In altre decisioni, al contrario, è stata affermata l’incidenza della nuova legge sui contratti in corso
alla data della sua entrata in vigore, omettendo tuttavia di prendere in considerazione la norma
d’interpretazione autentica di cui al d.l. n. 394 del 2000, cit.:
- Cass. Sez. III 13/06/2002, n. 8442; Cass. Sez. III 05/08/2002, n. 11706 e Cass. Sez. III
25/05/2004, n. 10032 si sono semplicemente richiamate alla giurisprudenza precedente al decreto
legge;
- Cass. Sez. I 25/02/2005, n. 4092; Cass. Sez. I 25/02/2005, n. 4093; Cass. Sez. III 14/03/2013, n.
6550; Cass. Sez. III 31/01/2006, n. 2149 e Cass. Sez. III 22/08/2007, n. 17854 hanno precisato (le
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prime tre in obiter dicta) che la clausola contrattuale recante un tasso che poi superi il tasso soglia
non diviene, in conseguenza di tale superamento, nulla, bensì inefficace ex nunc, e tale inefficacia
non può essere rilevata d’ufficio;
- Cass. Sez. I 11/01/2013, n. 602 e n. 603 hanno affermato che nei casi di superamento della soglia
del tasso usurario per effetto dell’entrata in vigore della legge n. 108, cit., opera la sostituzione
automatica, ai sensi degli artt. 1319 e 1419, secondo comma, cod. civ., del tasso soglia del tempo al
tasso convenzionale;
- Cass. Sez. I 17/08/2016, n. 17150 sostiene la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia di cui sopra.
Invece Cass. Sez. I 12/04/2017, n. 9405, nell’affermare l’applicabilità del tasso soglia in
sostituzione del tasso contrattuale che sia divenuto superiore ad esso, fa espresso riferimento alla
richiamata norma d’interpretazione autentica, escludendone però la rilevanza in quanto essa non
eliminerebbe l’illiceità della pretesa di un tasso d’interesse ormai eccedente la soglia dell’usura, ma
si limiterebbe ad escludere l’applicazione delle sanzioni penali e civili di cui agli artt. 644 cod. pen.
e 1815, secondo comma, cod. civ., ferme restando le altre sanzioni civili.
Quest’ultima tesi riprende in sostanza i contributi di una parte della dottrina, secondo la quale,
mentre sarebbe sanzionata penalmente - nonché, nel mutuo, con la gratuità - la pattuizione di
interessi che superino la soglia di legge alla data della pattuizione stessa, viceversa la pretesa di
pagamento di interessi a un tasso non usurario alla data della pattuizione, ma divenuto tale nel corso
del rapporto, sarebbe illecita solo civilmente. Le conseguenze di tale illiceità sono diversamente
declinate (nullità, inefficacia ex nunc) nelle varie versioni della tesi in esame, ma comprendono in
ogni caso la sostituzione automatica, ai sensi dell’art. 1339 cod. civ., del tasso contrattuale o con il
tasso soglia (secondo una versione), o con il tasso legale (secondo un’altra versione).
3.4. È avviso di queste Sezioni Unite che debba darsi continuità al primo dei due orientamenti
giurisprudenziali sopra richiamati, che nega la configurabilità dell’usura sopravvenuta, essendo il
giudice vincolato all’interpretazione autentica degli artt. 644 cod. pen. e 1815, secondo comma,
cod. civ., come modificati dalla legge n. 108 del 1996 (rispettivamente all’art. 1 e all’art. 4),
imposta dall’art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000, cit.; interpretazione della quale la Corte
costituzionale ha escluso la sospetta illegittimità, per violazione degli artt. 3, 24, 47 e 77 Cost., con
la sentenza 25/02/2002, n. 29, e della quale non può negarsi la rilevanza per la soluzione della
questione in esame.
È priva di fondamento, infatti, la tesi della illiceità della pretesa del pagamento di interessi a un
tasso che, pur non essendo superiore, alla data della pattuizione (con il contratto o con patti
successivi), alla soglia dell’usura definita con il procedimento previsto dalla legge n. 108, superi
tuttavia tale soglia al momento della maturazione o del pagamento degli interessi stessi.
3.4.1. La ragione della illiceità risiederebbe, come si è visto, nella violazione di un divieto
imperativo di legge, il divieto dell’usura, e in particolare il divieto di pretendere un tasso d’interesse
superiore alla soglia dell’usura come fissata in base alla legge.
Sennonché il divieto dell’usura è contenuto nell’art. 644 cod. pen.; le (altre) disposizioni della legge
n. 108, cit., non formulano tale divieto, ma si limitano a prevedere (per quanto qui rileva) un
meccanismo di determinazione del tasso oltre il quale gli interessi sono considerati sempre usurari a
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mente, appunto, dell’art. 644, comma terzo, cod. pen. novellato (che recita: "La legge stabilisce il
limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari"). L’art. 2, comma 4, legge n. 108, cit. (che
recita: "Il limite previsto dal terzo comma dell’art. 644 del codice penale, oltre il quale gli interessi
sono sempre usurari, è stabilito nel tasso...") definisce, sì, il limite oltre il quale gli interessi sono
sempre usurari, ma si tratta appunto del limite previsto dal terzo comma dell’art. 644 del codice
penale, essendo la norma penale l’unica che contiene il divieto di farsi dare o promettere interessi o
altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità.
Una sanzione (che implica il divieto) dell’usura è contenuta, per l’esattezza, anche nell’art. 1815,
secondo comma, cod. civ. - pure oggetto dell’interpretazione autentica di cui si discute - il quale
però presuppone una nozione di interessi usurari definita altrove, ossia, di nuovo, nella norma
penale integrata dal meccanismo previsto dalla legge n. 108.
Sarebbe pertanto impossibile operare la qualificazione di un tasso come usurario senza fare
applicazione dell’art. 644 cod. pen.; "ai fini dell’applicazione" del quale, però, non può farsi a meno
perché così impone la norma d’interpretazione autentica - di considerare il "momento in cui gli
interessi sono convenuti, indipendentemente dal momento del loro pagamento".
Non ha perciò fondamento la tesi che cerca di limitare l’efficacia della norma di interpretazione
autentica alla sola sanzione penale e alla sanzione civile della gratuità del mutuo, perché in tanto è
configurabile un illecito civile, in quanto sia configurabile la violazione dell’art. 644 cod. pen.,
come interpretato dall’art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000. E non è fuori luogo rammentare che
anche la giurisprudenza penale di questa Corte nega la configurabilità dell’usura sopravvenuta (cfr.
Cass. Sez. V pen. 16/01/2013, n. 8353).
Tale esegesi delle disposizioni della legge n. 108 non contrasta, inoltre, con la loro ratio.
Una parte della dottrina attribuisce alla legge n. 108 una ratio calmieratrice del mercato del credito,
che imporrebbe il rispetto in ogni caso del tasso soglia al momento del pagamento degli interessi.
Va però osservato che la ratio delle nuove disposizioni sull’usura consiste invece nell’efficace
contrasto di tale fenomeno, come si legge nella relazione illustrativa del disegno di legge e come ha
affermato anche la Corte costituzionale nella sentenza sopra richiamata. Il meccanismo di
definizione del tasso soglia è basato infatti - lo si è accennato più sopra - sulla rilevazione periodica
dei tassi medi praticati dagli operatori, sicché esso è configurato dalla legge come un effetto, non
già una causa, dell’andamento del mercato.
Con tale ratio è senz’altro coerente una disciplina che dà rilievo essenziale al momento della
pattuizione degli interessi, valorizzando in tal modo il profilo della volontà e dunque della
responsabilità dell’agente.
Un ulteriore argomento utilizzato dei sostenitori della configurabilità dell’usura sopravvenuta e
ripreso anche da Cass. Sez. I 9405/2017, cit., è basato su un passaggio della motivazione della
richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 29 del 2002, in cui i giudici, dopo avere escluso
l’irragionevolezza dell’interpretazione autentica e la sua incompatibilità con il dato testuale,
osservano: "Restano, invece, evidentemente estranei all’ambito di applicazione della norma
impugnata gli ulteriori istituti e strumenti di tutela del mutuatario, secondo la generale disciplina
codicistica dei rapporti contrattuali". Poiché, si è osservato, tale affermazione non è un mero obiter
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dictum, bensì parte della ratio decidendi, essa è vincolante per l’interprete e impone di considerare
illecita - ancorché non penalmente, né a pena della gratuità del contratto ai sensi dell’art. 1815,
secondo comma, cod. civ. - la pretesa del pagamento di interessi a un tasso convenzionale divenuto
nel tempo superiore al tasso soglia.
Non conta qui approfondire se il passaggio in questione rientri o meno nella ratio della decisione
dalla Corte costituzionale. Basterà osservare che esso contiene un’affermazione indubbiamente
esatta, ma non contrastante con le conclusioni sopra raggiunte circa la validità ed efficacia della
previsione contrattuale di un tasso d’interesse che finisca poi col superare il tasso soglia nel corso
del rapporto. È evidente, infatti, che far salva la validità ed efficacia della clausola contrattuale non
significa negare la praticabilità di altri strumenti di tutela del mutuatario previsti dalla legge, ove ne
ricorrano gli specifici presupposti; significa soltanto negare che uno di tali strumenti sia costituito
dalla invalidità o inefficacia della clausola in questione.
Deve perciò concludersi che è impossibile affermare, sulla base delle disposizioni della legge n. 108
del 1996, diverse dagli artt. 644 cod. pen. e 1815, secondo comma, cod. civ. come da essa novellati,
che il superamento del tasso soglia dell’usura al tempo del pagamento, da parte del tasso
convenzionale inferiore a tale soglia al momento della pattuizione, comporti la nullità o l’inefficacia
della corrispondente clausola contrattuale o comunque l’illiceità della pretesa del pagamento del
creditore.
3.4.2. L’illiceità della pretesa, tuttavia, è stata argomentata da una parte della dottrina anche su basi
diverse, ossia valorizzando, piuttosto che il meccanismo della sostituzione automatica di clausole ai
sensi degli artt. 1339 e 1419, secondo comma, cod. civ., il principio di buona fede oggettiva
nell’esecuzione dei contratti, di cui all’art. 1375 cod. civ., per il quale sarebbe scorretto pretendere il
pagamento di interessi a un tasso divenuto superiore alla soglia dell’usura come determinata al
momento del pagamento stesso, perché in quel momento quel tasso non potrebbe essere promesso
dal debitore e il denaro frutterebbe al creditore molto di più di quanto frutti agli altri creditori in
genere.
Benché non sia questa la tesi sostenuta dalla ricorrente, di essa occorre tuttavia darsi carico per
completezza.
Neppure detta tesi persuade.
Viene a suo sostegno richiamata la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il principio di
correttezza e buona fede in senso oggettivo impone un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2
Cost., per il quale ciascuna delle parti del rapporto è tenuta ad agire in modo da preservare gli
interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o da quanto stabilito
da singole norme di legge (Cass. Sez. III 30/07/2004, n. 14605; Cass. Sez. I 06/08/2008, n. 21250;
Cass. Sez. U. 25/11/2008, n. 28056; Cass. Sez. I 22/01/2009, n. 1618; Cass. Sez. III 10/11/2010, n.
22819).
Va però osservato che la buona fede è criterio di integrazione del contenuto contrattuale rilevante ai
fini dell’"esecuzione del contratto" stesso (art. 1375 cod. civ.), vale a dire della realizzazione dei
diritti da esso scaturenti. La violazione del canone di buona fede non è riscontrabile nell’esercizio in
sé considerato dei diritti scaturenti dal contratto, bensì nelle particolari modalità di tale esercizio in
concreto, che siano appunto scorrette in relazione alle circostanze del caso. In questo senso può
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allora affermarsi che, in presenza di particolari modalità o circostanze, anche la pretesa di interessi
divenuti superiori al tasso soglia in epoca successiva alla loro pattuizione potrebbe dirsi scorretta ai
sensi dell’art. 1375 cod. civ.; ma va escluso che sia da qualificare scorretta la pretesa in sé di quegli
interessi, corrispondente a un diritto validamente riconosciuto dal contratto.
3.4.3. Va pertanto enunciato il seguente principio di diritto:
"Allorché il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello
svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura come determinata in base alle disposizioni della legge
n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di
determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta
legge, o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale
risultante al momento della stipula; né la pretesa del mutuante di riscuotere gli interessi secondo il
tasso validamente concordato può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento
di tale soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto".
4. Con il terzo e il quarto motivo di ricorso viene censurata, rispettivamente sotto i profili del vizio
di motivazione e della violazione di norme di diritto, la qualificazione data dalla Corte d’appello al
mutuo per cui è causa come finanziamento agevolato.
4.1. I motivi sono inammissibili. Tale qualificazione, infatti, non è di per sé rilevante ai fini della
decisione sul carattere usurario degli interessi, né sono indicate nel ricorso le ragioni della sua
eventuale rilevanza.
5. Il ricorso va in conclusione respinto.
Le oscillazioni giurisprudenziali registrate a proposito della principale questione oggetto del ricorso
stesso giustificano la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del giud
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7. OBBLIGAZIONI SOLIDALI E CONDOMINIO
NOTA INTRODUTTIVA
In riferimento alle obbligazioni assunte dall'amministratore, o comunque, nell'interesse del
condominio, nei confronti di terzi - in difetto di un'espressa previsione normativa che stabilisca il
principio della solidarietà, - la responsabilità dei condomini è retta dal criterio della parziarietà,
per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti
soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e
1295 cod. civ. per le obbligazioni ereditarie. Trattasi infatti, di un'obbligazione avente ad
oggetto una somma di denaro, e perciò divisibile, vincolando l'amministratore i singoli
condomini nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote, in
conformità con il difetto di struttura unitaria del condominio
7.1 Cass. Sez. Un. 8 aprile 2008 n.9148
Ritenuto che la solidarietà passiva, in linea di principio, esige la sussistenza non soltanto della
pluralità dei debitori e della identica causa dell'obbligazione, ma altresì della indivisibilità della
prestazione comune; che in mancanza di quest'ultimo requisito e in difetto di una espressa
disposizione di legge, la intrinseca parziarietà della obbligazione prevale; considerato che
l'obbligazione ascritta a tutti i condomini, ancorché comune, è divisibile, trattandosi di somma di
danaro; che la solidarietà nel condominio non è contemplata da nessuna disposizione di legge e
che l'art. 1123 cit., interpretato secondo il significato letterale e secondo il sistema in cui si
inserisce, non distingue il profilo esterno e quello interno; rilevato, infine, che - in conformità con il
difetto di struttura unitaria del condominio, la cui organizzazione non incide sulla titolarità
individuale dei diritti, delle obbligazioni e della relativa responsabilità - l'amministratore vincola i
singoli nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote: tutto ciò
premesso, le obbligazioni e la susseguente responsabilità dei condomini sono governate dal criterio
dalla parziarietà. Ai singoli si imputano, in proporzione alle rispettive quote, le obbligazioni
assunte nel cosiddetto "interesse del condominio", in relazione alle spese per la conservazione e
per il godimento delle cose comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune
e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Pertanto, le obbligazioni dei condomini sono
regolate da criteri consimili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ., per le obbligazioni
ereditarie, secondo cui i coeredi concorrono al pagamento dei debiti ereditali in proporzione alle
loro quote e l'obbligazione in solido di uno dei condebitori tra gli eredi si ripartisce in proporzione
alle quote ereditarie.
MOTIVAZIONE
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2.1 La questione di diritto, che la Suprema Corte deve risolvere per decidere la controversia,
riguarda la natura delle obbligazioni dei condomini.
Secondo l'orientamento maggioritario della giurisprudenza, la responsabilità dei singoli partecipanti
per le obbligazioni assunte dal "condominio" verso i terzi ha natura solidale, avuto riguardo al
principio generale stabilito dall'art. 1294 cod. civ. per l'ipotesi in cui più soggetti siano obbligati per
la medesima prestazione: principio non derogato dall'art. 1123 cod. civ., che si limita a ripartire gli
oneri all'interno del condominio (Cass., Sez. II, 5 aprile 1982, n. 2085; Cass., Sez. II, 17 aprile
1993, n. 4558; Cass., Sez. II, 30 luglio 2004, n. 14593; Cass., Sez. II, 31 agosto 2005, n. 17563).
Per l'indirizzo decisamente minoritario, la responsabilità dei condomini è retta dal criterio dalla
parziarietà: in proporzione alle rispettive quote, ai singoli partecipanti si imputano le obbligazioni
assunte nell'interesse del "condominio", relativamente alle spese per la conservazione e per il
godimento delle cose comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per
le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Pertanto, le obbligazioni dei condomini sono regolate
da criteri consimili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ. per le obbligazioni ereditarie,
secondo cui al pagamento dei debiti ereditali i coeredi concorrono in proporzione alle loro quote e
l'obbligazione in solido di uno dei condebitori si ripartisce tra gli eredi in proporzione alle quote
ereditarie (Cass., Sez. II, 27 settembre 1996, n. 8530).
2.2 Per determinare i principi di diritto, che regolano le obbligazioni (contrattuali) unitarie le quali
vincolano la pluralità di soggetti passivi - i condomini - occorre muovere dal fondamento della
solidarietà.
L'assunto è che la solidarietà passiva scaturisca dalla contestuale presenza di diversi requisiti,
in difetto dei quali - e di una precisa disposizione di legge - il criterio non si applica, non
essendo sufficiente la comunanza del debito tra la pluralità dei debitori e l'identica causa
dell'obbligazione; che nessuna specifica disposizione contempli la solidarietà tra i condomini, cui
osta la parziarietà intrinseca della prestazione; che la solidarietà non possa ricondursi alla asserita
unitarietà del gruppo, in quanto il condominio non raffigura un "ente di gestione", ma una
organizzazione pluralistica e l'amministratore rappresenta immediatamente i singoli partecipanti,
nei limiti del mandato conferito secondo le quote di ciascuno.
La disposizione dell'art. 1292 cod. civ. - è noto - si limita a descrivere il fenomeno e le sue
conseguenze. Invero, sotto la rubrica "nozione della solidarietà", definisce l'obbligazione in solido
quella in cui "più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione" e aggiunge che ciascuno
può essere costretto all'adempimento per la totalità (con liberazione degli altri). L'art. 1294 cod. civ.
stabilisce che "i condebitori sono tenuti in solido, se dalla legge o dal titolo non risulta
diversamente". Nessuna delle norme, tuttavia, precisa la ratio della solidarietà, ovverosia ne
chiarisce il fondamento (che risulta necessario, quanto meno, per risolvere i casi dubbi).
Stando all'interpretazione più accreditata, le obbligazioni solidali, indivisibili e parziarie raffigurano
le risposte dell'ordinamento ai problemi derivanti dalla presenza di più debitori (o creditori), dalla
unicità della causa dell'obbligazione (eadem causa obbligandi) e dalla unicità della prestazione
(eadem res debita).
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Mentre dalla pluralità dei debitori e dalla unicità della causa dell'obbligazione scaturiscono
questioni che, nella specie, non rilevano, la categoria dell'idem debitum propone problemi tecnici
considerevoli: in particolare, la unicità della prestazione che, per natura, è suscettibile di divisione, e
la individuazione del vincolo della solidarietà rispetto alla prestazione la quale, nel suo sostrato di
fatto, è naturalisticamente parziaria.
Semplificando categorie complesse ed assai elaborate, l'indivisibilità consiste nel modo di essere
della prestazione: nel suo elemento oggettivo, specie laddove la insussistenza naturalistica
della indivisibilità non è accompagnata dall'obbligo specifico imposto per legge a ciascun
debitore di adempiere per l'intero. Quando la prestazione per natura non è indivisibile, la
solidarietà dipende dalle norme e dai principi. La solidarietà raffigura un particolare
atteggiamento nei rapporti esterni di una obbligazione intrinsecamente parziaria quando la
legge privilegia la comunanza della prestazione. Altrimenti, la struttura parziaria
dell'obbligazione ha il sopravvento e insorge una pluralità di obbligazioni tra loro connesse.
È pur vero che la solidarietà raffigura un principio riguardante i condebitori in genere. Ma il
principio generale è valido laddove, in concreto, sussistono tutti i presupposti previsti dalla legge
per la attuazione congiunta del condebito. Sicuramente, quando la prestazione comune a ciascuno
dei debitori è, allo stesso tempo, indivisibile.
Se invece l'obbligazione è divisibile, salvo che dalla legge (espressamente) sia considerata solidale,
il principio della solidarietà (passiva) va contemperato con quello della divisibilità stabilito dall'art.
1314 cod. civ., secondo cui se più sono i debitori ed è la stessa la causa dell'obbligazione, ciascuno
dei debitori non è tenuto a pagare il debito che per la sua parte.
Poiché la solidarietà, spesso, viene ad essere la configurazione ex lege, nei rapporti esterni, di una
obbligazione intrinsecamente parziaria, in difetto di configurazione normativa dell'obbligazione
come solidale e, contemporaneamente, in presenza di una obbligazione comune, ma
naturalisticamente, divisibile viene meno uno dei requisiti della solidarietà e la struttura parziaria
dell’obbligazione prevale.
Del resto, la solidarietà viene meno ogni qual volta la fonte dell'obbligazione comune è intimamente
collegata con la titolarità delle res.
Le disposizioni di cui agli artt. 752, 754 e 1295 cod. civ. - che prevedono la parziarietà delle
obbligazioni dei coeredi e la sostituzione, per effetto dell'apertura della successione, di una
obbligazione nata unitaria con una pluralità di obbligazioni parziarie - esprimono il criterio di
ordine generale del collegamento tra le obbligazioni e le res.
Per la verità, si tratta di obbligazioni immediatamente connesse con l'attribuzione ereditaria dei
beni: di obbligazioni ricondotte alla titolarità dei beni ereditari in ragione dell'appartenenza della
quota. Ciascun erede risponde soltanto della sua quota, in quanto è titolare di una quota di beni
ereditari. Più in generale, laddove si riscontra lo stesso vincolo tra l'obbligazione e la quota e nella
struttura dell'obbligazione, originata dalla medesima causa per una pluralità di obbligati, non
sussiste il carattere della indivisibilità della prestazione, è ragionevole inferire che rispetto alla
solidarietà non contemplata (espressamente) prevalga la struttura parziaria del vincolo.
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2.3 Le direttive ermeneutiche esposte valgono per le obbligazioni facenti capo ai gruppi
organizzati, ma non personificati.
Per ciò che concerne la struttura delle obbligazioni assunte nel cosiddetto interesse del
"condominio" - in realtà, ascritte ai singoli condomini - si riscontrano certamente la pluralità dei
debitori (i condomini) e la ‘eadem causa obbligandi’, la unicità della causa: il contratto da cui
l'obbligazione ha origine. È discutibile, invece, la unicità della prestazione (idem debitum) che
certamente è unica ed indivisibile per il creditore, il quale effettua una prestazione nell'interesse e in
favore di tutti condomini (il rifacimento della facciata, l'impermeabilizzazione del tetto, la fornitura
del carburante per il riscaldamento etc.). L'obbligazione dei condomini (condebitori), invece,
consistendo in una somma di danaro, raffigura una prestazione comune, ma naturalisticamente
divisibile.
Orbene, nessuna norma di legge espressamente dispone che il criterio della solidarietà si
applichi alle obbligazioni dei condomini.
Non certo l'art. 1115 comma 1 cod. civ. Sotto la rubrica "obbligazioni solidali dei partecipanti", la
norma stabilisce che ciascun partecipante può esigere che siano estinte le obbligazioni contratte in
solido per la cosa comune e che la somma per estinguerle sia ricavata dal prezzo di vendita della
stessa cosa. La disposizione, in quanto si riferisce alle obbligazioni contratte in solido dai comunisti
per la cosa comune, ha valore meramente descrittivo, non prescrittivo: non stabilisce che le
obbligazioni debbano essere contratte in solido, ma regola le obbligazioni che, concretamente, sono
contratte in solido. A parte ciò, la disposizione non riguarda il condominio negli edifici e non si
applica al condominio, in quanto regola l'ipotesi di vendita della cosa comune. La disposizione,
infatti, contempla la cosa comune soggetta a divisione e non le cose, gli impianti ed i servizi comuni
del fabbricato, i quali sono contrassegnati dalla normale indivisibilità ai sensi dell'art. 1119 cod. civ.
e, comunque, dalla assoluta inespropriabilità.
D'altra parte, nelle obbligazioni dei condomini la parziarietà si riconduce all'art. 1123 cod. civ.,
interpretato valorizzando la relazione tra la titolarità della obbligazione e la quella della cosa. Si
tratta di obbligazioni propter rem, che nascono come conseguenza dell'appartenenza in comune, in
ragione della quota, delle cose, degli impianti e dei servizi e, solo in ragione della quota, a norma
dell'art. 1123 cit., i condomini sono tenuti a contribuire alle spese per le parti comuni. Per la verità,
la mera valenza interna del criterio di ripartizione raffigura un espediente elegante, ma privo di
riscontro nei dati formali.
