Diritto Privato 3 PDF
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DIRITTO PRIVATO 3
I. I DIRITTI REALI E IL POSSESSO
1. Beni
Distinzioni Sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti. La cosa, intesa come entità materiale o corporale,
è considerata il presupposto per la configurazione di un bene in senso giuridico; possono formare oggetto
di un diritto anche i cosiddetti beni immateriali, come accade per le creazioni intellettuali. Soltanto le cose
che possono formare oggetto di diritti sono beni: divengono beni solo le cose appropriabili, per cui non
sono beni in senso giuridico le cose extra commercium comuni a tutti, accessibili in modo illimitato. I beni si
possono distinguere a seconda di diversi punti di vista: beni mobili e immobili; consumabili e inconsumabili;
divisibili e indivisibili; fungibili e infungibili; presenti e future.
I beni immobili si distinguono in immobili per natura e immobili per destinazione di legge: nella prima
categoria rientrano il suolo e una serie di entità ad esso incorporate, come gli edifici; alla seconda categoria
appartengono invece quei beni che, pur non presentando il tratto della inamovibilità, sono funzionali in modo
permanente allo svolgimento di un’attività collegata alla terraferma. I beni mobili sono individuati, invece,
per esclusione, comprendendo tutti i beni che non sono riconducibili a nessuna delle categorie di immobili.
La distinzione tra beni immobili e beni mobili rileva a vari effetti.
In primo luogo è diverso il regime di circolazione dei diritti sui beni stessi. I negozi che costituiscono o
trasferiscono diritti reali su beni immobili sono circondati da diverse cautele, che si sostanziano nella
necessità di forme particolari richieste a pena di nullità e nella necessità di rendere conoscibili ai terzi
estranei le vicende stesse, mediante l’adozione di un sistema di pubblicità affidato ai registri immobiliari.
Esiste poi una categoria particolare di beni mobili, ossia i beni mobili per i quali la legge istituisce particolari
meccanismi di registrazione e di pubblicità delle vicende dei diritti che li riguardano. Sono beni mobili
registrati gli autoveicoli, le navi e gli aeromobili, cui si applica un regime di circolazione controllata.
In secondo luogo, la distinzione tra beni immobili e mobili si riflette sulla conformazione della garanzia reale, che assume la forma dell’ipoteca, se oggetto ne è un immobile, e quella del pegno, se è un oggetto
mobile.
In terzo luogo, vi sono situazioni giuridiche soggettive che possono avere ad oggetto solo beni immobili:
sono tali i diritti di superficie, enfiteusi, abitazione, servitù, cui si aggiunge, quale diritto di godimento, il diritto
che nasce dal contratto di anticresi. Alcuni tipi di contratto non sono possibili se non con riferimento a beni
mobili: così il contratto di estimatorio, la somministrazione, il trasporto, il deposito, il mutuo.
In quarto luogo, la natura mobiliare o immobiliare delle cose influisce diversamente sui modi di appropriazione: mentre è ammissibile che un bene mobile si trovi a non appartenere a nessun proprietario,
lo stesso non è concepibile per gli immobili, i quali, se non risultano di proprietà di alcuno, diventano
automaticamente di proprietà dello Stato.
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Le cose consumabili sono le cose insuscettibili di un uso ripetuto senza che ciò comporti una perdita del
loro valore originario. Esse possono essere oggetto soltanto del diritto di proprietà e non di diritti reali minori:
se infatti si costituisce un usufrutto su cose consumabili, si darebbe vita ad un diritto diverso (quasi-
usufrutto), giacché l’usufruttuario non potrebbe restituire le stesse cose al termine dell’usufrutto, ma sarebbe
tenuto a pagarne il valore.
Le cose divisibili sono quelle suscettibili di essere ridotte in frazioni, senza che le singole frazioni perdano la
loro qualità sostanziale o la loro funzione economica; cose indivisibili sono quelle per cui tale suddivisone è
materialmente o economicamente impossibile. La distinzione rileva soprattutto nei casi di comproprietà del
bene in vista della divisione; l’indivisibilità di un bene può dipendere anche dalla legge o dalla volontà delle
parti.
Le cose fungibili sono quelle che risultano identiche, per qualità, ad altre cose appartenenti allo stesso
genere, cosicché rileva soltanto l’aspetto quantitativo (peso, numero, misura). Sono infungibili tutte le altre
cose, che rilevano per le loro qualità particolari e non possono, perciò, essere sostituite con altre di diversa
specie. La distinzione tra cose fungibili e infungibili viene in rilievo sotto diversi profili: l’adempimento delle
obbligazioni, poiché l’obbligo di prestare cose fungibili non viene mai meno per impossibilità della
prestazione; il modo e il tempo in cui la proprietà dei beni fungibili passa dal venditore al compratore, per i
quali occorre la previa individuazione; l’identificazione di certi contratti, quali il mutuo (che può avere ad
oggetto soltanto il denaro o altre cose fungibili) e il deposito (che diventa irregolare quando ha per oggetto
una quantità di denaro o di altre cose fungibili, con facoltà per il depositario di servirsene).
Le cose presenti, ossia già esistenti in natura, possono formare oggetto di proprietà o di diritti reali; al
contrario, le cose future possono formare oggetto di rapporti obbligatori, perché un potere immediato non
può esercitarsi su una cosa che ancora non esiste.
Universalità di beni mobili, pertinenze, frutti È considerata universalità di mobili la pluralità di cose che appartengono alla stessa persona e hanno una
destinazione unitaria. Caratteristica dell’universalità è di poter essere considerata come un unico bene
rispetto alle singole unità che concorrono a comporla. Accanto all’universalità di mobili, esiste l’universalità di diritto, che si ha quando una pluralità di beni e di rapporti giuridici è considerata dal legislatore come un
complesso unitario. Le cose o i rapporti che costituiscono l’universalità di diritto sono diversi e privi di una
unitarietà omogenea, il processo di unificazione trova fondamento non nell’atto di destinazione del
proprietario ma nella legge. Alla figura della universalità di diritto si riconducono l’eredità, intesa come
l’insieme di beni, di diritti e di obblighi che facevano capo al de cuius, e l’azienda, definita come il complesso
dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa. Tanto l’eredità quando l’azienda sono
suscettibili di rilevanza unitaria, potendo ad esempio formare oggetto di un’unica negoziazione.
Sono pertinenze le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa. Il regime
delle pertinenze si articola in tre regole fondamentali: gli atti e i rapporti che hanno per oggetto la cosa
principale comprendono anche le pertinenze, salvo che sia diversamente disposto (accessorium sequitur
principale); la disponibilità separata, per cui il rapporto pertinenziale può essere fatto cessare dando
all’accessorio sorte autonoma come oggetto di separati atti giuridici; la salvezza dei diritti dei terzi sulle cose
destinate a pertinenze.
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I frutti sono beni prodotti da altri beni. Essi si distinguono in naturali e civili: i frutti naturali provengono
direttamente dalla cosa e si presentano come possibile oggetto di diritti reali; i frutti civili si ritraggono dalla
cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia e sono sempre alla base di diritti di credito. I frutti naturali, fino a che non sono separati dalla cosa che li produce, si dicono pendenti, per cui non hanno
un’autonoma individualità ma formano parte della cosa fruttifera, seguendone le sorti. Di regola, i frutti
naturali appartengono al proprietario della cosa madre, ma, se la cosa fruttifera è oggetto di diritti reali di
godimento, o è posseduta in buona fede da persona diversa del proprietario, la legge prevede che i frutti
siano acquistati dai soggetti titolari di quei diritti, o dal possessore di buona fede per il semplice fatto della
separazione. Nel caso dei frutti civili, si presuppone che una cosa sia stata concessa in godimento ad un
altro soggetto e a titolo oneroso: sono frutti civili gli interessi dei capitali, i canoni enfiteutici, le rendite, il
corrispettivo delle locazioni. I frutti civili si acquistano giorno per giorno, in ragione del rapporto con la cosa
madre.
Beni pubblici La proprietà è pubblica o privata: il codice individua e disciplina i beni appartenenti allo Stato e agli enti
pubblici, i quali sono soggetti a un regime giuridico speciale. I beni pubblici si distinguono in beni demaniali e beni patrimoniali. Nell’ambito dei beni demaniali, si distinguono beni del demanio necessario, o naturale, e beni del demanio
accidentale, o eventuale: nel primo gruppo rientrano beni che possono appartenere esclusivamente allo
Stato, non essendo concepibile una proprietà privata degli stessi (demanio marittimo, idrico, militare); nel
secondo gruppo rientrano beni che possono appartenere anche a privati e che fanno parte del demanio solo
se appartengono allo Stato o agli enti territoriali (strade, immobili di interesse storico). I beni che fanno parte
del demanio pubblico sono inalienabili, e quindi neppure usucapibili, e non possono formare oggetto di diritti
a favore dei terzi, se non nei modi (in genere mediante concessione amministrativa) e nei limiti stabiliti dalla
legge. Tutti i beni non demaniali appartenenti allo Stato o agli enti pubblici territoriali ne costituiscono il
patrimonio.
Nell’ambito dei beni patrimoniali, si distinguono beni indisponibili e beni disponibili: i primi hanno una
particolare destinazione di pubblico interesse, alla quale non possono essere sottratti se non nei modi
stabiliti dalla legge; i secondi non sono assoggettati a un regime giuridico speciale, ossia valgono le stesse
regole dettate per i beni dei privati, per cui sono alienabili e usucapibili.
2. Proprietà
Nozioni La proprietà è il diritto reale che ha per contenuto la facoltà di godere e disporre delle cose in modo pieno
ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico.
La facoltà di godimento comprende tutte le possibili forme di utilizzazione del bene. Il proprietario è
legittimato a far uso della cosa per i propri fini e nel proprio interesse, traendo dalla cosa tutte le utilità volute,
direttamente o indirettamente, ricavandone, in questo secondo caso, i frutti civili. La proprietà è un diritto
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imprescrittibile, non estinguendosi per mancato esercizio, salvi gli effetti dell’acquisto della proprietà da parte
di altri per usucapione.
La facoltà di disposizione è invece quella con cui il proprietario provoca una modificazione della
condizione giuridica della cosa: il mutamento della titolarità del diritto, mediante un atto di alienazione, o la
costituzione, a favore di terzi, di un diritto reale minore, cioè di nuove situazioni soggettive inerenti alla
stessa cosa.
Il diritto di proprietà rappresenta il paradigma di tutto il sistema dei diritti reali, essendo il fondamento
indispensabile sul quale poggiano tutti gli altri; questi sono detti diritti reali minori, perché attribuiscono al
titolare poteri di utilizzazione del bene inferiori a quelli che spettano al proprietario.
La proprietà condivide con i diritti reali di godimento alcuni caratteri: l’immediatezza, intesa come possibilità,
assicurata al titolare del diritto, di ottenere un certo risultato utile senza che occorra l’apporto della
prestazione altrui; l’assolutezza, con cui si allude sia all’obbligo negativo di tutti gli altri consociati di
astenersi da turbative, sia alla inerenza del diritto al bene oggetto, intesa come opponibilità del diritto nei
confronti di chiunque.
Alle facoltà del proprietario si riconducono poi le nozioni di pienezza del diritto ed esclusività del diritto. Per
pienezza del diritto si intende che la proprietà non conferisce poteri delimitati o specifici, ma un’attribuzione
caratterizzata dalla generalità delle forme di godimento e di disposizione. Ciò distingue la proprietà dagli altri
diritti reali. La pienezza del diritto di proprietà viene meno in presenza di diritti reali di godimento; tuttavia la
proprietà resta, anche in tal caso, potenzialmente piena, giacché, per effetto del principio della elasticità del dominio, essa conserva l’attitudine a riprendere automaticamente la primitiva pienezza una volta estinto
il vincolo che ne limitava il contenuto.
Per esclusività del diritto si intende invece che il proprietario ha la facoltà di vietare i comportamenti che si
concretino in un’ingerenza sulla cosa. Esistono limiti e obblighi che si accompagnano al diritto di proprietà e
che concorrono, al pari delle facoltà, a darne l’esatta configurazione: il divieto degli atti emulativi, gli obblighi
di non lasciare deperire i propri beni con grave pregiudizio verso la sanità pubblica, la regola delle
immissioni, le prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Nella Costituzione la proprietà privata è contemplata non tra i principi fondamentali, ma nell’ambito dei
rapporti economici. Questa collocazione segna una decisiva discontinuità rispetto alla tradizione precedente,
la quale, seguendo la traccia indicata dai teorici del diritto naturale, poneva la proprietà tra i diritto inviolabili.
La Costituzione garantisce la posizione del proprietario e tutela i suoi interessi privati, ma ammette limiti in
nome dell’interesse generale. La garanzia costituzionale della proprietà privata si articola nei seguenti
punti: la determinazione dei modi di acquisto, di godimento e dei limiti può avvenire soltanto per via
legislativa (riserva di legge relativa); l’espropriazione della proprietà privata può avvenire solo sulla base di
disposizioni di legge, per una causa di interesse generale e dietro indennizzo; le limitazioni alla proprietà
privata non possono spingersi fino al punto di svuotare sostanzialmente la proprietà privata di ogni contenuto
(garanzia del contenuto minimo della proprietà privata). Accanto alla garanzia della proprietà privata, la
Costituzione prevede anche una funzione sociale della proprietà, alla luce dei principi di solidarietà e di
eguaglianza sociale. La Costituzione impone una mediazione tra interesse individuale e interessi connessi
alla dimensione sociale. La funzione sociale può manifestarsi attraverso varie tecniche di intervento,
riconducibili a due: la prima si attua attraverso un’opera di diretta conformazione e definizione dei poteri del
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proprietario (legislazione urbanistica); la seconda si realizza con norme che incidono indirettamente sui modi
di godimento o sulla destinazione del bene, attraverso la disciplina del contenuto degli atti di autonomia
privata relativi al bene stesso (normativa in tema di locazioni di immobili urbani). Il legislatore, inoltre, deve
mirare a rendere la proprietà privata accessibile a tutti e, a tal fine, può prevedere agevolazioni fiscali,
prelazioni legali, norme sull’edilizia popolare, leggi di riforma fondiaria. Un particolare rilievo ha, infine, il
divieto degli atti emulativi, cioè gli atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare
molestia ad altri. Il proprietario non può considerarsi legittimato, solo perché titolare del diritto, a fare uso
della cosa senza il benché minimo riguardo agli interessi altrui. Per poter qualificare il comportamento del
proprietario come emulativo, occorre che l’atto abbia soltanto il danno ad altri come scopo: così, per rendere
lecito l’atto, basta che il proprietario abbia tratto dal proprio comportamento una qualsiasi utilità.
Proprietà fondiaria: rurale e edilizia La disciplina della proprietà nel codice, oltre alle disposizioni generali, è prevalentemente dedicata alla
proprietà fondiaria. Particolari figure di proprietà fondiaria sono la proprietà rurale, cioè dei terreni rustici o
urbani, la proprietà edilizia, cioè degli edifici. Tali figure sono contraddistinte, rispettivamente, dalla
destinazione agricola o edilizia del fondo.
Per ciò che attiene all’estensione della proprietà, la proprietà del suolo era tradizionalmente concepita
come proprietà di tutto ciò che sta sotto il suolo e sopra il suolo, senza alcun limite in profondità e in altezza
(ab inferis usque ad sidera). Oggi il codice si colloca in una prospettiva diversa: stabilisce infatti che la
proprietà del suolo si estende al sottosuolo, con tutto ciò che vi contiene, ma indica una serie di ipotesi in cui
questo criterio non vale. In primo luogo, tale criterio non si applica a quanto forma oggetto delle leggi sulle
miniere, cave e torbiere, mentre è soggetto ai limiti previsti dalle leggi sulle antichità, sulle acque e da alcune
leggi speciali, che prevedono la sottrazione del sottosuolo alla disponibilità del proprietario. In secondo
luogo, la titolarità del diritto di proprietà non rende legittima qualsiasi attività del dominus nel sottosuolo, non
potendo recare danni al vicino. Infine, ai terzi non è preclusa qualsiasi attività nel sottosuolo: affinché il
proprietario possa opporvisi, occorre che egli abbia interesse ad escluderle (il proprietario di un fondo situato
su una collina non può impedire l’escavazione di una galleria). Per lo spazio aereo, il codice si limita a
stabilire che il proprietario non può opporsi ad attività di terzi che si svolgano a tale altezza nello spazio
sovrastante che gli non abbia interesse ad escluderle (aerei)
Il proprietario può chiudere in qualunque tempo il fondo, in funzione di protezione del bene. Il proprietario
può dunque vietare l’accesso al fondo da parte di estranei, con due eccezioni: non può impedire l’esercizio
di servitù di passaggio costituite a favore di terzi e non può impedire che il cacciatore entri nel fondo per
cacciarvi, a meno che il fondo sia chiuso o vi siano colture suscettibili di danno. Inoltre, il proprietario deve
permettere l’accesso e il passaggio sul suo fondo in presenza di particolari esigenze altrui, e cioè quando il
vicino ha necessità di costruire un muro o vuol prendere la cosa sua che vi si trova accidentalmente o
l’animale che vi si trovi sfuggendo alla sua custodia.
Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori e simili
propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità. La norma è applicabile
dove siano presenti la materialità dell’immissione e il carattere continuato o periodico dell’immissione. Il
codice delimita il concetto di immissioni lecite in quanto tollerabili tramite il riferimento a parametri oggettivi,
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quali la condizione dei luoghi, le esigenze della produzione, la priorità di un determinato uso. Quando
un’immissione risulti intollerabile, chi la subisce può ottenere dal giudice misure di protezione.
Le norme sulla proprietà terriera si raccolgono attorno a tre nuclei: il compendio unico, ossia l’estensione
di terreno necessaria al raggiungimento del livello minimo di redditività; la bonifica integrale, per cui
l’autorità amministrativa può determinare comprensori di bonifica, con obbligo per i proprietari di contribuire
alle spese; i vincoli per scopi idrogeologici, in particolare le limitazioni rivolte a conservare i boschi. La
proprietà agraria rinviene oggi la sua disciplina più significativa nelle leggi speciali: importante fu la legge
Sila (1950), la riforma agraria volta all’eliminazione del latifondo e alla redistribuzione della terra. Oggi le
Regioni hanno il compito di emanare norme per il recupero produttivo delle terre incolte.
I principali strumenti di conformazione della proprietà edilizia, rintracciabili nella normativa extracodicistica,
sono l’attività di pianificazione urbanistica e il permesso di costruire. L’attività di pianificazione urbanistica,
divenuta obbligatoria per tutti i Comuni, si svolge attraverso i piani regolatori: il piano regolatore generale è
predisposto dal Comune al fine di fissare le linee dello sviluppo urbanistico; il piano particolareggiato è
volto a considerare le singole zone del territorio comunale e a specificare nei dettagli le scelte urbanistiche
definite nello strumento generale. Il proprietario che intenda effettuare interventi edilizi di nuova costruzione
o ristrutturazione, comportanti il mutamento di destinazione d’uso dell’immobile o l’aumento del volume o
della superficie esistente, deve ottenere dal Comune un permesso di costruire. Tale permesso è
subordinato a due condizioni: alla conformità del progetto alle previsioni degli strumenti urbanistici;
all’esistenza di opere di urbanizzazione primaria. Per avere il permesso, il proprietario deve pagare un
contributo. Chi ponga in essere un’attività edilizia senza rispettare le norme previste commette un illecito
amministrativo; inoltre, contro l’abuso edilizio commesso dal vicino, il proprietario del fondo confinante può
chiedere la riduzione in pristino, cioè la demolizione della costruzione illegittimamente realizzata, e il
risarcimento del danno.
Nel quadro della disciplina dedicata ai rapporti di vicinato, si hanno norme relative ai seguenti ambiti: la
distanza tra le costruzioni, fissata nella misura minima di tre metri; il muro divisorio, che si presume di
proprietà comune; le luci e le vedute, ossia le aperture che, rispettivamente, impediscono e consentono di
affacciarsi sul fondo del vicino; le acque private, che si considerano appartenenti al demanio dello Stato.
Modi di acquisto della proprietà La proprietà si acquista per occupazione, invenzione, accessione, specificazione, unione o commistione, usucapione, per effetto di contratti, per successione a causa di morte. L’elencazione non
è tassativa: si pensi all’acquisto dei beni mobili mediante il possesso vale titolo, agli acquisti coattivi, alla
vendita forzata dei beni del debitore, alla confisca. Tra i modi di acquisto della proprietà elencati nel
codice, i contratti e la successione a causa di morte si pongono a fondamento dell’acquisto di altri diritti oltre
alla proprietà, mentre l’usucapione può avere ad oggetto anche i diritti reali su cosa altrui.
Particolare importanza ha la distinzione tra modi di acquisto della proprietà a titolo derivativo e a titolo
originario. I modi di acquisto a titolo derivativo sono quelli nei quali il diritto di proprietà prende origine,
deriva dall’altrui diritto: essi presuppongono la precedente proprietà di un altro soggetto e il suo passaggio in
quella dell’acquirente. I modi di acquisto a titolo derivativo sono il contratto e la successione a causa di
morte.
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I modi di acquisto a titolo originario sono quelli che prescindono dal rapporto con un precedente titolare in
veste di dante causa: essi non trovano fondamento nella precedente proprietà di un altro soggetto, ma si
costituiscono ex novo in virtù di un determinato fatto, sino a provocare l’estinzione della proprietà altrui. Alla
categoria dei modi di acquisto a titolo originario appartengono l’occupazione, l’invenzione, l’accessione, la
specificazione, l’unione o commistione, l’usucapione.
La distinzione tra modi di acquisto a titolo originario e derivativo ha particolare importanza. Nell’acquisto a
titolo derivativo, il diritto di proprietà spetta all’avente causa come e in quanto esso spettava al dante causa:
se chi trasmette la proprietà non ne è titolare, o ha un diritto di proprietà non pieno perché gravato da un
diritto reale minore, l’acquirente non acquista nessun diritto, o non acquista un diritto con ampiezza
maggiore; se il titolo del dante causa viene meno, cade anche il diritto trasferito nel patrimonio dell’avente
causa. Nell’acquisto a titolo originario, invece, chi lo compie acquista un diritto di proprietà pieno e stabile, il
quale, non dipendendo dal diritto del proprietario precedente, non soffre dell’eventuale irregolarità
dell’acquisto anteriore.
Occupazione
L’occupazione è un modo di acquisto delle cose mobili che non sono in proprietà di alcuno, o perché non
appartenute mai ad altri (res nullius) o perché abbandonate dal proprietario (res derelictae). Può
riguardare solo le cose mobili, perché gli immobili che non risultano di proprietà di alcuno spettano
automaticamente al patrimonio dello Stato. L’occupazione di realizza con l’impossessamento, ossia con
l’atto di materiale apprensione del bene. Eccezionalmente, possono acquistarsi per occupazione anche beni
altrui (res alicuius): è il caso degli animali che formano oggetto di caccia, che il codice menzionava tra le
res nullius ma che sono entrati a far parte del patrimonio indisponibile dello Stato.
Invenzione
L’invenzione riguarda la cosa mobile smarrita, ossia la cosa di cui si è persa la disponibilità materiale, senza
che sia ravvisabile l’intenzione di disfarsi del bene. L’acquisto a titolo originario si realizza in favore del
ritrovatore quando, adempiuto l’onere di consegna al Sindaco del luogo in cui l’ha trovata, nell’anno non si
presenti il proprietario. Se invece il proprietario recupera la cosa, il ritrovatore ha diritto ad un premio da
parte del proprietario, pari al decimo del prezzo della cosa ritrovata.
Una particolare ipotesi di invenzione è il ritrovamento del tesoro, per tale intendendosi qualunque cosa
mobile di pregio, nascosta o sotterrata, di cui nessuno può provare di essere proprietario. Il tesoro
appartiene al proprietario del fondo in cui giace; se tuttavia è scoperto per solo effetto del caso da un terzo, il
tesoro spetta per metà al proprietario del fondo e per metà al ritrovatore; infine, se il ritrovamento riguarda un
oggetto che presenta interesse artistico, questo spetta allo Stato e lo scopritore ha diritto ad un premio.
Accessione
L’accessione si realizza quando una cosa accessoria si unisce o si incorpora ad una cosa principale: in tal
caso il bene accessorio subisce un’attrazione reale nella sfera della proprietà del bene principale. Il codice
utilizza questa figura per designare l’acquisto della proprietà per incorporazione di mobili, quali
piantagioni, costruzioni e opere, ad immobili, cioè il suolo: qualunque piantagione, costruzione od opera
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esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo. La regola dell’acquisto della proprietà per
accessione, tuttavia, è variamente modulata da meccanismi riequilibrativi, a seconda che l’attività sia
compiuta: dal proprietario del suolo, con materiali altrui; dal proprietario dei materiali, sul fondo altrui; da un
terzo, con materiali di un estraneo.
Se le costruzioni sono state fatte dal proprietario del suolo con materiali altrui, l’acquisto della proprietà è
automatico solo nel caso in cui la separazione da parte del proprietario delle cose incorporate comporti un
grave pregiudizio dell’opera costruita. Se, invece, la separazione è possibile, il proprietario delle cose
incorporate può rivendicarle. Qualora l’acquisto si perfezioni, per evitare un arricchimento senza causa a
detrimento altrui, è previsto un effetto obbligatorio a carico del proprietario del suolo.
Se le costruzioni sono state eseguite dal proprietario dei materiali sul fondo altrui, la proprietà delle opere
si acquista non appena è avvenuta l’incorporazione, ma il proprietario può chiedere la rimozione di quanto
realizzato e il risarcimento del danno. Tale facoltà può essere esercitata entro sei mesi dalla notizia
dell’incorporazione ed è preclusa nell’ipotesi di buona fede del terzo o quando le addizioni siano state fatte
senza l’opposizione del proprietario del suolo. Se, invece, si realizza l’acquisto per accessione, il proprietario
del suolo deve pagare al proprietario dei materiali la somma minore tra il valore dei materiali e l’aumento di
valore arrecato al fondo.
Se le costruzioni sono state fatte da un terzo con materiali altrui, il proprietario di questi può rivendicarli, se
la separazione può ottenersi senza grave danno; altrimenti il terzo che ne ha fatto uso e il proprietario del
suolo sono obbligati in solido al pagamento di una indennità pari al valore dei materiali stessi. Il proprietario
dei materiali può anche chiedere il risarcimento dei danni.
Il meccanismo dell’accessione incontra le eccezioni ricollegabili ad una diversa volontà delle parti. Nel caso
di occupazione di porzione di fondo attiguo, nota come accessione invertita, la proprietà dell’opera non va
a vantaggio del proprietario del suolo, ma è la proprietà dell’edificio ad attrarre a sé la proprietà del suolo.
Unione e commistione
L’unione o commistione ricorre quando due o più cose mobili, diverse o omogenee tra loro, appartenenti
a diversi proprietari, siano unite o mescolate in modo da formare un solo tutto e da risultare inseparabili, o da
esserlo solo con effetto distruttivo per la funzionalità delle cose stesse. In tal caso, se una delle cose è
principale rispetto all’altra, o la supera di molto per valore, il proprietario di essa diventa da solo proprietario
del tutto, salvo l’obbligo di pagamento di un indennizzo e, se l’unione o la mescolanza è imputabile a fatto
grave, del risarcimento del danno. Se nessuna delle cose inseparabili possa considerarsi principale, sorge
una situazione di comproprietà.
Specificazione
La specificazione ricorre nel caso di elaborazione di una nuova cosa dalla materia di altri. Il conflitto tra il
lavoro e la proprietà della materia è risolto attribuendo la proprietà della nuova cosa a chi ha compiuto
l’opera; se però il valore del materiale sorpassa notevolmente quello della mano d’opera, la soluzione del
conflitto è ribaltata e l’acquisto della proprietà della cosa specificata si realizza in favore del proprietario della
materia. In entrambi i casi, all’acquisto della proprietà della nuova cosa si accompagna l’effetto legale di
pagamento di un indennizzo.
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Incrementi fluviali
Gli incrementi fluviali legati ad eventi naturali sono tradizionalmente considerati come ipotesi di
accessione di immobile a immobile. Nel caso dell’alluvione, l’acquisto delle unioni di terra e degli
incrementi fluviali formatisi nei fondi posti lungo le rive dei fiumi si produce a favore dei proprietari dei fondi
stessi. Nel caso dell’avulsione, l’acquisto della proprietà si produce a vantaggio del proprietario del fondo
rivierasco, al quale si è unita una porzione di terreno considerevole trascinata da altro fondo per forza
dell’acqua: in questa ipotesi, tuttavia, vi è l’obbligo del versamento all’altro proprietario di un’indennità. Il
codice conosceva un’altra ipotesi di acquisto della proprietà per accessione naturale, l’alveo abbandonato,
oggi assoggettato al regime del demanio pubblico.
Azioni a difesa della proprietà Le azioni a difesa della proprietà, dette anche petitorie o reali, sono l’azione di rivendicazione, l’azione
negatoria, l’azione di regolamento dei confini, l’azione per apposizione di termini. Esistono altre misure
di tutela, le quali non sono tuttavia previste esclusivamente per il diritto di proprietà, ma anche per gli altri
diritti reali di godimento e per il possesso: si tratta delle azioni di nunciazione (denunzia di nuova opera e
denunzia di atto temuto).
Azione di rivendicazione
Con l’azione di rivendicazione, il proprietario fa valere il suo diritto di proprietà per recuperare la cosa da
altri illegittimamente posseduta o detenuta. L’azione di rivendicazione ha una finalità restitutoria: con essa il
proprietario, che non è nel possesso della cosa, chiede, previo accertamento della titolarità del proprio
diritto, la condanna alla restituzione del bene. L’azione ha natura reale: essa si rivolge cioè non solo nei
confronti della persona che per prima si è impossessata del bene, ma contro chiunque ne ha attualmente la
disponibilità di fatto ed è quindi in grado di restituirlo. Il convenuto che, dopo la domanda, ha cessato, per
fatto proprio, di avere la disponibilità di fatto della cosa, è obbligato a recuperarla o a corrispondergliene il
valore, oltre a risarcirgli il danno. Il proprietario può agire anche contro il nuovo possessore o detentore e
conseguire da quest’ultimo la restituzione della cosa.
Secondo il principio generale in materia di onere della prova, chi agisce in rivendicazione deve fornire la
dimostrazione del suo diritto di proprietà, anche se il convenuto si astenga dal vantare un titolo che lo
legittima a possedere o a detenere. Tale prova può presentare aspetti di particolare difficoltà (probatio diabolica), soprattutto quando si tratti di beni immobili: per essere proprietario, infatti, non basta aver
acquistato il bene in base a una compravendita, a una donazione o a una successione mortis causa, perché
il dante causa potrebbe non essere stato a sua volta proprietario; occorre dare la prova anche dell’acquisto
legittimo dei vari danti causa dell’attore, immediati e mediati, fino a risalire ad un acquisto a titolo originario
da cui ha avuto origine la catena dei trasferimenti.
Nell’assolvimento di questo onore probatorio, allora, l’attore in rivendicazione può giovarsi dell’istituto
dell’usucapione, che può essere costruito avvalendosi della successione nel possesso (o
dell’accessione nel possesso, se la successione è a titolo particolare), che consente di sommare la durata
del proprio possesso a quella dei danti causa. Per i beni mobili, inoltre, ai fini della ricerca dell’acquisto a
titolo originario soccorre la regola possesso vale titolo.
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L’azione di rivendicazione è imperscrittibile; tuttavia, se all’inerzia prolungata del proprietario fa riscontro il
possesso del non proprietario per il tempo necessario ad usucapire, questi alla fine ne acquista la proprietà
a titolo originario e l’azione di rivendicazione promossa non potrà avere alcun seguito. Se il proprietario ha
interesse solo alla restituzione o alla consegna della cosa che si trova in mano di altri, potrà esercitare,
anziché l’azione di rivendicazione, l’azione personale ex contractu nei confronti del soggetto parte del
rapporto contrattuale (del conduttore, del comodatario) e basterà dare la prova del contratto.
Azione negatoria
L’azione negatoria viene esercitata dal proprietario contro chi affermi l’esistenza di un diritto reale minore
sulla cosa, come un usufrutto o una servitù prediale. L’azione negatoria tende ad accertare che il diritto di
proprietà non è gravato dai vincoli e dalle limitazioni da altri affermate: costituisce un’azione di
accertamento negativo, che può essere esperita se sussiste, in capo all’attore, un motivo di temere
pregiudizio dall’affermazione altrui. L’azione negatoria può anche assolvere ad una funzione inibitoria, per
cui il proprietario potrà ottenere l’ordine di cessazione delle turbative arrecate sulla base del diritto vantato,
nonché ad una funzione risarcitoria. Incombe all’altra parte l’onere di provare l’esistenza del diritto che
pretende di avere su quel bene altrui. L’azione negatoria è imperscrittibile, salvi gli effetti dell’acquisto del
diritto reale di godimento da parte di altri per usucapione.
Azione di regolamento dei confini e per apposizione di termini
L’azione di regolamento di confini è volta a identificare esattamente il confine tra due fondi quando la linea
materiale di demarcazione sia incerta. Si parla di conflitto non di titoli, ma di fondi: la situazione di incertezza
deriva infatti dalla mancanza di un limite o dalla circostanza che l’attore ritiene inesatto il confine apparente.
L’azione per apposizione di termini presuppone che non sia individuata la linea di demarcazione tra i due
fondi contigui. Ciascuno dei due proprietari può allora chiedere al giudice che i segnali di confine siano
apposti o ristabiliti.
3. Superficie
Il diritto di superficie è il diritto di edificare e di mantenere sul suolo altrui, o nel sottosuolo altrui, una
propria costruzione. Il diritto di superficie limita l’attività di godimento del proprietario del suolo e inibisce
l’operatività del principio generale dell’accessione, impedendo al proprietario del suolo di acquistare a titolo
originario la proprietà della costruzione esistente sopra o sotto di esso. Il diritto di superficie, infatti, giustifica
la coesistenza di una proprietà della costruzione, detta proprietà superficiaria, di spettanza del
superficiario, separata da quella del suolo.
Il diritto di superficie si presenta in due varianti: l’una consiste nel diritto di fare al di sopra o al di sotto del
suolo altrui una nuova costruzione; l’altra consiste nel diritto di mantenere la proprietà della costruzione
una volta ultimata. Il diritto del superficiario di fare una nuova costruzione al di sopra o al di sotto del suolo
altrui si prescrive per non uso dopo venti anni; mentre, se la costruzione già esiste, su di essa si instaura un
vero e proprio diritto di proprietà, come tale non soggetto a prescrizione estintiva.
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Potrebbe anche accadere che il proprietario di un’immobile alieni la proprietà della costruzione già esistente
separatamente dalla proprietà del suolo: in questo caso l’avente causa acquista direttamente, insieme alla
proprietà superficiaria, il diritto di superficie di mantenere la costruzione sul suolo che è rimasto di proprietà
altrui. La proprietà superficiaria dell’edificio resta dunque legata alle vicende del diritto reale su cosa altrui. Il
diritto di superficie, inoltre, può essere costituito in perpetuo o a tempo determinato; è configurabile solo per
le costruzioni mentre, per espressa previsione normativa, non lo è per le piantagioni.
Fonti del diritto di superficie sono un atto di diposizione negoziale del proprietario e l’usucapione. Sono
modi di acquisto negoziali il contratto e il testamento; il contratto con cui si costituisce il diritto di superficie
è ricompreso tra i negozi ad efficacia reale, può essere a titolo oneroso o a titolo gratuito, deve farsi per atto
pubblico o per scrittura privata sotto pena di nullità, è soggetto all’onere della pubblicità col mezzo della
trascrizione. Il diritto di superficie si acquista invece per usucapione quando venga in considerazione una
situazione di possesso.
Sia il diritto di superficie che la proprietà superficiaria possono essere oggetti di alienazione. Il superficiario
può inoltre disporre del proprio diritto costituendovi altri diritti reali minori: il titolare del solo diritto di edificare
può concedere un’ipoteca sul bene che è oggetto del suo diritto.
Il codice prevede espressamente alcune cause di estinzione del diritto di superficie: la scadenza del
termine, se apposto nel contratto; il perimento della costruzione, salvo dove diversamente stabilito; la
prescrizione per non uso ventennale, la quale riguarda soltanto il diritto di superficie nella sua accezione di
diritto a edificare. L’estinzione del diritto di superficie può avvenire anche per altre cause: per rinuncia
abdicativa del titolare; per consolidazione, ossia per riunione in capo allo stesso soggetto della posizione di
proprietario del suolo e di superificiario; per il verificarsi della condizione risolutiva, apposta nel titolo.
Con l’estinzione del diritto di superficie la proprietà del suolo si riespande e non soffre più limiti all’attività
edificatoria. Torna così ad operare il principio dell’accessione, cosicché il proprietario del suolo diventa
proprietario della costruzione. Il superficiario non ha diritto ad alcun corrispettivo.
4. Enfiteusi
L’enfiteusi è un diritto reale di godimento su fondo altrui caratterizzato dalla particolare ampiezza delle
facoltà attribuite al titolare. L’enfiteuta ha gli stessi diritti che avrebbe il proprietario sui frutti del fondo, sul
tesoro e sulle utilizzazioni del sottosuolo; il suo diritto si estende alle accessioni; a differenza
dell’usufruttuario, l’enfiteuta può anche trasformare il bene, mutandone la destinazione economica; mentre
l’usufrutto ha sempre una durata temporanea, l’enfiteusi può essere anche perpetua e comunque di almeno
venti anni. L’enfiteuta ha due obblighi fondamentali, quello di migliorare il fondo e quello di versare al
concedente un canone periodico. Nell’enfiteusi si rifletterebbe l’antica distinzione tra dominio utile, cioè
quello dell’enfiteuta, al quale è attribuita, con pienezza di poteri decisionali, la gestione del bene, e dominio diretto, ossia quello del concedente, il cui diritto si riduce ad una titolarità formale svuotata di contenuto.
Rispetto alla disciplina contenuta nel codice, l’enfiteusi ha subito nel corso degli anni significative modifiche
normative. Il legislatore, nell’intento di favorire in capo all’enfiteuta il titolo dell’appartenenza e dell’effettività
del godimento, ha sottratto all’autonomia delle parti la determinazione del canone e ha agevolato l’acquisto
della proprietà da parte dell’enfiteuta.
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Fonti dell’enfiteusi sono l’atto di autonomia privata, cioè il contratto e il testamento, e l’usucapione. Il
contratto deve rispettare i requisiti di forma, dovendo essere redatto con atto pubblico o scrittura privata, ed
è soggetto all’onere della trascrizione; si qualifica come contratto ad effetti reali e a prestazioni corrispettive. Sia il contratto che il testamento non possono derogare ad alcune norme, da considerare
imperative: il divieto di dar vita a un rapporto enfiteutico inferiore ai venti anni; la disponibilità del diritto
dell’enfiteuta; il divieto di subenfiteusi; la facoltà di affrancazione del fondo.
Nell’enfiteusi, al concedente fanno capo talune situazioni giuridiche soggettive di vantaggio. Esse sono: il
diritto al miglioramento del fondo; il diritto di credito relativo al versamento del canone periodico; la facoltà di
chiedere la devoluzione del fondo enfiteutico, il cui esercizio ha per conseguenza il riacquisto della piena
proprietà a vantaggio del concedente; la facoltà di chiedere la ricognizione del proprio diritto, che serve a
tutelare l’esigenza del proprietario di impedire l’acquisto per usucapione della piena proprietà del fondo da
parte dell’enfiteuta; il diritto, al cessare dell’enfiteusi, a ritenere le addizioni, salvo indennizzo da parte del
concedente.
L’enfiteuta ha gli stessi diritti che avrebbe il proprietario, potendo liberamente disporre del proprio diritto, per
atto tra vivi o per atto mortis causa. Convenzionalmente può essere stabilito il divieto di alienazione per una
durata non eccedente i venti anni, ma l’alienazione compiuta in violazione del divieto non è nulla,
comportando esclusivamente la responsabilità solidale dell’alienante per tutte le obbligazioni del nuovo
enfiteuta. L’enfiteuta ha inoltre il diritto potestativo di affrancazione del fondo, al cui esercizio consegue
l’effetto dell’acquisto della piena proprietà del fondo, dietro versamento di una somma, detto capitale di
affranco. Il diritto di affrancazione può esercitarsi in via extragiudiziale o in via giudiziale. L’affrancazione non
è subordinata ad alcun presupposto e il diritto di esercitarla prevale sulla facoltà del concedente di chiedere
la devoluzione o di avvalersi di un’eventuale clausola risolutiva espressa. Tra i diritti dell’enfiteuta collegati
all’estinzione del rapporto vi è il diritto di credito al rimborso dei miglioramenti.
Oltre alla rinuncia e alla consolidazione, sono causa di estinzione dell’enfiteusi: la scadenza del termine,
se si tratta di enfiteusi temporanea; il perimento integrale del fondo; la prescrizione estintiva, effetto del non
uso protratto per venti anni; l’acquisto della proprietà da parte dell’enfiteuta per esercizio del diritto di
affrancazione; riacquisto della piena proprietà da parte del concedente per esercizio del diritto alla
devoluzione.
5. Usufrutto, uso e abitazione
Il diritto di usufrutto attribuisce all’usufruttuario la facoltà di godere della cosa altrui e di trarne tutte le
utilità che essa può fornire, ma con il limite di rispettare la destinazione economica della stessa. Quando su
un bene è costituito un diritto di usufrutto, la posizione del proprietario è limitata: questi infatti non può
esercitare, finché dura l’usufrutto, la facoltà di godimento, per cui si parla di nuda proprietà. L’usufrutto è un
diritto reale di godimento temporaneo: non può eccedere la vita dell’usufruttuario o, se previsto in favore di
una persona giuridica, i trenta anni.
La costituzione dell’usufrutto può avvenire per contratto, testamento, usucapione, disposizione di legge. Il
proprietario può costituire a favore di altri l’usufrutto, conservando la nuda proprietà, oppure può mantenere i
l’usufrutto al momento della vendita o della donazione ad altri della nuda proprietà. La cosa può essere
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attribuita ad altri sia a titolo gratuito, come nel comodato, sia a titolo oneroso, come nella locazione; in
quest’ultima ipotesi si realizza la percezione di frutti civili. Particolari figure sono poi l’usufrutto legale,
spettante ai genitori sui beni dei figli minori, e l’usufrutto giudiziale, stabilito dal giudice in favore di uno dei
coniugi, in relazione alle necessità della prole, in seguito alla separazione.
I diritti nascenti dall’usufrutto sono espressione della facoltà di godimento che spetta all’usufruttuario. La
facoltà di godimento comprende sia l’uso che lo sfruttamento del bene, tanto diretto, attraverso la percezione
dei frutti naturali, quanto indiretto, attribuendo ad altri l’utilizzazione della cosa.
L’usufruttuario ha facoltà di esercitare il possesso della cosa, può agire a tutela del proprio diritto e ha
facoltà di disporre dello stesso diritto. In particolare, l’usufruttuario può cedere il proprio diritto per un certo
tempo o per tutta la sua durata, se ciò non è vietato dal titolo costitutivo; può costituire diritti reali minori,
cedendo in godimento al terzo il bene oggetto del proprio diritto a titolo di uso o di abitazione, o costituendo
sul bene stesso diritti di pegno e di ipoteca. Il diritto dell’usufruttuario, a differenza di quanto previsto per
l’enfiteuta, non comprende il tesoro che si scopra durante l’usufrutto.
Nell’esercizio della facoltà di godimento, l’usufruttuario incontra limitazioni e oneri. Oltre a rispettare la
destinazione economica della cosa, l’usufruttuario deve usare la diligenza del buon padre di famiglia nel
godimento della cosa; fare l’inventario e prestare garanzia; provvedere alla conservazione del bene,
sopportando le relative spese e facendo tempestiva denuncia al proprietario delle attività di terzi lesive del
suo diritto. L’obbligo principale dell’usufruttuario è quello di restituire la cosa al termine dell’usufrutto.
Sono cause di estinzione dell’usufrutto: la scadenza del termine; la morte dell’usufruttuario; la
prescrizione per non uso ventennale; la consolidazione; il totale perimento della cosa su cui si è costituito; la
rinuncia dell’usufruttuario; la decadenza dovuta ad abusi dell’usufruttuario. L’effetto tipico dell’estinzione
dell’usufrutto, come di qualsiasi altro diritto reale minore, è la riespansione della nuda proprietà in diritto di
piena proprietà. Dall’estinzione dell’usufrutto sorge, a carico dell’usufruttuario, l’obbligo di restituire la cosa,
ma sorgono anche, a suo favore, determinati diritti: il diritto ad un’indennità per i miglioramenti apportati e
sussistenti all’atto della restituzione; il diritto di togliere le addizioni; il diritto di esercitare la ritenzione sulle
cose da restituire sino al rimborso delle somme a lui spettanti. Il codice disciplina alcune conseguenze
dell’estinzione rispetto ai diritti costituiti dall’usufruttuario (locazione, servitù, ipoteca).
