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Diritti regionali Rivista di diritto delle autonomie territoriali
Anno 2016 – Fascicolo 3
2016
Diritti regionali Rivista di diritto delle autonomie territoriali
Rivista quadrimestrale (3/2016) ISSN 2465-2709
Direttore responsabile: Alessandro Morelli. Comitato scientifico: Prof. Enzo Balboni, Prof. Raffaele Bifulco, Prof. Roberto Bin, Prof. Thomas Bombois, Prof. Beniamino Caravita di Toritto, Prof. Paolo Caretti, Prof. Josep Maria Castellà Andreu, Prof. Marcello Cecchetti, Prof. Ginevra Cerrina Feroni, Prof. Pietro Ciarlo, Prof. Pasquale Costanzo, Prof. Antonio D’Aloia, Prof. Giovanni Di Cosimo, Prof. Marco Dugato, Prof. Giuseppe Duso, Prof. Tommaso Edoardo Frosini, Prof. Silvio Gambino, Prof. Eduardo Gianfrancesco, Prof. Nicola Lupo, Prof. Franco Mastragostino, Prof. Luigi Melica, Prof. Luca Mezzetti, Prof. Andrea Morrone, Prof. Giovanni Moschella, Prof. Roberto Nania, Prof. Silvia Niccolai, Prof. Ida Nicotra, Prof. Barbara Pezzini, Prof. Cesare Pinelli, Prof. Giovanni Pitruzzella, Prof. Francesco Pizzetti, Prof. Giovanni Poggeschi, Prof. Anna Maria Poggi, Prof. Margherita Ramajoli, Prof. Roberto Romboli, Prof. Marco Ruotolo, Prof. Antonio Ruggeri, Prof. Carmela Salazar, Prof. Giovanni Serges, Prof. Gaetano Silvestri, Prof. Michele Trimarchi, Prof. Luigi Ventura, Prof. Giuseppe Verde. Comitato di Direzione: Michele Belletti, Cristina Bertolino, Camilla Buzzacchi, Andrea Cardone, Giacomo D’Amico, Roberto Di Maria, Felice Giuffrè, Antonio Iannuzzi, Michele Massa, Anna Mastromarino, Claudio Panzera, Pier Luigi Petrillo, Filippo Pizzolato, Edoardo Raffiotta, Alessio Rauti, Guido Rivosecchi, Diletta Tega, Anna Trojsi, Lara Trucco. Comitato di Redazione: Enrico Albanesi, Antonio Ignazio Arena, Francesca Bailo, Daniela Belvedere, Maria Esmeralda Bucalo, Alessandro Candido, Rossana Caridà, Corrado Caruso, Francesco Conte, Lucilla Conte, Paolo Costa, Entela Cukani, Caterina Drigo, Tiziana Fortuna, Claudia Fraterrigo, Alessia Fusco, Peter Lewis Geti, Maria Antonella Gliatta, Andrea Lollo, Francesca Minni, Fabio Francesco Pagano, Francesco Paterniti, Giovanni Piccirilli, Roberto Ravì Pinto, Francesca Polacchini, Simona Polimeni, Valentina Pupo, Maria Letteria Quattrocchi, Sabrina Ragone, Alberto Randazzo, Elio Sparacino, Andrea Turturro. Questo numero è stato curato da Tiziana Fortuna. Per inviare contributi, per segnalare eventi o novità editoriali scrivere al seguente indirizzo: [email protected] o accedere alla sezione Contatti del sito www.dirittiregionali.org.
Tutti i contributi pubblicati nel presente fascicolo sono stati sottoposti a referaggio da parte della Direzione
della Rivista. Gli scritti proposti dagli Autori sono stati sottoposti a procedura di doppio referaggio anonimo.
INDICE
EDITORIALE
Unità e autonomia nel pensiero del prof. Temistocle Martines 393
ALESSANDRO MORELLI
Il nuovo Senato: organo poliedrico. Gli interventi normativi per completare e dare piena attuazione
alla riforma 396
ELISABETTA CATELANI
Notazioni sulla riforma costituzionale 413
LUIGI VENTURA
La composizione delle giunte comunali alla luce della l. n. 56 del 2014 e della (più recente)
giurisprudenza amministrativa 420
UGO ADAMO
Il nuovo Senato, il sistema delle Conferenze e la persona giuridica dello Stato.
Brevi note giuridico-istituzionali 439
ENRICO GASPARINI-PAOLO COSTA
Sogno e disincanto dell’autonomia politica regionale nel pensiero di Temistocle Martines
(con particolare riguardo al “posto” delle leggi regionali nel sistema delle fonti) 456
ANTONIO RUGGERI
Rileggendo, sessant’anni dopo, il saggio di Temistocle Martines sull’autonomia politica delle
regioni in Italia 470
GAETANO SILVESTRI
Un bicchiere pieno a metà. La revisione costituzionale italiana del 2016 tra premesse di metodo,
prefigurazioni di possibili scenarî e valutazione complessiva del testo 477
SALVATORE PRISCO
La libertà di culto nella Repubblica delle autonomie 504
LUCA BUSCEMA
Il referendum sulla riforma costituzionale: argomenti a confronto 533
AA. VV.
Costituzione economica, costituzionalismo multilivello e ‘leale conflittualità’ nel nuovo Senato
(delle autonomie) 658
GIAMPIERO DI PLINIO
Dal generico (e angusto) localismo delle autonomie territoriali al maturo (e ideale) regionalismo di
Temistocle Martines 664
ANTONINO SPADARO
È la democrazia, giovani bellezze 673
LUIGI VENTURA
Autonomie territoriali e sistema dei partiti nel pensiero di Temistocle Martines 680
LUIGI D’ANDREA
Martines e la “specialità” siciliana 687
ANTONIO SAITTA
La controriforma degli enti locali in Sicilia ed il gioco della campana (a partire dalle riflessioni di
Temistocle Martines sull’art. 15 St. SI) 695
STEFANO AGOSTA
Mini-costituzioni per quali Regioni? Considerazioni a margine della riflessione di T. Martines
sugli statuti delle Regioni di diritto comune 720
GIACOMO D’AMICO
EDITORIALE
Unità e autonomia nel pensiero del prof. Temistocle Martines
di Alessandro Morelli
(Professore associato di Diritto costituzionale, Università “Magna Græcia” di Catanzaro)
(16 maggio 2016)
Il 2 giugno di quest’anno ricorre il ventennale della scomparsa del prof. Temistocle
Martines, una ricorrenza che Diritti regionali intende ricordare pubblicando una serie di contributi
che affrontano aspetti diversi del pensiero del Maestro, mettendone in luce l’attualità per gli studi di
diritto regionale.
Nel contesto di un travagliato processo riformatore dagli esiti al momento imprevedibili,
l’elaborazione teorica martinesiana offre ancora coordinate preziose a chi studia le vicende del
regionalismo italiano.
Illuminante appare, innanzitutto, l’idea secondo cui la ricostruzione della Regione come
«entità astratta», con propri poteri e funzioni, collocata in una rete di rapporti con lo Stato-soggetto,
costituisca certo un momento necessario, ma non sufficiente per la comprensione della realtà
giuridica dei fenomeni indagati. Se non ci si vuole smarrire in vuote esercitazioni accademiche,
scrive Martines, occorre osservare come tale entità astratta si animi e prenda corpo «nei suoi organi
direttivi (Consiglio, Giunta, Presidente della Giunta), nel suo apparato burocratico, nei suoi enti
dipendenti, nella sua popolazione, nel suo corpo elettorale». In altri termini, la ricostruzione del
sistema costituzionale delle autonomie e l’attenta osservazione delle dinamiche del sistema politico-
partitico, che orientano le effettive modalità di funzionamento delle istituzioni territoriali,
rappresentano fasi imprescindibili dello studio del diritto regionale. L’attenzione per il dato
giuridico-formale non può fare a meno dell’osservazione della realtà politica.
Sul primo versante, si deve a Martines la più compiuta elaborazione del concetto di
autonomia politica, intesa come capacità degli enti pubblici territoriali di adottare un indirizzo
politico diverso da quello proprio dello Stato, anche se con esso non confliggente, almeno nelle sue
linee fondamentali. Tale concezione tende a risultare recessiva nell’odierno dibattito sulle
autonomie, rispetto a visioni funzionalistiche delle stesse, secondo le quali le Regioni (e, in genere,
le autonomie territoriali) dovrebbero essere intese soltanto come enti funzionali a garantire un più
efficiente soddisfacimento di interessi individuati o definiti a livello centrale (nazionale o
addirittura sovranazionale). Il paradigma costituzionale dell’autonomia politica ispira, invece, una
concezione delle autonomie come enti esponenziali d’interessi generali, che trovano il proprio
centro di riferimento nel territorio, assurgendo così, nella ricostruzione del modello costituzionale, a
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connotato indefettibile della democrazia pluralista. Tale concezione, consentendo di declinare
l’istanza democratica nella dimensione locale, appare più facilmente collocabile in una
ricostruzione sistematica dei principi costituzionali.
Sul secondo versante, Martines sottolinea, nei suoi scritti, come la politicità dell’ente
Regione dipenda, nei fatti, dalla volontà politica dei partiti, ai quali è rimessa, in definitiva, la
creazione di un sistema effettivamente decentrato.
Le difficoltà che, nella storia repubblicana, il regionalismo ha incontrato sono dipese, in
buona misura, dalla struttura fortemente centralizzata dei grandi partiti politici nazionali e dalla
circostanza che – fatta eccezione per le esperienze più recenti dei partiti locali e delle leghe – tutte
le grandi scelte coinvolgenti le comunità regionali sono state prese quasi sempre dalle direzioni e
dai livelli nazionali dei partiti.
La frammentazione del sistema partitico non ha giovato, poi, al decentramento, poiché in
tale dimensione, temendo i rischi di possibili spinte centrifughe, le formazioni politiche hanno
lasciato ben poco spazio alle diramazioni regionali, potendo queste mettere in pericolo le leadership
nazionali. Per ragioni analoghe, i partiti hanno preferito articolare i propri centri decisionali a livello
sub-regionale, dove gli interessi in gioco non incidevano su scelte d’indirizzo politico riproducibili
sul piano nazionale, essendo le deliberazioni assunte in tali ambiti ristrette alla tutela d’interessi
esclusivamente locali.
Quello che è mancato e che ancora manca è, in buona sostanza, una reale e diffusa cultura
delle autonomie: di qui il livellamento verso il basso di tutte le autonomie (ordinarie e speciali)
registratosi nell’esperienza istituzionale, l’irrisolta dialettica tra spinte regionaliste e municipaliste,
le difficoltà che ha incontrato e che ancora incontra l’affermazione di un effettivo regionalismo
cooperativo. Insomma, per usare una felice formula di Giorgio Pastori, il sistema istituzionale
italiano ha visto la nascita e l’affermazione di Regioni senza regionalismo.
Il realismo dell’analisi non può spingere, tuttavia, a qualificare gli enti regionali soltanto
come centri di spesa irresponsabili e superflui, da ridimensionare e, se possibile, sopprimere,
secondo un orientamento che, negli ultimi anni, sembra aver trovato ampia condivisione
nell’opinione pubblica, dopo che la crisi economico-finanziaria deflagrata nella seconda metà dello
scorso decennio e una serie di scandali giudiziari hanno spento l’euforia federalista che, dall’inizio
degli anni ’90 in poi, aveva animato lo scenario politico. Non si può disconoscere, infatti, che, per
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riprendere ancora riflessioni martinesiane, in base ad un’interpretazione evolutiva e, al tempo
stesso, sistematica dell’art. 5 Cost., il principio unitario si alimenta anche con l’apporto degli
ordinamenti autonomi e che, sempre secondo il disegno costituzionale, l’unità può essere
salvaguardata attraverso il riconoscimento e la promozione del pluralismo territoriale.
La prospettiva che fa da sfondo all’elaborazione teorica del Maestro che si vuole qui
ricordare offre strumenti molto utili anche per l’analisi del testo di riforma costituzionale appena
approvato in via definitiva dalle Camere.
La consapevolezza del ruolo imprescindibile che i partiti e le forze politiche hanno nel
processo di consolidamento e di sviluppo del regionalismo fa apparire illusoria l’idea che la mera
riscrittura del testo costituzionale possa creare le condizioni politiche necessarie all’affermazione di
un sistema autonomistico efficiente e adeguato alle esigenze di una matura democrazia pluralista. E
così, ad esempio, la creazione di nuove sedi di rappresentanza territoriale da sola non basta se gli
stessi rappresentanti delle istituzioni periferiche non si percepiscano effettivamente come uomini
delle comunità locali, ma come esponenti dei partiti politici di appartenenza; e ancora la semplice
soppressione di livelli territoriali di governo, se non recepisce le reali istanze di differenziazione
territoriale dell’assetto istituzionale, difficilmente può recare i vantaggi sperati.
L’effettività del dato normativo dipende, infine, dal radicamento nella società (e dalla
condivisione da parte delle classi dirigenti) dei principi propri dell’etica repubblicana, senza il cui
rispetto non è realisticamente pensabile che possano sopravvivere e svilupparsi, a tutti i livelli
territoriali, le istituzioni democratiche. Rigore costituzionale ed etica repubblicana rappresentano,
secondo un alto insegnamento del Maestro, un binomio indissolubile anche nella dimensione delle
autonomie, definendo le condizioni ideali d’esistenza del modello ordinamentale delineato dalla
Carta costituzionale.
Il nuovo Senato: organo poliedrico.
Gli interventi normativi per completare e dare piena attuazione alla riforma
di Elisabetta Catelani
(Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico, Università di Pisa)
(16 maggio 2016)
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Composizione e ruolo del nuovo Senato: la legge elettorale del Senato futuro
strumento per chiarire il ruolo che si intende attribuirgli. – 3. Ruolo del Senato e presenza di Consiglieri regionali e di
Sindaci: importanza del futuro regolamento del Senato. – 4. Elezione di due giudici costituzionali da parte del Senato. -
5. Riparto di competenze fra Stato e Regioni ed il problema delle disposizioni generali e comuni. – 6. Incremento delle
materie oggetto di autonomia differenziata e l’autonomia speciale. La mancanza di coraggio della riforma
costituzionale.
1. Premessa
Innanzitutto vorrei fare una premessa di carattere generale in riferimento al criterio che
seguirò nell’affrontare i quesiti proposti dalla Rivista, ossia cercherò di evitare, per quanto è
possibile, di parlare delle soluzioni che avrei voluto inserire nel progetto di riforma costituzionale o
ancor più di quale modello di riforma costituzionale avrei immaginato. Certo è compito dei
costituzionalisti indirizzare, per quanto è possibile, il legislatore (ed in particolare il legislatore
costituzionale) nella scelta delle soluzioni formalmente e sostanzialmente migliori per raggiungere
un determinato obiettivo. Ma una volta che la scelta politica è stata fatta, buona o cattiva che sia, lo
studioso può approvare, pur con dubbi e riserve mentali, il contenuto della riforma o viceversa
valutare negativamente il risultato anche in vista del probabile referendum costituzionale. Non
ritengo invece utile in questa fase, ed ai fini degli obiettivi della Rivista, cercare di individuare cosa
sarebbe stato utile inserire e che invece non si riscontra nel testo di riforma. D’altra parte la
discussione in dottrina è stata ampia, sia prima della presentazione del progetto Renzi-Boschi, sia
durante la fase di approvazione del testo. In questo periodo un gran numero di costituzionalisti in
varie occasioni, pur con diverse impostazioni e soluzioni, ha cercato di meglio indirizzare o
comunque rilevare errori e anomalie del progetto di riforma1, anche se per lo più inascoltati.
Ora tutto questo non ha più senso, vista l’approvazione del disegno di legge costituzionale
da parte di entrambe le Camere senza modifiche, così da giungere in ottobre ad un referendum che è
1 Le tre Università toscane hanno organizzato dal 2014 in poi quattro incontri sulla riforma costituzionale in
occasioni delle fasi più delicate del procedimento di approvazione del disegno di legge, anche al fine di segnalare ai
parlamentari le norme che richiedevano una modifica. Gli atti di tali seminari sono stati pubblicati nei fascicoli 2/2014;
3/2014; 1/2015; 1/2016 dell’Osservatoriosullefonti.it
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in fase di attivazione con la richiesta sia dei parlamentari, sia con il deposito della richiesta fatta da
un comitato degli elettori che sta provvedendo alla raccolta delle firme dei cittadini. L’opportunità
di un referendum costituzionale era ritenuto scontata ed essenziale fin dall’inizio del procedimento
di riforma per garantire al testo quella forza che gli può derivare solo dall’approvazione da parte del
corpo elettorale. Dinanzi ai tanti dubbi sulla possibilità che l’attuale maggioranza parlamentare
fosse legittimata a prospettare una così ampia e significativa riforma costituzionale, ed anzi, dopo la
delegittimazione operata dalla sentenza dichiarativa dell’incostituzionalità della legge elettorale
(sen. n. 1/2014), solo l’avallo del corpo elettorale può definitivamente sedare tale diatriba.
Tutto ciò non esclude, ma anzi impone che in questa fase di attesa dell’esito del referendum
sia necessario ed utile indicare, sia quali siano le norme di dubbia interpretazione che richiedono
un’interpretazione corretta, sia quelle che possono meglio funzionare se integrate anche con atti
legislativi o costituzionali successivi. In definitiva occorre da un lato interpretare le norme in modo
tale che non creino incongruenze e dall’altro integrare eventualmente con atti legislativi successivi
di attuazione costituzionale, là dove sia necessario un intervento per completare il corretto e pieno
funzionamento della normativa costituzionale. La storia istituzionale italiana non è nuova a
presentare esempi di significativi ritardi nell’attuazione di norme costituzionali: si pensi nel passato
alle c.d. fasi di attuazione della Costituzione che hanno visto due momenti significativi molto
distanti nel tempo (1956-1958 per Corte costituzionale e CSM; 1970 per giungere alla legge di
attuazione del referendum e delle Regioni) ed anche più recentemente alla sostanziale inattuazione
delle norme sull’autonomia finanziaria delle Regioni o quelle sull’autonomia differenziata
introdotte con la riforma del 2001.
D’altra parte mi pare che anche l’obiettivo che la Direzione di Diritti regionali cerca di
perseguire con le domande proposte sia quello di individuare insieme ai problemi che
inevitabilmente tale riforma determinerà, anche le soluzioni interpretative e normative che potranno
essere utilizzate per definire i nuovi organi e le nuove competenze. A tal fine cercherò di rispondere
alle domande poste seguendo un mio ordine logico e quindi iniziando dalla domanda centrale
prospettata, indicata al punto 2, ossia Quale ruolo è chiamato a svolgere il nuovo Senato nella
dimensione della forma di governo?
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2. Composizione e ruolo del nuovo Senato: la legge elettorale del Senato futuro strumento
per chiarire il ruolo che si intende attribuirgli
La prima e più importante novità introdotta dal progetto di riforma costituzionale è
sicuramente rappresentata dal superamento del bicameralismo paritario e dalla previsione di un
Senato che sia innanzitutto rappresentativo «delle istituzioni territoriali» (art. 55 c. 5) ed il cui
interesse primario sia quello di garantire le autonomie territoriali (art. 82 c. 1). A ciò si accompagna
tutta una serie di ulteriori competenze in virtù delle funzioni di raccordo con gli altri enti costitutivi
della Repubblica e con l’Europa, nonché di organo di valutazione delle politiche pubbliche nel
senso ampio del termine.
Nell’ampia discussione che è stata fatta nella fase di elaborazione del testo di riforma
costituzionale fin dall’inizio della legislatura (comprendendo quindi tutta quella fase di discussione
interna alla Commissione Quagliariello fino alla discussione parlamentare all’interno delle
Commissioni affari costituzionali della Camera e del Senato), è emerso in modo chiaro che se
doveva rimanere in vita una seconda Camera, questa avrebbe rappresentato il luogo di definizione e
di composizione degli interessi locali, in modo tale da ridurre, se non eliminare, quella conflittualità
che dalla riforma del 1999/2001 aveva caratterizzato i rapporti intersoggettivi fra Stato e Regioni.
Scartata in altre parole la soluzione monocamerale2, si è ritenuto che il mantenimento del
Senato abbia un senso solo e soltanto se possa garantire all’interno di un organo costituzionale
strutturato (e quindi non solo all’interno del sistema delle Conferenze) una dialettica produttiva nei
rapporti assai complessi fra centro e periferia e nello stesso tempo sia il luogo più adatto per attivare
un raccordo con la funzione d’indirizzo che gli organi nazionali possono esercitare con riguardo alle
politiche ed alle competenze europee.
In altre parole quella funzione di partecipazione alla formazione del diritto dell’UE che
attualmente le Regioni svolgono in modo discontinuo, poco incisivo e comunque solo da parte di
alcune Regioni (nonostante i propositi e gli indirizzi provenienti dal contenuto della quasi totalità
2 Soluzione che, peraltro, mi trovava assolutamente favorevole, come ho cercato di spiegare in Dalla
Commissione Balladur alla Commissione per le riforme istituzionali: fra problematiche procedurali di revisione
costituzionale e superamento del bicameralismo paritario, in A. CARDONE (a cura di), Le proposte di riforma
costituzionale, Napoli 2014, ma non è questo ora, come si è detto all’inizio, oggetto utile al dibattito.
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dei propri Statuti), potrà essere forse meglio esercitato dall’attività del Senato, in quanto organo
rappresentativo degli indirizzi provenienti dalle varie Regioni.
Il futuro Senato, pertanto, anche se perderà il rapporto fiduciario con il Governo non perde
assolutamente un ruolo politico significativo, sia nella formazione delle leggi, sia nelle sue funzioni
di raccordo, nonché, ed ancor più, di valutazione delle politiche pubbliche. In particolare, il ruolo
politico del Senato nella formazione delle leggi si manifesta nell’ampiezza (direi anche eccessiva)
del numero delle leggi bicamerali in settori in cui il livello di politicità è particolarmente alto: si
pensi solo al mantenimento della competenza bicamerale sulle leggi costituzionali e di revisione
costituzionale, alla legge europea, alle leggi per le elezioni degli organi rappresentativi degli enti
locali, le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati relativi all’UE. Ma il rilievo politico del
Senato è insito in tutta la funzione legislativa, se ben esercitata, in quanto tutti i disegni di legge
presentati alla Camera possono essere oggetto di valutazione da parte del Senato e di invio delle
eventuali proposte di modifica (art. 70 comma 3). Quindi è attribuito allo stesso organo il compito
di accentuare la sua rilevanza e la sua possibilità di influire sulle decisioni finali, anche attraverso
l’uso dello strumento di rinvio non in modo pretestuoso ma collaborativo con la Camera. Per non
parlare poi dei disegni di legge che, se modificati dal Senato, richiedono una maggioranza assoluta
da parte della Camera (art. 70 comma 4) che, se l’Italicum può rendere facile da realizzarsi, l’uso
del relativo potere in modo immotivato mette in gioco la responsabilità politica dell’organo che la
esercita.
Altrettanto si può dire in ordine alle funzioni di raccordo, che si esprimono nel superamento
dei conflitti politici fra centro e organi locali, così come nella valutazione delle politiche pubbliche
e dell’Unione europea. La prospettiva futura di quest’ultima competenza è tutta da creare ed
affidata all’indirizzo che il Senato potrà attribuire a tale funzione, ma potrebbe costituire la vera
novità e una diversa espressione del potere d’indirizzo politico anche per il Senato. Come
giustamente ha ricordato Cesare Pinelli in più occasioni, citando Luigi Einaudi3, “valutare” è uno
strumento che è a metà strada fra il “conoscere” ed il “deliberare” e ben poco gli organi chiamati a
deliberare si fondano su una preliminare conoscenza, al di là dell’opera “di eccellenti burocrazie
interne”. Un esempio a tale riguardo è rappresentato dall’uso solo burocratico che il legislatore fa
3 Cfr. in particolare, C. PINELLI, Le funzioni del Senato in ordine all’adesione della Repubblica all’Unione
europea, in www.italianieuropei.it.
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dell’analisi d’impatto della regolamentazione (AIR), che a sua volta presuppone una pregressa
valutazione della normativa esistente sull’argomento (VIR). Compito del Senato quindi potrebbe
essere, fra i tanti, anche quello di pretendere dalla Camera una documentazione, ai fini della propria
e successiva competenza di valutazione d’impatto, non meramente formale (come spesso avviene
ora), ma espressiva di un’indagine circostanziata delle carenze esistenti, degli effetti negativi che
sono derivati dalla precedente normativa e dei possibili benefici o comunque delle conseguenze che
possono derivare da una nuova normativa. Valutazione delle politiche pubbliche che non si
esaurisce tuttavia nella sola attività legislativa, ma in quella normativa nel suo complesso ed anche
in ordine agli effetti sull’attività esecutiva.
Non si intende soffermarsi qui sulle competenze specifiche affidate al Senato che in realtà
sono ampie e su vari “fronti”, ma solo fare riferimento al ruolo che si è inteso attribuire a tale
organo per comprendere, poi, i criteri che dovranno essere seguiti per disciplinare la relativa legge
elettorale.
Se, a questo riguardo, nessuno ha mai dubitato in ordine alla necessità di differenziare il
ruolo della “seconda” Camera, critiche significative vengono fatte in ordine alle effettive possibilità
del futuro Senato di poter svolgere una funzione di compensazione e di soluzione dei conflitti fra
Stato e Regioni, anche per l’impossibilità dei propri componenti di essere portatori delle sole
volontà locali, essendo rappresentativi dei partiti o delle formazioni politiche da cui provengono.
Il primo aspetto che dovrà essere risolto è dunque il metodo di elezione dei nuovi senatori,
metodo che, dice la nuova formulazione dell’art. 57 ultimo comma, dovrà essere definito da una
legge quadro approvata da entrambe le Camere che regolerà «le modalità di attribuzione dei seggi».
Varie sono le ipotesi che sono state profilate e ancora non è chiara la rappresentatività dei futuri
senatori e il rapporto che si creerà fra di loro. Un emendamento all’art. 2 del disegno di legge
costituzionale (futuro art. 57 comma 5), introdotto dalla Camera nell’ultima formulazione, precisa
che la durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali
“dai quali” e non più (come era l’originaria stesura) “nei quali” sono stati eletti. Formulazione
quest’ultima che non è priva di conseguenze né priva di valore4, ma deve essere letta in modo
4 Uno degli aspetti sicuramente contraddittori che deriva da tale emendamento è messo in evidenza da E.
ROSSI, Una Costituzione migliore? Contenuti e limiti della riforma costituzionale, Pisa 2016, 56, con riguardo alle
possibili conseguenze derivanti dalla decadenza dal proprio ruolo di Sindaco/Senatore, che, secondo una possibile
interpretazione letterale, rimarrebbe in carica, come Senatore (magari senza alcun tipo di emolumento), per tutta la
durata del Consiglio regionale. In realtà l’interpretazione che deve essere data a tale norma, come ammette anche Rossi,
è nel senso della decadenza automatica da entrambi i ruoli e l’obbligo da parte del Consiglio regionale di procedere alla
nuova nomina.
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armonico e collegato ad una pluralità di norme: in particolare all’art. 57 comma 2, dove si afferma
che i senatori devono essere eletti «fra i componenti» dei consigli regionali e delle Province di
Trento e Bolzano, all’art. 57 comma 5 in cui si precisa che detta scelta deve essere fatta «in
conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri» ed infine all’art. 57 comma
6 che stabilisce che «i seggi devono essere attribuiti in ragione dei voti espressi e della
composizione di ciascun Consiglio». Da qui la possibilità che la nuova legge preveda in fase di
elezione dei futuri Consigli regionali “liste separate” che contengano i nomi di candidati senatori
accanto ai candidati che potranno essere presenti solo nel Consiglio regionale, con una possibile
futura organizzazione interna dello stesso Consiglio diversa da quella attuale e demandata
integralmente alla libertà organizzativa dei singoli Statuti regionali. Oppure la possibilità di
demandare ai cittadini, nella fase di elezione dei nuovi Consigli, l’individuazione di un elenco di
nomi all’interno dei quali il Consiglio dovrà scegliere, o, ancora, affidare alle preferenze il compito
di attribuire un ruolo diverso ed una posizione differenziata dei vari Consiglieri, attribuendo così
direttamente ai cittadini la possibilità di scelta di quelli che saranno i futuri senatori.
Si tratta di ipotesi molto diverse e che presuppongono scelte organizzative non omogenee e
strettamente collegate al nuovo ruolo ed ai futuri compiti del nuovo Senato.
Qualora i Consiglieri regionali scelti non siano tanto e solo portatori della volontà del
proprio Consiglio e «delle istituzioni territoriali» (come dice l’art. 55 comma 4), ma acquisiscano
un ruolo diverso e particolare, grazie al procedimento di nomina elettorale introdotto, ne deriverà,
come conseguenza, un Senato che ha caratteristiche diverse, più politico o comunque meno legato a
logiche territoriali. In altre parole, qualora il procedimento di nomina sia strettamente collegato ai
risultati elettorali e quindi il Consiglio regionale debba limitarsi a ratificare formalmente una scelta
fatta dai cittadini, se, ancora, il singolo senatore sia nominato grazie alla propria capacità di attrarre
un consenso popolare, si consentirà all’eletto di essere parzialmente svincolato dalle istituzioni che
l’hanno nominato e che dovrebbero essere da lui rappresentate. In tal modo i Senatori dovranno,
ancora una volta rispondere direttamente ai cittadini che hanno direttamente consentito (o
comunque fortemente agevolato) la loro nomina. Si farebbe così “rientrare dalla finestra quello che
era uscito dalla porta”. Si consentirebbe, in altre parole, una rinascita di una rappresentanza diretta
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anche del Senato che era stata esclusa nel momento in cui l’organo era stato svincolato dal rapporto
di fiducia con il Governo5.
A ciò si deve aggiungere che l’art. 67 prevede che la funzione di senatore, come quella di
deputato, sia esercitata senza vincolo di mandato, cosicché la sua attività non sia vincolata dalle
indicazioni o dalla volontà espressa all’interno del Consiglio regionale di provenienza, ma in
rapporto alla propria posizione politica. Una norma che potrebbe portare a scelte contraddittorie con
quella funzione attribuita al Senato di rappresentanza di “istituzioni territoriali” a cui si fa
riferimento nell’art 55 comma 5, prima richiamato.
Una strada per indurre i futuri senatori a farsi effettivamente portatori e rappresentanti degli
enti territoriali di provenienza, potrebbe essere trovata nella disciplina del futuro regolamento del
Senato che dovrebbe prevedere la formazione non tanto o, forse non solo, di gruppi rappresentativi
del partito politico di provenienza, quanto degli interessi territoriali collegati: si può immaginare
innanzitutto l’esclusione di una rappresentanza per gruppi politici e la creazione di altre forme di
raggruppamento interno, come gruppo/i dei Sindaci, gruppo/i dei Presidenti, gruppi di consiglieri o,
come si vedrà meglio oltre, gruppi che identificano determinate aree territoriali. D’altra parte un
criterio interpretativo che superi l’attuale organizzazione parlamentare per gruppi potrebbe essere
desunto dall’art. 64 comma 2, là dove si prevede che solo il regolamento della Camera, e non del
Senato, disciplini lo statuto delle opposizioni. Opposizioni politiche che non devono (dovrebbero)
sussistere non solo perché non esiste un rapporto di fiducia con il Governo, ma appunto perché i
rappresentanti territoriali non dovrebbero essere organizzati in rapporto alla propria provenienza
politica. L’esclusione di gruppi al Senato potrebbe poi desumersi anche dal fatto che l’art. 82, dopo
aver distinto gli obiettivi che possono essere perseguiti dalla Camera da quelli del Senato (su
materie di pubblico interesse, la prima, limitatamente agli interessi delle autonomie territoriali, il
secondo) si stabilisce limitatamente alla Camera che la Commissione istituita per realizzare tale
inchiesta dovrà essere formata «in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi». Da qui,
appunto, la possibilità di escludere l’istituzione di gruppi nel regolamento del Senato.
5 Come ho già detto in altra sede, E. CATELANI, Dalla Commissione Balladur, cit. la rappresentatività diretta è
inscindibilmente legata alla fiducia con il Governo e quindi nel momento in cui si sottrae al Senato il rapporto di
fiducia, ne deriva come conseguenza inevitabile l’eliminazione di qualunque forma di rappresentanza diretta dei suoi
componenti.
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Occorre tuttavia ricordare che l’art. 64 comma 2 stabilisce che anche il regolamento del
Senato debba garantire le minoranze, così da poter desumere che anche all’interno della seconda
Camera vi possa essere una rappresentanza politica, a meno che il concetto di minoranza sia
collegabile alla provenienza territoriale: sindaci, considerati minoranza rispetto ai consiglieri
regionali o ai Presidenti della Regione che potrebbero essere identificati nella maggioranza della
composizione del Senato.
Il rischio è che in realtà i senatori non si muovano nelle loro scelte in modo omogeneo, ma
si diversifichi il loro indirizzo in rapporto all’oggetto della decisione, cosicché possano aggregarsi
anche forze politiche diverse quando sia necessario raggiungere obiettivi omogenei (si pensi alle
politiche dell’ANCI dinanzi al governo e nelle Conferenze quando sia necessario perseguire un
interesse generale di tutti i Comuni), ovvero vi sia quell’aggregazione partitica che si dovrebbe
fortemente evitare.
Occorre viceversa che la legge per la scelta dei senatori di cui all’art. 57 comma 6 e il futuro
regolamento del Senato possano perseguire l’obiettivo primario, che sottende allo scopo della
riforma costituzionale che in alcune norme pare contraddetto o che rischia di esserlo, ossia è
necessario garantire la primazia o, come si è detto6, la “emersione” degli interessi regionali. E
questo può avvenire solo se la legge bicamerale, ma anche le singole leggi elettorali regionali che
dovranno regolare il procedimento di nomina dei senatori, siano formulate in modo da privilegiare
nella scelta non tanto e non solo quei soggetti che hanno raggiunto personalmente una significativa
rappresentanza elettorale, quanto, invece, soggetti rappresentativi del governo regionale. Si può
quindi auspicare che la legge preveda l’obbligo da parte delle Regioni di nominare il proprio
Presidente quale rappresentante principale della volontà e delle «scelte espresse dagli elettori», in
virtù anche del fatto che tutte le leggi elettorali regionali prevedono una forma di governo che affida
agli elettori la scelta del Presidente, attribuendo così ad esso una posizione di primazia nella
rappresentanza della Regione. Ancor più tale principio dovrebbe valere, nelle dieci Regioni dove la
rappresentanza è ridotta a due senatori, in quanto la presenza di altro consigliere regionale diverso
dal Presidente ridurrebbe fortemente la capacità della Regione di farsi portatrice della volontà del
territorio rappresentato e di mediare là dove vi siano interessi contrapposti fra Regioni.
6 A. RUGGERI, Molti quesiti ed una sola, cruciale questione, ovverosia se la riforma costituzionale in cantiere
faccia crescere ovvero scemare l’autonomia regionale, in questa Rivista, 1/2016, 131.
404
3. Ruolo del Senato e presenza di Consiglieri regionali e di Sindaci: importanza del futuro
regolamento del Senato
Permane ancora non pienamente analizzato il profilo indicato nel primo quesito della
Rivista, ossia l’impatto nel nuovo Senato derivante dalla presenza contemporanea di rappresentanti
di enti locali molto diversi e con finalità parzialmente diverse. I Sindaci saranno portatori di
interessi settoriali, non sempre coincidenti con quelli dei Consiglieri regionali ed ancor meno con
quelli dei Presidenti di Regione. Una convivenza che potrà essere anche contrapposta dalla
prevalenza di tutela di interessi amministrativi dei primi e di interessi normativi delle seconde. Da
qui l’importanza del contenuto del futuro regolamento del Senato per definire i rapporti fra i
rispettivi rappresentanti.
Il contenuto dei nuovi regolamenti parlamentari costituisce ovviamente un’incognita e,
come è stato detto giustamente, vi è il forte rischio che «i regolamenti acquietino l’ardore della
riforma regolamentare con la forza della loro formidabile inerzia (…), piuttosto che svilupparne il
contenuto normativo, assecondando e guidando l’evoluzione del sistema»7. L’incertezza
dell’attuazione della futura riforma costituzionale non sta tanto nelle possibili incongruenze testuali
della Costituzione (che peraltro ci sono e che in via interpretativa e normativa possono essere
superate), ma proprio in quella tendenza che le Camere hanno sempre avuto di bloccare, rallentare
quei contenuti normativi che le vecchie istituzioni, le vecchie strutture organizzative non intendono
far venir meno per una connaturata tendenza a mantenere lo status quo quando le innovazioni sono
particolarmente significative. Tendenza che in parte è legittimata ora dall’art. 39 comma 8 che
consente il mantenimento della vigenza degli attuali regolamenti parlamentari fino alla data di
entrata in vigore delle loro modificazioni. Norma apparentemente innocua e forse necessaria per
garantire la funzionalità delle due Camere fino ad un successivo intervento normativo che, tuttavia,
potrebbe essere approvato con notevole ritardo, consentendo una sorta di auto-adattamento delle
nuove Camere alla precedente normativa, che può inevitabilmente riverberarsi anche sui nuovi testi.
7 Così G.L. CONTI, Regolamenti parlamentari e trasformazione della Costituzione nel superamento del
bicameralismo paritario, in Osservatoriosullefonti.it, fasc. 3, 2015, 4.
405
Questa constatazione critica della tendenziale natura al fossilizzarsi di determinate situazioni o
comunque a cercare di ostacolare le novità a livello istituzionale, così come avviene ancor più a
livello amministrativo, non significa ovviamente che tutta la storia parlamentare, le prassi e le
norme che hanno recepito nel corso degli anni tali indirizzi debbano essere eliminate o
necessariamente superate, ma occorre anche che le novità della riforma siano valorizzate.
In particolare la novità della riforma costituzionale potrebbe essere accentuata o viceversa
annientata in rapporto a come il regolamento del regolamento del Senato disciplinerà due profili
essenziali: i gruppi e le Commissioni permanenti.
Sulla previsione dei gruppi è già stato fatto riferimento al paragrafo precedente, auspicando
l’assenza di gruppi che rappresentino, come avviene attualmente, la proiezione dei partiti. Qualora
si voglia prevedere forme di raggruppamento interno al Senato, come si è detto, sarebbe preferibile
non intenderle in senso politico, ma con riguardo alla provenienza istituzionale (Presidenti di
Regione o di provincia autonoma/Consiglieri/Sindaci) o territoriale (Nord/Sud/Centro/Regioni
Speciali).
Questo diverso raggruppamento potrebbe avere effetti significativi anche con riguardo alla
composizione delle Commissioni permanenti, dopo aver definito se ed in quale numero debbano
essere istituite8. Il numero ridotto di senatori da un lato, e la riformulazione delle competenze
dall’altro, determinerà necessariamente un forte calo del numero di Commissioni permanenti che,
peraltro, possono risultare necessarie limitatamente all’esame delle sole leggi bicamerali, materie
quelle che potrebbero essere teoricamente affrontate anche da una sola o poche Commissioni
(combinato disposto dell’art. 70 c.1 e art. 72 c. 1). Quindi se le Commissioni dovranno/potranno
essere istituite in numero ridotto, si potrebbe ipotizzare una loro formazione in rapporto agli
interessi rappresentati nelle varie componenti del Senato. Da qui il riferimento precedente a gruppi
formati in rapporto alla loro provenienza istituzionale/territoriale. Se infatti si tiene conto della
varietà di competenze del Senato, il modo di tutela degli interessi locali può differenziarsi in modo
significativo: la divisione fra Regioni del nord, del sud o speciali può avere un senso là dove sia
oggetto di disciplina la materia dell’attuazione della normativa europea, oppure le leggi di
attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche o,
ancora, la valutazione delle politiche pubbliche. Una distinzione potrebbe essere poi immaginata fra
8 Anche su tale profilo si rinvia a quanto ampiamente affrontato nel contributo di G.L. CONTI, op. e loc. ult. cit.
406
rappresentanti regionali e comunali, là dove si discute sulle «disposizioni di principio sulle forme
associative di comuni», «le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli
organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane». Con riguardo
a tale legislazione l’interesse dei Sindaci rappresentati in Senato è sicuramente molto diverso da
quello dei Consiglieri regionali, cosicché si potrebbe ipotizzare una rappresentanza all’interno della
Commissione permanente che valorizzi il carattere territoriale/istituzionale e non certo quello
politico.
Questa divisione di interessi da tutelare all’interno del Senato non si manifesterà solo con
riguardo alla funzione legislativa, ma anche con riguardo alla sua funzione consultiva: si pensi ad
esempio al parere che il governo dovrà chiedere al Senato per esercitare il potere sostitutivo in caso
di inerzia di una Regione ex art. 120 c. 2.
Ancora una volta si conferma la necessità di un’organizzazione interna del Senato non in
gruppi politici, cosicché il contenuto del futuro regolamento avrà un ruolo fondamentale per la
realizzazione di tale obiettivo.
4. Elezione di due giudici costituzionali da parte del Senato
(Quesito n. 3) Il ruolo del Senato, che emerge dalla descrizione fino ad ora fatta, induce a
collocare il potere di nomina di due giudici della Corte costituzionale all’interno della funzione
politica non marginale affidata anche al Senato. I futuri giudici di nomina senatoriale saranno
sicuramente più sensibili di altri alle esigenze e agli interessi regionali di cui sono portatori e questo
può essere considerato come un dato negativo di per sé, in quanto i giudici costituzionali hanno
come unico e precipuo compito di tutelare il contenuto costituzionale, indipendentemente dagli
interessi particolari provenienti dall’organo che li ha nominati. Non pare necessario in questa sede
ricordare l’ampio dibattito che vi è stato fin dai tempi dell’Assemblea costituente (ed a lungo anche
dopo) in riferimento al ruolo che i giudici avrebbero dovuto esercitare all’interno dell’organo e del
fatto che la Corte avesse in sé l’anima politica e giurisdizionale insieme che le proveniva anche dai
suoi componenti e dagli organi chiamati a nominarli. Tale natura ibrida della Corte si mantiene e
forse si accentua con la riforma. Si è sempre detto che la Corte è caratterizzata da una presenza
407
ibrida nella sua composizione ed ibrida nel modo di operare. D’altra parte non pare che dinanzi alle
tante competenze legislative sottratte alle Regioni, non vi fosse poi l’opportunità di inserire una
compensazione del ruolo del Senato attraverso un significativo potere di nomina dei componenti
della Corte costituzionale. D’altra parte l’esperienza maturata fino ad ora del procedimento di
nomina da parte del Parlamento in seduta comune ha manifestato non poche contrapposizioni
politiche, veti incrociati sui nomi proposti dai vari partiti e, di conseguenza, significativi ritardi
nelle nomine. I Presidenti della Repubblica e delle Camere più volte hanno dovuto fare appelli
inascoltati ai partiti, rischiando anche un arresto del funzionamento dell’organo.
In sede di approvazione del testo di riforma la Camera dei deputati aveva tentato di
mantenere la nomina dei giudici in seduta comune, ma il Senato non ha approvato l’emendamento,
sia per la volontà di riconoscere un ruolo autonomo e diverso nella nomina dei giudici, ma anche
per evitare una completa depauperazione del suo potere. La significativa differenza numerica dei
Deputati rispetto ai Senatori avrebbe infatti permesso alla Camera di nominare autonomamente tutti
e cinque i giudici della Corte, rendendo marginale un accordo formale con il Senato. D’altra parte
inserire poi, come si era ipotizzato, un quorum articolato per alcuni giudici (elezione dei due giudici
condizionata dal voto favorevole della metà dei senatori) avrebbe significato introdurre un
meccanismo ancor più farraginoso e non avrebbe risolto quel problema, già segnalato, della
difficoltà di giungere ad un’indicazione condivisa. Lo stallo nella nomina dei giudici della Corte
che in questi anni si è verificato in modo molto frequente avrebbe potuto ancor più accentuarsi, con
conseguenti danni al modo di funzionamento dell’organo.
Rimane peraltro il problema dell’inserimento, all’interno dell’assetto della Corte di giudici
che, almeno, come provenienza, potrebbero essere considerati “avvocati delle Regioni”. Né, d’altra
parte, si può ipotizzare che regole interne possano escludere la loro nomina a relatori in tutte le
questioni afferenti alle questioni regionali. Sarà pertanto affidato alla sensibilità dei futuri Presidenti
l’attribuzione o meno delle cause attinenti ad interessi regionali, più o meno significativi, ad i
giudici di provenienza senatoriale.
408
5. Riparto di competenze fra Stato e Regioni ed il problema delle disposizioni generali e
comuni
(Quesito n. 4) Altro profilo che, più di altri, è oggetto di critica e di dibattito sulla riforma
costituzionale, è costituito dalla riduzione dell’autonomia legislativa delle Regioni in conseguenza
sia dell’ampiamento delle materie di competenza esclusiva dello Stato, sia dall’introduzione della
c.d. clausola di supremazia a favore della competenza statale. Questi due indirizzi della riforma, si è
detto, rischiano di trasformare le Regioni in organi di attuazione amministrativa di scelte dello Stato
centrale.
Nessun dubbio che la riforma del titolo V sia stata indirizzata ad un ampliamento della
funzione legislativa dello Stato per motivi politici, ma anche per costituzionalizzare scelte che la
Corte costituzionale aveva agevolato con la propria giurisprudenza al fine di garantire quell’unità
dello Stato che costituisce un valore fondamentale del nostro ordinamento. Si tratta di una scelta di
riduzione delle materie affidate all’autonomia regionale pienamente cosciente e perseguita in
conseguenza dell’esperienza non sempre positiva del rapporto di cooperazione con le Regioni ed
una scelta prevalentemente collegata all’opportunità di affidare alla competenza dello Stato (e non
delle Regioni) l’intervento in settori in cui occorra tutelare l’interesse nazionale.
Se poi andiamo ad analizzare nel dettaglio le nuove materie che sono state affidate alla
competenza esclusiva dello Stato o si tratta di quei settori che sono già in concreto risaliti a livello
statale attraverso la giurisprudenza della Corte costituzionale (vedi ultra) oppure sono state
introdotte materie che lo Stato deve disciplinare attraverso e limitatamente alle «disposizioni
generali e comuni».
Un esempio a tale riguardo è individuabile nell’attribuzione alla competenza statale, non
solo del compito di fissare i livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti sociali, ma, in
modo più specifico, di emanare «disposizioni generali e comuni» in tema di salute e politiche
sociali. Il dubbio è quindi rappresentato dal significato che dovrà essere attribuito a tale
formulazione «disposizioni generali e comuni», se cioè sia un mero strumento per reinserire anche
in questa riforma la competenza concorrente “mascherata” all’interno della competenza esclusiva
ovvero sia effettivamente lasciato al futuro legislatore nazionale il compito di stabilire in modo
autonomo (collegato alla propria sensibilità ed alla materia oggetto di disciplina) la possibilità di
409
Il rischio è tuttavia che l’attuale incidere in misura più o meno ampia in quel particolare settore. Il
rischio è che tale decisione non sia in realtà affidata al legislatore, ma sia poi, di nuovo la Corte
costituzionale ad essere il vero artefice del contenuto della riforma e fornisca la “sua” autonoma
interpretazione del dettato costituzionale, come è avvenuto dal 2001 ad oggi. Come giustamente ha
rilevato Falcon «le parole» usate nel testo costituzionale non significano più quello che
apparentemente significavano9.
In definitiva, è altamente probabile che la competenza legislativa dello Stato di disciplinare
«disposizioni generali e comuni per la tutela della salute» non ampli in modo significativo il suo
intervento in materia sanitaria e comunque non sia maggiore rispetto alla situazione attuale, dato
che lo Stato dovrà operare in un contesto normativo già operante da tempo e con situazioni
differenziate e non unificabili con facilità. Qualora poi si determinasse una marginale compressione
dell’autonomia legislativa, non può certo essere considerato un limite e/o un difetto della riforma
l’introduzione di norme che attribuiscono una più ampia competenza allo Stato al fine di garantire
una maggiore omogeneità delle prestazioni sanitarie. Si potrebbe, anzi, evitare che un diritto
fondamentale e primario, come quello alla salute, possa vedere una così diversa tutela sul territorio
nazionale. In altre parole, la constatazione oggettiva, che la determinazione statale dei livelli
essenziali delle prestazioni non è stata sufficiente a garantire una tutela adeguata ed omogenea del
diritto alla salute, potrebbe indurre a limitare la competenza regionale alla determinazione della
«programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali», quindi in definitiva alla disciplina
normativa di un’attività amministrativa.
Un discorso simile potrebbe essere fatto con riguardo ad altre materie apparentemente
risalite alla competenza statale. La riforma ha ora esteso la competenza statale, oltre che alla salute
e alle politiche sociali ed alla sicurezza alimentare (art. 117 lett. m), agli altri diritti sociali e quindi
all’istruzione in senso ampio (ordinamento scolastico, istruzione e formazione professionale,
università e programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica) (art. 117 lett. n), al
lavoro e alla previdenza (art. 117 lett. o), nonché alla tutela dei beni e delle attività culturali (art.
117 lett. s).
9 G. FALCON, La riforma costituzionale nello specchio del regionalismo, in Le Regioni 2015, 8, anche se poi
precisa che «il nuovo e diverso significato era divenuto, almeno per gli addetti ai lavori, sufficientemente preciso e
determinato». Tale apparente chiarezza d’altra parte non giustifica certo il mantenimento di una formulazione
costituzionale affidata alla discrezionale interpretazione della Corte.
410
Il rischio è tuttavia che l’attuale incertezza nel comprendere l’effettiva portata del concetto
«disposizioni generali e comuni» determini poi la necessità che sia un altro organo a definirne il
concetto ed a precisarne i limiti entro i quali dovrà intervenire lo Stato. Questi limiti appunto, non
dovrebbero essere definiti dalla Corte costituzionale e non dovrebbero incentivare quella
conflittualità fra Stato e Regioni che in questo periodo ha invece caratterizzato il lavoro della Corte,
ma dovrebbero essere definiti all’interno del dibattito parlamentare fra Camera e Senato, nel
momento in cui lo Stato eserciti la sua funzione legislativa esclusiva in quelle materie di confine.
6. Incremento delle materie oggetto di autonomia differenziata e l’autonomia speciale. La
mancanza di coraggio della riforma costituzionale
(Quesiti n. 6 e 7) D’altra parte, l’ampliamento delle competenze legislative statali potrebbe
essere compensato con l’effettiva attuazione del nuovo art. 116, comma 3, Cost., che prevede la
possibilità di attivare «forme e condizioni particolari di autonomia» proprio con riguardo ad alcuni
diritti sociali ed alle politiche sociali. Quell’autonomia differenziata che in questi quindici anni non
ha mai avuto attuazione, ma che si riferisce, nel vigente art. 116 Cost., a materie diverse, potrebbe
in futuro trovare più amplia applicazione, in virtù proprio della tipologia delle materie oggetto di
disciplina nella riforma costituzionale. Si tratta infatti di settori che in gran parte sono stati sino ad
ora oggetto di disciplina regionale, ma attuati in modo non omogeneo, per lo più con disparità di
trattamento dei cittadini abitanti in Regioni diverse ed in modo tale da comprimere fortemente la
garanzia dei diritti ad essi sottesi. Il riconoscimento quindi della “clausola di specializzazione” e
della conseguente maggiore autonomia regionale, ex art. 116 c. 3, potrebbe avere un senso ed una
realizzazione là dove vi sono Regioni efficienti ed attive, Regioni in cui, come dice l’art. 116 ultima
parte, vi sia un equilibrio di bilancio fra le entrate e le spese.
Auguriamoci che questa situazione di stabilità economica non sia appannaggio solo di
alcune Regioni speciali che, proprio grazie alla loro specialità ed alla situazione economica di
favore
(che crea una disparità di trattamento con le altre Regioni ed il resto della cittadinanza),
possano beneficiare di ulteriori e più ampie autonomie.
411
E qui si apre il nodo doloroso dell’assenza di una disciplina delle Regioni speciali ed anzi la
mancanza di coraggio di un superamento dell’autonomia speciale che in questa fase di riforma
poteva essere raggiunta. Dopo sessant’anni dalla sua istituzione il mantenimento di un’autonomia
speciale non ha più alcuna ragione di esistere e costituisce, anzi, causa di grave disparità di
trattamento fra i cittadini della Repubblica.
Più volte ho scritto sulla mia contrarietà al mantenimento di questa situazione di eccessivo
favore nei confronti delle Regioni speciali che, seppur giustificato dopo la seconda guerra mondiale,
non ha più alcun senso attualmente10
. Altrettanto ed ancor di più non pare giustificata la situazione
di particolare favore riconosciuta alle Province di Trento e di Bolzano che costituiscono a tutti gli
effetti due Regioni. Il consueto richiamo agli accordi De Gasperi-Grüber e alla non superabilità del
relativo Accordo è sicuramente improprio e forse derivante da una non attenta lettura del testo
originario dell’atto. Infatti oltre al riconoscimento delle minoranze linguistiche e di tutte le
conseguenze connesse (insegnamento della lingua, uso del bilinguismo nelle pp.aa.) si afferma la
necessità della concessione dell’esercizio «di un potere legislativo ed esecutivo autonomo». Niente
di più. Tutto ciò non giustificava in passato, e non giustifica ancor più ora con gli impegni
economici imposti dalle norme comunitarie, un trattamento di particolare favore così come è
riconosciuto nello Statuto del Trentino Alto-Adige ed in una serie di leggi ad esso connesse (non
ultima le legge sulla proporzionale etnica, in violazione dell’art. 3 e dei principi contenuti nell’art.
97 Cost.). Sono anche convinta, peraltro, che il superamento dell’attuale formulazione dell’art. 114
Cost. sia una proposta politicamente non percorribile, non giuridicamente percorribile. Ma l’ultima
e definitiva formulazione dell’art. 39 comma 13 della riforma è fortemente criticabile, perché
somma l’esclusione d’efficacia della riforma costituzionale alle Regioni speciali rinviandone gli
effetti all’approvazione dei nuovi Statuti, ad un procedimento di approvazione degli statuti speciali
condizionato integralmente alla discrezionalità della Regione stessa.
Già la legge costituzionale n. 2 del 2001, collegata alla più ampia riforma del titolo V, aveva
introdotto una situazione di particolare favore per l’approvazione dei nuovi statuti speciali con la
previsione o di un’iniziativa legislativa della stessa Regione o comunque il parere di essa per la
riforma statutaria. Si è previsto poi, sempre con la legge cost. n. 2/2001, che il referendum
10
In particolare E. CATELANI, Venti risposte, o quasi, su Regioni e riforme costituzionali: occorre ancora fare
chiarezza sul ruolo dello Stato e delle Regioni, in Le Regioni, 2015, 1/2015, 109 ss., nonché i vari interventi pubblicati
in Osservatoriosullefonti.it
412
costituzionale fosse limitato ai cittadini della stessa Regione, in deroga al procedimento dell’art.
138 Cost., così da rendere praticamente impossibile una riforma degli Statuti speciali anche solo
parzialmente limitativa della loro autonomia legislativa ed in particolare finanziaria. Non a caso, dal
2001 ad oggi non è stata approvata alcuna legge costituzionale di riforma degli Statuti speciali e le
prospettive di riforma saranno ancor più ridotte nel momento in cui il procedimento sarà affidato
alla volontà preponderante delle Regioni. L’art. 39 comma 3 della riforma costituzionale condiziona
infatti la revisione degli Statuti speciali ad “intese” con le medesime Regioni e Province Autonome.
Queste, dunque, non avranno mai l’interesse ad iniziare un procedimento di riforma dei propri
Statuti che possa determinare una riduzione delle proprie competenze ed in ogni caso creeranno
ogni ostacolo ad ogni soluzione riduttiva della loro autonomia legislativa.
A questa situazione di particolare favore, si aggiunge l’approvazione del c.d. emendamento
Zeller, che ha esteso l’ampliamento dell’autonomia differenziata, così come disciplinata dall’art.
116 comma 3 nuova formulazione, anche alle Regioni speciali ed alle Province autonome. Cosicché
è altamente probabile, come si è detto, che le uniche Regioni che riusciranno ad avere i bilanci in
regola11
, condizione essenziale per la maggiore autonomia, saranno proprio quelle Regioni speciali,
così da incrementare ulteriormente la disparità di trattamento.
Se poi a ciò si aggiunge la situazione paradossale per cui alle Regioni speciali si
manterrebbe una situazione di ampia competenza in virtù dell’art. 10 della legg. cost. n. 3/01 dove
si prevede che «Sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge
costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle province autonome di
Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle
già attribuite», si determina che nei riguardi di queste Regioni la competenza legislativa dello Stato
sarebbe particolarmente ridotta. Quella norma, infatti, non venendo abrogata dovrebbe rimanere in
vita fino all’approvazione dei nuovi Statuti speciali.
In definitiva la mancanza di volontà del legislatore costituzionale di definire il problema
delle autonomie speciali incrementa ancor di più la disparità di trattamento fra Regioni e fra
cittadini, andando a ledere l’art. 3 Cost., contenente un principio fondamentale dell’ordinamento.
11
O, meglio, come dice la norma «equilibrio fra le entrate e le spese».
Notazioni sulla riforma costituzionale
di Luigi Ventura
(Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università “Magna Græcia” di Catanzaro)
(16 maggio 2016)
Una premessa è d’obbligo quando si parla di riforme costituzionali. Una premessa che
attiene al metodo, alle modalità con cui esse devono avere luogo.
Non mi riferisco qui alla vecchia questione se l’art. 138 della Costituzione consenta
modifiche di ampia portata o soltanto interventi specifici e mirati di manutenzione del testo
costituzionale. Tale questione è stata, di fatto, superata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 che,
com’è noto, con una esigua maggioranza, ha modificato integralmente e organicamente (ma forse
sarebbe meglio dire: disorganicamente…) tutto il Titolo V della Parte II della Costituzione, già
peraltro significativamente revisionato dalla legge costituzionale n. 1 del 1999 che aveva introdotto
l’elezione diretta dei Presidenti di Regione e importanti novità nella disciplina degli statuti
regionali, in quello che era stato presentato a suo tempo come una sorta di processo riformatore in
progress. In seguito c’è stata la riforma del centrodestra (la cosiddetta devolution) del 2005,
respinta con perdite poi dal corpo elettorale del 2006, che tuttavia modificava ben 54 articoli della
Carta fondamentale. I precedenti ci sono, e tuttavia rimango dell’idea che l’art. 138 non consenta al
potere costituito di trasformarsi in costituente. Ma questi sono concetti fondamentali del
costituzionalismo che non interessano minimamente la politica e che, lo dico per esperienza diretta,
i politici non capiscono. Difatti, dinanzi a questa osservazione, che per me rappresentava un dogma,
negli anni ’90, rispetto all’idea, sempre attraverso l’articolo 138 e, quindi, con legge costituzionale,
di convocare un’Assemblea costituente per fare le riforme, mi fu risposto cinicamente: «Vuol dire
che la chiameremo diversamente!». Ed io, che non ho rispetto verso gli irrispettosi, consigliai di
chiamarla «Filippo». Non se ne fece nulla. Almeno non fino a tal segno. Anche se si tratta di una
idea che ogni tanto riemerge. Mi riferisco piuttosto alla circostanza che sarebbe auspicabile, nella
dimensione fisiologica di una democrazia matura, nutrire nei confronti del testo costituzionale un
rispetto che non è oltranzistica difesa di un testo obsoleto, come qualcuno ha definito le prime
reazioni di talune autorevolissime voci della dottrina italiana, ma espressione di quel patriottismo
costituzionale e di quell’etica repubblicana la cui carenza è uno dei mali endemici di questo Paese.
Ed è sufficiente ricordare come il testo di cui si parla fu elaborato da uomini del calibro di
Costantino Mortati, Aldo Moro, Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti, tutti professori universitari, e
(se è ancora consentito il dire) da Palmiro Togliatti e da Pietro Nenni, nonché, senza mancare di
rispetto alla memoria di altrettanti accademici, da giuristi ed economisti come Gaspare Ambrosini,
414
Giuseppe Maria Bettiol, Piero Calamandrei, Carmelo Caristia, Giuseppe Codacci Pisanelli, Orazio
Condorelli, Camillo Corsanego, Luigi Einaudi, Amintore Fanfani, Giovanni Leone, Vittorio
Emanuele Orlando, Tomaso Perassi, Ezio Vanoni, Antonio Segni, Egidio Tosato, Paolo Treves. Il
testo venne poi “ripulito” da un grande letterato e latinista come Concetto Marchesi, sui cui testi si
sono formate intere generazioni di italiani. Bisognerebbe ricordarsi di ciò anche quando si trascura
la formulazione linguistica dei nuovi enunciati normativi che si vorrebbero introdurre nella legge
fondamentale, praticando un pessimo drafting, alla stregua di tante leggi scritte assai peggio di un
regolamento, redatto da volenterosi condòmini. Una domanda sorge spontanea: chi ha redatto la
riforma costituzionale?
La Costituzione non è certo un testo sacro, immutabile, pietrificato. E, tuttavia, occorrerebbe
avere maggiore consapevolezza del suo valore etico e culturale, ancora prima che giuridico, ogni
volta che si ha la tentazione di dare avvio a nuove avventure riformatrici, che rischiano di perpetrare
quell’uso congiunturale della Costituzione di cui ha parlato tempo addietro Antonio Ruggeri e che
fu paventato dagli stessi Costituenti, i quali per questo intesero redigere l’art. 138 e crearono una
Costituzione garantita dalla sua rigidezza, diffidando di maggioranze contingenti. Era il tempo della
meravigliosa illusione.
E, per l’appunto, si fa qui riferimento all’idea che la maggioranza politica di turno possa
riscrivere la “propria” Costituzione, dimenticando (o ignorando) che la legge fondamentale è tale
proprio perché è di tutti e si pone al di sopra dei particolarismi faziosi. Mentre la Grande Riforma
(senza alcun riferimento, e meno che mai richiamo, a taluni “spettri” della Repubblica, forse
inconsapevolmente e talvolta emulati) consisterebbe nell’attuarla finalmente in tutte le sue parti.
Appare ancora più grave l’uso strumentale della Costituzione allorché, in contrasto con
l’etica repubblicana ed il rigore costituzionale, si fa dipendere la permanenza in carica del Governo
e del Presidente del Consiglio dall’esito positivo del referendum. Il che, oltre che scorretto in sé,
può avere effetti sul voto, potendo spingere al no quanti lo “odiano” (espressione usata dallo stesso
Premier: www.askanews.it; La Stampa di mercoledì 13 aprile 2016) e costringere al sì per fedeltà o
per “onore di bandiera”, ovvero per interesse politico. Mi verrebbe da dire: la Costituzione al tempo
delle crociate (sia concesso il minuscolo). Ma evocare, forse inconsapevolmente, come faceva altro
illustre Presidente del Consiglio (l’“invidia” dei comunisti, il “partito dell’amore” (sic!) e “quello
dell’odio”), la dialettica schmittiana “amico-nemico” prelude ad esiti che nulla hanno a che fare con
415
il pluralismo e con la tolleranza. Anche volendo ammettere che la forma del “dibattito” politico sia
ormai geneticamente modificata, in peius, naturalmente.
Il disegno di legge costituzionale di riforma, nonché la propaganda a sostegno, non
sembrano sottrarsi a queste tendenze ormai sempre più radicate nella prassi politica.
La più importante novità introdotta dal testo è, com’è noto, il superamento del
bicameralismo perfetto o paritario, con l’esclusione del Senato dal circuito dell’indirizzo politico.
In base al nuovo art. 55 della Costituzione, nel testo di riforma, soltanto i membri della
Camera rappresenteranno la Nazione (comma 3) e soltanto la Camera sarà «titolare del rapporto di
fiducia con il Governo» ed eserciterà «la funzione di indirizzo politico, la funzione legislativa e
quella di controllo dell’operato del Governo» (comma 4).
Al Senato della Repubblica spetterà il ruolo di rappresentare le «istituzioni territoriali» e di
esercitare «funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica» (comma 5).
Il secondo ramo del Parlamento avrà, inoltre, una funzione ancillare nell’esercizio della stessa
funzione legislativa.
Quest’ultima continuerà ad essere esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di
revisione costituzionale e per le altre leggi costituzionali, per le leggi di attuazione delle
disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, per quelle relative ai
referendum popolari, alle altre forme di consultazione previste dall’art. 71 della Costituzione, per
quelle che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni
fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme
associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della
partecipazione dell’Italia alla formazione ed all’attuazione della normativa e delle politiche dell’UE
e per altre leggi previste dal nuovo art. 70 Cost., comma 1.
Si tratta, come si può vedere, di atti normativi alla cui formazione non sempre appare
giustificabile l’apporto di un organo, come il nuovo Senato, rappresentativo, come si vorrebbe dire
(altra cosa essendo, come è del tutto evidente il Senato degli Stati Uniti o il Bundesrat tedesco),
delle istituzioni territoriali; non si vorrebbe che fosse in realtà rappresentativo di forze, di coalizioni
più o meno omogenee e di potentati di singole regioni o, meglio, di singole realtà territoriali.
Tra l’altro, non è prevedibile nemmeno l’impatto istituzionale che avrà la formazione di tale
organo in termini di rappresentanza. Esso, oltretutto, non sarà più al vertice del potere legislativo
416
(come naturale conseguenza della scelta del bicameralismo non paritario) e quindi non più
superiorem non recognoscens. Verrà meno, dunque, la sua qualità di organo costituzionale
indefettibile, caratterizzante oltretutto la forma di governo, dato che sarà escluso dal rapporto
fiduciario e quindi dal circuito dell’indirizzo politico dello Stato.
Difatti, tutte le altre leggi saranno approvate dalla Camera dei deputati e al Senato spetterà
soltanto di avanzare proposte di riforma, rimanendo, comunque, l’ultima parola sempre in capo alla
Camera. Insomma, un organo prevalentemente consultivo.
Particolari procedure sono poi previste per le leggi statali che intervengano in materie di
potestà riservata alle Regioni (nuovo art. 117 comma 4) e per quelle relative all’art. 81 Cost.
Il quadro complessivo dei procedimenti di formazione delle leggi non ne risulta affatto
semplificato se Emanuele Rossi ha contato complessivamente ben 9 tipi di procedimento.
Il vero nodo problematico, su cui non si è riflettuto abbastanza, è però quello relativo alle
modalità di formazione del nuovo Senato: il nuovo art. 57 della Costituzione prevede, difatti, che
l’organo sarà composto da 95 senatori «rappresentativi delle istituzioni territoriali» e da 5 senatori
nominati dal Presidente della Repubblica. I Consigli regionali e i consigli delle Province autonome
di Trento e di Bolzano eleggeranno, «con metodo proporzionale», i senatori tra i propri componenti
e, «nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori».
Nessuna Regione potrà avere un numero di senatori inferiore a due, mentre ciascuna delle
province autonome di Trento e di Bolzano ne avrà due.
La ripartizione dei seggi tra le Regioni si effettuerà, «in proporzione alla loro popolazione
quale risulterà dall’ultimo censimento generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti».
Dato molto importante è quello relativo alla durata del mandato, che coinciderà con quella
degli organi delle istituzioni territoriali dalle quali saranno stati eletti, in conformità alle scelte
espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi,
secondo le modalità stabilite dalla legge di attuazione.
Tutto viene rimandato, pertanto, come testé accennato, ad una successiva legge di
attuazione, che potrà orientare in sensi anche molto diversi le concrete modalità di designazione dei
senatori.
417
In attesa dell’approvazione della legge di attuazione, si applicherà il metodo previsto, in via
transitoria, dall’art. 39 del disegno di legge costituzionale, il quale prevede una elezione indiretta
dei senatori da parte dei consiglieri regionali e delle province autonome.
Si può rilevare come, nel complesso, si tratti di una soluzione piuttosto pasticciata e
comunque insoddisfacente, frutto di un cattivo compromesso politico. Oltretutto, viene alla mente
ciò che accade non di rado ai sindaci (che pur in numero ridotto, faranno parte dell’organo) che
dovranno fuoriuscire dal Senato, in caso di decadenza, di sfiducia, ovvero di scioglimento dei
Consigli comunali (ma la stessa cosa vale per i consiglieri regionali): non sarà costantemente in
pericolo, ad esempio, la maggioranza di cui facciano parte?
Il nuovo Senato appare un organo depotenziato, in equilibrio instabile, soggetto com’è ad un
continuo e incontrollato ricambio di componenti.
Se il presupposto della sua abolizione era il taglio delle spese della politica (argomento
spesso sbandierato con grandissima vena populista ed ora consigliato da illustri (?) spin doctors
d’oltreoceano come strumento vincente di propaganda), si sarebbe anche potuto procedere ad un
dimezzamento del numero dei deputati e all’introduzione di un Senato composto semplicemente da
cento senatori elettivi, più quelli a vita o di diritto, con funzioni in grado di superare la logica del
bicameralismo perfetto, ma pur sempre nel contesto di un sistema equilibrato di pesi e contrappesi.
Anche se il sottoscritto rimane convinto assertore dell’unicameralismo, con la riduzione del numero
dei deputati (che sarebbero pertanto più rappresentativi), secondo una concezione istituzionale cara
al glorioso P.C.I.
Sarebbe stato meglio – e sarebbe meglio – lasciare sindaci, presidenti di regione e
consiglieri regionali a fare il proprio mestiere, magari procedendo ad un ripensamento complessivo
del sistema delle autonomie anche più radicale ed incisivo di quello prefigurato dalla riforma, che si
limita a costituzionalizzare le soluzioni elaborate dalla Corte costituzionale nella sua giurisprudenza
e a cancellare dal Titolo V le Province.
Per quanto riguarda, infatti, questa seconda parte del disegno di legge costituzionale,
specificamente relativa all’assetto delle autonomie territoriali, la riforma cancella le materie di
potestà legislativa concorrente dall’art. 117 Cost. (potestà che, a dire il vero, non aveva alimentato
un contenzioso significativo dinanzi alla Corte costituzionale, contenzioso determinato soprattutto
dall’esigenza di definire i confini delle materie di potestà esclusiva del legislatore statale rispetto a
418
quelle di potestà residuale delle Regioni). Essa, inoltre, reintroduce l’“interesse nazionale”,
cancellato dalla precedente riforma del 2001, prevedendo nel nuovo comma 4 dell’art. 117 che «su
proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla
legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della
Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale«.
L’ispirazione centralistica della riforma, in quest’ambito, è evidente; ed è giusta ricompensa
per quanti hanno vaneggiato per un ventennio di federalismo pur discorrendo di autonomia. Mentre
il ritorno dell’interesse nazionale va salutato con soddisfazione da chi, come il sottoscritto, ha
sempre sostenuto che “in natura” non è dato riscontrare un federalismo per scissione, essendo di
tutta evidenza inutile, al fine contraddittorio, il richiamo alle istituzioni del Belgio.
Non mi interessa in questa fase fare “le pulci” alla riforma (dopo quella del 2001 e per
effetto della stessa) dell’ordinamento regionale che, come che sia, dà costantemente pessima prova
di sé. Lo lascio fare agli specialisti del settore, essendomi dichiarato fin da giovane studioso
estraneo alla tematica.
Con molta cautela è poi da vedere se realmente la potestà legislativa concorrente sparisca
effettivamente per effetto del necessario paragone, tratto dalla dottrina, tra la formula «disposizioni
generali e comuni» e quella dei «principi fondamentali» presente nell’ancora vigente art. 117, III
comma, Cost. Rimane in sostanza il dubbio che la potestà concorrente, uscita dalla porta, rientri
dalla finestra. Così come non è chiara, in termini di prevalenza, la clausola di specialità di “maggior
favore” sulla previsione in base alla quale non si applicherà il nuovo Titolo V fino alla revisione
degli Statuti speciali, che ovviamente richiederà ulteriori leggi di revisione costituzionale (con quali
maggioranze? Occorrerà un nuovo referendum? Facendo sommessamente presente che solo la
Sicilia ha oltre 5 milioni di abitanti). Mentre qui si può solo accennare alla clausola di “supremazia”
a favore dello Stato, in relazione al destino incerto della “chiamata in sussidiarietà”.
Insomma, grande confusione: e sarà ancora la Corte costituzionale a fare, se possibile,
chiarezza, con un aumento si crede qui esponenziale del contenzioso Stato-Regioni.
Al di là, tuttavia, delle varie carenze del testo e delle “dimenticanze” dei riformatori (come
quella relativa all’art. 118 Cost. e alla funzione amministrativa, in relazione alla quale non si
riscontra alcun significativo intervento), restando evidentemente ferma la riscrittura operata dalla
Corte costituzionale con, ad esempio, la reintroduzione del “parallelismo alla rovescia”, il dato più
419
importante che sembra emergere dall’analisi delle soluzioni normative prospettate dal testo di
riforma è la scarsa considerazione per il sistema delle garanzie costituzionali, che pure avrebbe
meritato un ripensamento complessivo a fronte della programmata (drastica) semplificazione
dell’assetto istituzionale.
Si prevede soltanto l’elezione di due giudici costituzionali “regionali” e s’introduce un
ricorso preventivo alla Corte costituzionale per le sole leggi in materia elettorale, al fine di evitare
inconvenienti analoghi a quelli che si sono verificati quando si è trattato di sindacare la precedente
legge elettorale, annullata, com’è noto, dalla sentenza n. 1 del 2014, dopo che due Parlamenti erano
stati eletti con quella normativa. E, riguardo all’elezione dei due giudici costituzionali, non credo
affatto, come si auspica in dottrina, che il Senato eleggerà tecnici di alto profilo regionalista,
trascurando logiche e dinamiche politiche. Altro è che poi i giudici eletti traggano la loro
legittimazione sostanziale dal ruolo che l’ordinamento conferisce alla Corte.
Ancora una volta si manifesta il seducente ma ingannevole miraggio della capacità
taumaturgica delle riforme costituzionali nei confronti dei mali del sistema politico. Ancora una
volta si trascura il fatto che l’ingovernabilità dipende solo in parte (e per la sua parte probabilmente
non prevalente) dall’insufficienza delle regole giuridiche. Sono soprattutto le prassi e le regolarità
politiche distorte, segno di un deterioramento etico ormai in atto da tempo, a incidere
negativamente sulla resa delle istituzioni democratiche. E comunque, se proprio ci si vuole
dedicare, come ancora ci si ostina a fare, all’ingegneria costituzionale, non è possibile sacrificare
sull’altare della governabilità le insopprimibili esigenze della rappresentatività. Non è possibile se
si vuole ovviamente salvare l’identità più preziosa delle stesse istituzioni democratiche.
La composizione delle giunte comunali alla luce della l. n. 56 del 2014
e della (più recente) giurisprudenza amministrativa
di Ugo Adamo
(Dottore di ricerca in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali presso l’Università di Pisa)
(21 maggio 2016)
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La novità introdotta dall’art. 1, comma 137, della l. n. 56 del 2014. – 3. Le
pronunce dei Tribunali Amministrativi Regionali sul valore cogente e precettivo della quota percentuale ex legge. – 4.
Per il Consiglio di Stato le norme sulla composizione equilibrata delle giunte comunali sono da considerarsi come
inderogabili. – 5. Conclusioni … e mancanze nella legge n. 56 del 7 aprile 2014.
1. Premessa
Le note che seguono hanno l’intento di offrire qualche riflessione sulle questioni poste
dall’entrata in vigore dell’art. 1, comma 137, della legge n. 56 del 2014 (nota giornalisticamente
come legge Delrio) per cui «Nelle giunte dei Comuni con popolazione superiore a 3000 abitanti,
nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con
arrotondamento aritmetico». Le riflessioni proposte si accompagneranno all’analisi di alcune
recentissime decisioni dei giudici amministrativi stante la reticenza di alcuni amministratori a dare
seguito (fin da subito) all’indicazione della norma di legge su richiamata.
La disciplina sulla parità di genere12
nelle giunte comunali ha conosciuto negli ultimi anni
una significativa riscrittura, non del tutto ordinata però, che ha prodotto una pluralità di norme che
incidono sullo stesso oggetto, vale a dire sul vincolo a cui deve attenersi un sindaco che, una volta
eletto, deve nominare la “sua” giunta. Si è, dunque, dinanzi ad un obbligo ricadente sul titolare del
potere politico degli enti territoriali a che sia rispettato il principio costituzionale di pari opportunità
tra i sessi nel momento in cui viene predisposta la nomina dei componenti gli esecutivi degli enti
medesimi.
Scritto sottoposto a doppio referaggio anonimo.
12 Novellato di recente è anche il quadro legislativo circa le misure da utilizzarsi al fine di promuovere la parità
tra i sessi nella composizione degli organi elettivi (statale, regionale ed europeo) e in fase ancora di approvazione è
quello costituzionale. Su tali novità si rinvia, per tutti, agli ampi e recenti saggi di A. FALCONE, Misure di riequilibrio di
genere nel disegno di revisione costituzionale e nella recente legislazione in materia elettorale e di finanziamento ai
partiti politici, in www.forumcostituzionale.it (22 dicembre 2015); ID., Partecipazione politica e riequilibrio di genere
nelle assemblee elettive e negli organi di governo: legislazione e giurisprudenza costituzionale nell’ordinamento
italiano, in www.rivistaaic.it, 1/2016; E. BINDI, La promozione dell'equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza
(artt. 55, comma 2, e 122, comma 1, cost.), in www.osservatoriosullefonti.it, n. 1/2016. A livello di normativa statale
(materia concorrente) con rilevante ripercussione su quella regionale è da segnalare la recente legge 15 febbraio 2016,
n. 20 “Modifica all’articolo 4 della legge 2 luglio 2004, n. 165, recante disposizioni volte a garantire l’equilibrio nella
rappresentanza tra donne e uomini nei consigli regionali”.