Se l'argomento che la ripartizione delle spese regolata dall'art. 1123 comma 1 cod. civ. riguardi il
mero profilo interno non persuade, non convince neppure l'asserto che il comma 2 dello stesso art.
1223 - concernente la ripartizione delle spese per l'uso delle parti comuni destinate a servire i
condomini in misura diversa, in proporzione all'uso che ciascuno può fame - renda impossibile
l'attuazione parziaria all'esterno: con la conseguenza che, quanto all'attuazione, tutte le spese
disciplinate dall'art. 1223 cit. devono essere regolate allo stesso modo.
Entrambe le ipotesi hanno in comune il collegamento con la res. Il primo comma riguarda le spese
per la conservazione delle cose comuni, rispetto alle quali l'inerenza ai beni è immediata; il secondo
comma concerne le spese per l'uso, in cui sussiste comunque il collegamento con le cose:
l'obbligazione, ancorché influenzata nel quantum dalla misura dell'uso diverso, non prescinde dalla
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contitolarità delle parti comuni, che ne costituisce il fondamento. In ultima analisi, configurandosi
entrambe le obbligazioni come obligationes propter rem, in quanto connesse con la titolarità del
diritto reale sulle parti comuni, ed essendo queste obbligazioni comuni naturalisticamente divisibili
ex parte debitoris, il vincolo solidale risulta inapplicabile e prevale la struttura intrinsecamente
parziaria delle obbligazioni. D'altra parte, per la loro ripartizione in pratica si può sempre fare
riferimento alle diverse tabelle millesimali relative alla proprietà ed alla misura dell'uso.
2.5 Né la solidarietà può ricondursi alla asserita unitarietà del gruppo dei condomini.
Dalla giurisprudenza, il condominio si definisce come "ente di gestione", per dare conto del fatto
che la legittimazione dell'amministratore non priva i singoli partecipanti della loro legittimazione ad
agire in giudizio in difesa dei diritti relativi alle parti comuni; di avvalersi autonomamente dei
mezzi di impugnazione; di intervenire nei giudizi intrapresi dall'amministratore, ecc..
Ma la figura dell'ente, ancorché di mera gestione, suppone che coloro i quali ne hanno la
rappresentanza non vengano surrogati dai partecipanti. D'altra parte, gli enti di gestione in senso
tecnico raffigurano una categoria definita ancorché non unitaria, ai quali dalle leggi sono assegnati
compiti e responsabilità differenti e la disciplina eterogenea si adegua alle disparate finalità
perseguite (art. 3 legge 22 dicembre 1956, n. 1589). Gli enti di gestione operano in concreto
attraverso le società per azioni di diritto comune, delle quali detengono le partecipazioni azionarie e
che organizzano nei modi più opportuni: in attuazione delle direttive governative, razionalizzano le
attività controllate, coordinano i programmi e assicurano l'assistenza finanziaria mediante i fondi di
dotazione. Per la struttura, gli enti di gestione si contrassegnano in ragione della soggettività
(personalità giuridica pubblica) e dell'autonomia patrimoniale (la titolarità delle partecipazioni
azionarie e del fondo di dotazione).
Orbene, nonostante l'opinabile rassomiglianza della funzione - il fatto che l'amministratore e
l'assemblea gestiscano le parti comuni per conto dei condomini, ai quali le parti comuni
appartengono - le ragguardevoli diversità della struttura dimostrano la inconsistenza del ripetuto e
acritico riferimento dell'ente di gestione al condominio negli edifici.
Il condominio, infatti, non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti e di obbligazioni: la
titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli
condomini; agli stessi condomini sono ascritte le obbligazioni per le cose, gli impianti ed i servizi
comuni e la relativa responsabilità; le obbligazioni contratte nel cosiddetto interesse del condominio
non si contraggono in favore di un ente, ma nell'interesse dei singoli partecipanti.
Secondo la giurisprudenza consolidata, poi, l'amministratore del condominio raffigura un
ufficio di diritto privato assimilabile al mandato con rappresentanza: con la conseguente
applicazione, nei rapporti tra l'amministratore e ciascuno dei condomini, delle disposizioni sul
mandato.
Orbene, la rappresentanza, non soltanto processuale, dell'amministratore del condominio è
circoscritta alle attribuzioni - ai compiti ed ai poteri - stabilite dall'art. 1130 cod. civ..
In giudizio l'amministratore rappresenta i singoli condomini, i quali sono parti in causa nei limiti
della loro quota (art. 1118 e 1123 cod. civ.). L'amministratore agisce in giudizio per la tutela dei
diritti di ciascuno dei condomini, nei limiti della loro quota, e solo in questa misura ognuno dei
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condomini rappresentati deve rispondere delle conseguenze negative. Del resto, l'amministratore
non ha certo il potere di impegnare i condomini al di là del diritto, che ciascuno di essi ha nella
comunione, in virtù della legge, degli atti d'acquisto e delle convenzioni. In proporzione a tale
diritto ogni partecipante concorre alla nomina dell'amministratore e in proporzione a tale
diritto deve ritenersi che gli conferisca la rappresentanza in giudizio. Basti pensare che, nel caso in
cui l'amministratore agisca o sia convenuto in giudizio per la tutela di un diritto, il quale fa capo
solo a determinati condomini, soltanto i condomini interessati partecipano al giudizio ed essi
soltanto rispondono delle conseguenze della lite.
Pertanto, l'amministratore - in quanto non può obbligare i singoli condomini se non nei limiti dei
suoi poteri, che non contemplano la modifica dei criteri di imputazione e di ripartizione delle spese
stabiliti dall'art. 1123 c.c. - non può obbligare i singoli condomini se non nei limiti della rispettiva
quota.
2.5 Riepilogando, ritenuto che la solidarietà passiva, in linea di principio, esige la sussistenza
non soltanto della pluralità dei debitori e della identica causa dell'obbligazione, ma altresì
della indivisibilità della prestazione comune; che in mancanza di quest'ultimo requisito e in
difetto di una espressa disposizione di legge, la intrinseca parziarietà della obbligazione
prevale; considerato che l'obbligazione ascritta a tutti i condomini, ancorché comune, è
divisibile, trattandosi di somma di danaro; che la solidarietà nel condominio non è
contemplata da nessuna disposizione di legge e che l'art. 1123 cit., interpretato secondo il
significato letterale e secondo il sistema in cui si inserisce, non distingue il profilo esterno e
quello interno; rilevato, infine, che - in conformità con il difetto di struttura unitaria del
condominio, la cui organizzazione non incide sulla titolarità individuale dei diritti, delle
obbligazioni e della relativa responsabilità - l'amministratore vincola i singoli nei limiti delle
sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote: tutto ciò premesso, le
obbligazioni e la susseguente responsabilità dei condomini sono governate dal criterio dalla
parziarietà. Ai singoli si imputano, in proporzione alle rispettive quote, le obbligazioni assunte
nel cosiddetto "interesse del condominio", in relazione alle spese per la conservazione e per il
godimento delle cose comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e
per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Pertanto, le obbligazioni dei condomini sono
regolate da criteri consimili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ., per le obbligazioni
ereditarie, secondo cui i coeredi concorrono al pagamento dei debiti ereditali in proporzione
alle loro quote e l'obbligazione in solido di uno dei condebitori tra gli eredi si ripartisce in
proporzione alle quote ereditarie.
2.6 Il contratto, stipulato dall'amministratore rappresentante, in nome e nell'interesse dei
condomini rappresentati e nei limiti delle facoltà conferitegli, produce direttamente effetti nei
confronti dei rappresentati. Conseguita nel processo la condanna dell'amministratore, quale
rappresentante dei condomini, il creditore può procedere all'esecuzione individualmente nei
confronti dei singoli, secondo la quota di ciascuno.
Per concludere, la soluzione, prescelta secondo i rigorosi principi di diritto che regolano le
obbligazioni contrattuali comuni con pluralità di soggetti passivi, appare adeguata alle esigenze di
giustizia sostanziale emergenti dalla realtà economica e sociale del condominio negli edifici.
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Per la verità, la solidarietà avvantaggerebbe il creditore il quale, contrattando con l'amministratore
del condominio, conosce la situazione della parte debitrice e può cautelarsi in vari modi; ma appare
preferibile il criterio della parziarietà, che non costringe i debitori ad anticipare somme a volte
rilevantissime in seguito alla scelta (inattesa) operata unilateralmente dal creditore. Allo stesso
tempo, non si riscontrano ragioni di opportunità per posticipare la ripartizione del debito tra i
condomini al tempo della rivalsa, piuttosto che attuarla al momento dell'adempimento.
7.2 Cass. 29 gennaio 2015, n. 1674
La responsabilità dei condomini nel caso di obbligazioni pecuniarie è retta dal criterio della
parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli
componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati
dagli artt. 752 e 1295 c.c.
3. - Il primo motivo del ricorso principale (che sebbene genericamente intitolato è chiaramente
riferito, nello svolgimento e nel quesito di diritto, alla violazione dell'art. 1294 c.c.) è fondato nei
termini che seguono.
3.1. - La natura delle obbligazioni dei singoli condomini verso i terzi è i stata oggetto, vigente la
disciplina anteriore alla legge n. 220/12 (in vigore dal 18.6.2013), di un intervento delle S.U. di
questa Corte, le quali con sentenza n. 9148/08 hanno affermato, in rapporto a obbligazioni assunte
dall'amministratore in rappresentanza del condominio nei confronti di terzi, che in difetto di
un'espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, la responsabilità dei
condomini nel caso di obbligazioni pecuniarie è retta dal criterio della parziarietà, per cui le
obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in
proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 c.c..
Ciò in quanto, si legge in motivazione, la solidarietà configura, nei rapporti esterni tra creditore e
debitori, il modo di essere di un'obbligazione intrinsecamente parziaria quando la legge privilegia la
comunanza della prestazione. Diversamente, in assenza, cioè di un'espressa previsione normativa
che stabilisca la solidarietà nel debito, la struttura parziaria dell'obbligazione ha il sopravvento e
insorge una pluralità di obbligazioni tra loro connesse. Sebbene la solidarietà raffiguri un principio
riguardante i condebitori in genere, tale principio generale è valido laddove, in concreto, sussistano
tutti i presupposti previsti dalla legge per l'attuazione congiunta del condebito. E poiché la
solidarietà, spesso, viene ad essere la configurazione ex lege, nei rapporti esterni, di un'obbligazione
intrinsecamente parziaria, in difetto di configurazione normativa dell'obbligazione come solidale e,
contemporaneamente, in presenza di un'obbligazione comune, ma naturalisticamente divisibile,
viene meno uno dei requisiti della solidarietà, la quale, del resto, viene meno ogni qual volta la
fonte dell'obbligazione comune è intimamente collegata con la titolarità delle res.
3.1.1. - Tale pronuncia delle S.U., emessa con riguardo ad un'obbligazione contrattuale che un
condominio tramite il suo amministratore aveva assunto verso un terzo, ricollega dunque la
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solidarietà nelle obbligazioni divisibili ad una previsione legislativa che imponga l'esecuzione
congiunta della prestazione.
In disparte il delicato problema dell'esportabilità del principio anzi detto oltre gli stretti limiti di
corrispondenza alla fattispecie concreta posta all'esame delle S.U. (per un'argomentata negativa cfr.
in motivazione Cass. n. 21907/11, che osserva come la decisione delle S.U. si basi essenzialmente
su considerazioni ulteriori che eccedono il fondamento dell'art. 1294 c.c. e la sua applicabilità alla
comunione), va osservato che in materia di responsabilità per fatto illecito l'espressa previsione
della solidarietà passiva è contenuta nell'art. 2055, primo comma c.c., in base al quale se il
fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del
danno.
3.1.2. - L'applicabilità dell'art. 2055 c.c. (che opera un rafforzamento del credito evitando al
creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori pro quota) ai danni da cosa
condominiale in custodia trova una prima conferma, innanzi tutto, in alcuni precedenti di questa
Corte, come Cass. n. 6665/09, che ha ritenuto il condomino danneggiato quale terzo rispetto allo
stesso condominio cui è ascrivibile il danno stesso (con conseguente inapplicabilità dell'art. 1227,
primo comma c.c.); Cass. n. 4797/01, per l'ipotesi di danni da omessa manutenzione del terrazzo di
copertura cagionati al condomino proprietario dell'unità immobiliare sottostante; Cass. n. 6405/90,
secondo cui i singoli proprietari delle varie unità immobiliari comprese in un edificio condominiale,
sono a norma dell'art. 1117 c.c. (salvo che risulti diversamente dal titolo) comproprietari delle parti
comuni, tra Le quali il lastrico solare, assumendone la custodia con il correlativo obbligo di
manutenzione, con la conseguenza, nel caso di danni a terzi per difetto di manutenzione del detto
lastrico, della responsabilità solidale di tutti i condomini, a norma degli artt. 2051 e 2055 c.c..
3.1.3. - Ciò premesso a giustificazione di una linea di tendenza che appare già presente, va
osservato che premesse storiche, ragioni sistematiche e considerazioni particolari alla fattispecie
della responsabilità per danni derivanti da cose in custodia, confortano la tesi dell'applicabilità
dell'art. 2055, 1 comma c.c. anche in ambito condominiale.
Nel codice civile del 1865, che come tutti i codici liberali dell'800 richiedeva, essendo ispirato al
favor debitoris, una specifica fonte convenzionale o legale della solidarietà (v. l'art. 1188 c.c. 1865),
la previsione della solidarietà passiva nelle ipotesi di delitto o quasi-delitto (v. l'art. 1156 c.c. 1865)
impediva che l'opposto principio della
parziarietà dell'obbligazione, concepito come una sorta di beneficio, potesse operare anche a
vantaggio di chi, essendo autore di un illecito aquiliano, non ne era ritenuto degno.
Invertita nel codice vigente la regola generale sulla solidarietà passiva, l'art. 2055 c.c. può ritenersi
mera norma di rimando all'art. 1294 c.c. solo a patto di riespandere quella portata generale e
autoreferenziale di quest'ultima disposizione, che il citato arresto delle S.U. ha inteso comprimere.
Diversamente, minore è la pervasività della regola generale nelle singole ipotesi di obbligazioni
soggettivamente complesse nel lato passivo, maggiore, di riflesso, è l'autonoma incidenza fondativa
delle norme che prevedono la solidarietà in ambiti particolari, tra cui appunto l'art. 2055, 1 comma
c.c. per quanto concerne la responsabilità extracontrattuale. Non può ipotizzarsi, infatti, che il
sistema ponga allo stesso modo, con disposizioni ugualmente generiche e necessitanti
d'integrazione, tanto la regola generale quanto quella di settore.
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A ciò va aggiunto che la stessa struttura della responsabilità per danni prevista dall'art. 2051 c.c.
presuppone l'identificazione di uno o più soggetti cui sia imputabile la custodia. Il custode non può
essere identificato né nel condominio, interfaccia idoneo a rendere il danneggiato terzo rispetto agli
altri condomini, ma pur sempre ente di sola gestione di beni comuni, né nel suo amministratore,
essendo questi un mandatario dei condomini. Solo questi ultimi, invece, possono considerarsi
investiti del governo della cosa, in base ad una disponibilità di fatto e ad un potere di diritto che
deriva loro dalla proprietà piena sui beni comuni ex art. 1117 c.c. (sui requisiti in generale della
custodia ai fini dell'applicazione dell'art. 2051 c.c., cfr. Cass. S.U. n. 12019/91).
Se ne deve trarre, pertanto, che il risarcimento del danno da cosa in custodia di proprietà
condominiale non si sottrae alla regola della responsabilità solidale ex art. 2055, 1 comma c.c.,
individuati nei singoli condomini i soggetti solidalmente responsabili.
8. LE SEZIONI UNITE SULLE OBBLIGAZIONI SOLIDALI IN TEMA DI ILLECITO
AQUILIANO: Cass. Sez. Un. 15 luglio 2009, n. 16503
NOTE INTRODUTTIVE
In contrapposizione all'art. 2043 c.c., che fa sorgere l'obbligo del risarcimento dalla commissione di
un «fatto» doloso o colposo, il successivo art. 2055 considera, ai fini della solidarietà nel
risarcimento stesso, il «fatto dannoso», sicché, mentre la prima norma si riferisce all'azione del
soggetto che cagiona l'evento, la seconda riguarda la posizione di colui che subisce il danno, ed
in cui favore è stabilita la solidarietà.
Deriva, da quanto precede, che l'unicità del fatto dannoso richiesta dal ricordato art. 2055 per
la legittima predicabilità di una responsabilità solidale tra gli autori dell'illecito deve essere
intesa in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato, ricorrendo, pertanto, tale forma di
responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose,
costituenti fatti illeciti distinti, ed anche diversi, sempreché le singole azioni o omissioni abbiano
concorso in maniera efficiente alla produzione del danno.
In altri termini, per il sorgere della responsabilità solidale dei danneggianti l'art. 2055, comma 1,
c.c. richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano
tra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone, anche
nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale e extracontrattuale, atteso che
l'unicità del fatto dannoso considerata dalla norma suddetta deve essere riferita unicamente al
danneggiato e non va intesa come identità delle norme giuridiche da essi violate.
Massima
In tema di risarcimento del danno, non può considerarsi favorevole al debitore solidale - per gli
effetti di cui all'art. 1306, secondo comma, cod. civ. - il capo della sentenza che abbia affermato
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la sussistenza del concorrente apporto causale dello stesso creditore al verificarsi dell'evento
lesivo, a norma dell'art. 1227, primo comma, cod. civ., qualora il creditore, in un secondo
giudizio, intenda imputare al terzo, non convenuto in un precedente giudizio, proprio la
responsabilità di quell'apporto causale che il primo giudice abbia ritenuto scriminante della
responsabilità del primo convenuto. (Nella specie, conclusosi un primo giudizio con una sentenza,
passata in giudicato, con cui era stata ascritta la responsabilità dell'investimento di un minore per
il 50% al proprietario conducente del veicolo investitore con pari concorso della vittima ed erano
stati condannati il predetto proprietario e la compagnia di assicurazione al risarcimento della metà
dei danni, l'investito, in un secondo giudizio, aveva chiesto, tra l'altro, la condanna del Ministero
della Pubblica Istruzione al risarcimento dei danni nella misura della metà non risarcita dai
convenuti nel primo giudizio, previo accertamento della responsabilità del Ministero per colpa "in
vigilando". La S.C., in applicazione del riportato principio, ha cassato con rinvio la sentenza
impugnata che aveva ritenuto sussistente la facoltà del predetto Ministero, rimasto estraneo al
primo giudizio, di opporre, ai sensi del secondo comma dell'art. 1306 cod. civ., all'investito la
sentenza passata in giudicato, così giovandosi dell'accertamento fatto nei rapporti con gli altri
condebitori solidali).
Motivazione
10. Con il primo motivo il ricorrente S. R. censura la sentenza impugnata denunziando “violazione
e falsa applicazione degli artt. 1306, 2° comma e 2909 c.c. e dell'art. 112 c.p.c.; omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360, nn.
3, 4 e 5 c.p.c.)”.
Assume, in particolare, il ricorrente che la deroga al principio dei limiti soggettivi del giudicato, di
cui all'art. 1306, comma 2, c.c. può operare solo con riferimento alle obbligazioni solidali nascenti
da uno stesso titolo.
11. Nei limiti di cui appresso il motivo è fondato.
Alla luce delle considerazioni che seguono.
11.1. In tema di obbligazioni solidali, giusta la puntuale previsione di cui all'art. 1306 c.c. “la
sentenza pronunziata tra il creditore e uno dei debitori in solido, o tra il debitore e uno dei creditori
in solido, non ha effetto contro gli altri debitori o contro gli altri creditori” (comma 1).
“Gli altri debitori - peraltro - possono opporla al creditore, salvo che sia fondata sopra ragioni
personali al condebitore; gli altri creditori possono farla valere contro il debitore, salve le eccezioni
personali che questi può opporre a ciascuno di essi” (comma 2).
11.2. In applicazione della disposizione da ultimo trascritta la sentenza ora oggetto di ricorso per
cassazione, ha rigettato la domanda proposta da S. R. nei confronti del Ministero osservando:
- il giudizio (tra il danneggiato e il T. nonché la compagnia assicuratrice del veicolo dallo stesso
condotto), conclusosi con sentenza passata in giudicato 8 luglio 1987 ha avuto a oggetto lo stesso
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fatto generatore del danno, ossia l'investimento di S. R. a opera dell'auto condotta dal T. e di sua
proprietà, dedotto in questa sede al fine di estendere la responsabilità del Ministero quale soggetto
autore di una condotta autonoma, antecedente che avrebbe concorso, mediante omissione di
doverose cautele, a provocare il sinistro;
- da ciò discende che il Ministero, chiamato a rispondere quale condebitore solidale in relazione al
medesimo fatto generatore del danno, ancorché con ruolo causale autonomo per condotta
antecedente, e rimasto estraneo al giudizio, ha facoltà - ai sensi dell'art. 1306, comma 2 c.c. - di
opporre allo S., quale creditore, la sentenza passata in giudicato, così giovandosi dell'accertamento,
ormai irretrattabile, fatto nei rapporti con gli altri condebitori solidali, in forza del quale il danno,
per metà, deve restare a carico della vittima, senza possibilità di rivalsa nei confronti degli altri
condebitori.
11.3. L'interpretazione data, dalla sentenza gravata, al combinato disposto di cui agli artt. 1306,
comma 2 e 2909 c.c. non merita - a parere di queste Sezioni Unite - conferma.
11.3.1. Come noto, in contrapposizione all'art. 2043 c.c., che fa sorgere l'obbligo del
risarcimento dalla commissione di un «fatto» doloso o colposo, il successivo art. 2055
considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, il «fatto dannoso», sicché, mentre la
prima norma si riferisce all'azione del soggetto che cagiona l'evento, la seconda riguarda la
posizione di quello che subisce il danno, ed in cui favore è stabilita la solidarietà.
Deriva, da quanto precede, che l'unicità del fatto dannoso richiesta dal ricordato art. 2055 per
la legittima predicabilità di una responsabilità solidale tra gli autori dell'illecito deve essere
intesa in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato, ricorrendo, pertanto, tale forma di
responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose,
costituenti fatti illeciti distinti, ed anche diversi, sempreché le singole azioni o omissioni
abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno (Cass. 15 luglio 2005, n.
15030).
In altri termini, per il sorgere della responsabilità solidale dei danneggianti l'art. 2055,
comma 1, c.c. richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le
condotte lesive siano tra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di
ciascuna di tali persone, anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità
contrattuale e extracontrattuale, atteso che l'unicità del fatto dannoso considerata dalla
norma suddetta deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità
delle norme giuridiche da essi violate (Cass. 16 dicembre 2005, n. 27713; Cass. 14 gennaio 1996,
n. 418).
11.3.2. Certo quanto sopra, osserva la Corte che nella specie la sentenza del 1987, coperta da
giudicato, ha ritenuto - in esito a un giudizio al quale non ha partecipato il Ministero odierno
controricorrente - che il fatto dannoso denunziato (le lesioni riportate da S. R.) fosse ascrivibile alla
concorrente responsabilità de il T., che ha investito lo S. (per il 50 %) e dello stesso S. (per il
restante 50%) che non ha prestato la dovuta attenzione nell'attraversare la carreggiata stradale
percorsa dal T..
11.3.3. È evidente, pertanto, che il giudicato formatosi in quella sede [e opponibile al creditore da
parte del Ministero, condebitore solidale] riguarda, oltre che la misura del danno conseguente
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all'evento (cfr. Cass. 11 giugno 2008, n. 15462) non - come implicitamente ritenuto dalla sentenza
impugnata - tutte le autonome, e distinte, condotte poste in essere da tutti coloro che - almeno in tesi
- possono ritenersi responsabili solidali dell'evento, ma unicamente il comportamento colposo di
uno di questi, e, in particolare, del T..
Non essendo stato oggetto di indagine, in quel giudizio, la diversa, e autonoma, condotta del
Ministero che ha omesso di vigilare sul comportamento dello S., all'epoca dei fatti minore, è
evidente che nessun giudicato, si è formato - ex art. 2909 c.c. - su tale omessa (o insufficiente)
vigilanza.
11.3.4. Certo quanto sopra, e certo che nella specie il danneggiato non ha ottenuto - in esito al
precedente giudizio - l'integrale risarcimento del pregiudizio patito (e già accertato) è palese che
non sussisteva alcuna preclusione, perché il danneggiato - dopo il passaggio in giudicato della
sentenza nei confronti del T. - agisca, per ottenere il residuo risarcimento, nei confronti del
Ministero per la verifica di tale diversa colpa in vigilando.