Una deviazione rispetto al paradigma normale dell’usufrutto è rappresentata dal quasi-usufrutto. Esso ha
ad oggetto beni consumabili, i quali, per poter essere utilizzati, devono essere consumato o alienati: in tal
caso l’usufruttuario ha l’obbligo di restituire, alla scadenza dell’usufrutto, non la stessa cosa ricevuta, ma
altrettante cose della stessa specie e qualità o il loro valore di stima. Ciò che l’usufruttuario acquista è la
proprietà dei beni. Nessuna deviazione rispetto allo schema tipico dell’usufrutto si ha invece quando esso
comprende cose deteriorabili, ossia cose suscettibili di una utilizzazione ripetuta, che ne diminuisce il valore
senza distruggerle: al termine dell’usufrutto, l’usufruttuario è tenuto a restituirle nello stato in cui si trovano.
L’usufruttuario è inoltre tenuto, per la durata del suo diritto, al pagamento dei carichi di godimento (imposte,
canoni).
Dall’usufrutto devono essere distinti l’uso e l’abitazione, che hanno contenuto più limitato. Il titolare del
diritto d’uso di una cosa può servirsene e, se fruttifera, raccoglierne i frutti, ma limitatamente ai bisogni propri
e della propria famiglia. Il titolare del diritto di abitazione ha facoltà d’uso dell’immobile al solo scopo di
abitarvi per soddisfare i bisogni propri e della propria famiglia. A differenza dell’usufrutto, i diritti di uso e
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abitazione non consentono un’utilizzazione indiretta della cosa: essi infatti non si possono cedere né dare
in locazione.
6. Servitù prediali
La servitù prediale è il diritto reale di godimento che consiste nel peso imposto sopra un fondo (fondo servente) per l’utilità di un altro fondo (fondo dominante) appartenente a diverso proprietario. Dal lato
passivo, la servitù crea a carico del proprietario del fondo servente una compressione della propria facoltà di
godimento, in funzione della realizzazione di una utilità per il fondo dominante; a ciò fa riscontro, dal lato
attivo, un incremento di facoltà in capo al titolare del fondo dominante, in ragione dell’utilità del suo fondo.
Esempi di servitù sono le servitù di passaggio, la servitù di presa o di derivazione d’acqua, la servitù di non
sopraelevazione.
Un carattere peculiare delle servitù è l’inerenza attiva, che vale a rendere inseparabile il diritto di servitù
dalla proprietà del fondo dominante: il diritto di servitù non può cioè essere trasferito separatamente dalla
proprietà del fondo dominante.
L’utilità deve essere stabilita in favore di un fondo, a prescindere dal suo titolare. L’utilità in favore di un
fondo implica che la servitù non possa costituirsi per soddisfare un’esigenza individuale o un interesse
meramente temporaneo di chi ne sia proprietario: la servitù tende a corrispondere a un bisogno permanente
del fondo dominante. Nei casi nei quali non è configurabile una servitù, ci troviamo di fronte a un diritto di
credito. L’utilità che la servitù è in grado di arrecare al fondo dominante può riguardare l’esercizio di
un’attività economica, consistere nella maggiore comodità del fondo dominante e può non essere attuale al
momento della costituzione della servitù. Quando l’utilità è rivolta ad un edificio da costruire o ad un fondo da
acquistare, l’efficacia reale della servitù è rimandata a decorrere dal giorno in cui l’edificio è costruito o il
fondo è acquistato.
La servitù si uniforma ad alcuni principi fondamentali: i due fondi (dominante e servente) devono
appartenere a proprietari diversi; il titolare del fondo servente che sopporta il peso non è tenuto ad alcuna
attività positiva in favore del fondo dominante, salvo previsione legale (obbligazioni propter rem); egli è
però tenuto a sopportare l’attività di ingerenza sul proprio fondo da parte del proprietario del fondo
dominante e, eventualmente, ad astenersi da determinate utilizzazioni del proprio fondo.
Si distinguono diverse categorie di servitù: servitù positive e servitù negative, a seconda che per il loro
esercizio sia richiesta o no un’attività del proprietario del fondo dominante, autorizzato ad ingerenze sul
fondo servente; servitù apparenti e servitù non apparenti, a seconda che si abbiano o no opere visibili e
permanenti destinate al loro esercizio; servitù continue e servitù discontinue, a seconda che per il loro
esercizio sia necessario o no il fatto dell’uomo (servitù di acquedotto). La più importante distinzione delle
servitù è però quella che riguarda i modi di costituzione, rispetto alla quale si distinguono servitù coattive e
servitù volontarie a seconda che si impongano in forza di legge o si ricolleghino ad una libera scelta dei
soggetti interessati. Nelle servitù coattive, la legge è la fonte del diritto potestativo del proprietario del fondo
ad ottenere la servitù, anche senza, o addirittura contro, la volontà del proprietario del fondo che diverrà
servente. Per la costituzione della servitù ci sono due vie: o il proprietario dell’altro fondo presta il consenso
alla costituzione della servitù, e in tal caso la servitù si costituisce mediante contratto; o, in mancanza di
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accordo, il proprietario del fondo che si trova nelle condizioni tassativamente previste dalla legge può
proporre domanda giudiziale e ottenere dal giudice una sentenza costitutiva.
Le servitù coattive sono tipiche, sorgono cioè soltanto nei casi stabiliti dalla legge e con il contenuto per
esse delineato dalla legge. Le servitù coattive previste dal codice sono la servitù di acquedotto, di appoggio,
di somministrazione coattiva di acqua, di passaggio coattivo, di elettrodotto coattivo. Nella servitù di
passaggio coattivo, in particolare, il proprietario di un fondo ha diritto di ottenere una servitù di passaggio sul
fondo del vicino in due casi: quando il fondo non abbia uscita alla via pubblica (interclusione assoluta);
quando al proprietario non sia possibile procurarsela senza eccessivo dispendio (interclusione relativa).
Le servitù volontarie sono atipiche, per cui vige il principio della libertà nella determinazione del relativo
contenuto. Esse si costituiscono per contratto o per testamento; il contratto costitutivo di servitù richiede la
forma scritta ad substantiam ed è soggetto a trascrizione. Quanto alla legittimazione a costituire servitù,
essa va riconosciuta al nudo proprietario su un fondo dato in usufrutto. Le servitù apparenti, inoltre, possono
acquistarsi anche a titolo originario, ossia per usucapione e per determinazione del padre di famiglia: per
quest’ultimo modo di acquisto, si consideri l’avvenuta destinazione di un fondo a servizio di un altro fondo da
parte dell’unico proprietario attraverso opere visibili e permanenti. La servitù nasce automaticamente quando
i due fondi cessano di appartenere allo stesso proprietario, purché lo stato di fatto creato in precedenza sia
rimasto inalterato e che nell’atto che provoca la divisione dei due fondi non sia inserita una dichiarazione
contraria.
L’esercizio delle servitù è regolato dal titolo di acquisto, oppure, in caso di acquisto a titolo originario, in
base al possesso protrattosi nel tempo necessario per l’usucapione o allo stato dei fondi conseguente alla
destinazione del padre di famiglia. Il diritto di servitù comprende tutto ciò che è necessario per usarne e deve
essere esercitato col minor aggravio del fondo servente.
Sono causa di estinzione delle servitù: la confusione, ossia quando in una sola persona si riunisce la
proprietà del fondo dominante con quella del fondo servente; la prescrizione, per non uso ventennale;
l’impossibilità sopravvenuta di usare della servitù, o il venir meno dell’utilità, quando dal verificarsi di simili
eventi siano trascorsi almeno venti anni; l’estinzione dell’enfiteusi, dove la servitù sia stata costituita
dall’enfiteuta a carico del fondo enfiteutico; la rinuncia alla servitù da parte del titolare; la scadenza del
termine, se previsto; il perimento totale del fondo dominante o del fondo servente.
A difesa della servitù contro chi ne contesta la legittimità dell’esercizio, è prevista l’azione confessoria. Si
tratta di un’azione reale, esperibile contro chiunque contesti l’esercizio della servitù, sia esso il proprietario
del fondo servente o un qualunque terzo. Se, invece, si è in presenza di turbative o minacce che non
implicano la contestazione della servitù, il titolare del diritto di servitù può esercitare un’azione di responsabilità extracontrattuale, chiedendo il risarcimento del danno. A tutte le servitù suscettibili di
possesso si estende inoltre la tutela possessoria.
7. Comunione, condominio e multiproprietà
Comunione Si ha comunione quando la proprietà, o altro diritto reale, spetta in comune a più persone. Comunione
equivale, quindi, a riferibilità a più soggetti di un unico diritto reale: si parla in questi casi, in corrispondenza
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alle varie figure di diritto reale, di comproprietà, di cousufrutto, di coenfiteusi, di contitolarità di servitù
prediale. La contitolarità può aversi anche con riguardo a diritti soggettivi diversi dai diritti reali o ad altre
situazione giuridiche soggettive (diritto di credito). La comunione ordinaria si distingue da altre tipologie di
comunione, quali la comunione legale tra coniugi, la comunione ereditaria e il condominio degli edifici.
Il carattere tipico della comunione è dato dalla contitolarità di un medesimo diritto di proprietà, o diritto
reale minore, in capo a più soggetti. Si è pertanto al di fuori della comunione se sulla stessa cosa
concorrono diritti diversi, come la nuda proprietà e l’usufrutto, oppure se, mancando la pluralità di persone, la
titolarità è unica, come nel caso del fondo comune delle associazioni. Un secondo carattere è l’esistenza della quota, intesa come misura della partecipazione del singolo comunista alla contitolarità del diritto
comune. La quota esplica la sua rilevanza sia in ragione del concorso di ciascuno dei contitolari nei
vantaggi e negli oneri della comunione, sia in vista dello scioglimento, indicando la misura del diritto
individuale di ciascuno nella futura divisione. Le quote dei partecipanti si presumono uguali. Vi è poi
l’istituzionale transitorietà, che riconosce a ciascun partecipante il diritto potestativo di domandare quando
vuole lo scioglimento della comunione. Un ulteriore carattere è il mero scopo di godimento: questo
elemento vale a distinguere la comunione dalla società, la quale, invece, è caratterizzata dall’esercizio in
comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili. Infine, vi è la mancanza di autonomia patrimoniale: vige la regola che consente al creditore personale di ciascun comunista di soddisfarsi
coattivamente sui beni comuni.
Dal punto di vista della sua costituzione, la comunione può essere volontaria, incidentale o forzosa. La
comunione si dice volontaria se deriva da un atto di autonomia dei soggetti, che vi acquistano la qualità di
comunisti. L’accordo può risultare dal contratto con cui una persona, titolare del diritto di proprietà o di altro
diritto reale su un bene, ne cede una o più quote ad altre persone, oppure può essere l’effetto dell’acquisto congiunto dello stesso diritto di proprietà da parte di una pluralità di persone, che formano un’unica parte
contrattuale.
La comunione si dice incidentale se si costituisce senza o indipendentemente dalla volontà dei partecipanti.
Per esempio, il tesoro trovato per caso nel fondo altrui spetta per metà al proprietario del fondo e per metà al
ritrovatore. L’ipotesi più importante di comunione incidentale è la comunione ereditaria, che si costituisce
ogniqualvolta l’eredità venga acquistata da più persone, senza che siano preventivamente identificati i beni a
ciascuna di esse attribuiti.
La comunione si dice forzosa quando la legge attribuisce ad un soggetto il diritto potestativo di ottenere la
comunione di un bene di proprietà di un altro soggetto: è il caso della comunione del muro sul confine e delle
parti comuni degli edifici in condominio.
Per quanto riguarda l’organizzazione della comunione, sono disciplinate le attività di uso della cosa
comune ricollegabili: all’esercizio della facoltà di godimento; alla gestione e all’amministrazione; agli atti di
disposizione e gli obblighi relativi alle spese.
L’attività di godimento, consistente nel servirsi direttamente della cosa comune nella sua interezza, spetta
singolarmente a ciascun partecipante. Il modo normale di uso della cosa comune è, quindi, il godimento promiscuo, caratterizzato della contemporanea partecipazione di tutti i comunisti al godimento di tutta la
cosa. L’iniziativa individuale di ciascuno incontra un duplice limite: il rispetto della destinazione del bene
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comune; il divieto di frapporre impedimenti agli altri partecipanti di fare uso della cosa. La maggioranza
semplice dei comunisti può deliberare l’utilizzo separato, nel tempo e nello spazio, della cosa comune.
Le attività di gestione della cosa comune sono, in linea di massima, attività collettive: tutti i partecipanti
hanno il diritto di concorrere all’amministrazione della cosa comune. La regola dell’amministrazione congiuntiva è fondata sul principio maggioritario, in base al quale le deliberazioni adottate a maggioranza
dei partecipanti, calcolata sempre in base al valore delle loro quote, vincolano la minoranza dissenziente. È
sufficiente la maggioranza semplice per le deliberazioni aventi per oggetto gli atti di ordinaria
amministrazione, altrimenti occorre una maggioranza qualificata. Accanto alla regola della spettanza
collettiva del potere di gestione, ci sono le prerogative del singolo: in caso di trascuranza degli altri
partecipanti (o dell’amministratore), ciascuno dei comproprietari può compiere atti per la conservazione della
cosa comune, direttamente impegnativi per la collettività; il singolo condomino può ricorrere al giudice contro
le disfunzioni o le inerzie amministrative; ciascuno dei componenti la minoranza dissenziente può
impugnare, davanti all’autorità giudiziaria, le deliberazioni della maggioranza quando ricorrono i vizi formali
(mancata preventiva comunicazione a tutti i partecipanti dell’oggetto della delibera) o sostanziali (delibera
pregiudizievole alla cosa comune) indicati dalla legge. La nullità di ha quando la deliberazione è
caratterizzata da un oggetto impossibile o illecito.
Gli atti di disposizione e di costituzione di diritti reali sul bene di proprietà comune, possono compiersi
soltanto con il consenso di tutti i partecipanti. Il legame comunitario non preclude però al singolo comunista
di disporre liberamente, indipendentemente dal consenso degli altri, della sua posizione di contitolare del
diritto comune. Pertanto, ciascun contitolare ha facoltà di: disporre del diritto comune, nel limite della sua
partecipazione, tramite una vendita, una donazione o una cessione della propria quota; cedere il godimento
della cosa nei limiti della quota; prenotare a favore di terzi un diritto reale di ipoteca nei limiti della quota.
Ciascun comproprietario può chiedere in ogni momento lo scioglimento della comunione: la divisione sarà
fatta con un contratto o per ordine del giudice. L’autorità giudiziaria ha il potere di sospendere lo
scioglimento della comunione per un periodo che non ecceda i cinque anni; è inoltre valido il patto di non
divisione, per un periodo massimo di dieci anni. Esiste una deroga al diritto di ogni comunista di provocare la
cessazione della situazione di contitolarità: è vietato chiedere lo scioglimento della comunione quando si
tratta di cose che, se divise, cesserebbero di servire all’uso a cui sono destinate. Se la cosa comune può
essere divisa in parti corrispondenti alle quote dei partecipanti, la divisione ha luogo in natura, altrimenti si fa
luogo a conguagli in denaro. Se la cosa comune non è divisibile, potrà aversi la vendita del bene al terzo con
la ripartizione del ricavato tra i comunisti.
Condominio Il condominio è una situazione mista, nella quale alle proprietà solitarie si affianca la comproprietà di altre parti dell’edificio. Negli edifici in condominio, ogni condomino ha la proprietà esclusiva di un piano ed
è, al contempo, comproprietario con gli altri condomini di alcune parti dell’edificio. Il condominio sorge
quando si passa dal dominio esclusivo sull’intero edificio a molteplici e distinte proprietà solitarie concernenti
le diverse unità immobiliari che compongono l’edificio. Questo passaggio avviene mediante l’alienazione, da
parte dell’originario unico proprietario, di più piani a più acquirenti.
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Il condominio negli edifici si distingue dalla comunione ordinaria per alcune significative differenze di
disciplina. Esse riguardano: l’indivisibilità delle parti comuni dell’edificio; la circolazione della quota dei beni
comuni solo insieme alla proprietà esclusiva del piano; l’impossibilità, per il condomino, di liberarsi
dall’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle cose comuni, rinunziando al diritto su di esse;
l’accentuata preminenza dell’interesse collettivo sugli interessi individuali dei singoli condomini attraverso la
previsione di un amministratore e di un regolamento.
La misura del diritto di comproprietà di ciascun condomino sulle cose comuni è proporzionata al valore della
sua proprietà esclusiva, ragguagliato a quello dell’intero edificio. Il valore proporzionale di ciascuna unità,
espresso in millesimi, costituisce anche il criterio per determinare il concorso negli oneri gravanti sul singolo
partecipante. Il criterio, però, non sempre è quello della proporzionalità: infatti, se si tratta di cose destinate a
servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione non della quota, ma dell’uso che
ciascuno può farne.
Il singolo condomino ha anche dei poteri oppositivi, contro la maggioranza dei condomini, a tutela di un uso
delle parti comuni conforme al tipo di destinazione a cui le parti stesse sono vincolate. Nel godimento delle
parti di proprietà esclusiva dei singoli condomini, il codice vieta l’esecuzione di opere che rechino danno alle
parti comuni dell’edificio. Una regola speciale è dettata per il proprietario dell’ultimo piano dell’edificio, al
quale è attribuita la facoltà di sopraelevare.
Nei condomini con più di quattro partecipanti, il modo legale dell’organizzazione prevede la presenza
necessaria dell’amministratore, che può essere scelto indifferentemente tra i condomini oppure in persona
di un estraneo. L’amministratore ha compiti esecutivi (esegue le deliberazioni dell’assemblea), regolamentari
(disciplina l’uso delle cose comuni), contabili (riscuote i contributi ed eroga le spese), manutentivi (compie
atti conservativi). Inoltre l’amministratore ha, nei rapporti esterni, la rappresentanza sostanziale dei
condomini, nonché la rappresentanza processuale dei partecipanti.
L’organo deliberativo del condominio è l’assemblea. Ad essa sono riservate: le attribuzioni concernenti
l’attività di amministrazione straordinaria; la gestione economico-finanziaria; la nomina, la conferma e la
revoca dell’amministratore; l’approvazione del regolamento; la promozione o l’assunzione di liti. L’assemblea
dei condomini deve essere convocata in via ordinaria almeno una volta all’anno, oppure in via straordinaria.
Ai fini sia della costituzione dell’assemblea, sia nell’approvazione delle delibere, si segue un criterio misto,
che tiene conto del numero dei condomini e del valore delle partecipazioni millesimali rispetto al valore
dell’edificio che essi rappresentano. Le deliberazioni adottate dall’assemblea sono obbligatorie anche per i
condomini assenti o dissenzienti, i quali, però, possono impugnarle entro trenta giorni quando esse risultino
contrarie alla legge o al regolamento di condominio.
Il regolamento di condominio è richiesto quando i condomini siano più di quattro. Il regolamento stabilisce
l’organizzazione e il funzionamento dell’attività del condominio; in nessun caso può pregiudicare i diritti di
ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto, o derogare alle disposizioni dettate dal codice o
dalle norme di attuazione.
Situazioni di proprietà comune in rapporto di accessorietà con i fabbricati possono realizzarsi non soltanto
all’interno di un unico edificio, ma anche in forme diverse. Si tratta degli edifici aventi in comune impianti o
servizi: si parla, in questo caso, di condominio complesso o di supercondominio.
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Multiproprietà La multiproprietà è una creazione della prassi contrattuale che consiste nell’avvicendamento, mediante un
sistema a turni, nella fruizione dell’unità abitativa, da parte di una pluralità di soggetti titolari. Si hanno vari
tipi di multiproprietà: la multiproprietà immobiliare, la multiproprietà azionaria, la multiproprietà alberghiera.
La multiproprietà si differenzia dalla comunione perché la destinazione del bene non è modificabile, la
divisione non è consentita e l’utilizzazione esclusiva del bene a periodi alternati costituisce un aspetto
indefettibile dell’istituto. La multiproprietà realizzerebbe un’ipotesi di concorrenza di diritti analoghi alla
proprietà individuale, piuttosto che un’ipotesi di contitolarità del diritto. Mentre però la proprietà ordinaria ha
come punto di riferimento un bene individuato solo spazialmente, la multiproprietà, quale forma speciale di
proprietà, avrebbe ad oggetto una frazione spazio-temporale del bene; inoltre la situazione si
caratterizzerebbe per la mancanza dei caratteri della pienezza e della esclusività, data la necessità di
coordinare le utilizzazioni da parte dei diversi titolari.
A tutela del consumatore che acquista una multiproprietà, è intervenuto il codice del consumo, che disciplina
il contratto relativo all’acquisto di un diritto di godimento ripartito concluso da un consumatore con un
venditore. L’intervento normativo prevede la regolamentazione di obblighi di informazione a carico del
venditore e la previsione della facoltà di recesso, senza alcuna penalità, da parte dell’acquirente.
8. Possesso
Nozioni Il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà
o di altro diritto reale. Si tratta di una situazione di fatto, alla quale può corrispondere o no la situazione di
diritto consistente nella titolarità del diritto reale: è possessore, quindi, anche colui che eserciti il potere di
fatto sulla cosa senza un pregresso acquisto del diritto reale sulla cosa stessa, o, addirittura, in seguito
all’illecita acquisizione di essa. A fondamento della tutela possessoria risiedono ragioni di ordine pubblico:
se non si tutelasse il possesso di per sé, si consentirebbe a chi afferma di avere un diritto sulla cosa di farlo
valere con la forza contro chi ha, in quel momento, la cosa in suo potere.
La natura giuridica del possesso, sebbene controversa, è qualificabile in termini di aspettativa. In conformità
alla tradizione romanistica e alle origini dell’istituto, due sono gli elementi costitutivi del possesso: l’elemento oggettivo (corpus), che consiste nella relazione di fatto con la cosa; l’elemento soggettivo (animus
possidendi), cioè l’intenzione di tenere la cosa ad immagine di un diritto reale. Alla concezione romanistica
del possesso si contrappone quella germanica, per la quale l’unico elemento costitutivo è dato dalla
relazione materiale con la cosa: così, finiscono col porsi sullo stesso piano situazioni di vario tipo,
riconducibili anche alla categoria della detenzione.
La relazione materiale può essere diretta o indiretta: è diretta nel caso in cui il possessore abbia nella sua
personale disponibilità la cosa; è indiretta qualora un soggetto non eserciti direttamente il possesso sulla
cosa, ma lo eserciti per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa. In quest’ultimo caso si
parla di possesso mediato e chi detiene la cosa non esercita il possesso ad immagine di un diritto reale.
L’animus possidendi caratterizza il potere di fatto sulla cosa. Se un soggetto utilizza una cosa ritenendo di
custodirla nell’interesse altrui, egli non può essere ritenuto possessore, stante il difetto della volontà di
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utilizzare la cosa come propria; qualora, invece, egli utilizzi la cosa nella consapevolezza, anche erronea, di
averla acquistata dal precedente proprietario, tale consapevolezza integra l’animus possidendi e, pertanto, il
suo potere di fatto è qualificato come possesso.
Il possesso può essere titolato e non titolato: si ha possesso titolato (ius possidendi) quando alla situazione
possessoria di fatto corrisponde una valida situazione di diritto; si ha possesso non titolato (ius
possessionis) quando la situazione di fatto non trova legittimazione della corrispondente situazione giuridica.
Atti di tolleranza
Può accadere che un soggetto eserciti una forma di godimento della cosa soltanto per condiscendenza di
colui che sulla cosa vanti una posizione giuridica o di mero possesso. In tal caso, la legge stabilisce che gli
atti compiuti con l’altrui tolleranza non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso. Gli atti di tolleranza si caratterizzano per gli elementi della transitorietà e della saltuarietà, nonché della permissio
domini, ossia la consapevolezza da parte del beneficiario che il godimento può essere fatto cessare dal
dominus in un qualsiasi momento con un atto di proibizione.
Oggetto del possesso
Sono oggetto del possesso le cose e non i diritti; questi ultimi, se hanno natura reale, rappresentano
unicamente l’immagine del possesso, ossia la situazione giuridica che corrisponde a quel determinato potere
di fatto esercitato dal possessore. L’acquisto della proprietà o di un altro diritto reale rappresenta l’effetto più
importante del possesso, ma possono costituire oggetto di possesso anche le cose di cui non si può
acquistare la proprietà e, in tal caso, il possesso è senza effetto. Le cose di cui non si può acquistare la
proprietà sono le res extra commercium e, in particolare, i beni appartenenti al pubblico demanio.
Successione nel possesso
Due fattispecie diverse, che hanno in comune tra loro il mutamento del soggetto che esercita il possesso sul
bene, sono la successione mortis causa del possessore e la successione a titolo particolare del
possessore, sia mortis causa (legatario) che per atto inter vivos (compravendita, donazione).
Per la successione mortis causa del possessore si prevede che il possesso continua nell’erede con effetto a
partire dall’apertura della successione. L’erede succede con le stesse caratteristiche che connotavano il
possesso del de cuius: pertanto egli, pur ignorando di ledere un altrui diritto, sarà considerato possessore di
mala fede, qualora il defunto versasse in situazione soggettiva di mala fede.
Nella successione a titolo particolare del possessore, il successore, a differenza dell’erede, non succede
automaticamente nel possesso del dante causa, ma può unire al proprio possesso quello del suo autore per
goderne gli effetti. L’unificazione giuridica dei due possessi è il risultato di una facoltà il cui esercizio è
rimesso alla libera volontà del successore a titolo particolare.
Possesso e detenzione Dal possesso deve essere distinta la detenzione: essa consiste nella relazione materiale con la cosa
sempre fondata su un titolo, il quale attribuisce o un diritto personale di godimento o una mera
obbligazione. La detenzione ha in comune col possesso la disponibilità materiale della cosa, ma tale
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relazione di fatto è ad immagine dell’esercizio di un diritto reale, ma riconducibile ai poteri che derivano da
un rapporto obbligatorio o da una relazione con il possessore della cosa. La distinzione tra possesso e
detenzione è agevole nei casi in cui la situazione di fatto si fondi su un titolo, ossia su quell’atto da cui
derivano situazioni giuridiche in capo a determinati soggetti.
Con riferimento ai titoli contrattuali, vi sono contratti che fondano situazioni di possesso e contratti che
fondano situazioni di detenzione. Occorre richiamare la distinzione tra contratti con effetti reali e contratti
con effetti obbligatori: i primi, poiché costituiscono o trasferiscono un diritto reale, fondano situazioni
possessorie; i secondi, invece, costituiscono un mero rapporto obbligatorio, in cui ad una delle parti è
attribuito un diritto personale di godimento (locazione) o un obbligo di custodia (deposito, mandato),
configurandosi così situazioni di detenzione.
Analoga considerazione va fatta per i titoli giudiziari. Le sentenze costitutive di diritti reali (esecuzione in
forma specifica di una promessa di vendita) fondano situazioni di possesso, mentre le pronunce che
attribuiscono diritti personali di godimento (sentenza che assegna la casa familiare al coniuge affidatario
dei figli nella separazione o nel divorzio) fondano situazioni di detenzione.
Mentre la detenzione risiede sempre su un titolo di legittimazione, il possesso può prescindere da un titolo di
legittimazione. Se il possesso prescinde da un titolo di legittimazione, la legge pone una presunzione
secondo la quale si presume il possesso in colui che esercita il potere di fatto, quando non si prova che ha
cominciato a esercitarlo semplicemente come detenzione.
Nell’ambito della detenzione, si distingue tra detenzione qualificata, detenzione non qualificata e detenzione
senza interesse. La detenzione si dice qualificata quando il detentore è titolare di un interesse proprio al
godimento della cosa (conduttore, affittuario, comodatario): in questo caso, la detenzione è tutelabile nei
confronti di chiunque. La detenzione si dice non qualificata quando il detentore detiene non già
nell’interesse proprio, bensì nell’interesse del possessore: il detentore può allora agire in reintegrazione solo
contro i terzi e non anche contro il possessore, nel cui interesse detiene (mandatario, o amministratore del
patrimonio altrui). Infine, la detenzione si dice senza interesse quando sussiste per ragioni di servizio o di
ospitalità: tali detentori, designati come detentori non autonomi, sono sprovvisti di qualsiasi tutela a fronte
dello spoglio perpetrato nei loro confronti da chiunque.
Il detentore può divenire possessore e il possessore può divenire detentore. Se, ad esempio, il proprietario
aliena il bene a colui che già lo detiene in base ad un rapporto di locazione, il conduttore-detentore, per
effetto dell’acquisto del diritto reale, muta la sua relazione con la res da detenzione in possesso. Questa
situazione è descritta come traditio brevi manu, perché il possessore ottiene la disponibilità del bene senza
che venga effettuata in suo favore una materiale consegna. Viceversa, se il possessore, contestualmente
all’alienazione della proprietà, stipula con l’acquirente un contratto di locazione del bene, egli perde la
qualifica di possessore ma resta detentore. Questa fattispecie è definita come costituto possessorio:
l’acquirente diviene possessore senza conseguire alcuna diretta relazione con il bene. Sia nella traditio brevi
manu che nel costituto possessorio, non muta la relazione materiale con la cosa, ma muta il titolo e, con
esso, si modifica la qualifica di colui che esercita il potere di fatto.
A queste ipotesi occorre poi aggiungere due ulteriori fattispecie. Nella prima, il mutamento della detenzione
in possesso può derivare da un fatto proveniente da un terzo, o in forza dell’opposizione fatta dal
detentore nei confronti del possessore. Nella seconda fattispecie, nota come interversio possessionis, il
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possesso ad immagine di un diritto reale minore si modifica, iniziando ad essere esercitato ad immagine del
diritto di proprietà.
Presunzioni relative al possesso In materia di possesso, la legge stabilisce quattro presunzioni. Esse sono: la presunzione di possesso, a
favore di colui che esercita il potere di fatto, quando non si prova che ha cominciato a esercitarlo
semplicemente come detenzione; la presunzione di possesso intermedio, per cui il possessore attuale
che ha posseduto in tempo più remoto si presume che abbia posseduto anche nel tempo intermedio; la
presunzione di possesso anteriore, secondo la quale il possessore che abbia un titolo a fondamento del
suo possesso si presume abbia posseduto dalla data del titolo (altrimenti, il possesso attuale non fa
presumere il possesso anteriore); la presunzione di buona fede del possessore a partire dal tempo
dell’acquisto.
In particolare, il possessore si presume in buona fede se egli possiede ignorando di ledere un altrui diritto o
ha la disponibilità di un bene acquistato sulla base di un titolo di cui ignori la nullità. La buona fede soggettiva
è definita come la convinzione dell’agente di comportarsi in maniera conforme al diritto, mentre la buona
fede oggettiva rileva nell’ambito del rapporto contrattuale.
Effetti del possesso Il codice disciplina tre effetti giuridici del possesso: i diritti e gli obblighi del possessore nella restituzione della cosa; l’acquisto del diritto reale su bene mobile mediante il possesso; l’usucapione.
Restituzione della cosa
È possibile che il possessore, convenuto in giudizio dal titolare del diritto reale, sia condannato alla
restituzione della cosa stessa. In tale situazione, gli obblighi e i diritti del possessore sono diversamente
regolati con riguardo ai frutti, alle riparazioni e ai miglioramenti, alle addizioni. Per quel che concerne i frutti
della cosa posseduta, il possessore, se in buona fede, ha diritto a farli suoi fino al momento della domanda
giudiziale; se in mala fede, è tenuto alla restituzione integrale dei frutti e dovrà corrisponderne il valore se
percepiti.
Il possessore, anche di mala fede, ha diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie e a
un’indennità per i miglioramenti recati alla cosa, purché sussistano al tempo della restituzione. Nel caso di
addizioni, l’attività posta in essere dal possessore è equiparata a quella del terzo che, con materiali propri,
esegua opere su fondo altrui. Tuttavia, se le addizioni costituiscono miglioramenti e il possessore è di buona
fede, è dovuta un’indennità; inoltre, se in buona fede, il possessore può usufruire di un particolare strumento
di autotutela, che consiste nella ritenzione della cosa fino al momento in cui non gli vengano corrisposte le
indennità dovute.
Possesso vale titolo
Mentre per i beni immobili esiste il regime della trascrizione dei titoli di acquisto nei registri immobiliari, per i
beni mobili non è previsto alcun sistema di pubblicità, fatta eccezione per particolari categorie di beni. Chi
acquista un bene mobile, dunque, non può verificare la legittimazione formale dell’alienante: l’unico dato
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che emerge è quello del potere dell’alienante di trasmettere, mediante la consegna, il possesso della cosa
oggetto del contratto.
Per garantire la sicurezza dei traffici giuridici, il codice sancisce un particolare modo di acquisto a titolo
originario del diritto reale sul bene mobile, che si perfeziona nel momento in cui chi acquista da un soggetto non proprietario, sulla base di un titolo astrattamente idoneo, consegue, se in buona fede, il
possesso della cosa. Si dice, al riguardo, che il possesso vale titolo. Il conflitto tra l’interesse del
proprietario, interessato a non perdere la proprietà della cosa mobile che un terzo abbia alienato come
propria, e l’interesse dell’acquirente, che abbia conseguito in buona fede il possesso, è risolto attribuendo la
preferenza all’acquirente.
Gli elementi costitutivi dell’acquisto a titolo originario mediante il possesso vale titolo sono: l’alienazione a non domino; il titolo astrattamente idoneo; il possesso conseguito dall’acquirente; la buona fede dell’acquirente al momento della consegna; la natura mobile del bene.
Il possesso vale titolo si applica solo agli acquisti a non domino. Se invece l’alienazione proviene a domino,
per verificare l’avvenuto acquisto in capo all’acquirente occorre esaminare l’idoneità del titolo di trasferimento: gli eventuali vizi non possono essere sanati dal possesso conseguito in buona fede
dall’acquirente. Chi acquista dal vero proprietario sulla base di un contratto nullo, nonostante il possesso e la
buona fede, non acquista alcun diritto sul bene; chi, invece, acquista da soggetto non proprietario, sulla base
di un contratto che sarebbe stato valido se fosse stato concluso col vero proprietario, consegue la proprietà
mediante il possesso e la buona fede al momento della consegna.
L’esistenza di un titolo astrattamente idoneo significa che il titolo sarebbe effettivamente idoneo a
trasferire il diritto qualora provenisse dal dominus. Non è astrattamente idoneo un titolo nullo, perché, in
quanto tale, non produrrebbe alcun effetto traslativo anche se proveniente dal vero proprietario. È idoneo,
invece, un titolo annullabile o risolubile o rescindibile, perché, in tal caso, il titolo produce i suoi effetti,
qualora non siano proposte le rispettive azioni. Il titolo astrattamente idoneo può essere oneroso o gratuito;
pertanto, anche la donazione è un titolo astrattamente idoneo.
Non vi è acquisto della proprietà se l’acquirente non ottiene il possesso della cosa in conseguenza della
consegna effettuata dall’alienante: per consegna deve intendersi soltanto la traditio materiale.
La buona fede dell’acquirente consiste nell’erronea convinzione che l’alienante sia l’effettivo proprietario
della cosa e che possa, quindi, legittimamente disporne. La buona fede si presume e non giova se derivi da
colpa grave. In una sola ipotesi la legge esclude ogni rilevanza all’erronea convinzione in ordine alla qualità
di proprietario dell’alienante: è il caso di colui che, all’atto dell’acquisto, conosceva l’illegittima provenienza
della cosa, ma riteneva erroneamente che il suo autore fosse divenuto comunque proprietario.
L’acquisto della proprietà del bene, come ogni acquisto a titolo originario, opera in presenza dei presupposti
indicati dalla legge e, pertanto, automaticamente. Tuttavia, qualora l’alienante non sia proprietario del bene
alienato, l’acquirente può anche rinunciare all’effetto acquisitivo: il vero proprietario resterà titolare del diritto
e l’alienante sarà obbligato al risarcimento del danno cagionato all’acquirente.
Attraverso la regola del possesso vale titolo si può acquisire il diritto di proprietà su beni mobili, ma anche i
diritti di usufrutto, di uso e di pegno, cioè quei soli diritti reali minori che possono avere ad oggetto beni
mobili. In questi casi, occorre che l’autore agisca come soggetto legittimato a trasferire il diritto sul bene
mobile. Il possesso vale titolo, invece, non si applica alle universalità di beni mobili e ai beni mobili registrati,
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per i quali valgono le norme in materia di usucapione. Gli effetti del possesso di buona fede dei titoli di credito sono regolati dalle norme specifiche.
Una specifica applicazione del possesso vale titolo riguarda la fattispecie della doppia alienazione di bene mobile. Il proprietario che ponga in essere una prima alienazione del bene trasferisce all’acquirente il diritto
sul bene stesso, per effetto del principio del consenso traslativo; allorché compia un successivo atto di
alienazione, egli agisce a non domino. Il secondo acquirente ottiene la proprietà del bene mobile soltanto nel
caso in cui consegua in buona fede il possesso prima di colui che ha acquistato in epoca anteriore.
Pertanto, se taluno, con successivi contratti, aliena a più persone un bene mobile, quella tra esse che ne ha
acquistato in buona fede il possesso è preferita alle altre, anche se il suo titolo è di data posteriore.
Usucapione
L’usucapione è un modo di acquisto della proprietà e degli altri diritti reali che si perfeziona mediante il
possesso continuato per il tempo stabilito dalla legge. Per condurre all’acquisto del diritto reale, il possesso
deve essere continuo, non interrotto, pacifico e pubblico.
La continuità del possesso consiste nell’esercizio costante dei poteri sulla cosa e deve essere provata da
colui che intenda farne valere gli effetti. Tale attività probatoria è agevolata dalle presunzioni di possesso
intermedio e di possesso anteriore.
La non interruzione attiene alla circostanza che l’esercizio del potere sulla cosa non deve cessare per
cause oggettive o per un fatto proveniente da un terzo. Mentre il requisito della continuità si riferisce
all’attività posta in essere direttamente dal possessore, la non interruzione richiama eventuali cause che
abbiano determinato una perdita del possesso. L’usucapione è interrotta quando il possessore è stato
privato del possesso per oltre un anno; l’interruzione stessa si ha come non avvenuta se è stata proposta
l’azione diretta a recuperare il possesso e questo è stato recuperato.
Il possesso deve essere acquistato in modo pacifico. Viceversa, il possesso acquistato in modo violento
non giova per l’usucapione, se non dal momento in cui la violenza è cessata.
Il possesso deve essere acquistato in modo pubblico. Ai fini dell’usucapione, infatti, il possesso non può
essere acquistato in modo clandestino, ossia con modalità che non possono essere percepite dal
proprietario, il quale non potrebbe manifestare la sua opposizione verso l’atto dell’impossessamento. È
clandestino quel possesso non attuato in maniera visibile ed esteriormente apprezzabile, in modo da rivelare
l’animus del possessore di assoggettare la cosa al proprio potere.
Possono essere oggetto di usucapione la proprietà e i diritti reali minori di godimento; non si possono
acquistare per usucapione i diritti reali di garanzia e le servitù non apparenti.
Si distinguono due forme di usucapione, l’usucapione ordinaria e l’usucapione abbreviata: l’usucapione ordinaria richiede unicamente il possesso e il decorso del tempo; l’usucapione abbreviata, invece,
presuppone che, a fondamento del possesso, sussista un acquisto compiuto dal possessore in buona fede e
in base a un titolo astrattamente idoneo, da parte di chi non è proprietario del bene. Tra usucapione
abbreviata e istituto del possesso vale titolo cambia la natura del bene oggetto del possesso:
l’usucapione abbreviata concerne i beni immobili, le universalità di mobili e i beni mobili registrati; ricadono
invece nell’istituto del possesso vale titolo i semplici beni mobili, per i quali è disposto l’acquisto immediato
della proprietà.
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I beni immobili e le universalità di mobili sono usucapibili nel tempo di venti anni, mentre i beni mobili registrati nel tempo di dieci anni. Se vi è stata trascrizione del titolo di acquisto, i beni immobili sono
usucapibili entro dieci anni da detta trascrizione, mentre i beni mobili registrati entro tre anni. I beni mobili non registrati, invece, sono usucapibili nel tempo di dieci o venti anni, a seconda che il possessore sia in
buona fede o in mala fede. Tuttavia, con riguardo ai beni mobili non registrati, se si realizza l’ipotesi del
possesso vale titolo, il possessore ne acquisisce immediatamente la proprietà.
Una volta maturato il termine per l’usucapione, il possessore acquista automaticamente il diritto. L’acquisto
opera ex nunc dal compimento del tempo previsto dalla legge. Poiché l’usucapione non ha efficacia
retroattiva, il precedente proprietario ha diritto di pretendere i frutti percepiti dall’usucapiente, se in mala
fede prima dell’acquisto del diritto. L’usucapione deve essere sempre fatta valere dal possessore nei
confronti di chi rivendichi la proprietà del bene.
Il termine per l’usucapione può essere sospeso o interrotto. Quanto alle cause di sospensione, vi sono le
vicende relative a specifici rapporti obbligatori: così il tutore che eserciti un potere di fatto sui beni
dell’interdetto non potrà computare tale possesso ai fini dell’usucapione. Tuttavia, qualora chi si impossessi
del bene dell’incapace consegni il bene stesso ad altro soggetto, nei confronti di quest’ultimo la causa di
sospensione non opera, se il possesso abbia ad oggetto un bene immobile, e il possesso può condurre
all’usucapione del bene.
Tra le cause di interruzione dell’usucapione, è idonea la domanda giudiziale che il titolare del diritto
proponga nei confronti del possessore. Per il riconoscimento del diritto, occorre che il possessore esprima la
volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare. Si ritiene che l’acquisto per usucapione non
implichi l’estinzione dei diritti reali minori sul medesimo bene (usucapio libertatis), al pari di quanto è
previsto nell’acquisto di beni mobili mediante il possesso in buona fede ottenuto a non domino.
Azioni a difesa del possesso L’ordinamento consente al possessore di reagire nei confronti dei fatti lesivi del suo possesso, anche
quando tali fatti siano posti in essere dal titolare del diritto reale sul bene oggetto di possesso. Lo spoglio,
ossia la privazione violenta o occulta del possesso, nonché le molestie arrecate al godimento del
possessore, costituiscono fatti illeciti. Per essi è ammissibile, in primo luogo, la legittima difesa, e cioè una
forma di autotutela, anche violenta, purché immediata e proporzionale all’offesa, diretta a scongiurare la
lesione della propria situazione possessoria. In secondo luogo, il possessore ha a disposizione due rimedi
giudiziari: l’azione di reintegrazione, o di spoglio, e l’azione di manutenzione. In entrambi i giudizi,
l’oggetto dell’accertamento giudiziario è costituito dall’esistenza del possesso in capo all’attore, che
lamenta la lesione, e dall’effettiva realizzazione dello spoglio o della molestia da parte del convenuto. È
irrilevante la circostanza che il possessore, o il presunto autore dello spoglio o della molestia, siano o no
titolari di un diritto reale sul bene: l’unico aspetto rilevante consiste nella situazione di fatto.
Per le azioni possessorie il codice di procedura civile prevede un procedimento speciale, che presenta il
carattere della sommarietà (audizione dei testi) e che si conclude con l’emanazione di una decisione
provvisoria in forma di ordinanza (interdetto possessorio), con la quale può ordinare la reintegrazione nel
possesso o la cessazione del comportamento molesto. Avverso tale ordinanza è proponibile il reclamo
avanti al tribunale in composizione collegiale. La fase di merito, che può seguire quella sommaria, può
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essere introdotta soltanto su richiesta di una delle parti. Il giudizio possessorio deve essere distinto dal
giudizio petitorio, che è quello in cui si controverte in ordine all’esistenza di un diritto sul bene e nel quale
colui che afferma il diritto ha l’onere di provare i fatti a fondamento del suo acquisto.
Azione di reintegrazione
Se il possessore viene privato violentemente ed occultamente del possesso, egli può proporre azione di reintegrazione nei confronti dell’autore dello spoglio, allo scopo di riottenere la disponibilità materiale del
bene. La legittimazione attiva spetta non soltanto al possessore ma, nei confronti delle privazioni compiute
dai terzi, anche al detentore qualificato e non qualificato. La legittimazione attiva sussiste anche in capo al
possessore che sia titolare del diritto reale sul bene: egli, in luogo dell’azione di rivendicazione, che
comporta l’onere di provare la titolarità del diritto sul bene, può esercitare l’azione di reintegrazione, il cui
onere probatorio si riduce alla dimostrazione del possesso e dello spoglio.
La legittimazione passiva spetta all’autore dello spoglio, ma se costui, prima della proposizione dell’azione,
ha perso la disponibilità materiale del bene per averlo consegnato a un terzo, legittimato passivo all’azione di
spoglio è il terzo, purché egli abbia conseguito il possesso in virtù di un acquisto a titolo particolare fatto con
la conoscenza dell’avvenuto spoglio. L’autore dello spoglio è, invece, l’unico legittimato passivo dell’azione
risarcitoria per i danni derivati dal patito spoglio.