421
Una composizione equilibrata dei generi nella composizione della giunta comunale
rappresenta un preciso mandato costituzionale a norma dell’art. 51, comma 1, della Cost. – oltre che
dell’art. 3 Cost. – nella misura in cui si garantisce sia alle donne sia agli uomini la possibilità di
accedere agli uffici pubblici in condizione di uguaglianza. Tale disposto costituzionale, infatti,
sancisce che le pari opportunità devono essere promosse con «appositi provvedimenti»13
dalla
Repubblica, e, dunque, anche dai Comuni ex art. 114 Cost.14
.
Da tale premessa, si può ben cogliere il legame intercorrente tra la disposizione
costituzionale appena richiamata e l’art. 6, comma 3, del d. lgs. n. 267 del 2000 (Testo Unico degli
Enti Locali, d’ora in poi TUEL), per il quale «Gli statuti comunali […] stabiliscono norme […] per
promuovere la presenza di entrambi i sessi nelle giunte […] del Comune».
Altra disposizione incidente sulla composizione equilibrata della giunta comunale è l’art. 46,
comma 2, TUEL, così come modificata dall’art. 2, comma 1, lett. b), della legge 23 novembre 2012,
n. 215 («Disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e
nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali. Disposizioni in materia di pari opportunità
nella composizione delle commissioni di concorso nelle pubbliche amministrazioni»). Infatti, se la
disposizione previgente si limitava a disporre che «Il sindaco […] nomina […] i componenti della
giunta, tra cui un vicesindaco [e ne dà …] comunicazione al consiglio nella prima seduta successiva
alla elezione», quella ora vigente specifica che la nomina deve muoversi «nel rispetto del principio
di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi»15
.
13
Su tale inciso, almeno, S. LEONE, L’equilibrio di genere negli organi politici. Misure promozionali e
principi costituzionali, Milano 2013, 103 ss. 14
Una precisazione sul perché non si tratta anche delle giunte provinciali e delle Città metropolitane. Nella
legge 7 aprile 2014, n. 56, sull’istituzione delle Città metropolitane ed il riordino delle Province, per tali enti non è più
prevista la giunta, ma un altro organo assembleare (consiglio metropolitano nelle città metropolitane e assemblea dei
sindaci nelle Province), che è composto de iure da tutti i sindaci del territorio la cui composizione, dunque, prescinde da
un atto di nomina. 15
In dottrina, ampiamente sulla riforma legislativa, si v. L. MACCARONE, Misura minima e composizione
“equilibrata” delle giunte locali dopo la legge n. 215 del 2012, in www.federalismi.it e molto di recente l’ampio e
articolato lavoro di S. LEONE, Sulla conformazione delle Giunte degli Enti locali al canone delle pari opportunità:
alcune riflessioni alla luce delle innovazioni legislative e della giurisprudenza più recente, in
www.forumcostituzionale.it (8 gennaio 2015). La norma dispone una modifica anche all’art. 6 TUEL (dedicato agli
statuti comunali), sancendo che «1. Al comma 3 dell’articolo 6 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, la parola “promuovere” è sostituita dalla seguente “garantire”
e dopo le parole “organi collegiali” sono inserite le seguenti “non elettivi”. 2. Entro sei mesi dalla data di entrata in
vigore della presente legge gli enti locali adeguano i propri statuti e regolamenti alle disposizioni del comma 3
dell’articolo 6 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal comma 1 del
presente articolo». Già prima dell’entrata in vigore della normativa, e a ben vedere, è apparso abbastanza scettico chi ha
affermato che l’utilizzo del verbo garantire (che comunque ha una maggiore valenza prescrittiva) anziché promuovere
non appare (da solo) decisivo, A. DEFFENU, Il principio di pari opportunità di genere nelle istituzioni politiche, Torino,
2012, 65, nota 24. L’A. coglie sicuramente il vero quando afferma che tale previsione, almeno dopo la giurisprudenza
amministrativa che applica direttamente l’art. 51 Cost., si limita a registrare una situazione giuridica già esistente, anche
se viene rilevata «una portata chiarificatrice» da parte del giudice amministrativo (TAR Roma-Lazio, Sez. II, sent. n.
633 del 21 gennaio 2013, pto. 7) quando, applicando per la prima volta tale norma, ne rileva una notevole portata. Una
norma simile è ora presente anche nell’art. 25, comma 3, dell’ordinamento di Roma capitale, per quanto riguarda la
nomina della giunta capitolina, che positivizza anche la giurisprudenza amministrativa sull’onere motivazionale
422
Siamo, quindi, davanti ad una pluralità di disposti normativi (costituzionali, legislativi e
statutari). La giurisprudenza amministrativa ha ormai molto bene ed efficacemente riconosciuto
diretta applicabilità all’art. 51 Cost.16
, nonché natura precettiva e vincolante alle norme statutarie
degli statuti comunali nelle quali sono previste (come si è appena visto) misure per la promozione
delle presenza (più o meno) equilibrata di entrambi i sessi17
, con la precisazione che l’eventuale
assenza di tali misure non può costituire un espediente per eludere l’obbligo gravante dai precetti
legali e costituzionali 18
.
Se tale giurisprudenza ormai costituisce un vero e proprio diritto vivente, le novità
normative introdotte con la l. n. 56 del 2014, seppur con qualche rilevante modifica, si inseriscono
in un quadro normativo caratterizzato da una piena e completa precettività delle norme incidenti
dell’atto di nomina del sindaco: «fra i nominati è garantita la presenza, di norma in pari numero, di entrambi i sessi,
motivando le scelte difformemente operate con specifico riferimento al principio di pari opportunità». In tema M.
D’AMICO, La lunga strada della parità fra fatti, norme e principi giurisprudenziali, in www.rivistaaic.it, 3/2013, 4. 16
Su tutte TAR Campania, Sez. I, sent. n. 1427 del 10 marzo 2011, che definisce la disposizione costituzionale
come un «parametro di legittimità sostanziale di attività amministrative discrezionali, rispetto alle quali si pone come
limite conformativo». M. D’AMICO, Op. cit.; M. D’AMICO, S. CATALANO, Le sfide della democrazia paritaria. La
parità dei sessi fra legislatore, Corte costituzionale e giudici, in AA.VV., Scritti in onore di Alessandra Concaro, a
cura di G. D’Elia, G. Tiberi, M.P. Viviani Schlein, Milano 2012, 171-180; M.A. GLIATTA, Le pari opportunità tra
principi (legislativi) e regole (costituzionali), in Le Regioni, 6/2011, 1159-1174; A. AMATO, Focus sulla giurisprudenza
amministrativa in materia di pari opportunità nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, in Istituzioni del
federalismo, 4/2011; F. COVINO, La natura prescrittiva del principio del riequilibrio dei sessi nella rappresentanza
politica, in www.rivistaaic.it, 3/2012; F. LISENA, «Simul stabunt nomine, simul cadent»: cadono le giunte comunali
composte da soli membri maschi in applicazione diretta della Costituzione, in Giurisprudenza di merito, 4/2012, 944
ss.; S. CATALANO, Associazioni politiche , in AA.VV., Diritti e autonomie territoriali, a cura di A. Morelli, L. Trucco,
Torino 2014, 38. Se si vuole, si v., anche, U. ADAMO, La ‘promozione’ del principio di pari opportunità nella
composizione delle giunte negli enti territoriali alla luce della più recente giurisprudenza amministrativa. Nota a TAR
Campania, sez. I, sentenza del 10 marzo 2011, n. 1427, in www.rivistaaic.it, 2/2011. 17
Si v., quindi, ex multis, TAR Puglia, Sez. III, ord. n. 680 del 6 luglio 2005; TAR Puglia, Sez. III, ord. n. 474
del 12 settembre 2008 e sent. n. 2913 del 18 dicembre 2008; TAR Puglia-Lecce, ord. n. 740 del 23 settembre 2009;
TAR Puglia-Lecce, Sez. I, ord. n. 792 del 21 ottobre 2009; TAR Puglia, Sez. I, sent. n. 2443 del 22 ottobre 2009; TAR
Molise, Sez. I, ord. n. 51 del 24 febbraio 2010 e Consiglio di Stato, Sez. V, decreto 4 marzo 2010; TAR Puglia-Lecce,
Sez. I, sent. n. 622 del 24 febbraio 2010; TAR Sicilia, Sez. I, sent. n. 8690 del 19 luglio 2010; TAR Napoli-Campania,
Sez. I, sent. n. 12668 del 7 giugno 2010; TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sent. n. 14384 del 27 dicembre 2010; TAR
Campania, Sez. I, sentt. n. 5167 del 7 novembre 2011, n. 4758 del 12 ottobre 2011, nn. 4758 e 1427 del 10 marzo 2011;
Consiglio di Stato, Sez. V, sent. n. 4502 del 27 luglio 2011, n. 3670 del 21 giugno 2012, TAR Latina-Lazio, Sez. I, sent.
n. 279 del 27 marzo 2013; Consiglio di Stato, Sez. V, sent. n. 6073 del 18 dicembre 2013; TAR Reggio Calabria-
Calabria, sent. n. 105/2013, del 5 gennaio; Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 3938 del 24 luglio 2014; Cons. St., Sez. V, sent.
n. 3146 del 27 luglio 2011; TAR Puglia-Bari, Sez. I, sent. n. 552 del 30 aprile 2014, consultate, tutte, in www.giustizia-
amministrativa.it. Cfr., oltre alla dottrina citata nella nota precedente, agli ampi lavori di A. DEFFENU, op. cit., 64 ss.; S.
LEONE, L’equilibrio di genere, cit., 127 ss. 18
Fra le ultime cfr. TAR Calabria-Reggio Calabria, Sez. I, sent. n. 70 del 26 gennaio 2016.
423
sulla composizione equilibrata degli organi di governo che richiedono il raggiungimento del
risultato della “scomparsa” delle giunte monogenere (al maschile).
Per una interpretazione non immediatamente precettiva, o comunque non indefettibile della
novellata disposizione, hanno spinto, però, alcuni sindaci i cui decreti di nomina di assessori sono
stati oggetto (nuovamente) di ricorso innanzi alla giustizia amministrativa (di prime cure e di
gravame) che, richiamando ed integrando la giurisprudenza già prodotta in materia, ha ribadito la
cogenza delle norme sulla pari rappresentanza tra i sessi.
2. La novità introdotta dall’art. 1, comma 137, della l. n. 56 del 2014
L’entrata in vigore dell’art. 1, comma 137, della l. n. 56/2014, per come vedremo, pone
alcune rilevanti questioni interpretative. La normativa in cui si inserisce la novella legislativa si
riferiva ad una non meglio precisata «presenza di entrambi i sessi». Secondo l’interpretazione
maggiormente diffusa di tale frammento normativo, il vincolo ricadente sul sindaco nell’atto di
nomina della giunta poteva limitarsi alla previsione di anche un solo componente per entrambi i
sessi19
. Tale interpretazione, se da una parte era senz’altro conforme alla lettera della disposizione,
dall’altra frustrava eccessivamente una equilibrata presenza di entrambi i sessi tendente alla
realizzazione di una democrazia paritaria compiuta e quindi al «soddisfacimento dell’interesse –
legislativamente contemplato – ad una “reale” e “congrua” rappresentanza di genere in seno agli
organismi […] di governo degli Enti locali»20
.
Se la diretta applicabilità dell’art. 51 Cost. supera l’eventuale mancanza di norme statutarie
che impongono il perseguimento della pari presenza dei sessi in giunta, negli statuti dei Comuni con
popolazione superiore ai 3000 abitanti – prima dell’entrata in vigore della l. n. 56/2014 – diverse
erano le declinazioni, se presenti, del quantum di presenza (minima) di entrambi i sessi fosse da
assicurare: tali previsioni o si limitavano a riproporre la formula del rispetto delle pari opportunità
nella composizione della giunta (la maggior parte), o precisavano che il principio doveva essere
garantito, ovvero si spingevano a prevedere una quota minima che doveva essere rispettata nella
19
Cons. St., Sez. I, sent. n. 1263 del 16 marzo 2012. 20
TAR Calabria-Reggio Calabria, Sez. 1, sent. n. 7 del 26 gennaio 2016, p.to 6.1 del Fatto e Diritto.
424
composizione dell’organo di governo21
. Quindi, pur potendo «gli statuti degli enti locali […]
stabilire forme originali e avanzate di attuazione del principio di pari opportunità (ad esempio
imponendo una compresenza dei generi rafforzata e tendenzialmente paritaria in giunta e negli altri
organismi pubblici) […, questi comunque] non possono scendere al di sotto del livello minimo
costituito dalla rappresentanza di genere. Questo significa che nel silenzio degli statuti gli enti
locali sono comunque obbligati a garantire la presenza di almeno un soggetto appartenente al
genere che altrimenti non sarebbe rappresentato, ossia, con riguardo alla questione che qui
interessa, almeno un assessore donna»22
.
In tale quadro, si deve ricordare la sentenza del TAR Roma-Lazio, Sez. II, n. 633 del 21
gennaio 201323
, che, prima di annullare i provvedimenti di nomina della giunta del Comune di
Civitavecchia, ha rigettato la tesi difensiva del Comune medesimo per il quale il rispetto del
principio di pari opportunità sarebbe stato garantito – anche a fronte della mancanza di una
specifica disposizione statutaria in ordine ad un criterio quantitativo di rappresentanza – dalla
presenza nella giunta di una donna con una delega di particolare rilevanza. Anche se la nomina di
una sola donna riesce evidentemente ad assicurare la presenza di entrambi i generi nel consesso
istituzionale24
, sicuramente tale esigua partecipazione è assai lontana dal rappresentare un
riequilibrio fra generi: questo, infatti, può essere effettivo solo attraverso una presenza equilibrata
fra uomini e donne e non già con la mera presenza di un solo rappresentante del sesso sotto
rappresentato. Per il giudice amministrativo, allora, «l’effettività della parità non può che essere
individuata nella garanzia del rispetto di una soglia quanto più approssimata alla pari
rappresentanza dei generi, da indicarsi […] nel 40% di persone del sesso sotto-rappresentato,
altrimenti venendosi a vanificare la portata precettiva delle norme sin qui richiamate e l’effettività
dei principio delle pari opportunità».
21
Si v., a tal riguardo, A. DEFFENU, Il principio di pari opportunità, cit., 64; G. CANALE, Le pari opportunità
negli organi di governo degli enti locali, in AA.VV., Verso una democrazia paritaria. Modelli e percorsi per la piena
partecipazione delle donne alla vita politica e istituzionale, a cura di A. Falcone, Milano 2011, 149. 22
TAR Brescia-Lombardia, Sez. II, sent. n. 1 del 5 gennaio 2012, p.to 9, lett. i). Fra le decisioni che hanno
riconosciuto il carattere vincolante e non meramente programmatico del principio di parità di accesso agli uffici
pubblici sancito dall’art. 51, comma 1, Cost. e riconosciuti a livello legislativo, pur dichiarando, in assenza di una
specifica disposizione statutaria al riguardo, l’illegittimità delle Giunte composte da soli uomini, cfr., anche, TAR
Reggio Calabria-Calabria, sent. n. 589 del 27 settembre 2012. 23
E nello stesso senso TAR Lazio-Roma, Sez. II Bis, sent. n. 8260 dell’11 settembre 2013. 24
V. retro nota 8.
425
La rilevanza della decisione (anche se non seguita da altre)25
sta nella circostanza che la
soglia della presenza (intorno) al 40% di uno dei due sessi, non risulta(va) indicata in alcuna
disposizione normativa, ma è frutto di interpretazione (un po’ forzata, a dir il vero, stante la lettera
della legge “abbastanza” chiara)26
in base ai principi costituzionali, internazionali e dell’Unione.
La ratio della decisione pare aver implicitamente mosso il Legislatore nella predisposizione
della norma in oggetto, per la quale – è bene a questo punto ricordarlo – «Nelle giunte dei Comuni
con popolazione superiore a 3000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura
inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico».
Occorre rilevare che la previsione non s’inserisce direttamente nel TUEL – così come
avrebbe richiesto un corretto drafting legislativo27
– ma in una legge la cui rubrica è Disposizioni
sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di Comuni, in cui, quindi, manca
persino il riferimento ai Comuni, parlandosi solo delle unioni e delle fusioni tra essi.
La questione che in primis si è posta è, quindi, se la previsione della soglia dell’equilibrio
fosse da intendersi come riferita solo alle unioni e alle fusioni dei Comuni o anche ai (singoli)
Comuni e, quindi, se a questi ultimi avessero dovuto applicarsi, o meno, solo le più blande ed
incerte previsioni contenute nel TUEL. Altra questione: se il principio di riequilibrio dovesse
trovare applicazione per qualsiasi organo giuntale già in carica alla data in vigore della legge o solo
a seguito di nuove elezioni amministrative o se la norma, a partire dalla data in cui ha assunto
vigore di legge, avrebbe dovuto trovare applicazione nell’adozione di tutti i provvedimenti che pur
incidevano sulla composizione della giunta comunale pur se già costituita prima della entrata in
vigore della legge.
25
In primis Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 3144 del 23 giugno 2014, che riforma la decisione riportata in nota 12.
Si veda anche (la quasi contestuale) decisione del TAR Cagliari-Sardegna, Sez. II, sent. n. 84 del 4 febbraio 2013; TAR
Lecce-Puglia, sez. I, sent. n. 3101 del 15 dicembre 2014; TAR Milano-Lombardia, sez. I, sent. n. 482 del 14 febbraio
2014. Nello stesso senso, invece, TAR Roma-Lazio, sez. II, sent. n. 8206 dell’11 ottobre 2013. 26
Nello stesso senso si era già espressa S. LEONE, Sulla conformazione, cit., 7. 27
Diversamente il TAR Calabria - Catanzaro, Sez. II, n. 1 del 9 gennaio 2015, che, anzi, attribuisce un favor
alla scelta compiuta dal Legislatore: «Invero, la scelta del legislatore di collocare la disposizione al di fuori del Testo
Unico Enti Locali denota la volontà di attribuire alla norma la finalità non solo di assicurare la corretta composizione
delle Giunte, ma anche il loro riequilibrio, in coerenza con i principi espressi dalla Corte Costituzionale con la sentenza
14.1.2010 n. 4, secondo cui gli articoli della Costituzione 51, comma 1, e 117 comma 7 hanno la finalità di ottenere “un
riequilibrio della rappresentanza politica dei due sessi”, con conseguente carattere permanente e finalistico della
disposizione di cui al comma 137 dell’art.1 della Legge 7 aprile 2014, n. 56, che costituisce la trasposizione in sede
normativa dei precitati principi».
426
Cercando di rispondere alle domande appena poste, è più che opportuno rilevare che, nel
computo della percentuale imposta ex lege alla composizione della giunta va calcolato anche il
sindaco, in quanto egli fa parte a tutti gli effetti dell’organo di governo comunale. Questa
specificazione non è di poco conto quando si deve valutare il raggiungimento di una soglia
numerica28
. La legge n. 56 del 2014, infatti, seppur non ha esplicitamente annoverato il “primo
cittadino” nel quorum richiesto, non lo ha espressamente escluso. Ne consegue che, nel calcolo dei
componenti della giunta, rientra anche il sindaco e ciò perché, secondo un principio generale
immanente nell’ordinamento e fatto proprio anche dalla giurisprudenza29
oltre che dal Governo30
,
nelle ipotesi in cui l’ordinamento non ha inteso annoverare il titolare del potere politico dell’Ente
territoriale nel quorum richiesto si è espressamente fatto uso della formula per cui bisogna
procedere «senza computare a tal fine il sindaco»31
; nell’ipotesi presa in considerazione, dunque, si
è indotti a ritenere che sia legittimo, nel caso prospettato, includere nel calcolo dei componenti della
giunta anche il sindaco32
.
Specificato tale punto, si diceva che sarebbe stata più opportuna una modifica dell’art. 46,
comma 2, del TUEL in modo tale da andare a sviluppare la previsione recata dall’articolo 2, comma
1, lettera b) della legge n. 215 del 2012, per la quale già si prevedeva che nella composizione
dell’organo giuntale doveva procedersi con la «garanzia della presenza di entrambi i sessi».
La rubrica della legge in commento chiaramente non si riferisce all’ente Comune; se ciò è
innegabile, tuttavia, il medesimo testo di legge, nel suo articolato, non contiene alcuna espressa
limitazione in favore delle sole giunte di unioni di Comuni. Per tale motivo, analizzando il modo in
28
Anche alla luce del numero degli assessori così come stabilito ancora una volta dall’art. 1, comma 135, della
l. n. 56/2014: per i Comuni con popolazione fino a 3000 abitanti, il consiglio comunale è composto, oltre che dal
sindaco, da dieci consiglieri e il numero massimo degli assessori è stabilito in due; per i Comuni con popolazione
superiore a 3000 e fino a 10000 abitanti, il consiglio comunale è composto, oltre che dal sindaco, da dodici consiglieri e
il numero massimo di assessori è stabilito in quattro. 29
In ultimo si v. TAR Calabria - Catanzaro, Sez. II, sent. n. 1 del 9 gennaio 2015. 30
In tal senso, si è espresso anche il Ministero dell’Interno nella Circolare del 24 aprile 2014 e, più
precisamente, nel paragrafo terzo rubricato, per l’appunto, “Rappresentanza di genere”. 31
Si v. almeno l’art. 52, comma 2, TUEL, ma anche le varie disposizioni degli statuti comunali e i molteplici
regolamenti per il funzionamento del Consiglio e delle Commissioni consiliari con riguardo al numero legale per la
validità delle sedute fra i cui intervenienti non deve essere computato il sindaco. 32
Richiamando i dati aggiornati al 6 novembre 2015 (fonte: Dipartimento per gli Affari Interni e Territoriali)
le statistiche degli amministratori comunali nei Comuni con popolazione superiore ai 15000 abitanti sono desolanti se si
prende in esame il dato che ci dice che i sindaci maschi sono 603 a fronte dei sindaci femmine che si attestano a 65.
427
cui è formulata la novella dettata dal comma “intruso”33
(ovvero il 137), la previsione circa la
composizione per generi della giunta deve intendersi come riferita non solo alle unioni di Comuni,
delle quali tratta invece l’articolo, ma a tutti i Comuni. Così, del resto, la interpretano i giudici
amministrativi che, anzi, non spendono alcuna parola in riferimento a tale problematica
interpretativa e ciò evidentemente alla luce della pacifica interpretazione anche qui sostenuta.
Se così stanno le cose, quando si applica la norma? Detto meglio, la norma di legge si
applica agli organi giuntali già nominati o esclusivamente a quelli la cui nomina – stante nuove
elezioni amministrative – seguirà temporalmente l’entrata in vigore della legge? Che si applichi
solo alle giunte “da nominarsi” e non anche a quelle già in carica è presto detto, non solo perché la
legge dispone solo pro futuro, ma anche perché in essa non si prevede alcun termine entro il quale
tali organi avrebbero dovuto adeguarsi al nuovo limite del 40%. Le conseguenze ordinamentali che
si sarebbero verificate, visti i numeri delle composizioni delle varie giunte delle centinaia di
Comuni con popolazione superiore ai 3000 abitanti34
, avrebbero avuto un impatto sicuramente di
non poco conto, con la conseguenza che l’unica interpretazione possibile, avendo a riguardo i
principi di ragionevolezza e di buona amministrazione, sia quella qui riportata. La disposizione di
legge non si applica retroattivamente, non potendosi configurare come parametro di legittimità dei
provvedimenti di nomina adottati prima della sua entrata in vigore. La norma quindi si applicherà a
seguito di rinnovo dei Consigli comunali, tranne che per la specificazione di seguito descritta: la
norma si applica agli eventuali atti di nomina del sindaco pur relativi agli organi giuntali già
nominati. Diversamente argomentando, si assisterebbe ad un congelamento della norma fino
all’elezione dei nuovi consigli e quindi ad una sua chiara elusione se gli atti adottati nella vigenza
della norma non trovassero applicazione. La disposizione, quindi, si applica nelle ipotesi (molto
concrete) di integrazioni e/o sostituzioni dei componenti di giunta realizzatesi dopo l’emanazione
della norma legislativa.
33
Per utilizzare un termine solitamente impiegato per indicare quelle norme eteronome rispetto all’omogeneità
che dovrebbe caratterizzare il contenuto materiale del decreto-legge. 34
Si v. infra nota 54.
428
3. Le pronunce dei Tribunali Amministrativi Regionali sul valore cogente e precettivo della
quota percentuale ex legge
Procedendo, ora, ad analizzare la recente giurisprudenza prodotta dai TAR Calabria e
Veneto che hanno depositato una pluralità di decisioni con una medesima ratio – in una produzione
di sentenze “fotocopia”35
– che può riassumersi come segue: la percentuale del 40% a partire dalla
data in cui la l. n. 56 del 2015 ha assunto vigore di legge ha valore cogente e precettivo. Ed infatti,
il giudice di prime cure è stato chiamato a giudicare sui provvedimenti di nomina degli esecutivi di
diversi comuni calabresi36
e veneti37
– ma si ricorda anche una decisione riguardante un Comune
sardo38
– (tutti comuni con popolazione superiore ai 3000 abitanti) nei quali, nel procedere ad una
ridistribuzione delle deleghe assessoriali ed anche alla sostituzione di assessori (nel frattempo
“venuti meno”), si proponevano delle giunte dalla composizione fra i sessi non solo squilibrata a
netto favore di quello maschile, ma anche abbastanza distanti dalla tassativa percentuale fissata ex
lege, con la empirica (palese e manifesta) conseguenza che la composizione giuntale non garantiva
il rispetto delle proporzioni di genere normativamente stabilite.
In tutte le decisioni si fa esplicito riferimento all’obbligo per il sindaco di svolgere attività
istruttoria – di cui dar conto, pure in sintesi39
, anche direttamente nel decreto con il quale viene
nominata la giunta – volta ad individuare all’interno del Consiglio e, soprattutto, «all’interno della
35
Anche se qualche differenza intercorre tra le decisioni; ad esempio in TAR Calabria, Sez. II, sent. n. 2 del 9
gennaio 2015, si rileva che era stata proposta istanza per sollevare questione di legittimità costituzionale sull’art. 1,
comma 137, della l. n. 7 del 2014, prontamente dichiarata manifestamente infondata dal giudice amministrativo, v. il
p.to 5. 36
TAR Calabria, Sez. II, sent. n. 1 del 9 gennaio 2015, confermata da Cons. St., Sez. V, sent. n. 406 del 3
febbraio 2016 (Comune di Montalto Uffugo); TAR Calabria, Sez. II, sent. n. 2 del 9 gennaio 2015 (Comune di Torano
Castello); TAR Calabria, Sez. II, sent. n. 3 del 9 gennaio 2015 (Comune di Vaccarizzo Albanese); TAR Calabria, Sez.
II, sent. n. 4 del 9 gennaio 2015 (Comune di Rombiolo); TAR Calabria, Sez. II, sent. n. 651 del 10 aprile 2015,
confermata da Cons. St., Sez. V, sent. n. 4626 del 24 settembre 2015 (Comune di Cosenza). 37
TAR Veneto, Sez. I, sent. n. 286 del 14 marzo 2016 (Comune di Zevio); TAR Veneto, Sez. I, sent. n. 334 del
30 marzo 2016 (Comune di Saonara); TAR Veneto, Sez. I, sent. n. 335 del 30 marzo 2016 (Comune di Sona). 38
TAR Sardegna-Cagliari, Sez. II, sent. n. 1145 del 18 novembre 2015 (Comune di Selargius). 39
Ma la motivazione non deve essere carente, come ad esempio è avvenuto per quel provvedimento sindacale
che, pur precisando di avere deciso all’esito di un’attività intesa ad acquisire la disponibilità alla nomina di persone di
sesso femminile, «non fa alcun concreto riferimento all’attività istruttoria effettivamente espletata né alle modalità di
svolgimento della stessa, risultando comprovato, dalle due dichiarazioni allegate, che sono state interpellate soltanto
due cittadine di sesso femminile che hanno sostenuto la candidatura del Sindaco risultato vincitore», si v. TAR Calabria
– Catanzaro, Sez. II, sent. n. 1 del 9 gennaio 2015. «I tentativi effettuati dal sottoscritto per il reperimento di una
seconda figura femminile estranea al Consiglio Comunale sono risultati infruttuosi», così in TAR Calabria - Catanzaro,
Sez. II, sent. n. 1 del 9 gennaio 2015. Del tutto omessa è stata l’istruttoria almeno in un caso: TAR Veneto, Sez. I, sent.
n. 334 del 30 marzo 2016.
429
società civile, nell’ambito del bacino territoriale di riferimento del Comune, personalità femminili
in possesso di quelle qualità-doti professionali, nonché condivisione dei valori etico-politici propri
della maggioranza uscita vittoriosa alle elezioni40
– idonee a ricoprire l’incarico di componente la
giunta municipale»41
. In tutte le decisioni rilevano sia la chiarezza e l’inequivocabilità della
prescrizione legislativa, sia l’inammissibilità di una qualsiasi deroga di carattere generale
all’obbligo normativo42
. Ciò significa che la mancanza di una deroga generale ne ammette(-rebbe)
almeno una specifica, che dovrebbe poter consentire al sindaco di dimostrare l’impossibilità di
individuare assessori di genere femminile senza incorrere in conseguenze giudiziali. La prova, però,
da quanto traspare non solo dalla giurisprudenza a noi più prossima43
, è particolarmente ardua, in
quanto non possono essere utilizzate motivazioni né di tipo soggettivo (mancanza di conoscenza
personale o di un preesistente rapporto fiduciario)44
né di mera opportunità più propriamente
politica e che guarda alla concreta compagine consiliare e quindi ai concreti equilibri tra i gruppi
politici di maggioranza45
. Ciò che traspare da tutte le decisioni è che la mera rinuncia all’incarico di
40
E quindi non solo di iscritte al partito del candidato sindaco o ad uno della colazione che lo sostiene. Ed
infatti, l’art. 47 del d.lgs. n. 267/00 consente di nominare assessori tutti «i cittadini in possesso dei requisiti dì
candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere» ed è pertanto in tale ambito che il sindaco deve
compiere la scelta degli assessori «per garantire la tendenziale parità dei generi e non nell’ambito dei candidati del
partito vittorioso, anche in considerazione del fatto che gli Assessori svolgono delicate ed importanti funzioni non al
servizio del partito di riferimento, ma al servizio della cittadinanza», così Cons. St., Sez. V, sent. n. 3938 del 24 luglio
2014. 41
Cfr. retro note 25 e 26. 42
Verso tale interpretazione, forse, andava la Circolare Ministeriale del 24 aprile 2014, che richiama l’obbligo
di una istruttoria al fine di acquisire la disponibilità allo svolgimento delle funzioni assessorili da parte di persone di
entrambi i generi. Tale Circolare, sembra, invero, riepilogare i principi elaborati dalla giurisprudenza precedente
l’entrata in vigore della l. n. 56/2014 (richiama le modalità di svolgimento dell’istruttoria anche la successiva circolare
18/EL del 30 maggio 2014 della Direzione Centrale delle Autonomie Locali del Friuli-Venezia Giulia). Si ripete che la
l. n. 56/2014 non richiede alcuna istruttoria, ma il raggiungimento del risultato, siamo dinanzi ad una vera e propria
azione positiva. 43
Per una analisi sul rifiuto dei giudici amministrativi di dare seguito alle motivazioni addotte dal sindaco
“resistente”, si permetta il rinvio a U. ADAMO, Il principio di pari opportunità in ambito politico fra legislatori statali
(reticenti) e legislatori regionali (indecisi), fra previsioni internazionali e sovranazionali (promozionali), fra
giurisprudenza costituzionale e amministrativa (entrambe incisive). Un bilancio di una tutela sempre più multilevel, in
www.federalismi.it (30 ottobre 2013), 48 s.; ID., Diseguaglianza di genere e partecipazione politica, in
www.gruppodipisa.it (16.05.2011), 33 ss. 44
Abbracciare senza limite alcuno il concetto di rapporto fiduciario avrebbe, come è chiaro, un’estensione non
solo eccessiva, ma anche di fatto non verificabile. Invece, ogni funzione amministrativa, anche se caratterizzata da
ampia discrezionalità, deve essere ricondotta entro parametri oggettivi e misurabili, dovendo per questo la nomina ad
assessore deve rispondere, ai fini della rappresentanza di genere (ed è per questo che sarebbe opportuna una attenta fase
istruttoria), ad una adeguata competenza tecnica o professionale in relazione alle deleghe assessorili oltre che alla
dichiarata disponibilità ad attuare il programma della maggioranza in carica; ferma restando la possibilità della revoca. 45
Ed infatti, «il punto è che la ricerca del soggetto adatto deve avvenire con criteri che consentano di arrivare
effettivamente al risultato. Dunque non si deve esigere un rapporto fiduciario preesistente (condizione che può chiudere
in partenza il campo degli aspiranti assessori) ma occorre pervenire alla formazione di un rapporto fiduciario al termine
del percorso di selezione. Le preoccupazioni per la coesione della giunta non devono essere enfatizzate. Una volta
effettuata la scelta il sindaco rimane comunque titolare e garante della linea politica della propria amministrazione, e
può revocare in qualsiasi momento un assessore con il quale la collaborazione non sia più possibile per divergenze
programmatiche o anche per fatti estranei all’attività di giunta ma tali da minare la serenità dei rapporti (v. TAR Brescia
Sez. II 28 ottobre 2010 n. 4466), con il solo limite generale del divieto di comportamenti arbitrari», così TAR Brescia-
Lombardia, Sez. II, sent. n. 1 del 5 gennaio 2012, p.to 9, lett. 0).
430
assessore da parte di una donna (di solito una o al massimo due concittadine) non può far sì che il
sindaco si senta, solo per questo, esonerato in modo pieno dall’obbligo di nomina di assessori di
sesso femminile; alla base dei ricorsi è come se vi fosse (o meglio, vi è) la constatazione che un
rifiuto ad una nomina assessoriale esonerasse dal raggiungimento dell’obiettivo chi ha, invece,
l’obbligo legale di perseguire il risultato.
Altra causa impedente la nomina di donne che è stata avanzata è quella per cui «un’ulteriore
attività volta ad acquisire la disponibilità di soggetti esterni di genere femminile porterebbe ad un
allungamento dei tempi di nomina dell’organo esecutivo, causando un blocco dell’attività
amministrativa, stante anche l’urgenza di provvedere alla comunicazione dei componenti della
giunta nella prima seduta consiliare»46
. A ben vedere, però, leggendo l’art. 46, comma 2, TUEL, il
sindaco dà comunicazione al consiglio dei componenti della giunta «nella prima seduta successiva
alla elezione», che – secondo quanto prescritto dall’art. 40 del medesimo testo – «deve essere
convocata entro il termine perentorio di dieci giorni dalla proclamazione e deve tenersi entro il
termine di dieci giorni dalla convocazione», costituendo un tempo, quindi, più che confacente a
quanto la norma sulla rappresentanza di genere richiede.
Tutto questo per dire che la motivazione, per essere obiettiva, deve dimostrare che il sindaco
è stato impossibilitato da fattori esterni alla sua responsabilità47
a garantire il raggiungimento della
percentuale fissata dal Legislatore, non ammettendosi altro che deroghe dal carattere eccezionale.
L’eccezionalità sarà ancor più stringente in quanto è sindacabile in sede giurisdizionale e ciò perché
è stato il Legislatore a predeterminare i canoni di legalità a cui la politica deve obbligatoriamente
attenersi.
Inoltre, la formalizzazione delle indagini condotte e dell’esito a cui si è giunti (ovverosia che
bisogna recare l’effettiva prova di adeguata istruttoria al fine di reperire personalità per la nomina di
assessori di sesso femminile) costituiscono «atto di un sincronico punto di convergenza sia delle
46
Si v. quanto riportato in TAR Calabria, Sez. II, sentt. nn. 3 e 4 del 9 gennaio 2015. 47
Com’è, per come visto, il caso di non riuscire a scegliere “in tempo” i propri assessori nel rispetto della
percentuale della composizione richiesta dalla legge.
431
legittime esigenze connesse al rispetto delle scelte politiche e degli equilibri di coalizione, sia di
quelle – altrettanto meritevoli di tutela – di rispetto della parità di sessi nell’accesso ai pubblici
uffici, al fine di evitare la anomala formazione di “zone franche”, cioè di aree di sostanziale
sottrazione al controllo giurisdizionale garantito dall’art. 113 Cost., che non sia soltanto formale ed
estrinseco (la provenienza dell’atto dal sindaco, il rispetto dei tempi normativamente previsti, ecc.),
ma anche pieno ed effettivo, in linea con le coordinate costituzionali e comunitarie (art. 111 Cost; 6
CEDU), in punto di effettività della tutela giurisdizionale»48
. Eccoci giunti ad un’altra questione
che sembrava non doversi più porre all’attenzione del giudice amministrativo ma che, invece, lo è
stata perché presente fra i motivi di inammissibilità avanzati dalle difese delle parti resistenti
ritualmente costituitesi in giudizio: l’atto di nomina è un atto politico o amministrativo? Esso è
sindacabile o è esente dal controllo giurisdizionale?
Si ribadisce49
che l’atto di nomina di un assessore ha natura di atto amministrativo e non di
atto politico, anche se ampia è la discrezionalità riconosciuta (rectius, che deve essere riconosciuta)
al sindaco nella nomina degli assessori, fondandosi il rapporto fra i due organi su una relazione
fiduciaria50
. La riconduzione agli atti di alta amministrazione dell’atto di nomina dell’organo
giuntale attribuisce piena giuridicità alla norma ex art. 1, comma 137, della l. n. 56 del 2014, in
quanto il raggiungimento dell’obiettivo è sindacabile nella sede giurisdizionale51
, e ciò anche
48
Cfr. retro note da 25 e 26. 49
In dottrina, in commento alla giurisprudenza già prodotta sul punto sull’atto di nomina della giunta
regionale, già R. CHIEPPA, Una inammissibilità di ricorso per conflitto di attribuzioni rivestita da una opportuna
motivazione sugli stretti limiti della discrezionalità politica non soggetta ad alcun sindacato giurisdizionale, F.
BILANCIA, Ancora sull’atto politico e sulla pretesa insindacabilità giurisdizionale. Una categoria tradizionale al
tramonto?, entrambi in Giur. cost., 2/2012, rispettivamente 1158-1163, 1163-1168; M.G. RODOMONTE, Equilibrio di
genere, atti politici e Stato di diritto nella recente sentenza n. 81 del 2012 sulla equilibrata presenza di donne e di
uomini nella giunta della Regione Campania, in www.federalismi.it; F. BLANDO, Atto politico e Stato di diritto nella
sentenza n. 81 del 2012 della Corte costituzionale, in www.forumcostituzionale.it; M. BELLETTI, “Torniamo allo
Statuto” … regionale. La rappresentanza di genere nelle Giunte regionali tra atto politico, atto di alta amministrazione
e immediata precettività delle disposizioni statutarie, in www.forumcostituzionale.it; M. D’AMICO, op. cit., 7-8; T.
CERRUTI, La nomina dell’assessore regionale e i limiti dell’atto politico, in Giur. it., 2/2013, 286-292. Prima della
decisione della Corte, in dottrina, C. SALAZAR, Norme statutarie in materia di pari opportunità e il conflitto tra Stato e
Regioni, in Quad. cost., 1/2012, 118-121. 50
Ma si v. retro nota 34. 51
TAR Calabria-Reggio Calabria, Sez. 1, sent. n. 70 del 26 gennaio 2016, p.to 7 del Diritto: «Con riferimento
alla nomina dei componenti della giunta municipale […] la giurisprudenza ha, infatti, affermato che “l’elevato
contenuto discrezionale che connota le valutazioni di opportunità che ispirano la composizione della giunta e
l’individuazione dei suoi membri, in ragione del rapporto di natura fiduciaria che si instaura tra assessori e sindaco,
rende agevole l’inquadramento dell’atto di nomina dell’organo giuntale tra quelli di alta amministrazione, come tale
non svincolato dal raggiungimento di predeterminati obiettivi e con conseguente sottoposizione al sindacato
giurisdizionale sotto il profilo non dell’opportunità della scelta ma dell’osservanza delle disposizioni che attribuiscono,
disciplinano e conformano il relativo potere (sia pur latamente) discrezionale, e, dunque, con riferimento ai canoni della
ragionevolezza, coerenza ed adeguatezza motivazionale”»; cfr., altresì, TAR Lazio, Sez. II-bis, sent. n. 633 del 21
gennaio 2013; TAR Campania-Salerno, Sez. II, sent. n. 2251 del 5 dicembre 2012.
432
perché il fine della pubblica amministrazione è pur sempre vincolato dal necessario perseguimento
di finalità pubbliche52
attraverso atti che non possono essere utilizzati per fini diversi da quelli per i
quali il potere è concesso e viene, quindi, esercitato.
La nomina assessoriale dà luogo ad «un atto soggettivamente ed oggettivamente
amministrativo, l’emanazione del quale è sottoposta all’osservanza delle disposizioni che
attribuiscono, disciplinano e conformano il relativo potere, il cui corretto esercizio è, sotto questi
profili, pienamente sindacabile in sede giurisdizionale»53
.
4. Per il Consiglio di Stato le norme sulla composizione equilibrata delle giunte comunali
sono da considerarsi come inderogabili
Alcune delle decisioni di cui si è dato appena ora conto sono state appellate e confermate dal
Consiglio di Stato che ha sciolto alcuni dei quesiti, che ci si era posti in punto di premessa, ponendo
alcuni punti fermi dai quali non si potrà più prescindere allorquando il sindaco proceda con la
nomina dell’organo giuntale.
Per il giudice del gravame, all’indomani dell’entrata in vigore del citato art. 1, comma 137,
della l. n. 56/2014, «tutti gli atti adottati nella vigenza di quest’ultimo trovano nella citata norma un
ineludibile parametro di legittimità, non essendo ragionevole una sua interpretazione che leghi la
concreta vigenza della norma alla data delle elezioni ovvero che condizioni unicamente le nomine
assessorili all’indomani delle elezioni. Una simile interpretazione consentirebbe un facile
aggiramento della suddetta prescrizione, nella misura in cui il rispetto della percentuale assicurato
dai provvedimenti di nomina immediatamente successivi alle elezioni potrebbe essere posto nel
nulla da successivi provvedimenti sindacali di revoca e nomina, atti a sovvertire la suddetta
percentuale»54
. Con questa argomentazione, la suprema magistratura amministrativa supera le
52
La libertà nel fine, invece, è propria dell’atto politico, ma si v. le precisazioni fatte dalla Corte costituzionale
nella nota sent. n. 81/2012. Su tale giurisprudenza, cfr., per tutti C. SALAZAR, op. cit., 118 ss. 53
Così TAR Sardegna-Cagliari, Sez. II, sent. n. 1145 del 18 novembre 2015. 54
Cons. St., Sez. V, sent. n. 4626 del 24 settembre 2015. Cfr., anche, TAR Veneto, Sez. I, sent. n. 286 del 14
marzo 2016.
433
argomentazioni della difesa per la quale al tempo dell’elezione del sindaco non sussisteva alcuna
norma in tema di parità dei sessi, e l’art. 1, comma 137, l. n. 56/2014, non potrebbe applicarsi alla
fattispecie in esame, potendo riguardare solo le elezioni successive alla sua entrata in vigore e
comunque si tratterebbe di norma non applicabile analogicamente all’ipotesi di dimissioni
assessorili, ma solo alle nomine conseguenti alle elezioni amministrative.
La reticenza dei sindaci a sentirsi vincolati dalla norma di legge che si richiamava sin dalle
prime righe del presente lavoro, ben si può rilevare da un’altra argomentazione spesa dalla difesa di
uno dei comuni resistenti, per il quale «nessuna norma vincolerebbe il sindaco a preferire il rispetto
della parità di genere all’urgenza di assicurare la governabilità dell’Ente locale [e] non vi sarebbe,
infine, uno specifico onere motivazionale quanto alle ragioni della nomina». Alcune
puntualizzazioni possono essere senz’altro fatte. Intanto, la norma della rappresentanza di genere
non mina in nessun modo la governabilità dell’Ente, in quanto la norma indica solo la percentuale
che bisogna rispettare e non anche chi deve comporre la giunta; ed è proprio per il rispetto di tale
soglia che viene in rilievo l’onere motivazionale – di creazione pretoria – che viene richiesto
proprio al fine di sindacare l’atto sindacale e di valutare (non nel merito politico) la scelta compiuta
secondo il canone di legalità (esterna). In caso contrario il giudice rileverà che «non risulta alcuna
istruttoria tesa a verificare l’impossibilità del rispetto della suddetta percentuale, né dall’atto
sindacale si evince una qualche ragione per la quale il Sindaco ha ritenuto di potersi discostare dal
suddetto parametro normativo».
Il giusto contemperamento tra il rispetto del principio della parità tra i sessi e l’esigenza di
garantire il continuato, ordinato e corretto svolgimento delle funzioni politico-amministrative può
ragionevolmente rintracciarsi nella effettiva impossibilità di assicurare la quota percentuale di
entrambi i generi così come richiesta dalla legge “Delrio” per la composizione della giunta
comunale; impossibilità che – sempre che questo sia possibile – «deve essere adeguatamente
provata e […] si risolve nella necessità di un’accurata e approfondita istruttoria ed in un altrettanto
adeguata e puntuale motivazione del provvedimento sindacale di nomina degli assessori che quella
percentuale di rappresentanza non riesca a rispettare»55
.
Continua il supremo giudice, ribadendo che l’impossibilità di rispettare la percentuale di
rappresentanza di genere deve risultare in modo puntuale ed inequivoco e deve avere carattere
55
Cons. St., Sez. V, sent. n. 406 del 3 febbraio 2016.
434
oggettivo, non potendo consentirsi che mere situazioni soggettive o contingenti possano legittimare
la deroga alla sua concreta applicazione.
5. Conclusioni … e mancanze nella legge n. 56 del 7 aprile 2014
Per tutte le cose dette, per quanto riguarda la composizione delle giunte comunali, nei
comuni con popolazione fino a 3000 abitanti, il sindaco nomina, nel rispetto del principio di pari
opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi, i componenti della
giunta, tra cui un vicesindaco, e ne dà comunicazione al consiglio nella prima seduta successiva alle
elezioni (articolo 46, comma 2, del d.lgs. 267/2000, come modificato dall’articolo 2, comma 1,
lettera b), della legge 215/2012). Quindi, per i comuni con popolazione inferiore ai 3000 abitanti56
non sussiste alcuna normativa che imponga il rispetto di quote precise a garanzia della equilibrata
presenza dei sessi in giunta, ma (solo) disposizioni di principio. Questa affermazione deve, però,
essere accompagnata dalla precisazione per cui esiste una più che corposa giurisprudenza
amministrativa, che ha ormai saldamente stabilito che le norme contenute negli artt. 6, 46 e 47 del
TUEL non devono essere considerate (appunto) come norme meramente programmatiche, quanto
piuttosto come precettive, così come direttamente applicabile è la norma costituzionale (articolo 51)
che comunque trova una prima e rilevante (seppur non indispensabile) concretizzazione ad opera
degli articoli del testo unico appena richiamati57
.
Il Legislatore, per i Comuni con popolazione superiore ai 3000 abitanti, invece e per come
visto, ha compiuto una precisa scelta, quella di determinare una percentuale fissa ed ampia. Non si è
quindi deciso di seguire, ad esempio, quanto sostenuto da altra giurisprudenza (rimasta isolata) che,
prospettando una sorta di vincolo qualitativo anziché quantitativo, affermava che: «il concreto
dimensionamento del parametro va ricostruito tenendo conto delle finalità perseguite dalla norma
da un lato, e dall’altro considerando che lo statuto ha volutamente evitato l’introduzione di
parametri numerici fissi (cosicché, a parere del Collegio, essi non possono essere recuperati in sede
di
56
Si ricorda che in Italia vi sono 8003 Comuni. Di questi, solo 1058 sono retti da donne sindaco con una
percentuale del 13,22% sul totale dei Comuni. Dei Comuni governati da donne sindaco, 451 sono i Comuni con
popolazione superiore a 3000 abitanti, mentre 607 sono costituiti da centri con una popolazione non superiore a tale
cifra (fonte: elaborazione Ancitel-2016). 57
Fra le ultimissime si v. almeno TAR Calabria, Sez. II, sent. n. 278 del 2015 (Comune di Oriolo).
435
interpretazione della norma). Nondimeno, l’elemento numerico rimane prioritario: un’equilibrata
ripartizione delle cariche sul piano quantitativo fra uomini e donne costituisce infatti la modalità
ordinaria di conformazione delle scelte del sindaco al parametro statutario dell’equilibrio di genere.
E tuttavia, nella richiamata prospettiva funzionale, nel caso di squilibrio sul piano quantitativo della
rappresentanza dei sessi, il conseguimento dell’obiettivo dell’equilibrio di genere può passare anche
per l’apprezzamento, sul piano qualitativo e sostanziale, del ruolo e delle funzioni riconosciute al
sesso minoritariamente rappresentato in seno ai diversi organismi, e quindi della misura e della
rilevanza dell’apporto collaborativo prestato da ciascuno dei generi all’attività complessiva del
soggetto collegiale. In altri termini, «a fronte di una squilibrata rappresentanza dei generi sul piano
numerico o quantitativo, potrà comunque ritenersi raggiunto l’equilibrio soltanto nel caso di
conferimento al genere scarsamente rappresentato di ruoli o funzioni il cui rilievo sostanziale e
funzionale sia tale, secondo logicità e ragionevolezza, da compensare il gap numerico»58
.
La decisione, da parte del nostro Legislatore, di propendere verso una quantificazione
precisa della presenza equilibrata di entrambi i sessi in giunta è chiaramente dettata dall’intenzione
di garantire la “certezza del diritto” mettendo «il sistema a riparo dagli effetti, potenzialmente
destabilizzanti, di interpretazioni giurisprudenziali diversificate»59
.
Prima di esplicitare in che cosa consista la mancanza della legge, così come anticipato nel
titolo del paragrafo, si rileva che, se da una parte la legge appare “rigida”, dall’altra (secondo
l’interpretazione che ne è stata data) ammette (anche se nulla è previsto dalla lettera della legge) il
mancato raggiungimento della soglia, nel caso (e solo nel caso, è bene precisarlo) del presentarsi di
limiti oggettivi al raggiungimento della soglia stabilita. Qualche tempo fa, nel commentare la
giurisprudenza amministrativa che sanciva la prescrittività del principio di pari opportunità, ci si
domandava quali potessero essere questi elementi (realmente) oggettivi e la risposta fu che «questi
potrebbero essere ricondotti alla eventuale mancanza di apposite previsioni (negli statuti dei
Comuni con popolazione inferiore ai 15000 abitanti)60
della possibilità che della giunta facciano
58
Richiama tale giurisprudenza anche S. LEONE, Sulla conformazione, cit., 13 ss. Si propendeva per una certa
elasticità anche nel nostro, La ‘promozione’ del principio di pari opportunità, cit., 6. 59
Così S. LEONE, Sulla conformazione, cit., 13. 60
Si ricordi che la soglia minima del 40% vige per la giunta comunale degli enti al di sopra dei 3000 abitanti e
quindi la problematica interessa (potenzialmente) ben 2794 Comuni (fonte: elaborazione Ancitel-2016). Veramente
singolare è ciò che è accaduto recentemente nel Comune di San Gregorio di Sassola (Comune con popolazione inferiore
ai 3000 abitanti per il quale è inoperante la legge n. 56 del 2014). Dopo le elezioni amministrative e la presentazione di
un ricorso contro i decreti di nomina della giunta monogenere al maschile, si è proceduto con delle modificazioni allo
statuto comunale nella parte in cui permetteva la nomina anche di assessori esterni. Tali modifiche hanno comportato
l’impossibilità della presenza nella Giunta di assessori “extraconsiliari” – attesa la composizione esclusivamente
maschile del Consiglio del Comune resistente –, a differenza di quanto previsto dalle previsioni statutarie previgenti, in
base alle quali era espressamente ammessa la possibilità (ora, appunto, abrogata) di nominare «assessori anche cittadini
non facenti parte del Consiglio ... nel numero massimo di uno». Dunque, atteso che nel corso del giudizio sono
436
parte anche soggetti esterni al Consiglio61
: problematica che si porrebbe qualora fra i consiglieri
eletti non fosse presente neanche una donna, e questo perché in tali Comuni, secondo quanto
prescritto nel comma 4 dell’art. 47 TUEL (norma della cui costituzionalità si dubita)62
, è lo statuto
che “può” [e non “deve”] prevedere la nomina di assessore di cittadini non facenti parte del
Consiglio”»63
. Che questo sia presumibilmente l’unico limite oggettivo “utilizzabile” dal sindaco64
lo si può ben cogliere continuando la lettura del già citato paragrafo 3 della Circolare del Ministero
dell’Interno, del 24 aprile 2014 – che si richiama pur consci della sua natura meramente
esplicativa65
– dal momento in cui si legge che «occorre lo svolgimento da parte del sindaco di una
preventiva e necessaria attività istruttoria preordinata ad acquisire la disponibilità allo svolgimento
delle funzioni assessoriali da parte di persone di entrambi i generi. Laddove non sia possibile
occorre un’adeguata motivazione sulle ragioni della mancata applicazione del principio di pari
opportunità. Nel caso in cui lo statuto comunale non preveda la figura dell’assessore esterno66
e il
sopravvenuti fatti nuovi, inequivocabilmente idonei ad incidere sulla situazione esistente al momento della proposizione
del ricorso, il ricorso è stato dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente; in effetti,
«l’interesse all’impugnativa, consistente nel “vantaggio pratico e concreto” che può derivare dall’accoglimento del
ricorso, deve non solo sussistere al momento della formulazione della domanda di annullamento ma anche persistere a
quella decisione, non permane, dunque, che dichiarare l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di
interesse», e ciò in quanto, nell’eventualità che il Sindaco dovesse riprocedere – in esito all’annullamento degli atti
impugnati – alla nomina degli assessori, il predetto non potrebbe che nominare assessori di “sesso maschile”, tenuto
conto della composizione “solo maschile” del Consiglio e dell’impossibilità di nominare assessori “extraconsiliari”.
Cfr. TAR Roma-Lazio, sez. II bis, sent. n. 2687 del 29 febbraio 2016. 61
Ci si riferisce, come è noto, agli assessori c.d. “esterni”, vale a dire agli assessori che non ricoprono già la
carica di consigliere comunale. 62
Il dubbio deriva dal fatto che la disposizione può costituire un reale e concreto ostacolo alla promozione
delle pari opportunità e, dunque, la illegittimità deriverebbe dal fatto che la disposizione non prevede che si possa
scegliere un assessore al di fuori dell’organo consiliare qualora ciò sia servente al rispetto del principio delle pari
opportunità. Riserve in S. LEONE, L’equilibrio di genere negli organi politici, cit., 39. 63
U. ADAMO, La ‘promozione’ del principio di pari opportunità, cit., 4. 64
Così come, nei fatti, palesato anche dal TAR Brescia-Lombardia, Sez. II, sent. n. 1 del 5 gennaio 2012, p.to
9, lett. n): «nel caso in esame l’interpello in un primo momento di cinque persone e poi di altre settanta non appare
sufficiente a fornire la dimostrazione dell’impossibilità di nominare un assessore donna. Il numero di soggetti da
coinvolgere in questo tipo di verifica deve essere stabilito con riguardo alle dimensioni e alle caratteristiche del contesto
sociale. Una realtà come il Comune di Ghedi (oltre 18000 abitanti) non soffre certamente di scarsità di persone idonee e
disponibili a impegnarsi nell’amministrazione, problema che potrebbe al contrario presentarsi in ambiti più piccoli o
meno aperti socialmente». 65
S. LEONE, Sulla conformazione, cit., 14; A. FALCONE, Misure di riequilibrio di genere, cit., 5. 66
Con riguardo all’assessore esterno si ricorda che a norma dell’art. 64, commi 1, 2 e 3, del TUEL nei Comuni
con popolazione superiore ai 15000 abitanti esiste una incompatibilità fra la carica di assessore e quella di consigliere,
mentre nei Comuni con popolazione inferiore a tale soglia la scelta per cui l’assessore possa non fare parte del consiglio
comunale deve essere compiuta da una norma statutaria.
437
consiglio comunale sia composto da una rappresentanza di un unico genere, per la piena attuazione
del citato principio di pari opportunità si dovrà procedere alle opportune modifiche statutarie che,
comunque, sono rimesse alla autonoma valutazione dell’ente». Precisando che l’espressione
«laddove non sia possibile» deve essere interpretata in modo limitato al presentarsi di ragioni
obiettive di stretta interpretazione67
, per come si è detto finora, a questo punto, però, ci si domanda
perché – ed eccoci arrivati finalmente alla lacuna legislativa – la l. 56/2015 non abbia prestabilito
nulla a tal proposito per far venir meno tale limite, anche solo per il rispetto del principio
costituzionale (tradotto legislativamente nella quota del 40% del principio delle pari opportunità).
Che il limite fosse conosciuto è palesato dal fatto che il Governo richiama «l’opportunità di
modifiche statutarie», ma pur sempre rimesse all’autonoma valutazione dell’Ente, ed è lo stesso
Governo che ha “seguito” l’iter della legge “Delrio”.
La legge, inoltre, non ha previsto alcuna disposizione c.d. “ponte”, vale a dire che non
producendo essa conseguenza alcuna sulle giunte già nominate, ma solo – per come si sta dicendo –
nell’adozione di tutti i provvedimenti che vadano ad incidere sulla composizione della giunta
comunale (sostituzioni, ecc.), in moltissimi casi l’“entrata” di assessori femminili in una compagine
quasi del tutto maschile non riesce ad assicurare comunque il raggiungimento della soglia minima
prevista dalla legge (altro limite “temporalmente” oggettivo). Si pensi, ad esempio, che nel Comune
di Cosenza, caratterizzato da una palese sproporzione tra i sessi rappresentati, anche nel caso in cui
le due sostituzioni avessero consentito a due donne di entrare in giunta, la conseguenza sarebbe
stata comunque quella che l’organo esecutivo sarebbe risultato formato da (solo) tre donne e (da
ben) sette uomini, vale a dire con la componente femminile quantitativamente non rispettosa della
soglia minima prevista dalla legge.
Per concludere, si decide di riportare, ancora una volta, un significativo passaggio
giurisprudenziale al fine di palesare come la ricerca di una composizione equilibrata degli organi
giuntali dovrebbe essere in sé perseguita come obiettivo prioritario dai sindaci, a prescindere dalla
previsione normativa di qualsiasi disposizione legislativa che spinga in tal senso. Quindi, si
67
Senza legittimare, quindi, ipotesi interpretative tendenti ad eludere il vincolo normativo, risultato che invece
pare essere stato raggiunto a leggere non solo il presente contributo ma anche le ferme parole pronunciate da consiglieri
di parità. Si rinvia, di nuovo, ad A. FALCONE, Partecipazione politica, cit., 14, nota 29.
438
richiama la decisione del TAR Lazio68
, che riporta la normativa delle pari opportunità nella
formazione della giunta anche sotto l’“ombrello” dell’art. 97 Cost. e ciò perché le giunte squilibrate
rispetto alla rappresentanza di genere «oltre ad evidenziare un deficit di rappresentanza democratica
dell’articolata composizione del tessuto sociale e del corpo elettorale [...], risultano anche
potenzialmente carenti sul piano della funzionalità, perché sprovvisti dell’apporto collaborativo del
genere non adeguatamente rappresentato». Il principio di pari opportunità viene «ad acquistare una
ulteriore dimensione funzionale, collocandosi nell’ambito degli strumenti attuativi dei principi di
cui all’art. 97 Cost.: dove l’equilibrata partecipazione di uomini e donne (col diverso patrimonio di
umanità, sensibilità, approccio culturale e professionale che caratterizza i due generi) ai meccanismi
decisionali e operativi di organismi esecutivi o di vertice diventa nuovo strumento di garanzia di
funzionalità, maggiore produttività, ottimale perseguimento degli obiettivi, trasparenza ed
imparzialità dell’azione pubblica».
68
TAR Roma-Lazio, Sez. II, sentt. n. 6673 del 25 luglio 2011 e n. 633 del 21 gennaio 2013.
Il nuovo Senato, il sistema delle Conferenze e la persona giuridica dello
Stato. Brevi note giuridico-istituzionali
di Enrico Gasparini
(Vicesegretario generale vicario del Consiglio regionale della Lombardia)
Paolo Costa
(Dottore di ricerca in diritto costituzionale all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano e
Funzionario presso la Segreteria generale del Consiglio regionale della Lombardia)
(24 maggio 2016)
SOMMARIO: 1. La configurazione del nuovo Senato. – 2. Il problema teorico. Cenni intorno al rapporto tra
rappresentanza politica e rappresentanza istituzionale. – 3. Il problema pratico e politico. L’incertezza del cleavage del
nuovo Senato. – 3.1. Un caso significativo: il Comitato delle Regioni. – 3.2. Le seconde camere: un cenno
comparatistico. – 4. Il nuovo Senato e il sistema delle Conferenze: rappresentanza istituzionale e funzione di raccordo. –
4.1. Alcune possibili soluzioni pratiche. – 5. Quale alternativa nel caso di fallimento del nuovo Senato?
1. La configurazione del nuovo Senato
La riforma costituzionale in itinere vede nel nuovo Senato un organo di rappresentanza delle
“istituzioni territoriali” (art. 55).
Che cosa si intenda per “istituzioni territoriali” è abbastanza agevole a dirsi. Il sintagma non
va interpretato in astratto, sbrigliando una mole definitoria difficilmente dominabile (dalla storia
istituzionale alle vigenti definizioni di ente pubblico), ma in concreto, sulla scorta delle istituzioni a
cui la riforma intende dare rappresentanza attraverso il Senato, ossia le Regioni e i Comuni. Ben più
complessa, e invero decisiva, è la ricerca del significato da attribuirsi, in questo caso, alla
“rappresentanza”. Ciò chiama in causa un primo problema, di natura teorica, circa il rapporto tra
rappresentanza istituzionale e rappresentanza politica; e un secondo problema, di natura pratica,
circa la prassi politica che da tale rapporto può scaturire.
2. Il problema teorico. Cenni intorno al rapporto tra rappresentanza politica e rappresentanza
istituzionale
Il concetto di rappresentanza politica che sempre ritroviamo, implicitamente o
esplicitamente, nelle costituzioni moderne e contemporanee è quello sviluppatosi nel passaggio
storico segnato della nascita dello Stato moderno. Il suo nucleo logico regge l’obbligazione politica
e dunque la sovranità. Ridotto ai suoi termini essenziali, esso non è altro che un processo di
Scritto sottoposto a doppio referaggio anonimo.
440
autorizzazione attraverso il quale i rappresentati autorizzano i rappresentanti ad assumere le
decisioni politiche necessarie alla cura dell’interesse pubblico.
Il presupposto di tale dispositivo è quello, proprio del giusnaturalismo moderno, di una
società concepita come insieme non organico di individui liberi ed uguali, i “veri” autori del
processo di autorizzazione e le “vere” controparti dell’obbligazione politica. Individui e sovrano
sono i due e soli poli del rapporto di potere politico69
.
In tale orizzonte, ogni corpo intermedio, sia esso territoriale o sociale, ha diritto all’esistenza
solo sin dove non giunga a rivendicare una propria, originaria, politicità e giuridicità70
.
Questo concetto di rappresentanza politica, ancorché relativizzato da una sorta di
moltiplicazione dei circuiti rappresentativi, si ritrova anche nella vigente Costituzione repubblicana.
La sua formalizzazione giuridica è riscontrabile in particolare nei caratteri del voto politico e nel
divieto di mandato imperativo. Ai sensi dell’art. 48 della Costituzione i caratteri del voto sono la
personalità, la libertà, l’uguaglianza e la segretezza: l’autorizzazione attraverso cui passa
l’obbligazione politica vede come poli l’individuo ed il potere sovrano. Il divieto di mandato
imperativo (art. 67 Cost.) è invece l’istituto che ha precisamente il fine di recidere il continuum tra
rappresentati e rappresentanti, traducendo in termini formali l’essenza dell’autorizzazione
rappresentativa. L’art. 1 della Costituzione esprime sinteticamente tutto ciò nel principio della
sovranità popolare esercitata «nelle forme e nei limiti della Costituzione»71
.
Di fronte a tale rappresentanza politica, che può definirsi generale, diviene concettualmente
problematico, ancorché non giuridicamente impossibile, pensare ad un concomitante spazio per una
* Enrico Gasparini è Vicesegretario generale vicario del Consiglio regionale della Lombardia. Paolo Costa è
Dottore di ricerca in diritto costituzionale all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano e Funzionario presso la
Segreteria generale del Consiglio regionale della Lombardia. Le riflessioni svolte dagli autori sono personali e non
impegnano l’istituzione di appartenenza. 69
La letteratura sul punto, giuridica e non solo, è ovviamente vastissima e ricca di classici. Per le dimensioni e
l’oggetto specifico del presente saggio essa non può essere qui ripercorsa. Sul punto, ci si limita a rinviare alla classica
opera di O. VON GIERKE, Giovanni Althusius e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche, a cura di A.
Giolitti, Torino 1943, 198, 201, 202. 70
Al riguardo, da ultimo, G. DUSO, Parti o partiti? Sul partito politico nella democrazia rappresentativa, in
Filosofia politica, 1/2015, 11 e ss. 71
Da sempre il problema della legittimazione del potere politico ha trovato proprie formulazioni giuridiche.
Max Weber lo afferma esplicitamente: “tra dominanti e dominati di solito il dominio viene interamente sostenuto da
principî giuridici” (M. WEBER, Economia e società. Dominio, Roma 2012, 819). L’argomento e la relativa letteratura
non possono essere esaminati in questa sede. In proposito si rinvia all’approfondimento svolto in P. COSTA, Gemina
persona. Un’ipotesi giuspubblicistica intorno alla crisi del soggetto politico, Milano 2015.
441
rappresentanza di altra natura, e in particolare, come nel caso della riforma costituzionale in itinere,
per una rappresentanza di enti territoriali infrastatali. Affinché si possa dare una rappresentanza in
senso proprio di questi ultimi, occorrerebbe ripensare i presupposti della rappresentanza generale (la
società di individui liberi ed uguali) in favore di una concezione sociale naturaliter plurale, in cui i
corpi intermedi, di ogni natura, non smarriscano ogni originarietà politica. Si coglie subito come si
tratti di un problema assai complesso e dalle radici profonde, e nondimeno sempre implicito in ogni
discorso intorno alla rappresentanza. Osserva Giuseppe Duso: «Al di là dei concetti quali quello di
totalità del popolo o di bene comune o di interesse generale, che sono intesi come finzioni, ciò che
si continuerebbe a rappresentare sarebbero pur sempre interessi, culture, idee e bisogni particolari di
gruppi associativi che non verrebbero cancellati dal formarsi dello Stato moderno. I parlamenti sono
in tal modo intesi come la prosecuzione in altre forme di un tipo di rappresentanza già esistente
nella società cetuale e nell’ancien régime. Tali analisi sono di grande interesse per la comprensione
della realtà storica; tuttavia in questo modo si rischia di non cogliere lo specifico del moderno
concetto di rappresentanza e il modo in cui con questo si intende legittimare il monopolio della
forza e la giustificazione razionale dell’obbligazione politica, e anche di non riconoscere il ruolo
materiale e organizzativo svolto da tale concettualità moderna nella costituzione dello Stato
moderno»72
.
È chiaro dunque, anzitutto, che la rappresentanza istituzionale a cui fa riferimento il
riformato art. 55 Cost. è una rappresentanza che non si integra coerentemente con la rappresentanza
politica generale di cui è depositaria l’altra Camera. Le si giustappone, come accade di consueto nei
sistemi federali, senza porsi eccessivi interrogativi di coerenza teorica (da ciò discendono, in ultima
analisi, i molti esercizi dogmatici intorno al problema della sovranità nello Stato federale), e certo
non vale a metterla in discussione e, probabilmente, neppure a limitarne la portata. È l’ineludibile
destino istituzionale della dialettica fra sovranità e autonomia, a cui si è mostrata sensibile anche la
Corte costituzionale nella sua giurisprudenza sui nomina73
. La Camera, e con essa lo Stato, è
l’organo depositario del primo rapporto di potere con i cittadini, quello della sovranità
rappresentativa, ed in tale rapporto risiedono la prerogativa e la responsabilità di effettuare la sintesi
72
G. DUSO, La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Roma-Bari 1999, 134. 73
In proposito, A. MANGIA, Il federalismo della “descrizione” e il federalismo della “prescrizione”, in Giur.
cost., 2007, 4015 e ss.
442
politica nazionale e di esprime il relativo indirizzo. L’autonomia, anche dove sia intesa – come
negli artt. 5 e 114 Cost. – quale autonomia politica, inevitabilmente si muove all’interno di
quest’ultimo. Essa non è mai assoluta, ma va sempre considerata alla luce dell’unità
dell’ordinamento, unità che si traduce in competenze ed istituti precisi, quali la legislazione
concorrente o i poteri sostitutivi, e che nella riforma trova un rafforzamento nella previsione della
cosiddetta clausola di supremazia. L’esistenza di una comune cornice costituzionale ed
eventualmente di quello che è stato definito “indirizzo politico costituzionale”, affidato ai massimi
organi di garanzia ed in primis al Capo dello Stato74
, non vale a mutare tale conclusione, come
testimonia la citata giurisprudenza costituzionale sui nomina.
E d’altra parte, anche quando l’autonomia pone alla propria base i medesimi dispositivi
legittimanti della sovranità (essenzialmente quello rappresentativo), si trova ancora,
inevitabilmente, a soccombere innanzi allo Stato. «Se infatti – come è stato evidenziato in dottrina –
l'autonomia politica è costruita ogni volta a partire da quella individuale, gli ingredienti o i formanti
(le volontà individuali, appunto) del livello più ampio di mediazione rappresentativa sono gli stessi
di quelli che compongono il più “basso”, sicché, fatalmente, le autonomie intermedie risultano
fagocitate o pretermesse e l’individuo stesso, comprensibilmente, concentra le sue aspettative e il
suo interesse sull’entità più grande e potente tra quelle che – è questo il punto! – in un medesimo
modo ha contribuito a generare»75
.
Di qui scaturisce il dilemma di ogni autonomia nei riguardi della sovranità statale: non
esistere, esistere nello Stato, esistere di fronte allo Stato.
74
Secondo la nota tesi di P. BARILE (I poteri del Presidente della Repubblica, in Trim. dir. pubbl., 1958, 295 e
ss.). 75
F. PIZZOLATO, Democrazia come autogoverno: la questione dell’autonomia locale, in
www.costituzionalismo.it, 28 marzo 2015. L’autore tenta anche di lanciare uno sguardo oltre lo spazio angusto tracciato
per l’autonomia dalla sovranità, appoggiandosi alla peculiare idea di pluralismo insita in Costituzione e scaturente dal
principio personalista.
443
3. Il problema pratico e politico. L’incertezza del cleavage del nuovo Senato
In dottrina si è ben evidenziato il problema del cleavage politico del nuovo Senato76
.
È assai difficile prevedere se i Senatori, una volta insediati, si raggrupperanno in ragione
dell’appartenenza partitica, territoriale o istituzionale. È un dubbio costitutivo discendente
dall’appartenenza plurale dei Senatori (al contempo membri del Senato e di un Consiglio regionale,
piuttosto che Sindaci di un Comune, ed esponenti di un partito politico), che probabilmente troverà,
se non una soluzione, quantomeno un incanalamento al momento dell’adozione del regolamento
interno del Senato. Potrebbe anche darsi che non si vada verso una soluzione unica, ma che le
appartenenze plurali possano coesistere ed emergere in modo variabile.
Ciò già accade ad esempio, a livello europeo, all’interno del Comitato delle Regioni, che
può essere additato come un esempio significativo in cui la pluralità di appartenenze dei membri
non impedisce l’efficace funzionamento dell’organo.
3.1. Un caso significativo: il Comitato delle Regioni
La disciplina dei gruppi interni del Comitato è definita dal relativo regolamento. Coesistono
– senza troppe questioni teoriche in ordine alla rappresentanza – tre tipi di raggruppamenti: per
delegazione nazionale; per partito politico europeo; per interessi comuni a più territori locali (gruppi
interregionali). I membri conservano il diritto al voto individuale e senza vincolo di mandato. La
prevalenza del voto di delegazione nazionale, del voto territoriale (interregionale) o del voto
partitico sembra dipendere da logiche essenzialmente politiche. Molto dipende probabilmente anche
dalla caratura politica del singolo membro (più nazionale, più locale, più partitica), dal singolo
ordine del giorno (se pertiene a meri interessi nazionali o territoriali o se piuttosto impegna il livello
ideale) e dai contingenti rapporti di forza. È tuttavia sintomatica di una concezione partitica la
76 N. LUPO, La (ancora) incerta natura del nuovo Senato: prevarrà il cleavage politico, territoriale o
istituzionale?, in www.federalismi.it, n. 4/2016.
444
circostanza che l’elezione del Presidente del Comitato proceda per candidature provenienti dai
gruppi politici77
.
Nella comparazione con il nuovo Senato, occorre tuttavia tenere presenti alcune specificità
del Comitato. In primo luogo, la minore capacità pervasiva del sistema partitico europeo rispetto a
quello nazionale (ancorché si stia tentando di profilare uno status giuridico dei partiti europei78
).
L’appartenenza al gruppo europeo è sicuramente meno forte rispetto all’appartenenza al partito
nazionale, anche perché il singolo politico deve spesso alla seconda anche la sua posizione in seno
alle istituzioni europee. Questa è una differenza significativa rispetto al sistema politico nazionale.
Quest’ultimo, all’opposto di quello europeo, registra piuttosto una scarsa autonomia dei sistemi
politici regionali rispetto a quello centrale.
Si consideri inoltre che ogni rappresentanza territoriale in Europa sconta anche l’ulteriore
appartenenza nazionale, che non è del tutto irrilevante al fine della definizione delle posizioni
politiche delle Regioni. Questa è ovviamente una dimensione che non tocca un organo di sintesi
nazionale come il nuovo Senato.
Ma soprattutto occorre considerare una circostanza che rappresenta una differenza
qualitativa rispetto ai consueti scenari istituzionali statali. Le istituzioni europee, per molte ragioni
77
Qui di seguito le relative norme del regolamento interno:
Art. 2 (Status dei membri e dei supplenti): Conformemente al disposto dell'articolo 300 del Trattato sul
funzionamento dell'Unione europea, i membri del Comitato e i loro supplenti sono rappresentanti degli enti regionali e
locali, titolari di un mandato elettivo nell’ambito di una collettività regionale o locale oppure politicamente responsabili
dinanzi a un’assemblea eletta. Non devono essere vincolati da alcun mandato imperativo ed esercitano le loro funzioni
in piena indipendenza, nell’interesse generale dell’Unione.
Art. 7 (Delegazioni nazionali e gruppi politici): Le delegazioni nazionali e i gruppi politici contribuiscono in
maniera equilibrata all’organizzazione dei lavori del Comitato.
Art. 8 (Delegazioni nazionali): 1. I membri e i supplenti provenienti da uno stesso Stato membro formano una
delegazione nazionale. Ciascuna delegazione nazionale fissa la propria organizzazione interna ed elegge un presidente,
il cui nome viene comunicato ufficialmente al Presidente del Comitato.
Art. 9 (Gruppi politici e membri non iscritti): 1. I membri e i supplenti possono costituire gruppi che riflettano
le loro affinità politiche. I criteri di ammissione sono fissati dal regolamento interno di ciascun gruppo politico. 2. Per
costituire un gruppo politico occorrono almeno diciotto membri o supplenti, che rappresentino in totale almeno un
quinto degli Stati membri; inoltre, almeno la metà degli appartenenti al gruppo politico deve essere costituita da
membri. Un membro o un supplente non può appartenere a più di un gruppo politico. Un gruppo politico si scioglie
quando il numero di membri o supplenti che lo compongono è inferiore a quello richiesto
Art. 10 (Gruppi interregionali): I membri e i supplenti possono costituire gruppi interregionali. La costituzione
di ciascuno di tali gruppi deve essere notificata mediante dichiarazione al Presidente del Comitato. Perché un gruppo
interregionale sia regolarmente costituito, è necessaria una decisione dell’Ufficio di presidenza. 78
Cfr. la proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo allo statuto e al
finanziamento dei partiti politici europei e delle fondazioni politiche europee, COM(2012)0499 – C7-0288/2012 –
2012/0237(COD).
445
che non possono essere esaminate in questa sede, non sono depositarie di veri e propri poteri
sovrani, nel senso della sovranità rappresentativa statuale. Il sistema complessivo continua ad essere
caratterizzato – senza scendere qui nel dettaglio del dibattito dogmatico sulla natura giuridica
dell’Unione europea – in senso sostanzialmente federale più che rappresentativo: si può affermare
che l’Unione europea esprima alcune istanze rappresentative; ma certo non può dirsi che il
pluralismo statale si riduca ad unità dissolvendosi al di sotto di un unico soggetto politico
europeo79
. Questo rende meno problematica la ricerca di uno spazio politico per una rappresentanza
istituzionale, dacché quest’ultima è in Europa più la regola che l’eccezione, difettando un
rappresentante unitario a cui imputare ultimamente tutto il potere politico. Altrimenti detto, lo
spazio politico europeo non è monopolizzato da un rappresentante sovrano.
In secondo luogo, l’emergenza formale delle Regioni nello scenario istituzionale europeo è
tutto sommato recente. Questo comporta una percezione positiva delle sue forme istituzionali
concrete (il Comitato delle Regioni con i suoi poteri; il coinvolgimento eventuale delle assemblee
legislative regionali nella procedura di early warning), anche laddove sembrino meno pregnanti
rispetto alle corrispondenti forme nazionali. Le Regioni, in fondo, non immaginerebbero di esigere
a livello europeo ciò che esigono, del tutto legittimamente, a livello nazionale.
