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DISPENSA DI DIRITTO CIVILE

LE OBBLIGAZIONI: SOLIDALI, PECUNIARIE, DI GARANZIA.

Comitato scientifico

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Indice

1. LA NUOVA ESSENZA VALORISTICA DELLE OBBLIGAZIONI PECUNIARIE (SU

ASSEGNO CIRCOLARE): Cass., Sez. Un. 18 dicembre 2007, n. 26617

2. IL LUOGO DI ADEMPIMENTO DELLE OBBLIGAZIONI PECUNIARIE.

L’INTERVENTO DELLE SEZIONI UNITE: Cassazione civile, sez. un., 13/09/2016, n. 17989

3. LE SEZIONI UNITE FANNO IL PUNTO SULL'ANATOCISMO: Cass., Sez. Un. 4

novembre 2004, n. 21095

4. USURA E INTERESSI MORATORI:

4.1 Cassazione civile, sez. VI, 04/10/2017, n. 23192

4.2 Cass. 9 gennaio 2013, n. 350

5. USURA E COMMISSIONE DI MASSIMO SCOPERTO

5.1. Cass., sezioni unite 20 giugno 2018, n. 16303

6. L’USURA SOPRAVVENUTA

6.1. Cass., sezioni unite, 19 ottobre 2017, n. 24675

7. OBBLIGAZIONI SOLIDALI E CONDOMINIO

7.1 Cass. Sez. Un. 8 aprile 2008 n.9148

7.2 Cass. 29 gennaio 2015, n. 1674

8. LE SEZIONI UNITE SULLE OBBLIGAZIONI SOLIDALI IN TEMA DI ILLECITO

AQUILIANO: Cass. Sez. Un. 15 luglio 2009, n. 16503

9. PATTO COMMISSORIO E PATTO MARCIANO

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9.1 Cass., sez. II, sentenza 21 gennaio 2016, n. 1075

9.2 Cass. sentenza 28 gennaio 2015, n. 1625

9.3 Cass. sentenza 21 maggio 2013, n. 12462

9.4 Cass. sentenza 9 maggio 2013, n. 10986

9.5 Art. 2 del d.l. 59 del 2016

10. FIDEIUSSIONE, CONTRATTO AUTONOMO DI GARANZIA E POLIZZE

FIDEIUSSORIE

10.1 Cass., 14 giugno 2016, n. 12152

10.2 Cassazione civile, sez. I, sentenza 31 luglio 2015 n° 16213

10.3 Corte di cassazione, sez. III civile, sentenza 12 febbraio 2015, n.2762

10.4 Cassazione, Sezioni Unite, 18 febbraio 2010, n. 3947

11. LETTERE DI PATRONAGE

11.1 Corte di cassazione, sez. I civile, sentenza 9 febbraio 2016, n.2539

11.2 Cassazione civile, sez. III, 26/01/2010, n. 1520

ULTERIORI ARGOMENTI SPECIALISTICI DI PARTICOLARE INTERESSE

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OBBLIGAZIONI, VINCOLI NON GIURIDICI E OBBLIGAZIONI NATURALI

- Nozione di obbligazione e rapporto con i vincoli non giuridici e le obbligazioni naturali

(Cass. Sez. 1 - , Ordinanza n. 30114 del 14/12/2017; Cass. Sez. 1 - , Ordinanza n. 15954 del

27/06/2017);

- Obbligazione naturale, liberalità d’uso e donazione rimuneratoria (Cass., 30 settembre 2016,

n. 19578)

- Caratteristiche e regime dell’obbligazione naturale: obbligazione imperfetta o obbligazione

non giuridica?

- Obbligazione naturale e convivenza di fatto (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11330 del

15/05/2009; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 1277 del 22/01/2014; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 1266

del 25/01/2016). L’incidenza della legge Cirinnà 76/2016 sulle unioni civili.;

- trasporto oneroso, gratuito e di cortesia (Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 15313 del

20/06/2017; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 21389 del 08/10/2009; Cass. Sez. 3, Sentenza n.

17848 del 22/08/2007).

CLASSIFICAZIONI DELLE OBBLIGAZIONI

In base all’oggetto; positive e negative; generiche, generiche limitate e specifiche; fungibili e

infungibili; di dare , fare e non fare; le obbligazioni oggettivamente complesse (alternative,

facoltative, cumulative); divisibili e non

In base al tipo di soggetto: le obbligazioni professionali sono di mezzi o di risultato?

In base al numero dei soggetti: obbligazioni semplici e obbligazioni plurisoggettive (solidali e

parziarie)

In base al ruolo nell’economia del rapporto: obbligazioni principali, accessorie e sussidiarie.

Le obbligazioni di garanzia: caratteristiche generali, obbligazioni tipiche e atipiche. Casistica:

patto commissorio, contratto autonomo di garanzia, lettere di patronage. Le obbligazioni contigue

alla fideiussione, le obbligazioni di garanzia nell’assicurazione e nella vendita.

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LE OBBLIGAZIONI CUSTODIALI

- La custodia come fonte di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale (artt. 1177 e 2051

c.c.);

- Obbligazioni custodiali autonome ed accessorie: deposito, parcheggio, ormeggio, vigilanza

(Cass. [ord.] 11 gennaio 2018, n. 486; Cass., 28 ottobre 2014, n. 22807; Cass., 13 febbraio

2013, n. 3554; Cass. [ord.] 14 maggio 2018, n. 11671;

- La responsabilità ex recepto: il traporto di cose (art. 1693 c.c.), il deposito in albergo (art.

1785 c.c.); il deposito nei magazzini generali (art. 1787 c.c.), il deposito nelle cassette di

sicurezza (art. 1839 c.c.)

LE OBBLIGAZIONI SOLIDALI

- Nozione. Teorie sulla nozione di solidarietà (tesi della contitolarità e tesi della equivalenza);

- Le obbligazioni soggettivamente complesse “ad interesse comune” e “ad interesse

unisoggettivo”

- Solidarietà e sussidiarietà (Cass. Sez. 2 - , Ordinanza n. 22672 del 27/09/2017; Cass. Sez. U

- , Sentenza n. 22082 del 22/09/2017; Cass. Sez. 1 - , Sentenza n. 21567 del 18/09/2017;

Cass. Sez. 1, Sentenza n. 20891 del 31/07/2008; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 19985 del

30/08/2013);

- Rapporto con il condominio (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7459 del 14/04/2015; Cass. Sez. U,

Sentenza n. 9148 del 08/04/2008; Cass. Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 14530 del 09/06/2017;

Cass. Sez. 3 - , Sentenza n. 22856 del 29/09/2017);

- comunione di credito e di debito e comunione ereditaria (Cass Sez. 6 - 2, Ordinanza n.

27417 del 20/11/2017; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15894 del 11/07/2014; Cass. Sez. 1,

Sentenza n. 24449 del 01/12/2015);

- Le obbligazioni di conguaglio dei coeredi sono parziarie o solidali? (Cass., II, 14 dicembre

2009, n. 26170)

- I crediti del de cuius ipso iure dividuntur? (Cass., sez. unite, 28 novembre 2007, n. 24657)

- Solidarietà da concorso di respoonsabilità eterogenee: i presuppsoti (Cass., sez. unite, 15

lkuglio 2009, n. 16503)

- regresso (Cass Sez. 3 - , Ordinanza n. 3404 del 13/02/2018; Cass. 30174 del 2011),

surrogazione e rivalsa (cenni alla disciplina della legge Gelli-Bianco)

- art. 2055 c.c. e responsabilità degli amministratori e dei sindaci (Cass. Sez. 1, Sentenza n.

16952 del 10/08/2016; Cass. Sentenza n. 24715 del 04/12/2015; Cass., Sez. U, Sentenza n.

9100 del 06/05/2015; Cass Sez. 1 - , Sentenza n. 38 del 03/01/2017; Cass. Sez. 1 - ,

Sentenza n. 2500 del 01/02/2018);

- Fideiussione, e contratto autonomo di garanzia (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16825 del

09/08/2016; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 22233 del 20/10/2014; Cass. Sez. U, Sentenza n.

3947 del 18/02/2010). Le garanzie atipiche: polizza fideiussoria, fidejussione indennitaria,

promessa del fatto del terzo, lettere di patronage a contenuto informativo e a contenuto

impegnativo

- Transazione e obbligazioni solidali: Cass., I, 22 marzo 2011, n. 6486;

- Azione revocatoria e obbligazioni solidali : Cass. 22 marzo 2011, n. 6486.

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OBBLIGAZIONI PECUNIARIE

- Nozione (cenni sulle criptovalute).

Il nuovo concetto dematerializzato di obbligazioni pecuniarie

- Adempimento, pagamento con consegna di assegno circolare o bancario (Cass. Sez. Un.

26617/2007; Cass. Sez. Un. 13658/2010 sez. 3, Sentenza n. 14531 del 10/06/2013 Sez. 2,

Sentenza n. 20643 del 30/09/2014);

- Obbligazioni pecuniarie e limitazioni all’uso del danaro contante: art. 1 l. n. 197/1991 (Cass.

23 gennaio 2017, n. 1645);

- Il pagamento mediante carte di credito come delegazione passiva allo scoperto o cessione di

crediti futuri. La responsabilità per indebito utilizzo (d. lgs. 1° marzo 2018, n. 21 e art. 493

bis c.p.)

- Debito di valore e di valuta. In particolare, recesso legale e recesso contrattuale

dell’appaltatore tra debito di valuta e debito di valore: Cass., 7 marzo 2018, n. 5368. La

conversione del debito di valore in debito di valuta

- Il pagamento: sono obbligazioni portabili o chiedibili? Cass. sezioni unite 3 settembre

2016, n. 17989; sez. VI, ord. 4 gennaio 2017, n. 118.

- Interessi corrispettivi, compensativi, moratori;

- Il danno ex art. 1224, comma 2, c.c. : il nuovo regime scolpito da Cass. sezioni unite

19499/2008, basato sulla presunzione iuris tantum di una redditività bari ai rendimenti dei

titoli di Stato di durata non superiore a un annoda

- Anatocismo e usi negoziali e normativi. Anatocismo convenzionale, legale e usuario.

Anatocismo e debiti di valore (Cass., 27 giugno 2017, n. 15944). La capitalizzazione

trimestrale degli interessi bancari: evoluzioni giurisprudenziali e normative: la legge

49/2016. Rilevabilità d’ufficio della nullità. Il regime dell’azione restitutoria. Prescrizione e

anatocismo (Cass. 24418/2010). La legge 49/2016.Contratto autonomo di garanzia ed

eccezione di nullità della clausola anatocistica (cfr., in termini non coincidenti, Cass., 25

agosto 2017, n. 20397 e Cass., 10 gennaio 2018, n. 371).

- Il regime dell’usura: classificazioni (civile e penale; reale e pecuniaria; pecuniaria a

interessi e non; originaria e sopravvenuta). La riforma del 1999 e le successive evoluzioni

normative e giurisprudenziali. Per il calcolo della soglia occorre considerare anche la

clausola di massimo scoperto (Cass., sez. unite 20 giugno 2018, n. 16303). Cumulo di

interessi moratori e corrispettivi per verificare il superamento della soglia. L’usura

sopravvenuta è lecita ed esigibile (Cass., sezioni unite 19 ottobre 2017, n. 24675)’

NOTE INTRODUTTIVE

Le obbligazioni possono essere ricostruite e ordinate sulla base di diversi criteri, aventi riguardo ai

lati soggettivo e oggettivo del rapporto obbligatorio.

Con riferimento alla prestazione che ne costituisce l’oggetto, è possibile distinguere tra obbligazioni

di dare e di fare; obbligazioni generiche e specifiche; obbligazioni fungibili e infungibili.

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Sempre sul piano oggettivo, è possibile individuare le obbligazioni complesse, nel caso in cui

prevedano l’esecuzione di più prestazioni. Tali obbligazioni si articolano a loro volta in alternative,

facoltative e cumulative.

Con riguardo all’oggetto della prestazione, si distinguono – per la particolare rilevanza nel sistema

economico e per gli specifici problemi da esse poste – le obbligazioni pecuniarie.

Peculiare questione posta da tale specie di obbligazioni, di seguito partitamente esaminata nella

selezione giurisprudenziale, concerne l’efficacia estintiva con effetto liberatorio del debitore che

può essere determinata dalla consegna di assegni circolari in luogo del pagamento di denaro

contante.

Tale questione è stata affrontata dalle Sezioni Unite, con sentenza 18 dicembre 2007, n. 26617, che

hanno affermato la natura valoristica delle obbligazioni pecuniarie, nonché la loro specialità

rispetto al genus delle obbligazioni fungibili.

Si è in particolare rilevato come la consegna di assegni circolari, pur non equivalendo a pagamento

a mezzo somme di denaro, estingua l'obbligazione quando il rifiuto del creditore appaia contrario

alle regole di correttezza che gli impongono di prestare collaborazione all'adempimento

dell'obbligazione a norma dell'art. 1175 c.c.

L'orientamento è motivato considerando che gli assegni circolari, in ragione delle modalità di

emissione, assicurano al legittimo portatore il conseguimento della somma di denaro indicata.

Sebbene essi non siano denaro né possano svolgerne la funzione, la facilità della circolazione e la

sicurezza della convertibilità in denaro possono rendere contrario a buona fede e quindi illegittimo

il loro rifiuto da parte del creditore.

Con tale impostazione si introduce nel meccanismo estintivo dell'obbligazione pecuniaria il

principio della correttezza e della buona fede, nella prospettiva di adeguare il dato normativo alle

esigenze della realtà concreta ove la circolazione del denaro a mezzo assegni circolari garantisce

maggiore sicurezza e celerità, svincolandola da un aggancio a substrati fisici.

Con riferimento al piano soggettivo, il rapporto obbligatorio può essere definito complesso allorché

coinvolga più di due soggetti.

Come noto, allorché il creditore sia legittimato a pretendere la prestazione dovuta da uno qualsiasi

dei debitori, con effetto estintivo anche per gli altri, ovvero il debitore si liberi adempiendo

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interamente ad uno qualsiasi dei creditori, si avrà un’ipotesi di obbligazione solidale

(rispettivamente attiva e passiva).

Allorché invece il creditore possa esigere soltanto la parte di debito riferibile al singolo debitore, o

viceversa il debitore possa corrisponderla solo al suo creditore, si avrà un’obbligazione parziaria, a

sua volta distinguibile in obbligazione divisibile ovvero indivisibile.

Particolare rilevanza assume, con riguardo alla necessità di discernere tra obbligazioni solidali e

parziarie, l’approdo ermeneutico cui sono pervenute le Sezioni Unite con la sentenza 8 aprile 2008

n. 9148, ove, ritenuto che la solidarietà passiva, in linea di principio, esige la sussistenza non

soltanto della pluralità dei debitori e della identica causa dell'obbligazione, ma altresì della

indivisibilità della prestazione comune, si è concluso che in mancanza di quest'ultimo requisito e in

difetto di una espressa disposizione di legge, prevalga l’intrinseca parziarietà della obbligazione.

Con riguardo al momento adempitivo dell’obbligazione, particolare importanza riveste il disposto

dell’art. 2740 c.c., ove si stabilisce che “Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni

con tutti i suoi beni presenti e futuri”.

A fianco a tale garanzia, definita generica e avente per oggetto l’intero compendio patrimoniale del

debitore, l’ordinamento contempla le garanzie patrimoniali specifiche, con riferimento alla

categoria di diritti e obblighi accessori preordinati ad assicurare l’adempimento delle obbligazioni.

Le caratteristiche di tali garanzie, articolate in reali e personali (queste ultime tipiche e atipiche),

sono esaminate nella selezione giurisprudenziale.

Deve comunque mettersi sin da ora in luce che, al fine di contemperare la tutela degli interessi

creditori con quelli del debitore, nonché al fine di salvaguardare il principio della par condicio

creditorum, il Codice civile contempla il divieto di patto marciano, ossia di quel patto con il quale si

conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa

data in garanzia passi al creditore. Tale patto è nullo in virtù del disposto dell’art. 2744 c.c.

Diverso dal patto commissorio è il patto marciano, alla cui stregua il trasferimento del bene

costituito in garanzia è subordinato alla stima del suo valore ad opera di un terzo al momento

dell’inadempimento, così che l’eventuale valore eccedente rispetto al credito rimanga nella sfera

giuridica del debitore, per tal via non depauperato, insieme agli altri creditori che eventualmente

concorrono sul suo patrimonio, dalla perdita di tale valore.

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A tal fine, particolarmente rilevante è quanto statuito dalla Corte di Cassazione con sentenza 21

gennaio 2016, n. 1075, ove si è affermato che l’art. 2744 c.c., sancendo il divieto del patto

commissorio, postula che il trasferimento della proprietà della cosa sia sospensivamente

condizionato al verificarsi dell'evento futuro ed incerto del mancato pagamento del debito,

sicché detto patto non è configurabile qualora il trasferimento avvenga, invece, allo scopo di

soddisfare un precedente credito rimasto insoluto.

Nella specie, la Corte di Cassazione ha ritenuto congruamente motivata la decisione impugnata che

aveva escluso che l'operazione fosse finalizzata ad uno scopo di garanzia in quanto parte del prezzo

della compravendita era stato utilizzato per ripianare debiti scaduti verso l'amministratore della

società acquirente e nei confronti di terzi, mentre per i debiti non ancora esigibili nei confronti di

terze società, la rateizzazione mensile del prezzo residuo poteva considerarsi una delegazione di

pagamento di tali preesistenti obbligazioni da parte del "debitor debitoris".

Diversamente, la vendita con patto di riscatto o di retrovendita stipulata fra il debitore ed il

creditore, ove determini la definitiva acquisizione della proprietà del bene in mancanza di

pagamento del debito garantito, è nulla per frode alla legge, in quanto diretta ad eludere il divieto

del patto commissorio.

Principale elemento sintomatico della frode è costituito dalla sproporzione tra l'entità del debito e il

valore dato in garanzia, in quanto il legislatore, nel formulare un giudizio di disvalore nei riguardi

del patto commissorio, ha presunto, alla stregua dell'"id quod plerumque accidit", che in siffatta

convenzione il creditore pretenda una garanzia eccedente il credito, sicché, ove questa sproporzione

manchi - come nel pegno irregolare, nel riporto finanziario e nel cosiddetto patto marciano (ove al

termine del rapporto si procede alla stima del bene e il creditore, per acquisirlo, è tenuto al

pagamento dell'importo eccedente l'entità del credito) - l'illiceità della causa è esclusa.

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Selezione giurisprudenziale

1. LA NUOVA ESSENZA VALORISTICA DELLE OBBLIGAZIONI PECUNIARIE

(SU ASSEGNO CIRCOLARE): Cass. Sez. Un. 18 dicembre 2007, n. 26617

NOTA INTRODUTTIVA

Nel nuovo regime dematerializzato dell’obbligazione pecuniaria, il solo fatto dell'adempimento, da

parte del debitore, della propria obbligazione pecuniaria con un altro sistema di pagamento

(ovverosia di messa a disposizione del "valore monetario" spettante) - sistema che, comunque,

assicuri ugualmente la disponibilità della somma dovuta - non legittima affatto il creditore a

rifiutare il pagamento stesso essendo all'uopo necessario che il rifiuto sia sorretto anche da un

giustificato motivo, che il creditore deve allegare ed all'occorrenza anche provare (in applicazione

del suesposto principio, la Corte ha rigettato il ricorso di parte creditrice avverso la decisione dei

giudici del merito, secondo cui il pagamento mediante assegno bancario in luogo di denaro

contante era da considerarsi idoneo ad estinguere l'obbligazione, anche in assenza di previo

accordo tra le parti, mentre l'ingiustificato rifiuto della creditrice di ricevere tale assegno era da

ritenersi contrario ai principi di correttezza e buona fede).

Nelle obbligazioni pecuniarie, il cui importo sia inferiore a 12.500 euro o per le quali non sia

imposta per legge una diversa modalità di pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta,

in moneta avente corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno circolare; nel primo

caso il creditore non può rifiutare il pagamento, come, invece, può nel secondo solo per giustificato

motivo da valutare secondo la regola della correttezza e della buona fede oggettiva; l'estinzione

dell'obbligazione con l'effetto liberatorio del debitore si verifica nel primo caso con la consegna

della moneta e nel secondo quando il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica

della somma di denaro, ricadendo sul debitore il rischio dell'inconvertibilità dell'assegno.

2. Il motivo pone la questione se nelle obbligazioni pecuniarie abbia efficacia estintiva solo il

pagamento in moneta contante, oppure anche mediante consegna di assegni circolari.

La questione si risolve in quella se il creditore possa rifiutare senza giustificato motivo il

pagamento che il debitore intenda effettuare con assegni circolari e pretendere che avvenga

con la corresponsione di denaro contante, pena l'inadempimento e gli effetti conseguenti di

"mora debendi".

Il tema dell'indagine è quindi il carattere obbligatorio della modalità del pagamento con

dazione di moneta avente corso legale e correlativamente la rifiutabilità di mezzi alternativi di

pagamento.

(omissis)

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3. Secondo l'orientamento largamente prevalente nella giurisprudenza di questa Corte l'invio di

assegni circolari o bancari da parte del debitore obbligato al pagamento di somme di denaro

si configura come "datio in solutum" o più precisamente come proposta di "datio pro

solvendo", la cui efficacia liberatoria dipende dal preventivo assenso del creditore (che può

manifestarsi anche con comportamento concludente) ovvero dalla sua accettazione che è

ravvisabile quando trattenga e riscuota l'assegno; in tale ipotesi la prestazione diversa da quella

dovuta è da ritenere accettata con riserva, quanto al definitivo effetto liberatorio, dell'esito della

condizione "salvo buon fine" o "salvo incasso" inerente all'accettazione di un credito anche

cartolare, in pagamento dell'importo dovuto in numerario.

3.1. L'orientamento risale alla sentenza 22.7.1973, n. 2200, ed è stato seguito dalle sentenze

14.4.1975, n. 1412; 3.7.1980, n. 4205; 5.1.1981, n. 24; 16.2.1982, n. 971; 8.1.1987, n. 17;

19.7.1993, n. 8013; 3.2.1995, n. 1326; 3.4.1998, n. 3427; 21.12.2002, n. 18240; 10.2.2003, n. 1939;

10.6.2005, n. 12324; 14.2.2007, n. 3254.

La sua più completa espressione è nella sentenza 10.6.2005, n. 12324, il cui "iter" argomentativo si

articola nelle seguenti proposizioni.

Il dato letterale dell'art. 1277, comma 1, c.c. comporta che i debiti pecuniari si estinguono con

moneta avente corso legale; sebbene l'assegno sia bancario che circolare costituisca, a differenza

della cambiale, mezzo di pagamento, la consegna o trasmissione di esso, salva diversa volontà delle

parti, si intende fatta "pro solvendo" e non "pro soluto" con esclusione dell'immediato effetto

estintivo del debito; l'invio di assegno circolare in luogo della somma di denaro configura

violazione sia degli artt. 1277 e 1197 c.c. (rappresentando una "datio pro solvendo" in assenza di

consenso del creditore) che dell'art. 1182 c.c. (secondo il quale l'obbligazione avente ad

oggetto denaro deve essere adempiuta al domicilio del creditore) in quanto comporta la sostituzione

del domicilio del creditore con la sede dell'istituto bancario presso cui è riscuotibile l'assegno; l'art.

1277 c.c. è norma derogabile che cessa di operare, rendendo inapplicabile il principio secondo cui il

creditore di somme di denaro non è tenuto ad accettare in pagamento titoli di credito anche se

assistiti da particolari garanzie di solvibilità dell'emittente come gli assegni circolari, quando esista

una manifestazione di volontà espressa o presunta del creditore in tale senso; non si può ritenere che

la consegna di assegni circolari, pur non equivalendo al pagamento in contanti, estingue

l'obbligazione quando il rifiuto del creditore appare contrario alle regole di correttezza che gli

impongono di prestare la sua collaborazione ai sensi dell'art. 1175 c.c. in quanto la collaborazione è

dovuta solo per ricevere l'oggetto della prestazione e non un oggetto diverso; i principi sopra esposti

valgono se il debito pecuniario non supera l'importo di euro 12.500; se lo supera vige una

particolare disciplina (d.l. 143/1991 convertito in L. 197/1991) che conserva, tuttavia, piena valenza

all'art. 1227.

3.2. Il concetto fondamentale è che l'adempimento dell'obbligazione pecuniaria avviene attraverso il

trasferimento della moneta contante attuato con la consegna materiale di pezzi monetari nelle mani

del creditore.

L'obbligazione pecuniaria è assimilata al debito di dare una quantità di cose fungibili (i pezzi

monetari).

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La titolarità della disponibilità monetaria è collegata al possesso e la sua circolazione importa la

dazione di pezzi monetari considerati quali cose da trasferire in proprietà al creditore.

Come è stato osservato, l'adempimento con denaro contante realizza l'attribuzione della moneta al

creditore con gli strumenti del terzo libro del codice civile attraverso le categorie del possesso e

della proprietà.

4. Secondo altro orientamento assolutamente minoritario nella giurisprudenza di questa Corte la

consegna di assegni circolari, pur non equivalendo a pagamento a mezzo somme di denaro,

estingue l'obbligazione quando il rifiuto del creditore appare contrario alle regole di

correttezza che gli impongono di prestare collaborazione all'adempimento dell'obbligazione a

norma dell'art. 1175 c.c.

Sono espressive di questo orientamento le sentenze 16.2.1998, n. 1351; 7.7.2003, n. 10695.

L'orientamento è motivato considerando che gli assegni circolari in ragione delle modalità di

emissione assicurano al legittimo portatore il conseguimento della somma di denaro indicata.

Sebbene essi non siano denaro né possano svolgerne la funzione, la facilità della circolazione e la

sicurezza della convertibilità in denaro possono rendere contrario a buona fede e quindi illegittimo

il loro rifiuto da parte del creditore.

Pertanto, se il creditore non ha un apprezzabile interesse a ricevere il denaro contante né ha

ragione di dubitare della regolarità ed autenticità degli assegni, la consegna di essi estingue

l'obbligazione di pagamento sia pure con la clausola implicita del buon fine.

L'obiezione che il creditore deve recarsi presso la banca per riscuotere l'assegno, mentre di

regola ha diritto di ricevere la prestazione al suo domicilio, è superata con il riferimento alla

crescente considerazione sociale degli assegni circolari e con il fatto che normalmente il creditore

ha un conto bancario sul quale deposita denaro e titoli.

4.1. La valutazione si sposta dal comportamento del debitore a quello del creditore ed ha come

oggetto la verifica della legittimità del rifiuto del pagamento a mezzo assegno circolare alla luce del

principio della correttezza e della buona fede oggettiva.

Il principio, desunto dall'art. 1175 (che impone l'obbligo di comportarsi secondo le regole della

correttezza) e dall'art. 1375 c.c. (che stabilisce che il contratto deve essere eseguito secondo buona

fede), costituisce il limite oltre il quale il rifiuto del creditore diventa illegittimo ed il pagamento

con assegno circolare spiega efficacia solutoria salvo buon fine.

Con tale impostazione si introduce nel meccanismo estintivo dell'obbligazione pecuniaria il

principio della correttezza e della buona fede nella prospettiva di adeguare il dato normativo

alle esigenze della realtà concreta dove la circolazione del denaro a mezzo assegni circolari

garantisce maggiore sicurezza e celerità, svincolandola da un aggancio a substrati fisici.

4.2. In dottrina si è osservato che sulla base del criterio della correttezza dell'adempimento si

possono raggiungere i medesimi risultati dell'ordinamento tedesco che al § 362 del BGB stabilisce

il principio che il rapporto obbligatorio si estingue quando la prestazione dovuta ha efficacia per il

creditore e, cioè, quando si è definitivamente consolidata nel patrimonio dello stesso; questo

principio ha consentito alla giurisprudenza tedesca di affermare che il pagamento eseguito mediante

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mezzi alternativi (nel caso mediante bonifico bancario) diventa definitivamente efficace per il

creditore quando la somma di denaro entra nella sua piena e libera disponibilità (BGH 28.10.1998

in Neue Juristiche Wochenschrift, 1999, 210).

4.3. Costituisce riflesso dell'orientamento minoritario l'affermazione contenuta nella sentenza di

questa Corte 6.9.2004, n. 17961, secondo la quale l'assegno circolare è considerato a tutti gli effetti

equivalente al denaro contante, per cui il pagamento effettuato tramite la consegna di tale assegno

estingue immediatamente l'obbligazione.

Si tratta, peraltro, di un "obiter" privo di supporto giustificativo.

Contiene una chiara esposizione dell'orientamento la sentenza 19.5.2006, n. 11851, laddove rileva

che questa Corte non ha affermato che l'assegno circolare costituisce un mezzo di pagamento, ma

soltanto che il rifiuto di esso nei rapporti tra debitore e creditore può essere contrario al principio di

buona fede, stante la sicurezza del buon fine ed il minimo aggravio per il creditore, pur senza

prendere posizione sulla questione ed anzi confermando che l'assegno circolare rimane un titolo di

credito con tutte le conseguenze che ne derivano in base alla legge sulla circolazione del titolo.

Condivide l'orientamento minoritario la sentenza 19.12.2006, n. 27158, secondo la quale, se è vero

che la consegna di un assegno circolare al creditore non equivale alla consegna di denaro contante,

è altrettanto vero che, costituendo l'assegno circolare un mezzo di pagamento e non sussistendo

alcun pericolo di mancanza della provvista presso la banca obbligata al pagamento, la "datio" di tale

assegno secondo gli usi negoziali, come è prassi per i pagamenti delle società di assicurazione o,

comunque, come accettata dal creditore, è sicuramente idonea ad estinguere l'obbligazione senza

che occorra un preventivo accordo delle parti in tale senso o il rilascio di una quietanza liberatoria.

5. Nella dottrina più recente prevale la tesi che la regola, secondo la quale il denaro contante è

l'unico mezzo legale di pagamento delle obbligazioni pecuniarie, va "scardinata" e va riconosciuta

efficacia solutoria a mezzi alternativi di pagamento che eliminano il trasferimento materiale di

moneta, come l'assegno circolare, dovendosi intendere per "somma di denaro" la funzione ideale del

mezzo monetario.

In questo ambito si distingue fra moneta scritturale incentrata sulle scritturazioni bancarie, che

riposa in definitiva sulla garanzia che offrono le banche, ed altri sistemi di pagamento, come la

cambiale, precisandosi che l'effetto satisfattorio si realizza con la creazione della disponibilità

monetaria a favore del creditore.

L'idea di fondo è la smaterializzazione del denaro con trasformazione del diritto reale sui pezzi

monetari in diritto di credito ad una determinata somma di denaro.

Nella prospettiva della smaterializzazione il principio nominalistico (in base al quale il debitore si

libera dal proprio debito con una quantità di moneta corrispondente a quella "nominalmente" dovuta

a prescindere dalle variazioni del suo potere di acquisto) riguarda la disciplina dei mezzi di

pagamento e, cioè, la determinazione della quantità della somma da offrire in pagamento e non la

qualità dei mezzi di pagamento.

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La linea di tendenza è verso l'eliminazione degli spostamenti di moneta contante, oltre che per

esigenze di semplificazione della tecnica dei pagamenti (evitando l'impiego di notevoli quantità di

numerario), perché la custodia, la circolazione e lo scambio attraverso moneta contante sono

valutati inefficienti ed insicuri specialmente per importi rilevanti.

L'adempimento dell'obbligazione pecuniaria è inteso non come atto materiale di consegna

della moneta contante, bensì come prestazione diretta all'estinzione del debito, nella quale le

parti debbono collaborare osservando un comportamento da valutare per il creditore secondo

la regola della correttezza e per il debitore secondo la regola della diligenza.

Ove avvenga con mezzi diversi, l'adempimento si può considerare efficace e liberatorio solo quando

realizza i medesimi effetti del pagamento per contanti e, cioè, quando pone il creditore nelle

condizioni di disporre liberamente della somma di denaro, senza che rilevi se la disponibilità sia

riconducibile ad un rapporto di credito verso una banca presso la quale la somma sia stata

accreditata.

Si è osservato che nell'ordinamento manca una regola di parificazione della moneta avente corso

legale a quella scritturale; tale regola si può, però, desumere da un'abbondante legislazione speciale

che si inserisce nella generale tendenza alla decodificazione caratteristica dell'epoca attuale.

6.1. Nell'interpretazione della normativa codicistica sul sistema di pagamento dei debiti pecuniari

non si può prescindere dai numerosi interventi legislativi infittitisi negli ultimi tempi che hanno

introdotto sistemi alternativi, rendendoli frequentemente obbligatori.

In questo ambito assumono particolare rilievo il d.l. 3.5.1991, n. 143, convertito con modificazioni

in L. 5.7.1991, n. 197, che pone il divieto di effettuare pagamenti mediante trasferimento di denaro

contante e titoli al portatore per somme superiori ad euro 12.500, ed il d. l. 4.7.2006, n. 223,

convertito con modificazioni in L. 4.8.2006, n. 248, secondo cui i compensi in denaro per l'esercizio

di arti e professioni sono riscossi esclusivamente mediante assegni non trasferibili o bonifici o altre

modalità di pagamento bancario o postale nonché mediante sistemi di pagamento elettronici, salvo

che per importi inferiori ad euro 100.

A seguito di questi interventi l'area di applicazione della normativa codicistica si è a tal punto

ristretta che il sistema di pagamento da essa previsto è diventato addirittura marginale.

Né vale l'osservazione che siccome il d.l. 143/1991 conserva valenza all'art. 1277 c.c. il creditore ha

il diritto di pretendere il pagamento in moneta avente corso legale, sia pure attraverso

l'intermediario abilitato che subentra nella posizione del debitore (Cass. 10.6.2005, n. 12324), in

quanto la convertibilità in denaro è tipica di qualsiasi sistema alternativo di pagamento, con la

precisazione che il rischio di convertibilità e, cioè, l'eventualità che la banca non sia in grado di

garantire la conversione in moneta legale dipende in definitiva dal grado di affidabilità della banca.

6.2. La disciplina del sistema codicistico di pagamento delle obbligazioni pecuniarie è contenuta

negli artt. 1277, 1182, 1197 c.c.

6.3. Come già detto, l'interpretazione dell'art. 1277 privilegiata dalla prevalente giurisprudenza di

questa Corte è che i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato ed il

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creditore può rifiutare qualsiasi altro mezzo di pagamento, compreso l'assegno circolare che pure è

assistito da una particolare affidabilità e sicurezza in relazione alle modalità di emissione.

In dottrina si è osservato che l'art. 1277 non riguarda le modalità di pagamento, ma il sistema

valutario nazionale e la necessità, quindi, che i mezzi monetari impiegati si riferiscano ad esso,

evidenziando che secondo la concezione moderna il denaro è unità ideale di valore cui

l'ordinamento attribuisce la funzione di unità di misura dei valori monetari o secondo una

concezione più raffinata "ideal unit", astratta unità ideale monetaria creata dallo Stato.

6.4. Considerato che nell'ambiente socio-economico l'assegno circolare e quello bancario

costituiscono mezzi normali di pagamento; che la circolazione del denaro tende a realizzarsi con

strumenti sempre più sofisticati affrancati dalla consegna materiale di numerario per ragioni di

sicurezza e velocizzazione dei rapporti; che collateralmente alla disciplina codicistica è cresciuta

una legislazione che ha introdotto sistemi alternativi di pagamento, rendendoli spesso obbligatori, si

impone un'interpretazione evolutiva, costituzionalmente orientata, dell'art. 1277 che superi il dato

letterale e, cogliendone l'autentico senso, lo adegui alla mutata realtà.

6.5. Si ritiene, pertanto, che l'espressione "moneta avente corso legale nello Stato al momento

del pagamento" significa che i mezzi monetari impiegati si debbono riferire al sistema

valutario nazionale, senza che se ne possa indurre alcuna definizione della fattispecie del

pagamento solutorio.

Ed in altri termini la moneta avente corso legale non è l'oggetto del pagamento che è rappresentato

dal valore monetario o quantità di denaro.

6.6. Con questa interpretazione dell'art. 1277 risultano ammissibili altri sistemi di pagamento,

purché garantiscano al creditore il medesimo effetto del pagamento per contanti e, cioè, forniscano

la disponibilità della somma di denaro dovuta.

Tale effetto sicuramente produce l'assegno circolare con il quale, stante la precostituzione della

provvista, tramite l'intermediazione di una banca si realizza il trasferimento della somma di denaro

con la messa a disposizione del creditore.

Il rischio di convertibilità e, cioè, l'eventualità che per qualsiasi ragione la banca non sia in grado di

assicurare la conversione dell'assegno in moneta legale rimane a carico del debitore, il quale si

libera solo con il buon fine dell'operazione.

6.7. Occorre precisare che lo schema della "datio pro solvendo" con l'applicazione della regola

stabilita dall'art. 1197 c.c. rimane estraneo all'impiego del mezzo alternativo di adempimento in

quanto la moneta avente corso legale non è l'oggetto del pagamento, costituito dal valore monetario

o quantità di denaro, per cui tale mezzo non è niente altro che una diversa modalità di

adempimento.

Diversamente opinando, si perverrebbe alla inaccettabile conclusione che sistemi diversi di

pagamento, imposti per somme superiori a 12.500 euro, non siano ammessi per somme inferiori.

6.8. La raggiunta conclusione non trova ostacolo nell'art. 1182 c.c. sul luogo dell'adempimento.

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Vale in proposito considerare che l'obbligazione pecuniaria non è assimilabile all'obbligazione di

dare cose fungibili, sicché non risulta perfettamente adattabile lo schema di tale tipo di

obbligazione, mentre assume rilevanza l'interesse del creditore alla giuridica disponibilità della

somma invece che al possesso dei pezzi monetari.

In questa prospettiva il concetto di domicilio del creditore non coincide con il suo domicilio

anagrafico soggettivamente riconducibile alla persona fisica, ma deve essere oggettivizzato e può

individuarsi nella sede (filiale, agenzia o altro) della banca presso la quale il creditore ha un conto.

6.9. Mentre se il debitore paga in moneta avente corso legale il debito pecuniario di importo

inferiore ad euro 12.500 o per il quale non sia imposta una diversa modalità di pagamento, il

creditore non può rifiutare il pagamento e l'effetto liberatorio si verifica al momento della consegna

della somma di denaro, se il debitore paga con assegno circolare o con altro sistema che assicuri

ugualmente la disponibilità della somma dovuta, il creditore può rifiutare il pagamento solo per

giustificato motivo che deve allegare ed all'occorrenza anche provare; in questo caso l'effetto

liberatorio si verifica quando il creditore acquista la concreta disponibilità della somma.

La valutazione del comportamento del creditore va fatta in base alla regola della correttezza e della

buona fede oggettiva.

7. Il contrasto va, pertanto, risolto nel senso che "nelle obbligazioni pecuniarie, il cui importo sia

inferiore a 12.500 euro o per le quali non sia imposta per legge una diversa modalità di

pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente corso legale nello

Stato o mediante consegna di assegno circolare; nel primo caso il creditore non può rifiutare il

pagamento, come, invece, può nel secondo solo per giustificato motivo da valutare secondo la

regola della correttezza e della buona fede oggettiva; l'estinzione dell'obbligazione con

l'effetto liberatorio del debitore si verifica nel primo caso con la consegna della moneta e nel

secondo quando il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica della somma di

denaro, ricadendo sul debitore il rischio dell'inconvertibilità dell'assegno".