L’azione risarcitoria è l’unica che possa essere esperita se il bene sottratto sia stato distrutto. Il
presupposto oggettivo dell’azione è rappresentato dallo spoglio, cioè la sottrazione totale o parziale del
bene dalla sfera della disponibilità del possessore, cosicché viene ad essere impedito l’esercizio del potere
di fatto sulla cosa. La molestia, al contrario, consiste in una condotta, che si limita a frapporre un ostacolo
all’esercizio del possesso. Lo spoglio richiede anche un elemento temporale, in quanto non può consistere in
un impedimento di natura momentanea o transitoria; può inoltre presupporre un comportamento attivo od
omissivo. Invece, il rifiuto di restituzione del bene da parte del detentore non configura uno spoglio: il
locatore, allo scopo di recuperare il bene, dovrà agire con l’azione contrattuale finalizzata alla restituzione.
Lo spoglio deve presentare i requisiti della violenza o della clandestinità. Affinché lo spoglio possa
considerarsi violento, è sufficiente che l’autore agisca contro la volontà, dichiarata o presunta, del
possessore. Lo spoglio non violento attribuisce la legittimazione all’azione di reintegrazione soltanto nel caso
in cui il possesso duri da oltre un anno, continuo e non interrotto e non sia stato acquistato violentemente o
clandestinamente (spoglio semplice). La clandestinità dello spoglio richiede che l’autore abbia agito senza la
presenza dell’interessato, il quale ne sia venuto a conoscenza in un momento successivo. È esclusa la
necessità di uno specifico intento doloso diretto alla consumazione dello spoglio. L’azione di reintegrazione è
soggetta al termine dei decadenza di un anno dal sofferto spoglio; termine che decorre dal giorno dello
spoglio o, in caso di spoglio clandestino, dal giorno della scoperta dello spoglio.
Azione di manutenzione
L’azione di manutenzione consente di reagire alle molestie che siano commesse ai danni del possessore.
Non si tratta di un’azione di tipo recuperatorio, ma di un rimedio di carattere conservativo e preventivo,
finalizzato a mantenere il godimento del bene senza mutamenti o maggiori difficoltà di esercizio. L’azione di
manutenzione tutela il solo possesso e non anche la detenzione. Inoltre, il possesso deve avere come
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oggetto beni immobili o universalità di mobili, deve durare, in modo continuo e non interrotto, da più di un
anno e deve non essere stato acquistato con violenza o clandestinità. La legittimazione passiva spetta
all’autore della molestia.
Il presupposto oggettivo dell’azione è costituito dalla molestia o turbativa del possesso. Si distingue la
molestia di fatto, che ricorre quando la turbativa incide sul concreto esercizio del potere di fatto esercitato dal
possessore, dalla molestia di diritto, che consiste, invece, nella contestazione dell’altrui possesso mediante
atti giudiziali o stragiudiziali, manifestamente privi di fondamento, con i quali si pretende la cessazione o la
modificazione della situazione possessoria. Anche a proposito dell’azione di manutenzione, è esclusa la
necessità di uno specifico animus turbandi. A pena di decadenza, il termine per proporre l’azione di
manutenzione è di un anno dal momento in cui si è verificata la turbativa.
Azione di risarcimento del danno
La lesione del possesso è qualificata come fatto illecito, rispetto al quale può essere proposta,
alternativamente o cumulativamente con la domanda di reintegrazione o manutenzione, l’azione di risarcimento del danno. Quando il possessore, o il detentore, riesca a recuperare il bene, il danno è
limitato al pregiudizio corrispondente al mancato godimento. Come rimedio alternativo alle azioni
possessorie, l’azione di risarcimento del danno risulta proponibile in due casi: per impossibilità di recuperare
il bene, come nel caso di distruzione o di alienazione a terzo di buona fede; per mancanza di interesse al
recupero.
Azioni di nunciazione
Il possessore (o il proprietario, o il titolare di altro diritto reale minore) può proporre due azioni volte a
prevenire possibili danni materiali alla cosa oggetto del possesso e a tutelare, perciò, il diritto del possessore
di continuare a godere del bene nello stato di fatto in cui si trova. Si tratta delle cosiddette azioni di nunciazione, le quali, a seconda della diversa natura del pericolo temuto per la res, consistono nella
denuncia di nuova opera e nella denuncia di danno temuto. Entrambe sono disciplinate anche dal codice di
procedura civile e hanno natura cautelare.
La denuncia di nuova opera è l’azione con cui si domanda al giudice di vietare la continuazione della
nuova opera, intrapresa da altri sul proprio o sull’altrui fondo. Ha due presupposti: l’opera deve essere stata
intrapresa, ma non ancora compiuta; deve sussistere un ragionevole timore di danno alla cosa che forma
oggetto del diritto o del possesso. Il termine per la proposizione dell’azione è di un anno dall’inizio dell’opera.
La legittimazione passiva appartiene a colui che realizza la nuova opera. L’esecuzione di un’opera, dalla
quale possa derivare un danno per la cosa oggetti di altrui diritto o possesso, configura un atto illecito: il
denunciante, perciò, può domandare anche il risarcimento del danno che abbia già sofferto.
La denuncia di danno temuto è l’azione proponibile quando il proprietario, il titolare di un altro diritto reale
di godimento o il possessore abbia ragione di temere che da qualsiasi edificio, albero o altra cosa sovrasti
un pericolo di danno grave e prossimo alla cosa oggetto del diritto o del possesso. Il presupposto oggettivo
dell’azione è costituito dal pericolo di danno grave e prossimo alla cosa. La legittimazione passiva
appartiene sempre a colui che, essendovi obbligato, abbia omesso di espletare l’attività necessaria per
evitare l’insorgenza del pericolo. Mentre con la denuncia di nuova opera il denunciante lamenta un facere,
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nella denuncia di danno temuto si contesta la legittimità di un non facere da parte del soggetto tenuto alla
manutenzione o alla custodia.
II. FAMIGLIA E MATRIMONIO
1. Nozioni generali
Famiglia nella Costituzione e nel Codice civile La Costituzione definisce la famiglia come una società naturale fondata sul matrimonio. Il concetto di
società naturale richiama la struttura comunitaria della famiglia e allude alla sua rilevanza sociale e giuridica.
La famiglia si fonda sull’istituto del matrimonio, disciplinato alla stregua di un negozio giuridico non patrimoniale, che vincola giuridicamente i coniugi e assicura la tendenziale stabilità del rapporto coniugale.
La Costituzione, attraverso il richiamo al matrimonio come fondamento della famiglia, sancisce il
riconoscimento dei diritti della sola famiglia legittima, formata dai coniugi e dai figli nati dal matrimonio;
tuttavia, stabilisce il dovere e il diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori
del matrimonio, e prevede la necessità di assicurare per legge ai figli naturali ogni tutela giuridica e sociale. Il
modello costituzionale di famiglia ha indotto il legislatore ordinario ad attuare una revisione dell’intera
disciplina del diritto di famiglia già contenuta nel codice (1975), conformandola al principio dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi e alla prospettiva dell’equiparazione tra filiazione legittima e naturale.
Famiglia di fatto Al modello di famiglia delineato dalla Costituzione è estraneo il fenomeno della cosiddetta famiglia di fatto,
che consiste nella convivenza stabile, e non occasionale, tra soggetti che assumono reciprocamente
comportamenti corrispondenti ai diritti e doveri che caratterizzano l’unione coniugale. Sul piano della vigente
disciplina legislativa, la famiglia di fatto resta priva di un’organica regolamentazione e assume una rilevanza
soltanto occasionale. La giurisprudenza ha attribuito rilevanza al vincolo affettivo che connota la famiglia di
fatto soltanto in settori specifici: è stata talvolta riconosciuta la legittimazione del convivente more uxorio
alla proposizione dell’azione di reintegrazione e al risarcimento dei danni subiti per la morte del convivente in
seguito al fatto illecito del terzo; è stato invece negato il diritto del convivente more uxorio a ripetere le
eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso della convivenza. La famiglia di fatto trova il suo
principio costituzionale di riferimento nelle norme in cui si riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.
Parentela e affinità La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite. Consiste in un legame di
sangue tra persone, che hanno in comune la discendenza da uno stesso soggetto. Si distingue tra parentela
in linea retta e parentela in linea collaterale: per linea retta si intende la generazione in senso verticale, cioè
tra padre e figlio e tra quest’ultimo e i suoi figli; la parentela collaterale, invece, indica il legame
intercorrente tra persone che hanno in comune un ascendente (zio e nipote). L’intensità del vincolo di
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parentela si misura per gradi; salvo che la legge disponga espressamente in senso contrario, il vincolo di
parentela non ha più rilevanza giuridica oltre il sesto grado.
L’affinità è il vincolo tra un coniuge e i parenti dell’altro coniuge. L’affinità non cessa con la morte, anche
senza prole, del coniuge da cui deriva, mentre cessa se il matrimonio è dichiarato nullo. L’affinità non ha
alcuna rilevanza ai fini della successione legittima o necessaria.
Nozione di matrimonio Il matrimonio è l’atto con cui l’uomo e la donna costituiscono la famiglia, assumendo il reciproco obbligo di
fedeltà, di assistenza morale e materiale, di collaborazione, di coabitazione, di contribuzione ai bisogni della
famiglia. Il matrimonio non è un mero atto, bensì un negozio giuridico bilaterale, che presuppone la
manifestazione della volontà personale degli sposi nella piena consapevolezza degli effetti giuridici della loro
dichiarazione. Ha natura non patrimoniale.
Si deve comunque distinguere il matrimonio inteso come atto con cui i coniugi costituiscono tra loro la
comunione materiale e spirituale, dal matrimonio inteso come rapporto giuridico che si instaura per effetto
della stipulazione dell’atto.
L’esercizio di fatto dei diritti e degli obblighi coniugali è definito possesso di stato. Gli elementi costitutivi del
possesso di stato sono il nome, il trattamento e la fama: il nome consiste nell’identificazione degli sposi
attraverso il cognome del marito; il trattamento consiste nella convivenza fondata sull’attuazione dei doveri
matrimoniali; la fama concerne la notorietà dell’unione coniugale. Il possesso di stato conforme all’atto di
celebrazione assume una duplice rilevanza giuridica: sana eventuali difetti di forma del matrimonio e
consente la prova dell’esistenza del matrimonio, quando l’atto di matrimonio non sia stato inserito nei registri
dello stato civile.
Promessa di matrimonio e matrimonio per procura La libertà matrimoniale è un diritto fondamentale della persona riconosciuto dalla Costituzione. Il codice
ammette che l’uomo e la donna possano reciprocamente promettersi di unirsi in matrimonio, ma la
promessa di matrimonio non obbliga a contrarlo, né ad eseguire ciò che si fosse convenuto per il caso di
non adempimento. Si distinguono la promessa semplice e la promessa solenne: l’inadempimento della
promessa semplice comporta solo la restituzione dei doni; la promessa solenne comporta, in caso di
mancato adempimento, la restituzione dei doni e l’obbligo di risarcire il danno cagionato all’altra parte per le
spese fatte e per le obbligazioni contratte a causa di quella promessa. La promessa solenne può essere
espressa, quando è compiuta vicendevolmente per atto pubblico o per scrittura privata da persone maggiori
di età (o minori ammessi a contrarre matrimonio), oppure essere tacita, perché implicita nella richiesta di
pubblicazioni: la promessa solenne è necessariamente bilaterale. L’obbligo di risarcimento dei danni
sussiste soltanto a carico del promittente che rifiuti di adempiere la promessa senza giusto motivo o che, con
la propria colpa, offra giusto motivo al rifiuto dell’altro. La promessa di matrimonio è qualificata come mero atto giuridico, dal quale derivano unicamente, anche se non voluti dai promittenti, gli effetti stabiliti dalla
legge, mentre non si producono altri eventuali effetti voluti dai promittenti stessi.
Il principio di libertà matrimoniale trova espressione nella personalità dell’atto e nel divieto di partecipare
alla celebrazione del matrimonio attraverso un rappresentante. Una previsione del tutto eccezionale è quella
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del matrimonio per procura, in presenza di particolari circostanze: il cosiddetto rappresentante dello sposo
si limita ad esternare una volontà interamente riconducibile allo sposo e, nel caso in cui il matrimonio venga
celebrato nonostante la revoca della procura, il matrimonio deve considerarsi inesistente, nullo o
annullabile.
Attiene alla problematica della libertà di matrimonio la figura della cosiddetta mediazione matrimoniale
(prossenetico), che consiste nel contratto con cui il mediatore si obbliga, verso un corrispettivo, a prestare la
propria opera al fine di realizzare la celebrazione del matrimonio: l’accordo è considerato illecito. È pure
illecita, e si considera non apposta, la condizione apposta ad un’istituzione testamentaria, di erede o di
legato, che impedisca le nozze.
2. Forme del matrimonio-atto
Matrimonio civile Il matrimonio civile è quello celebrato davanti all’ufficiale dello stato civile e disciplinato dal codice civile,
che ne stabilisce le condizioni, le formalità preliminari e le modalità di celebrazione.
Condizioni
Le condizioni che devono sussistere affinché si possa procedere validamente alla stipulazione del
matrimonio si ricollegano a principi di ordine pubblico e possono essere classificate a seconda che
concernano specifiche esigenze di etica civile; l’idoneità psico-fisica degli sposi; l’esigenza di certezza in
ordine all’attribuzione della paternità.
Sotto il profilo dell’etica civile, condizione indispensabile per stipulare validamente il matrimonio è, in primo
luogo, la libertà di stato. Non si considera libero di stato chi sia vincolato ad un precedente matrimonio
efficace nell’ordinamento giuridico italiano; chi, nonostante l’impedimento, contragga un secondo matrimonio
avente effetti civili, commette il reato di bigamia. In secondo luogo, possono impedire il matrimonio vincoli di parentela, affinità, adozione e affiliazione. Alcune ipotesi integrano impedimenti assoluti, per i quali
l’autorità giudiziaria non può concedere alcuna dispensa: rientrano in questa categoria la parentela in linea
retta, legittima o naturale; la parentela in linea collaterale di secondo grado; l’affinità in linea retta; i vincoli
derivanti da adozione. Altre ipotesi integrano impedimenti dispensabili, ossia quelli derivanti da parentela
in linea collaterale di terzo grado (zio e nipote), affinità in linea collaterale di secondo grado (cognati), affinità
in linea retta derivante da matrimonio dichiarato nullo. In terzo luogo, l’impedimento da delitto preclude il
matrimonio tra persone delle quali l’una è stata condannata per omicidio consumato o tentato sul coniuge
dell’altra.
Sotto il profilo dell’idoneità psico-fisica degli sposi, il codice prevede anzitutto un requisito minimo di età, che
coincide, di regola, con la maggiore età. Il requisito legale può essere derogato soltanto in virtù di un
provvedimento del tribunale, che, su istanza dell’interessato, dopo aver accertato la sua maturità psicofisica
e la fondatezza delle ragioni addotte, può ammettere al matrimonio il minore che abbia compiuto i sedici
anni. In ogni caso, non può contrarre matrimonio l’interdetto per infermità di mente, stante la sua
presunzione di incapacità assoluta di intendere e di volere.
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Infine, per garantire l’attribuzione della paternità è previsto il divieto temporaneo di nuove nozze, della
durata di trecento giorni, per la donna il cui precedente matrimonio sia stato sciolto o annullato.
Formalità preliminari
Allo scopo di verificare l’assenza di impedimenti alla celebrazione del matrimonio, il codice prevede talune
formalità preliminari, che consistono nelle cosiddette pubblicazioni. Il matrimonio è una vicenda che, per
quanto privata, assume rilevanza pubblica, anche nei riguardi dei terzi, i quali hanno interesse a conoscere
lo status coniugale dei soggetti con i quali intrattengono rapporti personali o patrimoniali. La pubblicazione
deve essere richiesta dall’ufficiale dello stato civile del comune dove uno degli sposi ha la residenza ed è
fatta nei comuni di residenza degli sposi. L’ufficiale dello stato civile, il quale, ravvisando un impedimento,
non ritenga di poter procedere alla celebrazione, rilascia un certificato coi motivi del rifiuto. Le pubblicazioni
possono essere omesse nel caso di imminente pericolo di vita di uno degli sposi.
Il matrimonio può essere celebrato dopo tre giorni dalla compiuta pubblicazione quando non sia stata fatta
alcuna opposizione. In seguito alle pubblicazioni, si può fare opposizione al matrimonio nei casi
espressamente previsti dalla legge, che elenca i soggetti legittimati a seconda della ragione di opposizione
che venga fatta valere. L’opposizione può essere, quindi, proposta: dai genitori, dal coniuge della persona
che vuole contrarre matrimonio, dall’ex coniuge, dal pubblico ministero. Coloro che vogliano opporsi al
matrimonio, senza esserne legittimati, possono rappresentare la causa di impedimento al pubblico ministero
e sollecitare così l’opposizione di quest’ultimo.
Modalità di celebrazione
Il matrimonio è celebrato pubblicamente nella casa comunale davanti all’ufficiale dello stato civile al quale fu
fatta la richiesta di pubblicazioni. Nel giorno indicato dalle parti, l’ufficiale dello stato civile, alla presenza di
due testimoni, procede alla celebrazione, che si compone di tre momenti: la dichiarazione dei diritti e i doveri
reciproci derivanti dal matrimonio (artt. 143, 144 e 147); la dichiarazione personale degli sposi, l’uno dopo
l’altro, di volersi prendere rispettivamente in marito e moglie; la dichiarazione, resa dall’ufficiale dello stato
civile, che gli sposi sono uniti in matrimonio.
La dichiarazione degli sposi di prendersi rispettivamente in marito e in moglie non può essere sottoposta a
condizione o termine; se il matrimonio è ugualmente celebrato, il termine o la condizione si hanno per non
apposti. Dopo la celebrazione del matrimonio, l’ufficiale di stato civile procede alla compilazione dell’atto di matrimonio, nel quale gli sposi possono eventualmente optare per il regime patrimoniale della separazione
dei beni o compiere il riconoscimento di figli naturali. L’atto di matrimonio costituisce la prova dello stato
coniugale.
Matrimonio canonico con effetti civili Sin dall’approvazione dei Patti lateranensi (1929), l’ordinamento giuridico italiano ha riconosciuto gli effetti
civili del matrimonio celebrato e disciplinato secondo il diritto canonico. La materia ricevette un’apposita
regolamentazione con la legge matrimoniale; il codice civile, a sua volta, stabilì che il matrimonio celebrato
davanti a un ministro del culto cattolico era regolato in conformità del Concordato con la Santa Sede e dalle
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leggi speciali in materia. La Costituzione ha mantenuto tale innovazione, stabilendo che i rapporti tra Stato e
Chiesa siano regolamentati dal regime concordatario.
La disciplina del matrimonio canonico con effetti civili, il cosiddetto matrimonio concordatario, è stata
riformata con l’Accordo di revisione del concordato (1985). Qualora gli sposi decidano di attribuire efficacia
civile al matrimonio celebrato davanti al ministro del culto cattolico, i loro rapporti coniugali vengono
sottoposti alle norme del codice civile, nonché a quelle relative alla separazione personale e al divorzio.
La celebrazione del matrimonio concordatario è preceduta dalla richiesta di pubblicazioni, la quale deve
provenire, oltre che dagli sposi, anche dal parroco davanti al quale il matrimonio dovrà essere celebrato.
Anche in tal caso, l’ufficiale dello stato civile, che non creda di poter procedere alle pubblicazioni, rilascia un
certificato coi motivi del rifiuto. Effettuate le pubblicazioni, l’ufficiale dello stato civile dichiara il suo nulla-osta, rilasciando un certificato in cui attesta che non risulta l’esistenza di cause che si oppongano alla
celebrazione di un matrimonio valido agli effetti civili.
La celebrazione del matrimonio avviene secondo il rito cattolico, ma l’Accordo di revisione prevede che,
dopo la celebrazione, il parroco spieghi ai contraenti gli effetti civili del matrimonio. Compiuta la
celebrazione, il parroco redige in doppio originale l’atto di matrimonio; uno di questi originali viene subito
trasmesso all’ufficiale dello stato civile del comune in cui il matrimonio è stato celebrato.
La trascrizione è l’atto che attribuisce effetti civili al matrimonio canonico; può essere ordinaria, ritardata o
tardiva. La trascrizione ordinaria è quella eseguita tempestivamente dall’ufficiale dello stato civile entro
ventiquattro ore dal ricevimento dell’atto di matrimonio da parte del ministro del culto cattolico. Se la
celebrazione del matrimonio non sia stata preceduta dalle pubblicazioni o dalla dispensa, l’ufficiale dello
stato civile affigge alla porta della casa comunale l’avviso del matrimonio da trascrivere. L’avviso resta
affisso per dieci giorni, durante i quali è possibile proporre opposizioni alla trascrizione. In mancanza di
opposizioni, l’ufficiale dello stato civile provvede alla trascrizione, che in questo caso è detto ritardata. Infine,
se l’atto di matrimonio non è trasmesso tempestivamente all’ufficiale dello stato civile, cioè entro cinque
giorni dalla celebrazione, può essere effettuata la trascrizione tardiva.
La trascrizione del matrimonio canonico non può essere effettuata in presenza delle seguenti cause ostative: quando gli sposi non rispondano ai requisiti della legge civile circa l’età richiesta per la
celebrazione; quando uno dei contraenti sia interdetto per infermità di mente; quando sussista tra gli sposi
un altro matrimonio valido agli effetti civili; quando vi siano impedimenti derivanti da delitto o da affinità in
linea retta. Non è consentita la trascrizione post mortem, ossia la trascrizione tardiva, che uno dei due
coniugi richieda dopo la morte dell’altro. La trascrizione del matrimonio può essere impugnata, su istanza
dei coniugi, degli ascendenti prossimi, del pubblico ministero e di coloro che abbiano un interesse legittimo e
attuale, qualora sussista una causa di intrascrivibilità non rilevata dall’ufficiale dello stato civile.
Matrimonio dei culti acattolici Dal matrimonio concordatario, il codice distingue il matrimonio celebrato davanti a ministri di culti diversi da quello cattolico, stabilendo che esso sia regolato, salvo disposizioni speciali, dalle norme sul matrimonio
civile. Il matrimonio può essere celebrato davanti a ministro di culto acattolico soltanto se quest’ultimo sia
cittadino italiano e dopo specifica approvazione del Ministro dell’Interno. Si applica la stessa disciplina
prevista per il matrimonio civile.
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A partire dagli anni Ottanta, lo Stato italiano ha stipulato numerose intese con altrettante confessioni
religiose, il cui contenuto, ratificato con legge ordinaria, ha disciplinato, tra l’altro, le modalità di celebrazione
del matrimonio. Alla luce delle intese, il matrimonio acattolico assume le caratteristiche di un matrimonio
religioso, ma, a differenza del matrimonio canonico, il matrimonio acattolico è soggetto alla giurisdizione esclusiva dei tribunali civili.
Matrimonio del cittadino all’estero e dello straniero in Italia Il cittadino italiano può contrarre matrimonio in uno Stato estero innanzi all’autorità diplomatica o
consolare competente, oppure innanzi alle autorità locali secondo le leggi dello Stato estero. Anche nel caso
in cui il cittadino contragga matrimonio secondo le forme dello Stato estero, egli, per la legge italiana, deve
trovarsi nelle condizioni necessarie previste.
Lo straniero può contrarre matrimonio in Italia, ma ha l’onere di presentare all’ufficiale dello stato civile una
dichiarazione dell’autorità competente del proprio Paese, dalla quale risulti che non sussistono condizioni
ostative al matrimonio. Qualora lo Stato di appartenenza dello straniero ometta o rifiuti il nulla-osta per motivi
contrari all’ordine pubblico italiano, il Tribunale può comunque autorizzare la celebrazione. La legge ha
aggiunto ai requisiti necessari per contrarre matrimonio il possesso di un documento attestante la regolarità
del soggiorno. Lo straniero che ha il domicilio o la residenza in Italia è tenuto all’onere delle pubblicazioni, in
conformità alla legge italiana.
3. Invalidità del matrimonio
Nullità, annullabilità, inesistenza e irregolarità Nella materia dell’invalidità del matrimonio, il codice non distingue, a differenza di quanto avviene a
proposito del contratto, tra nullità e annullabilità. Il codice si limita a fare riferimento alla nullità per
disciplinare una serie di ipotesi nelle quali il matrimonio può essere impugnato dai coniugi, dal Pubblico
Ministero e da altri soggetti legati ai coniugi da vincolo di parentela o aventi soltanto un interesse legittimo e
attuale all’azione. La mancata distinzione tra nullità e annullabilità non deriva da una scelta consapevole del
legislatore, bensì a ragioni storiche, dovute alla redazione del libro primo del codice civile in epoca
precedente a quella del libro quarto, nel quale il legislatore ripartì tra nullità e annullabilità la disciplina
dell’invalidità del contratto.
La nozione di nullità, riferita al matrimonio, indica qualsiasi ipotesi di invalidità, comprese quelle che
appaiono maggiormente assimilabili, sul piano sistematico, alla figura dell’annullabilità. La dottrina distingue,
però, l’invalidità del matrimonio dalle figure dell’irregolarità e dell’inesistenza. L’irregolarità ricorre nell’ipotesi
di violazione delle norme che disciplinano il procedimento di formazione dell’atto, non inificia la validità ed
efficacia del matrimonio e comporta una sanzione a carico del celebrante o degli sposi, come nel caso in cui
siano state omesse le pubblicazioni o la celebrazione sia avvenuta in violazione del divieto temporaneo di
nuove nozze. L’inesistenza del matrimonio ricorre in mancanza dei requisiti minimi necessari per la giuridica
configurabilità del matrimonio stesso: a tale figura è ricondotto, ad esempio, il matrimonio stipulato tra due
persone dello stesso sesso o davanti a un celebrante privo di abilitazione.
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Le cause di invalidità si possono classificare in relazione alla tipologia dell’impedimento o del vizio che
inificia il matrimonio: impedimenti derivanti da mancanza di stato libero, parentela o affinità, delitto;
impedimenti relativi alla minore età e all’incapacità; difetto del consenso o vizio della volontà legalmente
determinato. Una figura a se stante deve essere considerata quella della simulazione.
Mancanza di stato libero, parentela, delitto Gli impedimenti derivanti da mancanza di stato libero, parentela e delitto sono cause di invalidità del
matrimonio accumunate sotto il profilo dell’azione di invalidità. In questi casi, infatti, la legittimazione a
impugnare il matrimonio è assoluta, spettando ai coniugi, agli ascendenti prossimi, al pubblico ministero e a
tutti coloro che abbiano un interesse legittimo e attuale; l’azione è imprescrittibile; la coabitazione tra i
coniugi, successiva al matrimonio, non preclude la proponibilità dell’impugnazione, poiché si ha una nullità insanabile.
La mancanza di stato libero rende nullo il matrimonio. L’impedimento sussiste soltanto se il precedente
matrimonio è valido. Se un secondo matrimonio è stipulato dal coniuge dell’assente, l’impugnazione non è
consentita finché dura l’assenza. Il coniuge di colui che è stato dichiarato morto presunto può contrarre
matrimonio, ma il matrimonio è nullo qualora la persona della quale è stata dichiarata la morte presunta
ritorni o ne sia accertata l’esistenza.
I vincoli di parentela, affinità, adozione e affiliazione sono causa di nullità del matrimonio. Se
l’impedimento consiste in un vincolo di parentela naturale, occorre che quest’ultimo risulti giudizialmente
accertato, nell’ambito del giudizio di nullità del matrimonio. Se l’impedimento poteva essere derogato
mediante autorizzazione giudiziale, il matrimonio non può essere impugnato dopo un anno dalla
celebrazione.
L’impedimento da delitto rende nullo il matrimonio tra le persone delle quali l’una è stata condannata per
omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altra.
Minore età e incapacità di agire La disciplina dell’invalidità derivante da difetto di età o di capacità degli sposi appare differenziata. Nel
caso di difetto di età, la legittimazione è relativa, poiché spetta solo ai coniugi, ai genitori e il Pubblico
Ministero. Inoltre la domanda deve essere respinta qualora il minore raggiunga la maggiore età, vi sia
concepimento o procreazione o sia accertata la volontà del minore di mantenere in vita il vincolo
matrimoniale. Il coniuge minore è legittimato a proporre personalmente l’azione una volta divenuto
maggiorenne, ma deve agire entro un anno; la volontà del minore di mantenere in vita il vincolo matrimoniale
rende in ogni caso sanabile la nullità.
Nel caso dell’interdizione giudiziale per infermità di mente, l’impedimento sussiste se, al tempo del
matrimonio, vi era già sentenza di interdizione o se l’interdizione è stata pronunciata posteriormente, ma
l’infermità esisteva al tempo del matrimonio. In tal caso la legittimazione è assoluta; la coabitazione dei
coniugi per un anno dopo la revoca dell’interdizione sana la nullità; in mancanza di coabitazione per un
anno, dalla data della revoca dell’interdizione decorre il termine decennale di prescrizione.
L’incapacità di intendere e di volere inificia la validità del matrimonio. Sul piano della disciplina, la
legittimazione è relativa, perché spetta esclusivamente al coniuge che si sia trovato in condizione di
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incapacità naturale; la coabitazione dei coniugi per un anno sana la nullità; in mancanza di coabitazione per
un anno, dal recupero della pienezza delle facoltà mentali decorre il termine decennale di prescrizione.
Vizi del volere Esistono quattro fattispecie nelle quali il consenso risulta essersi formato in maniera viziata: la violenza; il
timore di eccezionalità gravità derivante da cause esterne allo sposo; l’errore sull’identità del coniuge;
l’errore essenziale su qualità personali dell’altro coniuge.
La violenza deve essere di tal natura da fare impressione ad una persona sensata e da farle temere di
esporre sé o si suoi beni a un male ingiusto e notevole, avendo riguardo all’età, al sesso e alla condizione
delle persone.
Quanto al timore di eccezionalità gravità derivante da cause esterne allo sposo, la coartazione al
matrimonio può derivare da fatti oggettivi, che ingenerino nel soggetto il convincimento di poter sottrarre sé
da un danno di eccezionale gravità attraverso la stipulazione del matrimonio (colui che si risolva al
matrimonio per evitare il suicidio della compagna).
Si ha errore sull’identità del coniuge nel caso del matrimonio concluso con persona diversa da quella che
si intendeva sposare (fratello gemello).
L’errore essenziale su qualità personali dell’altro coniuge ricorre in ipotesi tassativamente indicate:
l’esistenza di una malattia fisica o psichica; l’esistenza di una sentenza di condanna per delitto non colposo
alla reclusione non inferiore a cinque anni, salvo il caso di intervenuta riabilitazione; la dichiarazione di
delinquenza abituale o professionale; lo stato di gravidanza causato da persona diversa dal soggetto caduto
in errore. In questi casi, la legittimazione ad agire è relativa, perché spetta esclusivamente al coniuge il cui
consenso sia stato viziato; la coabitazione dei coniugi per un anno, dopo che siano cessate le cause, sana la
nullità; in caso di mancata convivenza, il termine di prescrizione è decennale.
Simulazione Il matrimonio è simulato quando i coniugi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e non
esercitare i diritti da esso discendenti. Gli sposi si accordano nel senso di realizzare una mera apparenza di matrimonio, nella quale la condizione coniugale può rappresentare lo strumento per il conseguimento di
finalità o di vantaggi ulteriori (cittadinanza da parte dello straniero).
Tra la disciplina della simulazione matrimoniale e quella della simulazione contrattuale le differenze
sussistono con riferimento: alla legittimazione, ristretta ai soli coniugi e non anche ai terzi che abbiano
interesse; alla sanabilità del vizio, ammessa solo nella simulazione matrimoniale; alla prova dell’accordo
simulatorio, che in materia matrimoniale, non è sottoposta alle limitazioni della simulazione contrattuale.
La simulazione, per costituire causa di invalidità del matrimonio, deve essere assoluta, ossia deve riguardare
tutti i doveri tipici derivanti dal matrimonio; qualora, invece, i coniugi abbiano inteso escludere soltanto uno o
alcuni dei doveri matrimoniali (simulazione relativa), trova applicazione la nullità di tale accordo. L’accordo
simulatorio deve essere precedente o contestuale alla celebrazione del matrimonio.
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Azione di annullamento del matrimonio L’azione di annullamento del matrimonio si propone davanti al tribunale civile del luogo in cui il coniuge
convenuto ha la residenza, il domicilio o la dimora.
La legittimazione attiva cambia a seconda della causa si nullità che si intenda far valere. Nel giudizio di
annullamento, inoltre, il Pubblico Ministero deve sempre intervenire, a pena di nullità rilevabile d’ufficio.
La sentenza di annullamento scioglie il matrimonio con efficacia retroattiva. Ulteriori effetti della
pronuncia sono i seguenti: la cessazione del vincolo di affinità; lo scioglimento della comunione legale; la
cessazione della destinazione del fondo patrimoniale; la nullità della donazione obnuziale; la perdita del
diritto della moglie di usare il cognome del marito. Limiti alla retroattività devono essere rinvenuti
nell’irripetibilità delle prestazioni di mantenimento o di assistenza effettuate durante il rapporto matrimoniale.
Deve escludersi che l’annullamento del matrimonio comporti la perdita della cittadinanza acquisita dal
coniuge straniero per effetto del matrimonio.
Matrimonio putativo Si parla di matrimonio putativo per indicare la situazione dei coniugi, o di uno soltanto di essi, che abbiano
contratto il vincolo matrimoniale in buona fede, cioè ignorando senza colpa la causa di invalidità, o
esprimendo un consenso estorto con la violenza, o determinato da timore di eccezionale gravità derivante
da cause esterne. Nei rapporti interni ai coniugi, fino alla sentenza che pronuncia la nullità, gli effetti del
matrimonio si producono come se si tratti di matrimonio valido.
Quando le condizioni del matrimonio putativo si verificano rispetto ad ambedue i coniugi, il giudice può
disporre a carico di uno di essi l’obbligo di corrispondere somme periodiche di denaro. In favore del solo
coniuge di buona fede, la legge stabilisce il diritto a una congrua indennità a carico dell’altro coniuge o del
terzo, cui sia imputabile la nullità del matrimonio. Nel caso in cui ricorra il presupposto dello stato di bisogno,
il coniuge in mala fede è tenuto a corrispondere gli alimenti al coniuge in buona fede.
Effetti dell’annullamento nei confronti dei figli I figli nati o concepiti durante il matrimonio dichiarato nullo restano legittimi in seguito alla pronuncia di
annullamento, anche in ipotesi di mala fede di uno o di entrambi i coniugi; parimenti, restano legittimi i figli
nati prima del matrimonio e riconosciuti anteriormente alla sentenza che dichiara la nullità.
Quanto ai figli nati o concepiti durante un matrimonio nullo per bigamia e incesto, si distinguono due ipotesi:
se il matrimonio è stato contratto in mala fede da entrambi i coniugi, l’annullamento del matrimonio fa
perdere ai figli la condizione di legittimità e fa acquistare quella di figli naturali riconosciuti; la buona fede di
uno solo dei genitori, invece, giova anche ai figli.
Quando è disposta la separazione temporanea dei coniugi durante il giudizio di nullità del matrimonio, o
contestualmente alla sentenza di nullità, il giudice adotta i provvedimenti riguardo ai figli previsti dalla
corrispondente norma in materia di separazione personale. Il provvedimento giudiziario, pertanto, dispone
l’affidamento dei figli minori a uno dei genitori, la determinazione del contributo di mantenimento a carico del
genitore non affidatario, l’assegnazione della casa familiare.
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Nullità del matrimonio concordatario e giurisdizione dei tribunali ecclesiastici Una specifica disciplina è prevista per l’invalidità del matrimonio concordatario, rispetto alla quale il
nostro ordinamento riconosce la giurisdizione dell’autorità ecclesiastica. I Patti Lateranensi fissavano il
principio di riserva esclusiva di giurisdizione in favore dei Tribunali ecclesiastici, mentre alla Corte d’Appello
era attribuito unicamente il potere di rendere esecutive le sentenze ecclesiastiche di annullamento.
Successivamente la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità della legge matrimoniale (1982), nella parte
in cui non prevedeva che la Corte d’Appello, all’atto di rendere esecutiva la sentenza del Tribunale
ecclesiastico, potesse verificare la conformità della sentenza ecclesiastica all’ordine pubblico italiano.
In seguito alla revisione del Concordato, le sentenze ecclesiastiche possono essere dichiarate efficaci
nell’ordinamento, previo accertamento di tre condizioni: la competenza del giudice ecclesiastico a decidere
la controversia; il rispetto del diritto delle parti ad agire in giudizio in conformità ai principi dell’ordinamento
italiano; la sussistenza degli altri presupposti richiesti dalla legge italiana per la dichiarazione di inefficacia
delle sentenze straniere.
In seguito all’accordo di revisione, la dottrina nega la riserva di giurisdizione ecclesiastica per i giudizi di
annullamento dei matrimoni concordatari. Pertanto, la domanda di annullamento del matrimonio
concordatario può essere proposta avanti al giudice ecclesiastico o al giudice italiano, ma qualora la
giurisdizione ecclesiastica sia stata preventivamente adita, il giudice italiano è carente di giurisdizione.
4. Rapporti personali tra coniugi
Principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi Fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975, i rapporti personali tra coniugi erano regolati in base al
principio della potestà maritale. Secondo la previsione codicistica, il marito era il capo della famiglia,
mentre la moglie seguiva la condizione civile del marito, ne assumeva il cognome ed era obbligata ad
accompagnarlo dovunque egli ritenesse di fissare la sua residenza. La riforma del diritto di famiglia, nel dare
attuazione al principio costituzionale di eguaglianza morale e giuridica tra i coniugi, ha stabilito che con il
matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri.
Obblighi coniugali reciproci Il matrimonio fa sorgere a carico dei coniugi obblighi reciproci: si tratta degli obblighi di fedeltà, assistenza
morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia, coabitazione e contribuzione ai bisogni
della famiglia. Tali obblighi, tassativamente previsti dalla legge, sono inderogabili e incoercibili. La loro
violazione assume diversa rilevanza a seconda dei casi: può determinare la sospensione dell’esigibilità dei
medesimi obblighi da parte dell’altro coniuge; può essere dedotta nel giudizio di addebitabilità della
separazione personale; in caso di inadempimento degli obblighi di assistenza, comporta una sanzione
penale; può essere fonte di responsabilità e del conseguente obbligo di risarcimento del danno in favore
dell’altro coniuge.
L’obbligo di fedeltà è il dovere di assoluta dedizione affettiva di un coniuge nei confronti dell’altro, sia in
senso fisico che in senso spirituale. L’obbligo di assistenza morale e materiale comporta che i coniugi si
prestino reciprocamente aiuto e sostegno; in particolare, sotto il profilo materiale, il coniuge è tenuto ad
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intervenire in quelle vicende patrimoniali dell’altro che siano suscettibili di incidere sulla comunione di vita
familiare (debiti personali), al di là del regime patrimoniale adottato dai coniugi. L’obbligo di collaborazione
nell’interesse della famiglia comporta che il coniuge offra le proprie capacità per il bene della medesima.
L’obbligo di coabitazione comporta che i coniugi vivano sotto lo stesso tetto; tale obbligo deve ritenersi
comunque osservato quando l’assenza dalla residenza familiare sia temporalmente limitata o giustificata da
esigenze di lavoro. L’obbligo di contribuzione ai bisogni della famiglia comporta che ciascun coniuge, in
relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro, è tenuto a contribuire ai bisogni della
famiglia. Al dovere di contribuzione la dottrina attribuisce la valenza di regime patrimoniale primario con efficacia esterna: ciò significa che, qualunque sia il regime patrimoniale adottato dai coniugi (comunione
legale, separazione dei beni, comunione convenzionale), entrambi i coniugi sono responsabili in solido per le
obbligazioni contratte per i bisogni della famiglia (obbligazioni contratte da uno solo dei coniugi per il
soddisfacimento dell’interesse alla salute di uno dei componenti della famiglia).
Indirizzo della vita familiare L’accordo tra i coniugi determina l’indirizzo della vita familiare e, in generale, l’insieme delle scelte idonee
a definire le modalità della vita familiare. Tra queste ultime, il codice menziona espressamente la fissazione
della residenza familiare, cioè del luogo dove i coniugi decidono di dare attuazione al reciproco obbligo di
coabitazione. Le scelte dei coniugi devono essere adottate tenendo conto delle esigenze di entrambi e di
quelle preminenti della famiglia. L’accordo tra i coniugi non ha natura giuridica di contratto: è un atto di autonomia privata che, tuttavia, non è né coercibile né irrevocabile. A ciascun coniuge spetta il potere di
attuare l’indirizzo concordato, che consiste nell’adozione di tutte le condotte e le decisioni necessarie per
realizzare gli accordi conclusi.
Nel caso in cui i coniugi non riescano a pervenire all’accordo su scelte riguardanti l’indirizzo della vita
familiare, ciascuno di essi può chiedere l’intervento del giudice, affinché sia quest’ultimo a compiere il
tentativo di raggiungere una soluzione concordata. Il giudice ha una funzione meramente conciliativa: la
legge, infatti, non attribuisce al giudice il potere di sostituire la volontà dei coniugi con l’autorità della
decisione giudiziale e il procedimento non ha carattere di contenzioso.
Cognome e cittadinanza della moglie Per effetto del matrimonio, la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo
stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze. Si tratta di una previsione che introduce una deroga al
principio di eguaglianza dei coniugi.
La legge ha escluso che il matrimonio del cittadino italiano con lo straniero possa produrre l’effetto della
perdita della cittadinanza. Nel caso, invece, di cittadino straniero che contragga matrimonio con un cittadino
italiano, il diritto a ottenere la cittadinanza sussiste in due ipotesi: se lo straniero sia residente in Italia da
almeno due anni; se sono decorsi tre anni dal matrimonio. I termini sono ridotti della metà in presenza di figli
nati o adottati dai coniugi.
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Obblighi nei confronti dei figli Il matrimonio fa sorgere in capo ai coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole, tenendo conto
delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. Mentre gli obblighi di educazione e
istruzione si estinguono con il raggiungimento della maggiore età, l’obbligo di mantenimento perdura fino
all’effettivo raggiungimento dell’autosufficienza economica e sorge sin dal momento della nascita.
L’obbligazione di mantenimento deve essere adempiuta dai coniugi in proporzione alle rispettive sostanze e
secondo la loro capacità di lavoro; quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti legittimi
o naturali, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano
adempiere i loro doveri nei confronti dei figli. Se uno dei genitori è inadempiente all’obbligo di mantenimento
dei figli, la legge prevede uno speciale strumento esecutivo, consistente nell’ordine, emesso con decreto del
Presidente del tribunale su istanza di chiunque vi abbia interesse, che una quota dei redditi dell’obbligato sia
versata direttamente all’altro coniuge o chi sopporta le spese per la prole.
5. Rapporti patrimoniali tra coniugi
Regimi patrimoniali della famiglia Sotto l’intitolazione del regime patrimoniale della famiglia, il codice disciplina istituti tra loro diversi: la
comunione legale, la comunione convenzionale e la separazione dei beni, che concernono le modalità
con cui i coniugi, durante il matrimonio, acquistano ed esercitano i diritti aventi contenuto patrimoniale; il
fondo patrimoniale, istituto per mezzo del quale i coniugi danno attuazione all’obbligazione di contribuire ai
bisogni della famiglia; l’impresa familiare, che regola i rapporti patrimoniali della collaborazione lavorativa
nell’attività d’impresa.
Qualora e finché i coniugi non decidano consensualmente di adottare un diverso regime, cioè la separazione
dei beni o la comunione convenzionale, essi versano automaticamente in regime di comunione legale.
La convenzione matrimoniale può essere definita come l’atto con cui i coniugi (o anche un terzo, nel caso
del fondo patrimoniale) regolano la situazione patrimoniale della famiglia, derogando, in tutto o in parte, al
regime legale della comunione dei beni. La convenzione matrimoniale è atto giuridico solenne, che
richiede la forma dell’atto pubblico sotto pena di nullità. Soltanto la scelta del regime di separazione dei
beni, se compiuta contestualmente alla celebrazione del matrimonio, può essere dichiarata direttamente al
celebrante, che provvede ad inserirla nell’atto di matrimonio. I coniugi sono parti necessarie dell’accordo, ma
il fondo patrimoniale può essere costituito anche da un terzo, con atto tra vivi (che richiede l’accettazione dei
coniugi) o con testamento.
Le convenzioni matrimoniali sono sottoposte a pubblicità, sono opponibili ai terzi solo se annotate a margine dell’atto di matrimonio e sono soggette a trascrizione qualora abbiano ad oggetto beni immobili e
riguardino la costituzione del fondo patrimoniale, lo scioglimento della comunione, gli atti di acquisto di beni
personali o l’esclusione di specifici beni dalla comunione. Le modifiche delle convenzioni matrimoniali,
anteriori o successive al matrimonio, non hanno effetto se l’atto pubblico non è stipulato col consenso di tutte
le persone che sono state parti nelle convenzioni medesime, o dei loro eredi. Le convenzioni matrimoniali
possono essere oggetto di simulazione assoluta o relativa.