È anche per queste ragioni che gli esempi riusciti di seconde camere nazionali
rappresentative delle istituzioni territoriali non sono in fondo molti.
3.2. Le seconde camere: un cenno comparatistico
Tra i molti esempi di seconde camere, viene solitamente indicato come riuscito il Bundesrat
tedesco. Tale affermazione si presenta tuttavia da subito come problematica, dacché non è neppure
79
È pertanto generico il riferimento al principio rappresentativo contenuto nell’art. 10 del TUE: «Il
funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa». Correttamente, attenta dottrina ha parlato non
già di rappresentanza dell’Unione europea, bensì, al plurale, di «dimensioni rappresentative nell’UE», osservando che
«non è dunque praticabile l’analogia della formazione dell’unità sovranazionale con il contratto tra individui. Tutt’al più
si potrebbe ipotizzare un’analogia con il significato che assume la rappresentanza politica entro gli Stati di natura
federale, laddove cioè le articolazioni politiche intermedie sono costitutive dell’unità di tipo politico» (F. PIZZOLATO,
Rappresentanza politica e Unione europea, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2/2013, 386).
446
certo che il Bundesrat possa considerarsi propriamente una camera legislativa80
. I restanti casi sono
per lo più poco rassicuranti, mostrando un sostanziale fallimento dei tentativi di dare sostanza alla
rappresentanza istituzionale di Regioni o Stati federati81
.
Un modello frequentemente additato come “non riuscito” è quello austriaco; e ciò è ancor
meno rassicurante per la riforma costituzionale in itinere, giacché è il modello che le si avvicina
maggiormente.
Il Consiglio federale austriaco assomiglia molto al futuro Senato italiano. I suoi membri
sono scelti attraverso un’elezione di secondo grado da parte delle diete provinciali (gli organi
legislativi dei Länder) e godono di libertà di mandato. Il numero di eletti deve essere proporzionale
alla popolazione provinciale (la provincia maggiore ne ha 12; nel nuovo Senato italiano, la Regione
maggiore ne avrà 14).
I gruppi parlamentari sono organizzati sulla base di un vincolo di partito abbastanza
stringente, da quanto lascia intendere la relativa disposizione del regolamento interno, che consente
di costituire un gruppo solo tra eletti candidati dal medesimo partito82
.
4. Il nuovo Senato e il sistema delle Conferenze: rappresentanza istituzionale e funzione di
raccordo
Questi dati comparatistici, uniti ai tanti commenti sulla riforma costituzionale che si
susseguono83
, inducono ad una certa cautela nel salutare ottimisticamente l’avvento del nuovo
80
R. BIN, L'elezione indiretta del Senato: la peggiore delle soluzioni possibili, in www.forumcostituzionale.it,
20 marzo 2015: «Ma, come è noto, il Bundesrat non è un ramo del Parlamento, ma un organo a se stante dalle lontane
radici feudali; così come non c'entra nulla con i parlamenti la sua riproduzione moderna su scala europea, il Consiglio
dell’Unione. È un organo che condivide con il Parlamento la funzione legislativa, ma a nessuno verrebbe in mente di
definirlo come “seconda Camera”. Il che significa che non tutte le istituzioni che partecipano alla funzione legislativa
devono necessariamente qualificarsi come istituzioni parlamentari». 81
Cfr. R. BIN, ibidem. I. RUGGIU, Il futuro Senato della Repubblica: un contributo alla risoluzione dei
problemi del bicameralismo, ma irrilevante, se non dannoso, per il regionalismo, in www.costituzionalismo.it, n.
3/2015, 121 e ss. 82
§ 14.1: «Bundesräte, die auf Grund von Vorschlägen derselben Partei durch die Landtage gewählt werden,
haben das Recht, sich zu einer Fraktion zusammenzuschließen. Für die Anerkennung als Fraktion ist der
Zusammenschluss von mindestens fünf Bundesräten erforderlich». 83
Si rinvia, tra i molti commenti dottrinali, almeno agli autorevoli interventi presenti nelle sezioni dedicate di
diverse riviste scientifiche. Si segnalano: il Forum sulla riforma costituzionale curato da www.dirittiregionali.org; il
Focus sulla riforma costituzionale curato da www.federalismi.it; lo Speciale riforme costituzionali curato da
www.osservatoriosullefonti.it; le risposte ai “Venti questioni su Regioni e riforme costituzionali” formulati da Le
Regioni, n. 1/2015. Si segnala inoltre l’opera monografica di E. ROSSI, Una Costituzione migliore? Contenuti e limiti
della riforma costituzionale, Pisa 2016.
447
Senato come una valorizzazione delle Regioni. Potrebbe essere per esse un’occasione; oppure
un’occasione mancata; o addirittura una reformatio in peius del loro status istituzionale nel
complesso dell’architettura della Repubblica.
Tentiamo di dare brevemente conto di queste possibilità.
Circa l’attribuzione alle Regioni di poteri sostanziali, ed in particolare legislativi, sembra
proprio doversene registrare una riduzione, a tacer d’altro84
per la previsione espressa e generale
della cosiddetta clausola di supremazia. Il testo della riforma costituzionale consacra e porta a
conseguenze ulteriori il già svilito ruolo reale delle Regioni (originato da tante cause: la crisi
finanziaria, la crisi di legittimazione, la persistenza di un assetto dei poteri centrali non toccato dalla
riforma del 2001, la giurisprudenza costituzionale, soprattutto quella successiva al 2008, etc.). È
plausibile attendersi dalla riforma, tra le altre cose: l’ampliamento della potestà legislativa statale; il
ritorno dei poteri ministeriali di indirizzo e coordinamento; il permanere di un insoddisfacente
grado di autonomia finanziaria e di un inesistente grado di autonomia tributaria delle Regioni.
A fronte di ciò, per prima la stessa relazione governativa dell’8 aprile 2014, che ha
accompagnato la presentazione del disegno di legge costituzionale, ha tentato di evidenziare come,
quasi a fini compensativi, le Regioni godranno di un maggior coinvolgimento nel procedimento
legislativo statale85
.
Tale lettura governativa della riforma è sostenibile e sarà destinata ad inverarsi se, e solo se,
il nuovo Senato sarà davvero in grado di svolgere quella funzione di «raccordo tra lo Stato e gli altri
enti costitutivi della Repubblica» che il nuovo art. 55 Cost. gli assegna. Ed è precisamente questo
l’ubi consistam politico-istituzionale su cui poggia l’intero progetto di riforma del regionalismo
italiano. Dalla riuscita o dal fallimento della funzione di raccordo del nuovo Senato dipende infatti
la possibilità per le Regioni di avere effettivamente un proprio ruolo co-decisionale nel
84
U. DE SIERVO, Una prima lettura del progettato nuovo art. 117 Cost., in Rivista AIC, n. 1/2016. 85
«Il maggiore coinvolgimento delle autonomie sia nelle decisioni riservate alla potestà statuale, sia e ancor
più in quelle di maggiore interesse territoriale, che si realizza in forme articolate e di diversa intensità, nell’ambito del
procedimento legislativo definito nel novellato articolo 70 della Costituzione, rende compatibile con il rispetto e la
promozione del principio autonomistico la definizione di una riforma radicale dei criteri di riparto delle competenze
legislative tra lo Stato e le Regioni».
448
procedimento legislativo statale, e dunque di essere “compensate” per la diminuzione del loro
potere legislativo (ancorché, per quanto efficacemente possa riuscire la rappresentanza istituzionale
delle Regioni, l’impianto complessivamente centralista della riforma proietterà verso il Senato una
voce debole poiché, ad ogni buon conto, sarà la voce di enti significativamente indeboliti).
Diversamente, il nuovo Senato sarà destinato a suscitare l’indifferenza, se non la diffidenza delle
Regioni, e la loro prassi inter-istituzionale si attesterà nuovamente sui circuiti extra-parlamentari.
Per questa ragione appare prematura l’opinione diffusa, soprattutto a livello politico,
secondo la quale con l’istituzione del nuovo Senato cesserebbe eo ipso il ruolo dell’attuale sistema
delle Conferenze, quantomeno per la funzione legislativa, rimanendo esso attuale solo per quella
amministrativa86
. Altrimenti detto, il nuovo Senato dovrebbe divenire il luogo esclusivo in cui le
Regioni partecipano alla fase deliberativa delle politiche pubbliche; il sistema delle Conferenze il
luogo in cui partecipano a quella esecutiva.
A fronte di un eventuale “fallimento” del nuovo Senato, la tesi del superamento dell’attuale
assetto del sistema delle Conferenze per la fase deliberativa delle politiche pubbliche proverebbe
decisamente troppo (equivarrebbe – sia consentito un paragone radicale solo a fini esplicativi – a
sostenere che, in ragione dell’istituzione del CNEL, occorre riconsiderare il sistema delle relazioni
sindacali). Invocare l’argomento letterale della coincidenza di nomen iuris (“raccordo”) tra le
funzioni del Senato e quelle delle Conferenze rischierebbe di tradursi infine, e ad absurdum, nella
negazione della stessa esistenza delle Regioni, le quali godrebbero di una piena capacità politica
solo in quanto “rappresentate” nel Senato; quando, piuttosto, è vero il contrario: le Regioni esistono
in sé, e perciò agiscono, in quanto enti di autonomia “riconosciuti” dalla Costituzione ai sensi
dell’art. 5.
In questo momento di incertezza pare utile, piuttosto, tentare di formulare qualche ipotesi
sulla possibilità concreta che il nuovo Senato “funzioni” o meno, ancorché con tutta la precarietà e
le difficoltà di un’analisi, per così dire, in vitro sul testo di una riforma in itinere.
86
In questo senso i ministri auditi dalla Commissione bicamerale per le questioni regionali (Boschi, Alfano,
Lorenzin). Di avviso parzialmente diverso il sottosegretario G. Bressa (Commissione parlamentare per le questioni
regionali, “Indagine conoscitiva sulle forme di raccordo tra lo Stato e le autonomie territoriali, con particolare riguardo
al “sistema delle Conferenze”).
449
Come si diceva, i commenti dottrinali a tale riguardo, unitamente ai dati comparatistici sopra
riferiti, suggeriscono conclusioni, almeno in astratto, poco confortanti.
Le maggiori difficoltà discendono dalla composizione del nuovo Senato e dai termini
procedurali brevi che scandiscono il suo intervento eventuale nel procedimento legislativo
monocamerale.
Come accennato sopra, il cleavage del Senato resta dubbio, e tale resterà, probabilmente,
almeno fino al momento dell’adozione del relativo regolamento interno. Il difetto di una vera e
proprio “delegazione” regionale rende possibile l’emergenza di raggruppamenti secondo criteri di
altra natura.
Il rischio che può evidenziarsi è duplice.
Il primo, e forse più probabile (anche in ragione della scarsa autonomia dei sistemi politici
regionali rispetto a quello nazionale, con la sola eccezione dei pochissimi partiti a forte
connotazione locale), è quello del raggruppamento dei Senatori secondo la consueta divisione
partitica. In questa ipotesi in Senato si verrebbe a formare una normale maggioranza politica, che
potrebbe corrispondere a quella della Camera (come accadrebbe verosimilmente alla sua prima
elezione sulla base della disciplina transitoria87
), e allora il Senato risponderebbe a logiche
maggioritarie e governative; oppure non corrispondervi, costringendo così le due Camere ad una
sorta di “cohabitation”.
Il secondo rischio potrebbe inverarsi allorché, nel tentativo di creare raggruppamenti
secondo divisioni non partitiche, la pluralità di appartenenze incida in modo imprevedibile sulla
formazione delle maggioranze: con, tra gli altri, il possibile esito pratico della difficoltà di
esprimere una qualsiasi maggioranza. Sono almeno quattro le variabili da considerare: la divisione
per appartenenza partitica (trasversale rispetto all’appartenenza territoriale); la divisione per
appartenenza territoriale (come già accade nelle Conferenze); la divisione maggioranze/minoranze
consiliari (come già accade nei Consigli regionali); la divisione per appartenenza istituzionale
(Consiglieri regionali e Sindaci). Sono quattro variabili che, insieme considerate, danno un’idea
della difficoltà di “governare” le maggioranze del Senato.
87
Cfr. G. TARLI BARBIERI, La revisione costituzionale “Renzi-Boschi”: note sparse sul procedimento di
approvazione e sul capo VI («Disposizioni finali») della stessa, in Osservatoriosullefonti.it, fasc. 1/2016.
450
Nell’ambito del confronto politico è frequente riscontrare anche l’opinione secondo la quale
il superamento delle incertezze passerà, più che per il regolamento interno, per la legge statale
elettorale, di attuazione del nuovo art. 57, c. 6, Cost. In particolare, il giudizio prognostico
sull’efficacia della funzione di raccordo del Senato è fatto dipendere dalla previsione, ad opera di
quest’ultima, della presenza in seno ad esso dei Presidenti di Regione. Al di là della questione della
possibilità per la legge elettorale statale, o per le leggi elettorali regionali ex art. 122 Cost., di
disciplinare un aspetto che pertiene alla composizione di un organo costituzionale88
, resta il fatto
che la presenza del Presidenti di Regione potrebbe infine mostrarsi come un falso problema, o,
rectius, come una falsa soluzione.
In mancanza della previsione di un voto regionale unitario, i Presidenti di Regione non
avranno in Senato uno status diverso da quello degli altri Senatori, ed il loro voto risulterà pertanto
“diluito” tra quello di questi ultimi (oltre 70), comprendenti anche le rappresentanze delle
minoranze dei Consigli regionali e dei Sindaci. Per il Governo, la sola presenza dei Presidenti di
Regione non costituirà pertanto garanzia di trovare più facilmente il consenso di una maggioranza.
Ciò poiché, evidentemente, o i Presidenti di Regione saranno in grado di agire da “capo gruppo
regionale” anche verso le minoranze dei propri Consigli regionali, oppure gli esiti del voto d’aula
resteranno in larga parte imprevedibili ed ingovernabili. Nelle attuali Camere, l’unico strumento
funzionante di “governo della maggioranza” è notoriamente la disciplina di partito, che invece nel
88
Osserva ad esempio G. RIVOSECCHI: «la presenza diretta dei Presidenti di Regione nella seconda Camera
scongiurerebbe il rischio di avere un sistema delle Conferenze maggiormente legittimato del “nuovo” Senato. Per
ottenere questo obiettivo, però, il tenore letterale di quelle che potrebbero essere le future norme costituzionali, per le
quali i Senatori saranno eletti dai Consigli regionali “tra i propri componenti” (articolo 57, secondo comma, Cost.) e “in
conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati Consiglieri” (articolo 57, quinto comma, Cost.), osta
all’introduzione di sistemi elettorali che prevedano l’inclusione di diritto dei Presidenti di giunta regionale. Tale
risultato potrebbe essere invece conseguito per effetto delle scelte dei componenti delle assemblee in tutte quelle
Regioni in cui i Presidenti di Regione siano anche Consiglieri regionali (tutte, al momento, tranne la Regione Valle
d’Aosta e le Province autonome di Trento e di Bolzano). Se i margini per assicurare l’inclusione di diritto dei Presidenti
di Regione in Senato mediante la legge elettorale mi sembrano assai ridotti, più consistenti paiono gli spazi rimessi alle
leggi regionali che dovranno disciplinare il sistema delle ineleggibilità e delle incompatibilità dei titolari di cariche
regionali nei limiti della legge di principio statale, secondo quanto previsto dal “nuovo” art. 122 Cost. Per quanto sopra
detto, tale disciplina dovrebbe favorire l’ingresso dei Presidenti di Regione nel Senato e non, all’opposto, precluderlo»
(Audizione alla Commissione parlamentare per le questioni regionali nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sulle forme di raccordo tra lo Stato e le autonomie territoriali, con particolare riguardo al “sistema delle Conferenze”, 25 febbraio 2016; N. LUPO, La (ancora) incerta natura del nuovo Senato: prevarrà il cleavage politico,territoriale o istituzionale?,
cit., 4, ritiene “discutibile” la posizione espressa dagli stessi Presidenti di Regione, i quali hanno ipotizzato una loro
presenza in Senato quali “Senatori di diritto”: http://www.Regioni.it/newsletter/n-2800/del-01-10-2015/chiamparino-su-
riforma-Senato-inviata-una-lettera-alla-boschi-14390/ ).
451
nuovo Senato costituirebbe la prima nemica della rappresentanza territoriale. È pertanto possibile
che il Governo, nonostante la presenza dei Presidenti di Regione, faticherà molto a trovare una
maggioranza in Senato, e giungerà infine a considerare politicamente più pratico continuare a
rapportarsi direttamente con le Conferenze. E d’altra parte – detto per inciso – la mancanza dei
Presidenti di Regione non precluderebbe al Governo di cercare comunque una maggioranza in
Senato, rapportandosi con le eventuali maggioranze regionali presenti.
Quanto al profilo procedurale, il termine per il “richiamo” delle leggi della Camera da parte
del Senato è assai breve (10 giorni, ex art. 70 Cost.), sicché si pone il problema di come consentire
al Senato ed ai suoi uffici, soprattutto a fronte delle difficoltà deliberative appena evidenziate, di
istruirlo e deliberarlo tempestivamente.
Le questioni ora evidenziate rischiano di costituire fattori critici per il funzionamento del
nuovo Senato, e, con ciò, per la riuscita della nuova fisionomia del regionalismo italiano.
Trattandosi di problemi pratici, è allora necessario tentare di ipotizzate per essi altrettante soluzioni
pratiche. Quelle possibili sembrano passare per la necessaria iniziativa delle stesse Regioni e delle
loro Conferenze.
4.1. Alcune possibili soluzioni pratiche
I problemi ora sollevati dovrebbero trovare una prima soluzione ad opera del regolamento
interno e della legge elettorale del Senato. Sono questi tuttavia due strumenti sui quali le Regioni
non hanno modo di incidere direttamente.
Esse hanno tuttavia la facoltà – a fronte del rischio che nel nuovo Senato i gruppi interni si
dividano per appartenenza partitica, con conseguente irrilevanza della pur proclamata
rappresentanza istituzionale – di ricercare dei percorsi politico-istituzionali interni, di
evidenziazione dell’“interesse regionale”, che favoriscano per quanto possibile, la formazione di
posizioni regionali unitarie; senza giungere ovviamente al mandato imperativo, ancora
espressamente vietato anche per il Senato. Altrimenti detto, se la delegazione regionale unitaria, sul
modello del Bundesrat tedesco, non è possibile de jure, non è però vietata de facto. Ogni Regione, e
452
in particolare ogni Consiglio regionale, diverrebbe luogo di sperimentazione di modelli bensì
diversi ma accomunati dalla medesima intenzione di dare sostanza alla rappresentanza istituzionale
del Senato e magari di sviluppare ulteriormente quella che è stata definita una «politica nazionale
regionale», ossia l’ingresso delle politiche regionali nella strategia di sviluppo nazionale89
.
Si favorirebbe in questo modo una modalità “a rete” dell’attività politica del Senato e delle
Regioni. Ad essa dovrebbe corrispondere un’analoga modalità di lavoro degli uffici. È vero che se
una competenza è formalmente del Senato la relativa funzione amministrativa servente è posta in
capo all’amministrazione interna di quest’ultimo. Ma è anche vero che qualora, nella prassi
istituzionale, la logica della rappresentanza delle istituzioni territoriali avesse la prevalenza sulla
logica delle consuete divisioni partitiche, nei Consigli regionali si porrebbe la necessità di assistere i
Consiglieri-Senatori nella parte di lavoro di raccordo istituzionale che svolgono in Consiglio
regionale. Sarebbe allora opportuno pensare anche a forme di raccordo tra gli uffici del Senato e i
corrispondenti uffici del Consigli regionali, sfruttando anche la capacità di coordinamento delle
conferenze “orizzontali”.
Ciò potrebbe rappresentare anche la soluzione al problema del termine breve per il richiamo
della legge monocamerale. L’esistenza di un’organizzazione del lavoro “a rete” tra il Senato e i
Consigli regionali e le rispettive amministrazioni interne consentirebbe al Senato di muoversi
tempestivamente ed efficacemente, coordinando il lavoro di istruttoria tecnica e di condivisione
politica quando i disegni di legge monocamerali sono ancora pendenti nella prima Camera.
È immaginabile al riguardo lo sviluppo di una prassi – e magari, successivamente, di una
consuetudine costituzionale – che definisca anche l’oggetto del lavoro “a rete”. Innanzi ai
procedimenti legislativi pendenti presso la Camera, il Senato dovrebbe darsi anzitutto dei criteri in
base ai quali selezionare quelli da richiamare. Un primo e naturale criterio per un Senato che
volesse essere davvero rappresentativo delle istituzioni territoriali sarebbe quello, più formale che
sostanziale, del rispetto delle prerogative costituzionali di queste ultime. In concreto, la modalità “a
rete” potrebbe tradursi in qualche cosa di analogo al sistema europeo di early warning, da declinarsi
in una procedura nazionale. Immaginandone il funzionamento pratico, ogni progetto di legge
calendarizzato presso la Camera dovrebbe essere tempestivamente trasmesso a tutti i Consigli
89
A. POGGI, Le funzioni legislative e amministrative nelle autonomie speciali, tra vecchie e nuove fonti e
realtà effettiva, in www.federalismi.it, n. 22/2015, 30.
453
regionali affinché questi effettuino un’istruttoria (che evidenzi magari gli aspetti istituzionali e le
ricadute territoriali della normativa) e trasmettano, se del caso, pareri al Senato in vista della
decisione sul richiamo e della formulazione di emendamenti. A questo canale potrebbe essere
riconosciuto un valore politico e forse anche un qualche valore giuridico (da modulare in un
apposito protocollo da sottoscrivere tra il Senato e i Consigli regionali e, forse, nel regolamento del
nuovo Senato). Ciò risponderebbe anche all'esigenza di equilibrare un sistema che potrebbe
apparire eccessivamente sbilanciato sul potere del governo centrale e della maggioranza, anche alla
luce dalla nuova legge elettorale per la Camera; aumenterebbe l’importanza di sedi rappresentative
territoriali capaci di mobilitare la partecipazione dei cittadini; e forse contribuirebbe a diminuire
davvero il tasso di litigiosità tra Stato e Regioni nel campo della legislazione.
5. Quale alternativa nel caso di “fallimento” del nuovo Senato?
Se tuttavia, per qualsiasi ragione, il Senato dovesse dare cattiva prova di sé, ai fini pratici la
soluzione possibile sarebbe quella già evidenziata da tempo dalla vox clamantis della dottrina più
consapevole90
, che riproporrebbe la propria attualità all’esito di un “giro dell’oca” istituzionale.
Alle Regioni non resterebbe che il ritorno al sistema delle Conferenze, già nella fase deliberativa
delle politiche pubbliche (come già è accaduto nel caso austriaco). Le basi giuridiche del sistema
delle Conferenze restano infatti le medesime anche dopo la riforma costituzionale: il principio di
leale collaborazione e la possibilità dell’impugnativa regionale delle leggi statali.
L’alternativa sarebbe quella dell’imputazione politica della voce del Senato (voce
maggioritaria e governativa, oppure voce dell’opposizione, oppure “voce muta”) alle Regioni, le
quali si vedrebbero così “normalizzate” all’interno dell’indirizzo politico governativo91
. L’assenso
90
R. BIN - I. RUGGIU, La rappresentanza territoriale in Italia. Una proposta di riforma del sistema delle
conferenze, passando per il definitivo abbandono del modello Camera delle Regioni, in Le istituzioni del federalismo,
6/2006, 903 e ss. 91
Come è stato osservato da C. SALAZAR, riprendendo le riflessioni di A. MORELLI (L’autonomia territoriale
nella dimensione della democrazia costituzionale alla luce del principio personalista, in AA.VV., Il valore delle
autonomie. Territorio, potere, democrazia, a cura di B. Pezzini - S. Troilo, Napoli 2015, 441 ss.): «Il problema, allora,
non è che l’inversione di marcia verso il “centralismo di necessità” sia tracciata per assecondare le aspettative
dell'Unione europea o quelle dei mercati: il problema è che questo cammino a rebours per molti versi suscita oggi il
concreto timore che la ri-centralizzazione sia spinta sino allo svuotamento dell’autonomia locale ed, in particolare,
dell’autonomia politica regionale, senza che tra le forze politiche e nella società civile si manifestino reazioni in grado
di contrastare tale involuzione. Come è stato ancora di recente evidenziato, il “modello” costituzionale, sposando il
regionalismo politico, ha segnato l’abbandono dell’idea «funzionalista delle autonomie territoriali come mere proiezioni
spaziali di dinamiche socio-economiche»: ma lo sguardo sulla realtà mostra che quella scelta, già in buona parte tradita
dalla ostinata indifferenza mostrata dal legislatore verso le difficoltà nate dalle carenze e lacune della riforma del 2001,
oggi è viepiù messa in discussione, paradossalmente, dall'improvviso “risveglio” della politica, costretta dall’avvento
della crisi ad occuparsi di nuovo delle autonomie. Solo che gli interventi adottati a questo fine – ed il d.d.l. in esame
non fa eccezione – lasciano sovente trasparire una visione dell’autonomia territoriale, e di quella regionale in specie,
454
del Senato diverrebbe politicamente interpretabile come assenso delle Regioni; il silenzio del
Senato diverrebbe politicamente interpretabile come loro acquiescenza.
Altrimenti detto, se le Regioni non riusciranno ad esprimere la propria politicità all’interno
del Senato, dovranno fare il possibile per conservarla e rafforzarla all’esterno di esso.
D’altra parte, il Senato è e resta, pur sempre – ancorché la Costituzione lo definisca “della
Repubblica” – un organo dello Stato e non delle autonomie: i suoi atti sono giuridicamente imputati
alla persona giuridica dello Stato e non agli enti regionali o locali. Il campo in cui questi ultimi sono
chiamati a giocare la propria partita politico-istituzionale è dunque quello definito dai confini
strutturali e funzionali di un organo statale92
. Il rischio della loro “statizzazione” non può essere
trascurato.
Il recupero del potere perso a livello territoriale attraverso la partecipazione dei Consiglieri
regionali al Senato e l’ingresso nel circuito parlamentare è pertanto ancora assai teorico: una
scommessa – si potrebbe dire – accettata per forza, i cui esiti sono molto incerti e sicuramente non
non già come «governo (in senso lato) delle popolazioni locali, bensì come governo per le popolazioni locali»: in tale
seconda prospettiva, che colloca il momento di affermazione ultima dell’unità politica «al di fuori dello stesso
ordinamento autonomo, il quale – per definizione – presuppone l’esistenza di un ulteriore e più comprensivo
ordinamento», nulla si oppone, in teoria, a che le autonomie locali vengano ridimensionate al ruolo di enti «meramente
funzionali al più efficiente soddisfacimento di interessi definiti a livello nazionale o sovranazionale» (C. SALAZAR, Il
procedimento legislativo e il ruolo del nuovo Senato, Relazione al Seminario “La riforma dello Stato regionale in Italia.
A proposito del parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali sul disegno di legge costituzionale S.
1429”, tenutosi a Roma il 10 luglio 2014, reperibile in www.issirfa.cnr.it.). 92
Osserva al riguardo I. RUGGIU: «L’organo [di raccordo Stato-Regioni] dovrebbe essere istituzionalmente
autonomo, ossia non incardinato né nel Governo né nel Parlamento, ma dotato di una propria distinta collocazione nella
topografia istituzionale, per conferire alla rappresentanza territoriale maggior forza simbolica. Sia incardinati nel solo
Parlamento che nel solo Governo i territori rischiano, infatti, di restare appiattiti dalle logiche che ivi si tutelano.
Sarebbe invece opportuno conferire alla rappresentanza territoriale una propria collocazione autonoma che tenga conto
degli elementi di differenza rispetto alle altre rappresentanze. Si potrebbe ribattere che in realtà il Senato è in sé un
organo autonomo, ma esso è pur sempre un ramo del parlamento, di un organo che nella tradizione del
costituzionalismo incarna la nazione e non le regioni. D’altra parte, guardando all’altra esperienza italiana di
rappresentanza territoriale, il fatto che le conferenze fossero “incardinate” presso il Governo ha in qualche modo
enfatizzato quella sensazione di essere ospiti in casa altrui e non protagoniste della scena istituzionale con un vero e
proprio organo dei territori» (Il futuro Senato della Repubblica: un contributo alla risoluzione dei problemi del
bicameralismo, ma irrilevante, se non dannoso, per il regionalismo, cit., 130).
455
immediati. In via prudenziale, alle Regioni non conviene abbandonare le sedi certe per quelle solo
prospettate. Nei sistemi con una Camera alta rappresentativa dei territori esistono sempre momenti
di raccordo interistituzionale che rispondono ad un'insopprimibile esigenza. Si tratterà tutt’al più di
modulare l’ambito di azione delle attuali Conferenze in ragione dell’eventuale ruolo crescente del
Senato.
Sogno e disincanto dell’autonomia politica regionale
nel pensiero di Temistocle Martines (con particolare riguardo al “posto” delle
leggi regionali nel sistema delle fonti)
di Antonio Ruggeri
(Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università di Messina)
(29 maggio 2016)
SOMMARIO: 1. Le basi portanti della costruzione teorica martinesiana: autonomia politica, separazione tra le
leggi di Stato e Regione, certezza del diritto costituzionale e certezza dei diritti costituzionali (e, in genere, degli
interessi costituzionalmente protetti). – 2. Alcuni svolgimenti teorici del modello (con particolare riguardo ai contenuti
degli statuti ordinari ed alla definizione dei «principi fondamentali» delle leggi di potestà ripartita). – 3. Non già
l’innovazione al dettato costituzionale bensì la sua fedele attuazione quale rimedio allo svilimento dell’autonomia e,
perciò, fattore di rimozione delle sue cause (tra le quali, principalmente, l’organizzazione centralistica dei partiti politici
e le resistenze frapposte al decentramento delle funzioni dalla burocrazia statale), cause – può aggiungersi – per il cui
superamento non si intravvede invero alcun segno nella riforma “Renzi-Boschi”. – 4. La strutturale apertura del
modello costituzionale, che non impone né esclude tanto la separazione quanto la integrazione delle competenze, e
l’opzione per il secondo corno dell’alternativa che è sollecitata dalla natura composita o “mista” degli interessi di cui le
leggi di Stato e Regione sono chiamate a farsi cura. – 5. Una succinta notazione finale: il difetto di una cultura
dell’autonomia profondamente radicata nel tessuto sociale ed ordinamento e la speranza che essa possa finalmente
giungere a maturazione in tempi non troppo lunghi.
1. Le basi portanti della costruzione teorica martinesiana: autonomia politica, separazione
tra le leggi di Stato e Regione, certezza del diritto costituzionale e certezza dei diritti costituzionali
(e, in genere, degli interessi costituzionalmente protetti)
Debbo confessare un personale, non lieve disagio prima di accingermi a trattare, con la
massima rapidità, del tema evocato dal titolo dato a questa mia riflessione; ed è che chi si accinga a
trattare di un qualunque tema di diritto regionale e del pensiero al riguardo manifestato dal Maestro
che oggi ricordiamo, grazie alla lodevole iniziativa di Dirittiregionali.org, dovrebbe comunque far
riferimento altresì ai Lineamenti di diritto regionale che – come si sa – portano, accanto a quella di
Martines, anche la mia firma: una delle tante testimonianze di generoso affetto dimostratemi dal
Maestro e di cui non cesserò mai di esserGli grato. Sta di fatto, però, che non reputo giusto
utilizzare anche questo testo quale punto di riferimento per la ricostruzione del pensiero di M.,
trovandosi in esso mescolati assieme, sì da rendersi a conti fatti indistinguibili (alle volte, anche per
me…), i frutti della riflessione congiuntamente svolta da entrambi.
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Ricordo ancora (e desidero qui renderli espliciti) gli sforzi prodotti nel passaggio da
un’edizione all’altra di questo testo (la prima è dell’84), specie dopo la prematura scomparsa del
Maestro avvenuta nel giorno stesso in cui la Repubblica compiva cinquant’anni, al fine di restare
fedele alla lezione martinesiana in un libro di cui Egli era stato l’ideatore e il primo autore, pur
laddove su questioni di cruciale rilievo, quale quella dell’inquadramento dei rapporti tra leggi statali
e leggi regionali cui qui specificamente si guarda, ero andato gradatamente distaccandomi dalla sua
impostazione, traghettando dalla sponda della separazione a quella della integrazione delle
competenze di cui le leggi suddette sono espressione93
.
Non posso e non voglio parlare di me in questo studio, per quanto quest’esito temo che non
sia in tutto evitabile. Posso solo dire di avere nitido il ricordo delle tappe principali di questa mia
evoluzione che si è accompagnata ad una generale maturazione di una personale ricostruzione
dell’intero ordine delle fonti che giudico nondimeno a tutt’oggi complessivamente incompiuta,
bisognosa di alcune, non secondarie precisazioni e di ulteriore affinamento.
Martines è invece sempre rimasto fedele a se stesso94
, fermo nell’idea che le fonti in
discorso siano da considerare separate e che perciò ad esse resti estraneo tanto lo schema della
pariordinazione quanto quello della ordinazione gerarchica; piuttosto, si sarebbe in presenza di «un
rapporto che trova il suo punto di confluenza e di armonizzazione nelle norme costituzionali e che
va definito in termini di validità-invalidità»95
. Un rapporto, dunque, in cui leggi statali e leggi
regionali risultano idonee a condizionarsi variamente a vicenda, sia pure con diversa intensità96
.
93
Tra gli allievi diretti di Martines chi – se non erro – ha per primo argomentato la sua preferenza per il
modello della integrazione è stato A. SPADARO, Sui princìpi di continuità dell’ordinamento, di sussidiarietà e di
cooperazione fra Comunità/Unione europea, Stato e Regioni, in Riv. trim. dir. pubbl., 4/1994, 1041 ss. 94
Per la verità, proprio nel suo primo, ampio studio dedicato alle leggi regionali (Questioni e dibattiti sulla
legislazione regionale siciliana, in Riv. trim. dir. pubbl., 1954, 1 ss., ora in Opere, II, Milano, 2000, spec. 196 s.), M.
sembrava guardare con favore a talune dinamiche della normazione riportabili al modello della integrazione, per un
verso ammettendo che le leggi regionali di potestà esclusiva, una volta venute alla luce, potessero abrogare le
preesistenti leggi statali e, per un altro verso, dando modo a queste ultime di farsi valere in difetto della disciplina
regionale. Negli studi successivi, tuttavia, questo schema non è più ripreso. 95
Così, riassuntivamente, in Diritto costituzionale, ed. per i corsi univ. di base, a cura di G. Silvestri, Milano,
2011, 480 (ma il modello è rappresentato, alle volte con identità di termini, in molti scritti, anche risalenti). 96
Poderoso lo sforzo prodotto al fine di mostrare che i limiti posti alla potestà legislativa primaria delle
Regioni risultino quodammodo “riflessivi”, rivoltandosi altresì contro le stesse leggi statali, persino laddove – come a
riguardo delle leggi di esecuzione dei trattati internazionali – dottrina quasi unanime e giurisprudenza consolidata
ammettevano al tempo che le leggi in parola potessero essere derogate da parte di leggi sopravvenienti (tra gli altri
scritti, v. Le fonti normative nell’ordinamento regionale, relaz. al Convegno AIC su Legge e regolamento.
Trasformazione delle fonti nella dinamica del sistema politico, Napoli 27-28 ottobre 1989, ora in Opere, II, cit., 571 ss.,
spec. 578 ss.).
458
La radice da cui quest’impianto teorico si tiene ed alimenta sta proprio nell’idea di
autonomia politica la cui «più compiuta elaborazione» – come ancora di recente ha opportunamente
rammentato A. Morelli97
– si deve proprio a Martines.
La “logica” della separazione delle competenze, escludendo una ordinazione piramidale
delle fonti di Stato e Regione, punta diritto – com’è chiaro – all’obiettivo di offrire la più salda delle
garanzie ottenibili al piano teorico-ricostruttivo all’autonomia e di darle quindi modo di aprirsi a
raggiera traducendosi in un ventaglio di indirizzi politici effettivamente, reciprocamente
differenziati, così come distinti rispetto a quello dello Stato, restando nondimeno entro la cornice
della unità-indivisibilità della Repubblica siccome obbligati a prestare comunque ossequio alla
Carta costituzionale, alle sue regole, ai suoi valori98
. Una pluralità d’indirizzi, peraltro, giustificata
(ed anzi imposta) dai contesti socio-economici propri dei territori in cui si articola la Repubblica,
essendo l’azione regionale naturalmente sollecitata a conformarsi ai peculiari bisogni emergenti dai
territori stessi, specie a quelli maggiormente diffusi ed avvertiti in seno al corpo sociale99
.
L’intento garantista nel pensiero di M., peraltro, s’inscrive armonicamente in una generale
visione dei rapporti tra Costituzione formale e Costituzione materiale alquanto articolata e
complessa: per un verso, volta a riconoscere priorità alla prima sulla seconda100
e, però, per un altro
verso, naturalmente portata a prestare costante attenzione ai dati offerti dall’esperienza in sede di
97
… nel suo Unità e autonomia nel pensiero del prof. Temistocle Martines, in Dirittiregionali.org, 3/2016, 16
gennaio 2016. 98
Nel suo ormai classico Studio sull’autonomia politica delle Regioni in Italia, apparso sulla Riv. trim. dir.
pubbl. del ’56, 100 ss., ora in Opere, cit., III, 293 ss., M. circoscriveva espressamente il limite al libero dispiegarsi
dell’indirizzo politico regionale ai soli «principi strutturali dell’ordinamento costituzionale» (spec. 323; c.vo testuale).
Una tesi che, al piano delle fonti, era stata un paio di anni prima (ancora, Questioni e dibattiti sulla legislazione
regionale siciliana, cit., spec. 184 ss. e 195 ss.) vigorosamente patrocinata con specifico riguardo alle leggi della
Regione siciliana espressive di potestà primaria, nel quadro di una ricostruzione volta ad evidenziare le peculiarità di
regime di siffatto tipo di potestà rispetto a quelli corrispondenti delle rimanenti Regioni ad autonomia differenziata: un
regime che tuttavia – come si sa – la giurisprudenza ben presto si farà cura di omologare a quello proprio delle Regioni
in parola. 99
… e, ulteriormente specificando, proprio a quelli dei soggetti più deboli ed esposti sui quali M. ha sempre
fissato il suo sguardo partecipe e solidale, pronto a spendersi in ogni sede, scientifica e non, e ad offrirvi il suo servizio
di studioso raffinato e cittadino socialmente impegnato. 100
Riferendosi, ancora una volta, alla specialissima autonomia siciliana ed interrogandosi su cosa resti
dell’originario impianto statutario, M. conclude la sua lucida analisi rilevando che dovrebbe essere non già adeguata la
Costituzione formale a quella effettivamente vigente bensì la seconda alla prima «almeno nella parte in cui la vigenza
non è più sorretta e legittimata dal consenso reale dei consociati» (Lo statuto siciliano oggi, in Le Regioni, 1983, 895
ss., nonché in La Sicilia e le altre Regioni a statuto speciale davanti ai problemi delle autonomie differenziate, Quad. a
cura del Servizio studi legislativi dell’ARS, 20/1984, 39 ss., e, ora, in Opere, III, cit., 825 ss. e 848, per la citazione
testuale).
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ricostruzione dei lineamenti del quadro costituzionale, pervenendo ad aggiornate riletture degli
enunciati alla luce delle più marcate tendenze rese palesi dall’esperienza stessa.
Il bisogno di tenere fermo il rispetto del testo è intensamente avvertito da M., ponendosi
quale una delle cifre maggiormente espressive del suo orientamento metodico-teorico. Non a caso,
proprio nei suoi ultimi scritti101
, M. si fa premura di ammonire studiosi ed operatori a non
discostarsi dalla Carta repubblicana, le parole in essa scritte dando voce a valori nei quali M. toto
corde si riconosceva102
e per i quali si è fino in fondo battuto, persino quando, ormai minato dal
male, era costretto a sottoporsi a personale, non lieve sacrificio per difenderli e farli valere103
. Un
rispetto del testo che, poi, è visto quale garanzia necessaria, ancorché non sufficiente, per la
salvaguardia della certezza del diritto.
In questo – come si vede – il magistero di M. si riporta alle origini stesse del
costituzionalismo liberale, nella Carta rinvenendosi – secondo la efficacissima formula della
Dichiarazione del 1789 – il fondamento del riconoscimento dei diritti fondamentali e la descrizione
delle linee maestre della organizzazione dello Stato ispirata a separazione dei poteri, la quale ultima
poi – come pure è noto – trova il suo fine e la ragione giustificativa nella garanzia dei diritti stessi.
La separazione al piano dei rapporti tra leggi statali e leggi regionali ha proprio qui, dunque,
la radice storico-positiva da cui trae alimento, la linfa vitale che ne consente l’affermazione e il
rinnovo delle forme espressive in ragione della varietà degli ambiti materiali in cui si esprime e
degli interessi in essi emergenti.
101
Part., in A futura memoria, Appendice all’VIII ed. del Diritto costituzionale, Milano, 1994, 881 ss., ora in
Opere, III, cit., 279 ss., specie nelle notazioni conclusive in cui si contesta decisamente la opinione, largamente diffusa,
secondo cui dovrebbe distinguersi una prima da una seconda Repubblica: un modo di vedere, questo, che M. giudica,
«sotto il profilo giuridico, errato, perché sino a quando non si procederà ad incisive modifiche della Costituzione
vigente o, ancor più, ad approvare una nuova Costituzione, non si può (come l’esperienza francese ampiamente
dimostra) assegnare un numero ordinale al termine Repubblica». Da ultimo, poi, nel suo Intervento introduttivo a Il
metodo nella scienza del diritto costituzionale (Cedam, Padova 1996, 5 ss., spec. 8), Seminario svoltosi a Messina il 23
febbraio 1996 e da Lui, al tempo Presidente dell’AIC, fortemente voluto, M. ancora una volta tiene a ribadire che «la
Costituzione in senso formale, la Costituzione del ’47 tanto per intenderci, costituisce ancora oggi il punto fermo, a mio
parere, dal quale tutti noi dovremmo partire nei nostri studi, perché è la Costituzione che garantisce certi valori…». 102
Come ha efficacemente rammentato G. SILVESTRI, nella sua Introduzione ai lavori a Indirizzo politico e
Costituzione. A quarant’anni dal contributo di Temistocle Martines, a cura di M. Ainis - A. Ruggeri - G. Silvestri - L.
Ventura, Milano, 1998, 21 s., il Maestro, «alieno da ogni tentazione di rozza politicizzazione del dibattito scientifico
sugli istituti del diritto costituzionale, si sentiva tuttavia legato per sempre ed irrevocabilmente all’universo di valori
racchiuso nella Carta costituzionale del 1948». 103
Ricordo a tal proposito la partecipazione attiva alle iniziative dei comitati Dossetti a difesa della
Costituzione, cui non volle mancare fintantoché le forze glielo hanno consentito.
460
M. sa bene che l’autonomia non è mera rivendica di poteri da parte di un ente (e
dell’apparato che lo governa) stanziato sul territorio nei riguardi dell’ente sovrano, lo Stato104
; o,
meglio, è anche questo ma in quanto si traduca e risolva in un adeguato appagamento, il migliore
possibile alle condizioni oggettive di contesto, dei bisogni delle comunità operanti in ambito locale.
A questo fine, tuttavia, occorre tenere ben saldi e preservare fino in fondo – costi quel che costi – i
confini materiali e di competenza entro i quali può fisiologicamente svolgersi l’azione della
Regione (e degli altri enti territoriali minori) orientata a dare un servizio ai bisogni stessi. Non a
caso, dunque, M. si dichiara ripetutamente dell’idea che il c.d. regionalismo cooperativo può
allignare e crescere unicamente a condizione che prima (ed è un prius logico ed assiologico) si
affermi e sia salvaguardato il regionalismo garantista105
.
Autonomia politica, separazione delle competenze tra le fonti, garanzia della certezza del
diritto, specie nella sua massima espressione quale certezza del diritto costituzionale, certezza (e
cioè effettività) dei diritti e, in genere, degli interessi di singoli e gruppi operanti nel territorio:
questi, dunque, i principi-guida, i quattro lati di un ideale quadrato in seno al quale armoniosamente
e in modo perfettamente coerente con se stessa si dispiega e svolge la costruzione martinesiana
dell’ordine costituzionale, di un ordinamento che ha nel pluralismo sociale ed istituzionale (nella
sua più larga e, allo stesso tempo, densa accezione) e nel valore personalista il costante, naturale
punto di riferimento, il fine verso il quale costantemente e senza tentennamenti tendere.
104
È ricorrente nelle analisi di M. il riferimento alla diversa condizione propria, rispettivamente,
dell’autonomia e della sovranità, escludendosi allo stesso tempo – come si è veduto – l’ordinazione gerarchica delle
rispettive manifestazioni, segnatamente di quelle politiche in forma di legge. Ad es., in uno dei suoi studi di maggiore
spessore teorico, la voce Indirizzo politico, scritta per l’Enc. dir., XXI (1971), 134 ss., ora in Opere, cit., I, 403 ss., M.
argomenta che la medesima (per natura giuridica) attività posta in essere da enti diversi, quella d’indirizzo politico,
poggia, sì, su un parimenti diverso fondamento (la sovranità per lo Stato, l’autonomia per la Regione e gli altri enti
territoriali minori) ma tra le attività in parola non si instaura un rapporto gerarchico, dal momento che esse «si svolgono
su piani diversi, ma non sovrapposti» (471). 105
Così, part., in Dal regionalismo garantista al regionalismo cooperativo: un percorso accidentato, in Una
riforma per le autonomie, Milano, 1986, 45 ss., ora in Opere, III, cit., 913 ss., nonché in T. MARTINES - G. SILVESTRI,
Fortuna e declino dei concetti di sovranità e di autonomia, in Economia Istituzioni Territorio, 1/1990, 7 ss., ora in
Opere, I, cit., 583 ss., spec. 599 («Ecco allora che l’anima garantista del regionalismo italiano va riportata in primo
piano come necessaria ed ineliminabile premessa e condizione per la corretta attuazione delle forme del regionalismo
cooperativo. Non si può cioè avere, a nostro parere, una autonomia nello Stato se prima non si afferma e si consolida, in
tutte le sue implicazioni, l’autonomia dallo Stato». C.vi testuali).
461
2. Alcuni svolgimenti teorici del modello (con particolare riguardo ai contenuti degli statuti
ordinari ed alla definizione dei «principi fondamentali» delle leggi di potestà ripartita)
Le soluzioni apprestate per le singole questioni di volta in volta studiate si riportano, tutte, a
questo fascio di principi inscindibile nelle sue parti. Poi, è chiaro che, a seconda dei casi e delle
questioni stesse, l’accento cada maggiormente su questo o quel principio; ciascuno di essi,
nondimeno, porta sempre con sé anche l’immagine degli altri, evoca gli altri, acquistando senso nel
suo rapportarsi ad essi così come concorrendo al loro incessante rinnovamento di senso.
Un paio di esempi soltanto al fine di dare un minimo di concretezza al discorso che si va ora
facendo. E, dunque, si consideri il severo distacco manifestato da M. nei riguardi di quelle che un
tempo si chiamavano le “norme programmatiche” degli statuti di diritto comune, norme – dice M. –
che «avrebbero potuto, almeno in parte, essere omesse negli Statuti senza con ciò togliere nulla ai
contenuti dell’autonomia regionale»106
. Norme che M., anticipando – come si vede – gli sviluppi di
una nota giurisprudenza costituzionale107
, considerava prive di «un effettivo contenuto normativo»,
non dovendosi tuttavia allo stesso tempo essere lasciato nell’ombra – aggiunge M. – «il significato
da attribuire a queste norme sul piano politico, che si concreta nella volontà delle Regioni di
affermare la loro presenza nella comunità statale e di partecipazione attivamente, in una visione
dinamica ed attuale dei problemi della società italiana, al conseguimento dei fini costituzionali»108
.
In questi passi – come può vedersi –, per un verso, torna vistoso l’attaccamento al testo
costituzionale, nella formula dell’originario art. 123 non facendosi parola alcuna dei contenuti
“eventuali” degli statuti, e però, per un altro verso ed allo stesso tempo, prefigurandosi il suo
superamento (ma con effetti rilevanti al mero piano politico) al fine di dare comunque modo
all’autonomia regionale di potersi esprimere con centralità di posto nel sistema istituzionale, sempre
(e solo) in vista dell’ottimale appagamento dei fini-valori enunciati nella Carta (qui,
particolarmente, di quello della partecipazione).
106
Prime osservazioni sugli statuti delle Regioni di diritto comune, in T. MARTINES - I. FASO, Gli statuti
regionali, Milano, 1972, ora in Opere, III, cit., 563 ss., e 567, per il riferimento testuale. 107
Ovvio il riferimento alle note sentt. nn. 372, 378 e 379 del 2004. 108
I richiami testuali sono allo scritto da ultimo cit., 569.
462
E si consideri ancora la critica severa, ostinata, rivolta alla soluzione praticamente invalsa in
ordine alla possibile definizione dei «principi fondamentali» su materie di potestà ripartita, laddove
dovessero fare difetto le leggi-cornice che li esprimano per le singole materie: una definizione data,
a prima battuta, dallo stesso legislatore regionale e, se del caso, in seconda dal Governo quale
organo di controllo delle leggi regionali e quindi, in ultima istanza, dal giudice delle leggi109
. M.
vede in questa confusione dei ruoli appunto una minaccia per la certezza del diritto, con grave
pregiudizio per l’autonomia. Non si pone, tuttavia, la questione se avrebbe potuto darsi una
soluzione migliore di quella poi affermatasi a presidio dell’autonomia stessa a fronte della
perdurante inerzia del legislatore statale né si fa questione di come possa porsi rimedio a leggi-
cornice mal fatte, che possano alimentare dubbi interpretativi (e, perciò, incertezze) non meno gravi
di quelli che si hanno per il caso della loro mancanza.
Da una prospettiva ancora più ampia, M. non si prefigura neppure l’ipotesi che la stretta
aderenza al testo, col ribadito vigore della Costituzione formale che ad essa si accompagna, possa
giovare meno alla causa dell’autonomia rispetto a letture non rigidamente asservite al testo stesso. È
uno scenario, questo, del tutto estraneo all’orizzonte metodico-teorico del Maestro, per la
elementare ragione che quest’ultimo – come si diceva – si identificava toto corde con la Carta del
’48, ritenendo che i guasti del sistema istituzionale (e, tra questi, quelli che avevano portato allo
svilimento dell’autonomia) avessero fuori di questa la causa della loro esistenza.
3. Non già l’innovazione al dettato costituzionale bensì la sua fedele attuazione quale
rimedio allo svilimento dell’autonomia e, perciò, fattore di rimozione delle sue cause (tra le quali,
principalmente, l’organizzazione centralistica dei partiti politici e le resistenze frapposte al
decentramento delle funzioni dalla burocrazia statale), cause – può aggiungersi – per il cui
superamento non si intravvede invero alcun segno nella riforma “Renzi-Boschi”
109
La contrarietà nei riguardi di questa soluzione è ricorrente negli scritti di M. (ad es., in Dal regionalismo
garantista al regionalismo cooperativo, cit., 914, e La parabola delle Regioni, in L’autonomia regionale siciliana tra
regole e storia, Palermo, 1993, 505 ss., ora in Opere, III, cit., 1025).
463
Come si rammentava poc’anzi, prima ancora di chiedersi se e dove innovare al dettato
costituzionale con le forme a ciò stabilite, a giudizio di M. avrebbe piuttosto dovuto darsi fedele
attuazione allo stesso, correggendo dunque le non poche prassi devianti dal solco costituzionale.
D’altro canto, quand’anche si fosse posto mano ad un pur circoscritto rifacimento
dell’articolato costituzionale (per ciò che qui interessa, nella parte specificamente relativa
all’autonomia), ugualmente sarebbero rimaste non rimosse le cause principali di siffatte storture,
che non hanno consentito un apprezzabile decollo dell’istituto regionale, a partire da un centralismo
soffocante nella organizzazione del sistema dei partiti e dalle resistenze frapposte ad un
«decentramento effettivo, e non di facciata, degli apparati burocratico-ministeriali»110
.
L’esperienza si è poi incaricata di dare conferma della impietosa diagnosi martinesiana; e
basti solo por mente alla corposa riscrittura cui il nuovo Titolo V varato nel 2001 è andato soggetto,
per quanto anche siffatte torsioni del figurino costituzionale abbiano avuto cause ulteriori rispetto a
quelle immaginate da M., la ventata di centralismo imperante rinvenendo anche oltre il sistema dei
partiti e il modo di essere e di operare dell’apparato centrale dello Stato la causa della propria
affermazione (segnatamente, nella crisi economica devastante degli ultimi anni e dei vincoli
stringenti provenienti ab extra, in ispecie dall’Unione europea, gravanti sulla Repubblica, in tutte le
sue articolazioni111
).
C’è allora da chiedersi – per ciò che specificamente riguarda l’oggi – se allo stesso destino
possa andare incontro anche la riforma “Renzi-Boschi” per il caso che dovesse uscire indenne dalla
ormai vicina prova referendaria112
. Non so se quello delle modifiche tacite del dettato costituzionale
si ponga quale un esito ineluttabile al quale debbano andare incontro tutte le Carte costituzionali e
le loro successive innovazioni positive o se sia un “privilegio” che riguardi specificamente la nostra
legge fondamentale e le sue “novelle”. Certo è però che l’esperienza trascorsa induce a somma
110
Così, in La parabola delle Regioni, cit., 1043; è, quindi, piana, lapidaria, la conclusione: «Stato decentrato
su base regionale e partiti a struttura centralizzata rappresentano una contraddizione in termini» (1048). Questi pensieri
sono di frequente riscontro negli scritti di M. dedicati all’autonomia: ad es., in A futura memoria, cit., 288, si torna,
ancora una volta, ad insistere sulle «residue e persistenti sacche di centralismo politico-burocratico». 111
Come si è tentato di mostrare altrove, tuttavia, nessun automatismo si dà tra la crisi e l’adempimento degli
obblighi discendenti ab extra, ai quali ancora meglio può farsi fronte proprio col fattivo concorso delle autonomie. 112
Del sistema dei partiti e della loro organizzazione interna la riforma, espressamente, nulla dice, mentre
preziose indicazioni potranno aversi dalla futura disciplina relativa alla elezione dei senatori; dal suo canto, il ritorno di
materie in capo allo Stato, di cui si ha vistosa traccia nella legge di riforma, costituisce una chiara sottolineatura di
quella centralità di posto degli apparati ministeriali contro la quale si scagliava, impietosa e penetrante, l’analisi
martinesiana.
464
cautela prima di avventurarsi in previsioni di questo o quel segno per ciò che riguarda la
implementazione della riforma, una volta che dovesse essere confermata dal voto popolare. Una
considerazione, questa, che non mi parrebbe essere invero stata tenuta nel conto dovuto da parte di
quanti si sono invece, e senza esitazione alcuna, schierati per il sì o per il no alla riforma stessa113
.
Sta di fatto che il trend non esaltante per l’autonomia registratosi sul fronte della estensione
degli ambiti materiali in concreto consentiti alla coltivazione delle leggi regionali e delle fonti in
genere espressive dell’autonomia stessa114
mostra, ancora una volta, la felice intuizione del
magistero martinesiano in ordine agli spazi assai esigui rimessi nell’esperienza alle discipline
regionali e, in special modo, all’opportunità a queste concessa di poter far luogo a soluzioni
normative autenticamente, reciprocamente diversificate.
4. La strutturale apertura del modello costituzionale, che non impone né esclude tanto la
separazione quanto la integrazione delle competenze, e l’opzione per il secondo corno
dell’alternativa che è sollecitata dalla natura composita o “mista” degli interessi di cui le leggi di
Stato e Regione sono chiamate a farsi cura
Da questa prospettiva, l’idea da tempo e da molte parti – come si sa – con insistenza
affacciata (e dallo stesso M. non disprezzata) di recuperare a monte un’autonomia fatalmente
condannata a valle a realizzazioni comunque complessivamente inappaganti, in ispecie attraverso
una profonda ristrutturazione dell’apparato centrale dello Stato (e, segnatamente, della seconda
Camera115
), immettendovi in esso stabilmente i rappresentanti delle Regioni e degli altri enti
territoriali minori, quale ha da ultimo preso forma (a mia opinione, una forma tuttavia sgraziata) con
113
Questa avvertenza è presente nel mio Molti quesiti ed una sola, cruciale questione, ovverosia se la riforma
costituzionale in cantiere faccia crescere ovvero scemare l’autonomia regionale, in Dirittiregionali.org, 2/2016, 10
gennaio 2016, 107 ss. 114
Basti solo, al riguardo, considerare i deludenti risultati ottenuti dalla inversione della tecnica di riparto delle
materie tra Stato e Regioni (specificamente, per ciò che concerne la effettiva portata della potestà “residuale”). 115
… che anche M., al pari di molti, avrebbe voluto espressione degli enti substatali (preferibilmente degli
Esecutivi ma anche, eventualmente, dei Consigli), una seconda Camera i cui membri dovrebbero comunque risultare
legati da mandato imperativo ai loro elettori e, perciò, obbligati a votare in blocco (v., nuovamente, A futura memoria,
cit., 289). Evidente la distanza da questo modello della riforma “Renzi-Boschi” che, a tacer d’altro, rinnega la dichiarata
rappresentanza delle istituzioni territoriali col fatto stesso di sgravare dal vincolo del mandato i rappresentanti dei
Consigli chiamati a far parte del Senato.
465
la riforma “Renzi-Boschi”, potrebbe rivelarsi essere l’ennesima, cocente delusione delle aspettative
facenti capo all’autonomia stessa. E ciò, laddove non si superi una buona volta uno scoglio
preliminare, pesante come un macigno, che non le ha consentito (e potrebbe, dunque, anche in
futuro non consentirle) di affermarsi, così come invece si era generosamente (ma, forse, pure
ingenuamente) prefigurato il Costituente. Uno scoglio che ci riporta all’idea ed all’essenza stessa
dell’autonomia regionale: una pianta priva di solide radici nel corpo sociale, dalla gente avvertita
come una creatura artificiosa, un’autentica “sovrastruttura” non sorretta da una tradizione
plurisecolare, quale quella di cui possono invece farsi vanto i Comuni.
M., con la lucidità e la formidabile intuizione che gli erano proprie, era perfettamente
consapevole di questo vizio di origine dell’istituto regionale116
; ciononostante, credeva, voleva
ugualmente credere, nella possibilità di riscatto e di affermazione dell’autonomia, una volta che
fossero maturate le condizioni di contesto politico-sociale necessarie per il suo radicamento.
Possiamo dire che la mente lo induceva al pessimismo e talora persino allo scoramento, il cuore
invece ad un cauto, sempre vigilato, ottimismo.
La battaglia per l’autonomia – M. ne era fermamente convinto –, ad ogni buon conto,
richiedeva di essere combattuta su tutti i fronti, su quello della partecipazione e del vero e proprio
incardinamento strutturale degli enti territoriali minori (Regioni in testa) nelle sedi dell’apparato
centrale e però, più e prima ancora, come si è veduto, su quello di una netta demarcazione delle
sfere di competenza degli enti stessi, specie nei loro rapporti con lo Stato.
Su quest’ultimo versante, la storia ha largamente smentito la lezione martinesiana.
Sin dal tempo in cui essa veniva delineandosi e via via sempre più affinandosi e
precisandosi, il modello della integrazione si era già proposto come vincente rispetto all’opposto
modello della separazione delle competenze; e questo trend, cui M. non mancava con
preoccupazione di fare sovente richiamo, non ha conosciuto pause o ripensamenti, neppure quando,
dopo la riscrittura del Titolo V avutasi nel 2001, molti autori, rifacendosi all’insegnamento
martinesiano, hanno tentato un recupero, a conti fatti rivelatosi tuttavia impossibile, proprio
dell’originario modello garantista (in ispecie, tornando a patrocinare la tesi secondo cui le nuove
leggi-cornice non avrebbero potuto portarsi oltre la soglia dei «principi fondamentali», dotandosi
116
Lo rilevava, ad es., in La parabola delle Regioni, cit., 1022.
466
altresì, e sia pure a titolo precario, di regole). È vero che la stessa giurisprudenza non è stata scevra
al riguardo di oscillazioni; sta di fatto, tuttavia, che la legislazione statale, una legislazione – si badi
– il più delle volte uscita indenne dai giudizi di costituzionalità, si è connotata all’insegna della
capillarità e pervasività, mostrando comunque di volersi affermare per ogni dove e facendosi,
pertanto, portatrice di una piatta, incolore e, non di rado, inutile (ed anzi dannosa) uniformità117
.
Ora, fermo il giudizio di severa condanna che va manifestato nei riguardi di siffatte pratiche
di normazione, col corredo delle pratiche di giurisdizione che vi hanno dato fin troppo generoso
avallo, il punto è che il modello della integrazione, in quanto tale, non merita, a mia opinione e
diversamente dal giudizio del Maestro, di essere visto comunque come distorsivo del figurino
costituzionale118
; di contro, esso si mostra in grado, laddove linearmente e fisiologicamente svolto,
di raggiungere sintesi complessivamente ancora più appaganti di quelle conseguibili a mezzo
dell’opposto modello della separazione, componendo armonicamente le istanze di unità e quelle di
autonomia119
.
Il vero è che, a rileggere senza alcun preorientamento ideologico o di dottrina, la Carta
costituzionale, sia nella sua originaria stesura che nel testo modificato nel 2001 ed ora anche in
quello risultante dalla riforma “Renzi-Boschi”, dobbiamo convenire che non v’è neppure una parola
117
Inutile e dannosa, specie se si considera che a sostegno di una normazione siffatta, in alcuni casi, neppure è
possibile addurre il bisogno di far luogo all’adempimento di impegni assunti in seno all’Unione europea o alla
Comunità internazionale; e, peraltro, quando pure si tratti di onorare questi ultimi, ugualmente potrebbe (e, secondo
modello, dovrebbe) – come si è dietro accennato – farsi salva la naturale, costituzionalmente protetta, attitudine alla
diversificazione delle discipline, in ordine alla scelta dei mezzi, fermo restando l’obbligo del raggiungimento del fine. 118
Come si viene dicendo, la dottrina che in siffatto modello si riconosce non è, dunque, da considerare tutta
quanta, sempre, «giustificazionista», secondo un pungente rilievo di M. (La parabola delle Regioni, cit., 1935). Altro è,
infatti, il modello in sé e per sé ed altra cosa l’esperienza; e quest’ultima non può che essere giudicata nelle sue singole
espressioni, caso per caso. Si potrebbe, per vero, obiettare che il modello della integrazione in qualche modo incoraggia
o, comunque, non ostacola in modo adeguato le deviazioni della prassi, diversamente dal modello della separazione che
“blinda” l’autonomia e la preserva in partenza da ogni possibile attacco. Il punto è, però, che, per un verso,
dell’integrazione – piaccia o no – non può, ad ogni buon conto, farsi a meno, secondo quanto si preciserà meglio a
momenti, e, per un altro verso, purtroppo non è affatto scontato che il modello della separazione riesca a mettere
l’autonomia al riparo dagli attacchi infertile da un «indomito centralismo», come lo stesso M. (nello scritto sopra cit.,
1032) lo etichettava. Contro la forza irresistibile del fatto, in tutte le sue manifestazioni (sia esso un fatto politico-
normativo come pure un fatto giurisprudenziale), purtroppo non c’è rimedio che valga. 119
In altri luoghi, mi sono sforzato di argomentare la tesi secondo cui non è affatto vero – come invece molti
ritengono – che delle prime istanze possa e debba farsi esclusivamente carico lo Stato, delle seconde le sole Regioni (e
gli altri enti territoriali minori). Proprio perché unità ed autonomia non si pongono, a mio modo di vedere, quali due
valori distinti o, peggio, contrapposti, essendo piuttosto i due profili di un unico, composito valore che è quello della
unità attraverso la promozione – la massima possibile, alle condizioni oggettive di contesto – dell’autonomia, ovverosia
quello dell’autonomia nella cornice della unità, se ne ha che tanto lo Stato quanto la Regione (e gli altri enti) debbono
tutti, pur nella tipicità dei ruoli, addossarsi l’onere della cura dell’una e dell’altra componente del valore in parola.
467
che consenta di affermare in modo risoluto che la Carta stessa prende partito per la separazione
ovvero per la integrazione tra le fonti di Stato e Regione. La Carta, insomma, qui come altrove, ci
consegna un modello aperto, disponibile alla propria storicizzazione complessiva.
L’opzione per il secondo corno dell’alternativa ora esposta viene, dunque, sollecitata da
tendenze vigorose e pressanti dell’esperienza, nondimeno bisognosa – come si è venuti dicendo – di
essere adeguatamente filtrata, scartandosene quegli eccessi inidonei a dar modo al valore di unità-
autonomia di raggiungere la quiete interiore cui costantemente e risolutamente aspira.
Nihil sub soli novi, dunque. Si tratta solo di prendere atto, una volta di più e in relazione ad
un campo di esperienza di cruciale rilievo, che il quadro costituzionale è attraversato da un moto
incessante120
e, perciò, non resta, non può per sua indeclinabile vocazione restare, indifferente ed
impermeabile alle suggestioni dell’esperienza, coi bisogni maggiormente diffusi ed avvertiti che in
essa si manifestano ed ai quali, sia pure con non infrequenti né lievi distorsioni, leggi, atti di
controllo, pronunzie dei giudici e pratiche giuridiche in genere danno voce, alle volte in modo
vigoroso e pressante.
Tutto ciò – è appena il caso di precisare – non equivale, ovviamente, ad una passiva ed
acritica razionalizzazione normativa dell’esistente, di qualunque esistente, dal momento che gli
enunciati costituzionali, pur nella loro consustanziale (ed ora maggiore ora minore) elasticità,
delimitano – come si sa – comunque l’area dei significati astrattamente possibili ed obbligano,
pertanto, ad una severa selezione e vigilata ordinazione dei materiali offerti dall’esperienza,
secondo valore, puntando cioè costantemente e decisamente all’affermazione ottimale dell’unità-
autonomia, nel suo fare tutt’uno, “sistema”, coi valori costituzionali restanti121
.
120
… tant’è che della Costituzione s’è detto essere, più che un atto, un processo, soggetto a mai finito divenire
[così, part., A. SPADARO, Dalla Costituzione come “atto” (puntuale nel tempo) alla Costituzione come “processo”
(storico). Ovvero della continua evoluzione del parametro costituzionale attraverso i giudizi di costituzionalità, in Quad.
cost., 3/1998, 373 ss.; del moto della Costituzione ha, di recente, discorso M. LUCIANI, Dottrina del moto delle Costituzioni
e vicende della Costituzione repubblicana, in Rivista AIC, 1/2013, 1° marzo 2013]. 121
In altri scritti, ho tentato di evidenziare alcune implicazioni che si hanno tra il valore enunciato nell’art. 5
della Carta e quelli di libertà e eguaglianza, la coppia assiologica fondamentale – come a me piace chiamarla – verso la
quale ogni altro valore naturalmente si volge, offrendosi per il suo ottimale appagamento. La Repubblica non può,
dunque, essere (e restare) «una ed indivisibile», laddove quanti in essa operano non godano dei medesimi diritti
inviolabili e non siano gravati dei medesimi doveri inderogabili di solidarietà. E così via, in relazione ai valori
fondamentali restanti.
468
La Costituzione, dunque, non è mai, interamente, muta o “silente”; piuttosto, è – questo sì –
“lacunosa”, strutturalmente lacunosa122
, disponendosi perciò a farsi integrare e rigenerare
semanticamente senza sosta dai materiali (normativi e non) che si dimostrino atti a servire i valori
visti nel loro fare “sistema”, non già – come purtroppo non di rado accade – a servirsene, piegando i
valori stessi a congiunturali bisogni di cui si facciano portatori i potenti di turno.
Nell’integrazione tra le leggi di Stato e Regione, dunque, si specchia (o, meglio, vorrebbe
specchiarsi, malgrado le deviazioni riscontrabili nella pratica giuridica) la natura composita degli
interessi di cui gli enti suddetti sono chiamati – ciascuno per la propria parte ed in tempi e modi
diversi – a farsi carico, molti degli interessi stessi esprimendo una natura ad un tempo locale e
nazionale (e, sempre più spesso, sovranazionale ed internazionale), una natura perciò “mista”, sì da
comporre un fascio unitario, internamente integrato appunto.
Di qui, il bisogno di uno sforzo congiunto, poderoso, che tutti gli enti sono sollecitati a
produrre in vista del loro ottimale (se non pure compiuto) appagamento. Certo, in questo stato di
cose, i rischi maggiori li corre il soggetto storicamente debole, la Regione. Rischi che comunque si
avrebbero, quale che sia il modo teorico di osservare e sistemare le esperienze qui nuovamente
studiate, e che possono essere, almeno in parte, parati mettendo in campo ed oculatamente
manovrando tutti gli strumenti di cui si dispone, senza peraltro escludere l’opportunità e la vera e
propria necessità di correggerli, sì da colmare alcune loro documentate carenze, come pure di
inventarne di nuovi e più adeguati a far valere le istanze di autonomia, componendole
armonicamente con quelle di unità.
Di tutto ciò, ovviamente, non è ora possibile dire, valutando cosa possa farsi già a partire dal
piano sovranazionale (e, segnatamente, in ambito europeo) al fine di un sostanziale recupero
dell’autonomia. Le numerose e vistose testimonianze delle gravi mortificazioni cui essa si è trovata
soggetta, nondimeno, insegnano che nessuna via può (e deve) considerarsi in partenza esclusa e che
tutte, anzi, vanno fino in fondo percorse. Molte innovazioni, ad ogni buon conto, non richiedono un
rifacimento del dettato costituzionale, potendosi avere a mezzo di rinnovate pratiche politico-
122
Delle lacune costituzionali ho di recente discorso nel mio Lacune costituzionali, in Rivista AIC, 2/2016, 18
aprile 2016; un accurato studio sui “silenzi” della Costituzione si deve a Q. CAMERLENGO, Nel silenzio della
Costituzione, in Dir. soc., 2/2014, 267 ss.
469
normative e del ripensamento di taluni indirizzi giurisprudenziali in atto consolidati (come, ad es.,
per ciò che concerne i vizi delle leggi denunciabili davanti alla Corte costituzionale).
5. Una succinta notazione finale: il difetto di una cultura dell’autonomia profondamente
radicata nel tessuto sociale ed ordinamento e la speranza che essa possa finalmente giungere a
maturazione in tempi non troppo lunghi
E il vero è che ciò che ha fatto (e fa) difetto è un’autentica cultura dell’autonomia123
, frutto
di elaborazione congiunta, consuetudinaria, tanto a livello degli organi di apparato (compresi,
ovviamente, i massimi organi di garanzia124
) quanto a livello di comunità governata.
M. – come si è tentato di mostrare – tutto ciò lo ha avvertito e denunziato, con lucida e quasi
profetica preveggenza, rendendo una delle innumeri testimonianze dateci della sua naturale
attitudine a mescolare assieme, in ogni suo gesto o scritto, uno straordinario senso civico, un
parimenti non comune rigore di metodo congiunto a finezza di analisi scientifica: qualità che in Lui
si sorreggevano a vicenda, sì da rendersi a conti fatti indistinguibili. E non possiamo purtroppo non
convenire, a vent’anni dalla sua prematura scomparsa, che il quadro non è, di certo, mutato in
melius, tutt’altro...
Qui siamo, dunque, costretti a fermarci, rinnovando con il Maestro l’auspicio che viene dal
cuore, se non pure dalla mente, che le sorti dell’autonomia possano essere, in un futuro che
vogliamo sperare non troppo lontano, diverse rispetto alla non benevola congiuntura presente.
123
Lo rileva, ancora da ultimo, con opportuni rilievi, A. MORELLI, Unità e autonomia nel pensiero del prof.
Temistocle Martines, cit. 124
Più volte mi è capitato, nel corso del tempo e trattando i temi più varî di diritto regionale, di rilevare che, al
di fuori di casi sporadici, leggi statali lesive dell’autonomia non state fatte oggetto di rinvio da parte del Presidente della
Repubblica; e sarebbe una buona volta di chiedersi quale mai possa esserne la ragione (in argomento, da ultimo,
interessanti spunti di riflessione, nella prospettiva della riforma, offre lo studio di L. TRUCCO, Garanzia dell’autonomia
regionale e potere di rinvio delle leggi statali, in Federalismi.it, Focus riforma costituzionale, 10/2016, 18 maggio
2016).
Rileggendo, sessant’anni dopo, il saggio di Temistocle Martines
sull’autonomia politica delle regioni in Italia
di Gaetano Silvestri
(già Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università di Messina,
Presidente emerito della Corte costituzionale)
(9 giugno 2016)
1. Il contributo di Temistocle Martines alla difficile esplorazione, nel campo del diritto
costituzionale, dei confini tra il politico e il giuridico resta fondamentale, anche a distanza di molti
decenni dalle Sue opere principali in merito (Contributo ad una teoria giuridica delle forze
politiche, 1957; La democrazia pluralista, 1963; Governo parlamentare e ordinamento
democratico, 1967) ed a distanza di vent’anni dalla Sua scomparsa, che ha segnato purtroppo la fine
di un incessante lavoro di ricerca e di riflessione, durato sino agli ultimi mesi di vita.
Pur essendo un attento e acuto osservatore delle trasformazioni della realtà sociale e delle
istituzioni, il Maestro non si è mai discostato dalle grandi direttrici teoriche, che hanno
contrassegnato il Suo pensiero nel corso dei decenni. Molto rappresentativo è il saggio
sull’autonomia delle Regioni in Italia, apparso nel 1956, nel quale troviamo già compiutamente
delineata la Sua concezione della democrazia e della struttura dello Stato. La democrazia
costituzionale delineata nella Carta del 1948 non è la mera riproposizione della democrazia liberale
anteriore al ventennio fascista. Ciò per due ragioni fondamentali: a) l’eguaglianza formale deve
tendere a trasformarsi in eguaglianza sostanziale, b) la volontà del popolo sovrano non è unica e
concentrata, ma si esprime in modo articolato, attraverso canali, costituzionalmente previsti, politici
(i partiti), economici (i sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro), sociali (la famiglia, la scuola,
le libere associazioni) e territoriali (le regioni e gli enti locali). La “democrazia pluralista” – che nel
pensiero di Martines si regge, quanto alla sfera politico-rappresentativa, sul sistema elettorale
proporzionale – deve assimilare sino in fondo l’insegnamento di Tocqueville, riassunto
mirabilmente nella metafora della forza impetuosa della corrente di un fiume (la volontà popolare),
rallentata, mitigata e frazionata da scogli posti sul suo cammino, a tutela dei diritti delle minoranze
e dei singoli individui. Il rifiuto del giacobinismo, che oggi Bruce Ackerman definirebbe “monista”,
mira, come è noto, ad evitare che la tirannia di uno solo o di una oligarchia possa essere sostituita
dalla “tirannia della maggioranza”, paventata dai Framers americani, che hanno ben concretizzato il
loro timore nel complesso sistema di checks and balances della Costituzione di Filadelfia.
È quel sistema che i “pluralisti” come Martines avevano in mente quando costruirono la
loro teoria della Costituzione, che tuttavia differisce dal modello originario americano per la forte
471
impronta sociale del nuovo sistema costituzionale, emergente in modo chiaro dal secondo comma
dell’art. 3 della Costituzione e dalla decisa opzione per la forma di governo parlamentare.
2. Una parte considerevole del pluralismo è costituita, nel pensiero di Martines, dal sistema
delle autonomie, irrobustito dall’inserimento delle regioni, sconosciute all’ordinamento liberale
preesistente.
La norma chiave è l’art. 5 Cost., che, a proposito della Repubblica, coniuga unità e
indivisibilità con autonomia e decentramento. Il dilemma che si poneva negli anni immediatamente
successivi all’entrata in vigore della Costituzione era, ridotto all’essenziale, il seguente: unità nella
uniformità o unità nella diversità?
Entrambe le impostazioni sistematiche ammettono la doppia esigenza dell’unitarietà e
dell’articolazione del potere. Con una rilevante differenza: il potere, sul piano territoriale, può
essere soltanto funzionalmente distribuito tra più enti, anche diversi dallo Stato (concezione che
identifica unità e uniformità), oppure può essere, in primo luogo, fondato sulla differenziazione
politica, senza con ciò frantumarsi e disgregarsi (concezione dell’unità come sintesi delle diversità).
Il primo modello è costruito in vista di obiettivi di snellezza ed efficienza amministrativa,
sul presupposto che il rapporto centro-periferia non debba reggersi su forme rigide di accentramento
burocratico, tipiche del passaggio storico allo Stato-Nazione in alcuni paesi del continente europeo.
Per lungo tempo l’accentramento è stato simbolo di modernità, superamento del particolarismo
medievale, affermazione di strutture istituzionali e princìpi giuridici improntati all’eguaglianza dei
cittadini, prevenzione della resistenza di “vandee” di vario genere al processo rivoluzionario
apportatore di libertà.
Nei lavori della Costituente emerse tuttavia la consapevolezza che il lungo cammino
dell’accentramento “innovatore” era stato percorso sino in fondo e che la centralizzazione politica e
organizzativa dello Stato era stata messa al servizio dei regimi autoritari della prima metà del XX
secolo, i cui artefici avevano introdotto la pericolosa equazione tra uniformità ed efficienza, anche
mediante un progressivo trasferimento di modelli militari nell’ambito dell’amministrazione civile.
472
Stupisce che ancor oggi si ritenga “innovativo” il ritorno a forme di accentramento pre-
costituzionale, mettendo da parte, con pochi tratti di penna, la complessa, ancorché incompiuta,
elaborazione dell’Assemblea costituente e le riflessioni teoriche di giuristi come Martines, che
avevano ben messo in evidenza la stretta connessione, voluta ormai dalla storia, tra autonomia e
democrazia.