A fronte di tale domanda, correttamente - in applicazione dell'art. 1306, comma 2, c.c. - il Ministero
(al fine di paralizzare almeno in parte, l'accoglimento della domanda avversaria) ha opposto che era
oramai irretrattabile sia il quantum debeatur del fatto dannoso, sia che di questo il T. era
responsabile al 50%.
È certo - infatti - che in questo secondo giudizio lo S. non può pretendere danni ulteriori né il
pagamento, dal coobbligato solidale delle somme già riscosse in forza del precedente titolo
dall'altro coobbligato (cfr. Cass. 2 luglio 2004, n. 12174).
11.3.5. Deve escludersi, peraltro, come anticipato, che sia precluso in questo nuovo giudizio il
diverso accertamento - ora sollecitato dallo S. - quanto alla rilevanza della condotta negligente della
scuola, e quindi del Ministero, per avere omesso i dovuti controlli prima di lasciare libero il
minore.
Infatti, a prescindere dal rilevare che nessun accertamento, con forza di giudicato, è stato mai
compiuto al riguardo, non può considerarsi favorevole al debitore solidale - per gli effetti di
cui all'art. 1306, comma 2, c.c. - il capo della sentenza che abbia affermato la sussistenza del
concorrente apporto causale dello stesso creditore al verificarsi dell'evento lesivo (a norma
dell'art. 1227, comma 1, c.c.) qualora il creditore nel secondo giudizio intenda imputare al
terzo, non convenuto nel precedente giudizio, la responsabilità proprio di quell'apporto
causale che il primo giudice abbia ritenuto scriminante della responsabilità del primo
convenuto.
9. PATTO COMMISSORIO E PATTO MARCIANO
NOTA INTRODUTTIVA
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Le quattro sentenze di seguito riportate, relative all’istituto del c.d. “patto commissorio”, appaiono
di particolare interesse in quanto dimostrano il costante sforzo che la recente giurisprudenza sta
compiendo al fine di bilanciare opposti principi.
Muovendo infatti dalla ratio giustificatrice della norma di cui all’art. 2744 c.c., ossia l’esigenza
di offrire adeguata protezione al debitore, quale soggetto debole del rapporto obbligatorio, e quindi
a rischio di subire prevaricazioni imposte dal creditore (come, ad esempio, un trasferimento di
proprietà di un bene assistito non da una causa traslativa ma di mera garanzia), la Suprema Corte ha
dapprima tracciato il perimetro applicativo della fattispecie de qua, individuando alcuni indici
sintomatici, oggetto di attento scrutinio da parte del giudice, con riguardo a ipotesi formalmente non
ricomprese nel divieto di patto commissorio (sale and lease back, contratto preliminare-definitivo,
vendita con patto di riscatto o di retrovendita).
D’altra parte, rifuggendo qualsiasi logica iperprotettiva a favore del debitore e collocandosi
lungo un solco di maggiore giustizia ed equilibrio del rapporto, la Cassazione ha valorizzato il
c.d. “patto marciano” (fondato sulla preventiva stima del bene e sulla eventuale corresponsione, al
debitore, della differenza tra il credito e il valore della res), quale clausola correttiva del patto
commissorio, in grado di sanare gli aspetti disfunzionali e patologici censurati dall’art. 2744 c.c
9.1 Cass., sez. II, sentenza 21 gennaio 2016, n. 1075
L'art. 2744 c.c., sancendo il divieto del patto commissorio, postula che il trasferimento della
proprietà della cosa sia sospensivamente condizionato al verificarsi dell'evento futuro ed incerto
del mancato pagamento del debito, sicché detto patto non è configurabile qualora il trasferimento
avvenga, invece, allo scopo di soddisfare un precedente credito rimasto insoluto. (Nella specie, la
S.C. ha ritenuto congruamente motivata la decisione impugnata che aveva escluso che l'operazione
fosse finalizzata ad uno scopo di garanzia in quanto parte del prezzo della compravendita era stato
utilizzato per ripianare debiti scaduti verso l'amministratore della società acquirente e nei
confronti di terzi, mentre per i debiti non ancora esigibili nei confronti di terze società, la
rateizzazione mensile del prezzo residuo poteva considerarsi una delegazione di pagamento di tali
preesistenti obbligazioni da parte del "debitor debitoris").
(omissis) Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il divieto del patto commissorio,
sancito dall'art. 2744 c.c., si estende a qualsiasi negozio, ancorché di per sè astrattamente
lecito, che venga impiegato per conseguire il concreto risultato, vietato - dall'ordinamento, di
assoggettare il debitore all'illecita coercizione da parte del creditore, sottostando alla volontà
del medesimo di conseguire il trasferimento della proprietà di un suo bene, quale conseguenza della
mancata estinzione di un debito (v., tra le tante, Cass. 12-1-2009 n. 437; Cass. 11-6-2007 n. 13621;
Cass. 19-5-2004 n. 9466; Cass. 2, 20-7-1999 n. 7740).
In particolare, è stato puntualizzato che la vendita con patto di riscatto o di retrovendita, anche
quando sia previsto il trasferimento effettivo del bene, è nulla se stipulata per una causa di garanzia
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(piuttosto che per una causa di scambio), nell'ambito della quale il versamento del danaro, da parte
del compratore, non costituisca pagamento del prezzo ma esecuzione di un mutuo, ed il
trasferimento del bene serva solo per costituire una posizione di garanzia provvisoria capace di
evolversi a seconda che il debitore adempia o meno l'obbligo di restituire le somme ricevute.
La predetta vendita, infatti, in quanto caratterizzata dalla causa di garanzia propria del mutuo con
patto commissorio, piuttosto che dalla causa di scambio propria della vendita, pur non integrando
direttamente un patto commissorio vietato dall'art. 2744 c.c., costituisce un mezzo per eludere tale
norma imperativa ed esprime, perciò, una causa illecita che rende applicabile, all'intero contratto, la
sanzione dell'art. 1344 c.c. (Cass. 4-3-1996 n. 1657; Cass. 20-7-2001 n. 9900; Cass. 8-2- 2007 n.
2725).
E stato rilevato, al contrario, che va esclusa la violazione del divieto del patto commissorio in caso
di mancanza di prova del mutuo (cfr. Cass. 5635/05), oppure qualora la vendita sia pattuita allo
scopo, non già di garantire l'adempimento di un'obbligazione con riguardo all'eventualità non
ancora verificatasi che rimanga inadempiuta, ma di soddisfare un precedente credito rimasto
insoluto (cfr. Cass. 19950/04, Cass. 7885/01), o quando manchi l'illecita coercizione del debitore a
sottostare alla volontà del ereditare, accettando preventivamente il trasferimento di un suo bene
come conseguenza della mancata estinzione del debito che viene a contrarre (cfr. Cass. 8411/03); e
che il divieto di tale patto non è applicabile allorquando la titolarità del bene passi all'acquirente con
l'obbligo di ritrasferimento al venditore se costui provvederà all'esatto adempimento (Cass. 17-3-
1014 n. 6175). (omissis)
9.2 Cass. sentenza 28 gennaio 2015, n. 1625
Lo schema socialmente tipico del lease back presenta autonomia strutturale e funzionale, quale
contratto di impresa, e caratteri peculiari di natura oggettiva e soggettiva che non consentono di
ritenere che esso integri, per sua natura e nel suo fisiologico operare, una fattispecie che, in quanto
realizzi una alienazione a scopo di garanzia, si risolva in un negozio atipico nullo per illiceità della
causa concreta.
Peraltro, la causa concreta del contratto di sale and lease back ben può essere piegata al fine
illecito vietato dall'art. 2744 c.c., il quale costituisce una norma materiale, destinata a trovare
applicazione non soltanto in relazione alle alienazioni a scopo di garanzia sospensivamente
condizionate all'inadempimento del debitore, ma anche a quelle immediatamente traslative e
risolutivamente condizionate all'adempimento del debitore, esprimendo essa un divieto di risultato.
L'effetto di piegare un negozio lecito al raggiungimento di un risultato contrario alla norma
imperativa dipende, pertanto, dalle circostanze del caso concreto e dalle clausole negoziali presenti
nell'accordo, fondandosi su tali elementi di fatto la corretta qualificazione della fattispecie.
Occorrerà la ravvisabilità di un nesso funzionale, che renda manifesto l'intento negoziale
complessivo delle parti.
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Il patto marciano - clausola contrattuale con la quale si mira ad impedire che il concedente, in
caso di inadempimento, si appropri di un valore superiore all'ammontare del suo credito,
pattuendosi che, al termine del rapporto, si proceda alla stima del bene e il creditore sia tenuto al
pagamento in favore del venditore dell'importo eccedente l'entità del credito esclude l'illiceità della
causa del negozio.
Esso è strumento idoneo a scongiurare l'illiceità.
La cautela marciana riesce a superare i profili di possibile illiceità del lease back, in quanto
prevede, al termine del rapporto, la stima del bene oggetto di garanzia quale presupposto del
consolidarsi dell'effetto traslativo iniziale, evenienza che si verificherà qualora il valore del bene
sia equiparabile all'importo del credito inadempiuto (nonché del danno da inadempimento);
mentre, ove tale importo sarà inferiore, verrà quantificata la differenza e sarà pagato un prezzo
aggiuntivo al debitore, quale condizione del consolidamento dell'effetto traslativo.
Ciò garantirebbe contro il pericolo che il debitore subisca una lesione in conseguenza del
trasferimento con funzione di garanzia: la stima imparziale del valore del bene ad opera di un terzo
e l'obbligo, da parte del creditore, di restituire l'eccedenza al debitore assumono, quindi, il compito
di escludere l'abuso, e con esso l'operatività del divieto di patto commissorio e la conseguente
illiceità.
(omissis)
La stessa giurisprudenza di legittimità ha individuato, per distinguere il leasing puro da
quello anomalo in quanto confliggente con il divieto di patto commissorio, tre essenziali
criteri:
l'esistenza di una situazione debitoria in capo all'impresa utilizzatrice verso la concedente, le
difficoltà economiche della prima e la sproporzione tra corrispettivo e valore del bene: ma tali
indici mancherebbero nella vicenda in esame.
(omissis)
2.2. - Questa Corte ha da tempo chiarito che lo schema socialmente tipico del lease back presenta
autonomia strutturale e funzionale, quale contratto di impresa, e caratteri peculiari di natura
oggettiva e soggettiva che non consentono di ritenere che esso integri, per sua natura e nel suo
fisiologico operare, una fattispecie che, in quanto realizzi una alienazione a scopo di garanzia, si
risolva in un negozio atipico nullo per illiceità della causa concreta (Cass. 22 marzo 2007, n. 6969;
14 marzo 2006, n. 5438, ed altre).
Peraltro, la causa concreta del contratto di sale and lease back ben può essere piegata al fine illecito
vietato dall'art. 2744 c.c., il quale costituisce una norma materiale, destinata a trovare applicazione
non soltanto in relazione alle alienazioni a scopo di garanzia sospensivamente condizionate
all'inadempimento del debitore, ma anche a quelle immediatamente traslative e risolutivamente
condizionate all'adempimento del debitore (Cass., sez. un., 3 aprile 1989, n. 1611, e successive,
quale, fra le altre, 16 ottobre 1995, n. 10805, 19 luglio 1997, n. 6663 e 2 febbraio 2006, n. 2285),
esprimendo essa un divieto di risultato.
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Si è altresì precisato (Cass. 26 giugno 2001, n. 874; 19 luglio 1997, n. 6663) che la verifica se lo
schema negoziale del lease back sia stato in concreto impiegato per eludere il divieto di patto
commissorio va operata dal giudice del merito in base ad elementi sintomatici sia soggettivi che
oggettivi, i quali non sono sindacabili in sede di legittimità, se non nell'ambito del controllo sulla
motivazione.
L'effetto di piegare un negozio lecito al raggiungimento di un risultato contrario alla norma
imperativa dipende, pertanto, dalle circostanze del caso concreto e dalle clausole negoziali presenti
nell'accordo, fondandosi su tali elementi di fatto la corretta qualificazione della fattispecie.
Occorrerà la ravvisabilità di un nesso funzionale, che renda manifesto l'intento negoziale
complessivo delle parti; ma l'individuazione della causa concreta del negozio, ai fini della
valutazione della sua liceità alla luce del complessivo regolamento d'interessi perseguito, appartiene
alla sfera di competenze riservate al giudice del merito, sindacabile solo per vizio di motivazione.
(omissis)
2.4. - La censura della ricorrente fa leva, inoltre, sulla presenza nel contratto di una c.d. clausola
marciana, secondo cui, per come riferita in ricorso, in caso di risoluzione per inadempimento il
concedente potrà pretendere che l'utilizzatore paghi i canoni scaduti, gli interessi moratori, le spese
ed un importo pari all'ammontare dei canoni non scaduti, dovendosi da ciò dedurre quanto
conseguito dal concedente in seguito alla vendita del bene.
Nell'assunto della ricorrente, tale clausola esclude il carattere fraudolento e vietato del lease back.
(omissis)
2.5. - Secondo quanto affermato da questa Corte, il patto marciano - clausola contrattuale con
la quale si mira ad impedire che il concedente, in caso di inadempimento, si appropri di un
valore superiore all'ammontare del suo credito, pattuendosi che, al termine del rapporto, si
proceda alla stima del bene e il creditore sia tenuto al pagamento in favore del venditore
dell'importo eccedente l'entità del credito (iure emptoris possideat rem iusto pretio tunc
aestimandam, secondo la tradizione giustinianea) esclude l'illiceità della causa del negozio, la
quale non sussiste "pur in presenza di costituzione di garanzie che presuppongano un
trasferimento di proprietà, qualora queste risultino integrate entro schemi negoziali che tale
abuso escludono in radice, come nel caso del pegno irregolare, del riporto finanziario e del c.d.
patto marciano - in virtù del quale, come è noto, al termine del rapporto si procede alla stima,
ed il creditore, per acquisire il bene, è tenuto al pagamento dell'importo eccedente l'entità del
credito" (così Cass. 21 gennaio 2005, n. 1273).
Più di recente, il medesimo concetto è stato di nuovo espresso, sebbene ancora in via incidentale,
escludendosi la violazione dell'art. 2744 c.c. in presenza di un patto marciano "in virtù del quale al
termine del rapporto si procede alla stima ed il creditore, per acquisire il bene, è tenuto al
pagamento dell'importo eccedente l'entità del credito" (Cass. 9 maggio 2013, n. 10986).
Si ritiene, dunque, che il c.d. patto marciano sia strumento idoneo a scongiurare l'illiceità,
permettendo l'uso di uno contratto finanziario, come il lease back, ritenuto vantaggioso dagli
utilizzatori: si riconosce così la "ragionevolezza commerciale" dell'intera operazione per entrambe
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le parti, rispondendo essa alle peculiari "esigenze del mercato" che esige, in dati casi, l'anticipata
monetizzazione del valore del bene in favore dell'utilizzatore-venditore, senza che egli però ne
perda il godimento o se ne privi definitivamente.
In tal senso, si reputa, da molti interpreti, che la cautela marciana riesca a superare i profili di
possibile illiceità del lease back, in quanto prevede, al termine del rapporto, la stima del bene
oggetto di garanzia quale presupposto del consolidarsi dell'effetto traslativo iniziale, evenienza che
si verificherà qualora il valore del bene sia equiparabile all'importo del credito inadempiuto (nonchè
del danno da inadempimento); mentre, ove tale importo sarà inferiore, verrà quantificata la
differenza e sarà pagato un prezzo aggiuntivo al debitore, quale condizione del consolidamento
dell'effetto traslativo.
Ciò garantirebbe contro il pericolo che il debitore subisca una lesione in conseguenza del
trasferimento con funzione di garanzia: la stima imparziale del valore del bene ad opera di un terzo
e l'obbligo, da parte del creditore, di restituire l'eccedenza al debitore assumono, quindi, il compito
di escludere l'abuso, e con esso l'operatività del divieto di patto commissorio e la conseguente
illiceità.
Il Collegio ritiene che tale principio vada ora affermato.
Fondamento dell'effetto salvifico è, da un lato, l'idoneità della clausola a ristabilire l'equilibrio
sinallagmatico tra le prestazioni del contratto di lease back (requisito svalutato da chi reputa che
l'art. 2744 c.c. non esiga alcuna sproporzione dei valori, ma dovendosi invece ribadire che
l'ordinamento presume detta sproporzione nel meccanismo vietato), e, dall'altro lato, la sua capacità
di scongiurare che l'attuazione coattiva del credito avvenga senza alcun controllo dei valori
patrimoniali in gioco.
Così come in altre fattispecie - per l'art. 1851 c.c., in presenza di un pegno irregolare a garanzia, "la
banca deve restituire solo la somma o la parte delle merci o dei titoli che eccedono l'ammontare dei
crediti garantiti"; nella cessione dei beni ai creditori, l'art. 1982 c.c. attribuisce il residuo al debitore;
quanto alle garanzie reali tipiche, ad esempio, l'art. 2798 c.c. ammette l'assegnazione al creditore
della cosa oggetto del pegno solo previa "stima da farsi con perizia o secondo il prezzo corrente, se
la cosa ha un prezzo di mercato", l'art. 2803 c.c. prevede la riscossione del credito dato in pegno,
ma, se il credito garantito è scaduto, "il creditore può ritenere del denaro ricevuto quanto basta per il
soddisfacimento delle sue ragioni e restituire il residuo al costituente o, se si tratta di cose diverse
dal danaro, può farle vendere o chiederne l'assegnazione" secondo la norma ora citata e l'art. 2804
c.c. sancisce che il creditore pignoratizio non soddisfatto può in ogni caso chiedere che gli sia
assegnato in pagamento il credito ricevuto in pegno "fino a concorrenza del suo credito"; più in
generale, tutto il sistema del processo esecutivo per espropriazione forzata e di quello fallimentare
mira ad assicurare la tutela, sotto il profilo indicato, del debitore - l'ordinamento permette la
realizzazione coattiva dei diritti del creditore, purché sia tutelato pure il diritto del debitore a pagare
al creditore quanto in effetti gli spetti.
Per tale ragione, è necessario allora che, sin dalla conclusione del contratto di lease back, siano stati
previsti meccanismi oggettivi e procedimentalizzati che, sulla falsariga delle disposizioni ora
ricordate, permettano la verifica di congruenza tra valore del bene oggetto della garanzia, che viene
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definitivamente acquisito al creditore, ed entità del credito; per la stessa ragione, non avrebbe tale
effetto la verifica del "giusto prezzo" al momento della conclusione del contratto.
Perché la c.d. clausola marciana possa conseguire il ricordato effetto legalizzante del contratto
di lease back, occorre pertanto che essa preveda, per il caso ed al momento
dell'inadempimento ossia quando si attuerà coattivamente la pretesa creditoria (cfr. art. 1851
c.c.), un procedimento volto alla stima del bene, entro tempi certi e con modalità definite, che
assicurino la presenza di una valutazione imparziale, in quanto ancorata a parametri oggettivi
automatici, oppure affidata a persona indipendente ed esperta la quale a detti parametri farà
riferimento (cfr. art. 1349 c.c.), al fine della corretta determinazione dell'an e del quantum
della eventuale differenza da corrispondere all'utilizzatore.
La pratica degli affari potrà poi prevedere diverse modalità concrete di stima, purchè siano rispettati
detti requisiti. L'essenziale è che risulti, dalla struttura del patto, che le parti abbiano in anticipo
previsto che, nella sostanza dell'operazione economica, il debitore perderà eventualmente la
proprietà del suo bene per un prezzo giusto, determinato al tempo dell'inadempimento, perchè il
surplus gli sarà senz'altro restituito.
Non è invece necessario che la clausola marciana subordini, altresì, alla condizione del pagamento
della differenza l'acquisizione del bene da parte del creditore: invero, così come per il divieto ex art.
2744 c.c., anche la clausola marciana può essere in concreto articolata non solo nel senso di
ancorare all'inadempimento il trasferimento della proprietà del bene, ma pure il consolidamento
dell'effetto traslativo già realizzato, che si verificherà solo ove sia corrisposta l'eventuale differenza.
(omissis)
9.3 Cass. civ., sentenza 21 maggio 2013, n. 12462
Il divieto del patto commissorio sancito dall'art. 2744 c.c., con la conseguente sanzione di nullità
radicale, si estende a qualsiasi negozio, ancorché di per sé astrattamente lecito, qualora venga
impiegato per conseguire il fine concreto, riprovato dall'ordinamento, della illecita coercizione del
debitore, costringendolo al trasferimento di un bene a scopo di garanzia nella ipotesi di mancato
adempimento di una obbligazione assunta.
(omissis)
Deve premettersi che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il divieto del patto
commissorio sancito dall'art. 2744 c.c., con la conseguente sanzione di nullità radicale, si estende a
qualsiasi negozio, ancorché di per sé astrattamente lecito, allorché esso venga impiegato per
conseguire il fine concreto, riprovato dall'ordinamento, della illecita coercizione del debitore,
costringendolo al trasferimento di un bene a scopo di garanzia nella ipotesi di mancato
adempimento di una obbligazione assunta.
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In particolare, si ritiene pacificamente che il patto commissorio possa essere ravvisato anche di
fronte a più negozi tra loro collegati, quando da essi scaturisca un assetto di interessi
complessivo tale da far ritenere che il procedimento negoziale attraverso il quale deve
compiersi il trasferimento di un bene del debitore sia collegato, piuttosto che alla funzione di
scambio, ad uno scopo di garanzia, a prescindere dalla natura meramente obbligatoria o
traslativa o reale del contratto (v. Cass. 23-10-1999 n. 11924; Cass. 23-10-1994 n. 11924; Cass.
15-8-1990 n. 8325), ovvero dal momento temporale in cui l'effetto traslativo sia destinato a
verificarsi nonché dagli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione e, persino, dalla identità dei
soggetti che abbiano stipulato i negozi collegati (Cass. 19-5-2004 n. 9466), sempre che questi siano
stati concepiti e voluti come funzionalmente connessi e tra loro interdipendenti, onde risultare
idonei al raggiungimento dello scopo finale di garanzia che le parti si erano prefissate (Cass. 28-6-
2006 n. 14903; Cass. 16-9-2004 n. 18655).
Ne consegue che, in linea di principio, anche un contratto preliminare di compravendita può
incorrere nella sanzione dell'art. 2744 c.c., ove risulti l'intento primario delle parti di
costituire con il bene promesso in vendita una garanzia reale in funzione dell'adempimento
delle obbligazioni contratte dal promittente venditore con altro negozio collegato, sì da
stabilire un collegamento negoziale e strumentale tra i due negozi.
È evidente, peraltro, che, allorché lo strumento negoziale adoperato dalle parti in funzione di
garanzia sia rappresentato da un contratto preliminare, in tanto può configurarsi un illecito patto
commissorio, in quanto i contraenti abbiano predisposto un meccanismo (quale la previsione di una
condizione) diretto a far sì che l'effetto definitivo e irrevocabile del trasferimento si realizzi solo a
seguito dell'inadempimento del debitore-promittente venditore, rimanendo, in caso contrario, il bene
nella titolarità di quest'ultimo.
In tal caso, infatti, il contratto preliminare viene impiegato per conseguire l'illecita coartazione del
debitore a sottostare alla volontà del creditore, per cui non sussiste la causa di scambio, tipica di
ogni contratto di compravendita, ma il preliminare costituisce il mezzo per raggiungere il risultato
vietato dalla legge (v. Cass. 10-2-1997 n. 1233; Cass. 4-3-1996 n. 1657).
(omissis)
Ciò posto, si osserva che il generico riferimento alla funzione di garanzia svolta dal contratto
preliminare asseritamene simulato, non appare di per sé sufficiente ai fini della configurazione di un
illecito patto commissorio.
Nel giudizio di merito, infatti, il L. non ha nemmeno allegato l'esistenza, in concreto, di un qualche
meccanismo, predisposto dai contraenti, diretto ad imporre il trasferimento dei beni indicati nel
contratto preliminare nel caso in cui il credito del promittente acquirente restasse insoddisfatto, e ad
escluderlo, invece, nell'ipotesi di adempimento dell'obbligazione contratta dal promittente
venditore.
Le stesse deduzioni svolte nel ricorso non forniscono sufficienti lumi al riguardo, non spiegando
attraverso quale strumento o congegno, realmente impiegato dalle parti, gli effetti normalmente
connessi al contratto preliminare fossero destinati ad operare in via definitiva solo in caso di
inadempimento del debitore-promittente venditore, in modo che la fattispecie negoziale posta in
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essere potesse rivelarsi idonea ad esercitare su quest'ultimo un'indebita coercizione
all'adempimento, in violazione del divieto del patto commissorio..