2. IL LUOGO DI ADEMPIMENTO DELLE OBBLIGAZIONI PECUNIARIE.

L’INTERVENTO DELLE SEZIONI UNITE: Cassazione civile, sez. un., 13/09/2016, n. 17989

Nota introduttiva e massima

Con questa sentenza importante le Sezioni unite, sanandoun contrasto giurisprudenziale, hanno

chiarito che Le obbligazioni pecuniarie da adempiere al domicilio del creditore a norma dell'art.

1182, comma 3, c.c. sono - agli effetti sia della mora "ex re", sia del "forum destinatae

solutionis" - esclusivamente quelle liquide, delle quali cioè il titolo determini l'ammontare o

indichi criteri determinativi non discrezionali; ai fini della competenza territoriale, i presupposti

della liquidità sono accertati dal giudice in base allo stato degli atti, ai sensi dell'art. 38, comma 4,

c.p.c.

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Sintesi della decisione

Approdata la questione al vaglio delle Sezioni Unite, la Corte, in via preliminare, ripercorre i due

principali orientamenti in ordine al concetto di obbligazione pecuniaria rilevante ai sensi

dell’articolo 1182 del codice di procedura civile, comma 3:

a) secondo un primo e tradizionale indirizzo (ex multis, Cass. 22326/2007), ove la somma di

danaro oggetto dell’obbligazione debba essere ancora determinata dalle parti o, in loro sostituzione,

liquidata dal giudice mediante indagini ed operazioni diverse dal semplice calcolo aritmetico, trova

applicazione l’articolo 1182, comma 4, secondo cui l’obbligazione deve essere adempiuta al

domicilio che il debitore ha al tempo della scadenza;

b) in virtù di un secondo orientamento (ex plurimis, Cass. 7674/2005; 12455/2010; 10837/2011), il

forum destinatae solutionis previsto dall’articolo 1182, comma 3, è applicabile in tutte le cause

aventi ad oggetto una somma di denaro qualora l’attore abbia richiesto il pagamento di una somma

determinata, non incidendo sulla individuazione della competenza territoriale la maggiore o minore

complessità dell’indagine sull’ammontare effettivo del credito, che attiene esclusivamente alla

successiva fase di merito. Più in particolare, secondo quest’ultimo orientamento, è irrilevante che la

prestazione richiesta non sia convenzionalmente prestabilita, essendo sufficiente ad integrare il

requisito della liquidità dell’obbligazione ed a renderla, dunque, “portabile”, che l’attore abbia agito

per il pagamento di una somma da lui puntualmente indicata.

Così individuati i termini del contrasto, la Suprema Corte, con una precisazione importante,

perimetra la base del suo intervento stabilendo che «il contrasto non riguarda la necessità del

requisito della liquidità affinché un’obbligazione pecuniaria debba essere adempiuta al domicilio

del creditore; riguarda piuttosto il modo di intendere tale requisito».

Tanto premesso, le Sezioni Unite ritengono che «il contrasto così determinatosi rispetto

all’orientamento, in precedenza costante, che richiedeva la effettiva liquidità dell’obbligazione, in

base al titolo, ai fini della qualificazione dell’obbligazione stessa come portabile, per gli effetti di

cui al combinato disposto dell’articolo 1182 del codice civile, comma 3, e articolo 20 del codice di

procedura civile, vada risolto confermando l’orientamento tradizionale».

La Corte rileva che le obbligazioni pecuniarie illiquide hanno una “particolarità”, posto che ai fini

dell’adempimento del debitore è necessario un “passaggio ulteriore”, e, cioè, un ulteriore titolo,

convenzionale o giudiziale.

Questa particolarità è foriera di importanti conseguenze rispetto alla disciplina di tale categoria di

obbligazioni.

Ed invero, la nozione di obbligazione portabile, di cui all’articolo 1182 del codice civile, comma 3,

rileva non soltanto ai fini dell’individuazione del forum destinatae solulionis contemplato

dall’articolo 20 del codice di procedura civile, seconda parte, ma anche ai fini del prodursi della

mora ex re ai sensi dell’articolo 1219 del codice civile, comma 2, n. 3, che esclude la necessità della

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costituzione in mora “quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al

domicilio del creditore”, come appunto stabilito per le obbligazioni pecuniarie dall’articolo 1182,

comma 3, cit..

Ebbene, la Corte nega che la mora ex re possa verificarsi anche per le obbligazioni pecuniarie

illiquide.

Infatti, se tra le obbligazioni pecuniarie “portabili” contemplate da tale disposizione rientrassero

quelle illiquide, la mora – e con essa la responsabilità ai sensi dell’articolo 1224 del codice civile –

scatterebbe automaticamente anche a carico del debitore la cui prestazione non sia in concreto

possibile perché l’ammontare della sua prestazione è ancora incerto: il che, sottolineano i Giudici di

legittimità, «sarebbe ingiustificato, nonché contrario al sistema, il quale esclude la responsabilità

del debitore la cui prestazione sia impossibile per causa a lui non imputabile (articolo 1218 c.c.)».

Questa “interpretazione restrittiva” della nozione di obbligazione portabile risulta, inoltre, coerente

anche con il favor debitoris che ispira la regola generale di cui all’articolo 1182, comma 2, n. 4 cit.

Inoltre - prosegue il Supremo Collegio - «le indicate esigenze di protezione del debitore, che sono a

fondamento dell’interpretazione restrittiva dell’articolo 1182 del codice civile, comma 3,

richiedono evidentemente che la liquidità del credito sia ancorata a dati oggettivi, mentre

sarebbero frustrate se essa si facesse coincidere con la pura e semplice precisazione, da parte

dell’attore, della somma di denaro dedotta in giudizio, pur in mancanza di indicazioni nel titolo….

In tal modo, infatti, non il dato oggettivo della liquidità del credito radicherebbe la controversia

presso il forum creditoris, bensì il mero arbitrio del creditore stesso, il quale scelga di indicare una

determinata somma come oggetto della sua domanda giudiziale, con conseguente lesione anche del

principio costituzionale del giudice naturale».

Alla stregua delle precedenti argomentazioni ed in sostanziale adesione dell’orientamento

tradizionale, per i Giudici Supremi rientrano nella previsione di cui all’articolo 1182 del

codice civile, comma 3, esclusivamente le obbligazioni pecuniarie liquide, il cui ammontare,

cioè, sia determinato direttamente dal titolo ovvero possa essere determinato in base ad esso con un

semplice calcolo aritmetico.

Con una “puntualizzazione” importante: «liquidità significa che la somma dovuta risulta dal titolo e

dunque non è necessario, per determinarla, un ulteriore titolo negoziale o giudiziale. L’ammontare

della somma dovuta potrà risultare direttamente dal titolo originario, che la precisi, oppure solo

indirettamente dallo stesso, allorché questo indichi il criterio o i criteri applicando i quali tale

somma va determinata.

Deve trattarsi, però, di criteri stringenti, tali, cioè, che la somma risultante dalla loro applicazione

sia necessariamente una ed una soltanto: questo è ciò che si intende affermare allorché si ammette

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una liquidità scaturente da semplici operazioni aritmetiche. Se, infatti, il risultato dell’applicazione

dei predetti criteri non fosse obbligato, residuando un margine di scelta discrezionale, il credito non

potrebbe dirsi liquido, perché quel margine di discrezionalità non potrebbe essere superato se non

mediante un ulteriore titolo (convenzionale o giudiziale)».

Precisa, inoltre, la Corte che «dovendo la liquidità del credito essere effettiva, il principio che la

competenza va determinata in base alla domanda non può essere esteso sino al punto di consentire

all’attore di dare dei fatti una qualificazione giuridica diversa da quella prevista dalla legge, o di

allegare fatti (ad esempio un contratto che indichi l’ammontare del credito) privi di riscontro

probatorio. Resta fermo, ovviamente, che tali fatti sono accertati dal giudice, ai soli fini della

competenza, allo stato degli atti secondo la regola di cui all’articolo 38 del codice di procedura

civile, u.c.».

Alla luce del delineato iter argomentativo, la Suprema Corte ha, in conclusione, respinto l’istanza di

regolamento, giungendo all’enucleazione del seguente principio di diritto:

«Le obbligazioni pecuniarie da adempiersi al domicilio del creditore, secondo il disposto

dell’articolo 1182 del codice civile, comma 3, sono – agli effetti sia della mora ex re ai sensi

dell’articolo 1219 del codice civile, comma 2, n. 3, sia della determinazione del forum destinatae

solutionis ai sensi dell’articolo 20 del codice di procedura civile, ultima parte, – esclusivamente

quelle liquide, delle quali, cioè, il titolo determini l’ammontare, oppure indichi i criteri per

determinarlo senza lasciare alcun margine di scelta discrezionale, e i presupposti della liquidità sono

accertati dal giudice, ai fini della competenza, allo stato degli atti secondo quanto dispone l’articolo

38 del codice di procedura civile, u.c.».

3. LE SEZIONI UNITE FANNO IL PUNTO SULL'ANATOCISMO: Cass. Sez. Un. 4

novembre 2004, n.21095

Massima e nota di sintesi

La Suprema Corte, pronunciandosi a Sezioni Unite, hanno stabilito che "le clausole di

capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi dovuti dal correntista devono considerarsi nulle

anche se contratte prima dell'orientamento giurisprudenziale che nella primavera del 1999 ne ha

negato la legittimità". In sostanza, la Suprema Corte ha attribuito valore retroativo all'inesistenza

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dell'uso normativo della capitalizzazione triestrale degli interessi. Fino al 1999, l'art. 1283 del

codice civile, il quale prevede che "in mancanza di usi contrari, gli interessi passivi scaduti

possono produrre interessi (anatocisti) solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di

convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei

mesi", era stato interpretato, da pronunzie giurisprudenziali filobancarie, nel senso di poter

attribuire alla locuzione "salvo usi contrari" un valore quasi negoziale. Le Banche, pertanto,

capitalizzavano trimestralmente gli interessi, sfruttando il bisogno dei correntisti di porre in essere

una serie di operazioni bancarie, principalmente prestiti e scopertura di conto corrente. Con le

sentenze n. 2374 e n. 3096 del 1999, il Supremo Giudice aveva già stabilito che "gli usi contrari,

suscettibili di derogare al precetto di cui all'art. 1283 c.c., sono non i meri usi negoziali ex art.

1340 c.c. ma esclusivamente i veri e propri usi normativi, di cui agli articoli 1 e 8 disp. Prel. C.c.,

consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato

comportamento (usus), accompaganato dalla convinzione che si tratta di comportamento (non

dipendente da un mero arbitrio soggettivo) ma giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a

una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell'ordinamento giuridico". Gli "usi" cui

fa riferimento l'art. 1283 cod. civ. sono, dunque, esclusivamente, quelli normativi in senso tecnico.

La motivazione

1. La questione di massima, in ragione della cui particolare importanza gli atti della presente causa

sono stati rimessi a queste Su, ai sensi dell’articolo 374, cpv, Cpc si risolve nello stabilire se -

incontestata la non attualità di un uso normativo di capitalizzazione trimestrale degli interessi

a debito del correntista bancario - sia o non esatto escludere anche che un siffatto uso

preesistesse al nuovo orientamento giurisprudenziale (Cassazione 2374/99 e successive

conformi) che lo ha negato, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con la precedente

giurisprudenza.

(omissis)

4.1. Il parametro di riferimento è costituito dall’articolo 1283 del Cc (Anatocismo) e, in particolare,

dall’inciso “salvo usi contrari” che, in apertura della norma, circoscrive la portata della regola, di

seguito in essa enunciata, per cui «gli interessi scaduti possono produrre interessi [(a)] solo dalla

domanda giudiziale o [(b)] per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre, che si

tratti di interessi dovuti da almeno sei mesi».

4.2. Come è noto, in sede di esegesi della predetta norma, le richiamate sentenze (2374, 3096, 3845)

della primavera del 1999, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con pronunzie del

ventennio precedente (6631/81; 5409183; 4920/87; 3804/88; 2444/89; 7575/92; 9227/95; 3296/97;

12675/98), hanno enunciato il principio - reiteratamente, poi, confermato dalle successive sentenze

12507/99; 6263/01; 1281, 4490, 4498, 8442/02; 2593, 12222, 13739/03, ed al quale ha dato

comunque immediato riscontro anche il legislatore (che, con l’articolo 25 del D.Lgs 342/99 ha,

all’uopo, ridisciplinato le modalità di calcolo degli interessi su base paritaria tra banca e cliente) –

(principio) per cui gli “usi contrari”, idonei ex articolo 1283 Cc a derogare il precetto ivi stabilito,

sono solo gli usi “normativi” in senso tecnico; desumendone, per conseguenza, la nullità delle

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clausole bancarie anatocistiche, la cui stipulazione risponde ad un uso meramente negoziale ed

incorre quindi nel divieto di cui al citato articolo 1283.

4.3. Al di là di varie ulteriori argomentazioni, di carattere storico e sistematico, rinvenibili nelle

pronunzie del nuovo corso, destinate più che altro ad avvalorare il “revirement” giurisprudenziale,

emerge dalla motivazione delle pronunce stesse come, nel suo nucleo logico-giuridico essenziale

l’enunciazione del principio di nullità delle clausole bancarie anatocistiche si ponga come la

conclusione obbligata di un ragionamento di tipo sillogistico. La cui premessa maggiore è

espressa, appunto, dalla affermazione che gli “usi contrari”, suscettibili di derogare al

precetto dell’articolo 1283 Cc, sono non i meri usi negoziali di cui all’articolo 1340 Cc ma

esclusivamente i veri e propri “usi normativi”, di cui agli articoli 1 e 8 disp. prel. Cc,

consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato

comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratta di comportamento (non

dipendente da un mero arbitro soggettivo ma) giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a

una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico (opinio

juris ac necessitatis).

E la cui premessa minore è rappresentata dalla constatazione che «dalla comune esperienza

emerge che i clienti si sono nel tempo adeguati all’inserimento della clausola anatocistica non

in quanto ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe

auspicabile fossero esistenti nell’ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti

dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell’associazione di categoria,

insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva al tempo stesso

presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari.

Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico

in cui, sostanzialmente, consiste l’opinio juris ac necessitatis, se non altro per l’evidente

disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e

interessi dovuti dal cliente».

4.4. Ora di questo sillogismo, che costituisce la struttura portante del nuovo indirizzo, del quale si

sollecita il riesame, neppure la banca ricorrente mette in discussione la premessa maggiore, mentre

quanto alla sua premessa minore la contestazione che ad essa si muove, attiene, sul piano

diacronico, al solo profilo della portata retroattiva che il nuovo indirizzo ha inteso attribuire alla

rilevata inesistenza di un uso normativo in materia di capitalizzazione trimestrale degli interessi

bancari. Si sostiene, infatti, in contrario che la giurisprudenza del ‘99 abbia correttamente accertato

l’inesistenza attuale, ma erroneamente escluso l’esistenza pregressa della consuetudine in parola.

E si auspica per ciò, dunque, che essa vada superata nel senso di constatare che «la

convinzione degli utenti del servizio bancario della normatività dell’uso di capitalizzazione

trimestrale degli interessi, originariamente sussistente, è venuta meno dopo lungo tempo» [id

est: la consuetudine si è estinta per desuetudine in relazione al venire meno della opinio iuris del

comportamento sottostante] «proprio a seguito di quello stesso processo di mutamento di

prospettiva che ha indotto la Cassazione medesima a mutare il proprio precedente

orientamento».

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Ed a sostegno di tale assunto la difesa della ricorrente argomenta: a) che l’opinio iuris della prassi di

capitalizzazione degli interessi dovuti dal cliente sarebbe stata esclusa dalla criticata giurisprudenza

assumendo a parametro un quadro normativo, come evolutosi a partire dai primi anni ‘90, non certo

retrodatabile all’epoca in cui, in un contesto radicalmente diverso, quella prassi si era instaurata,

con adesione degli utenti dei servizi bancari, che ne avrebbero pienamente presupposto la

normatività; b) che, comunque, la stessa precedente giurisprudenza che per un ventennio aveva

reiteratamente ritenuto, ove pur erroneamente, l’esistenza di un uso normativo di capitalizzazione

degli interessi bancari avrebbe, per ciò stesso, costituito “elemento di fondazione o consolidazione

dell’uso stesso”. Nessuno dei riferiti, pur suggestivi, argomenti si lascia però condividere.

4.5. L’evoluzione del quadro normativo - impressa dalla giurisprudenza e dalla legislazione degli

anni ‘90, in direzione della valorizzazione della buona fede come clausola di protezione del

contraente più debole, della tutela specifica del consumatore, della garanzia della trasparenza

bancaria, della disciplina dell’usura ha innegabilmente avuto il suo peso nel determinare la

ribellione del cliente (che ha dato, a sua volta, occasione al revirement giurisprudenziale)

relativamente a prassi negoziali, come quella di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti

alle banche, risolventesi in una non più tollerabile sperequazione di trattamento imposta dal

contraente forte in danno della controparte più debole.

Ma ciò non vuole dire (e il dirlo sconterebbe un evidente salto logico) che, in precedenza, prassi

siffatte fossero percepite come conformi a ius e che, sulla base di una tale convinzione (opinio

iuris), venissero accettate dai clienti. Più semplicemente, di fatto, le pattuizioni anatocistiche,

come clausole non negoziate e non negoziabili, perché già predisposte dagli istituti di credito, in

conformità a direttive delle associazioni di categoria, venivano sottoscritte dalla parte che aveva

necessità di usufruire del credito bancario e non aveva. quindi, altra alternativa per accedere ad un

sistema connotato dalla regola del prendere o lasciare. Dal che la riconducibilità, ab initio, della

prassi di inserimento, nei contratti bancari, delle clausole in questione, ad un uso negoziale e

non già normativo (per tal profilo in contrasto dunque con il precetto dell’articolo 1283 Cc),

come correttamente ritenuto dalle sentenze del 1999 e successive.

4.6. Né è in contrario sostenibile che la “fondazione” di un uso normativo, relativo alla

capitalizzazione degli interessi dovuti alla banca, sia in qualche modo riconducibile alla stessa

giurisprudenza del ventennio antecedente al revirement del 1999. Anche in materia di usi

normativi, così come con riguardo a norme di condotta poste da fonti-atto di rango primario,

la funzione assolta dalla giurisprudenza, nel contesto di sillogismi decisori, non può essere

altra che quella ricognitiva, dell’esistenza e dell’effettiva portata, e non dunque anche una

funzione creativa, della regola stessa.

Discende come logico ed obbligato corollario da questa incontestabile premessa che, in presenza di

una ricognizione, pur reiterata nel tempo, che si dimostri poi però erronea nel presupporre

l’esistenza di una regola in realtà insussistente, la ricognizione correttiva debba avere una

portata naturaliter retroattiva, conseguendone altrimenti la consolidazione medio tempore di

una regola che troverebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenza che, erroneamente

presupponendola, l’avrebbero con ciò stesso creata.

Ciò vale evidentemente, nel caso di specie, anche con riguardo alla giurisprudenza (costituita, per

altro, da solo dieci tralaticie pronunzie nell’arco di un ventennio) su cui fa leva l’istituto ricorrente.

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La quale - a prescindere dalla sua idoneità (tutta da dimostrare e in realtà indimostrata) ad

ingenerare nei clienti una “opinio iuris” del meccanismo di capitalizzazione degli interessi, inserito

come clausola insuscettibile di negoziazione nei controlli stipulati con la banca - non avrebbe

potuto, comunque, conferire normatività ad una prassi negoziale (che si è dimostrato essere) contra

legem.

4.7. Della insuperabile valenza retroattiva dell’accertamento di nullità delle clausole anatocistiche,

contenuto nelle pronunzie del 1999, si è mostrato subito, del resto, ben consapevole anche il

legislatore. Il quale - nell’intento di evitare un prevedibile diffuso contenzioso nei confronti degli

istituti di credito - ha dettato, nel comma 3 dell’articolo 25 del già citato D.Lgs 342/99, una norma

ad hoc, volta appunto ad assicurare validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione degli

interessi inserite nei contratti bancari stipulati anteriormente alla entrata in vigore della nuova

disciplina, paritetica, della materia, di cui ai precedenti commi primo e secondo del medesimo

articolo 25.

Quella norma di sanatoria è stata, però, come noto, dichiarata incostituzionale, per eccesso di

delega e conseguente violazione dell’articolo 77 Costituzione, dal Giudice delle leggi, con

sentenza n. 425 del 2000.

L’eliminazione ex tunc, per tal via, della eccezionale salvezza e conservazione degli effetti delle

clausole già stipulate lascia queste ultime, secondo i principi che regolano la successione delle leggi

nel tempo, sotto il vigore delle norme anteriormente in vigore, alla stregua delle quali, per quanto si

è detto, esse non possono che essere dichiarate nulle, perché stipulate in violazione dell’articolo

1283 Cc (cfr. Cassazione 4490/02).

(omissis)

4. USURA E INTERESSI MORATORI

NOTA INTRODUTTIVA

Il principio del favor debitoris, assurto a criterio generale conformante la disciplina del diritto delle

obbligazioni (come si evince da recenti arresti giurisprudenziali, da ultimo la citata pronuncia delle

Sezioni Unite in tema di obbligazioni “portabili” e “chiedibili” di cui sopra), trova ormai costante

applicazione anche in materia di usura.

In particolare, con riguardo alla determinazione del tasso soglia integrante tale patologica

fattispecie, appare ormai in via di superamento la tesi tradizionale, che escludeva la sommatoria di

interessi corrispettivi e moratori, argomentando principalmente sulla base della diversità di ratio e

funzione dei medesimi (gli interessi corrispettivi come fisiologica remunerazione del capitale

investito, in ottica riequilibratrice, gli interessi moratori quali sanzione imposta a seguito del ritardo

nell’adempimento, secondo una logica prettamente punitiva).

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Le due sentenze di seguito riportate, invece, manifestano una progressiva tendenza

giurisprudenziale protesa all’esaltazione del criterio del favor debitoris, a tutela della parte debole

del rapporto obbligatorio e, per l’effetto, all’ammissibilità del cumulo tra frutti civili corrispettivi e

moratori, con un più agevole superamento della soglia di usurarietà.

4.1 Cassazione civile, sez. VI, 04 ottobre 017, n. 23192

In tema di contratto di mutuo, l'art. 1 della legge n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un

tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia

gli interessi corrispettivi che quelli moratori.

4.2 Cass. 9 gennaio 2013, n. 350

Ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p., e dell'art. 1815 c.c., co. 2, si intendono usurari gli

interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o

comunque convenuti, a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori. Infatti il

riferimento, contenuto nel D.L. n. 394 del 2000, art. 1, co. 1, agli interessi a qualunque titolo

convenuti rende plausibile - senza necessità di specifica motivazione - tale assunto.

3.2.- Quanto al profilo sub b) (usurarietà dei tassi) va rilevato che parte ricorrente deduce che

l'interesse pattuito (inizialmente fisso e poi variabile) era del 10.5%, in contrasto con quanto è

previsto dal D.M. 27 marzo 1998, che indica il tasso praticabile per il mutuo nella misura

dell'8.29%.

Tale tasso dovrebbe ritenersi usurario a norma della L. n. 108 del 1996, art. 1, comma 4, tanto più

ove si consideri che fu richiesto per l'acquisto di un bene primario quale la casa di abitazione e che

dovrebbe tenersi conto della prevista maggiorazione di 3 punti in caso di mora.

La censura sub b), nella parte in cui ripete l'assunto - già correttamente disatteso dalla Corte di

merito - secondo cui la natura usuraria discenderebbe dalla finalità del mutuo, contratto per

l'acquisto della propria casa, è infondata in quanto, ai sensi del nuovo testo dell'art. 644 c.p.,

comma 3, sono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge ovvero "gli

interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo

alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano

comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all'opera

di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o

finanziaria".

E, a tale scopo, non è sufficiente dedurre che il mutuo è stato stipulato per l'acquisto di

un'abitazione.

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La stessa censura (sub b), invece, è fondata in relazione al tasso usurario perchè dalla trascrizione

dell'atto di appello risulta che parte ricorrente aveva specificamente censurato il calcolo del tasso

pattuito in raffronto con il tasso soglia senza tenere conto della maggiorazione di tre punti a titolo di

mora, laddove, invece, ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p., e dell'art. 1815 c.c., comma 2, si

intendono usurari gli interessi che superano il

limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a

qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori (Corte cost. 25 febbraio 2002 n. 29: "il

riferimento, contenuto nel D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, agli interessi a qualunque titolo

convenuti rende plausibile - senza necessità di specifica motivazione - l'assunto, del resto fatto

proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi

moratori"; Cass., n. 5324/2003).

(omissis)

4.- Quanto al secondo motivo, la censura è infondata, posto che, pur trattandosi di questione (di

diritto) rilevabile d'ufficio (nullità della convenzione di interessi usurari), gli elementi in fatto sui

quali la questione era fondata e, dunque, l'indicazione del tasso applicato contenuta (soltanto) nella

comparsa conclusionale non poteva che essere ritenuta tardiva, tenuto conto della necessità che i

motivi di appello, ex art. 342 c.p.c., siano specifici e che con la comparsa conclusionale non

possono essere dedotte nuove circostanze di fatto che non siano state già dedotte con l'atto di

appello.

E' vero, infatti, che la deduzione della nullità delle clausole che prevedono un tasso d'interesse

usurario è rilevabile anche d'ufficio, non integrando gli estremi di un'eccezione in senso stretto,

bensì una mera difesa, che può essere avanzata anche in appello, nonchè formulata in comparsa

conclusionale, ma ciò a condizione che "sia fondata su elementi già acquisiti al giudizio" (Sez. 1,

Sentenza n. 21080 del 28/10/2005).

5 USURA E COMMISSIONE DI MASSIMO SCOPERTO

5.1. Cass., sezioni unite 20 giugno 2018, n. 16303

Nota introduttiva

Quale rilevanza assume la Commissione di massimo scoperto nel periodo anteriore all'entrata in

vigore delle disposizioni di cui all'art. 2-bis d.l. n. 185/2008 agli effetti del superamento del tasso

soglia usura?

A questo complesso e dibattuto interrogativo rispondono finalmente le Sezioni Unite con sentenza

n. 16303/18, depositata il 20 giugno.

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Le Sezioni Unite chiariscono in primo luogo che la nozione di commissione di massimo scoperto –

da considerare ai fini del decidere – è quella indicata dalla Banca d'Italia nelle citate Istruzioni per

la rilevazione del TEGM ai fini della legge sull'usura ove chiarito che tale commissione «nella

tecnica bancaria viene definita come il corrispettivo pagato dal cliente per compensare

l'intermediario dell'onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione

nell'utilizzo dello scoperto del conto. Tale compenso – che di norma viene applicato allorché il

saldo del cliente risulti a debito per oltre un determinato numero di giorni – viene calcolato in

misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento». Questa

definizione, per l'esattezza, compare testualmente per la prima volta nell'aggiornamento delle

Istruzioni del luglio 2001, ma alla medesima nozione si rifanno anche le Istruzioni precedenti, che

espressamente prendono in considerazione la CMS calcolata sull'ammontare del massimo scoperto.

Le Sezioni Unite riassumono poi le diverse pronunce assunte dalle Sezioni semplici sulla

questione in discorso.

In particolare, ad avviso della Seconda Sezione penale (sentenza 19 febbraio 2010, n. 12028)

«il chiaro tenore letterale del quarto comma dell'art. 644 c.p. (secondo il quale per la

determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni

a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate all'erogazione del

credito) impone di considerare rilevanti, ai fini della determinazione della fattispecie di usura,

tutti gli oneri che un utente sopporti in connessione con il suo uso del credito. Tra essi rientra

indubbiamente la commissione di massimo scoperto, trattandosi di un costo indiscutibilmente

collegato all'erogazione del credito, giacché ricorre tutte le volte in cui il cliente utilizza

concretamente lo scoperto di conto corrente, e funge da corrispettivo per l'onere, a cui

l'intermediario finanziario si sottopone, di procurarsi la necessaria provvista di liquidità e tenerla a

disposizione del cliente. Ciò comporta che, nella determinazione del tasso effettivo globale praticato

da un intermediario finanziario nei confronti del soggetto fruitore del credito deve tenersi conto

anche della commissione di massimo scoperto, ove praticata».

A conferma di tale interpretazione, la Seconda Sezione Penale richiama quanto disposto dall'art. 2–

bis, commi 1 e 2, d.l. n. 185/2008 il quale disciplina la commissione di massimo scoperto,

ridimensionandone l'operatività e precisa che «gli interessi, le commissioni e le provvigioni

derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della

banca, dipendente dall'effettiva durata dell'utilizzazione dei fondi da parte del cliente, dalla data di

entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono comunque rilevanti ai fini

dell'applicazione dell'art. 1815 c.c., dell'art. 644 c.p. e degli artt. 2 e 3 l. 7 marzo 1996, n. 108».

Tale norma, infatti, ad avviso del Collegio penale, «può essere considerata norma di interpretazione

autentica del quarto comma dell'art. 644 c.p. in quanto puntualizza cosa rientra nel calcolo degli

oneri ivi indicati, correggendo una prassi amministrativa difforme». Nello stesso senso, cfr. Cass.

14 maggio 2010, n. 28743; 23 novembre 2011, n. 46669; 3 luglio 2014, n. 28928.

Sul fronte opposto la prima Sezione Civile, con sentenze del 22 giugno 2016, n. 12965 e 3

novembre 2016, n. 22270, hanno smentito, in consapevole contrasto con la Seconda Sezione

penale appena richiamato, l'assunto del carattere interpretativo e dunque retroattivo, dell'art.

2-bis d.l. n. 185/2008. È stato quindi escluso che, per il periodo precedente l'entrata in vigore

di tale norma, possa tenersi conto delle commissioni di massimo scoperto ai fini della verifica

del superamento in concreto del tasso soglia dell’usura presunta, anche in considerazione di

una esigenza di simmetria e omogeneità tra i criteri di determinazione, da un lato, del tasso

effettivo globale (TEG) applicato in concreto nel rapporto controverso ai sensi del quarto

comma dell'art. 644 c.p., e, dall'altro, del tasso effettivo globale medio (TEGM), rilevante ai

fini della definizione in astratto del tasso soglia, cui confrontare il tasso applicato in concreto;

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e ciò in quanto tutti i decreti ministeriali di rilevazione del TEGM, ai sensi dell'art. 2, comma 1, l. n.

108/1996, emanati nel medesimo periodo, recependo le Istruzioni della Banca d'Italia determinano

tale tasso senza comprendere nel calcolo l'ammontare delle commissioni di massimo scoperto.

Ad avviso delle Sezioni Unite, la commissione di massimo scoperto non può non rientrare tra

le «commissioni» o «remunerazioni» del credito menzionate sia dall'art. 644, comma 4, c.p.

(determinazione del tasso praticato in concreto) che dall’art. 2 comma 1, l. n. 108/1996

(determinazione del TEGM), attesa la sua dichiarata natura corrispettiva rispetto alla

prestazione creditizia della banca.

Sempre ad avviso delle Sezioni Unite, tale conclusione non muta neppure considerando che i

decreti ministeriali di cui all’art. 2, comma 1, l. n. 108/96 non includono le commissioni di massimo

scoperto nel computo del TEGM. Siffatta mancata inclusione non è idonea ad escludere che la legge

possa imporre di tener conto delle commissioni di massimo scoperto nel calcolo del tasso praticato

in concreto e del TEGM e, quindi, del tasso soglia con il quale confrontare il primo. Ritengono al

riguardo le Sezioni Unite che la mancata inclusione della commissione di massimo scoperto

dovrebbe semmai imporre al giudice ordinario di prendere atto della illegittimità dei decreti e di

disapplicarli. Tale illegittimità, tuttavia, non avrebbe fondamento poiché, secondo le Sezioni Unite,

è corretto che la commissione di massimo scoperto non sia stata inclusa nei decreti ministeriali

emanati in data anteriore all’entrata in vigore dell’art. 2–bisd.l. n. 185/2008. Quei decreti

ministeriali danno in realtà atto dell’ammontare medio delle commissioni di massimo scoperto

seguendo le indicazioni al tempo fornite dalla Banca d’Italia, secondo le quali, appunto, le CMS

non entravano nel calcolo del TEG, dovendo invece essere rilevate separatamente. La presenza di

tale dato nei decreti ministeriali è dunque sufficiente, secondo le Sezioni Unite, per escludere la

difformità degli stessi rispetto alle previsioni di legge perché consente comunque la piena

comparazione tra i corrispettivi della prestazione creditizia praticati nelle fattispecie concrete ed il

tasso soglia: ciò sostanzia la funzione propria dei decreti in questione. L'art. 2, comma 1, l. n.

108/1996 stabilisce, infatti, che «il Ministro del Tesoro, sentiti la Banca d'Italia e l'Ufficio italiano

dei cambi, rileva trimestralmente il tasso effettivo globale medio, comprensivo di commissioni, di

remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse, riferito ad anno, degli

interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari [...] nel corso del trimestre precedente

per operazioni della stessa natura. I valori medi derivanti da tale rilevazione [...] sono pubblicati

senza ritardo nella Gazzetta Ufficiale». La funzione dei decreti in questione è dunque

essenzialmente di rilevazione dei dati necessari ai fini della determinazione del tasso soglia, in vista

della comparazione, con questo, delle condizioni praticate in concreto dagli operatori. Ebbene,

anche la rilevazione dell'entità delle CMS è contenuta nei decreti emanati nel periodo precedente

all'entrata in vigore dell'art. 2–bis d.l. n. 185/2008. La circostanza che tale entità sia riportata a

parte, e non sia inclusa nel TEGM strettamente inteso, è un dato formale non incidente sulla

sostanza e sulla completezza della rilevazione prevista dalla legge, atteso che viene comunque resa

possibile la comparazione di precise quantità ai fini della verifica del superamento del tasso soglia

dell'usura presunta, secondo la ratio ispiratrice dell'istituto. Tale dato formale – soggiungono le

Sezioni Unite – è destinato a cedere rispetto a consolidati principi di conservazione degli atti

giuridici.

La comparazione di cui trattasi è soltanto più complessa perché le commissioni di massimo

scoperto, essendo rilevate separatamente secondo grandezze non omogenee rispetto al tasso degli

interessi, devono conseguentemente essere oggetto di comparazione separata – ancorché coordinata

– rispetto a quella riguardante i restanti elementi rilevanti ai fini del tasso effettivo globale di

interesse, espressi nella misura del TEGM. D’altronde, la Banca d'Italia, nel Bollettino di Vigilanza

n. 12 del dicembre 2005, ha chiarito che la verifica del rispetto delle soglie di legge richiede,

accanto al calcolo del tasso in concreto praticato e al raffronto di esso con il tasso soglia, «il

confronto tra l'ammontare percentuale della CMS praticata e l'entità massima della CMS applicabile

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(cd. CMS soglia), desunta aumentando del 50% l'entità della CMS media pubblicata nelle tabelle».

Tali modalità appaiono, secondo la decisione in commento, rispettose del dettato normativo

rispondendo all’esigenza di realizzare una comparazione piena, sotto tutti gli aspetti rilevanti

secondo la legge, delle condizioni praticate in concreto con quelle previste quale soglia dell’usura e

di rilevare il superamento di tale soglia tutte le volte in cui la banca abbia effettivamente preteso dal

cliente corrispettivi eccedenti la stessa.

La massima: Cass., sezioni unite, 20 giugno 2018, n. 16303

Con riferimento ai rapporti svoltisi, in tutto o in parte, nel periodo anteriore all'entrata in vigore

delle disposizioni di cui all'art. 2-bis d.l. n. 185/2008, inserito dalla legge di conversione n. 2 del

2009, ai fini della verifica del superamento del tasso soglia dell'usura presunta come determinato

in base alle disposizioni della l. n. 108/1996, va effettuata la separata comparazione del tasso

effettivo globale d'interesse praticato in concreto e della commissione di massimo scoperto (CMS)

eventualmente applicata – intesa quale commissione calcolata in misura percentuale sullo scoperto

massimo verificatosi nel periodo di riferimento – rispettivamente con il tasso soglia e con la "CMS

soglia", calcolata aumentando della metà la percentuale della CMS media indicata nei decreti

ministeriali emanati ai sensi dell'art. 2, comma 1, della predetta l. n. 108, compensandosi, poi,

l'importo della eventuale eccedenza della CMS in concreto praticata, rispetto a quello della CMS

rientrante nella soglia, con il "margine" degli interessi eventualmente residuo, pari alla differenza

tra l'importo degli stessi rientrante nella soglia di legge e quello degli interessi in concreto

praticati».

_____________________

Ragioni della decisione

1. Il contenuto dei due ricorsi, articolato in tre motivi di censura, è sostanzialmente identico, per cui

se ne svolgerà un’unica trattazione.

2. Con il primo motivo di censura, denunciando violazione degli artt. 93, 95, 98 e 99 legge fallim. e

degli artt. 24 e 111 Cost., si lamenta che il Tribunale abbia preso in esame eccezioni e deduzioni

formulate dalla curatela tardivamente nel corso del giudizio di opposizione, non essendo state

dedotte né in sede di verifica del passivo, né con la memoria di costituzione davanti al Tribunale.

Soltanto a seguito dell’iniziativa di quest’ultimo di disporre consulenza tecnica estesa all’operatività

del conto anticipi su fatture, infatti, la curatela – che con la memoria si era doluta del solo addebito

delle competenze relative a detto conto – aveva contestato anche l’addebito delle poste relative al

capitale, ossia all’erogazione delle anticipazioni stesse.

3. Con il secondo motivo, denunciando omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, si lamenta

che il Tribunale non abbia dato alcuna risposta all’eccezione d’inammissibilità di tali nuove

deduzioni di controparte.

4. I due motivi, da esaminare congiuntamente data la loro connessione, non possono trovare

accoglimento.

In base al contenuto della memoria di costituzione davanti al Tribunale, come riprodotto negli stessi

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ricorsi per cassazione, la curatela aveva concluso in via principale per il rigetto totale

dell’opposizione per "inopponibilità, nullità e mancanza di prova", e soltanto in via gradata aveva

chiesto escludersi, in particolare, l’addebito per competenze maturate sul conto anticipi. Era dunque

dovere del Tribunale verificare anzitutto la fondatezza della pretesa creditoria nella sua totalità. Né

può sostenersi che esso si sia pronunciato su eccezioni formulate tardivamente dalla curatela e non

rilevabili d’ufficio, dato che la semplice contestazione degli elementi costitutivi della pretesa attorea

(nella specie, la sussistenza delle anticipazioni) non costituisce eccezione in senso proprio (non

introducendo in giudizio nuovi elementi di fatto), bensì mera difesa, che il convenuto può articolare

in qualsiasi fase del giudizio di primo grado. Inoltre il curatore, che ben può dedurre contro

l’opponente eccezioni non formulate già in sede di verifica, non trovando applicazione, nel giudizio

di opposizione a stato passivo, la preclusione di cui all’art. 345 cod. proc. civ. in tema di ius

novorum (Cass. 31/07/2017, n. 19003; 04/06/2012, n. 8929; 18/05/2012, n. 7918), a maggior

ragione può dedurre in tale giudizio nuove difese.

Né, infine, l’avere il giudice trascurato o disatteso l’eccezione d’inammissibilità di deduzioni

difensive avversarie, come lamentato con il secondo motivo di ricorso, costituisce vizio di omesso

esame ai sensi dell’art. 360, n. 5), cod. proc. civ., oggetto del quale dev’essere invece un "fatto",

non già un’eccezione o argomentazione difensiva.