3. Martines aveva colto il significato profondo della metafora di Tocqueville, da Lui
tradotta, con precisione scientifica, in termini giuridico-costituzionali. Egli distingueva «da un lato
lo Stato unitario (accentrato), la cui potestà di indirizzo politico non incontra alcun limite, dall’altro
lo Stato ad autonomie regionali e lo Stato federale, i cui poteri di indirizzo politico risultano
quantitativamente limitati»125
.
Qui sta il punto cruciale di tutta la problematica: il potere di indirizzo politico – vale a dire il
potere politico nel suo momento dinamico e concreto in sede istituzionale – deve essere senza
limiti, in nome della rapidità e dell’effettività del comando, o deve trovare limiti in enti che
esprimono i bisogni, le aspettative, le finalità di comunità territoriali tra di loro differenziate? Si
avrà maggiore democrazia calando uno stampo uniforme e uniformizzante su realtà diverse o si
dovrà andare, più realisticamente, incontro ad una uguaglianza aderente alle situazioni concrete
delle persone, dei gruppi sociali e delle comunità territoriali, tenendo conto della loro specificità?
Non sempre le peculiarità personali, di gruppo o di territorio possono apparire positività da
salvaguardare, ben potendosi ritenere le stesse freni all’attuazione di importanti princìpi
costituzionali, ostacoli all’innovazione in quanto residui di vecchie incrostazioni culturali o di
vecchi privilegi sociali. Tale giudizio deve però essere il frutto di una ragionata valutazione di
sintesi, che può mantenere un carattere democratico solo se la comparazione tra esigenze diverse
sarà stata fatta con il metodo del confronto, senza imposizioni unilaterali o verità salvifiche calate
dall’alto. Bisogna guardarsi dall’entusiasmo auto celebrativo dei detentori transeunti del potere, che
potrebbero talvolta avere la tentazione di male interpretare l’esortazione di Rousseau a «costringere
gli uomini ad essere liberi».
125
T. MARTINES, Studio sull’autonomia politica delle regioni in Italia (1956), ora in Opere, Milano 2000, III,
335.
473
Pur essendo un democratico sincero e tenace, Martines tra gli entusiasmi giacobini e la
prudenza di Montesquieu e Tocqueville preferisce la seconda. Tutta la Sua generosa battaglia degli
ultimi anni in difesa della Costituzione pluralista e del sistema elettorale proporzionale è andata in
questa direzione. Il potere non deve concentrarsi, ma deve essere diviso e distribuito, sia in senso
verticale che in senso orizzontale. Gli esperimenti autoritari del XX secolo ci hanno dimostrato che
la trasformazione dello Stato in “macchina” funzionante con guidatore unico ha prodotto immani
disastri materiali e morali, che hanno di gran lunga sopravanzato i presunti benefici di decisioni più
rapide in quanto unilaterali.
4. Il tema centrale della riflessione di Martines sulle istituzioni democratiche è stato “la
rappresentatività dei rappresentanti”, la capacità reale degli eletti di interpretare i bisogni materiali,
le aspirazioni sociali e le spinte ideali dei cittadini. Memore dell’amara considerazione di Rousseau
– che affermava essere i cittadini liberi soltanto il giorno delle elezioni, per tornare schiavi subito
dopo – il Maestro messinese metteva in guardia tuttavia anche dal mito della democrazia diretta. E
notava: «…sia la democrazia rappresentativa sia la democrazia diretta nelle sue forme
contemporanee hanno come presupposto l’“accentramento” del potere nelle mani dei governanti,
mentre il pluralismo democratico tende a decentrare la sovranità ed a renderne meno episodico
l’esercizio da parte della collettività popolare»126
.Sia la tirannia della maggioranza parlamentare, sia
la tirannia (peggiore) dei “capi” ispirati direttamente dal popolo trovano un antidoto efficace nel
“decentramento”, inteso, in senso ampio, come distribuzione del potere a soggetti diversi dallo
Stato persona e dai leader politici, più o meno carismatici. La diffidenza di Martines per ogni uomo
che si presenti alla comunità come dotato di qualità superiori traspare in modo evidente dalla
citazione di un passo della «Repubblica» di Platone, dove Socrate ironicamente dice che, se un tale
uomo si presentasse, «Noi lo onoreremmo come un essere sacro, meraviglioso, incantevole, ma gli
diremmo anche che nel nostro Stato non esiste un uomo come lui ed è bene che non esista, e lo
spediremmo altrove, avendogli sparso di profumi la testa e dopo averlo coronato di sacre bende di
lana»127
. Quando Martines riportava significativamente queste parole di Socrate, era ancora vivo il
ricordo degli uomini di qualità superiori, che avevano portato il mondo alla catastrofe, accentrando
il potere e perseguitando ogni forma di diversità. La ricchezza della democrazia sta invece nella
valorizzazione delle diversità: personali, sociali, culturali, territoriali. La Costituzione, con i suoi
princìpi di libertà e di eguaglianza, garantisce che le differenze (da conservare e tutelare) non siano
causa di discriminazioni (da evitare e da reprimere). Perché tutto ciò sia possibile, e non rimanga
126
T. MARTINES, La democrazia pluralista (1963), ora in Opere, cit., I, 243. 127
Op. ult. cit., 244.
474
nel cielo delle astrazioni morali, è necessario che il sistema dei pubblici poteri sia conformato in
modo tale da non dare agli “uomini di qualità superiori” gli strumenti per conquistare tutto il potere.
Per mantenere operanti gli equilibri voluti dalla Costituzione in funzione antiautoritaria è
necessario che prevalga quella che potremmo definire la “cultura dell’ordinario”, limitando al
massimo i cedimenti all’enfasi, all’esaltazione delle virtù eroiche, al culto della forza. La
democrazia non ama i colori troppo accesi, i discorsi gridati, gli appelli all’emotività collettiva,
contrapposti al “grigiore” del dibattito pacato, dentro e fuori delle assemblee elettive. Prevale
purtroppo nel tempo presente una crescente tendenza alla personalizzazione della rappresentanza,
che, invece di aumentare il tasso di rappresentatività degli eletti finisce per occultare, nella
semplificazione dei temi e dei programmi, la complessità dei problemi. Il risultato sembra essere
una “riduzione della complessità” (per usare la nota espressione di Luhmann) di stampo autoritario,
che si accompagna al periodico risorgere del centralismo statale, strumento essenziale per
omologare gli interessi delle collettività locali in un unico indirizzo politico, frutto peraltro di una
netta preponderanza del Governo sul Parlamento.
La tendenza non è nuova. Circa venticinque anni addietro, Martines individuava la spinta
centripeta di Governo e Parlamento, che, valendosi di svariati mezzi istituzionali, mirava, con
l’avallo della Corte costituzionale, a ridurre le regioni ad enti di mera amministrazione, prive di una
propria potestà di indirizzo politico, cuore – come abbiamo visto – del sistema costituzionale delle
autonomie, quale ricostruito dal Maestro messinese.128
Dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione del 2001, che Martines non
poté vedere, sembrava che si aprisse una nuova stagione del regionalismo italiano. Si deve oggi
concludere tristemente che il tentativo è fallito completamente. La finalità principale della riforma
128
T. MARTINES, Stato pigliatutto (1991), ora in Opere, cit., III, 1007 ss.
475
in realtà non era stata l’attuazione di una più matura e definita autonomia delle regioni, ma la
neutralizzazione delle tendenze disgregatrici dell’unità nazionale provenienti da movimenti
“federalisti” sviluppatisi nel Nord del Paese. Come tutti i calcoli strumentali e di corto respiro, la
maldestra riforma – peraltro molto difettosa anche sul piano tecnico – si arenò ben presto a causa
della degenerazione dei partiti politici e della successiva crisi finanziaria.
La prima causa di fallimento si lega alla trasformazione dei partiti da canali di
comunicazione tra società civile e società politica in macchine di captazione clientelare o
demagogica del consenso, rimasti privi di criteri di orientamento, dopo che, assieme alle vecchie
ideologie, erano stati buttati via anche gli ideali. Solo marginalmente le regioni hanno svolto una
funzione autenticamente pluralistica, preferendosi invece un dissennato sperpero delle risorse
pubbliche da parte di classi politiche locali ormai preoccupate soltanto di mantenersi in piedi in una
concorrenza solo apparente di programmi, ma in realtà volta alla conquista del potere nudo e crudo
e dei suoi vantaggi.
La crisi finanziaria ha accentuato la tendenza centralista, che ha ben presto travolto le fragili
strutture del nuovo Titolo V, assecondata da una giurisprudenza costituzionale talvolta troppo
“realista”, anche se non dobbiamo dimenticare che le pronunce della Corte in favore delle regioni
non sono mancate, pur accolte da attacchi furibondi e torve minacce da parte dei sacerdoti della
spending review. È interessante notare che i “tagli” di spesa e le intromissioni, spesso pesanti, dello
Stato nell’autonomia finanziaria regionale, hanno colpito indiscriminatamente settori parassitari
degli apparati regionali e risorse indispensabili per assicurare, anche da parte dei comuni, servizi
pubblici, specie di natura sociale, ai cittadini.
Quale indirizzo politico “autonomo” potranno elaborare ed attuare le regioni in questa
situazione? Si assisterà in misura crescente al vorticoso mulino di parole e di promesse, fatte da chi
sa bene di non poterle mantenere, sia per vincoli nazionali che europei.
Non mi dedico all’esercizio ozioso di immaginare cosa direbbe oggi Martines in questa
situazione. Mi limito a notare che la Costituzione, da Lui amata e difesa con tutte le forze, da
programma del futuro quale era dopo il 1948, mantiene ancora oggi una forte carica di utopia
positiva. Forse per questo continua a dare fastidio, come negli anni ’50, quando un importante
uomo politico di governo la definì una “trappola”. E questo deve essere una Costituzione liberale e
476
democratica: una trappola per predatori del potere. Ciò non significa che sia immutabile, ma
impone di mantenere integri i princìpi fondamentali, che non sono confinati nella Parte prima, ma
trovano nella Parte seconda gli strumenti istituzionali atti a renderli effettivi.
Un solo esempio. Non vi sarà mai autentica autonomia regionale se, a livello di Stato
centrale, non esisterà un’istanza democratica di contrappeso territoriale all’indirizzo politico
nazionale. Il superamento, da molti auspicato, dell’attuale sistema di bicameralismo perfetto,
dovrebbe tendere ad inserire nel cuore delle deliberazioni legislative la voce degli indirizzi politici
regionali, che sono espressi dagli esecutivi in carica, specie dopo l’introduzione generalizzata
dell’elezione diretta dei presidenti. Una seconda camera che rispecchiasse invece i rapporti di forza
esistenti nei sistemi politici locali, che tendono a rispecchiare quelli nazionali, non avrebbe questa
funzione di contrappeso e finirebbe per essere un’inutile, debole replica della prima. Il sistema
continuerebbe a tendere verso il centralismo e l’autonomia regionale sarebbe di nuovo affidata alle
“cure” della Corte costituzionale, che necessariamente interviene ex post, con strumenti inadeguati
a modificare e modulare gli indirizzi politici nazionale e locali. Il processo politico continuerebbe a
rifluire in quello giurisdizionale, con tutte le rigidità e l’episodicità che ciò comporta.
Esattamente il contrario di ciò che Martines teorizzava. Poiché tuttavia la speranza non deve
mai abbandonare chi crede davvero nei valori della democrazia, si deve andare con il pensiero al
periodo del “gelo” costituzionale, nel quale il sistema regionale restò in gran parte sulla carta, per
trovare poi nuovamente linfa e respiro negli anni ’70. La riflessione scientifica di Martines sulle
regioni si sviluppava proprio in quella stagione di “gelo”, concreta testimonianza della fiducia del
Maestro nella forza storica degli ideali. Anche noi dobbiamo mantenere salda questa fiducia.
Un bicchiere pieno a metà.
La revisione costituzionale italiana del 2016 tra premesse di metodo,
prefigurazioni di possibili scenarî e valutazione complessiva del testo
di Salvatore Prisco
(Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico, Università di Napoli “Federico II”)
(18 giugno 2016)
Il modo più perfido di nuocere a una causa
è difenderla intenzionalmente con cattive ragioni
Friedrich Nietzsche
Un’occasione mancata si ripresenta,
mentre non si può mai tornare indietro da un passo precipitoso
Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos
SOMMARIO: 1. Premessa: in vista del traguardo, ovvero l’insidia dell’ultimo chilometro. – 2. Il contesto attuale:
qualche interrogativo sulla fase odierna e una prospettazione di scenarî possibili dopo il referendum costituzionale. – 3.
Il contesto remoto: da dove eravamo partiti e come siamo arrivati a questo punto. – 4. Il testo: una rapida analisi critica.
– 5. Per una conclusione in realtà inconcludente: il riformismo costituzionale italiano come tentativo di recuperare il
primato del “politico” e i limiti di una visione unilaterale.
1. Premessa: in vista del traguardo, ovvero l’insidia dell’ultimo chilometro
La barca dalla navigazione perigliosa che ha caratterizzato il processo di riforma
costituzionale aperto da fin troppi anni in Italia sembra avere quasi toccato il porto di un esito
parziale, ma che riguarda aspetti essenziali dei “rami alti” delle istituzioni con un’indubbia
organicità e coerenza di ispirazione ideale. Ora forse ci siamo, giacché bisogna attendere ancora che
il corpo elettorale dica l’ultima parola. In cauda venenum (i precedenti che consigliano cautela,
come si vedrà, non mancano), o si è davvero detta la parola fine, almeno quanto ad un testo che in
ogni caso – anche se superasse cioè il vaglio popolare decisivo – dovrà comunque essere integrato
normativamente sotto profili importanti e soprattutto vivere nell’effettività? La vita di una
Costituzione non solo non si interrompe infatti con l’approvazione di un articolato, ma anzi da
questo momento incominciano la verifica della sua bontà o meno e quindi il suo inveramento.
All’esame rapido e, ci si augura, pacato del merito del tema – sicché non verranno taciute
adesioni o perplessità sulla fattura tecnica di singoli profili dell’opera di riscrittura e sul suo
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complesso – si premettono alcune, altrettanto sintetiche, osservazioni di metodo e anche
prefigurazioni di scenarî, anche se (com’è ovvio) i diversi profili si implicano vicendevolmente.
2. Il contesto attuale: qualche interrogativo sulla fase odierna e una prospettazione di
scenarî possibili dopo il referendum costituzionale
Innanzitutto, come appunto si diceva, la scrittura o riscrittura di un testo costituzionale, in
tutto o in parte, ha certo sempre un grande rilievo, ma non è mai una costituzione in quanto tale, nel
suo divenire nella concretezza dell’esperienza, che richiede evidentemente lo scorrere lento del
tempo e la prova delle circostanze storiche a saggiarne consistenza e valore.
Questo deve anzi dirsi invero e più in generale di ogni sistema giuridico, che non esaurisce
nell’assetto formalizzato di una trama di disposizioni formali un ordinamento nella sua complessità,
posto che le sue regole testuali (ovviamente necessarie, ma insomma da sole insufficienti ad
identificarlo) stanno in ogni caso alla sua esistenza operante come l’astratto sta al concreto, la
potenza all’atto.
Ne consegue che il giudizio da rendere su un articolato diventa un mero – seppur importante
– esercizio di prognosi: indispensabile, ma in sé non decisivo per capire come andranno realmente
le cose.
Nessun analista è un indovino, le variabili di necessaria integrazione normativa e soprattutto
quelle “viventi” che interverranno lungo il processo storico di consolidamento delle innovazioni
sono inconoscibili a priori e sarebbero comunque non dominabili ex ante, per cui la prudenza è
d’obbligo.
Anche se gli Italiani approvassero il testo della riforma nel referendum costituzionale in cui
saranno chiamati a pronunciarsi, pertanto, il completamento di quanto intrapreso sarebbe in ogni
caso indispensabile, lungo e faticoso.
I toni accesi delle discussioni tra chi denigra e chi difende la lettera e la portata delle
innovazioni, appunto in vista della ricordata scadenza, guardano invece al breve periodo, trascurano
la possibilità di correzioni successive dopo una verifica dell’impatto e sono in taluni simili allo
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sfogo passionale dei tifosi delle squadre contrapposte di un sentito derby calcistico. Lo studioso
(anche se lui stesso è in primo luogo un cittadino animato da patriottismo costituzionale) dovrebbe
al contrario sforzarsi di mantenere in ogni circostanza il controllo della propria passione civile ed
accingersi per quanto possibile ad analisi, nonché tentare previsioni di scenarî e di rendimenti –
attesi o deprecati – con animo riflessivo e sguardo al tempo stesso attento alla storia passata e
proiettato al futuro. Ne va infatti della sua specifica figura e del suo ethos professionale.
In secondo luogo, tanto il governo precedente – in verità senza fortuna – quanto quello
attuale hanno legato la sopravvivenza delle rispettive compagini al buon esito del processo
riformatore delle istituzioni ed in particolare, ma non soltanto, di disposizioni della Carta
costituzionale.
Anche il Capo dello Stato insolitamente rieletto alla carica si era del resto dichiarato, come è
noto, disponibile a questa soluzione (da lui inizialmente esclusa) unicamente ove tale risultato fosse
stato conseguito, agitando – se avesse intravisto difficoltà al riguardo – l’arma delle dimissioni
anticipate, rassegnate infatti dopo il primo biennio del nuovo mandato, ma quando l’approdo
prefigurato era in vista.
Con riferimento al referendum costituzionale successivo all’approvazione parlamentare
della legge costituzionale riformatrice, in particolare, il Presidente del Consiglio in carica ha
ribadito l’intenzione di condizionare il proprio stesso futuro politico al consenso popolare prestato
all’ intervenuta revisione e questa impegnativa dichiarazione, com’è ovvio, ha schierato sul fronte
avversario non solo i critici radicali o i tiepidi (rispetto al merito) del nuovo impianto, ma proprio
quanti sono lontani da lui e dai suoi seguaci quali esponenti politici.
La sovrapposizione tra giudizio sul risultato di revisione e obiettivi di lotta politica infonde
disagio in chi intenda limitarsi ad una valutazione di ordine tecnico, ma è comunque il caso di
mettere anche questo aspetto in chiaro, benché dovrebbe essere ovvio: proprio perché una profonda
riforma costituzionale è destinata a provocare effetti nel tempo, ben oltre la durata media di un
Esecutivo, per quanto stabile esso possa essere, consensi o riserve che in proposito si
manifestassero non dovrebbero interferire con le opzioni politiche personali di uno studioso in
ordine a uno specifico indirizzo di governo.
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Insistere sul collegamento stretto tra i due aspetti, per quanto sia realistico (area della
Costituzione e area del governo sono due insiemi dei quali il primo contiene il secondo, né chi la
studia non da straniero vive d’altronde su Marte), non è allora un atteggiamento privo di criticità,
atteso che la materia della revisione costituzionale è appunto tipicamente parlamentare e dovrebbe
pertanto essere tenuta al riparo da vicende appiattite sul presente e di breve respiro.
L’esempio virtuoso che conferma l’opportunità di mantenere separati i due piani si ritrova
del resto nella nostra stessa esperienza storica, vale a dire in quanto lodevolmente accadde appunto
sul finire dei lavori dell’Assemblea Costituente eletta nel 1946, giacché essi continuarono,
salvaguardando l’intento iniziale, anche dopo la rottura del patto di governo di coalizione tra i
maggiori partiti.
Quanto alla situazione attuale, è invece addirittura possibile formulare una previsione la cui
fondatezza o meno potrà essere apprezzata o smentita solo ex post. Si potrebbe cioè immaginare che
il Presidente del Consiglio – che è oggi al tempo stesso segretario del maggiore partito di Governo
– tragga dall’azione dei “Comitati per il sì” referendario alla riforma motivo per costruire una nuova
e diversa constituency del partito medesimo. Egli si servirebbe cioè dell’occasione per legittimare la
nascita di una nuova formazione, che si rivolga, come alla propria base di riferimento, agli elettori
che si saranno espressi nel merito in senso favorevole e perciò, sul piano del personale politico,
anche a quanti sono stati finora collegati al Partito Democratico in una coalizione di governo o nella
quotidiana pratica del voto parlamentare di sostegno, non essendo però organicamente parte di esso.
Correlativamente, le posizioni contrarie nei punti essenziali alla riforma (manifestatesi fin qui anche
all’interno di tale Partito, ma da parte di esponenti rimasti sua espressione, sia pure in una
collocazione minoritaria) si dislocherebbero fuori dal perimetro di questa ipotizzata, nuova
formazione e troverebbero un diverso bacino di organizzazione e altri collegamenti ed alleanze. In
altri termini, è ragionevole prevedere che dall’approvazione del referendum costituzionale il
sistema partitico esca trasformato.
Una vittoria – all’opposto – delle forze e delle posizioni che sono state alla riforma in esame
non potrebbe tuttavia far dimenticare i problemi reali che hanno portato ad essa e le onererebbe
quindi dell’incombenza di avanzare una proposta in positivo al riguardo. Il contenuto di essa appare
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peraltro oggi di difficile previsione, giacché le ragioni di chi contrasta la riforma non sono
allo stato sorrette da motivazioni convergenti.
È possibile immaginare comunque che tale ipotetica situazione restituirebbe responsabilità
di mediazione e impulso innanzitutto ai Presidenti delle Assemblee e al Presidente della
Repubblica, fin qui attentissimo ad un’interpretazione di basso profilo e almeno in pubblico
“notarile” del suo ruolo, confermando l’elasticità di tale figura nel modello costituzionale originario
e nella prassi.
Il terzo punto da toccare brevemente, in via preliminare all’esame di merito, attiene alla
natura stessa del referendum costituzionale indetto, ex art. 138 dopo l’ultimo e decisivo voto
parlamentare, giacché l’approvazione del testo non è avvenuta coi 2/3 dei suffragi favorevoli dei
componenti delle Assemblee rappresentative, essendo intervenuta nel frattempo la rottura del
cosiddetto “Patto del Nazareno” tra maggioranza e parte (cioè quella di centro destra e nemmeno
tutta) dell’opposizione.
Il procedimento è stato attivato in questo caso in primo luogo (anche se poi non solo) da
parlamentari di maggioranza, dei quali si sono raccolte le firme immediatamente dopo
l’approvazione del testo ed è inoltre unico, pur se riferito ad oggetti disomogenei.
Questa è una difficoltà che incide scuramente sulla libertà dell’elettore (come già si rilevò in
passato, allorché si pensava che la Commissione D’Alema avrebbe concluso i suoi lavori
licenziando un testo unico ad oggetti plurimi, sul quale sarebbe stato chiesto l’assenso o il rifiuto
all’elettore). È tuttavia pur vero che l’effettuazione di una consultazione per parti separate – com’è
stato riproposto, per salvaguardare l’esigenza di una “omogeneità” del quesito che la Corte
costituzionale aveva essa individuato nella propria giurisprudenza “creativa” sull’ammissibilità del
referendum abrogativo – recherebbe problemi sul piano della coerenza sistematica dell’articolato,
ove una parte di esso fosse approvata ed un’altra respinta. C’è anche un dato letterale che smentisce
facili parallelismi; il referendum di cui all’art. 75 si può richiedere anche per l’abrogazione parziale
di un atto legislativo, ma l’aggettivo non è ripetuto per quello ex art. 138, la cui funzione è infatti
diversa: la partecipazione all’esercizio del potere di revisione o addirittura, come in questo caso,
quasi il baluginio del potere costituente, rivolto come ovvio a legittimare o delegittimare un testo in
blocco.
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Si conferma comunque nella vicenda il carattere polifunzionale dello strumento referendario
in se stesso, il che non deve scandalizzare: anche la fiducia può essere verificata a richiesta delle
opposizioni in Assemblea, ma altresì costituire oggetto di una “questione” ad iniziativa del Governo
e la ratio dei due usi non è la medesima.
Aperta una strada, essa può cioè venire percorsa nei due sensi di marcia, benché sia
indubbio che il referendum di cui all’art. 138 sia disegnato come “oppositorio”: ne è prova il fatto
che, se sulla legge costituzionale pubblicata in Gazzetta Ufficiale nessuno dei soggetti ed organi
legittimati chiede una verifica popolare nei tre mesi successivi, essa è promulgata dal Presidente
della Repubblica e ripubblicata, per entrare finalmente in vigore.
In linea di principio, insomma, devono attivarsi i contrarî alla riforma e restare molto vigili,
anche perché, nel caso, il referendum non prevede un quorum di validità per avere effetto.
Se peraltro un’iniziativa in senso diverso non è normativamente esclusa, nemmeno si può
nascondere, tuttavia, che la circostanza che l’attuale Presidente del Consiglio abbia fatto della
conferma popolare del testo una risorsa immediatamente e in via contingente politica imprime ora
una torsione in senso plebiscitario alla pratica dell’istituto.
3. Il contesto remoto: da dove eravamo partiti e come siamo arrivati a questo punto
Prima di un’analisi del testo, è opportuno però rammentare in termini quantomeno
generalissimi come si sia giunti alla situazione odierna.
Chi scrive è solito usare un paio di immagini metaforiche per spiegare ai giovani studenti
appena incontrati ai propri corsi il senso storico della Carta costituzionale italiana del 1948.
Innanzitutto, dice loro che essa potrebbe sembrare ad uno sguardo distratto e per molti versi
come una sopraelevazione e ristrutturazione di una vecchia villa di cui già esisteva il piano terreno,
ma si aggiunge subito che così non è perché: (a) una Costituzione rigida non è il flessibile Statuto
albertino; (b) non si trattò di ricostruire in Italia la democrazia dopo la parentesi autoritaria, giacché
la democrazia liberale era ristretta e censitaria; (c) la legittimazione del testo espressa da
un’Assemblea Costituente e l’orientamento ai valori della persona era un’assoluta novità di
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principio, che avrebbe dato ben altri frutti di quelli asfittici e precari dei diritti “liberali” in regime
di costituzione corta e ottriata, anche grazie alle decisive introduzioni della giustizia costituzionale e
del controllo di merito della legge ordinaria dal basso, in forma di sua possibile abrogazione totale o
parziale.
In secondo luogo, fa notare a chi è (felice lui o lei) da poco maggiorenne e in genere non
coltiva certo lo studio della storia, preferendo ad esso le dolci seduzioni della giovinezza, che la
Costituente scelse di costruire un’automobile con un acceleratore debole e freni forti.
Questo assetto era quanto richiedevano quei tempi di uscita da un regime autoritario, di
diffidenza reciproca fra i partiti politici e di sforzo di ricerca di una sostanziale unità nazionale,
dopo le vicende drammatiche e le distruzioni di una guerra allo straniero, ma anche civile e che
quindi aveva assistito a lacerazioni in seno al popolo e talora a singole famiglie.
In concreto, si trattò allora di disegnare una forma di governo che collocasse il Parlamento
in posizione dominante tra gli organi costituzionali (ma lo spirito di diffidenza si tradusse anche
nella sua divisione in due Camere di pari competenze, che riprendeva un dato tradizionale della
storia del Paese ed anche su questo si dirà meglio oltre), un Esecutivo docile agli impulsi del primo,
cui era collegato da vincolo fiduciario e a composizione tendenziale di coalizione, un figura del
Capo dello Stato dal modello aperto allo sviluppo di virtualità molteplici, a seconda del manifestarsi
contingente delle condizioni di fatto, moderatrice in tempi normali, ma destinata ad espandere il suo
ruolo nei momenti di crisi.
Un intervento “forte” di premessa al possibile ridisegno della forma di governo (e più
verosimilmente alla stessa modifica della Costituzione) aveva in realtà riguardato già nel 1953 la
legge elettorale, in senso maggioritario.
Fallito questo e salvo un eguagliamento della durata del Senato a quella della Camera nel
1963, che eliminò l’unico elemento che significativamente differenziava ancora le due Assemblee,
la questione centrale appariva piuttosto ai più quella di superare l’“ostruzionismo di maggioranza”,
elusivo dell’attuazione costituzionale.
Questo stato di cose, per elencare qualche esempio, portò solo nel 1956 alla prima udienza
della Corte Costituzionale, nel 1958 alla riorganizzazione secundum Constitutionem del Consiglio
Superiore della Magistratura e da lì ad adempimenti successivi, come quelli che riguardarono nel
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1970 l’inizio del processo di istituzione delle Regioni ordinarie, nel 1975 l’introduzione del
referendum abrogativo, nel 1990 la legge di disciplina del diritto di sciopero (ma nei soli servizi
essenziali).
A distanza di trent’anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale furono tuttavia
proprio uomini delle istituzioni a riprendere alcune sollecitazioni, all’epoca minoritarie fra gli
studiosi.
Si pensi ad esempio al messaggio del Presidente della Repubblica Leone alle Camere nel
1975, accolto da un gelido silenzio (anni dopo, un messaggio analogo del Presidente Cossiga del
giugno 1991 vide almeno un dibattito in Aula, senza voto finale); al rapporto Giannini del 1979 “sui
principali problemi della Amministrazione dello Stato”, che non ebbe migliore sorte; al “decalogo
Spadolini”, che nell’agosto 1982 accompagnò il programma politico del suo secondo Governo:
parole autorevoli e variamente orientate da parte di personaggi con responsabilità istituzionali
diverse, che – se ascoltate in tempo – avrebbero comunque sicuramente evitato l’incancrenirsi dei
problemi e che sarebbe comunque il momento di rimeditare, nella prospettiva della ricostruzione
storica di alcuni precedenti lontani, ma rilevanti, delle discussioni odierne.
Le proposte innovative si intensificarono nel tempo, a partire da questi primi e lontani
caveat, sempre in costante dialogo col dibattito pubblico e con le sollecitazioni della dottrina
giuridica.
Il lungo viaggio ha, com’è noto, annoverato dopo le occasioni appena ricordate fasi di studio
(i comitati di studio Riz, alla Camera e Bonifacio, al Senato, nel 1982-1983; la prima Commissione
bicamerale, Bozzi, 1983-1985); ha visto al lavoro due infruttuose ulteriori Commissioni bicamerali
(De Mita-Iotti, 1992-1994; D’Alema, 1997-1998, entrambe autorizzate da leggi costituzionali
derogatorie dell’art. 138 ad interventi organici ad ampio spettro, da attuarsi attraverso
semplificazioni procedimentali); ha conosciuto tra la seconda e la terza l’attività di un ulteriore
comitato incaricato di proposte (Speroni, 1994), sulle cui conclusioni si dovrà ritornare.
Non sono mancate illusioni di arrivo, come la riforma del titolo V della Costituzione, voluta
nel 2001 dall’allora maggioranza parlamentare di centrosinistra e confermata dall’elettorato (molto
“incisa” e “riletta” in seguito dalla giurisprudenza costituzionale, nonché rivisitata profondamente
anche nell’intervento normativo oggetto di queste pagine, come si è già osservato) o quella più
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ampia dell’intera parte seconda del testo del 1948, questa volta ad opera della susseguita
maggioranza di centrodestra, approvata dalle Camere nel 2005 con meno dei 2/3 dei voti dei
rispettivi componenti, ma respinta l’anno dopo nel relativo referendum costituzionale.
L’esito negativo di questo passaggio ispirò ancora nuove “bozze” di lavoro (quella intestata
a Violante, Camera, 2007; l’altra a Vizzini, Senato, 2012, cioè il cosiddetto “ABC costituzionale”,
dalle iniziali dei cognomi dei tre segretari di partito – Alfano, Bersani, Casini – che sorreggevano
all’epoca il governo tecnico di emergenza Monti).
Si era frattanto già con legge costituzionale 2/1999 riusciti ad approvare, al di fuori dell’area
della forma di Stato e di governo, la disposizione che integrava l’art. 111 sul “giusto processo”.
Essa sarebbe in grado di coinvolgere (se sviluppata in modo coerente e con coraggio,
secondo un dinamica certo avviata, ma che ancora oggi deve tuttavia produrre tutti i suoi frutti in
termini di riequilibrio ordinamentale tra corpo e funzioni rispettive degli operatori di giustizia e
corpi e attività della politica) un ripensamento profondo tanto dei codici processuali, quanto
dell’ordinamento giudiziario: un altro grande scoglio che ha impedito di toccare sul piano dei
principî costituzionali il formidabile tema, sul quale in sostanza ed in particolare “affondò” la
Commissione D’Alema.
Della riforma che ha interessato invece nel 2012 l’art. 81 e altri collegati, a fini di equilibrio
finanziario, si dirà invece oltre, laddove brevemente si accennerà al rapporto tra riforme
costituzionali e crisi economica.
Infine – e con questo siamo giunti all’altro ieri – nell’ultimo segmento di questo percorso si
sono manifestate circostanze eccezionali, come l’impegno esplicito di un Presidente della
Repubblica dichiaratosi (come si ricordava prima) disposto ad un’insolita rielezione alla sola e
ultimativa condizione del completamento del percorso riformatore, o le commissioni di esperti
formatesi negli ultimi giorni del primo mandato di sua stessa iniziativa e, dopo l’inizio del secondo,
ad opera di un governo in sostanza “di scopo”, né hanno tardato ad affiorare anche in tale tratto
scogli evidenti o a presentarsi insidie dissimulate, nel lungo dibattito e attraverso le molte letture
parlamentari della riforma costituzionale.
Per tornare all’immagine metaforica dell’automobile, come accade nelle decisioni al
riguardo nelle nostre famiglie ha continuato ogni volta a farsi sentire la voce di chi riteneva
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possibile limitarsi a una rigorosa manutenzione dell’auto, ma – come si è visto – sono via via
divenute progressivamente più forti quelle di chi stimava necessario proprio il cambiarla.
Anche avendo maturato quest’ultima opzione, però, si apriva un problema ulteriore: sarebbe
bastato aggiornare il vecchio modello ricorrendo ad una sua versione ammodernata, insomma in
chiave di continuità, o appariva necessario passare ad uno del tutto nuovo, guardando allo scopo
anche a che cosa facevano gli altri in casi analoghi?
Da un’automobile con freni forti e acceleratore debole ci si orientava comunque a passare ad
una diversa, più potente e veloce, in cui in particolare l’autista avesse più forti responsabilità di
guida.
L’esigenza pressoché da tutti condivisa di differenziare il bicameralismo paritario, di
rafforzare il governo, di ridisegnare le autonomie territoriali (i punti, insomma, che ancora oggi
sono stati all’ordine del giorno) aveva visto confrontarsi proposte assai diverse e che erano finite
nel nulla.
Così, la forma di governo ha costituito il terreno del palesarsi di posizioni diverse. Escluso,
salvo che in una certa propaganda di destra e nelle suggestioni di isolati studiosi, il modello
presidenziale, palesemente non importabile, alcuni hanno guardato in sostanza ad una possibile
traduzione nel nostro Paese di suggestioni di cancellierato alla tedesca, altri ad una formalizzazione
ispirata al premierato britannico. Altri ancora (fin dalla soluzione suggerita con un articolo sulla
“Grande Riforma” delle istituzioni pubblicato a firma del segretario socialista Craxi sull’Avanti! del
18 settembre 1979 e poi approfondita nel dibattito sul tema, ospitato sulle pagine della rivista
teorica del partito Mondo Operaio, prevalsa un po’ fortunosamente nella Commissione D’Alema,
infine vissuta di fatto negli eventi inusitati della più recente stagione e nella interpretazione del
ruolo presidenziale da parte di Napolitano) hanno ritenuto possibile anche per il nostro Paese una
variante semipresidenzialista, “sdoganata” nel tempo anche a sinistra, dopo le chiusure che
l’esperienza gaullista aveva registrato al suo apparire presso intellettuali, giuristi e politici di questa
parte.
Via via tutto si complicava e si faceva comunque tanto più urgente, perché era intanto
cambiato il piano del viaggio, ormai da distendere lungo un paesaggio che superava i confini
nazionali, erano mutati i viaggiatori (emergeva, fra episodi di corruzione e protagonismo
dell’ordine
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giudiziario, la crisi dei partiti di massa tradizionali e ne nascevano di nuovi, in quella che
giornalisticamente veniva definita “Seconda Repubblica”) e la globalizzazione economica
imponeva addirittura un mutamento delle categorie analitiche e dei paradigmi coi quali procedere
ad una nuova “narrazione” dei poteri pubblici, nazionali e ultranazionali, visibili in campo o più
“discreti”.
Si passava dalla rivendicazione (in sostanza ancora metabolizzabile dal sistema politico-
istituzionale con relativa facilità, pur se non senza discussioni) di un più efficiente governo alla
ricerca di strumenti anche inediti di governance della società complessa.
La stessa sovranità politica era sfidata da questo orizzonte e progressivamente si
dematerializzava e dislocava, per la comparsa delle prospettive aperte dalla “democrazia
elettronica” e “deliberativa”, articolandosi inoltre sul versante interno verso prospettive di
regionalismo forte e all’esterno con l’intensificarsi della integrazione europea – nel frattempo era
cambiato dopo il 1989, con la fine del “socialismo reale”, l’assetto geopolitico – che implicava una
nuova dialettica, non sempre facile, con Paesi entrati in sempre maggior numero nell’Unione e con
la sua tecnocrazia.
Qui appunto torna utile richiamare la riforma degli artt. 81, 97, 117 e 119, che non solo ha
introdotto il vincolo del pareggio di bilancio (già invero prefigurato nel primo, ma dal quale per
interpretazioni normative e prassi lassiste ci si era progressivamente allontanati), ma anche quello
della sostenibilità del debito delle amministrazioni del complessivo settore pubblico, proprio per
uniformarsi agli impegni assunti in sede europea e per fronteggiare la situazione comunque critica
dei nostri conti pubblici, che ha in pratica quasi completamente azzerato la filosofia e la prassi di
ispirazione keynesiana delle nostre politiche economiche del passato.
4. Il testo: una rapida analisi critica
Esaurite le necessarie premesse, prima della descrizione dello scenario attuale e
dell’immediato futuro immaginabile secondo previsioni ragionevoli e poi di veloce richiamo di
elementi di sfondo, utile a rammentare la dinamica storico-istituzionale che ci ha condotti all’oggi,
è
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possibile compiere un’analisi – rapida, ma consapevole delle esperienze e delle prospettive fin qui
esplorate – del testo della legge di riforma.
Può osservarsi, in continuità con quanto si è fin qui venuto dicendo, che alcuni punti di
innovazione oggetto dell’intervento attuale costituiscono sicuramente pagine lasciate aperte, o
chiuse in modo poco soddisfacente e pertanto controverse nelle soluzioni in quella sede approvate,
fin dai tempi dell’Assemblea Costituente, mentre altri sono il riflesso del mutamento di contesto
politico ed economico. Si segua per sincerarsene la (oggettivamente disomogenea) rubrica della
legge costituzionale.
Le relazioni tra Governo, Parlamento e categorie professionali hanno sicuramente preso nel
tempo strade diverse da quelle immaginate alla Costituente da Meuccio Ruini, che del Consiglio
Nazionale dell’Economia e del Lavoro fu strenuo sostenitore e primo presidente. Questo non toglie
peraltro che Governo, Camera dei deputati e nuovo Senato avranno comunque bisogno (salvo
dotarsene in proprio) di un ufficio “terzo” che si faccia carico delle funzioni che la legge ordinaria
ha nel tempo ad esso attribuite e che permetta la valutazione quali-quantitativa delle politiche
pubbliche (questa è appunto una delle attribuzioni della Camera alta trasformata). L’organo perderà
cioè rilevanza costituzionale, ma dovrà in ogni caso essere sostituito da strutture e azioni in tale
direzione.
Il Senato (introdotto nella nostra storia costituzionale di lungo periodo dal Consiglio di
Conferenza dello Statuto Albertino addirittura come prima e “moderatrice” Camera di riequilibrio
rispetto a quella – pur se a suffragio ristretto – elettiva, confermato dal fascismo in un contesto
complessivo di rappresentanza non elettiva come organo di nomina da parte della Corona su
proposta del Governo e ancora dalla Costituente con una debolissima configurazione differenziale
rispetto alla Camera dei Deputati, giacché l’opzione monocameralista delle sinistre e quella di
seconda Camera categoriale di alcuni settori moderati si elisero reciprocamente) non viene invero
oggi abolito, ma cambia in parte funzioni e ruolo.
Il rafforzamento del Governo in Parlamento realizza dal suo canto un’antica e sempre
presente aspirazione, “codificata” fin dall’ordine del giorno Perassi in Assemblea Costituente e mai
davvero ottenuta, ma di sicuro ed in varia forma comunque sollecitata.
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La riduzione del numero dei parlamentari (che, nel modo nel quale si è in effetti realizzata,
avrebbe potuto più opportunamente essere spalmata anche sulla Camera dei Deputati) e la riduzione
dei “costi della politica” non sono in realtà obiettivi “neutri” e che possano dirsi pregevoli o da
rifiutare in assoluto, ma assecondano piuttosto quelli che, nella quotidianità della cronaca
giornalistica, vengono definiti “ricorrenti umori antipolitici”.
L’ennesimo ridisegno del titolo V si inserisce infine in un quadro di tormentate rivisitazioni
teorico-pratiche delle autonomie territoriali che dal 1970 in poi non ha mai smesso di onerare il
legislatore, perché questo livello istituzionale di allocazione potestativa è stato fondamentale
nell’emersione di processi di rinnovamento della società italiana nell’ultimo cinquantennio, che al
centro apparivano bloccati o più lenti e che andavano però governati.
È dunque evidente il proposito di condurre a parziale chiusura un disegno riformatore assai
risalente nel tempo quanto ad aspirazioni, pur se lasciando ancora pagine bianche, evitando cioè al
momento intenzionalmente (come si è già detto) di tracciarne un più compiuto esito e restando
quindi oggetti da disciplinare ulteriormente attraverso regolamenti parlamentari, leggi costituzionali
e ordinarie.
La prima impressione di lettura di chi scrive è peraltro che si sia di fronte a un prodotto
tecnicamente opinabile, a una buona occasione gettata al vento: ne è prova anche il fatto che molti
fra gli stessi sostenitori del sì al referendum (ovviamente individuandoli però tra coloro che non
sono schierati a priori nei varî comitati di sostegno, il che renderebbe loro impossibile esprimersi
problematicamente) si acconciano a tale passo non senza tuttavia convenire, con varie sfumature,
sul giudizio critico appena espresso.
Di seguito si intende razionalizzare analiticamente questa generalissima sensazione e
precisare punti di consenso o di perplessità dello scrivente verso le soluzioni scelte.
L’assetto pensato oggi per i due rami del Parlamento ricorda molto da vicino le proposte
formulate dal c.d. “Comitato Speroni” della XII Legislatura (1984).
In esso si immaginava infatti analogamente che la Camera dei Deputati fosse eletta a
suffragio universale e solo essa votasse la fiducia al Governo, mentre il Senato – secondo una delle
due ipotesi licenziate in quella sede – fosse composto per metà da rappresentanti di Comuni e
Province e per l’altra da membri delle Regioni, su base di elezione, ma comunque indiretta e –
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secondo una variante – da soli membri dei governi regionali, da essi nominati e revocabili, in
numero variabile rispetto alla consistenza della relativa popolazione.
Quanto alla funzione legislativa (in conseguenza dell’accoglimento di istanze di
differenziazione del bicameralismo il tema è stato invero presente nelle soluzioni proposte fin dalla
relazione di maggioranza della Commissione Bozzi, ricevendo però configurazioni varie, che
sarebbe ultroneo richiamare qui), restavano ad approvazione bicamerale i disegni di legge
costituzionale e di legge ordinaria relativi alla materia elettorale, all’organizzazione e al
funzionamento delle istituzioni costituzionali, in ordine alle misure restrittive della libertà
personale, alle minoranze linguistiche, all’attuazione degli articoli 7 e 8 della Costituzione ed
ancora infine di autorizzazione a ratificare trattati internazionali e alle misure anticongiunturali per
il riequilibrio economico generale dello Stato e la concessione di aiuti finanziarî alle regioni.
Circa le competenze legislative della Camera (ma si noti che dal Comitato Speroni parte la
linea che inverte il rapporto tra legge statale e regionale, nel senso di rendere la prima limitata ad
oggetti enumerati e la seconda generale), si prevedeva in particolare che il Governo o un quinto dei
componenti del Senato potessero chiedere entro quindici giorni dall’approvazione l’esame di
quest’organo, da svolgere – licenziandolo e reinviandolo a Montecitorio con osservazioni e
proposte – nei trenta giorni successivi e residuando alla Camera ulteriori trenta giorni (ma per i
disegni di legge dichiarati urgenti tutti i termini sarebbero stati ridotti alla metà) per la sua finale
deliberazione.
Tanto ricordato, nella struttura che è stata da ultimo approvata, in ogni caso il Senato rischia
innanzitutto di non rappresentare le istituzioni regionali, come pure si vorrebbe.
È in primo luogo paradossale che esse vi approdino nel momento in cui ne è più discussa e
impopolare la loro efficace funzione ed è più opinabile il valore dei rispettivi ceti politici, scadenti e
spesso di dubbia correttezza percepita.
È inoltre da attendersi (e da temere) che l’Assemblea finisca per registrare gli equilibrî
interni dei partiti “locali” e dei riottosi “feudatarî” che li dominano, al tempo stesso condizionati dal
loro assetto organizzativo sul piano nazionale, in cui il leader/premier sceglie per tutti e portatori di
domande politiche e voti, ma anche ed ovviamente negoziatori di risorse per aumentare il proprio
bacino di consenso.
491
Più razionale era invece, quanto alla composizione, il testo originario del progetto Renzi-
Boschi, in cui il primo comma dell’art. 57 veniva riformulato nei termini seguenti:
Il Senato delle Autonomie è composto dai Presidenti delle Giunte regionali, dai Presidenti
delle Province autonome di Trento e di Bolzano, dai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione e di
Provincia autonoma, nonché, per ciascuna Regione, da due membri eletti, con voto limitato, dal
Consiglio regionale tra i propri componenti e da due sindaci eletti, con voto limitato, da un
collegio elettorale costituito dai sindaci della Regione.
Simile assetto avrebbe messo l’organo in grado di operare con effettiva incidenza per il
migliore raccordo (appunto previsto tra i suoi nuovi ruoli) tra enti territoriali ed Esecutivo e tra essi
e l’Unione Europea, data l’autorevolezza della legittimazione politico-istituzionale dei componenti
previsti.
È stato invece opportuno ridurre al numero “classico” di cinque l’abnorme numero di
senatori di nomina presidenziale inizialmente prefigurato (addirittura ventuno), anche se bisogna
chiedersi se tali membri non elettivi non avrebbero potuto essere più utili nel ramo del Parlamento
non raccordato col sistema delle autonomie territoriali, giacché portatori – quale presupposto
dell’investitura – di “alti meriti”, ma verso l’intera comunità nazionale.
Sarebbe stato inoltre determinante, ai fini del successo della riforma, prevedere il voto
unitario di delegazione per gli eletti nel medesimo territorio regionale, poiché solo questa modalità
di deliberazione avrebbe imposto un effettivo e necessario riferimento (specialmente se completato
con l’introduzione di un vincolo di mandato) agli interessi locali.
Si sarebbe dovuto in sostanza guardare, per il Senato da riformare, tendenzialmente al
Bundesrat tedesco, piuttosto che ad un più debole modello di seconda Camera di ispirazione austro-
spagnola, anche considerando che nei due ultimi Paesi da tempo ci si chiede appunto a che cosa
servano in effetti le rispettive Camere alte.
Nelle competenze ad esso attribuite, il nuovo Senato potrebbe invece ridursi a poco più di un
ufficio studî, beninteso al netto delle residue e rilevanti competenze legislative bicamerali, tra le
quali non c’è più (e deve esprimersi rammarico per l’amputazione) quella relativa alle leggi di
attuazione degli articoli 29 e 32 della Costituzione, che pure erano state introdotte in via di
emendamento nella prima lettura a palazzo Madama del disegno di legge costituzionale 1429, ma
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successivamente cassate. In tema di rapporti familiari (latamente intesi, attraendovi cioè anche
quelli “coperti” ex art. 2 e di recente finalmente normati, per quanto l’estensione potesse essere
compatibile) e di diritto alla salute, infatti, da un lato il sistema delle autonomie ha effettivo campo
di intervento e dall’altro – trattandosi di materie “sensibili” sul piano biopolitico e bioetico –
sarebbe stato preferibile ricercare accordi trasversali e non contingenti tra le forze politiche,
eccedendo quindi il piano del mero indirizzo politico espresso dalla Camera dei deputati e
coinvolgendo allora ed appunto i diversi livelli territoriali della Repubblica.
Poteri di temporaneo blocco da parte del Senato sono stati introdotti a proposito di alcune
altre leggi, tenendo conto che la maggiore parte della legislazione dello Stato verrà esercitata in via
di deliberazione definitiva dalla Camera, prevedendo però in qualche caso aggravamenti
procedurali e temporali.
Sono cioè state previste (accanto alle leggi costituzionali e a quelle ordinarie che restano
bicamerali e che forse – considerandone gli oggetti, che si palesano come di macro-organizzazione
settoriale – potrebbero venire riguardate come una variante specificamente italiana della nozione di
“leggi organiche”, nota alle esperienze francese e spagnola) nuove tipologie di leggi rinforzate.
Qui il rischio che si intravede è peraltro quello di una ragione di conflittualità tra le Camere,
per scongiurare la quale mancano organismi di composizione collegiale altrove previsti (dovrebbe
invece procedersi, nel caso, d’intesa tra i Presidenti delle Assemblee, il che però espone al gioco di
mediazioni di sostanza politica organi con ruolo e funzioni dal carattere imparzialistico) e
comunque – rispetto alla più snella e generale soluzione a suo tempo approvata sotto questo profilo
dal Comitato Speroni (e sulla quale ci si è pertanto di proposito dilungati) – si registra un notevole
appesantimento e una pluralità di varianti procedimentali.
Tutte le altre attribuzioni non legislative sono di concorrenza in procedimenti pur sempre
condivisi con la Camera non territoriale ed allo stato appaiono vaghe e da riempire di poteri e
contenuti da conquistare sul campo.
Un ulteriore elemento di debolezza del nuovo Senato è la sua natura di organo sì continuo e
non scioglibile – giacché viene infatti rinnovato a rotazione, con riferimento alla scadenza rispettiva
dei mandati dei consiglieri regionali e sindaci che lo compongono – ma che di intermittente ha le
occasioni di riunione. Sembra cioè essersi realizzata in sostanza una costituzionalizzazione (pur se
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rafforzata dall’attribuzione di alcuni poteri legislativi) della Conferenza Stato-Regioni-Enti locali,
che peraltro permane in vita, quanto alle funzioni di esecuzione amministrativa.
Si può peraltro temere che l’impegno di rappresentanza e amministrazione che impone a
consiglieri regionali e a sindaci una necessaria e continua presenza negli enti territoriali di
provenienza interferisca col cosiddetto “doppio cappello”, cioè che il cumulo delle cariche (che
anche in Francia, che tradizionalmente lo prevedeva, è stato molto ristretto) finisca con l’andare a
detrimento della funzione “aggiuntiva” dei senatori part time.
In positivo va registrato che il Senato non parteciperà più all’instaurazione e alla revoca
della relazione fiduciaria col Governo e interverrà nelle decisioni finanziarie, ma non con votazione
decisiva, siccome chiedeva da molti anni, quasi unanime, la dottrina più autorevole, di fronte ad un
inutile “doppione” di una seconda Camera con competenze identiche alla prima.
In questo senso appare logico che si sia disposta l’elezione indiretta dei suoi componenti,
benché questa statuizione conviva con una formula di ambiguo riferimento al vincolo alle
preferenze dell’elettorato territoriale per l’investitura a senatori dei consiglieri regionali.
Qui si apre un problema di non poco momento, destinato a sciogliersi in un senso o
nell’altro solo in sede di predisposizione della relativa legge elettorale e che probabilmente può
trovare composizione razionale nel senso di stabilire in essa che il Senato dovrà non solo riflettere
gli equilibrî politici locali contingenti, ma anche venire composto dai consiglieri più votati
dall’elettorato e non da altri meno suffragati.
Torna a questo punto sistematicamente opportuno considerare, per così dire “a specchio”,
l’ennesimo ridisegno del ruolo delle Regioni ordinarie, dopo l’enfasi “federalista” della riforma del
titolo V nel 2001.
La legge di riforma riporta all’indietro la sempre tormentata sistemazione di questa parte
della Carta e quanto esse guadagnano oggi in termini di presenza al centro – in un’Assemblea,
come visto, indirettamente elettiva e a riunione peraltro intermittente – lo perdono (o così almeno
sembra a prima impressione, benché tale esito non sia scontato) sul piano della oggi abrogata
competenza concorrente, in una logica di riaccentramento dell’azione pubblica resa evidente dalla
“clausola di supremazia” statale, che scatta in presenza di taluni presupposti legittimanti e pur se a
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condizioni di esercizio partecipativo della sussidiarietà riattratta al centro (ex artt. 117 e 114), anche
nelle materie che restano di competenza regionale.
Essa viene dai fautori giustificata in nome dell’assunta necessità di dominare meglio la non
del tutto superata crisi economica e di rafforzare e qualificare in senso efficientistico la governance
di sistemi complessi (come si è in precedenza osservato), proposito che del resto ha ispirato un
movimento analogo anche in altri settori (si pensi all’indebolimento dell’autonomia universitaria,
oltretutto sottofinanziata e finalizzata a dubbie valutazioni permanenti della sua operatività, secondo
obiettivi e parametri uniformanti di carattere meramente quantitativo e di quella scolastica, o alla
rivisitazione organizzativa in senso accentuatamente monodirezionale del servizio pubblico
radiotelevisivo).
Il combinato disposto tra nuove – perlopiù “tutte da scrivere”, come si è rilevato –
competenze del Senato e legge elettorale della Camera dei deputati, caratterizzata da un premio di
maggioranza alla lista e non alla coalizione vincitrice (o alla lista endocoalizionale, ma con
distribuzione interna dei vantaggi non uniforme) e da una parziale investitura di partito dei
candidati (perlopiù collocabili quali capilista ad elezione fortemente garantita fino al numero
massimo di dieci collegi), da un lato conduce all’interno della lista riuscita prima alle elezioni
politiche la frammentazione fino ad ora tipica della coalizione, dall’altro offre al Presidente del
Consiglio – specie se si consoliderà la prassi che oggi, diversamente da quanto accadeva in passato,
tende a fargli cumulare la qualità di competitore per tale ruolo a quella di leader del proprio partito,
in grado cioè di dire l’ultima parola sulla composizione delle liste elettorali – la legittimazione
formale di un plusvalore personale.
Si rischia invero di consegnare a una maggioranza di dubbia consistenza effettiva, sul piano
della forza vantata nel Paese (come verrà poco oltre precisato), l’elezione e il controllo degli organi
di garanzia, sui quali la Camera continua ad avere attribuzioni di investitura.
Si è voluto in sostanza dare sbocco costituzionale formale ad uno schema che viene da
lontano, nel dibattito italiano (e non solo) degli ultimi tre decenni e più: la legittimazione –
attraverso un sistema elettorale ad esito maggioritario – di un premier investito direttamente
dall’elettorato, in quanto leader del partito vincente.
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Questo non è più il partito novecentesco di massa – in evidente crisi, realisticamente
irreversibile, perché sono mutate le circostanze storiche che fecero emergere quel modello – ma il
mero strumento della rilevata legittimazione personalistica, né è del resto più il “luogo” della prima
mediazione degli interessi di iscritti (il cui numero è in caduta) e simpatizzanti, posto che questa si
esercita invece attraverso il controllo dell’Esecutivo (l’antico ed ingenuo mito della conquista della
“stanza dei bottoni”, come la chiamava Pietro Nenni) e nel dialogo/confronto dell’azione di
quest’organo con il sistema di governo dell’Unione Europea, cioè la sua Commissione e i Consigli
dei ministri di settore e dei Capi di Stato e di Governo, nonché con la tecno-burocrazia che ne
dipende o che vi svolge funzioni indipendenti (come la Banca Centrale e le Corti).
Cambia cioè – sia pure restando (neo)parlamentare, ma muovendosi pertanto in direzione di
un “premierato” anche formale e non solo di fatto – la forma di governo, senza però dirlo
apertamente e dissimulando anzi il mutamento, perché l’art. 94 (salva la restrizione della fiducia
alla sola Camera, che peraltro, per come composta, non è strutturata per costruirla in seno
all’Assemblea, ma semplicemente per farle in via normale registrare l’avvenuta investitura
elettorale) e l’art. 95 restano quali erano e dunque formalmente improntati alla collegialità di
determinazione dell’indirizzo politico (il che è appunto il riflesso costituzionale del più antico
assetto partitico, storicamente superato in larga misura e tuttavia preferendo allo stato lasciarne
invariati i testi), confidando di ottenere in concreto il risultato perseguito appunto con le risorse di
una legge elettorale ad hoc.
Non viene peraltro attribuita nel testo al solo Presidente del Consiglio (ciò che è decisivo nel
modello di premierato) l’esclusiva facoltà di decidere l’an e il quando dello scioglimento anticipato
della Camera, restando inoltre indenne il Senato, in ragione del modo di provvedere
discontinuamente al suo rinnovo, da tale possibilità di manovra.
Si introduce anche una modificazione opportuna, qual è il voto entro un termine garantito su
un progetto di legge giudicato necessario all’indirizzo politico (tuttavia non per le leggi a riserva di
procedimento garantito) e anche qui la soluzione sembra essere stata ispirata dal Comitato Speroni.
Essa è stata concepita per evitare lo sconcertante ed abnorme fenomeno di leggi composte di
un solo articolo e talora di centinaia di commi, in violazione dell’art. 72 e per contrastare la prassi
496
dei voti di fiducia chiesti dal Governo al fine di controllare la maggioranza di sostegno e fare
decadere gli emendamenti, dato il necessario ricorso al voto palese.
È del pari apprezzabile avere reso più stringenti (costituzionalizzandoli) i presupposti di
adozione e i limiti di necessaria omogeneità di contenuto, finora superabili perché contenuti nella
legge ordinaria 400/1988, alla decretazione di urgenza, giovandosi anche della loro “rilettura” da
parte della giurisprudenza costituzionale.
Si vuole però qui tornare su un punto decisivo prima toccato, per chiarire ulteriormente
quanto si è appena sopra scritto: la legge “Acerbo” (2444/ 1923) attribuiva – in un panorama
partitico molto frammentato – la maggioranza dei seggi a chi avesse conseguito appena il 25% dei
voti validi in un collegio unico nazionale. L’“Italicum” (52/ 2015) non è certo di tal fatta, ma è
tuttavia più discutibile perfino di quella che fu definita “legge truffa” del 1953: il premio
percentuale previsto è nei due ultimi casi lo stesso, il 15%, ma almeno nel primo era statuito che
esso venisse conferito alla coalizione che avesse raggiunto da sola la maggioranza assoluta (e che
dunque non ne avrebbe avuto bisogno per sostenersi, ma per assicurarsi il quorum per riformare la
Costituzione, proposito che in realtà dissimulava la vera ratio ispiratrice del disegno politico
sottostante).
Nel caso della legge vigente, invece, esso andrà alla lista di partito che abbia raggiunto al
primo turno la soglia – irrealistica, nelle condizioni politiche odierne – del 40 % dei voti validi,
determinandosi allora a necessità del ballottaggio tra le due liste più robuste uscite dal primo turno.
In definitiva, il successo arriderebbe alla fine del procedimento elettorale alla più forte, ma
non necessariamente fortissima in assoluto, tra le due più consistenti minoranze selezionate in
prima battuta ed alle quali non sarebbe nemmeno possibile promuovere esplicite intese ed aperti
apparentamenti con le forze rimaste escluse dall’accesso alla battaglia finale.
V’è motivo per chiedersi se questo disegno soddisfi dunque l’equilibrio tra rappresentanza e
governabilità che la Corte Costituzionale ha individuato nel percorso motivatorio della sentenza
1/2014 quale doppio obiettivo che va perseguito da una legge elettorale in grado di superare
ulteriori censure di incostituzionalità.
In questo contesto, le garanzie correttive al potere della maggioranza – parlamentare lo
statuto delle opposizioni (ancora una volta eredità del Comitato Speroni, con una variante peraltro
497
molto significativa: qui si prevedeva lo “statuto dell’opposizione”, oggi il sostantivo è assunto al
plurale), ad innesco extraparlamentare il ricorso a nuovi istituti e a una più ricca articolazione della
democrazia diretta – pur se oggi formalmente previste (ma senza fissarne prudentemente subito
almeno i principî ispiratori e va da sé che non sono irrilevanti per un giudizio sull’equilibrio della
proposta complessiva – che andrebbe quindi sospeso, se non premesse la scadenza referendaria – la
misura e il modo di configurarle), sono rinviate nell’attivazione ad un futuro indeterminato nel
quomodo e nel quando, per la rispettiva riserva al regolamento della Camera e a una legge
costituzionale, anche se l’esperienza storica non depone per la celerità dell’adempimento di
obblighi siffatti.
Sul punto viene unicamente disposto che per i disegni di legge di iniziativa popolare l’esame
della Camera sia finalmente obbligatorio, ma deve registrarsi che il quorum per proporli è
notevolmente aumentato (centocinquantamila sottoscrizioni, invece che cinquantamila).
Il quorum di validità del referendum abrogativo viene inoltre commisurato sulla percentuale
di votanti alle precedenti elezioni politiche, nel caso in cui sulla proposta si siano raccolte almeno
ottocentomila richieste. Questo raccoglie una proposta dottrinale e dovrebbe risolvere l’annoso
problema della capitalizzazione capziosa, a favore del mantenimento della legge, della percentuale
di astenuti “cronici”, ovvero dell’uso della propaganda e pratica astensionistica per provare a farlo
comunque fallire.
Per chi conosca la prassi, il numero di firme necessarie a godere di tale vantaggio va tuttavia
calcolato in aumento almeno di un terzo – e quindi nel numero di un milione o più – giacché
normalmente molte di esse vengono cassate alla verifica dell’Ufficio centrale presso la Corte di
Cassazione.
In buona sostanza, allo stato il favor verso l’esercizio di forme di democrazia diretta si è
solo teoricamente ampliato, ma in sostanza rimane circondato da diffidenza.
La scelta di rendere anticipatamente sindacabile dalla Corte Costituzionale la legge
elettorale della Camera, guardando al tradizionale modello francese di giustizia costituzionale
anticipata rispetto all’entrata in vigore del testo normativo, è un’ulteriore garanzia, stavolta subito
attivata, ma che politicizza quest’organo ancora più di quanto già oggi esso non sia sospettato di
operare, attraverso il giudizio di ragionevolezza e proporzionalità ed in genere le tecniche di
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bilanciamento, perché situa l’intervento al cuore stesso del rapporto di rappresentanza politica e
anzi prima ancora che la legge che struttura la rappresentanza politica abbia visto la luce. Di tanto è
prova proprio la vicenda stessa della legge elettorale del 2005, la cui – peraltro evidente e segnalata
da molta dottrina – illegittimità costituzionale è stata dichiarata fingendo con una forzatura che
potesse venire ammessa come valida (e non invece respinta come inammissibile, per difetto di
rilevanza) la questione sollevata al riguardo. Né può convenirsi col fatto che di due giudici della
Corte la provvista venga affidata al solo Senato, il che raccoglie ancora una volta proposte risalenti,
ma affida alla Corte un ruolo “arbitrale” tra istanze centrali e sistema delle autonomie, in sostanza
snaturandone il ruolo di custode para-giursidizionale dell’unità della Repubblica.
Circa l’organo di garanzia unitaria politica, cioè il Presidente della Repubblica, se il quorum
di elezione è stato elevato fino al sesto scrutinio, dal settimo esso è computato sempre su una
maggioranza richiesta elevata, ma riferita ai presenti al voto e non ai componenti. Un esito felice
richiede perciò un accordo della maggioranza di governo dei presenti almeno con una parte delle
opposizioni e “fotografa”, per così dire (immaginandola stabilizzata anche per il futuro) la
situazione attuale, caratterizzata dalla presenza in Parlamento di forze politiche allo stato non
orientate alla cooperazione e all’intesa istituzionali.
Le obiezioni relative all’interferenza di un troppo alto premio di maggioranza con i quorum
necessarî a coprire l’organo presidenziale di garanzia potrebbero ripetersi pari pari per l’elezione
assembleare dei membri della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura di
loro spettanza: una maggioranza parlamentare del 54% potrebbe in tutti i casi (col favore del voto
segreto) facilmente acquisire i voti che le mancassero, data la storica propensione del sistema
politico al trasformismo e al ministerialismo, espresse com’è noto da Ennio Flaiano con l’irridente
massima degli Italiani che abitualmente “corrono in soccorso del vincitore”.
5. Per una conclusione in realtà inconcludente: il riformismo costituzionale italiano come
tentativo di recuperare il primato del “politico” e i limiti di una visione unilaterale
499
In conclusione, va ribadito come l’intento che traspare del testo odierno – il che è stato
d’altronde esplicitamente dichiarato da chi lo sostiene – sia quello di definire almeno sul piano
formale (quanto alla sostanza vale quello che si è osservato circa il carattere necessariamente
processuale ed incrementale di ogni rilevante innovazione normativa) la lunga stagione alcune delle
cui tappe sono state in precedenza rammentate, all’evidenza tormentata e caratterizzata da risultati
di volta in volta frammentarî, o contraddittorî, per il palesarsi sul tema di orientamenti poco
condivisi tra le forze politiche, nonché nell’opinione pubblica e fra i tecnici.
Si è fissato come obiettivo di fondo (di cui si può avere riprova anche guardando alle
polemiche che attraversano il dibattito aperto nel Paese su svariati fronti) quello di rafforzare il
“politico” nei confronti di poteri non legittimati democraticamente – giudiziarî, organi tecnico-
burocratici, centri di potere economico, sindacati – concentrandosi, come si è visto e per tagliare lo
sperato traguardo, essenzialmente nella costruzione di un rapporto tra una sola Camera eletta
direttamente e perciò rappresentativa e una configurazione nei fatti (ma anche in diritto) rafforzata
del Presidente del Consiglio, più che solo del Governo in se stesso.
Il contesto geopolitico ed economico del nostro tempo rende infatti imperativo recuperare
velocità di decisione ed efficacia e responsabilità di intervento (da ciò la diffusione generalizzata di
modelli di leadership monocratica degli Esecutivi, al di là delle loro classificazioni astratte) per
reggere in un quadro di integrazione comunitaria e di accentuata concorrenza del Paese nella
competizione politico-economica internazionale. Deve tuttavia osservarsi come non sia affatto detto
che il “politico” si irrobustisca unicamente deprimendo la rappresentanza e denegando la
tradizionale caratteristica italiana della struttura coalizionale delle compagini di sostegno al
governo.
Essa fotograferebbe infatti – ma allora col necessariamente collegato proporzionalismo,
corretto dalla previsione di soglie di accesso, o quantomeno con l’alternativa introduzione di un
sistema elettorale maggioritario uninominale a doppio turno di collegio, in cui la prosecuzione della
competizione fosse aperta ai primi tre candidati inizialmente classificatisi oltre una certa soglia
minima (la tripolarità è allo stato la condizione del sistema politico italiano) – la complessità sociale
e la varietà delle culture, che oggi è dovunque aumentata, piuttosto che diminuire.
500
La debolezza dei sistemi elettorali strettamente maggioritarî che intendono contrastarla o
incanalarla in forme irrigidite, non fluide, sta cioè nella riduzione forzata da essi compiuta del
quadro degli interessi che premono sulle sedi di decisione politica e che non si lasciano però a
lungo incanalare in semplificazioni artificiose.
L’introduzione di un doppio turno eventuale non significa altro, in questo contesto, che fare
dipendere a ben vedere il successo finale dall’apporto decisivo delle forze pretermesse dal tratto
finale della gara (nel loro complesso, il cosiddetto “terzo escluso”), oltretutto nell’opacità, perché
non sono permesse esplicitazioni di apparentamenti in questa fase.
Non che la semplificazione sia in se stessa un limite, giacché è anzi obiettivo desiderabile,
però andrebbe perseguita attraverso la costruzione di coesi blocchi socio-politici di interessi, che
sbocchino in una leadership chiara, accettata e duratura – ad individuarla aiutano forme di
investitura importate da esperienze straniere, come le “primarie”, benché non da tutti e non sempre
praticate, o forme di selezione mediatica delle candidature, anche se entrambe le opzioni vanno
peraltro disciplinate e controllate – e in una più larga classe dirigente (non quindi solo politica) che
condivida il progetto, non già attraverso un’alchemica ingegneria elettorale che si ponga alla ricerca
della pietra filosofale.
I governi di coalizione hanno avuto in Italia una funzione preziosa nella fase in cui era
necessario ampliare il più possibile la legittimazione del sistema politico postfascista, epoca non a
caso di espansione economica che fu definita “miracolosa” e hanno manifestato in seguito indubbi
effetti indesiderabili, specialmente quanto alla ben nota dilatazione della spesa pubblica per ragioni
di captazione del consenso.
Nondimeno, tale pur palese limite non può essere cancellato con disposizioni legislative,
derivando da fratture storico-sociali profonde che non appaiono ancora superate, ma trovano anzi
conferma nell’attuale presenza in campo di forze “antisistema” di recente formazione, che da un
lato negano i presupposti della democrazia liberale rappresentativa e dall’altro manifestano
orientamenti contrarî all’attuale assetto delle alleanze strategiche e delle istituzioni sovrannazionali
che coinvolgono i nostro, fino a prefigurare (o quantomeno ad agitare programmaticamente) uscite
unilaterali dal sistema monetario europeo.
501
In verità, l’esperienza più recente, non solo italiana, segnala che movimenti anti-sistema si
collocano nei Paesi sviluppati e in crisi economica dell’Occidente non solo agli opposti estremi
della tradizionale frattura destra/sinistra, ma lungo il riorientato asse sopra/ sotto, cioè all’interno di
uno schema in cui semmai assume rilievo la contrapposizione (talora anche generazionale, o che
interseca la differenza di genere e ad essa si somma) tra “garantiti” ed “esclusi”.
Tale evoluzione ispira in molti Paesi il formarsi di partiti o di istanze che nel loro complesso
e per brevità si potrebbero raggruppare sotto la comune etichetta di “populiste”, per l’attacco
comune a quello che in lingua inglese si chiama “establishment”. Ne consegue una ragione di più
per esplorare l’introduzione di ulteriori forme e modulazioni integrative di democrazia diretta,
innestate negli istituti classici di quella rappresentativa, come il testo in esame apre (e lo si
segnalava in precedenza) a fare, sia pure nelle forme di future leggi costituzionali e ordinarie di
attuazione, dunque attendendo sotto questo profilo una più univoca maturazione di un orientamento
condiviso.
In ogni caso, un rafforzamento del “politico” – sia che avvenga soltanto dal lato della
assemblea parlamentare, pur se correggendo il sistema con ormai ineludibili innesti di dosi di
democrazia diretta, sia che si eserciti anche da quello della investitura e legittimazione popolare del
governo – rispetto ai poteri non elettivi (tecno-burocrazia interna e dell’Unione Europea, gruppi di
pressione, centri economici come banche, imprese, assicurazioni, gruppi di investitori di capitale,
sindacati, magistratura, esercito) dovrà confrontarsi con la constatazione che essi agiranno
egualmente sui detentori del potere rappresentativo legittimamente formato, essendo appunto questa
– cioè la poliarchia o policrazia – la natura dell’assetto costituzionalistico maturo che definiamo
pluralista.
Esso richiederebbe semmai una legge di attuazione dell’art. 49 e quella che disciplina
l’attività delle lobbies, entrambe ormai imprescindibili in tale contesto e la cui introduzione è
finalmente all’ordine del giorno, ma ancora ai primi ed incerti passi nel dibattito parlamentare
Per completare questo scritto, è il caso di dare ora ragione del titolo scelto nel licenziarlo.
I pessimisti penseranno che un bicchiere mezzo pieno non disseti, gli ottimisti che è
comunque meglio di nulla. I realisti considereranno che si tratta di un assaggio e che dunque – per
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continuare a bere, o rifiutarsi di farlo oltre – il giudizio davvero decisivo riguarda il gusto e la
qualità della pozione.
Fuor di metafora, restano aperti (e dunque opinabili) fattori condizionanti fondamentali,
estrinseci in senso stretto al testo sul quale l’elettorato si esprimerà, ma di valore materialmente
costituzionale, ma la cui valutazione non dovrebbe invece mancare per rendere un consapevole
giudizio: la legge elettorale della Camera dei deputati, quella di là da venire del Senato, il decollo o
meno delle nuove competenze di esso e il modo di costituirvi i gruppi (saranno o meno consentiti
raggruppamenti di senatori per territorio, piuttosto che per aggregazioni partitiche e quale ruolo essi
riusciranno in ipotesi a ritagliarsi?), l’effettivo disegno dello statuto delle opposizioni e il modo
concreto di arricchire e articolare gli istituti di democrazia diretta, anche in ragione delle
opportunità e dei correlativi rischi offerti da arene e canali di partecipazione “elettronica” e
istantanea alla discussione e decisione politica.
Resta infine unicamente lo spazio (e l’obbligo civile) per una dichiarazione che vuole essere
al tempo stesso metodologica e di “moralità dello studioso”, ferma restando la legittimità di scelte
diverse, ma è chiaro che in questo momento e di fronte a una così elevata posta in gioco ognuno
decide per se stesso.
Due illustri costituzionalisti – Umberto Allegretti ed Enzo Balboni – dopo avere ricordato di
avere sottoscritto un appello della rivista Federalismi che conteneva l’invito a dibattere nel merito e
da studiosi ed elencato quanto a loro parere è condivisibile e quanto li lascia perplessi del testo su
cui il popolo dovrà pronunciarsi (entrambe le opzioni sono comuni a quella di chi scrive in questa
sede), pongono fine ad un loro breve intervento su Forum Costituzionale – Rassegna, datato 27
maggio 2016, nei termini che seguono:
“Di molte altre cose si potrebbe e si dovrebbe dire; il che potrà avvenire nei siti
specializzati, soprattutto sine ira ac studio. È bene, dunque, che nei luoghi deputati al dibattito
scientifico e culturale questo prosegua fino alla vigilia del referendum, ma senza spiegare al vento
le rispettive bandiere di battaglia. A quel punto sarà il cittadino, e non il giurista tecnico, a
riprendersi, insieme, sovranità e responsabilità nel decidere”.
Chi scrive non saprebbe dire meglio e diversamente concludere.
Il presente scritto costituisce in larga parte – ma con successive integrazioni – la relazione svolta al seminario
La riforma costituzionale Renzi-Boschi: finale di partita?, Napoli, 20 aprile 2016, all’Università degli studî
“L’Orientale”, Palazzo Dumesnil. Per l’invito a tenerla ringrazio la Rettrice, professoressa Elda Morlicchio e il collega
Francesco Zammartino. Essa fu dedicata alla memoria del collega Pasquale Ciriello, che per molti anni vi ha insegnato
503
Istituzioni di diritto pubblico e Diritto costituzionale comparato e vi è stato a lungo indimenticato Rettore. Per le
riflessioni specifiche sul referendum costituzionale si è utilizzata parte di un’intervista pubblicata il 12 maggio 2016 sul
blog Law and Politics for Unisa, diretto dal professore Gianfranco Macrì.
Il lavoro è stato completato il 2 giugno 2016, giorno del settantesimo anniversario della festa della Repubblica
ed in cui ricorreva quest’anno anche il ventesimo anniversario della scomparsa del professore Temistocle Martines,
grande Maestro dell’Università di Messina, già Presidente dell’Associazione italiana dei Costituzionalisti, caposcuola di
una fiorente e ricca schiera di amici e valorosi colleghi e soprattutto stimatissimo studioso della nostra Carta
fondamentale, che analizzò con assai acuta attenzione critica finché ebbe vita. Sia dunque concesso allo scrivente – che
ha goduto della Sua stima e di paterni incoraggiamenti – ricordarne qui la nobile figura e associarla nella dedica e nel
rimpianto all’amico sopra ricordato, al fine di inserirsi anch’egli, in qualche modo, nel solco delle rievocazioni degli
allievi che Diritti Regionali Gli viene opportunamente dedicando.
Ringrazio infine la direzione della rivista per avermene richiesto la pubblicazione anticipata, rispetto al volume
che raccoglierà gli Atti di quella giornata di studio, nel quadro dell’invito al dibattito da essa proposto sul tema di cui al
titolo del contributo, che implicava la risposta a un certo numero di domande proposte. Non essendo riuscito, all’epoca
del primo invito, ad ottemperare tempestivamente all’impegno di dare seguito alla cortese sollecitazione, mi sono
risolto ad articolare in forma di discorso organico un sintetico esame della mia posizione al riguardo. L’unificazione dei
diversi punti a suo tempo oggetto dei quesiti ha comportato peraltro – a parere dell’autore – la possibilità di una più
chiara fluidità e comprensione della linea di fondo del ragionamento condotto nel testo.
Salvatore Curreri e Luigi Ferraro sono stati i miei personali valutatori, rigorosamente non anonimi e delle loro severe
osservazioni mi sono giovato per rimediare a sviste, o per chiarire frasi e argomentazioni scritte in origine oscuramente.
Ferme la loro cortesia, di cui li ringrazio molto, nonché la mia esclusiva responsabilità per quanto ho qui sostenuto,
siamo rimasti, almeno col primo – quanto al giudizio complessivo sulla riforma –, su posizioni amichevolmente diverse
La libertà di culto nella Repubblica delle autonomie
di Luca Buscema
(Dottore di ricerca in diritto amministrativo, Dottorando di ricerca in Scienze Giuridiche-
Curriculum: Rapporti interordinamentali e tutela dei diritti fondamentali, Università di Messina)
(22 luglio 2016)
SOMMARIO: 1. Le molteplici declinazioni della libertà religiosa nello Stato laico e pluralista. – 2. Libertà di
culto e professione di fede nel quadro del riparto delle attribuzioni tra Stato, Regioni ed enti pubblici territoriali minori.