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Prima della riforma del 1975, la convenzione matrimoniale più diffusa era la dote, costituita da quei beni che
la moglie apporta al marito per sostenere i pesi del matrimonio; se la dote consisteva in una somma di
denaro o in cose mobili, il marito ne acquistava, di regola, la proprietà. Oggi è sancita la nullità di ogni
convenzione che tenda alla costituzione di beni in dote, anche se i coniugi possono adottare comunque un
regime patrimoniale atipico. In ogni caso, gli sposi non possono pattuire in modo generico che i loro rapporti
patrimoniali siano in tutto o in parte regolati da leggi alle quali non sono sottoposti o dagli usi, ma devono
enunciare in modo concreto il contenuto dei patti con i quali intendono regolare questi loro rapporti.
Comunione legale La nozione di comunione legale ha un duplice significato: indica la massa patrimoniale, ossia l’insieme dei
beni e dei diritti in costanza di matrimonio; costituisce un regime patrimoniale, cioè un insieme di regole
normative che disciplinano in maniera peculiare i rapporti giuridici dei coniugi, interni ed esterni, durante la
vita coniugale.
Esistono differenze tra comunione legale e comunione ordinaria. In primo luogo, la comunione ordinaria
non modifica i rapporti esistenti tra i partecipanti, né tra costoro e i terzi. Ad esempio, il singolo
comproprietario ordinario, a differenza del coniuge in comunione legale, delle obbligazioni nei confronti dei
terzi risponde con il bene oggetto della comunione senza alcuna possibilità di far valere l’onere del creditore
di soddisfarsi preventivamente sui beni oggetto di proprietà individuale.
In secondo luogo, mentre la comunione ordinaria è una comunione per quote, nella comunione legale
ciascun coniuge, di regola, può esercitare il diritto reale con riferimento all’intero bene, senza il limite del
rispetto della destinazione della cosa e del diritto degli altri partecipanti di fare parimenti uso della cosa.
Nella comunione legale, infatti, la nozione di quota assolve soltanto a due funzioni: indicare il limite entro il
quale i beni della comunione legale possono essere escussi dal creditore particolare di uno dei coniugi;
segnare il rapporto proporzionale cui i coniugi devono attenersi in sede di divisione. La comunione legale è
definibile come proprietà solidale.
La comunione legale non è una comunione universale perché non comprende tutti i beni di ciascun
coniuge, ma prevede un’esplicita riserva di beni personali e talune categorie di beni che trovano ingresso nel
patrimonio coniugale soltanto per effetto dello scioglimento. I beni che compongono il patrimonio del coniuge
in comunione legale possono essere suddivisi in tre categorie: beni oggetto di comunione legale immediata;
beni che cadono in comunione legale de residuo, cioè al momento dello scioglimento della comunione
stessa; beni personali.
Comunione legale immediata
Costituiscono oggetto della comunione legale gli acquisti compiuti da due coniugi insieme o separatamente
durante il matrimonio, esclusi quelli relativi ai beni personali. L’oggetto dell’acquisto cade in comunione
legale immediatamente e automaticamente, a prescindere dalla conoscenza, in capo al venditore, del
regime di comunione legale, dal consenso dell’altro coniuge e dalla trascrizione dell’acquisto in favore
dell’altro coniuge.
Si è discusso se nella nozione di acquisti siano compresi, oltre a quelli a titolo derivativo, anche gli acquisti a titolo originario: si è ritenuto che nella comunione legale siano compresi gli acquisti per usucapione,
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mentre gli acquisti per accessione appartengono soltanto al coniuge proprietario del suolo (per averlo
acquistato prima del matrimonio) su cui la costruzione viene realizzata. Altra questione controversa
concerne l’estensione della previsione normativa anche ai diritti di credito o la sua limitazione ai soli acquisti
reali, ma la giurisprudenza di legittimità si è espressa per l’estensione della normativa.
Costituiscono oggetto della comunione legale le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il
matrimonio. L’appartenenza alla comunione legale è subordinata a due presupposti: la costituzione del
complesso aziendale dopo l’instaurazione del regime di comunione legale; la gestione dell’impresa da parte
di entrambi i coniugi. Nel caso in cui manchi uno dei due requisiti, l’azienda non è oggetto di comunione
legale immediata e la fattispecie è regolata diversamente a seconda della combinazione dei requisiti. È
discussa la qualificazione del rapporto giuridico tra i coniugi che gestiscono congiuntamente l’azienda
oggetto di comunione legale: per alcuni, all’azienda coniugale si applica l’intera disciplina della comunione
legale, comprese le norme concernenti l’amministrazione e la responsabilità per le obbligazioni; per altri, si
applicherebbero le norme riguardanti la società.
Quanto al rapporto tra oggetto della comunione legale e partecipazioni societarie dei coniugi, la dottrina
maggioritaria ha accolto un criterio fondato sulla natura della responsabilità derivante dall’assunzione della
qualifica di socio: le partecipazioni in s.p.a. o s.r.l. rientrano nella comunione immediata; le quote
comportanti responsabilità illimitata ricadono in comunione de residuo, essendo espressive dell’esercizio di
un’attività imprenditoriale da parte del coniuge socio.
Comunione de residuo
La comunione de residuo comprende quei beni che, durante la vigenza del regime di comunione, sono
nella titolarità e nella disponibilità esclusiva del coniuge che li ha acquistati e che solo in seguito allo
scioglimento entrano a comporre la complessiva massa patrimoniale oggetto di divisione tra i coniugi. Sono
oggetto di comunione legale de residuo i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi e i proventi dell’attività
separata di ciascuno dei coniugi: frutti e proventi, durante la comunione legale, sono rimessi alla libera
disponibilità del singolo coniuge, il quale può impiegarli nelle forme che preferisce.
Sono ipotizzabili tre tipi di impiego: il coniuge può consumare i frutti e i proventi, per cui l’altro coniuge non
potrà pretendere alcunché dopo lo scioglimento; il coniuge può impiegare i frutti e i proventi nell’acquisto di
beni e, in tal caso, i beni acquistati divengono oggetto di comunione legale immediata; il coniuge può
accantonare frutti e proventi sotto forma di risparmio, i quali cadono in comunione in seguito allo
scioglimento.
Beni personali
Il regime di comunione legale non preclude a ciascun coniuge di essere titolare esclusivo di alcuni beni. Il
codice menziona sei categorie di beni personali: i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era
proprietario, o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento; i beni acquisiti successivamente al
matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non è
specificato che essi sono attribuiti alla comunione; i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge e i
loro accessori; i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge; i beni ottenuti a titolo di
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risarcimento del danno; i beni acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni personali suddetti o col loro
scambio.
L’acquisto di beni immobili, o di beni mobili registrati, effettuato dopo il matrimonio, può essere escluso dalla
comunione. L’esclusione dalla comunione legale deve però risultare dall’atto di acquisto, è cioè
subordinata ad un riconoscimento compiuto dal coniuge non acquirente, che partecipi all’acquisto stesso. Il
cosiddetto rifiuto al coacquisto priverebbe il regime di comunione legale della sua valenza normativa
generale. La giurisprudenza aveva attribuito alla dichiarazione del coniuge non acquirente carattere
ricognitivo e non negoziale; poi è stata qualificata alla stregua di una confessione, revocabile soltanto per
errore di fatto o per violenza. La Cassazione ha successivamente precisato che la dichiarazione ha portata
confessoria soltanto con riferimento a situazioni di fatto (beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni
personali); altrimenti la dichiarazione dell’altro coniuge può essere solo espressiva di una manifestazione di
intenti. Pertanto, il coniuge non acquirente può successivamente proporre domanda di accertamento della
comunione legale anche rispetto a beni che siano stati acquistati come personali dall’altro coniuge.
Amministrazione
I beni che costituiscono l’oggetto della comunione legale si differenziano dai beni personali di ciascun
coniuge sia sotto il profilo della loro amministrazione, sia sotto il profilo dei limiti entro i quali essi
rispondono delle obbligazioni contratte dai coniugi, congiuntamente o separatamente, nell’interesse della
famiglia o per il conseguimento di scopi individuali.
Il legislatore ha stabilito regole operative differenti a seconda che l’atto di amministrazione dei beni in comunione si caratterizzi come atto di ordinaria o di straordinaria amministrazione: nel primo caso,
l’amministrazione e la rappresentanza in giudizio spettano disgiuntamente ad entrambi i coniugi; nel
secondo caso, gli atti devono essere compiuti dai coniugi congiuntamente. Come criterio per distinguere tra
atto di ordinaria e straordinaria amministrazione, occorre assumere quello dell’essenzialità dell’affare in
relazione alle esigenze della vita familiare.
Se uno dei due coniugi rifiuta il consenso per la stipulazione di un atto di straordinaria amministrazione, o
per gli altri atti per cui il consenso è richiesto, l’altro coniuge può rivolgersi al giudice per ottenere
l’autorizzazione, purché la stipulazione dell’atto sia necessaria all’interesse della famiglia. In caso di
lontananza o altro impedimento di un coniuge (scomparsa, inabilitazione, infermità), l’altro può compiere,
previa autorizzazione del giudice, gli atti necessari per i quali è chiesto il consenso di entrambi. Tale onere
viene meno qualora il coniuge lontano, o altrimenti impedito, abbia conferito all’altro una procura risultante
da atto pubblico o da scrittura privata autenticata, purché non si tratti di procure generali. Invece, l’assenza o
la dichiarazione di morte presunta fa conseguire l’effetto dello scioglimento della comunione legale.
Un coniuge può domandare al giudice l’esclusione dell’altro coniuge dall’amministrazione dei beni della
comunione legale in presenza di tre presupposti: la minore età di uno dei coniugi; il suo impedimento ad
amministrare; la pregressa cattiva amministrazione. L’interdizione esclude il coniuge di diritto fino a quando
permanga il suo stato di incapacità; il coniuge privato dell’amministrazione può chiedere al giudice la
reintegrazione se sono venuti meno i motivi che hanno determinato l’esclusione.
Il codice disciplina le conseguenze giuridiche degli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro, nelle ipotesi in cui è richiesta la partecipazione congiunta di entrambi. È infatti previsto
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che: se gli atti riguardano beni immobili o beni mobili registrati, il coniuge che non ha prestato il suo
consenso, qualora non intenda convalidare l’atto, può domandarne l’annullamento; se gli atti riguardano,
invece, beni mobili, il coniuge che li ha compiuti è obbligato alla ricostituzione della comunione o alla
corresponsione dell’equivalente.
Nel caso dei beni immobili, il terzo acquirente ha la possibilità di accertare se l’alienante è persona
coniugata e quale sia il regime patrimoniale prescelto: l’omissione di tali cautele è sanzionata dalla legge
attraverso l’annullabilità dell’atto su domanda del coniuge pretermesso. Sono soggetti a questa disciplina sia
gli atti aventi effetti reali, sia quelli aventi effetti obbligatori (contratto preliminare di vendita di un bene
facente parte della comunione legale). L’azione di annullamento può essere esperita soltanto dal coniuge
che è rimasto estraneo all’atto, in ragione della natura personalissima dell’azione. Il termine per proporre
l’azione è di un anno dalla data in cui il coniuge pretermesso ha avuto conoscenza dell’atto e, in ogni caso,
dalla data di trascrizione; se l’atto non è stato trascritto e il coniuge non ne ha avuto conoscenza, il termine
annuale per proporre l’azione di annullamento decorre dal momento dello scioglimento della comunione
legale. L’onere di informazione grava direttamente sul contraente coniugato, che è, pertanto, obbligato al
risarcimento dei danni nei confronti del terzo che abbia subito l’annullamento del contratto: il danno
risarcibile è quello consistente nella diminuzione patrimoniale subita per aver confidato senza colpa nella
validità del contratto. La sentenza di annullamento produce effetti retroattivi. La convalida dell’atto di
alienazione, da parte del coniuge che non ha espresso il necessario consenso, attribuisce definitiva stabilità
agli effetti dell’atto compiuto dall’altro coniuge.
Nel caso dei beni mobili, il coniuge che ha violato l’obbligo di amministrazione congiunta è tenuto a
ricostituire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto. L’obbligazione sorge
automaticamente col compimento dell’atto, ma la sua attualità presuppone l’istanza del coniuge
pretermesso. Il legislatore allude ad una sorta di reintegrazione in forma specifica del patrimonio
coniugale, che il coniuge alienante potrebbe conseguire o attraverso lo scioglimento consensuale del
contratto o, in caso di rifiuto del terzo, mediante l’acquisto, con mezzi propri, di un bene di natura e qualità
non inferiore a quello ceduto. Qualora la ricostituzione in forma specifica non sia possibile, la reintegrazione
della comunione legale deve avvenire col pagamento dell’equivalente del valore del bene alienato. Il diritto
alla ricostituzione della comunione legale è soggetto a prescrizione decennale a far data dall’atto di
alienazione.
Si è posto, in dottrina, il problema della possibilità del coniuge pretermesso di agire nei confronti del coniuge
alienante per ottenere il risarcimento del danno. L’alternativa risarcitoria potrebbe essere preferita per non
esporre il coniuge alienante a responsabilità nei confronti del terzo e, quindi, la stessa comunione legale alla
necessità di far fronte alla relativa obbligazione risarcitoria. Si è affermato, così, che l’obbligo di risarcimento
del danno, sancito per i soli atti riguardanti beni mobili, rappresenta un rimedio di carattere generale,
invocabile in ogni fattispecie di alienazione compiuta da un coniuge in violazione delle regole di
amministrazione congiunta. Il coniuge escluso non può agire, invece, nei confronti del terzo acquirente,
anche in ipotesi di mala fede di quest’ultimo.
Qualunque sia il titolo in virtù del quale i beni fanno parte del patrimonio personale del coniuge,
quest’ultimo ha diritto di goderne e di disporne in modo esclusivamente individuale. In questo caso, alla
stregua delle norme di diritto comune, ciascun coniuge può conferire all’altro, pur in vigenza del regime di
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comunione legale, la procura ad amministrare i propri beni. Problema distinto è, invece, quello relativo ai
beni che, per quanto personali, siano stati in concreto asserviti dal coniuge titolare al soddisfacimento di
esigenze della famiglia (bene immobile personale adibito a residenza della famiglia): il singolo coniuge non
può unilateralmente rinegoziare l’indirizzo concordato e riappropriarsi del godimento esclusivo di un bene
funzionale allo svolgimento della vita familiare.
Responsabilità
Il regime di comunione legale contiene una disciplina speciale in tema di responsabilità patrimoniale per l’adempimento delle obbligazioni. La legge distingue infatti tra: obbligazioni della comunione legale, per
le quali il creditore può soddisfarsi, prioritariamente, sui beni della comunione legale e, in via sussidiaria, sui
beni personali di ciascuno dei coniugi nella misura della metà del credito; obbligazioni personali dei coniugi, per le quali il creditore può agire sui beni personali del coniuge debitore e, solo in via sussidiaria, su
quelli facenti parte della comunione legale, e comunque nei limiti della quota del coniuge obbligato.
Le obbligazioni della comunione legale sono elencate tassativamente. I beni della comunione legale
rispondono: di tutti i pesi ed oneri gravanti su di essi al momento dell’acquisto (vincoli reali e obbligazioni
propter rem); di tutti i carichi dell’amministrazione; delle spese per il mantenimento della famiglia, per
l’istruzione e l’educazione dei figli e di ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente,
nell’interesse della famiglia; di ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi (obbligazioni
soggettivamente complesse).
I beni personali di ciascuno dei coniugi possono essere aggrediti dal creditore per le obbligazioni della
comunione legale soltanto quando i beni della comunione non sono sufficienti. La limitazione di
responsabilità è applicata soltanto al coniuge che non abbia contratto l’obbligazione; viceversa, il coniuge-
debitore risponde per l’adempimento dell’obbligazione con tutti i suoi beni presenti e futuri.
I beni della comunione legale, inoltre, non rispondono delle obbligazioni contratte da uno dei coniugi: prima
del matrimonio; per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza il necessario consenso
dell’altro; per un interesse diverso da quello della famiglia, per l’acquisto di beni personali o nell’esercizio
separato della professione; durante il matrimonio, ma nella vigenza del regime di separazione dei beni. I
beni della comunione legale non rispondono neppure delle obbligazioni derivanti da fatto illecito imputabile
esclusivamente al coniuge, né delle obbligazioni da cui sono gravate le donazioni e le successioni
conseguite dai coniugi durante il matrimonio e non attribuite alla comunione.
Per il soddisfacimento delle obbligazioni personali, i creditori possono agire sui beni personali del coniuge
debitore e, in via sussidiaria, sui beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge
obbligato. Il creditore può aggredire i beni della comunione legale, salva la facoltà del debitore di eccepire il
beneficium excussionis, con l’indicazione dei beni personali sui quali soddisfarsi. Il valore della quota del
coniuge obbligato è calcolato non per ogni singolo cespite, ma con riferimento all’intera massa della
comunione legale. Ai creditori particolari dei coniugi, se chirografari, sono preferiti i creditori della comunione
legale: si tratta di un privilegio speciale.
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Scioglimento
Il regime patrimoniale della comunione legale tra coniugi è soggetto a scioglimento nelle seguenti ipotesi:
dichiarazione di assenza o di morte presunta di uno dei coniugi; annullamento, scioglimento o cessazione
degli effetti civili del matrimonio; separazione personale; separazione giudiziale dei beni; mutamento
convenzionale del regime patrimoniale; fallimento di uno dei coniugi. Si preferisce qualificare il fenomeno
dello scioglimento della comunione in termini di cessazione o estinzione del regime di comunione.
L’estinzione della comunione legale ha due effetti principali: i beni in comunione legale costituiscono la
massa patrimoniale oggetto di eventuale divisione; gli acquisti compiuti dai coniugi, congiuntamente o
separatamente, dopo lo scioglimento, cessano di essere sottoposti al regime di comunione legale, bensì
restano di titolarità esclusiva del coniuge acquirente.
Nelle ipotesi di scioglimento della comunione legale, che non coincidono con il contestuale scioglimento del
vincolo matrimoniale, al regime della comunione legale subentra automaticamente quello della separazione dei beni. In capo a ciascun coniuge sorge l’obbligo di rimborsare alla comunione legale le somme prelevate
per fini individuali e il valore dei beni escussi dai creditori per le obbligazioni contratte separatamente dai
coniugi, nonché l’ulteriore obbligo di restituire al coniuge le somme che questi abbia attinto dal proprio
patrimonio personale per far fronte a spese del patrimonio comune.
Ciascun coniuge acquista il diritto potestativo di ottenere la divisione dei beni acquisiti durante la vigenza di
tale regime patrimoniale. Entro un anno dalla data di scioglimento, ciascun coniuge può esperire l’azione di
annullamento degli atti riguardanti beni immobili (o mobili registrati), compiuti dall’altro coniuge senza il
proprio consenso, non trascritti e dei quali egli non abbia avuto altrimenti conoscenza.
Si discute quale sia, per effetto dello scioglimento, la natura giuridica della massa di beni oggetto di
comunione legale. La dottrina prevalente sostiene che, all’atto dello scioglimento, la comunione legale tra i
coniugi si trasformi automaticamente in comunione ordinaria. Ciò comporta: il potere di ciascun coniuge di
domandare lo scioglimento della comunione; l’automatica espansione della quota ad effettivo elemento
strutturale di compartecipazione dei coniugi alla titolarità del diritto sui beni facenti parte della massa; il diritto
di ciascun coniuge di servirsi della cosa comune; la facoltà per ciascun coniuge di alienare la propria quota
non soltanto in favore dell’altro coniuge, ma anche nei confronti dei terzi.
Le altre tesi sostengono: l’ultrattività della disciplina della comunione legale, che continuerebbe a trovare
applicazione nonostante l’intervenuto scioglimento, fino all’effettiva divisione della massa comune; l’apertura
di una fase liquidatoria, analogamente allo scioglimento di associazioni e società, finalizzate alla distinzione
del patrimonio comune da quello personale di ciascun coniuge; la cessazione del regime amministrativo e
il ripristino del principio ordinario di coincidenza tra titolarità del diritto e potere dell’amministrazione, per cui
occorre constatare quale dei coniugi sia il titolare del diritto su ciascun bene e riconoscere esclusivamente a
quest’ultimo il potere di compiere gli atti di amministrazione (questa tesi è sostenuta da coloro che
disattendono la qualificazione della comunione legale come figura di contitolarità di diritti).
Le cause di scioglimento possono essere suddivise tra quelle che si ricollegano direttamente alla
cessazione del vincolo matrimoniale e quelle che si riferiscono a vicende attinenti all’attività economico
patrimoniale dei coniugi. Le singole cause di scioglimento della comunione legale sono tassativamente
indicate: morte di uno dei due coniugi; dichiarazione di assenza o di morte presunta; scioglimento o
cessazione degli effetti civili del matrimonio; annullamento del matrimonio; separazione personale dei
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coniugi, previa sentenza passata in giudicato; separazione giudiziale dei beni, a seguito di interdizione,
inabilitazione, cattiva amministrazione della comunione, disordine degli affari, mancata contribuzione ai
bisogni della famiglia; mutamento convenzionale del regime patrimoniale; fallimento di uno dei coniugi.
Infine, i coniugi possono sancire lo scioglimento della comunione legale limitatamente all’azienda gestita da
entrambi e costituita dopo il matrimonio.
Nei casi di cessazione della comunione legale, vi è l’esigenza di tutela dei terzi, che si trovino a compiere
attività negoziale con uno dei coniugi. Sono pertanto previste varie forme di pubblicità, che consentono ai
terzi di apprendere la cessazione del regime patrimoniale legale: delle cause di scioglimento della
comunione legale si fa annotazione negli atti di matrimonio.
Per alcune cause di scioglimento della comunione legale, è possibile la caducazione dei loro effetti e il
conseguente ripristino del regime patrimoniale legale. La reversibilità delle cause di scioglimento è
prevista nei seguenti casi: il ritorno, o la prova dell’esistenza, dell’assente o del dichiarato morto presunto,
fanno cessare gli effetti della sentenza; nel caso di mutamento convenzionale, l’accertamento dell’invalidità
della convenzione determina il ripristino del precedente regime; la revoca o la chiusura del fallimento
comporta l’automatico ripristino del regime patrimoniale legale; nel caso di separazione personale tra
coniugi, gli effetti dello scioglimento cessano in seguito alla riconciliazione tra i coniugi. In particolare, la
riconciliazione può consistere in un’espressa dichiarazione resa dai coniugi o in un comportamento non
equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione. Alla cessazione degli effetti della separazione
personale, consegue la riviviscenza automatica del regime patrimoniale già vigente tra i coniugi, che non
sarà opponibile, però, nei confronti dei terzi di buona fede. Gli eventuali acquisti, compiuti da ciascun
coniuge nel periodo compreso tra la pronuncia di separazione e la riconciliazione, non possono essere
compresi nell’ambito del patrimonio coniugale e costituiscono, pertanto, beni personali; delle obbligazioni
contratte nel medesimo periodo, ciascun coniuge risponderà personalmente.
La divisione dei beni costituisce la fase successiva allo scioglimento della comunione legale e consiste
nella ripartizione fra i coniugi dei beni acquistati secondo il regime legale durante la vita coniugale.
Operazione preliminare alla divisione della comunione legale è l’esatta distinzione dei beni appartenenti al
patrimonio comune da quelli personali dei coniugi, ai fini dell’individuazione e formazione della massa.
Ciascun coniuge, o i loro eredi, hanno il diritto di prelevare i beni mobili che appartenevano ai coniugi stessi
prima della comunione, o ad essi pervenuti durante la medesima per successione o donazione; qualora tra i
coniugi insorga controversia in ordine alla natura personale di tali beni, opera la presunzione di
appartenenza dei beni stessi alla comunione legale.
La formazione della massa patrimoniale oggetto di divisione deve essere perfezionata mediante i rimborsi e
le restituzioni: in primo luogo, ciascun coniuge può pretendere dall’altro il conferimento nella comunione
legale delle somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni
gravanti sui beni della comunione; in secondo luogo, il coniuge che abbia compiuto atti di straordinaria amministrazione senza il necessario consenso dell’altro ha l’obbligo di rimborsare il valore dei beni della
comunione legale sui quali il creditore, per le obbligazioni nascenti da tali atti, si sia soddisfatto in sede
esecutiva; in terzo luogo, ciascun coniuge può richiedere la restituzione delle somme prelevate dal
patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune. All’esito dei conteggi di
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rimborsi e restituzioni, qualora uno dei coniugi risulti creditore verso l’altro coniuge, può chiedere di prelevare
beni della comunione legale sino alla concorrenza del proprio credito.
Vi è l’obbligo di ripartire in parti uguali l’attivo e il passivo; i coniugi possono procedere a divisione contrattuale o, in mancanza di accordo, ciascun coniuge può azionare il proprio diritto di ottenere la
divisione giudiziale, nell’ordinario termine decennale di prescrizione. Quanto alla ripartizione dei debiti della
comunione legale, sono ammissibili patti interni di accollo, inopponibili ai creditori che non vi prestino
volontaria adesione.
Il giudice può costituire in favore di uno dei coniugi, in relazione alle necessità della prole e all’affidamento di
essa, l’usufrutto su una parte dei beni spettanti all’altro coniuge. Si parla in proposito di usufrutto giudiziale:
esso è inalienabile e si estingue col raggiungimento della maggiore età da parte dei figli.
Comunione convenzionale I coniugi possono modificare il regime di comunione legale dei beni, nel rispetto di specifici limiti di forma e
di contenuto. Con riguardo ai limiti di forma, lo strumento idoneo è quello della convenzione matrimoniale, la quale, ai fini dell’opponibilità a terzi, deve essere annotata a margine dell’atto di
matrimonio e, se ha ad oggetto beni immobili, anche trascritta. Circa la natura giuridica della comunione
convenzionale, alcuni ritengono che essa configuri un regime patrimoniale autonomo e alternativo alla
comunione legale, altri sostengono che essa rappresenti una mera modificazione del regime di comunione
legale.
Per quel che concerne il contenuto, la comunione convenzionale può consistere in una comunione con
oggetto più ampio rispetto a quella legale, oppure meno ampio. La comunione convenzionale ha oggetto più ampio di quella legale quando i coniugi conferiscono in comunione tutti i loro beni personali. È però
vietato comprendere in comunione i beni di uso strettamente personale, quelli che servono all’esercizio della
professione e quelli ottenuti a titolo di risarcimento del danno: la ratio del divieto consiste nell’opportunità di
salvaguardare una soglia minima di autonomia ed individualità patrimoniale di ciascun coniuge, che si
traduce nell’inammissibilità di una comunione di tipo universale. Fatta salva questa previsione, i coniugi
possono includere in comunione i beni di cui erano proprietari prima del matrimonio, quelli acquisiti
successivamente per effetto di donazione o successione e quelli acquisiti con il prezzo del trasferimento di
beni personali; la comunione convenzionale può comprendere, inoltre, i frutti dei beni personali e i proventi
dell’attività separata di ciascuno dei coniugi. Allo scopo di evitare che la comunione convenzionale possa
essere impiegata per sottrarre garanzie patrimoniali al terzo creditore di uno dei coniugi, è previsto che i beni
della comunione rispondono delle obbligazioni contratte da uno dei coniugi prima del matrimonio
limitatamente al valore dei beni di proprietà del coniuge che sono entrati a far parte della comunione dei
beni.
Quanto alla comunione con oggetto meno ampio rispetto a quella legale, è previsto che i coniugi possano
decidere l’esclusione dei beni mobili e immobili dal regime comunitario. Le convenzioni matrimoniali che
escludono i beni immobili dalla comunione tra i coniugi devono essere trascritte. Non possono costituire
oggetto di deroga convenzionale da parte dei coniugi le regole relative all’amministrazione dei beni, il
principio di uguaglianza delle quote e le norme sulla responsabilità patrimoniale.
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Separazione dei beni In alternativa alla comunione legale, i coniugi possono optare per la separazione dei beni. In tal caso,
ciascun coniuge conserva la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio, dei quali ha facoltà
di godimento e di amministrazione. Ai beni che, invece, siano acquistati dai coniugi congiuntamente, prima o
dopo il matrimonio, si applicano le norme sulla comunione ordinaria. I coniugi possono scegliere il regime di
separazione dei beni: al momento del matrimonio, con dichiarazione resa al celebrante; durante il rapporto
coniugale, con il mezzo della convenzione matrimoniale; attraverso lo scioglimento della comunione legale.
La legge disciplina l’amministrazione dei beni di un coniuge da parte dell’altro distinguendo tre ipotesi:
amministrazione con procura e obbligo di rendiconto, secondo le regole del mandato; amministrazione con
procura, ma senza obbligo di rendiconto; amministrazione contro la volontà dell’altro coniuge. Quest’ultima
fattispecie configura un fatto illecito, che fa sorgere a carico del coniuge amministratore l’obbligo del
risarcimento dei danni e della corresponsione dei frutti percepiti.
Il coniuge che esercita il godimento dei beni dell’altro è tenuto alle obbligazioni dell’usufruttuario. Sebbene
il regime di separazione dei beni attribuisca a ciascun coniuge la proprietà esclusiva dei beni acquistati, è
possibile che alla titolarità individuale del diritto reale corrisponda il godimento o l’amministrazione degli
stessi beni da parte dell’altro coniuge. Per tale ragione, il legislatore ha dettato una disciplina speciale in
tema di prova della proprietà dei beni, che contempla due regole: la presunzione di contitolarità tra i
coniugi, per pari quota, dei beni di cui il singolo coniuge non possa dimostrare la proprietà esclusiva; la
possibilità per ciascun coniuge di provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro la proprietà esclusiva di un
bene.
Fondo patrimoniale Il fondo patrimoniale consiste nella destinazione di determinati beni (immobili, mobili registrati, titoli di
credito) a far fronte ai bisogni della famiglia. Non si tratta, quindi, di un regime patrimoniale generale, ma di
un istituto che si affianca alla comunione, legale o convenzionale, o alla separazione dei beni. Il fondo
patrimoniale si costituisce: per atto inter vivos, compiuto da uno o da entrambi i coniugi, o anche da un
terzo, richiedendosi, in tal caso, la forma dell’atto pubblico e l’accettazione dei coniugi; per testamento.
Per tutelare l’affidamento dei terzi, la legge ha previsto che il fondo patrimoniale possa avere ad oggetto
soltanto beni immobili, mobili registrati o titoli di credito nominativi, beni, cioè, sui quali possa essere reso
pubblico il vincolo di destinazione. Ai fini dell’opponibilità ai terzi, si attribuisce rilevanza soltanto
all’annotazione a margine dell’atto di matrimonio. La proprietà dei beni costituenti il fondo patrimoniale spetta
ad entrambi i coniugi, salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di costituzione.
La destinazione del fondo patrimoniale al soddisfacimento dei bisogni della famiglia si realizza: in modo
diretto, attraverso l’impiego dei frutti dei beni per la realizzazione di tali bisogni; in modo indiretto, per effetto
di limiti legali all’alienabilità e all’espropriabilità dei beni e dei frutti. Se non è stato espressamente consentito
nell’atto di costituzione, non si possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del
fondo patrimoniale se non con il consenso di entrambi i coniugi. Il limite legale di espropriabilità consiste
nella previsione secondo cui i beni del fondo (e i frutti di essi) non possono essere oggetto di esecuzione
forzata da parte del creditore consapevole che il debito è stato contratto per scopi estranei ai bisogni della
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famiglia. Tuttavia, il creditore per debito estraneo ai bisogni della famiglia può agire con l’azione revocatoria
per far dichiarare inefficace nei suoi confronti l’atto costitutivo del fondo stesso.
La destinazione del fondo termina a seguito dell’annullamento o dello scioglimento o della cessazione degli
effetti civili del matrimonio. In seguito all’estinzione si applicano le norme sullo scioglimento della
comunione legale, ma regole particolari sono dettate per l’ipotesi in cui vi siano figli minori.
Impresa familiare L’istituto dell’impresa familiare, introdotto con la riforma del 1975, disciplina l’attività lavorativa prestata dal
familiare, in modo continuativo, nella famiglia o nell’impresa. La normativa non concerne soltanto i rapporti
patrimoniali tra coniugi, ma si riferisce all’attività lavorativa del coniuge, dei parenti entro il terzo grado e degli
affini entro il secondo.
L’impresa familiare configura una forma collettiva di esercizio dell’impresa, ma si distingue dalla società
per alcuni tratti. Le differenze più rilevanti sono le seguenti: l’impresa familiare ha la sua fonte nella legge e
non nel contratto; i collaboratori dell’impresa familiare sono titolari non di quote dell’azienda, ma del diritto
alla remunerazione della loro opera; l’amministrazione non spetta paritariamente a tutti i componenti
dell’impresa, ma solo al familiare-imprenditore; i collaboratori dell’impresa familiare non sono illimitatamente
responsabili per le obbligazioni assunte nell’esercizio dell’impresa.
L’impresa familiare deve essere distinta, altresì, dall’azienda coniugale: in quest’ultima, infatti, ciascun
coniuge non presta soltanto attività lavorativa, ma partecipa interamente all’attività di gestione.
La partecipazione all’impresa familiare può cessare per recesso, esclusione, sopravvenuta insussistenza del
requisito oggettivo di partecipazione, sopravvenuta impossibilità della prestazione continuativa di attività
lavorativa, estinzione dell’impresa familiare.
6. Separazione
Nozioni La separazione personale determina una sospensione o modificazione dei diritti e doveri nascenti dal
matrimonio. Essa costituisce il rimedio cui i coniugi possono ricorrere in presenza di fatti che rendano
intollerabile la convivenza coniugale o rechino grave pregiudizio ai figli.
La separazione personale si differenzia dal divorzio, che estingue gli effetti giuridici derivanti dal
matrimonio. Peraltro, prima del 1970, il nostro ordinamento prevedeva soltanto l’istituto della separazione
personale e non conosceva l’istituto del divorzio, in ossequio al principio di indissolubilità del matrimonio.
L’originario testo del 1942, inoltre, prevedeva che la separazione potesse essere richiesta nei soli casi
determinati dalla legge, e cioè adulterio, volontario abbandono, minacce.
La separazione personale può essere legale o di fatto. La separazione legale si presenta nella duplice
forma di separazione giudiziale e separazione consensuale. La separazione di fatto, invece, consiste
nella sospensione di alcuni diritti e doveri coniugali: essa, in genere, prelude all’instaurazione del giudizio di
separazione giudiziale o consensuale, ma può cessare qualora i coniugi, di comune accordo, decidano di
ripristinare la loro comunione di vita.
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Separazione giudiziale La separazione giudiziale è la separazione personale pronunciata dal giudice con sentenza all’esito di un
procedimento contenzioso instaurato con ricorso da uno dei due coniugi. Il presupposto sostanziale per
domandare la separazione giudiziale è costituito da fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della
convivenza, o da recare grave pregiudizio all’educazione della prole. Tali fatti possono verificarsi anche
indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi.
È controversa la nozione di intollerabilità della convivenza. Da una parte c’è una concezione
soggettivistica, secondo la quale sarebbe precluso al giudice ogni sindacato di merito riguardo alle ragioni
a cui uno o entrambi i coniugi abbiano attribuito valenza di cause ostative della prosecuzione della
convivenza. Dall’altra parte, vi è un prevalente orientamento che rimette al giudice la valutazione
dell’oggettiva rilevanza del fatto addotto dalla parte come impeditivo: il giudice deve assumere come
parametro di riferimento non già la comune valutazione sociale, bensì l’accordo stipulato dai coniugi
sull’indirizzo della vita familiare. L’intollerabilità della convivenza derivante da comportamenti volontari del
coniuge può emergere anche da condotte consentite dalla legge (interruzione della gravidanza, mutamento
del credo religioso). Costituiscono uno specifico presupposto di separazione giudiziale le condotte di un
coniuge gravemente pregiudizievoli per la prole.
Su richiesta di uno dei coniugi e qualora ne ricorrano le circostanze, il giudice può addebitare all’altro la
separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri del matrimonio. Solo i
comportamenti di cosciente e volontaria violazione degli obblighi matrimoniali possono determinare la
pronunzia di addebito, con effetti giuridici sfavorevoli a carico del coniuge nei cui confronti sia stata emessa.
Gli effetti dell’addebito della separazione sono due: il coniuge al quale sia stata addebitata la separazione,
qualora non abbia adeguati redditi propri, non ha diritto all’assegno di mantenimento ma solo il diritto agli
alimenti; perde i diritti successori nei confronti dell’altro coniuge e ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio
se, al momento dell’apertura della successione, godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto.
Recentemente, parte della giurisprudenza ha poi riconosciuto che, dinanzi a violazioni degli obblighi
coniugali che integrino lesioni di diritti fondamentali della persona, il coniuge possa domandare il
risarcimento del danno non patrimoniale.
Il procedimento di separazione giudiziale inizia col ricorso di uno dei coniugi. Nella prima fase, i coniugi
compaiono avanti al Tribunale, il quale ne sente le rispettive ragioni e tenta di conciliarli. In caso di mancata
conciliazione, il Presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere separatamente e dà provvedimenti
temporanei e urgenti; il giudice può anche assumere l’audizione del figlio minore. Il processo è definito con
sentenza emessa dal tribunale, avverso la quale può essere proposto appello e, successivamente, ricorso per Cassazione.
Separazione consensuale Con la separazione consensuale, i coniugi concordano sulla decisione di separarsi e sulle condizioni della
loro separazione relative all’affidamento dei figli, agli obblighi di mantenimento e all’assegnazione della casa
familiare. Tuttavia, la separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza l’omologazione del
giudice. I coniugi possono dunque presentare ricorso al Tribunale e domandare che il giudice dichiari, con
decreto, l’efficacia di tale accordo; questo non costituisce un contratto, ma un negozio bilaterale di diritto
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familiare. Nel caso di contrasti con gli interessi della prole, il Presidente del Tribunale indica le modificazioni
da adottare e, qualora i coniugi non accettino al proposta del giudice, il Tribunale rifiuta l’omologazione.
Effetti della separazione La separazione produce effetti nei rapporti personali tra i coniugi, nei loro rapporti patrimoniali e nei confronti
dei figli.
Effetti della separazione nei rapporti personali tra coniugi
Non sciogliendo il vincolo matrimoniale, la separazione legale non consente ai coniugi di riacquistare lo
stato libero. Ciononostante, la cessazione della coabitazione costituisce il fondamento di una serie di
effetti, tipizzati dal legislatore, relativi ai rapporti personali fra coniugi: la presunzione di paternità del
marito non opera rispetto al figlio nato oltre trecento giorni dalla separazione; la moglie separata può
continuare, di regola, a fare uso del cognome del marito; tra coniugi separati non si applica la causa di non
punibilità con riguardo ai delitti contro il patrimonio; come conseguenza della sospensione dell’obbligo di
coabitazione, devono ritenersi sospesi gli obblighi di fedeltà e di assistenza morale, mente il dovere di
collaborazione nell’interesse della famiglia conserva la sua valenza in presenza di figli minori.
Effetti della separazione nei rapporti patrimoniali tra coniugi
Sul piano del regime patrimoniale tra coniugi, la separazione determina l’estinzione della comunione legale, mentre non produce alcun effetto sul fondo patrimoniale, sull’impresa familiare e sulla tutela
previdenziale.
Il coniuge che non abbia adeguati redditi propri, purché non gli sia stata addebitata la separazione, ha diritto
alla corresponsione di un assegno di mantenimento da parte dell’altro coniuge. Il presupposto della
mancanza di adeguati redditi propri deve essere commisurato rispetto al tenore di vita goduto dai coniugi
durante la coabitazione, occorre, cioè, che tra i coniugi sussista una disparità economica. Per ottenere
l’assegno di mantenimento, il coniuge avente diritto deve proporne domanda giudiziale; può rinunciare
all’assegno, ma tale rinuncia è revocabile.
Il coniuge che versi in stato di bisogno, ma al quale sia stata addebitata la separazione, ha diritto ai soli
alimenti legali da parte dell’altro coniuge.
La legge prevede talune misure preventive dell’inadempimento del coniuge obbligato. Il giudice può
imporre al coniuge obbligato di prestare idonea garanzia reale o personale. La sentenza di separazione che
condanna uno dei coniugi a corrispondere all’altro un assegno di mantenimento costituisce titolo per
l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale. Qualora il coniuge obbligato si riveli inadempiente, il giudice può emanare
due provvedimenti volti a far ottenere il soddisfacimento coattivo del credito: il sequestro di parte dei beni
del coniuge obbligato (sequestro atipico); l’ordine al terzo, tenuto a corrispondere anche periodicamente
somme di denaro all’obbligato, di versare parte di esse direttamente al coniuge avente diritto al
mantenimento.
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Effetti della separazione nei confronti dei figli
La separazione personale tra coniugi non incide sui doveri dei genitori verso i figli, ma l’interruzione della
coabitazione tra coniugi determina un’inevitabile modificazione nell’attuazione dei doveri di mantenimento,
istruzione ed educazione. Per effetto della separazione, infatti, il giudice deve adottare tre provvedimenti
riguardanti i figli: disporre l’affidamento dei figli minori; stabilire, se necessario, a carico del genitore
presso il quale la prole non sia collocata, la corresponsione di un assegno periodico in favore dell’altro;
assegnare la casa familiare al genitore presso il quale i figli siano prevalentemente collocati.
Il diritto alla bigenitorialità, già riconosciuto in fonti sovranazionali, è stato espressamente introdotto
nell’ordinamento italiano (2006). Il giudice valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati
a entrambi i genitori, disponendo un affidamento condiviso; qualora, invece, ritenga che ciò sia contrario
all’interesse del minore, il giudice dispone l’affidamento dei figli ad uno solo dei genitori, realizzando un
affidamento esclusivo. Sia nell’affidamento condiviso che nell’affidamento esclusivo la titolarità della
potestà genitoriale appartiene ad entrambi i genitori; quanto all’esercizio della potestà genitoriale, esso
spetta ad entrambi i genitori nell’affidamento esclusivo, mentre spetta al solo genitore affidatario nel caso
dell’affidamento esclusivo.
Ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito. Al fine di
realizzare il principio della proporzionalità, salvi gli accordi che i genitori stipulino tra loro, il giudice stabilisce,
se necessario, la corresponsione di un assegno periodico. La congruità dell’assegno è valutata dal giudice
anche in sede di separazione consensuale. L’assegno di mantenimento è dovuto anche in favore dei figli
maggiorenni, i quali non siano ancora economicamente autosufficienti.
Il legislatore del 1975 aveva attribuito al giudice della separazione il potere di assegnare la casa familiare di
preferenza al coniuge affidatario della prole: con tale previsione, la legge aveva inteso tutelare l’interesse dei
figli. La disposizione è stata modificata nel 2006: il giudice ha il potere di determinare una localizzazione
prevalente della vita della prole, a tutela della quale egli provvede ad assegnare la casa familiare al genitore
con il quale i figli debbano intrattenere più stabili e frequenti relazioni. Il diritto all’assegnazione della casa
familiare si estingue se l’assegnatario non abiti nella casa familiare, se l’assegnatario instauri una
convivenza all’interno della casa oggetto di assegnazione e se l’assegnatario contragga nuovo matrimonio.
Modifica o revoca dei provvedimenti I genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei
figli, l’attribuzione dell’esercizio della potestà su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla misura del
contributo. Per quel che concerne, invece, i provvedimenti nei confronti dei coniugi, il codice stabilisce che la
revoca o la modifica possano essere risposte soltanto qualora sopravvengano giustificati motivi.
Soluzione delle controversie tra coniugi I genitori possono rivolgersi al giudice in presenza di controversie in ordine all’esercizio della potestà
genitoriale o delle modalità dell’affidamento. Qualora verifichi gravi inadempienze nell’affidamento, il giudice
può modificare i provvedimenti in vigore e può: ammonire il genitore inadempiente; disporre il risarcimento
dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore; condannare il genitore inadempiente al
pagamento di una sanzione amministrativa.
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Riconciliazione I coniugi possono far cessare gli effetti della separazione mediante la riconciliazione, senza che sia
necessario l’intervento del giudice. Le forme della riconciliazione sono la dichiarazione espressa o il
comportamento non equivoco incompatibile con lo stato di separazione: la dichiarazione di riconciliazione
non è soggetta ad oneri di forma, mentre la riconciliazione per comportamenti concludenti consiste nella
totale ricostituzione della comunione materiale e spirituale dei coniugi. La cessazione degli effetti della
separazione comporta la rinnovata vigenza degli obblighi tra coniugi, ossia la riviviscenza ex nunc del
regime di comunione legale. I provvedimenti relativi ai coniugi e alla prole perdono automaticamente
efficacia.
7. Divorzio
Nozioni Il termine divorzio indica lo scioglimento del matrimonio civile e la cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso. L’efficacia di quest’ultimo permane nell’ambito dell’ordinamento religioso: il giudice
italiano, infatti, non può pronunciare il suo scioglimento, ma deve limitarsi a dichiarare cessati gli effetti che,
all’interno dell’ordinamento italiano, sono stati prodotti dal matrimonio in conseguenza della sua trascrizione.