5. Con il terzo motivo, denunciando violazione dell’art. 2 legge 7 marzo 1996, n. 108, dell’art. 1,

comma 1, d.l. 29 dicembre 2000, n. 394, conv. in legge 28 febbraio 2001, n. 24, dell’art. 2 bis,

comma 2, d.l. n. 185 del 2008, cit., e dell’art. 644 cod. pen., viene posta la questione della

computabilità delle commissioni di massimo scoperto agli effetti del superamento del tasso soglia

dell’usura, di cui all’art. 644, comma terzo, primo periodo, cod. pen..

Ad avviso delle ricorrenti il computo delle commissioni di massimo scoperto a tali effetti è stato

introdotto soltanto con l’art. 2 bis d.l. n. 185 del 2008, mentre per il periodo anteriore all’entrata in

vigore di tale disposizione – periodo nel quale rientra interamente il rapporto dedotto in giudizio,

chiusosi nel marzo del 2008 – esso non era previsto, come aveva chiarito anche la Banca d’Italia

con le "Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura"

emanate il 30 settembre 1996 e confermate fino al secondo trimestre 2009. Tali Istruzioni

espressamente escludevano le commissioni di massimo scoperto dalla rilevazione del tasso effettivo

globale medio (TEGM) da indicare nei decreti ministeriali previsti dall’art. 2, comma 1, legge n.

108 del 1996, cit., disponendo che la loro entità fosse rilevata separatamente. Sarebbe pertanto

contraddittorio sanzionare l’applicazione in concreto di commissioni di massimo scoperto, non

essendo queste prese in considerazione ai fini della determinazione del TEGM nei decreti

ministeriali; e comunque, se le commissioni fossero state prese in considerazione, nei decreti

predetti, ai fini della determinazione del TEGM, e quindi del tasso soglia dell’usura (determinato,

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com’è noto, aumentando il primo nella misura indicata dall’art. 2, comma 4, legge n. 108 del 1996),

quest’ultimo, risultando conseguentemente più elevato, in concreto non sarebbe stato superato nel

caso in esame.

6. Con riferimento alla questione sollevata con tale motivo, la Prima Sezione ha ritenuto di investire

le Sezioni Unite, come si è anticipato sopra in narrativa, a composizione di un contrasto di

giurisprudenza o comunque in considerazione della particolare importanza della questione di

massima.

6.1. Va premesso, per la precisione e la migliore comprensione di quanto si osserverà, che la

nozione di commissione di massimo scoperto che viene qui in considerazione è quella indicata dalla

Banca d’Italia nelle già citate Istruzioni per la rilevazione del TEGM ai fini della legge sull’usura,

essendo queste richiamate sia nei ricorsi che nel decreto impugnato. In esse si legge che tale

commissione "nella tecnica bancaria viene definita come il corrispettivo pagato dal cliente per

compensare l’intermediario dell’onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida

espansione nell’utilizzo dello scoperto del conto. Tale compenso – che di norma viene applicato

allorché il saldo del cliente risulti a debito per oltre un determinato numero di giorni – viene

calcolato in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento".

Questa definizione, per l’esattezza, compare testualmente per la prima volta nell’aggiornamento

delle Istruzioni del luglio 2001, ma alla medesima nozione si rifanno anche le Istruzioni precedenti,

che espressamente prendono in considerazione la CMS calcolata sull’ammontare del massimo

scoperto.

6.2. Il contrasto rilevato dall’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite è insorto, come

accennato, tra la Seconda Sezione penale e la Prima Sezione civile.

6.2.1. Con la sentenza 19/02/2010, n. 12028 la Seconda Sezione penale ha affermato che "il chiaro

tenore letterale del quarto comma dell’articolo 644 cod. pen. (secondo il quale per la

determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a

qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate all’erogazione del credito)

impone di considerare rilevanti, ai fini della determinazione della fattispecie di usura, tutti gli oneri

che un utente sopporti in connessione con il suo uso del credito. Tra essi rientra indubbiamente la

commissione di massimo scoperto, trattandosi di un costo indiscutibilmente collegato

all’erogazione del credito, giacché ricorre tutte le volte in cui il cliente utilizza concretamente lo

scoperto di conto corrente, e funge da corrispettivo per l’onere, a cui l’intermediario finanziario si

sottopone, di procurarsi la necessaria provvista di liquidità e tenerla a disposizione del cliente. Ciò

comporta che, nella determinazione del tasso effettivo globale praticato da un intermediario

finanziario nei confronti del soggetto fruitore del credito deve tenersi conto anche della

commissione di massimo scoperto, ove praticata".

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A conferma di tale interpretazione, la sentenza richiama poi l’art. 2 bis d.l. n. 185 del 2008, cit., il

quale al primo comma disciplina la commissione di massimo scoperto, ridimensionandone

l’operatività, e aggiunge, al secondo comma, che "gli interessi, le commissioni e le provvigioni

derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della

banca, dipendente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente, dalla data di

entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono comunque rilevanti ai fini

dell’applicazione dell’articolo 1815 del codice civile, dell’articolo 644 del codice penale e degli

articoli 2 e 3 della legge 7 marzo 1996, n. 108". Tale norma, infatti, ad avviso di quel Collegio,

"può essere considerata norma di interpretazione autentica del quarto comma dell’art. 644 cod. pen.

in quanto puntualizza cosa rientra nel calcolo degli oneri ivi indicati, correggendo una prassi

amministrativa difforme".

La seconda Sezione penale ha poi confermato tale orientamento con le sentenze 14/05/2010, n.

28743; 23/11/2011, n. 46669; 03/07/2014, n. 28928.

6.2.2. Due successive decisioni della Prima sezione civile – le sentenze 22/06/2016, n. 12965 e

03/11/2016, n. 22270 – hanno invece smentito, in consapevole contrasto con la Seconda Sezione

penale, l’assunto del carattere interpretativo, e dunque retroattivo, dell’art. 2 bis d.l. n. 185 del 2008,

cit.. Per tale ragione esse hanno quindi escluso che, per il periodo precedente l’entrata in vigore di

tale norma, possa tenersi conto delle commissioni di massimo scoperto ai fini della verifica del

superamento in concreto del tasso soglia dell’usura presunta, anche in considerazione di

un’esigenza di simmetria e omogeneità tra i criteri di determinazione, da un lato, del tasso effettivo

globale (TEG) applicato in concreto nel rapporto controverso, ai sensi del quarto comma dell’art.

644 cod. pen., e, dall’altro, del tasso effettivo globale medio (TEGM), rilevante, come si è visto, ai

fini della definizione in astratto del tasso soglia, cui confrontare il tasso applicato in concreto; e ciò

in quanto tutti i decreti ministeriali di rilevazione del TEGM, ai sensi dell’art. 2, comma 1, legge n.

108 del 1996, emanati nel medesimo periodo, recependo le istruzioni della Banca d’Italia, di cui si è

detto, determinano tale tasso senza comprendere nel calcolo l’ammontare delle commissioni di

massimo scoperto.

6.3. Ritengono queste Sezioni Unite che l’art. 2 bis d.l. n. 185 del 2008, cit., non possa essere

qualificato norma di interpretazione autentica dell’art. 644, quarto comma, cod. pen..

6.3.1. Non è inutile premettere che Cass. pen. 12028/2010, cit., ha verosimilmente richiamato tale

norma perché essa conteneva, al comma 1, un espresso riferimento alle commissioni di massimo

scoperto (delle quali implicitamente ammetteva la validità, sia pure nel più ristretto ambito di

operatività cui è cenno nella sentenza in esame, disponendo che "sono nulle le clausole contrattuali

aventi ad oggetto la commissione di massimo scoperto se il saldo del cliente risulti a debito per un

periodo continuativo inferiore a trenta giorni ovvero a fronte di utilizzi in assenza di fido..."), onde

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il secondo comma, avente ad oggetto la disciplina della rilevanza, tra l’altro, delle "commissioni" ai

fini della determinazione sia del TEG in concreto, sia del TEGM – e dunque del tasso soglia – in

astratto, non poteva non essere letto come comprensivo anche di tale tipo di commissioni.

Il primo comma dell’art. 2 bis, peraltro, è stato poi abrogato dall’art. 27, comma 4, d.l. 24 gennaio

2012, n. 1, conv., con modif., nella legge 24 marzo 2012, n. 27, mentre la disciplina delle

commissioni di massimo scoperto, ivi contenuta, era stata poco prima sostituita dall’art. 117 bis

d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (t.u.b.), inserito dall’art. 6 bis d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, conv.,

con modif., nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, che a pena di nullità consente la previsione nei

contratti di apertura di credito, "quali unici oneri a carico del cliente", di "una commissione

onnicomprensiva calcolata in maniera proporzionale rispetto alla somma messa a disposizione del

cliente e alla durata dell’affidamento, e un tasso di interesse debitore sulle somme prelevate...",

imponendo inoltre per detta commissione il limite massimo dello "0,5 per cento, per trimestre, della

somma messa a disposizione del cliente". Con il che la commissione di massimo scoperto come

definita nelle Istruzioni della Banca d’Italia più volte menzionate, oggetto del presente giudizio, è

stata definitivamente superata.

Tuttavia ciò non assorbe, evidentemente, la questione del carattere interpretativo e retroattivo

dell’art. 2 bis d.l. n. 185, cit..

6.3.2. La ragione per cui va escluso il carattere interpretativo di tale disposizione consiste nel rilievo

(già formulato dai richiamati precedenti della Prima Sezione civile) che il suo testo non contiene

alcuna espressione che evochi tale natura, ma contiene, anzi, chiarissimi indizi in senso contrario.

Depongono, infatti, nel senso della natura innovativa della disposizione sia l’espressa previsione, al

comma 2, di una disciplina transitoria da emanarsi in sede amministrativa, in attesa della quale il

modo di determinazione del tasso soglia "resta regolato dalla disciplina vigente alla data di entrata

in vigore della legge di conversione del presente decreto fino a che la rilevazione del tasso effettivo

globale medio non verrà effettuata tenendo conto delle nuove disposizioni", sia la previsione, al

comma 3 (poi abrogato dal d.l. n. 1 del 2012, cit.), che "i contratti in corso alla data di entrata in

vigore della legge di conversione del presente decreto sono adeguati alle disposizioni del presente

articolo entro centocinquanta giorni dalla medesima data".

Né il carattere interpretativo della norma potrebbe plausibilmente essere riferito non già alla

disciplina della determinazione in astratto del TEGM, bensì alla sola disciplina della rilevazione del

superamento in concreto del tasso soglia, vale a dire non al comma terzo, primo periodo, bensì al

comma quarto dell’art. 644 cod. pen., da interpretarsi dunque nel senso che le commissioni di

massimo scoperto siano computate nel calcolo del TEG applicato in concreto, pur non essendone

previsto il computo ai fini della determinazione del TEGM (e dunque del tasso soglia). Nessuna

espressa indicazione in tal senso, infatti, si ripete, risulta dal testo legislativo. Inoltre una tale

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asimmetria contrasterebbe palesemente con il sistema dell’usura presunta come delineato dalla

legge n. 108 del 1996, la quale definisce alla stessa maniera (usando le medesime parole:

"commissioni", "remunerazioni a qualsiasi titolo", "spese, escluse quelle per imposte e tasse") sia –

all’art. 644, comma quarto, cod. pen. – gli elementi da considerare per la determinazione del tasso

in concreto applicato, sia – all’art. 2, comma 1, legge n. 108, cui rinvia l’art. 644, terzo comma,

primo periodo, cod. pen. – gli elementi da prendere in considerazione nella rilevazione trimestrale,

con appositi decreti ministeriali, del TEGM e, conseguentemente, per la determinazione del tasso

soglia con cui va confrontato il tasso applicato in concreto; con ciò indicando con chiarezza che gli

elementi rilevanti sia agli uni che agli altri effetti sono gli stessi.

6.4. L’esclusione del carattere interpretativo, e quindi retroattivo, dell’art. 2 bis d.l. n. 185 del 2008

non è decisiva, però, per la soluzione della questione, che qui interessa, della rilevanza o meno delle

commissioni di massimo scoperto ai fini della verifica del superamento del tasso soglia dell’usura

presunta secondo la disciplina vigente nel periodo anteriore alla data dell’entrata in vigore di tale

disposizione, e dunque in particolare quanto ai rapporti esauritisi in tale periodo, come il rapporto

dedotto nel presente giudizio (del resto, nella stessa giurisprudenza penale di legittimità, sopra

illustrata, il richiamo dell’art. 2 bis, cit., e la sua ritenuta natura interpretativa costituivano un

argomento di mero rincalzo, di conferma, cioè, di un risultato ermeneutico già raggiunto per altra

via).

6.4.1. Infatti la commissione di massimo scoperto, quale "corrispettivo pagato dal cliente per

compensare l’intermediario dell’onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida

espansione nell’utilizzo dello scoperto del conto... calcolato in misura percentuale sullo scoperto

massimo verificatosi nel periodo di riferimento", secondo la definizione richiamata all’inizio, non

può non rientrare tra le "commissioni" o "remunerazioni" del credito menzionate sia dall’art. 644,

comma quarto, cod. pen. (determinazione del tasso praticato in concreto) che dall’art. 2, comma 1,

legge n. 108 del 1996 (determinazione del TEGM), attesa la sua dichiarata natura corrispettiva

rispetto alla prestazione creditizia della banca.

Nei precedenti della Prima Sezione civile sopra richiamati e in parte della dottrina, tuttavia, si

sottolinea la circostanza che i decreti ministeriali di cui all’art. 2, comma 1, appena richiamato, non

includono le commissioni di massimo scoperto nel computo del TEGM, e quindi del tasso soglia,

sicché sarebbe illegittimo prenderle in considerazione ai fini della determinazione del tasso

praticato in concreto, e ciò in considerazione di quella esigenza di simmetria di cui si è detto più

sopra, per la quale tra l’uno e l’altro tasso, da porre a confronto, deve esservi omogeneità.

Tale obiezione non è persuasiva.

L’indicata esigenza di omogeneità, o simmetria, è indubbiamente avvertita dalla legge, la quale,

come si è già osservato, disciplina la determinazione del tasso in concreto e del TEGM prendendo

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in considerazione i medesimi elementi, tra i quali va inclusa, per quanto pure sopra osservato, anche

la commissione di massimo scoperto, quale corrispettivo della prestazione creditizia. La circostanza

che i decreti ministeriali di rilevazione del TEGM non includano nel calcolo di esso anche tale

commissione, rileva invece ai fini della verifica di conformità dei decreti stessi, quali provvedimenti

amministrativi, alla legge di cui costituiscono applicazione, in quanto la rilevazione sarebbe stata

effettuata senza tener conto di tutti i fattori che le legge impone di considerare. La mancata

inclusione delle commissioni di massimo scoperto nei decreti ministeriali, in altri termini, non

sarebbe idonea ad escludere che la legge imponga di tenere conto delle stesse nel calcolo così del

tasso praticato in concreto come del TEGM e, quindi, del tasso soglia con il quale confrontare il

primo; essa imporrebbe, semmai, al giudice ordinario di prendere atto della illegittimità dei decreti e

di disapplicarli (con conseguenti problemi quanto alla stessa configurabilità dell’usura presunta,

basata sulla determinazione del tasso soglia sulla scorta delle rilevazioni dei tassi medi mediante un

atto amministrativo di carattere generale).

6.4.2. L’ipotesi di illegittimità dei decreti sotto tale profilo, tuttavia, non avrebbe fondamento,

perché non è esatto che le commissioni di massimo scoperto non siano incluse nei decreti

ministeriali emanati nel periodo, che qui interessa, anteriore all’entrata in vigore dell’art. 2 bis d.l.

n. 185 del 2008, cit. Dell’ammontare medio delle CMS, espresso in termini percentuali, quei decreti

danno in realtà atto, sia pure a parte (in calce alla tabella dei TEGM), seguendo le indicazioni

fornite dalla Banca d’Italia nelle più volte richiamate Istruzioni come formulate sin dalla prima

volta il 30 settembre 1996 e come successivamente aggiornate sino al febbraio 2006, le quali

chiariscono che "la commissione di massimo scoperto non entra nel calcolo del TEG. Essa viene

rilevata separatamente, espressa in termini percentuali" e che "il calcolo della percentuale della

commissione di massimo scoperto va effettuato, per ogni singola posizione, rapportando l’importo

della commissione effettivamente percepita all’ammontare del massimo scoperto sul quale è stata

applicata" (l’aggiornamento successivo, effettuato nell’agosto 2009, uniformandosi al disposto

dell’art. 2 bis d.l. n. 185 ddl 2008, cit., nel frattempo entrato in vigore, inserisce invece la CMS nel

calcolo del TEGM).

La presenza di tale dato nei decreti ministeriali è sufficiente per escludere la difformità degli stessi

rispetto alle previsioni di legge, perché consente la piena comparazione – tenendo conto di tutti gli

elementi che la legge prevede, comprese le commissioni di massimo scoperto – tra i corrispettivi

della prestazione creditizia praticati nelle fattispecie concrete e il tasso soglia: nel che si sostanzia,

appunto, la funzione propria dei decreti in questione, la quale è dunque adempiuta.

L’art. 2, comma 1, legge n. 108 del 1996 stabilisce, infatti, che "il Ministro del Tesoro, sentiti la

Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi, rileva trimestralmente il tasso effettivo globale medio,

comprensivo di commissioni, di remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte

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e tasse, riferito ad anno, degli interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari (...) nel

corso del trimestre precedente per operazioni della stessa natura. I valori medi derivanti da tale

rilevazione (...) sono pubblicati senza ritardo nella Gazzetta Ufficiale". La funzione dei decreti in

questione è dunque essenzialmente di rilevazione dei dati necessari ai fini della determinazione del

tasso soglia, in vista della comparazione, con questo, delle condizioni praticate in concreto dagli

operatori.

Ebbene, anche la rilevazione dell’entità delle CMS è contenuta nei decreti emanati nel periodo

precedente all’entrata in vigore dell’art. 2 bis d.l. n. 185 del 2008. La circostanza che tale entità sia

riportata a parte, e non sia inclusa nel TEGM strettamente inteso, è un dato formale non incidente

sulla sostanza e sulla completezza della rilevazione prevista dalla legge, atteso che (come si è già

anticipato e come ci si accinge a spiegare più puntualmente nel paragrafo che segue) viene

comunque resa possibile la comparazione di precise quantità ai fini della verifica del superamento

del tasso soglia dell’usura presunta, secondo la ratio ispiratrice dell’istituto. Tale dato formale – è

appena il caso di aggiungere – è destinato a cedere rispetto a consolidati principi di conservazione

degli atti giuridici.

6.4.3. La comparazione di cui trattasi si rivela soltanto più complessa (peraltro non

eccessivamente), perché le commissioni di massimo scoperto, essendo rilevate separatamente

secondo grandezze non omogenee rispetto al tasso degli interessi (a differenza degl’interessi, si

calcolano sull’ammontare della sola somma corrispondente al massimo scoperto raggiunto nel

periodo di riferimento e senza proporzione con la durata del suo utilizzo), devono

conseguentemente essere oggetto di comparazione separata – ancorché coordinata – rispetto a

quella riguardante i restanti elementi rilevanti ai fini del tasso effettivo globale di interesse, espressi

nella misura del TEGM.

La stessa Banca d’Italia, del resto, preso atto degli orientamenti che andavano profilandosi nella

giurisprudenza di merito sulla rilevanza delle commissioni di massimo scoperto agli effetti

dell’usura presunta, nel Bollettino di Vigilanza n. 12 del dicembre 2005 ha indicato modalità di

comparazione che tengono conto appunto dell’esigenza di non trascurare, nel confronto, l’incidenza

delle commissioni di massimo scoperto.

Secondo tali indicazioni, la verifica del rispetto delle soglie di legge richiede, accanto al calcolo del

tasso in concreto praticato e al raffronto di esso con il tasso soglia, "il confronto tra l’ammontare

percentuale della CMS praticata e l’entità massima della CMS applicabile (cd. CMS soglia),

desunta aumentando del 50 % l’entità della CMS media pubblicata nelle tabelle" (il comma 4

dell’art. 2 legge n. 108 del 1996, prima della modifica introdotta con il d.l. 13 maggio 2011, n. 70,

conv., con modif. nella legge 12 luglio 2011, n. 106, prevedeva appunto che il tasso soglia era

costituito dal TEGM aumentato della metà). "Peraltro – prosegue la Banca d’Italia l’applicazione di

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commissioni che superano l’entità della "CMS soglia" non determina, di per sé, l’usurarietà del

rapporto, che va invece desunta da una valutazione complessiva delle condizioni applicate. A tal

fine, per ciascun trimestre, l’importo della CMS percepita in eccesso va confrontato con

l’ammontare degli interessi (ulteriori rispetto a quelli in concreto praticati) che la banca avrebbe

potuto richiedere fino ad arrivare alle soglie di volta in volta vigenti ("margine"). Qualora

l’eccedenza della commissione rispetto alla "CMS soglia" sia inferiore a tale "margine" è da

ritenere che non si determini un supero delle soglie di legge".

Tali modalità (cui fa sostanzialmente cenno la stessa Cass. Sez. Prima civile n. 12965 del 2016, cit.)

appaiono rispettose del dettato normativo, rispondendo all’esigenza di realizzare una comparazione

piena, sotto tutti gli aspetti rilevanti secondo la legge, delle condizioni praticate in concreto con

quelle previste quale soglia dell’usura, e di rilevare il superamento di tale soglia tutte le volte in cui

la banca abbia effettivamente preteso dal cliente corrispettivi eccedenti la stessa.

Può pertanto enunciarsi il seguente principio di diritto:

"Con riferimento ai rapporti svoltisi, in tutto o in parte, nel periodo anteriore all’entrata in vigore

delle disposizioni di cui all’art. 2 bis d.l. n. 185 del 2008, inserito dalla legge di conversione n. 2 del

2009, ai fini della verifica del superamento del tasso soglia dell’usura presunta come determinato in

base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, va effettuata la separata comparazione del tasso

effettivo globale d’interesse praticato in concreto e della commissione di massimo scoperto (CMS)

eventualmente applicata – intesa quale commissione calcolata in misura percentuale sullo scoperto

massimo verificatosi nel periodo di riferimento – rispettivamente con il tasso soglia e con la "CMS

soglia", calcolata aumentando della metà la percentuale della CMS media indicata nei decreti

ministeriali emanati ai sensi dell’art. 2, comma 1, della predetta legge n. 108, compensandosi, poi,

l’importo della eventuale eccedenza della CMS in concreto praticata, rispetto a quello della CMS

rientrante nella soglia, con il "margine" degli interessi eventualmente residuo, pari alla differenza

tra l’importo degli stessi rientrante nella soglia di legge e quello degli interessi in concreto

praticati".

Il terzo motivo di ricorso va dunque accolto nella parte in cui si lamenta che il Tribunale non abbia

tenuto conto dell’entità delle CMS, come rilevate nei decreti ministeriali di cui si è detto, ai fini

della determinazione della soglia di legge oltre la quale si verifica l’usura presunta.

7. In conclusione, respinti i primi due motivi dei ricorsi e accolto il terzo, il decreto impugnato va

cassato, in relazione alla censura accolta, con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il quale si

atterrà al principio di diritto sopra enunciato e provvederà anche sulle spese del giudizio di

legittimità.

P.Q.M.

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La Corte rigetta i primi due motivi dei ricorsi, accoglie il terzo, cassa il decreto impugnato nei sensi

di cui in motivazione e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Napoli

in diversa composizione.

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6 LE SEZIONI UNITE NEGANO L’USURA SOPRAVVENUTA

6.1. Cass., sezioni unite, 19 ottobre 2017, n. 24675

Con la sentenza n. 24675 del 2017, le Sezioni Unite hanno risolto l’importante contrasto sulla

questione relativa all'incidenza del sistema normativo antiusura, introdotto dalla legge 7 marzo

1996, n. 108 sui contratti stipulati anteriormente alla sua entrata in vigore, anche alla luce della

norma di interpretazione autentica di cui all'art. 1, comma 1, d.l. 29 dicembre 2000, n. 394, conv.

dalla legge 28 febbraio 2001, n. 24. La soluzione raggiunta dal massimo consesso nomofilattico

è stata nel senso che, in continuità con il primo dei due orientamenti giurisprudenziali in

contrasto, deve essere negata la configurabilità dell'usura sopravvenuta, essendo il giudice

vincolato all'interpretazione autentica degli artt. 644 c.p. e 1815, secondo comma, cod. civ., come

modificati dalla legge n. 108 del 1996 (rispettivamente all'art. 1 e all'art. 4), imposta dall'art. 1,

comma 1, d.l. n. 394 del 2000, cit.; interpretazione della quale la Corte costituzionale ha escluso la

sospetta illegittimità, per violazione degli artt. 3, 24, 47 e 77 Cost., con la sentenza 25 febbraio

2002, n. 29.

L'ordinanza di rimessione e la questione di diritto

La prima Sezione civile, investita della cognizione del ricorso, con ordinanza interlocutoria n. 2484

del 31 gennaio 2017, ha rilevato un contrasto al suo stesso interno in ordine alla questione

dell’efficacia della normativa antiusura sui contratti sorti anteriormente all'entrata in vigore della l

n. 108 del 1996 ma che hanno avuto vigenza anche successivamente ad essa.

Una delle opzioni interpretative esclude che, all'esito dell'interpretazione autentica intervenuta ex

art. l d.l. n. 394 del 2000 convertito nella l. n. 24 del 2001, il superamento del tasso soglia degli

interessi corrispettivi originariamente convenuti in modo legittimo (senza oltrepassare il limite

dell'usurarietà), in corso di esecuzione del rapporto possa determinarne ex artt. 1339 e 1418 cod.

civ. la riconduzione entro il predetto tasso soglia stabilito dalla legge così come integrata dal d.m.

periodicamente emanati al riguardo. Viene valorizzato, da quest'orientamento, il dato testuale

dell'art. l del d.l. n. 394 del 2000 ed in particolare la locuzione "indipendentemente dal loro

pagamento". La legittimità iniziale del tasso convenzionalmente pattuito spiega la sua efficacia per

tutta la durata del contratto nonostante l'eventuale sopravvenuta disposizione imperativa che, per

una frazione o per tutta la durata del contratto successiva al suo sorgere, ne rilevi la natura usuraria

a partire da quel momento in poi.

Questo orientamento, formatosi su fattispecie consistenti in contratti stipulati prima dell'entrata in

vigore della l. n. 108 del 1996 ha trovato recente conferma nella sentenza 19 gennaio 2016 n. 801

così massimata: "I criteri fissati dalla legge n. 108 del 1996, per la determinazione del carattere

usurario degli interessi, non si applicano alle pattuizioni di questi ultimi anteriori all'entrata in

vigore di quella legge, siano esse contenute in mutui a tasso fisso o variabile, come emerge dalla

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norma di interpretazione autentica contenuta nell'art. 1, comma 1, del d.l. n. 394 del 2000 (conv.,

con modif., dalla l. n. 24 del 2001), che non reca una tale distinzione”.

In precedenza il medesimo principio è contenuto nella sentenza 19 marzo 2007 n. 6514 (in

motivazione) e 27 settembre 2013 n. 22204 in motivazione.

Parallelamente all'orientamento illustrato se ne sviluppato uno speculare, di recente confermato

dalla pronuncia 17 agosto 2016 n. 17150 così massimata: "Le norme che prevedono la nullità dei

patti contrattuali che determinano la misura degli interessi in tassi così elevati da raggiungere la

soglia dell'usura (introdotte con l'art. 4 della l. n. 108 del 1996), pur non essendo retroattive,

comportano l'inefficacia "ex nunc" delle clausole dei contratti conclusi prima della loro entrata in

vigore sulla base del semplice rilievo, operabile anche d'ufficio dal giudice, che il rapporto

giuridico, a tale momento, non si era ancora esaurito".

Questa pronuncia, unitamente a molte altre relative a fattispecie identiche, non contiene nello

sviluppo motivazionale, il riferimento espresso alla citata norma d'interpretazione autentica (art. 1

d.l. n. 394 del 2000) ed al successivo avallo della Corte Costituzionale (si richiamano al riguardo

anche le sentenze 14/ marzo 2013 n. 6550, n. 602 del 2013; n. 17854 del 2007). Nella pronuncia 31

gennaio 2006 n. 2140 si fa, invece, espresso riferimento, a differenza che nelle altre, all'intervenuta

legge d'interpretazione autentica degli artt. 1 e 4 della l. n. 108 del 1996 e alla sentenza della Corte

Costituzionale n. 29 del 2002. Ugualmente il richiamo si ritrova nella sentenza n. 11638 del 2016.

La soluzione e la motivazione adottate dalle Sezioni unite

Le Sezioni unite – con la segnalata sentenza – hanno risolto il contrasto accreditando l’orientamento

che nega la configurabilità dell'usura sopravvenuta, essendo il giudice vincolato all'interpretazione

autentica degli artt. 644 c.p. e 1815, secondo comma, cod. civ., come modificati dalla legge n. 108

del 1996 (rispettivamente all'art. 1 e all'art. 4), imposta dall'art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000,

cit.; interpretazione della quale la Corte costituzionale ha escluso la sospetta illegittimità, per

violazione degli artt. 3, 24, 47 e 77 Cost., con la sentenza 25 febbraio 2002, n. 29, e della quale non

può negarsi la rilevanza per la soluzione della questione in esame.

È priva di fondamento, infatti, la tesi della illiceità della pretesa del pagamento di interessi a

un tasso che, pur non essendo superiore, alla data della pattuizione (con il contratto o con

patti successivi), alla soglia dell'usura definita con il procedimento previsto dalla legge n. 108,

superi, tuttavia, tale soglia al momento della maturazione o del pagamento degli interessi

stessi.

La ragione della illiceità risiederebbe nella violazione di un divieto imperativo di legge, il divieto

dell'usura,e in particolare il divieto di pretendere un tasso d'interesse superiore alla soglia dell'usura

come fissata in base alla legge.

Sennonché, il divieto dell'usura è contenuto nell'art. 644 c.p.; le (altre) disposizioni della legge n.

108, cit., non formulano tale divieto, ma si limitano a prevedere (per quanto qui rileva) un

meccanismo di determinazione del tasso oltre il quale gli interessi sono considerati sempre usurari a

mente, appunto, dell'art. 644, comma terzo, c.p. novellato (che recita: «La legge stabilisce il limite

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oltre il quale gli interessi sono sempre usurari»). L'art. 2, comma 4, legge n. 108, cit. (che recita: «Il

limite previsto dal terzo comma dell'art. 644 del codice penale, oltre il quale gli interessi sono

sempre usurari, è stabilito nel tasso ...») definisce, sì, il limite oltre il quale gli interessi sono sempre

usurari, ma si tratta appunto del limite previsto dal terzo comma dell'art. 644 del codice penale,

essendo la norma penale l'unica che contiene il divieto di farsi dare o promettere interessi o altri

vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità.

Deve, perciò, concludersi che è impossibile affermare, sulla base delle disposizioni della legge n.

108 del 1996, diverse dagli artt. 644 c.p. e 1815, secondo comma, cod. civ. come da essa novellati,

che il superamento del tasso soglia dell'usura al tempo del pagamento, da parte del tasso

convenzionale inferiore a tale soglia al momento della pattuizione, comporti la nullità o l'inefficacia

della corrispondente clausola contrattuale o, comunque, l'illiceità della pretesa del pagamento del

creditore.

Va pertanto enunciato il seguente principio di diritto: «Allorché il tasso degli interessi concordato

tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell'usura come

determinata in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o

l'inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata

anteriormente all'entrata in vigore della predetta legge, o della clausola stipulata successivamente

per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula; né la pretesa del

mutuante di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato può essere qualificata,

per il solo fatto del sopraggiunto superamento di tale soglia, contraria al dovere di buona fede

nell'esecuzione del contratto».

La sentenza in rassegna mette, dunque, la parola fine alla teorica sulla cosiddetta “usurarietà

sopravvenuta”, valorizzando il dettato normativo della legge di interpretazione autentica e,

dunque, l’attenzione dell’interprete, ai fini della valutazione dell’usura, soltanto sul momento

della pattuizione degli interessi.

MASSIMA

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 18 luglio – 19 ottobre 2017, n. 24675

Presidente Rordorf – Relatore De Chiara

Allorché il tasso di interessi, inferiore al tasso soglia al momento della stipula, nel corso del

rapporto superi la soglia dell’usura, in conseguenza dell’oscillazione delle rilevazioni trimestrali,

non si verifica la nullità o inefficacia della clausola di determinazione degli interessi.

La pretesa del mutuante di riscuotere gli interessi secondo il tasso originario, inoltre, non può

essere qualificata, per il solo fatto di eccedere detta soglia, contraria al dovere di buona fede

nell’esecuzione del contratto.

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MOTIVAZIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, denunciando vizio di motivazione e violazione di norme di

diritto, si contesta la qualificazione del mutuo oggetto di causa come fondiario sulla base del solo

richiamo, nel contratto, del d.P.R. n. 7 del 1976, cit., a prescindere dall’accertamento dei necessari

requisiti oggettivi.

2. Con il secondo motivo, denunciando violazione di norme di diritto e vizio di motivazione, si

contesta che, comunque, la qualificazione del mutuo come fondiario comporti l’inapplicabilità delle

disposizioni della legge n. 108 del 1996. In base a tali disposizioni si soggiunge - il tasso d’interesse

che al momento della pattuizione non ecceda la soglia dell’usura determinata secondo il

meccanismo previsto dalla medesima legge, ma che superi poi tale soglia nel corso del rapporto, è

comunque illegittimo e comporta la nullità della relativa clausola contrattuale. Il che fa sorgere la

necessità di individuare un tasso sostitutivo ai sensi degli artt. 1419 e 1339 cod. civ., non essendo

invocabile la previsione di gratuità del mutuo di cui all’art. 1815, secondo comma - come

modificato dalla stessa legge che è esclusa dall’interpretazione autentica di tale disposizione

imposta dall’art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000, cit. Il tasso sostitutivo va individuato - si

conclude - quantomeno in quello meno favorevole al mutuatario, ossia il tasso soglia, come ritenuto

dal giudice di primo grado.

3. I due motivi, da esaminare congiuntamente data la loro connessione, non possono trovare

accoglimento, anche se la motivazione della sentenza impugnata va corretta nei sensi che seguono

(art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ.).

3.1. È infatti privo di fondamento - come denunciato nella prima parte del secondo motivo di

ricorso - l’assunto, da cui muove la Corte d’appello, che il carattere fondiario del mutuo dispensi

dall’osservanza delle disposizioni della richiamata legge n. 108 sull’usura. Basterà osservare, in

proposito, che nessuna disposizione o principio normativo (del resto non specificato nella sentenza

impugnata) giustifica tale assunto e che non v’è, del resto, alcuna ragione per sottrarre l’importante

settore del credito fondiario al divieto di usura e ai meccanismi approntati dalla legge per renderlo

effettivo.

3.2. Conseguentemente il primo motivo di ricorso, attinente alla qualificazione del mutuo come

fondiario, è assorbito.

3.3. Il fondamento, però, della prima parte del secondo motivo di ricorso non è sufficiente a far

cadere la decisione impugnata, essendo infondata, invece, la seconda parte dello stesso motivo,

avente ad oggetto la questione per la quale la Prima Sezione ha ritenuto necessario l’intervento di

queste Sezioni Unite.

Essa riguarda l’applicabilità o meno delle norme della legge n. 108 del 1996 ai contratti di mutuo

stipulati prima dell’entrata in vigore di quest’ultima e consiste, più precisamente, nel chiarire quale

sia la sorte della pattuizione di un tasso d’interesse che, a seguito dell’operatività del meccanismo

previsto dalla stessa legge per la determinazione della soglia oltre la quale un tasso è da qualificare

usurario, si riveli superiore a detta soglia.

Peraltro la questione della configurabilità di una "usura sopravvenuta" si pone non soltanto con

riferimento ai contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996, come nel

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caso in esame, ma anche con riferimento a contratti successivi all’entrata in vigore della legge

recanti tassi inferiori alla soglia dell’usura, superata poi nel corso del rapporto per effetto della

caduta dei tassi medi di mercato, che sono alla base del meccanismo legale di determinazione dei

tassi usurari: meccanismo basato, appunto, secondo l’art. 2 della legge n. 108, sulla rilevazione

trimestrale dei tassi medi praticati per le varie categorie di operazioni creditizie, sui quali viene

applicata una determinata maggiorazione. E si pone, in teoria, con riguardo sia ai tassi contrattuali

fissi che a quelli variabili, anche se in pratica sono essenzialmente i primi a fornire la casistica

sinora nota, dato che la variabilità consente normalmente di assorbire gli effetti del calo dei tassi

medi di mercato. La questione sorse immediatamente all’indomani dell’entrata in vigore della legge

n. 108. La giurisprudenza di legittimità iniziò ad orientarsi nel senso dell’applicabilità della legge ai

rapporti pendenti alla data della sua entrata in vigore, con conseguenze sul tasso d’interesse

contrattuale, sia pure riferite alla sola parte del rapporto successiva a tale data (cfr. Cass. Sez. III

02/02/2000, n. 1126; Cass. Sez. I 22/10/2000, n. 5286; Cass. Sez. I 17/11/2000, n. 14899).

Ciò indusse il legislatore ad intervenire appunto con la già richiamata norma d’interpretazione

autentica di cui all’art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000, che recita: "Ai fini dell’applicazione

dell’articolo 644 del codice penale e dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si

intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi

sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro

pagamento".

Si determinò, quindi, nella giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Corte (quasi tutta riferita

a contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996) il contrasto tra due

orientamenti richiamato nell’ordinanza di rimessione.

Un primo orientamento (cfr. Cass. Sez. III 26/06/2001, n. 8742; Cass. Sez. I 24/09/2002, n. 13868;

Cass. Sez. III 13/12/2002, n. 17813; Cass. Sez. III 25/03/2003, n. 4380; Cass. Sez. III 08/03/2005,

n. 5004; Cass. Sez. I 19/03/2007, n. 6514; Cass. Sez. III 17/12/2009, n. 26499; Cass. Sez. I

27/09/2013, n. 22204; Cass. Sez. I 19/01/2016, n. 801) dà alla questione della configurabilità dell’

usura sopravvenuta risposta negativa. Ciò in quanto la norma d’interpretazione autentica attribuisce

rilevanza, ai fini della qualificazione del tasso convenzionale come usurario, al momento della

pattuizione dello stesso e non al momento del pagamento degli interessi; cosicché deve escludersi

che il meccanismo dei tassi soglia previsto dalla legge n. 108 sia applicabile alle pattuizioni di

interessi stipulate in data precedente la sua entrata in vigore, anche se riferite a rapporti ancora in

corso a tale data (pacifico essendo, peraltro, nella giurisprudenza di legittimità, che la legge n. 108

del 1996 non può trovare applicazione quanto ai rapporti già esauritisi alla medesima data).

In altre decisioni, al contrario, è stata affermata l’incidenza della nuova legge sui contratti in corso

alla data della sua entrata in vigore, omettendo tuttavia di prendere in considerazione la norma

d’interpretazione autentica di cui al d.l. n. 394 del 2000, cit.:

- Cass. Sez. III 13/06/2002, n. 8442; Cass. Sez. III 05/08/2002, n. 11706 e Cass. Sez. III

25/05/2004, n. 10032 si sono semplicemente richiamate alla giurisprudenza precedente al decreto

legge;

- Cass. Sez. I 25/02/2005, n. 4092; Cass. Sez. I 25/02/2005, n. 4093; Cass. Sez. III 14/03/2013, n.