– 3. Libertà religiosa ed esigenze securitarie tra giudizi di valore, questioni di metodo e (cenni sui) criteri di definizione
degli ambiti di competenza dello Stato e delle Regioni.
1. Le molteplici declinazioni della libertà religiosa nello Stato laico e pluralista
La libertà religiosa, ovvero il diritto di professare la propria fede in qualsiasi forma,
individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto129
,
purché non si tratti di riti contrari al buon costume130
, si innesta, in positivo, nell’ambito del
processo di formazione ed esplicazione della personalità di ogni individuo, «nelle forme esteriori in
cui siffatta libertà può manifestarsi, giacché la libertà di coscienza in materia religiosa – cioè la
libertà di credere o non credere in una entità trascendente – attiene al foro interno di ciascuno»131
.
Scritto sottoposto a doppio referaggio anonimo.
129 Considerando la libertà religiosa alla stregua di diritto soggettivo inviolabile ne costituiscono parte
integrante: «la facoltà di professare la fede religiosa in forma individuale; la facoltà di professare la religione in forma
associata; la facoltà di esercitare il culto in forma privata o in pubblico; la facoltà di fare propaganda religiosa; la facoltà
di manifestare con ogni mezzo il proprio pensiero in materia religiosa (art.21); la facoltà di corrispondere con altri in
modo libero e segreto nella materia stessa (art.15); la facoltà di riunirsi con altre persone a scopo di religione o di culto
(art.17); la facoltà di fondare associazioni con fine di religione o di culto o di aderire a quelle esistenti (art.18) e, più in
generale, la facoltà di esercitare tutti i diritti garantiti dalla Carta, in funzione della libertà religiosa»: così F.
FINOCCHIARO, Art. 19, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna 1977, 258. 130
Quanto al limite del buon costume, tradizionalmente si ritiene che siano considerati lesivi dei valori ad esso
sottesi i riti che pregiudicano la morale sessuale, ovvero quelli che ledono la salute fisica e psichica delle persone,
ingenerando, ad esempio, uno stato di soggezione psichica mediante l’impiego di tecniche di manipolazione della
personalità e del carattere. Sul punto v., ex multis: Corte di Cassazione, 18 novembre 2008, n. 48350, secondo cui «non
sono riconducibili ad alcuna confessione religiosa, organizzata e guidata, come tale, da una vera e propria Chiesa che
provvede pure ad impartire i relativi insegnamenti anche sul piano scolastico, le pratiche rituali di magia nera…fondate
sulla stregoneria - che - lungi dal limitarsi a valorizzare i profili benefici di alcune entità divine e non malefiche, danno,
invece, luogo, in chi li subisce, a possessione ed invasamento integrali e duraturi, quasi sempre irreversibili». Per una
ricostruzione della nozione di “buon costume”, v., ex multis: G. DELLA TORRE, Lezioni di diritto ecclesiastico, Torino
2014, 67 s.; V. PACILLO, Buon costume e libertà religiosa. Contributo all’interpretazione dell’art. 19 della Costituzione
italiana, Milano 2012; A.G. ANNUNZIATA, La nozione di «buon costume» e applicabilità della soluti retentio ex art.
2035 c.c., in Giust. Civ., 2011, 1, 186 ss.; D. LOPRIENO, La libertà religiosa, Milano 2009, 123 ss.; V. PALOMBO,
Considerazioni in tema di riti contrari al buon costume, in Dir. eccl., 1997, I, 535 ss. 131
Così T. MARTINES (a cura di G. SILVESTRI), Diritto Costituzionale, Milano 1998, 709. In ordine al rapporto
intercorrente tra libertà di coscienza in materia religiosa, tutela dei diritti fondamentali dell’individuo ed
505
In negativo, poi, essa assurge alla stregua di «libertà da ogni coercizione che imponga il
compimento di atti di culto propri di questa o quella confessione da persone che non siano della
confessione alla quale l’atto di culto, per così dire, appartiene»132
, ovvero rileva nei termini di
libertà da costrizioni che possano confliggere, irrimediabilmente, con la coscienza religiosa di
taluno.
In questa direzione, la Costituzione del 1948 assicura la libertà religiosa agli individui ed ai
gruppi sociali «nel modo più pieno e al livello normativo più alto»133
, qualificandola nei termini di
diritto pubblico soggettivo, tale perché «può essere azionato nei confronti dello Stato»134.
In una siffatta prospettiva, la libertà di culto, che si colloca, a pieno titolo, in seno alla
categoria dei diritti civili135
, matura, all’interno dell’ordinamento giuridico136
, entro una cornice di
disciplina chiaramente composita, espressione, in definitiva, del necessario bilanciamento tra
diversi valori in gioco137
.
“organizzazioni di tendenza”, v., ex multis: Corte Costituzionale, 29 dicembre 1972, n. 195; Corte di Cassazione, sez.
lav., 16 febbraio 2004, n. 2912; Corte di Cassazione, sez. lav., 03 giugno 2003, n. 1367; Corte di Cassazione, sez. lav.,
31 gennaio 2003, n. 11883; Corte di Cassazione, sez. lav., 22 ottobre 2002, n. 18218. In dottrina, per un
approfondimento, v., ex plurimis: R. BIN, G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, Torino 2010, 104 e 535; A.
ALBISETTI, La Corte Costituzionale e i problemi del diritto ecclesiastico: formalismo giuridico e attuazione della
costituzione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, 586 ss.; R. BACCARI, Il pluralismo scolastico a tutela della libertà
religiosa, in Riv. giur. scuola, 1973, 22 ss.; G. CAPUTO, Sul “caso Cordero”, in Giur. Cost., 1972, 2856 ss.; S.
LARICCIA, Libertà delle università ideologicamente impegnate e libertà di insegnamento, in Giur. Cost., 1972, 2177 ss.;
S. LENER, Giusta fine del “caso Cordero”, in Civ. catt., 1973, 268 ss.; F.S. SEVERI, L’università cattolica del sacro
cuore davanti ai giudici, in Dir. eccles., 1973, parte II, 164 ss. 132
Così Corte Costituzionale, 25 maggio 1963, n. 85. Per un commento v., ex plurimis: S. CHIARLONI, Sui
rapporti tra giuramento e libertà religiosa, in Giur. it., 1964, parte I, sez. I, 13 ss.; M.C. DEL RE, Il giuramento dei
testimoni e il rifiuto di giurare, in Riv. pen., 1977, 367 ss.; F. FINOCCHIARO, Ancora in tema di libertà religiosa e
giuramento dei testimoni, in Riv. it. dir. proc. pen., 1963, 1249 ss.; L. VANNICELLI, La libertà religiosa nella formula di
giuramento del testimone alla luce delle sentenze della corte costituzionale, in Dir. eccles., 1987, parte I, 1098 ss.
Invero, sottolinea F. FINOCCHIARO, Art. 19, in G. BRANCA (a cura di), Commentario, cit., 259, che la Costituzione
repubblicana «garantisce non solo la scelta tra questa o quella religione positiva o l’organizzazione di nuove
manifestazioni dello spirito religioso, ma assicura anche il diritto di rifiutare qualsiasi professione di fede, di non
ascoltare alcuna propaganda, di non partecipare ad alcun atto di culto». 133
Cfr. F. FINOCCHIARO, Art. 19, cit., 238. 134
Cfr. F. FINOCCHIARO, Art. 19, cit., 242. «I singoli, pertanto, possono vantare nei confronti dello Stato la
pretesa a professare (vale a dire a porre in atto manifestazioni esteriori del proprio pensiero sul destino trascendentale
dell’uomo o ad aderire ad una, piuttosto che ad un’altra, confessione religiosa ovvero ancora a costituire una
confessione) qualunque fede religiosa, di farne propaganda mediante il c.d. “proselitismo” e di esercitarne, sia in privato
che in pubblico, il culto”: così T. MARTINES (a cura di G. SILVESTRI), Diritto Costituzionale, cit., 708. 135
Cfr. Corte di Cassazione, sez. trib., 08 luglio 2015, n. 14224. 136
Per un approccio in ordine al rapporto tra sovranità dello Stato ed autonomia delle organizzazioni
confessionali, v. P. LILLO, I confini dell’ordine confessionale nella giurisprudenza costituzionale, in Giur. Cost., 2007,
6, 5017 ss. Sul punto v. anche C. BOTTA, Valore costituzionale della persona e limiti di sindacabilità del potere
disciplinare delle autorità confessionali, in Giur. Merito, 2007, 12, 3175 ss. 137
Per un approfondimento circa i criteri posti a presidio del contemperamento tra libertà di manifestazione del
pensiero e libertà di culto e di confessione religiosa v. N. COLAIANNI, Diritto di satira e libertà di religione, in Riv. it.
dir. proc. pen., 2009, 2, 594 ss.
506
Com’è noto, l’impronta laica dello Stato si traduce, storicamente, nella valorizzazione del
sentimento religioso, indipendentemente dalla confessione professata, entro i limiti stabiliti
dall’ordinamento, alla stregua di interesse primario dell’individuo senza che rilevi un particolare
favore, positivizzato, nei riguardi di una piuttosto che di un’altra ideologia138
.
In tale contesto, laicità non vuol significare certo indifferenza139
; anzi, è compito precipuo
dello Stato predisporre gli strumenti (anche di natura penale)140
utili al fine di garantire effettività di
tutela al sentimento religioso, al servizio della coscienza civile141
e religiosa dei cittadini142
.
Ciò in base ad un apprezzamento differenziato, da un lato, della condizione giuridica dei
culti143
e, dall’altro, della salvaguardia dei diritti individuali di libertà religiosa144
.
138
Una puntuale descrizione del “processo di secolarizzazione” delle istituzioni politiche è rinvenibile in R.
BIN, G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, cit., 85 s. Invero, com’è noto, il fenomeno religioso, oltre che inerire
direttamente alla coscienza di ciascuno, si correla alla libertà di culto esercitata anche in forma associata così da
introdurre profili di maggiore complessità che investono, in primo luogo, non il singolo ma «il gruppo confessione
religiosa, inteso in senso istituzionale»: così T. MARTINES (a cura di G. SILVESTRI), Diritto Costituzionale, cit., 784. 139
«Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, implica non
indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in
regime di pluralismo confessionale e culturale»: così Corte Costituzionale, 12 aprile 1989, n. 203. Invero, «Stato laico
vuol dire il riconoscimento di una sfera autonoma lasciata in campo religioso alla libera determinazione del singolo;
significa inoltre nel nostro ordinamento la regolamentazione a certe condizioni dei rapporti con alcune specifiche
religioni, riconosciute purché non si pongano in contrasto con i valori fondanti della Repubblica, e, tramite lo speciale
regime concordatario, con la chiesa cattolica. Stato laico significa altresì, come logico corollario, che nella scuola
pubblica in cui si devono formare i giovani anche ai valori di libertà, democrazia e laicità dello Stato, non è lecito
imporre alcun tipo di credo religioso e anzi risulta doverosa un’educazione improntata alla massima libertà e al rispetto
reciproco in tale campo»: così T.A.R. Veneto, Venezia, 22 marzo 2005, n. 1110. 140
Per un approfondimento del complesso rapporto intercorrente tra laicità dello Stato e strumenti di tutela
(penale) della libertà di culto v. M. ROMANO, Principio di laicità dello Stato, religioni, norme penali, in Riv. it. dir.
proc. pen., 2007, 2-3, 493 ss. In merito al processo di armonizzazione della tutela penale della religione con i valori
costituzionali fino all’entrata in vigore della l. n. 85/06, v. M. MONTEROTTI, La tutela penale della religione: antica,
vexata quaestio sul bene giuridico tutelato e nuovi profili di interesse circa la libertà di espressione nell’epoca di
internet, in Cass. Pen., 2010, 3, 952 ss. Per un commento critico alla l. n. 85/06, v. P. CIPOLLA, Il nuovo diritto penale
della religione alla luce dei lavori preparatori della l. 24 febbraio 2006, n. 85, in Giur. Merito, 2009, 6, 1753 ss.; P.
SIRACUSANO, Pluralismo e secolarizzazione dei valori: la superstite tutela penale del fattore religioso
nell’ordinamento italiano, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 2, 621 ss; E. DOLCINI, Laicità, “sana laicità” e diritto penale
la chiesa cattolica maestra (anche) di laicità?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 3, 1017 ss. Infine, per un’indagine sul
processo di “secolarizzazione” del diritto penale con riferimento alla libertà religiosa, v. A. SERENI, Sulla tutela penale
della libertà religiosa, in Cass. Pen, 2009, 11, 4499 ss. 141
Ritiene che la coscienza, concetto suscettivo di molteplici qualificazioni morali, culturali, sociali e storiche,
sia, sostanzialmente, un mistero, V. POSSENTI, La coscienza nella filosofia d’ispirazione cristiana, in L. GABBI, V.U.
PETRUIO (a cura di), Coscienza. Storia e percorsi di un concetto, Roma 2000, 3 ss. 142
Sul punto v., ex multis: T.A.R. Lazio, Roma, 17 luglio 2009, n. 7076; Corte Costituzionale, 12 aprile 1989,
n. 203. 143
In merito v. P. GISMONDI, Culti, in Enc. dir., XI (1962), 440 ss. 144
Ciò perché, è facile osservare, la «“libertà di culto” non è che uno degli aspetti esterni della libertà religiosa,
quello di poter praticare il proprio culto, in pubblico o privatamente», in forma individuale o associata. Così e per un
approfondimento v. C.A. JEMOLO, Culti (libertà dei), in Enc. dir., XI (1962), 456. In tal senso, «il sentimento religioso
può rimanere custodito nelle intimità delle coscienze o esternarsi in comportamenti socialmente rilevanti, individuali e
collettivi»: così P. BELLINI, Confessioni religiose, in Enc. dir., VIII (1962), 926. Così, all’interno di una società (che
ama e suole definirsi) civile, si dimostra indispensabile «garantire le condizioni che favoriscano l’espansione della
libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione» (così Corte Costituzionale, 24 marzo 2016, n. 63), la quale
«rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art. 2 Cost.»: così
Corte Costituzionale, 08 ottobre 1996, n. 334.
507
In ossequio al principio pluralista che informa di sé la “Repubblica delle autonomie”,
matura, in particolare, un atteggiamento di equidistanza ed imparzialità, senza che, come si vedrà,
possano assumere rilevanza alcuna il dato quantitativo dell’adesione più o meno diffusa a questa o a
quella confessione religiosa145
e la maggiore o minore ampiezza delle reazioni sociali conseguenti
alla violazione dei diritti di una o di un’altra di esse146
, imponendosi la pari protezione della
coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione di
appartenenza147
.
Infatti, quando la libertà religiosa ed il suo esercizio vengono in rilievo, la tutela giuridica
deve abbracciare allo stesso modo l’esperienza religiosa di tutti, nella sua dimensione individuale e
comunitaria, indipendentemente dai diversi contenuti di fede; né, in senso contrario, varrebbero
considerazioni in merito alla diffusione delle diverse confessioni, giacché la condizione di
minoranza di alcune di esse non può giustificare un minor livello di protezione148
.
In un siffatto contesto valoriale, rimane ferma, naturalmente, la possibilità di regolare
bilateralmente e, quindi, in modo differenziato, nella loro specificità, tramite lo strumento
concordatario, i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica e, mediante intese, con le altre
confessioni religiose149
.
Va da sé, però, che le intese non possono costituire una condizione imposta
dall’ordinamento allo scopo di consentire alle confessioni religiose di usufruire della libertà di
145
Cfr., ex multis: Corte Costituzionale, 13-20 novembre 2000, n. 508; Corte Costituzionale, 08 luglio 1988, n.
925; Corte Costituzionale, 18 ottobre 1995, n. 440; Corte Costituzionale, 10 novembre 1997, n. 329. 146
Cfr., ex plurimis: Corte Costituzionale, 13-20 novembre 2000, n. 508; Corte Costituzionale, 10 novembre
1997, n. 329. Per un commento v., ex plurimis: G. FIANDACA, Altro passo avanti della consulta nella rabberciatura dei
reati contro la religione, in Foro it., 1998, I, 26, ss.; G. FONTANA, Il principio di laicità nello stato democratico-
pluralista e la tutela penale del sentimento religioso, in Giur. it., 1998, 150, 987 ss.; F. RIMOLI, Tutela del sentimento
religioso, principio di eguaglianza e laicità dello stato, in Giur. cost., 1997, 6, 3343 ss. 147
Sul punto v. Corte Costituzionale, 13-20 novembre 2000, n. 508; Corte Costituzionale, 18 ottobre 1995, n.
440. 148
Cfr. Corte Costituzionale, 10 novembre 1997, n. 329. 149
Sul punto v. Corte Costituzionale, 13-20 novembre 2000, n. 508; Corte Costituzionale, 18 ottobre 1995, n.
440.
508
organizzazione e di azione, o di giovarsi dell’applicazione delle norme, loro destinate, nei diversi
settori della società civile.
Il legislatore, cioè, non può operare discriminazioni tra confessioni religiose in base alla sola
circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o
intese150
, né introdurre trattamenti differenziati o chiaramente discriminatori in assenza di alcuna
valida e ragionevole giustificazione151
, soggetta, peraltro, ad uno stretto scrutinio di
costituzionalità152
.
150
Cfr., ex multis: Corte Costituzionale, 10 marzo 2016, n. 52; Corte Costituzionale, 16 luglio 2002, n. 346;
Corte Costituzionale, 27 aprile 1993, n. 195. Per un commento v. G. GUZZETTA, Non è l’“eguale libertà” a legittimare
l’accesso ai contributi regionali delle confessioni senza intesa, in Giur. cost., 2002, 4, 2624 ss.; M. MIELE, Edilizia di
culto tra discrezionalità “politica” e “amministrativa”, in Dir. eccles., 1995, 2, 366 ss.; L. BARBIERI, Sul principio di
ragionevolezza, eguaglianza e libertà delle confessioni religiose, in Dir. eccles., 1994, 1, 747 ss.; P. PIVA, Confessioni
religiose, eguaglianza e limiti alla legislazione urbanistica regionale, in Le Regioni, 1994, 1, 276 ss.; R. ACCIAI, La
sent. n. 195 del 1993 della Corte costituzionale e sua incidenza sulla restante legislazione regionale in materia di
finanziamenti all’edilizia di culto, in Giur. cost., 1993, 3, 2151 ss. In merito all’istituzione di un unico tavolo di
concertazione, costituito in vista della stipulazione di una sola intesa valevole nei confronti di tutti gli adepti ai diversi
culti interessati, nell’ottica del conseguimento del precipuo scopo di consentire l’affluenza, entro un sistema di
rappresentanza unitaria, degli interessi riferibili ad una pluralità di movimenti di ispirazione religiosa e/o confessionale,
v., ex multis: C. CARDIA, Intese (Dir. eccl.), in S. PATTI (a cura di), Il diritto. Enciclopedia giuridica del Sole 24 Ore,
Milano 2007, vol. VIII, 222; S. ANGELETTI, L’intesa tra lo Stato italiano e l’Unione Buddhista Italiana, Marzo 2004, in
http://www.olir.it/areetematiche/71/documents/Angeletti_IntesaUBI.pdf; N. COLAIANNI, L’intesa con i Buddhisti,
Aprile 2004, in http://www.olir.it/areetematiche/71/documents/Colaianni_buddisti.pdf. Nello stesso senso, con
particolare riferimento ai rapporti tra l’Italia e la Sacra Arcidiocesi Ortodossa d'Italia e Malta, v. V. PARLATO, La legge
n. 126 del 2012 relativa ai rapporti tra Italia e Sacra Arcidiocesi Ortodossa d'Italia e Malta, in Stato, Chiese e
pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 36/2012, 5 ss. 151
Certamente, «lo Stato può e deve, in effetti, valutare la situazione concreta delle singole confessioni. Può
decidere, ad es., che il ridottissimo consenso sociale di un culto (…) o l’assenza di una vera e propria organizzazione
stabile, non giustifichi la stipulazione di un’intesa che presuppone l’esistenza di un interlocutore strutturato socialmente
e giuridicamente. Altrettanto tenendo presenti le patologie confessionali che si sono manifestate qua e là nel mondo con
il proliferare di culti e confessioni, lo Stato può valutare discrezionalmente che per determinate organizzazioni, qualora
siano incorse in eventi gravi o delittuosi, o siano collegate con centrali straniere o internazionali a vario titolo
pericolose, non sia né opportuno né possibile addivenire a un accordo»: così C. CARDIA, Intese (Dir. eccl.), cit., in S.
PATTI (a cura di), Il diritto, cit., 228. Al contempo, però, lo Stato non può «trincerarsi dietro la difficoltà di elaborazione
della definizione di religione. Se dalla nozione convenzionale di religione discendono conseguenze giuridiche, è
inevitabile e doveroso che gli organi deputati se ne facciano carico, restando altrimenti affidato al loro arbitrio il
riconoscimento di diritti e facoltà connesse alla qualificazione»: così Corte di Cassazione, sez. un., 28 giugno 2013, n.
16305. 152
In assenza dell’intesa, la disciplina dei rapporti intercorrenti tra lo Stato ed una confessione religiosa, che si
professi tale anche indipendentemente da ogni riconoscimento formale, è rimessa, in massima parte, alla
regolamentazione contemplata all’interno della l. n. 1159/1929, allo stato ancora in vigore ancorché ritenuta
«discriminatoria ed illiberale» (M. CANONICO, Nuove leggi per vecchie intese, in Stato, Chiese e pluralismo
confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 30/2012, 2) e non più idonea a rappresentare la cornice
normativa entro cui far confluire compiutamente la varietà di manifestazioni del sentimento religioso maturata nel corso
dell’ultimo secolo. «Si pensi, in particolare, ai credenti solitari, non appartenenti a confessioni o appartenenti a
confessioni minuscole e perciò deboli contrattualmente, agli agnostici e agli atei (gruppi, questi, che in materia religiosa
sono verosimilmente maggioritari in una società ormai secolarizzata), ai quali tutti non si fa né un “uguale trattamento”
né soprattutto un “trattamento ugualitario”»: così N. COLAIANNI, Le intese nella società multireligiosa: verso nuove
disuguaglianze?, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 19/2012, 10.
Per una disamina del problema concernente il “trattamento diseguale” tra confessioni religiose a seconda che abbiano, o
meno, stipulato un’intesa con lo Stato, v. G. CASUSCELLI, Libertà religiosa collettiva, e nuove intese con le minoranze
confessionali, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), marzo 2008, 11 s.
Onde superare le sempre più stringenti censure mosse dalla più accorta dottrina in merito ad una normativa «non più al
passo coi tempi» (A. ALBISETTI, Le intese fantasma (a metà), in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista
telematica (www.statoechiese.it), n. 27/2012, 2), è stato avviato, già da tempo, un percorso teso all’introduzione di una
509
disciplina concernente la libertà religiosa e di coscienza che, nel pedissequo rispetto dei principi di fondo scolpiti
all’interno della Costituzione, sia in grado di risolvere le indicate criticità in vista dell’obiettivo di attenuare il divario,
afferente, in particolare, al differente trattamento giuridico, tra i diversi culti al fine di conferire eguali diritti per tutte le
confessioni religiose, anche in assenza di intese appositamente formalizzate. Siffatti intendimenti si sono concretizzati
in alcune proposte di legge, essenzialmente ispirate, pur nel quadro delle diverse soluzioni ed interpretazioni offerte, sia
ai principi di fondo scolpiti in materia di libertà all’interno delle Carte internazionali dei diritti, sia facendo propri «non
pochi contenuti delle intese già stipulate, in modo che anche le confessioni religiose “senza intesa” possano vedersi
riconosciuti diritti e prerogative che competono oggi alle confessioni legate ad un patto con lo Stato»: così C. CARDIA,
Intese (Dir. eccl.), cit., 229. Per una disamina delle proposte maturate in sede parlamentare e sviluppate, nel tempo,
dalla dottrina in ordine alla formulazione di un radicale processo di revisione dei rapporti tra Stato e confessioni
religiose sul piano delle competenze, delle procedure e dei contenuti, v. G. CASUSCELLI, Libertà religiosa collettiva, e
nuove intese con le minoranze confessionali, cit.; M. PARISI, Promozione della persona umana e pluralismo
partecipativo: riflessioni sulla legislazione negoziata con le confessioni religiose nella strategia costituzionale di
integrazione delle differenze, in Dir. eccl., 2004, 02, 389 ss.; L. DE GREGORIO, La legge generale sulla libertà
religiosa. Disegni e dibattiti parlamentari, in Università Cattolica del sacro cuore – Sede di Piacenza. Quaderni del
Dipartimento di Scienza Giuridiche. Quaderno n. 4/2010, in
http://www.olir.it/areetematiche/libri/documents/de_gregorio.pdf. Critico, in passato, si è mostrato sul punto, P.A.
D’AVACK, Intese. II) Diritto ecclesiastico: profili generali, in Enc. giur., XVII (1989), 2, e ciò «per due motivi
concorrenti: a) per il fatto, anzitutto… che il dettato costituzionale ha voluto una procedura bilaterale e una normativa
su basi pattizie per il regolamento rispettivo di tali confessioni e per i loro futuri rapporti con lo Stato; b) per il fatto
insieme che con tale dettato si è voluto operare un superamento di quello che era stato fino ad allora (come si è detto
con espressione pittoresca) “il coacervo anonimo degli indistinti”. Si è inteso cioè abbandonare una buona volta la
regolamentazione unica comune a tutte le confessioni diverse dalla cattolica, conglobate sotto la denominazione
omnicomprensiva di “culti ammessi”, per tenere invece giustamente conto delle loro specifiche connotazioni, caratteri
ed esigenze proprie rispettive e disciplinare ciascuna con intese singole in corrispondenza e conformità alle medesime».
Numerose perplessità sono state espresse anche da M. CANONICO, L’idea di una legge generale sulla libertà religiosa:
una prospettiva pericolosa e di dubbia utilità, in Dir. fam., 2010, 03, 1360 ss., secondo cui, tra l’altro, «l’emanazione di
una legge ordinaria sulla libertà religiosa, oltre ad incontrare il possibile ostacolo dell’art. 8, terzo comma, Cost.,
patirebbe il rischio di scarsa efficacia pratica, potendo essere in ogni tempo derogata da qualsiasi altro successivo atto
legislativo, salvo l’unico limite del rispetto dei precetti costituzionali». Per una compiuta disamina del complesso delle
problematiche emerse, nel corso degli anni, in ordine all’inerzia dello Stato italiano circa la mancata approvazione
parlamentare delle intese stipulate con l’Esecutivo, nonché, a monte, in relazione all’analisi dei contenuti delle intese
“ratificate” dal legislatore quali possibili fonti di trattamento discriminatorio rispetto ai culti soggetti alla vetusta
disciplina normativa risalente al 1929, v. A.S. MANCUSO, L’attuazione dell’art. 8.3 della Costituzione. Un bilancio dei
risultati raggiunti e alcune osservazioni critiche, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica
(www.statoechiese.it), 22 febbraio 2010, 1 ss. Caustica e pessimista (o, forse, semplicemente realista), si mostra, sul
punto, M.C. FOLLIERO, Dialogo interreligioso e sistema italiano delle Intese: il principio di cooperazione al tempo
della post-democrazia, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 28 giugno
2010, 12, secondo cui «è a tutti noto come sotto un’identica cattiva stella siano nati, per poi spiaggiare alla fine delle
diverse legislature, per poi rinascere alla successiva, un imprecisato numero di progetti legislativi sulla libertà
religiosa». Infine, sottolinea G. CASUSCELLI, Libertà religiosa collettiva, e nuove intese con le minoranze confessionali,
cit., 12, che «l’esito fallimentare del lungo cammino verso la legge comune a tutela delle libertà di religione e verso un
diritto pattizio non escludente, rispettoso delle identità delle minoranze confessionali, ha fatto nascere la tentazione in
taluno di dismettere l’abito mentale del gramsciano “provare e riprovare”».
510
Altro, infatti, è la libertà religiosa, garantita a tutti senza distinzioni, altro è il regime pattizio
che si basa sulla «concorde volontà del Governo e delle confessioni religiose di regolare specifici
aspetti del rapporto di queste ultime con l’ordinamento giuridico statale»153
.
Il “metodo della bilateralità”154
si innesta, in tal senso, nella direzione di riconoscere le
esigenze specifiche di ciascuna confessione religiosa155
, ovvero di concedere particolari vantaggi o,
eventualmente, di imporre specifiche limitazioni156
, ovvero ancora appare rivolto a dare rilevanza,
nell’ordinamento, a specifici atti ed esigenze peculiari del gruppo religioso157
, il cui
riconoscimento, tuttavia, dipende, in ultima analisi, dalla volontà delle parti158
e, in special modo,
dall’apprezzamento discrezionale rimesso, insindacabilmente, all’Esecutivo159
.
153
Cfr., ex multis: Corte Costituzionale, 10 marzo 2016, n. 52. 154
Per una ricostruzione del dibattito maturato in seno all’Assemblea Costituente circa la consistenza
assiologica e la latitudine applicativa del principio di bilateralità, v. G. LONG, Intese. III) Diritto ecclesiastico: intese
con le chiese rappresentate dalla Tavola Valdese, in Enc. Giur., XVII (1989), 1 ss. Invero, secondo C. CARDIA, Intese
(Dir. eccl.), cit., 219, la scelta effettuata dal Costituente di estendere il principio della bilateralità alle confessioni
religiose diverse dalla cattolica «ha un chiaro intento risarcitorio per le limitazioni e le discriminazioni subite nel regime
autoritario dalle confessioni non cattoliche. Al tempo stesso si propone come obiettivo quello di riequilibrare i rapporti
tra le confessioni e lo Stato, prevedendo anche per i culti non cattolici uno strumento pattizio in qualche modo
paragonabile al concordato». In merito ad una critica concernente l’effettiva qualificazione del metodo della
“bilateralità” alla stregua di principio fondamentale dell’ordinamento, v. A. RUGGERI, Fonti, norme, criteri ordinatori,
Torino 2005, 134. Per una disamina dei limiti al ricorso allo strumento negoziale nell’esperienza giuridica italiana alla
luce di una ricognizione delle aporie evidenziatesi, nel corso del tempo, nella prassi politico-legislativa, a partire
dall’entrata in vigore della Costituzione, v. D. BILOTTI, L’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR),
membro associato della International Humanist and Ethical Union, come soggetto stipulante un’intesa con lo Stato, ex
art. 8, III Cost., in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 11 luglio 2011, 1
ss. 155
Cfr. Corte Costituzionale, 13 luglio 1997, n. 235. Per un commento v. A. GUAZZAROTTI, L'esenzione
dall’invim decennale in favore degli istituti per il sostentamento del clero: un privilegio in cerca di giustificazione, in
Giur. Cost., 1997, 4, 2242 ss. 156
Cfr. Corte Costituzionale, 18 novembre 1958, n. 59. Per un commento v., ex plurimis: A. ALBISETTI, La
Corte costituzionale e i problemi del diritto ecclesiastico: formalismo giuridico e attuazione della costituzione, in Riv.
trim. dir. proc. civ., 1976, 586 ss.; F. FINOCCHIARO, Note intorno ai ministri di culto acattolici ed ai poteri dell’autorità
in relazione al diritto di libertà religiosa, in Dir. eccles., 1959, parte II, 27 ss.; C. ESPOSITO, Libertà e potestà delle
confessioni religiose, in Giur. cost., 1958, 897 ss. 157
Cfr., ex multis: Corte Costituzionale, 10 marzo 2016, n. 52; Corte Costituzionale, 16 luglio 2002, n. 346. 158
Esamina la possibilità di accertare, da un lato, in capo allo Stato e, in particolare, in capo al Governo, la
facoltà di addivenire, o meno, alla stipulazione di un’intesa con una data confessione religiosa, ovvero, a monte, di
avviare, o meno, le trattative ad essa eventualmente prodromiche, nonché «il diritto di continuare a mantenere immutato
lo status quo attuale, lasciando privo di realizzazione l’impegno normativo costituzionale - e, dall’altro lato - se da parte
delle singole confessioni si abbia o meno la possibilità giuridica di agire per l’attuazione del medesimo», P.A.
D’AVACK, Intese. II) Diritto ecclesiastico, cit., 1 ss. Per una disamina dei profili concernenti le questioni d’ordine
problematico connesse all’avvio del procedimento teso alla formalizzazione di un’intesa, nonché circa i limiti e le
condizioni al ricorrere delle quali ritenere impugnabile il provvedimento governativo di diniego eventualmente adottato,
v. F. BOTTI, Sui contenuti di una possibile Intesa con la Chiesa Ortodossa Romena in Italia, in Stato, Chiese e
pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 17 marzo 2008, 14 s.; N. COLAIANNI, Ateismo de
combat e intesa con lo Stato, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 1 ss. Altro e conseguente aspetto di rilievo è,
certamente, poi, la riconduzione in capo al Parlamento dell’obbligo, ovvero solo della facoltà, di esaminare il testo e
deliberare in ordine all’intesa intercorsa tra la singola confessione religiosa e l’Esecutivo. In merito, secondo M.
CANONICO, Nuove leggi per vecchie intese, cit., 7, «sarebbe auspicabile che, di fronte ad un impegno del governo, il
Parlamento comunque si pronunciasse, per trasfondere in legge il contenuto delle intese ovvero rigettarlo, indicandone
le ragioni al fine di consentire la possibilità di nuove trattative e accordi sulla base delle indicazioni fornite dal
legislatore». Circa i rapporti intercorrenti tra le intese stipulate dall’Esecutivo e la successiva legge “rinforzata” prevista
dall’art. 8 cost., v., ex plurimis: C. PISTAN, La libertà religiosa, in L. MEZZETTI (a cura di) Diritti e Doveri, Torino
511
2013, 459 ss.; S. ANGELETTI, La nuova intesa con l’Unione Buddhista Italiana: una doppia conforme per il Sangha
italiano, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 5 maggio 2008, 7 ss.; G.
CASUSCELLI, Concordati, Intese e Pluralismo Confessionale, Milano 1974, 238 ss.; C. CARDIA, Intese (Dir. eccl.), cit.,
220 ss.; A. RUGGERI, Fonti, norme, criteri ordinatori, cit., 131 ss. Invero, a monte, si pone la questione concernente la
titolarità del potere di iniziativa legislativa che, in materia, per lungo tempo, in base ad una consolidata prassi, si è
ritenuto fosse esclusiva prerogativa del Governo; di recente, però, è stato possibile assistere ad un mutamento di
indirizzo teso a riconoscere legittimità alla presentazione di una proposta di legge da parte di alcuni parlamentari. In
merito, per una compiuta disamina della questione, v. J. PASQUALI CERIOLI, Il progetto di legge parlamentare di
approvazione delle intese con le confessioni diverse dalla cattolica: nuovi orientamenti e interessanti prospettive, in
Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 22 marzo 2010, 1 ss. 159
Sul punto, v., da ultimo, Corte Costituzionale, 10 marzo 2016, n. 52. Per un’analisi della citata pronuncia,
v., ex plurimis: A. PIN, L'inevitabile caratura politica dei negoziati tra il Governo e le confessioni e le implicazioni per
la libertà religiosa, 6 aprile 2016, in www.federalismi.it, n. 7/2016; V. D. PORENA, Atti politici e prerogative del
governo in materia di confessioni religiose, 6 aprile 2016, in www.federalismi.it, n. 7/2016; A. RUGGERI, Confessioni
religiose e intese tra iurisdictio e gubernaculum, ovverosia l’abnorme dilatazione dell'area delle decisioni politiche non
giustiziabili (a prima lettura di Corte cost. n. 52 del 2016), 30 marzo 2016, in www.federalismi.it, n. 7/2016; A. POGGI,
Una sentenza ‘preventiva’ sulle prossime richieste di intese da parte di confessioni religiose?, 23 marzo 2016, in
www.federalismi.it, n. 6/2016; R. DICKMAN, La delibera del Consiglio dei ministri di avviare o meno le trattative
finalizzate ad una intesa di cui all’art. 8, terzo comma, Cost. è un atto politico insindacabile in sede giurisdizionale, 21
marzo 2016, in http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2016/01/nota_52_2016_dickmann.pdf.
Per un commento in merito a Corte di Cassazione, sez. un., 28 giugno 2013, n. 16305, sentenza in relazione alla quale è
sorto il conflitto di attribuzione da ultimo risolto da Corte Costituzionale, 10 marzo 2016, n. 52, v., ex multis: G. DI
MUCCIO, Atti politici ed intese tra lo Stato e le confessioni religiose non cattoliche: brevi note a Corte di cassazione,
Sez. Unite Civ., sentenza 28 giugno 2013, n. 16305, 9 ottobre 2013, in www.federalismi.it, n. 20/2013; J. PASQUALI
CERIOLI, Accesso alle intese e pluralismo religioso: convergenze apicali di giurisprudenza sulla “uguale libertà” di
avviare trattative ex art. 8 cost., terzo comma, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica
(www.statoechiese.it), 15 luglio 2013, 1 ss. Per una disamina della questione alla luce della giurisprudenza maturata
innanzi al giudice amministrativo v., ex plurimis: M. CANONICO, La stipulazione di intese con lo Stato: diritto delle
confessioni religiose o libera scelta del Governo?, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica
(www.statoechiese.it), 23 aprile 2012, 1 ss.; L. FASCIO, Le intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica tra
atti politici e discrezionalità tecnica dell’amministrazione. Il caso dell’UAAR (Unione degli Atei e degli Agnostici
Razionalisti), in Foro amm. CDS, 2012, 5, 1204 ss. In merito, sia consentito, infine, il rinvio a L. BUSCEMA, Atti politici
e principio di giustiziabilità dei diritti e degli interessi, in Rivista AIC, 1/2014, 21 febbraio 2014, 31 ss. Invero,
sottolineava, in passato, L. D’ANDREA, Eguale libertà ed interesse alle intese delle confessioni religiose: brevi note a
margine della sent. cost. n. 346/2002, in Dir. eccl., 2004, 2, 493, che «non può sfuggire lo stretto nesso che sussiste tra
l'obbligo di motivazione delle decisioni governative relative alla negoziazione dell'intesa e la tutela in sede
giurisdizionale degli interessi di tipo procedimentale vantati dalle confessioni religiose: evidentemente, proprio la
sussistenza, la sufficienza e la congruità della motivazione adotta da Governo rispetto agli atti di diniego o di chiusura
assunti di fronte alle richieste avanzate dalla confessione religiosa potranno essere oggetto del controllo di legalità del
giudice competente adito dalla stessa confessione. In realtà, la richiesta di una adeguata motivazione delle posizioni
assunte dal Governo e la conseguente esperibilità di un ricorso davanti ad un organo giudiziario si pongono quali
necessari corollari dell'esigenza di assicurare effettiva protezione giuridica alle pretese costituzionalmente riconosciute
in capo ad ogni gruppo religioso attivo all'interno della società italiana». Infine, danno conto della tesi che vorrebbe
consentire alle confessioni religiose di sollevare conflitto d’attribuzioni innanzi alla Corte Costituzionale a fronte di un
immotivato rifiuto del Governo di avviare le trattative, A. GUAZZAROTTI, Il conflitto di attribuzioni tra i poteri dello
Stato quale strumento di garanzia per le confessioni religiose non ammesse alle intese, in Giur. cost., 1996, 3928 ss.; L.
FASCIO, Le intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica, cit., 1212 s.
512
In quest’ottica, la “giuridicizzazione” del fenomeno religioso passa, di necessità, attraverso
un apprezzamento del grado di effettività del dettato costituzionale che, in materia di confessioni
religiose diverse da quella cattolica, contiene linee di indirizzo che sono state foriere, nel tempo, di
significative perplessità e che, tutt’oggi, rappresentano oggetto di dibattito con particolare
riferimento alla possibilità di accertare, da un lato, in capo allo Stato, «il diritto di continuare a
mantenere immutato lo status quo attuale, lasciando privo di realizzazione l’impegno normativo
costituzionale – e, dall’altro lato – se da parte delle singole confessioni si abbia o meno la
possibilità giuridica di agire per l’attuazione del medesimo»160
.
Così, la laicità161
, principio supremo162
che caratterizza in senso pluralistico la forma del
nostro Stato163
, «entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e
tradizioni diverse»164
, benché presupponga e richieda ovunque la distinzione fra la dimensione
temporale e quella spirituale, non si realizza in termini univoci nel tempo ed uniformi in seno alle
diverse comunità politiche, ma, pur nell’ambito di una medesima “civiltà”, si connota, al pari di
160
Così e per un approfondimento v. P.A. D’AVACK, Intese. II) Diritto ecclesiastico, cit., 1 ss. 161
In merito v., ex plurimis: M. D’AMICO, Laicità costituzionale e fondamentalismi tra Italia ed Europa:
considerazioni a partire da alcune decisioni giurisprudenziali, in Rivista AIC, 2015, 2, 1 ss.; G. BRUNELLI, La laicità
italiana tra affermazioni di principio e contraddizioni della prassi, in Rivista AIC, 2013, 1, 1 ss.; P. CARETTI, Il
principio di laicità in trent’anni di giurisprudenza costituzionale, in Dir. pubbl., 2011, 3, 761 ss.; N. COLAIANNI, Laici
e prevalenza delle fonti di diritto unilaterale sugli accordi con la chiesa cattolica, in Pol. dir., 2010, 2, 181 ss.; S.
PRISCO, Il principio di laicità nella recente giurisprudenza, 2007, in www.costituzionalismo.it, 1 ss.; L. GRAZIANO, I
riflessi nel tempo dell’azione della Corte costituzionale sulla disciplina normativa del fenomeno religioso, in Dir.
eccles., 1996, 1, 192 ss. 162
Cfr., ex multis: Corte Costituzionale, 13-20 novembre 2000, n. 508; Corte Costituzionale, 10 novembre
1997, n. 329; Corte Costituzionale, 27 aprile 1993, n. 195; Corte Costituzionale, 25 maggio 1990, n. 259; Corte
Costituzionale, 12 aprile 1989, n. 203. 163
In materia di pluralismo confessionale, con particolare riferimento ad una prospettiva di respiro europeo, v.,
ex multis: M. PARISI, Vita democratica e processi politici nella sfera pubblica europea. Sul nuovo ruolo istituzionale
delle organizzazioni confessionali dopo il Trattato di Lisbona, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista
telematica (www.statoechiese.it), n. 27/2013, 1 ss.; v. G. CASUSCELLI, Convenzione europea, giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’Uomo e sua incidenza sul diritto ecclesiastico italiano. Un’opportunità per la ripresa del
pluralismo confessionale?, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 19
settembre 2011, 1 ss. 164
Sul punto v. Corte Costituzionale, 13-20 novembre 2000, n. 508; Corte Costituzionale, 18 ottobre 1995, n.
440.
513
ogni fatto umano, per il tratto caratteristico della relatività, in conformità alla specifica
organizzazione istituzionale di ciascun ordinamento, essenzialmente legata al divenire ed
all’evoluzione di essa165
.
Ne deriva una regolamentazione finalizzata a tutelare la libertà di culto e di coscienza in
quanto tale166
, fermo restando, però, che il diritto inviolabile di professare un credo religioso non
possa giammai essere inteso «in guisa da contrastare e soverchiare l’ordinamento giuridico dello
Stato tutte le volte in cui questo imponga ai cittadini obblighi che, senza violare la libertà religiosa,
nel senso che è stato sopra definito, si assumano vietati dalla fede religiosa dei destinatari della
norma»167
.
2. Libertà di culto e professione di fede nel quadro del riparto delle attribuzioni tra Stato,
Regioni ed enti pubblici territoriali minori
La disciplina positivamente apprestata in relazione alla tutela del sentimento religioso è
stata, nel tempo, sotto più profili, connotata da censure di ordine lato sensu “culturale”, prima
ancora che strettamente giuridiche, che hanno posto all’attenzione dell’interprete l’esigenza di
impiegare adeguati criteri ermeneutici onde superare possibili frizioni tra libertà parimenti garantite
e tutelate che, in materia, si traducono in potenziali situazioni di incertezza dogmatica ed
165
«In modo diverso, ad esempio, dovendo essere intesa la laicità in Italia con riferimento allo Stato
risorgimentale, ove, nonostante la confessionalità di principio dello stesso, proclamata dallo Statuto fondamentale del
Regno, furono consentite discriminazioni restrittive in danno degli enti ecclesiastici, e con riferimento allo Stato
odierno, sorto dalla Costituzione repubblicana, ed ormai non più confessionale, ove però quelle discriminazioni non
potrebbero aversi»: così Consiglio di Stato, 13 febbraio 2006, n. 556. 166
«Poiché la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio creativo che rende possibile la
realtà delle libertà fondamentali dell'uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo
nella vita di relazione, essa gode di una protezione costituzionale commisurata alla necessità che quelle libertà e quei
diritti non risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento a causa di
preclusioni o di impedimenti ingiustificatamente posti alle potenzialità di determinazione della coscienza medesima»:
così Corte Costituzionale, 19 dicembre 1991, n. 467. Ciò significa che «se pure a seguito di una delicata opera del
legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di
realizzazione in modo da non arrecare pregiudizio al buon andamento delle strutture organizzative e dei servizi di
interesse generale, la libertà di coscienza - specie se correlata all'espressione dei propri convincimenti morali o filosofici
(art. 21 della Costituzione) ovvero… alla propria fede o credenza religiosa (art. 19 della Costituzione) - dev'essere
protetta in misura proporzionata "alla priorità assoluta e al carattere fondante" ad essa riconosciuta nella scala dei valori
espressa dalla Costituzione italiana»: così Corte Costituzionale, 03 dicembre 1993, n. 422. In merito, v., ex multis: A.
MUSUMECI, Obiezione di coscienza e giudizio di legittimità nell'ottica dei valori, in Giur. cost., 1992, 1, 463 ss.; J.
LUTHER, I diritti della coscienza in attesa di una nuova legge, in Giur. it., 1992, 4, parte I, sez. I, 629 ss. 167
Così Corte Costituzionale, 25 maggio 1963, n. 85.
514
assiologica, minando le basi di fondo del valore della tolleranza, vero e proprio principio
informatore del contemperamento tra posizioni fondamentali sì egualmente rilevanti, ma, prima
facie, irriducibili a sintesi e/o unità.
Si staglia, in questa direzione, il conflitto intercorrente tra il diritto di ciascuno di professare
il proprio credo religioso, in forma pubblica o privata, singolarmente o collettivamente, e la
sussistenza di superiori interessi pubblici il cui soddisfacimento necessita del perseguimento di un
bilanciamento tra valori suscettivo di poter sfociare in una compressione (rectius: conformazione)
dei diritti individuali a fronte di un preminente interesse generale.
Invero, manifestare i convincimenti religiosi in cui ciascuno si riconosce significa, in prima
battuta, esteriorizzare le proprie convinzioni mediante ogni possibile forma di comunicazione e/o
attraverso la partecipazione ai riti ed il compimento degli atti di fede, ovvero, non ultimo, per il
tramite anche della “proiezione all’esterno” di simboli ideologicamente caratterizzanti168
.
168
In ordine al dibattito insorto con riferimento all’esposizione del crocifisso all’interno delle aule scolastiche
o giudiziarie, v., ex plurimis: F. PATRUNO, La laicità relativa e l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche: a
proposito della sentenza della Grande Chambre sull' affaire Lautsi, in Giur. Merito, 2012, 06, 1262 ss.; V. TURCHI, La
pronuncia della Grande Chambre di Strasburgo sul caso Lautsi c. Italia: post nubila Phoebus, in Dir. fam., 2011, 4,
1561 ss.; A. DI LALLO, Il crocifisso: simbolo religioso in chiesa, simbolo civile a scuola e nei tribunali, in Diritto e
Giustizia online, 2011, 63 ss.; M. LUGATO, Simboli religiosi e Corte europea dei diritti dell'uomo: il caso del crocifisso,
in Riv. dir. internaz., 2010, 2, 402 ss.; S. MANCINI, La supervisione europea presa sul serio: la controversia sul
crocifisso tra margine di apprezzamento e ruolo contro-maggioritario delle corti, in Giur. cost., 2009, 5, 4055 ss.; S.
LARICCIA, Poco coraggio e molte cautele in una sentenza della Corte di cassazione sul tema della presenza dei simboli
religiosi nelle aule di giustizia, in Giur. cost., 2009, 3, 2133 ss.; F. MENNILLO, Il Crocifisso nelle scuole elementari
pubbliche: libertà di insegnamento, "sovranità" del Consiglio di interclasse e laicità dello Stato, in Dir. fam., 2007, 2,
637 ss.; A. MORELLI, Se il crocifisso è simbolo di laicità L'ossimoro costituzionale è servito, in DeG - Dir. e giust.,
2006, 10, 66 ss.; G. ZITO, Legalità “in croce”? Crocifisso e gerarchia delle fonti, in Dir. fam., 2006, 1, 296 ss.; P.
CAVANA, La questione del crocifisso nella recente giurisprudenza, in Dir. fam., 2006, 1, 270 ss.; A. PUGIOTTO,
Verdetto pilatesco sul crocifisso in aula - Dopo l'ordinanza si naviga a vista, in DeG - Dir. e giust., 2005, 3, 80 ss.; G.
DALLA TORRE, Dio o Marianna? Annotazioni minime sulla questione del crocifisso a scuola, in Giust. civ., 2004, 2,
510 ss.; P. STEFANÌ, Il crocifisso e la laicità dello stato, in Dir. fam., 2004, 3-4, 840 ss.; M. CANONICO, Il crocifisso
nelle aule scolastiche: una questione ancora aperta, in Dir. eccl., 2004, 2, 259 ss.; A. GIGLI, S. GATTAMELATA, Il
crocifisso: valore universale di un arredo scolastico, in Giur. cost., 2004, 6, 4309 ss.; A. ODDI, La Corte costituzionale,
il crocifisso e il gioco del cerino acceso, in Giur. cost., 2004, 6, 4306 ss.; F. RIMOLI, La Corte, la laicità e il crocifisso,
ovvero di un appuntamento rinviato, in Giur. cost., 2004, 6, 4300 ss.; G. GEMMA, Esposizione del crocifisso nelle aule
scolastiche: una corretta ordinanza di inammissibilità, in Giur. cost., 2004, 6, 4292 ss.; D. COLASANTI, Crocifisso: il
dubbio si poteva risolvere in via interpretativa, in DeG - Dir. e giust., 2004, 5, 84 ss.; S. BARAGLIA, Il crocifisso nelle
aule delle scuole pubbliche: una questione ancora aperta, in Giur. cost., 2004, 3, 2130 ss. In merito al diverso
problema concernente l’insegnamento della religione cattolica e lo stato di “non obbligo” riconosciuto in favore dei
discenti, v., ex multis: B. SERRA, Sul diritto di scegliere insegnamenti religiosi nella scuola pubblica, in Foro amm.,
2014, 4, 1233 ss.; P. MOROZZO DELLA ROCCA, Responsabilità genitoriale e libertà religiosa, in Dir. fam., 2012, 4, 1707
ss.; P. CAVANA, Insegnamento della religione e attribuzione del credito scolastico, in Dir. fam., 2010, 1, 171 ss.; P.
LILLO, Libertà del minore nella sfera educativa e religiosa, in Dir. fam., 2009, 4, 1921 ss.; M. PARISI, Formazione
civile e formazione religiosa: la questione delle “scuole di tendenza” e l’Islam, in Dir. fam., 2008, 3, 1458 ss.; M.
PARISI, Parità scolastica, educazione religiosa e scuole islamiche: problemi e prospettive, in Dir. fam., 2007, 4, 1967
ss.; M. PARISI, Simboli e comportamenti religiosi all’esame degli organi di Strasburgo. Il diritto all’espressione
dell’identità confessionale tra (presunte) certezze degli organi sovranazionali europei e (verosimili) incertezze dei
pubblici poteri italiani, in Dir. fam., 2006, 3, 1415 ss.
515
Quid iuris se l’impiego di tali rappresentazioni può in concreto pregiudicare (o, comunque,
semplicemente esporre a pericolo) l’interesse generale?
Esemplare è, in tal senso, l’utilizzo dello chador ovvero del burqua in ossequio alla
tradizione religiosa musulmana ed il conseguente potenziale vulnus alla sicurezza pubblica
(correlato alla violazione del divieto di circolare mascherati) che ne può derivare.
Ricorre, in siffatte ipotesi, la necessità di vagliare la legittimità di provvedimenti che,
proprio in vista della tutela della pubblica sicurezza, proibiscano di indossare tali simboli religiosi
in luoghi pubblici e/o aperti al pubblico, espressamente includendo tra i «mezzi atti a rendere
difficoltoso il riconoscimento della persona» appunto anche «il velo che copre il volto»169
.
Del pari, può emergere la necessità di assoggettare lo svolgimento di funzioni, cerimonie e
pratiche religiose, aperte al pubblico, al di fuori dei luoghi destinati al culto, a particolari oneri
informativi, concernenti le modalità di svolgimento delle stesse, onde perseguire l’obiettivo di
salvaguardare l’ordine pubblico e la pubblica incolumità170
.
Controverso è, poi, il rapporto tra esercizio della libertà di culto in forma associata e
l’esplicazione della potestà amministrativa in materia di pianificazione urbanistica, in special modo
allorquando si sovrappongano istanze di tutela di posizioni di libertà (fondamentali) la cui
169
Cfr., ex multis: Corte europea diritti dell'uomo, sez. V, 30 giugno 2009, n. 43563; Tribunale Cremona, 27
novembre 2008; Consiglio di Stato, sez. VI, 19 giugno 2008, n. 3076; T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, Trieste, 16 ottobre
2006, n. 645; Cassazione penale, sez. III, 09 marzo 2006, n. 11919. Per un commento, v., ex plurimis: G. SEVERINI,
Libertà religiosa e uso dei simboli religiosi, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2015, 1, 49 ss.; P. PALERMO, Parità coniugale e
famiglia multiculturale in italia, in Dir. fam., 2012, 4, 1869 ss.; A. PROVERA, Il “giustificato motivo”: la fede religiosa
come limite intrinseco della tipicità, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2010, 2, 964 ss.; S.P. BRACCHI, La “burqa” nelle aule
di giustizia, in Fam. pers. succ., 2009, 912 ss.; N. FOLLA, L’uso del burqa non integra reato, in assenza di una
previsione normativa espressa Sulla questione del velo islamico, in Corr. merito, 2009, 294 ss.; C. RUGA RIVA, Il
lavavetri, la donna col burqa e il Sindaco. Prove atecniche di “diritto penale municipale”, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2008, 141; V. GRECO, Il divieto di indossare il velo islamico: tutela della sicurezza o strumento di lotta politica?
Quando il sindaco eccede i suoi poteri, in Giur. merito, 2007, 9, 2426 ss.; F. MINNITI, M. MINNITI, Tra libertà religiosa
e ordine pubblico. Sindaco ko alla guerra del velo islamico, in Diritto e Giustizia, 2006, 44, 108 ss. 170
Cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, 15 gennaio 2010, n. 19, secondo cui «ogni limitazione del diritto di
riunione (per ragioni di sicurezza e per la difesa di diritti pariordinati, quale quello di circolazione e di salvaguardia del
patrimonio artistico) deve essere considerata eccezionale, sia con riferimento agli spazi da sottrarre all’esercizio di tale
diritto, sia con riferimento ai soggetti pubblici che siffatte limitazioni possono imporre». Per un approfondimento v. G.
CERESETTI, Diritti di libertà ed ordinanze contingibili ed urgenti: primi spunti di riflessione, in Foro Amm., T.A.R.,
2009, 12, 3409 ss. Sul punto v. anche R. BIN, G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, cit., 528.
516
salvaguardia compete non (tanto e) solo ad enti pubblici territoriali, bensì investe interessi primari
dell’intera comunità statale.
In merito, si osserva, pur non sussistendo in capo alla pubblica amministrazione uno
specifico obbligo di prevedere una compiuta e puntuale destinazione urbanistica da imprimere ad
aree da riservare all’esclusiva realizzazione di edifici e strutture destinate al culto – non rinvenibile
né nella legislazione nazionale, né in quella regionale – non può dubitarsi che siffatte attività
rientrino sicuramente tra quelle sociali e di promozione umana171
.
In tale contesto, la posizione delle diverse confessioni religiose172
va considerata in quanto
preordinata alla soddisfazione dei bisogni religiosi dei cittadini – e, cioè, in funzione di un effettivo
godimento del diritto di libertà religiosa, che comprende l’esercizio pubblico del culto professato –
e, in ragione di ciò, va, quindi, su basi paritarie, tendenzialmente assicurata sia l’assegnazione di
aree deputate allo svolgimento delle cerimonie e/o funzioni religiose, sia l’accesso ai contributi
finanziari che lo Stato, ovvero gli enti locali, decidano di erogare.
Sotto tale ultimo profilo, in particolare, il criterio guida che deve informare l’accertamento
del possesso dei requisiti utili per fruire delle sovvenzioni va ancorato non necessariamente ad un
dato meramente formale, quale può essere, ad esempio, la stipula di una intesa ex art. 8 cost., bensì,
in mancanza di questa, ad un riscontro sostanziale di modo che «la natura di confessione potrà
risultare anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i
caratteri, o comunque dalla comune considerazione»173
.
In concreto, ferma restando la natura di confessione religiosa, l’attribuzione dei contributi
previsti dalla legge per gli edifici destinati al culto non potrà che essere correlata all’effettiva
consistenza ed incidenza sociale della confessione richiedente e viepiù condizionata all’accettazione
da parte della medesima delle relative condizioni e vincoli di destinazione, «valutando tutti i
171
Cfr. T.A.R. Sicilia, Palermo, 27 marzo 2008, n. 411. 172
Per una compiuta disamina della nozione di “confessione religiosa” alla luce del disposto dettato dall’art. 8
cost., v., ex multis: V. TOZZI, Le confessioni prive di intesa non esistono, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale,
Rivista telematica (www.statoechiese.it), 10 gennaio 2011, 1 ss.; A. MANTINEO, Associazioni religiose e “nuovi
movimenti” religiosi alla prova del diritto comune in Italia e del diritto comunitario, in Stato, Chiese e pluralismo
confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 12 ottobre 2009, 1 ss.; V. TOZZI, Dimensione pubblica del
fenomeno religioso e collaborazione delle confessioni religiose con lo Stato, in Stato, Chiese e pluralismo
confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 28 settembre 2009, 9 ss.; G. PEYROT, Confessioni religiose
diverse dalla cattolica, in N.ss. Dig. Disc. Pubbl., III vol., Torino 1989, 355 ss. 173
Così Corte Costituzionale, 27 aprile 1993, n. 195.
517
pertinenti interessi pubblici e riconoscendo adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio
dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di
culto riscontrate nella popolazione»174
.
Se è vero, infatti, che il superamento della contrapposizione fra la religione cattolica, «sola
religione dello Stato», e gli altri culti “ammessi” (sancito dal punto 1 del Protocollo addizionale
all’Accordo del 1984 che modifica il Concordato lateranense)175
, renderebbe ormai inaccettabile
ogni tipo di discriminazione che si basi soltanto sul maggiore o minore numero degli appartenenti
alle varie confessioni religiose176
, ciononostante, in sede di attuazione della normativa di rango
primario, si ritiene legittimo, perché intrinsecamente ragionevole177
, ripartire le somme disponibili
in ossequio a criteri che espressamente si riferiscono ora alla consistenza delle confessioni
174
Così Corte Costituzionale, 24 marzo 2016, n. 63. 175
Per una disamina particolarmente approfondita della genesi e della natura giuridica del concordato
ecclesiastico, v. P.A. D’AVACK, Concordato ecclesiastico, in Enc. dir. VIII (1961), 441 ss. In merito alla
configurazione giuridica degli accordi concordatari ed al loro collegamento strutturale e concettuale con i trattati
internazionali, v. G. CAROBENE, Il concordato come modello di analisi normativa nell’evoluzione degli ultimi
trent’anni di relazioni Stato - Chiesa, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica
(www.statoechiese.it), 22 marzo 2010, 7 ss. 176
«L’abbandono del criterio quantitativo significa che in materia di religione, non valendo il numero, si
impone ormai la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la
confessione religiosa di appartenenza. Il primo comma dell'art. 8 della Costituzione trova così la sua piena
valorizzazione»: così Corte Costituzionale, 28 luglio 1988, n. 925. 177
Sul principio (o criterio) di ragionevolezza, v., ex plurimis: A. CELOTTO, Razionalità vs. ragionevolezza nel
controllo di costituzionalità (a margine di un concorso dichiarato incostituzionale per la terza volta), in Giur. cost.,
2012, 5, 3714 ss.; A. BUONFINO, Il «servitore infedele». Notazioni sistematiche sulla proporzionalità delle sanzioni
disciplinari tra canone di ragionevolezza e prestigio istituzionale, in Dir. proc. amm., 2012, 2, 671 ss.; S. PATTI, La
ragionevolezza nel diritto civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 1, 1 ss.; F. MODUGNO, La ragionevolezza nella
giustizia costituzionale, Napoli 2007, 33 ss.; O. DI GIOVINE, Il sindacato di ragionevolezza della Corte Costituzionale
in un caso facile, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 1, 100 ss.; L. D’ANDREA, Ragionevolezza e legittimazione del sistema,
Milano 2005; M. GIAMPIERETTI, Tre tecniche di giudizio in una decisione di ragionevolezza, in Giur. cost., 1998, 1, 168
ss.; L. PALADIN, Ragionevolezza (principio di), in Enc. dir., I Vol. (aggiornamento), 1997, 899 ss.; J. LUTHER,
Ragionevolezza delle leggi, in Dig. disc. pubbl., XII vol., Torino 1997, 341 ss.; A. MOSCARINI, Ratio legis e valutazioni
di ragionevolezza della legge, Torino 1996; A. CERRI, Ragionevolezza delle leggi, in Enc. giur., XXV (1994), 1 ss.; A.
ANZON, Modi e tecniche del controllo di ragionevolezza, in AA. VV., La giustizia costituzionale a una svolta, Torino
1991, 31 ss.; C. LAVAGNA, Ragionevolezza e legittimità costituzionale, in ID. (a cura di), Ricerche sul sistema
normativo, Milano 1984, 650 ss.; A. CERRI, L'eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Milano
1976; A.S. AGRÒ, Art. 3, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, I, Bologna-Roma 1975, 133 ss.
518
richiedenti178
, ora al loro peso sociale179
, ora proporzionalmente alla loro diffusione sul territorio ed
alla loro incidenza sociale180
.
Al riguardo, assurge in ogni caso a parametro assiologico informatore dell’agere
dell’amministrazione il divieto di discriminazione onde assicurare «l’eguaglianza dei singoli nel
godimento effettivo della libertà di culto, di cui l’eguale libertà delle confessioni di organizzarsi e di
operare rappresenta la proiezione necessaria sul piano comunitario»181
.
Non è, invece, consentito al legislatore (anche regionale) introdurre disposizioni che
ostacolino o compromettano la libertà di religione, ad esempio prevedendo condizioni differenziate
per l’accesso al riparto dei luoghi di culto182
.
Difatti, nel governare la composizione dei diversi interessi che insistono sul territorio, è ben
possibile dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e realizzazione di luoghi di culto,
senza che, però, vengano imposti, in ossequio «a forti e qualificate esigenze di eguaglianza»183
,
requisiti differenziati, e più stringenti, per le sole confessioni per le quali non sia stata stipulata e
approvata con legge un’intesa ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost.184
.
Pertanto, laddove lo Stato, ovvero gli enti pubblici territoriali, ritengano di intervenire,
ciascuno in riferimento alle proprie attribuzioni, con una regolamentazione comune, qual è quella
urbanistica, per agevolare la realizzazione di attrezzature e di edifici destinati al culto, l’esclusione
178
Cfr. Contributi sugli oneri di urbanizzazione a favore degli enti religiosi per gli edifici destinati al culto.
Interventi regionali per il recupero degli edifici di culto aventi importanza storica, artistica od archeologica,
pubblicato sul B.U.R. della Regione Lazio 20-03-1990, n. 8. 179
Cfr. Delibera del Comune di Sesto San Giovanni del 14 marzo 1997. 180
Cfr. Avviso Pubblico del Comune di Monte Silvano del 10 novembre 2008. In tale contesto, si osserva che
«l’apertura di luoghi di culto, in quanto forma e condizione essenziale per il pubblico esercizio dello stesso, pertanto,
non può essere condizionato a una previa regolazione pattizia, ai sensi degli artt. 7 e 8, terzo comma, Cost.: regolazione
che può ritenersi necessaria solo se e in quanto a determinati atti di culto vogliano riconnettersi particolari effetti civili»:
così Corte Costituzionale, 18 novembre 1958, n. 59. Di conseguenza, «in materia di edilizia di culto, “tutte le
confessioni religiose sono idonee a rappresentare gli interessi religiosi dei loro appartenenti” e la previa stipulazione di
un’intesa non può costituire “l’elemento di discriminazione nell’applicazione di una disciplina, posta da una legge
comune, volta ad agevolare l’esercizio di un diritto di libertà dei cittadini”, pena la violazione del principio affermato
nel primo comma dell’art. 8 Cost., oltre che nell’art. 19 Cost.». Cfr. Corte Costituzionale, 24 marzo 2016, n. 63; Corte
Costituzionale, 27 aprile 1993, n. 195. 181
Cfr. Corte Costituzionale, 16 luglio 2002, n. 346. 182
«Poiché la disponibilità di luoghi dedicati è condizione essenziale per l’effettivo esercizio della libertà di
culto, un tale tipo di intervento normativo eccederebbe dalle competenze regionali, perché finirebbe per interferire con
l’attuazione della libertà di religione, garantita agli artt. 8, primo comma, e 19 Cost., condizionandone l’effettivo
esercizio»: così Corte Costituzionale, 24 marzo 2016, n. 63. 183
Così Corte Costituzionale, 24 marzo 2016, n. 63. 184
Cfr. Corte Costituzionale, 24 marzo 2016, n. 63.
519
da tali benefici di una confessione religiosa in dipendenza dello “status” della medesima (e, cioè, in
relazione alla sussistenza, o meno, delle condizioni di cui al secondo e terzo comma dell'art. 8 della
Costituzione), viene a integrare una violazione dei principi di uguaglianza e di libertà di tutte le
confessioni innanzi alla legge185
.
In tale contesto, atteso che la disciplina della pianificazione urbanistica dei luoghi di culto
attiene senz’altro al «governo del territorio»186
, ai fini di una compiuta valutazione del rispetto dei
criteri di riparto delle competenze tra enti pubblici territoriali, si dimostra indispensabile identificare
correttamente gli interessi tutelati187
, nonché le finalità perseguite188
.
In merito, ad esempio, ai concreti rapporti intercorrenti tra pianificazione urbanistica ed aree
e strutture deputate o, comunque, anche solo in via di fatto, destinate all’esercizio del culto, più
volte la giurisprudenza si è dovuta misurare con l’esigenza di conformare la libertà sancita ex art. 19
Cost. in ossequio al preminente interesse pubblico correlato all’armonioso sviluppo del territorio189
.
185
Cfr. Corte Costituzionale, 27 aprile 1993, n. 195. 186
Cfr., ex plurimis: Corte Costituzionale, 14 novembre 2013, n. 272; Corte Costituzionale, 29 maggio 2013, n.
102; Corte Costituzionale, 23 gennaio 2013, n. 6. 187
Così Corte Costituzionale, 24 marzo 2016, n. 63. In merito v. anche T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 08
novembre 2013, n. 2485, secondo cui gli enti pubblici territoriali sono legittimati a disciplinare ambiti materiali che
hanno risvolti solo di natura urbanistica ed edilizia, non potendo le autorità locali incidere su aspetti che attengono
squisitamente alle pratiche di culto o ad altri elementi direttamente espressivi della libertà religiosa garantita dall’art. 19
Cost. 188
Cfr., ex multis: Corte Costituzionale, 9 luglio 2015, n. 140; Corte Costituzionale, 11 giugno 2014, n. 167;
Corte Costituzionale, 9 maggio 2014, n. 119. 189
Per ciò che concerne la legittimazione ad impugnare, in sede giurisdizionale, i provvedimenti assentivi in
materia urbanistica, la giurisprudenza è solita richiamare e verificare la sussistenza dell’ormai pacifico criterio della
vicinitas, ovvero della potenziale interferenza tra l’interesse sotteso al rilascio del titolo edilizio e il controinteresse
riferibile al ricorrente che, per motivi di residenza e/o lavoro (ovvero con riferimento ad ulteriori interessi qualificati),
possa subire un pregiudizio (o, comunque, una illegittima pretermissione delle proprie posizioni giuridicamente
rilevanti), a fronte della realizzanda attività edificatoria. Così, «a fini dell’impugnazione di una concessione edilizia,
deve ritenersi che la condizione dell’azione rappresentata dalla “vicinitas”, ossia da uno stabile collegamento tra il
ricorrente e la zona interessata dall’intervento assentito, vada valutata alla stregua di un giudizio che tenga conto della
natura e delle dimensioni dell’opera realizzata, della sua destinazione, delle sue implicazioni urbanistiche ed anche delle
conseguenze prodotte dal nuovo insediamento sulla “qualità della vita” di coloro che per residenza, attività lavorativa e
simili, sono in durevole rapporto con la zona in cui sorge la nuova opera». Così Consiglio di Stato, 31 maggio 2007, n.
2849. Sul punto v. anche T.A.R. Emilia-Romagna, Parma, 26 novembre 2009, n. 792, secondo cui «occorre ricordare
che, per costante giurisprudenza, lo stabile collegamento territoriale con la zona interessata dall’attività edilizia assentita
deve essere tale che possa configurarsi, in concreto, la lesione attuale di uno specifico interesse di natura urbanistico-
edilizia nella sfera dell’istante, quale diretta conseguenza della realizzazione dell’intervento contestato». In merito, v.,
inoltre, T.A.R. Liguria, Genova, 30 aprile 2010, n. 2041; TAR Campania, Napoli, 21 luglio 2006, n. 7650. In termini
generali, in giurisprudenza, v., da ultimo: Consiglio di Stato, sez. IV, 08 settembre 2015, n. 4176; Consiglio di Stato,
sez. VI, 18 giugno 2015, n. 3122; T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 04 giugno 2015, n. 795; T.A.R. Puglia, Lecce, sez.
III, 11 maggio 2015, n. 1495; Consiglio di Stato, sez. IV, 07 maggio 2015, n. 2324; Consiglio di Stato, sez. IV, 19
marzo 2015, n. 1444; T.A.R. Emilia-Romagna, Parma, sez. I, 13 marzo 2015, n. 75; T.A.R. Toscana, Firenze, sez. I, 14
gennaio 2015, n. 69; Consiglio di Stato, sez. VI, 05 gennaio 2015, n. 11; Consiglio di Stato, sez. IV, 24 novembre 2014,
n. 5818. In dottrina, v., ex plurimis: A. MAESTRONI, La vicinitas quale condizione per l'azione; paletti interpretativi in
relazione alla questione della necessità della prova effettiva di un danno attuale e concreto in capo al gruppo di
cittadini ricorrente, in Riv. giur. amb., 2014, 5, 557 ss.; A. MAESTRONI, Sussidiarietà orizzontale e vicinitas, criteri
complementari o alternativi in materia di legittimazione ad agire?, in Riv. giur. amb., 2011, 3-4, 52 ss.; L. MARTINEZ,
Finis vicinitas ed interesse a ricorrere: il diritto di proprietà privata si estende sino alla tutela della servitù di
panorama incisa da un provvedimento di localizzazione di opera pubblica., in Foro amm. TAR, 2003, 12, 3498 ss.; P.
RAMBILLA, L'impugnativa dei provvedimenti ambientali di localizzazione: i nuovi vincoli giurisprudenziali della
520
Sul punto, non può non rilevarsi che l’edificio di culto rientri tra le attrezzature “pubbliche"
o “collettive”, cui sono destinate “adeguate aree”, individuate in sede di formazione degli strumenti
urbanistici generali.
In tale contesto, l’esercizio delle tradizionali facoltà proprietarie risulta limitato nel vigente
sistema della pianificazione, nel quale, com’è noto, spetta al pubblico potere (in specie al Comune)
governare ed ordinare il territorio, con l’obiettivo di programmare razionalmente ed indicare
(anche) quelle zone in cui si collocano le attività di interesse collettivo, con conseguente
conformazione dello “ius aedificandi”190
con riguardo alla possibilità di assentire (ovvero denegare)
la realizzazione di infrastrutture connotate da un evidente impatto sul territorio191
.
Problemi applicativi possono sorgere, poi, parimenti, con riferimento ad interventi capaci di
incrementare (pur in assenza di nuovi edifici) il carico urbanistico di strutture già realizzate al di là
dei limiti previsti dalla disciplina (regolamentare e pianificatoria) di settore, mediante un illegittimo
mutamento della destinazione d’uso di aree o immobili preesistenti192
.
legittimazione e dell'interesse ad agire dalla nozione di “vicinitas” a quella di “collegamento stabile”, in Riv. giur.
amb., 2002, 1, 81 ss. 190
Cfr. Consiglio di Stato, 14 dicembre 2004, n. 8026. 191
Cfr. Consiglio di Stato, 14 dicembre 2004, n. 8026. In questa direzione, è stato osservato, se, in passato,
parte della giurisprudenza ha ritenuto che la destinazione agricola di un’area non fosse «di per sé di ostacolo alla
realizzazione di edifici di culto, considerato che tutte le opere di urbanizzazione, primaria e secondaria, possono essere
realizzate, corrispondendo ad interessi pubblici che il Comune è chiamato a valutare congiuntamente con quelli sottesi
alle singole previsioni di destinazione urbanistica, in ogni area del territorio comunale» (Consiglio di Stato, 13
dicembre 2005, n. 7078), più di recente, è stata diversamente sostenuta la legittimità del diniego «dell’Amministrazione
comunale alla realizzazione di una “cappelletta votiva” su di un’area destinata a verde agricolo». Così T.R.G.A.
Trentino Alto Adige, Bolzano, 15 maggio 2008, n. 172. Nel caso di specie, il giudice adito ha ritenuto infondata la
doglianza secondo la quale la destinazione a verde agricolo di un’area non costituirebbe valido motivo per impedire la
realizzazione di un edificio di culto che, quale opera di “infrastrutturazione secondaria”, risponderebbe ad un interesse
pubblico primario dell’amministrazione comunale e, pertanto, non potrebbe essere assoggettato, né subordinato, alle
destinazioni urbanistiche impresse dal piano regolatore generale. 192
Cfr. T.R.G.A. Trentino Alto Adige, Bolzano, 30 marzo 2009, n. 116. In merito, si osserva, in materia di
edilizia, il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico, atteso che nel loro ambito possono aversi mutamenti di fatto ma non diversi
regimi urbanistico/costruttivi, stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell’ambito della medesima
categoria; pertanto, un cambio di destinazione d’uso strutturale non consentito dalla disciplina urbanistica comporta una
variazione in aumento dei carichi urbanistici che impone una adeguata dotazione di standard urbanistici. In tal senso, v.
Consiglio di Stato, sez. IV, 08 gennaio 2016, n. 35.
521
Invero, il mutamento di destinazione rilevante ai fini in discorso è quello che altera, sia pure
senza opere, la funzione originaria dell’immobile, al fine di adibirlo, in via permanente, ad una
destinazione, diversa da quella originariamente assentita, che gli viene in via di fatto assegnata193
.
In tale contesto, però, è stato osservato che, laddove la disciplina (regionale) di settore sia
palesemente volta, per la sua collocazione e la sua ratio, al controllo di mutamenti di destinazione
d’uso idonei, per l’afflusso di persone o di utenti, a creare centri di aggregazione (chiese, moschee,
centri sociali, ecc.) aventi come finalità principale o esclusiva l’esercizio del culto religioso, che
richiedono la verifica delle dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a detta destinazione194
,
non sembra che un uso meramente episodico di una struttura ai fini dello svolgimento di funzioni
religiose possa, in concreto, violare le prescrizioni normative dettate in materia urbanistica e,
quindi, integrare un illecito edilizio195
.
Ovviamente, le prerogative riconosciute agli enti pubblici territoriali in materia di governo
del territorio non consentono di esercitare un potere di apprezzamento circa la qualificazione delle
confessioni religiose in luogo dello Stato196
, ma riservano alle amministrazioni locali una
193
Invero, accorta giurisprudenza ha avuto modo di precisare che l’intervento edilizio che comporti una
variazione di destinazione d’uso può essere correttamente inquadrato soltanto se si prende a riferimento quanto riportato
negli elaborati tecnici (T.R.G.A. Trentino Alto Adige, Trento, 7 maggio 2009 n. 150), talché le concrete caratteristiche
dei locali – cioè l’obiettiva idoneità di larga parte della struttura ad ospitare riti religiosi – è in sé sufficiente a farne
ravvisare la prevalente destinazione a luogo di culto indipendentemente e a dispetto dalle intenzioni espresse dagli
interessati e finalizzate a “rappresentare” la compatibilità dell’attività esercitata rispetto alla destinazione impressa in
sede di pianificazione comunale. Sul punto, v. T.A.R. Emilia-Romagna, Parma, 26 novembre 2009, n. 792. Per un
commento, v. G. MONACO, Parametri per l'individuazione della destinazione d'uso ed inderogabilità delle prescrizioni
del p.r.g. in materia di destinazioni di zona, in Riv. giur. edilizia 2010, 2, 508 ss. 194
Cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 22 settembre 2011, n. 1320. 195
Parimenti è da dire circa l’uso di fatto dell’immobile in relazione alle molteplici attività umane che il
titolare è libero di esplicare, «non potendosi qualificare, ai predetti fini, “luogo di culto” un centro culturale o altro
luogo di riunione nel quale si svolgano, privatamente e saltuariamente, preghiere religiose»: così T.A.R. Lombardia,
Milano, 25 ottobre 2010, n. 7050. La destinazione d’uso impressa a determinati locali dal titolo autorizzativo non
riguarda, infatti, le attività umane che vi si svolgono, ossia i c.d. usi di fatto. Sul punto v. Consiglio di Stato, 23 febbraio
2000, n. 949; Consiglio di Stato, 28 gennaio 1997, n. 77. In questa direzione, si osserva, «il fatto che all’interno
dell’edificio, adibito a casa delle religiose, sia stata realizzata una cappella per l’esercizio del culto non comporta che
l’immobile abbia ricevuto una destinazione non residenziale». Così T.A.R. Liguria, Genova, 21 novembre 2005, n.