(omissis)
Per le stesse ragioni, poiché dai fatti esposti dall'appellante non poteva desumersi in modo
inequivocabile che il contratto preliminare stipulato dalle parti costituisse un espediente volto ad
eludere il divieto del patto commissorio, al giudice di appello non può rimproverarsi di non aver
rilevato d'ufficio la nullità di tale contratto.
9.4 Cass. civ., sentenza 9 maggio 2013, n. 10986
La vendita con patto di riscatto o di retrovendita stipulata fra il debitore ed il creditore, ove
determini la definitiva acquisizione della proprietà del bene in mancanza di pagamento del debito
garantito, è nulla per frode alla legge, in quanto diretta ad eludere il divieto del patto
commissorio.
Principale elemento sintomatico della frode è costituito dalla sproporzione tra l'entità del debito e
il valore dato in garanzia, in quanto il legislatore, nel formulare un giudizio di disvalore nei
riguardi del patto commissorio, ha presunto, alla stregua dell'"id quod plerumque accidit", che in
siffatta convenzione il creditore pretenda una garanzia eccedente il credito, sicché, ove questa
sproporzione manchi - come nel pegno irregolare, nel riporto finanziario e nel cosiddetto patto
marciano (ove al termine del rapporto si procede alla stima del bene e il creditore, per acquisirlo, è
tenuto al pagamento dell'importo eccedente l'entità del credito) - l'illiceità della causa è esclusa.
(omissis) Il motivo culmina con il 6 seguente quesito di diritto: "Dica la Corte se la vendita
effettuata a scopo di garanzia costituisce sempre una fattispecie illecita ed in particolare se possa,
comunque, configurarsi un patto commissorio vietato ai sensi dell'art. 2744 c. c. in presenza di una
dichiarazione del creditore con la quale quest'ultimo si impegni a restituire al debitore la differenza
tra il valore del bene trasferito ed il valore del credito vantato". (omissis) Le questioni sottoposte
all'esame di questa Corte con le doglianze sopra esposte — da trattare congiuntamente, in quanto
tutte incentrate sul rapporto tra c.d. patto marciano e alienazione in garanzia integrante patto
commissorio - impongono una preliminare ricognizione dei problemi connessi all'individuazione
dell'ambito di applicazione del divieto di patto commissorio, sancito dall'art. 2744 c.c..
L'art. 2744 c.c., compreso nel titolo III del libro VI del codice civile (Della responsabilità
patrimoniale, delle cause di prelazione e della conservazione della garanzia patrimoniale), dispone
quanto segue: "È nullo il patto con il quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito
nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore. Il patto è
nullo anche se posteriore alla costituzione dell'ipoteca o del pegno."
Analoga previsione reca l'art. 1963 c.c. in tema di anticresi.
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L'espressa comminatoria di nullità avendo, ovviamente, espulso dalla pratica degli affari la
realizzazione della fattispecie legale illecita, concernente il patto commissorio aggiunto ad ipoteca,
pegno o anticresi, ha fatto sorgere la questione se la nullità riguardasse, o meno, anche il patto
commissorio autonomo, e cioè l'operazione contrattuale, di regola integrata da una alienazione in
funzione di garanzia, che di per sè preveda che la proprietà della cosa alienata in garanzia passi al
creditore in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato.
E la risposta della giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 282 del 1974) e della dottrina è stata
concordemente positiva, sul rilievo, tra l'altro, che il risultato giuridico-economico dell'operazione è
equivalente a quello espressamente sanzionato.
Minor concordia - ed anzi ampia divergenza di opinioni (significativa della loro elevata opinabilità)
- ha contrassegnato, come è noto, l'individuazione della ragione giustificatrice della sancita nullità
del patto commissorio (sia indiretto sia autonomo).
Senza pretesa di completezza, sarà qui sufficiente ricordare che le tesi tradizionali hanno
individuato il fondamento del divieto nell'esigenza di tutela dei debitori - esposti, a causa del
bisogno, a subire il rischio di un approfittamento da parte dei creditori - ovvero di tutela dei
creditori - risultando leso il principio della par condicio -, o di entrambe le categorie.
Su un piano diverso, è stato sottolineato il contrasto del potere di auto soddisfacimento del creditore
con l'esclusiva statale della funzione esecutiva.
Secondo altra tesi, infine, il divieto si giustificherebbe con l'esigenza di evitare che il patto, quale
clausola di stile, determini l'instaurarsi di un sistema di garanzia inidoneo ad esprimere un
assoggettamento del patrimonio del debitore esattamente adeguato alla funzione di garanzia.
A sua volta, la giurisprudenza di questa Corte per lungo tempo ritenne di impostare la soluzione del
problema della liceità o illiceità del patto commissorio autonomo, integrato da una alienazione in
garanzia, con riferimento alla decorrenza degli effetti del trasferimento della cosa alienata in
garanzia.
Si affermò, invero, la liceità della vendita fiduciaria a scopo di garanzia, accompagnata da patto di
riscatto o di ritrasferimento, caratterizzata da un trasferimento effettivo ed immediato della
proprietà al creditore, il quale tuttavia assume l'impegno, in forza di accordo consistente nel patto di
riscatto o in quello di retrovendita, di ritrasferire il bene al venditore se questi estinguerà, nel
termine previsto, il debito garantito.
Per converso, si ritenne nulla, ai sensi dell'art. 2744 c.c., la vendita dissimulante un mutuo con patto
commissorio, ricorrente nell'ipotesi in cui le parti, pur dichiarando formalmente di voler vendere ed
acquistare, concordano in sostanza che il creditore acquirente diventerà proprietario soltanto se il
debitore ed alienante non estinguerà il debito nel termine pattuito, attuando così una vendita
sottoposta a condizione sospensiva (per tutte: Cass. n. 1004 del 1962 e n. 642 del 1980).
Il problema venne posto quindi, per l'ipotesi illecita, in chiave di simulazione, e l'illiceità del
contratto dissimulato venne fatta discendere dalla violazione diretta del divieto ex art. 2744 c.c.
(estensivamente interpretato come relativo anche al patto commissorio autonomo).
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La soluzione adottata fu oggetto di critica e ad essa si contrapposero difformi pronunce
(significativo esempio si riscontra in Cass. n. 3800 del 1983), che abbandonarono il suindicato
criterio distintivo, rilevando come anche nella vendita con patto di riscatto o di retrovendita, se
conclusa a scopo di garanzia, l'effetto traslativo diviene definitivo ed irrevocabile soltanto a seguito
dell'inadempimento del mutuatario.
Ne consegue che, ove risulti l'intento primario delle parti di vincolare il bene a garanzia ed in
funzione del rapporto di mutuo, la complessa convenzione - in quanto produttiva degli stessi effetti
di una alienazione sottoposta a condizione sospensiva e caratterizzata da un nesso teleologico e
strumentale tra i due negozi di mutuo e di compravendita - presenta una causa effettiva divergente
da quella tipica della compravendita, ed avente natura di causa illecita, in quanto volta a frodare il
divieto del patto commissorio attraverso il ricorso ad un procedimento simulatorio.
Il nuovo orientamento venne fatto proprio, con alcune precisazioni, dalle Sezioni Unite, con due
sentenze dell'anno 1989 (n. 1611 e n. 1907).
Premesso, in adesione alla tesi tradizionale, che il divieto di patto commissorio è diretto ad impedire
al creditore l'esercizio di una coazione morale sul debitore, spesso spinto alla ricerca di un mutuo (o
alla richiesta di una dilazione, nel caso di patto commissorio ex intervallo) da ristrettezze
finanziarie, con facoltà di far proprio il bene, attraverso un meccanismo che gli consenta di sottrarsi
alla regola della par condicio creditorum, hanno affermato le Sezioni Unite che nella vendita con
patto di riscatto o di retrovendita a scopo di garanzia questa non costituisce soltanto motivo, ma
assurge a causa del contratto, in quanto il trasferimento della proprietà trova obiettiva
giustificazione nel fine di garanzia.
E tale causa è inconciliabile con quella della vendita, posto che il versamento del denaro non
costituisce pagamento del prezzo, ma esecuzione di un mutuo, mentre il trasferimento del bene non
integra l'attribuzione al compratore, bensì l'atto costitutivo di una posizione di garanzia
innegabilmente provvisoria, in quanto suscettibile di evolversi a seconda che il debitore adempia o
meno.
Ed è proprio la provvisorietà che costituisce l'elemento rivelatore della causa di garanzia, e quindi
della divergenza tra causa tipica del negozio prescelto e determinazione causale concreta,
indirizzata alla elusione di una norma imperativa, qual è l'art. 2744 c.c.: le parti, invero, adottando
uno schema negoziale astrattamente lecito per conseguire un risultato vietato dalla legge, realizzano
un'ipotesi di contratto in frode alla legge (art. 1344 c.c) (in senso conforme si è espressa Cass. n.
2126 del 1991).
In tale quadro, va quindi ribadito che è sanzionabile con la nullità, nei sensi suindicati, la vendita
con patto di riscatto (o di retrovendita) che, risultando inserita in una più complessa operazione
contrattuale, caratterizzata dalla sussistenza di un rapporto credito-debitorio tra venditore ed
acquirente, sia piegata al perseguimento non già di un trasferimento di proprietà, bensì di un
rafforzamento, in funzione di subordinazione e di accessorietà rispetto al mutuo, della posizione del
creditore, suscettivo di determinare la (definitiva) acquisizione della proprietà del bene in mancanza
di pagamento del debito garantito, così realizzando il risultato giuridico ed economico vietato
dall'art. 2744 c.c. (che, sotto tale profilo, integra quindi una norma materiale).
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Merita per contro un ulteriore approfondimento l'analisi degli elementi sintomatici idonei a
denunciare la sussistenza di una operazione fraudolenta del tipo delineato.
Al riguardo, più che l'indagine sull'atteggiamento soggettivo delle parti (valorizzata da Cass. n.3800
del 1983, non seguita, sul punto, dalle Sezioni Unite), sarà utile l'accertamento di dati obiettivi,
quali la presenza di una situazione credito-debitoria (preesistente o contestuale alla vendita),
e, soprattutto, la sproporzione tra entità del debito e valore del bene alienato in garanzia, di
regola presente nelle fattispecie in esame e costituente significativo segnale di una situazione
di approfittamento della debolezza del debitore da parte del creditore, che tende ad acquisire
l'eccedenza dì valore, così realizzando un abuso che il legislatore ha voluto espressamente
sanzionare.
A conferma di ciò, deve considerarsi che l'illiceità è invece esclusa, pur in presenza di costituzioni
di garanzie che postulano un trasferimento di proprietà, qualora queste siano integrate da schemi
negoziali che il menzionato abuso escludono in radice, come avviene nel caso del pegno irregolare
(art. 1851 c.c.), del riporto finanziario e del c.d. patto marciano, in virtù del quale al termine del
rapporto si procede alla stima, ed il creditore, per acquisire il bene, è tenuto al pagamento
dell'importo eccedente l'entità del credito.
La ratio del divieto posto dall'art. 2744 c.c. risulta quindi desumibile argomentando a contrario dalla
liceità delle figure ora menzionate.
Non vale opporre che sproporzione tra entità del credito e valore del bene, e conseguente abusiva
appropriazione dell'eccedenza non sono espressamente richieste dall'art. 2744 c.c., potendosi
replicare che il legislatore, nel formulare un giudizio di disvalore nei riguardi del patto
commissorio, ha fondatamente presunto, alla stregua dell'id quod plerumque accidit, che in siffatta
convenzione il creditore pretende di regola una garanzia eccedente l'entità del credito. Appare
quindi corretto ritenere che la sussistenza di una sproporzione tra valore del bene ed entità
del credito possa offrire, in sede di indagine, uno degli indizi di maggior peso (Cass. n. 736 del
1977, in motivazione; Cass. n. 776 del 1960, in motivazione; sembrano invece svalutare tale
elemento indiziario altre decisioni: Cass. n. 1611 e n. 1907 del 1989 delle Sezioni Unite, che
peraltro richiamano proprio Cass. n. 736 del 1977).
E non giova argomentare dalla disciplina generale dettata dall'art. 1448 c.c., per desumerne la
sanzionabilità della sproporzione tra prestazioni soltanto mediante l'azione di rescissione,
poiché resta da dimostrare la assoluta coerenza del sistema sanzionatorio previsto dal codice
civile, nel quale si rinvengono ipotesi di tutela del contraente debole mediante l'irrogazione
della nullità (artt. 1341, 1815, comma 2), e può opporsi che l'art. 2744 c.c. esprime una
specifica valutazione legale di riprovevolezza del patto commissorio, in virtù della sua
intrinseca elevata potenzialità - per frequenza di impiego e facilità di realizzazione - a
determinare il rischio (presunto) di produrre effetti che l'ordinamento non consente, e che si
risolvono, in definitiva, in un eccesso di garanzia per il creditore e di responsabilità
patrimoniale per il debitore.
(omissis)
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9.5 Art. 2 del d.l. 59 del 2016
Finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile
sospensivamente condizionato
1. Al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, dopo l'articolo 48 e' aggiunto il seguente
articolo:
«Art. 48-bis (Finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile
sospensivamente condizionato). - 1. Il contratto di finanziamento concluso tra un imprenditore e
una banca o altro soggetto autorizzato a concedere finanziamenti nei confronti del pubblico
puo' essere garantito dal trasferimento, in favore del creditore o di una società dallo stesso
controllata o al medesimo collegata ai sensi delle vigenti disposizioni di legge e autorizzata ad
acquistare, detenere, gestire e trasferire diritti reali immobiliari, della proprietà di un immobile
o di un altro diritto immobiliare dell'imprenditore o di un terzo, sospensivamente
condizionato all'inadempimento del debitore a norma del comma 5.
2. In caso di inadempimento, il creditore ha diritto di avvalersi degli effetti del patto di cui al
comma 1, purché' al proprietario sia corrisposta l'eventuale differenza tra il valore di stima del
diritto e l'ammontare del debito inadempiuto e delle spese di trasferimento.
3. Il trasferimento non può essere convenuto in relazione a immobili adibiti ad abitazione
principale del proprietario, del coniuge o di suoi parenti e affini entro il terzo grado.
4. Il patto di cui al comma 1 può essere stipulato al momento della conclusione del contratto
di finanziamento o, anche per i contratti in corso al momento dell'entrata in vigore del
presente decreto, per atto notarile, in sede di successiva modificazione delle condizioni contrattuali.
Qualora il finanziamento sia già garantito da ipoteca, il trasferimento sospensivamente
condizionato all'inadempimento, una volta trascritto, prevale sulle trascrizioni e iscrizioni eseguite
successivamente all'iscrizione ipotecaria.
5. Per gli effetti del presente articolo, si ha inadempimento quando il mancato pagamento si
protrae per oltre sei mesi dalla scadenza di almeno tre rate, anche non consecutive, nel caso
di obbligo di rimborso a rate mensili; o per oltre sei mesi dalla scadenza anche di una sola rata,
quando il debitore è tenuto al rimborso rateale secondo termini di scadenza superiori al periodo
mensile; ovvero, per oltre sei mesi, quando non è prevista la restituzione mediante pagamenti
da effettuarsi in via rateale, dalla scadenza del rimborso previsto nel contratto di finanziamento.
Al verificarsi dei presupposti di cui al presente comma, il creditore è tenuto a notificare al debitore
e, se diverso, al titolare del diritto reale immobiliare, nonché a coloro che hanno diritti
derivanti da titolo iscritto o trascritto sull'immobile successivamente alla trascrizione del
patto di cui al comma 1 una dichiarazione di volersi avvalere degli effetti del patto di cui al
medesimo comma, secondo quanto previsto dal presente articolo.
6. Decorsi sessanta giorni dalla notificazione della dichiarazione di cui al comma 5, il creditore
chiede al presidente del tribunale del luogo nel quale si trova l'immobile la nomina di un perito
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per la stima, con relazione giurata, del diritto reale immobiliare oggetto del patto di cui al comma
1. Si applica l'articolo 1349, primo comma, del codice civile. Il perito comunica il valore di stima al
debitore, e, se diverso, al titolare del diritto reale immobiliare, al creditore nonché a coloro
che hanno diritti derivanti da titolo iscritto o trascritto sull'immobile successivamente alla
trascrizione del patto di cui al comma 1.
7. Qualora il debitore contesti la stima, il creditore ha comunque diritto di avvalersi degli effetti
del patto di cui al comma 1 e l'eventuale fondatezza della contestazione incide sulla differenza
da versare al titolare del diritto reale immobiliare.
8. La condizione sospensiva di inadempimento, verificatisi i presupposti di cui al comma 5, si
considera avverata al momento della comunicazione al creditore del valore di stima di cui al
comma 6 ovvero al momento dell'avvenuto versamento all'imprenditore della predetta
differenza, qualora il valore di stima sia superiore all'ammontare del debito inadempiuto,
comprensivo di tutte le spese ed i costi del trasferimento. Il contratto di finanziamento contiene
l'espressa previsione di un conto corrente bancario, intestato al titolare del diritto reale
immobiliare, sul quale il creditore deve accreditare l'importo pari alla differenza tra il valore di
stima e l'ammontare del debito inadempiuto.
9. Ai fini pubblicitari connessi all'annotazione di cancellazione della condizione sospensiva, il
creditore, anche unilateralmente, rende nell'atto notarile di avveramento della condizione una
dichiarazione, a norma dell'articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre
2000, n. 445, con cui attesta l'inadempimento del debitore a norma del comma 5, producendo
altresi' estratto autentico delle scritture contabili di cui all'articolo 2214 del codice civile.
10. Puo' farsi luogo al trasferimento a norma del presente articolo anche quando il diritto reale
immobiliare gia' oggetto del patto di cui al comma 1 sia sottoposto ad esecuzione forzata
per espropriazione. In tal caso l'accertamento dell'inadempimento del debitore e' compiuto, su
istanza del creditore, dal giudice dell'esecuzione e il valore di stima e' determinato
dall'esperto nominato dallo stesso giudice. Il giudice dell'esecuzione provvede all'accertamento
dell'inadempimento con ordinanza, fissando il termine entro il quale il creditore deve versare
una somma non inferiore alle spese di esecuzione e, ove vi siano, ai crediti aventi diritto di
prelazione anteriore a quello dell'istante ovvero pari all'eventuale differenza tra il valore di
stima del bene e l'ammontare del debito inadempiuto. Avvenuto il versamento, il giudice
dell'esecuzione, con decreto, da' atto dell'avveramento della condizione. Il decreto e' annotato ai fini
della cancellazione della condizione, a norma dell'articolo 2668 del codice civile. Alla
distribuzione della somma ricavata si provvede in conformità alle disposizioni di cui al libro terzo,
titolo II, capo IV del codice di procedura civile.
11. Il comma 10 si applica, in quanto compatibile, anche quando il diritto reale immobiliare e'
sottoposto ad esecuzione a norma delle disposizioni di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 29 settembre 1973, n. 602.
12. Quando, dopo la trascrizione del patto di cui al comma 1, sopravviene il fallimento del
titolare del diritto reale immobiliare, il creditore, se è stato ammesso al passivo, può fare istanza al
giudice delegato perché', sentiti il curatore e il comitato dei creditori, provveda a norma del
comma 10, in quanto compatibile.
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13. Entro trenta giorni dall'estinzione dell'obbligazione garantita il creditore provvede, mediante
atto notarile, a dare pubblicità nei registri immobiliari del mancato definitivo avveramento
della condizione sospensiva.».
10. FIDEIUSSIONE, CONTRATTO AUTONOMO DI GARANZIA E POLIZZE
FIDEIUSSORIE
NOTA INTRODUTTIVA
Le tre sentenze che seguono affrontano il tema delle garanzie personali, predisposte dal legislatore a
tutela degli interessi del creditore, in un’ottica di rafforzamento delle sue ragioni in caso di
inadempimento del debitore principale.
In particolare, la Cassazione compie un’indagine approfondita delle singole fattispecie atipiche
(polizze fideiussorie e contratto autonomo di garanzia), mettendo in risalto la diversità causale
rispetto all’archetipo legale rappresentato dalla fideiussione.
A tal proposito, il perseguimento di una funzione prettamente indennitaria da parte delle citate
garanzie atipiche, nonché l’assenza del rapporto di accessorietà tra obbligazione principale e
obbligazione garantita, determinano importanti differenze di disciplina (l’assenza del rapporto di
accessorietà, ad esempio, impedisce al garante di opporre al creditore le eccezioni fondate sul
rapporto fondamentale intercorrente con il debitore principale).
10.1 Cass. civ., 14 giugno 2016, n. 12152
In materia di contratto autonomo di garanzia, la previsione, nel testo contrattuale, della clausola
"a prima richiesta e senza eccezioni" fa presumere l'assenza dell'accessorietà della garanzia, che,
tuttavia, può derivarsi, in difetto, anche dal tenore dell'accordo (nella specie, in presenza di una
clausola che fissava al garante il ristretto termine trenta giorni per provvedere al pagamento dietro
richiesta del creditore, insufficiente per l'effettiva opposizione delle eccezioni, e, al contempo,
escludeva la possibilità per il debitore principale di eccepire alcunché al garante in merito al
pagamento stesso).
(omissis)
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3. - Entrambi i motivi - da scrutinarsi congiuntamente per la loro stretta connessione non possono
trovare accoglimento.
3.1. - Alla luce della giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi a partire dall'arresto di cui alla
sentenza delle Sezioni Unite n. 3947 del 18 febbraio 2010 (orientamento dal quale il Collegio non
intende discostarsi, non essendo state esibite contrarie ragioni decisive), «il contratto autonomo di
garanzia (cd. Garantlevertrag), espressione dell'autonomia negoziale ex art. 1322 cod. civ., ha
la funzione di tenere indenne il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento della
prestazione gravante sul debitore principale, che può riguardare anche un fare infungibile
(qual è l'obbligazione dell'appaltatore), contrariamente al contratto del fideiussore, il quale
garantisce l'adempimento della medesima obbligazione principale altrui (attesa l'identità tra
prestazione del debitore principale e prestazione dovuta dal garante); inoltre, la causa concreta
del contratto autonomo è quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico
connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, sia essa dipesa da inadempimento
colpevole oppure no, mentre con la fideiussione, nella quale solamente ricorre l'elemento
dell'accessorietà, è tutelato l'interesse all'esatto adempimento della medesima prestazione
principale.
Ne deriva che, mentre il fideiussore è un "vicario" del debitore, l'obbligazione del garante
autonomo si pone in via del tutto autonoma rispetto all'obbligo primario di prestazione,
essendo qualitativamente diversa da quella garantita, perché non necessariamente
sovrapponibile ad essa e non rivolta all'adempimento del debito principale, bensì ad indennizzare il
creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata,
sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore».
Posta tale funzione, il contratto autonomo di garanzia, dunque, si caratterizza rispetto alla
fideiussione per l'assenza dell'accessorietà della garanzia, derivante dall'esclusione della
facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni spettanti al debitore principale, in
deroga all'art. 1945 c.c., dalla conseguente preclusione del debitore a chiedere che il garante
opponga al creditore garantito le eccezioni nascenti dal rapporto principale, nonché dalla
proponibilità di tali eccezioni al garante successivamente al pagamento effettuato da quest'ultimo
(tra le altre, Cass., 31 luglio 2015, n. 16213), là dove l'accessorietà della garanzia fideiussoria
postula, invece, che il garante ha l'onere di preavvisare il debitore principale della richiesta di
pagamento del creditore, ai sensi dell'art. 1952, secondo comma, cod. civ., all'evidente scopo di
porre il debitore in condizione di opporsi al pagamento, qualora esistano eccezioni da far valere nei
confronti del creditore (Casa., 17 giugno 2013, n. 15108).
Peraltro, se l'inserimento in un contratto di fideiussione di una clausola di pagamento "a prima
richiesta e senza eccezioni" vale di per sé a qualificare il negozio come contratto autonomo di
garanzia, in quanto incompatibile con il principio di accessorietà che caratterizza il contratto di
fideiussione, salvo quando vi sia un'evidente discrasia rispetto all'intero contenuto della
convenzione negoziale (così Cass., sez. un., 18 febbraio 2010, n. 3947), tuttavia, in presenza di
elementi - quali quelli in precedenza indicati che conducano comunque ad una qualificazione del
negozio in termini di garanzia autonoma, l'assenza di formule come quella anzidetta non è elemento
decisivo in senso contrario. L'accertamento relativo alla distinzione, in concreto, tra contratto di
fideiussione e contratto autonomo di garanzia è, in ogni caso, questione riservata al giudice di
merito ed è censurabile in sede di legittimità esclusivamente per violazione dei canoni legali di
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ermeneutica ovvero per vizio di motivazione (tra le tante, Cass., 15 febbraio 2011, n. 3678).