Il divorzio presuppone che, per una delle cause tipiche e tassative indicate dalla legge, la comunione
spirituale e materiale tra i coniugi non possa essere mantenuta o ricostituita. La legge non consente il
divorzio puramente consensuale, bensì rimette sempre al giudice la valutazione circa le concrete possibilità
di mantenimento o ricostituzione della comunione tra i coniugi.
L’introduzione dell’istituto del divorzio nel nostro ordinamento si è avuta nel 1970, mentre nel 1974 fu
respinto il referendum con cui si proponeva l’abrogazione della legge.
Cause di divorzio Le ipotesi tassative nelle quali i coniugi possono domandare il divorzio sono cinque: accertamento
giudiziale di fatti di rilevanza penale commessi dall’altro coniuge (pena superiore a quindici anni, delitti
contro la libertà sessuale, violazione degli obblighi di assistenza familiare); ininterrotta separazione legale,
sia essa giudiziale o consensuale, di durata non inferiore a tre anni a decorrere dalla data di comparizione
dei coniugi innanzi al Tribunale (la separazione di fatto non consente la proposizione della domanda di
divorzio); scioglimento del matrimonio ottenuto all’estero dal coniuge straniero (o che all’estero abbia
contratto un nuovo matrimonio); mancata consumazione del matrimonio; rettificazione dell’attribuzione di sesso compiuta da uno dei coniugi (che già di per sé produce lo scioglimento del matrimonio).
Procedimento Il procedimento per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio presenta
numerose analogie col procedimento previsto per la separazione personale. Il procedimento inizia col
ricorso avanti al Presidente del Tribunale; se la conciliazione non riesce, emette i provvedimenti temporanei
e urgenti e designa il giudice che procederà all’istruzione della causa. Il processo è definito con sentenza
emessa dal Tribunale, avverso la quale può essere proposto appello e ricorso per Cassazione.
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Effetti del divorzio Il divorzio produce effetti nei rapporti personali tra i coniugi, nei loro rapporti patrimoniali e nei confronti dei
figli.
Effetti del divorzio nei rapporti personali tra coniugi
Effetto precipuo del divorzio nei rapporti personali tra coniugi è l’estinzione del vincolo coniugale. I
coniugi perdono i diritti e gli obblighi derivanti dal matrimonio e riacquistano automaticamente lo stato libero.
A carico della ex moglie è stabilito il divieto temporaneo di nuove nozze, la cui violazione, però, costituisce
una mera irregolarità del matrimonio. Il divorzio non fa cessare l’impedimento matrimoniale consistente nel
rapporto di affinità in linea retta, né fa perdere la cittadinanza allo straniero che abbia acquistato detta
cittadinanza per effetto del matrimonio con cittadino italiano. La donna perde invece la facoltà di aggiungere
al proprio il cognome del marito.
Effetti del divorzio nei rapporti patrimoniali tra coniugi
Gli effetti principali del divorzio nei rapporti patrimoniali tra coniugi consistono nello scioglimento della comunione legale e, dove non vi siano figli minori, del fondo patrimoniale. Ulteriori effetti di natura
patrimoniale consistono in diritti che ciascuno degli ex coniugi può vantare nei confronti dell’altro, in
presenza di presupposti determinati dalla legge. Essi sono: il diritto all’assegno post-matrimoniale; il diritto
alla pensione di reversibilità; il diritto all’assegno successorio; il diritto ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge.
Il presupposto oggettivo del diritto all’assegno post-matrimoniale consiste nella mancanza di mezzi
adeguati e nell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. Lo scopo che il legislatore si è prefisso è
quello di prevenire l’apprezzabile deterioramento della situazione economica del coniuge in conseguenza del
divorzio. Per la determinazione del quantum, il giudice deve applicare tre criteri: il criterio risarcitorio, volto
ad indagare sulle responsabilità del fallimento del matrimonio; il criterio compensativo, al fine di accertare il
contributo personale ed economico dato da ciascuno della conduzione familiare e alla formazione del
patrimonio di ciascuno o di quello comune; la durata del matrimonio. Sono nulli per illiceità della causa gli
accordi preventivi tra coniugi riguardanti l’assegno di divorzio, in considerazione della natura indisponibile di
diritti patrimoniali, per la loro natura assistenziale. Sono, invece, cause di estinzione dell’assegno post-matrimoniale la morte di uno dei coniugi; il passaggio a nuove nozze da parte del coniuge beneficiario; la
sopravvenienza, in favore del coniuge beneficiario, dei mezzi adeguati al mantenimento del tenore di vita
matrimoniale; il peggioramento delle condizioni economiche del coniuge obbligato. Anche a tutela del credito
all’assegno di divorzio, come per l’assegno di mantenimento nella separazione personale, la legge prevede
alcune misure preventive dell’inadempimento del coniuge obbligato: il giudice può imporre all’obbligato di
prestare idonea garanzia reale o personale e può disporne il sequestro dei beni; la sentenza di condanna al
pagamento dell’assegno post-matrimoniale costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale sui beni del
coniuge obbligato; azione esecutiva diretta nei confronti del terzo tenuto a corrispondere periodicamente
somme di denaro al coniuge obbligato; previsione di una sanzione penale in caso di mancato versamento
dell’assegno di divorzio.
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Poiché la morte del coniuge obbligato estingue il diritto all’assegno di divorzio, la legge prevede talune
forme di tutela dell’ex coniuge superstite. Al coniuge superstite è riconosciuto il diritto alla pensione di reversibilità, per l’intero ammontare di quest’ultima o, in ipotesi di concorrenza con altro coniuge superstite,
pro quota. I presupposti del diritto alla pensione di reversibilità sono l’anteriorità del rapporto di lavoro, la
mancata celebrazione di nuove nozze e la titolarità del diritto all’assegno post-matrimoniale.
Sebbene lo scioglimento del vincolo matrimoniale determini la perdita dei diritti successori spettanti al
coniuge, è previsto un assegno successorio, ossia un assegno periodico a carico dell’eredità. I presupposti
dell’attribuzione dell’assegno successorio sono la titolarità del diritto all’assegno post-matrimoniale, la
mancata celebrazione di nuove nozze e lo stato di bisogno. Il coniuge beneficiario è qualificato come
legittimario. Sono cause di estinzione del diritto all’assegno successorio il passaggio a nuove nozze o il
venir meno dello stato di bisono del coniuge beneficiario.
Infine, un altro istituto di carattere assistenziale in favore del coniuge divorziato è il diritto ad una quota
percentuale dell’indennità spettante all’altro coniuge in conseguenza della cessazione del rapporto di lavoro. I presupposto del diritto sono la mancata celebrazione di nuove nozze e la titolarità del diritto
all’assegno post-matrimoniale. La percentuale consiste nel 40% dell’indennità totale riferibile agli anni in cui
il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.
Effetti del divorzio nei confronti dei figli
La riforma sull’affidamento condiviso ha equiparato gli effetti nei confronti dei figli nelle ipotesi di
separazione personale, di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, di annullamento del
matrimonio, nonché di cessazione della convivenza. Si applicano, pertanto, all’ipotesi di divorzio le previsioni
normative della separazione personale.
Modifica o revoca dei provvedimenti Circa la modifica o la revoca dei provvedimenti relativi ai coniugi e ai figli, la legge distingue tra i
provvedimenti adottati dal Presidente del Tribunale e quelli contenuti nella sentenza che definisce il giudizio:
i primi possono essere revocati o modificati dal giudice istruttore, in seguito alla mera istanza della parte
interessata; dei secondi, invece, è ammessa la revisione soltanto qualora sopravvengano giustificati motivi.
Tale ultima previsione deve essere diversificata a seconda che si tratti di provvedimenti relativi ai coniugi o ai
figli. Con riguardo ai figli, infatti, la disposizione contrasta con quanto previsto in materia di separazione
personale, ossia con la previsione in ragione della quale la revisione dei provvedimenti è prevista senza la
condizione della sopravvenienza di giustificati motivi. Poiché non vi è ragione che la revisione dei
provvedimenti relativi ai figli sia sottoposta a maggiori restrizioni nell’ambito del divorzio, si ritiene che il
presupposto della sopravvenienza dei giustificati motivi si applica ai soli provvedimenti relativi ai coniugi
contenuti nella sentenza di divorzio.
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8. Filiazione e adozione
Nozioni Per filiazione si intende il rapporto, in genere di derivazione biologica, che intercorre tra una persona e i
suoi genitori: se il figlio è stato procreato da genitori uniti in matrimonio, si parla di filiazione legittima; se,
invece, il figlio è stato procreato fuori dal matrimonio, si parla di filiazione naturale. La differenza principale
di disciplina in ordine alla formazione del titolo dello stato di figlio legittimo e di figlio naturale risiede nel
diverso modo di accertamento della paternità: in presenza del vincolo matrimoniale l’ordinamento
stabilisce una presunzione; in assenza di tale vincolo, invece, l’accertamento ufficiale della paternità
naturale consegue o ad un atto volontario del genitore, il riconoscimento, o ad un apposito procedimento
giurisdizionale promosso dal figlio, volto ad acclarare il rapporto di genitura. Un’altra differenza di disciplina
consiste nella necessaria contestualità del titolo di figlio legittimo nei confronti di entrambi i genitori, che
invece manca nella filiazione naturale.
Attraverso la disciplina della filiazione, il legislatore mira ad accertare ufficialmente e pubblicamente la
qualità di figlio. Poiché l’accertamento pubblico del rapporto di filiazione è materia di un diritto fondamentale
del figlio, l’ordinamento appronta, sia nella filiazione legittima che in quella naturale, apposite azioni giudiziali
dirette ad accertare l’esistenza dello stato e a costituirne il relativo titolo. L’ordinamento prevede anche gli
strumenti idonei a demolire le false apparenze di stato, non suffragate da una corrispondente realtà
biologica: vengono in rilievo il disconoscimento di paternità, per rimuovere lo stato di filiazione legittima, e
l’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, al fine di rimuovere lo stato di
filiazione naturale.
Il matrimonio non costituisce più elemento di distinzione nei rapporti tra genitori e figli: l’accertamento dello
stato di figlio naturale, infatti, comporta da parte del genitore l’assunzione di tutti i doveri e di tutti i diritti che
egli ha nei confronti dei figli legittimi. Questa parificazione, avvenuta con la riforma del diritto di famiglia, si
completa sotto il profilo successorio, nel senso che il figlio naturale acquista, nei confronti del genitore, gli
stessi diritti successori che spetterebbero a un figlio legittimo.
Permangono tuttavia alcune differenze tra la situazione del figlio naturale e quella del figlio legittimo. Una
prima differenza riguarda la potestà: mentre la potestà sul figlio legittimo spetta sempre ad entrambi i
genitori, per il figlio naturale la potestà spetta in via esclusiva al genitore che ha effettuato il riconoscimento
o, se il figlio è stato riconosciuto da entrambi i genitori ma essi non convivono, la potestà è esercitata dal
genitore che ha riconosciuto il figlio per primo. Un’altra differenza tra filiazione legittima e filiazione naturale
attiene alla circostanza che il figlio legittimo porta il cognome del padre, mentre il figlio naturale può avere il
cognome della madre se costei lo ha riconosciuto per prima. Ulteriori differenze sono le seguenti: la filiazione
naturale non stabilisce rapporti giuridici pieni con i parenti del genitore; nella successione ereditaria, i figli
legittimi possono esercitare una facoltà di commutazione, ossia soddisfare in denaro o in beni immobili
ereditari la porzione spettante ai figli naturali (questa facoltà è oggi limitata); mentre il genitore legittimo è un
successore necessario del figlio, al genitore naturale non sono attribuiti diritti di riserva sulla successione del
figlio che abbia disposto dei suoi beni a favore di altre persone.
Oltre alla filiazione legittima e alla filiazione naturale, che hanno in comune il fondamento naturalistico della
procreazione, l’ordinamento conosce un altro tipo di filiazione nel quale manca il rapporto di derivazione
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biologica e che è la filiazione adottiva. Esistono vari modelli di adozione: l’adozione del minore abbandonato, con la quale il minore cessa ogni rapporto con i genitori che lo hanno procreato e diventa
figlio legittimo dei coniugi adottanti; l’adozione in casi particolari di minori, alla quale si può ricorrere
quando, pur non sussistendo tutti i requisiti dello stato di adottabilità, vi sono specifiche situazioni che la
legge ritiene idonee a giustificare un vincolo di filiazione giuridica che si sovrappone a quello originario;
l’adozione di maggiorenni, diretto a dare all’adottante una discendenza, attraverso cui assicurare la
continuazione del nome e la trasmissione del patrimonio di famiglia.
Filiazione legittima È legittimo il figlio concepito da genitori uniti in matrimonio. La presunzione di paternità del marito è uno
degli effetti principali del matrimonio e integra le risultanze dell’atto di nascita; tale presunzione è però
relativa, essendo possibile dare la prova contraria. Lo status di figlio legittimo è provato dall’atto di nascita
iscritto nei registri dello stato civile: l’atto di nascita è l’atto dal quale risulta formalmente lo stato di figlio
legittimo, l’atto è cioè titolo dello stato.
Il disconoscimento di paternità è l’azione tendente a superare la presunzione di paternità in presenza di
un atto di nascita che indica come genitore il marito della madre. La prova della non paternità del marito è
ammessa soltanto in presenza di alcune circostanze tassativamente indicate e verificatesi nel periodo
compreso fra il 300° e il 180° giorno prima della nascita: mancata coabitazione dei coniugi; impotenza del
marito; adulterio della moglie. L’attore è ammesso a provare con ogni mezzo qualsiasi fatto che possa
escludere la paternità, in particolare l’incompatibilità genetica o dei gruppi sanguigni. La legittimazione attiva
all’azione di disconoscimento della paternità è relativa, non spettando a terzi interessati ma solo al marito,
alla madre e al figlio. A seconda di chi la esercita, l’azione è soggetta a termini diversi di decadenza.
L’azione di contestazione della legittimità mira anch’essa, al pari di disconoscimento della paternità, a
demolire lo stato di figlio legittimo risultante dall’atto di nascita, ma attraverso la contestazione degli altri
presupposti costitutivi dello stato di figlio legittimo, diversi dalla presunzione di paternità del marito: la
maternità, il matrimonio e il concepimento durante il matrimonio. È possibile esperire la contestazione della
legittimità dimostrando che: il figlio non è stato partorito da colei che risulta come madre dagli atti dello stato
civile (sostituzione di un neonato); il padre e la madre non sono mai stati coniugati; il figlio è nato prima del
matrimonio. La legittimazione a promuovere l’azione di contestazione della legittimità è assoluta, poiché
spetta a colui che dall’atto di nascita del figlio risulti suo genitore e a chiunque vi abbia interesse; l’azione,
inoltre, è imprescrittibile.
L’azione di reclamo di legittimità è diretta ad ottenere una sentenza che accerti l’esistenza dello stato di
figlio legittimo di determinati genitori e ne costituisca il relativo titolo. Essa presuppone la mancanza di un
titolo dello stato di figlio legittimo, ipotesi che ricorre quando manchi l’atto di nascita o quando questo sia
inidoneo a fungere da titolo dello stato di figlio legittimo. L’inidoneità di tale atto deriva dalla circostanza che
esso designa il figlio come nato da genitori ignoti, o da genitori indicati con nomi falsi, o da genitori naturali
che sono in realtà suoi genitori legittimi in quanto uniti in matrimonio al tempo del concepimento. Può anche
accadere che la persona risulti ufficialmente figlio legittimo di genitori diversi rispetto ai veri genitori: in
questo caso l’azione di reclamo mira all’acquisizione di una diversa legittimità, l’azione di reclamo spetta al
figlio ed è imprescrittibile.
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Filiazione naturale Sono figli naturali i figli procreati da genitori non uniti in matrimonio tra loro. La procreazione non
determina automaticamente la costituzione dello stato di figlio naturale: perché si abbia lo stato di figlio
naturale, occorre che al dato biologico della procreazione si aggiunga o un atto volontario del genitore, cioè il
riconoscimento del figlio naturale, o una pronuncia del giudice, in esito ad un procedimento di
dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale.
Il riconoscimento del figlio naturale è un atto di libera scelta del genitore con il quale questi dichiara di essere
padre o madre di una determinata persona. Il riconoscimento è ammissibile per tutti quei figli, anche se
generati da genitore o da genitori coniugati con persona diversa, i cosiddetti figli adulterini. Il figlio può
essere riconosciuto ancor prima della nascita, purché posteriormente al concepimento, ed è ammesso
anche il riconoscimento del figlio premorto.
Il riconoscimento è un atto unilaterale, anche se i genitori possono farlo congiuntamente; è un atto personalissimo, è irrevocabile ed è un atto legittimo. L’autore del riconoscimento deve essere capace in
relazione all’atto, ossia deve aver compiuto i sedici anni e non deve essere giudizialmente interdetto. Il
riconoscimento presenta poi alcune condizioni di efficacia: se il figlio che si intende riconoscere ha già
compiuto il sedicesimo anno di età, è necessario che questi presti il suo assenso; se il figlio ha meno di
sedici anni, occorre il consenso del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento. Infine, il
riconoscimento è soggetto a requisiti di forma: esso può essere compiuto nell’atto di nascita, con una
apposita dichiarazione resa davanti ad un ufficiale di stato civile o con un testamento.
Il riconoscimento del figlio naturale è impugnabile per difetto di veridicità, per violenza morale e per
interdizione giudiziale: nel primo caso, la legittimazione ad agire spetta a chiunque vi abbia interesse e
l’azione è imperscrittibile; nel secondo caso, legittimato è solo l’autore del riconoscimento e l’azione è
sottoposta al termine di decadenza di un anno; nel terzo caso, l’azione può essere esercitata dal
rappresentante legale dell’interdetto. Inoltre, in caso di violenza morale e interdizione giudiziale, se l’autore
del riconoscimento è morto senza aver promosso l’azione, ma prima che sia scaduto il termine, l’impugnativa
può essere promossa dai discendenti, dagli ascendenti o dagli eredi.
All’assenza del riconoscimento si può supplire giudizialmente. Se il rapporto di filiazione naturale non è stato
riconosciuto da uno dei genitori naturali o da entrambi, si può procedere, su istanza del figlio e delle altre
persone a tal fine legittimate, all’accertamento giudiziale della paternità o della maternità naturale, che
rappresenta lo strumento capace di attribuire la titolarità formale del rapporto di filiazione anche contro la
volontà genitoriale: qualora l’esito di un tale accertamento sia positivo, il figlio acquista lo stato formale di
figlio naturale. L’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità naturale va proposta
direttamente al giudice di merito, il quale decide sia sulla rispondenza della dichiarazione di genitura naturale
all’interesse del figlio, sia sul fondamento della domanda, il cui accoglimento è subordinato all’esibizione di
prove. La legittimazione attiva all’azione di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale spetta al
figlio, nei confronti del quale è imprescrittibile; se il figlio è ancora minorenne, l’azione può essere proposta in
suo nome dal genitore esercente la potestà, ma occorre il consenso del figlio qualora questi abbia compiuto
l’età di sedici anni.
La legittimazione attribuisce a colui che è nato fuori dal matrimonio la qualità di figlio legittimo. La
legittimazione può aversi per susseguente matrimonio dei genitori del figlio naturale o per provvedimento del
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giudice: nel primo caso è necessario che la filiazione naturale risulti ufficialmente nei confronti di entrambi i
genitori; nel secondo caso, occorre che per il genitore vi sia l’impossibilità o un gravissimo ostacolo a
legittimare il figlio per susseguente matrimonio. La legittimazione per provvedimento del giudice è
domandata dai genitori stessi o dal figlio; richiede inoltre l’assenso dell’altro coniuge, il consenso del figlio
legittimando e la sussistenza di un interesse per il figlio.
Filiazione e procreazione assistita Con la legge 40/2004 sono state introdotte le norme in materia di procreazione medicalmente assistita. Il
ricorso ad essa è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause
impeditive della procreazione. Sotto il profilo dei requisiti soggettivi, alle tecniche di procreazione assistita
possono accedere soltanto le coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi; è consentita
solo la fecondazione omologa, mentre è vietata quella eterologa. Sotto il profilo dello stato giuridico, i nati a
seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita previste dalla legge hanno lo
stato di figli legittimi, se i genitori sono uniti in matrimonio, o di figli naturali automaticamente riconosciuti, se i
genitori sono conviventi.
Adozione L’adozione è lo strumento rivolto a dare al minore una famiglia, quando la sua famiglia del sangue manchi o
si riveli totalmente e definitivamente incapace a svolgere la sua funzione educativa. L’adozione ha una
funzione residuale: il minore, infatti, ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria
famiglia e le condizioni di indigenza dei genitori non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del
minore alla propria famiglia. L’autorità pubblica ha il dovere di predisporre strumenti di sostegno e di
supplenza alla famiglia in cui il bambino è nato e di ricostruire il legame con la famiglia naturale. A tal fine
l’ordinamento appronta misure di sostegno economico e educativo, tramite i servizi sociali, e lo strumento
dell’affidamento, che opera quando la famiglia di origine versa in situazione di temporanea difficoltà.
Sotto la denominazione di affidamento dei minori, la legge regola due situazioni diverse: l’affidamento familiare, quando il minore viene inserito in una famiglia o in una comunità familiare, e l’affidamento ad un istituto di assistenza. Se c’è il consenso dei genitori, o del tutore, l’affidamento familiare è disposto dal
servizio sociale locale e reso esecutivo dal giudice tutelare; in mancanza, provvede il Tribunale per i minorenni. L’affidatario deve accogliere presso di sé il minore e provvedere al suo mantenimento e alla sua
educazione e istruzione: durante l’affidamento, il servizio sociale agevola i rapporti con la famiglia di
provenienza ed il rientro nella stessa del minore. Solo quando la famiglia di origine manca, o quando ogni
sforzo di aiuto appare o risulta vano, si apre la via all’adozione: essa, poiché è diretta a sostituire una nuova
famiglia alla famiglia di origine, recide radicalmente i legami del minore con quest’ultima. L’adozione
costituisce un vincolo di filiazione pieno e garantisce il diritto del minore a vivere nella posizione di figlio.
L’adozione riguarda tutti i minori, senza distinzione di età, che siano stati dichiarati in stato di adottabilità.
Presupposto essenziale di questo stato è la situazione di abbandono, che consegue alla mancanza di
assistenza da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi. L’adozione è consentita a favore dei
coniugi: uniti in matrimonio da almeno tre anni e non separati; di età superiore di almeno diciotto anni e di
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non più di quarantacinque anni rispetto a quella dell’adottando (ma è una clausola elastica); che siano
affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere il minore che intendano adottare.
Una volta dichiarato lo stato di adottabilità, il procedimento di adozione si snoda attraverso due fasi. La
prima è quella della scelta, da parte del Tribunale per i minorenni, della coppia maggiormente in grado di
rispondere alle esigenze del minore. Il Tribunale, una volta acquisito il consenso del minore che abbia
compiuto i quattordici anni, dispone l’affidamento preadottivo a favore della coppia prescelta. La seconda
fase è quella della dichiarazione di adozione: decorso il periodo di affidamento, il Tribunale provvede ad
emettere la sentenza di adozione. La sopravvenuta morte o incapacità di uno dei coniugi durante
l’affidamento preadottivo non è ostativa all’adozione, mentre in caso di sopravvenuta separazione tra i
coniugi si ammette che l’adozione possa essere disposta nei confronti di uno solo o di entrambi.
L’adozione del minore abbandonato comporta l’estinzione, definitiva ed irreversibile, dei suoi rapporti con la
famiglia di origine, salvi i divieti matrimoniali, e il correlativo acquisto da parte dell’adottato dello stato di
figlio legittimo degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome (effetto legittimante). L’adozione,
tuttavia, non cancella il diritto della persona di conoscere la propria identità: i genitori adottivi devono
provvedere ad informare il minore della sua condizione; una volta raggiunta l’età di venticinque anni,
l’adottato può accedere alle informazioni concernenti l’identità dei genitori biologici, purché la madre non
abbia dichiarato, alla nascita, di non voler essere nominata.
L’adozione internazionale riguarda due figure diverse: l’adozione di minori stranieri residenti all’estero, da
parte di coniugi residenti in Italia, o di coniugi cittadini italiani residenti all’estero; l’adozione di minori italiani
da parte di richiedenti residenti all’estero, siano essi cittadini italiani o stranieri. L’adozione del minore
straniero rinviene la fonte della propria disciplina sia nella legge sull’adozione, sia nella Convenzione dell’Aja
del 1993, che enuncia principi e direttive. I coniugi che, in possesso dei requisiti previsti per l’adozione del
minore cittadino italiano in stato di abbandono, intendono adottare un minore straniero, devono presentare
una dichiarazione di disponibilità al Tribunale per i minorenni, che provvederà ad emettere il decreto di
idoneità.
L’adozione in casi particolari ricorre quando, non sussistendo i presupposti per l’adozione legittimante, si
verificano situazioni specifiche che la legge ritiene meritevoli di apposita disciplina. I casi particolari sono: il
caso del minore, orfano di padre e di madre, che può essere adottato dai parenti entro il sesto grado; il caso
del minore figlio del coniuge, che può essere adottato dall’altro coniuge; il caso del minore per il quale vi sia
la constatata impossibilità di affidamento preadottivo. L’adozione in casi particolari di minori si distingue
dall’adozione piena, o legittimante, per il più ristretto campo di applicazione e per la previsione di regole più
elastiche in tema di legittimazione ad adottare; in particolare, l’adozione in casi particolari è riservata non
soltanto ai coniugi, ma anche a chi non sia coniugato. Sul piano degli effetti, con l’adozione in casi
particolari il minore non acquista lo stato di figlio legittimo di chi lo adotta, ma uno stato di figlio adottivo che
si aggiunge a quello originario, non cessano i rapporti dell’adottato con la famiglia di origine, l’adottato
mantiene il proprio cognome e l’adottato succede pienamente all’adottante.
Il codice disciplina l’adozione di persone maggiori di età, che ha sostituito l’antica adozione ordinaria.
Essa non ha lo scopo di dare una famiglia all’adottando, ma di assicurare all’adottante la perpetuazione del
nome, del patrimonio e della tradizione familiare e di far godere nel contempo all’adottato i vantaggi di ordine
patrimoniale e sociale derivanti dal nuovo status. Perché si possa procedere all’adozione, occorre che
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l’adottando non sia né figlio naturale dell’adottante né figlio adottivo di un’altra persona. L’adozione,
disposta dal Tribunale con sentenza, presuppone il consenso dell’adottante e dell’adottando, l’assenso dei
rispettivi coniugi e dei genitori dell’adottando, il consenso dei discendenti dell’adottante. L’adozione dà vita
ad un rapporto di filiazione civile che si aggiunge al precedente stato familiare, i cui caratteri peculiari sono
l’assunzione del cognome dell’adottante da parte dell’adottato, l’acquisto dei diritti successori, il sorgere
dell’obbligo reciproco degli alimenti tra adottante e adottato, la conservazione dei rapporti con la famiglia di
origine, la revocabilità del vincolo adottivo in caso di indegnità dell’adottato o dell’adottante.
9. Alimenti
Nozioni Gli alimenti sono le prestazioni di assistenza e di soccorso materiale che la legge impone ad alcuni soggetti
che si trovano in una particolare relazione con la persona in situazione di indigenza ed incapace di
provvedere alle proprie necessità di vita. Alla base del rapporto alimentare di fonte legale vi è normalmente
una causa di solidarietà familiare: le persone tenute a prestare gli alimenti, infatti, sono di regola i
componenti della famiglia estesa. In questo senso, la disciplina degli alimenti rappresenta la traduzione in
termini giuridici del legame affettivo e dei doveri etici che si presumono esistenti tra parenti ed affini.
Oltre che nella solidarietà familiare, la causa dell’obbligo alimentare può risiedere nel sentimento di
gratitudine che anima colui che è stato benificiato da altri con spirito di liberalità: è il caso del donatario,
tenuto, con precedenza su ogni altro obbligato, a versare gli alimenti al donante.
L’obbligazione alimentare deriva in primo luogo dalla legge, che individua le persone obbligate, stabilisce i
presupposti per il sorgere e per il permanere dell’obbligo alimentare, indica l’oggetto e la misura della
prestazione. Una prestazione diretta a provvedere ai bisogni di vita del creditore, però, può nascere anche
da un atto di autonomia privata: è il caso del legato di alimenti e del contratto di vitalizio alimentare
oneroso.
Presupposti L’obbligazione alimentare di fonte legale presuppone che il beneficiario versi in stato di bisogno e non sia
in grado di provvedere da solo al proprio mantenimento. Per stato di bisogno si intende la mancanza di
mezzi adeguati al fine di soddisfare le primarie esigenze esistenziali, purché costui si adoperi per rimuovere
tale stato. L’altro presupposto dell’obbligo alimentare è costituito dalla capacità economica dell’obbligato:
occorre, cioè, che l’alimentante disponga di risorse sufficienti, che superino quanto necessario a soddisfare
le sue esigenze di vita e quelle della sua famiglia.
Misura della prestazione alimentare Al soggetto che versa in stato di bisogno deve essere somministrato, in proporzione alle condizioni
economiche del soggetto obbligato per legge, quanto sia necessario per la vita, o, nel rapporto tra fratelli e
sorelle, quanto sia strettamente necessario. Le necessità di vita comprendono tutto ciò che serve per il
soddisfacimento dei bisogni fondamentali della persona (vitto, alloggio, cure sanitarie). Qualora il soggetto
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obbligato a prestare gli alimenti sia il donatario, è previsto un tetto massimo per la prestazione alimentare,
stabilendo che il donatario non è tenuto oltre il valore della donazione tuttora esistente nel suo patrimonio.
Gli alimenti vanno tenuti distinti dal mantenimento, perché questo è commisurato al tenore di vita
dell’obbligato, comprende il soddisfacimento di esigenze esistenziali che non hanno un carattere di primaria
necessità ed è indipendente dal bisogno del beneficiario. L’obbligo alimentare può essere adempiuto, a
scelta dell’alimentante, in denaro o in natura. La scelta operata è comunque sottoposta al controllo
dell’autorità giudiziaria, che può determinare il modo di somministrazione.
Soggetti obbligati e situazioni di concorso I soggetti obbligati a prestare gli alimenti sono indicati dalla legge in base ad un elenco tassativo che segue
un ordine progressivo o successivo. La graduatoria ha i caratteri della immodificabilità, poiché il vincolo di
grado posteriore è escluso in presenza del vincolo di grado anteriore: l’avente diritto non può rivolgersi ad un
obbligato della categoria successiva se non quando gli obbligati appartenenti alla categoria anteriore non
siano in grado di provvedere alla prestazione alimentare perché privi delle risorse sufficienti.
Il donatario è tenuto alla prestazione alimentare nei riguardi del donante che sia caduto in stato di bisogno
con precedenza su ogni altro obbligato. Seguono poi i membri della famiglia: il coniuge, i figli, i genitori, i
generi e le nuore, il suocero e la suocera, i fratelli e le sorelle. Nei vari gradi possono aversi più soggetti
obbligati al medesimo livello: in tal caso, il concorso di una pluralità di obbligati nello stesso grado è regolato
in base ad una modalità di attuazione parziaria, che esclude la solidarietà tra gli obbligati.
Disciplina dell’obbligazione alimentare L’obbligazione alimentare è sottoposta ad una disciplina particolare. Sotto il profilo della decorrenza, poiché
il soccorso opera per il futuro, l’avente diritto non può chiedere prestazioni riferite al passato: l’obbligo
alimentare decorre dal giorno della domanda giudiziale, o dal giorno della costituzione in mora dell’obbligato.
Inoltre, la misura della prestazione è destinata a mutare se variano le condizioni economiche di chi
somministra gli alimenti o di chi le riceve.
Anche le vicende estintive sono legate alla peculiarità dei presupposti di nascita dell’obbligazione
alimentare, poiché il venir meno dello stato di bisogno dell’alimentato e della capacità economica
dell’alimentante comporta la cessazione della prestazione.
Infine, il diritto agli alimenti ha carattere strettamente personale, pertanto è incedibile, irrinunciabile e
intransigibile, imprescrittibile, insuscettibile di compensazione e di sottoposizione ad esecuzione forzata.
III. SUCCESSIONI A CAUSA DI MORTE
1. Vocazione ereditaria
Nozioni Con l’espressione successione si designa la sostituzione di un soggetto ad un altro nella titolarità di
situazioni giuridiche patrimoniali e trasmissibili. Le occasioni che ne determinano la realizzazione sono
diverse: un atto tra vivi, come un contratto, un atto unilaterale o un provvedimento amministrativo o
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giudiziario; la peculiarità della situazione considerata, come nel caso delle obbligazioni propter rem o degli
oneri reali; l’estinzione della persona fisica. Le successioni a causa di morte, a loro volta, si distinguono in
successioni legittime e successioni testamentarie, a seconda che la successione ravvisi la propria
regolamentazione nella legge o in un testamento.
Il fondamento istituzionale della successione mortis causa è riconducibile al diritto di proprietà: alle
successioni a causa di morte sono dunque riservate le stesse garanzie del diritto di proprietà, relative al
riconoscimento e alla riserva di legge. La stessa Costituzione, nella disposizione in cui riconosce il diritto di
proprietà, richiama la successione a causa di morte, affermando che la legge stabilisce le norme e i limiti
della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità (art. 42). La connessione tra
diritto di proprietà e successione è confermata dalla circostanza che la vicenda traslativa a causa di morte è
compresa, all’interno del codice civile, tra i modi di acquisto della proprietà.
Il diritto ereditario presenta un nesso anche con l’istituto familiare: tale collegamento è stato espresso, per
la categoria dei legittimari, nel rilievo attribuito ai vincoli di sangue e, in particolare, al rapporto di coniugio e
ai rapporti di filiazione natura e adottiva.
L’intervento più significativo diretto ad un adeguamento normativo del diritto successorio è stata la riforma del diritto di famiglia (1975), alla quale si deve, in attuazione dei rilevanti principi costituzionali, la piena
parificazione tra figli legittimi e figli naturali nella successione necessaria, la rivalutazione della posizione
successoria del coniuge superstite, il mutamento dell’assetto normativo della capacità di ricevere per
testamento. Con un altro intervento normativo è stato introdotto, in parziale deroga al divieto dei patti
successori, il patto di famiglia (2006).
Oggetto della successione Non tutti i diritti e i rapporti che facevano capo al defunto possono formare oggetto di successione. La
vicenda traslativa che trae origine dall’estinzione della persona fisica, infatti, riguarda soltanto le situazioni
giuridiche soggettive che abbiano carattere patrimoniale e che non siano inscindibilmente connesse alla
persona del titolare. In tal senso si possono indicare, tra le situazioni reali, il diritto di proprietà, di
superficie, di enfiteusi; tra i diritti di credito, quello al risarcimento del danno derivante dalla lesione del diritto
alla salute e il diritto d’autore; tra i diritti potestativi, quello di revoca della donazione per ingratitudine del
donatario. Non sono invece trasmissibili i diritti della personalità, né lo sono i crediti o i rapporti che, pur
avendo il carattere della patrimonialità, siano per loro natura strettamente personali: ne sono un esempio i
crediti e gli obblighi alimentari; i crediti e gli obblighi che conseguono alla separazione personale tra coniugi
o al divorzio; il contratto di rendita vitalizia. Tra le situazioni reali, inoltre, alcune sono insuscettibili di cadere
in successione perché destinate ad estinguersi con la morte del titolare: così il diritto di usufrutto (salvo
cessione del diritto), il diritto di uso e il diritto di abitazione.
Forme della successione a causa di morte Ai diversi titoli di successione fa esplicito riferimento il codice, che individua nella legge e nel testamento
le due diverse cause o fonti della successione mortis causa. Tale regola prevede sia una priorità di applicazione della successione testamentaria rispetto a quella legittima, sia la possibilità di un concorso fra
esse. La regolamentazione della successione a causa di morte può dunque attuarsi: nel caso di
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successione legittima, attraverso le regole contenute nella legge, quando manchi del tutto un testamento;
nel caso di successione testamentaria, secondo la volontà del defunto espressa in un testamento, che
disponga della totalità del patrimonio; con il concorso di entrambe le fonti di successione, qualora il
testatore non abbia provveduto a disporre di tutte le proprie sostanze.
Le persone a favore delle quali la legge riserva una quota di eredità, o altri diritti nella successione, sono
detti legittimari. La successione dei legittimari, o successione necessaria, non rappresenta una fonte
autonoma di successione: essa si colloca infatti nell’ambito della successione legittima, pur se qualificata da
caratteristiche proprie. La successione necessaria si impone come limite al potere di disporre del testatore, il
quale non potrà non riservare una quota di eredità, o altri diritti, a favore di alcune persone a sé legate da
vincoli di coniugio o di parentela diretta. Pertanto, le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i
diritti che la legge riserva ai legittimari.
Apertura della successione, delazione e acquisto dell’eredità La successione si apre al momento della morte, nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto. Allo stesso
effetto dell’estinzione della persona può venire in considerazione la dichiarazione giudiziale di morte presunta, ma, se si prova l’esistenza della persona, gli effetti successori saranno risolti. La nozione di
domicilio deve intendersi come la sede principale dei propri affari e interessi.
Con l’apertura della successione si realizza la vocazione ereditaria, ossia la designazione del soggetto o
dei soggetti individuati, per legge o per testamento, a succedere al defunto. La vocazione ereditaria
costituisce il titolo della delazione, cioè dell’effettiva chiamata all’eredità. La destinazione dei beni
appartenenti al soggetto della cui eredità si tratta (de cuius hereditate agitur) trova la sua fonte esclusiva
nella legge o nel testamento, il quale costituisce l’unico atto mortis causa di ultima volontà con cui il
soggetto può disporre delle proprie sostanze per il tempo in cui avrà cessato di vivere.
Non sono ammessi i contratti ereditari: in linea generale, sono nulli i patti successori, ossia tutte quelle
convenzioni tra privati con le quali gli interessati intendano o regolare la propria successione (patti istitutivi),
o disporre dei diritti che possono derivare da una successione non ancora aperta (patti dispositivi), o
rinunciare a diritti derivanti da successioni future (patto rinunciativi). La ragione del divieto è da ravvisarsi
nella salvaguardia del principio della piena tutela della libertà del testatore di disporre dei propri beni fino
all’ultimo istante della propria vita. La Cassazione ha qualificato come patti successori tutti quegli accordi
rispetto ai quali si possa accertare che: il vincolo abbia la specifica finalità di costituire, modificare o
estinguere diritti relativi ad una successione non ancora aperta; la cosa o i diritti che rappresentano l’oggetto
della successione siano stati considerati dai contraenti come entità della futura cessione; il promittente si sia
privato dello ius poenitendi; il trasferimento convenuto tra promettente e promissario sia stato previsto a
titolo di eredità o di legato.
Poiché la perentorietà del divieto stride con la libertà contrattuale dei soggetti privati, è stato codificato un
nuovo tipo contrattuale denominato patto di famiglia: si tratta di un patto successorio dispositivo, volto ad
agevolare, in modo stabile ed efficace, il passaggio generazionale delle imprese. L’imprenditore può quindi
disporre della propria azienda in favore dei propri discendenti, garantendo la dinamicità degli istituti collegati
all’attività di impresa. Il patto di famiglia è il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia
di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in
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parte, l’azienda ad uno o più discendenti. Le caratteristiche principali del patto di famiglia sono le seguenti: il
contratto deve essere stipulato per atto pubblico a pena di nullità; devono partecipare, oltre ai discendenti,
anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari; gli assegnatari dell’azienda devono corrispondere
agli altri legittimari non assegnatari una somma di denaro corrispondenti al valore delle quote loro spettanti;
quanto ricevuto dai contraenti assegnatari non è soggetto a collazione o a riduzione; il patto può essere
impugnato per errore, violenza e dolo, oppure sciolto o modificato mediante diverso contratto o per recesso.
Successione a titolo universale e a titolo particolare La chiamata alla successione può avvenire a titolo universale o particolare: è erede colui che, per legge o
per testamento, succede al defunto nell’universalità o in una quota-parte del patrimonio; è legatario colui
che acquista dal defunto uno o più beni determinati, mai rappresentativi di una quota di patrimonio. Le
divergenze tra acquisizione della qualifica di erede e di legatario riguardano sia il modo di acquisto della
qualifica stessa, sia gli effetti che vi si ricollegano.
L’eredità si acquista con l’accettazione. L’erede succede al defunto nell’identica posizione che questi
rivestiva rispetto ai diritti e agli obblighi che facevano parte del patrimonio ereditario. L’erede, pertanto, è
tenuto al pagamento dei debiti e dei pesi ereditari anche con il proprio patrimonio personale, salvo che si
avvalga dell’accettazione con beneficio di inventario; inoltre, secondo l’istituto della successione nel possesso, l’erede continua il possesso del de cuius con tutte le caratteristiche (buona o mala fede) che lo
connotavano. L’istituzione di erede non ammette l’apposizione di termini iniziali o finali.
Il legato si acquista in modo automatico fin dal momento dell’apertura della successione, fatta salva la
facoltà di rinuncia. Il legatario, proprio perché acquista dal defunto uno o più beni determinati, è di regola
dispensato dal pagamento dei debiti. Può unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli
effetti: si tratta della previsione dell’accessione nel possesso, o di unione di possessi, per cui il legatario,
alla stregua di qualsiasi altro successore particolare per atto tra vivi (compratore, donatario), è lasciato libero
di decidere se unire o no il proprio possesso a quello del suo dante causa. L’unificazione giuridica di quelli,
infatti, consegue all’esercizio di una facoltà basata su un mero calcolo di convenienza, per il quale saranno
decisive le caratteristiche soggettive del possesso del dante causa. Il legatario potrebbe acquistare diritti
estranei al patrimonio del testatore: è quanto avviene allorché oggetto della disposizione mortis causa a
titolo particolare sia la costituzione ex novo di un diritto reale minore o la liberazione da un debito.
L’istituzione di legato, infine, ammette l’apposizione di termini iniziale o finale.
Capacità di succedere In linea generale sono capaci di succedere le persone fisiche, le persone giuridiche e gli enti non
riconosciuti come persone giuridiche.
La capacità di succedere delle persone fisiche è prospettata come espressione della capacità giuridica,
anche se, rispetto ad essa, è legata a presupposti diversi. Sono infatti capaci di succedere tutti coloro che
sono nati o concepiti al tempo dell’apertura della successione. La sola capacità di ricevere per testamento è
riconosciuta anche al non concepito, purché sia figlio di una persona vivente al momento della morte del
testatore: in questo caso, l’istituzione dei figli nascituri è sottoposta a condizione sospensiva.
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Per le persone giuridiche (associazioni e fondazioni) l’accettazione di eredità o il conseguimento di legati è
ipotizzabile solo in seguito ad una successione testamentaria: l’unico caso di successione legittima è
prevista infatti a favore dello Stato, qualora un soggetto muoia senza lasciare alcun successibile. Dopo
importanti interventi legislativi, anche per gli enti non riconosciuti si prevede la possibilità di acquistare
eredità e di conseguire legati senza autorizzazione governativa all’acquisto di beni immobili.
Indegnità È per legge escluso dalla successione l’indegno: integrano ipotesi tassative di indegnità alcuni fatti delittuosi
(omicidio) e specifici comportamenti di particolare gravità (denunzia calunniosa) commessi da chi può
assumere la qualifica di successibile, contro la persona della cui eredità si tratta. L’indegnità è
tradizionalmente considerata come una sanzione civile per una condotta antigiuridica nei confronti del de
cuius o dei suoi congiunti. Essa configura una forma di incapacità successoria e come impedimento alla
delazione, per cui l’azione diretta a farla valere è imprescrittibile; parte della dottrina, però, ravvisa
nell’indegnità un’incapacità all’acquisto dell’eredità, con la conseguenza che l’azione per farla valere è
soggetta al termine ordinario di prescrizione decennale. Per impedire che l’indegno tragga qualsiasi
beneficio dall’eredità, si impone un obbligo di restituzione dei frutti che questi abbia acquistato dopo
l’apertura della successione.
Chi incorre nell’indegnità è riammesso alla successione se interviene la riabilitazione ad opera dello stesso
de cuius, espressa in un atto pubblico o in un testamento. L’indegno non espressamente abilitato, se
contemplato nel testamento, è ammesso a succedere nei soli limiti della disposizione testamentaria.
Sostituzioni Per sostituzione si intende il meccanismo, legale o volontario, che consente la devoluzione dell’eredità, o
l’attribuzione del legato, ad altri successibili, qualora il chiamato non possa accettare, perché premorto al de
cuius o indegno, o non voglia accettare. Sono ipotesi di sostituzione la rappresentazione, la sostituzione
ordinaria e la sostituzione fidecommissaria.
Rappresentazione
La rappresentazione fa subentrare i discendenti legittimi o naturali (rappresentanti) nel luogo e nel grado
del loro ascendente (rappresentato) in tutti i casi in cui questi non può o non vuole accettare l’eredità o il
legato. Il primo chiamato, che non può o non vuole accettare, deve essere figlio, fratello o sorella del de
cuius; colui che ne prende il posto, per diritto di rappresentazione, deve essere un loro discendente legittimo,
legittimato, adottivo o naturale.