1495. Così, l’utilizzo della propria residenza per riunioni di adepti, a scopo religioso, culturale, associativo in genere,
non è di per sé sufficiente a configurare un illecito edilizio, né lo è lo svolgimento saltuario di pratiche di culto in un
luogo strutturato e destinato ad abitazione. In tal senso v. T.A.R. Lombardia, Milano, 17 settembre 2009, n. 4665. 196
Invero, «in assenza di una legge che definisca la nozione di “confessione religiosa”, e non essendo
sufficiente l’auto-qualificazione, la natura di confessione potrà risultare anche da precedenti riconoscimenti pubblici,
dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque dalla comune considerazione, dai criteri che,
nell’esperienza giuridica, vengono utilizzati per distinguere le confessioni religiose da altre organizzazioni sociali»: così
Corte Costituzionale, 10 marzo 2016, n. 52; Corte Costituzionale, 27 aprile 1993, n. 195.
522
competenza urbanistico-edilizia diretta ad accertare che la confessione religiosa, per la quale è
richiesta la realizzazione di un luogo di culto, abbia sul territorio «una presenza diffusa, organizzata
e stabile» e a regolare i vari problemi edilizi, igienico-sanitari e di sicurezza collegati al notevole
afflusso di persone197
.
In questa direzione, l’ente pubblico territoriale è senz’altro titolare dell’astratto potere di
sanzionare l’uso di un locale difforme dalla destinazione impressa in sede di pianificazione (come
nel caso di trasformazione della sede di un’associazione in un luogo di culto), ma esso non può
essere identificato con il mero fatto che ivi si svolga (saltuariamente) la preghiera198
, in quanto, per
ravvisare la presenza di un centro di aggregazione religiosa in senso rilevante per le norme edilizie
e urbanistiche, sono necessari due requisiti: l’uno, intrinseco, dato dalla presenza di determinati
arredi e paramenti sacri; l’altro, estrinseco, dato dal dover accogliere tutti coloro che vogliano
pacificamente accostarsi ai riti religiosi e consentire la pratica del culto a tutti i fedeli che
condividono il medesimo credo, quale che sia la nazionalità di appartenenza degli adepti199
.
Così, un luogo di culto può esistere anche all’interno di una proprietà privata – come nel
caso delle cappelle gentilizie, di conventi o di istituti, dove è ben possibile svolgere i tradizionali riti
religiosi – ma non assume rilievo urbanistico/edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei
fedeli. Pertanto, l’uso incompatibile potrebbe verificarsi nell’ipotesi in cui l’accesso ai luoghi, a fini
di preghiera, non sia riservato ai membri di un’associazione, ma risulti indiscriminato, perché è solo
in quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico urbanistico da valutare in sede di rilascio del
permesso di costruire, posto che ciò dovrebbe essere in concreto accertato dall’autorità attraverso
una corretta e completa istruttoria200
.
Peraltro, ove detti usi e attività diano luogo a comportamenti ex se illeciti (come, ad
esempio, l’intollerabile immissione di rumori eccedenti i limiti imposti dalla legge e dalla
197
Cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 14 settembre 2010, n. 3522. 198
Cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 29 maggio 2013, n. 522; Consiglio di Stato, sez. IV, 28 gennaio
2011, n. 683. 199
Cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 29 maggio 2013, n. 522. 200
Cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 29 maggio 2013, n. 522.
523
convivenza civile e, quindi, il conseguente disturbo derivante dalle pratiche di culto), resta
ovviamente salva la facoltà di esperire ogni rimedio consentito dall’ordinamento giuridico201
.
Rimane ferma, ad ogni modo, anche in tali occasioni, la “responsabilità” degli organi
preposti all’esercizio delle funzioni fondamentali dello Stato, nel pedissequo rispetto dell’ordine
costituzionale delle competenze, di garantire la più ampia promozione dei diritti di libertà,
coniugando essi all’unisono con la tutela dell’interesse generale in vista della salvaguardia della più
intima consistenza dei valori di civiltà che presidiano un ordinamento ispirato ai principi propri del
costituzionalismo moderno.
3. Libertà religiosa ed esigenze securitarie tra giudizi di valore, questioni di metodo e
(cenni sui) criteri di definizione degli ambiti di competenza dello Stato e delle Regioni
Nel quadro della ricerca del giusto contemperamento tra libertà religiosa e tutela
dell’interesse generale, declinato nelle sue plurime (e mutevoli) definizioni, l’esercizio della potestà
d’imperio, suscettivo di tradursi, in primo luogo, nella conformazione dei diritti fondamentali
mediante il ricorso a puntuali prescrizioni di legge, può talora implicare l’insorgenza di eventuali
criticità sia di metodo (rectius: di competenza), che di merito.
È il caso, ad esempio, di una legge regionale, di recente sottoposta al vaglio della Consulta,
che era indirizzata, in verità, al di là della “formale” ascrizione della disciplina colà contenuta in
seno alla materia del “governo del territorio”, nel senso di introdurre un complesso di “precauzioni”
da adottare onde impedire che la realizzazione di edifici di culto (acattolici) potesse incidere,
pregiudicandone la consistenza, sulla libera e pacifica convivenza tra i consociati.
In sostanza, la normativa censurata perseguiva, anche solo “velatamente”, l’obiettivo di
“surrogare” lo Stato “latitante” rispetto al delicato tema dell’integrazione religiosa, in special modo
con riguardo al potenziale pericolo per l’ordine pubblico202
e la sicurezza pubblica203
, derivante
201
In tal senso T.A.R. Lombardia, Milano, 17 settembre 2009, n. 4665. 202
Sul punto v. G. CORSO, Ordine pubblico nel diritto amministrativo, in Dig. disc. pubbl., X (1995), 437 ss.;
A. CERRI, Ordine pubblico (Diritto Costituzionale), in Enc. giur., XXV (1991), 1 ss.; G. PANZA, Ordine pubblico
(Teoria Generale), in Enc. giur., XXV (1991), 1 ss.; L. PALADIN, Ordine pubblico, in N.ss. Dig. Disc. Pubbl., XII Vol.,
Torino 1965, 130 ss. Invero, la nozione di ordine pubblico rileva, all’interno dell’ordinamento giuridico, sotto diversi
profili e, consequenzialmente, assolve diverse funzioni. Così, nel diritto privato, è possibile assistere ad una duplice
valenza di tale istituto. Secondo una prima accezione, infatti, l’ordine pubblico viene identificato «nell’insieme dei
principi di natura politica ed economica della società, immanenti nell’ordinamento giuridico vigente» (F. CARINGELLA,
G. DE MARZO, Manuale di diritto civile, III. Il Contratto, Milano 2007, 195) e, in tale veste, costituisce parametro su
cui rapportare l’illiceità di alcuni elementi costitutivi del negozio giuridico (causa ed oggetto) ex artt. 1343 e 1346 c.c.
In particolare, si parla di contrarietà all’ordine pubblico «quando il contratto si pone in contrasto con quell’insieme di
principi che sono alla base del corretto ed equilibrato funzionamento dell’ordinamento giuridico». Sul punto v. F.
CARINGELLA, G. DE MARZO, Manuale di diritto civile, cit., 222. In materia v. anche Corte Costituzionale, 16 marzo
524
2005, n. 95; Corte Costituzionale, 09 giugno 2004, n. 162. Sempre con riferimento al diritto civile, poi, l’ordine
pubblico assume una particolare consistenza come limite all’ingresso, all’interno dell’ordinamento nazionale, di norme
giuridiche straniere in applicazione delle regole dettate dal diritto internazionale privato. In tale accezione, il concetto di
ordine pubblico comprende «il complesso dei principi, ivi compresi quelli desumibili dalla Carta Costituzionale, che
formano il cardine della struttura economico-sociale della comunità nazionale in un determinato momento storico,
conferendole una ben individuata ed inconfondibile fisionomia, nonché quelle regole inderogabili e fondamentali
immanenti ai più importanti istituti giuridici nazionali». Così e per un approfondimento v. G. NOVELLI, Compendio di
diritto internazionale privato e processuale, Napoli 2000, 53 ss. In diritto pubblico, poi, tradizionalmente si assiste alla
dicotomia ordine pubblico ideale/materiale. Secondo la prima opzione, all’ordine pubblico ideale dovrebbe essere
riconosciuta la natura di «principio, o complesso di principi, che, in base ad un criterio di prevalenza, si
contrappongono all’esercizio di diritti o all’affermazione di altri principi riconosciuti dall’ordinamento. Nella seconda
direzione, al contrario, si sono attribuite all’ordine pubblico le caratteristiche di una più specifica e concreta situazione
di fatto che, trovandosi in relazione ad altra situazione di fatto, ne determina i limiti entro i quali quest’ultima può
liberamente e legittimamente esplicarsi. La dottrina prevalente è stata comunemente tesa ad evitare di dare al concetto
di ordine pubblico, nel nostro ordinamento, una connotazione di tipo ideale… In buona sostanza, immaginare un
concetto di ordine pubblico come una sorta di “super principio” dell’ordinamento (superiore e condizionante rispetto a
tutti gli altri principi garantiti dalla Costituzione) significherebbe conferire all’autorità amministrativa – in particolare a
quella di pubblica sicurezza – con ampio margine di discrezionalità, la potestà di affermare i contenuti essenziali dei
valori dell’ordinamento giuridico: potestà che, al contrario, deve essere prerogativa di altri poteri espressivi della
sovranità popolare». Così e per un approfondimento v. M. PIANTEDOSI, Il nuovo sistema dell’ordine pubblico e della
sicurezza dopo la riforma del titolo V, Parte seconda della Costituzione, in Giust. amm., 2004, 6, 1235 ss. Sul punto v.
anche R. GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte Speciale, I, Milano 2005, 403 s.; S. MOCCIA, Ordine pubblico
(Disposizioni a tutela dell’), in Enc. giur., XXV (1991), 1 ss. 203
Secondo un primo approccio «ordine pubblico e sicurezza pubblica non concretizzano due concetti distinti
anche se correlati. Essi non esprimono differenti aspetti o valori da tutelare, come dimostra la legislazione
amministrativa più recente che richiama sistematicamente le due definizioni in maniera congiunta, dimostrando di voler
esprimere un unico concetto per mezzo di due termini coordinati che, pertanto, costituiscono, dunque un’endiadi –
ancorché, nel tempo, non siano mancate – espressioni tese a riconoscere una differenziazione di fondo tra i due concetti,
tali da considerarli elementi di una dicotomia. Così si è tradizionalmente ritenuto che con il termine sicurezza si facesse
riferimento, prevalentemente, ad un generale principio di salvaguardia e tutela dell’incolumità fisica delle persone ed
alla integrità fisica e giuridica dei loro beni. In buona sostanza tale concessione del termine sicurezza si fonda sulla
contrapposizione logica del concetto di ordine pubblico, da una parte, inteso come un qualcosa che attiene ad un
principio o ad un complesso di principi, a quello di sicurezza pubblica, dall’altra, inteso come qualcosa che attiene alla
salvaguardia materiale della pacifica convivenza e coesistenza dei cittadini». In tal senso e per un approfondimento v.
M. PIANTEDOSI, Il nuovo sistema dell’ordine pubblico e della sicurezza, cit., 1241 ss. Sul punto v. anche S. FOÀ,
Sicurezza pubblica, in Dig. disc. pubbl., XVII (1999), 127 ss. Ai fini della configurazione del rapporto tra ordine
pubblico e sicurezza pubblica alla stregua di endiadi, ovvero di dicotomia, v. anche Corte Costituzionale, 10-26 luglio
2002, n. 407. In dottrina v. G. CAIA, “Incolumità pubblica” e “sicurezza urbana” nell’amministrazione della pubblica
sicurezza (il nuovo art. 54 del t.u.e.l.), ottobre 2008, in www.giustamm.it; S. MUSOLINO, I rapporti Stato-Regioni nel
nuovo Titolo V alla luce dell’interpretazione della Corte Costituzionale, Milano 2007, 157.
525
dalla costruzione di luoghi di culto che, lungi dal rappresentare la sede ove una comunità
associata condivide e professa il medesimo credo religioso, avrebbero potuto costituire ricettacolo
di fanatismo e proselitismo di ideologie facilmente riconducibili a focolai terroristico/eversivi.
Sull’onda del crescente allarme sociale ingenerato dai tristi, recenti episodi di devastazione e
terrore verificatisi in seno al cuore dell’Europa, asseritamente frutto della volontà di punire i
“miscredenti” ed affermare, diversamente, l’unica possibile “verità rivelata”, coincidente con i
dogmi della fede musulmana, l’intendimento del legislatore regionale, “sconfinando” rispetto ai
limiti entro cui sono costituzionalmente perimetrate le relative attribuzioni, si era concretizzato, in
particolare, in misure, lato sensu preventive, ritenute idonee a “mitigare” il potenziale pericolo di
attentato alla “pubblica serenità” dovuto all’incontrollata proliferazione di centri di aggregazione di
adepti di fede musulmana204
.
Ciò, è lecito immaginare, in base al diffuso convincimento secondo il quale il terrorismo
internazionale sia, in genere, riconnesso al fenomeno del fondamentalismo religioso205
, in
particolare di natura islamica206
; sicuramente, si afferma, i terroristi sono portatori di concreti
interessi politici ed economici, ma è innegabile che «la forza d’impatto di questi progetti e di questi
interessi deriva dalla religione»207
.
204
Invero, al fine di assentire la realizzazione di nuovi edifici di culto, le norme censurate prescrivevano, tra
l’altro, l’acquisizione di pareri di organizzazioni e comitati di cittadini, oltre ad ulteriori interlocuzioni con i preposti
uffici delle questure e delle prefetture, insistenti sul territorio regionale, allo scopo di valutare possibili profili di
sicurezza pubblica, nonché la realizzazione di un impianto di videosorveglianza esterno all’edificio, con onere a carico
dei richiedenti, preordinato a monitorare ogni punto di ingresso della nuova infrastruttura e collegato con gli uffici della
polizia locale o delle forze dell’ordine. Sul punto, v. Corte Costituzionale, 24 marzo 2016, n. 63. 205
«Il terrorismo che oggi va sempre più dilagando è quello contro l’ordine internazionale, diretto alla
destabilizzazione della società contemporanea, di cui si sono fatti interpreti i fondamentalisti islamici, sostenuti – nella
loro lotta senza quartiere – da un fanatismo che li fa sentire, oltre che legittimati ad agire, purificati e santificati della
lotta agli infedeli e all’Occidente decadente e peccaminoso». Così M. FERRERI, M. MINEO, Il terrore viene dall’Islam. Il
terrorismo islamico ieri e oggi, Palermo, 2001, 17. 206
Mette bene in luce tale aspetto L. PELLICANI, in A. MARGELLETTI, F. NIRENSTEIN, N. PEDDE, L. PELLICANI,
Lo scenario internazionale tra conflittualità e terrorismo, in Per aspera ad veritatem, 2003, n. 25, in
http://gnosis.aisi.gov.it/sito/Rivista25.nsf/servnavig/4, secondo cui «il terrorismo non è che l’espressione più violenta,
radicale e devastante delle rivolta fondamentalista contro la secolarizzazione che da alcuni decenni sta attraversando il
mondo islamico. Una rivolta che si basa sull’opposizione tra la Fede e la miscredenza. La Fede (islamica) aspira ad
instaurare il “Governo di Dio” su tutta quanta l’umanità conducendo una guerra planetaria contro il materialismo,
l’ateismo e il culto idolatrico della ragione e del denaro, dunque contro la civiltà moderna, rea di aver voltato le spalle a
Dio e alla sua Legge». 207
Così S. ANDÒ, Terrorismo e fondamentalismo islamico, in Quad. cost., I, 2002, 73, il quale continua
evidenziando che «chi commette un attentato suicida, infatti, è comunque mosso da un forte sentimento religioso.
Occorre dunque fare i conti con tutto ciò che chiama in causa una motivazione religiosa». Sul punto v. anche V.
COLOMBO, L’Islam in Italia: alla ricerca di un equilibrio tra integrazione e tradizione, 2/2010, in
http://gnosis.aisi.gov.it/Gnosis/Rivista23.nsf/servnavig/12.
526
Ciò che guida e muove la mano degli attentatori, però, non è, di certo, la religione
islamica208
, bensì l’integralismo religioso209
, strumentalizzata ed esacerbata interpretazione dei
fondamenti dell’Islam210
che rinviene terreno fertile all’interno di ampie fasce della popolazione
non abituata (per convincimenti, bisogni materiali e disperazione) a credere nella indefettibile
moralità dei diritti umani e disposta a seguire e difendere a spada tratta leaders carismatici adusi a
fare leva sullo scoramento e l’angoscia211
.
È, quindi, sul campo ideologico che si fonda la vera battaglia col terrorismo.
Ai deliri dell’integralismo è necessario contrapporre i valori della democrazia, della
tolleranza e del multiculturalismo212
.
In questo senso, l’apertura al dialogo interculturale, la circolazione, lo scambio e le
interazioni tra le diverse comunità assurgono a fattore di crescita civile213
senza annichilire i tratti
208
In tal senso v. S. ZEULI, Terrorismo internazionale, Napoli 2002, 11, secondo il quale «nonostante la forte
componente religiosa di questi movimenti terroristici, pur tuttavia, non può non sottolinearsi l’assoluta estraneità della
religione islamica a questi tipi di fenomeni violenti. Il profilo religioso rappresenta in realtà unicamente il fattore
coesivo delle loro azioni, dunque seppure è innegabile che esso, in questa valenza, si porti dietro una carica utopica, a
valenza negativa… non c’è dubbio che esso ne rappresenta solo l’occasione, forse neppure la più significativa sotto il
profilo causale». 209
Cfr. E. GALOPPINI, I Palestinesi che si fanno esplodere: “martiri” o “terroristi”?, in Limes, La guerra
continua, n. 2/2003, 227 ss. 210
Sottolinea V. PISANO, Terrorismo internazionale contemporaneo: realtà a confronto, in Rassegna
dell’Arma dei Carabinieri, n. 2/2002, 120, che «assoluta è la dedizione al perseguimento di questi valori, mentre
insignificanti sono i diritti di coloro che non condividono tali valori». 211
Sul punto v. S. ANDÒ, Il nemico invisibile e il fondamentalismo islamico, 6 novembre 2011, in
www.forumcostituzionale.it, 1 ss. 212
Per un approccio, in chiave comparata, al tema della diversità quale fattore disgregante, ovvero alla stregua
di parametro di conformazione dell’ordinamento al rispetto del multiculturalismo, v., ex multis: B. LOTT,
Multiculturalism and Diversity: A Social Psychological Perspective, Wiley-Blackwell, Singapore 2010, 10 ss.; S.R.
STEINBERG, Diversity and Multiculturalism: A Reader, Peter Lang Publishing, New York 2009, 3 ss.; A. PHILLIPS,
Multiculturalism without Culture, Princeton University Press, Princeton 2007, 11 ss.; R. J. F. DAY, Multiculturalism and
the History of Canadian Diversity, University of Toronto Press, Toronto 2002, 3 ss.; B. C. PAREKH, Rethinking
Multiculturalism: Cultural Diversity and Political Theory, Harvard University Press, Cambridge 2000, 11 ss.; T. J. LA
BELLE, C. R. WARD, Ethnic Studies and Multiculturalism, Suny Press, New York 1996, 51 ss. 213
Per contro, evidenziano M. FERRERI, M. MINEO, Il terrore viene dall’Islam, cit., 153, che «gli odi razziali,
etnici, religiosi, sono ovunque sotto la superficie, pronti ad essere attizzati quando la smania di predominio dei più forti
colma la misura, ed a esplodere quando salta il fragile e precario equilibrio della stabilità politica. Il mondo civile, se
davvero vuole continuare a considerarsi tale, deve assicurare rispetto ed attenzione ad ogni popolo, di qualunque razza o
religione esso sia, sperando di far dimenticare, in un sistema di equilibri nuovo e più etico, guerre e genocidi, morti,
lutti ed il fragore cupo delle armi».
527
caratteristici propri di ciascuna collettività politica214
e senza richiedere la marginalizzazione dei
valori di unità che contribuiscono a costruire e rafforzare l’idem sentire dei membri di una
nazione215
, ancorché composta da molteplici nazionalità216
.
Diffondere la cultura dei diritti umani, nonché la stessa nozione di libertà, presso comunità
“soffocate” dall’estremismo, però, significa colmare un vuoto culturale/ideologico di enorme
portata217
.
Non è, peraltro, semplice per le stesse democrazie occidentali rimanere fedeli ai propri
principi nel corso dell’emergenza (attuale e/o presunta) e di fronte ad una seria minaccia (armata)
alla propria sicurezza218
.
In tale contesto, si osserva, «in presenza del terrorismo ogni democrazia è tenuta ad un
“dovere di serenità” perché il terrorismo ha una vocazione particolare ad esacerbare la funzione
repressiva dello Stato a discapito del suo ruolo di protezione delle libertà individuali»219
.
In questa direzione, un sistema preventivo e/o repressivo/sanzionatorio che sia capace di
rispettare il primato del diritto (rectius: la primazia dei valori della persona) contribuisce a
proteggere e rafforzare le libertà (patrimonio assiologico essenziale per una democrazia) ed
impedisce ad una società di intraprendere un percorso di progressivo imbarbarimento dei costumi.
Così, nel bilanciamento tra le contrapposte esigenze, da un lato, della tutela dell'interesse
generale e, dall’altro, della salvaguardia dei diritti individuali, svolge un ruolo decisivo la
214
Per una disamina in merito alle stringenti correlazioni intercorrenti tra gruppo sociale, etnico, religioso,
territoriale, economico, o di status e la nozione di comunità politica, v. S.P. HUNTINGTON, Ordine politico e
cambiamento sociale, Soveria Mannelli 2012, 12 ss. 215
Invero, sottolinea G. LANEVE, Istruzione, identità culturale e costituzione: le potenzialità di una relazione
profonda, in una prospettiva interna ed europea, in www.federalismi.it, n. 24/12, 24 s., che «oggi, i continui flussi tra le
persone e tra culture diverse, anche molto diverse, rinnovano il problema identitario che corre lungo il delicatissimo
crinale che separa il rischio dell’annacquamento e della dissoluzione delle diversità da quello, altrettanto pericoloso e
degenerativo, dell’assolutezza identitaria». 216
Cfr. P. CARROZZA, Nazione, in Dig. disc. pubbl., X (1995), 145. Per una disamina, in chiave europea, del
concetto di identità nazionale, apprezzato alla stregua di tertium genus rispetto sia alla dimensione culturale, sia a quella
giuridico-politica, entrambe citate in seno alla Carta di Nizza, non sciogliendo l’interrogativo sul suo reale significato,
v. T. CERRUTI, Valori comuni e identità nazionali nell’Unione europea: continuità o rottura?, in www.federalismi.it, n.
24/14, 6 ss. 217
In tal senso v. S. ANDÒ, Terrorismo e fondamentalismo, cit., 74 ss. 218
«L’Occidente si trova in una situazione molto delicata da questo punto di vista. Da un lato deve difendersi
da una minaccia che produce danni materiali e sentimenti d’insicurezza collettiva non diversi da quelli prodotti da una
vera aggressione militare, dall’altro non può rinnegare il multiculturalismo e la tolleranza religiosa, ché si tratta di
elementi della sua identità politica e culturale»: così S. ANDÒ, Terrorismo e fondamentalismo, cit., 73. 219
Così e per un approfondimento v. P. BONETTI, Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche, Bologna
2006, 21 ss.
528
valutazione condotta in merito alla necessità e proporzionalità delle misure adottate220
; in tal senso,
se esigenze di sicurezza collettiva possono giustificare restrizioni a singole libertà221
,
particolarmente grave deve essere il pericolo per il mantenimento dell’ordine pubblico per
ammettere il ricorso alla facoltà di deroga che consente di sospendere le garanzie proprie anche di
diritti per i quali, in tesi, viene postulata la loro intangibilità222
.
Nella ricerca della giusta commisurazione tra interessi parimenti rilevanti, si innesta, in
particolare, il problema di “conformare” la consistenza dei diritti individuali entro una cornice di
legalità (costituzionale) che impedisca il tradimento dei valori sui quali si fonda un ordinamento
democratico sull’altare della sua (irrazionale) difesa contro tutti i possibili nemici223
.
220
Per una compiuta disamina, sotto diversi profili, della difficile ricerca di un bilanciamento effettivo tra la
tutela dei diritti costituzionali e la salvaguardia dell’incolumità pubblica di fronte al dilagare del terrorismo, v., ex
multis: M. CAVINO, M. G. LOSANO, C. TRIPODINA (a cura di), Lotta al terrorismo e tutela dei diritti costituzionali,
Torino 2009. 221
Non a tutti i costi, però: «esiste, anzitutto, un nucleo minimo di diritti fondamentali sul quale nessun
negoziato è possibile, trattandosi di diritti che attengono al cuore dello Stato liberale di diritto, e che per tale motivo si
sottraggono al bilanciamento con qualsiasi controinteresse. Le indicazioni essenziali sono contenute nell’art. 15 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che esclude qualsiasi deroga, persino in tempo di guerra, al diritto alla vita
(art. 2, fatte salve ovviamente le eccezioni tassativamente previste dal secondo comma), al diritto a non essere sottoposti
a tortura o a trattamenti inumani e degradanti (art. 3), a non essere ridotti in schiavitù (art. 4) e al principio di legalità
della pena (nel suo nucleo minimo di prevedibilità ed irretroattività della sanzione penale: art. 7)». Così F. VIGANÒ,
Terrorismo, Guerra e sistema penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 2, 670. 222
In merito, per una compiuta disamina della liceità delle misure eccezionali di sospensione delle libertà
fondamentali adottate da ciascuno Stato sovrano alla luce del diritto internazionale, v., ex multis: I. VIARENGO, Deroghe
e restrizioni alla tutela dei diritti umani nei sistemi internazionali di garanzia, in Riv. dir. int., 2005, 4, 955 ss. Sul
punto, v. anche P.A. PILLITU, Le sanzioni dell’unione e della comunità europea nei confronti dello Zimbabwe e di
esponenti del suo governo per gravi violazioni dei diritti umani e dei principi democratici, in Riv. dir. internaz., 2003,
1, 63 ss., secondo cui esiste un nucleo di diritti dell’individuo universalmente riconosciuto che va salvaguardato, anche
nei confronti dello Stato nazionale, mediante l’imposizione di obblighi erga omnes, in seno alla comunità internazionale
considerata nel suo insieme. Si tratta di obblighi posti da norme generalmente considerate di jus cogens, che tutelano
valori ritenuti socialmente così importanti da essere sottratti alla libera disponibilità degli Stati. In generale, per una
disamina delle diverse tipologie di sanzioni adottate dalla comunità internazionale a fronte della violazione dei diritti
umani perpetrata da parte di uno Stato sovrano, v., ex multis: C. FOCARELLI, Le contromisure nel diritto internazionale,
Milano 1994; F. FRANCIONI, Sanzioni internazionali, in Enc. giur., XXVIII (1992), 1 ss.; F. LATTANZI, Sanzioni
internazionali, in Enc. dir., XLI (1989), 536 ss.; A. DE GUTTRY, Le rappresaglie non comportanti la coercizione
militare nel diritto internazionale, Milano 1985, 11 ss. 223
In tal senso, si osserva che «in ogni Stato democratico-costituzionale i diritti fondamentali non sono un
mero parametro per verificare la legittimità dell’azione dei pubblici poteri, ma ne costituiscono il fondamento
sostanziale, il criterio di legittimazione, la sua ragion d’essere e perciò sono ciò su cui – almeno nella sua essenza –
ogni maggioranza politica del momento non può decidere, allora i pubblici poteri stessi devono essere costantemente
impegnati nel delicatissimo bilanciamento tra il recepire le esigenze della sicurezza rispetto ai rischi per l’esercizio di
tali diritti percepiti dalla maggioranza delle persone e l’evitare che le esigenze dell’ordine pubblico, inteso come
precondizione per l’esercizio di quei diritti al riparo dei rischi, vanifichino il regolare svolgimento delle procedure
democratiche che consentono di attuare la volontà della maggioranza delle persone liberamente espressa e l’esercizio di
ognuno di quei diritti fondamentali di cui è titolare ogni persona, sia come singola sia nelle formazioni sociali cui si
svolge la sua personalità, come prevede l’art. 2 della Costituzione italiana»: così e per un approfondimento v. P.
BONETTI, Terrorismo, emergenza e costituzioni, cit., 39 ss.
529
Invero, anche se il contemperamento tra interessi e valori «non è mai neutrale, tecnicamente
asettico, sconta presupposizioni inespresse che lo condizionano e in qualche misura ne prefigurano
l'esito»224
, esso «può essere ricostruito come un’attività che, pur contenendo dei margini valutativi,
non si traduce necessariamente in sfrenato soggettivismo, ed anzi è controllabile razionalmente»225
.
Nel quadro di un assetto politico-costituzionale incentrato sui principi propri del
costituzionalismo moderno, la ricerca di criteri assiologici in applicazione dei quali giungere alla
corretta commisurazione dei diversi valori in gioco226
, in ossequio, naturalmente, alle norme
cardine, di rango superprimario, su cui si regge l’intero ordinamento227
, postula che tutti i diritti
fondamentali si trovino in rapporto di integrazione reciproca e che non sia possibile, pertanto,
individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri228
. La tutela deve essere sempre
«sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra
loro»229
. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe
“tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette,
che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona230
, declinata, quanto
meno in senso minimo, nei termini di principio supremo dell’ordinamento231
, presupposto di tutti i
diritti fondamentali232
, diritto ad avere diritti233
, incondizionato ossequio alla più intima essenza
224
Così N. COLAIANNI, Diritto di satira, cit., 595. 225
Così G. PINO, Teoria e pratica del bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela
dell’identità personale, in Danno e resp., n. 6/2003, 580. 226
Parla di «gerarchia assiologica mobile», R. GUASTINI, Principi di diritto e discrezionalità giudiziale, in Dir.
pubbl., 1998, 651 ss. 227
Secondo A. CERRI, Istituzioni di diritto pubblico, Milano 2009, 516, «il bene costituzionale suscettibile di
essere protetto, a questi fini, deve integrare, ovviamente, un principio supremo del sistema». Per una disamina, in
chiave comparata, dei “valori di una società libera e democratica” alla stregua di parametri sulla base dei quali svolgere
il bilanciamento tra interessi pubblici e privati fondamentali, v. A. S. RODRIQUEZ, La Corte suprema del Canada e l’art.
1 della Carta dei diritti e delle libertà. Una “free and democratic society” in continua evoluzione, in G. ROLLA (a cura
di), L’apporto della Corte Suprema alla determinazione dei caratteri dell’ordinamento costituzionale canadese, Milano
2008, 254 ss. 228
In tale contesto, si osserva, «ogni diritto fondamentale si trova inserito in un rapporto specifico con gli altri
beni costituzionali secondo le proprie caratteristiche e la sua concreta regolamentazione costituzionale»: così e per un
approfondimento v. P. HABERLE, Le libertà fondamentali nello Stato costituzionale, Roma 1993, 62 ss. 229
Cfr. Corte Costituzionale, 24 marzo 2016, n. 63; Corte Costituzionale, 28 novembre 2012, n. 264. 230
Cfr. Corte Costituzionale, 24 marzo 2016, n. 63; Corte Costituzionale, 9 maggio 2013, n. 85. 231
In tal senso v. F. SACCO, Il consenso del beneficiario dell'amministrazione di sostegno e il conflitto tra
dignità e libertà, in Giur. cost. 2007, 3, 2280 ss. 232
In tal senso v. V. TIGANO, Tutela della dignità umana e illecita produzione di embrioni per fini di ricerca,
in Riv. it. dir. e proc. pen., 2010, 4, 1749. 233
Così F. RESTA, Neoschiavismo e dignità della persona, in Giur. merito, 2008, 6, 1673.
530
dell’individuo, corrispondente alla qualità di uomo in quanto tale234
, al di là di ogni forma di
abiezione, avvilimento e degradazione fisica e morale235
.
In questa direzione, si osserva, la tolleranza – rectius: il reciproco rispetto – e il diritto di
ciascuno di sentire propria una determinata confessione religiosa costituiscono valori fondamentali
non tanto perché formalizzati in una Carta Costituzionale, ma perché avvertiti dalla collettività,
divenendone elemento caratterizzante.
L’integralismo islamico ha fatto sì che si sia accostato, concettualmente, il terrorismo alla
religione musulmana e non solo al fanatismo di alcuni; è un pericolo, questo, che va evitato236
.
Certamente, tra gli interessi costituzionali da tenere in adeguata considerazione nel modulare
la tutela della libertà di culto, nel rigoroso rispetto dei canoni di stretta proporzionalità, sono
senz’altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza
tra i consociati237
.
Non è, però, con la criminalizzazione generalizzata, peraltro sbagliata, della fede islamica
che si combatte il terrorismo; anzi, agendo in tal modo, si acuiscono i punti di frizione e di distacco
e si alimenta l’odio in ragione della discriminazione238
.
234
In merito v. F. SACCO, Il consenso del beneficiario dell'amministrazione di sostegno, cit., 2280. 235
Invero, «la dignità assurge a “fondamento concreto della nuova accezione di cittadinanza, intesa come
patrimonio di diritti che appartengono alla persona quale che sia la sua condizione”, con la pienezza di un principio»:
così N. BRUZZI, La discriminazione fondata sulla disabilità: il principio di dignità come lente trifocale, in Resp. civ.
prev., 2013, 3, 933. 236
Sottolinea S. ZEULI, Terrorismo, cit., 11, che «va recisamente contestato l’assioma: Islamismo =
integralismo = violenza e terrorismo dovendosi affermare al contrario che il totalitarismo psicologico e sociale che
caratterizza le religione islamica – e che come cattolici e occidentali illuminati facciamo fatica a comprendere,
ovviamente – non ha nulla a che vedere, in sé e per sé, con il fanatismo religioso e con il fondamentalismo». 237
Ciò, ovviamente, nel quadro del corretto riparto delle competenze che, in materia, vengono ascritte in via
esclusiva allo Stato, mentre le Regioni possono cooperare a tal fine solo mediante misure ricomprese nelle proprie
attribuzioni. Sul punto v. Corte Costituzionale, 24 marzo 2016, n. 63; Corte Costituzionale, 23 febbraio 2012, n. 35;
Corte Costituzionale, 9 febbraio 2011, n. 35; Corte Costituzionale, 14 giugno 2010, n. 226; Corte Costituzionale, 7
marzo 2008, n. 50; Corte Costituzionale, 1 dicembre 2006, n. 396; Corte Costituzionale, 8-17 marzo 2006, n. 105; Corte
Costituzionale, 15 febbraio 2002, n. 25; Corte Costituzionale, 5-13 marzo 2001, n. 55; Corte Costituzionale, 5 maggio
1993, n. 218; Corte Costituzionale, 29 ottobre 1992, n. 407; Corte Costituzionale, 13 luglio 1963, n. 131; Corte
Costituzionale, 8 marzo 1962, n. 19; Corte Costituzionale, 11 luglio 1961, n. 40. Per un approfondimento v. P.
BONETTI, La giurisprudenza costituzionale sulla materia “sicurezza” conferma la penetrazione statale nelle materie di
potestà legislativa regionale, in http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/old_pdf/1138.pdf, 1 ss. 238
Per contro, si osserva, «è oggi difficile praticare una tolleranza religiosa che non offra all’integralismo e
all’estremismo un appoggio diretto o indiretto. E ciò per ragioni legate alla complessità del mondo islamico. Nell’Islam,
infatti, la “comunità” tende ad essere più importante dell’individuo. Laddove la maggior parte degli individui di una
comunità dissenta dalle convinzioni o dai comportamenti di un membro, quest’ultimo resta sempre un “fratello”, che ha
diritto di essere giudicato esclusivamente in territorio – inteso in senso sia fisico che giuridico – islamico. Infatti, la
“denuncia” di un fratello terrorista alle autorità di uno Stato laico equivale, dal punto di vista islamico, all’accettazione
di una presenza militare organizzata di infedeli su territorio islamico»: così S. ANDÒ, Terrorismo e fondamentalismo,
cit., 73.
531
L’unica strada percorribile, quindi, diviene quella della valorizzazione dell’integrazione tra
cultura occidentale e islamica, nel rispetto delle reciproche differenze, mediante la promozione
della formazione di una coscienza libera dai pregiudizi e protesa nel senso dell’implementazione
della dignità della persona nei suoi valori etici, morali e religiosi che contribuiscono a connotare la
più intima essenza di ciascuno239
.
239
«Peraltro, in epoca recente, è stato sostenuto che lo Stato dovrebbe garantire, ancor prima della
manifestazione esterna della coscienza religiosa o areligiosa, la formazione stessa di tale coscienza, anzi che le facoltà
derivanti dal diritto di libertà religiosa esprimono solo la garanzia della “dimensione esterna della libertà religiosa”, ma
non tutelano la libertà di formazione della propria coscienza, anteriore a qualsiasi scelta di ordine religioso o areligioso,
ossia l’inviolabile diritto alla libertà del “momento formativo e conoscitivo delle possibili alternative che si offrono in
tema di religione”. Per garantire la libertà, così concepita come libertà psicologica, lo Stato dovrebbe eliminare i fattori
che pregiudicano la formazione di consapevoli orientamenti personali, sia dando alle proprie leggi un contenuto tale che
possano essere osservate dai singoli senza urtare il loro “sentimento di doverosità etica”, sia eliminando le remore e i
condizionamenti esterni che l’organizzazione pubblica è in grado di controllare, sia mettendo a disposizione di tutti gli
“strumenti sociali” utili alla formazione e maturazione degli spiriti»: così F. FINOCCHIARO, Art. 19, in G. BRANCA (a
cura di), Commentario, cit., 262.
Il referendum sulla riforma costituzionale: argomenti a confronto
(Atti del Seminario di studio svoltosi presso l’Università degli Studi di Messina,
Dipartimento di Giurisprudenza, Sezione di Scienze Giuspubblicistiche
e Storico-giuridiche «T. Martines», 6 giugno 2016)
Interventi di:
Aa.Vv.
(22 luglio 2016)
Presentazione
di Alessandro Morelli
Il 6 giugno 2016, presso il Dipartimento di Scienze giuridiche, Sezione di Scienze
Giuspubblicistiche e Storico-giuridiche «Temistocle Martines», dell’Università di Messina, ha
avuto luogo un seminario tra studiosi degli Atenei di Messina, Reggio Calabria e Catanzaro, sul
referendum che si svolgerà nel prossimo autunno riguardo al testo di legge costituzionale recante
«Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei
parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL
e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione».
Nell’incontro, promosso dal prof. Antonio Ruggeri, i partecipanti sono stati invitati ad
esprimere il proprio orientamento riguardo alla prossima consultazione referendaria, concentrando
l’attenzione esclusivamente sugli aspetti procedurali e di contenuto della legge costituzionale. Si è
così evitato di soffermarsi sulle implicazioni politiche del referendum o di criticare il testo di
revisione per ciò che non contiene o che dovrebbe contenere in base alle convinzioni di ciascuno
studioso. L’analisi ha, dunque, riguardato essenzialmente il metodo di approvazione della riforma e
il merito della stessa.
Si pubblicano qui di seguito i testi degli interventi al seminario, debitamente rivisti e
aggiornati dagli Autori, in una veste che, tuttavia, intende riprodurne l’originario carattere dialogico
e la connotazione informale.
L’ordine di pubblicazione dei contributi corrisponde a quello dei relativi interventi, per
consentire una più agevole comprensione dei riferimenti e dei reciproci richiami.
Minime considerazioni in vista del referendum costituzionale.
Per una forma di governo parlamentare con bicameralismo asimmetrico
di Antonio Arena*
Del disegno di legge di revisione costituzionale, sul quale i cittadini italiani saranno
chiamati a pronunciarsi in autunno, molto potrebbe dirsi, in positivo e in negativo.
Per ragioni di sintesi mi limito a prendere in esame solo due argomenti cruciali,
tralasciandone altri. Vorrei, però, chiarire rapidamente le ragioni di questa scelta. A mio parere,
alcune considerazioni che scaturiscono dalla lettura del testo di riforma si dimostrano
potenzialmente idonee tanto a favorire quanto ad avversare il cambiamento (per esempio, alcune
disposizioni sono caratterizzate da una forte indeterminatezza semantica – si pensi a quello che
potrebbe divenire l’art. 57, V comma, Cost.). Altri rilievi concernono singoli articoli e pertanto
hanno un'importanza secondaria, dal momento che siamo chiamati ad esprimere una valutazione
complessiva. Altre osservazioni non sono comunque dirimenti (ad esempio, che il nuovo Senato
presenti le maggiori affinità – nel contesto dell’Unione europea – con una Camera, il Bundesrat
austriaco, che mal funziona e da tempo si pensa di sopprimere, non è un argomento decisivo, non
solo per gli elementi strutturali e funzionali che in ogni caso distinguerebbero le due Camere, ma
anche in quanto il nuovo Senato si inserirebbe in un contesto ordinamentale ed istituzionale
comunque differente).
Tra le perplessità che nutro sulla riforma, la principale concerne il metodo. Anche questa
volta, come già era accaduto in passato, essa è stata approvata esclusivamente dalle forze politiche
di maggioranza. È invece preferibile che le leggi costituzionali e di revisione costituzionale
vengano approvate con maggioranze tanto ampie da ricomprendere almeno una parte delle forze
politiche d’opposizione. Tuttavia neppure questo tema mi sembra determinante, in quanto – al netto
di altre considerazioni – oggigiorno la Costituzione italiana (quantomeno nella sua seconda parte)
rimane «un problema da risolvere» per il sistema politico complessivamente considerato.
* Dottorando di ricerca in Scienze giuridiche, Università di Messina.
534
Per rendersene conto, è sufficiente ricordare i contenuti del dibattito parlamentare, nel quale
– salvo poche eccezioni – è emerso che tutti intendono cambiare la Costituzione vigente e i due
principali poli d’opposizione (M5S e centrodestra) patrocinano radicali rivolgimenti costituzionali:
gli uni convinti di dovere trasformare la democrazia rappresentativa in democrazia diretta, gli altri
da tempo sostenitori della transizione ad una forma di governo presidenziale. Non si può non tenere
conto del sistema politico attuale, in quanto è bene che la Carta costituzionale sia pienamente
condivisa (se non da tutte) almeno da una parte consistente delle forze politiche rappresentate in
Parlamento. Infatti non c’è costituzione che possa reggersi senza consenso.
La riforma è sposata dalle forze politiche che intendono mantenere più forti profili di
continuità con l’assetto istituzionale esistente ed in particolare salvaguardare la forma di governo
parlamentare. Credo che questo sia un primo argomento a favore del cambiamento. Ciò in quanto è
da ritenere che la forma di governo parlamentare sia ancora quella meglio in grado di assicurare la
tenuta della forma di Stato nonché di esprimere in termini giuridici i rapporti e gli elementi
dialettici della società italiana (oggi, come ieri, attraversata da profonde spaccature politiche, sociali
ed economiche).
Nel tempo della globalizzazione, il nuovo contesto economico e sociale sembra richiedere
un rinnovamento delle prerogative attribuite alle seconde camere. In questo processo non
dovrebbero mancare gli elementi di continuità con le esperienze pregresse. Le seconde camere – nei
diversi ordinamenti dell’Unione europea che le prevedono – possono senz’altro mantenere ciascuna
la propria peculiare identità (per esempio, il Senato irlandese può bene continuare ad essere
concepito come «camera dei saperi» o il Consiglio Nazionale sloveno – almeno in parte – come
«camera rappresentativa del mondo dell’economia e del lavoro»). Ciò non toglie che il ruolo delle
seconde camere potrebbe essere accresciuto concependole tutte come organi di raccordo tra i diversi
livelli di rappresentanza degli interessi sociali, «portando al centro» le istanze regionali e locali che
in molti contesti rischierebbero altrimenti di determinare l’implosione di assetti statali pure
consolidati, ed al tempo stesso consentendo alle autonomie (livello regionale/locale), tramite il
Parlamento (livello nazionale), di inserirsi con efficacia nel procedimento di formazione degli atti
legislativi in ambito europeo (livello sovranazionale). I Senati potrebbero – continuando a
sviluppare questa idea – collocarsi, se così si può dire, tra i livelli e potrebbe allora parlarsi di un
535
«bicameralismo interlivello». In altri termini, la previsione di una seconda camera, oltre che legarsi
all’idea di rappresentare le autonomie, si spiegherebbe proprio nel senso di consentire una maggiore
partecipazione delle assemblee nazionali (e per il tramite di queste, delle autonomie locali) alla
produzione normativa europea. Ma è evidente che l’attuale conformazione del controllo di
sussidiarietà (di cui al Protocollo n. 2 allegato ai Trattati) non corrisponde a questo modello,
potendone tutt’al più rappresentare un embrione: sarebbe invece necessario che tale prerogativa
fosse assegnata in esclusiva alla camera alta (ovviamente negli ordinamenti che la prevedono). Uno
sviluppo in tal senso del bicameralismo potrebbe servire anche alle stesse istituzioni europee che
nonostante le novità introdotte a Lisbona continuano ad essere percepite come lontane dai cittadini
e ad essere considerate prive di un’adeguata legittimazione di tipo democratico.
L’idea del raccordo tra lo Stato e le altre istituzioni territoriali è al centro degli intenti dei
riformatori, mentre – anche in ragione dell’attuale formulazione dei Trattati e dei relativi protocolli
– sembra ancora prematura l’attribuzione di esclusive competenze in relazione alle istituzioni
europee (sebbene già nella presentazione delle «ragioni della riforma» fosse presente il riferimento
allo «spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di
integrazione europea e, in particolare, l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente
evoluzione della governance economica europea»: cfr. Senato della Repubblica, Disegno di legge
costituzionale n. 1429, Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione
del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la
soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte seconda della Costituzione,
comunicato alla Presidenza l’8 aprile 2014, cit., 2).
Ma anche prescindendo dal contesto internazionale e sovranazionale, il superamento del
bicameralismo paritario è necessario in relazione al regionalismo, è logica conseguenza del tipo di
Stato. E questo è un secondo argomento a favore del cambiamento. Come osservato da Paladin
«l’unico tipo di Stato nel quale il bicameralismo sembri essere attualmente necessario per
definizione, è quello costituito dagli ordinamenti federali o che si autodenominano tali (o sono
comunque contraddistinti da un forte grado di decentramento)» (L. Paladin, voce Bicameralismo, in
Enc. giur., vol. III, Roma, 1990, 1). La riforma potrebbe quindi costituire un passo in avanti nella
536
direzione della rivitalizzazione delle Regioni, esplicitando un’idea in qualche modo insita già nel
testo entrato in vigore nel 1948.
Come noto, si può (se si può: di questo qualcuno ha dubitato) rendere il senso del
bicameralismo paritario osservando come esso offra una garanzia di maggiore ponderazione delle
scelte legislative e di più efficace controllo sull’operato del Governo (chiamato ad ottenere la
fiducia di entrambe le Camere, ma costretto a dimettersi laddove questo rapporto si spezzi anche
solo con una di esse). Tuttavia i pregi di questo sistema possono essere mantenuti, differenziando la
composizione e le competenze della seconda Camera e allargando l’orizzonte alla dimensione
sovranazionale. Alcuni suoi difetti, invece, possono essere eliminati: in particolare, la riforma
costituisce il tentativo di rendere il sistema istituzionale in grado di rispondere alle esigenze di un
mondo complesso, nel quale l’instabilità degli esecutivi – dato il peso delle relazioni internazionali
– è decisamente insostenibile (e di qui il rapporto di fiducia del Governo con la sola Camera dei
deputati).
Infine, con riferimento alla capacità in concreto del nuovo Senato di operare positivamente
nel sistema istituzionale italiano, va detto che la scienza costituzionalistica ha sì la possibilità di
sviluppare previsioni e proibizioni condizionali, che sarebbero del resto implicite in ogni asserto
descrittivo controllabile (anche quando non esplicitate); tuttavia esse rimangono comunque un
azzardo, anche perché l’irrazionalità ha un peso nelle scelte pubbliche pressoché imponderabile.
Ciò che invece mi pare si debba osservare, dal punto di vista epistemologico, è che poiché noi non
sappiamo (neppure di non sapere!), mentre conosciamo per esperienza l’operatività della
Costituzione vigente, ignoriamo se il suo cambiamento determinerà effetti positivi sulla nostra
realtà sociale. Questo potrebbe essere un argomento per il NO, se non fosse che anche il «non
cambiare» è una scelta politica della quale ignoriamo le conseguenze. Per riprendere
l’insegnamento del Capo provvisorio dello Stato De Nicola, la Repubblica nasce come superamento
di «fatali errori» ed «antiche colpe»... È dubbio se votando NO si allontani, come alcuni credono, il
ripetersi degli sbagli del passato o, piuttosto, lo si propizi...
Notazioni sparse sulla riforma “Renzi-Boschi”
di Alberto Randazzo*
Sono ormai diversi mesi che studio la riforma e tuttavia, ancora, come tanti, sono pure io
incerto su come votare; a mio avviso, occorre operare in via preliminare una scelta fondamentale,
che può molto condizionare il voto di ognuno di noi: nell’esprimere la nostra preferenza, dobbiamo
capire se intendiamo far prevalere le ragioni di tipo politico o quelle di natura giuridica. Scegliendo
le une o le altre si potrebbe giungere a convincimenti diversi, ma sul punto preferisco non
dilungarmi, ben sapendo peraltro che un giurista dovrebbe tenere in conto solo (o prevalentemente)
le seconde. Di una cosa però sono assolutamente convinto: l’opzione a favore di un bicameralismo
non paritario mi sembra alquanto opportuna (in tanti hanno fatto notare che il sistema che fino ad
oggi ha caratterizzato l’ordinamento italiano è un unicum). Ma quale appare il costo da pagare?
Stando alle osservazioni critiche sollevate da una parte della dottrina, sembra che con la riforma sia
in atto una sorta di attentato alla forma di governo parlamentare e, in generale, alla democrazia; al
riguardo, non mi sento di essere così drastico, pur nella consapevolezza che il rapporto tra i
governanti sarebbe destinato a mutare (e non poco) qualora la revisione andasse “in porto”; in altre
parole, non mi pare che la forma di governo corra un rischio così grosso da sconsigliare tale
modifica della Carta. A me pare che la forma di governo parlamentare che verrebbe disegnata,
qualora con il referendum vincessero i “sì”, sarebbe “semplicemente” una delle possibili varianti
della forma di governo parlamentare, una torsione di quest’ultima (magari, questo sì, in senso
ipermaggioritario) che costituisce una delle possibili “forme della forma di governo parlamentare”.
Ciò non esclude che il “metodo” utilizzato dalle forze politiche di maggioranza appaia non solo
insolito, ma di dubbia opportunità politica e conformità costituzionale, lasciandomi quindi non poco
perplesso; intendo fare riferimento all’uso “plebiscitario” (come è stato detto) o alla
“personalizzazione” (per usare un’espressione di G. D’Amico) del referendum richiesto dallo stesso
Presidente del Consiglio. In una situazione di questo tipo, appare altissimo il rischio che il
“comune” cittadino che si recherà alle urne finisca per votare in relazione alla propria appartenenza
* Ricercatore a t.d. di Istituzioni di diritto pubblico, Università di Messina.
538
politica: in poche parole, chi sostiene il Governo Renzi voterà “sì”, chi ha orientamento politico
diverso voterà “no”, sapendo poco o niente del contenuto della riforma ed a dispetto dei fiumi di
inchiostro che al riguardo sono stati versati dai commentatori. Con quanto si sta dicendo non si
vuole assolutamente sottovalutare la capacità di discernimento degli elettori, nonché la loro voglia
di informarsi e di formarsi al fine di esprimere un voto consapevole; tuttavia, le modalità con le
quali è stato impostato, soprattutto attraverso i media, il progetto riformatore lascia pensare, con
quella dose di “realismo giuridico” che ad uno studioso non può mancare, che l’ipotesi ora avanzata
sia tutt’altro che peregrina.
In aggiunta a quanto detto, mi sia consentito offrire solo taluni “flash”, che potrebbero
costituire ulteriori spunti di riflessione da sottoporre – sebbene per brevissimi cenni – all’attenzione
di tutti.
Per prima cosa, anch’io, come molti, sono convinto che l’art. 138 Cost. si presti meglio a
modifiche circostanziate della Carta che a “stravolgimenti” così sostanziosi, come quello che si
vuole in questa occasione operare; sebbene il testo costituzionale nulla dica al riguardo,
occorrerebbe chiedersi a cosa avesse pensato il Costituente quando discorreva di revisione parziale
(ad avviso dell’on. Terracini l’unica ipotesi che si sarebbe dovuta prendere in considerazione: v.
seduta del 15 gennaio 1947, prima Sezione della seconda Sottocommissione della Commissione per
la Costituzione), nella consapevolezza che il metodo originalista costituisce solo uno tra i diversi
criteri interpretativi dell’articolato costituzionale (in definitiva, come mi è piaciuto dire in altre sedi,
tale metodo non è «né tutto né niente»).
Passando adesso ad un altro aspetto, anch’io considero sfavorevolmente il mantenimento del
divieto di mandato imperativo in capo ai senatori; esso appare una stortura se si considera che il
compito ad essi affidato (il loro “mandato”, appunto) consiste nel rappresentare le Istituzioni
territoriali (a prescindere da come riusciranno realmente a farlo, ma su questo punto tornerò a
breve). E tuttavia non poteva essere altrimenti se si considera che all’interno della seconda Camera
siederebbero (se passa la riforma), com’è noto, anche i senatori di nomina presidenziale; piuttosto a
tale riguardo sarebbe stato più opportuno che i parlamentari nominati dal Presidente della
Repubblica facessero parte della Camera dei deputati (non comprendo infatti in che modo tali
senatori potrebbero svolgere quel ruolo di rappresentanza di cui è appena detto). Non a caso, c’è
539
stato chi non ha esitato a definire tale previsione un «obbrobrio costituzionale», meritevole di essere
inserito in un eventuale «bestiario costituzionale» (R. Bin).
Tra le molte ragioni che hanno spinto la riforma (non da ultima quelle connesse ad esigenze
di bilancio), vi è senz’altro quella di una migliore governabilità del Paese, essendo sotto gli occhi di
tutti l’instabilità politica che si è tradotta in crisi di governo causate dallo sfaldamento della stessa
maggioranza di turno; e tuttavia sembra che la motivazione della governabilità sia stata brandita
come uno “scudo”, quasi come un modo per legittimare (e giustificare) maggiormente la revisione e
quindi, al tempo stesso, coagulare intorno ad essa un più ampio consenso. A tal proposito, infatti,
non posso che concordare con chi ha efficacemente rilevato che «l’ingovernabilità dipende solo in
parte […] dall’insufficienza delle regole giuridiche. Sono soprattutto le prassi e le regolarità
politiche distorte, segno di un deterioramento etico ormai in atto da tempo, a incidere
negativamente sulla resa delle istituzioni democratiche» (L. Ventura). Solo un reale recupero da
parte di tutti del senso dello Stato, che altro non è che la concreta e quotidiana attuazione dell’etica
pubblica-repubblicana, potrà alleviare annose patologie del nostro sistema socio-politico e quindi
istituzionale.
D’altra parte, come accennavo, mi sembra difficile negare che le esigenze di bilancio (anche
alla luce delle indicazioni provenienti dall’Unione europea) abbiano di certo favorito la riforma,
accelerandone l’iter; il riferimento – com’è ovvio – è in primis alla drastica riduzione del numero
dei senatori. Al riguardo, molti hanno fatto notare che sarebbe stato meglio optare per il
monocameralismo, cancellando il Senato dal sistema ordinamentale italiano. Non v’è dubbio che in
tal modo si sarebbero meglio raggiunti gli obiettivi di spending review, ma le critiche mosse in
merito all’occasione mancata paiono ingenerose per la banale considerazione che il legislatore di
riforma, come sempre accade, non ha certamente operato la migliore riforma possibile, ma solo
quella politicamente possibile, quella cioè intorno alla quale si è stati in grado di raggiungere un
accordo tale (numericamente parlando) da consentire di giungere al termine del procedimento
previsto dall’art. 138 Cost.
In merito poi al ruolo di “raccordo” che il Senato sarà per Costituzione chiamato a svolgere,
non poche sono le perplessità che nutro; non sono infatti convinto che la seconda Camera sarà
davvero ciò che si vorrebbe. Tra le diverse ragioni che spingono a pensare che quanto sarà
540
(eventualmente) scritto “sulla carta” possa non avere riscontro nell’esperienza vi è quella per la
quale non è possibile escludere che una volta eletti i senatori potrebbero essere condizionati dalla
propria appartenenza politica (anche nella loro distribuzione all’interno dei gruppi parlamentari,
sempre che si formino), mirando quindi a soddisfare interessi partitici più che territoriali; ma anche
su questo, come su tutto il resto, potremo solo attendere che siano i fatti ad offrire risposte e a
dissolvere i dubbi che oggi attanagliano i giuristi.
Inoltre, come si sa, il Senato non svolge la funzione (o, se si preferisce, l’attività) di
indirizzo politico (d’altra parte non poteva essere altrimenti essendo stato estromesso, a ragione, dal
rapporto fiduciario), sebbene sono dell’idea che la seconda Camera non potrà che condizionarne lo
svolgimento; se si pensa, infatti, alle competenze ad essa riconosciute nell’ambito del rapporto con
l’Unione europea nonché al compito di valutare le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche
amministrazioni non si può escludere che il Senato possa influenzare l’operato della Camera dei
deputati (né, d’altra parte, si può pensare che i componenti della Camera territoriale si rassegnino
facilmente a svolgere un ruolo di secondo piano).
In conclusione, seppure la riforma in discorso appaia connotata da non poche incongruenze
e contraddizioni, sia consentito invitare ad un prudente ottimismo; a tale riguardo, prendo a prestito
le parole di chi ha osservato che «quella del disegno di legge costituzionale è una normazione in
molti punti incerta e lacunosa e dunque aperta a vari esiti, sicché per una volta la bassa qualità
tecnica potrà essere un vantaggio, aprendo la via a un recupero di possibilità conformative da parte
dei regolamenti» (S. Staiano). Ovviamente quanto ora detto non può (e non deve) essere
strumentalizzato al fine di giustificare svarioni e sgrammaticature, nella ferma (ed ovvia)
convinzione che sia dovere istituzionale di chi mette mano ad una revisione della Carta cercare di
«prevenire invece che curare» (o, meglio, lasciare che altri curino nei tempi a venire); tuttavia, nella
complessità e gravità della situazione, si potrebbe forse dire che «non tutti i mali vengano per
nuocere»…
Solo il tempo, però, potrà dire quali e quante delle previsioni che oggi ci affanniamo a fare
siano corrette.
Qualche riflessione, poche risposte e molti dubbi sulla riforma costituzionale
di Anna Maria Citrigno*
Proverò ad esprimere in poche parole le ragioni della mia attuale propensione a votare no
alla revisione della Costituzione prospettata dalla riforma Renzi-Boschi. Sappiamo bene come il
dibattito sulla necessità di riformare la seconda Camera e porre fine al sistema bicamerale perfetto
non rappresenti una novità ed è altrettanto noto come intorno alla predetta esigenza in linea di
principio si registri un ampio consenso. Sin dagli anni settanta si è infatti immaginata la
trasformazione del Senato in una Camera delle Regioni, ma i vari tentativi non hanno mai concluso
il loro iter formativo. La necessità di una trasformazione del Senato ha assunto maggiore rilievo nel
quadro dell’articolato processo di riforme legislative che, a partire dagli anni novanta, ha interessato
l’ordinamento regionale e quello degli enti locali, culminato poi nella modifica del titolo V della
nostra Costituzione. Uno dei punti critici immediatamente avvertito dalla dottrina all’indomani
della riforma del titolo V è stato individuato proprio nell’assenza della previsione di una vera e
propria Camera delle Regioni e delle autonomie, e ciò a scapito di un più coerente completamento
del processo di trasformazione della forma di Stato in senso federale, avviato con la medesima
riforma che ha lasciato pertanto insoluti i nodi del bicameralismo. Mi pare opportuno evidenziare
che l’esigenza di una Camera «in grado di rappresentare» gli enti territoriali era stata maggiormente
avvertita nel momento in cui le riforme che si sono succedute propendevano verso un assetto di tipo
federalista nella ricerca di quell’equilibrio tra le esigenze unitarie e il riconoscimento delle
autonomie, così come prescritto dalla Costituzione in uno dei suoi principi fondamentali (art. 5
Cost). La previsione di una sede rappresentativa di concertazione centrale per il coinvolgimento
delle Regioni e degli Enti locali nella determinazione della volontà statale, con la conseguente
trasformazione del Senato, potrebbe infatti rappresentare una ovvia razionalizzazione di un modello
di bicameralismo che come è ampiamente noto non ha prodotto i risultati sperati. In base al disegno
di riforma costituzionale la Camera dei Deputati diviene unica titolare del rapporto di fiducia con il
Governo, mentre il «Senato della Repubblica», che nel disegno di legge governativo era
* Ricercatore di Istituzioni di diritto pubblico, Università di Messina.
542
denominato «Senato delle autonomie» (Art. 55 - A.S. n. 1429), diviene organo di rappresentanza
delle istituzioni territoriali. Sotto il profilo funzionale il Senato viene privato della competenza
generale in materia legislativa. Il ruolo della seconda Camera dovrebbe essere strettamente
connesso alle funzioni di raccordo tra lo Stato e gli enti territoriali, un luogo di confronto, di
consenso preventivo in particolare nell’esercizio della funzione legislativa, al fine di pervenire ad
un rapporto di collaborazione tra gli enti che compongono la Repubblica. Il ruolo del nuovo Senato
rappresentativo delle autonomie territoriali, seppur estraneo al circuito della fiducia, appare
rilevante rispetto ad una serie di competenze che vanno dalla nomina dei giudici della Corte
costituzionale alla elezione del Capo dello Stato, l’approvazione delle leggi costituzionali ed
elettorali e quelle indicate all’art. 70 sino al potere che in base al disegno di legge spetta al nuovo
Senato che, così come previsto all’art. 55, «concorre all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo
Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica e tra questi ultimi e l’Unione europea. Partecipa alle
decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione
europea» (A.S. n. 1429-B). Rispetto a quest’ultima versione va detto che il Senato in prima lettura
(A.C. n. 2613) aveva altresì stabilito una competenza un po’ più incisiva di coordinamento (tra lo
Stato e l’UE) della “Camera alta” che, invero, ha destato più di una perplessità in dottrina per «il
ruolo del tutto anomalo nel sistema dei rapporti fra l’ordinamento italiano e l’Unione europea» (E.
Rossi). Dall’esame dell’articolato sembra delinearsi un modello di Senato che di fatto esercita tutta
una serie di prerogative e di funzioni che hanno certamente un rilievo politico a prescindere dalle
modifiche in corso d’opera che hanno riguardato in particolare la modalità di elezione dei senatori.
Quest'ultimo è prevalentemente il tema sul quale si è incentrato il dibattito politico che ha trascurato
invero quello che è il vero nodo cruciale: il ruolo e le funzioni effettive che il nuovo Senato dovrà
esercitare. Altrettanto complessa è, come cercato di descrivere sinteticamente, la stessa idea di
rappresentanza politica che emerge dal quadro costituzionale così congegnato. Pertanto, considerato
che uno degli assi portanti su cui la revisione risiede è la trasformazione del Senato quale luogo di
rappresentanza territoriale, a me pare che sia sufficiente osservarne l’ambigua configurazione per
avanzare seri dubbi sulla necessità di un Senato siffatto alla stregua di un monocameralismo
mascherato. A tale proposito, l’opzione monocamerale sarebbe stata di gran lunga preferibile, ma
non è questa la sede per esprimere i desiderata su ciò che si sarebbe potuto prevedere o meno.
543
Focalizzando l’attenzione sugli obiettivi dichiarati dalla relazione al Disegno di legge di riforma
costituzionale si evince che lo stesso risponde, in primo luogo, alla realizzazione di una più efficace
attuazione dell’indirizzo politico della maggioranza attraverso Governi stabili ed efficienti. I temi
della stabilità e della efficienza sembrano costituire il leit motiv delle ultime riforme ritenute
indispensabili, anche, e soprattutto, tenuto conto del contesto di grave crisi economico-finanziaria
che ha investito negli ultimi anni il nostro Paese e, più in generale i paesi dell’Unione europea. Più
in particolare, il duplice obiettivo che il progetto si propone di perseguire è «da una parte, rafforzare
l’efficienza dei processi decisionali e di attuazione delle politiche pubbliche nelle quali si sostanzia
l’indirizzo politico, al fine di favorire la stabilità dell’azione di governo e quella rapidità e incisività
delle decisioni che costituiscono la premessa indispensabile per agire con successo nella
competizione globale; dall’altra, semplificare e impostare in modo nuovo i rapporti tra i diversi
livelli di governo, definendo un sistema incentrato su un nuovo modello di interlocuzione e di più
intensa collaborazione interistituzionale e, in alcuni ambiti, di co-decisione tra gli enti che
compongono la Repubblica, volto a favorire il protagonismo dei territori nella composizione
dell’interesse generale e la compiuta espressione del loro ruolo nel sistema istituzionale» (Relazione
al D.D.L A.S. 1429, 4). Mentre l’obiettivo della governabilità sembrerebbe poter trovare una
realizzazione rispetto alla risoluzione dei nodi del bicameralismo paritario, tenuto conto di una serie
di previsioni che vanno dal voto a data certa alla riviviscenza dell’interesse nazionale sino alla
implicita trasformazione di fatto della forma di governo a scapito del Parlamento, lo stesso non può
dirsi per la questione della rappresentanza territoriale al centro per la quale il nuovo Senato non
sembra rivelarsi il più efficace a garantire le ragioni dei territori; maggiormente funzionale, in
questo quadro, sarebbe stato proprio il rafforzamento o, in ogni caso, una rivisitazione del sistema
delle conferenze quale “sede privilegiata” della leale collaborazione, se non finanche in grado di
supplire efficacemente al ruolo della seconda Camera (I. Riggiu).
Ma l’esame della riforma costituzionale deve essere completato guardando all’altro asse
portante della stessa. La coerenza del disegno di riforma costituzionale che riguarda la
trasformazione del Senato deve infatti essere valutata anche alla luce della consistente revisione
della parte relativa al titolo V della Costituzione ovvero quella che riguarda le autonomie
territoriali. Sotto questo profilo sembra potersi cogliere un depotenziamento ulteriore del ruolo delle
544
autonomie proprio nel momento in cui parallelamente si è pensato di dare vita ad un Senato che le
rappresenti! Ciò che potrebbe sembrare apparentemente una contraddizione rappresenta, invero, il
frutto della medesima logica neo-centralista e, se si vuole, persino coerente nel suo complesso.
Occorre premettere che i rilevanti problemi interpretativi e di attuazione della riforma del titolo V
hanno trovato una puntuale soluzione grazie al costante intervento della Corte costituzionale,
chiamata a risolvere numerosi conflitti tra lo Stato e le Regioni. A tale proposito non sembra
superfluo evidenziare che solo più di recente si era trovato un punto di equilibrio ed assestamento
delle competenze tra lo Stato e le Regioni e anche se nel senso di un ri-accentramento delle funzioni
in capo allo Stato, maggiormente risolutivo e persino in grado di ridurre i conflitti intersoggettivi.
La nuova architettura costituzionale darebbe luogo ad un rilevante ridimensionamento della potestà
legislativa regionale che nella riforma costituzionale del 2001 aveva trovato una certa espansione,
quanto meno nelle intenzioni, conformemente al principio autonomistico sancito all’art. 5 della
Costituzione. Il disegno di riforma, modificando l’art. 117 Cost., trasferisce anzitutto alla potestà
esclusiva dello Stato la maggior parte delle materie oggi relative alla potestà legislativa concorrente
o ripartita tra Stato e Regioni. La domanda che ci si pone è se la soppressione della potestà
concorrente che risponde all’esigenza di ridurre il contenzioso sulla ripartizione delle competenze
possa realmente costituire un rimedio ai conflitti. Concretamente non sembra che la potestà
concorrente possa essere archiviata tout court, non fosse altro perché come è stato efficacemente
evidenziato il testo della riforma abbonda di formule che indicano concorrenza: locuzioni come
«disposizioni generali e comuni» o «norme di principio» altro non significano che una legislazione
statale di principio e legislazione regionale di dettaglio (F. Palermo) e, allo stesso tempo, nessuna
potestà legislativa può considerarsi “esclusiva”, compresa quella dello Stato (C. Salazar). In
definitiva, non mi pare che la soluzione individuata possa di per sé essere in grado di ridurre la
conflittualità tra lo Stato e le Regioni.
Un aspetto particolarmente importante in questo quadro riguarda l’introduzione della
“clausola di supremazia” (art. 117, c. 4) in base alla quale la legge statale può intervenire in materie
non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o
economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale. Tale previsione rafforza
ancora, forse in modo eccessivo, una visione neo-centralista che probabilmente vuole rimediare alla
545
previsione poco efficace del potere sostitutivo affidato al Governo di cui all’art. 120 Cost., anche
questo soggetto a modifica attraverso la quale viene affidata alla legge la definizione dei casi di
esclusione dei titolari di organi di governo regionali e locali dall’esercizio delle rispettive funzioni
nel caso in cui si accerti lo stato di grave dissesto finanziario dell’ente.
Un’altra previsione è quella che consente il regionalismo differenziato che in una prima fase
del dibattito aveva rischiato di essere rimossa del tutto e che è invece ora resa possibile anche per le
Regioni a statuto speciale. Ma non può non essere evidenziata l’omissione dell’articolato in ordine
alle Regioni a statuto speciale, sostanzialmente trascurate dalla riforma. È noto, almeno sino ad
oggi, il mancato interesse delle Regioni salvo poche eccezioni che non sono comunque riuscite a
portare a termine percorsi di differenziazione o specializzazione. Potrebbe essere un’occasione per
fare oscillare il pendolo della bilancia a favore delle autonomie in un disegno complessivo che
invero è teso alla centralizzazione approfittando anche dell’ampliamento del numero di materie in
cui è possibile una specializzazione ulteriore se è vero che «la differenziazione è quindi lo scopo
dell’autonomia, così come l’autonomia è lo strumento della differenziazione. A sua volta la
differenziazione non è una scelta, ma una conseguenza necessaria della diversità» (R. Bin).
La previsione del nuovo Senato non può essere valutata solo nell’ottica di una
semplificazione e della eliminazione del bicameralismo paritario sul quale in linea di massima è
difficile trovare opinioni dissenzienti, ma occorre una approfondita analisi delle numerose
disposizioni innovative sul piano dell’ordinamento delle istituzioni, fermo restando che la
salvaguardia del principio democratico impone pur sempre che la centralizzazione delle competenze
e la semplificazione degli apparati istituzionali si accompagnino alla previsione di adeguati
contrappesi e al rafforzamento del sistema delle garanzie. Ed è soprattutto sotto questo profilo che,
a mio modesto avviso, la riforma appare lacunosa.
Brevi considerazioni sul disegno Renzi-Boschi in attesa del referendum confermativo
di Maria L. Quattrocchi*
Per quanto possa vedersi come “miracoloso” l’avvento del disegno di legge di riforma
costituzionale Renzi-Boschi, giunto dopo una lunga serie di tentativi falliti di revisionare la forma
di governo, non è facile accettare “per fede” tutte le carenze e le imperfezioni del testo. Così come
può non risultare semplice credere che la riforma avrà una rapida e adeguata attuazione.
L’obiezione secondo cui anche la Costituzione del 1948 conteneva una serie di rinvii “al
buio” (in merito all’istituzione delle Regioni, all’organizzazione e al funzionamento della Corte
costituzionale, al referendum abrogativo etc.), ignorandosi anche allora quale sarebbe stata
l’evoluzione del sistema istituzionale che si andava delineando, muove da un accostamento
inappropriato, considerato che, in quel caso, si trattava della legge fondamentale, scritta da
un’apposita Assemblea costituente, che appunto aveva il compito di porre le basi di un nuovo
ordinamento, profondamente diverso da quello precedente. Inoltre, notevoli appaiono le differenze
tra il contesto socio-politico del tempo e quello attuale.
Se, invece, si guarda alla non più recente riforma costituzionale del 2001, che rappresenta il
precedente più vicino all’iniziativa riformatrice di cui stiamo discutendo, si può notare come gli
esercizi acrobatici di un legislatore costituzionale che rinvia a future discipline per perfezionare la
novella costituzionale in tempi brevi, abbiano già dato risultati insoddisfacenti.
È ancora vivo il grido di dolore dei costituzionalisti per un uso congiunturale della
Costituzione, che determina l’effetto di una disaffezione alla tavola dei valori fondamentali espressi
nella stessa legge fondamentale (A. Ruggeri). E non è possibile dimenticare episodi che mettono
seriamente in dubbio la stessa lealtà e la fedeltà ai principi repubblicani di esponenti delle
istituzioni, che dopo aver promosso riforme, ne hanno svelato gli intenti non proprio
commendevoli: si pensi alla legge elettorale del 2005, successivamente definita dallo stesso
Ministro che l’aveva proposta come una “porcata”. Anche in quel caso, durante gli incontri di
studio tenuti nelle aule universitarie precedenti l’entrata in vigore della legge, esponenti di varia
* Ricercatore di Diritto costituzionale, Università di Messina.
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estrazione politica avevano risposto ai giuristi, che avevano rilevato l’impossibilità di
funzionamento di quella disciplina, con rassicurazioni che la stessa fosse il prodotto migliore da
poter offrire in quel momento.
Per questi motivi, piuttosto che sottolineare gli elementi positivi della riforma, come ad
esempio il superamento del bicameralismo perfetto, mi pare opportuno evidenziare le debolezze che
il prodotto di quest’ultimo compromesso politico presenta. E ciò comunque nella speranza che, in
caso di esito positivo del referendum, i dubbi e le perplessità siano presto superati e sconfessati da
coloro che si sono assunti la responsabilità di dare una svolta al sistema costituzionale italiano.
Passando al merito della riforma, per quanto riguarda le future modalità di scelta dei
consiglieri e dei sindaci che comporranno il nuovo Senato, salta subito agli occhi come anche
autorevoli studiosi che hanno dichiarato di votare sì al referendum abbiano però sottolineato che la
disciplina del superamento del bicameralismo imperfetto presenta incongruenze sostanziali, oltre
che importanti carenze sul piano della formulazione linguistica.
Alcune considerazioni mi sembrano necessarie al riguardo. Non farò qui menzione,
innanzitutto, di soluzioni alternative di cui la dottrina si è già ampiamente occupata negli ultimi
anni, ma che non riguardano più l’oggi, e premetto altresì che rifuggo l’idea, pur espressa da
autorevoli studiosi, di stigmatizzare tale disegno quale strumento di “deriva autoritaria” o quale
vulnus per la democrazia. Così come non mi sembra sostenibile fino in fondo la tesi della mancanza
di legittimazione del Parlamento, a seguito della sent. n. 1/2014 della Corte costituzionale,
trattandosi, a mio avviso, di una tesi che prova troppo, in quanto nella stessa pronuncia si è
affermato che il Parlamento, pur eletto con la normativa elettorale dichiarata illegittima, può
svolgere regolarmente le sue funzioni in forza del principio di continuità dell’ordinamento.
Il richiamo di Hegel, fatto in questa sede dal Prof. Spadaro (laddove afferma che criticare è
facile, capire è difficile) mi sollecita ancor di più ad approfondire alcuni aspetti della riforma che in
questo momento mi sembra la rendano incoerente. La circostanza che essa non funzionerà se non
per mano del legislatore italiano futuro mi ricorda la perenne inerzia di quest’ultimo a far fronte, a
causa di giochi politici, a talune pressanti domande di disciplina positiva provenienti dal corpo
sociale, specie dai cittadini spesso più deboli, nonostante il principio personalista su cui si fonda la
Costituzione italiana; peraltro su tali tematiche “sensibili” spesso il Parlamento italiano interviene
548
solo quando è costretto da sollecitazioni della giurisprudenza sovranazionale ma sin a quel
momento estranee alla volontà politica “domestica”. In tali materie ci possono essere ambiti che
interessano le Regioni e gli enti locali, ma dopo l’eventuale approvazione popolare della riforma
quale sarà il ruolo del Senato? L’esito del referendum di ottobre con cui i cittadini decideranno sulla
riforma, come tutti hanno fatto notare, non doveva essere personalizzato dal Presidente del
Consiglio perché votare no non significa solo voler lasciare lo status quo ante, come
maliziosamente viene fatto notare, o contestare il Governo tout court, ma anche riproporre qualche
non facile soluzione (come, ad esempio, la diminuzione del numero dei parlamentari
esageratamente elevato). Votare sì, al contrario, significa anche vedere implementare interamente il
meccanismo riformatore per assicurare la svolta reale a questo Paese soprattutto nel più breve
tempo possibile.