6550; Cass. Sez. III 31/01/2006, n. 2149 e Cass. Sez. III 22/08/2007, n. 17854 hanno precisato (le

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prime tre in obiter dicta) che la clausola contrattuale recante un tasso che poi superi il tasso soglia

non diviene, in conseguenza di tale superamento, nulla, bensì inefficace ex nunc, e tale inefficacia

non può essere rilevata d’ufficio;

- Cass. Sez. I 11/01/2013, n. 602 e n. 603 hanno affermato che nei casi di superamento della soglia

del tasso usurario per effetto dell’entrata in vigore della legge n. 108, cit., opera la sostituzione

automatica, ai sensi degli artt. 1319 e 1419, secondo comma, cod. civ., del tasso soglia del tempo al

tasso convenzionale;

- Cass. Sez. I 17/08/2016, n. 17150 sostiene la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia di cui sopra.

Invece Cass. Sez. I 12/04/2017, n. 9405, nell’affermare l’applicabilità del tasso soglia in

sostituzione del tasso contrattuale che sia divenuto superiore ad esso, fa espresso riferimento alla

richiamata norma d’interpretazione autentica, escludendone però la rilevanza in quanto essa non

eliminerebbe l’illiceità della pretesa di un tasso d’interesse ormai eccedente la soglia dell’usura, ma

si limiterebbe ad escludere l’applicazione delle sanzioni penali e civili di cui agli artt. 644 cod. pen.

e 1815, secondo comma, cod. civ., ferme restando le altre sanzioni civili.

Quest’ultima tesi riprende in sostanza i contributi di una parte della dottrina, secondo la quale,

mentre sarebbe sanzionata penalmente - nonché, nel mutuo, con la gratuità - la pattuizione di

interessi che superino la soglia di legge alla data della pattuizione stessa, viceversa la pretesa di

pagamento di interessi a un tasso non usurario alla data della pattuizione, ma divenuto tale nel corso

del rapporto, sarebbe illecita solo civilmente. Le conseguenze di tale illiceità sono diversamente

declinate (nullità, inefficacia ex nunc) nelle varie versioni della tesi in esame, ma comprendono in

ogni caso la sostituzione automatica, ai sensi dell’art. 1339 cod. civ., del tasso contrattuale o con il

tasso soglia (secondo una versione), o con il tasso legale (secondo un’altra versione).

3.4. È avviso di queste Sezioni Unite che debba darsi continuità al primo dei due orientamenti

giurisprudenziali sopra richiamati, che nega la configurabilità dell’usura sopravvenuta, essendo il

giudice vincolato all’interpretazione autentica degli artt. 644 cod. pen. e 1815, secondo comma,

cod. civ., come modificati dalla legge n. 108 del 1996 (rispettivamente all’art. 1 e all’art. 4),

imposta dall’art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000, cit.; interpretazione della quale la Corte

costituzionale ha escluso la sospetta illegittimità, per violazione degli artt. 3, 24, 47 e 77 Cost., con

la sentenza 25/02/2002, n. 29, e della quale non può negarsi la rilevanza per la soluzione della

questione in esame.

È priva di fondamento, infatti, la tesi della illiceità della pretesa del pagamento di interessi a un

tasso che, pur non essendo superiore, alla data della pattuizione (con il contratto o con patti

successivi), alla soglia dell’usura definita con il procedimento previsto dalla legge n. 108, superi

tuttavia tale soglia al momento della maturazione o del pagamento degli interessi stessi.

3.4.1. La ragione della illiceità risiederebbe, come si è visto, nella violazione di un divieto

imperativo di legge, il divieto dell’usura, e in particolare il divieto di pretendere un tasso d’interesse

superiore alla soglia dell’usura come fissata in base alla legge.

Sennonché il divieto dell’usura è contenuto nell’art. 644 cod. pen.; le (altre) disposizioni della legge

n. 108, cit., non formulano tale divieto, ma si limitano a prevedere (per quanto qui rileva) un

meccanismo di determinazione del tasso oltre il quale gli interessi sono considerati sempre usurari a

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mente, appunto, dell’art. 644, comma terzo, cod. pen. novellato (che recita: "La legge stabilisce il

limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari"). L’art. 2, comma 4, legge n. 108, cit. (che

recita: "Il limite previsto dal terzo comma dell’art. 644 del codice penale, oltre il quale gli interessi

sono sempre usurari, è stabilito nel tasso...") definisce, sì, il limite oltre il quale gli interessi sono

sempre usurari, ma si tratta appunto del limite previsto dal terzo comma dell’art. 644 del codice

penale, essendo la norma penale l’unica che contiene il divieto di farsi dare o promettere interessi o

altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità.

Una sanzione (che implica il divieto) dell’usura è contenuta, per l’esattezza, anche nell’art. 1815,

secondo comma, cod. civ. - pure oggetto dell’interpretazione autentica di cui si discute - il quale

però presuppone una nozione di interessi usurari definita altrove, ossia, di nuovo, nella norma

penale integrata dal meccanismo previsto dalla legge n. 108.

Sarebbe pertanto impossibile operare la qualificazione di un tasso come usurario senza fare

applicazione dell’art. 644 cod. pen.; "ai fini dell’applicazione" del quale, però, non può farsi a meno

perché così impone la norma d’interpretazione autentica - di considerare il "momento in cui gli

interessi sono convenuti, indipendentemente dal momento del loro pagamento".

Non ha perciò fondamento la tesi che cerca di limitare l’efficacia della norma di interpretazione

autentica alla sola sanzione penale e alla sanzione civile della gratuità del mutuo, perché in tanto è

configurabile un illecito civile, in quanto sia configurabile la violazione dell’art. 644 cod. pen.,

come interpretato dall’art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000. E non è fuori luogo rammentare che

anche la giurisprudenza penale di questa Corte nega la configurabilità dell’usura sopravvenuta (cfr.

Cass. Sez. V pen. 16/01/2013, n. 8353).

Tale esegesi delle disposizioni della legge n. 108 non contrasta, inoltre, con la loro ratio.

Una parte della dottrina attribuisce alla legge n. 108 una ratio calmieratrice del mercato del credito,

che imporrebbe il rispetto in ogni caso del tasso soglia al momento del pagamento degli interessi.

Va però osservato che la ratio delle nuove disposizioni sull’usura consiste invece nell’efficace

contrasto di tale fenomeno, come si legge nella relazione illustrativa del disegno di legge e come ha

affermato anche la Corte costituzionale nella sentenza sopra richiamata. Il meccanismo di

definizione del tasso soglia è basato infatti - lo si è accennato più sopra - sulla rilevazione periodica

dei tassi medi praticati dagli operatori, sicché esso è configurato dalla legge come un effetto, non

già una causa, dell’andamento del mercato.

Con tale ratio è senz’altro coerente una disciplina che dà rilievo essenziale al momento della

pattuizione degli interessi, valorizzando in tal modo il profilo della volontà e dunque della

responsabilità dell’agente.

Un ulteriore argomento utilizzato dei sostenitori della configurabilità dell’usura sopravvenuta e

ripreso anche da Cass. Sez. I 9405/2017, cit., è basato su un passaggio della motivazione della

richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 29 del 2002, in cui i giudici, dopo avere escluso

l’irragionevolezza dell’interpretazione autentica e la sua incompatibilità con il dato testuale,

osservano: "Restano, invece, evidentemente estranei all’ambito di applicazione della norma

impugnata gli ulteriori istituti e strumenti di tutela del mutuatario, secondo la generale disciplina

codicistica dei rapporti contrattuali". Poiché, si è osservato, tale affermazione non è un mero obiter

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dictum, bensì parte della ratio decidendi, essa è vincolante per l’interprete e impone di considerare

illecita - ancorché non penalmente, né a pena della gratuità del contratto ai sensi dell’art. 1815,

secondo comma, cod. civ. - la pretesa del pagamento di interessi a un tasso convenzionale divenuto

nel tempo superiore al tasso soglia.

Non conta qui approfondire se il passaggio in questione rientri o meno nella ratio della decisione

dalla Corte costituzionale. Basterà osservare che esso contiene un’affermazione indubbiamente

esatta, ma non contrastante con le conclusioni sopra raggiunte circa la validità ed efficacia della

previsione contrattuale di un tasso d’interesse che finisca poi col superare il tasso soglia nel corso

del rapporto. È evidente, infatti, che far salva la validità ed efficacia della clausola contrattuale non

significa negare la praticabilità di altri strumenti di tutela del mutuatario previsti dalla legge, ove ne

ricorrano gli specifici presupposti; significa soltanto negare che uno di tali strumenti sia costituito

dalla invalidità o inefficacia della clausola in questione.

Deve perciò concludersi che è impossibile affermare, sulla base delle disposizioni della legge n. 108

del 1996, diverse dagli artt. 644 cod. pen. e 1815, secondo comma, cod. civ. come da essa novellati,

che il superamento del tasso soglia dell’usura al tempo del pagamento, da parte del tasso

convenzionale inferiore a tale soglia al momento della pattuizione, comporti la nullità o l’inefficacia

della corrispondente clausola contrattuale o comunque l’illiceità della pretesa del pagamento del

creditore.

3.4.2. L’illiceità della pretesa, tuttavia, è stata argomentata da una parte della dottrina anche su basi

diverse, ossia valorizzando, piuttosto che il meccanismo della sostituzione automatica di clausole ai

sensi degli artt. 1339 e 1419, secondo comma, cod. civ., il principio di buona fede oggettiva

nell’esecuzione dei contratti, di cui all’art. 1375 cod. civ., per il quale sarebbe scorretto pretendere il

pagamento di interessi a un tasso divenuto superiore alla soglia dell’usura come determinata al

momento del pagamento stesso, perché in quel momento quel tasso non potrebbe essere promesso

dal debitore e il denaro frutterebbe al creditore molto di più di quanto frutti agli altri creditori in

genere.

Benché non sia questa la tesi sostenuta dalla ricorrente, di essa occorre tuttavia darsi carico per

completezza.

Neppure detta tesi persuade.

Viene a suo sostegno richiamata la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il principio di

correttezza e buona fede in senso oggettivo impone un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2

Cost., per il quale ciascuna delle parti del rapporto è tenuta ad agire in modo da preservare gli

interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o da quanto stabilito

da singole norme di legge (Cass. Sez. III 30/07/2004, n. 14605; Cass. Sez. I 06/08/2008, n. 21250;

Cass. Sez. U. 25/11/2008, n. 28056; Cass. Sez. I 22/01/2009, n. 1618; Cass. Sez. III 10/11/2010, n.

22819).

Va però osservato che la buona fede è criterio di integrazione del contenuto contrattuale rilevante ai

fini dell’"esecuzione del contratto" stesso (art. 1375 cod. civ.), vale a dire della realizzazione dei

diritti da esso scaturenti. La violazione del canone di buona fede non è riscontrabile nell’esercizio in

sé considerato dei diritti scaturenti dal contratto, bensì nelle particolari modalità di tale esercizio in

concreto, che siano appunto scorrette in relazione alle circostanze del caso. In questo senso può

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allora affermarsi che, in presenza di particolari modalità o circostanze, anche la pretesa di interessi

divenuti superiori al tasso soglia in epoca successiva alla loro pattuizione potrebbe dirsi scorretta ai

sensi dell’art. 1375 cod. civ.; ma va escluso che sia da qualificare scorretta la pretesa in sé di quegli

interessi, corrispondente a un diritto validamente riconosciuto dal contratto.

3.4.3. Va pertanto enunciato il seguente principio di diritto:

"Allorché il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello

svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura come determinata in base alle disposizioni della legge

n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di

determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta

legge, o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale

risultante al momento della stipula; né la pretesa del mutuante di riscuotere gli interessi secondo il

tasso validamente concordato può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento

di tale soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto".

4. Con il terzo e il quarto motivo di ricorso viene censurata, rispettivamente sotto i profili del vizio

di motivazione e della violazione di norme di diritto, la qualificazione data dalla Corte d’appello al

mutuo per cui è causa come finanziamento agevolato.

4.1. I motivi sono inammissibili. Tale qualificazione, infatti, non è di per sé rilevante ai fini della

decisione sul carattere usurario degli interessi, né sono indicate nel ricorso le ragioni della sua

eventuale rilevanza.

5. Il ricorso va in conclusione respinto.

Le oscillazioni giurisprudenziali registrate a proposito della principale questione oggetto del ricorso

stesso giustificano la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del giud

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7. OBBLIGAZIONI SOLIDALI E CONDOMINIO

NOTA INTRODUTTIVA

In riferimento alle obbligazioni assunte dall'amministratore, o comunque, nell'interesse del

condominio, nei confronti di terzi - in difetto di un'espressa previsione normativa che stabilisca il

principio della solidarietà, - la responsabilità dei condomini è retta dal criterio della parziarietà,

per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti

soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e

1295 cod. civ. per le obbligazioni ereditarie. Trattasi infatti, di un'obbligazione avente ad

oggetto una somma di denaro, e perciò divisibile, vincolando l'amministratore i singoli

condomini nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote, in

conformità con il difetto di struttura unitaria del condominio

7.1 Cass. Sez. Un. 8 aprile 2008 n.9148

Ritenuto che la solidarietà passiva, in linea di principio, esige la sussistenza non soltanto della

pluralità dei debitori e della identica causa dell'obbligazione, ma altresì della indivisibilità della

prestazione comune; che in mancanza di quest'ultimo requisito e in difetto di una espressa

disposizione di legge, la intrinseca parziarietà della obbligazione prevale; considerato che

l'obbligazione ascritta a tutti i condomini, ancorché comune, è divisibile, trattandosi di somma di

danaro; che la solidarietà nel condominio non è contemplata da nessuna disposizione di legge e

che l'art. 1123 cit., interpretato secondo il significato letterale e secondo il sistema in cui si

inserisce, non distingue il profilo esterno e quello interno; rilevato, infine, che - in conformità con il

difetto di struttura unitaria del condominio, la cui organizzazione non incide sulla titolarità

individuale dei diritti, delle obbligazioni e della relativa responsabilità - l'amministratore vincola i

singoli nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote: tutto ciò

premesso, le obbligazioni e la susseguente responsabilità dei condomini sono governate dal criterio

dalla parziarietà. Ai singoli si imputano, in proporzione alle rispettive quote, le obbligazioni

assunte nel cosiddetto "interesse del condominio", in relazione alle spese per la conservazione e

per il godimento delle cose comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune

e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Pertanto, le obbligazioni dei condomini sono

regolate da criteri consimili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ., per le obbligazioni

ereditarie, secondo cui i coeredi concorrono al pagamento dei debiti ereditali in proporzione alle

loro quote e l'obbligazione in solido di uno dei condebitori tra gli eredi si ripartisce in proporzione

alle quote ereditarie.

MOTIVAZIONE

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2.1 La questione di diritto, che la Suprema Corte deve risolvere per decidere la controversia,

riguarda la natura delle obbligazioni dei condomini.

Secondo l'orientamento maggioritario della giurisprudenza, la responsabilità dei singoli partecipanti

per le obbligazioni assunte dal "condominio" verso i terzi ha natura solidale, avuto riguardo al

principio generale stabilito dall'art. 1294 cod. civ. per l'ipotesi in cui più soggetti siano obbligati per

la medesima prestazione: principio non derogato dall'art. 1123 cod. civ., che si limita a ripartire gli

oneri all'interno del condominio (Cass., Sez. II, 5 aprile 1982, n. 2085; Cass., Sez. II, 17 aprile

1993, n. 4558; Cass., Sez. II, 30 luglio 2004, n. 14593; Cass., Sez. II, 31 agosto 2005, n. 17563).

Per l'indirizzo decisamente minoritario, la responsabilità dei condomini è retta dal criterio dalla

parziarietà: in proporzione alle rispettive quote, ai singoli partecipanti si imputano le obbligazioni

assunte nell'interesse del "condominio", relativamente alle spese per la conservazione e per il

godimento delle cose comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per

le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Pertanto, le obbligazioni dei condomini sono regolate

da criteri consimili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ. per le obbligazioni ereditarie,

secondo cui al pagamento dei debiti ereditali i coeredi concorrono in proporzione alle loro quote e

l'obbligazione in solido di uno dei condebitori si ripartisce tra gli eredi in proporzione alle quote

ereditarie (Cass., Sez. II, 27 settembre 1996, n. 8530).

2.2 Per determinare i principi di diritto, che regolano le obbligazioni (contrattuali) unitarie le quali

vincolano la pluralità di soggetti passivi - i condomini - occorre muovere dal fondamento della

solidarietà.

L'assunto è che la solidarietà passiva scaturisca dalla contestuale presenza di diversi requisiti,

in difetto dei quali - e di una precisa disposizione di legge - il criterio non si applica, non

essendo sufficiente la comunanza del debito tra la pluralità dei debitori e l'identica causa

dell'obbligazione; che nessuna specifica disposizione contempli la solidarietà tra i condomini, cui

osta la parziarietà intrinseca della prestazione; che la solidarietà non possa ricondursi alla asserita

unitarietà del gruppo, in quanto il condominio non raffigura un "ente di gestione", ma una

organizzazione pluralistica e l'amministratore rappresenta immediatamente i singoli partecipanti,

nei limiti del mandato conferito secondo le quote di ciascuno.

La disposizione dell'art. 1292 cod. civ. - è noto - si limita a descrivere il fenomeno e le sue

conseguenze. Invero, sotto la rubrica "nozione della solidarietà", definisce l'obbligazione in solido

quella in cui "più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione" e aggiunge che ciascuno

può essere costretto all'adempimento per la totalità (con liberazione degli altri). L'art. 1294 cod. civ.

stabilisce che "i condebitori sono tenuti in solido, se dalla legge o dal titolo non risulta

diversamente". Nessuna delle norme, tuttavia, precisa la ratio della solidarietà, ovverosia ne

chiarisce il fondamento (che risulta necessario, quanto meno, per risolvere i casi dubbi).

Stando all'interpretazione più accreditata, le obbligazioni solidali, indivisibili e parziarie raffigurano

le risposte dell'ordinamento ai problemi derivanti dalla presenza di più debitori (o creditori), dalla

unicità della causa dell'obbligazione (eadem causa obbligandi) e dalla unicità della prestazione

(eadem res debita).

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Mentre dalla pluralità dei debitori e dalla unicità della causa dell'obbligazione scaturiscono

questioni che, nella specie, non rilevano, la categoria dell'idem debitum propone problemi tecnici

considerevoli: in particolare, la unicità della prestazione che, per natura, è suscettibile di divisione, e

la individuazione del vincolo della solidarietà rispetto alla prestazione la quale, nel suo sostrato di

fatto, è naturalisticamente parziaria.

Semplificando categorie complesse ed assai elaborate, l'indivisibilità consiste nel modo di essere

della prestazione: nel suo elemento oggettivo, specie laddove la insussistenza naturalistica

della indivisibilità non è accompagnata dall'obbligo specifico imposto per legge a ciascun

debitore di adempiere per l'intero. Quando la prestazione per natura non è indivisibile, la

solidarietà dipende dalle norme e dai principi. La solidarietà raffigura un particolare

atteggiamento nei rapporti esterni di una obbligazione intrinsecamente parziaria quando la

legge privilegia la comunanza della prestazione. Altrimenti, la struttura parziaria

dell'obbligazione ha il sopravvento e insorge una pluralità di obbligazioni tra loro connesse.

È pur vero che la solidarietà raffigura un principio riguardante i condebitori in genere. Ma il

principio generale è valido laddove, in concreto, sussistono tutti i presupposti previsti dalla legge

per la attuazione congiunta del condebito. Sicuramente, quando la prestazione comune a ciascuno

dei debitori è, allo stesso tempo, indivisibile.

Se invece l'obbligazione è divisibile, salvo che dalla legge (espressamente) sia considerata solidale,

il principio della solidarietà (passiva) va contemperato con quello della divisibilità stabilito dall'art.

1314 cod. civ., secondo cui se più sono i debitori ed è la stessa la causa dell'obbligazione, ciascuno

dei debitori non è tenuto a pagare il debito che per la sua parte.

Poiché la solidarietà, spesso, viene ad essere la configurazione ex lege, nei rapporti esterni, di una

obbligazione intrinsecamente parziaria, in difetto di configurazione normativa dell'obbligazione

come solidale e, contemporaneamente, in presenza di una obbligazione comune, ma

naturalisticamente, divisibile viene meno uno dei requisiti della solidarietà e la struttura parziaria

dell’obbligazione prevale.

Del resto, la solidarietà viene meno ogni qual volta la fonte dell'obbligazione comune è intimamente

collegata con la titolarità delle res.

Le disposizioni di cui agli artt. 752, 754 e 1295 cod. civ. - che prevedono la parziarietà delle

obbligazioni dei coeredi e la sostituzione, per effetto dell'apertura della successione, di una

obbligazione nata unitaria con una pluralità di obbligazioni parziarie - esprimono il criterio di

ordine generale del collegamento tra le obbligazioni e le res.

Per la verità, si tratta di obbligazioni immediatamente connesse con l'attribuzione ereditaria dei

beni: di obbligazioni ricondotte alla titolarità dei beni ereditari in ragione dell'appartenenza della

quota. Ciascun erede risponde soltanto della sua quota, in quanto è titolare di una quota di beni

ereditari. Più in generale, laddove si riscontra lo stesso vincolo tra l'obbligazione e la quota e nella

struttura dell'obbligazione, originata dalla medesima causa per una pluralità di obbligati, non

sussiste il carattere della indivisibilità della prestazione, è ragionevole inferire che rispetto alla

solidarietà non contemplata (espressamente) prevalga la struttura parziaria del vincolo.

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2.3 Le direttive ermeneutiche esposte valgono per le obbligazioni facenti capo ai gruppi

organizzati, ma non personificati.

Per ciò che concerne la struttura delle obbligazioni assunte nel cosiddetto interesse del

"condominio" - in realtà, ascritte ai singoli condomini - si riscontrano certamente la pluralità dei

debitori (i condomini) e la ‘eadem causa obbligandi’, la unicità della causa: il contratto da cui

l'obbligazione ha origine. È discutibile, invece, la unicità della prestazione (idem debitum) che

certamente è unica ed indivisibile per il creditore, il quale effettua una prestazione nell'interesse e in

favore di tutti condomini (il rifacimento della facciata, l'impermeabilizzazione del tetto, la fornitura

del carburante per il riscaldamento etc.). L'obbligazione dei condomini (condebitori), invece,

consistendo in una somma di danaro, raffigura una prestazione comune, ma naturalisticamente

divisibile.

Orbene, nessuna norma di legge espressamente dispone che il criterio della solidarietà si

applichi alle obbligazioni dei condomini.

Non certo l'art. 1115 comma 1 cod. civ. Sotto la rubrica "obbligazioni solidali dei partecipanti", la

norma stabilisce che ciascun partecipante può esigere che siano estinte le obbligazioni contratte in

solido per la cosa comune e che la somma per estinguerle sia ricavata dal prezzo di vendita della

stessa cosa. La disposizione, in quanto si riferisce alle obbligazioni contratte in solido dai comunisti

per la cosa comune, ha valore meramente descrittivo, non prescrittivo: non stabilisce che le

obbligazioni debbano essere contratte in solido, ma regola le obbligazioni che, concretamente, sono

contratte in solido. A parte ciò, la disposizione non riguarda il condominio negli edifici e non si

applica al condominio, in quanto regola l'ipotesi di vendita della cosa comune. La disposizione,

infatti, contempla la cosa comune soggetta a divisione e non le cose, gli impianti ed i servizi comuni

del fabbricato, i quali sono contrassegnati dalla normale indivisibilità ai sensi dell'art. 1119 cod. civ.

e, comunque, dalla assoluta inespropriabilità.

D'altra parte, nelle obbligazioni dei condomini la parziarietà si riconduce all'art. 1123 cod. civ.,

interpretato valorizzando la relazione tra la titolarità della obbligazione e la quella della cosa. Si

tratta di obbligazioni propter rem, che nascono come conseguenza dell'appartenenza in comune, in

ragione della quota, delle cose, degli impianti e dei servizi e, solo in ragione della quota, a norma

dell'art. 1123 cit., i condomini sono tenuti a contribuire alle spese per le parti comuni. Per la verità,

la mera valenza interna del criterio di ripartizione raffigura un espediente elegante, ma privo di

riscontro nei dati formali.

Se l'argomento che la ripartizione delle spese regolata dall'art. 1123 comma 1 cod. civ. riguardi il

mero profilo interno non persuade, non convince neppure l'asserto che il comma 2 dello stesso art.

1223 - concernente la ripartizione delle spese per l'uso delle parti comuni destinate a servire i

condomini in misura diversa, in proporzione all'uso che ciascuno può fame - renda impossibile

l'attuazione parziaria all'esterno: con la conseguenza che, quanto all'attuazione, tutte le spese

disciplinate dall'art. 1223 cit. devono essere regolate allo stesso modo.

Entrambe le ipotesi hanno in comune il collegamento con la res. Il primo comma riguarda le spese

per la conservazione delle cose comuni, rispetto alle quali l'inerenza ai beni è immediata; il secondo

comma concerne le spese per l'uso, in cui sussiste comunque il collegamento con le cose:

l'obbligazione, ancorché influenzata nel quantum dalla misura dell'uso diverso, non prescinde dalla

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contitolarità delle parti comuni, che ne costituisce il fondamento. In ultima analisi, configurandosi

entrambe le obbligazioni come obligationes propter rem, in quanto connesse con la titolarità del

diritto reale sulle parti comuni, ed essendo queste obbligazioni comuni naturalisticamente divisibili

ex parte debitoris, il vincolo solidale risulta inapplicabile e prevale la struttura intrinsecamente

parziaria delle obbligazioni. D'altra parte, per la loro ripartizione in pratica si può sempre fare

riferimento alle diverse tabelle millesimali relative alla proprietà ed alla misura dell'uso.

2.5 Né la solidarietà può ricondursi alla asserita unitarietà del gruppo dei condomini.

Dalla giurisprudenza, il condominio si definisce come "ente di gestione", per dare conto del fatto

che la legittimazione dell'amministratore non priva i singoli partecipanti della loro legittimazione ad

agire in giudizio in difesa dei diritti relativi alle parti comuni; di avvalersi autonomamente dei

mezzi di impugnazione; di intervenire nei giudizi intrapresi dall'amministratore, ecc..

Ma la figura dell'ente, ancorché di mera gestione, suppone che coloro i quali ne hanno la

rappresentanza non vengano surrogati dai partecipanti. D'altra parte, gli enti di gestione in senso

tecnico raffigurano una categoria definita ancorché non unitaria, ai quali dalle leggi sono assegnati

compiti e responsabilità differenti e la disciplina eterogenea si adegua alle disparate finalità

perseguite (art. 3 legge 22 dicembre 1956, n. 1589). Gli enti di gestione operano in concreto

attraverso le società per azioni di diritto comune, delle quali detengono le partecipazioni azionarie e

che organizzano nei modi più opportuni: in attuazione delle direttive governative, razionalizzano le

attività controllate, coordinano i programmi e assicurano l'assistenza finanziaria mediante i fondi di

dotazione. Per la struttura, gli enti di gestione si contrassegnano in ragione della soggettività

(personalità giuridica pubblica) e dell'autonomia patrimoniale (la titolarità delle partecipazioni

azionarie e del fondo di dotazione).

Orbene, nonostante l'opinabile rassomiglianza della funzione - il fatto che l'amministratore e

l'assemblea gestiscano le parti comuni per conto dei condomini, ai quali le parti comuni

appartengono - le ragguardevoli diversità della struttura dimostrano la inconsistenza del ripetuto e

acritico riferimento dell'ente di gestione al condominio negli edifici.

Il condominio, infatti, non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti e di obbligazioni: la

titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli

condomini; agli stessi condomini sono ascritte le obbligazioni per le cose, gli impianti ed i servizi

comuni e la relativa responsabilità; le obbligazioni contratte nel cosiddetto interesse del condominio

non si contraggono in favore di un ente, ma nell'interesse dei singoli partecipanti.

Secondo la giurisprudenza consolidata, poi, l'amministratore del condominio raffigura un

ufficio di diritto privato assimilabile al mandato con rappresentanza: con la conseguente

applicazione, nei rapporti tra l'amministratore e ciascuno dei condomini, delle disposizioni sul

mandato.

Orbene, la rappresentanza, non soltanto processuale, dell'amministratore del condominio è

circoscritta alle attribuzioni - ai compiti ed ai poteri - stabilite dall'art. 1130 cod. civ..

In giudizio l'amministratore rappresenta i singoli condomini, i quali sono parti in causa nei limiti

della loro quota (art. 1118 e 1123 cod. civ.). L'amministratore agisce in giudizio per la tutela dei

diritti di ciascuno dei condomini, nei limiti della loro quota, e solo in questa misura ognuno dei

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condomini rappresentati deve rispondere delle conseguenze negative. Del resto, l'amministratore

non ha certo il potere di impegnare i condomini al di là del diritto, che ciascuno di essi ha nella

comunione, in virtù della legge, degli atti d'acquisto e delle convenzioni. In proporzione a tale

diritto ogni partecipante concorre alla nomina dell'amministratore e in proporzione a tale

diritto deve ritenersi che gli conferisca la rappresentanza in giudizio. Basti pensare che, nel caso in

cui l'amministratore agisca o sia convenuto in giudizio per la tutela di un diritto, il quale fa capo

solo a determinati condomini, soltanto i condomini interessati partecipano al giudizio ed essi

soltanto rispondono delle conseguenze della lite.

Pertanto, l'amministratore - in quanto non può obbligare i singoli condomini se non nei limiti dei

suoi poteri, che non contemplano la modifica dei criteri di imputazione e di ripartizione delle spese

stabiliti dall'art. 1123 c.c. - non può obbligare i singoli condomini se non nei limiti della rispettiva

quota.

2.5 Riepilogando, ritenuto che la solidarietà passiva, in linea di principio, esige la sussistenza

non soltanto della pluralità dei debitori e della identica causa dell'obbligazione, ma altresì

della indivisibilità della prestazione comune; che in mancanza di quest'ultimo requisito e in

difetto di una espressa disposizione di legge, la intrinseca parziarietà della obbligazione

prevale; considerato che l'obbligazione ascritta a tutti i condomini, ancorché comune, è

divisibile, trattandosi di somma di danaro; che la solidarietà nel condominio non è

contemplata da nessuna disposizione di legge e che l'art. 1123 cit., interpretato secondo il

significato letterale e secondo il sistema in cui si inserisce, non distingue il profilo esterno e

quello interno; rilevato, infine, che - in conformità con il difetto di struttura unitaria del

condominio, la cui organizzazione non incide sulla titolarità individuale dei diritti, delle

obbligazioni e della relativa responsabilità - l'amministratore vincola i singoli nei limiti delle

sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote: tutto ciò premesso, le

obbligazioni e la susseguente responsabilità dei condomini sono governate dal criterio dalla

parziarietà. Ai singoli si imputano, in proporzione alle rispettive quote, le obbligazioni assunte

nel cosiddetto "interesse del condominio", in relazione alle spese per la conservazione e per il

godimento delle cose comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e

per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Pertanto, le obbligazioni dei condomini sono

regolate da criteri consimili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ., per le obbligazioni

ereditarie, secondo cui i coeredi concorrono al pagamento dei debiti ereditali in proporzione

alle loro quote e l'obbligazione in solido di uno dei condebitori tra gli eredi si ripartisce in

proporzione alle quote ereditarie.

2.6 Il contratto, stipulato dall'amministratore rappresentante, in nome e nell'interesse dei

condomini rappresentati e nei limiti delle facoltà conferitegli, produce direttamente effetti nei

confronti dei rappresentati. Conseguita nel processo la condanna dell'amministratore, quale

rappresentante dei condomini, il creditore può procedere all'esecuzione individualmente nei

confronti dei singoli, secondo la quota di ciascuno.

Per concludere, la soluzione, prescelta secondo i rigorosi principi di diritto che regolano le

obbligazioni contrattuali comuni con pluralità di soggetti passivi, appare adeguata alle esigenze di

giustizia sostanziale emergenti dalla realtà economica e sociale del condominio negli edifici.

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Per la verità, la solidarietà avvantaggerebbe il creditore il quale, contrattando con l'amministratore

del condominio, conosce la situazione della parte debitrice e può cautelarsi in vari modi; ma appare

preferibile il criterio della parziarietà, che non costringe i debitori ad anticipare somme a volte

rilevantissime in seguito alla scelta (inattesa) operata unilateralmente dal creditore. Allo stesso

tempo, non si riscontrano ragioni di opportunità per posticipare la ripartizione del debito tra i

condomini al tempo della rivalsa, piuttosto che attuarla al momento dell'adempimento.

7.2 Cass. 29 gennaio 2015, n. 1674

La responsabilità dei condomini nel caso di obbligazioni pecuniarie è retta dal criterio della

parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli

componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati

dagli artt. 752 e 1295 c.c.

3. - Il primo motivo del ricorso principale (che sebbene genericamente intitolato è chiaramente

riferito, nello svolgimento e nel quesito di diritto, alla violazione dell'art. 1294 c.c.) è fondato nei

termini che seguono.

3.1. - La natura delle obbligazioni dei singoli condomini verso i terzi è i stata oggetto, vigente la

disciplina anteriore alla legge n. 220/12 (in vigore dal 18.6.2013), di un intervento delle S.U. di

questa Corte, le quali con sentenza n. 9148/08 hanno affermato, in rapporto a obbligazioni assunte

dall'amministratore in rappresentanza del condominio nei confronti di terzi, che in difetto di

un'espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, la responsabilità dei

condomini nel caso di obbligazioni pecuniarie è retta dal criterio della parziarietà, per cui le

obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in

proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 c.c..

Ciò in quanto, si legge in motivazione, la solidarietà configura, nei rapporti esterni tra creditore e

debitori, il modo di essere di un'obbligazione intrinsecamente parziaria quando la legge privilegia la

comunanza della prestazione. Diversamente, in assenza, cioè di un'espressa previsione normativa

che stabilisca la solidarietà nel debito, la struttura parziaria dell'obbligazione ha il sopravvento e

insorge una pluralità di obbligazioni tra loro connesse. Sebbene la solidarietà raffiguri un principio

riguardante i condebitori in genere, tale principio generale è valido laddove, in concreto, sussistano

tutti i presupposti previsti dalla legge per l'attuazione congiunta del condebito. E poiché la

solidarietà, spesso, viene ad essere la configurazione ex lege, nei rapporti esterni, di un'obbligazione

intrinsecamente parziaria, in difetto di configurazione normativa dell'obbligazione come solidale e,

contemporaneamente, in presenza di un'obbligazione comune, ma naturalisticamente divisibile,

viene meno uno dei requisiti della solidarietà, la quale, del resto, viene meno ogni qual volta la

fonte dell'obbligazione comune è intimamente collegata con la titolarità delle res.

3.1.1. - Tale pronuncia delle S.U., emessa con riguardo ad un'obbligazione contrattuale che un

condominio tramite il suo amministratore aveva assunto verso un terzo, ricollega dunque la

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solidarietà nelle obbligazioni divisibili ad una previsione legislativa che imponga l'esecuzione

congiunta della prestazione.

In disparte il delicato problema dell'esportabilità del principio anzi detto oltre gli stretti limiti di

corrispondenza alla fattispecie concreta posta all'esame delle S.U. (per un'argomentata negativa cfr.

in motivazione Cass. n. 21907/11, che osserva come la decisione delle S.U. si basi essenzialmente

su considerazioni ulteriori che eccedono il fondamento dell'art. 1294 c.c. e la sua applicabilità alla

comunione), va osservato che in materia di responsabilità per fatto illecito l'espressa previsione

della solidarietà passiva è contenuta nell'art. 2055, primo comma c.c., in base al quale se il

fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del

danno.

3.1.2. - L'applicabilità dell'art. 2055 c.c. (che opera un rafforzamento del credito evitando al

creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori pro quota) ai danni da cosa

condominiale in custodia trova una prima conferma, innanzi tutto, in alcuni precedenti di questa

Corte, come Cass. n. 6665/09, che ha ritenuto il condomino danneggiato quale terzo rispetto allo

stesso condominio cui è ascrivibile il danno stesso (con conseguente inapplicabilità dell'art. 1227,

primo comma c.c.); Cass. n. 4797/01, per l'ipotesi di danni da omessa manutenzione del terrazzo di

copertura cagionati al condomino proprietario dell'unità immobiliare sottostante; Cass. n. 6405/90,

secondo cui i singoli proprietari delle varie unità immobiliari comprese in un edificio condominiale,

sono a norma dell'art. 1117 c.c. (salvo che risulti diversamente dal titolo) comproprietari delle parti

comuni, tra Le quali il lastrico solare, assumendone la custodia con il correlativo obbligo di

manutenzione, con la conseguenza, nel caso di danni a terzi per difetto di manutenzione del detto

lastrico, della responsabilità solidale di tutti i condomini, a norma degli artt. 2051 e 2055 c.c..

3.1.3. - Ciò premesso a giustificazione di una linea di tendenza che appare già presente, va

osservato che premesse storiche, ragioni sistematiche e considerazioni particolari alla fattispecie

della responsabilità per danni derivanti da cose in custodia, confortano la tesi dell'applicabilità

dell'art. 2055, 1 comma c.c. anche in ambito condominiale.

Nel codice civile del 1865, che come tutti i codici liberali dell'800 richiedeva, essendo ispirato al

favor debitoris, una specifica fonte convenzionale o legale della solidarietà (v. l'art. 1188 c.c. 1865),

la previsione della solidarietà passiva nelle ipotesi di delitto o quasi-delitto (v. l'art. 1156 c.c. 1865)

impediva che l'opposto principio della

parziarietà dell'obbligazione, concepito come una sorta di beneficio, potesse operare anche a

vantaggio di chi, essendo autore di un illecito aquiliano, non ne era ritenuto degno.

Invertita nel codice vigente la regola generale sulla solidarietà passiva, l'art. 2055 c.c. può ritenersi

mera norma di rimando all'art. 1294 c.c. solo a patto di riespandere quella portata generale e

autoreferenziale di quest'ultima disposizione, che il citato arresto delle S.U. ha inteso comprimere.

Diversamente, minore è la pervasività della regola generale nelle singole ipotesi di obbligazioni

soggettivamente complesse nel lato passivo, maggiore, di riflesso, è l'autonoma incidenza fondativa

delle norme che prevedono la solidarietà in ambiti particolari, tra cui appunto l'art. 2055, 1 comma

c.c. per quanto concerne la responsabilità extracontrattuale. Non può ipotizzarsi, infatti, che il

sistema ponga allo stesso modo, con disposizioni ugualmente generiche e necessitanti

d'integrazione, tanto la regola generale quanto quella di settore.

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A ciò va aggiunto che la stessa struttura della responsabilità per danni prevista dall'art. 2051 c.c.

presuppone l'identificazione di uno o più soggetti cui sia imputabile la custodia. Il custode non può

essere identificato né nel condominio, interfaccia idoneo a rendere il danneggiato terzo rispetto agli

altri condomini, ma pur sempre ente di sola gestione di beni comuni, né nel suo amministratore,

essendo questi un mandatario dei condomini. Solo questi ultimi, invece, possono considerarsi

investiti del governo della cosa, in base ad una disponibilità di fatto e ad un potere di diritto che

deriva loro dalla proprietà piena sui beni comuni ex art. 1117 c.c. (sui requisiti in generale della

custodia ai fini dell'applicazione dell'art. 2051 c.c., cfr. Cass. S.U. n. 12019/91).