I rappresentanti succedono direttamente al de cuius, cosicché hanno diritto di partecipare alla successione
di quest’ultimo anche se hanno rinunciato all’eredità del loro ascendente (rappresentato), o sono, nei suoi
confronti, indegni o incapaci. Quando opera la rappresentazione, inoltre, la divisione si fa per stirpi: pertanto
i suoi discendenti, indipendentemente dal numero, subentrano tutti in luogo del loro capostipite e lo stesso
criterio si applica anche quando uno stipite abbia prodotto più rami.
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Sostituzione fidecommissaria
Nella successione testamentaria, la rappresentazione opera solo qualora il testatore non abbia provveduto a
dettare specifiche disposizioni per il caso in cui il primo istituito non possa o non voglia accettare l’eredità o il
legato, che non abbia però ad oggetto un diritto di natura personale (usufrutto). Se, invece, il testatore indica
un altro soggetto in sostituzione del primo designato, si configura una sostituzione ordinaria. La
disposizione più significativa al riguardo attiene agli obblighi che incombono sui sostituiti qualora siano
imposti dal testatore al primo istituito, come oneri o legati.
Sostituzione fidecommissaria
Altra ipotesi di sostituzione volontaria è la sostituzione fidecommissaria. È una doppia vocazione in ordine
successivo e, dunque, non condizionata alla mancata o impossibile accettazione dell’eredità da parte del
primo istituito. Nella sostituzione fidecommissaria, infatti, il primo istituito che accetta l’eredità ha, rispetto ad
essa, un obbligo di conservazione, perché, al momento della propria morte, la stessa eredità dovrà essere
acquistata dal secondo chiamato. La sostituzione fidecommissaria è volta a realizzare una maggiore
protezione di soggetti incapaci: l’interdetto può essere istituito con l’obbligo di conservare e restituire alla
sua morte i beni a favore della persona o degli enti che, sotto la vigilanza del tutore, hanno avuto cura
dell’interdetto medesimo; la stessa disposizione si applica per il minore di età che si trovi in condizioni di
abituale infermità di mente. Al momento della morte dell’istituito, l’eredità si devolve direttamente al sostituito
e, nel caso di pluralità di persone o di enti, l’attribuzione deve avvenire proporzionalmente al tempo durante il
quale gli stessi hanno avuto cura dell’interdetto. La sostituzione fidecommissaria è priva di effetto qualora
l’interdizione sia stata revocata o negata, oppure se le persone o gli enti preposti alla cura dell’istituito
abbiano violato gli obblighi di assistenza. Se le persone o gli enti che hanno svolto opera di cura
dell’incapace muoiono o si estinguono prima della morte di lui, i beni o la porzione di essi che spetterebbe
loro è devoluta ai successori legittimi dell’incapace.
Accrescimento Un’altra particolare ipotesi di vocazione ereditaria è il diritto di accrescimento, individuato nell’ambito della
successione testamentaria. Presupposto fondamentale è che più eredi siano istituiti nell’universalità dei beni o che siano stati istituiti nella stessa quota: il testatore, cioè, si limita a nominare eredi i suoi figli,
oppure attribuisce la stessa quota di eredità a più istituiti. In ciascuna di queste ipotesi di coeredità, se uno
degli istituiti non possa o non voglia accettare l’eredità, la sua quota o la sua parte si accresce agli altri eredi.
L’acquisto per accrescimento ha luogo di diritto e i coeredi a favore dei quali si verifica subentrano negli
obblighi a cui era sottoposto l’istituito mancante, salvo che si tratti di obblighi di carattere personale.
Il diritto di accrescimento non opera se è possibile dar luogo alla rappresentazione a favore dei discendenti
legittimi e naturali dell’erede mancante o se dal testamento risulta una diversa volontà del testatore che si
può concretare in un espresso divieto ma anche nella previsione di una sostituzione volontaria.
Il diritto di accrescimento può operare, oltre che nella successione testamentaria, anche nella successione
legittima fra i chiamati del medesimo grado, qualora uno di questi non possa o non voglia accettare l’eredità;
se il rinunziante è solo, l’eredità si devolve a coloro ai quali spetterebbe nell’ipotesi che egli mancasse.
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Poteri del chiamato alla successione e eredità giacente Nel lasso di tempo che intercorre tra la morte dell’ereditando e l’accettazione del chiamato sussiste una
sostanziale incertezza sulla sorte definitiva della titolarità delle situazioni giuridiche soggettive inerenti al
patrimonio ereditario. A tal proposito il legislatore detta specifiche regole per la conservazione e
l’amministrazione di quel patrimonio, provvedendo ad individuare i poteri del chiamato alla successione o,
in alternativa, a disciplinare l’istituto dell’eredità giacente.
La posizione del chiamato è diversificata in ragione del fatto che egli si trovi o no nel possesso dei beni
ereditari. Al chiamato, sia o no possessore, sono riconosciute diverse facoltà: ha legittimazione attiva
nell’esperire le azioni possessorie a tutela dei singoli beni ereditari; può compiere atti conservativi e di
vigilanza, atti di ordinaria amministrazione e, qualora ricorrano giustificati motivi di urgenza, anche di
straordinaria amministrazione; può procedere, su autorizzazione dell’autorità giudiziaria, alla vendita di quei
beni che non si possono conservare. Soltanto al chiamato possessore è invece attribuita la legittimazione
processuale passiva, ossia il potere di stare in giudizio come convenuto per rappresentare l’eredità nelle
azioni promosse dai creditori del defunto. L’attività di amministrazione interinale non preclude al chiamato
di rinunziare all’eredità.
Il patrimonio ereditario è qualificato in termini di eredità giacente quando il chiamato non accetta e non è nel
possesso di beni ereditari, oppure quando si ignora se il de cuius abbia possibili successori. In questa
situazione, la legge prevede la possibilità di affidare l’amministrazione dell’eredità ad un curatore, al quale
spettano poteri di conservazione, amministrazione ordinaria e straordinaria e tutela del patrimonio ereditario;
può anche procedere alla liquidazione delle passività ereditarie, pagando debiti e legati. Il curatore cessa
dalle sue funzioni quando l’eredità è stata accettata.
Le regole dettate per i curatori dell’eredità giacente si applicano anche per gli esecutori testamentari, ossia
per gli amministratori nominati quando la vocazione non sia ancora compiuta: è il caso della vocazione di
fonte testamentaria sottoposta a condizione sospensiva e della vocazione di nascituri. Dall’eredità giacente deve essere tenuta distinta l’eredità vacante, allorché manchi un qualsiasi successibile
che possa accettarla, con conseguente devoluzione della stessa allo Stato.
Accettazione dell’eredità L’eredità si acquista con l’accettazione: il diritto di accettare nasce a favore del chiamato, sia esso tale per
legge o per testamento, a seguito della delazione, e, se il chiamato muore prima di aver accettato, il diritto si
trasmette ai suoi eredi.
L’eredità può essere accettata puramente e semplicemente, oppure col beneficio di inventario: spetta al
chiamato optare liberamente per l’una o per l’altra forma, anche contro la volontà del testatore. Tuttavia, nei
casi di eredità devolute a soggetti incapaci, ai beneficiari dell’amministrazione di sostegno, alle persone
giuridiche, l’accettazione deve essere fatta col beneficio di inventario.
L’accettazione è un atto unilaterale irrevocabile e non recettizio; può essere realizzata da un
rappresentante o da un gestore d’affari e, in quest’ultimo caso, acquisterà efficacia soltanto con la ratifica del
chiamato. L’accettazione ha efficacia retroattiva, per cui il chiamato diventa erede a far tempo dall’apertura
della successione. Il diritto potestativo di accettare è soggetto a prescrizione decennale, ma chiunque vi
abbia interesse può chiedere al giudice di fissare un termine entro il quale effettuare la dichiarazione,
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scaduto il quale il chiamato perde il diritto di accettare: si tratta dell’azione interrogatoria, proponibile da un
successibile di grado ulteriore o dai creditori del defunto.
Accettazione pura e semplice
L’accettazione pura e semplice può essere espressa o tacita: è espressa allorché il chiamato dichiari, in
un atto pubblico o in una scrittura privata, di accettare l’eredità, oppure assuma il titolo di erede; è tacita
quando il chiamato ponga in essere comportamenti concludenti (donazione, vendita, cessione dell’eredità da
parte del chiamato).
L’accettazione espressa può essere impugnata quando è effetto di violenza o dolo; l’azione si prescrive in
cinque anni dal giorno in cui la violenza è cessata o il dolo è stato scoperto. Diversamente da quanto
avviene in materia di contratto, tali vizi costituiscono causa di annullamento chiunque ne sia l’autore, mentre
è esclusa, in questa materia, la rilevanza dell’errore. L’accettazione espressa è un atto legittimo, per cui
non tollera apposizione di termini o di condizioni.
All’accettazione pura e semplice consegue la confusione (o unione) del patrimonio ereditario con quello
personale dell’erede. Ciò ha una duplice conseguenza: il successore a titolo universale risponde anche con i
propri beni dei debiti che gravano sull’eredità; i creditori personali del successore potranno aggredire anche
il patrimonio ereditario per il soddisfacimento delle proprie ragioni.
Esigenze di pubblicità si impongono per entrambe le forme di accettazione: l’accettazione deve essere
trascritta allorché comporti l’acquisto o la liberazione da diritti reali immobiliari.
Accettazione con beneficio di inventario
L’accettazione con beneficio di inventario consiste nel tenere distinto il patrimonio del defunto da quello
dell’erede, in modo da impedire la confusione dei due patrimoni: il chiamato accetterà con beneficio di
inventario quando sospetti che l’eredità sia eccessivamente gravata da debiti e, pertanto, non voglia correre
il rischio di far fronte alle passività oltre il valore del relitto. La dichiarazione di accettazione con beneficio di
inventario richiede un atto pubblico, da inserirsi nel registro delle successioni del Tribunale e presso l’ufficio
dei registri immobiliari, a pena di nullità.
L’accettazione con beneficio di inventario si caratterizza come un’accettazione beneficiata: l’erede conserva
verso l’eredità tutti i diritti e tutti gli obblighi che aveva verso il defunto; l’erede non è tenuto al pagamento dei
debiti ereditari, dei legati e di ogni altro onere o modo oltre il valore dei beni a lui pervenuti; i creditori
dell’eredità e i legatari hanno preferenza sul patrimonio ereditario rispetto ai creditori dell’erede. L’elemento
che qualifica l’accettazione con beneficio è la formazione dell’inventario, che consiste nella descrizione
delle attività ereditarie.
Il chiamato possessore di beni ereditari deve fare l'inventario entro tre mesi dal giorno dell'apertura della
successione; trascorso tale termine senza che l'inventario sia stato compiuto, il chiamato all'eredità è
considerato erede puro e semplice. Compiuto l'inventario, il chiamato ha un termine di quaranta giorni per
decidere se accetta o rinunzia all'eredità; trascorso questo termine senza che abbia deciso, è considerato
erede puro e semplice.
Il chiamato non possessore di beni ereditari può fare la dichiarazione di accettare col beneficio d'inventario
entro dieci anni. Quando ha fatto la dichiarazione, deve compiere l'inventario nel termine di tre mesi dalla
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dichiarazione; in mancanza, è considerato erede puro e semplice. Quando, invece, ha fatto l'inventario non
preceduto da dichiarazione d'accettazione, questa deve essere fatta nei quaranta giorni successivi al
compimento dell'inventario; in mancanza, il chiamato perde il diritto di accettare l'eredità.
Durante i termini stabiliti per fare l’inventario e per deliberare, il chiamato può esercitare le azioni
possessorie a tutela dei beni ereditari e procedere al pagamento di creditori e legatari fino all’esaurimento
dell’asse ereditario. Una volta esaurito l’asse ereditario, i creditori rimasti insoddisfatti hanno soltanto un
diritto di regresso contro i legatari, ancorché di cosa determinata appartenente al testatore, nei limiti del
valore del legato.
L’erede non può dare inizio al pagamento qualora ad esso si oppongano i creditori e i legatari, perché in tal
caso si deve provvedere alla liquidazione dell’eredità. Questa procedura assicura a tutti i creditori una
parità di trattamento ed una soddisfazione proporzionale, salvo il rispetto delle cause legittime di prelazione.
Le procedure dell’inventario e della liquidazione potrebbero anche essere evitate dall’erede beneficiato
qualora questi decida, con atto formale scritto, il rilascio dei beni ai creditori e ai legatari del defunto.
Sono cause di decadenza dal beneficio di inventario: la mancata accettazione dell’eredità o la mancata
redazione dell’inventario nei termini previsti; l’alienazione di beni ereditari senza autorizzazione del giudice;
le omissioni nell’inventario. La decadenza può essere fatta valere soltanto dai creditori del defunto e dai
legatari.
Separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede A differenza del beneficio di inventario, che opera a beneficio dell’erede nel caso in cui il patrimonio
ereditario sia gravato da debiti, la separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede è un peculiare
istituto previsto in favore dei creditori e dei legatari del defunto, nella diversa ipotesi che, ad essere oberato
di passività, sia il patrimonio personale dell’erede.
La separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede assicura il soddisfacimento, con i beni del defunto,
dei creditori di lui e dei legatari che l’hanno esercitata, a preferenza dei creditori dell’erede. La separazione
deve essere chiesta dai creditori e legatari interessati: con tale strumento, anche se l’erede ha acquistato
puramente e semplicemente, si dà ai creditori ed ai legatari separatisti del defunto un diritto di prelazione
sui singoli beni del patrimoni ereditario rispetto ai quali la separazione è stata richiesta. Se invece l’erede ha
acquistato con beneficio di inventario i creditori e i legatari separatisti mantengono il loro diritto di prelazione
anche nel caso in cui l’erede decada dal beneficio.
Petizione di eredità La petizione di eredità è un’azione diretta a chiedere il riconoscimento della qualità ereditaria. Può
essere esperita dall’erede contro chiunque possieda tutti o parte dei beni ereditari a titolo di erede, o senza
titolo alcuno, allo scopo di ottenere la restituzione dei beni medesimi. L’azione ha carattere reale ed è
imprescrittibile, fatti salvi gli effetti dell’usucapione.
La funzione dell’azione è di accertare la qualità ereditaria; all’accertamento consegue il recupero dei beni
ereditari da chiunque li possegga, siano essi l’intero asse ereditario o una quota di eredità. La restituzione
riguarda tutti quei beni che al momento dell’apertura della successione erano di pertinenza del de cuius per il
solo fatto di trovarsi a qualunque titolo nella sua sfera patrimoniale.
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La legittimazione attiva spetta all’erede, legittimo o testamentario; se più sono gli eredi, essi sono tutti
legittimati singolarmente ad esperire l’azione. L’erede può anche agire contro gli aventi causa da chi
possiede a titolo di erede o senza titolo, ma sono fatti salvi i diritti acquistati dai terzi per effetto di
convenzioni a titolo oneroso con l’erede apparente, purché provino di aver contrattato in buona fede.
Rinunzia all’eredità Il chiamato può rinunziare all’eredità soltanto dopo l’apertura della successione. La rinunzia all’eredità
consiste in un atto unilaterale non recettizio da sottoscrivere con atto pubblico, è un atto legittimo ed è
dotato di efficacia retroattiva. L’atto di rinunzia, a differenza dell’accettazione, è revocabile: finché il diritto
di accettare l’eredità non è prescritto, i chiamati che vi hanno rinunziato possono sempre accettarla, sempre
che, nel frattempo, l’eredità non sia stata accettata da altri chiamati (anche per rappresentazione) e non si
rechi in nessun modo pregiudizio alle ragioni acquistate da terzi sopra i beni dell’eredità. L’impugnazione
dell’atto di rinunzia è esperibile anche quando il medesimo sia frutto di violenza o dolo.
2. Successione necessaria (o dei legittimari)
Riserva di legge La legge, anche contro la volontà del defunto validamente espressa in un testamento, impone, nella
successione, la riserva di una quota d’eredità o altri diritti a favore di particolari soggetti legati
all’ereditando da vincoli di parentela diretta o per rapporto di coniugio. La quota riservata si denomina
indisponibile (o legittima, o riserva); varia, nell’ammontare, in ragione della posizione personale dei
riservatari e dell’eventuale concorso di varie categorie di aventi diritto. Per determinare l’entità della porzione
disponibile si procede alla riunione fittizia di tutti i beni che appartenevano al de cuius al tempo della morte
(relitto) e dei beni di cui sia stato disposto, in vita, a titolo di donazione (donato). Se risulta che il defunto, con
testamento o con le donazioni fatte in vita, abbia disposto delle sue sostanze in modo da ledere la quota
indisponibile, gli aventi diritto possono agire in giudizio per la reintegrazione della riserva attraverso l’azione di riduzione.
Soggetti riservatari ed entità della riserva I titolari di quota indisponibile sono detti eredi diretti (o riservatari, o legittimari). Sono eredi necessari: il coniuge; i figli legittimi, legittimati o adottivi; i discendenti dei figli legittimi e naturali che vengano alla
successione per rappresentazione in luogo di essi e i figli naturali. Solo in mancanza di figli, anche gli
ascendenti legittimi del de cuius hanno diritto ad una quota-parte del patrimonio relitto (compresi i genitori
adottivi).
La riserva a favore dei figli consiste nella metà del patrimonio, se il genitore lascia un solo figlio, legittimo o
naturale; comprende invece i due terzi del patrimonio, da suddividere in parti uguali fra gli aventi diritto, in
presenza di più figli. Ai figli legittimi spetta la facoltà di commutazione, ossia il diritto di commutare in
denaro o in immobili ereditari le ragioni dei figli naturali. Infine, se chi muore non lascia né figli legittimi né
naturali ma ascendenti legittimi, a favore di costoro è riservato un terzo del patrimonio.
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La riserva a favore del coniuge consiste nella metà del patrimonio dell’altro coniuge, tranne che per il caso
di concorso con i figli; gli sono anche attribuiti, pur in concorso con gli altri chiamati, il diritto di abitazione
sulla casa adibita a residenza familiare e il diritto di uso sui mobili. Un trattamento del tutto analogo a quello
del coniuge legittimo superstite è previsto per il coniuge separato al quale non sia stata addebitata la
separazione. Per il coniuge con addebito passato in giudicato, la riserva consiste in un assegno vitalizio se
al momento dell’apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto.
Il quantum della legittima subisce variazioni in ragioni del concorso fra più categorie di aventi diritto.
L’ipotesi più significativa di concorso è quella fra coniuge e figli: se chi muore lascia, oltre al coniuge, un
solo figlio, legittimo o naturale, a quest’ultimo è riservato un terzo del patrimonio ed un altro terzo spetta al
coniuge. Quando i figli, legittimi o naturali, sono più di uno, ad essi complessivamente è riservata la metà del
patrimonio ed al coniuge spetta un quarto. Infine, la divisione fra tutti i figli è effettuata in parti uguali e con il
coniuge, ma non con i figli, possono eventualmente concorrere gli ascendenti del defunto.
Disposizioni testamentarie e quota di riserva Sono previste alcune peculiari regole destinate ad intervenire qualora il testatore, attraverso l’attribuzione di
legati o con donazioni fatte in vita, alteri i diritti dei legittimari. Le ipotesi espressamente previste
costituiscono temperamenti al principio dell’intangibilità della quota ed in particolare riguardano: il lascito
eccedente la porzione disponibile; il legato in sostituzione di legittima; la donazione e i legati in conto di
legittima.
Il lascito eccedente la porzione disponibile (o cautela sociniana) si realizza allorché il testatore disponga,
a favore di un estraneo, di un usufrutto il cui reddito eccede della porzione disponibile, lasciando al
contempo ai legittimari la nuda proprietà della disponibile o di parte di essa. Al legittimario è attribuito il diritto
potestativo di abbandonare la nuda proprietà della porzione disponibile e di pretendere la quota a lui
riservata.
Il legato in sostituzione di legittima si configura allorché il testatore disponga beni determinati a favore del
legittimario, precisando che, con l’attribuzione, si intendono soddisfatti tutti i diritti che a quello spettano
sull’eredità. Il legittimario può rifiutare il legato e pretendere la liquidazione della quota riservatagli dalla
legge; se però conserva il legato perde la possibilità di ottenere un supplemento.
La donazione e i legati in conto di legittima presuppongono che il legittimario abbia rinunciato all’eredità e
che non operi la rappresentazione. Il legittimario, che ha perso la qualità di chiamato, può mantenere le
donazioni e i legati solo fino alla concorrenza della quota disponibile. Tuttavia, poiché dopo la rinuncia la
quota disponibile può risultare ridotta per la mancata imputazione alla legittima delle donazioni e dei legati, si
stabilisce che questi ultimi si riducano per primi in deroga alle disposizioni sulla riduzione delle disposizioni
lesive della legittima.
Lesione di legittima e azione di riduzione Se il testatore, mediante disposizioni testamentarie o donazioni fatte in vita, provoca una lesione dei diritti dei legittimari, attribuendo loro una quota inferiore, o non attribuendo affatto la quota (legittimario
pretermesso), si determina la necessità di integrare le quote di riserva, o di attribuire quelle pretermesse: il
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rimedio predisposto è l’azione di riduzione. Essa ha natura personale e ha la funzione di accertamento
costitutivo; non è soggetto a riduzione quanto ricevuto dai contraenti di un patto di famiglia.
La legittimazione attiva spetta solo ai legittimari o ai loro eredi o aventi causa; la legittimazione passiva
riguarda i destinatari delle disposizioni testamentarie che eccedono le quote disponibili indipendentemente
dal loro acquisto. Per ulteriori integrazioni della riserva possono anche essere chiamati in giudizio i donatari
o i terzi ai quali i beni dati in donazione siano stati alienati.
Quanto alle condizioni necessarie per avvalersi del rimedio, il legittimario che non ha accettato l’eredità con
beneficio di inventario non può chiedere la riduzione delle donazioni e dei legati, salvo che le donazioni e i
legati siano stati fatti a persone chiamate come coeredi. Nel concorso di legittimari con altri successibili, le
porzioni che spetterebbero a questi ultimi si riducono proporzionalmente nei limiti in cui è necessario per
integrare la quota riservata ai legittimari. Le disposizioni testamentarie che eccedono la quota sono ridotte
nei limiti della quota medesima e la loro riduzione avviene proporzionalmente senza distinguere tra eredi e
legatari. Anche le donazioni che eccedono la quota disponibile sono soggette a riduzione entro i limiti della
quota.
Quanto alla restituzione dei beni a seguito di vittorioso esperimento dell’azione di riduzione, i beni restituiti
in conseguenza della riduzione sono liberi da ogni peso o ipoteca di cui il legatario o il donatario può averli
gravati. Il legittimario può chiedere la restituzione dei beni agli aventi causa dai donatari soggetti a riduzione
se non sono trascorsi venti anni dalla trascrizione della donazione. Contro i terzi acquirenti può anche
essere richiesta, entro venti anni dalla donazione, la restituzione dei beni mobili oggetto della donazione,
salvi gli effetti del possesso si buona fede.
Il termine per esperire l’azione di riduzione decorre: dalla data di apertura della successione, nel caso in cui
la lesione derivi da donazioni; dalla data di accettazione dell’eredità da parte del chiamato, nel caso in cui la
lesione della legittima sia ricollegabile a disposizioni testamentarie.
3. Successione legittima
Presupposti e categorie dei successibili ex lege Alla successione legittima si ricorre in due ipotesi: quando un soggetto muoia ab intestato, ossia senza
aver lasciato un testamento; nel caso in cui un testamento vi sia, ma il testatore non abbia provveduto a
disporre di tutte le proprie sostanze. In questa ultima ipotesi, è necessario procedere all’identificazione dei
destinatari dei beni dei quali non si è disposto, per cui la successione mortis causa sarà regolata con il
concorso di entrambe le vocazioni, testamentaria e legittima.
Il criterio più significativo utilizzato nell’individuazione degli aventi diritto è quello dell’affectio familiaris. La
successione si aprirà per legge qualora manchino esponenti della categoria dei riservatari, a favore di tutti gli
altri parenti, senza distinzione di linea, e non oltre il sesto grado di parentela. Lo Stato acquisterà la veste di
vero e proprio successore legittimo e subentrerà nella titolarità dei beni del defunto soltanto in assenza di
successibili.
Secondo il codice, l’eredità si devolve al coniuge, ai discendenti legittimi e naturali, agli ascendenti legittimi,
ai collaterali, agli altri parenti e allo Stato, nell’ordine e secondo le regole stabilite. Questa disposizione, però,
è stata dichiarata costituzionalmente illegittima sia nella parte in cui non contempla tra i chiamati legittimi i
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fratelli e le sorelle naturali riconosciuti o dichiarati, sia nella parte in cui non è prevista la successione
legittima tra fratelli e sorelle naturali dei quali sia legalmente accertato il rispettivo rapporto di filiazione nei
confronti del comune genitore.
L’ordine è esclusivo e l’attribuzione dei beni è fatta per stirpi. Regole specifiche riguardano poi la
successione dei parenti (figli, genitori, fratelli e sorelle, altri parenti), del coniuge e dello Stato.
Successione dei parenti La prima categoria di parenti, che esclude tutti gli altri dalla successione, è costituita dai figli. Al padre e alla
madre succedono i figli legittimi e naturali, o i loro discendenti, in parti uguali. Il rapporto di filiazione
naturale deve essere riconosciuto o dichiarato giudizialmente. I figli legittimi possono esercitare il diritto
potestativo di commutazione, che consiste nel soddisfare in denaro o in beni immobili ereditari la porzione
spettante ai figli naturali; se questi ultimi si oppongono, spetta al giudice prendere le opportune decisioni. Ai
figli legittimi sono equiparati i figli legittimati e i figli adottivi; il figlio adulterino che abbia ottenuto lo status
di figlio naturale ha diritto di partecipare alla successione del genitore naturale; ai figli naturali non riconoscibili (incestuosi) è attribuito un assegno vitalizio. Solo nei casi di adozione di maggiorenni e di
adozione in casi particolari gli adottati sono estranei alla successione dei parenti dell’adottante. I figli
possono subire il concorso soltanto con il coniuge del defunto, al quale dovrà essere attribuita la metà del
patrimonio se il figlio è unico e un terzo dell’asse ereditario in tutti gli altri casi.
La seconda categoria di parenti è costituita dai genitori e dagli altri ascendenti legittimi. La circostanza che
consente la successione di uno solo o di entrambi i genitori legittimi è che il soggetto muoia senza lasciare
prole, né fratelli o sorelle o loro discendenti. Se sopravvivono entrambi i genitori, l’eredità è divisa fra essi in
proporzioni uguali. Ai genitori legittimi sono equiparati i genitori di figli legittimati e i genitori adottivi, mentre è
esclusa la successione del genitore che non ha provveduto a legittimare il figlio naturale. I genitori possono
subire il concorso dei fratelli, delle sorelle e del coniuge del defunto. Qualora al defunto non sopravvivano né
genitori, né fratelli o sorelle o loro discendenti, né il coniuge, l’eredità è devoluta agli eventuali ascendenti
legittimi: se gli ascendenti sono di pari grado l’eredità è divisa in parti uguali tra linea paterna e materna; in
caso di disuguaglianza di grado (nonno paterno e bisnonno materno) l’eredità è devoluta all’ascendente
più vicino senza distinzione dei linea parentale.
La terza categoria di parenti è costituita dai fratelli e dalle sorelle. A colui che muore senza lasciare prole,
né genitori, né altri ascendenti, succedono i fratelli e le sorelle in parti uguali. Ai fratelli e alle sorelle
unilaterali, spetta la metà della quota conseguita dai fratelli o sorelle germani. I germani sono i fratelli e le
sorelle nati dai medesimi genitori, gli altri sono detti unilaterali (consanguinei, se abbiano lo stesso padre;
uterini, se abbiano la stessa madre).
Infine, se taluno muore senza lasciare prole, né genitori, né altri ascendenti, né fratelli o sorelle o loro
discendenti, la successione si considera aperta, senza distinzione di linea paterna o materna, a favore del
parente o dei parenti collaterali, esclusi quelli oltre il sesto grado. Il parente più prossimo esclude quello più
remoto e che, a parità di grado, l’eredità deve essere suddivisa per capi o in parti uguali.
75
Successione del coniuge Al coniuge si attribuisce, oltre al diritto di abitazione sulla casa familiare e di uso sui mobili che la corredano,
una quota in proprietà dell’asse ereditario con la conseguente attribuzione, a tutti gli effetti, della qualità di
erede. L’ammontare della quota varia in ragione delle possibili ipotesi di concorso rilevanti: la quota è fissata
nella metà del patrimonio del defunto, se il coniuge concorre con un solo figlio legittimo o naturale; in un
terzo, se alla successione concorrono più figli; in due terzi, se concorrono ascendenti legittimi o fratelli o
sorelle (anche se unilaterali) del defunto. In mancanza di figli legittimi o naturali, di ascendenti, di fratelli o
sorelle, al coniuge superstite è devoluta l’intera eredità. Gli stessi diritti spettano: al coniuge putativo,
escluso dalla successione solo nel caso in cui il de cuius era legato da valido matrimonio al momento della
morte; al coniuge separato senza addebito. Il coniuge separato con addebito ha diritto solo ad un
assegno vitalizio, se godeva degli alimenti, mentre il coniuge divorziato ha diritto, se non è passato a
nuove nozze e se godeva dell’assegno post-matrimoniale, alla pensione di reversibilità.
Successione dello Stato L’eredità si devolve allo Stato in mancanza di altri successibili, cioè quando non vi siano, o non possano, o
non vogliano accettare l’eredità parenti oltre il sesto grado e fratelli o sorelle naturali del defunto. L’acquisto
dello Stato ha luogo di diritto, senza bisogno di accettazione. Esso decorre dal momento dell’apertura della
successione e con beneficio di inventario: lo Stato, infatti, non risponde dei debiti ereditari e dei legati oltre il
valore dei beni acquistati. Non può farsi luogo a rinuncia.
Successioni anomale Si definiscono successioni legittime anomale tutte quelle ipotesi nelle quali l’acquisto di beni determinati o
di complessi di beni avviene con regole e criteri diversi dai principi vigenti nella materia successoria. I casi
più significativi riguardano: le indennità di preavviso e di fine rapporto, in caso di morte del prestatore di
lavoro; la successione nel contratto di locazione urbana e nel contratto di affitto di fondo rustico.
Alla morte del prestatore di lavoro, le indennità debbono essere corrisposte al coniuge, ai figli, se vivevano
a carico del prestatore di lavoro, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo.
In caso di morte del conduttore, gli succedono nel contratto il coniuge, gli eredi, i parenti e gli affini con lui
conviventi.
In caso di morte dell’affittuario, gli succedono nel contratto gli eredi che abbiano esercitato e continuino ad
esercitare attività agricola sul fondo.
4. Successione testamentaria
Duplicità della vocazione ereditaria e prevalenza della successione testamentaria Al momento dell’apertura della successione è necessario procedere all’identificazione dei successori del de
cuius, o seguendo le indicazioni offerte a tal fine della legge, o attuando le direttive a suo tempo predisposte
dal soggetto in un testamento. Non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in
parte, quella testamentaria: la preminenza accordata dal legislatore alla successione testamentaria cede
solo di fronte alla considerazione riservata dalla legge alla categoria dei legittimari.
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Regole generali della vocazione testamentaria sono: la necessità che alla morte dell’individuo si apra una
successione; la natura unitaria della successione mortis causa, pur in presenza di due diverse fattispecie
successorie, legale e volontaria; la determinazione dell’ordine di applicazione fra le due forme di
vocazione; la presenza di un limite all’autonomia del testatore di disporre, al fine di tutelare la categoria dei
legittimari.
Atto mortis causa di ultima volontà Il testamento è un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di
tutte le proprie sostanze o di una parte di esse. Il testamento è inquadrabile nella più generale categoria
degli atti mortis causa, ossia degli atti volti a regolare quei rapporti che vengono a formarsi in via originaria
con la morte del soggetto, o che dalla sua morte traggono comunque una loro autonoma classificazione. Tra
gli atti giuridici a causa di morte non aventi natura patrimoniale è possibile ricordare la dichiarazione del
proposito di legittimare il figlio naturale, la disposizione fiduciaria, le disposizioni sui funerali. L’unico atto
unilaterale di attribuzione patrimoniale a causa di morte è il testamento, cui è possibile aggiungere il patto di
famiglia per quanto concerne gli interessi familiari nell’ambito dell’impresa.
Dagli atti mortis causa vanno distinti i cosiddetti atti inter vivos con efficacia post mortem, ossia gli atti tra
vivi condizionati all’evento della morte del loro autore. Ne sono un esempio: il contratto di donazione con
clausola di premorienza, dove la morte funge da condizione sospensiva retroattiva; il mandato, conferito in
vita dal mandante, che abbia ad oggetto il compimento di determinate modalità concernenti la sepoltura.
La convenzione, per costituire una valida alternativa al testamento, deve realizzare un effetto attributivo post
mortem senza dar vita ad una vicenda successoria. Fenomeni capaci di sfuggire al divieto dei patti
successori sono, ad esempio, il contratto a favore di terzo con prestazione dopo la morte dello stipulante e la
rendita vitalizia a favore di terzo. Perché il contratto costituito in vita sia valido, occorre: l’uscita del bene dal
patrimonio dell’autore prima della sua morte; l’attribuzione diventi definitiva solo dopo la morte di colui che
dispone; la possibilità per il disponente di esercitare lo ius poenitendi.
Poiché il testamento è un atto revocabile, si ricorre spesso, per la sua individuazione, alla locuzione atto di ultima volontà. Si ritiene che possano sussistere taluni atti unilaterali di ultima volontà con i quali si
disciplinano interessi familiari e della personalità per il tempo successivo alla morte del soggetto, siano essi
espressi o no in forma testamentaria. Possono in tal senso menzionarsi la designazione del tutore
dell’interdetto; le disposizioni, contenute in scritti, che concernono la pubblicazione delle opere dell’ingegno,
la sorte della corrispondenza epistolare, le disposizioni sui funerali e sul luogo di sepoltura.
Caratteri e contenuto del testamento Il testamento è un atto revocabile, non recettizio, unilaterale, unipersonale e assolutamente personale,
formale e solenne, a contenuto essenzialmente patrimoniale. Da queste caratteristiche si evince che: il
testatore può variare la volontà già espressa fino all’ultimo istante della sua vita; l’efficacia del testamento
non dipende dalla comunicazione a terzi, che pure risultino i destinatari dell’atto; la regolamentazione mortis
causa dei propri interessi può essere effettuata dal testatore soltanto attraverso un’unilaterale
manifestazione di volontà, da cui il divieto di patti successori; il testamento deve contenere la volontà di un
testatore soltanto, mentre sono nulle le disposizioni che il testatore compia a condizione di essere
77
avvantaggiato nel testamento dell’erede o del legatario (condizione captatoria); il testatore deve manifestare
personalmente la sua volontà e non si ammette alcuna forma di rappresentanza, né legale né volontaria; la
volontà del defunto è efficace soltanto se dichiarata per iscritto tramite uno dei vari moduli espressivi
individuati dal legislatore; la qualificazione del testamento come atto solenne attiene alle forme testamentarie
ordinarie per atto di notaio (testamento pubblico o segreto), le quali si distinguono dalla forma olografa e dai
testamenti speciali per la peculiare solennità di rito; il contenuto proprio del testamento consiste
nell’istituzione di erede e di legato.
Il contenuto tipico del testamento rimane circoscritto alle sole disposizioni che realizzano una positiva
attribuzione di beni e, pertanto, all’istituzione di erede e all’istituzione di legato. Ciò non impedisce che il
testatore possa inserire nell’atto anche manifestazioni di volontà attinenti ad interessi del tutto privi del
carattere della patrimonialità e che rispondano, invece, ad esigenze di tipo personale, affettivo, familiare o
morale. Non vi è un testamento in senso proprio quando l’atto riguardi soltanto disposizioni di natura non
patrimoniale, poiché, in tal caso, manca l’elemento che imprime all’atto specificità causale: si tratta allora di
un mero veicolo emissivo delle dichiarazioni, che riveste non la sostanza ma soltanto la forma del
testamento. Sulla base di queste indicazioni normative è stata tracciata la distinzione tra contenuto tipico e
contenuto atipico.
Nel contenuto tipico rientrano, oltre alle disposizioni patrimoniali, tutte quelle che, per loro natura, sono
rispetto a queste complementari ed accessorie. Tra le disposizioni complementari vengono in
considerazione le disposizioni che stabiliscono un criterio di ripartizione dei beni e quelle che fissano un
termine per la divisione. Tra le disposizioni accessorie vi sono invece le clausole che contengono una
condizione all’istituzione di erede, una condizione o un termine all’istituzione di legato. Ulteriori disposizioni
che possono esaurire il contenuto tipico del testamento sono il modus testamentario, la riabilitazione
dell’indegno, la disposizione che abbia ad oggetto la costituzione di una fondazione, la diseredazione (o
clausola negativa). In particolare, la diseredazione è quella disposizione patrimoniale con la quale il
testatore esclude dalla successione un successibile ex lege purché non necessario: tale clausola è valida se
nel testamento si accompagni ad altre disposizioni che siano attributive di beni, o se dall’interpretazione
dell’atto risulti che il de cuius abbia inteso implicitamente attribuire le proprie sostanze ad altri soggetti.
Secondo il criterio oggettivo di qualificazione, le disposizioni testamentarie, qualunque sia l’espressione o
la denominazione usata dal testatore, sono a titolo universale e attribuiscono la qualità di erede se
comprendono l’universalità o una quota dei beni del testatore, mentre ogni altra disposizione è a titolo particolare e attribuisce la qualità di legatario. Secondo il criterio soggettivo di qualificazione, o institutio
ex re certa, l’indicazione di beni determinati, o di un complesso di beni, non esclude che la disposizione sia a
titolo universale, se risulta che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio (lascio a
Tizio tutti i beni mobili e a Caio tutto il resto). La giurisprudenza considera sempre come disposizioni a titolo
universale quelle che attribuiscono tutto il patrimonio a più soggetti, indistintamente o in porzioni aritmetiche
differenziate (coeredità), e quelle che conferiscono tutti i beni o una frazione di essi ad un solo soggetto;
nelle altre ipotesi, si impone un’indagine ermeneutica particolarmente approfondita. Concorrono a delineare
il contenuto dell’atto le clausole accessorie della condizione, del termine e del modo, se apposte alle
disposizioni patrimoniali a titolo universale o a titolo particolare.
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Sia l’istituzione di erede sia il legato possono essere fatte sotto condizione sospensiva o risolutiva, sia
essa casuale, potestativa o mista. La condizione opera ex tunc a far tempo dalla morte del testatore
(retroattività reale della condizione). A differenza di quanto accade negli atti tra vivi, la condizione impossibile
o illecita non rende nulla la disposizione cui si riferisce, ma si considera non apposta; se però dall’atto risulta
che l’inserimento della clausola condizionale ha costituito l’unico motivo che ha determinato il testatore a
disporre, la nullità della condizione travolge l’intero testamento. Ad esempio, è considerata nulla la
condizione di reciprocità (o captatoria) ed illecita la condizione che imponga un divieto di nozze.
Il termine, a differenza della condizione, può essere apposto soltanto al legato: il legatario di cosa
determinata a termine iniziale non acquista il bene oggetto del legato sino alla scadenza; quello a termine
finale acquista all’apertura della successione, ma alla scadenza dovrà restituire il bene all’erede.
L’onere testamentario si risolve sempre in un obbligo di dare, fare o non fare; è imposto all’erede o al
legatario nell’interesse dello stesso testatore, a beneficio di un terzo o dello stesso onorato, ed implica una
limitazione dell’attribuzione patrimoniale gratuita. Costituiscono oneri posti nell’interesse del testatore tutte le
disposizioni modali a favore dell’anima. L’onere impossibile o illecito si considera non apposto, ma rende
nulla la disposizione se ne ha costituito il solo motivo determinante. Riguardo all’inadempimento dell’onere si
applicano i principi dettati in tema di inattuazione del rapporto obbligatorio: possono agire in tal senso tutti
coloro che vantino un interesse materiale o anche soltanto morale all’esecuzione della prestazione.
L’autorità giudiziaria può pronunciare la risoluzione della disposizione modale su richiesta di chiunque vi
abbia interesse.
L’inserimento di disposizioni non patrimoniali in un testamento che, per qualsiasi ragione, fosse considerato
nullo, non pregiudica la loro validità ed efficacia.
Forme dei testamenti I testamenti possono redigersi con forme ordinarie o speciali. Le forme ordinarie sono distinte in testamento
olografo e testamento per atto di notaio, il quale, a sua volta, può essere pubblico o segreto. A questi si
aggiunge un nuovo tipo di testamento, detto internazionale, la forma del quale è simile a quella olografa. Le
forme speciali ricorrono solo in casi eccezionali e sono caratterizzati da una semplificazione delle formalità
richieste per il testamento pubblico: tutti hanno in comune la dichiarazione di ultima volontà resa dal
testatore ad un pubblico ufficiale, o soggetto a questi assimilato, che ne cura la redazione scritta. A questa
tipologia di testamenti sono riconducibili il testamento fatto da chi si trova in un luogo dove sono in atto
calamità; il testamento fatto a bordo di navi o aeromobili che siano in viaggio; il testamento di militari al
seguito delle forze armate. Elementi comuni sono: la semplificazione della forma; la provvisorietà
dell’efficacia dell’atto, che decade dopo la cessazione della circostanza di emergenza; la necessità del
deposito dell’atto; le fattispecie di nullità.
Testamento olografo
Si definisce olografo il testamento scritto per intero, datato e sottoscritto dal testatore: la sua volontà deve
risultare in modo chiaro, inequivoco e definitivo. Questa forma testamentaria integra gli estremi di una
scrittura privata.
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Il primo requisito riguarda l’integralità dell’autografia, la cui mancanza integra un difetto di formalità
essenziale e determina la nullità del testamento.
Il secondo requisito è la data, che deve contenere l’indicazione del giorno, del mese e dell’anno in cui è
avvenuta la confezione dell’atto. La data acquista rilevanza giuridica per accertare la capacità del testatore,
per determinare l’ordine di priorità fra più testamenti e per verificare l’eventuale sopravvenienza dei figli. La
mancanza o l’incompletezza di questo elemento determinano l’annullabilità dell’atto e l’annullamento può
essere richiesto da chiunque vi abbia interesse. L’indicazione del tempo in cui il testamento è stato redatto,
però, può anche essere impossibile, erronea o falsa: l’impossibilità espressamente voluta (data anteriore alla
nascita del testatore) è equiparabile ad un caso di inesistenza di data, mentre la data volutamente falsa o
erronea (31 febbraio) può essere rettificata.
Il terzo requisito necessario per la validità del testamento olografo è individuato nella sottoscrizione
apposta alla fine delle disposizioni. La sottoscrizione ha la funzione di identificare la persona del testatore,
perfezionare il negozio testamentario, attribuire il carattere di definitività alla volontà manifestata per iscritto.
Testamento pubblico
È definito testamento pubblico quello ricevuto dal notaio alla presenza di due testimoni: il pubblico
ufficiale rogante riceve direttamente la volontà del testatore e redige l’atto in forma giuridica. Sono
indispensabili requisiti di validità: la dichiarazione di volontà del testatore resa al notaio davanti a due
testimoni; la redazione di tale dichiarazione ad opera del notaio rogante; la lettura dell’atto al testatore da
parte del notaio fatta alla presenza dei testimoni; la menzione di adempimento di tutte le formalità; la
sottoscrizione dell’atto da parte del testatore, del notaio e dei testimoni; l’indicazione del luogo, della data di
ricevimento e dell’ora della sottoscrizione. Ai fini della validità dell’atto, occorre inoltre accertare l’identità del
disponente e la sua capacità di esprimere con coscienza e libertà la sua volontà dispositiva Se il testatore
non è in grado di scrivere, deve dichiararne la causa e il notaio deve menzionare questa dichiarazione prima
della lettura dell’atto (dichiarazione sostitutiva della sottoscrizione); ulteriori formalità si impongono quando il
testatore sia affetto da mutismo o sordità.
Il testamento pubblico è nullo quando manchino la redazione per iscritto delle dichiarazioni del testatore a
cura del notaio o la sottoscrizione di entrambi o la dichiarazione sostitutiva della sottoscrizione, oppure in
caso di falsa dichiarazione di impossibilità a sottoscrivere. La mancanza degli altri requisiti formali è causa di
annullabilità.
Testamento segreto
Il testamento segreto costituisce una forma intermedia tra il testamento olografo e quello pubblico: dal
primo mutua il vantaggio della segretezza sul contenuto delle disposizioni; dal secondo quello di rendere
meno probabile il pericolo dello smarrimento. La sua formazione passa attraverso due fasi: la redazione
della scheda testamentaria, da parte del testatore o di un terzo; la redazione di un verbale di ricevimento,
in cui si attesta l’avvenuta consegna della scheda al notaio. La diversa natura, privata e pubblica, di queste
due attività documentali assume rilievo nell’identificazione della natura giuridica della forma testamentaria.
La giurisprudenza, pur ammettendo la netta distinzione tra scrittura privata (scheda testamentaria) e atto
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pubblico (verbale di ricevimento), conferisce al testamento segreto nel suo complesso natura di atto
pubblico.