(omissis)
10.2 Cassazione civile, sez. I, sentenza 31 luglio 2015 n° 16213
Il contratto autonomo di garanzia si caratterizza rispetto alla fideiussione per l'assenza
dell'accessorietà della garanzia, derivante dall'esclusione della facoltà del garante di opporre al
creditore le eccezioni spettanti al debitore principale, in deroga all'art. 1945 c.c., e dalla
conseguente preclusione del debitore a chiedere che il garante opponga al creditore garantito le
eccezioni nascenti dal rapporto principale, nonché dalla proponibilità di tali eccezioni al garante
successivamente al pagamento effettuato da quest'ultimo.
(omissis)
2. - Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell'art. 1362
c.c., comma 2, art. 1936 c.c., comma 1, artt. 1941 e 1945 cod. civ., anche in relazione all'art. 360
c.p.c., n. 5, osservando che la qualificazione del rapporto come contratto autonomo di garanzia,
anziché come fideiussione, si pone in contrasto con il tenore letterale della polizza, nell'ambito della
quale il richiamo agli obblighi previsti dalla concessione doveva essere riferito all'obbligazione
principale inerente all'utilizzazione del contributo, avente ad oggetto la realizzazione delle opere
previste.
L'estensione della garanzia agli adempimenti successivi, oltre ad essere smentita da
un'interpretazione sistematica del contratto, che prevedeva la liberazione della garanzia a seguito di
collaudi parziali delle opere, si poneva in contrasto con il comportamento successivo delle parti, e
segnatamente con una circolare ministeriale del 24 luglio 1991, con cui l'Agenzia per la promozione
dello sviluppo del Mezzogiorno aveva invitato gli organi di collaudo ad esprimere il loro parere in
ordine all'importo svincolabile a seguito di un collaudo parziale, nonché con la premessa del
disciplinare, che individuava la finalità del contributo nella realizzazione dello stabilimento
industriale.
La qualificazione della fattispecie come contratto autonomo di garanzia, oltre a risultare
incompatibile con la previsione della liberazione del garante in caso di collaudi parziali, postulava
infine l'esclusione della facoltà di opporre le eccezioni spettanti al debitore principale, non
contemplata dalla polizza, in cui la Banca si era limitata a rinunciare alle eccezioni derivanti dal
rapporto di garanzia.
2.1. - Il motivo è infondato.
Nel ricondurre il rapporto intercorrente tra le parti al contratto autonomo di garanzia, anziché alla
fideiussione, la sentenza impugnata si è correttamente attenuta al principio, costantemente
affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il carattere distintivo della prima figura è
costituito dall'assenza dell'elemento dell'accessorietà della garanzia, derivante dall'esclusione della
facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni spettanti al debitore principale, in deroga alla
regola essenziale posta per la fideiussione dall'art. 1945 cod. civ., e dalla conseguente preclusione
della legittimazione del debitore a chiedere che il garante opponga al creditore garantito le eccezioni
nascenti dal rapporto principale, nonché della proponibilità di tali eccezioni al garante
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successivamente al pagamento da quest'ultimo effettuato (cfr. Cass., Sez. 3, 23 giugno 2009, n.
14621; 9 novembre 2006, n. 23900; Cass., Sez. 1, 17 gennaio 2008, n. 903).
Ai fini della predetta qualificazione, la Corte territoriale ha peraltro ritenuto non decisiva la
previsione dell'obbligo del garante di pagare "a semplice richiesta" o "a prima richiesta" del
creditore, in tal modo conformandosi ad un orientamento all'epoca diffuso, secondo cui le predette
espressioni potevano riferirsi sia a forme di garanzia svincolate dal rapporto garantito (e quindi
autonome), sia a garanzie, come quelle fideiussorie, caratterizzate da un vincolo di accessorietà più
o meno accentuato nei riguardi dell'obbligazione garantita, sia infine a clausole il cui inserimento
nel contratto di garanzia è finalizzato, nella comune intenzione dei contraenti, non già
all'esclusione, ma a una deroga parziale della disciplina dettata dall'art. 1957 cod. civ., esonerando il
creditore dall'onere di proporre azione giudiziaria (cfr. Cass., Sez. 3, 8 gennaio 2010, n. 84; 19
marzo 2007, n. 6450; 12 dicembre 2005, n. 27333).
In quest'ottica, la sentenza impugnata non si è limitata ad evidenziare il tenore letterale delle
clausole contrattuali, in particolare di quella che poneva a carico del garante l'obbligo di pagare
entro trenta giorni dal ricevimento della richiesta scritta del Ministero, senza necessità della prova
dell'inadempimento e del consenso della debitrice principale, e con l'espressa rinuncia a proporre
qualsiasi eccezione.
Pur affermando che, in quanto volta ad escludere l'onere del preavviso previsto dall'art. 1952 cod.
civ. e la conseguente opponibilità al garante delle eccezioni spettanti al debitore principale, tale
pattuizione si configurava come una deroga al principio dell'accessorietà dell'obbligazione
fideiussoria, la Corte territoriale ha tenuto conto anche delle indicazioni emergenti dal contenuto
complessivo del contratto e dal comportamento tenuto dalle parti, ponendo in risalto il collegamento
esistente tra il richiamo agli obblighi imposti alla debitrice principale dal disciplinare allegato alla
concessione e gli obiettivi perseguiti dal legislatore attraverso la previsione del contributo, nonché i
limiti quantitativi cui era sottoposta la riduzione del garante, e desumendo da tali elementi che la
garanzia non aveva ad oggetto esclusivamente l'adempimento dell'obbligo di realizzare lo
stabilimento industriale, ma si estendeva anche al mantenimento dei livelli occupazionali previsti
dal progetto approvato.
(omissis)
La rilevanza dei predetti elementi, ai fini della qualificazione della fattispecie, dev'essere
d'altronde ridimensionata notevolmente alla luce della sentenza 18 febbraio 2010, n. 3947,
sopravvenuta alla pronuncia di quella impugnata, con cui le Sezioni Unite di questa Corte,
componendo il contrasto giurisprudenziale insorto in ordine all'idoneità della clausola di
pagamento "a semplice richiesta" o "a prima richiesta" a determinare la trasformazione della
fideiussione in contratto autonomo di garanzia, hanno fatto proprio l'orientamento contrario
a quello cui si è uniformata la Corte distrettuale, affermando l'idoneità della predetta clausola
ad orientare l'interprete verso l'approdo alla fattispecie del Garantievertrag, salva l'evidente
discrasia con il contenuto residuo del contratto, riconoscendo a tale soluzione l'ineliminabile
pregio di consentire ex ante la necessaria prevedibilità della decisione giudiziaria in caso di
controversia, nonché di restringere le maglie di aleatori spazi ermeneutici sovente forieri di
poco comprensibili disparità di decisioni a parità di situazioni esaminate (cfr. al riguardo
anche Cass., Sez. 3, 20 ottobre 2014, n. 22233; 27 settembre 2011, n. 19736).
76
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(omissis)
10.3 Corte di cassazione, sez. III civile, sentenza 12 febbraio 2015, n. 2762
Al contratto autonomo di garanzia, in difetto di diversa previsione da parte dei contraenti, non si
applica la norma di cui all'art. 1957 c.c. sull'onere del creditore garantito di far valere
tempestivamente le sue ragioni nei confronti del debitore principale, atteso che su detta norma si
fonda l'accessorietà dell'obbligazione fideiussoria, instaurando essa un collegamento tra la
scadenza dell'obbligazione di garanzia e quella dell'obbligazione principale.
(omissis)
La doglianza in entrambi i profili merita attenzione.
A riguardo, corre l'obbligo di sottolineare preliminarmente che, come ha già avuto modo di statuire
questa Corte con un orientamento, cui questo Collegio intende aderire, 'l'interpretazione del
contratto, dal punto di vista strutturale, si collega anche alla sua qualificazione e la relativa
complessa operazione ermeneutica si articola in tre distinte fasi: a) la prima consiste nella ricerca
della comune volontà dei contraenti; b) la seconda risiede nella individuazione del modello della
fattispecie legale; c) l'ultima è riconducibile al giudizio di rilevanza giuridica qualificante gli
elementi di fatto concretamente accertati.
Le ultime due fasi, che sono le sole che si risolvono nell'applicazione di norme di diritto, possono
essere liberamente censurate in sede di legittimità, mentre la prima - che configura un tipo di
accertamento che è riservato al giudice di merito, poiché si traduce in un'indagine di fatto a lui
affidata in via esclusiva - è normalmente incensurabile nella suddetta sede, salvo che nelle ipotesi di
motivazione inadeguata o di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, così come
previsti negli artt. 1362 e seguenti cod. civ. (Cass. n. 27000/05).
Ciò premesso, torna utile richiamare l'attenzione sul rilievo che le ragioni della doglianza sono state
articolate dalla ricorrente attraverso tre profili fondamentali, che, a suo avviso, escludevano
l'accessorietà del contratto di garanzia rispetto al contratto di locazione finanziaria.
Ed invero, la Corte - così scrive in sintesi la società ricorrente – aveva trascurato che nella specie il
patto di riacquisto obbligava i garanti a) al pagamento anche 'nell'eventualità di mancata
conclusione del contratto; b) a pagare 'immediatamente' al ricevimento della fattura, in deroga al
disposto di cui all'art. 1952 e 1945 cc; c) a corrispondere l'importo dovuto persino 'in caso di
distruzione, perdita o irrecuperabilità dei beni' oggetto del contratto di leasing.
(omissis)
Ciò posto, mette conto di sottolineare che la causa concreta del contratto autonomo di garanzia è
quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata
esecuzione di una prestazione contrattuale, sia essa dipesa da inadempimento colpevole oppure no
(v. Sez. Un. n. 3947/2010 in motivazione), assicurando comunque la soddisfazione dell'interesse
economico del beneficiario compromesso dall'inadempimento (v. Cass. n. 2377/2008), ipotesi
quest'ultima logicamente equiparabile a quella della mancata conclusione di un contratto.
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Infatti, in quest'ultima ipotesi, pur non risultando dovuto il pagamento in relazione al rapporto di
base che non si è trasfuso in un contratto, il garante resta obbligato a soddisfare l'interesse
economico della società di leasing, a prova dell'assoluta autonomia dei due rapporti.
Ed è appena il caso di osservare che la carenza dell'elemento dell'accessorietà, che costituisce la
caratteristica fondamentale del contratto autonomo di garanzia, vale a distinguerlo da quello
di fideiussione di cui agli artt. 1936 e ss cod. civ..
Analogamente, anche l'obbligo assunto dai garanti di pagare 'immediatamente', al ricevimento della
fattura da parte della società di leasing, il prezzo di riacquisto dei beni costituisce indice di deroga
alla normale accessorietà della garanzia fideiussoria, nella quale invece il garante ha l'onere di
preavvisare il debitore principale della richiesta di pagamento del creditore, ai sensi dell'art. 1952,
secondo comma, cod. civ., all'evidente scopo di porre il debitore in condizione di opporsi al
pagamento, qualora esistano eccezioni da far valere nei confronti del creditore.
Peraltro, come hanno già avuto modo di sottolineare le Sezioni Unite, nella citata sentenza
n.3947/2010 in motivazione, la clausola 'a prima richiesta e senza eccezioni' dovrebbe di per sé
orientare l'interprete verso l'approdo alla autonoma fattispecie del Garantievertrag.
Ugualmente, l'assunzione, da parte del garante, di corrispondere l'importo dovuto anche in caso di
distruzione, perdita o irrecuperabilità dei beni, oggetto del contratto di leasing, costituisce ulteriore
testimonianza dell'autonomia del rapporto di garanzia rispetto al rapporto base, contrariamente a
quanto accade per la fideiussione, nella misura in cui i garanti, come risulta dal testo dei patti di
riacquisto, non accennano in tale scrittura, neppure per implicito, alla facoltà di opporre eccezioni
fondate sul rapporto di base, si impegnano a pagare indipendentemente da ogni responsabilità della
beneficiarla riguardo al recupero dei beni, oggetto del contratto di leasing ('nessuna responsabilità
viene comunque da voi assunta circa il predetto recupero, restando in ogni caso come sopra
determinato l'importo da noi a Voi dovuto, che vi sarà prontamente corrisposto al ricevimento della
vostra fattura') e soprattutto consentono la sopravvivenza della garanzia in oggetto anche nell'ipotesi
in cui venga a mancare l'oggetto stesso del contratto di leasing, accettando di corrispondere
prontamente il prezzo di riacquisto dei beni oggetto del contratto di locazione 'anche in caso di
distruzione, perdita o irrecuperabilità dei beni'.
(omissis)
Pertanto, dovendosi ritenere sulla scorta delle precedenti considerazioni che nella fattispecie si
verte in tema di contratto autonomo di garanzia, non può applicarsi la norma dell'art. 1957
cod. civ. sull'onere del creditore garantito di far valere tempestivamente le sue ragioni nei
confronti del debitore principale, poiché tale disposizione, collegata al carattere accessorio
della obbligazione fideiussoria, instaura un collegamento necessario e ineludibile tra la
scadenza dell'obbligazione di garanzia e quella dell'obbligazione principale, e come tale
rientra tra quelle su cui si fonda l'accessorietà del vincolo fideiussorio, per ciò solo
inapplicabile ad un'obbligazione di garanzia autonoma (v. Sez. Un. n. 3947/2010 in
motivazione).
(omissis)
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10.4 Cassazione, Sezioni Unite, 18 febbraio 2010, n. 3947
La polizza fideiussoria stipulata a garanzia delle obbligazioni assunte da un appaltatore assurge a
garanzia atipica, a cagione dell'insostituibilità della obbligazione principale, onde il creditore può
pretendere dal garante solo un risarcimento, prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto.
Con la precisazione, peraltro, della invalidità della polizza stessa se intervenuta successivamente
rispetto all'inadempimento delle obbligazioni garantite.
1. La giurisprudenza di questa corte ha seguito, nel tempo, itinerari interpretativi non sempre
univoci sul tema dei rapporti tra fideiussione e cd. Garantievertrag, pur avendo di recente
manifestato una sempre maggiore consonanza di pensiero nella strutturazione di una sempre più
indispensabile actio finium regundorum tra le due fattispecie.
Già all'indomani della pronuncia di Cass. ss. uu. n. 7341 del 1987, nella quale ancora nebulosa
apparve, ai commentatori e agli interpreti più accorti, la distinzione tra contratto autonomo di
garanzia e fideiussione con clausola solve et repete, le linee portanti dei due istituti verranno più
pensosamente esplorate al sempre più nitido delinearsi dei caratteri tipici del contratto autonomo di
garanzia, che (sorto alla fine dell'800 in Inghilterra e in Germania per soddisfare evidenti e pressanti
esigenze di semplificazione del commercio internazionale), approda, non senza contrasti, nel nostro
Paese con indiscutibile ritardo, attesa la problematica compatibilità della nuova fattispecie con i
tradizionali parametri cui dottrina prevalente e giurisprudenza pressoché unanime erano avvezzi a
far riferimento in materia negoziale: da un lato, il dogma della accessorietà "necessaria" del negozio
di garanzia titolato, dall'altro, il requisito della causa negotii tralaticiamente intesa come funzione
"economico sociale" del negozio - quantomeno fino alla recente svolta di questa corte di legittimità
di cui alla sentenza 10490/2006, autorevolmente confermata dalle sezioni unite, con la sentenza n.
26972/2008.
Incertezze e disarmonie interpretative trassero linfa dalla peculiarità di una fattispecie felicemente
definita (Trib. Torino, 29 agosto 2002), come "un articolato coacervo di rapporti nascenti da
autonome pattuizioni tra il destinatario della prestazione (e beneficiario della garanzia), il garante
(sovente una istituto di credito), e il debitore della prestazione (ordinante la garanzia atipica)", in
attuazione di una complessa operazione economica destinata a dipanarsi, sotto il profilo della
struttura negoziale, attraverso una scansione diacronica di rapporti, il primo (di valuta), corrente tra
debitore e creditore, tra cui viene originariamente pattuito l'adempimento di una certa prestazione
del primo nei confronti dell'altro, il secondo (di provvista), destinato a intervenire tra debitore e
futuro garante, con esso pattuendosi l'impegno di quest'ultimo a garantire il creditore del primo
rapporto, il terzo nascente, infine, tra creditore e garante, con quest'ultimo senz'altro obbligato ad
adempiere alla prestazione del debitore a semplice richiesta del primo nel caso di inadempimento
del secondo (rapporti ai quali non risulterà poi inusuale l'aggiunta di una quarta convenzione
negoziale collegata, quella tra un secondo istituto di credito controgarante e banca prima garante,
avente lo stesso contenuto del primo rapporto di garanzia).
L'elemento caratterizzante della fattispecie in esame viene individuato nell'impegno del garante a
pagare illico et immediate, senza alcuna facoltà di opporre al creditore/beneficiario le eccezioni
relative ai rapporti di valuta e di provvista, in deroga agli artt. 1936, 1941 e 1945 c.c.,
caratterizzanti, di converso, la garanzia fideiussoria.
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Elisione del vincolo di accessorietà e scissione della garanzia dal rapporto di valuta caratterizzano
sul piano funzionale il Garantievertrag, la cui causa concreta viene correttamente individuata in
quella di assicurare la libera circolazione dei capitali e il pronto soddisfacimento dell'interesse del
beneficiario (ovvero ancora in quella di sottrarre il creditore al rischio dell'inadempimento,
trasferito nei fatti su di un altro soggetto, "istituzionalmente" solvibile), il quale può così porre
affidamento su di una rapida e sollecita escussione di una controparte affidabile, senza il rischio di
vedersi opporre, in sede processuale, il regime tipico delle eccezioni fideiussorie.
E' in tali sensi che par lecito discorrere, a proposito del contratto atipico di garanzia, di una funzione
di tipo "cauzionale" - mentre la sua più frequente utilizzazione rispetto al deposito di una vera e
propria cauzione trae linfa proprio in ragione della sua minore onerosità e della possibilità di evitare
una lunga e improduttiva immobilizzazione di capitali (conseguenza ineludibile del deposito
cauzionale): è in conseguenza di tali aspetti funzionali che la garanzia muta "geneticamente" da
vicenda lato sensu fideiussoria in fattispecie atipica che, ai sensi dell'art. 1322 c.c., comma 2,
persegue un interesse certamente "meritevole di tutela", identificabile nell'esigenza condivisa di
assicurare l'integrale soddisfacimento dell'interesse economico del beneficiario vulnerato
dall'inadempimento del debitore originario e, di conseguenza, di conferire maggiore certezza allo
scorrere dei rapporti economici (specie transnazionali).
2. Emerge così, in via definitiva, sotto il profilo causale, la disarmonia morfologica e funzionale con
la fideiussione (volta a garantire l'adempimento di un debito altrui), sopravvivendo resti di
omogeneità tra i due "tipi" negoziali soltanto nella misura in cui, attorno alle due le fattispecie,
orbiti ancora il concetto di garanzia, pur nelle non riconciliabili differenze di gradazioni "che il
rapporto con la garanzia stessa può assumere lungo lo spettro, unico, che conduce dalla accessorietà
alla autonomia e che delinea il Garantievertrag entro ben determinati limiti di operatività: da un
lato, un limite iniziale, costituito (soltanto) dalla illiceità della causa del rapporto di valuta,
dall'altro, un limite funzionale, rappresentato dall'abuso del diritto da parte del beneficiario, la cd.
exceptio doli generalis seu presentis, che si verifica qualora la richiesta appaia fraudolenta e con
esclusione della buona fede del beneficiario", come, di recente, un'attenta dottrina non ha mancato
di osservare, aggiungendo ancora come l'indagine sulla volontà dei contraenti andrebbe più
propriamente condotta lungo il sentiero ermeneutico dell'accertamento della carenza dell'elemento
dell'accessorietà, destinato ad emergere, in concreto, attraverso l'adozione di un complesso di regole
interpretative, testuali ed extratestuali, ritenendosi, in particolare, che la clausola "a prima richiesta"
o "a semplice richiesta" possa alternativamente rappresentare diversi "tipi" funzionali, a grado di
intensità crescente: il primo, rigorosamente procedimentale, volto alla sola inversione dell'onere
probatorio; il secondo, determinativo dell'effetto di solve et repete, per ciò solo del tutto inscritto
(ancora) nell'orbita del negozio fideiussorio; il terzo, di sostanziale separazione del diritto
all'adempimento della autonoma obbligazione di garanzia rispetto al contratto sottostante.
Largamente prevalente, in proposito, appare l'orientamento giurisprudenziale (avallato dalla dottrina
maggioritaria), predicativo della decisiva rilevanza di clausole che sanciscano l'impossibilità, per il
garante, di opporre al creditore le eccezioni relative al rapporto di base che spettano al debitore
principale (così, tra le altre, Cass. 31 luglio 2002, n. 11368; Cass. 20 luglio 2002, n. 10637; Cass. 7
marzo 2002, n. 3326; Cass. 19 giugno 2001, n. 8324; Cass. 17 maggio 2001, n. 6757; Cass. 1
ottobre 1999, n. 10684; Cass. 21 aprile 1999, n. 3964; Cass. 6 aprile 1998, n. 3552), mentre alcune
pronunce di merito fondano la ricostruzione del Garantievertrag su altri elementi del tessuto
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negoziale, quali la previsione di un termine breve entro cui il garante è obbligato al pagamento, la
decorrenza di tale termine dal ricevimento della richiesta del beneficiario, l'espressa esclusione del
beneficio della preventiva escussione (ex aliis, Trib. Milano 22 ottobre 2001).
Criterio interpretativo utile ad orientare l'interprete verso l'autonomia della vicenda di garanzia
divisata dalle parti riposa ancora sull'individuazione - nell'ambito di una lettura complessiva delle
singole convenzioni negoziali - di una sua eventuale funzione "cauzionale": la peculiarità propria
del Garantievertrag è difatti quella di consentire al creditore di escutere il garante con la stessa,
tempestiva efficacia con cui egli potrebbe far proprio un versamento cauzionale.
La funzione cauzionale sarebbe soddisfatta, e l'autonomia della garanzia sarebbe conseguentemente
rinvenuta, secondo alcune pronunce di questa corte, tutte le volte che la relativa convenzione
attribuisca al creditore la facoltà di procedere ad immediata riscossione delle somme, a prescindere
dal rapporto garantito, realizzando così una funzione del tutto simile a quella dell'incameramento di
una somma di denaro a titolo di cauzione (Cass. 17 maggio 2001, n. 6757; Cass. 21 aprile 1999, n.
3964; Cass. 6 aprile 1998, predicative di un principio di diritto condiviso da autorevole dottrina).
Con particolare riguardo alle polizze fideiussorie (sulle quali, funditus, tra le altre, Cass. 11 ottobre
1994, n. 8295, pres. Rossi, rel. Bibolini, mentre l'orientamento tradizionale, che le inquadrava tout
court nell'ambito della fideiussione, sembra risalire a Cass. 17 giugno 1957, n. 2299), si è più volte
sottolineato come esse concretino un rapporto di un soggetto (una compagnia di assicurazioni o un
istituto bancario) che, dietro pagamento di un corrispettivo, si impegna a garantire in favore di altro
soggetto l'adempimento di una determinata obbligazione assunta dal contraente della polizza,
strumento contrattuale che, pur non essendo espressamente disciplinato dal codice del '42, è
menzionato in molte leggi speciali che lo prevedono come forma di garanzia sostitutiva della
cauzione reale, normalmente richiesta per chi stipula - come nel caso di specie - contratti con la
P.A..
Disattesa pressochè unanimemente la ricostruzione volta a riconoscere natura essenzialmente
assicurativa alla fattispecie (risulta essersi pronunciata in tal senso la sola, peraltro assai risalente,
Cass. 9 luglio 1943), la giurisprudenza di questa corte, sia pure nell'ambito dell'orientamento (che
appare ormai minoritario) applicativo delle norme di cui agli artt. 1936 e ss. c.c. ha in passato
ritenuto che la polizza de qua costituisse un sottotipo innominato di fideiussione, giudicando
decisivo a tal fine il permanere della funzione di garanzia dell'adempimento di una altrui
obbligazione, pur in presenza di elementi caratteristici idonei a distinguerla all'interno della
fattispecie tipica della fideiussione come disciplinata dal codice (l'assunzione, cioè, della garanzia
secondo modalità tecnico-economiche dell'assicurazione: tra le meno recenti, Cass. 8 febbraio 1963,
n. 221; 9 giugno 1975, n. 2297; 17 novembre 1982, n. 6155).
La maggior parte delle pronunzie, di converso (Cass. 11 ottobre 1994, n. 8295, poc'anzi citata; Cass.