Se ne deve trarre, pertanto, che il risarcimento del danno da cosa in custodia di proprietà

condominiale non si sottrae alla regola della responsabilità solidale ex art. 2055, 1 comma c.c.,

individuati nei singoli condomini i soggetti solidalmente responsabili.

8. LE SEZIONI UNITE SULLE OBBLIGAZIONI SOLIDALI IN TEMA DI ILLECITO

AQUILIANO: Cass. Sez. Un. 15 luglio 2009, n. 16503

NOTE INTRODUTTIVE

In contrapposizione all'art. 2043 c.c., che fa sorgere l'obbligo del risarcimento dalla commissione di

un «fatto» doloso o colposo, il successivo art. 2055 considera, ai fini della solidarietà nel

risarcimento stesso, il «fatto dannoso», sicché, mentre la prima norma si riferisce all'azione del

soggetto che cagiona l'evento, la seconda riguarda la posizione di colui che subisce il danno, ed

in cui favore è stabilita la solidarietà.

Deriva, da quanto precede, che l'unicità del fatto dannoso richiesta dal ricordato art. 2055 per

la legittima predicabilità di una responsabilità solidale tra gli autori dell'illecito deve essere

intesa in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato, ricorrendo, pertanto, tale forma di

responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose,

costituenti fatti illeciti distinti, ed anche diversi, sempreché le singole azioni o omissioni abbiano

concorso in maniera efficiente alla produzione del danno.

In altri termini, per il sorgere della responsabilità solidale dei danneggianti l'art. 2055, comma 1,

c.c. richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano

tra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone, anche

nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale e extracontrattuale, atteso che

l'unicità del fatto dannoso considerata dalla norma suddetta deve essere riferita unicamente al

danneggiato e non va intesa come identità delle norme giuridiche da essi violate.

Massima

In tema di risarcimento del danno, non può considerarsi favorevole al debitore solidale - per gli

effetti di cui all'art. 1306, secondo comma, cod. civ. - il capo della sentenza che abbia affermato

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la sussistenza del concorrente apporto causale dello stesso creditore al verificarsi dell'evento

lesivo, a norma dell'art. 1227, primo comma, cod. civ., qualora il creditore, in un secondo

giudizio, intenda imputare al terzo, non convenuto in un precedente giudizio, proprio la

responsabilità di quell'apporto causale che il primo giudice abbia ritenuto scriminante della

responsabilità del primo convenuto. (Nella specie, conclusosi un primo giudizio con una sentenza,

passata in giudicato, con cui era stata ascritta la responsabilità dell'investimento di un minore per

il 50% al proprietario conducente del veicolo investitore con pari concorso della vittima ed erano

stati condannati il predetto proprietario e la compagnia di assicurazione al risarcimento della metà

dei danni, l'investito, in un secondo giudizio, aveva chiesto, tra l'altro, la condanna del Ministero

della Pubblica Istruzione al risarcimento dei danni nella misura della metà non risarcita dai

convenuti nel primo giudizio, previo accertamento della responsabilità del Ministero per colpa "in

vigilando". La S.C., in applicazione del riportato principio, ha cassato con rinvio la sentenza

impugnata che aveva ritenuto sussistente la facoltà del predetto Ministero, rimasto estraneo al

primo giudizio, di opporre, ai sensi del secondo comma dell'art. 1306 cod. civ., all'investito la

sentenza passata in giudicato, così giovandosi dell'accertamento fatto nei rapporti con gli altri

condebitori solidali).

Motivazione

10. Con il primo motivo il ricorrente S. R. censura la sentenza impugnata denunziando “violazione

e falsa applicazione degli artt. 1306, 2° comma e 2909 c.c. e dell'art. 112 c.p.c.; omessa,

insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360, nn.

3, 4 e 5 c.p.c.)”.

Assume, in particolare, il ricorrente che la deroga al principio dei limiti soggettivi del giudicato, di

cui all'art. 1306, comma 2, c.c. può operare solo con riferimento alle obbligazioni solidali nascenti

da uno stesso titolo.

11. Nei limiti di cui appresso il motivo è fondato.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

11.1. In tema di obbligazioni solidali, giusta la puntuale previsione di cui all'art. 1306 c.c. “la

sentenza pronunziata tra il creditore e uno dei debitori in solido, o tra il debitore e uno dei creditori

in solido, non ha effetto contro gli altri debitori o contro gli altri creditori” (comma 1).

“Gli altri debitori - peraltro - possono opporla al creditore, salvo che sia fondata sopra ragioni

personali al condebitore; gli altri creditori possono farla valere contro il debitore, salve le eccezioni

personali che questi può opporre a ciascuno di essi” (comma 2).

11.2. In applicazione della disposizione da ultimo trascritta la sentenza ora oggetto di ricorso per

cassazione, ha rigettato la domanda proposta da S. R. nei confronti del Ministero osservando:

- il giudizio (tra il danneggiato e il T. nonché la compagnia assicuratrice del veicolo dallo stesso

condotto), conclusosi con sentenza passata in giudicato 8 luglio 1987 ha avuto a oggetto lo stesso

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fatto generatore del danno, ossia l'investimento di S. R. a opera dell'auto condotta dal T. e di sua

proprietà, dedotto in questa sede al fine di estendere la responsabilità del Ministero quale soggetto

autore di una condotta autonoma, antecedente che avrebbe concorso, mediante omissione di

doverose cautele, a provocare il sinistro;

- da ciò discende che il Ministero, chiamato a rispondere quale condebitore solidale in relazione al

medesimo fatto generatore del danno, ancorché con ruolo causale autonomo per condotta

antecedente, e rimasto estraneo al giudizio, ha facoltà - ai sensi dell'art. 1306, comma 2 c.c. - di

opporre allo S., quale creditore, la sentenza passata in giudicato, così giovandosi dell'accertamento,

ormai irretrattabile, fatto nei rapporti con gli altri condebitori solidali, in forza del quale il danno,

per metà, deve restare a carico della vittima, senza possibilità di rivalsa nei confronti degli altri

condebitori.

11.3. L'interpretazione data, dalla sentenza gravata, al combinato disposto di cui agli artt. 1306,

comma 2 e 2909 c.c. non merita - a parere di queste Sezioni Unite - conferma.

11.3.1. Come noto, in contrapposizione all'art. 2043 c.c., che fa sorgere l'obbligo del

risarcimento dalla commissione di un «fatto» doloso o colposo, il successivo art. 2055

considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, il «fatto dannoso», sicché, mentre la

prima norma si riferisce all'azione del soggetto che cagiona l'evento, la seconda riguarda la

posizione di quello che subisce il danno, ed in cui favore è stabilita la solidarietà.

Deriva, da quanto precede, che l'unicità del fatto dannoso richiesta dal ricordato art. 2055 per

la legittima predicabilità di una responsabilità solidale tra gli autori dell'illecito deve essere

intesa in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato, ricorrendo, pertanto, tale forma di

responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose,

costituenti fatti illeciti distinti, ed anche diversi, sempreché le singole azioni o omissioni

abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno (Cass. 15 luglio 2005, n.

15030).

In altri termini, per il sorgere della responsabilità solidale dei danneggianti l'art. 2055,

comma 1, c.c. richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le

condotte lesive siano tra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di

ciascuna di tali persone, anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità

contrattuale e extracontrattuale, atteso che l'unicità del fatto dannoso considerata dalla

norma suddetta deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità

delle norme giuridiche da essi violate (Cass. 16 dicembre 2005, n. 27713; Cass. 14 gennaio 1996,

n. 418).

11.3.2. Certo quanto sopra, osserva la Corte che nella specie la sentenza del 1987, coperta da

giudicato, ha ritenuto - in esito a un giudizio al quale non ha partecipato il Ministero odierno

controricorrente - che il fatto dannoso denunziato (le lesioni riportate da S. R.) fosse ascrivibile alla

concorrente responsabilità de il T., che ha investito lo S. (per il 50 %) e dello stesso S. (per il

restante 50%) che non ha prestato la dovuta attenzione nell'attraversare la carreggiata stradale

percorsa dal T..

11.3.3. È evidente, pertanto, che il giudicato formatosi in quella sede [e opponibile al creditore da

parte del Ministero, condebitore solidale] riguarda, oltre che la misura del danno conseguente

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all'evento (cfr. Cass. 11 giugno 2008, n. 15462) non - come implicitamente ritenuto dalla sentenza

impugnata - tutte le autonome, e distinte, condotte poste in essere da tutti coloro che - almeno in tesi

- possono ritenersi responsabili solidali dell'evento, ma unicamente il comportamento colposo di

uno di questi, e, in particolare, del T..

Non essendo stato oggetto di indagine, in quel giudizio, la diversa, e autonoma, condotta del

Ministero che ha omesso di vigilare sul comportamento dello S., all'epoca dei fatti minore, è

evidente che nessun giudicato, si è formato - ex art. 2909 c.c. - su tale omessa (o insufficiente)

vigilanza.

11.3.4. Certo quanto sopra, e certo che nella specie il danneggiato non ha ottenuto - in esito al

precedente giudizio - l'integrale risarcimento del pregiudizio patito (e già accertato) è palese che

non sussisteva alcuna preclusione, perché il danneggiato - dopo il passaggio in giudicato della

sentenza nei confronti del T. - agisca, per ottenere il residuo risarcimento, nei confronti del

Ministero per la verifica di tale diversa colpa in vigilando.

A fronte di tale domanda, correttamente - in applicazione dell'art. 1306, comma 2, c.c. - il Ministero

(al fine di paralizzare almeno in parte, l'accoglimento della domanda avversaria) ha opposto che era

oramai irretrattabile sia il quantum debeatur del fatto dannoso, sia che di questo il T. era

responsabile al 50%.

È certo - infatti - che in questo secondo giudizio lo S. non può pretendere danni ulteriori né il

pagamento, dal coobbligato solidale delle somme già riscosse in forza del precedente titolo

dall'altro coobbligato (cfr. Cass. 2 luglio 2004, n. 12174).

11.3.5. Deve escludersi, peraltro, come anticipato, che sia precluso in questo nuovo giudizio il

diverso accertamento - ora sollecitato dallo S. - quanto alla rilevanza della condotta negligente della

scuola, e quindi del Ministero, per avere omesso i dovuti controlli prima di lasciare libero il

minore.

Infatti, a prescindere dal rilevare che nessun accertamento, con forza di giudicato, è stato mai

compiuto al riguardo, non può considerarsi favorevole al debitore solidale - per gli effetti di

cui all'art. 1306, comma 2, c.c. - il capo della sentenza che abbia affermato la sussistenza del

concorrente apporto causale dello stesso creditore al verificarsi dell'evento lesivo (a norma

dell'art. 1227, comma 1, c.c.) qualora il creditore nel secondo giudizio intenda imputare al

terzo, non convenuto nel precedente giudizio, la responsabilità proprio di quell'apporto

causale che il primo giudice abbia ritenuto scriminante della responsabilità del primo

convenuto.

9. PATTO COMMISSORIO E PATTO MARCIANO

NOTA INTRODUTTIVA

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Le quattro sentenze di seguito riportate, relative all’istituto del c.d. “patto commissorio”, appaiono

di particolare interesse in quanto dimostrano il costante sforzo che la recente giurisprudenza sta

compiendo al fine di bilanciare opposti principi.

Muovendo infatti dalla ratio giustificatrice della norma di cui all’art. 2744 c.c., ossia l’esigenza

di offrire adeguata protezione al debitore, quale soggetto debole del rapporto obbligatorio, e quindi

a rischio di subire prevaricazioni imposte dal creditore (come, ad esempio, un trasferimento di

proprietà di un bene assistito non da una causa traslativa ma di mera garanzia), la Suprema Corte ha

dapprima tracciato il perimetro applicativo della fattispecie de qua, individuando alcuni indici

sintomatici, oggetto di attento scrutinio da parte del giudice, con riguardo a ipotesi formalmente non

ricomprese nel divieto di patto commissorio (sale and lease back, contratto preliminare-definitivo,

vendita con patto di riscatto o di retrovendita).

D’altra parte, rifuggendo qualsiasi logica iperprotettiva a favore del debitore e collocandosi

lungo un solco di maggiore giustizia ed equilibrio del rapporto, la Cassazione ha valorizzato il

c.d. “patto marciano” (fondato sulla preventiva stima del bene e sulla eventuale corresponsione, al

debitore, della differenza tra il credito e il valore della res), quale clausola correttiva del patto

commissorio, in grado di sanare gli aspetti disfunzionali e patologici censurati dall’art. 2744 c.c

9.1 Cass., sez. II, sentenza 21 gennaio 2016, n. 1075

L'art. 2744 c.c., sancendo il divieto del patto commissorio, postula che il trasferimento della

proprietà della cosa sia sospensivamente condizionato al verificarsi dell'evento futuro ed incerto

del mancato pagamento del debito, sicché detto patto non è configurabile qualora il trasferimento

avvenga, invece, allo scopo di soddisfare un precedente credito rimasto insoluto. (Nella specie, la

S.C. ha ritenuto congruamente motivata la decisione impugnata che aveva escluso che l'operazione

fosse finalizzata ad uno scopo di garanzia in quanto parte del prezzo della compravendita era stato

utilizzato per ripianare debiti scaduti verso l'amministratore della società acquirente e nei

confronti di terzi, mentre per i debiti non ancora esigibili nei confronti di terze società, la

rateizzazione mensile del prezzo residuo poteva considerarsi una delegazione di pagamento di tali

preesistenti obbligazioni da parte del "debitor debitoris").

(omissis) Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il divieto del patto commissorio,

sancito dall'art. 2744 c.c., si estende a qualsiasi negozio, ancorché di per sè astrattamente

lecito, che venga impiegato per conseguire il concreto risultato, vietato - dall'ordinamento, di

assoggettare il debitore all'illecita coercizione da parte del creditore, sottostando alla volontà

del medesimo di conseguire il trasferimento della proprietà di un suo bene, quale conseguenza della

mancata estinzione di un debito (v., tra le tante, Cass. 12-1-2009 n. 437; Cass. 11-6-2007 n. 13621;

Cass. 19-5-2004 n. 9466; Cass. 2, 20-7-1999 n. 7740).

In particolare, è stato puntualizzato che la vendita con patto di riscatto o di retrovendita, anche

quando sia previsto il trasferimento effettivo del bene, è nulla se stipulata per una causa di garanzia

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(piuttosto che per una causa di scambio), nell'ambito della quale il versamento del danaro, da parte

del compratore, non costituisca pagamento del prezzo ma esecuzione di un mutuo, ed il

trasferimento del bene serva solo per costituire una posizione di garanzia provvisoria capace di

evolversi a seconda che il debitore adempia o meno l'obbligo di restituire le somme ricevute.

La predetta vendita, infatti, in quanto caratterizzata dalla causa di garanzia propria del mutuo con

patto commissorio, piuttosto che dalla causa di scambio propria della vendita, pur non integrando

direttamente un patto commissorio vietato dall'art. 2744 c.c., costituisce un mezzo per eludere tale

norma imperativa ed esprime, perciò, una causa illecita che rende applicabile, all'intero contratto, la

sanzione dell'art. 1344 c.c. (Cass. 4-3-1996 n. 1657; Cass. 20-7-2001 n. 9900; Cass. 8-2- 2007 n.

2725).

E stato rilevato, al contrario, che va esclusa la violazione del divieto del patto commissorio in caso

di mancanza di prova del mutuo (cfr. Cass. 5635/05), oppure qualora la vendita sia pattuita allo

scopo, non già di garantire l'adempimento di un'obbligazione con riguardo all'eventualità non

ancora verificatasi che rimanga inadempiuta, ma di soddisfare un precedente credito rimasto

insoluto (cfr. Cass. 19950/04, Cass. 7885/01), o quando manchi l'illecita coercizione del debitore a

sottostare alla volontà del ereditare, accettando preventivamente il trasferimento di un suo bene

come conseguenza della mancata estinzione del debito che viene a contrarre (cfr. Cass. 8411/03); e

che il divieto di tale patto non è applicabile allorquando la titolarità del bene passi all'acquirente con

l'obbligo di ritrasferimento al venditore se costui provvederà all'esatto adempimento (Cass. 17-3-

1014 n. 6175). (omissis)

9.2 Cass. sentenza 28 gennaio 2015, n. 1625

Lo schema socialmente tipico del lease back presenta autonomia strutturale e funzionale, quale

contratto di impresa, e caratteri peculiari di natura oggettiva e soggettiva che non consentono di

ritenere che esso integri, per sua natura e nel suo fisiologico operare, una fattispecie che, in quanto

realizzi una alienazione a scopo di garanzia, si risolva in un negozio atipico nullo per illiceità della

causa concreta.

Peraltro, la causa concreta del contratto di sale and lease back ben può essere piegata al fine

illecito vietato dall'art. 2744 c.c., il quale costituisce una norma materiale, destinata a trovare

applicazione non soltanto in relazione alle alienazioni a scopo di garanzia sospensivamente

condizionate all'inadempimento del debitore, ma anche a quelle immediatamente traslative e

risolutivamente condizionate all'adempimento del debitore, esprimendo essa un divieto di risultato.

L'effetto di piegare un negozio lecito al raggiungimento di un risultato contrario alla norma

imperativa dipende, pertanto, dalle circostanze del caso concreto e dalle clausole negoziali presenti

nell'accordo, fondandosi su tali elementi di fatto la corretta qualificazione della fattispecie.

Occorrerà la ravvisabilità di un nesso funzionale, che renda manifesto l'intento negoziale

complessivo delle parti.

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Il patto marciano - clausola contrattuale con la quale si mira ad impedire che il concedente, in

caso di inadempimento, si appropri di un valore superiore all'ammontare del suo credito,

pattuendosi che, al termine del rapporto, si proceda alla stima del bene e il creditore sia tenuto al

pagamento in favore del venditore dell'importo eccedente l'entità del credito esclude l'illiceità della

causa del negozio.

Esso è strumento idoneo a scongiurare l'illiceità.

La cautela marciana riesce a superare i profili di possibile illiceità del lease back, in quanto

prevede, al termine del rapporto, la stima del bene oggetto di garanzia quale presupposto del

consolidarsi dell'effetto traslativo iniziale, evenienza che si verificherà qualora il valore del bene

sia equiparabile all'importo del credito inadempiuto (nonché del danno da inadempimento);

mentre, ove tale importo sarà inferiore, verrà quantificata la differenza e sarà pagato un prezzo

aggiuntivo al debitore, quale condizione del consolidamento dell'effetto traslativo.

Ciò garantirebbe contro il pericolo che il debitore subisca una lesione in conseguenza del

trasferimento con funzione di garanzia: la stima imparziale del valore del bene ad opera di un terzo

e l'obbligo, da parte del creditore, di restituire l'eccedenza al debitore assumono, quindi, il compito

di escludere l'abuso, e con esso l'operatività del divieto di patto commissorio e la conseguente

illiceità.

(omissis)

La stessa giurisprudenza di legittimità ha individuato, per distinguere il leasing puro da

quello anomalo in quanto confliggente con il divieto di patto commissorio, tre essenziali

criteri:

l'esistenza di una situazione debitoria in capo all'impresa utilizzatrice verso la concedente, le

difficoltà economiche della prima e la sproporzione tra corrispettivo e valore del bene: ma tali

indici mancherebbero nella vicenda in esame.

(omissis)

2.2. - Questa Corte ha da tempo chiarito che lo schema socialmente tipico del lease back presenta

autonomia strutturale e funzionale, quale contratto di impresa, e caratteri peculiari di natura

oggettiva e soggettiva che non consentono di ritenere che esso integri, per sua natura e nel suo

fisiologico operare, una fattispecie che, in quanto realizzi una alienazione a scopo di garanzia, si

risolva in un negozio atipico nullo per illiceità della causa concreta (Cass. 22 marzo 2007, n. 6969;

14 marzo 2006, n. 5438, ed altre).

Peraltro, la causa concreta del contratto di sale and lease back ben può essere piegata al fine illecito

vietato dall'art. 2744 c.c., il quale costituisce una norma materiale, destinata a trovare applicazione

non soltanto in relazione alle alienazioni a scopo di garanzia sospensivamente condizionate

all'inadempimento del debitore, ma anche a quelle immediatamente traslative e risolutivamente

condizionate all'adempimento del debitore (Cass., sez. un., 3 aprile 1989, n. 1611, e successive,

quale, fra le altre, 16 ottobre 1995, n. 10805, 19 luglio 1997, n. 6663 e 2 febbraio 2006, n. 2285),

esprimendo essa un divieto di risultato.

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Si è altresì precisato (Cass. 26 giugno 2001, n. 874; 19 luglio 1997, n. 6663) che la verifica se lo

schema negoziale del lease back sia stato in concreto impiegato per eludere il divieto di patto

commissorio va operata dal giudice del merito in base ad elementi sintomatici sia soggettivi che

oggettivi, i quali non sono sindacabili in sede di legittimità, se non nell'ambito del controllo sulla

motivazione.

L'effetto di piegare un negozio lecito al raggiungimento di un risultato contrario alla norma

imperativa dipende, pertanto, dalle circostanze del caso concreto e dalle clausole negoziali presenti

nell'accordo, fondandosi su tali elementi di fatto la corretta qualificazione della fattispecie.

Occorrerà la ravvisabilità di un nesso funzionale, che renda manifesto l'intento negoziale

complessivo delle parti; ma l'individuazione della causa concreta del negozio, ai fini della

valutazione della sua liceità alla luce del complessivo regolamento d'interessi perseguito, appartiene

alla sfera di competenze riservate al giudice del merito, sindacabile solo per vizio di motivazione.

(omissis)

2.4. - La censura della ricorrente fa leva, inoltre, sulla presenza nel contratto di una c.d. clausola

marciana, secondo cui, per come riferita in ricorso, in caso di risoluzione per inadempimento il

concedente potrà pretendere che l'utilizzatore paghi i canoni scaduti, gli interessi moratori, le spese

ed un importo pari all'ammontare dei canoni non scaduti, dovendosi da ciò dedurre quanto

conseguito dal concedente in seguito alla vendita del bene.

Nell'assunto della ricorrente, tale clausola esclude il carattere fraudolento e vietato del lease back.

(omissis)

2.5. - Secondo quanto affermato da questa Corte, il patto marciano - clausola contrattuale con

la quale si mira ad impedire che il concedente, in caso di inadempimento, si appropri di un

valore superiore all'ammontare del suo credito, pattuendosi che, al termine del rapporto, si

proceda alla stima del bene e il creditore sia tenuto al pagamento in favore del venditore

dell'importo eccedente l'entità del credito (iure emptoris possideat rem iusto pretio tunc

aestimandam, secondo la tradizione giustinianea) esclude l'illiceità della causa del negozio, la

quale non sussiste "pur in presenza di costituzione di garanzie che presuppongano un

trasferimento di proprietà, qualora queste risultino integrate entro schemi negoziali che tale

abuso escludono in radice, come nel caso del pegno irregolare, del riporto finanziario e del c.d.

patto marciano - in virtù del quale, come è noto, al termine del rapporto si procede alla stima,

ed il creditore, per acquisire il bene, è tenuto al pagamento dell'importo eccedente l'entità del

credito" (così Cass. 21 gennaio 2005, n. 1273).

Più di recente, il medesimo concetto è stato di nuovo espresso, sebbene ancora in via incidentale,

escludendosi la violazione dell'art. 2744 c.c. in presenza di un patto marciano "in virtù del quale al

termine del rapporto si procede alla stima ed il creditore, per acquisire il bene, è tenuto al

pagamento dell'importo eccedente l'entità del credito" (Cass. 9 maggio 2013, n. 10986).

Si ritiene, dunque, che il c.d. patto marciano sia strumento idoneo a scongiurare l'illiceità,

permettendo l'uso di uno contratto finanziario, come il lease back, ritenuto vantaggioso dagli

utilizzatori: si riconosce così la "ragionevolezza commerciale" dell'intera operazione per entrambe

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le parti, rispondendo essa alle peculiari "esigenze del mercato" che esige, in dati casi, l'anticipata

monetizzazione del valore del bene in favore dell'utilizzatore-venditore, senza che egli però ne

perda il godimento o se ne privi definitivamente.

In tal senso, si reputa, da molti interpreti, che la cautela marciana riesca a superare i profili di

possibile illiceità del lease back, in quanto prevede, al termine del rapporto, la stima del bene

oggetto di garanzia quale presupposto del consolidarsi dell'effetto traslativo iniziale, evenienza che

si verificherà qualora il valore del bene sia equiparabile all'importo del credito inadempiuto (nonchè

del danno da inadempimento); mentre, ove tale importo sarà inferiore, verrà quantificata la

differenza e sarà pagato un prezzo aggiuntivo al debitore, quale condizione del consolidamento

dell'effetto traslativo.

Ciò garantirebbe contro il pericolo che il debitore subisca una lesione in conseguenza del

trasferimento con funzione di garanzia: la stima imparziale del valore del bene ad opera di un terzo

e l'obbligo, da parte del creditore, di restituire l'eccedenza al debitore assumono, quindi, il compito

di escludere l'abuso, e con esso l'operatività del divieto di patto commissorio e la conseguente

illiceità.

Il Collegio ritiene che tale principio vada ora affermato.

Fondamento dell'effetto salvifico è, da un lato, l'idoneità della clausola a ristabilire l'equilibrio

sinallagmatico tra le prestazioni del contratto di lease back (requisito svalutato da chi reputa che

l'art. 2744 c.c. non esiga alcuna sproporzione dei valori, ma dovendosi invece ribadire che

l'ordinamento presume detta sproporzione nel meccanismo vietato), e, dall'altro lato, la sua capacità

di scongiurare che l'attuazione coattiva del credito avvenga senza alcun controllo dei valori

patrimoniali in gioco.

Così come in altre fattispecie - per l'art. 1851 c.c., in presenza di un pegno irregolare a garanzia, "la

banca deve restituire solo la somma o la parte delle merci o dei titoli che eccedono l'ammontare dei

crediti garantiti"; nella cessione dei beni ai creditori, l'art. 1982 c.c. attribuisce il residuo al debitore;

quanto alle garanzie reali tipiche, ad esempio, l'art. 2798 c.c. ammette l'assegnazione al creditore

della cosa oggetto del pegno solo previa "stima da farsi con perizia o secondo il prezzo corrente, se

la cosa ha un prezzo di mercato", l'art. 2803 c.c. prevede la riscossione del credito dato in pegno,

ma, se il credito garantito è scaduto, "il creditore può ritenere del denaro ricevuto quanto basta per il

soddisfacimento delle sue ragioni e restituire il residuo al costituente o, se si tratta di cose diverse

dal danaro, può farle vendere o chiederne l'assegnazione" secondo la norma ora citata e l'art. 2804

c.c. sancisce che il creditore pignoratizio non soddisfatto può in ogni caso chiedere che gli sia

assegnato in pagamento il credito ricevuto in pegno "fino a concorrenza del suo credito"; più in

generale, tutto il sistema del processo esecutivo per espropriazione forzata e di quello fallimentare

mira ad assicurare la tutela, sotto il profilo indicato, del debitore - l'ordinamento permette la

realizzazione coattiva dei diritti del creditore, purché sia tutelato pure il diritto del debitore a pagare

al creditore quanto in effetti gli spetti.

Per tale ragione, è necessario allora che, sin dalla conclusione del contratto di lease back, siano stati

previsti meccanismi oggettivi e procedimentalizzati che, sulla falsariga delle disposizioni ora

ricordate, permettano la verifica di congruenza tra valore del bene oggetto della garanzia, che viene

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definitivamente acquisito al creditore, ed entità del credito; per la stessa ragione, non avrebbe tale

effetto la verifica del "giusto prezzo" al momento della conclusione del contratto.

Perché la c.d. clausola marciana possa conseguire il ricordato effetto legalizzante del contratto

di lease back, occorre pertanto che essa preveda, per il caso ed al momento

dell'inadempimento ossia quando si attuerà coattivamente la pretesa creditoria (cfr. art. 1851

c.c.), un procedimento volto alla stima del bene, entro tempi certi e con modalità definite, che

assicurino la presenza di una valutazione imparziale, in quanto ancorata a parametri oggettivi

automatici, oppure affidata a persona indipendente ed esperta la quale a detti parametri farà

riferimento (cfr. art. 1349 c.c.), al fine della corretta determinazione dell'an e del quantum

della eventuale differenza da corrispondere all'utilizzatore.

La pratica degli affari potrà poi prevedere diverse modalità concrete di stima, purchè siano rispettati

detti requisiti. L'essenziale è che risulti, dalla struttura del patto, che le parti abbiano in anticipo

previsto che, nella sostanza dell'operazione economica, il debitore perderà eventualmente la

proprietà del suo bene per un prezzo giusto, determinato al tempo dell'inadempimento, perchè il

surplus gli sarà senz'altro restituito.

Non è invece necessario che la clausola marciana subordini, altresì, alla condizione del pagamento

della differenza l'acquisizione del bene da parte del creditore: invero, così come per il divieto ex art.

2744 c.c., anche la clausola marciana può essere in concreto articolata non solo nel senso di

ancorare all'inadempimento il trasferimento della proprietà del bene, ma pure il consolidamento

dell'effetto traslativo già realizzato, che si verificherà solo ove sia corrisposta l'eventuale differenza.

(omissis)

9.3 Cass. civ., sentenza 21 maggio 2013, n. 12462

Il divieto del patto commissorio sancito dall'art. 2744 c.c., con la conseguente sanzione di nullità

radicale, si estende a qualsiasi negozio, ancorché di per sé astrattamente lecito, qualora venga

impiegato per conseguire il fine concreto, riprovato dall'ordinamento, della illecita coercizione del

debitore, costringendolo al trasferimento di un bene a scopo di garanzia nella ipotesi di mancato

adempimento di una obbligazione assunta.

(omissis)

Deve premettersi che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il divieto del patto

commissorio sancito dall'art. 2744 c.c., con la conseguente sanzione di nullità radicale, si estende a

qualsiasi negozio, ancorché di per sé astrattamente lecito, allorché esso venga impiegato per

conseguire il fine concreto, riprovato dall'ordinamento, della illecita coercizione del debitore,

costringendolo al trasferimento di un bene a scopo di garanzia nella ipotesi di mancato

adempimento di una obbligazione assunta.

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In particolare, si ritiene pacificamente che il patto commissorio possa essere ravvisato anche di

fronte a più negozi tra loro collegati, quando da essi scaturisca un assetto di interessi

complessivo tale da far ritenere che il procedimento negoziale attraverso il quale deve

compiersi il trasferimento di un bene del debitore sia collegato, piuttosto che alla funzione di

scambio, ad uno scopo di garanzia, a prescindere dalla natura meramente obbligatoria o

traslativa o reale del contratto (v. Cass. 23-10-1999 n. 11924; Cass. 23-10-1994 n. 11924; Cass.

15-8-1990 n. 8325), ovvero dal momento temporale in cui l'effetto traslativo sia destinato a

verificarsi nonché dagli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione e, persino, dalla identità dei

soggetti che abbiano stipulato i negozi collegati (Cass. 19-5-2004 n. 9466), sempre che questi siano

stati concepiti e voluti come funzionalmente connessi e tra loro interdipendenti, onde risultare

idonei al raggiungimento dello scopo finale di garanzia che le parti si erano prefissate (Cass. 28-6-

2006 n. 14903; Cass. 16-9-2004 n. 18655).

Ne consegue che, in linea di principio, anche un contratto preliminare di compravendita può

incorrere nella sanzione dell'art. 2744 c.c., ove risulti l'intento primario delle parti di

costituire con il bene promesso in vendita una garanzia reale in funzione dell'adempimento

delle obbligazioni contratte dal promittente venditore con altro negozio collegato, sì da

stabilire un collegamento negoziale e strumentale tra i due negozi.

È evidente, peraltro, che, allorché lo strumento negoziale adoperato dalle parti in funzione di

garanzia sia rappresentato da un contratto preliminare, in tanto può configurarsi un illecito patto

commissorio, in quanto i contraenti abbiano predisposto un meccanismo (quale la previsione di una

condizione) diretto a far sì che l'effetto definitivo e irrevocabile del trasferimento si realizzi solo a

seguito dell'inadempimento del debitore-promittente venditore, rimanendo, in caso contrario, il bene

nella titolarità di quest'ultimo.

In tal caso, infatti, il contratto preliminare viene impiegato per conseguire l'illecita coartazione del

debitore a sottostare alla volontà del creditore, per cui non sussiste la causa di scambio, tipica di

ogni contratto di compravendita, ma il preliminare costituisce il mezzo per raggiungere il risultato

vietato dalla legge (v. Cass. 10-2-1997 n. 1233; Cass. 4-3-1996 n. 1657).

(omissis)

Ciò posto, si osserva che il generico riferimento alla funzione di garanzia svolta dal contratto

preliminare asseritamene simulato, non appare di per sé sufficiente ai fini della configurazione di un

illecito patto commissorio.

Nel giudizio di merito, infatti, il L. non ha nemmeno allegato l'esistenza, in concreto, di un qualche

meccanismo, predisposto dai contraenti, diretto ad imporre il trasferimento dei beni indicati nel

contratto preliminare nel caso in cui il credito del promittente acquirente restasse insoddisfatto, e ad

escluderlo, invece, nell'ipotesi di adempimento dell'obbligazione contratta dal promittente

venditore.

Le stesse deduzioni svolte nel ricorso non forniscono sufficienti lumi al riguardo, non spiegando

attraverso quale strumento o congegno, realmente impiegato dalle parti, gli effetti normalmente

connessi al contratto preliminare fossero destinati ad operare in via definitiva solo in caso di

inadempimento del debitore-promittente venditore, in modo che la fattispecie negoziale posta in

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essere potesse rivelarsi idonea ad esercitare su quest'ultimo un'indebita coercizione

all'adempimento, in violazione del divieto del patto commissorio..

(omissis)

Per le stesse ragioni, poiché dai fatti esposti dall'appellante non poteva desumersi in modo

inequivocabile che il contratto preliminare stipulato dalle parti costituisse un espediente volto ad

eludere il divieto del patto commissorio, al giudice di appello non può rimproverarsi di non aver

rilevato d'ufficio la nullità di tale contratto.

9.4 Cass. civ., sentenza 9 maggio 2013, n. 10986

La vendita con patto di riscatto o di retrovendita stipulata fra il debitore ed il creditore, ove

determini la definitiva acquisizione della proprietà del bene in mancanza di pagamento del debito

garantito, è nulla per frode alla legge, in quanto diretta ad eludere il divieto del patto

commissorio.

Principale elemento sintomatico della frode è costituito dalla sproporzione tra l'entità del debito e

il valore dato in garanzia, in quanto il legislatore, nel formulare un giudizio di disvalore nei

riguardi del patto commissorio, ha presunto, alla stregua dell'"id quod plerumque accidit", che in

siffatta convenzione il creditore pretenda una garanzia eccedente il credito, sicché, ove questa

sproporzione manchi - come nel pegno irregolare, nel riporto finanziario e nel cosiddetto patto

marciano (ove al termine del rapporto si procede alla stima del bene e il creditore, per acquisirlo, è

tenuto al pagamento dell'importo eccedente l'entità del credito) - l'illiceità della causa è esclusa.

(omissis) Il motivo culmina con il 6 seguente quesito di diritto: "Dica la Corte se la vendita

effettuata a scopo di garanzia costituisce sempre una fattispecie illecita ed in particolare se possa,

comunque, configurarsi un patto commissorio vietato ai sensi dell'art. 2744 c. c. in presenza di una

dichiarazione del creditore con la quale quest'ultimo si impegni a restituire al debitore la differenza

tra il valore del bene trasferito ed il valore del credito vantato". (omissis) Le questioni sottoposte

all'esame di questa Corte con le doglianze sopra esposte — da trattare congiuntamente, in quanto

tutte incentrate sul rapporto tra c.d. patto marciano e alienazione in garanzia integrante patto

commissorio - impongono una preliminare ricognizione dei problemi connessi all'individuazione

dell'ambito di applicazione del divieto di patto commissorio, sancito dall'art. 2744 c.c..

L'art. 2744 c.c., compreso nel titolo III del libro VI del codice civile (Della responsabilità

patrimoniale, delle cause di prelazione e della conservazione della garanzia patrimoniale), dispone

quanto segue: "È nullo il patto con il quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito

nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore. Il patto è

nullo anche se posteriore alla costituzione dell'ipoteca o del pegno."

Analoga previsione reca l'art. 1963 c.c. in tema di anticresi.

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L'espressa comminatoria di nullità avendo, ovviamente, espulso dalla pratica degli affari la

realizzazione della fattispecie legale illecita, concernente il patto commissorio aggiunto ad ipoteca,

pegno o anticresi, ha fatto sorgere la questione se la nullità riguardasse, o meno, anche il patto

commissorio autonomo, e cioè l'operazione contrattuale, di regola integrata da una alienazione in

funzione di garanzia, che di per sè preveda che la proprietà della cosa alienata in garanzia passi al

creditore in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato.

E la risposta della giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 282 del 1974) e della dottrina è stata

concordemente positiva, sul rilievo, tra l'altro, che il risultato giuridico-economico dell'operazione è

equivalente a quello espressamente sanzionato.

Minor concordia - ed anzi ampia divergenza di opinioni (significativa della loro elevata opinabilità)

- ha contrassegnato, come è noto, l'individuazione della ragione giustificatrice della sancita nullità

del patto commissorio (sia indiretto sia autonomo).

Senza pretesa di completezza, sarà qui sufficiente ricordare che le tesi tradizionali hanno

individuato il fondamento del divieto nell'esigenza di tutela dei debitori - esposti, a causa del

bisogno, a subire il rischio di un approfittamento da parte dei creditori - ovvero di tutela dei

creditori - risultando leso il principio della par condicio -, o di entrambe le categorie.

Su un piano diverso, è stato sottolineato il contrasto del potere di auto soddisfacimento del creditore

con l'esclusiva statale della funzione esecutiva.

Secondo altra tesi, infine, il divieto si giustificherebbe con l'esigenza di evitare che il patto, quale

clausola di stile, determini l'instaurarsi di un sistema di garanzia inidoneo ad esprimere un

assoggettamento del patrimonio del debitore esattamente adeguato alla funzione di garanzia.

A sua volta, la giurisprudenza di questa Corte per lungo tempo ritenne di impostare la soluzione del

problema della liceità o illiceità del patto commissorio autonomo, integrato da una alienazione in

garanzia, con riferimento alla decorrenza degli effetti del trasferimento della cosa alienata in

garanzia.

Si affermò, invero, la liceità della vendita fiduciaria a scopo di garanzia, accompagnata da patto di

riscatto o di ritrasferimento, caratterizzata da un trasferimento effettivo ed immediato della

proprietà al creditore, il quale tuttavia assume l'impegno, in forza di accordo consistente nel patto di

riscatto o in quello di retrovendita, di ritrasferire il bene al venditore se questi estinguerà, nel

termine previsto, il debito garantito.

Per converso, si ritenne nulla, ai sensi dell'art. 2744 c.c., la vendita dissimulante un mutuo con patto

commissorio, ricorrente nell'ipotesi in cui le parti, pur dichiarando formalmente di voler vendere ed

acquistare, concordano in sostanza che il creditore acquirente diventerà proprietario soltanto se il

debitore ed alienante non estinguerà il debito nel termine pattuito, attuando così una vendita

sottoposta a condizione sospensiva (per tutte: Cass. n. 1004 del 1962 e n. 642 del 1980).

Il problema venne posto quindi, per l'ipotesi illecita, in chiave di simulazione, e l'illiceità del

contratto dissimulato venne fatta discendere dalla violazione diretta del divieto ex art. 2744 c.c.