Revoca del testamento Il testamento può essere revocato e non si può in alcun modo rinunciare alla facoltà di revocare o di mutare
le disposizioni testamentarie. La revocazione può essere espressa o tacita.
La revocazione espressa delle disposizioni testamentarie può farsi soltanto con un nuovo testamento o con
un atto ricevuto da un notaio, in presenza di due testimoni, nel quale il testatore personalmente dichiara di
revocare, in tutto o in parte, la sua volontà. La revoca espressa può essere a sua volta revocata e, in tal
caso, rivivono le disposizioni revocate.
La revocazione tacita ricorre nell’ipotesi di un testamento posteriore che non revochi in modo espresso i
precedenti: in tal caso sono considerate annullate soltanto quelle disposizioni che sono con esso
incompatibili. Il ritiro del testamento segreto ad opera del testatore, effettuato dal notaio o dall’archivista
presso cui si trovava depositato, non integra necessariamente una revoca tacita. Rileva invece come revoca presunta la distruzione del testamento olografo.
Si considera revoca del legato l’alienazione che il testatore faccia della cosa legata. Si parla invece di
caducità legale delle disposizioni per indicare l’ipotesi in cui il testatore, al tempo del testamento, non
aveva o ignorava di avere figli o discendenti: in tal caso, le disposizioni testamentarie sono revocate di
diritto.
Pubblicazione dei testamenti olografi e dei testamenti segreti La pubblicazione consiste nell’attribuzione del crisma dell’ufficialità all’esistenza del testamento ed è
necessaria per far valere in giudizio l’atto di ultima volontà. Regole particolari sono dettate per la
pubblicazione del testamento olografo e del testamento segreto.
Riguardo al testamento olografo, si prevede che chiunque sia in possesso di una scheda testamentaria
olografa, non appena avuta notizia della morte del testatore debba presentarla ad un qualunque notaio,
perché provveda alla pubblicazione. Il notaio procede alla pubblicazione del testamento olografo, in
presenza di due testimoni, attraverso la redazione nella forma degli atti pubblici di un verbale. Al verbale
debbono essere allegati la carta in cui è scritto il testamento e l’estratto dell’atto di morte del testatore.
Avvenuta la pubblicazione, il testamento olografo ha esecuzione. Sono previste particolari forme di pubblicità
idonee a rendere nota l’esistenza del testamento: il notaio è obbligato a trasmettere alla cancelleria del
tribunale nella cui giurisdizione si è aperta la successione una copia dei verbali e del testamento pubblico; lo
stesso pubblico ufficiale deve dare notizia dell’esistenza dell’atto agli eredi o legatari di cui conosca il
domicilio o la residenza. A seguito della Convenzione di Basilea (1972), è stato istituito un Registro generale
dei testamenti.
Riguardo al testamento segreto, è previsto che, non appena avuta notizia della morte del testatore, il notaio
che ha ricevuto, o presso il quale è stato depositato, il testamento segreto, deve provvedere alla sua
apertura e alla relativa pubblicazione. Qualora il notaio depositario abbia cessato di esercitare la
professione, o sia deceduto, sarà il conservatore dell’archivio notarile che provvederà ad adempiere quelle
formalità.
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Esecuzione del testamento Per eseguire il testamento, sia esso olografo, pubblico o segreto, il testatore, con una clausola apposita
contenuta nell’atto, può nominare uno o più esecutori testamentari. La funzione precipua dell’esecutore è
quella di curare che siano esattamente eseguite le disposizioni di ultima volontà del defunto; il relativo
esercizio, conseguente all’accettazione del designato, è espressione della titolarità di un ufficio di diritto
privato e, cioè, di un potere conferito per la tutela di un interesse altrui. Per lo svolgimento della sua
funzione, l’esecutore deve amministrare la massa ereditaria prendendo possesso (detenzione) dei beni che
ne fanno parte, ma il possesso non può protrarsi oltre un anno dalla dichiarazione di accettazione
dell’incarico. L’amministrazione richiede la diligenza del buon padre di famiglia.
Il testatore può affidare all’esecutore, purché non sia né erede né legatario, il compito di procedere alla
divisione tra gli eredi dei beni. Al termine della gestione, l’esecutore testamentario deve rendere il
rendiconto della sua gestione e, in caso di mala gestione, è previsto il risarcimento del danno nei confronti
degli eredi e dei legatari. Su istanza di ogni interessato, l’autorità giudiziaria può procedere all’esonero
dell’esecutore per gravi irregolarità nell’adempimento dei suoi obblighi o per inidoneità all’ufficio.
Capacità di testare e la capacità di ricevere per testamento La capacità di testare è un elemento indispensabile ai fini della delazione testamentaria. Essa è intesa
come espressione della capacità di agire: esprime infatti la capacità del soggetto di predisporre, attraverso
l’atto testamentario, la regolamentazione dei propri interessi. Coloro che non sono dichiarati incapaci dalla
legge possono disporre per testamento. Sono dichiarati incapaci di testare: coloro che non hanno compiuto
la maggiore età; gli interdetti per infermità di mente; coloro che, sebbene non interdetti, siano stati incapaci
di intendere e di volere nel momento in cui fecero testamento. Tale elencazione è tassativa.
Sono legittimati ad esperire l’azione di annullamento dell’atto tutti coloro che traggono dall’annullamento
dell’atto un risultato apprezzabile. L’azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata
data esecuzione alle disposizioni testamentarie.
Il codice individua due categorie di soggetti incapaci di ricevere per testamento. Vi sono due regole
particolari: la nullità delle disposizioni testamentarie che, pur effettuate sotto il nome di interposta persona,
si risolvano comunque a vantaggio delle persone incapaci di ricevere; l’attribuzione di un assegno vitalizio
a favore dei figli naturali non riconoscibili. Sono dunque incapaci di ricevere per testamento il tutore e il
protutore; il notaio, i testimoni e l’interprete; chi ha scritto o ricevuto il testamento segreto; i figli naturali non riconoscibili. A questi ultimi, però, spetta un assegno vitalizio pari all’ammontare della rendita della
quota di eredità alla quale avrebbero diritto se la filiazione fosse stata dichiarata o riconosciuta: l’obbligo
della corresponsione è imposto agli eredi, ai legatari e ai donatari in proporzione di quanto hanno ricevuto.
Interpretazione del testamento Nell’ambito del testamento viene meno l’operatività dei principi dell’affidamento e dell’autoresponsabilità,
ossia quei principi che, in campo contrattuale, esprimono la complessità dei rapporti intercorrenti tra volontà
e dichiarazione. Pertanto, l’interpretazione dell’atto di ultima volontà si caratterizza per essere soggettiva e
individuale.
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Riguardo all’ermeneutica dell’atto di ultima volontà, le proposte teoriche avanzate possono ridursi a due: la
prima, sostenuta dai più, ritiene che al testamento sia applicabile, sia pure in via analogica e nei limiti della
compatibilità, la disciplina generale sull’interpretazione del contratto; altri, invece, privilegiano la ricerca di
principi fondamentali all’interno delle norme espresse in materia di successione testamentaria. Anche in
quest’ultima impostazione, tuttavia, si hanno due modelli, che sono l’interpretazione basata sul significato
socialmente riconoscibile della dichiarazione e l’interpretazione basata sulla ricerca della volontà del testatore anche al di là del significato che potrebbe essere generalmente attribuito.
Sul piano della disciplina normativa non si può avere un’estensione automatica al testamento dei canoni
interpretativi previsti per il contratto. Le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili,
per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale: è posta dunque una regola non riferibile in modo
diretto all’atto di ultima volontà. Il ricorso al metodo interpretativo analogico viene in rilievo per
l’interpretazione soggettiva, mentre i canoni ermeneutici di carattere oggettivo sono esclusi, non essendo
la dichiarazione di ultima volontà diretta a fondare un affidamento di altri. Gli unici principi oggettivi che
possono essere applicati sono il principio di conservazione, che preferisce la nullità parziale alla nullità
totale, e la clausola generale della buona fede oggettiva, volta a risolvere eventuali conflitti tra gli interessi
di soggetti che risultino destinatari dei suoi effetti (eredi e legatari) e a ricercare, nel quadro successorio
predisposto dal testatore, un interesse che possa dirsi obiettivamente meritevole di tutela da parte
dell’ordinamento.
Esistono comunque alcune regole interpretative speciali. In particolare, il codice dispone che, in caso di
erronea indicazione della persona dell’erede o del legatario, la disposizione ha comunque effetto quando
dal contesto del testamento o altrimenti risulta in modo non equivoco quale persona il testatore voleva
nominare; analogamente in caso di erronea indicazione della cosa che forma oggetto della disposizione,
se è certo a quale cosa il testatore intendeva riferirsi. Infine, per le disposizioni testamentarie a titolo
universale e particolare e per il testamento posteriore, si preferisce un’interpretazione di tipo teleologico, la
cui operatività prescinde dalla ricerca della volontà del dichiarante.
Invalidità del testamento I principi generali previsti per definire il profilo dell’invalidità del contratto si applicano anche al testamento: a
tali principi si dovrà fare ricorso ogni volta che la singola clausola testamentaria, o il testamento nel suo
complesso, presentino una causa di nullità non esplicitamente contemplata nelle ipotesi di disciplina
peculiare. Il fenomeno dell’invalidità del testamento si traduce nelle differenziate fattispecie della nullità e
dell’annullabilità, a seconda della mancanza o del’irregolarità di uno dei requisiti di forma e di sostanza
espressamente previsti per l’atto.
Per quanto attiene ai difetti di forma, si ha nullità, nel testamento olografo, quando manchino l’autografia o
la sottoscrizione; nel testamento per atto di notaio, invece, la nullità è comminata qualora manchino la
redazione per iscritto, da parte del notaio, delle dichiarazioni del testatore, o la sottoscrizione del notaio e del
testatore. Ogni altro vizio di forma, quali l’irregolarità della data o l’omessa trascrizione dei testimoni,
comporta l’annullabilità dell’atto.
Per quanto riguarda i vizi di sostanza, la nullità è disposta anzitutto quando la volontà testamentaria non sia
stata espressa in modo spontaneo o addirittura manchi. Sotto il primo profilo vengono in rilievo il divieto dei
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patti successori, del testamento congiuntivo o reciproco e della condizione di reciprocità, i quali sono
considerati fattori capaci di alterare la spontaneità del volere. Sotto il secondo profilo, il testamento è sempre
nullo se la dichiarazione di ultima volontà è stata resa sotto violenza fisica, oppure, a differenza di quanto
accade nel contratto, è affetta da riserva mentale o resa per scherzo. La sanzione di nullità è poi comminata,
in via speciale, per le disposizioni fatte dal testatore sotto tutela a favore del tutore o del protutore; per quelle
a favore del notaio, dei testimoni o degli interpreti; per quelle in favore di persone incapaci di ricevere per
testamento, pur se fatte sotto nome di interposta persona. Infine, il motivo illecito, se è il solo ad aver
determinato il testatore a disporre, rende nulla la disposizione testamentaria.
I vizi di sostanza che, invece, comportano l’annullabilità dell’atto, integrano i casi di incapacità di testare e
le ipotesi in cui la disposizione, o il testamento nel suo complesso, sia l’effetto di errore, violenza o dolo.
L’errore, sia esso un errore vizio o un errore ostativo, deve essere essenziale, ma non occorre che abbia i
caratteri della riconoscibilità e della scusabilità. L’errore sul motivo, di fatto o di diritto, a differenza di
quanto accade per gli atti inter vivos, è causa di annullabilità se è stato l’unico motivo determinante che ha
indotto il legislatore a redigere l’atto. Per ciò che riguarda la violenza morale, si applicano le regole relative
ai contratti, con la precisazione, però, che la gravità della minaccia deve essere valutata su un piano
rigorosamente soggettivo e con astrazione da ogni termine di comparazione al comportamento normale
dell’uomo medio. Quanto al dolo, l’errore provocato da raggiri altrui, sia un terzo o un beneficiario, determina
sempre l’annullabilità del testamento.
Il testamento e le singole disposizioni nulle non sono idonei a produrre alcun effetto e non consentono
neanche l’apertura della successione. La nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed è
rilevabile anche d’ufficio dal giudice; l’azione di nullità, inoltre, non è soggetta a termine di prescrizione. Il
beneficiario di un testamento nullo non rivestirà legittimazione alcuna, qualora sia in possesso dei beni
dell’eredità, in ordine all’esercizio delle azioni poste a loro tutela.
Diversamente, il testamento o le disposizioni che siano soltanto annullabili producono effetti fin dal
momento dell’apertura della successione e in particolare determinano, per il chiamato all’eredità, il sorgere
del diritto di accettare. L’eventuale pronuncia di annullamento, pur operando ex tunc, non pregiudica i diritti
che i terzi abbiano acquistato a titolo oneroso e in buona fede, dall’erede o dal legatario. L’azione di annullamento è soggetta ad un termine quinquennale di prescrizione e può essere esperita da chiunque vi
abbia interesse. Ciò segna una differenza con quanto avviene per il contratto, in cui la legittimazione attiva a
proporre l’azione di annullamento è riservata alla parte nel cui interesse l’annullamento è previsto: nel
testamento, infatti, vi è l’esigenza di rispettare l’ultima volontà del testatore.
Conferma delle disposizioni testamentarie nulle
La nullità del testamento o di una singola disposizione non impediscono, a chi sarebbe legittimato a farla
valere, di confermare, tramite una dichiarazione espressa o per esecuzione volontaria, quanto espresso dal
testatore. Sono stati in particolare considerati oggetto di possibile conferma: il testamento orale, o
testamento nuncupativo, una volta che sia offerta la prova in ordine alla volontà dichiarata, anche se non
consegnata in uno scritto, da parte del testatore; il testamento dissimulato, in caso di simulazione relativa; il
testamento olografo nullo per assenza o falsità solo formale della firma del testatore, se dalla scheda o da
altri dati risulti comunque una manifestazione reale seria e definitiva delle ultime volontà; le disposizioni
testamentarie revocate, comprese quelle tali di diritto per sopravvenienza di figli.
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La conferma e l’esecuzione volontaria di una disposizione testamentaria o di un testamento nulli
rappresentano un’eccezione rispetto al principio dell’insanabilità del vizio della nullità. La ragione
ispiratrice di tale eccezione è ravvisata nell’esigenza di far salva quella volontà che il testatore non ha potuto
o saputo esprimere in modo efficace. Tale volontà, pur non meritando in astratto la tutela della legge, merita
il rispetto dell’erede che, pur riconoscendo il vizio della nullità e potendo disporre del relativo diritto a farla
valere, ha ritenuto comunque di prestarvi ossequio. La nullità della disposizione testamentaria, da qualunque
causa essa dipenda, non può più essere fatta valere da chi, conoscendo la causa della nullità, ha, dopo la
morte del testatore, confermato la disposizione o dato ad essa volontaria esecuzione.
5. Legati
Nozioni L’espressione legato può esprimere aspetti diversi del fenomeno successorio: può rappresentare un atto di
autonomia privata, che, in quanto disposizione di ultima volontà, può essere espressa soltanto in un
testamento; può riferirsi al titolo della chiamata alla successione e, dunque, alla fonte del diritto acquistato
dal legatario; può identificare l’oggetto dell’attribuzione. In genere, però, si fa riferimento al legato come ad
una successione mortis causa a titolo particolare, in contrapposizione a quella mortis causa a titolo
universale che è propria dell’erede. Si denominano onerati i soggetti a carico dei quali è posto
l’adempimento del legato, mentre il legatario beneficiario si dice onorato.
L’attribuzione di beni determinati, cioè mai rappresentativi di una quota del patrimonio ereditario, non
realizza sempre una forma di successione in senso proprio. Il legatario infatti può anche acquistare diritti che
non fanno parte della massa ereditaria o beni che non appartengono al defunto: è il caso dei legati
obbligatori; dei legati che abbiano ad oggetto la costituzione ex novo di un diritto reale minore, o una cosa
generica, o la liberazione da un debito; dei legati di cosa altrui.
La definizione di legato che traduce queste indicazioni normative è quindi quella di attribuzione patrimoniale mortis causa priva del carattere dell’universalità.
Oggetto, acquisto, rinuncia Può formare oggetto di legato tutto quanto può essere oggetto di obbligazione e, pertanto, tutto ciò che sia
suscettibile di valutazione economica. Si salvaguarda in tal modo il requisito della patrimonialità e, in
analogia a quanto previsto nella materia del contratto, l’oggetto del legato deve essere possibile, lecito,
determinato o determinabile.
Il legato si acquista di diritto, senza bisogno di accettazione, a far tempo dall’apertura della successione: a
differenza dell’eredità, per il legato il momento della delazione e dell’acquisto coincidono. Occorre ricordare
che la fonte principale del legato, seppure non esclusiva, è il testamento. Sono infatti legati ex lege, o
ipotesi di vocazione legale a titolo particolare: l’attribuzione dei diritti sulla casa familiare al coniuge
riservatario; l’assegno vitalizio a favore del coniuge cui sia stata addebitata la separazione; l’assegno ai figli
naturali non riconoscibili; l’assegno a favore del coniuge divorziato che versi in stato di bisogno.
La rinuncia al legato consiste in un atto unilaterale, non recettizio e irrevocabile, che risolve con effetto
retroattivo l’acquisto in favore del legatario, con conseguente imputazione del bene o del diritto alla massa
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ereditaria. In quanto atto di disposizione, la rinuncia può essere soggetta all’azione revocatoria da parte dei
creditori del legatario che si ritengano pregiudicati nelle loro ragioni. La rinuncia è considerata un atto
illegittimo e, quando abbia ad oggetto un diritto reale immobiliare, richiede la forma scritta ad substantiam.
La facoltà di rinunciare si prescrive nel periodo ordinario; chi ne abbia interesse, come colui che chieda
l’adempimento di un modus apposto al legato, può comunque esercitare un’azione interrogatoria, a seguito
della quale il giudice può fissare un termine il cui inutile decorso fa perdere la facoltà di rinuncia.
Classificazione dei legati I legati possono essere classificati in ragione dell’oggetto e dell’efficacia della disposizione istitutiva.
Riguardo al primo aspetto, si distinguono legati di specie e legati di genere: il legato è di specie se ha ad
oggetto la proprietà di una cosa determinata, o altro diritto appartenente al testatore; è invece detto di genere (o di quantità) il legato che ha ad oggetto una cosa presa in considerazione della sua appartenenza
ad un genus.
La differenza di oggetto influisce sul profilo dell’efficacia dell’attribuzione. Quando l’oggetto del legato è una
cosa determinata solo nel genere, il legatario acquista il diritto ad una prestazione posta a carico del
soggetto su cui grava il peso economico dell’attribuzione: pertanto, i legati di genere sono classificati come
legati ad efficacia obbligatoria. Al contrario, nel caso di legati di specie, la proprietà o il diritto si trasmette
dal testatore al legatario direttamente al momento della morte del testatore, per cui i legati di specie sono
legati ad efficacia reale (o diretta).
I legati di specie ad efficacia reale possono avere ad oggetto, oltre al diritto di proprietà su un bene
determinato, un diritto di credito vantato dal testatore nei confronti di un terzo, o un diritto reale minore
trasmissibile mortis causa (con esclusione, pertanto, dei diritti di usufrutto, di uso e di abitazione,
insuscettibili di cadere in successione perché destinati ad estinguersi con la morte del titolare). L’efficacia
reale del legato, inoltre, si può realizzare in due forme: nei legati traslativi, con il trasferimento di un diritto
appartenente al testatore; con i legati costitutivi, con la costituzione di un nuovo diritto reale, compresi
l’usufrutto, l’uso e l’abitazione, ma con esclusione dell’ipoteca e del pegno.
Tipi particolari di legati Il legislatore individua con disciplina puntuale alcuni tipi di legati: legato di cosa genericamente determinata;
di cosa non esistente nell’asse; da prendersi in un certo luogo; di alimenti; di prestazioni periodiche; di cosa
dell’onerato o di un terzo (legato di cosa solo in parte del testatore, di cosa del legatario, di cosa acquistata
dal legatario); di credito; di debito.
Il legato di cosa genericamente determinata costituisce l’esemplare ipotesi di legato ad efficacia
obbligatoria. Può avere ad oggetto cose determinate soltanto nel genere o una determinata quantità di cose
fungibili; è valido anche se nessuna cosa del genere indicato era nel patrimonio del testatore al tempo del
testamento e nessuna se ne trova all’apertura della successione.
Nel legato di cosa non esistente nell’asse, la cosa particolare, o la cosa determinata soltanto nel genere,
non si trova nel patrimonio del testatore al momento della sua morte: in tal caso, il legato non ha effetto,
salvo che per la quantità che ancora si trova nel patrimonio.
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Il legato di cosa da prendersi da certo luogo ha effetto soltanto se le cose vi si trovano e per la quantità
che vi si trova.
Nel legato di prestazioni periodiche, oggetto del legato sono prestazioni di una somma di denaro o di altre
cose fungibili da prestarsi al beneficiario a termini periodici. Il diritto alle singole prestazioni si acquista
all’inizio di ciascun periodo ed esse diventano esigibili soltanto alla scadenza del termine corrispondente.
Nel legato di alimenti, lo stato di bisogno si impone come condizione di efficacia, la determinazione del
quantum va individuata in proporzione del bisogno del legatario e delle condizioni economiche dell’onerato e
comunque non potrà mai essere superiore a quanto necessario per la vita dell’alimentando. Il testatore può
anche escludere la rilevanza dello stato di bisogno del beneficiario e individuare con precisione l’entità
dell’attribuzione.
Il legato di cosa dell’onerato o di un terzo è valido solo se: la cosa legata, che pure apparteneva ad altri al
momento della confezione del testamento, si trovi in proprietà del testatore al momento della sua morte; se il
testatore sapeva che la cosa non era sua. L’onerato ha l’obbligo di acquistarla e di trasferirla al legatario, ma
può anche liberarsi pagando il giusto prezzo. Questo tipo di legato rientra tra quelle ipotesi di legati che
hanno per oggetto una cosa non appartenente al testatore.
Il legato di cosa solo in parte del testatore si realizza quando al testatore appartiene solo una parte della
cosa legata o un diritto sulla medesima (enfiteusi o superficie). Il legato è valido solo relativamente a questa
parte o a questo diritto, salvo che risulti dal testamento l’intenzione di legare la cosa per intero: in questo
caso, sorge per l’onerato l’obbligo di acquistare dal terzo l’altra parte e di trasferirne la proprietà al legatario.
Per il legato di cosa del legatario occorre distinguere due casi. Il legato di cosa che al tempo in cui fu fatto
il testamento era già di proprietà del legatario è nullo, se la cosa si trova in proprietà di lui anche al tempo
dell'apertura della successione. Al contrario, il legato è valido se, all'apertura della successione, la cosa si
trova in proprietà del testatore, oppure se la cosa si trova in proprietà dell'onerato o di un terzo e dal
testamento risulta che essa fu legata in previsione di tale avvenimento: in questo caso, onerato sarà l’erede.
Nel legato di cosa acquistata dal legatario la cosa oggetto del legato non apparteneva al legatario quando
fu fatto il testamento, ma successivamente è entrata a far parte del suo patrimonio e, al momento
dell’apertura della successione, è ancora in sua proprietà. Il legato è senza effetto qualora il legatario abbia
acquistato la cosa a lui legata dal testatore, oppure abbia acquistato il bene, dall’onerato o da un terzo, a
titolo gratuito. Se, invece, l’acquisto dall’onerato o dal terzo è avvenuto a titolo oneroso, il legatario ha diritto
al rimborso del corrispettivo pagato.
Il legato di credito, o di liberazione da debito, ha per oggetto un credito che il testatore vanti nei confronti
dell’onerato o di un terzo, oppure la liberazione da un debito che il legatario aveva nei confronti del defunto.
Nel primo caso, l’attribuzione potrebbe avere oggetto parziale, cioè per la sola parte del debito che sussiste
al tempo della morte del testatore; nel secondo caso si deve presumere che il legato abbia ad oggetto la
liberazione dai soli debiti esistenti al momento in cui fu fatto il testamento e non da quelli esistenti al
momento dell’apertura della successione. Attraverso la disposizione testamentaria si realizza una
modificazione soggettiva nel lato attivo di un rapporto obbligatorio. Nel legato a favore del creditore, il
testatore, senza fare menzione del debito, fa un legato al suo creditore, ma tale legato non si presume fatto
per soddisfare il legatario del suo credito.
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Il legato di debito si realizza quando il testatore, debitore del legatario, lega un bene di uguale valore: se il
testatore menziona il debito, egli, attraverso una prestazione in luogo di adempimento, soddisfa il credito
dell’onerato ed estingue il suo debito. Il legato di debito è talvolta escluso dal novero delle attribuzioni mortis
causa a titolo particolare perché inidoneo a realizzare un qualsiasi vantaggio patrimoniale per l’onerato, che
infatti attraverso il legato riceve solo quanto a lui dovuto.
Si dice prelegato il legato disposto dal testatore a favore di un coerede e a carico di tutta l’eredità. Il
prelegato, per la sua natura e per il suo carattere preferenziale, è destinato ad avere effetto prima della
divisione della massa ereditaria, tramite prelievo dall’intero relitto. Si ha invece un sublegato quando il peso
del legato è disposto dal testatore a carico di uno o più legatari a favore di persone determinate.
Adempimento del legato Ogni legato deve essere adempiuto: nei legati che abbiano ad oggetto il diritto di proprietà o altro diritto reale
appartenente al testatore l’onerato è obbligato a consegnare il bene nello stato in cui si trova al momento
della morte del testatore; nei legati che abbiano ad oggetto un diritto di credito l’onerato è obbligato a
consegnare i titoli del credito legato che si trovavano presso il testatore.
Normalmente, sono onerati della prestazione del legato gli eredi, ma il testatore può anche porre l’onere a
carico di uno o più eredi oppure di uno o più legatari. Nell’ipotesi di più onerati, il legato grava in proporzione
della rispettiva quota di eredità o del legato. Se la prestazione del legato o altri particolari oneri sono posti a
carico di un legatario (sublegato) costui è tenuto all’adempimento dell’uno e degli altri entro i limiti del valore
della cosa legata.
Varie sono le modalità dell’adempimento. Per l’adempimento dei legati di genere, l’onerato deve
consegnare cose di qualità non inferiori alla media e non potrà liberarsi pagandone il giusto prezzo. Quando
oggetto del legato siano due o più prestazioni determinate e diverse, o quando l’oggetto debba essere
individuato tra due o più cose o tra due o più prestazioni, il legato si dice alternativo. Per l’adempimento dei
legati di specie ad efficacia reale, la cosa con tutte le sue pertinenze deve essere prestata al legatario
nello stato in cui si trova al momento della morte del testatore. Un regime particolare è riservato ai frutti: se
oggetto del legato è una cosa fruttifera appartenente al testatore al momento della sua morte, i frutti e gli
interessi sono dovuti al legatario da questo momento. In caso di legati ad efficacia obbligatoria, e salvo che il
testatore non abbia disposto diversamente, i frutti sono dovuti al legatario dal momento in cui viene proposta
la domanda giudiziale diretta ad ottenere la prestazione del legato, oppure dal giorno in cui la prestazione
del legato sia stata promessa all’onerato. Il legato non ha effetto se la cosa legata è interamente perita
durante la vita del testatore e l’obbligazione dell’onerato si estingue comunque se, dopo la morte del
testatore, la prestazione diventa impossibile per causa a lui non imputabile.
6. Comunione e divisione ereditaria
Nozioni È possibile che gli eredi siano più di una persona e dunque che si prospetti l’ipotesi di una pluralità di
chiamati, anche sulla base di differenziati titoli di delazione, la legge o il testamento. Si crea in tal modo il
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presupposto per la formazione di una comunione ereditaria o coeredità: i beni che costituiscono il
patrimonio spettano in comune ai coeredi.
La comunione ereditaria condivide con la comunione ordinaria il tratto della contitolarità di un diritto, di
proprietà o di altro diritto reale, su beni indivisi. Differisce però dalla comunione ordinaria perché la
comunione ereditaria potrebbe riguardare anche diritti di natura personale, quali i crediti.
Perché si abbia comunione ereditaria è necessario che i soggetti che la costituiscono abbiano tutti la qualità
di eredi del medesimo de cuius. Si tratta dell’ipotesi più significativa di comunione incidentale: essa cioè si
costituisce per un mero fatto giuridico, del tutto indipendente dalla volontà dei singoli partecipanti,
rappresentato dalla pluralità di acquisti, autonomi fra di loro, dei singoli chiamati. Alla comunione ereditaria si
applicano le norme generali sulla comunione ordinaria; per lo scioglimento della comunione ereditaria, però,
vi sono norme particolari, le quali non costituiscono comunque un regime speciale applicandosi, in generale,
a qualsiasi ipotesi di divisione delle cose comuni.
Oggetto L’oggetto essenziale della comunione ereditaria è rappresentato dal diritto di proprietà o da un altro diritto
reale, ma anche dai diritti potestativi a questi collegati, come le azioni preposte alla loro difesa. Per quanto
concerne i diritti di credito, cadono in comunione i crediti che abbiano ad oggetto prestazioni a carattere
indivisibile e che dunque non si dividano automaticamente tra i coeredi in ragione delle rispettive quote. Non
entrano a far parte della comunione i debiti del de cuius. I coeredi contribuiscono tra loro al pagamento dei
pesi e dei debiti ereditari in proporzione delle loro quote ereditarie.
Disciplina In costanza di comunione opera un comune regime di amministrazione e di mero godimento. Ciascun
erede ha diritto di servirsi della cosa comune senza però alterarne la destinazione e in modo tale da
consentire agli altri coeredi di farne parimenti uso. Il singolo coerede può anche alienare uno o più
determinati beni ereditari, oppure la quota ereditaria o parte di essa.
Nel caso di alienazione di beni ereditari, la natura di tale alienazione non è condivisa: coloro che
conferiscono natura dichiarativa all’atto di divisione, infatti, ritengono che l’alienazione in questione sia
sottoposta alla condizione sospensiva che il bene ceduto sia poi attribuito, in sede di divisione, al coerede
che ne ha disposto; coloro che, invece attribuiscono alla divisione natura costitutiva, e dunque efficacia ex
nunc, sostengono che tale alienazione integri la fattispecie di vendita di cosa altrui.
Il singolo coerede può anche alienare la quota ereditaria o parte di essa e, in questo caso, viene in rilievo
l’istituto del retratto successorio. Diversamente da quanto avviene nella comunione ordinaria, il coerede
che intenda alienare ad un estraneo la sua quota ereditaria o parte di essa, deve notificare la proposta di
alienazione agli altri coeredi, i quali hanno un diritto di prelazione, a parità di condizioni, rispetto
all’estraneo. Se la notifica è omessa, ai coeredi spetta il diritto di riscattare (retratto) la quota dall’acquirente
e da ogni successivo avente causa, finché dura lo stato di comunione ereditaria.
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Scioglimento della comunione Poiché la comunione ereditaria è caratterizzata da una istituzionale transitorietà, ciascuno dei coeredi può
in qualunque tempo domandare la divisione, ma l’esercizio del diritto potestativo del singolo coerede a
chiedere lo scioglimento trova limiti volontari e legali. Tra i limiti volontari, vi è la facoltà, riconosciuta al
testatore, di disporre che la divisione non abbia luogo prima che sia trascorso, dalla sua morte, un termine
non eccedente il quinquennio: la divisione potrà effettuarsi qualora gravi circostanze lo richiedano. Tra gli
impedimenti legali ricade invece la previsione per cui se, tra i chiamati alla successione, vi è un concepito,
la divisione non può farsi prima della sua nascita. L’autorità giudiziaria può sospendere la divisione
dell’eredità qualora possa recare notevole pregiudizio al patrimonio ereditario. È poi possibile un patto fra
coeredi di restare in comunione per una durata non superiore ai dieci anni.
Lo scopo della divisione ereditaria è quello di far conseguire a ciascuno dei coeredi, in denaro o in natura,
una quantità di beni corrispondenti alle quote loro spettanti; può avere forma contrattuale o giudiziale. La
divisione contrattuale (o amichevole) consiste in un contratto col il quale i coeredi procedono alla
ripartizione fra loro dei beni già facenti parte della comunione. La divisione è annullabile quando costituisce
effetti di violenza o dolo, non lo è a causa di errore; l’azione di annullamento non è proponibile se il coerede
abbia alienato i beni che gli sono assegnati. Il contratto di divisione è rescindibile per la lesione patita da uno
dei coeredi per oltre un quarto di quanto a lui sarebbe spettato, purché vi sia l’inesatta valutazione dei cespiti
componenti la quota di uno dei condividenti.
La divisione giudiziale presuppone un disaccordo fra coeredi sull’individuazione o sull’attribuzione dei
cespiti ereditari corrispondenti alle quote che loro spettano. Il procedimento prevede la formazione della
massa dei beni che deve essere divisa e la formazione e assegnazione delle porzioni. In tale contesto si
provvede all’imputazione dei debiti e alla collazione delle donazioni.
Si ritiene che la divisione abbia natura dichiarativa e di mero accertamento e che abbia efficacia retroattiva
a far tempo dall’apertura della successione. Altri, però, attribuiscono allo scioglimento della comunione
natura costitutiva ad efficacia ex nunc, ossia un atto tipicamente dispositivo perché diretto a provocare la
trasformazione di una situazione di contitolarità in situazioni di titolarità solitaria.
Formazione delle porzioni e assegnazione delle quote La divisione presuppone una precisa definizione dello stato attivo e passivo dell’eredità: si devono cioè
individuare i beni che debbono essere attribuiti ai singoli coeredi in ragione delle loro quote e si debbono
eliminare le passività attraverso il pagamento dei debiti che gravano l’eredità. La formazione delle porzioni
può dunque essere preceduta da una serie di operazioni, il cui quadro riassuntivo è cosi tracciato:
liquidazione delle passività che gravano sull’asse ereditario ed eventuale vendita dei beni per il
pagamento dei debiti ereditari, in caso di insufficienza di denaro liquido; resa dei conti; collazione.
Per ciò che attiene al pagamento dei debiti ereditari, i coeredi debbono contribuire tra loro in proporzione
delle loro quote, salvo che il testatore non abbia diversamente disposto. Alla formazione delle porzioni si
procede dopo aver effettuato la stima di ciò che rimane della massa. L’ineguaglianza in natura delle quote si
compensa con un equivalente in denaro. L’assegnazione delle porzioni uguali è fatta per estrazione a sorte; per quelle diseguali si procede mediante attribuzione.
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La resa dei conti fra i coeredi consiste nel verificare se dalla gestione dei beni ereditari siano sorti fra i
coeredi rapporti obbligatori per i frutti percepiti, le spese sostenute o le migliorie apportate. Il rendiconto è
necessario per la formazione dello stato attivo e passivo del patrimonio.
La collazione ha la funzione di riequilibrare la posizione di alcune categorie di coeredi. Quei coeredi che
abbiano ricevuto donazioni dal de cuius, hanno l’obbligo di conferire agli altri quanto già conseguito, ossia di
aggiungere il donato al relitto al fine di formare una sola massa ereditaria. I soggetti tenuti alla collazione
sono i figli, i loro discendenti leggimi e naturali ed il coniuge che concorrono alla successione. L’oggetto del conferimento è rappresentato da tutto ciò che i coeredi abbiano ricevuto dal defunto per donazione, nonché
quanto il defunto abbia speso a favore dei suoi discendenti. Nell’ipotesi di donazione modale, se
l’adempimento del modus riduce il valore di quanto donato, la collazione opererà nei limiti di quel valore. Il
coerede può essere dispensato dal conferimento attraverso una clausola contenuta nello stesso atto di
donazione o nel testamento; la dispensa, però, non avrà effetto se non nei limiti della quota disponibile, non
potendo essere violate le norme poste a tutela dei legittimari. Non è soggetto a collazione quanto ricevuto
dai contraenti di un patto di famiglia, né sono soggette a collazione le donazioni di modico valore. La
collazione si attua in natura o per imputazione: nel primo caso ciò che fu donato viene effettivamente
rimesso nella massa ereditaria; nel secondo, è invece il valore di ciò che fu donato ad essere computato a
carico del donatario-coerede in conto della sua quota di eredità.
Divisione fatta dal testatore Il testatore può direttamente procedere alla divisione dei suoi beni fra gli eredi. Ciò non comporta lo
scioglimento della comunione, perché la distribuzione dei beni opera all’apertura stessa della comunione. Se
nella formazione delle porzioni è omessa l’indicazione di alcuni beni, questi vengono attribuiti secondo le
regole della successione legittima. Se il testatore ignora un legittimario (legittimario pretermesso) la divisione
è nulla. Il coerede leso nella quota di riserva può esercitare l’azione di riduzione. Il testatore può anche
dettare norme per la composizione delle porzioni e tali indicazioni sono vincolanti per gli eredi.
IV. TUTELA DEI DIRITTI
1. Prescrizione e decadenza
Decorso del tempo e l’ordinamento Il trascorrere del tempo influisce sulla formazione, sulle vicende e sulla sorte di istituti e rapporti previsti
dall’ordinamento giuridico. La rilevanza del tempo si riscontra in due ipotesi fondamentali: l’acquisto a titolo
originario del diritto di proprietà e dei diritti reali di godimento per usucapione (o per prescrizione
acquisitiva), quando con il decorso del tempo concorrano altri elementi come il possesso; la perdita del
diritto per prescrizione estintiva, cioè per il mancato esercizio protratto per un periodo di tempo stabilito
dalla legge, o per decadenza.
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Prescrizione estintiva Per regola generale, ogni diritto si estingue per prescrizione quando ricorrono i seguenti requisiti: il
mancato esercizio del diritto da parte del titolare per il tempo stabilito dalla legge; l’eccezione sollevata
dalla parte direttamente interessata ad ottenere la dichiarazione di estinzione del diritto. Il fondamento di
simile regola è ravvisato, per i diritti di credito, nella tutela di un interesse meritevole di protezione secondo
l’ordinamento, quello cioè di impedire che il libero esercizio del diritto di credito, protratto illimitatamente nel
tempo, costringa il debitore in una situazione passiva intollerabile quanto al comportamento dovuto, o renda
difficile la proponibilità delle eccezioni avverso la pretesa avversaria. Alla base della prescrizione di possono
intravedere esigenze di ordine pubblico.
Le norme che disciplinano la prescrizione sono inderogabili. Le parti non possono stipulare accordi
finalizzati ad abbreviare o prolungare i termini di prescrizione stabiliti dalla legge. Non è possibile neppure
rinunciare, in via preventiva, ai termini di prescrizione, mentre, una volta che il termine sia maturato, la parte
alla quale la prescrizione giova può rinunciare a farla valere.
Nei rapporti obbligatori, la legittimazione ad opporre la prescrizione spetta al debitore, ma, in caso di sua
inerzia, può essere opposta dai creditori di quest’ultimo e da chiunque vi abbia interesse. Decorso il termine
di prescrizione, tuttavia, il debitore non solo può non eccepire la prescrizione, ma può anche adempire la
prestazione dovuta. Una volta intrapresa la libera via dell’adempimento, non gli è riconosciuto un ius
poenitendi: il debitore adempiente non può pretendere in restituzione ciò che è stato spontaneamente
adempiuto in forza di un debito prescritto. Solo se la prestazione è eseguita dopo che l’eccezione di
prescrizione è stata proposta, il fenomeno può essere ricondotto all’ambito delle obbligazioni naturali, con
la conseguenza della ripetibilità nel caso in cui l’adempimento non sia stato libero e consapevole.
Alla prescrizione si sottraggono i diritti indisponibili e gli altri diritti indicati come non soggetti a prescrizione
dalla legge. Sono pertanto imprescrittibili i diritti della personalità, il diritto al nome, all’identità personale, il
diritto agli alimenti. È imprescrittibile pure il diritto di proprietà, ma il suo mancato esercizio può ritorcersi a
danno del titolare quando alla sua inerzia si accompagni il possesso del bene da parte di terzi con le
caratteristiche richieste per l’acquisto a titolo originario (per usucapione). Tra i diritti imprescrittibili per
previsione legislative vanno infine ricordati: il diritto all’accertamento della nullità del contratto; il diritto al
riconoscimento della qualità di erede; il diritto del genitore a contestare la legittimità della filiazione. Le
facoltà o i poteri vivono con il diritto e cadono solo con il diritto cui appartengono.
In considerazione delle gravi conseguenze che seguono al decorso del termine di prescrizione, è
importante stabilire sia il giorno a partire dal quale il diritto poteva essere esercitato (dies a quo), sia il giorno
in cui è maturato il termine per la dichiarazione della sua estinzione per prescrizione (dies ad quem). Non
impediscono il decorso del termine di prescrizione gli impedimenti di fatto (ignoranza dell’esistenza del
diritto). I termini di prescrizione sono indicati dalla legge per ogni diritto prescrittibile e, quando il legislatore
non stabilisce un termine specifico di prescrizione, vale la prescrizione ordinaria decennale.
Qualora un diritto, sottoposto ad un termine di prescrizione più breve, sia riconosciuto in capo al titolare con
sentenza di condanna passata in giudicato, è soggetto alla prescrizione di dieci anni: ad esempio, per
effetto del giudicato, il diritto al risarcimento dei danni da fatto illecito, normalmente soggetto alla
prescrizione di cinque anni (due anni per il danno prodotto dalla circolazione dei veicoli), è sottoposto alla
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prescrizione decennale. Se il fatto illecito integra anche gli estremi di un reato, e per il reato è stabilito un
termine di prescrizione più lungo, nello stesso termine si prescrive il diritto al risarcimento in sede civile.
I diritti reali di godimento su cosa altrui si prescrivono per non uso ventennale. Il codice prevede, poi, una
serie di prescrizioni quinquennali, come il diritto del concedente al pagamento dei canoni di locazione e le
annualità delle rendite perpetue o vitalizie; infine, sono previsti termini brevi di prescrizione di uno o due anni con riferimento a taluni diritti.
La legge prevede che, nel computo dei termini di prescrizione, possa verificarsi una sospensione o
un’interruzione. Nella sospensione il tempo eventualmente decorso prima della causa sospensiva dovrà
essere aggiunto a quello trascorso successivamente all’avveramento della stessa causa (cumulo dei tempi).
Le ragioni che impongono la sospensione dei termini di prescrizione attengono a determinati rapporti che
intercorrono tra le parti o alla particolare condizione del titolare del diritto. Quanto ai rapporti personali, il termine di prescrizione è sospeso, in particolare: tra i coniugi; tra chi esercita la patria potestà e le persone
che vi sono sottoposte; tra il tutore e il minore di età o l’interdetto; tra il curatore e il minore emancipato o
l’inabilitato; tra l’erede e l’eredità accettata con beneficio di inventario. Quanto alle ipotesi che si riferiscono
alla condizione del titolare del diritto, il termine di prescrizione rimane sospeso: contro i minori non
emancipati e gli interdetti per infermità di mente; in favore dei militari in servizio in tempo di guerra.
Nell’interruzione, invece, il tempo maturato fino al verificarsi dell’evento perde ogni rilevanza e il termine di
prescrizione riprende a decorrere dopo il fatto interruttivo, secondo l’integrale previsione originaria: segue, in
definitiva, il decorso di un nuovo periodo di prescrizione. Costituisce atto di interruzione, anzitutto, la
notificazione di ogni domanda con la quale il titolare del diritto intraprende un qualsiasi procedimento
giudiziale, di cognizione, conservativo e esecutivo: in questi casi, la prescrizione non corre fino al momento
in cui la sentenza che definisce il giudizio non passa in giudicato. Il termine di prescrizione è inoltre interrotto
da ogni altro atto del creditore (o di soggetto che ne abbia i poteri rappresentativi) che valga a mettere in
mora il debitore. Gli atti interruttivi della prescrizione devono contenere l’esplicitazione di una pretesa
idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto nei confronti
del soggetto passivo, con l’effetto di costituirlo in mora. L’interruzione del termine di prescrizione può avere
la sua causa anche in un atto di riconoscimento del diritto del creditore posto in essere dal debitore. Il
riconoscimento deve concretarsi in una consapevole manifestazione di volontà (riconoscimento espresso), o
in un comportamento che implichi, da parte del debitore, l’ammissione dell’esistenza del proprio debito e del
credito contrapposto (riconoscimento tacito).