Quest’ultima considerazione mi porta ad un sano pessimismo considerando le vicissitudini
trascorse con le riforme costituzionali del 1999 e del 2001 che desideravano anch’esse dare una
svolta al sistema costituzionale ma con cui (specie con la seconda) sono stati partoriti problematici
assetti nei rapporti tra Stato e Regioni, riplasmati dalla Corte costituzionale, poi travolti nel tempo
dalla crisi economica che ha messo definitivamente in stand by l’attuazione di alcune norme
fondamentali per la sua riuscita, come ad es. l’art. 118 Cost., l’art. 119 Cost. e lo stesso federalismo
fiscale (a causa della riforma lampo dell’art. 81 Cost. approvata nel 2012) che doveva costituire un
volano per le autonomie territoriali. Anche allora tante aspettative sono state tradite dal legislatore;
si pensi per tutte all’attuazione della legge n. 131 del 2003 (c.d. legge La Loggia) che ripeteva
inutilmente il contenuto delle disposizioni costituzionali senza sciogliere alcuni nodi strategici della
riforma.
Alla luce di questi precedenti, cosa ci impedisce di pensare che l’ennesima riforma, più che
rivelarsi un motore di grossa cilindrata, non lascerà fermo per troppo tempo il Paese? So che nessun
giurista ha la sfera di cristallo, ma alcune lacune vistose presenti nelle disposizioni transitorie (che,
in Italia, non sono mai a causa dell’endemica inerzia del legislatore) non lasciano ben sperare. La
stessa legge elettorale per il Senato, dovendo determinare i meccanismi idonei a scegliere quali
consiglieri regionali e quali sindaci siederanno nell’Assemblea di Palazzo Madama, determinerà
delle disomogeneità profonde tra territori che non sarà facile superare e che potranno essere
549
strumentalizzate dai partiti politici nell’ambito di un contesto che – ahimè … – si presenterà
fortemente centralizzato.
Concentrerò la mia attenzione sul punto principale attinente al superamento del
bicameralismo perfetto poiché, detto con una certa franchezza, il fine della riforma del titolo V
appare la contrazione dell’autonomia regionale allo scopo di centralizzare le funzioni legislative.
Quest’ultima scelta (anche se, come è stato notato, ha esclusivamente razionalizzato la
giurisprudenza costituzionale) poteva non apparire un male incurabile qualora il Senato riformato
avesse posto «gli amministrati nel governo di sé medesimi», per utilizzare la dichiarazione di Ruini
in Assemblea costituente che corrisponde all’affermazione di «portare la periferia al centro» di cui
parla da tempo il Prof. Ruggeri.
Non condivido le premesse di chi dichiara di votare sì, aggiungendo che la riforma è
perfettibile, così come di coloro che, pur manifestando pieno dissenso, sentono l’esigenza di
affermare che il presente assetto ha comunque bisogno di cambiamento, qualunque esso sia. Mi
chiedo allora se sia necessaria un’altra riforma per valorizzare le forze umane, sociali e politiche
che possono rinnovare il Paese, dato che la precedente riforma è stata già riscritta dalla Corte
costituzionale.
Vengo al dunque. Tutti conosciamo bene le problematiche che affliggono il sistema italiano.
Il Governo si è fatto promotore di un ventaglio di iniziative politico-normative per scegliere
soluzioni per i molti problemi che affliggono il Paese, senza toccare naturalmente i principi
fondamentali della Costituzione ma intervenendo su oltre un terzo della stessa. La politica ha il
compito arduo di proporre soluzioni che possono essere condivise da maggioranza e opposizione
(anche se il “patto del Nazareno” docet che esistono ormai maggioranze e opposizioni a giorni
alterni …) e votate secondo la procedura dell’art. 138 Cost. Ma leggendo il testo non è facile
dimenticare le conoscenze ereditate dall’esperienza comparata sulle sedi della rappresentanza
territoriale. Pertanto quando il Prof. D’Andrea afferma che le problematiche delle seconde Camere
sono diffuse in tanti Paesi europei, mi sollecita la considerazione che anche il sistema austriaco,
importato senza il vincolo di mandato e il voto omogeneo dei componenti, rende troppo debole il
Senato, che, non avendo la possibilità di intercettare le istanze territoriali, fallisce l’obiettivo per cui
è stato creato. Inoltre sappiamo bene che il vero centro di potere spesso è la Conferenza dei
550
Presidenti dei Länder. Il sistema tedesco era l’alternativa più gradita perché funziona bene (il
Bundesrat, infatti, rappresenta i Governi dei Länder) ma non è stata approvata dalla maggioranza
dei parlamentari. Se è noto che il sistema austriaco non funziona nel suo Paese d’origine perché i
riformatori italiani hanno messo insieme il diavolo e l’acqua santa? L’amara conclusione, pur
adombrata dal Prof. Ruggeri, quale sarebbe? Approvare questa riforma nella consapevolezza che il
Senato quale seconda Camera neonata avrà poca vita e potrebbe essere condannato all’eutanasia
perché agonizzante? Allora la riforma propone una soluzione a prima vista apprezzabile, e cioè il
superamento del bicameralismo perfetto, che però potrebbe anche non funzionare, come dimostra,
del resto, l’esperienza di altri Paesi. Il nuovo Senato, formalmente rappresentativo delle istituzioni
territoriali (ancorché connotato da una composizione “eterogenea”, rientrandovi consiglieri
regionali e sindaci), mantenendo il divieto di mandato imperativo come per i componenti della
Camera, rischia di presentare una composizione politico-partitica che poteva evitarsi attraverso la
previsione di un voto unitario, come auspicato da molti commentatori. I componenti non voteranno
probabilmente nell’interesse della propria Regione se appartengono a partiti contrapposti. Pertanto,
pur essendo consapevole della difficoltà di costruire un Senato rappresentativo delle autonomie
territoriali, potrebbe non avere senso, a mio modesto avviso, proclamare il superamento del
bicameralismo perfetto senza nessun sistema correttivo immediato. La triste conseguenza potrebbe
essere quella di alimentare il trasformismo anche nel Senato dopo avere assistito ad un’elevata
litigiosità tra i componenti.
Un’ultima considerazione riguarda uno dei vincoli costituzionali previsti dagli artt. 51 e 117
Cost. relativo alla rappresentanza femminile nel nuovo Senato. Le disposizioni transitorie inerenti
alle modalità di elezione del Senato, anche con riferimento alla prima applicazione, hanno generato
una profonda rottura della Costituzione novellata sulla base delle c.d. “azioni positive” a favore
delle donne, previste oggi dalla stessa Carta di Nizza. Tali norme rimarranno applicabili fino
all’entrata in vigore della legge bicamerale. Ma nessuno è in grado di affermare con certezza quanto
tempo rimarranno in vigore le disposizioni transitorie, nonostante il termine espressamente fissato.
In Italia, infatti, in numerose occasioni abbiamo assistito a congiunture avverse che hanno fatto
slittare in avanti i termini indicati.
551
In sintesi, si è consapevoli che non esiste la migliore riforma costituzionale, dato che
qualunque proposta è frutto di un compromesso politico. Purtroppo l’errore commesso, a mio
modesto avviso, è stato quello di porre sulle spalle di tale riforma le sorti del Governo e del Paese.
Ciò nondimeno, non si può sottacere che un Senato così strutturato non potrebbe funzionare bene
proprio perché non rappresenta le istituzioni territoriali e potrebbe divenire un’arena in continuo
conflitto al suo interno. A ciò si aggiunga che l’intreccio delle competenze non agevola
l’individuazione dell’ambito in cui la funzione legislativa debba essere esercitata secondo il
procedimento bicamerale o monocamerale. Si prevede che, in caso di contrasti, decidano d’intesa i
due Presidenti ma se il procedimento legislativo si consuma in accordo con i due Presidenti, la
legge potrà essere impugnata per violazione della Costituzione. Non mi soffermo sulla clausola di
supremazia perché è chiaro che lo Stato è legittimato dalla Costituzione ad intervenire nelle materie
di competenza regionale.
In conclusione anche in questo incontro è stato sottolineato che gli organi di garanzia non
vengono scalfiti dalla riforma, per cui ancora una volta il giudice delle leggi sarà chiamato a mettere
ordine e a dirimere conflitti tra enti per rendere coerente un’ennesima riforma perfettibile…
Dall’attuale bicameralismo paritario a quello differenziato:
taluni dubbi che il salto finisca nel buio*
di Stefano Agosta**
Guarda due volte prima di saltare.
[Charlotte Brontë, Shirley (1849), trad. it. a cura di F. Dei, Roma, 2015, 121]
1. Ben lungi dall’essere perfette (alla stregua di qualsivoglia altro parto dell’ingegno umano,
d’altro canto) le Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del
numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la
soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione, approvate la
scorsa primavera ed ora in attesa della prova referendaria di autunno, mi sembra partano da una non
poco ambiziosa idea portante: quella, cioè, di coniugare – cerco di semplificare al massimo,
riprendendo la relazione ad A.S. n. 1429 − il principio democratico di cui all’art. 1 Cost. col suo
contraltare ex art. 5 Cost., alla ricerca di un nuovo e più aggiornato equilibrio tra unità/indivisibilità
della Repubblica ed autonomia.
Al centro appare volutamente rafforzata l’attuazione dell’indirizzo politico da parte dell’asse
Governo-Camera dei deputati attraverso l’introduzione di una serie di rilevanti novità: così ad
esempio in tema di voto c.d. a data certa (incidente sui tempi di approvazione dei provvedimenti
governativi ritenuti più rilevanti per l’implementazione del programma dell’Esecutivo) ed
accompagnato dalla corrispondente razionalizzazione della decretazione d’urgenza attraverso la
costituzionalizzazione dei già noti limiti imposti dalla l.n. 400/1988; in materia di rapporto di
fiducia (ora prerogativa esclusiva della Camera); nell’ambito dello stesso procedimento di
produzione legislativa (allorquando, appunto nella sua “variante” monocamerale, la Camera dei
* Il presente contributo trae spunto dalla corposa documentazione consultabile in www.senato.it (spec. la
relazione ad A.S. n. 1429, Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei
parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del
titolo V della parte seconda della Costituzione e, soprattutto, La riforma costituzionale. Testo di legge costituzionale,
schede di lettura n. 216/12, parte I, a cura del Servizio studi della Camera dei deputati, maggio 2016) alla quale sono da
intendersi i richiami contenuti nel testo. **
Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Messina.
553
deputati può pronunziarsi in via definitiva). Ma è nelle corrispondenti periferie che il disegno di
riforma in commento si sforza di irrobustire il pluralismo istituzionale naturalmente sotteso al citato
principio autonomistico: nella convinzione – come pure è stato rimarcato − che quanto più prossimo
è il potere pubblico alla cittadinanza, tanto superiore è la capacità di soddisfare i diritti civili e
sociali a quest’ultima riconosciuti, tanto maggiore risulterà infine il complessivo tasso di
democraticità dell’ordinamento (secondo i tradizionali dettami del principio di sussidiarietà
verticale).
Nell’intenzione del Governo la messa a punto di nuove sedi, strumenti, procedure e metodi –
in una parola, di nuovi e più vitali “raccordi” − di collaborazione inter-istituzionale mi sembra
insomma che rappresenti lo strumento più idoneo a congiungere le contrapposte esigenze del centro
con quelle delle menzionate periferie: nel complessivo ordito riformatore due (ben riconoscibili e
funzionalmente collegate) sono perciò le principali connessioni messe in campo, rispettivamente
rappresentate dal nuovo Senato delle Regioni (quale raccordo per organi) e dal ritoccato riparto di
competenze legislative tra Stato e Regioni (come raccordo per atti). Su quest’ultimo − per
inevitabili ragioni di brevità e di tempo − non mi è adesso possibile più diffusamente soffermarmi
se non per rilevare almeno come esso appaia, per un verso, ripiegarsi all’indietro e, per un altro,
rivolgersi in avanti: pro passato, l’attuale revisione delle potestà legislative intenderebbe (se non
definitivamente rimuovere quantomeno) smorzare – lo si è convintamente sostenuto − l’eccesso di
conflittualità tra i livelli di governo innescato, ed esponenzialmente cresciuto, a partire dalla riforma
del 2001; pro futuro, tale ennesimo rimaneggiamento dovrebbe – sempre nei piani del legislatore di
revisione − naturalmente integrarsi con l’attuale composizione della seconda Camera, potendone
rappresentare il fisiologico e complementare pendant (secondo una logica che bilanci la prospettata
fluidificazione delle dinamiche tra poteri legislativi con la permanente integrazione delle istanze
autonomistiche nel processo decisionale centrale).
Tornando al Senato delle Regioni – che di questo breve contributo vuole rappresentare
l’oggetto privilegiato – sul piano strutturale, ben visibile e distinto mi pare il duplice ruolo ad esso
riconosciuto dalla revisione in commento che è, in primo luogo, quello di sede organica di
collegamento tra lo Stato e gli enti territoriali: alla perdurante assenza di esso nell’ordinamento
costituzionale italiano sarebbe principalmente da addebitare del resto, a parere della relazione cit., il
554
progressivo radicamento di un sistema di governo più agitato da logiche competitive che non
ispirato da razionalità ed efficienza; così, proprio nella logica della leale cooperazione istituzionale,
si spiega la paritaria rappresentazione in Senato di Regioni e Comuni. Implicando il paventato
rischio che i senatori siano espressivi di interessi non legati alle istituzioni di provenienza ma alle
forze politiche e/o alle circoscritte esigenze del proprio territorio − ovvero che questi siano tentati di
incidere su scelte di indirizzo politico (come tali rientranti invece nell’esclusivo rapporto di fiducia
spettante alla Camera dei deputati) – si dà conto del fatto che l’elezione a suffragio universale e
diretto è stata rimpiazzata con quella di secondo grado da parte delle Assemblee elettive regionali:
tanto sul piano formale della procedura quanto su quello sostanziale degli interessi rappresentati,
nondimeno, tale scelta ho l’impressione che non nasconda un certo grado di opacità.
A parte che debba avvenire con metodo proporzionale, sotto il profilo procedurale null’altro
sul merito della futura elezione dei senatori viene in effetti detto, le modalità di attribuzione dei
seggi, dell’elezione medesima nonché quelle per la sostituzione degli eletti (in caso di cessazione
dalla carica elettiva regionale e locale) essendo interamente demandate alla discrezionalità del
futuro legislatore: così, di sicuro mi sembra ci sia solo che le prossime elezioni debbano avvenire da
parte dei Consigli regionali e delle Province autonome tra i propri componenti e, nella misura di
uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni del rispettivo territorio (mentre l’adozione del sistema
maggioritario per l’elezione dei consiglieri regionali, com’è stato anche evidenziato, potrebbe
mediare la richiesta proporzionalità dell’elezione rispetto al corpo elettorale regionale). Nel metodo,
poi, la disciplina di là da venire dovrà necessariamente essere adottata nella forma bicamerale,
comunque rimanendo sempre possibile il nuovo controllo preventivo di costituzionalità di cui
all’art. 73, comma 2, Cost.
Premessa la rigida separazione della rappresentanza (della Nazione alla Camera e delle
istituzioni c.d. territoriali al Senato) quale “principio fondante” dell’intera revisione − inizialmente
prevista, cioè, nel cit. A.S. e mai seriamente oggetto di ripensamento nel corso dell’intero iter
parlamentare di approvazione – venendo al piano sostanziale non immediatamente comprensibile
mi pare la qualificazione delle istanze di cui debba invero farsi portatore il nuovo Senato: che non
possono essere quelle particolaristiche del territorio comunale/regionale di provenienza ma,
neppure, quelle derivanti dall’appartenenza politico-partitica del senatore eletto (rispetto alla quale
555
si assiste perciò, pure in capo a quest’ultimo, al mantenimento del divieto di mandato imperativo
alla stregua dei suoi colleghi deputati). Solo degli interessi generali dell’istituzione territoriale di
riferimento può dunque espressamente trattarsi seppure, in tal caso, inconferente mi sembrerebbe
l’aprioristica esclusione dei Presidenti di Regione originariamente inclusi (a meno che essi non
siano già in possesso dello status di consiglieri).
Convertito nel principale raccordo per organi del centro con le periferie, come supra
anticipavo, l’attuando Senato delle Regioni è dall’odierna riforma chiamato al contempo a svolgere
pure una funzione di garanzia ed equilibrio del sistema istituzionale, già distinguibile nella sua
stessa composizione: difficile mi parrebbe altrimenti giustificare − a fianco dei rappresentanti delle
autonomie territoriali e degli ex Presidenti della Repubblica − la singolare presenza dei cinque
senatori di nomina presidenziale, seppure per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico,
artistico e letterario.
2. Emergente da quello strutturale, la doppia veste di organo di garanzia/organo di
raccordo del nuovo Senato non può che naturalmente riverberarsi pure (se non soprattutto) sul
piano funzionale. Prendendo le mosse dal ruolo di garanzia dell’equilibrio istituzionale da ultimo
citato, ho l’impressione che essa proietti la sua ombra tanto all’esterno che all’interno
dell’ordinamento statale: con riferimento al primo versante, parimenti spiccano sia le attribuzioni
della seconda Camera “in concorso” con quella dei deputati sia quelle da essa autonomamente
esercitabili. Così – oltre a singolarmente partecipare alle decisioni dirette alla formazione e
all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea – sappiamo che il Senato
delle Regioni concorre all’esercizio di funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della
Repubblica e l’UE. Sul punto, nondimeno, mi sembra che l’avanzamento dei lavori parlamentari
esibisca un singolare scollamento dalla (e, a conti fatti, un annacquamento della) originaria
intenzione di imprimere sul Senato una riservata partecipazione al processo di
creazione/recepimento del diritto eurounitario, in ossequio alle indicazioni contenute in tal senso a
partire dal Trattato di Lisbona: attribuito esclusivamente alla seconda Camera nel testo approvato in
prima lettura presso il Senato, l’esercizio della suddetta funzione di raccordo finisce ben presto per
essere affidato appunto “in concorso” ad entrambe le Assemblee in quello approvato in seconda
lettura dalla Camera e non più modificato.
556
Passando al versante che, per comodità espositiva, ho definito interno di tale funzione
garantistica, il controllo in senso ampio cui è chiamato (paritariamente con la Camera) il Senato
comunque andrebbe mantenuto ben distinto rispetto a quello in senso stretto (recte, politico) di
spettanza dei soli deputati in quanto, com’è stato segnalato, in esclusiva titolari dell’indirizzo
politico: in entrambi i casi tuttavia – almeno fintantoché non sopraggiunga una profonda revisione
dei regolamenti parlamentari nel senso dell’adeguamento degli attuali istituti di controllo al mutato
contesto istituzionale (oltre che delle previsioni legislative che disciplinano taluni pareri
parlamentari ed i relativi quorum) – mi pare che tale complessivo ruolo sia destinato a rimanere
tendenzialmente non applicabile.
Non credo vada poi trascurato il fatto che, pure qualora dovesse in tempi brevi aversi la
necessaria riscrittura regolamentare/legislativa in tal senso, dall’attuazione dell’intero blocco di
competenze previste in capo alla Camera delle Regioni (valutazione delle politiche pubbliche e
dell’attività delle pubbliche amministrazioni, verifica dell’impatto delle politiche dell’Unione
europea sui territori, espressione di parere sulle nomine governative, verifica dell’attuazione delle
leggi dello Stato nonché indagini conoscitive) non potrebbe comunque discendere forma alcuna di
responsabilità politica in capo al Governo (chiamato a rispondere, appunto, solo dinanzi alla
Camera dei deputati). Una pesante cappa di silenzio ho l’impressione che gravi infine, da parte del
testo in commento, sulla possibilità di esame degli schemi di atti governativi ad opera del Senato
(attualmente disciplinata dall’art. 139-bis R.C.) sebbene sia stato rilevato come il nuovo art. 70,
comma 7, Cost. preveda a favore di quest’ultimo la generica facoltà di «formulare osservazioni su
atti o documenti all’esame della Camera dei deputati».
Venendo alla parallela funzione di raccordo – e prima di concludere brevemente col livello
legislativo − da subito mi sembra che si ponga il nodo del coordinamento con l’attuale livello
amministrativo di collegamento (che la revisione in commento non scioglie pur avendo decisamente
contribuito a determinare). Con l’ingombrante presenza di un’assemblea rappresentativa delle
istituzioni territoriali, l’attuale testo non chiarisce difatti quale debba essere la sorte del preesistente
sistema delle Conferenze: se, cioè, vada confermato (ovvero profondamente riformato) un doppio
binario di collaborazione con le autonomie, ad esempio esclusiva del Senato per l’attività normativa
557
e riservata invece alle attuali Conferenze per ciò che più da vicino riguarda le attività
amministrative e regolamentari nonché di programmazione ed indirizzo politico.
Com’è comprensibile, zenit dell’intera riforma in commento rimane ad ogni modo la
disciplina costituzionale del nuovo procedimento legislativo ordinario (cui rispettivamente si
affiancano quello c.d. a data certa ed abbreviato) senza il quale l’integrazione strutturale delle
istituzioni nelle politiche legislative derivante dalla nuova composizione del Senato finirebbe per
rimanere inevitabilmente praticata solo sulla carta: procedura nella quale la variante “bicamerale” –
contraddistinta dalla parità di entrambi i rami del Parlamento (simmetricamente esercitanti la
funzione legislativa) e dalla tassatività delle categorie di progetti approvabili – è chiamata come
sappiamo a convivere con quella “monocamerale”, connotata invece dalla asimmetrica prevalenza
della Camera dei deputati sul Senato delle Regioni (il quale ritorna così a configurarsi quale mera
Chambre de réflexion) e dal carattere negativo-residuale degli atti che possono essere deliberati.
Con riguardo a quest’ultima procedura nondimeno – almeno fino alla riforma del
regolamento del Senato (cui il nuovo art. 72, comma 6, Cost. espressamente affida il compito di
disciplinare le modalità di esame dei ddl trasmessi dalla Camera dei deputati ex art. 70 Cost.) − più
d’una incertezza mi pare in particolare si addensi sulla variante c.d. partecipata: non solo
relativamente all’eventualità di una previa istruttoria da parte delle suddette commissioni
parlamentari ma, più ampiamente, su modi, tempi e possibili limitazioni imponibili alla
proposizione di emendamenti da parte dei futuri senatori.
Con riferimento, in primo luogo, alla veste formale che tale partecipazione dovrebbe
assumere – considerata la generica formula di «proposte di modificazione del testo sulle quali la
Camera si pronuncia in via definitiva» adottata dal testo di revisione – com’è stato notato
l’impressione è che essa sia sostanzialmente libera (emendamento, parere od altro) mentre sembra
potersi sin da adesso escludere l’automatica incorporazione delle modifiche proposte in Senato nel
testo che poi tornerà alla Camera per la conclusiva pronunzia. Parimenti non chiara mi pare la
ventilata possibilità di un previo sindacato sull’ammissibilità delle proposte di modifica da parte del
Senato (qualora esso ad esempio deliberi emendamenti sostanzialmente riproduttivi di altri già
dichiarati però non ammissibili nel corso del primo esame alla Camera): così − nel ruolo di
imparziale supervisore del procedimento partecipato – è stato ritenuto che tale incombenza possa
558
essere fisiologicamente demandata al Presidente della stessa Camera, a meno di non voler fare
rifluire anche siffatta ipotesi nella più ampia casistica delle questioni c.d. di competenza (come tali
d’intesa dirimibili dai due Presidenti di Assemblea) cui, in chiusura delle presenti notazioni,
accennerò qualcosa.
Sta di fatto che – in occasione dell’ultima e definitiva seconda lettura − la Camera dei
deputati ritengo dovrebbe pur sempre dire la sua solo sulle circostanziate proposte del Senato e non
già sull’intero testo in discussione. Ciò innanzitutto perché, a ritenere diversamente, la generale
competenza di esame dei testi legislativi che la disciplina costituzionale del procedimento
legislativo riserva ai senatori si è fatto rilevare che finirebbe per essere sostanzialmente aggirata:
allorquando cioè − pronunziandosi nuovamente su parti non oggetto delle proposte del Senato – di
fatto la Camera precluderebbe a quest’ultimo di deliberare su simili nuove modifiche, il Senato
avendo inevitabilmente “consumato” il proprio potere di proposta. In seconda battuta, giacché
troverebbe qui analogica estensione il nuovo art. 70, comma 3 (secondo periodo) Cost. il quale già
per il procedimento bicamerale circoscriverebbe alle sole parti modificate dai senatori il secondo
esame da parte della Camera dei deputati.
Qualora fossero approvate, ho insomma l’impressione che dal contenuto delle proposte del
Senato non possa comunque discendere alcun tipo di vincolo per la Camera la quale resta, dunque,
libera di respingere, accogliere (in tutto od in parte) le modifiche avanzate ovvero emendarne a sua
volta la sostanza. Mi fa nondimeno riflettere il fatto che ciò possa indiscriminatamente avvenire per
qualunque proposta di legge non tassativamente ascritta al predetto procedimento bicamerale, ivi
compresi quindi pure quelle su materie particolarmente delicate e complesse: si pensi, ad esempio,
al campo delle scelte c.d. esistenziali della persona quali interruzione volontaria della gravidanza,
procreazione medicalmente assistita, unioni civili, dichiarazioni anticipate di trattamento, ecc.
Ragionevolmente scartata l’eventualità che una votazione finale della Camera possa non esservi
immagino, come pure è stato rimarcato, che una formale e conclusiva manifestazione di volontà da
parte dei deputati sul progetto complessivamente considerato non sia comunque prescindibile
(specie qualora quest’ultima intenda in toto respingere le proposte di modifica patrocinate dal
Senato).
559
A parte le considerazioni appena svolte su quello partecipato, talune opacità mi sembrano
residuare anche nel procedimento monocamerale c.d. rinforzato di cui all’art. 70, comma 4, Cost.:
vale a dire con precipuo riferimento a quei ddl (ricadenti su materie non di competenza esclusiva)
imposti dalla necessità di tutela, rispettivamente, dell’unità giuridica o economica della Repubblica
ovvero dell’interesse nazionale, in applicazione della c.d. clausola di supremazia ex art. 117,
comma 4, Cost. Innanzitutto, il fatto che entro dieci giorni dalla trasmissione sia disposto dal Senato
l’esame del relativo ddl (senza l’ordinaria richiesta di un terzo dei suoi componenti) non credo
voglia anche dire che la decisione in tal senso sia automatica, com’è stato sostenuto richiedendosi
comunque una delibera da parte dei senatori nel termine previsto. Nel silenzio sul resto, ritengo in
second’ordine che pure a tale procedimento possa estendersi il generale termine di trenta giorni di
quello partecipato per disporre eventuali proposte di emendamento. Un dubbio mi rimane in terzo
luogo qualora la Camera (stavolta a maggioranza assoluta nella seconda ed ultima lettura) intenda
discostarsi dalle modifiche ugualmente deliberate a maggioranza assoluta (e quindi, appunto,
“rafforzate”) dal Senato: se sia, cioè, sufficiente che i deputati deliberino solo parzialmente di non
uniformarsi all’intero decisum dei colleghi senatori (ovvero, in limine, ad una sola delle modifiche
avanzate).
3. Volendo adesso trarre qualche telegrafica notazione sull’intera procedura legislativa sin
qui imbastita dall’articolato in esame evidenzierei che, in entrambe le suddette “varianti”, forte
emerge in primo luogo il ruolo svolto dalle Commissioni parlamentari cui − dopo l’istruttoria
legislativa – spetta determinare il testo su cui si svolgerà una relazione all’Assemblea il cui plenum
successivamente approverà articolo per articolo e con voto finale: considerati i sopravvenuti
mutamenti strutturali e funzionali del nuovo Senato, più che auspicabile reputo casomai una
riconsiderazione – com’è stato evidenziato – dell’odierno assetto delle stesse Commissioni che, ad
esempio, ne riduca il numero complessivo secondo un accorpamento dipendente dal tipo di
procedimento, dalla funzione volta per volta esercitata ovvero dalla stessa materia oggetto di
disciplina.
Per una singolare eterogenesi dei fini, nondimeno, la forza di quello che mi pare il tratto
saliente della disciplina costituzionale in parola – vale a dire la distinzione “per oggetto” di ogni ddl
560
presentato − rischia per ciò solo di convertirsi nella sua peggiore debolezza. Originariamente
prevista nel ddl governativo di riforma, difatti, la differenziazione dei procedimenti legislativi per
materia – a motivo della indeterminatezza che, come è stato segnalato, si è ritenuta geneticamente
affliggerla sin dai tempi del novellato art. 117 Cost. − nel corso dei lavori d’aula ha
progressivamente lasciato il posto a quella per oggetto, aprendo tuttavia una serie di inedite
questioni a partire da quella, logicamente preliminare rispetto alle altre, della concreta possibilità di
essere in tempi brevi attuata senza un’approfondita revisione di entrambi i regolamenti parlamentari
in tal senso.
Ma pure qualora ciò dovesse celermente aversi, di matasse da sbrogliare non credo ne
mancherebbero, il pericolo, neanche poi tanto velato, sembrandomi in particolare che l’estrema
rigidità con cui è stato tracciato l’astratto solco tra leggi bicamerali e monocamerali − che non
consente alle prime di sconfinare negli ambiti riservati alle seconde e viceversa − finisca
inevitabilmente con lo sfaldarsi nel crudo impatto con l’esperienza concreta: allorquando, cioè,
assai ardua diventa oggettivamente l’impresa di distinguere tra i vari ddl presentati a seconda
dell’omogeneità o meno del loro oggetto (penso, per fare l’esempio più a portata di mano, ai ddl di
iniziativa popolare i quali, in assenza di specifiche disposizioni costituzionali, andrebbero presentati
indistintamente a Camera o Senato ovvero alla sola Camera a seconda se ricadenti sull’oggetto ad
approvazione bicamerale ovvero monocamerale). Con la conseguenza che siffatta ripartizione
rischia seriamente di dimostrarsi inapplicabile, nella peggiore delle ipotesi, ovvero applicabile ma
feconda di vizi in procedendo (e, quindi, di inevitabile contenzioso tra i due rami del Parlamento),
nella migliore.
Ad onor del vero, ad oggi solo taluni sparuti casi vedono leggi con oggetto genuinamente
omogeno, la maggioranza degli altri rimanendo piuttosto caratterizzati da un contenuto non poco
misto, come tale (ricadente su più ambiti tra di loro variamente sovrapponibili ma) formalmente
inammissibile alla luce della suddetta formale ripartizione tra ddl bicamerali e monocamerali:
immagino poi che – pure qualora l’oggetto riveli omogenea “purezza” – non frequenti sono per la
verità i casi in cui la legge assuma di disciplinare hic et nunc l’ambito avuto di mira, potendosi più
spesso assistere, com’è stato fatto rilevare, a discipline il cui oggetto sia più volte ripetibile nel
tempo ovvero, preesistendo una generale regolamentazione dal contenuto omogeneo, si abbiano poi
561
una serie di leggi successive attuativo-specificative del primo. In simili frangenti, da non poco
tempo la giurisprudenza costituzionale ha dimostrato – nel diverso, seppur contiguo, campo del
giudizio di ammissibilità del referendum – quanto rischioso sia ogni qualvolta avventurarsi sullo
scivoloso piano della struttura della disposizione legislativa (e, cioè, del modo con cui essa è
formulata) al fine di verificare se più contenuti apparentemente disomogenei siano o meno
riconducibili ad una matrice razionalmente unitaria: assai problematico da ricostruire in termini
teorici assoluti, il giudizio sul variabile quantum di disomogeneità risulterebbe, per ciò solo,
imprevedibile nei suoi ultimi esiti, di fatto potendosi facilmente convertire il sindacato di semplice
ammissibilità in uno di mera opportunità.
Dopo un quindicennio di logorante contenzioso tra Stato e Regioni, insomma, ritengo che
tutto dovrebbe potersi ascrivere ad una proposta di riforma tranne un corrispondente innalzamento
del tasso di conflittualità tra i due rami del Parlamento, con la correlativa necessità di individuare
sin da subito soluzioni idonee invece a decomprimerne la (potenzialmente dirompente) portata.
Evidentemente conscio di tale eventualità, per la verità lo stesso testo di revisione mi pare che già
predisponga a valle un meccanismo di risoluzione dei possibili conflitti stabilendo che eventuali
questioni di competenza siano decise dai Presidenti delle Camere d’intesa fra loro: diretta erede di
preesistenti disposizioni regolamentari in tal senso (part. artt. 78 R.C. e 51, comma 3, R.S.) penso
rimanga nondimeno il fatto che tale previsione finisce per restare sostanzialmente inattuabile finché
una (di là da venire) riscrittura degli attuali regolamenti parlamentari anche in questo caso non
definisca con chiarezza le modalità per sollevare (e dirimere) le menzionate questioni.
Nell’attesa non disprezzabile considererei intanto a monte – come, peraltro, è stato auspicato
− una sorta di sindacato di ammissibilità su ciascun ddl presentato ad opera di ciascun Presidente di
Assemblea per verificarne l’omogeneità al fine del corretto “smistamento” tra l’uno e l’altro
procedimento legislativo di approvazione: nella medesima logica, ammetterei pertanto da parte
degli stessi soggetti un controllo pure esteso all’ammissibilità degli emendamenti di volta in volta
avanzati nel corso dei lavori parlamentari allo scopo di sfrondare il testo da disposizioni eccentriche
rispetto alla procedura adottata. Al netto di un’eventuale prassi/disciplina regolamentare in tal
senso, la corretta osservanza delle norme costituzionali sulla competenza legislativa da parte di
entrambe le Camere resterebbe ad ogni modo affidata al controllo successivo della Corte
562
costituzionale nelle residue ipotesi di palese violazione della Costituzione ovvero mancato
raggiungimento della prescritta intesa.
Accanto a quello ordinario una trattazione a parte – come supra anticipavo − meriterebbero
per concludere i collaterali procedimenti, rispettivamente, del voto c.d. a data certa ed abbreviato.
Appena superfluo è che io ricordi come più che nobile sia stato l’intento retrostante all’introduzione
del primo procedimento: che non è solo di arginare talune diffuse prassi assai distorsive della
dialettica Governo/Parlamento (quali, ad esempio, quella dei maxiemendamenti governativi o della
questione di fiducia sul testo deliberato in Commissione in sede referente) ma, pure, quello di
ridimensionare l’abuso di decretazione d’urgenza (invero già parzialmente limitato dal novellato
art. 77 Cost.) senza contestualmente indebolire la posizione dell’Esecutivo il quale – a certe
prescritte condizioni − può adesso contare sulla certezza dei tempi di approvazione dei ddl
intimamente connessi all’attuazione del proprio programma politico.
Che le cose astrattamente immaginate in vitro dalla riforma vadano poi nel senso da essa
auspicato anche concretamente in vivo non mi pare, ad ogni modo, del tutto scontato. Innanzitutto
perché, alla stregua del procedimento ordinario già brevemente esaminato, anche il tal caso ritengo
che forte si faccia sentire l’assenza di una revisione del regolamento della Camera dei deputati che
chiarisca modalità e limiti di siffatto procedimento: ad esempio si pensi – come si è fatto
efficacemente notare − alla necessità di stabilire se (e come) al Governo sia consentito una sorta di
“diritto al ripensamento” qualora le modifiche deliberate abbiano talmente stravolto il testo
originario da renderlo non più in armonia col proprio indirizzo politico; ovvero alla questione se la
procedura in esame possa estendersi pure a progetti di legge di origine parlamentare e, nondimeno,
considerati fondamentali per il programma politico dell’Esecutivo (per non dire del già visto nodo
dell’omogeneità del ddl che, proprio per la peculiarità del procedimento de quo, immagino possa
assumere una pregnanza tutta particolare).
Non posso in secondo luogo fare a meno di considerare che, al di là dei buoni propositi
insistentemente dichiarati, nulla in realtà sia davvero in grado di garantire che − pur concepito per
ovviare alle distorsioni dell’odierna prassi normativa (come l’ipertrofico ricorso ai decreti-legge,
appunto) − tale nuovo strumento procedurale a sua volta non finisca per prestarsi ad un uso
anch’esso abusivo, anche in questa occasione lasciando (come da tempo segnala la più avvertita
563
dottrina) che le regolarità della politica abbiano il sopravvento sulle regole della (pur riformata)
Costituzione: pure molta parte di tale esito credo passerà quindi dalla qualità e quantità dei paletti
che, in sede di riscrittura regolamentare, la Camera riuscirà saldamente a piantare intorno a tale
procedura senza al contempo irrigidirla troppo.
Destinato a convivere con quello a data certa che ho appena succintamente descritto, in coda
al presente contributo voglio infine accennare al procedimento c.d. abbreviato per quei ddl di cui è
dichiarata l’urgenza (ai sensi dell’art. 72, comma 3, Cost.) ed alla beffarda traiettoria che potrebbe
contraddistinguerne la sorte. Così se, com’è stato ritenuto, sin qui non ha ricevuto praticamente
attuazione se non in limitati e circoscritti frangenti – rispettivamente disciplinati dagli artt. 69 R.C.
e 77, comma 1, R.S. – un non diverso destino per tale procedimento sembrerebbe schiudersi anche
per il futuro, se sol si consideri che anche l’attuale proposta di revisione posticipa l’analitica
disciplina di esso all’ennesima futura riforma di entrambi i regolamenti parlamentari.
Riflettendo sulla riforma costituzionale, in attesa del voto referendario
di Claudio Panzera*
1. Ho risposto con molto piacere all’invito del prof. Ruggeri di ritrovarci a discutere sulla
riforma costituzionale, ma premettendo fin da subito che mi sarei astenuto dall’esprimere adesso e
in termini secchi (sì/no) la mia intenzione di voto al referendum del prossimo autunno. Non ho
infatti ancora maturato una decisione al riguardo, anche per la sincera difficoltà di aderire
pienamente alle ragioni dell’uno e dell’altro fronte (mi riferisco, qui, ai due appelli sulla riforma
promossi dagli studiosi contrari e da quelli favorevoli alla stessa). Poiché mi sembra che buone
ragioni stiano da entrambe le parti, sarà inevitabile anche per me – come molti altri – esprimere al
momento del voto un giudizio per praevalentiam, in cui valutazioni tecnico-giuridiche e
considerazioni politico-istituzionali finiranno inevitabilmente per sovrapporsi e intrecciarsi.
Quest’ultima sottolineatura mi impone una precisazione.
Proprio per la serietà e l’importanza della scelta che come cittadini saremo chiamati a
compiere, ritengo una grave forzatura, oltre che un’inammissibile semplificazione, legare all’esito
del referendum il destino del Governo in carica, per l’evidente rischio che, così ragionando, il senso
e il valore della partecipazione popolare alla modifica della Costituzione siano ridotti a mero
strumento di lotta tra le forze di maggioranza e di opposizione, per scopi che poco hanno a vedere
con l’ammodernamento e l’efficienza delle istituzioni democratiche (e molto con la conservazione o
la conquista del potere politico). Sebbene il rischio che l’“appello al popolo” spinga verso una
polarizzazione dell’opinione pubblica in base alle contingenti vicende della stretta attualità politica
sia più alto quando le riforme su cui viene promosso il referendum sono prevalentemente opera
della maggioranza di governo (come accaduto, in termini ben più netti di quelli attuali, nel 2001 e
nel 2006), non bisogna mai cessare di tendere verso il dover essere che la Costituzione indica al
riguardo. I quorum di approvazione fissati nell’art. 138 (maggioranza assoluta o qualificata)
ricordano che le modifiche alla Carta, per quanto frutto di compromessi tra le forze politiche
presenti in Parlamento, per loro natura trascendono la quotidiana dialettica
* Ricercatore di Diritto costituzionale, Università «Mediterranea» di Reggio Calabria.
565
maggioranza/opposizione di Governo (cui è preordinata la regola della maggioranza semplice o
relativa: art. 64, c. 3, e art. 94, non modificati per questo aspetto dalla riforma), appartenendo al
novero delle scelte sottratte a quel circuito di decisione politica e affidate ad una condivisione più
ampia, anche in ragione della maggiore durata e stabilità che quelle scelte pretendono di avere (tale
dualità di piani, peraltro, viene ridimensionata nella riforma dalla conservazione dei quorum
prescritti dall’art. 138 pur in presenza di una legge elettorale per la Camera dagli effetti iper-
maggioritari).
Ingaggiare sul terreno del referendum costituzionale una battaglia per sostenere o far cadere
il Governo finisce invece per sostituire impropriamente l’oggetto della consultazione popolare,
quantomeno al livello di formazione dell’opinione pubblica (che potrà poi incidere sul voto degli
indecisi), deviando l’istituto dalla sua impronta originaria garantista e indebolendo di fatto, in una
certa misura, anche la libertà di voto dei cittadini ex art. 48. Proprio poiché si tratta di decidere, nei
limiti legalmente consentiti (art. 139), su ciò che deve stare dentro o fuori il patto che esprime e a
un tempo rinnova, in una sintesi unitaria di valori, la comunità politica, il “discernimento”
dell’elettore dovrebbe concentrarsi sui contenuti della riforma su cui è chiamato ad esprimersi –
ripeto: frutto di un compromesso parlamentare – e non sulla permanenza in carica dell’Esecutivo
che l’ha promossa e/o la sostiene. Quest’ultimo potrà certo trarre dall’esito del voto le conseguenze
politiche che ritiene più opportune, e dunque, eventualmente, dimettersi (come ha fatto il Primo
ministro inglese D. Cameron dopo il referendum sulla Brexit); tuttavia, a mio avviso, non dovrebbe
gravare in anticipo il corpo elettorale con una specie di “questione di fiducia” sul testo oggetto del
referendum, figura del tutto anomala ed estranea all’equilibrio costituzionale che connota il nostro
ordinamento.
2. Detto ciò, nel merito, si tratta di riempire i classici piatti della bilancia e vedere da che
parte questa alla fine penderà.
Non credo possa essere di grande aiuto la mera somma algebrica dei contenuti della riforma
che condivido e di quelli che invece non mi piacciono: i fattori dell’operazione non hanno infatti
tutti lo stesso peso, sicché non basterebbero 10 piccoli miglioramenti a compensare 2 grandi
566
peggioramenti del testo in vigore (un elenco puntuale, peraltro, è fornito da A. Spadaro nel suo
contributo a questo dibattito).
Ad esempio, mi sta bene l’abolizione del (rango costituzionale del) CNEL e delle Province –
anche se non è affatto detto che le seconde scompariranno nei fatti come “livelli di governo”,
almeno dove esistono le Città Metropolitane e dove si istituiranno gli enti di area vasta di cui alla
legge 56/2014 (e di cui parla pure l’art. 40, c. 4, della legge di riforma) – o la riduzione del numero
totale dei parlamentari, ma non posso certo dire che siano questi i profili che orienteranno la mia
scelta.
Già più rilevanti sono le modifiche relative alla nuova disciplina costituzionale della
decretazione d’urgenza, alla corsia preferenziale – attraverso l’istituto del voto “a data certa” – per i
disegni di legge che il Governo reputi qualificanti («essenziali» è l’ambiguo termine prescelto) il
proprio programma politico ed agli strumenti di partecipazione popolare (referendum propositivi e
d’indirizzo, altre forme di consultazione della società civile). Mentre la reale portata di quest’ultima
innovazione, senz’altro positiva, verrà definita solo dalla legge costituzionale cui il nuovo art. 71,
u.c., rinvia, la prima recepisce sostanzialmente vincoli per larga parte già operanti grazie
all’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia sulla base dell’art. 15 della legge
400/1988 (ma risolve il non secondario problema degli indesiderati effetti del rinvio presidenziale
delle leggi di conversione), mentre il secondo persegue la finalità, in sé apprezzabile, di facilitare
l’esame in tempi rapidi di misure caratterizzanti l’indirizzo politico nell’ambito del procedimento
monocamerale (ad eccezione di alcune materie). L’istituto, forse, poteva trovare spazio anche solo
in una modifica dei regolamenti parlamentari vigenti (che comunque ci si dovranno adeguare), e in
ogni caso andrà valutato non in astratto, ma nel suo concreto rendimento anche alla luce della
combinazione con gli altri strumenti di “pressione” o “direzione” dei lavori parlamentari che
restano a disposizione del Governo, in primis il ricorso alla questione di fiducia e poi il decreto
legge. A priori non si può pertanto dire con… certezza se l’introduzione del voto “a data certa”
porterà ad una eccessiva e ingombrante presenza dell’Esecutivo nel procedimento legislativo
(cumulandosi agli altri due pezzi d’artiglieria) o se sarà compensato da un uso più morigerato, ad
esempio, della decretazione d’urgenza. Si può tuttavia immaginare che, se davvero il d.d.l. in
questione è «essenziale per l’attuazione del programma di governo», eventuali rischi di insuccesso
567
alla Camera verranno parati con il ricorso al voto di fiducia; sicché, nei fatti, è probabile che questi
due istituti si rafforzeranno a vicenda almeno tutte le volte in cui la maggioranza che sostiene il
Governo non condividerà appieno la valutazione sulla “essenzialità” dello specifico provvedimento
da approvare.
3. I punti qualificanti della riforma, com’è noto, sono però altri: l’abbandono del
bicameralismo in seguito alla trasformazione del Senato in «camera delle istituzioni territoriali» e il
riassetto delle competenze normative nel nuovo Titolo V. Credo che su questi due aspetti, e non
sugli altri, vada essenzialmente concentrata la ponderazione delle ragioni pro e contra la riforma
(come invita a fare anche il prof. Ruggeri nel corso di questo dibattito).
Su entrambi i profili, tutto o quasi è stato già detto nel corso del dibattito costituzionalistico
degli ultimi mesi. Mi atterrò pertanto a poche considerazioni che sorgono dal raffronto tra i fini
dichiarati dagli autori della riforma e i mezzi prescelti per raggiungerli.
In estrema sintesi, l’opzione per il bicameralismo differenziato è stata direttamente legata
alla doppia esigenza di semplificare i lavori parlamentari (rafforzando al contempo la stabilità
dell’asse “Governo-maggioranza” nella Camera politica) e, come si dice, portare al centro la voce
alle autonomie territoriali, mentre la revisione del Titolo V avrebbe avuto di mira una più razionale
distribuzione delle competenze normative fra Stato e Regioni (rispetto alle storture della legge cost.
3/2001) e di conseguenza una riduzione del contenzioso costituzionale. È evidente come queste due
“scommesse” si sostengano a vicenda, sì che il successo dell’una dipende dal successo dell’altra.
Ora, a me pare che la razionalizzazione tentata sul piano delle competenze normative – la
quale, per riconoscimento pressoché unanime, comporterà un forte accentramento della legislazione
in capo allo Stato – non sia adeguatamente compensata dalla rappresentanza delle autonomie
regionali e locali attraverso il Senato (al netto dei dubbi sull’incerta natura di tale rappresentanza e
sulla fisionomia che in concreto assumerà).
Mi limito a considerare, fra le tante innovazioni contenute nella riforma, la c.d. “clausola di
supremazia” di cui al nuovo art. 117, c. 4, che consente alla legge statale di occupare il campo di
competenza regionale se «lo richiede la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica,
ovvero la tutela dell’interesse nazionale». La previsione è certo importante perché introduce un
568
principio di flessibilità nella distribuzione delle competenze che la comparazione e la
pluridecennale prassi dei rapporti centro-periferia nostrana hanno dimostrato essere necessaria
(anche se, qui, tale flessibilità gioca solo a favore dello Stato). La spoliazione, totale o parziale,
delle competenze regionali richiederebbe però che la decisione – e la stessa valutazione dei suoi
presupposti – vedessero adeguatamente coinvolti i soggetti interessati, alla luce del principio di
leale collaborazione (quanto più forte è l’incidenza dell’intervento statale sugli interessi regionali
tanto maggiore deve essere la partecipazione delle Regioni al procedimento che sposta la
competenza) e secondo tendenze comuni anche ad altre esperienze di decentramento: in Germania,
ad es., la revisione del federalismo legislativo e il ruolo del Bundesrat si sono sempre compensati a
vicenda, nella forma della “cessione di competenze in cambio di partecipazione” e viceversa.
La procedura indicata dalla riforma da questo punto di vista non soddisfa, poiché tale legge
statale non rientra fra quelle bicamerali, ma è solo contemplata l’eventualità che il Senato proponga
emendamenti a maggioranza assoluta che la Camera potrà però respingere con la stessa
maggioranza (nuovo art. 70, c. 4). A parte quest’ultimo aggravio procedurale, comunque non
particolarmente difficile da superare, l’intera operazione si regge sull’esclusiva decisione del
Governo (cui è riservata la proposta di intervento) e sulla maggioranza (semplice, o al massimo,
assoluta) che lo sostiene alla Camera. Il che, se coerente con la valutazione politica dei presupposti
dell’intervento statale (l’unità giuridica o economica, l’interesse nazionale), non mi pare compensi
in modo proporzionale la perdita degli spazi di autonomia normativa, già ridotti, che la Costituzione
lascia alle Regioni; perdita, oltretutto, temporalmente non circoscritta dal testo di riforma (finché
perdurano quelle esigenze…), dunque, in teoria, anche permanente. Peraltro, la clausola di
supremazia consente che il meccanismo operi quando i presupposti indicati semplicemente lo
“richiedono”, ossia lo rendono opportuno, senza alcun obbligo di valutazione della sua necessità in
comparazione con altri strumenti meno afflittivi della legge “pigliatutto” ma ugualmente idonei
rispetto al fine (v. ancora l’esempio tedesco della competenza concorrente ex art. 72, c. 2, GG). Non
si può del tutto escludere che una tale gradualità verrà magari imposta dalla Corte costituzionale,
chiamata dalle Regioni interessate a dirimere le controversie interpretative sul legittimo ricorso
statale alla clausola in esame; ma, considerata l’alta politicità di tale decisione, gli spazi di giudizio
appaiono oggettivamente ridotti (il che potrebbe a sua volta scoraggiare le Regioni dal ricorrere alla
569
Corte). Insomma, se davvero vi sarà deflazione del contenzioso, questa potrebbe essere – per
paradosso – la conseguenza più della rinuncia al giudizio dei diretti interessati che della
chiarezza/univocità delle nuove disposizioni.
Piuttosto, forse, si sarebbe potuta prevedere – in aggiunta al parere rinforzato e sulla falsa
riga della procedura dettata per le leggi elettorali delle due Assemblee – la facoltà del Senato di
sollevare dinanzi alla Corte (magari a maggioranza assoluta) una questione di costituzionalità in via
preventiva sulla legge approvata dalla Camera che non accolga i rilievi del Senato. Questa
soluzione avrebbe potuto compensare la scelta di non inserire tale legge fra quelle bicamerali
perfette, rendendo più incisive le proposte di modifica del testo provenienti dal Senato (un loro
eventuale respingimento alla Camera esporrebbe la legge a possibile impugnazione). In tal modo,
da un lato, si sarebbe agevolata la coagulazione delle voci delle Regioni dissenzienti nell’organo
che le rappresenta unitariamente a livello statale (aumentando così la sua capacità di difenderle
dalle tendenze centralistiche del Governo nazionale, anche in recupero di una rappresentanza
autenticamente politico-territoriale), dall’altro si sarebbe consentito al giudice costituzionale di
intervenire prima che si realizzi l’“esproprio” ai danni delle Regioni, riducendo almeno in parte la
conflittualità ex post. Stante l’attuale testo di riforma, è infatti agevole prevedere che – almeno
all’inizio – il ricorso alla clausola di supremazia verrà accompagnato da un aumento del numero dei
ricorsi regionali. Il modo in cui la Corte li risolverà nel merito, interpretando nel mutato contesto
costituzionale (di forte accentramento) clausole già note, sarà dunque decisivo per la sorte delle
autonomie regionali.
4. Rispetto alla finalità di ridurre il contenzioso, anche la nuova distribuzione delle
competenze legislative solleva qualche dubbio per l’ambiguità di alcune delle formule chiave che
adesso compaiono nel testo (ad es., le «disposizioni generali e comuni» di competenza esclusiva
statale in molte materie; o il carattere “locale/regionale” di alcune discipline di competenza
esclusiva regionale, che presuppone l’esistenza di una corrispondente disciplina di livello statale
sulle medesime materie, però non indicata nel nuovo c. 2 dell’art. 117). Ma non intendo
soffermarmi su questi aspetti, peraltro ampiamente analizzati dalla dottrina, quanto porre
570
l’attenzione su un possibile effetto sul contenzioso costituzionale del ruolo “difensivo” che il
Senato potrebbe giocare nell’ampliamento dei procedimenti legislativi delineati dal testo di riforma.
Le eventuali questioni di competenza che dovessero sorgere dall’interpretazione del nuovo
art. 70 sono risolte, in base allo stesso, dai Presidenti delle Camere «d’intesa» fra loro. La
previsione di questa norma di chiusura è senz’altro opportuna e vale a scongiurare il pericolo che la
moltiplicazione dei procedimenti legislativi comporti automaticamente una moltiplicazione delle
controversie devolute alla Corte sotto il profilo dei vizi formali. E, tuttavia, l’intervento del giudice
costituzionale, comunque e sempre possibile una volta che la legge sia entrata in vigore (o anche
prima, nel caso dello speciale procedimento di controllo dettato per le leggi elettorali di Camera e
Senato), potrebbe adesso attivarsi anche oltre l’ambito del giudizio sulle leggi, qualora l’eventuale
disaccordo fra i Presidenti delle due Assemblee paralizzi il procedimento e legittimi reciproche
“accuse” di scarsa collaborazione, da far valere in sede di conflitto inter-organico (v. i noti
precedenti delle sentt. 379/1992 e 200/2006). L’ipotesi potrebbe riguardare non solo
l’interpretazione degli ambiti di disciplina riconducibili alle leggi necessariamente bicamerali
(anche in ragione dell’obbligo di abrogazione espressa previsto per le stesse dall’art. 70, c. 1, ultimo
periodo), ma persino forme di partecipazione più ridotta del Senato come nel caso dei pareri
facoltativi, nell’ipotesi non improbabile che – pronunciandosi «in via definitiva» – la Camera
introduca nuove previsioni sulle parti già ritoccate dal Senato senza che quest’ultimo possa
esprimersi su di esse (tale lettura è certo più consona alla finalità di semplificazione sottesa alla
riforma, ma in teoria non si può escludere del tutto che si affermi una prassi diversa o che sia il
regolamento della Camera a consentire un ritorno delle sole parti nuove del testo al Senato).
Qualora tali incertezze si riversassero come contenzioso fra poteri sul carico di lavoro della
Corte, l’intento deflattivo della riforma sarebbe ancora una volta vanificato. Ma anche il conflitto
inter-organico potrebbe subire una piccola metamorfosi: quando il ricorso del Senato fosse orientato
a difendere prerogative che più direttamente si collegano al suo ruolo di rappresentante delle
istituzioni territoriali (il pensiero corre ancora alla partecipazione rinforzata nel caso di attivazione
della clausola di supremazia oppure al parere obbligatorio sull’esercizio dei poteri sostitutivi di cui
però il Governo può, in base al nuovo art. 120, c. 2, fare a meno nei casi di «motivata urgenza»),
sotto il conflitto fra il Senato e gli altri poteri – Camera, Governo ed eventualmente Presidente della
571
Repubblica – si celerebbe in realtà un conflitto fra Stato e Regioni, in modo speculare a quanto già
avviene nel conflitto inter-soggettivo su atto giurisdizionale. Tale ultimo scenario, ovviamente, è
strettamente legato al modo in cui il Senato interpreterà la sua funzione “rappresentativa” delle
istituzioni territoriali.
5. In sintesi, non è affatto certo che – in relazione alle finalità e ai punti qualificanti sopra
indicati – la riforma porterà realmente i benefici che promette; molto dipenderà dalle leggi attuative,
dalla prassi che seguiranno gli organi costituzionali e, infine, dalla stessa volontà delle forze
politiche di far funzionare i nuovi congegni introdotti in modo efficiente e non caotico o, peggio,
inconcludente. Non voglio con ciò ignorare la particolarità delle condizioni storico-politiche che
hanno reso possibile non solo innescare, ma portare a compimento, un processo di riforma delle
istituzioni repubblicane largamente avvertito come non più rinviabile, né escludere che le future
leggi di attuazione possano anche correggere e ridurre le incertezze del testo, migliorandone la resa.
Ma non condivido neppure l’idea che, solo perché la macchina si è messa finalmente in moto, la si
debba spingere qualunque sia la direzione che seguirà.
Ritorno all’avvertenza iniziale di evitare la commistione di piani ben diversi: un conto è
valutare anche da un punto di vista politico contenuti e prevedibili effetti sugli equilibri
costituzionali di una riforma di così vasta portata, un altro è subordinare – in modo esclusivo o
anche solo prevalente – l’espressione consapevole del voto alle contingenti vicende della stretta
attualità politica e/o alle possibili conseguenze sulle prospettive di crescita economica del nostro
Paese2401
. Un miglior funzionamento delle istituzioni democratiche può certo legittimare, anche in
vista di una maggiore efficienza complessiva del sistema economico, modifiche e aggiornamenti
della Carta del 1948 (beninteso: nel rispetto dei suoi princìpi supremi e irrevisionabili). In coerenza
con tali premesse, il voto referendario dovrebbe allora tenere conto di un giudizio di congruità del
mezzo (contenuti della riforma) rispetto al fine (istituzioni più efficienti, crescita economica), nei
1 Mi riferisco, in particolare, alle previsioni negative per la crescita del prossimo triennio contenute in un report
del Centro studi di Confindustria del 1° luglio 2016 (Scenari economici n. 26), nel quale si ipotizza che una vittoria del
“no” al referendum costituzionale porti, quali principali effetti a catena della conseguente instabilità politica, un
rallentamento della produzione con perdita di 4 punti di pil, un aumento consistente del debito pubblico e una riduzione
dei posti di lavoro di circa 258 mila unità. Il report è leggibile sul sito ufficiale della Confindustria
(www.confindustria.it/wps/portal).
572
limiti consentiti dalla attendibilità delle previsioni sugli effetti particolari e sistemici delle
modifiche realizzate.
La riforma del Senato ed il destino dell’autonomia elettorale regionale
di Alessio Rauti*
Sulla riforma della Costituzione ultimamente approvata in via definitiva dalle Camere
continuo ad avere, in verità, parecchie riserve. Ma in questo caso sono ben lontano dall’esprimere
un giudizio manicheo su una scelta che, come credo, sarà infine assai lacerante e lascerà comunque
sul terreno un che di incompiuto.
Ad una prima impressione, la riforma parrebbe riproporre un curioso aneddoto su Albert
Einstein. Nel correggere il lavoro che un giovane studioso aveva sottoposto alla sua attenzione, il
fisico avrebbe risposto che in quell’opera v’erano cose esatte e cose originali. Purtroppo, però, le
cose esatte non erano originali e quelle originali non erano per nulla esatte241
.
Allo stesso modo, credo che nella riforma ci siano alcune norme positive, che costituiscono
più che altro un’opportuna razionalizzazione dell’esistente od un suo sviluppo, insieme a modifiche
fin troppo innovative, nel senso di realizzare soluzioni pasticciate e del tutto incoerenti.
Per la prima ipotesi penso, ad esempio, alle nuove norme sui limiti dei decreti-legge oppure,
con maggiore creatività, all’introduzione del c.d. voto a data certa, che offre garanzie di celerità
nell’esame dei disegni di legge ritenuti essenziali dal Governo per l’attuazione del suo programma.
Se da un lato, infatti, tale istituto è realmente una novità per il nostro ordinamento, dall’altro lato
esso potrebbe deflazionare il decreto-legge, inserendosi armonicamente nel trend, ben conosciuto,
di ampliamento del ruolo del Governo nell’ambito del procedimento legislativo. Basti solo pensare
che nel 2015, su 86 leggi approvate, 71 sono di iniziativa governativa. Non sorprende dunque che
anche fra alcuni critici della riforma tale modifica non sia oggetto di un giudizio negativo.
Ritengo però più utile soffermarmi sulla seconda categoria delle modifiche, evidenziando in
particolare le criticità delle norme di riforma sulla composizione del nuovo Senato, non solo
realmente nuove, ma animate altresì da logiche ibride. Su tale aspetto, dunque, incentrerò la mia
breve riflessione.
* Ricercatore confermato di Diritto costituzionale e Docente di Diritto pubblico nell’Università “Mediterranea”
di Reggio Calabria. 241
Il curioso aneddoto mi fu riferito molti anni addietro dal Prof. Ruggeri.
574
La seconda Camera dovrebbe in futuro rappresentare «le istituzioni territoriali», come
previsto dall’art. 55, IV c., pur rimanendo allo stesso tempo il «Senato della Repubblica», si
intende: rappresentativo delle istituzioni territoriali della Repubblica “una e indivisibile”. Ma
l’ambiguità nella sua composizione del nuovo organo deriva dalla compresenza di logiche
scarsamente conciliabili, riconducibili a due differenti tipi di rappresentanza: politica e territoriale.
In particolare, come previsto dal testo costituzionale novellato, 95 dei 100 senatori
complessivi dovranno essere eletti dai Consigli regionali (e delle Province autonome) fra i propri
componenti (oltre ad un sindaco per ogni Regione), con metodo proporzionale (dall’art. 57, I c.) e
«in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo
dei medesimi organi» (art. 57, V c.), secondo le modalità previste da una legge bicamerale, anche in
relazione alla sostituzione del senatore in caso di cessazione dalla carica.
Sennonché, al di là dell’impossibilità di applicare un vero e proprio sistema proporzionale
nelle Regioni che avranno due soli senatori da eleggere, è evidente che il modello scelto dal
legislatore costituzionale è, a ben vedere, un non modello. Sicuramente la rappresentanza prevista
per il nuovo Senato non è territoriale, come dimostra il combinato disposto di tre elementi: a) il
necessario sistema proporzionale, che in verità non avrebbe senso in presenza di una posizione
unitaria della Regione; b) l’obbligo di tener conto delle preferenze espresse dagli elettori per i
candidati consiglieri; c) il divieto di mandato imperativo che permane anche in capo ai nuovi
senatori.
Certo, detto questo, il resto rimane parecchio confuso. L’intreccio delle norme appena
richiamate è uno scarno canovaccio, che ci consente forse di affermare cosa il Senato non sarà,
senza tuttavia poter nutrire altrettanta certezza rispetto al ruolo che effettivamente avrà nel diritto
costituzionale vivente. La confusione sorge in verità già in relazione al meccanismo di scelta dei
componenti del Senato delineato dalla riforma ed ai rapporti di competenza fra la futura, ricordata,
legge bicamerale e l’autonomia elettorale regionale. Almeno in teoria, quest’ultima non solo esce
formalmente indenne dall’opera di revisione costituzionale – che lascia inalterata la potestà
concorrente di cui all’art. 122, semmai integrandola e dunque confermandone la logica – ma
diventa stranamente l’highlander del modello “ripartito” di autonomia legislativa oramai scomparso
(almeno formalmente) nella sede tradizionale dell’art. 117. In pratica, però, il destino
575
dell’autonomia elettorale regionale rischia di essere meno fortunato con l’eventuale entrata in
vigore della riforma.
Volendo provare a dare un senso al complesso delle nuove disposizioni in materia, si
dovrebbe valorizzare l’inciso per cui il Consiglio elegge con metodo proporzionale i propri senatori
in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo
dei medesimi organi. In tal modo, i consiglieri continuerebbero ad essere eletti esclusivamente in
base alla legge elettorale di ciascuna Regione – che normalmente associa il premio di maggioranza
ad un sistema proporzionale – mentre nel Consiglio dovrebbe svolgersi una competizione per
l’elezione della seconda Camera con metodo proporzionale e liste bloccate con candidati inseriti
secondo un ordine che tiene conto delle preferenze relative (ovvero rapportate al totale delle
preferenze ottenute dai candidati della stessa lista) da loro ottenute nelle elezioni regionali.
Un’ipotesi simile è resa possibile anche dalla norma transitoria (art. 39), secondo cui, in
sede di prima applicazione – ovvero dopo lo scioglimento delle attuali Camere – ed in attesa della
legge bicamerale di cui all’art. 57, VI c., del nuovo testo costituzionale, i Consigli regionali e della
Provincia autonomia di Trento possono procedere all’elezione dei senatori con una competizione
fra liste bloccate con un criterio massimamente proporzionale (quoziente naturale e recupero dei
resti). Tuttavia, la norma transitoria non precisa il collegamento con le preferenze elettorali. Di più:
non chiarisce chi e come dovrebbe stendere materialmente le liste e, in particolare, se a farlo debba
essere il Presidente del Consiglio regionale, magari affiancato dai gruppi consiliari, sulla base di
un’apposita modifica dello statuto e del regolamento consiliare.
Non credo invece che tali modifiche rientrino nella competenza della legge elettorale
regionale ai sensi dell’art. 122, I c., visto che quest’ultima è limitata al sistema d’elezione dei
consiglieri e del Presidente della Giunta. Semmai, tale competenza dovrà essere attivata per
modificare le stesse modalità di elezione dei consiglieri richieste dall’intreccio con la composizione
del Senato previsto dalla riforma (ma su questo ritornerò di qui a un momento). Peraltro, la norma
transitoria – che non accenna minimamente neppure al principio delle pari opportunità tra i sessi
(art. 55, c. 2) – potrà essere applicata non solo in sede di prima costituzione del nuovo Senato, ma
fino a quando non sarà approvata la nuova legge bicamerale.
576
Di certo, la soluzione qui prospettata – la predisposizione delle liste bloccate per il Senato
con ordine interno che tiene conto delle preferenze personali ottenute dai candidati nell’elezione a
consiglieri – porta con sé non pochi inconvenienti, a partire dal fatto che realisticamente il potere di
elezione risulta sostanzialmente condiviso fra Consiglio (nel quale si vota per le liste bloccate) e
corpo elettorale (le cui preferenze dovrebbero incidere sulla composizione delle stesse liste per il
Senato). Ma proprio tale connubio è esattamente quanto richiesto dalla norma costituzionale. Non è
ben chiaro, dunque, come possa altrimenti conciliarsi il potere decisorio degli elettori con quello del
Consiglio.
Si aggiunga poi che la stessa scelta, operata dal legislatore costituzionale, di condizionare
l’elezione dei senatori ai risultati delle preferenze espresse dagli elettori per i candidati consiglieri è
di per sé assai discutibile. Si avrebbe in questo caso una sorta di peculiare ed anomalo “voto fuso”
che incide sulla composizione di organi appartenenti ad Enti diversi, con funzioni del tutto
differenti e non comparabili, come più volte la stessa Corte costituzionale ha riconosciuto, con
evidente violazione della libertà di voto. Difatti, l’elettore potrebbe ritenere un certo candidato
idoneo alla funzione di consigliere ma non anche a quella di senatore.
V’è poi la violazione del giudicato costituzionale derivante dall’elezione dei senatori da
parte di consiglieri a loro volta eletti con le attuali discipline elettorali regionali. In particolare, dalla
sentenza cost. n. 1 del 2014 può trarsi senza dubbio l’indicazione per cui la peculiarità e delicatezza
delle funzioni svolte dalle Camere, soprattutto in relazione alla revisione costituzionale, rendono
illegittimo un sistema elettorale in cui non vi sia limite alla distorsione fra voti e seggi. Se tale
giudizio è stato espresso nei confronti del c.d. Porcellum – che tuttavia garantiva una percentuale di
seggi non superiore a 340 – un sindacato molto più severo dovrebbe operarsi nei confronti di buona
parte delle attuali leggi elettorali regionali, nelle quali non solo il premio di maggioranza può
operare davvero in modo spropositato, ma viene assegnato anche nel caso in cui il candidato alla
Presidenza ottenga la maggioranza relativa dei voti ed analogo risultato non sia invece raggiunto dai
partiti a lui collegati.
Di certo, quanto affermato dalla Corte in relazione alla funzione dei parlamentari dovrebbe
valere anche per i membri del nuovo Senato che, al di là della rappresentanza della propria Regione
(secondo comunque una logica politico-partitica e non davvero territoriale), saranno comunque
577
investiti anche del potere di modifica della Costituzione. Insomma, se non si vuol dar vita ad un
totale aggiramento della sentenza costituzionale del 2014, si dovrà intervenire anche sul margine di
ampiezza dell’autonomia elettorale regionale.
A questo punto, potrebbero immaginarsi diversi scenari.
Scarterei subito quelli formalmente irrealizzabili, come il ritorno alle stesse discussioni dei
Costituenti sull’opportunità di non riconoscere alcuna autonomia elettorale alle Regioni per non
avere una composizione del Senato disomogenea rispetto a quella della Camera. Non solo oramai
non avrebbe senso in un sistema a fiducia monocamerale, ma, come ricordato, la stessa riforma
tiene ferma la disposizione dell’art. 122, I c. Dunque, almeno formalmente la stessa legge
bicamerale non potrebbe sostituirsi interamente alla legge regionale nel dettare la disciplina delle
elezioni dei consiglieri. Nella sostanza, però, è facile immaginare ulteriori limitazioni di tale forma
di autonomia regionale.
Innanzitutto, le modalità di elezione dei consiglieri dovranno essere ricondotte all’area di
una nuova legge cornice statale. In teoria, la stessa legge bicamerale potrebbe integrare la l. n.
165/2004, la quale specifica (in modo tuttavia non decisivo) che i princìpi fondamentali in essa
contenuti sono gli unici a vincolare l’autonomia elettorale regionale. In particolare, con un cambio
di rotta rilevante – visto che fin qui quella attuale non ha mai dettato norme particolarmente
penetranti sul c.d. sistema elettorale in senso stretto – per l’elezione del Consiglio occorrerà porre
limiti stringenti all’utilizzo del premio di maggioranza, escludendo che lo stesso possa operare
senza una soglia minima di voti.
In secondo luogo, considerato che proprio il nuovo testo richiede un aggancio fra l’elezione
dei senatori da parte del Consiglio e le scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri,
potranno sorgere non poche difficoltà in un’eventuale Regione con sistema elettorale a liste
bloccate. Per riportare a coerenza il sistema, sarebbe dunque realistico dover limitare ulteriormente
l’autonomia elettorale regionale, nel senso di inserire come principio fondamentale la possibilità per
l’elettore di esprimere almeno una preferenza. Vi sarebbe, invero, un’altra soluzione: un principio
fondamentale inderogabile della legge bicamerale stabilisca che nella scheda delle elezioni regionali
l’elettore possa esprimere due tipi di voto per i consiglieri: uno ai fini dell’ingresso in Consiglio e
l’altro di cui tener conto per l’eventuale candidatura a senatore (ovviamente: sempre che vi sia stata
578
l’elezione a consigliere). Se tale soluzione può evitare l’incoerenza di un abnorme “voto fuso”
bonne à tout faire, essa potrebbe tuttavia incontrare non poche difficoltà sul piano tecnico e
soprattutto richiederebbe una forzatura ermeneutica. Difatti, la norma in materia si riferisce alle
preferenze espresse per i candidati consiglieri (ovvero candidati nelle elezioni per il Consiglio) e
non per i consiglieri candidati (al Senato), sembrando dunque voler ancor più saldare le preferenze
espresse per un incarico regionale alla candidatura per la seconda Camera.
In entrambi i casi, comunque, si tratterebbe di una strana ed atipica forma di elezione
sostanzialmente diretta – peraltro parziale, perché incide potenzialmente sulla scelta dei futuri
senatori, ma solo tenendo conto dei risultati delle elezioni proporzionali successivamente svolte in
sede consiliare – che non può conciliarsi fino in fondo con l’esclusione del Senato dal circuito
fiduciario. Proprio tale collegamento è il segno evidente della volontà del legislatore costituzionale
di costruire un Senato a caratura politica, nel quale ricreare cleavages partitici e non territoriali,
conclusione che del resto ben s’accorda con la scelta di mantenere fermo il divieto di mandato
imperativo anche per i nuovi senatori. Dunque: nessuna scelta unitaria della singola Regione o
Provincia autonoma e chiara possibilità di una “disgregazione” del voto regionale.
Il quadro appena tracciato può essere utile semplicemente per sottolineare che la
procedimentalizzazione dei rapporti Stato-Regione attraverso il nuovo Senato potrà comportare
l’ulteriore, progressiva erosione delle competenze regionali anche in materia elettorale. Il probabile,
vistoso arretramento anche sotto tale versante delle competenze regionali non sorprende, però, più
di tanto. Difatti, così come non si può riconoscere ad un Ente pienezza di autonomia politica senza
la corrispondente competenza in materia elettorale, allo stesso modo l’erosione delle competenze
regionali espressione di autonomia politica, prima o poi trascina con sé anche l’autodeterminazione
dell’Ente in ordine al proprio sistema elettorale.
Purtroppo, credo che, così com’è, il Senato non potrà funzionare adeguatamente. Anzi, v’è il
rischio che per avere uno strano ibrido di seconda Camera si finisca per limitare ulteriormente
l’autonomia elettorale regionale, conclusione in teoria accettabile ove la legge statale si mantenga
nell’ambito dei princìpi fondamentali, ma in pratica assai pericolosa per la radicata tendenza dello
Stato di camuffare in principio le norme di dettaglio (con l’avallo della Corte costituzionale). Tale
irresistibile trend potrebbe poi consolidarsi ulteriormente laddove i futuri senatori regionali
579
dovessero rispondere, come credo, a logiche partitiche e non realmente territoriali, offrendo dunque
una timida opposizione a leggi volute dalla maggioranza volte a svuotare l’autonomia regionale,
eventualmente riconducendo i sistemi elettorali dei diversi enti allo schema omogeneo e soffocante
della legge n. 108 del 1968. È noto, infatti, che la classe politica regionale, in linea di massima,
altro non è che una costola di quella nazionale, peraltro assai deferente rispetto alle scelte
provenienti dal centro.
Nonostante tale consapevolezza, confesso che nutro ancora molti dubbi su quella che sarà
per me, come credo per molti, una scelta per nulla scontata. Di argomenti contro la riforma se ne
potrebbero invero trovare molti ed ulteriori rispetto a quelli fin qui appena abbozzati.
A favore, invece, della riforma potrebbero invece giocare al più considerazioni di sistema.
Il corpo elettorale fatica a trovare forze politiche disposte ad assumere realmente e
chiaramente la responsabilità di governo, ciò che rende davvero reale il rischio di un irreversibile
scollamento tra corpo elettorale e vita delle istituzioni. Di fronte a situazioni nelle quali si devono
attendere diversi anni per ottenere leggi che tutelano diritti costituzionali (si pensi alla legge sulle
unioni civili), occorre ricordare la lezione che proviene dalla storia (e in particolare dall’ascesa del
nazismo). È pur vero che quest’ultimo fu favorito anche da una situazione economica disastrosa
non del tutto paragonabile a quella odierna, oltre ad inserirsi, sia pure con notevole originalità, nel
quadro di una concezione nazional-romantica dei rapporti fra individuo e popolo, oggi
improponibile.
Peraltro, lo scollamento tra popolo e istituzioni è in parte attualmente contenuto
dall’attribuzione del ruolo di garanzia dei diritti costituzionali alla giurisdizione, comune,
costituzionale, internazionale ed europea. Tuttavia, lo spostamento sul piano giurisdizionale del
conflitto di interessi, meglio del conflitto tra diritti non può sostituire il diritto al conflitto politico
(id est: la competizione politica, che ovviamente non si riduce allo scontro amico-nemico, ma che è
risposta alle istanze della comunità). Se il sistema partitico è ampiamente delegittimato, se le
decisioni che realizzano le istanze provenienti dal Paese non sono adottate, se insomma la
rappresentanza viene privata della decisione – rispetto alla quale la prima è pur sempre strumentale,
perché si può discutere tanto per discutere nella società civile (e fino ad un certo punto), ma non in
580
Parlamento – allora lì davvero può agitarsi lo spettro del vero decisionismo (che è cosa ben diversa
dall’avere un Governo forte, come in molti Paesi europei).
Questa riforma è di iniziativa governativa, ma è stata notevolmente modificata dal
Parlamento, che ha rivisto il disegno originario del Governo apportandovi non pochi cambiamenti
(e di non poco conto). Del resto, la governabilità, al di là degli slogan, non pone necessariamente un
problema di Governo forte, quanto e piuttosto di una classe politica che, nel bene e nel male, posta
nella possibilità di attuare il suo programma politico assumendosi anche la responsabilità del suo
eventuale fallimento, come il premier britannico Cameron dopo l’uscita del Regno Unito
dall’Unione Europea. È un problema di sistema politico ed è un problema di stile dei nostri leaders,
lontano anni luce da quello degli altri Paesi europei, su cui occorrerebbe lavorare.
Il tipo di governabilità di cui abbiamo bisogno non postula necessariamente Parlamenti
deboli. Il nostro lo è oggi non perché si è accresciuto il potere del Governo, ma perché sono
indeboliti i partiti. La governabilità come capacità di una risposta adeguata e stabile dei partiti di
maggioranza alle istanze provenienti dal Paese non è affatto contrapposta alla rappresentanza.
Piuttosto, serve a darle un senso ed una direzione.
Per certi versi, la riforma, è il punto più alto di – forse troppo alto ma comunque coerente
con – un quadro di riforme che possono non piacere (e molte, lo confesso, non mi piacciono), ma
che, secondo la stessa logica della legge elettorale n. 52/2015 (c.d. Italicum), tendono a realizzare
un sistema dove sia più facile ed immediata l’imputazione politica delle riforme al partito di
maggioranza, riforme che potranno essere giudicate al termine della legislatura dagli elettori,
secondo uno schema genuinamente democratico. È vero la riforma costituzionale non può essere
valutata come le altre alla fine della legislatura, anzi l’esito del referendum potrebbe in teoria anche
mettere fine a quest’ultima. Ed è anche sbagliato ritenere che una riforma costituzionale sia un
aspetto fra gli altri dell’attuazione di un programma di governo (frutto, dunque, di un disegno di
parte). Per certi versi, però, l’accoppiata riforma-legge elettorale, con tutte le riserve cui ho
accennato (insieme a molte altre che potrebbero aversi) sicuramente è animato da una medesima
logica interna assai coerente. In altri termini, se è vero che una riforma costituzionale non può
essere considerata una mera costola (sia pure importante) di un programma di governo, quella ora
581
licenziata dal Parlamento è stata ritenuta, a torto o ragione, il punto di snodo essenziale per
“sbloccare” o potenziare altre riforme, come quella del sistema elettorale.