(estensivamente interpretato come relativo anche al patto commissorio autonomo).

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La soluzione adottata fu oggetto di critica e ad essa si contrapposero difformi pronunce

(significativo esempio si riscontra in Cass. n. 3800 del 1983), che abbandonarono il suindicato

criterio distintivo, rilevando come anche nella vendita con patto di riscatto o di retrovendita, se

conclusa a scopo di garanzia, l'effetto traslativo diviene definitivo ed irrevocabile soltanto a seguito

dell'inadempimento del mutuatario.

Ne consegue che, ove risulti l'intento primario delle parti di vincolare il bene a garanzia ed in

funzione del rapporto di mutuo, la complessa convenzione - in quanto produttiva degli stessi effetti

di una alienazione sottoposta a condizione sospensiva e caratterizzata da un nesso teleologico e

strumentale tra i due negozi di mutuo e di compravendita - presenta una causa effettiva divergente

da quella tipica della compravendita, ed avente natura di causa illecita, in quanto volta a frodare il

divieto del patto commissorio attraverso il ricorso ad un procedimento simulatorio.

Il nuovo orientamento venne fatto proprio, con alcune precisazioni, dalle Sezioni Unite, con due

sentenze dell'anno 1989 (n. 1611 e n. 1907).

Premesso, in adesione alla tesi tradizionale, che il divieto di patto commissorio è diretto ad impedire

al creditore l'esercizio di una coazione morale sul debitore, spesso spinto alla ricerca di un mutuo (o

alla richiesta di una dilazione, nel caso di patto commissorio ex intervallo) da ristrettezze

finanziarie, con facoltà di far proprio il bene, attraverso un meccanismo che gli consenta di sottrarsi

alla regola della par condicio creditorum, hanno affermato le Sezioni Unite che nella vendita con

patto di riscatto o di retrovendita a scopo di garanzia questa non costituisce soltanto motivo, ma

assurge a causa del contratto, in quanto il trasferimento della proprietà trova obiettiva

giustificazione nel fine di garanzia.

E tale causa è inconciliabile con quella della vendita, posto che il versamento del denaro non

costituisce pagamento del prezzo, ma esecuzione di un mutuo, mentre il trasferimento del bene non

integra l'attribuzione al compratore, bensì l'atto costitutivo di una posizione di garanzia

innegabilmente provvisoria, in quanto suscettibile di evolversi a seconda che il debitore adempia o

meno.

Ed è proprio la provvisorietà che costituisce l'elemento rivelatore della causa di garanzia, e quindi

della divergenza tra causa tipica del negozio prescelto e determinazione causale concreta,

indirizzata alla elusione di una norma imperativa, qual è l'art. 2744 c.c.: le parti, invero, adottando

uno schema negoziale astrattamente lecito per conseguire un risultato vietato dalla legge, realizzano

un'ipotesi di contratto in frode alla legge (art. 1344 c.c) (in senso conforme si è espressa Cass. n.

2126 del 1991).

In tale quadro, va quindi ribadito che è sanzionabile con la nullità, nei sensi suindicati, la vendita

con patto di riscatto (o di retrovendita) che, risultando inserita in una più complessa operazione

contrattuale, caratterizzata dalla sussistenza di un rapporto credito-debitorio tra venditore ed

acquirente, sia piegata al perseguimento non già di un trasferimento di proprietà, bensì di un

rafforzamento, in funzione di subordinazione e di accessorietà rispetto al mutuo, della posizione del

creditore, suscettivo di determinare la (definitiva) acquisizione della proprietà del bene in mancanza

di pagamento del debito garantito, così realizzando il risultato giuridico ed economico vietato

dall'art. 2744 c.c. (che, sotto tale profilo, integra quindi una norma materiale).

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Merita per contro un ulteriore approfondimento l'analisi degli elementi sintomatici idonei a

denunciare la sussistenza di una operazione fraudolenta del tipo delineato.

Al riguardo, più che l'indagine sull'atteggiamento soggettivo delle parti (valorizzata da Cass. n.3800

del 1983, non seguita, sul punto, dalle Sezioni Unite), sarà utile l'accertamento di dati obiettivi,

quali la presenza di una situazione credito-debitoria (preesistente o contestuale alla vendita),

e, soprattutto, la sproporzione tra entità del debito e valore del bene alienato in garanzia, di

regola presente nelle fattispecie in esame e costituente significativo segnale di una situazione

di approfittamento della debolezza del debitore da parte del creditore, che tende ad acquisire

l'eccedenza dì valore, così realizzando un abuso che il legislatore ha voluto espressamente

sanzionare.

A conferma di ciò, deve considerarsi che l'illiceità è invece esclusa, pur in presenza di costituzioni

di garanzie che postulano un trasferimento di proprietà, qualora queste siano integrate da schemi

negoziali che il menzionato abuso escludono in radice, come avviene nel caso del pegno irregolare

(art. 1851 c.c.), del riporto finanziario e del c.d. patto marciano, in virtù del quale al termine del

rapporto si procede alla stima, ed il creditore, per acquisire il bene, è tenuto al pagamento

dell'importo eccedente l'entità del credito.

La ratio del divieto posto dall'art. 2744 c.c. risulta quindi desumibile argomentando a contrario dalla

liceità delle figure ora menzionate.

Non vale opporre che sproporzione tra entità del credito e valore del bene, e conseguente abusiva

appropriazione dell'eccedenza non sono espressamente richieste dall'art. 2744 c.c., potendosi

replicare che il legislatore, nel formulare un giudizio di disvalore nei riguardi del patto

commissorio, ha fondatamente presunto, alla stregua dell'id quod plerumque accidit, che in siffatta

convenzione il creditore pretende di regola una garanzia eccedente l'entità del credito. Appare

quindi corretto ritenere che la sussistenza di una sproporzione tra valore del bene ed entità

del credito possa offrire, in sede di indagine, uno degli indizi di maggior peso (Cass. n. 736 del

1977, in motivazione; Cass. n. 776 del 1960, in motivazione; sembrano invece svalutare tale

elemento indiziario altre decisioni: Cass. n. 1611 e n. 1907 del 1989 delle Sezioni Unite, che

peraltro richiamano proprio Cass. n. 736 del 1977).

E non giova argomentare dalla disciplina generale dettata dall'art. 1448 c.c., per desumerne la

sanzionabilità della sproporzione tra prestazioni soltanto mediante l'azione di rescissione,

poiché resta da dimostrare la assoluta coerenza del sistema sanzionatorio previsto dal codice

civile, nel quale si rinvengono ipotesi di tutela del contraente debole mediante l'irrogazione

della nullità (artt. 1341, 1815, comma 2), e può opporsi che l'art. 2744 c.c. esprime una

specifica valutazione legale di riprovevolezza del patto commissorio, in virtù della sua

intrinseca elevata potenzialità - per frequenza di impiego e facilità di realizzazione - a

determinare il rischio (presunto) di produrre effetti che l'ordinamento non consente, e che si

risolvono, in definitiva, in un eccesso di garanzia per il creditore e di responsabilità

patrimoniale per il debitore.

(omissis)

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9.5 Art. 2 del d.l. 59 del 2016

Finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile

sospensivamente condizionato

1. Al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, dopo l'articolo 48 e' aggiunto il seguente

articolo:

«Art. 48-bis (Finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile

sospensivamente condizionato). - 1. Il contratto di finanziamento concluso tra un imprenditore e

una banca o altro soggetto autorizzato a concedere finanziamenti nei confronti del pubblico

puo' essere garantito dal trasferimento, in favore del creditore o di una società dallo stesso

controllata o al medesimo collegata ai sensi delle vigenti disposizioni di legge e autorizzata ad

acquistare, detenere, gestire e trasferire diritti reali immobiliari, della proprietà di un immobile

o di un altro diritto immobiliare dell'imprenditore o di un terzo, sospensivamente

condizionato all'inadempimento del debitore a norma del comma 5.

2. In caso di inadempimento, il creditore ha diritto di avvalersi degli effetti del patto di cui al

comma 1, purché' al proprietario sia corrisposta l'eventuale differenza tra il valore di stima del

diritto e l'ammontare del debito inadempiuto e delle spese di trasferimento.

3. Il trasferimento non può essere convenuto in relazione a immobili adibiti ad abitazione

principale del proprietario, del coniuge o di suoi parenti e affini entro il terzo grado.

4. Il patto di cui al comma 1 può essere stipulato al momento della conclusione del contratto

di finanziamento o, anche per i contratti in corso al momento dell'entrata in vigore del

presente decreto, per atto notarile, in sede di successiva modificazione delle condizioni contrattuali.

Qualora il finanziamento sia già garantito da ipoteca, il trasferimento sospensivamente

condizionato all'inadempimento, una volta trascritto, prevale sulle trascrizioni e iscrizioni eseguite

successivamente all'iscrizione ipotecaria.

5. Per gli effetti del presente articolo, si ha inadempimento quando il mancato pagamento si

protrae per oltre sei mesi dalla scadenza di almeno tre rate, anche non consecutive, nel caso

di obbligo di rimborso a rate mensili; o per oltre sei mesi dalla scadenza anche di una sola rata,

quando il debitore è tenuto al rimborso rateale secondo termini di scadenza superiori al periodo

mensile; ovvero, per oltre sei mesi, quando non è prevista la restituzione mediante pagamenti

da effettuarsi in via rateale, dalla scadenza del rimborso previsto nel contratto di finanziamento.

Al verificarsi dei presupposti di cui al presente comma, il creditore è tenuto a notificare al debitore

e, se diverso, al titolare del diritto reale immobiliare, nonché a coloro che hanno diritti

derivanti da titolo iscritto o trascritto sull'immobile successivamente alla trascrizione del

patto di cui al comma 1 una dichiarazione di volersi avvalere degli effetti del patto di cui al

medesimo comma, secondo quanto previsto dal presente articolo.

6. Decorsi sessanta giorni dalla notificazione della dichiarazione di cui al comma 5, il creditore

chiede al presidente del tribunale del luogo nel quale si trova l'immobile la nomina di un perito

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per la stima, con relazione giurata, del diritto reale immobiliare oggetto del patto di cui al comma

1. Si applica l'articolo 1349, primo comma, del codice civile. Il perito comunica il valore di stima al

debitore, e, se diverso, al titolare del diritto reale immobiliare, al creditore nonché a coloro

che hanno diritti derivanti da titolo iscritto o trascritto sull'immobile successivamente alla

trascrizione del patto di cui al comma 1.

7. Qualora il debitore contesti la stima, il creditore ha comunque diritto di avvalersi degli effetti

del patto di cui al comma 1 e l'eventuale fondatezza della contestazione incide sulla differenza

da versare al titolare del diritto reale immobiliare.

8. La condizione sospensiva di inadempimento, verificatisi i presupposti di cui al comma 5, si

considera avverata al momento della comunicazione al creditore del valore di stima di cui al

comma 6 ovvero al momento dell'avvenuto versamento all'imprenditore della predetta

differenza, qualora il valore di stima sia superiore all'ammontare del debito inadempiuto,

comprensivo di tutte le spese ed i costi del trasferimento. Il contratto di finanziamento contiene

l'espressa previsione di un conto corrente bancario, intestato al titolare del diritto reale

immobiliare, sul quale il creditore deve accreditare l'importo pari alla differenza tra il valore di

stima e l'ammontare del debito inadempiuto.

9. Ai fini pubblicitari connessi all'annotazione di cancellazione della condizione sospensiva, il

creditore, anche unilateralmente, rende nell'atto notarile di avveramento della condizione una

dichiarazione, a norma dell'articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre

2000, n. 445, con cui attesta l'inadempimento del debitore a norma del comma 5, producendo

altresi' estratto autentico delle scritture contabili di cui all'articolo 2214 del codice civile.

10. Puo' farsi luogo al trasferimento a norma del presente articolo anche quando il diritto reale

immobiliare gia' oggetto del patto di cui al comma 1 sia sottoposto ad esecuzione forzata

per espropriazione. In tal caso l'accertamento dell'inadempimento del debitore e' compiuto, su

istanza del creditore, dal giudice dell'esecuzione e il valore di stima e' determinato

dall'esperto nominato dallo stesso giudice. Il giudice dell'esecuzione provvede all'accertamento

dell'inadempimento con ordinanza, fissando il termine entro il quale il creditore deve versare

una somma non inferiore alle spese di esecuzione e, ove vi siano, ai crediti aventi diritto di

prelazione anteriore a quello dell'istante ovvero pari all'eventuale differenza tra il valore di

stima del bene e l'ammontare del debito inadempiuto. Avvenuto il versamento, il giudice

dell'esecuzione, con decreto, da' atto dell'avveramento della condizione. Il decreto e' annotato ai fini

della cancellazione della condizione, a norma dell'articolo 2668 del codice civile. Alla

distribuzione della somma ricavata si provvede in conformità alle disposizioni di cui al libro terzo,

titolo II, capo IV del codice di procedura civile.

11. Il comma 10 si applica, in quanto compatibile, anche quando il diritto reale immobiliare e'

sottoposto ad esecuzione a norma delle disposizioni di cui al decreto del Presidente della

Repubblica 29 settembre 1973, n. 602.

12. Quando, dopo la trascrizione del patto di cui al comma 1, sopravviene il fallimento del

titolare del diritto reale immobiliare, il creditore, se è stato ammesso al passivo, può fare istanza al

giudice delegato perché', sentiti il curatore e il comitato dei creditori, provveda a norma del

comma 10, in quanto compatibile.

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13. Entro trenta giorni dall'estinzione dell'obbligazione garantita il creditore provvede, mediante

atto notarile, a dare pubblicità nei registri immobiliari del mancato definitivo avveramento

della condizione sospensiva.».

10. FIDEIUSSIONE, CONTRATTO AUTONOMO DI GARANZIA E POLIZZE

FIDEIUSSORIE

NOTA INTRODUTTIVA

Le tre sentenze che seguono affrontano il tema delle garanzie personali, predisposte dal legislatore a

tutela degli interessi del creditore, in un’ottica di rafforzamento delle sue ragioni in caso di

inadempimento del debitore principale.

In particolare, la Cassazione compie un’indagine approfondita delle singole fattispecie atipiche

(polizze fideiussorie e contratto autonomo di garanzia), mettendo in risalto la diversità causale

rispetto all’archetipo legale rappresentato dalla fideiussione.

A tal proposito, il perseguimento di una funzione prettamente indennitaria da parte delle citate

garanzie atipiche, nonché l’assenza del rapporto di accessorietà tra obbligazione principale e

obbligazione garantita, determinano importanti differenze di disciplina (l’assenza del rapporto di

accessorietà, ad esempio, impedisce al garante di opporre al creditore le eccezioni fondate sul

rapporto fondamentale intercorrente con il debitore principale).

10.1 Cass. civ., 14 giugno 2016, n. 12152

In materia di contratto autonomo di garanzia, la previsione, nel testo contrattuale, della clausola

"a prima richiesta e senza eccezioni" fa presumere l'assenza dell'accessorietà della garanzia, che,

tuttavia, può derivarsi, in difetto, anche dal tenore dell'accordo (nella specie, in presenza di una

clausola che fissava al garante il ristretto termine trenta giorni per provvedere al pagamento dietro

richiesta del creditore, insufficiente per l'effettiva opposizione delle eccezioni, e, al contempo,

escludeva la possibilità per il debitore principale di eccepire alcunché al garante in merito al

pagamento stesso).

(omissis)

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3. - Entrambi i motivi - da scrutinarsi congiuntamente per la loro stretta connessione non possono

trovare accoglimento.

3.1. - Alla luce della giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi a partire dall'arresto di cui alla

sentenza delle Sezioni Unite n. 3947 del 18 febbraio 2010 (orientamento dal quale il Collegio non

intende discostarsi, non essendo state esibite contrarie ragioni decisive), «il contratto autonomo di

garanzia (cd. Garantlevertrag), espressione dell'autonomia negoziale ex art. 1322 cod. civ., ha

la funzione di tenere indenne il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento della

prestazione gravante sul debitore principale, che può riguardare anche un fare infungibile

(qual è l'obbligazione dell'appaltatore), contrariamente al contratto del fideiussore, il quale

garantisce l'adempimento della medesima obbligazione principale altrui (attesa l'identità tra

prestazione del debitore principale e prestazione dovuta dal garante); inoltre, la causa concreta

del contratto autonomo è quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico

connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, sia essa dipesa da inadempimento

colpevole oppure no, mentre con la fideiussione, nella quale solamente ricorre l'elemento

dell'accessorietà, è tutelato l'interesse all'esatto adempimento della medesima prestazione

principale.

Ne deriva che, mentre il fideiussore è un "vicario" del debitore, l'obbligazione del garante

autonomo si pone in via del tutto autonoma rispetto all'obbligo primario di prestazione,

essendo qualitativamente diversa da quella garantita, perché non necessariamente

sovrapponibile ad essa e non rivolta all'adempimento del debito principale, bensì ad indennizzare il

creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata,

sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore».

Posta tale funzione, il contratto autonomo di garanzia, dunque, si caratterizza rispetto alla

fideiussione per l'assenza dell'accessorietà della garanzia, derivante dall'esclusione della

facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni spettanti al debitore principale, in

deroga all'art. 1945 c.c., dalla conseguente preclusione del debitore a chiedere che il garante

opponga al creditore garantito le eccezioni nascenti dal rapporto principale, nonché dalla

proponibilità di tali eccezioni al garante successivamente al pagamento effettuato da quest'ultimo

(tra le altre, Cass., 31 luglio 2015, n. 16213), là dove l'accessorietà della garanzia fideiussoria

postula, invece, che il garante ha l'onere di preavvisare il debitore principale della richiesta di

pagamento del creditore, ai sensi dell'art. 1952, secondo comma, cod. civ., all'evidente scopo di

porre il debitore in condizione di opporsi al pagamento, qualora esistano eccezioni da far valere nei

confronti del creditore (Casa., 17 giugno 2013, n. 15108).

Peraltro, se l'inserimento in un contratto di fideiussione di una clausola di pagamento "a prima

richiesta e senza eccezioni" vale di per sé a qualificare il negozio come contratto autonomo di

garanzia, in quanto incompatibile con il principio di accessorietà che caratterizza il contratto di

fideiussione, salvo quando vi sia un'evidente discrasia rispetto all'intero contenuto della

convenzione negoziale (così Cass., sez. un., 18 febbraio 2010, n. 3947), tuttavia, in presenza di

elementi - quali quelli in precedenza indicati che conducano comunque ad una qualificazione del

negozio in termini di garanzia autonoma, l'assenza di formule come quella anzidetta non è elemento

decisivo in senso contrario. L'accertamento relativo alla distinzione, in concreto, tra contratto di

fideiussione e contratto autonomo di garanzia è, in ogni caso, questione riservata al giudice di

merito ed è censurabile in sede di legittimità esclusivamente per violazione dei canoni legali di

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ermeneutica ovvero per vizio di motivazione (tra le tante, Cass., 15 febbraio 2011, n. 3678).

(omissis)

10.2 Cassazione civile, sez. I, sentenza 31 luglio 2015 n° 16213

Il contratto autonomo di garanzia si caratterizza rispetto alla fideiussione per l'assenza

dell'accessorietà della garanzia, derivante dall'esclusione della facoltà del garante di opporre al

creditore le eccezioni spettanti al debitore principale, in deroga all'art. 1945 c.c., e dalla

conseguente preclusione del debitore a chiedere che il garante opponga al creditore garantito le

eccezioni nascenti dal rapporto principale, nonché dalla proponibilità di tali eccezioni al garante

successivamente al pagamento effettuato da quest'ultimo.

(omissis)

2. - Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell'art. 1362

c.c., comma 2, art. 1936 c.c., comma 1, artt. 1941 e 1945 cod. civ., anche in relazione all'art. 360

c.p.c., n. 5, osservando che la qualificazione del rapporto come contratto autonomo di garanzia,

anziché come fideiussione, si pone in contrasto con il tenore letterale della polizza, nell'ambito della

quale il richiamo agli obblighi previsti dalla concessione doveva essere riferito all'obbligazione

principale inerente all'utilizzazione del contributo, avente ad oggetto la realizzazione delle opere

previste.

L'estensione della garanzia agli adempimenti successivi, oltre ad essere smentita da

un'interpretazione sistematica del contratto, che prevedeva la liberazione della garanzia a seguito di

collaudi parziali delle opere, si poneva in contrasto con il comportamento successivo delle parti, e

segnatamente con una circolare ministeriale del 24 luglio 1991, con cui l'Agenzia per la promozione

dello sviluppo del Mezzogiorno aveva invitato gli organi di collaudo ad esprimere il loro parere in

ordine all'importo svincolabile a seguito di un collaudo parziale, nonché con la premessa del

disciplinare, che individuava la finalità del contributo nella realizzazione dello stabilimento

industriale.

La qualificazione della fattispecie come contratto autonomo di garanzia, oltre a risultare

incompatibile con la previsione della liberazione del garante in caso di collaudi parziali, postulava

infine l'esclusione della facoltà di opporre le eccezioni spettanti al debitore principale, non

contemplata dalla polizza, in cui la Banca si era limitata a rinunciare alle eccezioni derivanti dal

rapporto di garanzia.

2.1. - Il motivo è infondato.

Nel ricondurre il rapporto intercorrente tra le parti al contratto autonomo di garanzia, anziché alla

fideiussione, la sentenza impugnata si è correttamente attenuta al principio, costantemente

affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il carattere distintivo della prima figura è

costituito dall'assenza dell'elemento dell'accessorietà della garanzia, derivante dall'esclusione della

facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni spettanti al debitore principale, in deroga alla

regola essenziale posta per la fideiussione dall'art. 1945 cod. civ., e dalla conseguente preclusione

della legittimazione del debitore a chiedere che il garante opponga al creditore garantito le eccezioni

nascenti dal rapporto principale, nonché della proponibilità di tali eccezioni al garante

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successivamente al pagamento da quest'ultimo effettuato (cfr. Cass., Sez. 3, 23 giugno 2009, n.

14621; 9 novembre 2006, n. 23900; Cass., Sez. 1, 17 gennaio 2008, n. 903).

Ai fini della predetta qualificazione, la Corte territoriale ha peraltro ritenuto non decisiva la

previsione dell'obbligo del garante di pagare "a semplice richiesta" o "a prima richiesta" del

creditore, in tal modo conformandosi ad un orientamento all'epoca diffuso, secondo cui le predette

espressioni potevano riferirsi sia a forme di garanzia svincolate dal rapporto garantito (e quindi

autonome), sia a garanzie, come quelle fideiussorie, caratterizzate da un vincolo di accessorietà più

o meno accentuato nei riguardi dell'obbligazione garantita, sia infine a clausole il cui inserimento

nel contratto di garanzia è finalizzato, nella comune intenzione dei contraenti, non già

all'esclusione, ma a una deroga parziale della disciplina dettata dall'art. 1957 cod. civ., esonerando il

creditore dall'onere di proporre azione giudiziaria (cfr. Cass., Sez. 3, 8 gennaio 2010, n. 84; 19

marzo 2007, n. 6450; 12 dicembre 2005, n. 27333).

In quest'ottica, la sentenza impugnata non si è limitata ad evidenziare il tenore letterale delle

clausole contrattuali, in particolare di quella che poneva a carico del garante l'obbligo di pagare

entro trenta giorni dal ricevimento della richiesta scritta del Ministero, senza necessità della prova

dell'inadempimento e del consenso della debitrice principale, e con l'espressa rinuncia a proporre

qualsiasi eccezione.

Pur affermando che, in quanto volta ad escludere l'onere del preavviso previsto dall'art. 1952 cod.

civ. e la conseguente opponibilità al garante delle eccezioni spettanti al debitore principale, tale

pattuizione si configurava come una deroga al principio dell'accessorietà dell'obbligazione

fideiussoria, la Corte territoriale ha tenuto conto anche delle indicazioni emergenti dal contenuto

complessivo del contratto e dal comportamento tenuto dalle parti, ponendo in risalto il collegamento

esistente tra il richiamo agli obblighi imposti alla debitrice principale dal disciplinare allegato alla

concessione e gli obiettivi perseguiti dal legislatore attraverso la previsione del contributo, nonché i

limiti quantitativi cui era sottoposta la riduzione del garante, e desumendo da tali elementi che la

garanzia non aveva ad oggetto esclusivamente l'adempimento dell'obbligo di realizzare lo

stabilimento industriale, ma si estendeva anche al mantenimento dei livelli occupazionali previsti

dal progetto approvato.

(omissis)

La rilevanza dei predetti elementi, ai fini della qualificazione della fattispecie, dev'essere

d'altronde ridimensionata notevolmente alla luce della sentenza 18 febbraio 2010, n. 3947,

sopravvenuta alla pronuncia di quella impugnata, con cui le Sezioni Unite di questa Corte,

componendo il contrasto giurisprudenziale insorto in ordine all'idoneità della clausola di

pagamento "a semplice richiesta" o "a prima richiesta" a determinare la trasformazione della

fideiussione in contratto autonomo di garanzia, hanno fatto proprio l'orientamento contrario

a quello cui si è uniformata la Corte distrettuale, affermando l'idoneità della predetta clausola

ad orientare l'interprete verso l'approdo alla fattispecie del Garantievertrag, salva l'evidente

discrasia con il contenuto residuo del contratto, riconoscendo a tale soluzione l'ineliminabile

pregio di consentire ex ante la necessaria prevedibilità della decisione giudiziaria in caso di

controversia, nonché di restringere le maglie di aleatori spazi ermeneutici sovente forieri di

poco comprensibili disparità di decisioni a parità di situazioni esaminate (cfr. al riguardo

anche Cass., Sez. 3, 20 ottobre 2014, n. 22233; 27 settembre 2011, n. 19736).

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(omissis)

10.3 Corte di cassazione, sez. III civile, sentenza 12 febbraio 2015, n. 2762

Al contratto autonomo di garanzia, in difetto di diversa previsione da parte dei contraenti, non si

applica la norma di cui all'art. 1957 c.c. sull'onere del creditore garantito di far valere

tempestivamente le sue ragioni nei confronti del debitore principale, atteso che su detta norma si

fonda l'accessorietà dell'obbligazione fideiussoria, instaurando essa un collegamento tra la

scadenza dell'obbligazione di garanzia e quella dell'obbligazione principale.

(omissis)

La doglianza in entrambi i profili merita attenzione.

A riguardo, corre l'obbligo di sottolineare preliminarmente che, come ha già avuto modo di statuire

questa Corte con un orientamento, cui questo Collegio intende aderire, 'l'interpretazione del

contratto, dal punto di vista strutturale, si collega anche alla sua qualificazione e la relativa

complessa operazione ermeneutica si articola in tre distinte fasi: a) la prima consiste nella ricerca

della comune volontà dei contraenti; b) la seconda risiede nella individuazione del modello della

fattispecie legale; c) l'ultima è riconducibile al giudizio di rilevanza giuridica qualificante gli

elementi di fatto concretamente accertati.

Le ultime due fasi, che sono le sole che si risolvono nell'applicazione di norme di diritto, possono

essere liberamente censurate in sede di legittimità, mentre la prima - che configura un tipo di

accertamento che è riservato al giudice di merito, poiché si traduce in un'indagine di fatto a lui

affidata in via esclusiva - è normalmente incensurabile nella suddetta sede, salvo che nelle ipotesi di

motivazione inadeguata o di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, così come

previsti negli artt. 1362 e seguenti cod. civ. (Cass. n. 27000/05).

Ciò premesso, torna utile richiamare l'attenzione sul rilievo che le ragioni della doglianza sono state

articolate dalla ricorrente attraverso tre profili fondamentali, che, a suo avviso, escludevano

l'accessorietà del contratto di garanzia rispetto al contratto di locazione finanziaria.

Ed invero, la Corte - così scrive in sintesi la società ricorrente – aveva trascurato che nella specie il

patto di riacquisto obbligava i garanti a) al pagamento anche 'nell'eventualità di mancata

conclusione del contratto; b) a pagare 'immediatamente' al ricevimento della fattura, in deroga al

disposto di cui all'art. 1952 e 1945 cc; c) a corrispondere l'importo dovuto persino 'in caso di

distruzione, perdita o irrecuperabilità dei beni' oggetto del contratto di leasing.

(omissis)

Ciò posto, mette conto di sottolineare che la causa concreta del contratto autonomo di garanzia è

quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata

esecuzione di una prestazione contrattuale, sia essa dipesa da inadempimento colpevole oppure no

(v. Sez. Un. n. 3947/2010 in motivazione), assicurando comunque la soddisfazione dell'interesse

economico del beneficiario compromesso dall'inadempimento (v. Cass. n. 2377/2008), ipotesi

quest'ultima logicamente equiparabile a quella della mancata conclusione di un contratto.

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Infatti, in quest'ultima ipotesi, pur non risultando dovuto il pagamento in relazione al rapporto di

base che non si è trasfuso in un contratto, il garante resta obbligato a soddisfare l'interesse

economico della società di leasing, a prova dell'assoluta autonomia dei due rapporti.

Ed è appena il caso di osservare che la carenza dell'elemento dell'accessorietà, che costituisce la

caratteristica fondamentale del contratto autonomo di garanzia, vale a distinguerlo da quello

di fideiussione di cui agli artt. 1936 e ss cod. civ..

Analogamente, anche l'obbligo assunto dai garanti di pagare 'immediatamente', al ricevimento della

fattura da parte della società di leasing, il prezzo di riacquisto dei beni costituisce indice di deroga

alla normale accessorietà della garanzia fideiussoria, nella quale invece il garante ha l'onere di

preavvisare il debitore principale della richiesta di pagamento del creditore, ai sensi dell'art. 1952,

secondo comma, cod. civ., all'evidente scopo di porre il debitore in condizione di opporsi al

pagamento, qualora esistano eccezioni da far valere nei confronti del creditore.

Peraltro, come hanno già avuto modo di sottolineare le Sezioni Unite, nella citata sentenza

n.3947/2010 in motivazione, la clausola 'a prima richiesta e senza eccezioni' dovrebbe di per sé

orientare l'interprete verso l'approdo alla autonoma fattispecie del Garantievertrag.

Ugualmente, l'assunzione, da parte del garante, di corrispondere l'importo dovuto anche in caso di

distruzione, perdita o irrecuperabilità dei beni, oggetto del contratto di leasing, costituisce ulteriore

testimonianza dell'autonomia del rapporto di garanzia rispetto al rapporto base, contrariamente a

quanto accade per la fideiussione, nella misura in cui i garanti, come risulta dal testo dei patti di

riacquisto, non accennano in tale scrittura, neppure per implicito, alla facoltà di opporre eccezioni

fondate sul rapporto di base, si impegnano a pagare indipendentemente da ogni responsabilità della

beneficiarla riguardo al recupero dei beni, oggetto del contratto di leasing ('nessuna responsabilità

viene comunque da voi assunta circa il predetto recupero, restando in ogni caso come sopra

determinato l'importo da noi a Voi dovuto, che vi sarà prontamente corrisposto al ricevimento della

vostra fattura') e soprattutto consentono la sopravvivenza della garanzia in oggetto anche nell'ipotesi

in cui venga a mancare l'oggetto stesso del contratto di leasing, accettando di corrispondere

prontamente il prezzo di riacquisto dei beni oggetto del contratto di locazione 'anche in caso di

distruzione, perdita o irrecuperabilità dei beni'.

(omissis)

Pertanto, dovendosi ritenere sulla scorta delle precedenti considerazioni che nella fattispecie si

verte in tema di contratto autonomo di garanzia, non può applicarsi la norma dell'art. 1957

cod. civ. sull'onere del creditore garantito di far valere tempestivamente le sue ragioni nei

confronti del debitore principale, poiché tale disposizione, collegata al carattere accessorio

della obbligazione fideiussoria, instaura un collegamento necessario e ineludibile tra la

scadenza dell'obbligazione di garanzia e quella dell'obbligazione principale, e come tale

rientra tra quelle su cui si fonda l'accessorietà del vincolo fideiussorio, per ciò solo

inapplicabile ad un'obbligazione di garanzia autonoma (v. Sez. Un. n. 3947/2010 in

motivazione).

(omissis)

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10.4 Cassazione, Sezioni Unite, 18 febbraio 2010, n. 3947

La polizza fideiussoria stipulata a garanzia delle obbligazioni assunte da un appaltatore assurge a

garanzia atipica, a cagione dell'insostituibilità della obbligazione principale, onde il creditore può

pretendere dal garante solo un risarcimento, prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto.

Con la precisazione, peraltro, della invalidità della polizza stessa se intervenuta successivamente

rispetto all'inadempimento delle obbligazioni garantite.

1. La giurisprudenza di questa corte ha seguito, nel tempo, itinerari interpretativi non sempre

univoci sul tema dei rapporti tra fideiussione e cd. Garantievertrag, pur avendo di recente

manifestato una sempre maggiore consonanza di pensiero nella strutturazione di una sempre più

indispensabile actio finium regundorum tra le due fattispecie.

Già all'indomani della pronuncia di Cass. ss. uu. n. 7341 del 1987, nella quale ancora nebulosa

apparve, ai commentatori e agli interpreti più accorti, la distinzione tra contratto autonomo di

garanzia e fideiussione con clausola solve et repete, le linee portanti dei due istituti verranno più

pensosamente esplorate al sempre più nitido delinearsi dei caratteri tipici del contratto autonomo di

garanzia, che (sorto alla fine dell'800 in Inghilterra e in Germania per soddisfare evidenti e pressanti

esigenze di semplificazione del commercio internazionale), approda, non senza contrasti, nel nostro

Paese con indiscutibile ritardo, attesa la problematica compatibilità della nuova fattispecie con i

tradizionali parametri cui dottrina prevalente e giurisprudenza pressoché unanime erano avvezzi a

far riferimento in materia negoziale: da un lato, il dogma della accessorietà "necessaria" del negozio

di garanzia titolato, dall'altro, il requisito della causa negotii tralaticiamente intesa come funzione

"economico sociale" del negozio - quantomeno fino alla recente svolta di questa corte di legittimità

di cui alla sentenza 10490/2006, autorevolmente confermata dalle sezioni unite, con la sentenza n.

26972/2008.

Incertezze e disarmonie interpretative trassero linfa dalla peculiarità di una fattispecie felicemente

definita (Trib. Torino, 29 agosto 2002), come "un articolato coacervo di rapporti nascenti da

autonome pattuizioni tra il destinatario della prestazione (e beneficiario della garanzia), il garante

(sovente una istituto di credito), e il debitore della prestazione (ordinante la garanzia atipica)", in

attuazione di una complessa operazione economica destinata a dipanarsi, sotto il profilo della

struttura negoziale, attraverso una scansione diacronica di rapporti, il primo (di valuta), corrente tra

debitore e creditore, tra cui viene originariamente pattuito l'adempimento di una certa prestazione

del primo nei confronti dell'altro, il secondo (di provvista), destinato a intervenire tra debitore e

futuro garante, con esso pattuendosi l'impegno di quest'ultimo a garantire il creditore del primo

rapporto, il terzo nascente, infine, tra creditore e garante, con quest'ultimo senz'altro obbligato ad

adempiere alla prestazione del debitore a semplice richiesta del primo nel caso di inadempimento

del secondo (rapporti ai quali non risulterà poi inusuale l'aggiunta di una quarta convenzione

negoziale collegata, quella tra un secondo istituto di credito controgarante e banca prima garante,

avente lo stesso contenuto del primo rapporto di garanzia).

L'elemento caratterizzante della fattispecie in esame viene individuato nell'impegno del garante a

pagare illico et immediate, senza alcuna facoltà di opporre al creditore/beneficiario le eccezioni

relative ai rapporti di valuta e di provvista, in deroga agli artt. 1936, 1941 e 1945 c.c.,

caratterizzanti, di converso, la garanzia fideiussoria.

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Elisione del vincolo di accessorietà e scissione della garanzia dal rapporto di valuta caratterizzano

sul piano funzionale il Garantievertrag, la cui causa concreta viene correttamente individuata in

quella di assicurare la libera circolazione dei capitali e il pronto soddisfacimento dell'interesse del

beneficiario (ovvero ancora in quella di sottrarre il creditore al rischio dell'inadempimento,

trasferito nei fatti su di un altro soggetto, "istituzionalmente" solvibile), il quale può così porre

affidamento su di una rapida e sollecita escussione di una controparte affidabile, senza il rischio di

vedersi opporre, in sede processuale, il regime tipico delle eccezioni fideiussorie.

E' in tali sensi che par lecito discorrere, a proposito del contratto atipico di garanzia, di una funzione

di tipo "cauzionale" - mentre la sua più frequente utilizzazione rispetto al deposito di una vera e

propria cauzione trae linfa proprio in ragione della sua minore onerosità e della possibilità di evitare

una lunga e improduttiva immobilizzazione di capitali (conseguenza ineludibile del deposito

cauzionale): è in conseguenza di tali aspetti funzionali che la garanzia muta "geneticamente" da

vicenda lato sensu fideiussoria in fattispecie atipica che, ai sensi dell'art. 1322 c.c., comma 2,

persegue un interesse certamente "meritevole di tutela", identificabile nell'esigenza condivisa di

assicurare l'integrale soddisfacimento dell'interesse economico del beneficiario vulnerato

dall'inadempimento del debitore originario e, di conseguenza, di conferire maggiore certezza allo

scorrere dei rapporti economici (specie transnazionali).

2. Emerge così, in via definitiva, sotto il profilo causale, la disarmonia morfologica e funzionale con

la fideiussione (volta a garantire l'adempimento di un debito altrui), sopravvivendo resti di

omogeneità tra i due "tipi" negoziali soltanto nella misura in cui, attorno alle due le fattispecie,

orbiti ancora il concetto di garanzia, pur nelle non riconciliabili differenze di gradazioni "che il

rapporto con la garanzia stessa può assumere lungo lo spettro, unico, che conduce dalla accessorietà

alla autonomia e che delinea il Garantievertrag entro ben determinati limiti di operatività: da un

lato, un limite iniziale, costituito (soltanto) dalla illiceità della causa del rapporto di valuta,

dall'altro, un limite funzionale, rappresentato dall'abuso del diritto da parte del beneficiario, la cd.

exceptio doli generalis seu presentis, che si verifica qualora la richiesta appaia fraudolenta e con

esclusione della buona fede del beneficiario", come, di recente, un'attenta dottrina non ha mancato

di osservare, aggiungendo ancora come l'indagine sulla volontà dei contraenti andrebbe più

propriamente condotta lungo il sentiero ermeneutico dell'accertamento della carenza dell'elemento

dell'accessorietà, destinato ad emergere, in concreto, attraverso l'adozione di un complesso di regole

interpretative, testuali ed extratestuali, ritenendosi, in particolare, che la clausola "a prima richiesta"

o "a semplice richiesta" possa alternativamente rappresentare diversi "tipi" funzionali, a grado di

intensità crescente: il primo, rigorosamente procedimentale, volto alla sola inversione dell'onere

probatorio; il secondo, determinativo dell'effetto di solve et repete, per ciò solo del tutto inscritto

(ancora) nell'orbita del negozio fideiussorio; il terzo, di sostanziale separazione del diritto

all'adempimento della autonoma obbligazione di garanzia rispetto al contratto sottostante.