Non è assimilabile a quello della prescrizione ordinaria l’istituto della prescrizione presuntiva, perché
questa non si configura come un modo generale di effettiva estinzione dei diritti e, inoltre, attiene solo ai
diritti di credito. Nella disciplina delle prescrizioni presuntive, vengono prese in considerazione figure di diritti
di credito che, nella normalità dei casi, vengono esercitati dal titolare immediatamente, senza dilazioni, o
comunque entro un breve tempo dalla nascita del rapporto obbligatorio. Ciascuna prescrizione presuntiva è
stabilita in termini diversi in dipendenza dall’importanza complessiva del rapporto di debito-credito (i diritti di
credito dell’edicolante, considerati estinti dopo un anno dalla vendita). Il legislatore, nei casi di prescrizione
presuntiva, ha dettato norme specifiche, stabilendo che il termine decorre dalla scadenza del diritto, se si
tratta di retribuzione periodica, o dal compimento della prestazione negli altri casi. Il creditore ha a
disposizione un’unica prova contraria per la dimostrazione del mancato pagamento: il deferimento del
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giuramento decisorio al debitore per accertare se si è verificata o meno l’estinzione del rapporto
obbligatorio. Il creditore, nel proprio interesse, deve esercitare il diritto secondo i tempi considerati come
regola per l’esecuzione del debito da parte dell’ordinamento e, comunque, nei termini della prescrizione
ordinaria. L’impossibilità di avvalersi per qualsiasi ragione della prescrizione presuntiva non esclude la
possibilità di fare ricorso alla prescrizione estintiva, trattandosi di istituti di natura diversa: l’una fondata su
una presunzione di adempimento dell’obbligo da parte del debitore; l’altra sull’oggettiva inerzia da parte del
titolare del diritto. In entrambi i casi, l’eccezione deve essere sollevata dalla parte interessata e il giudice non
può applicare la prescrizione estintiva qualora la parte si sia limitata ad eccepire la prescrizione presuntiva, e
viceversa.
Decadenza I termini prescritti a pena di decadenza non sono diretti all’estinzione del diritto una volta che essi siano
trascorsi, o a stabilire una presunzione (relativa) del suo soddisfacimento, bensì evitare l’eccessiva pendenza nel tempo dei rapporti giuridici. Di qui la necessità che l’esercizio del diritto avvenga entro tempi
determinati e perentori: così, ad esempio, il diritto del possessore ad essere reintegrato nel possesso deve
essere esercitato entro un anno dal sofferto spoglio. Come nella prescrizione estintiva, anche nella
decadenza è l’inerzia del titolare che provoca l’estinzione del diritto.
Le parti possono stabilire convenzionalmente termini di decadenza, ma è prevista la nullità del patto se il
termine concordato rende eccessivamente difficile, a una delle parti, l’esercizio del diritto. Oltre che alle parti,
anche al giudice è data la possibilità di fissare termini di decadenza. La decadenza è, invece, sempre
preclusa per effetto del riconoscimento compiuto dal soggetto contro il quale il medesimo diritto può essere
fatto valere: il diritto sarà allora soggetto alla normativa sulla prescrizione estintiva.
Neanche di comune accordo le parti possono derogare alla disciplina legale sui termini di decadenza se si
tratta di diritti indisponibili o sottratti alla loro disponibilità, né la parte in favore della quale il termine è
previsto può, in tal caso, validamente rinunciarvi. Il giudice, anche in difetto di eccezione della parte
interessata, può rilevare d’ufficio il decorso del termine di decadenza, se trattandosi di materia sottratta alla
disponibilità delle parti, egli debba rilevare le cause di improponibilità dell’azione.
2. Pubblicità
Nozioni Alcune vicende dei soggetti giuridici e dei beni possono interessare la generalità degli individui. Per indicare
quell’insieme di procedimenti attraverso i quali una situazione giuridica, reale o personale, acquista
un’evidenza tale da poter essere conosciuta da chiunque lo voglia o ne abbia interesse, si parla di
pubblicità. Si intende con ciò fare riferimento ad una categoria di istituti disomogenea, il cui dato comune è
costituito unicamente dalla funzione conoscitiva, nei confronti della collettività, di differenti fatti, atti, negozi
giuridici, provvedimenti amministrativi e giudiziari. Una differenza fondamentale deve essere compiuta tra la
pubblicità concernente i soggetti giuridici da quella riguardante i beni.
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Pubblicità relativa alle persone fisiche e giuridiche L’ordinamento garantisce la conoscenza di alcune vicende delle persone fisiche attraverso i registri dello stato civile, tenuti presso ogni Comune. In essi sono compresi i registri di cittadinanza, nascita, matrimonio
e morte. A seconda dell’atto da registrare, l’ufficiale dello stato civile effettua iscrizioni o trascrizioni; gli atti
iscritti o trascritti possono essere oggetto, a loro volta, di annotazioni o rettificazioni. Presso i tribunali sono istituiti i registri delle tutele dei minori e degli interdetti, delle curatele dei minori
emancipati e degli inabilitati, delle amministrazioni di sostegno. Vi è poi il registro delle successioni, in cui
sono registrate le dichiarazioni di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario, le dichiarazioni di
rinunzia all’eredità e i provvedimenti di nomina dei curatori delle eredità giacenti. Infine, presso il tribunale
per i minorenni, sono istituti il registro delle sentenze definitive che dichiarano lo stato di adottabilità e il
registro delle sentenze definitive di adozione.
Presso le Camere di commercio è istituito l’ufficio del registro delle imprese, nel quale sono iscritte le
vicende riguardanti gli imprenditori commerciali.
Pubblicità relativa ai beni Un secondo settore di pubblicità legale è quello che riguarda talune categorie di beni. La categoria più
significativa è quella dei beni immobili, ma sono soggette a pubblicità anche alcuni beni mobili. Tra questi vi
sono gli autoveicoli, iscritti nel Pubblico Registro Automobilistico; i diritti d’autore, per i quali è previsto un
registro pubblico generale di tutte le opere protette dalla legge; i marchi e i brevetti.
Funzioni della pubblicità La funzione di ciascuna forma di pubblicità legale può mutare a seconda del soggetto o del bene sottoposto
a pubblicità. In generale, si tende a riconoscere ad ogni forma di pubblicità una primaria funzione di notizia,
che consiste nel rendere conoscibili determinati eventi o vicende a chiunque ne abbia interesse. In alcuni
casi, tuttavia, la pubblicità assume una funzione costitutiva, nel senso che l’adempimento della formalità
pubblicitaria perfeziona la fattispecie giuridica e determina il sorgere di un diritto o di una situazione giuridica.
Esempi tipici di pubblicità costitutiva sono quello dell’iscrizione ipotecaria e quello dell’iscrizione della società per azioni nel registro delle imprese. La pubblicità assolve, inoltre, ad una naturale funzione probatoria del compimento di determinati atti, i quali attestano determinati accadimenti. Infine, la pubblicità
può avere una funzione dichiarativa quando abbia la finalità di rendere gli atti pubblicati opponibili ai terzi, i
quali assumano la titolarità di diritti in contrasto con quelli sottoposti al regime di pubblicità legale: in questi
casi l’esecuzione della formalità pubblicitaria è configurata dalla legge come un onere, cioè un adempimento
che attribuisce un vantaggio a colui che adempie.
Pubblicità di fatto Il sistema della pubblicità legale si distingue dalla cosiddetta pubblicità di fatto, che ricorre, invece,
quando la legge subordina un determinato effetto giuridico alla diffusione di una certa notizia presso i terzi
con qualunque mezzo idoneo. In questi casi, non sussiste un interesse pubblico alla conoscenza del fatto,
ma il legislatore tutela comunque l’affidamento che i terzi ripongano nei riguardi di una determinata
situazione giuridica: è infatti stabilito che la modificazione o l’estinzione di quella situazione possa essere
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fatta valere nei confronti dei terzi soltanto se questi ultimi siano stati posti in condizione di conoscere la
vicenda modificativa, o estintiva, con qualunque mezzo idoneo. La legge non tipizza gli strumenti cui debba
ricorrere il soggetto che ha l’onere di pubblicizzare la vicenda.
3. Trascrizione immobiliare
Funzioni e natura giuridica Per i beni immobili la legge assicura un sistema di pubblicità legale di numerose vicende giuridiche che li
riguardano. In questo ambito, la trascrizione ha una funzione di pubblicità-notizia: di tali notizie, chiunque
può acquisire conoscenza mediante la consultazione dei registri immobiliari, la cui cura è affidata ad un
pubblico ufficiale, il Conservatore dei Registri Immobiliari, presso le Agenzie del Territorio.
La trascrizione costituisce anche uno strumento di tutela del soggetto che, a qualunque titolo, acquisti un
diritto su beni immobili e intenda opporre ai terzi le situazioni giuridiche di cui è titolare: in questo caso, la
trascrizione ha una funzione dichiarativa. La trascrizione di un atto da cui derivi l’acquisto di un diritto
consente al titolare di far valere il diritto nei confronti di chiunque affermi la titolarità del medesimo diritto, o di
altro diritto incompatibile, sulla base di un altro atto, che non risulti anteriormente trascritto.
La trascrizione non costituisce un obbligo, bensì un onere, ossia un comportamento necessario per il
conseguimento di un vantaggio che, in questo caso, consiste nell’opponibilità ai terzi dell’atto trascritto. Essa
o non vale a sanare gli eventuali vizi da cui l’atto trascritto sia eventualmente viziato: se chi ha trasferito il
diritto non era titolare del diritto stesso, l’avente causa non acquisterà alcun diritto. Tuttavia, la trascrizione di
un atto viziato non è irrilevante: vi sono casi in cui la trascrizione si pone, insieme ad altri requisiti, come
elemento costitutivo dell’acquisto di quel diritto. Così, la trascrizione di una compravendita immobiliare non
vale a trasferire il diritto di proprietà in favore dell’acquirente, se il dante causa non era proprietario del bene
compravenduto; se, invece, l’acquirente era in buona fede al momento dell’acquisto e il trasferimento è
avvenuto sulla base di un titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà, l’acquirente stesso conseguirà
a titolo originario la proprietà di quel bene decorsi dieci anni dalla trascrizione di quell’atto di acquisto, salvo
che, in detto periodo, l’effettivo proprietario del bene non agisca per rivendicare la titolarità del diritto.
La trascrizione ha funzione costitutiva con riferimento ai vincoli di indisponibilità di beni immobili derivanti
da sequestro o pignoramento: dopo la trascrizione del provvedimento giudiziario di sequestro o dell’atto di
pignoramento, i successivi atti di alienazione del bene sequestrato o pignorato sono inopponibili al creditore.
Infine, alla trascrizione si può attribuire una funzione sanante, nel senso che devono essere a loro volta
trascritti le domande dirette a far dichiarare la nullità o l’annullamento di atti soggetti a trascrizione.
Struttura della trascrizione e principio di continuità La trascrizione immobiliare ha base personale: essa si compie, cioè, in relazione ai soggetti, e non
all’oggetto, dell’atto giuridico da trascrivere. Nelle province autonome di Trento e Bolzano, invece, la
trascrizione è a base reale, ossia è strutturata in relazione al bene immobile di cui si voglia accertare la
relativa titolarità dei diritti reali.
Nel sistema a base personale, ogni atto risulta trascritto contro colui che dispone del diritto e in favore del
soggetto che lo acquista. Ad ogni trascrizione a carico di un soggetto deve corrispondere una trascrizione in
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favore di altro soggetto e tale meccanismo non ammette salti. Per il principio della continuità delle trascrizioni, infatti, quando un atto di acquisto è soggetto a trascrizione, le successive trascrizioni o
iscrizioni a carico dell’acquirente non producono effetto se non è stato trascritto l’atto anteriore di acquisto.
La trascrizione svolge dunque la sua efficacia dichiarativa nei confronti dei terzi quando l’atto risulti
sostenuto da un’ininterrotta catena di trascrizioni, che leghi ciascun dante causa al suo avente causa e così
via. Pertanto, la trascrizione non ha efficacia costitutiva del diritto sancito nell’atto e non può mai tenere
luogo del regime sostanziale di appartenenza del diritto. La continuità delle trascrizioni è condizione
necessaria per rendere opponibile ai terzi la trascrizione di un atto, ma non sufficiente a dimostrare in ogni
caso l’effettiva appartenenza sostanziale del diritto a colui in favore del quale sia compiuta per ultimo la
trascrizione di un acquisto. Nonostante il rispetto della continuità delle trascrizioni, è possibile, infatti, che
colui che risulti formalmente titolare del diritto sulla base dei registri immobiliari, non sia l’effettivo titolare di tale diritto: in primo luogo, può accadere che l’avente causa dell’ultimo titolo trascritto abbia
compiuto un atto di disposizione che non sia stato trascritto; in secondo luogo, potrebbe essersi verificato un
acquisto a titolo originario (usucapione) che non sia stato ancora accertato con un atto (ad esempio, una
sentenza) soggetto a trascrizione.
Doppia alienazione immobiliare Quando un soggetto pone in essere due successivi atti di disposizione relativi allo stesso bene immobile, per
il principio dell’efficacia traslativa del contratto si dovrebbe dedurre che l’atto dispositivo posteriore sia
inefficace: il diritto stesso, infatti, è trasferito all’acquirente per effetto del consenso delle parti, per cui
l’originario titolare del diritto non può disporre di un diritto già trasferito. Tuttavia, in caso di doppia alienazione immobiliare, è previsto che la trascrizione rende l’acquisto opponibile anche nei confronti del
precedente acquirente che non abbia ancora trascritto il suo titolo: il conflitto tra i due acquirenti è così risolto
sulla base della priorità della trascrizione del titolo, con la conseguenza che, se colui che ha acquistato per secondo esegue per primo la trascrizione, il suo acquisto prevale su quello del primo acquirente,
in deroga al principio dell’efficacia traslativa del contratto.
All’atto della seconda alienazione, il dante causa agisce a non domino. Occorre confrontare la doppia
alienazione mobiliare con quella immobiliare: nel primo caso, se taluno con successivi contratti aliena a più
persone un bene mobile, quella tra esse che ne acquistato in buona fede il possesso è preferita alle altre,
anche se il suo titolo è di data posteriore; nel secondo caso, l’elemento risolutore non è il possesso, che
rappresenta l’unica forma di pubblicità per i beni mobili, ma la trascrizione.
Il primo acquirente non può ricorrere a rimedi restitutori, quali l’azione di nullità della seconda alienazione per
illiceità causale, dovuta a mala fede oggettiva o a frode. La giurisprudenza, però, ha talvolta ammesso
l’azione revocatoria della seconda alienazione, a tutela del credito risarcitorio vantato dal primo acquirente
nei confronti dell’alienante.
Atti soggetti a trascrizione Gli atti soggetti a trascrizione sono espressamente e tassativamente elencati dalla legge. Avendo la
disciplina della trascrizione natura di ordine pubblico, le relative norme non sono suscettibili di applicazione
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e analogica. L’elencazione riguarda non il tipo di atto (compravendita, donazione), bensì l’effetto prodotto dall’atto (trasferimento della proprietà).
Gli atti soggetti a trascrizione possono essere suddivisi tra atti aventi effetti reali e atti aventi effetti
obbligatori. Gli atti aventi effetti reali per i quali è prevista la trascrizione sono: i contratti che trasferiscono
la proprietà di beni immobili; costituiscono, trasferiscono o modificano i diritti reali minori; costituiscono la
comunione dei diritti reali; i provvedimenti giudiziari che producono i medesimi effetti reali, come quelli in
conseguenza dell’esecuzione forzata; alcuni atti giuridici unilaterali, tra cui gli atti tra vivi di rinuncia a un
diritto reale e gli atti di affrancazione del fondo enfiteutico. Si sottopongono a trascrizione anche i contratti
che costituiscono la comunione dei diritti reali e le divisioni che hanno per oggetto beni immobili. Quando
l’acquisto di diritti reali avviene mortis causa, si devono trascrivere l’accettazione dell’eredità che importi
l’acquisto della proprietà e dei diritti reali minori (o la liberazione dai medesimi diritti) e l’acquisto del legato
che abbia lo stesso oggetto.
Tra gli atti aventi effetti obbligatori, devono essere trascritti: i contratti di locazione di beni immobili che
hanno durata superiore a nove anni; i contratti di società e di associazione; i contratti di anticresi; i contratti
preliminari.
Sfuggono alla classificazione relativa alla natura reale o obbligatoria: gli atti che imprimono sui beni immobili
particolari vincoli, a seguito di sequestro, pignoramento o cessione dei beni ai creditori; la costituzione del
fondo patrimoniale, se avente ad oggetto beni immobili, e le convenzioni matrimoniali che escludono beni
immobili dalla comunione tra coniugi; gli atti e i provvedimenti di scioglimento della comunione legale.
Infine, è previsto un sistema di pubblicità anche relativamente ad alcuni beni mobili, e cioè alle navi, agli
aeromobili e agli autoveicoli: la trascrizione è a base reale e anche per tali beni vale il principio di continuità
delle trascrizioni.
Trascrizione delle domande giudiziali Gli effetti giuridici in relazione ai quali la legge prevede la trascrizione di atti e provvedimenti possono essere
oggetto di controversie giudiziarie. Può accadere, ad esempio, che il contratto di compravendita di un
bene immobile non sia esattamente adempiuto dall’acquirente (che non paghi il prezzo pattuito) e che, a
causa di ciò, il venditore agisca per la risoluzione del contratto: in tal caso, l’eventuale accoglimento della
domanda giudiziale di risoluzione determina l’estinzione ex tunc dell’effetto traslativo. Tuttavia il compratore
inadempiente, qualora abbia trascritto il suo titolo di acquisto, risulta rispetto ai terzi come effettivo
proprietario del bene e, dunque, potrebbe alienare il bene stesso ad un terzo (subacquirente) ignaro della
controversia. Il legislatore ha allora previsto la trascrizione di domande giudiziali riguardanti alcuni atti
soggetti a trascrizione, così da portare a conoscenza dei terzi l’esistenza delle controversie giudiziarie.
La sentenza che, accogliendo la domanda di risoluzione del contratto di compravendita immobiliare, rimuova
l’efficacia del titolo traslativo, può, sin dalla data di trascrizione della domanda, essere opposto ai terzi che abbiano eventualmente acquistato diritti dal convenuto. La funzione della trascrizione della domanda
giudiziale è quella di una prenotazione degli effetti della sentenza. La trascrizione della domanda
giudiziale conserva il suo effetti per venti anni dalla sua data. Le domande giudiziali soggette a trascrizione
sono previste dal codice in maniera tassativa.
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In alcune ipotesi, l’unico dato rilevante è costituito dalla trascrizione della domanda: gli effetti della sentenza
sono opponibili soltanto ai terzi che abbiano acquistato diritti in base a un atto trascritto o iscritto
successivamente alla trascrizione della domanda giudiziale; coloro che, invece, abbiano acquistato un
diritto (ipoteca) in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda giudiziale,
non saranno lesi dalla sentenza che definisca la controversia tra il proprio dante causa e la controparte di
quest’ultimo. Rientrano in questa categoria: le domande di risoluzione del contratto, della disposizione
testamentaria, della donazione, per inadempimento dell’onere; le domande di rescissione; le domande di
revocazione delle donazioni; la domanda di esecuzione specifica dell’obbligo a contrarre.
In altri casi, l’anteriorità della trascrizione o iscrizione del titolo costitutivo del diritto non è sufficiente al
terzo per opporre il suo acquisto a colui che abbia trascritto una domanda giudiziale: occorre, altresì, che il
terzo abbia acquistato in buona fede. In questi casi la sentenza che accoglie la domanda pregiudica sia i
diritti acquistati dai terzi in mala fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della
domanda, sia i diritti comunque acquistati dai terzi in base a un atto trascritto o iscritto successivamente alla
trascrizione della domanda. Ricade in questa ipotesi la domanda diretta all’accertamento della simulazione
di atti soggetti a trascrizione.
In altre ipotesi, è rilevante, oltre alla condizione soggettiva di buona fede dell’acquirente, la natura onerosa
o gratuita del titolo: alle ragioni del terzo che, pur in buona fede, abbia acquistato a titolo gratuito, la legge
privilegia l’interesse di colui che, mediante l’impugnazione del titolo del dante causa, mira a evitare un
pregiudizio alla propria sfera patrimoniale. L’ipotesi riconducibile a questa categoria è la trascrizione delle
domande di revoca degli atti soggetti a trascrizione, che siano stati compiuti in pregiudizio dei creditori.
Vi sono, infine, ipotesi nelle quali la legge attribuisce rilevanza al tempo trascorso dalla trascrizione dell’atto
impugnato fino alla trascrizione della domanda giudiziale. Ad esempio, qualora la trascrizione della prima
compravendita (affetta da nullità) sia anteriore di oltre cinque anni rispetto alla trascrizione della domanda
diretta a farne dichiarare la nullità, la trascrizione del secondo atto di acquisto, purché il terzo abbia
acquistato in buona fede, sana ogni vizio di inefficacia rendendo definitivamente in opponibile al terzo
acquirente la nullità del precedente titolo. Con riferimento a quest’ipotesi, si parla di trascrizione con funzione sanante. Alle domande di nullità il legislatore ha equiparato le domande di annullamento per
incapacità legale e quelle dirette a impugnare la validità della trascrizione.
La cancellazione della trascrizione delle domande giudiziali è eseguita: quando è debitamente consentita
dalle parti interessate; quando è ordinata giudizialmente con sentenza passata in giudicato.
Trascrizione del contratto preliminare Un’importante previsione riguarda la trascrizione dei contratti preliminari aventi ad oggetto la conclusione
dei contratti che trasferiscono la proprietà dei beni immobili, o che costituiscono, modificano o trasferiscono
diritti reali minori sui beni immobili. Per effetto di una recente modifica legislativa (30/1997), tali contratti
possono essere trascritti anche quando sottoposti a condizione o sono relativi a edifici da costruire o in
corso di costruzione.
Gli effetti della trascrizione del contratto preliminare sono tuttavia sottoposti a termine: essi si considerano
come mai prodotti se entro un anno dalla data convenuta tra le parti per la conclusione del contratto
definitivo, e in ogni caso entro tre anni dalla trascrizione predetta, non sia eseguita la trascrizione del
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contratto definitivo, o di altro atto che costituisca comunque esecuzione del contratto preliminare o della
domanda giudiziale.
Dati questi requisiti, la trascrizione del contratto preliminare prevale sulle successive trascrizioni o iscrizioni:
secondo la tesi prevalente, la funzione della trascrizione del preliminare è quella di prenotazione degli effetti
del contratto definitivo. La cancellazione della trascrizione dei contratti preliminari si deve eseguire quando
sia debitamente consentita dalle parti interessate, oppure quando sia ordinata giudizialmente con sentenza
passata in giudicato.
In caso di mancata esecuzione del contratto preliminare, la normativa previgente prevedeva che il
promissario acquirente maturava un credito meramente chirografario alla restituzione delle somme versate al
promittente venditore. Per effetto successiva modifica legislativa, invece, i crediti del promissario acquirente,
che abbia trascritto il preliminare, hanno privilegio speciale su bene immobile oggetto del contratto
subordinato alla condizione che gli effetti della trascrizione siano ancora in atto al momento in cui si
verificano gli eventi che costituiscono la causa del credito. Il privilegio speciale del promissario acquirente
soggiace al principio di prevalenza della precedente trascrizione: se il contratto preliminare risulti trascritto
successivamente all’ipoteca, il credito garantito da quest’ultima prevarrà sul credito del promissario
acquirente conseguente alla mancata esecuzione del preliminare. Infine, la trascrizione del contratto
preliminare, nell’ipotesi di fallimento del promittente venditore, consente al promissario acquirente il diritto
all’esecuzione del contratto e alla stipula del contratto definitivo, purché avente ad oggetto un immobile, e il
privilegio sulle somme dovute in restituzione.
Trascrizione dell’atto di destinazione patrimoniale È prevista la trascrizione degli atti in forma pubblica con cui beni immobili o mobili registrati sono destinati
alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela, riferibili, in particolare, a persone con disabilità, a
pubbliche amministrazioni o ad altri enti e persone fisiche. Il legislatore ha inteso consentire che ad una
specifica destinazione di beni possa conseguire un effetto di segregazione patrimoniale, nel senso che i
beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e
possono costituire oggetto di esecuzione solo per debiti contratti per tale scopo. È stata dettata una sorta di
norma in bianco, che consente a ciascuno di stabilire che propri beni possano essere utilizzati per
realizzare determinati interessi meritevoli di tutela.
La norma prevede dunque che possano essere trascritti i vincoli di destinazione stipulati con atto pubblico.
Dopo la trascrizione, i creditori per titolo inerente allo scopo della destinazione possono aggredire soltanto i
beni destinati e non potranno agire sugli altri beni appartenenti al soggetto che ha contratto l’obbligazione
nei loro confronti. Il vincolo di destinazione non può essere superiore ai novanta anni o alla durata della vita
del beneficiario. La funzione della trascrizione è di tipo costitutivo.
Trascrizione degli acquisti a titolo originario La trascrizione non incide sulla titolarità del diritto: nonostante le risultanza dei registri immobiliari, può infatti
accadere che un bene immobile sia acquistato a titolo originario (usucapione) da un soggetto diverso dal
formale intestatario e che, in mancanza di trascrizione di detto acquisto, i terzi ignorino che l’attuale
proprietario del bene è soggetto diverso da colui che tale risulti sulla base della catena ininterrotta delle
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trascrizioni. In tal caso, l’acquisto a titolo originario, per quanto non trascritto, prevale anche sui successivi
acquisti a titolo derivativo, computi dai terzi che abbiano contrattato con colui che appariva proprietario dai
registri immobiliari.
Si devono tuttavia trascrivere le sentenze da cui il diritto di proprietà e i diritti reali minori risultino estinti per
prescrizione o acquistati per usucapione. La norma si riferisce alle sentenze dichiarative del diritto reale, la
cui trascrizione ha la sola funzione di pubblicità-notizia. Anche in difetto dell’accertamento giudiziale
dell’acquisto a titolo originario non può escludersi, peraltro, che il proprietario a titolo originario abbia facoltà
di disporre del suo diritto in favore di un terzo, il quale possa trascrivere il suo acquisto.
Procedimento Si può procedere a trascrizione soltanto sulla base di un titolo costituito da una sentenza o da un atto
pubblico a scrittura privata autenticata. Il procedimento si diversifica a seconda che sia richiesta la
trascrizione di un atto tra vivi o di un acquisto a causa di morte: se l’atto da trascrivere è un atto tra vivi, chi
domanda la trascrizione deve presentare al conservatore dei registri immobiliari la copia del titolo e la
cosiddetta nota di trascrizione, contenente i dati relativi alle parti, il titolo di cui si chiede la trascrizione, la
natura e la situazione dei beni a cui si riferisce il titolo; nel caso di acquisto a causa di morte devono essere
presentati, in aggiunta, i documenti che attestano la legittimazione successoria del richiedente.
Il legislatore ha introdotto l’istituto della trascrizione o iscrizione con riserva, che il conservatore esegue,
su istanza della parte richiedente, qualora emergano gravi e fondati dubbi sulla trascrivibilità di un atto. Una
volta ottenuta la trascrizione con riserva, la parte a favore della quale è stata eseguita la formalità deve
proporre reclamo. Per gli eventuali danni cagionati dal conservatore, risponde il Ministero delle Finanze.
4. Tutela giurisdizionale dei diritti e prova dei fatti giuridici
Tutela giurisdizionale dei diritti e autotutela Il diritto di rivolgersi al giudice, ossia di agire in giudizio per la difesa dei propri diritti e interessi legittimi, è
riconosciuto e garantito come diritto inviolabile: con il processo si perviene alla soluzione delle controversie (o liti) che possono sorgere tra soggetti portatori di interessi in fatto contrastanti, attraverso
l’accertamento delle reciproche posizioni e la fissazione della norma di diritto applicabile al caso di
specie. Viceversa, la cosiddetta autotutela, ossia la possibilità concessa al soggetto di opporsi ad un altrui
fatto lesivo o pericoloso con un proprio comportamento, senza che sia necessario ricorrere all’autorità
giudiziaria, è ammessa solo in via eccezionale, essendo vietata la possibilità di farsi ragione da sé (legittima
difesa). La soluzione della lite, ma con esclusione delle controversie relative a diritti indisponibili, può
comunque essere deferita dalle parti a giudici privati, ossia ad arbitri: l’arbitrato rituale si chiude con una
decisione che prende il nome di lodo arbitrale, il quale, una volta dichiarato esecutivo dal tribunale, ha
l’efficacia di una sentenza; l’arbitrato irrituale si conclude invece con un lodo contrattuale, cui si
attribuisce comunemente la natura di un contratto di transazione.
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Principio dispositivo e onere della prova Il processo civile è dominato dal principio dispositivo, in base al quale la tutela giurisdizionale dei diritti è
lasciata all’iniziativa dei relativi titolari e solo eccezionalmente a quella del pubblico ministero o del giudice:
sono dunque le parti che hanno interesse a promuovere il giudizio e il processo è ad iniziativa di parte. Il
giudice che pronunciasse oltre o al di fuori delle richieste formulate dalle parti, salvi i casi di rilevabilità di
ufficio, violerebbe il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
Per agire in giudizio è necessario avere un interesse, per cui la pronunzia richiesta al giudice dovrà essere
di qualche utilità per colui che assume l’iniziativa giudiziale, che si dice legittimato all’azione. I diritti, inoltre,
devono essere provati: la prova è oggetto di un onere, che incombe su chi vuole fare valere un diritto in
giudizio o su chi intenda opporsi alle richieste avanzate da altri nei suoi confronti. Chi vuol far valere un
diritto in giudizio deve provare i fatti costitutivi, ossia i fatti che costituiscono il fondamento di un diritto; colui
contro il quale il diritto è fatto valere dovrà provare i cosiddetti fatti impeditivi, modificativi o estintivi tramite la proposizione di apposite eccezioni. È stato introdotto il principio di non contestazione, per cui il giudice può porre a fondamento della
decisione, oltre alle prove proposte dalle parti o del pubblico ministero, anche i fatti non specificatamente
contestati dalla parte costituita in giudizio. La ripartizione dell’onere della prova può inoltre essere modificata
dalla legge, che può dispensare chi agisce in giudizio dalla necessità di dover provare i fatti costitutivi del
diritto fatto valere: è il caso delle presunzioni legali relative. La ripartizione dell’onere della prova può
anche essere modificata anche dalle stesse parti, in via preventiva, a condizione che tali accordi pattizi
riguardano solo diritti disponibili e che non rendano ad una delle parti eccessivamente difficile l’esercizio del
suo diritto.
Mezzi di prova: funzione e gerarchia I mezzi di prova hanno la caratteristica della tipicità, ma è stata ammessa la possibilità dell’ingresso di
prove atipiche nel processo. I mezzi di prova sono oggetto di classificazioni secondo diversi criteri: rispetto
alla loro preesistenza sopravvenienza nel processo si distinguono le prove precostituite (prova
documentale) alle prove costituende (ispezione), che devono invece essere formate nel processo; a
seconda che i mezzi di prova rappresentino fatti o siano il riflesso di ragionamenti si distinguono le prove storiche dalle prove logiche. In ogni caso, il principio fondamentale è quello del libero convincimento del
giudice in ordine alle prove assunte nel processo, che il giudice deve valutare secondo il suo prudente apprezzamento. La legge può però disporre diversamente, vincolando il giudice a ritenere per verificati i fatti
come risultati da determinate prove: in questi casi, il giudice tenuto a prendere atto delle loro risultanze, nel
senso che questi mezzi fanno piena prova. Al riguardo si parla di prove legali, per indicare che la
valutazione di attendibilità delle risultanze probatorie è compiuta a priori dalla legge, che preclude una
considerazione discrezionale da parte del giudice rispetto all’efficacia da assegnare alla prova (verità legale
del fatto). Hanno valore di prova legale l’atto pubblico, la scrittura privata autenticata, il documento informatico sottoscritto con firma digitale o con firma elettronica qualificata, la confessione e il
giuramento. Sono invece valutate liberamente la scrittura privata non autenticata, il documento informatico sottoscritto con firma elettronica, la testimonianza, per i quali si parla di prova libera.
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Prova documentale Costituisce documento qualunque oggetto capace di fornire la rappresentazione di un fatto, come uno
scritto, una fotografia, una registrazione. Tra le prove documentali, si distinguono l’atto pubblico, la scrittura
privata e il documento informatico, definito dal codice dell’amministrazione digitale.
L’atto pubblico è il documento redatto con le richieste formalità da un notaio o da altro pubblico ufficiale
autorizzato ad attribuire all’atto pubblica fede. L’atto pubblico fa piena prova: della provenienza del
documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato; delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il
pubblico ufficiale attesta essere avvenuti alla sua presenza o essere stati da lui compiuti. La particolare
efficacia probatoria dell’atto pubblico viene meno solo con la proposizione della querela di falso, con la
quale si intende dimostrare che il documento non ha la forza certificativa indicata, perché redatto in maniera
non veritiera o perché successivamente alterato.
La scrittura privata è un documento non redatto da pubblico ufficiale ma formato privatamente. Il problema
principale che si pone rispetto ad essa è quello di accertare la genuinità della sottoscrizione. Questo si
verifica quando: la scrittura privata è riconosciuta dal suo autore; la scrittura privata è legalmente
considerata come riconosciuta; si è proceduto ad un giudizio di verificazione. In tali casi la scrittura privata fa
piena prova.
Nel documento informatico la funzione svolta dalla sottoscrizione prevista per gli atti redatti in forma scritta
su supporto cartaceo è sostituita: dall’apposizione della firma elettronica qualificata, della firma digitale e
della firma elettronica.
Prova testimoniale La prova testimoniale consiste in una dichiarazione resa davanti al giudice, secondo specifiche modalità
stabilite dal codice di procedura civile, da un terzo estraneo alla lite e non avente interesse nella causa circa
fatti rilevanti per il giudizio di cui lo stesso abbia avuto diretta conoscenza. La dichiarazione del terzo, riferita
sotto giuramento, costituisce una dichiarazione di scienza, che non deve contenere apprezzamento o
valutazioni soggettive.
L’ordinamento pone all’ammissibilità della prova testimoniale numerosi limiti. Un primo limite riguarda la
natura dei fatti da provare: non è ammessa la prova testimoniale dei contratti, né di due fatti estintivi
dell’obbligazione, ossia il pagamento e la remissione del debito.
Una seconda categoria di limitazioni concerne l’ipotesi in cui, di fronte al contenuto di un documento, si
intendano provare, a mezzo testimoni, patti aggiunti o contrari. A questo riguardo, la disciplina diverge a
seconda che tali patti risultino antecedenti o contemporanei oppure successivi alla formazione del
documento: nel primo caso, il divieto della prova testimoniale è assoluto; nel secondo caso, invece, è
consentito l’intervento permissivo del giudice se appare verosimile che siano state fatte aggiunte o
modificazioni verbali. La prova testimoniale è però ammessa in ogni caso se: vi è un principio di prova per
iscritto; il contraente è stato nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta; il contraente
ha perduto senza sua colpa il documento che gli forniva la prova.
Un terzo ordine di limiti della prova testimoniale riguarda i contratti che esigono la forma scritta a pena di
nullità o che per legge o per volontà delle parti devono essere provati per iscritto: in tali casi l’unica
possibilità di ricorrere alla prova testimoniale è quella di dimostrare in giudizio la perdita incolpevole del
103
documento. Le limitazioni concernenti la prova testimoniale valgono solo per le parti, non già per i terzi,
rispetto ai quali il contratto tra altri intercorso è un fatto che essi possono liberamente dimostrare, come
accade per la simulazione.
Presunzioni Nell’elenco dei mezzi di prova il codice include le presunzioni, definite come le conseguenze che la legge o
il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto. Le presunzioni si dicono legali quando siano
stabilite dalla legge con regole ritenute speciali, non suscettibili dunque di applicazione analogica; si dicono
semplici le presunzioni lasciate alla prudenza del giudice.
Le presunzioni legali non costituiscono un mezzo di prova, ma incidono sulla prova dei fatti giuridici o
dispensando una parte dalla prova oppure invertendo l’onere probatorio. Le presunzioni legali assolute
(o presunzioni iuris et de iure) non ammettono prova contraria, poiché la legge stabilisce che una certa
situazione deve essere trattata come se un certo fatto fosse provato. Le presunzioni legali relative (o
presunzioni iuris tantum) ammettono invece prova contraria: la legge ritiene provato un fatto fino a che l’altra
parte non dimostri il contrario.
Anche le presunzioni semplici non rappresentano a loro volta un mezzo di prova, ma costituiscono il risultato
di un procedimento logico in base al quale da un fatto noto, secondo regole di comune esperienza, il
giudice perviene a ritenere esistente un fatto ignoto o non provato, rilevante per il giudizio. Il riferimento alla
prudenza del giudice si specifica nella previsione della possibilità di ammettere solo presunzioni gravi, precise e concordanti.
Confessione La confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli
all’altra parte, ossia di fatti che siano in concreto idonei a produrre conseguenze svantaggiose per colui che
ne riconosce la verità (il debitore confessa il mancato pagamento). La confessione può essere di tre tipi:
giudiziale, se resa davanti al giudice, in forma spontanea o provocata tramite interrogatorio formale;
stragiudiziale, se resa fuori dal giudizio, all’altra parte o ad un terzo; contenuta in un testamento. La
dichiarazione confessoria dà vita ad una mera dichiarazione di scienza e pertanto costituisce un atto
giuridico in senso stretto. La confessione deve provenire da persona capace di disporre del diritto, a cui i fatti
confessati si riferiscono. Vi è la possibilità di revocare la confessione qualora si provi la mancanza di
veridicità (errore di fatto) o la mancanza di spontaneità (per effetto di violenza) delle dichiarazioni rese.
Giuramento Il giuramento rappresenta uno strumento di decisione della lite: prestato il giuramento da una parte, l’altra
parte non è ammessa a provare il contrario, ossia ad allegare e provare fatti ulteriori che si contrappongono
alla dichiarazione resa. Una parte può dunque deferire all’altra il giuramento per farne dipendere la decisione
della lite (giuramento decisorio): se la parte giura vince la causa; se la parte rifiuta di giurare, si considera
provato il contrario del fatto oggetto del giuramento e la parte perde la causa; se la parte alla quale il
giuramento è riferito riferisce il giuramento all’altra parte, a soccombere sarà quest’ultima se non presta o
rifiuta di prestare a sua volta giuramento. Il giudice può deferire d’ufficio ad una parte il giuramento.
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APPENDICE
I - DIRITTI REALI, POSSESSO, DETENZIONE
Proprietà Diritto di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con
l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico.
Superficie Diritto di edificare e di mantenere sul suolo altrui una propria costruzione.
Enfiteusi Diritto di utilizzazione della cosa a contenuto generale, sostanzialmente coincidente con
quello del proprietario, dietro pagamento di un corrispettivo.
Usufrutto Facoltà di godere della cosa altrui e di trarne le utilità che essa può fornire, con il limite di
rispettare la destinazione economica della stessa.
Servitù prediali Diritto derivante dal peso imposto sopra un fondo (fondo servente) per l’utilità di un altro
fondo (fondo dominante) appartenente a diverso proprietario.
Possesso Potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o
di un altro diritto reale.
Detenzione Relazione materiale con la cosa sempre fondata su un titolo, il quale attribuisce o un diritto
personale di godimento o una mera obbligazione.
Modi di acquisto
della proprietà
1. Occupazione
2. Invenzione
3. Accessione
4. Specificazione
5. Unione e commistione
6. Contratto, usucapione, successione a causa di morte
Azioni a difesa del
possesso
1. Rivendicazione
2. Negatoria
3. Regolamento dei confini e apposizione dei termini
Azioni a difesa
della proprietà
1. Reintegrazione
2. Manutenzione
3. Risarcitoria
4. Nunciazione
Possesso vale
titolo
Modo di acquisto della proprietà che si perfeziona nel momento in cui chi acquista un bene
mobile da un soggetto non proprietario, sulla base di un titolo astrattamente idoneo,
consegue in buona fede il possesso della cosa.
Doppia alienazione
mobiliare
Se taluno, con successivi contratti, aliena a più persone un bene mobile, quella tra esse che
ne acquistato in buona fede il possesso è preferita alle altre, anche se il suo titolo è di data
posteriore
Usucapione
- Modo di acquisto della proprietà e degli altri diritti reali che si perfeziona mediante il
possesso continuato per il tempo stabilito dalla legge. Per condurre all’acquisto del diritto
reale, il possesso deve essere continuo, non interrotto, pacifico, pubblico.
- L’usucapione ordinaria richiede solo il possesso e il decorso del tempo; l’usucapione
abbreviata richiede anche l’acquisto a non domino, un titolo astrattamente idoneo, la buona
fede (per i beni mobili, opera il possesso vale titolo).
- Tempi:
1. Beni immobili, universalità di mobili: 20 anni, 10 dalla trascrizione
2. Beni mobili registrati: 10 anni; 3 dalla trascrizione
3. Beni mobili: 20 anni possessore di mala fede, 10 anni possessore di buona fede,
immediata in presenza dei requisiti del possesso vale titolo
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II. FAMIGLIA E MATRIMONIO
Obblighi coniugali
reciproci
1. Fedeltà
2. Assistenza morale e materiale
3. Coabitazione
4. Contribuzione
5. Collaborazione
Invalidità del
matrimonio
1. Mancanza di stato libero
2. Parentela
3. Delitto
4. Minore
5. Incapacità di agire
6. Incapacità di intendere e di volere
7. Vizi della volontà: 1) Violenza - 2) Timore di eccezionalità gravità - 3) Errore sull’identità -
4) Errore su qualità essenziali: a) malattia fisica o psichica; b) sentenza di condanna per
delitto non colposo alla reclusione non inferiore a cinque anni, salvo il caso di intervenuta
riabilitazione; c) dichiarazione di delinquenza abituale o professionale; d) stato di gravidanza
causato da persona diversa dal soggetto caduto in errore.
Regimi patrimoniali
della famiglia
1. Comunione legale: 1) Comunione legale immediata - 2) Comunione de residuo - 3) Beni
personali
2. Comunione convenzionale
3. Separazione dei beni
Beni personali
1. Acquisiti prima del matrimonio
2. Acquisiti per donazione o successione
3. Acquisiti a titolo di risarcimento danni
4. Di uso strettamente personale
5. Di uso professionale
6. Acquisiti dal trasferimento dei suddetti
Cause di
scioglimento della
comunione legale
1. Morte, dichiarazione di assenza o di morte presunta
2. Annullamento del matrimonio
3. Divorzio
4. Separazione personale
5. Separazione giudiziale dei beni (interdizione, ecc.)
6. Mutamento convenzionale
7. Fallimento
Cause di divorzio
1. Accertamento giudiziale di fatti di rilevanza penale
2. Separazione giudiziale
3. Matrimonio rato e non consumato
4. Nuovo matrimonio all’estero
Effetti patrimoniali
di separazione e
divorzio
1. Assegno matrimoniale (senza addebito); alimenti (con addebito)
2. Diritti successori (senza addebito); assegno vitalizio (con addebito)
3. Pensione di reversibilità
1. Assegno post.-matrimoniale
2. Assegno successorio
3. Pensione di reversibilità (se godeva dell’assegno post-matrimoniale)
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Adozione
1. Affidamento: 1) Familiare - 2) In istituto di assistenza
2. Minore abbandonato
3. Adozione internazionale
4. Adozione in casi particolari: 1) Adottato dai parenti entro il 6° grado - 2) Figlio del coniuge,
adottato dall’altro coniuge - 3) Impossibilità di affidamento preadottivo
5. Adozione del maggiore d’età
III. SUCCESSIONI
Accettazione
dell’eredità
1. Accettazione pura e semplice
2. Accettazione con beneficio di inventario:
1) Chiamato possessore: 3 mesi inventario + 40 giorni dichiarazione puro e semplice
2) Chiamato non possessore:
a) 10 anni dichiarazione + 3 mesi inventario puro e semplice
b) Inventario + 40 giorni dichiarazione perde diritto di accettare
Caratteri del
testamento
1. Revocabile
2. Unilaterale
3. Non recettizio
4. Unipersonale
5. Assolutamente personale
6. Formale
7. Solenne
8. Contenuto essenzialmente patrimoniale
Forme del
testamento
1. Olografo
2. Pubblico
3. Segreto
4. Speciale
Invalidità del
testamento
NULLITÀ
1. Vizi di forma
1) Assenza di autografia o sottoscrizione (testamento olografo)
2) Assenza della dichiarazione del testatore o della sottoscrizione (testamento per atto di
notaio)
2. Vizi di sostanza
1) Non spontaneità del volere (patti successori, testamento congiunto, condizione di
reciprocità)
2) Assenza di volontà (violenza fisica, riserva mentale)
3) A favore del tutore, del notaio
4) Motivo illecito
ANNULLABILITÀ
1. Vizi di forma
- Irregolarità della data
- Omessa trascrizione dei testimoni
2. Vizi di sostanza
- Errore
(vizio, ostativo; sul motivo: di fatto, di diritto)
- Violenza morale (soggettivistica)
- Dolo (anche da terzi)
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Quote della
successione
necessaria e
legittima
SUCCESSIONE NECESSARIA
1. Figli
- 1/2 del patrimonio, in presenza di un solo figlio;
- 2/3 del patrimonio, in presenza di più figli
2. Coniuge
- 1/2 del patrimonio
3. Concorso figli e coniuge:
- 1/3 al figlio unico, 1/3 al coniuge;
- 1/2 ai figli, 1/4 al coniuge
SUCCESSIONE LEGITTIMA
1. Figli
2. Coniuge
3. Concorso figli e coniuge:
- 1/2 al figlio unico, 1/2 al coniuge;
- 2/3 ai figli, 1/3 al coniuge.
4. Ascendenti
5. Fratelli e sorelle
6. Collaterali fino al 6° grado