9 gennaio 1975, n. 1709, in Giust. civ. Mass., 1975; Cass. 14 marzo 1978, n. 1292, ivi, 1978; Cass.
25 ottobre 1984, n. 5450) avrebbe viceversa posto l'accento sul carattere decisamente atipico
della polizza, separando la questione della determinazione della disciplina applicabile al contratto
da quella dell'individuazione del tipo nominato cui la polizza stessa appaia in sè riconducibile - ma
circoscrivendo pur sempre il tema della atipicità alla alternativa tra causa assicurativa e causa
fideiussoria (entrambe compenetrate in parte qua nel contratto); gli aspetti prevalenti, e
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tendenzialmente assorbenti resteranno, però, quelli tipici della fideiussione, con conseguente
applicazione delle norme di cui agli artt. 1936 e ss. c.c..
La dottrina, dal suo canto, ha ritenuto di poter individuare tre tipi di polizze fideiussorie: quelle in
cui l'obbligo del garante dipende dall'esistenza dell'obbligo del debitore principale; quelle in cui
l'obbligo del garante è indipendente da quello del debitore principale; quelle, infine, in cui il
beneficiario, per ottenere il pagamento della garanzia, deve provare, in genere mediante documenti
indicati nella polizza stessa, alcuni fatti attinenti al rapporto principale (in tal guisa ritenendo
applicabile la disciplina della fideiussione alle sole polizze del primo tipo, per effetto della
permanenza del carattere accessorio dell'obbligo assunto dal garante, e iscrivendo le altre nell'orbita
dei contratti autonomi di garanzia).
Quanto alla giurisprudenza più recente, va in limine osservato come, tra le sentenze citate
dall'odierno controricorrente, quelle di cui a Cass. 4 luglio 2003, 10574 (Pres. Genghini, rel.
Marziale) e a Cass. 7.1.2004, n. 52 (Pres. Fiducia, est. Finocchiaro), pur contenendo alcune tra le
più chiare distinzioni tra le fattispecie della fideiussione e del contratto autonomo di garanzia, non
esplorino specificamente il terreno delle polizze fideiussorie: nella prima pronuncia si legge, difatti,
che la deroga all'art. 1957 cod. civ. non può ritenersi implicita nell'inserimento, nella fideiussione,
di una clausola di "pagamento a prima richiesta" o di altra equivalente, sia perchè detta norma è
espressione di un'esigenza di protezione del fideiussore, che prescinde dall'esistenza di un vincolo
di accessorietà tra l'obbligazione di garanzia e quella del debitore principale e può essere
considerata meritevole di tutela anche nelle ipotesi in cui tale collegamento sia assente, sia perchè,
comunque, la presenza di una clausola siffatta non assume rilievo decisivo ai fini della
qualificazione di un negozio come "contratto autonomo di garanzia" o come "fideiussione", potendo
tali espressioni riferirsi sia a forme di garanzia svincolate dal rapporto garantito (e quindi autonome)
sia a garanzie, come quelle fideiussorie, caratterizzate da un vincolo di accessorietà, più o meno
accentuato, nei riguardi dell'obbligazione garantita, sia infine a clausole, il cui inserimento nel
contratto di garanzia è finalizzato, nella comune intenzione dei contraenti, (non all'esclusione, ma) a
una deroga parziale della disciplina dettata dal citato art. 1957, ad esempio limitata alla previsione
che una semplice richiesta scritta sia sufficiente ad escludere l'estinzione della garanzia, esonerando
il creditore dall'onere di proporre azione giudiziaria.
Ne consegue che, non essendo la clausola di pagamento a prima richiesta di per sè incompatibile
con l'applicazione della citata norma codicistica, spetta al giudice di merito accertare, di volta in
volta, la volontà in concreto manifestata dalle parti con la stipulazione della detta clausola; nella
seconda, ancora, che, ai fini della configurabilità di un contratto autonomo di garanzia oppure di un
contratto di fideiussione, non è decisivo l'impiego o meno delle espressioni "a semplice richiesta" o
"a prima richiesta" del creditore, ma la relazione in cui le parti hanno inteso porre l'obbligazione
principale e l'obbligazione di garanzia.
Ne consegue che la carenza dell'elemento dell'accessorietà, che caratterizza il contratto autonomo di
garanzia ("performance bond") e lo differenzia dalla fideiussione, deve necessariamente essere
esplicitata nel contratto con l'impiego di specifica, clausola idonea ad indicare l'esclusione della
facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni spettanti al debitore principale, ivi compresa
l'estinzione del rapporto (con riguardo, peraltro, a vicenda inerente ad un preliminare di vendita con
fideiussione bancaria).
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3. Passando, allora, alla analisi specifica dei più significativi, precedenti di legittimità in subiecta
materia, deve essere considerato:
- Da un canto:
1) il dictum di cui a Cass. 2 aprile 2002, n. 4637 (Pres. Giustiniani, rel. Di Nanni), la quale, dopo la
generale premessa secondo cui il contratto atipico di garanzia autonoma si differenzia dalla
fideiussione per la mancanza dell'elemento dell'accessorietà, nel senso che il garante si impegna a
pagare al beneficiario, senza opporre eccezioni fondate sulla validità o efficacia del rapporto di
base, ha poi escluso, nella specie, che valessero a snaturare il contratto tipico di fideiussione ed a
qualificarlo come garanzia autonoma le diverse previsioni contrattuali di un termine per il
pagamento decorrente dalla richiesta, dell'esclusione del beneficio della preventiva escussione del
debitore principale, della non necessità del consenso di quest'ultimo al pagamento da parte del
garante, del divieto per il garantito a sollevare obiezioni sullo stesso pagamento (nella motivazione
della sentenza, si legge ancora che in particolari rapporti, specie quelli di appalto, nella pratica da
tempo è invalso l'uso che l'appaltatore, per evitare l'immobilizzazione di somme dovute a scopo
cauzionale, presti al committente garanzie bancarie o assicurative di pagamento incondizionato ed
irrevocabile di quanto è da lui dovuto: ciò consente all'appaltatore di non versare la cauzione e
garantisce l'appaltante che conseguirà le sonane a semplice richiesta, purchè siano rispettate le
forme previste, specificandosi, subito dopo, che questo risultato, peraltro, può essere realizzato
anche attraverso una fideiussione, quando il contratto è articolato in modo atipico, prevedendo, ad
esempio, deroghe diverse rispetto alla disciplina della fideiussione, come quella dell'esclusione del
beneficio della preventiva escussione, ex art. 1944 cod. civ., oppure quella dell'esclusione per il
fideiussore di opporre al creditore principale le eccezioni appartenenti al debitore principale, ex art.
1945 c.c.);
2) Le affermazioni di cui a Cass. 6 aprile 1998, n. 3552 (Pres. Iannotta, rel. Preden), ove si legge
che, al contratto cosiddetto di assicurazione fideiussoria (o cauzione fideiussoria o assicurazione
cauzionale), caratterizzato dall'assunzione di un impegno, da parte di una banca o di una compagnia
di assicurazioni, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso di
inadempimento della prestazione a lui dovuta da un terzo, sono applicabili le disposizione della
fideiussione, salvo che sia stato diversamente disposto dalle parti.
Riveste carattere derogatorio rispetto alla disciplina della fideiussione, la clausola con la quale
venga espressamente prevista la possibilità, per il creditore garantito, di esigere dal garante il
pagamento immediato del credito "a semplice richiesta" o "senza eccezioni". In tal caso, in deroga
all'art. 1945, è preclusa al fideiussore l'opponibilità delle eccezioni che potrebbero essere sollevate
dal debitore principale, restando in ogni caso consentito al garante di opporre al beneficiario
"l'exceptio doli", nel caso in cui la richiesta di pagamento immediato risulti "prima facie" abusiva o
fraudolenta.
3) I principi di cui a Cass. 18 maggio 2001 n. 6823 (Pres. Fiducia, rel. Manzo), secondo cui la
cosiddetta assicurazione fideiussoria costituisce una figura contrattuale intermedia tra il versamento
cauzionale e la fideiussione ed è contraddistinta dall'assunzione dell'impegno, da parte (di una
banca o) di una compagnia di assicurazione, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde
garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta dal contraente. E', poi,
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caratterizzata, dalla stessa funzione di garanzia del contratto di fideiussione, per cui è ad essa
applicabile la disciplina legale tipica di questo contratto, ove non derogata dalle parti;
Dall'altro:
1) I principi di diritto affermati da Cass. 21 aprile 1999, n. 3964 (Pres. Iannotta, rel. Lupo) e 19
giugno 2001, n. 8324 (Pres. Greco, rel. Macioce), a mente della quali, ai fini della configurabilità di
un contratto autonomo di garanzia, oppure di un contratto di fideiussione, non è decisivo l'impiego
o meno delle espressioni "a semplice richiesta" o a "prima richiesta del creditore", ma la relazione
in cui le parti hanno inteso porre l'obbligazione principale e l'obbligazione di garanzia.
Infatti la caratteristica fondamentale che distingue il contratto autonomo di garanzia dalla
fideiussione è l'assenza dell'elemento dell'accessorietà della garanzia, insito nel fatto che viene
esclusa la facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni che spettano al debitore
principale, in deroga alla regola essenziale della fideiussione, posta dall'art. 1945 cod. civ. (in
entrambi i casi la fattispecie, analoga a quella oggetto del presente ricorso, aveva a sua volta ad
oggetto una polizza fideiussoria cauzionale: i giudici di merito, con consonanti decisioni,
confermate in punto di diritto da questa corte, ritennero di dover qualificato in termini di autonomia
la convenzione di garanzia stipulata, valorizzando la clausola secondo cui la società garante avrebbe
dovuto pagare entro un breve termine dalla richiesta del creditore, dopo semplice avviso al debitore
principale, di cui non era richiesto il consenso e che nulla avrebbe potuto eccepire in merito al
pagamento, anche in sede di rivalsa del garante, e opinando, in particolare, che la stessa apposizione
di un termine breve precludesse a priori qualsiasi possibilità, per il garante, di sollevare eccezioni in
ordine al rapporto sottostante, non essendo immaginabile, in tempi estremamente ristretti, lo
svolgimento delle necessarie indagini per l'accertamento in concreto dell'inadempimento
dell'appaltatore e della legittimità della richiesta dell'amministrazione garantita).
2) Il recente dictum di cui a Cass. 2008, n. 2377, ove si legge che la polizza fideiussoria prestata a
garanzia dell'obbligazione dell'appaltatore costituisce una garanzia atipica in quanto essa, non
potendo garantire l'adempimento di detta obbligazione, perchè connotata dal carattere
dell'insostituibilità, può semplicemente assicurare la soddisfazione dell'interesse economico del
beneficiario compromesso dall'inadempimento, risultando, quindi, estranea all'ambito delle garanzie
di tipo satisfattorio proprie delle prestazioni fungibili, caratterizzate dall'identità della prestazione,
dal vincolo della solidarietà e dall'accessorietà, ed essendo, invece, riconducibile alla figura della
garanzia di tipo indennitario - cosiddetta "fideiussio indemnitatis" -, in forza della quale il garante è
tenuto soltanto ad indennizzare, o a risarcire, il creditore insoddisfatto. (Nella specie, la S.C. ha
confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto che la polizza fideiussoria oggetto di
controversia dovesse qualificarsi come garanzia atipica in quanto non finalizzata a garantire la
restituzione di un credito erogato dalla Provincia autonoma di Bolzano a fondo perduto per un
progetto di riconversione industriale finalizzato al raggiungimento dei livelli occupazionali ed
economici preventivati, giacché detta restituzione sarebbe stata richiesta dalla medesima Provincia
unicamente nel caso in cui il mutuatario non fosse stato in grado di adempiere al promesso piano di
riconversione industriale).
Un ulteriore passo avanti verso la automaticità dell'equazione Polizza fideiussoria dell'appaltatore =
Garantievertrag sembrerebbe implicitamente potersi rinvenire nella sentenza (ritenuta, in dottrina,
"una inspiegabile rottura, o quantomeno una forzatura, rispetto al precedente indirizzo
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giurisprudenziale") di cui a Cass. 27.5.2002, n. 7712 (Pres. Giuliano, est. Durante), a mente della
quale, ove sia prestata a garanzia dell'obbligazione dell'appaltatore, la polizza fideiussoria non è
configurabile come fideiussione, bensì come garanzia atipica, in quanto l'insostituibilità della
prestazione fa venire meno la solidarietà dell'obbligazione del garante e comporta che il creditore
possa pretendere da lui soltanto un indennizzo o un risarcimento, che è prestazione diversa da quella
alla quale aveva diritto (nella specie la Suprema Corte riconoscerà la validità della polizza
fideiussoria, a mezzo della quale una società assicuratrice aveva garantito l'adempimento delle
obbligazioni dell'appaltatore, sebbene la sua stipulazione fosse stata addirittura posteriore al
verificarsi dell'inadempimento dell'obbligazione garantita. In sede di commento alla pronuncia, non
si è mancato di osservare come quest'ultima ancori la propria ratio decidendi al sillogismo per cui:
1) la polizza fideiussoria - a garanzia delle obbligazioni assunte da un appaltatore - assurge a
garanzia atipica, a cagione dell'insostituibilità della obbligazione principale (premessa maggiore); 2)
il creditore può pretendere dal garante solo un indennizzo o risarcimento, prestazione diversa da
quella alla quale aveva diritto (premessa minore); 3) la polizza fideiussoria è valida anche se
intervenuta successivamente rispetto all'inadempimento delle obbligazioni garantite (conclusione),
sillogismo del quale si dicono condivisibili le premesse (sia quella maggiore che quella minore), ma
non la conclusione.
Va infine ricordato come, ancora più di recente, Cass. 21 febbraio 2008, n, 4446 (Pres. Velia, rel.
Mensitieri), abbia avuto modo di operare una sorta di "sintesi" riepilogativa delle posizioni assunte
da questa corte in tema di polizze fideiussorie, alla luce della quale: al contratto cosiddetto di
assicurazione fideiussoria (o cauzione fideiussoria o assicurazione cauzionale), caratterizzato
dall'assunzione di un impegno, da parte di una banca o di una compagnia di assicurazioni, di pagare
un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione
a lui dovuta da un terzo, sono applicabili le disposizioni della fideiussione, salvo che sia stato
diversamente disposto dalle parti.
La clausola con la quale venga espressamente prevista la possibilità, per il creditore garantito, di
esigere dal garante il pagamento immediato del credito "a semplice richiesta" o "senza eccezioni"
riveste carattere derogatorio rispetto alla disciplina della fideiussione.
Siffatta clausola, risultando incompatibile con detta disciplina, comporta l'inapplicabilità delle
tipiche eccezioni fideiussorie, quali, ad esempio, quelle fondate sugli artt. 1956 e 1957 c.c.,
consentendo l'applicabilità delle sole eccezioni relative al rapporto garante/beneficiario (Cass.
1/6/2004 n. 10486); in tema di garanzia personale, la cosiddetta assicurazione fideiussoria o
cauzione fideiussoria o assicurazione cauzionale, è una figura intermedia tra il versamento
cauzionale e la fideiussione ed è caratterizzata dall'assunzione dell'impegno, da parte di una banca o
di una compagnia di assicurazioni, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo
in caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta dal terzo.
Poichè infatti le norme contenenti la disciplina legale tipica della fideiussione sono applicabili se
non sono espressamente derogate dalle parti, portata derogatoria deve riconoscersi alla clausola
legittima in virtù del principio di autonomia negoziale - con cui le parti abbiano previsto la
possibilità per il creditore garantito di esigere dal garante il pagamento immediato del credito "a
semplice richiesta" o "senza eccezioni", in quanto preclude al garante l'opponibilità al beneficiario
delle eccezioni altrimenti spettanti al debitore principale ai sensi dell'art. 1945 c.c..
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Siffatta clausola, risultando incompatibile con la disciplina della fideiussione, comporta
l'inapplicabilità delle tipiche eccezioni fideiussorie, quali, ad esempio, quelle fondate sugli artt.
1956 e 1957 c.c., consentendo l'applicabilità delle sole eccezioni relative al rapporto
garante/beneficiario (Cass. 14/2/2007. n. 3257); nella ipotesi in cui la durata di una fideiussione sia
correlata non alla scadenza della obbligazione principale ma al suo integrale adempimento, l'azione
del creditore nei confronti del fideiussore non è soggetta al termine di decadenza previsto dall'art.
1957 c.c., (Cass. 27/11/2002 n. 16758; 19/7/1996 n. 6520; 24/3/1994 n. 2827);
la clausola con la quale il fideiussore si impegni a soddisfare il creditore a semplice richiesta del
medesimo configura una valida espressione di autonomia negoziale e da vita ad un contratto atipico
di garanzia, che pur derogando al principio dell'accessorietà, non fa venir meno la connessione tra
rapporto fideiussorio e quello principale (Cass. 12/1/2007 n. 412).
4. Sulla scorta di tali premesse, l'intervento delle sezioni unite deve, da un canto,
definitivamente chiarire i tratti differenziali, sul piano morfologico, funzionale e
interpretativo, tra le fattispecie della fideiussione e del contratto autonomo di garanzia;
dall'altro, risolvere il contrasto circa la natura delle polizze assicurative cd. "fideiussorie", sia
su di un piano generale, sia nella specifica dimensione, più propriamente oggetto di dubbi
ermeneutici, delle convenzioni negoziali stipulate dall'appaltatore di opere pubbliche, con
particolare riguardo, in quest'ultima ipotesi, e per quanto di interesse a fini interpretativi:
(omissis)
5. Il ricorso è fondato.
Avverso la sentenza della corte d'appello di Perugia la ATER propone quattro motivi di
impugnazione, chiedendo all'adita corte di legittimità di interpretare la convenzione negoziale per la
quale è processo in termini di contratto autonomo di garanzia alla luce sia della previsione di un
obbligo di pagamento entro un breve termine (dalla richiesta scritta) - non rilevando, in senso
contrario, il mancato uso di espressioni quali "a semplice" o "a prima richiesta", atteso che
l'interpretazione della convenzione negoziale de qua andrebbe viceversa desunta dalla relazione in
cui le parti hanno inteso porre l'obbligazione principale e quella di garanzia -; sia dell'impegno
assunto dalla ditta debitrice di rimborsare al garante tutte le somme versate, con espressa rinuncia a
sollevare qualsiasi eccezione; sia della normativa pubblicistica all'uopo richiamata - che
considera(va) la polizza come sostitutiva di una cauzione dovuta dall'appaltatore in favore dello
Stato o di altro ente pubblico.
La ricorrente deduce, di conseguenza, l'inapplicabilità, alla fattispecie, della decadenza di cui all'art.
1957 c.c., ovvero la deroga a tale disposizione, dovendo ritenersi che la proposizione dell'istanza
scritta di pagamento sia indice inequivoco della volontà dell'ente creditore di avvalersi della
garanzia.
I motivi di ricorso appaiono meritevoli di accoglimento, per quanto di ragione.
E' opportuno premettere, ad avviso del collegio, alcune più generali premesse in ordine ai rapporti
tra negozio tipico di fideiussione e negozio atipico di garanzia (cd. Garantievertrag) che consentano
di pervenire a soddisfacente soluzione in diritto con riguardo alla vicenda processuale di cui queste
sezioni unite risultano oggi investite.
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6. E' prassi ormai sempre più frequente, nel sottosistema civilistico delle garanzie personali, che
contratti di identico contenuto siano indicati con nomi diversi, come accade, in particolare, in tema
di polizza fideiussoria, denominata, di volta in volta, "assicurazione cauzionale", "cauzione
fideiussoria", "polizza cauzionale", "fideiussione assicurativa".
La polizza fideiussoria è, sotto il profilo genetico, un negozio stipulato dall'appaltatore su
richiesta del committente e in suo favore, strutturalmente articolato secondo lo schema del
contratto a favore di terzo, funzionalmente caratterizzato dall'assunzione dell'impegno, da
parte di una banca o di una compagnia di assicurazione, di pagare un determinato importo al
beneficiario, onde garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta dal
contraente (così, ex aliis, Cass. n. 11261/2005); il terzo non è parte, nè in senso sostanziale nè in
senso formale, del rapporto, e si limita a ricevere gli effetti di una convenzione già costituita ed
operante, sicchè la sua adesione si configura quale mera condicio iuris sospensiva dell'acquisizione
del diritto, rilevabile per facta concludentia, risultando la dichiarazione di volerne profittare
necessaria soltanto per renderla irrevocabile ed immodificabile ex art. 1411 c.c., comma 3 (Cass. n.
23708/2008 e n. 13661/1992); non rileva, difatti, che il contratto sia stato eventualmente stipulato
anche con la partecipazione del creditore garantito, derivandone l'esclusivo effetto di obbligare
direttamente la compagnia assicuratrice nei confronti del creditore stesso ed impedire che
quest'ultimo, quale beneficiario della prestazione negoziata a suo favore dal debitore, possa
dichiarare di non aderire alla stipulazione secondo la disciplina del contratto a favore del terzo
(Cass. n. 7766/1990), anche se, alla forma giuridica bilaterale della stipulazione - in relazione alla
quale il committente è terzo - corrisponde un'operazione economica sostanzialmente trilatera, in cui
l'unica parte effettivamente interessata alla validità del contratto è il beneficiario della polizza, che
ad essa condiziona l'erogazione delle sue prestazioni, potendo lo stipulante appaltatore anche non
avere interesse all'effettiva validità ed efficacia dell'assicurazione (così, ancora, Cass. n.
23708/2008).
Deve, pertanto, convenirsi con la più attenta dottrina che ricostruisce la fattispecie
riconoscendo al debitore principale la qualità di parte del contratto - per assumerne la veste
di stipulante -, al garante la veste di promittente, al creditore principale quella di (terzo)
beneficiario (con la precisazione che, nella normalità dei casi, il testo della garanzia viene in realtà
imposto dal beneficiario, il quale non lascia al debitore ordinante margini di negoziazione in ordine
alle condizioni contrattuali: nè è escluso che il garante, su incarico del cliente-debitore, stipuli il
contratto direttamente con il creditore).
E' questa una prima, essenziale differenza morfologica rispetto allo schema tipico delle
convenzioni fideiussorie, che, caratterizzate dalla funzione di garantire un'obbligazione altrui,
intercorrono esclusivamente tra il fideiussore e il creditore (così, tra le tante, Cass. n.
1525/1984, che non manca di sottolineare come, ai sensi dell'art. 1936 c.c., comma 2, la
fideiussione sia efficace anche se il debitore non ne ha conoscenza: la differenza parrebbe attenuarsi
nel dictum di cui a Cass. n. 3940/1995, a mente della quale la fideiussione "può anche essere
stipulata con l'intervento del debitore o tra quest'ultimo ed il garante, in modo da configurare un
contratto a favore del terzo creditore che, dichiarando di voler profittarne, rende irrevocabile la
stipulazione, ai sensi dell'art. 1411 c.c.", secondo una ricostruzione strutturale della fattispecie che
parrebbe peraltro evocare, più propriamente, l'istituto dell'accollo cumulativo esterno, oltre che
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confliggere con il preciso dictum normativo di cui all'art. 1936 c.c., che identifica le parti del
contratto nel creditore e nel garante).
Altra differenza funzionale rispetto alla fideiussione è costituita dall'essere la polizza o
assicurazione fideiussoria "necessariamente onerosa" in quanto assunta dall'assicuratore in
corrispettivo del pagamento di un premio (Cass. n. 221/1963), mentre la fideiussione può
essere anche a titolo gratuito (nel qual caso il contratto, ponendo obbligazioni a carico di una
sola parte, si perfeziona in forza del disposto dell'art. 1333 c.c.(Cass. n. 9468/1987).
7. Quanto alla natura giuridica delle polizze, la giurisprudenza di questa corte le ha diacronicamente
considerate, sotto l'aspetto tipologico, di volta in volta come sottotipo innominato di fideiussione
(Cass. n. 221/1963), come figura contrattuale intermedia fra il versamento cauzionale e la
fideiussione, come contratto atipico, come contratto misto risultante dalla fusione di elementi propri
di vari contratti (tra le tante: Cass. n. 2899/1968; n. 1292/1978; n. 6155/1982; n. 5981/1986; n.
6499/1990; n. 13661/1992; n. 3940/1995; n. 6823/2001; n. 11261/2005; n. 3257/2007; n.
14853/2007; n. 11890/2008, in motivazione; n. 12871/2009).