Largamente prevalente, in proposito, appare l'orientamento giurisprudenziale (avallato dalla dottrina

maggioritaria), predicativo della decisiva rilevanza di clausole che sanciscano l'impossibilità, per il

garante, di opporre al creditore le eccezioni relative al rapporto di base che spettano al debitore

principale (così, tra le altre, Cass. 31 luglio 2002, n. 11368; Cass. 20 luglio 2002, n. 10637; Cass. 7

marzo 2002, n. 3326; Cass. 19 giugno 2001, n. 8324; Cass. 17 maggio 2001, n. 6757; Cass. 1

ottobre 1999, n. 10684; Cass. 21 aprile 1999, n. 3964; Cass. 6 aprile 1998, n. 3552), mentre alcune

pronunce di merito fondano la ricostruzione del Garantievertrag su altri elementi del tessuto

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negoziale, quali la previsione di un termine breve entro cui il garante è obbligato al pagamento, la

decorrenza di tale termine dal ricevimento della richiesta del beneficiario, l'espressa esclusione del

beneficio della preventiva escussione (ex aliis, Trib. Milano 22 ottobre 2001).

Criterio interpretativo utile ad orientare l'interprete verso l'autonomia della vicenda di garanzia

divisata dalle parti riposa ancora sull'individuazione - nell'ambito di una lettura complessiva delle

singole convenzioni negoziali - di una sua eventuale funzione "cauzionale": la peculiarità propria

del Garantievertrag è difatti quella di consentire al creditore di escutere il garante con la stessa,

tempestiva efficacia con cui egli potrebbe far proprio un versamento cauzionale.

La funzione cauzionale sarebbe soddisfatta, e l'autonomia della garanzia sarebbe conseguentemente

rinvenuta, secondo alcune pronunce di questa corte, tutte le volte che la relativa convenzione

attribuisca al creditore la facoltà di procedere ad immediata riscossione delle somme, a prescindere

dal rapporto garantito, realizzando così una funzione del tutto simile a quella dell'incameramento di

una somma di denaro a titolo di cauzione (Cass. 17 maggio 2001, n. 6757; Cass. 21 aprile 1999, n.

3964; Cass. 6 aprile 1998, predicative di un principio di diritto condiviso da autorevole dottrina).

Con particolare riguardo alle polizze fideiussorie (sulle quali, funditus, tra le altre, Cass. 11 ottobre

1994, n. 8295, pres. Rossi, rel. Bibolini, mentre l'orientamento tradizionale, che le inquadrava tout

court nell'ambito della fideiussione, sembra risalire a Cass. 17 giugno 1957, n. 2299), si è più volte

sottolineato come esse concretino un rapporto di un soggetto (una compagnia di assicurazioni o un

istituto bancario) che, dietro pagamento di un corrispettivo, si impegna a garantire in favore di altro

soggetto l'adempimento di una determinata obbligazione assunta dal contraente della polizza,

strumento contrattuale che, pur non essendo espressamente disciplinato dal codice del '42, è

menzionato in molte leggi speciali che lo prevedono come forma di garanzia sostitutiva della

cauzione reale, normalmente richiesta per chi stipula - come nel caso di specie - contratti con la

P.A..

Disattesa pressochè unanimemente la ricostruzione volta a riconoscere natura essenzialmente

assicurativa alla fattispecie (risulta essersi pronunciata in tal senso la sola, peraltro assai risalente,

Cass. 9 luglio 1943), la giurisprudenza di questa corte, sia pure nell'ambito dell'orientamento (che

appare ormai minoritario) applicativo delle norme di cui agli artt. 1936 e ss. c.c. ha in passato

ritenuto che la polizza de qua costituisse un sottotipo innominato di fideiussione, giudicando

decisivo a tal fine il permanere della funzione di garanzia dell'adempimento di una altrui

obbligazione, pur in presenza di elementi caratteristici idonei a distinguerla all'interno della

fattispecie tipica della fideiussione come disciplinata dal codice (l'assunzione, cioè, della garanzia

secondo modalità tecnico-economiche dell'assicurazione: tra le meno recenti, Cass. 8 febbraio 1963,

n. 221; 9 giugno 1975, n. 2297; 17 novembre 1982, n. 6155).

La maggior parte delle pronunzie, di converso (Cass. 11 ottobre 1994, n. 8295, poc'anzi citata; Cass.

9 gennaio 1975, n. 1709, in Giust. civ. Mass., 1975; Cass. 14 marzo 1978, n. 1292, ivi, 1978; Cass.

25 ottobre 1984, n. 5450) avrebbe viceversa posto l'accento sul carattere decisamente atipico

della polizza, separando la questione della determinazione della disciplina applicabile al contratto

da quella dell'individuazione del tipo nominato cui la polizza stessa appaia in sè riconducibile - ma

circoscrivendo pur sempre il tema della atipicità alla alternativa tra causa assicurativa e causa

fideiussoria (entrambe compenetrate in parte qua nel contratto); gli aspetti prevalenti, e

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tendenzialmente assorbenti resteranno, però, quelli tipici della fideiussione, con conseguente

applicazione delle norme di cui agli artt. 1936 e ss. c.c..

La dottrina, dal suo canto, ha ritenuto di poter individuare tre tipi di polizze fideiussorie: quelle in

cui l'obbligo del garante dipende dall'esistenza dell'obbligo del debitore principale; quelle in cui

l'obbligo del garante è indipendente da quello del debitore principale; quelle, infine, in cui il

beneficiario, per ottenere il pagamento della garanzia, deve provare, in genere mediante documenti

indicati nella polizza stessa, alcuni fatti attinenti al rapporto principale (in tal guisa ritenendo

applicabile la disciplina della fideiussione alle sole polizze del primo tipo, per effetto della

permanenza del carattere accessorio dell'obbligo assunto dal garante, e iscrivendo le altre nell'orbita

dei contratti autonomi di garanzia).

Quanto alla giurisprudenza più recente, va in limine osservato come, tra le sentenze citate

dall'odierno controricorrente, quelle di cui a Cass. 4 luglio 2003, 10574 (Pres. Genghini, rel.

Marziale) e a Cass. 7.1.2004, n. 52 (Pres. Fiducia, est. Finocchiaro), pur contenendo alcune tra le

più chiare distinzioni tra le fattispecie della fideiussione e del contratto autonomo di garanzia, non

esplorino specificamente il terreno delle polizze fideiussorie: nella prima pronuncia si legge, difatti,

che la deroga all'art. 1957 cod. civ. non può ritenersi implicita nell'inserimento, nella fideiussione,

di una clausola di "pagamento a prima richiesta" o di altra equivalente, sia perchè detta norma è

espressione di un'esigenza di protezione del fideiussore, che prescinde dall'esistenza di un vincolo

di accessorietà tra l'obbligazione di garanzia e quella del debitore principale e può essere

considerata meritevole di tutela anche nelle ipotesi in cui tale collegamento sia assente, sia perchè,

comunque, la presenza di una clausola siffatta non assume rilievo decisivo ai fini della

qualificazione di un negozio come "contratto autonomo di garanzia" o come "fideiussione", potendo

tali espressioni riferirsi sia a forme di garanzia svincolate dal rapporto garantito (e quindi autonome)

sia a garanzie, come quelle fideiussorie, caratterizzate da un vincolo di accessorietà, più o meno

accentuato, nei riguardi dell'obbligazione garantita, sia infine a clausole, il cui inserimento nel

contratto di garanzia è finalizzato, nella comune intenzione dei contraenti, (non all'esclusione, ma) a

una deroga parziale della disciplina dettata dal citato art. 1957, ad esempio limitata alla previsione

che una semplice richiesta scritta sia sufficiente ad escludere l'estinzione della garanzia, esonerando

il creditore dall'onere di proporre azione giudiziaria.

Ne consegue che, non essendo la clausola di pagamento a prima richiesta di per sè incompatibile

con l'applicazione della citata norma codicistica, spetta al giudice di merito accertare, di volta in

volta, la volontà in concreto manifestata dalle parti con la stipulazione della detta clausola; nella

seconda, ancora, che, ai fini della configurabilità di un contratto autonomo di garanzia oppure di un

contratto di fideiussione, non è decisivo l'impiego o meno delle espressioni "a semplice richiesta" o

"a prima richiesta" del creditore, ma la relazione in cui le parti hanno inteso porre l'obbligazione

principale e l'obbligazione di garanzia.

Ne consegue che la carenza dell'elemento dell'accessorietà, che caratterizza il contratto autonomo di

garanzia ("performance bond") e lo differenzia dalla fideiussione, deve necessariamente essere

esplicitata nel contratto con l'impiego di specifica, clausola idonea ad indicare l'esclusione della

facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni spettanti al debitore principale, ivi compresa

l'estinzione del rapporto (con riguardo, peraltro, a vicenda inerente ad un preliminare di vendita con

fideiussione bancaria).

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3. Passando, allora, alla analisi specifica dei più significativi, precedenti di legittimità in subiecta

materia, deve essere considerato:

- Da un canto:

1) il dictum di cui a Cass. 2 aprile 2002, n. 4637 (Pres. Giustiniani, rel. Di Nanni), la quale, dopo la

generale premessa secondo cui il contratto atipico di garanzia autonoma si differenzia dalla

fideiussione per la mancanza dell'elemento dell'accessorietà, nel senso che il garante si impegna a

pagare al beneficiario, senza opporre eccezioni fondate sulla validità o efficacia del rapporto di

base, ha poi escluso, nella specie, che valessero a snaturare il contratto tipico di fideiussione ed a

qualificarlo come garanzia autonoma le diverse previsioni contrattuali di un termine per il

pagamento decorrente dalla richiesta, dell'esclusione del beneficio della preventiva escussione del

debitore principale, della non necessità del consenso di quest'ultimo al pagamento da parte del

garante, del divieto per il garantito a sollevare obiezioni sullo stesso pagamento (nella motivazione

della sentenza, si legge ancora che in particolari rapporti, specie quelli di appalto, nella pratica da

tempo è invalso l'uso che l'appaltatore, per evitare l'immobilizzazione di somme dovute a scopo

cauzionale, presti al committente garanzie bancarie o assicurative di pagamento incondizionato ed

irrevocabile di quanto è da lui dovuto: ciò consente all'appaltatore di non versare la cauzione e

garantisce l'appaltante che conseguirà le sonane a semplice richiesta, purchè siano rispettate le

forme previste, specificandosi, subito dopo, che questo risultato, peraltro, può essere realizzato

anche attraverso una fideiussione, quando il contratto è articolato in modo atipico, prevedendo, ad

esempio, deroghe diverse rispetto alla disciplina della fideiussione, come quella dell'esclusione del

beneficio della preventiva escussione, ex art. 1944 cod. civ., oppure quella dell'esclusione per il

fideiussore di opporre al creditore principale le eccezioni appartenenti al debitore principale, ex art.

1945 c.c.);

2) Le affermazioni di cui a Cass. 6 aprile 1998, n. 3552 (Pres. Iannotta, rel. Preden), ove si legge

che, al contratto cosiddetto di assicurazione fideiussoria (o cauzione fideiussoria o assicurazione

cauzionale), caratterizzato dall'assunzione di un impegno, da parte di una banca o di una compagnia

di assicurazioni, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso di

inadempimento della prestazione a lui dovuta da un terzo, sono applicabili le disposizione della

fideiussione, salvo che sia stato diversamente disposto dalle parti.

Riveste carattere derogatorio rispetto alla disciplina della fideiussione, la clausola con la quale

venga espressamente prevista la possibilità, per il creditore garantito, di esigere dal garante il

pagamento immediato del credito "a semplice richiesta" o "senza eccezioni". In tal caso, in deroga

all'art. 1945, è preclusa al fideiussore l'opponibilità delle eccezioni che potrebbero essere sollevate

dal debitore principale, restando in ogni caso consentito al garante di opporre al beneficiario

"l'exceptio doli", nel caso in cui la richiesta di pagamento immediato risulti "prima facie" abusiva o

fraudolenta.

3) I principi di cui a Cass. 18 maggio 2001 n. 6823 (Pres. Fiducia, rel. Manzo), secondo cui la

cosiddetta assicurazione fideiussoria costituisce una figura contrattuale intermedia tra il versamento

cauzionale e la fideiussione ed è contraddistinta dall'assunzione dell'impegno, da parte (di una

banca o) di una compagnia di assicurazione, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde

garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta dal contraente. E', poi,

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caratterizzata, dalla stessa funzione di garanzia del contratto di fideiussione, per cui è ad essa

applicabile la disciplina legale tipica di questo contratto, ove non derogata dalle parti;

Dall'altro:

1) I principi di diritto affermati da Cass. 21 aprile 1999, n. 3964 (Pres. Iannotta, rel. Lupo) e 19

giugno 2001, n. 8324 (Pres. Greco, rel. Macioce), a mente della quali, ai fini della configurabilità di

un contratto autonomo di garanzia, oppure di un contratto di fideiussione, non è decisivo l'impiego

o meno delle espressioni "a semplice richiesta" o a "prima richiesta del creditore", ma la relazione

in cui le parti hanno inteso porre l'obbligazione principale e l'obbligazione di garanzia.

Infatti la caratteristica fondamentale che distingue il contratto autonomo di garanzia dalla

fideiussione è l'assenza dell'elemento dell'accessorietà della garanzia, insito nel fatto che viene

esclusa la facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni che spettano al debitore

principale, in deroga alla regola essenziale della fideiussione, posta dall'art. 1945 cod. civ. (in

entrambi i casi la fattispecie, analoga a quella oggetto del presente ricorso, aveva a sua volta ad

oggetto una polizza fideiussoria cauzionale: i giudici di merito, con consonanti decisioni,

confermate in punto di diritto da questa corte, ritennero di dover qualificato in termini di autonomia

la convenzione di garanzia stipulata, valorizzando la clausola secondo cui la società garante avrebbe

dovuto pagare entro un breve termine dalla richiesta del creditore, dopo semplice avviso al debitore

principale, di cui non era richiesto il consenso e che nulla avrebbe potuto eccepire in merito al

pagamento, anche in sede di rivalsa del garante, e opinando, in particolare, che la stessa apposizione

di un termine breve precludesse a priori qualsiasi possibilità, per il garante, di sollevare eccezioni in

ordine al rapporto sottostante, non essendo immaginabile, in tempi estremamente ristretti, lo

svolgimento delle necessarie indagini per l'accertamento in concreto dell'inadempimento

dell'appaltatore e della legittimità della richiesta dell'amministrazione garantita).

2) Il recente dictum di cui a Cass. 2008, n. 2377, ove si legge che la polizza fideiussoria prestata a

garanzia dell'obbligazione dell'appaltatore costituisce una garanzia atipica in quanto essa, non

potendo garantire l'adempimento di detta obbligazione, perchè connotata dal carattere

dell'insostituibilità, può semplicemente assicurare la soddisfazione dell'interesse economico del

beneficiario compromesso dall'inadempimento, risultando, quindi, estranea all'ambito delle garanzie

di tipo satisfattorio proprie delle prestazioni fungibili, caratterizzate dall'identità della prestazione,

dal vincolo della solidarietà e dall'accessorietà, ed essendo, invece, riconducibile alla figura della

garanzia di tipo indennitario - cosiddetta "fideiussio indemnitatis" -, in forza della quale il garante è

tenuto soltanto ad indennizzare, o a risarcire, il creditore insoddisfatto. (Nella specie, la S.C. ha

confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto che la polizza fideiussoria oggetto di

controversia dovesse qualificarsi come garanzia atipica in quanto non finalizzata a garantire la

restituzione di un credito erogato dalla Provincia autonoma di Bolzano a fondo perduto per un

progetto di riconversione industriale finalizzato al raggiungimento dei livelli occupazionali ed

economici preventivati, giacché detta restituzione sarebbe stata richiesta dalla medesima Provincia

unicamente nel caso in cui il mutuatario non fosse stato in grado di adempiere al promesso piano di

riconversione industriale).

Un ulteriore passo avanti verso la automaticità dell'equazione Polizza fideiussoria dell'appaltatore =

Garantievertrag sembrerebbe implicitamente potersi rinvenire nella sentenza (ritenuta, in dottrina,

"una inspiegabile rottura, o quantomeno una forzatura, rispetto al precedente indirizzo

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giurisprudenziale") di cui a Cass. 27.5.2002, n. 7712 (Pres. Giuliano, est. Durante), a mente della

quale, ove sia prestata a garanzia dell'obbligazione dell'appaltatore, la polizza fideiussoria non è

configurabile come fideiussione, bensì come garanzia atipica, in quanto l'insostituibilità della

prestazione fa venire meno la solidarietà dell'obbligazione del garante e comporta che il creditore

possa pretendere da lui soltanto un indennizzo o un risarcimento, che è prestazione diversa da quella

alla quale aveva diritto (nella specie la Suprema Corte riconoscerà la validità della polizza

fideiussoria, a mezzo della quale una società assicuratrice aveva garantito l'adempimento delle

obbligazioni dell'appaltatore, sebbene la sua stipulazione fosse stata addirittura posteriore al

verificarsi dell'inadempimento dell'obbligazione garantita. In sede di commento alla pronuncia, non

si è mancato di osservare come quest'ultima ancori la propria ratio decidendi al sillogismo per cui:

1) la polizza fideiussoria - a garanzia delle obbligazioni assunte da un appaltatore - assurge a

garanzia atipica, a cagione dell'insostituibilità della obbligazione principale (premessa maggiore); 2)

il creditore può pretendere dal garante solo un indennizzo o risarcimento, prestazione diversa da

quella alla quale aveva diritto (premessa minore); 3) la polizza fideiussoria è valida anche se

intervenuta successivamente rispetto all'inadempimento delle obbligazioni garantite (conclusione),

sillogismo del quale si dicono condivisibili le premesse (sia quella maggiore che quella minore), ma

non la conclusione.

Va infine ricordato come, ancora più di recente, Cass. 21 febbraio 2008, n, 4446 (Pres. Velia, rel.

Mensitieri), abbia avuto modo di operare una sorta di "sintesi" riepilogativa delle posizioni assunte

da questa corte in tema di polizze fideiussorie, alla luce della quale: al contratto cosiddetto di

assicurazione fideiussoria (o cauzione fideiussoria o assicurazione cauzionale), caratterizzato

dall'assunzione di un impegno, da parte di una banca o di una compagnia di assicurazioni, di pagare

un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione

a lui dovuta da un terzo, sono applicabili le disposizioni della fideiussione, salvo che sia stato

diversamente disposto dalle parti.

La clausola con la quale venga espressamente prevista la possibilità, per il creditore garantito, di

esigere dal garante il pagamento immediato del credito "a semplice richiesta" o "senza eccezioni"

riveste carattere derogatorio rispetto alla disciplina della fideiussione.

Siffatta clausola, risultando incompatibile con detta disciplina, comporta l'inapplicabilità delle

tipiche eccezioni fideiussorie, quali, ad esempio, quelle fondate sugli artt. 1956 e 1957 c.c.,

consentendo l'applicabilità delle sole eccezioni relative al rapporto garante/beneficiario (Cass.

1/6/2004 n. 10486); in tema di garanzia personale, la cosiddetta assicurazione fideiussoria o

cauzione fideiussoria o assicurazione cauzionale, è una figura intermedia tra il versamento

cauzionale e la fideiussione ed è caratterizzata dall'assunzione dell'impegno, da parte di una banca o

di una compagnia di assicurazioni, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo

in caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta dal terzo.

Poichè infatti le norme contenenti la disciplina legale tipica della fideiussione sono applicabili se

non sono espressamente derogate dalle parti, portata derogatoria deve riconoscersi alla clausola

legittima in virtù del principio di autonomia negoziale - con cui le parti abbiano previsto la

possibilità per il creditore garantito di esigere dal garante il pagamento immediato del credito "a

semplice richiesta" o "senza eccezioni", in quanto preclude al garante l'opponibilità al beneficiario

delle eccezioni altrimenti spettanti al debitore principale ai sensi dell'art. 1945 c.c..

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Siffatta clausola, risultando incompatibile con la disciplina della fideiussione, comporta

l'inapplicabilità delle tipiche eccezioni fideiussorie, quali, ad esempio, quelle fondate sugli artt.

1956 e 1957 c.c., consentendo l'applicabilità delle sole eccezioni relative al rapporto

garante/beneficiario (Cass. 14/2/2007. n. 3257); nella ipotesi in cui la durata di una fideiussione sia

correlata non alla scadenza della obbligazione principale ma al suo integrale adempimento, l'azione

del creditore nei confronti del fideiussore non è soggetta al termine di decadenza previsto dall'art.

1957 c.c., (Cass. 27/11/2002 n. 16758; 19/7/1996 n. 6520; 24/3/1994 n. 2827);

la clausola con la quale il fideiussore si impegni a soddisfare il creditore a semplice richiesta del

medesimo configura una valida espressione di autonomia negoziale e da vita ad un contratto atipico

di garanzia, che pur derogando al principio dell'accessorietà, non fa venir meno la connessione tra

rapporto fideiussorio e quello principale (Cass. 12/1/2007 n. 412).

4. Sulla scorta di tali premesse, l'intervento delle sezioni unite deve, da un canto,

definitivamente chiarire i tratti differenziali, sul piano morfologico, funzionale e

interpretativo, tra le fattispecie della fideiussione e del contratto autonomo di garanzia;

dall'altro, risolvere il contrasto circa la natura delle polizze assicurative cd. "fideiussorie", sia

su di un piano generale, sia nella specifica dimensione, più propriamente oggetto di dubbi

ermeneutici, delle convenzioni negoziali stipulate dall'appaltatore di opere pubbliche, con

particolare riguardo, in quest'ultima ipotesi, e per quanto di interesse a fini interpretativi:

(omissis)

5. Il ricorso è fondato.

Avverso la sentenza della corte d'appello di Perugia la ATER propone quattro motivi di

impugnazione, chiedendo all'adita corte di legittimità di interpretare la convenzione negoziale per la

quale è processo in termini di contratto autonomo di garanzia alla luce sia della previsione di un

obbligo di pagamento entro un breve termine (dalla richiesta scritta) - non rilevando, in senso

contrario, il mancato uso di espressioni quali "a semplice" o "a prima richiesta", atteso che

l'interpretazione della convenzione negoziale de qua andrebbe viceversa desunta dalla relazione in

cui le parti hanno inteso porre l'obbligazione principale e quella di garanzia -; sia dell'impegno

assunto dalla ditta debitrice di rimborsare al garante tutte le somme versate, con espressa rinuncia a

sollevare qualsiasi eccezione; sia della normativa pubblicistica all'uopo richiamata - che

considera(va) la polizza come sostitutiva di una cauzione dovuta dall'appaltatore in favore dello

Stato o di altro ente pubblico.

La ricorrente deduce, di conseguenza, l'inapplicabilità, alla fattispecie, della decadenza di cui all'art.

1957 c.c., ovvero la deroga a tale disposizione, dovendo ritenersi che la proposizione dell'istanza

scritta di pagamento sia indice inequivoco della volontà dell'ente creditore di avvalersi della

garanzia.

I motivi di ricorso appaiono meritevoli di accoglimento, per quanto di ragione.

E' opportuno premettere, ad avviso del collegio, alcune più generali premesse in ordine ai rapporti

tra negozio tipico di fideiussione e negozio atipico di garanzia (cd. Garantievertrag) che consentano

di pervenire a soddisfacente soluzione in diritto con riguardo alla vicenda processuale di cui queste

sezioni unite risultano oggi investite.

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6. E' prassi ormai sempre più frequente, nel sottosistema civilistico delle garanzie personali, che

contratti di identico contenuto siano indicati con nomi diversi, come accade, in particolare, in tema

di polizza fideiussoria, denominata, di volta in volta, "assicurazione cauzionale", "cauzione

fideiussoria", "polizza cauzionale", "fideiussione assicurativa".

La polizza fideiussoria è, sotto il profilo genetico, un negozio stipulato dall'appaltatore su

richiesta del committente e in suo favore, strutturalmente articolato secondo lo schema del

contratto a favore di terzo, funzionalmente caratterizzato dall'assunzione dell'impegno, da

parte di una banca o di una compagnia di assicurazione, di pagare un determinato importo al

beneficiario, onde garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta dal

contraente (così, ex aliis, Cass. n. 11261/2005); il terzo non è parte, nè in senso sostanziale nè in

senso formale, del rapporto, e si limita a ricevere gli effetti di una convenzione già costituita ed

operante, sicchè la sua adesione si configura quale mera condicio iuris sospensiva dell'acquisizione

del diritto, rilevabile per facta concludentia, risultando la dichiarazione di volerne profittare

necessaria soltanto per renderla irrevocabile ed immodificabile ex art. 1411 c.c., comma 3 (Cass. n.

23708/2008 e n. 13661/1992); non rileva, difatti, che il contratto sia stato eventualmente stipulato

anche con la partecipazione del creditore garantito, derivandone l'esclusivo effetto di obbligare

direttamente la compagnia assicuratrice nei confronti del creditore stesso ed impedire che

quest'ultimo, quale beneficiario della prestazione negoziata a suo favore dal debitore, possa

dichiarare di non aderire alla stipulazione secondo la disciplina del contratto a favore del terzo

(Cass. n. 7766/1990), anche se, alla forma giuridica bilaterale della stipulazione - in relazione alla

quale il committente è terzo - corrisponde un'operazione economica sostanzialmente trilatera, in cui

l'unica parte effettivamente interessata alla validità del contratto è il beneficiario della polizza, che

ad essa condiziona l'erogazione delle sue prestazioni, potendo lo stipulante appaltatore anche non

avere interesse all'effettiva validità ed efficacia dell'assicurazione (così, ancora, Cass. n.

23708/2008).

Deve, pertanto, convenirsi con la più attenta dottrina che ricostruisce la fattispecie

riconoscendo al debitore principale la qualità di parte del contratto - per assumerne la veste

di stipulante -, al garante la veste di promittente, al creditore principale quella di (terzo)

beneficiario (con la precisazione che, nella normalità dei casi, il testo della garanzia viene in realtà

imposto dal beneficiario, il quale non lascia al debitore ordinante margini di negoziazione in ordine

alle condizioni contrattuali: nè è escluso che il garante, su incarico del cliente-debitore, stipuli il

contratto direttamente con il creditore).

E' questa una prima, essenziale differenza morfologica rispetto allo schema tipico delle

convenzioni fideiussorie, che, caratterizzate dalla funzione di garantire un'obbligazione altrui,

intercorrono esclusivamente tra il fideiussore e il creditore (così, tra le tante, Cass. n.

1525/1984, che non manca di sottolineare come, ai sensi dell'art. 1936 c.c., comma 2, la

fideiussione sia efficace anche se il debitore non ne ha conoscenza: la differenza parrebbe attenuarsi

nel dictum di cui a Cass. n. 3940/1995, a mente della quale la fideiussione "può anche essere

stipulata con l'intervento del debitore o tra quest'ultimo ed il garante, in modo da configurare un

contratto a favore del terzo creditore che, dichiarando di voler profittarne, rende irrevocabile la

stipulazione, ai sensi dell'art. 1411 c.c.", secondo una ricostruzione strutturale della fattispecie che

parrebbe peraltro evocare, più propriamente, l'istituto dell'accollo cumulativo esterno, oltre che

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confliggere con il preciso dictum normativo di cui all'art. 1936 c.c., che identifica le parti del

contratto nel creditore e nel garante).

Altra differenza funzionale rispetto alla fideiussione è costituita dall'essere la polizza o

assicurazione fideiussoria "necessariamente onerosa" in quanto assunta dall'assicuratore in

corrispettivo del pagamento di un premio (Cass. n. 221/1963), mentre la fideiussione può

essere anche a titolo gratuito (nel qual caso il contratto, ponendo obbligazioni a carico di una

sola parte, si perfeziona in forza del disposto dell'art. 1333 c.c.(Cass. n. 9468/1987).

7. Quanto alla natura giuridica delle polizze, la giurisprudenza di questa corte le ha diacronicamente

considerate, sotto l'aspetto tipologico, di volta in volta come sottotipo innominato di fideiussione

(Cass. n. 221/1963), come figura contrattuale intermedia fra il versamento cauzionale e la

fideiussione, come contratto atipico, come contratto misto risultante dalla fusione di elementi propri

di vari contratti (tra le tante: Cass. n. 2899/1968; n. 1292/1978; n. 6155/1982; n. 5981/1986; n.

6499/1990; n. 13661/1992; n. 3940/1995; n. 6823/2001; n. 11261/2005; n. 3257/2007; n.

14853/2007; n. 11890/2008, in motivazione; n. 12871/2009).

In particolare, diversamente dalla cauzione, la prestazione viene assunta da un terzo (garante) e non

dallo stesso debitore obbligato, mentre manca il versamento anticipato di una somma di denaro, così

evitandosi l'effetto negativo di una lunga e improduttiva immobilizzazione di capitali; diversamente

dalla fideiussione, l'impegno del garante è di estensione tale da consentire al creditore principale di

soddisfarsi in via di autotutela, cioè di realizzare il suo credito sui beni oggetto della garanzia

(seppur non tramite l'incameramento della cauzione ma) mediante un atto unilaterale costituito da

una richiesta della somma assicurata (in caso di inserimento della clausola "a semplice" o "prima

richiesta"), all'esito di un accertamento unilaterale ed insindacabile dello stesso creditore in ordine

alla ricorrenza delle condizioni previste per l'escussione.

Va altresì sottolineato che, pur essendo prestata spesso da un'impresa di assicurazione, la

funzione della polizza non consiste nel trasferimento o nella copertura di un rischio - che

assume un rilievo assai marginale, essendo la prestazione del garante svincolata da un preciso

ed obiettivo accertamento del suo presupposto (il quale è demandato allo stesso beneficiario) -

ma in quella di garantire al beneficiario l'adempimento di obblighi assunti dallo stesso

contraente, anche quando l'inadempimento sia dovuto a volontà dello stesso e questi sia

solvibile.

8. Secondo un primo orientamento della giurisprudenza di questa corte, poichè la causa del negozio

de quo consiste sostanzialmente nel garantire l'adempimento ("sostitutivo o di regresso": Cass. n.

1292/1978 cit.) della prestazione dovuta al creditore da un terzo, troverebbe applicazione la

disciplina legale tipica della fideiussione, ove non espressamente derogata, potendo le parti, nella

loro autonomia contrattuale, richiamare le norme sull'assicurazione per quanto riguarda i rapporti

tra il debitore contraente e l'assicuratore (Cass. n. 5450/1984 ritiene, pertanto, applicabili le norme

sulla fideiussione, considerata come rapporto tipico "prevalente", e in particolare l'art. 1941 c.c.

secondo cui la fideiussione non può eccedere ciò che è dovuto dal debitore nè può essere prestata a

condizioni più onerose; mentre Cass. n. 11038/1991 e n. 6757/2001 si esprimono nel senso che,

nelle ipotesi di dichiarazioni inesatte o reticenti del contraente-debitore in ordine alla formazione

del rapporto principale, non trovi applicazione la disciplina dell'art. 1892 c.c. sull'assicurazione,

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dovendo la validità del contratto essere piuttosto valutata alla stregua delle regole dell'annullabilità

per errore o dolo.

Peraltro, in senso opposto, Cass. n. 2297/1975, n. 3457/1981, n. 7028/1983, n. 14656/2002 si

esprimono nel senso dell'applicabilità della normativa sull'assicurazione, in particolare dell'art. 2952

c.c., comma 1, quanto alla prescrizione annuale delle rate di premio).

8.1. - Di segno speculare, invece, l'orientamento secondo il quale (pur ritenendosi la convenzione in

parola - tanto se diretta a garantire al beneficiario l'adempimento dell'obbligazione originariamente

assunta verso di lui dal contraente della polizza quanto se volta ad assicurargli la somma dovuta per

inadempimento o inesatto adempimento funzionale a garantire un obbligo altrui secondo lo schema

previsto dall'art. 1936 cod. civ., affiancando al primo un secondo debitore di pari o diverso grado),

la polizza fideiussoria, se prestata a garanzia dell'obbligazione dell'appaltatore, non ripete i caratteri

morfologici della fideiussione, ma si configura come garanzia atipica (cd. fideiussio indemnitatis),

in quanto l'infungibilità della prestazione dell'appaltatore fa venir meno la solidarietà

dell'obbligazione del garante e comporta che il creditore può pretendere da lui solo un indennizzo o

un risarcimento, che è prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto (così, tra le altre, Cass.

n. 7712/2002; Cass. n. 2377/2008).

Questo secondo orientamento trae linfa dalla considerazione per cui elemento "normale ed

essenziale" del vincolo fideiussorio è pur sempre l'identità con l'obbligazione principale nella sua

stessa quantità e nelle sue stesse condizioni. Dal suo canto, autorevole dottrina evidenzia che la

polizza non mira a garantire l'adempimento dell'obbligazione del debitore principale (come

accade nella fideiussione), ma ad assicurare al creditore la presenza di un soggetto solvibile in

grado di tenerlo indenne dall'eventuale inadempimento del medesimo, ciò che dimostrerebbe

il venir meno di uno degli elementi strutturali della fideiussione, vale a dire l'accessorietà

dell'obbligazione del garante rispetto a quella del debitore principale, con conseguente

slittamento verso il modello del contratto autonomo di garanzia e inadeguatezza del modello

legale fideiussorio (erroneamente applicato secondo la teoria della prevalenza o dell'assorbimento,

ove la disciplina normativa viene individuata attraverso l'incorporazione del contratto nel tipo

prevalente o che più gli assomiglia).

La medesima dottrina propone, così, l'applicazione del cd. metodo "tipologico", che consentirebbe

di rintracciare, nella trama del contratto in questione, sotto- strutture negoziali differenti mediante

un'opera di destrutturazione del contratto che offra all'interprete l'opportunità di individuare diverse

caratteristiche tipologiche che solo successivamente verranno utilizzate al fine di determinare

(sempre senza valicare i limiti dell'incompatibilità) il mix disciplinare che meglio risponde

all'esigenza di regolare il rapporto (mentre da altra parte si invita a considerare la naturale

propensione delle polizze a modellarsi in funzione delle diverse esigenze di garanzia di volta in

volta soddisfatte e a cogliere e valorizzare il quid proprium delle diverse configurazioni assunte

nella prassi, rifuggendo da aprioristici tentativi di generalizzazione e di riduzione a un "tipo").

Sulla polizza fideiussoria si riverbera così l'eco del dibattito sul contratto autonomo di

garanzia (Garantievertrag) e sulla sua causa.

8.2. Pur non essendo questa la sede per approfondire gli esiti di tale questione, pare sufficiente

considerare che, secondo una diffusa opinione, la funzione del Garantievertrag è quella di tenere

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indenne il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento della prestazione gravante

sul debitore principale, che non sempre consiste in un dare ma può anche riguardare un fare

infungibile, contrariamente a quanto accade per il fideiussore, il quale garantisce

l'adempimento della medesima obbligazione principale altrui (attesa l'identità tra prestazione

del debitore principale e prestazione dovuta dal garante).

In altri termini, mentre con la fideiussione è tutelato l'interesse all'esatto adempimento

dell'(unica) prestazione principale - per cui il fideiussore è un "vicario" del debitore -,

l'obbligazione del garante autonomo è qualitativamente altra rispetto a quella dell'ordinante -

sia perchè non necessariamente sovrapponibile ad essa, sia perché non rivolta al pagamento

del debito principale, bensì ad indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo

versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta

prestazione del debitore.

Ne consegue che polizze fideiussorie e fideiussione, pur accomunate dal medesimo (generico)

scopo di offrire al creditore-beneficiario la garanzia dell'esito positivo di una determinata

operazione economica, si distinguono perché le prime (se prestate a garanzia di obbligazioni

infungibili) appartengono alla categoria delle cd. garanzie di tipo indennitario, potendo il

creditore tutelarsi (rispetto all'inadempimento del debitore) soltanto tramite il risarcimento

del danno, mentre la fideiussione appartiene alle cd. garanzie di tipo satisfattorio,

caratterizzate dal rafforzamento del potere del creditore di conseguire il medesimo bene

dovuto, cioè di realizzare specificamente il soddisfacimento del proprio diritto.

8.3 Ancora con specifico riguardo alle polizze fideiussorie, l'introduzione, nelle condizioni generali

di contratto, di clausole di pagamento con diciture "a semplice" o "a prima richiesta (o domanda) ",

"senza eccezioni" o analoghe ("incondizionatamente", "a insindacabile giudizio del beneficiario" e

così via), se ne ha di fatto evidenziato l'impredicabilità di qualsivoglia natura assicurativa e

l'indiscutibile avvicinamento al modello cauzionale, ne ha specularmente posto il problema della

compatibilità con il modello tipico fideiussorio.

La previsione di siffatte clausole di pagamento manifesta, difatti, una rilevante deroga alla

disciplina legale della fideiussione, che si sostanzia nell'attribuzione, al creditore-beneficiario, del

potere di esigere dal garante il pagamento immediato, a prescindere da qualsiasi accertamento (e

dalla prova da parte del creditore) in ordine all'effettiva sussistenza di un inadempimento del

debitore principale (ciò vale, in particolare, per l'incameramento della cauzione da parte dell'ente

appaltatore di opere pubbliche, il quale non è tenuto a dimostrare la sussistenza di un danno in

concreto, proprio in ragione della determinazione forfettaria dello stesso che consegue alla

previsione della cauzione: così Cass. n. 8295 del 1994, in motivazione).

A tale riguardo, questa corte ha avuto modo di affermare che, se è consentito alle parti di concedere

(o far concedere da un terzo) una somma di denaro al creditore a garanzia dell'adempimento della

prestazione dovutagli, allo stesso modo deve poter rientrare nei poteri riconosciuti all'autonomia

negoziale la sostituzione della somma di denaro con l'impegno di un terzo di provvedere a quella

prestazione o a quel pagamento a semplice richiesta del creditore, dovendosi pertanto riconoscere in

dette clausole una "una valida espressione di autonomia negoziale".

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9. Di tali clausole, secondo un primo orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. n.

6499/1990, n. 10486/2004, n. 4446/2008 in motivazione), si predica la incompatibilità con la

disciplina della fideiussione, e la conseguente inapplicabilità delle tipiche eccezioni fideiussorie,

quali quelle fondate sull'art. 1947 c.c. (compensazione opposta dal garante con un debito del

creditore verso il debitore principale), art. 1956 (liberazione del fideiussore per obbligazione futura

assunta dal creditore), art. 1957 (decadenza prevista per l'ipotesi che il creditore non coltivi dopo la

scadenza dell'obbligazione la propria pretesa nei confronti del debitore principale).

9.1. Secondo un diverso orientamento, dette clausole sarebbero invece idonee a valere anche come

osservanza dell'onere di cui all'art. 1957 prescindendo dalla proposizione dell'azione giudiziaria

(Cass. n. 7345/1995, cit.), sicché non si tratterebbe di un'esclusione ma di una deroga parziale della

disciplina dettata dal citato art. 1957, ad esempio limitata alla previsione che una semplice richiesta

scritta sia sufficiente ad escludere l'estinzione della garanzia, esonerando il creditore dall'onere di

proporre azione giudiziaria (Cass. n. 10574/2003, n. 27333/2005, n. 13078/2008, quest'ultima sulla

limitata funzione, che può essere svolta da una clausola di pagamento a prima richiesta, di evitare al

creditore la decadenza di cui all'art. 1957 non solo iniziando l'azione giudiziaria verso il debitore

principale, ma anche soltanto rivolgendo al fideiussore la richiesta di adempimento).

9.2. E' dunque opportuno approfondire le ragioni che hanno indotto la giurisprudenza di questa

corte a ravvisare nelle clausole di pagamento in oggetto una deroga (seppur variamente atteggiata)

alla disciplina legale della fideiussione onde chiarire se di semplice deroga si tratti, ovvero di una

così rilevante alterazione del "tipo" negoziale fideiussorio tale da provocarne un exodus che

conduca all'approdo al modello del Garantievertrag così come comunemente praticato nel

commercio internazionale e, di recente, anche nazionale (nelle forme del Bid Bond o

Bietungsgarantie, a garanzia del rispetto o del mantenimento di un'offerta contrattuale; del

Performance Bond o Leistungsgarantie e del Vertragserfullungsgarantie, quale garanzia di buona

esecuzione di un contratto; del Repayment Bond e dell'Advance payment Bond o

Anzahlungsgarantie, a copertura del rischio che l'appaltatore non rimborsi al committente il

pagamento degli anticipi ricevuti in caso di mancata esecuzione dei lavori; del Retention money

Bond, la cui origine è nella prassi in base alla quale il committente trattiene una parte dei pagamenti

in occasione dei diversi stati di avanzamento dei lavori, al fine di costituire un fondo di copertura

per le spese eventuali da sostenere per riparare errori dell'appaltatore nell'esecuzione dei lavori).

Quelle ragioni risiedono nell'essere le suddette clausole volte a precludere al garante l'opponibilità

al creditore garantito delle eccezioni spettanti al debitore principale (siano esse relative al rapporto

di valuta tra quest'ultimo e il creditore o al rapporto di provvista tra il debitore principale e il

garante), in deroga alla regola essenziale della fideiussione posta dagli artt. 1945 e 1941 c.c., con

l'effetto di svincolare (in tutto o in parte) la garanzia dalle vicende del rapporto principale e di

precludere la proponibilità delle eccezioni fideiussorie.

9.3. Sotto l'aspetto morfologico, il contratto autonomo di garanzia costituisce espressione di

quella autonomia negoziale riconosciuta alle parti dall'art. 1322 c.c., comma 2, che si

configura come un coacervo di rapporti nascenti da autonome pattuizioni fra il destinatario

della prestazione (beneficiario della garanzia), il garante (di solito una banca straniera),

l'eventuale controgarante (soggetto non necessario, che solitamente si identifica in una banca

nazionale che copre la garanzia assunta da quella straniera) e il debitore della prestazione

(l'ordinante).

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Caratteristica fondamentale di tale contratto, che vale a distinguerlo da quello di fideiussione

di cui agli artt. 1936 e seguenti cod. civ., è la carenza dell'elemento dell'accessorietà: il garante

s'impegna a pagare al beneficiario, senza opporre eccezioni in ordine alla validità e/o all'efficacia

del rapporto di base, e identico impegno assume il controgarante nei confronti del garante (così

Cass. n. 1420/1998; sulla controgaranzia autonoma, Cass. n. 12341/1992 specifica che l'obbligo di

pagamento del garante secondo il meccanismo dell'adempimento "a prima richiesta", tanto della

"garanzia" che della "controgaranzia", si attiva a seguito dell'inadempimento dell'obbligazione

principale, restando irrilevante l'avvenuto adempimento del contratto collegato a catena).

La diversità di struttura e di effetti rispetto alla fideiussione si riflette sulla causa concreta (in

argomento, funditus, Cass. 10490/06) del Garantievertrag, la quale risulta essere quella di

trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di

una prestazione contrattuale, sia essa dipesa da inadempimento colpevole oppure no: infatti, la

prestazione dovuta dal garante è qualitativamente diversa da quella dovuta dal debitore principale,

essendo (non quella di assicurare l'adempimento della prestazione dedotta in contratto ma)

semplicemente quella di assicurare la soddisfazione dell'interesse economico del beneficiario

compromesso dall'inadempimento (Cass. n. 2377/2008 cit., proprio con riguardo alle polizze

fideiussorie); per la sua indipendenza dall'obbligazione principale, esso si distingue, pertanto, dalla

fideiussione, giacchè mentre il fideiussore è debitore allo stesso modo del debitore principale e si

obbliga direttamente ad adempiere, il garante si obbliga (non tanto a garantire l'adempimento,

quanto piuttosto) a tenere indenne il beneficiario dal nocumento per la mancata prestazione del

debitore, spesso con una prestazione solo equivalente e non necessariamente corrispondente a

quella dovuta (Cass. n. 27333/2005; n. 4661/2007): ne consegue, in definitiva, la sua fuoriuscita dal

modello fideiussorio, essendo il rapporto affidato per intero all'autonomia privata nei limiti fissati

dall'art. 1322 c.c., comma 2 ed essendo la causa del contratto quella di coprire il rischio del

beneficiario mediante il trasferimento dello stesso sul garante.

Il riferimento, come oggetto della garanzia de qua, al rischio contrattuale da preservare (ovvero

all'interesse economico sotteso all'obbligazione principale) ha rappresentato una soluzione

funzionale a superare l'apparente ossimoro celato nel sintagma "garanzia autonoma" (atteso che il

concetto di garanzia presuppone ontologicamente una relazione di accessorietà con un quid che

dev'essere garantito), con la conseguenza che la garanzia sarebbe autonoma rispetto all'obbligazione

principale ma pur sempre accessoria rispetto all'interesse economico ad essa sottostante, così

evitandosi la (preoccupante) conseguenza di individuare nel rapporto principale il termine della

relatio e di assimilare in tal modo la garanzia autonoma a quella accessoria.

9.4. Sotto il profilo funzionale, il regime "autonomo" del Garantievertrag trova un limite quando:

le eccezioni attengano alla validità dello stesso contratto di garanzia (Cass. n. 3326/2002 cit.)

ovvero al rapporto garante/beneficiario (Cass. n. 6728/2002, sul diritto del garante di opporre al

beneficiario la compensazione legale per un credito vantato direttamente nei suoi confronti); il

garante faccia valere l'inesistenza del rapporto garantito (Cass. n. 10652/2008, in motivazione,

"trattandosi pur sempre di un contratto (di garanzia) la cui essenziale - quindi inderogabile -

funzione è quella di garantire un determinato adempimento"); la nullità del contratto- base dipenda

da contrarietà a norme imperative o illiceità della causa ed attraverso il contratto di garanzia si tenda

ad assicurare il risultato che l'ordinamento vieta (Cass. n. 3326/2002; n. 26262/2007; n. 5044/2009);

sia proponibile la cd. exceptio doli generalis seu presentis, perchè risulta evidente, certo ed

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incontestabile il venir meno del debito garantito per pregressa estinzione dell'obbligazione

principale per adempimento o per altra causa (nel senso che il garante non è autorizzato ad

effettuare pagamenti arbitrariamente intimatigli, a pena di perdita del regresso nei confronti del

debitore principale: Cass. n. 10864/1999; n. 917/1999; n. 5997/2006; in generale, sull'obbligo del

garante di opporre l'exceptio doli a protezione del garantito dai possibili abusi del beneficiario,

Cass. n. 10864/1999; n. 5997/2006; n. 23786/2007; n. 26262/2007; sull'obbligo del garante di

fornire la prova certa ed incontestata dell'esatto adempimento del debitore ovvero della nullità del

contratto garantito o illiceità della sua causa: Cass. n. 3964/1999; n. 10652/2008), mentre discussa è

la conseguenza della impossibilità sopravvenuta della prestazione principale non imputabile al

debitore (che, secondo una recente giurisprudenza di merito - App. Genova 25 luglio 2003 - sarebbe

a sua volta causa di estinzione della garanzia).

La più rilevante differenza operativa tra la fideiussione e il contratto autonomo di garanzia non

riguarda, peraltro, il momento del pagamento - cui (anche) il fideiussore "atipico" può essere tenuto

immediatamente a semplice richiesta del creditore -, ma attiene soprattutto al regime delle azioni di

rivalsa dopo l'avvenuto pagamento.

9.5. Se, difatti, il pagamento non risulti dovuto per motivi attinenti al rapporto di base, il garante

(dopo aver pagato a prima/semplice richiesta) che agisce in ripetizione con l'actio indebiti ex art.

2033 c.c. nei confronti dell'accipiens, cioè del creditore beneficiario, facendo valere le eccezioni di

cui dispone il debitore principale, risponde in realtà come un fideiussore, atteggiandosi la clausola

di pagamento in questione come una ordinaria clausola solve et repete ex art. 1462 c.c..

Il garante "autonomo", invece, una volta che abbia pagato nelle mani del creditore

beneficiario, non potrà agire in ripetizione nei confronti di quest'ultimo (salvo nel caso di

escussione fraudolenta), rinunciando, per l'effetto, anche alla possibilità di chiedere la

restituzione di quanto pagato all'accipiens nel caso di escussione illegittima della garanzia, ma

potrà esperire l'azione di regresso ex art. 1950 c.c. unicamente nei confronti del debitore

garantito (il più delle volte mediante il cosiddetto "conteggio automatico" a carico del debitore,

quando questi ha anticipato alla banca le somme necessarie per il pagamento o quando sussista la

possibilità di addebitare le somme su un conto corrente), senza possibilità per il debitore di opporsi

al pagamento richiesto dal garante nè di eccepire alcunché, in sede di rivalsa, in merito all'avvenuto

pagamento (così Cass. n. 8324/2001; n. 7502/2004; n. 14853/2007).

L'effetto è di "autonomizzare" il rapporto di garanzia rispetto al rapporto base,

contrariamente a quanto accade per la fideiussione tipica: è a quest'ultima, infatti, che si

riferisce il principio secondo il quale "quando si estingue l'obbligazione principale, si estingue

anche quella accessoria di garanzia. Pertanto, se il fideiussore paga un debito già estinto, per

remissione, per pagamento o per altra causa, non può esercitare azione di regresso nei confronti del

debitore principale" (così Cass. n. 2334/1967).

Sarà il debitore principale ordinante, vittoriosamente escusso dal garante che abbia pagato al

beneficiario, ad agire in rivalsa, se il pagamento non era dovuto alla stregua del rapporto di base (ad

esempio, per il pregresso e puntuale adempimento della medesima obbligazione), sulla base del

rapporto di valuta, nei confronti del beneficiario, il quale ha ricevuto dal garante una prestazione

non dovuta, mentre la stessa azione di rivalsa del garante verso il debitore-ordinante viene esclusa

quando il primo abbia adempiuto nonostante disponesse di prove evidenti della malafede del

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beneficiario, salva in tal caso la possibilità di agire contro il beneficiario stesso con la condictio

indebiti, ai sensi dell'art. 2033 c.c. (Va in proposito ricordato che l'art. 20 della Convenzione

UNCITRAL, sulle garanzie autonome e sulle lettere di credito, elaborata dalla Commissione delle

Nazioni Unite sul commercio internazionale, tra le alternative riconosciute all'ordinante per

neutralizzare il pericolo di un'abusiva escussione, prevede sia la possibilità di inibire al garante di

trattenere o recuperare presso l'ordinante le somme pagate in base alla garanzia sia la possibilità di

richiedere un provvedimento giudiziario che impedisca al beneficiario di riscuotere la garanzia).

10. Chiarite così le differenze operative tra fideiussione (eventualmente resa atipica dall'inserimento

delle clausole in questione) e Garantievertrag, va affrontato e risolta la speculare questione

dell'idoneità o sufficienza della clausola di pagamento a prima o semplice richiesta (o senza

eccezioni) a trasformare un contratto di fideiussione (pur atipico) in un Garantievertrag.

A tale riguardo, si segnalano due non omogenei orientamenti della giurisprudenza di questa Corte

che - pur nella consonanza delle affermazioni secondo cui, da un lato, la qualificazione della

garanzia come contratto autonomo di garanzia o di fideiussione (eventualmente atipica) si risolve in

un apprezzamento dei fatti e delle prove da parte del giudice di merito, incensurabile in sede di

legittimità se congruamente motivato (Cass. n. 4981/2001; n. 10637/2002; n. 11368/2002; n.

13001/2006; n. 2464/2004), essendo privo di valore il nomen iuris utilizzato dalle parti per

designare la garanzia; dall'altro, a fronte della qualificazione della garanzia come fideiussoria,

soggetta, in quanto tale, alla sorte del debito principale, la parte che faccia valere la diversa

configurazione di detta garanzia come autonoma, e, quindi, svincolata dal debito principale, ha

l'onere di dedurre gli elementi oggettivi sui quali tale configurazione si fonda (Cass. n. 8540/2000) -

appare, sul punto, contrastante:

- un primo indirizzo è nel senso che l'inserimento di clausole del genere valga di per sè a qualificare

il negozio de quo come contratto autonomo di garanzia, essendo incompatibile con il principio di

accessorietà che caratterizza la fideiussione (Cass. n. 3552/1998, in motivazione; n. 6757/2001; n.

3257/2007 cit.; n. 14853/2007; n. 11890/2008, in motivazione; in particolare, Cass. n. 8248/1998 ha

qualificato la garanzia come autonoma in presenza di una clausola di pagamento "a prima

richiesta", con esclusione del beneficium excussionis e dell'accertamento dell'inadempienza da parte

dello stesso creditore garantito sulla base della contabilità dell'appalto);

- un secondo filone interpretativo è invece nel senso che il contratto non assume i connotati del

contratto autonomo di garanzia per il solo fatto di presentare un patto che obblighi il garante a

pagare, sulla richiesta del beneficiario, il quale gli dichiari essersi verificati i presupposti per

l'esigibilità della garanzia, e senza poter opporre eccezioni attinenti al rapporto di base: la

distinzione tra fideiussione e Garantievertrag andrebbe tratta, infatti, anche dalla considerazione dei

profili funzionali della garanzia, e nel secondo caso la funzione sarebbe non già quella di garantire

l'adempimento dell'obbligazione altrui o l'integrale soddisfacimento della pretesa risarcitoria traente

origine dall'inadempimento del debitore, quanto quella, prossima a quella della cauzione, di

assicurare al beneficiario la disponibilità almeno di una determinata somma di danaro, a

bilanciamento di rischi tipici di determinati contratti.

Un patto di rinunzia del fideiussore a far valere subito determinate eccezioni non altererebbe,

peraltro, il tipo contrattuale, che resta caratterizzato, come la fideiussione, dal principio di

accessorietà (artt. 1939 e 1945 cod. civ.): la clausola è dunque in sè valida, giacchè, pur con

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riguardo alla causa del contratto di fideiussione ed alla relativa disciplina, essa costituisce una

manifestazione di autonomia contrattuale, che resta nei limiti imposti dalla legge (art. 1322 cod.

civ.), dalla quale si trae, insieme, che clausole limitative della possibilità di proporre eccezioni sono

in certa misura ed a determinate condizioni consentite dall'ordinamento (art. 1341 c.c., comma 2), e

che una clausola del tipo di quella di cui si discute non è in contrasto con l'aspetto essenziale del

contratto di fideiussione, aspetto rappresentato dall'accessorietà (così Cass. n. 2909/1996, in

motivazione; nel senso che, ai fini della distinzione del contratto autonomo di garanzia dalla

fideiussione, non è decisivo l'impiego o meno di espressioni quali "a prima richiesta" o "a semplice

richiesta scritta", ma la relazione in cui le parti hanno inteso porre l'obbligazione principale e quella

di garanzia, ancora di recente, Cass. n. 5044/2009 cit.).

Pur se non direttamente investite della questione, vertendo il contrasto di giurisprudenza oggi sotto

posto all'esame del collegio sulla natura e sulla disciplina applicabile alle polizze fideiussorie,

queste sezioni unite ritengono che debba essere data continuità al primo degli orientamenti citati,

che ha l'ineliminabile pregio di consentire, ex ante, la necessaria prevedibilità della decisione

giudiziaria in caso di controversia, restringendo le maglie di aleatori spazi ermeneutici sovente

forieri di poco comprensibili disparità di decisioni a parità di situazioni esaminate, così che la

clausola "a prima richiesta e senza eccezioni" dovrebbe di per sè orientare l'interprete verso

l'approdo alla autonoma fattispecie del Garantievertrag, salva evidente, patente, irredimibile

discrasia con l'intero contenuto "altro" della convenzione negoziale.

10.1. Così ricostruiti i caratteri strutturali ed effettuali del contratto autonomo di garanzia,

pare innegabile che, in difetto di diversa previsione da parte dei contraenti, ad esso non possa

applicarsi la norma dell'art. 1957 cod. civ. sull'onere del creditore garantito di far valere

tempestivamente le sue ragioni nei confronti del debitore principale, poiché tale disposizione,

collegata al carattere accessorio della obbligazione fideiussoria (così Cass. n. 3964/1999 cit.,

ancora in tema di polizza fideiussoria; Cass. n. 11368/2002, in motivazione) instaura un

collegamento necessario e ineludibile tra la scadenza dell'obbligazione di garanzia e quella

dell'obbligazione principale, e come tale rientra tra quelle su cui si fonda l'accessorietà del

vincolo fideiussorio, per ciò solo inapplicabile ad un'obbligazione di garanzia autonoma.

10.2. Per ciò che più specificamente concerne l'oggetto della questione sottoposta al collegio, è

opportuno ripercorrere, in sintesi, le divergenze manifestatesi nella giurisprudenza di questa corte

sui profili di seguito indicati.

10.3. Quanto ai caratteri morfologici della polizza fideiussoria, prevalente appare l'orientamento

predicativo della sua natura fideiussoria, con conseguente applicazione della disciplina legale tipica

ex art. 1936 ss. c.c. ove non derogata dalle parti; un diverso, minoritario indirizzo, ne esclude,

viceversa, la configurabilità in termini di fideiussione laddove essa sia prestata a garanzia

dell'obbligazione dell'appaltatore: in tal caso, la convenzione integrerebbe gli estremi della garanzia

atipica in quanto, non potendo surrogare l'adempimento "specifico" di detta obbligazione (connotata

dal carattere dell'insostituibilità), ha la funzione di assicurare, sic et simpliciter, il soddisfacimento

dell'interesse economico del beneficiario, compromesso dall'inadempimento. Essa risulta, pertanto,

vicenda del tutto disomogenea rispetto al sistema delle garanzie di tipo satisfattorio proprie delle

prestazioni fungibili caratterizzate dall'identità della prestazione e dal vincolo della solidarietà

(sussidiarietà)/accessorietà -, riconducibile di converso alla figura della garanzia di tipo

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indennitario, in forza della quale il garante è tenuto soltanto ad indennizzare, o a risarcire, il

creditore insoddisfatto (Cass. n. 2377/2008 cit.; n. 7712/2002).

10.4. Queste sezioni unite intendono dare continuità al secondo degli orientamenti poc'anzi

ricordati.

Non appaiono decisive, difatti, le riserve che dottrina e giurisprudenza attestate sul fronte

dell'equiparazione della polizza de qua alla convenzione fideiussoria (quantunque atipica) hanno

diacronicamente manifestato in subiecta materia.

Si obbietta, difatti, che la banca garantisce non già la prestazione primaria (cioè l'esecuzione

dell'opera o della fornitura), bensì quella secondaria, che consiste nel pagamento di una somma di

denaro prestabilita (la quale spesso assume i caratteri della clausola penale): ciò consentirebbe di

ritenere che vi sia identità tra l'oggetto della prestazione garantita e quello dell'obbligazione di

garanzia, trattandosi in entrambi i casi di una (anzi della stessa) somma di denaro. Si è anche

osservato che, da questo punto di vista, la differenza con la fideiussione è meno marcata, giacchè

l'indennità non solo può essere in certi casi omogenea alla prestazione pecuniaria ed originaria del

debitore, ma è comunque omogenea rispetto alle prestazioni pecuniarie secondarie del debitore

(derivino esse da un risarcimento del danno o da una clausola penale).

Con specifico riguardo alla garanzia (cd. definitiva) dovuta all'Amministrazione appaltante, ai sensi

della L. n. 109 del 1994, art. 30, comma 2, si è poi rilevato che, se è vero che la garanzia ha

carattere indennitario, in quanto il fideiussore non è obbligato ad adempiere in luogo del debitore

principale, essendo tenuto a rifondere il creditore degli oneri affrontati in conseguenza del mancato

o inesatto adempimento del debitore, è altrettanto vero che la diversità della prestazione

dell'assicuratore non esclude la funzione di garanzia in quanto la fideiussione sostituisce non la

esecuzione dell'obbligazione principale ma la cauzione, cioè la garanzia reale dell'obbligazione

dell'esecutore: ad essere garantito non sarebbe tanto un qualsiasi adempimento, bensì la prestazione

della cauzione.

Non si è mancato poi di sottolineare, per altro verso, che il concetto di fungibilità e infungibilità

della prestazione appare qualificazione giuridica tra le più sfuggenti, cui, del resto, non sempre è

riconosciuto un autonomo significato, trattandosi di un problema di interpretazione in senso lato, di

talchè la fungibilità di un'obbligazione non dipenderebbe tanto dal tipo di prestazione o dalla natura

del suo oggetto secondo criteri astratti, ma avrebbe da esser valutata in concreto, tenuto conto anche

dell'interesse del creditore, ex art. 1173 c.c. (ciò che ha consentito alla moderna dottrina di

considerare fungibile anche l'adempimento delle obbligazioni di fare - così superandosi la

tradizionale impostazione, figlia del codice del 1865, propensa a ritenere che soltanto l'obbligazione

pecuniaria potesse essere garantita da fideiussione -, coerentemente con il disposto dell'attuale art.

1936 c.c. - il cui pendant è costituito dal 765, comma 1, del BGB -, il quale non contiene alcuna

distinzione esplicita in argomento, indicando solo che la fideiussione garantisce "l'adempimento di

un'obbligazione altrui", così venendo meno qualsivoglia argomento letterale a favore dell'idea di

un'identità di contenuto dell'obbligazione principale e dell'obbligazione fideiussoria, mutando il

precedente richiamo dell'art. 1898 c.c. abrogato alla "stessa obbligazione").

Si è infine rilevato che l'accessorietà dell'obbligazione fideiussoria non implicherebbe una assoluta

ed univoca dipendenza del rapporto di garanzia dal rapporto garantito, in quanto la fideiussione, al

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pari di qualsiasi altro rapporto obbligatorio, vive e si mantiene in questa relazione funzionale con

una individualità propria, e che il nostro ordinamento non conosce una nozione tecnica di

accessorietà, ossia una disciplina unitaria del fenomeno, onde la "relativizzazione" del requisito in

parola, intesa come conseguenza dell'acquisita autonomia causale della fideiussione, manifestandosi

nell'ordinamento il riconoscimento di una certa indipendenza dell'obbligazione di garanzia rispetto a

quella garantita, con un'implicita retrocessione del requisito dell'accessorietà a un livello non

essenziale.

11. Le considerazioni che precedono non appaiono decisive al fine di predicare una non realistica

consonanza tra polizza fideiussoria e convenzione di garanzia tipica ex art. 1936 c.c..

Al di là della osservazione (di per sé decisiva) secondo la quale esse non appaiono sufficienti a far

superare il principio secondo cui rimangono fuori dalla possibilità di essere garantite per il tramite

di una fideiussione le obbligazioni di fare infungibile, nelle quali c'è comunque un interesse del

creditore alla personale esecuzione del debitore - non potendosi, in questo caso, realizzarsi in alcun

modo la sostituzione del fideiussore al debitore principale, poiché il garante non deve (né può)

adempiere, in rapporto di solidarietà con il debitore principale, un debito identico a quello su di lui

gravante - non sembra seriamente contestabile che si discorra di fideiussio indemnitatis con

riferimento a fattispecie nella quale la funzione di garanzia viene piuttosto a porsi in via

(succedanea e secondaria sì, ma) del tutto autonoma rispetto all'obbligo primario di prestazione,

onde garantire il risarcimento del danno dovuto al creditore per l'inadempimento dell'obbligato

principale e, quindi, per un'obbligazione non soltanto futura ed eventuale (ciò che non costituirebbe

di per sè ostacolo alla configurabilità di una fideiussione, avendo l'attuale art. 1938 c.c. posto

termine ad un dibattito dottrinale e giurisprudenziale formatosi nel vigore del precedente codice con

l'ammettere esplicitamente la legittimità della fideiussione "anche per un'obbligazione condizionale

o futura"), ma essenzialmente diversa rispetto a quella garantita, con l'ulteriore conseguenza che

l'obbligazione del garante non diviene attuale prima dell'inadempimento della (diversa)

obbligazione principale, verificatosi il quale sorge l'obbligo secondario del "risarcimento" del danno

(rectius, dell'indennizzo conseguente all'inadempimento): viene irredimibilmente vulnerato, in tal

guisa, proprio quel meccanismo della solidarietà che attribuisce al creditore la libera electio, cioè la

possibilità di chiedere l'adempimento così al debitore come al fideiussore, a partire dal momento in

cui il credito è esigibile.

Venendo così meno la funzione di garantire, in senso preventivo, l'adempimento, la cd.

fideiussio indemnitatis pare definitivamente espunta dall'orbita della garanzia fideiussoria,

per acquisire una funzione reintegratoria (non del tutto aliena da un modello assicurativo).

Nè decisiva appare, ancora, l'obiezione secondo la quale, nel nostro ordinamento, un'astrazione

assoluta dell'elemento causale, in cui la sorte o i difetti dell'obbligazione sottostante non abbiano

mai alcuna ripercussione sull'obbligazione astratta di garanzia, non pare a tutt'oggi legittimamente

predicabile.

Va premesso, in proposito, che, tra astrazione assoluta e accessorietà (intesa nel senso tradizionale)

si stagliano orizzonti che abbracciano diverse gradazioni di strutture negoziali che il legislatore di

volta in volta legittima, secondo un giudizio di valore rispetto ai vari interessi coinvolti:

l'accessorietà dell'obbligazione autonoma di garanzia rispetto al rapporto debitorio principale

assume un carattere certamente più elastico, di semplice collegamento/coordinamento tra

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obbligazioni, ma non viene del tutto a mancare, come dimostrato, da un lato, dalla rilevanza delle

ipotesi in cui il garante è esonerato dal pagamento per ragioni che riguardano comunque il rapporto

sottostante (supra, sub 6.2);

dall'altro, dal meccanismo di riequilibrio delle diverse posizioni contrattuali attraverso il sistema

delle rivalse.

Va inoltre considerato che, come condivisibilmente affermato dalla terza sezione di questa corte con

la sentenza 10490/06 (e poi ribadito, sia pur in obiter, da queste stesse sezioni unite con le 4

pronunce dell'11 novembre del 2008, rese in tema di danno non patrimoniale), appaia oggi

predicabile una ermeneutica del concetto di causa che, sul presupposto della obsolescenza della

matrice ideologica che la configurava come strumento di controllo della sua utilità sociale, affonda

le proprie radici in una serrata critica della teoria della predeterminazione causale del negozio (che,

a tacer d'altro, non spiega come un contratto tipico possa avere causa illecita), ricostruendo tale

elemento in termini di sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là

del modello, anche tipico, adoperato).

Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, si badi, e non anche della volontà

delle parti.

Causa, dunque, ancora oggettivamente iscritta nell'orbita della dimensione funzionale

dell'atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere,

a prescindere dal relativo stereotipo astratto, secondo un iter evolutivo del concetto di

funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei

vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l'uso che di ciascuno di essi hanno inteso

compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione

negoziale.

E' innegabile, pertanto, che di causa negotii sia lecito discorrere, in termini di sua concreta

esistenza, anche con riferimento al contratto autonomo di garanzia e alla polizza fideiussoria, ad

esso assimilabile quoad effecta.

E' altresì innegabile, nel caso di specie, che la forma di garanzia prescelta dalle parti, in alternativa

al deposito cauzionale in denaro o titoli, non sia stata quella della fideiussione, bensì quella della

polizza fideiussoria, alternativa e, per l'effetto, sostituiva forma di prestazione della cauzione stessa,

"consentita" (così, letteralmente, il testo negoziale rilevante in parte qua) dall'amministrazione

appaltante senza essere accompagnata da alcuna dichiarazione abdicativa di tutti gli altri poteri e

facoltà spettatile sulla base della normativa di settore vigente ratione temporis.

La funzione individuale del singolo, specifico negozio (id est della polizza fideiussoria) è stata

dunque quella di sostituire la traditio del denaro tipica della cauzione con l'obbligazione di

corrispondere una somma di denaro, da parte del garante, a richiesta del creditore, senza

alcuna possibilità, per il primo, di invocare il meccanismo, tipicamente fideiussorio, di cui

all'art. 1957 c.c..

Va pertanto affermato il seguente principio di diritto: la polizza fideiussoria stipulata a garanzia

delle obbligazioni assunte da un appaltatore assurge a garanzia atipica, a cagione

dell'insostituibilità della obbligazione principale, onde il creditore può pretendere dal garante

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solo un risarcimento, prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto. Con la

precisazione, peraltro, della invalidità della polizza stessa se intervenuta successivamente rispetto

all'inadempimento delle obbligazioni garantite.

11. LETTERE DI PATRONAGE

NOTA INTRODUTTIVA

Le due sentenze di seguito riportate esaminano, all’interno del panorama delle garanzie personali

atipiche, l’istituto delle lettere di patronage, quali dichiarazioni rilasciate da un terzo al

creditore, in un’ottica meramente informativa (c.d. “lettere deboli”), o finalizzata

all’assunzione di proprie obbligazioni collaterali in chiave rafforzativa del vincolo

obbligatorio tra le parti (c.d. “lettere forti”).

In materia, la Cassazione ha fissato importanti principi di seguito ritraibili, secondo i quali anche

tali forme innominate di garanzia personale, la cui corretta qualificazione è rimessa al prudente

apprezzamento in concreto del giudice, sono assoggettate a principi generali di ordine pubblico

economico (quale la previsione di un importo massimo garantito per l’assunzione di obbligazioni

future).

11.1 Corte di cassazione, sez. I civile, sentenza 9 febbraio 2016, n. 2539

Con riguardo alle cosiddette lettere di 'patronage', che una società capogruppo o controllante

indirizzi ad una banca, affinché questa conceda, mantenga o rinnovi un credito a favore di una

società controllata, l'indagine diretta a stabilire se le lettere medesime si limitino a contenere dati e

notizie sulla situazione del gruppo o sul rapporto di controllo, rilevanti al solo fine di mettere la

banca in condizione di valutare adeguatamente l'opportunità di riconoscere detto credito, ovvero

implichino anche l'assunzione di garanzia fideiussoria per i debiti della società controllata, si

traduce in un accertamento di merito, come tale insindacabile in sede di legittimità, se

correttamente ed adeguatamente motivato.

1. Con il primo mezzo di impugnazione (violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1324 e

1333 c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.), la ricorrente ha posto a questa Corte il

seguente quesito di diritto:

-«se in applicazione dell'art. 1362 c. c. e del principio in claris non fit interpretatio, la formulazione

testuale della lettera di patronage con la quale il patronnant si impegna ad informare

immediatamente il creditore dei mutamenti del rapporto di controllo maggioritario della società

sovvenuta e a «porre la predetta società in condizione di provvedere .. alla copertura dei vostri

crediti», per la sola ipotesi che « si verificasse la perdita da parte nostra, per qualsiasi ragione, del

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suo controllo amministrativo», possa esse interpretata come assunzione di una obbligazione di

garanzia».

(omissis)

2. Con il secondo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1936 e 1338 c.c., in relazione

all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.), la ricorrente ha posto a questa Corte il seguente quesito di

diritto:

-«se una mera lettera di patronage, ovvero la dichiarazione con la quale applicazione il patronnant

informa il creditore della sua posizione di influenza nei confronti del debitore e si obbliga a «porre»

il sovvenuto «in condizione di adempiere» qualora tale posizione di controllo cessi, possa essere

qualificata quale fideiussione al fine di parificarne e/o assimilarne in tutto e per tutto gli effetti

giuridici a quelli tipici del predetto istituto ».

(omissis)

3. Il primo mezzo di ricorso è infondato.

3.1. Nella motivazione della sentenza impugnata è chiaro il ragionamento volto alla identificazione

ed alla qualificazione del documento, in termini di lettera di patronage, della Compagnia a favore

della Banca, senza che si possa fondatamente parlare di un travisamento del suo tenore testuale.

3.2. Invero, la Corte territoriale afferma che tale garanzia, avrebbe un contenuto «forte» in quanto,

con essa, il «patrocinante» non si sarebbe limitato ad esternare la propria posizione di influenza ma

avrebbe assunto un vero e proprio impegno, così generandosi un'obbligazione su base negoziale,

avente per oggetto un facere e una finalità di garanzia.

4.3. Tale motivazione, per quanto succinta e riecheggiante l'espressione di una massima elaborata

dalla giurisprudenza di questa Corte, contiene comunque la necessaria qualificazione dell'atto di

autonomia privata e le connesse conseguenze giuridiche, che - come esposto dai giudici di merito -

non possono essere ricondotte semplicisticamente a quella della garanzia fideiussoria (come

afferma la ricorrente) ma a una forma di garanzia sostanziale, costituita dalla volontà -

giuridicamente vincolante - di assicurare l'adempimento dell'obbligazione del terzo, in una delle

molteplici forme possibili in cui è possibile addivenire ad esso (ad es. mettendo a disposizione della

debitrice la provvista per l'adempimento).

5. I1 secondo motivo, perciò, è del pari infondato, atteso che nella sentenza impugnata la

qualificazione dell'atto come lettera di patronage è ricostruita con piena consapevolezza delle

conseguenze giuridiche derivanti dalla violazione dei relativi impegni, onde la coerente conclusione

circa l'accertamento dell'esistenza di un danno potenziale (la cui entità e sussistenza non sono state

censurate dalla ricorrente).

6.In conclusione il ricorso, è infondato alla luce del principio di diritto secondo cui:

«con riguardo alle cosiddette lettere di 'patronage', che una società capogruppo o controllante

indirizzi ad una banca, affinché questa conceda, mantenga o rinnovi un credito a favore di

una società controllata, l'indagine diretta a stabilire se le lettere medesime si limitino a

contenere dati e notizie sulla situazione del gruppo o sul rapporto di controllo, rilevanti al solo

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fine di mettere la banca in condizione di valutare adeguatamente l'opportunità di riconoscere

detto credito, ovvero implichino anche l'assunzione di garanzia fideiussoria per i debiti della

società controllata, si traduce in un accertamento di merito, come tale insindacabile in sede di

legittimità, se correttamente ed adeguatamente motivato» (Cass., sez. 1, 9 maggio 1985, n.

2879).

11.2 Cassazione civile, sez. III, 26/01/2010, n. 1520

L'obbligo di indicazione dell'importo massimo garantito previsto per le fideiussioni per

obbligazioni future o condizionali dall'art. 1938 c.c., nel testo novellato dalla l. 154/92,

corrisponde ad un principio generale di garanzia e di ordine pubblico economico ed ha valenza

generale, applicandosi anche alle garanzie atipiche e, tra queste, alle lettere di patronage.

RILIEVI FINALI

L’analisi della giurisprudenza sopraindicata, in tema di diritto delle obbligazioni, permette di

svolgere alcune considerazioni finali riepilogative.

Le differenti tipologie di rapporti obbligatori oggetto di esame (solidali, pecuniarie e di

garanzia) sono governate da vari e spesso conflittuali principi (favor creditoris e, all’opposto,

tutela del debitore), che la Suprema Corte, negli ultimi anni, sta cercando di comporre secondo un

percorso dialogico.

A fronte della disciplina disegnata dal legislatore in materia di obbligazioni solidali, ad esempio,

totalmente informata al rispetto del criterio del favor creditoris (prova ne sia l’art. 1294 c.c., che

fonda la regola della solidarietà passiva, salve eccezioni tassativamente previste dalla legge o dal

titolo), rileva, soprattutto in materia di obbligazioni pecuniarie, l’esaltazione pretoria di un opposto

principio di tutela del debitore, quale soggetto debole del rapporto obbligatorio.

Ciò rinviene conferma, come accennato, nella sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, 18

dicembre 2007, n. 26617, la quale impedisce al creditore di rifiutare un pagamento mediante

assegno circolare, in spregio ai principi di correttezza e buona fede oggettiva (a meno che non

adduca giustificati e fondati motivi), nonché nella pronuncia della Cassazione, Sez. Un.,

13/09/2016, n. 17989, che, chiarendo definitivamente la dibattuta distinzione tra obbligazioni

“portabili” e “chiedibili” (con tutto ciò che ne consegue in punto di diversità di disciplina), ha

statuito come le obbligazioni pecuniarie da adempiere al domicilio del creditore a norma dell'art.

1182, comma 3, c.c. siano - agli effetti sia della mora "ex re", sia del "forum destinatae solutionis" -

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esclusivamente quelle liquide, delle quali cioè il titolo determini l'ammontare o indichi criteri

determinativi non discrezionali.

L’esigenza protettiva nei confronti del debitore emerge anche a seguito della disamina

giurisprudenziale in tema di patto commissorio, seppur colorata e arricchita, in via pretoria,

mediante l’esaltazione della c.d. causa in concreto.

In particolare, muovendo dall’istituto di cui all’art. 2744 c.c., la Suprema Corte affida al giudice di

merito l’essenziale compito di decifrazione della reale volontà delle parti, cristallizzata in

operazioni negoziali, apparentemente lecite, di vario tenore (sale and lease back, vendita con patto

di riscatto), ma sostanzialmente sussumibili sotto l’egida del divieto di patto commissorio tutte le

volte in cui si realizzi una sproporzione, a danno del debitore, tra valore del bene trasferito al

creditore e importo del credito.

Tuttavia, sul punto, la giurisprudenza, in un’ottica riequilibratrice e conservativa del rapporto

negoziale, attribuisce al patto marciano, come sopra descritto, la finalità di correggere le storture

derivanti dall’accordo ex art. 2744 c.c. (con ciò aderendo alla tesi secondo cui la ratio giustificatrice

della citata previsione normativa riposerebbe non su un generico contrasto a forme non ammesse di

autotutela privatistica, bensì sulla concreta e precipua esigenza di evitare sperequazioni economiche

a danno del soggetto debole, posto in condizione di passività).

Da ultimo, la valorizzazione del profilo causale può essere ben apprezzata avendo riguardo

alle pronunce in tema di garanzie personali.

Muovendo dal prototipo tipico (la fideiussione), la Suprema Corte ammette ormai forme innominate

di garanzie personali, stavolta in una prospettiva di favor creditoris (si pensi alle lettere di

patronage, al contratto autonomo di garanzia nonché alle polizze fideiussorie), quali fattispecie

basate su una causa prettamente indennitaria e traslativa del rischio, e del tutto disancorate da

qualsiasi rapporto di accessorietà rispetto all’obbligazione principale.

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Ulteriori argomenti specialistici di particolare interesse

1. Casistica sulle obbligazioni naturali. Obbligazione di mantenimento e convivenza more

uxorio atipica. La datio in solutum. Il problema della giuridicizzazione dell’obbligazione

naturale

2. Patto commissorio, vendita con patto di riscatto, lease back, trasferimenti risolutivamente

condizionati.

3. Lettere di patronage forti e deboli, casistica e regime

4. Differenza tra fideiussione con clausola di pagamento a prima richiesta e negozio

autonomo di garanzia: astrattezza assoluta o relativa?

5. Casistica sulle obbligazioni professionali (medico, avvocato, notaio, professionisti tecnici):

sono di mezzi o di risultato?

6. L’usura: problemi applicativi in tema di calcolo della soglia (massimo scoperto, cumulo di

interessi eterogenei, usura sopravvenuta)

7. La tutela del cliente vittima di clausole anatocistiche bancarie: profili sostanziali e

processuali

8. Casistica applicativa dell’articolo 1224, comma 2: assicurazione, espropriazione, tasse.

Risoluzione del contratto

9. Interessi moratori e transazioni commerciali (decreto legislativo 231/2002)

10. Le obbligazioni solidali: casistica in materia di obbligazione risarcitoria ex art. 2055

11. Solidarietà e parziarietà dopo la legge di riforma del condominio.