In particolare, diversamente dalla cauzione, la prestazione viene assunta da un terzo (garante) e non
dallo stesso debitore obbligato, mentre manca il versamento anticipato di una somma di denaro, così
evitandosi l'effetto negativo di una lunga e improduttiva immobilizzazione di capitali; diversamente
dalla fideiussione, l'impegno del garante è di estensione tale da consentire al creditore principale di
soddisfarsi in via di autotutela, cioè di realizzare il suo credito sui beni oggetto della garanzia
(seppur non tramite l'incameramento della cauzione ma) mediante un atto unilaterale costituito da
una richiesta della somma assicurata (in caso di inserimento della clausola "a semplice" o "prima
richiesta"), all'esito di un accertamento unilaterale ed insindacabile dello stesso creditore in ordine
alla ricorrenza delle condizioni previste per l'escussione.
Va altresì sottolineato che, pur essendo prestata spesso da un'impresa di assicurazione, la
funzione della polizza non consiste nel trasferimento o nella copertura di un rischio - che
assume un rilievo assai marginale, essendo la prestazione del garante svincolata da un preciso
ed obiettivo accertamento del suo presupposto (il quale è demandato allo stesso beneficiario) -
ma in quella di garantire al beneficiario l'adempimento di obblighi assunti dallo stesso
contraente, anche quando l'inadempimento sia dovuto a volontà dello stesso e questi sia
solvibile.
8. Secondo un primo orientamento della giurisprudenza di questa corte, poichè la causa del negozio
de quo consiste sostanzialmente nel garantire l'adempimento ("sostitutivo o di regresso": Cass. n.
1292/1978 cit.) della prestazione dovuta al creditore da un terzo, troverebbe applicazione la
disciplina legale tipica della fideiussione, ove non espressamente derogata, potendo le parti, nella
loro autonomia contrattuale, richiamare le norme sull'assicurazione per quanto riguarda i rapporti
tra il debitore contraente e l'assicuratore (Cass. n. 5450/1984 ritiene, pertanto, applicabili le norme
sulla fideiussione, considerata come rapporto tipico "prevalente", e in particolare l'art. 1941 c.c.
secondo cui la fideiussione non può eccedere ciò che è dovuto dal debitore nè può essere prestata a
condizioni più onerose; mentre Cass. n. 11038/1991 e n. 6757/2001 si esprimono nel senso che,
nelle ipotesi di dichiarazioni inesatte o reticenti del contraente-debitore in ordine alla formazione
del rapporto principale, non trovi applicazione la disciplina dell'art. 1892 c.c. sull'assicurazione,
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dovendo la validità del contratto essere piuttosto valutata alla stregua delle regole dell'annullabilità
per errore o dolo.
Peraltro, in senso opposto, Cass. n. 2297/1975, n. 3457/1981, n. 7028/1983, n. 14656/2002 si
esprimono nel senso dell'applicabilità della normativa sull'assicurazione, in particolare dell'art. 2952
c.c., comma 1, quanto alla prescrizione annuale delle rate di premio).
8.1. - Di segno speculare, invece, l'orientamento secondo il quale (pur ritenendosi la convenzione in
parola - tanto se diretta a garantire al beneficiario l'adempimento dell'obbligazione originariamente
assunta verso di lui dal contraente della polizza quanto se volta ad assicurargli la somma dovuta per
inadempimento o inesatto adempimento funzionale a garantire un obbligo altrui secondo lo schema
previsto dall'art. 1936 cod. civ., affiancando al primo un secondo debitore di pari o diverso grado),
la polizza fideiussoria, se prestata a garanzia dell'obbligazione dell'appaltatore, non ripete i caratteri
morfologici della fideiussione, ma si configura come garanzia atipica (cd. fideiussio indemnitatis),
in quanto l'infungibilità della prestazione dell'appaltatore fa venir meno la solidarietà
dell'obbligazione del garante e comporta che il creditore può pretendere da lui solo un indennizzo o
un risarcimento, che è prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto (così, tra le altre, Cass.
n. 7712/2002; Cass. n. 2377/2008).
Questo secondo orientamento trae linfa dalla considerazione per cui elemento "normale ed
essenziale" del vincolo fideiussorio è pur sempre l'identità con l'obbligazione principale nella sua
stessa quantità e nelle sue stesse condizioni. Dal suo canto, autorevole dottrina evidenzia che la
polizza non mira a garantire l'adempimento dell'obbligazione del debitore principale (come
accade nella fideiussione), ma ad assicurare al creditore la presenza di un soggetto solvibile in
grado di tenerlo indenne dall'eventuale inadempimento del medesimo, ciò che dimostrerebbe
il venir meno di uno degli elementi strutturali della fideiussione, vale a dire l'accessorietà
dell'obbligazione del garante rispetto a quella del debitore principale, con conseguente
slittamento verso il modello del contratto autonomo di garanzia e inadeguatezza del modello
legale fideiussorio (erroneamente applicato secondo la teoria della prevalenza o dell'assorbimento,
ove la disciplina normativa viene individuata attraverso l'incorporazione del contratto nel tipo
prevalente o che più gli assomiglia).
La medesima dottrina propone, così, l'applicazione del cd. metodo "tipologico", che consentirebbe
di rintracciare, nella trama del contratto in questione, sotto- strutture negoziali differenti mediante
un'opera di destrutturazione del contratto che offra all'interprete l'opportunità di individuare diverse
caratteristiche tipologiche che solo successivamente verranno utilizzate al fine di determinare
(sempre senza valicare i limiti dell'incompatibilità) il mix disciplinare che meglio risponde
all'esigenza di regolare il rapporto (mentre da altra parte si invita a considerare la naturale
propensione delle polizze a modellarsi in funzione delle diverse esigenze di garanzia di volta in
volta soddisfatte e a cogliere e valorizzare il quid proprium delle diverse configurazioni assunte
nella prassi, rifuggendo da aprioristici tentativi di generalizzazione e di riduzione a un "tipo").
Sulla polizza fideiussoria si riverbera così l'eco del dibattito sul contratto autonomo di
garanzia (Garantievertrag) e sulla sua causa.
8.2. Pur non essendo questa la sede per approfondire gli esiti di tale questione, pare sufficiente
considerare che, secondo una diffusa opinione, la funzione del Garantievertrag è quella di tenere
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indenne il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento della prestazione gravante
sul debitore principale, che non sempre consiste in un dare ma può anche riguardare un fare
infungibile, contrariamente a quanto accade per il fideiussore, il quale garantisce
l'adempimento della medesima obbligazione principale altrui (attesa l'identità tra prestazione
del debitore principale e prestazione dovuta dal garante).
In altri termini, mentre con la fideiussione è tutelato l'interesse all'esatto adempimento
dell'(unica) prestazione principale - per cui il fideiussore è un "vicario" del debitore -,
l'obbligazione del garante autonomo è qualitativamente altra rispetto a quella dell'ordinante -
sia perchè non necessariamente sovrapponibile ad essa, sia perché non rivolta al pagamento
del debito principale, bensì ad indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo
versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta
prestazione del debitore.
Ne consegue che polizze fideiussorie e fideiussione, pur accomunate dal medesimo (generico)
scopo di offrire al creditore-beneficiario la garanzia dell'esito positivo di una determinata
operazione economica, si distinguono perché le prime (se prestate a garanzia di obbligazioni
infungibili) appartengono alla categoria delle cd. garanzie di tipo indennitario, potendo il
creditore tutelarsi (rispetto all'inadempimento del debitore) soltanto tramite il risarcimento
del danno, mentre la fideiussione appartiene alle cd. garanzie di tipo satisfattorio,
caratterizzate dal rafforzamento del potere del creditore di conseguire il medesimo bene
dovuto, cioè di realizzare specificamente il soddisfacimento del proprio diritto.
8.3 Ancora con specifico riguardo alle polizze fideiussorie, l'introduzione, nelle condizioni generali
di contratto, di clausole di pagamento con diciture "a semplice" o "a prima richiesta (o domanda) ",
"senza eccezioni" o analoghe ("incondizionatamente", "a insindacabile giudizio del beneficiario" e
così via), se ne ha di fatto evidenziato l'impredicabilità di qualsivoglia natura assicurativa e
l'indiscutibile avvicinamento al modello cauzionale, ne ha specularmente posto il problema della
compatibilità con il modello tipico fideiussorio.
La previsione di siffatte clausole di pagamento manifesta, difatti, una rilevante deroga alla
disciplina legale della fideiussione, che si sostanzia nell'attribuzione, al creditore-beneficiario, del
potere di esigere dal garante il pagamento immediato, a prescindere da qualsiasi accertamento (e
dalla prova da parte del creditore) in ordine all'effettiva sussistenza di un inadempimento del
debitore principale (ciò vale, in particolare, per l'incameramento della cauzione da parte dell'ente
appaltatore di opere pubbliche, il quale non è tenuto a dimostrare la sussistenza di un danno in
concreto, proprio in ragione della determinazione forfettaria dello stesso che consegue alla
previsione della cauzione: così Cass. n. 8295 del 1994, in motivazione).
A tale riguardo, questa corte ha avuto modo di affermare che, se è consentito alle parti di concedere
(o far concedere da un terzo) una somma di denaro al creditore a garanzia dell'adempimento della
prestazione dovutagli, allo stesso modo deve poter rientrare nei poteri riconosciuti all'autonomia
negoziale la sostituzione della somma di denaro con l'impegno di un terzo di provvedere a quella
prestazione o a quel pagamento a semplice richiesta del creditore, dovendosi pertanto riconoscere in
dette clausole una "una valida espressione di autonomia negoziale".
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9. Di tali clausole, secondo un primo orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. n.
6499/1990, n. 10486/2004, n. 4446/2008 in motivazione), si predica la incompatibilità con la
disciplina della fideiussione, e la conseguente inapplicabilità delle tipiche eccezioni fideiussorie,
quali quelle fondate sull'art. 1947 c.c. (compensazione opposta dal garante con un debito del
creditore verso il debitore principale), art. 1956 (liberazione del fideiussore per obbligazione futura
assunta dal creditore), art. 1957 (decadenza prevista per l'ipotesi che il creditore non coltivi dopo la
scadenza dell'obbligazione la propria pretesa nei confronti del debitore principale).
9.1. Secondo un diverso orientamento, dette clausole sarebbero invece idonee a valere anche come
osservanza dell'onere di cui all'art. 1957 prescindendo dalla proposizione dell'azione giudiziaria
(Cass. n. 7345/1995, cit.), sicché non si tratterebbe di un'esclusione ma di una deroga parziale della
disciplina dettata dal citato art. 1957, ad esempio limitata alla previsione che una semplice richiesta
scritta sia sufficiente ad escludere l'estinzione della garanzia, esonerando il creditore dall'onere di
proporre azione giudiziaria (Cass. n. 10574/2003, n. 27333/2005, n. 13078/2008, quest'ultima sulla
limitata funzione, che può essere svolta da una clausola di pagamento a prima richiesta, di evitare al
creditore la decadenza di cui all'art. 1957 non solo iniziando l'azione giudiziaria verso il debitore
principale, ma anche soltanto rivolgendo al fideiussore la richiesta di adempimento).
9.2. E' dunque opportuno approfondire le ragioni che hanno indotto la giurisprudenza di questa
corte a ravvisare nelle clausole di pagamento in oggetto una deroga (seppur variamente atteggiata)
alla disciplina legale della fideiussione onde chiarire se di semplice deroga si tratti, ovvero di una
così rilevante alterazione del "tipo" negoziale fideiussorio tale da provocarne un exodus che
conduca all'approdo al modello del Garantievertrag così come comunemente praticato nel
commercio internazionale e, di recente, anche nazionale (nelle forme del Bid Bond o
Bietungsgarantie, a garanzia del rispetto o del mantenimento di un'offerta contrattuale; del
Performance Bond o Leistungsgarantie e del Vertragserfullungsgarantie, quale garanzia di buona
esecuzione di un contratto; del Repayment Bond e dell'Advance payment Bond o
Anzahlungsgarantie, a copertura del rischio che l'appaltatore non rimborsi al committente il
pagamento degli anticipi ricevuti in caso di mancata esecuzione dei lavori; del Retention money
Bond, la cui origine è nella prassi in base alla quale il committente trattiene una parte dei pagamenti
in occasione dei diversi stati di avanzamento dei lavori, al fine di costituire un fondo di copertura
per le spese eventuali da sostenere per riparare errori dell'appaltatore nell'esecuzione dei lavori).
Quelle ragioni risiedono nell'essere le suddette clausole volte a precludere al garante l'opponibilità
al creditore garantito delle eccezioni spettanti al debitore principale (siano esse relative al rapporto
di valuta tra quest'ultimo e il creditore o al rapporto di provvista tra il debitore principale e il
garante), in deroga alla regola essenziale della fideiussione posta dagli artt. 1945 e 1941 c.c., con
l'effetto di svincolare (in tutto o in parte) la garanzia dalle vicende del rapporto principale e di
precludere la proponibilità delle eccezioni fideiussorie.
9.3. Sotto l'aspetto morfologico, il contratto autonomo di garanzia costituisce espressione di
quella autonomia negoziale riconosciuta alle parti dall'art. 1322 c.c., comma 2, che si
configura come un coacervo di rapporti nascenti da autonome pattuizioni fra il destinatario
della prestazione (beneficiario della garanzia), il garante (di solito una banca straniera),
l'eventuale controgarante (soggetto non necessario, che solitamente si identifica in una banca
nazionale che copre la garanzia assunta da quella straniera) e il debitore della prestazione
(l'ordinante).
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Caratteristica fondamentale di tale contratto, che vale a distinguerlo da quello di fideiussione
di cui agli artt. 1936 e seguenti cod. civ., è la carenza dell'elemento dell'accessorietà: il garante
s'impegna a pagare al beneficiario, senza opporre eccezioni in ordine alla validità e/o all'efficacia
del rapporto di base, e identico impegno assume il controgarante nei confronti del garante (così
Cass. n. 1420/1998; sulla controgaranzia autonoma, Cass. n. 12341/1992 specifica che l'obbligo di
pagamento del garante secondo il meccanismo dell'adempimento "a prima richiesta", tanto della
"garanzia" che della "controgaranzia", si attiva a seguito dell'inadempimento dell'obbligazione
principale, restando irrilevante l'avvenuto adempimento del contratto collegato a catena).
La diversità di struttura e di effetti rispetto alla fideiussione si riflette sulla causa concreta (in
argomento, funditus, Cass. 10490/06) del Garantievertrag, la quale risulta essere quella di
trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di
una prestazione contrattuale, sia essa dipesa da inadempimento colpevole oppure no: infatti, la
prestazione dovuta dal garante è qualitativamente diversa da quella dovuta dal debitore principale,
essendo (non quella di assicurare l'adempimento della prestazione dedotta in contratto ma)
semplicemente quella di assicurare la soddisfazione dell'interesse economico del beneficiario
compromesso dall'inadempimento (Cass. n. 2377/2008 cit., proprio con riguardo alle polizze
fideiussorie); per la sua indipendenza dall'obbligazione principale, esso si distingue, pertanto, dalla
fideiussione, giacchè mentre il fideiussore è debitore allo stesso modo del debitore principale e si
obbliga direttamente ad adempiere, il garante si obbliga (non tanto a garantire l'adempimento,
quanto piuttosto) a tenere indenne il beneficiario dal nocumento per la mancata prestazione del
debitore, spesso con una prestazione solo equivalente e non necessariamente corrispondente a
quella dovuta (Cass. n. 27333/2005; n. 4661/2007): ne consegue, in definitiva, la sua fuoriuscita dal
modello fideiussorio, essendo il rapporto affidato per intero all'autonomia privata nei limiti fissati
dall'art. 1322 c.c., comma 2 ed essendo la causa del contratto quella di coprire il rischio del
beneficiario mediante il trasferimento dello stesso sul garante.
Il riferimento, come oggetto della garanzia de qua, al rischio contrattuale da preservare (ovvero
all'interesse economico sotteso all'obbligazione principale) ha rappresentato una soluzione
funzionale a superare l'apparente ossimoro celato nel sintagma "garanzia autonoma" (atteso che il
concetto di garanzia presuppone ontologicamente una relazione di accessorietà con un quid che
dev'essere garantito), con la conseguenza che la garanzia sarebbe autonoma rispetto all'obbligazione
principale ma pur sempre accessoria rispetto all'interesse economico ad essa sottostante, così
evitandosi la (preoccupante) conseguenza di individuare nel rapporto principale il termine della
relatio e di assimilare in tal modo la garanzia autonoma a quella accessoria.
9.4. Sotto il profilo funzionale, il regime "autonomo" del Garantievertrag trova un limite quando:
le eccezioni attengano alla validità dello stesso contratto di garanzia (Cass. n. 3326/2002 cit.)
ovvero al rapporto garante/beneficiario (Cass. n. 6728/2002, sul diritto del garante di opporre al
beneficiario la compensazione legale per un credito vantato direttamente nei suoi confronti); il
garante faccia valere l'inesistenza del rapporto garantito (Cass. n. 10652/2008, in motivazione,
"trattandosi pur sempre di un contratto (di garanzia) la cui essenziale - quindi inderogabile -
funzione è quella di garantire un determinato adempimento"); la nullità del contratto- base dipenda
da contrarietà a norme imperative o illiceità della causa ed attraverso il contratto di garanzia si tenda
ad assicurare il risultato che l'ordinamento vieta (Cass. n. 3326/2002; n. 26262/2007; n. 5044/2009);
sia proponibile la cd. exceptio doli generalis seu presentis, perchè risulta evidente, certo ed
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incontestabile il venir meno del debito garantito per pregressa estinzione dell'obbligazione
principale per adempimento o per altra causa (nel senso che il garante non è autorizzato ad
effettuare pagamenti arbitrariamente intimatigli, a pena di perdita del regresso nei confronti del
debitore principale: Cass. n. 10864/1999; n. 917/1999; n. 5997/2006; in generale, sull'obbligo del
garante di opporre l'exceptio doli a protezione del garantito dai possibili abusi del beneficiario,
Cass. n. 10864/1999; n. 5997/2006; n. 23786/2007; n. 26262/2007; sull'obbligo del garante di
fornire la prova certa ed incontestata dell'esatto adempimento del debitore ovvero della nullità del
contratto garantito o illiceità della sua causa: Cass. n. 3964/1999; n. 10652/2008), mentre discussa è
la conseguenza della impossibilità sopravvenuta della prestazione principale non imputabile al
debitore (che, secondo una recente giurisprudenza di merito - App. Genova 25 luglio 2003 - sarebbe
a sua volta causa di estinzione della garanzia).
La più rilevante differenza operativa tra la fideiussione e il contratto autonomo di garanzia non
riguarda, peraltro, il momento del pagamento - cui (anche) il fideiussore "atipico" può essere tenuto
immediatamente a semplice richiesta del creditore -, ma attiene soprattutto al regime delle azioni di
rivalsa dopo l'avvenuto pagamento.
9.5. Se, difatti, il pagamento non risulti dovuto per motivi attinenti al rapporto di base, il garante
(dopo aver pagato a prima/semplice richiesta) che agisce in ripetizione con l'actio indebiti ex art.
2033 c.c. nei confronti dell'accipiens, cioè del creditore beneficiario, facendo valere le eccezioni di
cui dispone il debitore principale, risponde in realtà come un fideiussore, atteggiandosi la clausola
di pagamento in questione come una ordinaria clausola solve et repete ex art. 1462 c.c..
Il garante "autonomo", invece, una volta che abbia pagato nelle mani del creditore
beneficiario, non potrà agire in ripetizione nei confronti di quest'ultimo (salvo nel caso di
escussione fraudolenta), rinunciando, per l'effetto, anche alla possibilità di chiedere la
restituzione di quanto pagato all'accipiens nel caso di escussione illegittima della garanzia, ma
potrà esperire l'azione di regresso ex art. 1950 c.c. unicamente nei confronti del debitore
garantito (il più delle volte mediante il cosiddetto "conteggio automatico" a carico del debitore,
quando questi ha anticipato alla banca le somme necessarie per il pagamento o quando sussista la
possibilità di addebitare le somme su un conto corrente), senza possibilità per il debitore di opporsi
al pagamento richiesto dal garante nè di eccepire alcunché, in sede di rivalsa, in merito all'avvenuto
pagamento (così Cass. n. 8324/2001; n. 7502/2004; n. 14853/2007).
L'effetto è di "autonomizzare" il rapporto di garanzia rispetto al rapporto base,
contrariamente a quanto accade per la fideiussione tipica: è a quest'ultima, infatti, che si
riferisce il principio secondo il quale "quando si estingue l'obbligazione principale, si estingue
anche quella accessoria di garanzia. Pertanto, se il fideiussore paga un debito già estinto, per
remissione, per pagamento o per altra causa, non può esercitare azione di regresso nei confronti del
debitore principale" (così Cass. n. 2334/1967).
Sarà il debitore principale ordinante, vittoriosamente escusso dal garante che abbia pagato al
beneficiario, ad agire in rivalsa, se il pagamento non era dovuto alla stregua del rapporto di base (ad
esempio, per il pregresso e puntuale adempimento della medesima obbligazione), sulla base del
rapporto di valuta, nei confronti del beneficiario, il quale ha ricevuto dal garante una prestazione
non dovuta, mentre la stessa azione di rivalsa del garante verso il debitore-ordinante viene esclusa
quando il primo abbia adempiuto nonostante disponesse di prove evidenti della malafede del
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beneficiario, salva in tal caso la possibilità di agire contro il beneficiario stesso con la condictio
indebiti, ai sensi dell'art. 2033 c.c. (Va in proposito ricordato che l'art. 20 della Convenzione
UNCITRAL, sulle garanzie autonome e sulle lettere di credito, elaborata dalla Commissione delle
Nazioni Unite sul commercio internazionale, tra le alternative riconosciute all'ordinante per
neutralizzare il pericolo di un'abusiva escussione, prevede sia la possibilità di inibire al garante di
trattenere o recuperare presso l'ordinante le somme pagate in base alla garanzia sia la possibilità di
richiedere un provvedimento giudiziario che impedisca al beneficiario di riscuotere la garanzia).
10. Chiarite così le differenze operative tra fideiussione (eventualmente resa atipica dall'inserimento
delle clausole in questione) e Garantievertrag, va affrontato e risolta la speculare questione
dell'idoneità o sufficienza della clausola di pagamento a prima o semplice richiesta (o senza
eccezioni) a trasformare un contratto di fideiussione (pur atipico) in un Garantievertrag.
A tale riguardo, si segnalano due non omogenei orientamenti della giurisprudenza di questa Corte
che - pur nella consonanza delle affermazioni secondo cui, da un lato, la qualificazione della
garanzia come contratto autonomo di garanzia o di fideiussione (eventualmente atipica) si risolve in
un apprezzamento dei fatti e delle prove da parte del giudice di merito, incensurabile in sede di
legittimità se congruamente motivato (Cass. n. 4981/2001; n. 10637/2002; n. 11368/2002; n.
13001/2006; n. 2464/2004), essendo privo di valore il nomen iuris utilizzato dalle parti per
designare la garanzia; dall'altro, a fronte della qualificazione della garanzia come fideiussoria,
soggetta, in quanto tale, alla sorte del debito principale, la parte che faccia valere la diversa
configurazione di detta garanzia come autonoma, e, quindi, svincolata dal debito principale, ha
l'onere di dedurre gli elementi oggettivi sui quali tale configurazione si fonda (Cass. n. 8540/2000) -
appare, sul punto, contrastante:
- un primo indirizzo è nel senso che l'inserimento di clausole del genere valga di per sè a qualificare
il negozio de quo come contratto autonomo di garanzia, essendo incompatibile con il principio di
accessorietà che caratterizza la fideiussione (Cass. n. 3552/1998, in motivazione; n. 6757/2001; n.
3257/2007 cit.; n. 14853/2007; n. 11890/2008, in motivazione; in particolare, Cass. n. 8248/1998 ha
qualificato la garanzia come autonoma in presenza di una clausola di pagamento "a prima
richiesta", con esclusione del beneficium excussionis e dell'accertamento dell'inadempienza da parte
dello stesso creditore garantito sulla base della contabilità dell'appalto);
- un secondo filone interpretativo è invece nel senso che il contratto non assume i connotati del
contratto autonomo di garanzia per il solo fatto di presentare un patto che obblighi il garante a
pagare, sulla richiesta del beneficiario, il quale gli dichiari essersi verificati i presupposti per
l'esigibilità della garanzia, e senza poter opporre eccezioni attinenti al rapporto di base: la
distinzione tra fideiussione e Garantievertrag andrebbe tratta, infatti, anche dalla considerazione dei
profili funzionali della garanzia, e nel secondo caso la funzione sarebbe non già quella di garantire
l'adempimento dell'obbligazione altrui o l'integrale soddisfacimento della pretesa risarcitoria traente
origine dall'inadempimento del debitore, quanto quella, prossima a quella della cauzione, di
assicurare al beneficiario la disponibilità almeno di una determinata somma di danaro, a
bilanciamento di rischi tipici di determinati contratti.
Un patto di rinunzia del fideiussore a far valere subito determinate eccezioni non altererebbe,
peraltro, il tipo contrattuale, che resta caratterizzato, come la fideiussione, dal principio di
accessorietà (artt. 1939 e 1945 cod. civ.): la clausola è dunque in sè valida, giacchè, pur con
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riguardo alla causa del contratto di fideiussione ed alla relativa disciplina, essa costituisce una
manifestazione di autonomia contrattuale, che resta nei limiti imposti dalla legge (art. 1322 cod.
civ.), dalla quale si trae, insieme, che clausole limitative della possibilità di proporre eccezioni sono
in certa misura ed a determinate condizioni consentite dall'ordinamento (art. 1341 c.c., comma 2), e
che una clausola del tipo di quella di cui si discute non è in contrasto con l'aspetto essenziale del
contratto di fideiussione, aspetto rappresentato dall'accessorietà (così Cass. n. 2909/1996, in
motivazione; nel senso che, ai fini della distinzione del contratto autonomo di garanzia dalla
fideiussione, non è decisivo l'impiego o meno di espressioni quali "a prima richiesta" o "a semplice
richiesta scritta", ma la relazione in cui le parti hanno inteso porre l'obbligazione principale e quella
di garanzia, ancora di recente, Cass. n. 5044/2009 cit.).
Pur se non direttamente investite della questione, vertendo il contrasto di giurisprudenza oggi sotto
posto all'esame del collegio sulla natura e sulla disciplina applicabile alle polizze fideiussorie,
queste sezioni unite ritengono che debba essere data continuità al primo degli orientamenti citati,
che ha l'ineliminabile pregio di consentire, ex ante, la necessaria prevedibilità della decisione
giudiziaria in caso di controversia, restringendo le maglie di aleatori spazi ermeneutici sovente
forieri di poco comprensibili disparità di decisioni a parità di situazioni esaminate, così che la
clausola "a prima richiesta e senza eccezioni" dovrebbe di per sè orientare l'interprete verso
l'approdo alla autonoma fattispecie del Garantievertrag, salva evidente, patente, irredimibile
discrasia con l'intero contenuto "altro" della convenzione negoziale.
10.1. Così ricostruiti i caratteri strutturali ed effettuali del contratto autonomo di garanzia,
pare innegabile che, in difetto di diversa previsione da parte dei contraenti, ad esso non possa
applicarsi la norma dell'art. 1957 cod. civ. sull'onere del creditore garantito di far valere
tempestivamente le sue ragioni nei confronti del debitore principale, poiché tale disposizione,
collegata al carattere accessorio della obbligazione fideiussoria (così Cass. n. 3964/1999 cit.,
ancora in tema di polizza fideiussoria; Cass. n. 11368/2002, in motivazione) instaura un
collegamento necessario e ineludibile tra la scadenza dell'obbligazione di garanzia e quella
dell'obbligazione principale, e come tale rientra tra quelle su cui si fonda l'accessorietà del
vincolo fideiussorio, per ciò solo inapplicabile ad un'obbligazione di garanzia autonoma.
10.2. Per ciò che più specificamente concerne l'oggetto della questione sottoposta al collegio, è
opportuno ripercorrere, in sintesi, le divergenze manifestatesi nella giurisprudenza di questa corte
sui profili di seguito indicati.
10.3. Quanto ai caratteri morfologici della polizza fideiussoria, prevalente appare l'orientamento
predicativo della sua natura fideiussoria, con conseguente applicazione della disciplina legale tipica
ex art. 1936 ss. c.c. ove non derogata dalle parti; un diverso, minoritario indirizzo, ne esclude,
viceversa, la configurabilità in termini di fideiussione laddove essa sia prestata a garanzia
dell'obbligazione dell'appaltatore: in tal caso, la convenzione integrerebbe gli estremi della garanzia
atipica in quanto, non potendo surrogare l'adempimento "specifico" di detta obbligazione (connotata
dal carattere dell'insostituibilità), ha la funzione di assicurare, sic et simpliciter, il soddisfacimento
dell'interesse economico del beneficiario, compromesso dall'inadempimento. Essa risulta, pertanto,
vicenda del tutto disomogenea rispetto al sistema delle garanzie di tipo satisfattorio proprie delle
prestazioni fungibili caratterizzate dall'identità della prestazione e dal vincolo della solidarietà
(sussidiarietà)/accessorietà -, riconducibile di converso alla figura della garanzia di tipo
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indennitario, in forza della quale il garante è tenuto soltanto ad indennizzare, o a risarcire, il
creditore insoddisfatto (Cass. n. 2377/2008 cit.; n. 7712/2002).
10.4. Queste sezioni unite intendono dare continuità al secondo degli orientamenti poc'anzi
ricordati.
Non appaiono decisive, difatti, le riserve che dottrina e giurisprudenza attestate sul fronte
dell'equiparazione della polizza de qua alla convenzione fideiussoria (quantunque atipica) hanno
diacronicamente manifestato in subiecta materia.
Si obbietta, difatti, che la banca garantisce non già la prestazione primaria (cioè l'esecuzione
dell'opera o della fornitura), bensì quella secondaria, che consiste nel pagamento di una somma di
denaro prestabilita (la quale spesso assume i caratteri della clausola penale): ciò consentirebbe di
ritenere che vi sia identità tra l'oggetto della prestazione garantita e quello dell'obbligazione di
garanzia, trattandosi in entrambi i casi di una (anzi della stessa) somma di denaro. Si è anche
osservato che, da questo punto di vista, la differenza con la fideiussione è meno marcata, giacchè
l'indennità non solo può essere in certi casi omogenea alla prestazione pecuniaria ed originaria del
debitore, ma è comunque omogenea rispetto alle prestazioni pecuniarie secondarie del debitore
(derivino esse da un risarcimento del danno o da una clausola penale).
Con specifico riguardo alla garanzia (cd. definitiva) dovuta all'Amministrazione appaltante, ai sensi
della L. n. 109 del 1994, art. 30, comma 2, si è poi rilevato che, se è vero che la garanzia ha
carattere indennitario, in quanto il fideiussore non è obbligato ad adempiere in luogo del debitore
principale, essendo tenuto a rifondere il creditore degli oneri affrontati in conseguenza del mancato
o inesatto adempimento del debitore, è altrettanto vero che la diversità della prestazione
dell'assicuratore non esclude la funzione di garanzia in quanto la fideiussione sostituisce non la
esecuzione dell'obbligazione principale ma la cauzione, cioè la garanzia reale dell'obbligazione
dell'esecutore: ad essere garantito non sarebbe tanto un qualsiasi adempimento, bensì la prestazione
della cauzione.
Non si è mancato poi di sottolineare, per altro verso, che il concetto di fungibilità e infungibilità
della prestazione appare qualificazione giuridica tra le più sfuggenti, cui, del resto, non sempre è
riconosciuto un autonomo significato, trattandosi di un problema di interpretazione in senso lato, di
talchè la fungibilità di un'obbligazione non dipenderebbe tanto dal tipo di prestazione o dalla natura
del suo oggetto secondo criteri astratti, ma avrebbe da esser valutata in concreto, tenuto conto anche
dell'interesse del creditore, ex art. 1173 c.c. (ciò che ha consentito alla moderna dottrina di
considerare fungibile anche l'adempimento delle obbligazioni di fare - così superandosi la
tradizionale impostazione, figlia del codice del 1865, propensa a ritenere che soltanto l'obbligazione
pecuniaria potesse essere garantita da fideiussione -, coerentemente con il disposto dell'attuale art.
1936 c.c. - il cui pendant è costituito dal 765, comma 1, del BGB -, il quale non contiene alcuna
distinzione esplicita in argomento, indicando solo che la fideiussione garantisce "l'adempimento di
un'obbligazione altrui", così venendo meno qualsivoglia argomento letterale a favore dell'idea di
un'identità di contenuto dell'obbligazione principale e dell'obbligazione fideiussoria, mutando il
precedente richiamo dell'art. 1898 c.c. abrogato alla "stessa obbligazione").
Si è infine rilevato che l'accessorietà dell'obbligazione fideiussoria non implicherebbe una assoluta
ed univoca dipendenza del rapporto di garanzia dal rapporto garantito, in quanto la fideiussione, al
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pari di qualsiasi altro rapporto obbligatorio, vive e si mantiene in questa relazione funzionale con
una individualità propria, e che il nostro ordinamento non conosce una nozione tecnica di
accessorietà, ossia una disciplina unitaria del fenomeno, onde la "relativizzazione" del requisito in
parola, intesa come conseguenza dell'acquisita autonomia causale della fideiussione, manifestandosi
nell'ordinamento il riconoscimento di una certa indipendenza dell'obbligazione di garanzia rispetto a
quella garantita, con un'implicita retrocessione del requisito dell'accessorietà a un livello non
essenziale.
11. Le considerazioni che precedono non appaiono decisive al fine di predicare una non realistica
consonanza tra polizza fideiussoria e convenzione di garanzia tipica ex art. 1936 c.c..
Al di là della osservazione (di per sé decisiva) secondo la quale esse non appaiono sufficienti a far
superare il principio secondo cui rimangono fuori dalla possibilità di essere garantite per il tramite
di una fideiussione le obbligazioni di fare infungibile, nelle quali c'è comunque un interesse del
creditore alla personale esecuzione del debitore - non potendosi, in questo caso, realizzarsi in alcun
modo la sostituzione del fideiussore al debitore principale, poiché il garante non deve (né può)
adempiere, in rapporto di solidarietà con il debitore principale, un debito identico a quello su di lui
gravante - non sembra seriamente contestabile che si discorra di fideiussio indemnitatis con
riferimento a fattispecie nella quale la funzione di garanzia viene piuttosto a porsi in via
(succedanea e secondaria sì, ma) del tutto autonoma rispetto all'obbligo primario di prestazione,
onde garantire il risarcimento del danno dovuto al creditore per l'inadempimento dell'obbligato
principale e, quindi, per un'obbligazione non soltanto futura ed eventuale (ciò che non costituirebbe
di per sè ostacolo alla configurabilità di una fideiussione, avendo l'attuale art. 1938 c.c. posto
termine ad un dibattito dottrinale e giurisprudenziale formatosi nel vigore del precedente codice con
l'ammettere esplicitamente la legittimità della fideiussione "anche per un'obbligazione condizionale
o futura"), ma essenzialmente diversa rispetto a quella garantita, con l'ulteriore conseguenza che
l'obbligazione del garante non diviene attuale prima dell'inadempimento della (diversa)
obbligazione principale, verificatosi il quale sorge l'obbligo secondario del "risarcimento" del danno
(rectius, dell'indennizzo conseguente all'inadempimento): viene irredimibilmente vulnerato, in tal
guisa, proprio quel meccanismo della solidarietà che attribuisce al creditore la libera electio, cioè la
possibilità di chiedere l'adempimento così al debitore come al fideiussore, a partire dal momento in
cui il credito è esigibile.
Venendo così meno la funzione di garantire, in senso preventivo, l'adempimento, la cd.
fideiussio indemnitatis pare definitivamente espunta dall'orbita della garanzia fideiussoria,
per acquisire una funzione reintegratoria (non del tutto aliena da un modello assicurativo).
Nè decisiva appare, ancora, l'obiezione secondo la quale, nel nostro ordinamento, un'astrazione
assoluta dell'elemento causale, in cui la sorte o i difetti dell'obbligazione sottostante non abbiano
mai alcuna ripercussione sull'obbligazione astratta di garanzia, non pare a tutt'oggi legittimamente
predicabile.
Va premesso, in proposito, che, tra astrazione assoluta e accessorietà (intesa nel senso tradizionale)
si stagliano orizzonti che abbracciano diverse gradazioni di strutture negoziali che il legislatore di
volta in volta legittima, secondo un giudizio di valore rispetto ai vari interessi coinvolti:
l'accessorietà dell'obbligazione autonoma di garanzia rispetto al rapporto debitorio principale
assume un carattere certamente più elastico, di semplice collegamento/coordinamento tra
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obbligazioni, ma non viene del tutto a mancare, come dimostrato, da un lato, dalla rilevanza delle
ipotesi in cui il garante è esonerato dal pagamento per ragioni che riguardano comunque il rapporto
sottostante (supra, sub 6.2);
dall'altro, dal meccanismo di riequilibrio delle diverse posizioni contrattuali attraverso il sistema
delle rivalse.
Va inoltre considerato che, come condivisibilmente affermato dalla terza sezione di questa corte con
la sentenza 10490/06 (e poi ribadito, sia pur in obiter, da queste stesse sezioni unite con le 4
pronunce dell'11 novembre del 2008, rese in tema di danno non patrimoniale), appaia oggi
predicabile una ermeneutica del concetto di causa che, sul presupposto della obsolescenza della
matrice ideologica che la configurava come strumento di controllo della sua utilità sociale, affonda
le proprie radici in una serrata critica della teoria della predeterminazione causale del negozio (che,
a tacer d'altro, non spiega come un contratto tipico possa avere causa illecita), ricostruendo tale
elemento in termini di sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là
del modello, anche tipico, adoperato).
Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, si badi, e non anche della volontà
delle parti.
Causa, dunque, ancora oggettivamente iscritta nell'orbita della dimensione funzionale
dell'atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere,
a prescindere dal relativo stereotipo astratto, secondo un iter evolutivo del concetto di
funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei
vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l'uso che di ciascuno di essi hanno inteso
compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione
negoziale.
E' innegabile, pertanto, che di causa negotii sia lecito discorrere, in termini di sua concreta
esistenza, anche con riferimento al contratto autonomo di garanzia e alla polizza fideiussoria, ad
esso assimilabile quoad effecta.
E' altresì innegabile, nel caso di specie, che la forma di garanzia prescelta dalle parti, in alternativa
al deposito cauzionale in denaro o titoli, non sia stata quella della fideiussione, bensì quella della
polizza fideiussoria, alternativa e, per l'effetto, sostituiva forma di prestazione della cauzione stessa,
"consentita" (così, letteralmente, il testo negoziale rilevante in parte qua) dall'amministrazione
appaltante senza essere accompagnata da alcuna dichiarazione abdicativa di tutti gli altri poteri e
facoltà spettatile sulla base della normativa di settore vigente ratione temporis.
La funzione individuale del singolo, specifico negozio (id est della polizza fideiussoria) è stata
dunque quella di sostituire la traditio del denaro tipica della cauzione con l'obbligazione di
corrispondere una somma di denaro, da parte del garante, a richiesta del creditore, senza
alcuna possibilità, per il primo, di invocare il meccanismo, tipicamente fideiussorio, di cui
all'art. 1957 c.c..
Va pertanto affermato il seguente principio di diritto: la polizza fideiussoria stipulata a garanzia
delle obbligazioni assunte da un appaltatore assurge a garanzia atipica, a cagione
dell'insostituibilità della obbligazione principale, onde il creditore può pretendere dal garante
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solo un risarcimento, prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto. Con la
precisazione, peraltro, della invalidità della polizza stessa se intervenuta successivamente rispetto
all'inadempimento delle obbligazioni garantite.
11. LETTERE DI PATRONAGE
NOTA INTRODUTTIVA
Le due sentenze di seguito riportate esaminano, all’interno del panorama delle garanzie personali
atipiche, l’istituto delle lettere di patronage, quali dichiarazioni rilasciate da un terzo al
creditore, in un’ottica meramente informativa (c.d. “lettere deboli”), o finalizzata
all’assunzione di proprie obbligazioni collaterali in chiave rafforzativa del vincolo
obbligatorio tra le parti (c.d. “lettere forti”).
In materia, la Cassazione ha fissato importanti principi di seguito ritraibili, secondo i quali anche
tali forme innominate di garanzia personale, la cui corretta qualificazione è rimessa al prudente
apprezzamento in concreto del giudice, sono assoggettate a principi generali di ordine pubblico
economico (quale la previsione di un importo massimo garantito per l’assunzione di obbligazioni
future).
11.1 Corte di cassazione, sez. I civile, sentenza 9 febbraio 2016, n. 2539
Con riguardo alle cosiddette lettere di 'patronage', che una società capogruppo o controllante
indirizzi ad una banca, affinché questa conceda, mantenga o rinnovi un credito a favore di una
società controllata, l'indagine diretta a stabilire se le lettere medesime si limitino a contenere dati e
notizie sulla situazione del gruppo o sul rapporto di controllo, rilevanti al solo fine di mettere la
banca in condizione di valutare adeguatamente l'opportunità di riconoscere detto credito, ovvero
implichino anche l'assunzione di garanzia fideiussoria per i debiti della società controllata, si
traduce in un accertamento di merito, come tale insindacabile in sede di legittimità, se
correttamente ed adeguatamente motivato.
1. Con il primo mezzo di impugnazione (violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1324 e
1333 c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.), la ricorrente ha posto a questa Corte il
seguente quesito di diritto:
-«se in applicazione dell'art. 1362 c. c. e del principio in claris non fit interpretatio, la formulazione
testuale della lettera di patronage con la quale il patronnant si impegna ad informare
immediatamente il creditore dei mutamenti del rapporto di controllo maggioritario della società
sovvenuta e a «porre la predetta società in condizione di provvedere .. alla copertura dei vostri
crediti», per la sola ipotesi che « si verificasse la perdita da parte nostra, per qualsiasi ragione, del
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suo controllo amministrativo», possa esse interpretata come assunzione di una obbligazione di
garanzia».
(omissis)
2. Con il secondo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1936 e 1338 c.c., in relazione
all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.), la ricorrente ha posto a questa Corte il seguente quesito di
diritto:
-«se una mera lettera di patronage, ovvero la dichiarazione con la quale applicazione il patronnant
informa il creditore della sua posizione di influenza nei confronti del debitore e si obbliga a «porre»
il sovvenuto «in condizione di adempiere» qualora tale posizione di controllo cessi, possa essere
qualificata quale fideiussione al fine di parificarne e/o assimilarne in tutto e per tutto gli effetti
giuridici a quelli tipici del predetto istituto ».
(omissis)
3. Il primo mezzo di ricorso è infondato.
3.1. Nella motivazione della sentenza impugnata è chiaro il ragionamento volto alla identificazione
ed alla qualificazione del documento, in termini di lettera di patronage, della Compagnia a favore
della Banca, senza che si possa fondatamente parlare di un travisamento del suo tenore testuale.
3.2. Invero, la Corte territoriale afferma che tale garanzia, avrebbe un contenuto «forte» in quanto,
con essa, il «patrocinante» non si sarebbe limitato ad esternare la propria posizione di influenza ma
avrebbe assunto un vero e proprio impegno, così generandosi un'obbligazione su base negoziale,
avente per oggetto un facere e una finalità di garanzia.
4.3. Tale motivazione, per quanto succinta e riecheggiante l'espressione di una massima elaborata
dalla giurisprudenza di questa Corte, contiene comunque la necessaria qualificazione dell'atto di
autonomia privata e le connesse conseguenze giuridiche, che - come esposto dai giudici di merito -
non possono essere ricondotte semplicisticamente a quella della garanzia fideiussoria (come
afferma la ricorrente) ma a una forma di garanzia sostanziale, costituita dalla volontà -
giuridicamente vincolante - di assicurare l'adempimento dell'obbligazione del terzo, in una delle
molteplici forme possibili in cui è possibile addivenire ad esso (ad es. mettendo a disposizione della
debitrice la provvista per l'adempimento).
5. I1 secondo motivo, perciò, è del pari infondato, atteso che nella sentenza impugnata la
qualificazione dell'atto come lettera di patronage è ricostruita con piena consapevolezza delle
conseguenze giuridiche derivanti dalla violazione dei relativi impegni, onde la coerente conclusione
circa l'accertamento dell'esistenza di un danno potenziale (la cui entità e sussistenza non sono state
censurate dalla ricorrente).
6.In conclusione il ricorso, è infondato alla luce del principio di diritto secondo cui:
«con riguardo alle cosiddette lettere di 'patronage', che una società capogruppo o controllante
indirizzi ad una banca, affinché questa conceda, mantenga o rinnovi un credito a favore di
una società controllata, l'indagine diretta a stabilire se le lettere medesime si limitino a
contenere dati e notizie sulla situazione del gruppo o sul rapporto di controllo, rilevanti al solo
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fine di mettere la banca in condizione di valutare adeguatamente l'opportunità di riconoscere
detto credito, ovvero implichino anche l'assunzione di garanzia fideiussoria per i debiti della
società controllata, si traduce in un accertamento di merito, come tale insindacabile in sede di
legittimità, se correttamente ed adeguatamente motivato» (Cass., sez. 1, 9 maggio 1985, n.
2879).
11.2 Cassazione civile, sez. III, 26/01/2010, n. 1520
L'obbligo di indicazione dell'importo massimo garantito previsto per le fideiussioni per
obbligazioni future o condizionali dall'art. 1938 c.c., nel testo novellato dalla l. 154/92,
corrisponde ad un principio generale di garanzia e di ordine pubblico economico ed ha valenza
generale, applicandosi anche alle garanzie atipiche e, tra queste, alle lettere di patronage.
RILIEVI FINALI
L’analisi della giurisprudenza sopraindicata, in tema di diritto delle obbligazioni, permette di
svolgere alcune considerazioni finali riepilogative.
Le differenti tipologie di rapporti obbligatori oggetto di esame (solidali, pecuniarie e di
garanzia) sono governate da vari e spesso conflittuali principi (favor creditoris e, all’opposto,
tutela del debitore), che la Suprema Corte, negli ultimi anni, sta cercando di comporre secondo un
percorso dialogico.
A fronte della disciplina disegnata dal legislatore in materia di obbligazioni solidali, ad esempio,
totalmente informata al rispetto del criterio del favor creditoris (prova ne sia l’art. 1294 c.c., che
fonda la regola della solidarietà passiva, salve eccezioni tassativamente previste dalla legge o dal
titolo), rileva, soprattutto in materia di obbligazioni pecuniarie, l’esaltazione pretoria di un opposto
principio di tutela del debitore, quale soggetto debole del rapporto obbligatorio.
Ciò rinviene conferma, come accennato, nella sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, 18
dicembre 2007, n. 26617, la quale impedisce al creditore di rifiutare un pagamento mediante
assegno circolare, in spregio ai principi di correttezza e buona fede oggettiva (a meno che non
adduca giustificati e fondati motivi), nonché nella pronuncia della Cassazione, Sez. Un.,
13/09/2016, n. 17989, che, chiarendo definitivamente la dibattuta distinzione tra obbligazioni
“portabili” e “chiedibili” (con tutto ciò che ne consegue in punto di diversità di disciplina), ha
statuito come le obbligazioni pecuniarie da adempiere al domicilio del creditore a norma dell'art.
1182, comma 3, c.c. siano - agli effetti sia della mora "ex re", sia del "forum destinatae solutionis" -
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esclusivamente quelle liquide, delle quali cioè il titolo determini l'ammontare o indichi criteri
determinativi non discrezionali.
L’esigenza protettiva nei confronti del debitore emerge anche a seguito della disamina
giurisprudenziale in tema di patto commissorio, seppur colorata e arricchita, in via pretoria,
mediante l’esaltazione della c.d. causa in concreto.
In particolare, muovendo dall’istituto di cui all’art. 2744 c.c., la Suprema Corte affida al giudice di
merito l’essenziale compito di decifrazione della reale volontà delle parti, cristallizzata in
operazioni negoziali, apparentemente lecite, di vario tenore (sale and lease back, vendita con patto
di riscatto), ma sostanzialmente sussumibili sotto l’egida del divieto di patto commissorio tutte le
volte in cui si realizzi una sproporzione, a danno del debitore, tra valore del bene trasferito al
creditore e importo del credito.
Tuttavia, sul punto, la giurisprudenza, in un’ottica riequilibratrice e conservativa del rapporto
negoziale, attribuisce al patto marciano, come sopra descritto, la finalità di correggere le storture
derivanti dall’accordo ex art. 2744 c.c. (con ciò aderendo alla tesi secondo cui la ratio giustificatrice
della citata previsione normativa riposerebbe non su un generico contrasto a forme non ammesse di
autotutela privatistica, bensì sulla concreta e precipua esigenza di evitare sperequazioni economiche
a danno del soggetto debole, posto in condizione di passività).
Da ultimo, la valorizzazione del profilo causale può essere ben apprezzata avendo riguardo
alle pronunce in tema di garanzie personali.
Muovendo dal prototipo tipico (la fideiussione), la Suprema Corte ammette ormai forme innominate
di garanzie personali, stavolta in una prospettiva di favor creditoris (si pensi alle lettere di
patronage, al contratto autonomo di garanzia nonché alle polizze fideiussorie), quali fattispecie
basate su una causa prettamente indennitaria e traslativa del rischio, e del tutto disancorate da
qualsiasi rapporto di accessorietà rispetto all’obbligazione principale.
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uxorio atipica. La datio in solutum. Il problema della giuridicizzazione dell’obbligazione
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