È vero, questa riforma presenta grandi lacune e difetti, un pessimo drafting (similmente a
molte dei progetti di riforma precedenti e della stessa riforma del Titolo V del 2001) ed è stata
portata avanti con non poca disinvoltura politica. Ma l’idea che la Costituzione possa essere
modificata solo da una classe politica all’altezza dei nostri Padri Costituenti (e del popolo che li ha
eletti…) ci porterebbe dritti verso la mummificazione della democrazia costituzionale, visto che la
nostra Assemblea costituente è anche il frutto di eventi storici eccezionali. E le mummie, salvo
errore, pur conservandosi nel tempo, non godono di buona salute. La Costituzione, invece, non è
fatta per essere mummificata, ma per durare nel tempo attraverso il giusto e vitale equilibrio tra
difesa dei princìpi fondamentali e dinamizzazione/evoluzione della sua parte non intangibile.
Tuttavia, anche la stessa direzione di dinamizzazione/evoluzione dovrebbe essere tracciata da
qualunque riforma costituzionale in misura sufficientemente precisa. È vero che l’elasticità delle
norme costituzionali è stata fin qui il loro punto di forza, anche in punto di forma di governo.
Tuttavia, pur dandosi uno spazio di concreta modulazione del figurino costituzionale rimesso
fisiologicamente alle scelte politiche – e ciò è valso anche per la Costituzione del 1948, oltre una
certa soglia la Carta fondamentale rischia di perdere la sua funzione di razionalizzazione del potere
politico. Ciò accade con norme, come quelle sulla composizione e sulle funzioni del Senato, che
non solo si limitano a stendere un semplice canovaccio, ma lo fanno lasciando parecchi punti oscuri
anche per gli addetti ai lavori e introducendo disposizioni poco coerenti che già sin d’ora si
incastrano malamente in un puzzle indecifrabile. Insomma, una cosa è tentare di rivalorizzare la
governabilità come strumento della rappresentanza, altra cosa, invece, è lasciare le forze di
maggioranza (e dunque il Governo) completamente libere di riempire di contenuti norme
costituzionali non solo elastiche, ma fin troppo scarne (e scarsamente lineari) proprio in relazione
ad alcuni aspetti essenziali di limitazione del potere ed al fine di assicurare una coerenza
complessiva alla riforma.
Ciò considerato, è del tutto legittimo chiedersi se fosse davvero questa la riforma più
urgente da operare qui ed ora. E soprattutto da operare in questi termini, ancorché sia noto che ogni
riforma
582
costituzionale è pur sempre frutto di una dialettica politica che potrebbe anche rendere ogni logica
meno lineare ed ogni costrutto meno coerente.
Infine, non posso tacere le perplessità suscitate da una riforma operata da un Parlamento, sì
giuridicamente legittimato a farlo, ma, dopo la sentenza n. 1 del 2014, senza dubbio non adatto a
tale opera sul piano politico ed istituzionale. Questo, credo, è il segno tangibile di un terribile
difetto della classe politica italiana, incapace di auto-emendarsi.
È chiaro però che, a fronte all’incapacità dei partiti di riformare sé stessi prima di riformare
altro – secondo uno schema più consono e lineare – rimane ora la difficile scelta su un’ampia
modifica costituzionale che, al di là dell’esito finale del voto, in futuro credo peserà molto sulle
vicende della nostra democrazia.
La riforma costituzionale e la difficoltà di fare previsioni (soprattutto riguardo al futuro)
di Alessandro Morelli*
1. «Fare previsioni è una cosa molto difficile, soprattutto quando riguardano il futuro»,
affermava ironicamente il premio Nobel per la fisica Niels Bohr. Una massima che si adatta
perfettamente anche al tema della riforma costituzionale. La difficoltà d’immaginarne il seguito
nonché gli scenari che essa potrebbe determinare è, a mio avviso, la questione dalla quale occorre
muovere, poiché il giudizio sulla nuova disciplina costituzionale è innanzitutto una valutazione
(preventiva) sui possibili effetti della riforma. In verità, come tenterò di argomentare, pur
sinteticamente, qualche previsione si può forse avanzare, ma non è molto incoraggiante.
Premetto che le considerazioni che svolgerò in questa sede non saranno orientate da timori
riguardanti la situazione politica contingente, la cui analisi, peraltro, può fornire spunti utili
all’indagine sul dato normativo, ma non può, a mio avviso, risultare determinante, almeno nel
giudizio di chi, per mestiere, studia il diritto costituzionale.
Sono convinto che il voto di molti italiani, al referendum che dovrebbe svolgersi nel
prossimo autunno, sarà orientato da ragioni legate alle sorti del Governo in carica o da altre
motivazioni che poco hanno a che vedere con i contenuti del testo sul quale oggi siamo chiamati ad
esprimerci e a confrontarci. Si può incidentalmente notare, peraltro, come tali motivazioni facciano
riferimento, per lo più, ad un contesto altamente incerto e mutevole, considerato oltretutto che i
soggetti politici (partiti e movimenti) tendono ad adattarsi in fretta alle novità normative, piegando,
quando è possibile, gli strumenti giuridici (anche quelli meglio congegnati) ai propri interessi
occasionali o, se del caso, mutando organizzazione e strategie per sopravvivere ai rivolgimenti
istituzionali. Leggere, dunque, il dettato del testo di revisione alla luce dell’attuale sistema politico-
partitico e delle dinamiche che oggi lo connotano potrebbe rivelarsi fuorviante, poiché l’eventuale
* Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università «Magna Græcia» di Catanzaro.
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entrata in vigore della riforma avvierebbe, con tutta probabilità, una serie di trasformazioni politiche
in questo momento difficilmente immaginabili.
La Costituzione, d’altro canto, è fatta per resistere alle stagioni politiche e per imporre, nei
contesti più vari, limiti giuridici al potere, soprattutto allo scopo di assicurare la massima protezione
possibile ai diritti fondamentali. Pertanto, le modifiche che la riguardano – specialmente quando
sono di notevole portata e incisività come quelle prodotte dalla legge di revisione Renzi-Boschi –
meritano un esame serio, approfondito e, soprattutto, indipendente dal contesto politico contingente.
Nel medesimo spirito, eviterò anche di formulare una di quelle che Popper chiamava
«profezie storiche incondizionate», al cui genere mi sembra che appartengano, ad esempio, le
ricostruzioni di chi oggi sostiene che un’eventuale bocciatura della legge costituzionale nella
consultazione referendaria determinerebbe un arresto definitivo (o anche solo di medio-lungo
periodo) del processo riformatore, una sorta di “fine della storia costituzionale” italiana, che
comporterebbe il triste e inarrestabile declino del nostro sistema istituzionale.
Nessuna profezia, dunque, ma solo qualche cauta previsione.
2. Poste tali premesse, mi sembra che gli scenari che l’entrata in vigore della riforma
potrebbe determinare non siano affatto auspicabili e giungo a tale conclusione considerando sia il
metodo adottato che i contenuti della legge costituzionale.
Partiamo dal metodo.
Non mi riferisco qui alla circostanza, per nulla scandalosa a mio avviso, che il disegno di
revisione costituzionale sia stato presentato dal Governo o alle (in verità, più fondate) critiche legate
a certi discutibili passaggi dell’iter di approvazione della legge, su cui non mi è qui possibile
soffermarmi. Il problema è, piuttosto, che il testo di revisione in esame riguarda, salvo errore,
quarantasette articoli della Costituzione e che non è stato approvato anche con il voto delle
opposizioni, ma in un clima di accesa conflittualità, che si è ulteriormente inasprito con l’avvio
della campagna referendaria. Come di recente ha ricordato R. Romboli, successivamente alla
bocciatura, nel referendum del 2006, della riforma costituzionale sulla c.d. «devolution», buona
parte della dottrina aveva tratto da quella esperienza l’insegnamento che le riforme si dovessero fare
su porzioni specifiche del testo costituzionale e che dovessero essere condivise da maggioranza e
585
opposizioni. Questi assunti, a mio avviso, corrispondono a canoni metodologici il cui rispetto è una
condizione necessaria (anche se non sufficiente, come subito dirò) ad assicurare l’attuazione delle
riforme progettate.
È evidente, innanzitutto, che più ampia è la portata della revisione, maggiore è il numero
d’interventi normativi necessari a darle attuazione (e più forte è il rischio che aspetti importanti del
disegno riformatore non trovino alcun seguito e rimangano soltanto sulla carta). L’esempio della
riforma del Titolo V introdotta dalle leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3 del 2001 dovrebbe fare
riflettere: in assenza di un’adeguata attuazione legislativa, la Corte costituzionale ha dovuto
svolgere un’attività di supplenza (naturalmente con tutti i limiti procedurali che incontra l’organo di
giustizia costituzionale nell’esercizio delle proprie funzioni) ed ha persino riscritto, in diversi punti,
lo stesso Titolo V per sopperire ad alcune evidenti carenze della novella costituzionale (si pensi, per
tutte, alla celebre sentenza n. 303 del 2003, a proposito della quale A. Morrone ha parlato
addirittura di «bagliori di potere costituente»).
La conclusione è a tutti nota: un’applicazione della nuova disciplina costituzionale sulle
autonomie che è andata in senso diametralmente opposto alle intenzioni dei riformatori, i quali
avevano tentato di valorizzare sensibilmente il ruolo delle Regioni e degli enti locali, soprattutto
attraverso l’attribuzione di un consistente numero di nuove competenze legislative agli enti
regionali e la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà. Ed è altresì noto come non sia
stato mai attuato nemmeno l’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, che prevedeva
l’integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali con rappresentanti delle
Regioni e il riconoscimento a tale organo di un ruolo importante nei procedimenti di formazione
delle leggi statali di potestà concorrente.
Né tantomeno si può obiettare che la crisi economico-finanziaria esplosa nella seconda metà
dello scorso decennio abbia mutato il contesto di riferimento, imponendo un ritorno alla
centralizzazione del sistema e bloccando l’attuazione della riforma, poiché ben prima, già subito
dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale del 2001, il nuovo Governo di centro-destra,
piuttosto che procedere ad implementare la riforma approvata dal centro-sinistra (in verità, con una
maggioranza di poco superiore a quella assoluta), ha pensato bene di avviare un nuovo processo
riformatore della Carta, che si è poi arrestato con il già richiamato referendum del 2006. In altri
586
termini, l’analisi dei precedenti mostra come l’approvazione di ampie riforme costituzionali non
condivise dalle opposizioni rischi di alimentare un «uso congiunturale della Costituzione» (A.
Ruggeri), vale a dire la tendenza, da parte delle varie maggioranze di governo, di riscrivere la legge
fondamentale a propria immagine e somiglianza, facendo della stessa Costituzione un mero
strumento di lotta politica.
Qualora, pertanto, il prossimo Governo dovesse essere sostenuto da forze politiche che
avessero osteggiato la riforma costituzionale, potrebbe verificarsi una situazione analoga a quella
appena ricordata, con consistenti rischi di vedere in tutto o in notevole parte inattuata pure la legge
costituzionale di cui oggi ci occupiamo.
La condivisione della riforma anche da parte delle opposizioni, peraltro, è una condizione
certo non sufficiente ad assicurarne l’attuazione in un Paese che ha conosciuto quello che P.
Calamandrei ha icasticamente battezzato l’«ostruzionismo di maggioranza» (facendo riferimento
alla tendenza, manifestatasi nei primi decenni della storia repubblicana, da parte del partito di
maggioranza relativa, di ritardare l’adozione delle leggi attuative delle previsioni costituzionali
riguardanti nuovi enti e istituzioni – come le Regioni o la Corte costituzionale – pur dalla medesima
forza politica sostenuti in Assemblea costituente). Non è possibile, infatti, escludere l’eventualità
che, se anche l’attuale Governo dovesse rimanere in carica fino alla fine della legislatura,
egualmente la riforma costituzionale potrebbe rimanere senza alcun seguito, ad esempio per il
riproporsi, nel dibattito sulle leggi di attuazione, di quel conflitto tra maggioranza e minoranza del
PD che ha già finito con il produrre l’incerta soluzione relativa alle modalità di designazione dei
nuovi senatori. Insomma, se in generale non c’è alcuna garanzia che una riforma venga comunque
attuata, ci sono molte probabilità che una riforma non condivisa con le forze politiche
d’opposizione resti solo sulla carta, magari destinata ad essere sostituita da una successiva riforma
ritenuta più adeguata alle esigenze dei tempi.
Si dirà che questo ragionamento prova troppo e che, se fosse portato alle sue estreme
conseguenze, condurrebbe a escludere ogni possibile revisione della Carta repubblicana, comprese
quelle necessarie a rendere il sistema istituzionale più efficiente. Come pure qualcuno ha fatto in
questa sede, si potrebbe anche pensare di rivolgere l’obiezione contro gli stessi critici della riforma
587
e sostenere che, essendo impossibile prevedere i futuri sviluppi della dinamica istituzionale, anche
gli effetti di un esito negativo del referendum costituzionale sarebbero del tutto inimmaginabili.
Non sembra, però, che questo modo di argomentare colga nel segno.
A parte l’ovvia considerazione che l’onere della prova della bontà dei cambiamenti
prospettati spetta a chi sostiene la riforma (implicando, invece, una sorta di probatio diabolica la
pretesa che siano i critici a dimostrare che la riforma stessa non arrecherà effetti positivi), sembra
evidente come sia i favorevoli sia i contrari fondino le proprie convinzioni su previsioni
(chiaramente di segno opposto) relative ai possibili scenari prodotti dall’eventuale entrata in vigore
della legge costituzionale. La scelta di una visione radicalmente scettica (secondo la quale non
sarebbe possibile dire proprio nulla sul futuro), oltre a non fornire alcuna ragione a sostegno della
riforma, apparirebbe, in verità, erronea, poiché, come si è detto, è possibile fare qualche cauta
previsione sulla base dell’analisi dei precedenti e dell’esame dei contesti fattuali di riferimento (del
resto, lo stesso esercizio della funzione normativa presuppone la possibilità di fare almeno qualche
previsione sul domani, risultando altrimenti velleitario persino attribuire precettività alle norme
giuridiche).
Il problema è che più aumentano le variabili, meno facile è formulare previsioni e più
l’intervento riformatore somiglia ad una scommessa azzardata. In buona sostanza, l’osservazione
dei precedenti conferma la tesi secondo cui l’art. 138 Cost. non è adatto ad ampie riforme del testo
costituzionale, risultando congeniale a modifiche specifiche e puntuali, le sole il cui impatto è
possibile valutare preventivamente in modo attendibile.
La specificità e la puntualità della revisione consentirebbero, peraltro, se non di risolvere,
quantomeno di ridimensionare in misura notevole il problema dell’omogeneità del quesito
referendario ex art. 138 Cost., sul quale pure la dottrina ha molto dibattuto. Non ci si nasconde che
non è agevole stabilire quale sia il limite superato il quale la revisione risulterebbe insostenibile, ma
la difficoltà di definire il criterio non giustifica la mera rimozione del problema. La questione si
presenta complessa, ma a parte il fatto che si potrebbe guardare, per quanto possibile, ai percorsi
argomentativi seguiti dalla Corte costituzionale nella giurisprudenza relativa all’ammissibilità del
referendum abrogativo, con riguardo al modo di formulazione del quesito, o in quella inerente alla
legittimità dei decreti-legge, non sembra difficile individuare casi di manifesta carenza di
588
omogeneità. Una legge che, modificando quasi una cinquantina di disposizioni costituzionali,
interviene su tutta una serie di oggetti carenti di una matrice razionalmente unitaria prospetta, a ben
vedere, una “riforma omnibus”, che finisce inevitabilmente con il conferire al referendum che la
riguardi una connotazione plebiscitaria. Non consentendo di formulare previsioni serie sugli effetti
dell’intervento, il voto inerente ad una simile revisione si risolve così in un atto di fede politica nei
confronti di chi la promuove. Connotazione questa che non sembra possibile rimuovere
“spacchettando”, come pure si è proposto di fare, l’oggetto del quesito referendario e moltiplicando
le consultazioni. Tale soluzione, infatti, oltre a risultare difficilmente praticabile in base al diritto
vigente, non tiene conto del fatto che almeno alcuni tra i contenuti fondamentali della stessa legge
di revisione costituzionale esprimono un disegno dotato di una logica interna. E proprio su tale
disegno (e sulla sua logica) occorre, a mio avviso, soffermarsi.
3. Passiamo, dunque, al versante dei contenuti.
Si sente spesso dire (e alcuni lo hanno ripetuto anche in questa sede) che occorrerebbe fare
una sorta di bilanciamento tra le cose buone e le cose cattive che possono rinvenirsi nel testo e
decidere in base ad un giudizio di prevalenza. Ebbene, mi sembra che questo metodo, oltre a
trascurare il carattere sistematico delle norme costituzionali, pretenda di confrontare elementi non
bilanciabili, poiché parti indefettibili di un unico disegno. Per fare un paragone, quando si acquista
un’automobile, si può forse svolgere un bilanciamento tra l’estetica della carrozzeria e la potenza
del motore, prediligendo, ad esempio, l’una a discapito dell’altra (o viceversa), ma non appare
altrettanto ragionevole un analogo confronto tra le parti interne del motore, ciascuna delle quali è
necessaria ad assicurarne il funzionamento. Ecco, in questo caso, è come se si volessero
“bilanciare” gli elementi costitutivi di un motore, valutando la pregevolezza delle singole
componenti, senza considerare che quello che conta è l’insieme e che se anche una delle parti non è
buona, l’intero sistema finisce con il funzionare male o col bloccarsi.
Entrando nel merito delle soluzioni prospettate dalla legge costituzionale, com’è stato
osservato, la riforma sembra ispirata dalla logica di un trade-off tra competenze e partecipazione (S.
Pajno): si riducono, da un lato, le materie di esercizio della potestà legislativa regionale, si elimina
la potestà concorrente e s’introduce una «clausola di salvaguardia» a tutela dell’interesse nazionale;
589
dall’altro lato, s’intende compensare tale ridimensionamento con una maggiore partecipazione degli
enti regionali e comunali, attraverso la creazione di un Senato rappresentativo delle «istituzioni
territoriali». Un disegno che si basa su una serie di premesse e che tende evidentemente a
raggiungere alcuni obiettivi.
Partendo dalle prime, sembrerebbe che i riformatori siano stati mossi da due convinzioni: la
necessità (in verità, da tempo sostenuta da buona parte della dottrina) di una sostanziale revisione
del sistema bicamerale e l’esigenza di rivedere l’assetto delle autonomie. Quest’ultimo appare
affetto da gravi patologie, riscontrandosi soprattutto una perdurante incapacità della gran parte degli
enti regionali e locali di sfruttare adeguatamente e responsabilmente le proprie competenze. D’altro
canto, la Corte costituzionale, andando incontro ad avvertite esigenze di ricentralizzazione delle
funzioni, ha, nella sua giurisprudenza, promosso una sensibile riduzione degli spazi di autonomia
normativa delle Regioni, attraverso l’elaborazione di tutta una serie di criteri troppo noti per essere
qui richiamati. L’articolazione territoriale del potere va, quindi, ripensata e il sistema delle
autonomie semplificato e razionalizzato. A tal fine, gli indirizzi giurisprudenziali, formatisi a partire
dalla (e tenendo conto della) concreta dimensione degli interessi di volta in volta in gioco, possono
offrire indicazioni utili alla riscrittura delle disposizioni costituzionali che definiscono le
competenze di Stato, Regioni ed enti locali.
Quali, dunque, gli obiettivi della riforma? Innanzitutto, assicurare una maggiore efficienza e
rapidità dei processi decisionali e, in secondo luogo, ridurre il contenzioso Stato/Regioni. Il
bicameralismo differenziato dovrebbe soddisfare la prima esigenza, mentre la partecipazione degli
enti periferici ai processi decisionali che si svolgono nell’ambito dello Stato-apparato, sull’esempio
di quanto avviene in altri Paesi, dovrebbe rispondere alla seconda.
Il problema è che proprio la logica dello scambio tra competenze e partecipazione non
sembra che trovi seguito in soluzioni adeguate agli scopi programmati. In breve, il nuovo Senato
non parrebbe in grado, per com’è strutturato, di garantire una reale ed effettiva partecipazione degli
enti territoriali e il nuovo Titolo V non abbandona la logica della ripartizione delle competenze
legislative sulla base degli elenchi di materie e adotta formule ancora una volta idonee, per la loro
ambiguità, ad alimentare il contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale.
590
4. Una prima considerazione che può svolgersi è che la fisionomia che la legge
costituzionale attribuisce al Senato è indecifrabile.
Cosa sono le «istituzioni territoriali» delle quali l’organo dovrebbe farsi rappresentante?
Il termine «istituzione» ha una connotazione davvero molto ampia se, come ha scritto F.
Modugno, con esso, nell’ambito della scienza giuridica, «si è voluto indicare niente di meno che lo
stesso fenomeno giuridico nella sua integralità e nella sua essenza». Le «istituzioni territoriali» da
rappresentare potrebbero essere allora sia gli interi ordinamenti regionali e comunali, le cui “voci”
dovrebbero essere quelle degli organi dei relativi apparati legittimati a esprimerne all’esterno la
volontà (e, dunque, dei presidenti regionali, oltre che dei sindaci), sia le comunità regionali e locali,
che potrebbero trovare all’interno del nuovo Senato una sede rappresentativa diversa e autonoma
rispetto a quelle dei propri ordinamenti.
L’ambiguità della formula si riflette nell’incertezza delle soluzioni adottate sul piano
organizzativo, difettando, come ricordava prima A. Rauti, meccanismi idonei ad agevolare
l’affermarsi nell’organo di un’autentica rappresentanza territoriale: manca, infatti, il vincolo di
mandato, non è previsto il voto unitario e non è assicurata nemmeno la presenza dei presidenti delle
Regioni (che, invece, era introdotta dal disegno di legge originario, presentato dal Governo, ma è
che stata poi stralciata durante i lavori parlamentari). La legge bicamerale che, ai sensi del nuovo
art. 57 Cost., dovrebbe regolare le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei senatori tra i
consiglieri e i sindaci, nonché quelle per la loro sostituzione (in caso di cessazione dalla carica
elettiva regionale o locale), non potrebbe introdurre i presidenti come membri di diritto perché il
secondo comma del medesimo articolo prevede che i novantacinque senatori rappresentanti delle
«istituzioni territoriali» debbano essere consiglieri regionali e sindaci. Pertanto, un’eventuale
previsione della presenza obbligatoria dei presidenti da parte della legge di cui sopra violerebbe
l’autonomia statutaria delle stesse Regioni, nell’esercizio della quale queste ultime potrebbero
anche decidere di ammettere la designazione di presidenti che non fossero consiglieri (la
circostanza che, al momento, non si riscontri tale ipotesi in nessuna Regione è, dunque, irrilevante).
Nulla esclude, tuttavia, che la presenza dei vertici regionali nel nuovo Senato si affermi in via di
prassi.
591
Oltre ad essere molto lontano dal modello del Bundesrat tedesco (mentre diversi
commentatori, nel sottolineare il rischio che l’organo finisca con l’essere condannato ad una
sostanziale irrilevanza politica, hanno evocato l’esempio del Bundesrat austriaco), il nuovo Senato
appare, quindi, del tutto privo degli strumenti idonei a connotarlo come Camera nella quale possa
trovare effettiva espressione l’autonomia politica degli enti territoriali. Piuttosto, l’organo rischia di
esprimere una forma di rappresentanza politico-parlamentare che, nella migliore delle ipotesi,
potrebbe determinare una mera duplicazione delle dinamiche interne alla Camera dei deputati e,
nella peggiore, dare luogo a maggioranze politiche del tutto contingenti, se non occasionali, che,
pur non essendo espressione d’istanze autenticamente territoriali, potrebbero confliggere con la
maggioranza presente nell’altro ramo del Parlamento. Occorre ricordare, infatti, che, secondo
quanto previsto dal quinto comma del nuovo art. 57, la durata del mandato dei senatori coinciderà
con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali essi saranno stati eletti, previsione che
potrebbe determinare, com’è stato notato, l’instabilità dell’organo, essendo questo soggetto «ad un
continuo e incontrollato ricambio di componenti» (L. Ventura).
Non è certo possibile concludere con assoluta certezza che il nuovo Senato sarà incapace di
garantire alle «istituzioni territoriali» una partecipazione idonea a compensare, secondo la logica
ispiratrice della riforma, il ridimensionamento delle competenze, poiché, in sede di attuazione,
potrebbero anche essere introdotte norme legislative e regolamentari volte a promuovere
l’affermazione di un’autentica rappresentanza territoriale. Così come potrebbero sempre svilupparsi
prassi atte a orientare il concreto funzionamento dell’organo secondo modalità che consentano
un’effettiva valorizzare delle istanze locali e periferiche.
Appare più realistico, però, ipotizzare che l’assenza di meccanismi giuridici funzionali a
promuovere il ruolo delle rappresentanze regionali e locali (vincolo di mandato, voto unitario e
presenza obbligatoria dei presidenti) agevolerà l’affermarsi, in seno al nuovo organo, di dinamiche
del tutto omogenee a quelle che troveranno espressione nella Camera dei deputati.
5. La situazione non migliora passando al secondo versante, quello delle competenze.
592
Spesso si è detto che, riguardo al Titolo V, la riforma si limiterebbe semplicemente a
costituzionalizzare soluzioni già adottate dalla Corte nella propria giurisprudenza, ma, a mio avviso,
si tratta di un equivoco.
Faccio solo un esempio, il più significativo che mi viene in mente.
Il nuovo art. 117, comma 4, Cost. recupera, nel meccanismo della «clausola di
salvaguardia», l’interesse nazionale cancellato dalla riforma del 2001. Tale disposizione prevede,
infatti, che, «su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate
alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della
Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale». In realtà, il modo in cui tale formula
ricompare nel testo è molto diverso da quello in cui era dato trovarla nella Carta del ’47, poiché,
com’è noto, in quel contesto essa indicava un limite di merito alle leggi regionali, che era stato
successivamente convertito dalla giurisprudenza in un limite di legittimità. Adesso, invece,
l’interesse nazionale si configura come un presupposto per l’attivazione di una procedura
specificamente funzionale all’ampliamento dell’ambito di esercizio della potestà legislativa statale.
Si deve considerare, inoltre, che la giurisprudenza successiva al 2001 sulla ripartizione delle
competenze legislative tra Stato e Regioni e sulla «chiamata in sussidiarietà» si è basata sul
presupposto della cancellazione di tale limite e la lettura di molte delle materie di competenza
esclusiva del legislatore statale come «materie-non materie» o «materie trasversali» si è fondata sul
riconoscimento della scomparsa dell’interesse nazionale e sulla sua immanentizzazione nel nuovo
sistema delle competenze legislative.
Non si può escludere del tutto che, nel nuovo quadro costituzionale, l’esistenza di un
apposito strumento atto a consentire l’intervento a tutto campo del legislatore statale, allo scopo di
far valere l’interesse nazionale, possa fornire un argomento utile a legittimare letture meno
estensive delle competenze legislative statali da parte della giurisprudenza costituzionale. La Corte
potrebbe anche abbandonare, ove possibile, l’indirizzo delle «materie trasversali» in considerazione
della circostanza che nel loro esercizio non potrebbe più farsi valere l’interesse nazionale
immanente, essendo ora affidata la salvaguardia di quest’ultimo allo strumento previsto dal nuovo
art. 117 Cost.
593
La reintroduzione dell’interesse nazionale non consente, quindi, un’applicazione automatica
dei paradigmi elaborati dalla giurisprudenza sotto il vigore del Titolo V modificato nel 2001 anche
al nuovo quadro costituzionale che uscirebbe in seguito all’entrata in vigore della riforma. E non
sembra possibile prevedere nemmeno se il meccanismo della clausola di salvaguardia consentirà di
recuperare la «chiamata in sussidiarietà», i cui presupposti di applicazione sono la proporzionalità
dell’intervento, la sua ragionevolezza e la leale collaborazione. L’inserimento dell’interesse
nazionale potrebbe far venir meno il ruolo di quest’ultimo requisito e, dunque, la necessità
dell’intesa “forte”, che peraltro, già ora, la giurisprudenza più recente ha affermato essere
condizione non indispensabile, anche se la determinazione unilaterale dello Stato può avere luogo
solo in casi estremi, che si verificano allorché l’esperimento di ulteriori procedure bilaterali si sia
rivelato inefficace. La previsione contenuta nel nuovo art. 70, comma 4, Cost., secondo cui il voto
contrario del Senato in merito all’attivazione del meccanismo della clausola di salvaguardia
potrebbe essere superato dalla Camera a maggioranza assoluta, impedirebbe, peraltro, di qualificare
come indefettibile la condizione dell’intesa forte.
In conclusione sul punto, non è affatto prevedibile quale fisionomia assumerà concretamente
il nuovo Titolo V, considerato che la Corte potrebbe ritrovarsi ancora una volta a svolgere
quell’opera di supplenza che troppo spesso ha dovuto assumere a causa delle mancanze di un
legislatore latitante. Non è improbabile, dunque, che spetterà sempre al Giudice delle leggi dare
contenuto alle nuove e ambigue formule presenti nel testo (come le «disposizioni generali e
comuni» di cui parla il nuovo art. 117) o far fronte, magari con altre soluzioni creative, alle carenze
strutturali alle quali la nuova disciplina non pone rimedio (si pensi soltanto al nodo della normativa
che dovrà applicarsi alle autonomie speciali). In tale prospettiva, non sembra dunque ragionevole
sperare in una significativa deflazione del contenzioso.
6. Il problema centrale della legge sulla quale oggi ci confrontiamo è che essa è figlia di un
metodo ormai obsoleto, che non tiene conto della necessità di una seria valutazione preventiva
d’impatto degli interventi riformatori, anche, e soprattutto, quando si coinvolgano i rami più alti del
sistema normativo. Un metodo che, in definitiva, sconta tutta l’irrazionalità della dialettica politica,
riflettendone i vizi sulla forma interistituzionale.
594
Diversi sono i difetti dell’attuale forma di governo e i mali che affliggono il sistema
politico-partitico, ma non è possibile curarli con un’unica terapia (me lo ha fatto notare, qualche
giorno fa, un amico medico al quale ho spiegato i contenuti fondamentali del testo di riforma):
l’adozione simultanea di una lunga serie di misure incidenti su diverse parti dell’ordinamento non
consente di prevedere gli effetti che ciascuna modifica produrrà sugli altri ambiti. La riuscita del
progetto ispiratore della riforma appare incerta, se non improbabile, e non è dato escludere, in
definitiva, che il rimedio possa persino aggravare i mali che intende guarire.
Luoghi comuni e paradossi
nel dibattito sulla riforma della Costituzione
di Giacomo D’Amico*
SOMMARIO: 1. Un divertissement. – 2. Tre considerazioni preliminari. – 3. I luoghi comuni “a favore” della
riforma costituzionale. – 4. I luoghi comuni “contro” la riforma costituzionale – 5. Riflessioni conclusive guardando
all’esperienza della Corte costituzionale.
1. Un divertissement
«Concludendo: un Capo dello Stato, esautorato; un’Assemblea, sostanzialmente unica –
come vi ho dimostrato – la quale detiene effettivamente tutti i poteri, dispone di tutte le leve.
Dunque, totalitarismo di Assemblea, e cioè, quello precisamente che deve fare impressione su
coloro che si preoccupano dell’Assemblea unica.
Ma le Assemblee agiscono sempre attraverso un individuo. Orbene, sapete chi io vedo quale
vero detentore dell’autorità, secondo questa Costituzione? La figura del Primo Ministro. Perché è
il Primo Ministro che ha tutti i poteri; quelli del Capo dello Stato; perché è lui che ne risponde; è
lui che effettivamente comanda; e, come Ministro dell’interno, ha immediatamente a sua
disposizione delle forze armate, quelle di polizia. Mediatamente, attraverso un comandante di Stato
Maggiore, quella dell’esercito. E poiché ha la maggioranza nell’Assemblea, in quella Assemblea,
in cui si concentra tutta la sovranità della legge, l’espressione suprema della volontà dello Stato, è
veramente nel Primo Ministro che finisce col concentrarsi tutta l’autorità effettiva. Il resto è
nominale.
Secondo me, se io dovessi qualificare questa Costituzione, direi che è una Costituzione
totalitaria per l’Assemblea; ma l’autorità dell’Assemblea è trasferita necessariamente in un Capo,
il quale Capo, se è capo d’un partito, che ha la maggioranza nell’Assemblea, è proprio un
dittatore, potrà fare quello che vuole. Questa situazione è, però, difficile a presentarsi; mentre più
* Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Messina.
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probabile è che l’attuale sistema di una coalizione di partiti continui. Si governa attraverso accordi
personali fra i capi dei partiti formanti la maggioranza. Il sistema attuale. Ed allora come lo si
qualifica? È un Governo direttoriale; che suppone una pluralità di capi non fusi nell’unità
direttiva, che deve esser propria dell’unità dello Stato».
Le parole sopra riportate, tratte da un dibattito parlamentare, esprimono, con particolare
virulenza, un forte disappunto e una decisa avversione al testo costituzionale che l’Assemblea stava
per approvare. A prima lettura non avremmo dubbi a ricondurle ad un parlamentare dei gruppi di
opposizione al Governo Renzi o a qualche parlamentare della minoranza del PD, particolarmente
ostile all’Esecutivo guidato dal segretario del suo partito.
Probabilmente stupisce non poco apprendere che esse sono state pronunciate da Vittorio
Emanuele Orlando il 10 marzo 1947 in occasione della discussione del progetto di Costituzione
della Repubblica italiana in Assemblea Costituente242
. Dunque, il testo oggetto degli strali critici
non è (e non poteva essere) quello pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 15 aprile 2016, bensì
l’articolato che poi diventerà la Costituzione della Repubblica italiana.
Questo banale divertissement dimostra, a mio parere, come il dibattito pubblico (specie su
un testo di riforma costituzionale) sia fortemente condizionato dai pregiudizi politici243
o, per
meglio dire, dall’opinione che ciascuno di noi ha sulla parte politica promotrice di quel dato testo di
legge. Com’è facile intuire, è operazione assai complicata (quasi impossibile) quella di provare ad
evidenziare e quindi a neutralizzare siffatti pregiudizi ma è un tentativo che va fatto se si vuole
tentare di spiegare le ragioni per le quali si ritiene di votare a favore o contro la legge di riforma
della Costituzione.
A questo proposito credo sia opportuno, da subito, precisare che a mio avviso risultano
prevalenti le ragioni a favore della revisione costituzionale operata dalla legge de qua. A siffatta
conclusione sono giunto non solo in virtù della prevalenza degli aspetti apprezzabili rispetto a quelli
242
V.E. ORLANDO, Discorsi parlamentari, Bologna 2002, 716 s. 243
In questo caso si tratta davvero di pregiudizi (sia da una parte sia dall’altra), né sembra che possa invocarsi
al riguardo la c.d. precomprensione per legittimare questa forma di condizionamento. La precomprensione non è, infatti,
il frutto di «impulsi emozionali», ma, al contrario, è «condizionata razionalmente dalla considerazione, a livello di
inconscio, di attese, che sono considerate giustificate, ad esempio, già per il fatto di esser state riconosciute anche in
altri ambiti del sistema» [J. ESSER, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto.
Fondamenti di razionalità nella prassi decisionale del giudice (1972), trad. it. di S. Patti e G. Zaccaria, Napoli 1983,
138].
597
criticabili del testo in parola (che qui non riprendo e per i quali rinvio all’elenco che ne fa Antonino
Spadaro), ma anche a seguito della verifica della fondatezza degli argomenti addotti,
rispettivamente, da ciascuno dei due schieramenti per screditare quello opposto.
Da questo punto di vista, il dibattito sulla riforma risulta caratterizzato dalla presenza di un
notevole numero di luoghi comuni o pseudo-tali che vengono branditi da una parte e dall’altra per
contestare le tesi di parte avversa. Per questa ragione, nel mio intervento tenterò di individuare una
serie di luoghi comuni sia a favore sia contro la riforma costituzionale, che, pur non avendo sempre
un particolare pregio, finiscono con il condizionare il giudizio dell’osservatore indeciso. Prima di
fare ciò, credo sia necessario svolgere tre considerazioni preliminari.
2. Tre considerazioni preliminari
La prima considerazione preliminare muove da un dato ormai ampiamente condiviso nella
dottrina costituzionalistica: la Costituzione non è solo un atto ma è anche un processo244
, nel senso
che, oltre ad essere un documento, costituisce, al tempo stesso, il punto di arrivo di un processo e il
punto di partenza di un nuovo processo, che potrà condurre ad esiti del tutto imprevisti e
imprevedibili a seconda del contesto sociale, politico ed economico, in cui le disposizioni
costituzionali vivono. Riprendendo le parole di P. Häberle, il processo di cui si parla è quello
determinato dalle «oggettivazioni», cioè da quei fattori, momenti, elementi e cose che
«contribuiscono a determinare in un senso più profondo i processi di sviluppo della costituzione che
si svolgono “dentro” i testi»245
.
Questa prima considerazione induce, già di per sé, ad essere molto cauti sia nel riconoscere
alla riforma virtù taumaturgiche dei principali difetti del nostro ordinamento costituzionale, sia
nell’ipotizzare scenari catastrofici, caratterizzati da derive iper-presidenzialiste se non da vere e
244
Cfr. A. SPADARO, Dalla Costituzione come «atto» (puntuale nel tempo) alla Costituzione come «processo»
(storico). Ovvero della continua evoluzione del parametro costituzionale attraverso i giudizi di costituzionalità, in
Quad. cost., 1998, 343 ss.; A. RUGGERI, La Costituzione allo specchio: linguaggio e “materia” costituzionale nella
prospettiva della riforma, Torino 1999, 161; L. D’ANDREA, Il progetto di riforma tra Costituzione-atto e Costituzione-
processo, in AA.VV., La riforma costituzionale, Padova 1999, 93 ss. 245
P. HÄBERLE, Per una dottrina della Costituzione come scienza della cultura (1982), ed. it. a cura di J.
Luther, Roma 2001, 43. Dello stesso A. si veda La Costituzione «nel contesto», trad. it. di A. De Petris, in Nomos,
2002, 7 ss.
598
proprie svolte autoritarie. Gli sviluppi e i processi che un testo costituzionale è in grado di avviare
non sono del tutto prevedibili, se non per grandi linee.
La seconda considerazione preliminare trae spunto dall’indicazione metodologica offertaci
da Robert K. Merton, fondatore della sociologia della scienza, secondo cui uno dei principi
fondamentali alla base del progresso scientifico è quello dello «scetticismo organizzato», in cui si
raccomanda la «sospensione del giudizio» dinanzi ad ogni nuova rivendicazione di conoscenza246
.
Questo approccio, in considerazione della materia oggetto della riforma e della portata di
quest’ultima, merita di essere trasposto al dibattito sul testo di revisione costituzionale.
La necessità di un metodo di analisi ispirato dal principio dello «scetticismo organizzato» ci
conduce alla terza e ultima considerazione preliminare: il giudizio sulla riforma deve essere scisso
dal giudizio sull’operato della parte politica che ne è artefice (nel nostro caso, del Governo e della
maggioranza parlamentare che lo sostiene).
Ci è stato insegnato che la Costituzione è destinata a durare nel tempo247
e che la si scrive
quando si è sobri per i momenti in cui si sarà sbronzi248
. Questo argomento, sicuramente
condivisibile, è solitamente addotto per avversare la riforma costituzionale. Forse, però, esso si
presta ad un’altra lettura, nel senso che, a mio avviso, impone di guardare al testo di revisione
costituzionale, prescindendo dall’esperienza del Governo attualmente in carica e dall’odierno
contesto politico-partitico, provando ad immaginare l’applicazione delle norme in esso recate in un
assetto parlamentare e politico del tutto diverso.
Resta, poi, l’incertezza su chi sia deputato a stabilire se si è sobri al punto tale da poter
riformare la Carta costituzionale; certamente, questa valutazione non può essere rimessa agli stessi
riformatori ma sarebbe parimenti grave se venisse rimessa a coloro che si oppongono alla riforma.
In realtà, dietro l’idea di un giudizio sulla sobrietà dei riformatori si cela un pregiudizio o un
preconcetto sulla opportunità di qualsiasi modifica della Costituzione, il che non può essere
condiviso. Rinunciare a priori a qualsiasi modifica del testo costituzionale, invocando lo stato di
246
V., amplius, R.K. MERTON, Teoria e struttura sociale, vol. 3, Sociologia della conoscenza e sociologia
della scienza, Bologna 2000, e ID., Scienza, religione e politica, a cura di M. Bucchi, Bologna 2011. 247
Ancora, di recente, G. ZAGREBELSKY, con F. PALLANTE, loro diranno, noi diciamo, Roma-Bari 2016, 80. 248
G. ZAGREBELSKY, Valori e diritti nei conflitti della politica, in la Repubblica, 22 febbraio 2008, il quale
riprende la metafora di Ulisse e delle sirene, elaborata da J. ELSTER, Ulisse e le sirene. Indagini sulla razionalità e
sull’irrazionalità (1979), trad. di P. Garbolino, Bologna 1983, rist. 2005; ID., Ulisse liberato. Razionalità e vincoli
(2000), trad. a di P. Palminiello, Bologna 2004.
599
“ubriachezza” dei riformatori o l’incertezza sul loro stato di sobrietà mi sembra che finisca con il
provare troppo, rendendo sostanzialmente immodificabile la Carta costituzionale.
3. I luoghi comuni “a favore” della riforma costituzionale
Passando all’individuazione dei luoghi comuni di cui si diceva prima, preciso sin dall’inizio
che l’elenco offerto è solo parziale, anche perché i mesi che ci separano dallo svolgimento del
referendum costituzionale ci offriranno senz’altro nuove argomentazioni, in parte tacciabili di
essere considerate ulteriori luoghi comuni.
Il primo argomento, che non è sempre esplicitamente invocato ma che sta sottotraccia
rispetto ad altre argomentazioni, è quello per cui la riforma costituzionale è necessaria per dare una
svolta al Paese e questa sarebbe la “volta buona”. Potremmo definire questa tesi come quella della
“riforma per la riforma”, sostanziandosi in una sorta di autoreferenzialità della stessa. È come se
l’utilità di quest’ultima consistesse nella sua stessa esistenza, a prescindere quindi dai contenuti.
Non occorrono particolari sforzi per dimostrare che una cattiva riforma non solo non apporta alcun
miglioramento al funzionamento del sistema costituzionale, ma rischia di amplificarne gli aspetti
negativi.
Il secondo argomento che mi viene in mente è quello per cui questa riforma costituirebbe
l’ultima chance per il Paese e, in particolare, se questo testo non dovesse essere approvato sarebbe
assai difficile immaginare un’altra revisione costituzionale. È evidente che questa affermazione è
poco più di un artifizio retorico utilizzato per caricare di significato un testo di riforma
costituzionale. L’imprevedibilità delle dinamiche politiche è tale da rendere quasi impossibile
immaginare se, nel breve o nel lungo periodo, si ripresenteranno le condizioni idonee per
l’approvazione di una nuova revisione costituzionale. Nulla esclude, pertanto, che già dalla
prossima legislatura riparta un nuovo processo riformatore.
Un terzo argomento è quello per cui la legge di revisione costituzionale snellirebbe il
processo decisionale e in particolare quello di approvazione delle leggi. Anche su questo punto,
però, occorre intendersi e soprattutto occorre capire se la velocità di decisione è sempre un aspetto
600
positivo. A ben guardare, il problema non è quello dello Slow o Fast Law-Making, quanto piuttosto
quello della qualità delle leggi. Solitamente la velocità nell’approvazione di una legge non porta ad
una migliore qualità; non è casuale che fra le leggi approvate più velocemente rientrino il c.d. lodo
Maccanico-Schifani e il c.d. lodo Alfano. Al contempo, però, neanche la lentezza nel procedimento
di formazione della legge assicura la qualità della stessa.
Certamente, a parità di qualità del testo normativo prodotto, è preferibile che questo sia
approvato più velocemente ma, come si vede, non si tratta di un argomento decisivo.
Sempre a favore della riforma costituzionale si rileva che quasi in nessun Paese esiste un
sistema bicamerale perfetto. Si tratta di un argomento sicuramente condivisibile; il punto è, però,
che in quasi tutti i Paesi si sa cos’è e cosa rappresenta la seconda Camera, mentre la natura e la sorte
del futuro Senato, come disegnato nel testo di riforma, appaiono piuttosto incerte. Si aggiunga, poi,
che il testo di riforma costituzionale non si occupa del c.d. sistema delle Conferenze e dei suoi
rapporti con il futuro Senato; ciò complica ulteriormente il quadro, con il serio rischio che
quest’ultimo finisca con l’essere schiacciato dalla presenza ingombrante della Camera, da una parte,
e della Conferenza Stato-Regioni, dall’altra.
4. I luoghi comuni “contro” la riforma costituzionale
Devo confessare che, a mio avviso, i luoghi comuni contro la riforma costituzionale sono
più numerosi degli altri. Al riguardo, ve ne sono alcuni che investono già la procedura di revisione
costituzionale a prescindere dal contenuto della legge di riforma, mettendo in dubbio la legittimità
stessa dell’intervento di revisione.
Il primo argomento addotto in tal senso è quello secondo cui l’attuale Parlamento non
sarebbe legittimato ad approvare un testo di riforma costituzionale in virtù della dichiarazione di
illegittimità costituzionale del sistema elettorale sulla base del quale è stato eletto (sent. n. 1 del
2014). In proposito si fa anche notare che, a seguito della suddetta pronunzia della Corte, il
Parlamento eletto nel 2013 si sarebbe dovuto limitare ad approvare una nuova legge elettorale per
andare subito a nuove elezioni.
601
Questa tesi va incontro, a mio avviso, ad alcune critiche: innanzitutto, si dà una lettura
parziale della sent. n. 1 del 2014, accettando le motivazioni a sostegno dell’illegittimità
costituzionale della legge elettorale ma rifiutando quelle poste a favore della perdurante
legittimazione del Parlamento in carica, motivata sulla base del principio di continuità dello Stato
(punto 7 del cons. dir.). In realtà, data la centralità del tema, è lecito supporre che, nell’argomentare
della Corte, la parte motiva sugli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale sul
Parlamento in carica occupi un ruolo rilevante, al punto che non pare inverosimile ipotizzare che
senza questo passaggio la Corte non avrebbe deciso di caducare la legge elettorale n. 270 del 2005.
Detto in altre parole, la ricaduta della decisione sulle Camere in carica è stata, probabilmente, uno
degli elementi della complessiva operazione di bilanciamento compiuta dal Giudice delle leggi nel
caso di specie. Dunque, la motivazione deve essere letta unitariamente, criticandola là dove lo si
ritiene opportuno ma non scindendone gli effetti.
Ancora più discutibile appare la tesi di quanti sostengono che il Parlamento eletto nel 2013
avrebbe dovuto limitarsi solo ad approvare una nuova legge elettorale. Al riguardo, muovendo dalla
prospettiva di costoro, non si comprendono le ragioni di questa legittimazione “straordinaria” delle
Camere per l’approvazione della sola legge elettorale, anche in considerazione del fatto che la sent.
n. 1 del 2014 ha comunque lasciato in piedi un sistema elettorale applicabile in caso di nuove
elezioni (c.d. Consultellum). Quindi, o l’attuale Parlamento non è legittimato ad approvare alcuna
legge oppure lo è per tutte. Certamente si può discutere dell’opportunità di intraprendere
un’operazione di revisione costituzionale ma, com’è evidente, questa è una valutazione di tipo
diverso.
Un altro argomento addotto dai sostenitori del No al referendum costituzionale prende le
mosse dall’affermazione per cui l’art. 138 Cost. non consentirebbe una macro-revisione della
Costituzione ma solo modifiche di settori limitati. A prescindere dall’assenza di qualsiasi
riferimento testuale nella disposizione in parola, non si comprende quale sia il discrimen tra una
revisione consentita e una che non lo è. Bisogna fare riferimento al numero degli articoli
modificati? O alla natura delle modifiche?
Un altro profilo oggetto di strali critici è quello relativo alla paternità del disegno di legge di
revisione costituzionale. Si dice, al riguardo, che una riforma costituzionale non dovrebbe nascere
602
da un’iniziativa legislativa del Governo. Anche questa affermazione sembra prestare il fianco a
qualche critica; in una forma di governo parlamentare è lecito presumere che un’iniziativa
legislativa di revisione costituzionale non possa prescindere dal sostegno decisivo della
maggioranza parlamentare che sostiene il Governo. Che poi l’iniziativa legislativa sia formalmente
del Governo o di un gruppo di parlamentari della maggioranza poco cambia.
Continuando in questa rapida carrellata di argomenti addotti contro la riforma, la revisione
costituzionale – si obietta – dovrebbe essere il frutto di un compromesso e non di una imposizione
unilaterale. È fuor di dubbio che quella anzidetta rappresenti la soluzione ottimale e auspicabile per
qualsiasi revisione della Costituzione; ciò non toglie, però, che non siano illegittime leggi di riforma
che, pur essendo state approvate nel rispetto della procedura dell’art. 138 Cost., non godano di un
largo consenso in Parlamento. Anzi, a dirla tutta, il sistema politico-partitico italiano, caratterizzato
oggi da un sostanziale tripolarismo (centrodestra, centrosinistra e Movimento 5 stelle) e fino a ieri
da un sostanziale bipolarismo (centrodestra e centrosinistra), rende oltremodo difficile, se non
utopistico, immaginare che queste forze, dopo essersi scontrate in campagna elettorale, riescano ad
approvare insieme un testo di riforma costituzionale. È molto più facile che forze politiche diverse
si uniscano “contro” qualcosa o qualcuno (ad es. il Governo in carica), piuttosto che “a favore” di
qualcosa o di qualcuno (ad es. una legge di revisione costituzionale).
Anche l’argomento che fa leva sulla necessità di un vasto consenso per la riforma della
Costituzione muove da un preconcetto, che, in questo caso, è quello costituito dal mito di
fondazione della Repubblica italiana e che si può sintetizzare così: una riforma costituzionale può
avvenire solo con le stesse modalità con le quali è stata approvata la Carta costituzionale, cioè
un’ampia maggioranza parlamentare. Questa considerazione, degna della massima considerazione e
del tutto condivisibile se limitata ad un mero auspicio, si scontra con la necessaria presa d’atto
dell’irreversibile mutamento delle condizioni politiche e sociali che hanno portato all’approvazione
della Costituzione repubblicana. Quelle del 1946/1947 sono condizioni non più riproducibili (forse
anche per fortuna): un paese lacerato da una guerra civile, in cui una parte politica (quella uscita
sconfitta) non ha avuto accesso all’Assemblea costituente; un insieme di forze politiche, unite
dall’antifascismo e dall’aver combattuto fianco a fianco contro il comune nemico; la necessità di
dotarsi di una nuova Carta fondamentale come punto di approdo della battaglia della resistenza
603
antifascista ma anche come punto di partenza di una nuova fase storica. Tutti questi (e molti altri
che non è qui possibile richiamare) sono elementi che non possono essere tralasciati e che
contribuiscono a comporre l’autentico mito di fondazione della Repubblica italiana.
Uno degli argomenti forti utilizzati contro la riforma in itinere è quello per cui se passasse
questo testo vi sarebbe il rischio di una deriva autoritaria. Si tratta, invero, di una affermazione che
non è condivisa dalla gran parte di coloro che sono schierati per il No al referendum costituzionale
ma che, nondimeno, fa capolino nei dibattiti pubblici, al fine di prospettare scenari inquietanti. A
sostegno di questo argomento si osserva che l’abbinamento tra riforma costituzionale e nuova legge
elettorale (c.d. Italicum) determinerebbe i rischi anzidetti. In proposito, occorre precisare che la
riforma costituzionale vive di vita autonoma rispetto alla legge elettorale, che ben potrebbe essere
modificata o abrogata senza che questo incida sulla legge di revisione costituzionale.
Peraltro, quand’anche si ipotizzasse la coesistenza della citata legge elettorale e della legge
costituzionale de qua, i rischi paventati non sembrano avere fondamento. Si pensi, per tutti, ai
quorum richiesti per l’elezione degli organi di garanzia: l’art. 83 modificato prevede che dal quarto
scrutinio sia sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea (Parlamento in seduta comune)
per l’elezione del Presidente della Repubblica, mentre dal settimo scrutinio è sufficiente la
maggioranza dei tre quinti dei votanti. Se si prova a trasporre in quinti il premio di maggioranza
(340 seggi) previsto per la lista vincente alla Camera dei deputati, si scopre che esso corrisponde a
2,78 quinti; pertanto, anche solo considerando la Camera dei deputati249
, la lista vincente non è in
condizione di eleggere da sola il Presidente della Repubblica. Analoghe considerazioni valgono per
i cinque giudici costituzionali, per la cui elezione non risultano modificati i quorum previsti dalla
legge cost. n. 2 del 1967 (due terzi fino al terzo scrutinio, tre quinti dal quarto).
Da ultimo, merita di essere preso in considerazione il c.d. paradosso delle riforme, elaborato
da Gustavo Zagrebelsky250
, che può essere così sintetizzato: la riforma costituzionale serve per
accelerare i meccanismi decisionali ma essa stessa è una decisione al massimo livello, quindi la
realizzabilità di una riforma è la prova della sua inutilità. Detto in altri termini, per Zagrebelsky non
249
Anche nel testo riformato il Parlamento in seduta comune elegge il Presidente della Repubblica e, com’è
noto, dovrà essere approvata la legge elettorale per il nuovo Senato. 250
In realtà, quest’Autore ha individuato un insieme di paradossi in materia ma per ragioni di spazio ci si limita
solo a quello sopra riportato.
604
vi sarebbero le condizioni di omogeneità politica per fare una revisione costituzionale. Ciò che
sorprende in queste considerazioni, che in larga parte sono condivisibili, è il loro utilizzo anche a
distanza di molti anni da quando sono state sviluppate. Nel 1986 Zagrebelsky scriveva:
«Nell’attuale momento storico, e dati i caratteri di equilibrio del sistema politico esistente, è chiara
l’impossibilità di una riforma della costituzione per via di legge costituzionale. L’assetto delle
relazioni tra i soggetti politici esclude che una strada del genere sia tentata, per il prezzo
destabilizzante della vita politica che esso esigerebbe e il potere di minaccia paralizzante che esso
fornirebbe a forze grandi e piccole, esterne e anche interne alla stessa maggioranza di governo»251
.
Il rigore di questa analisi è tale per cui non sembra mai possibile portare a compimento una
revisione della Costituzione, ma forse in questo modo si rischia di restare prigionieri del paradosso
che si è costruito.
5. Riflessioni conclusive guardando all’esperienza della Corte costituzionale
Da ultimo, merita di essere ricordata l’esperienza di uno degli istituti più controversi e
discussi introdotti nella Costituzione repubblicana: la Corte costituzionale. Risuonano ancora le
parole di Orlando, di Nenni e di Togliatti sulla «bizzarria» di quest’organo e delle funzioni ad esso
attribuite; a queste si contrappongono, però, quelle di Alessandro Pizzorusso, pronunciate quaranta
anni dopo l’istituzione della Corte, secondo cui quest’ultima è l’istituzione che, fra tutte, ha dato la
prova migliore di sé252
.
Eppure, all’indomani dell’approvazione della Costituzione non si sapeva come adire la
Corte, il meccanismo in via d’azione era piuttosto problematico (specie per quel che riguardava il
controllo di merito rimesso alle Camere), mancava il giudizio di ammissibilità sul referendum e nel
testo costituzionale vi erano numerosi rinvii a leggi ordinarie e costituzionali di attuazione. Il
251
G. ZAGREBELSKY, I paradossi della riforma costituzionale, in AA.VV., Il futuro della costituzione, a cura di
G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro e J. Luther, Torino 1996, 296. 252
A. PIZZORUSSO, La Costituzione ferita, Roma-Bari 1999, 135 ss.
605
successo di quell’esempio di «confusionismo del diritto italiano»253
è casuale? Possiamo sperare
che istituzioni segnate all’origine da un analogo giudizio abbiano lo stesso successo?
Certamente l’esempio della Corte non è di per sé sufficiente a esprimersi a favore di
qualsiasi riforma; non si può infatti confidare in una sorta di capacità guaritrice del sistema
costituzionale. Al contempo, però, questo esempio dimostra che talvolta le istituzioni riescono a
trovare nella prassi quotidiana le vie e gli strumenti per la loro legittimazione nell’ordinamento.
253
Le parole sono dell’on. Preziosi durante la seduta del 4 giugno 1947 e sono riportate da G. CONSO, Così è
nata la Corte costituzionale, in AA.VV., Dalla Costituente alla Costituzione, Atti del Convegno in occasione del
cinquantesimo della Costituzione repubblicana, Roma, 18-20 dicembre 1997, Accademia nazionale dei Lincei, Roma
1998, 280.
L’arringa dell’“avvocato del diavolo”
di Giusi Sorrenti*
SOMMARIO: 1. Le premesse dell’arringa. – 2. Forma di governo, sistema delle fonti e recupero della centralità
del Parlamento nella funzione legislativa. – 3. Il modello di regionalismo cooperativo ed il ruolo del giurista.
1. Le premesse dell’arringa
Alcune premesse sono d’obbligo. Nel porle, però, darò per scontate, per non ripetere
notazioni ampiamente presenti nell’odierno dibattito, alcune osservazioni di carattere generale,
innanzitutto quella per cui la scelta cui chiama il referendum costituzionale sul disegno Renzi-
Boschi si presenta particolarmente accidentata e complessa, per più di un motivo, non ultimo il fatto
che, incidendo su una quarantina di articoli della Costituzione, non sempre e non tutti legati da
omogeneità tematica, costringe a fare una valutazione per praevalentiam nel quadro ampio ed
eterogeneo delle modifiche – in ipotesi non tutte condivisibili – tra quelle che si preferirebbe
respingere e quelle che viceversa si vorrebbe fossero introdotte. Così come anche l’osservazione –
anche se questa è per la verità molto meno scontata della precedente – per cui, se è vero che lo
stesso dato quantitativo dell’estensione della riforma, che tocca quasi un terzo della trama della
Carta, sembra comportare il superamento dei limiti evocati dall’atto di “potatura” di espositiana
memoria, è anche vero che la precarietà del tempo presente e la sua rapida evoluzione minacciano
la stabilità della Costituzione e ne sollecitano il mutamento254
.
* Professore associato confermato di Diritto costituzionale, Università di Messina.
254 Le Costituzioni oggi «non possono più essere intese come garanzie di stabilità, in senso tradizionale, ma
debbono diventare modello del mutamento, guida della transizione, nella consapevolezza del fatto che la transizione
stessa, con paradosso solo apparente, da condizione provvisoria (quale forse non è mai stata) è diventata permanente»:
F. RIMOLI, Certezza del diritto e moltiplicazione delle fonti: spunti per un’analisi, in AA.VV., Trasformazioni della
funzione legislativa, II, Crisi della legge e sistema delle fonti, a cura di F. Modugno, Milano 2000, 111, in cui fa eco il
pensiero di N. LUHMANN, La costituzione come acquisizione evolutiva, in AA.VV., Il futuro della costituzione, a cura di
G. Zagrebelsky - P.P. Portinaro - J. Luther, Torino 1996, 83 ss.
607
Tralasciando questi punti, attinenti alla vastità ed all’eterogeneità dei contenuti della
revisione, c’è un altro profilo, riguardante stavolta l’eterogeneità dei tipi di valutazione cui può
essere soggetta – e da cui può essere influenzata – la scelta di matrice popolare. Sul referendum
oppositivo di ottobre gravano, infatti, molteplici considerazioni di cui dovrebbe tener conto
simultaneamente il votante, in quanto il suffragio è destinato ad incidere contemporaneamente su
più campi: non solo quello – com’è ovvio – specificamente giuridico-costituzionale, ma anche
quello politico, relativo alla tenuta del governo italiano in carica e, infine, quello economico,
connesso alla reazione dei mercati, ormai sempre più soggettivizzati come interlocutori
ineliminabili e inesorabilmente in agguato, da temere ad ogni scelta nazionale degna di un qualche
rilievo. Senza chiarire preliminarmente su quale piano s’intenda inquadrare le valutazioni che
seguiranno, pertanto, queste ultime apparirebbero quasi indecifrabili nelle loro ragioni di fondo o,
quantomeno, ambivalenti ed opache.
La prima premessa consiste nel dichiarare dunque la ferma scelta di astrarre, nella presente
riflessione, la consultazione popolare dall’apprezzamento delle conseguenze contingenti cui il
relativo esito potrebbe dare luogo, sia sul piano della politica nazionale interna sia su quello
economico-finanziario globale; tale scelta non è dettata da un atteggiamento di sterile vetero-
formalismo, ma dall’elementare ragione che il testo normativo sottoposto all’approvazione è, per la
sua speciale natura, votato a durare nel tempo e, per ciò stesso, a oltrepassare il ravvicinato
orizzonte temporale delle sorti di un certo governo e del nervosismo dei mercati (per quanto
drammatici tali eventi possano essere percepiti in un determinato e delicato momento storico).
Sembra, per converso, più confacente all’oggetto (la Costituzione, appunto) un approccio che si
proponga di valutare, con uno sforzo corrispondente di analisi prospettica, gli effetti che, dal punto
di vista prettamente giuridico, il testo costituzionale, nella versione riformata, una volta immesso
nell’ordinamento italiano, appaia suscettibile di produrvi.
A questo proposito, non si può non notare incidentalmente come, invece, per le
preannunciate dimissioni del Presidente del Consiglio in caso di mancata approvazione del
referendum, si sia generato un clima in cui gli italiani sono chiamati a decidere della fisionomia
della Costituzione – che rappresenta beninteso la loro “casa comune” – con lo spettro della caduta
del governo (nel caso del loro mancato appoggio alla riforma) e come il dibattito pubblico su un
608
tema così rilevante e proiettato in una dimensione di lunghissima durata sia stato inquinato dalla
necessità di tener conto di tale evenienza, preoccupante ed infausta soprattutto nella fase di grave e
perdurante crisi economica in cui versa il Paese. L’aver legato le sorti della (nuova) Costituzione a
quelle del governo in carica è dunque – per le ragioni che si è cercato di spiegare, legate alla
specificità dell’oggetto – una manovra giuridicamente censurabile … E però appunto dalle
conseguenze politiche del referendum, unitamente alla scelta (politica anch’essa) di dichiarare di
farle drammaticamente da esso discendere, si è deciso – come si diceva – di prescindere
integralmente nell’arco di questa riflessione.
L’unico motivo per cui si sono richiamati tali effetti è per dire che, tenendo conto
dell’ipoteca di carattere politico di cui è stato gravato il voto popolare sulla riforma,
congiuntamente ad altri aspetti, più strettamente giuridici, attinenti ad una serie di insufficienze del
testo, chi scrive era orientata sin dall’inizio a votare “no” al prossimo ottobre; sennonché in visione
di questo Seminario interno è prevalsa la tentazione di rendere più stimolante il proprio impegno,
provando a individuare quali potrebbero essere le ragioni a sostegno del “sì”. Ho deciso – vale a
dire – di provare a fare l’“avvocato del diavolo” di me stessa, prendendo le distanze dalla reazione
negativa che il modus operandi dei proponenti aveva suscitato: anche questo esperimento
intellettuale ha delle motivazioni che richiedono di essere a loro volta chiarite preliminarmente.
Intanto, è da parecchio tempo che tra gli addetti ai lavori (e non solo dunque nelle varie
agende politiche che di volta in volta si sono avvicendate) circola la sensazione di insufficienza e
arretratezza di alcune disposizioni del testo originario della Carta del 1948, insieme al
convincimento della necessità di un loro rinnovamento, talora radicale. Appare quindi come una
saggia indicazione di metodo confrontarsi con la sostanza dell’innovazione ora proposta, al netto
dell’iter procedurale intrapreso (e di tutte le azioni di contorno) e degli intenti perseguiti: quale che
sia il modo in cui esso ha visto la luce, insomma, oggi si ha a disposizione un testo e conviene
prenderlo sul serio e confrontarsi con il suo contenuto, dato che da più tempo si sente il bisogno di
alcune riforme, per valutare se in qualche misura possa prestarsi a corrispondere alle (o anche solo
ad alcune delle) esigenze via via maturate.
In secondo luogo, ai giuristi è familiare il fenomeno dell’Entfremdung – quel processo di
distacco delle norme dal loro autore, il quale fa sì che queste, una volta prodotte, continuino a
609
vivere di vita propria – che, per quanto in relazione al frutto dell’opera dei Costituenti vada
mitigato, dovendosi in qualche misura tenere conto anche dell’original intent di questi ultimi,
tuttavia non può non valere anche per le norme costituzionali, come dimostra il peculiare
adattamento che precetti della Costituzione hanno subito e continuano a subire in relazione a
fenomeni nuovi e talora persino inimmaginati ed inimmaginabili da parte degli Autori stessi (si
pensi, solo per fare un vistoso esempio, all’art. 11 Cost. come disposizione su cui si fonda
l’adattamento alle fonti dell’ordinamento dell’UE).
D’altro canto, correlativamente, senza qui voler indulgere alle tesi svalutative della portata
normativa della Costituzione (che non si condividono)255
, è anche noto che il testo non è mai “tutto”
nel determinare la vita costituzionale di un ordinamento, in quanto non infrequentemente sottoposto
a revisioni tacite256
; il che dovrebbe rendere inclini ad una lettura di qualsiasi proposta di revisione
che non veda in essa una rigida e soffocante “camicia di forza” che ingabbia qualsiasi sviluppo
dell’ordinamento, posto che è un dato di fatto che gli sviluppi di una modifica testuale possono
orientarsi in direzioni nuove ed evolvere proficuamente rispetto a quanto originariamente
preventivato (si pensi, anche qui, esemplificativamente, al vincolo delle leggi statali al rispetto di
tutti gli obblighi internazionali, di cui all’art. 117, co. 1, Cost., ed alla tanto attesa “copertura” della
Cedu, che se ne è fatta discendere dal giudice delle leggi nel 2007, significativamente non estesa a
patti internazionali di minore pregio assiologico).
Nell’orientare questa evoluzione – che si colloca entro la cornice teorica offerta dal
fenomeno dell’Entfremdung e del carattere non esclusivo del testo nel determinare effetti giuridici
255
Per una riflessione sulle prospettive della Costituzione alla luce del mutamento delle premesse storico-
sociali che ne avevano accompagnato l’origine, v. D. GRIMM, Il futuro della Costituzione, in AA.VV., Il futuro della
costituzione, cit., 128 ss., spec. 139 ss.
Sull’autorità della Costituzione, più di recente, v. A. RUGGERI, La “forza” della Costituzione, in Forum di
Quad. cost., 9 ottobre 2008, spec. 11 ss. (laddove l’A. parla di una tendenza alla “decostituzionalizzazione”) e O.
CHESSA, I giudici del diritto. Problemi teorici della giustizia costituzionale, Milano 2014, 557 ss. 256
È noto che le revisioni tacite della Costituzione siano state innumerevoli: una per tutte, il superamento del
numerus clausus delle fonti primarie in virtù del riconoscimento (giurisprudenziale) del primato delle fonti dell’UE sul
diritto interno, ma non solo (v. G. FERRARA, Costituzione e revisione costituzionale nell’età della mondializzazione, in
Scritti in onore di G. Guarino, II, Padova 1998, 211 ss.). Adde A. RUGGERI, Revisioni costituzionali e sviluppi della
forma di governo, Relazione al Convegno su La revisione costituzionale e i suoi limiti fra teoria costituzionale diritto
interno esperienze straniere, a cura di S. Gambino e G. D’Ignazio, Cosenza 22-23 maggio 2006, Milano 2007, 151 ss.
610
positivi e che fa, in definitiva, della Costituzione non un “atto” ma un “processo”257
– un ruolo di
prima grandezza lo ricoprono da sempre tanto il legislatore di attuazione, nel dare alla luce fonti
sub-costituzionali che possono imprimere una certa lettura ad una disposizione sovraordinata
polisenso, quanto la Corte costituzionale; ma, non ultima, può parimenti svolgerlo la dottrina,
impegnandosi ad indirizzare istituti zoppi o dalla fisionomia incerta verso un più compiuto e
soddisfacente funzionamento.
2. Forma di governo, sistema delle fonti e recupero della centralità del Parlamento nella
funzione legislativa
L’immaginario “avvocato del diavolo”, ideato per questa riflessione, non si comporterà
come l’“azzeccagarbugli” manzoniano, per cui, animato da uno spiccato afflato di onestà
intellettuale, non si aggrapperà ad aspetti marginali della riforma (e anzi ignorerà del tutto una
disposizione che ha ricevuto un plauso unanime, quale quella che provvede all’abolizione del
CNEL), ma si misurerà con l’innovazione centrale della revisione, ovvero il mutamento della
struttura e delle funzioni del Senato. Tale innovazione va riguardata sotto due profili: il primo, che
definirei “minimale-negativo”, coincide evidentemente con l’eliminazione del bicameralismo
paritario, il secondo, che chiamerei invece “massimale-positivo”, consiste nella annunciata
trasformazione della seconda camera in una Camera delle Regioni, o meglio delle autonomie.
È appena il caso di esplicitare che, naturalmente, l’esame del primo aspetto comporta che ci
si ponga, inizialmente, nella prospettiva della forma di governo italiana ed in particolare del
sistema delle fonti ad essa correlato e non in quella di valutare il modello di regionalismo che
sarebbe introdotto nel Paese se la riforma avesse il placet popolare (prospettiva che verrà in
considerazione, invece, al momento di trattare il secondo aspetto, quello che si è definito positivo-
massimale).
Non è un mistero che il bicameralismo paritario e perfetto non sia sfuggito a severe critiche,
tanto sul piano teorico, quanto soprattutto su quello pratico, in quanto elemento che ha indotto una
257
V. A. SPADARO, Dalla Costituzione come “atto” (puntuale nel tempo) alla Costituzione come “processo”
(storico). Ovvero della continua evoluzione del parametro costituzionale attraverso i giudizi di costituzionalità, in
Quad. cost., 3/1998, 343 ss.
611
certa lentezza e farraginosità del procedimento legislativo e perciò ritenuto responsabile – almeno
pro quota – del triste fenomeno della “fuga dalla legge” che ha caratterizzato da decenni la
dinamica del sistema italiano delle fonti258
. È un dato questo che non può negarsi, per quanto
sarebbe certo impietoso nei confronti dell’istituto vedervi l’unico responsabile del fenomeno, che è
in parte addebitabile anche alla difficoltà dell’accordo politico e all’ancora più grave deficit di
rappresentatività che ha contrassegnato le nostre (ma non solo) assemblee legislative.
Questo fattore ha concorso, unitamente agli altri, a creare le premesse per lo sviluppo di
quella “fenomenologia fantastica” di fonti governative del tutto esulanti dal modello costituzionale:
si pensi, per richiamare solo alcuni dei casi più eclatanti della tendenza massiccia, a tutti nota, di
trasmigrazione di funzioni normative primarie dalla sede parlamentare verso quella governativa, al
fenomeno dei regolamenti autorizzati o ancora a quello dei decreti legislativi integrativi e correttivi.
Le storpiature del testo costituzionale che ne sono derivate, precisamente al principio del monopolio
o quantomeno della centralità del Parlamento nella funzione legislativa, sono state ampie e gravi,
non meno a mio avviso di quelle che oggi, per effetto della riforma, potrebbero subire i principi
dell’autonomia e del decentramento sanciti all’art. 5 Cost., per quanto alle seconde reagiamo
indignati, mentre alle prime ci siamo probabilmente assuefatti, in quanto tratti (alle condizioni
attualmente date) ormai stabili della Costituzione vivente, che sono stati sviscerati, avversati e
talora anche razionalizzati dalla dottrina e che doverosamente continuiamo a spiegare agli studenti
nelle aule universitarie. Ad aggravare ancor di più la situazione, com’è noto, stanno anche le
difficoltà che questi atti comportano dal punto di vista dell’assoggettamento ai controlli di
legittimità costituzionale: i regolamenti autorizzati, ad es., per riprenderli nuovamente – una volta
scartata la tesi mortatiana di far valere la loro natura sostanzialmente (anche se non formalmente)
primaria ai fini del sindacato della Corte costituzionale259
– sfuggono alle verifiche circa il rispetto
delle norme costituzionali. Scardinata la centralità parlamentare, salta infatti anche la tenuta
258
Che è una tendenza – definibile come la «detronizzazione del Parlamento quale luogo principe della
decisione politica» – complementare alla “crisi della legge”: su quest’ultima v. F. MODUGNO, A mo’ di introduzione.
Considerazioni sulla «crisi della legge», in AA.VV., Trasformazioni della funzione legislativa, cit., 1 ss. (le parole cit.
si leggono nella Presentazione dello stesso A. al vol., p. XI). 259
… in quanto quest’ultima ha preferito, come si sa, non allargando i confini dell’oggetto del suo sindacato,
rifiutarsi, coerentemente con il suo ruolo, di avallare una tale stortura del sistema delle fonti.
612
dell’edificio dei controlli, così come risultava eretto attraverso la sovrapposizione del vaglio di
costituzionalità sui meccanismi di verifica della legalità ereditati dallo Stato liberale.
Si potrebbe obiettare che, per la significativa interazione tra la riforma e l’Italicum260
, la
paternità sostanziale della legge, ovvero degli atti aventi la forza e la forma della legge,
continuerebbe ad essere solidamente imputabile all’esecutivo, data la tendenziale coincidenza tra
maggioranza legislativa e maggioranza di governo che l’ampio premio in termini di seggi garantito
dalla legge elettorale n. 52/2015 consente. Tuttavia, da una parte, che davvero sia così non è ancora
possibile affermarlo con certezza, in quanto occorrerebbe prima aspettare la definizione della
fisionomia dello Statuto delle opposizioni introdotto dal nuovo co. 2 dell’art. 64 Cost., al fine di
valutarne l’incisività e l’efficacia sul piano della garanzia dell’effettiva partecipazione delle
minoranze parlamentari al procedimento legislativo; mentre, dall’altra, rimane il fatto, da non
sottovalutare, che, nella peggiore delle ipotesi (quella cioè in cui l’obiezione sia vera e dunque la
paternità politica sostanziale della legge post riforma rimanga invariata rispetto a quella delle fonti
governative), si avrebbe comunque un guadagno sul piano dei controlli, in quanto, grazie al
recupero quantomeno della forma della legge, l’atto sarebbe sottoponibile al vaglio di
costituzionalità, con tutte le conseguenze in termini di garanzia del rispetto dei principi
costituzionali che questo dato reca con sé.
Concludendo, se l’eliminazione del bicameralismo paritario e perfetto può contribuire a
recuperare la centralità del Parlamento nella funzione legislativa, voluta dal Costituente del 1948 e
confacente ad una forma di governo effettivamente parlamentare e, dunque, a raddrizzare un
sistema delle fonti ormai vistosamente deformato, a tutto guadagno della democraticità
parlamentare e della legalità costituzionale, c’è un motivo per guardare con interesse alla revisione.
Certo, non sarebbe lecito affermare che il recupero che si guadagnerebbe su questo versante,
della forma di governo e del sistema delle fonti, abbia di per sé più valore delle perdite che si
soffrirebbero sul piano del modello del regionalismo (su cui v. infra), ma nemmeno lo sarebbe a
mio avviso sostenere l’opposto, ovvero che tale recupero valga per principio meno (se non per la
falsata valutazione in cui il torpore indotto dall’assuefazione cui si accennava può far incorrere
ciascuno di noi). Semmai, è ancora una volta da notare come sia un peccato che il giudizio positivo
260
Al netto delle incertezze connesse alla questione di legittimità costituzionale pendenti sulla legge elettorale
ed alle eventuali modifiche pur sempre apportabili in sede legislativa.
613
sul profilo minimale della modifica del bicameralismo vigente si accompagni ad un giudizio
negativo sul profilo massimale della stessa, che cioè l’avanzamento che si può attendere dalla
riforma sul piano del ritorno alla legge possa essere conseguito solo a prezzo dell’arretramento sul
piano della tutela dell’autonomia, costringendo a mettere sui due piatti della bilancia, da una parte,
il rinsaldamento del primo valore e, dall’altra, l’indebolimento del secondo.
In ultimo e del tutto accidentalmente, aggiungo che non mi occupo qui invece, nell’ambito
dei riflessi della revisione sulla forma di governo, delle preoccupazioni di un eccessivo
accentramento del potere suscitate, ancora una volta, dalla congiunta operatività del testo di riforma
e dell’Italicum, perché trovo più che convincenti gli argomenti spesi in questi mesi in dottrina al
fine di fugare questi timori.
3. Il modello di regionalismo cooperativo ed il ruolo del giurista
Ma, come si era anticipato, il solito “avvocato del diavolo” non si esimerà dall’occuparsi
pure dell’aspetto positivo-massimale della riforma – la trasformazione della seconda camera in
Camera delle Regioni, recte delle istituzioni territoriali in genere (art. 55, co. 5, Cost.) –
inoltrandosi dunque nel terreno della valutazione del modello di regionalismo che verrebbe ad
essere introdotto e misurandosi così con l’impressione, pienamente fondata, che il nuovo testo
costituzionale realizzerebbe un sensibile passo indietro nell’inveramento dei principi
dell’autonomia e del decentramento.
Si tratta di un dato difficilmente controvertibile, se si considera che il regionalismo
cooperativo, verso cui dovrebbe avviare l’introduzione del Senato come Camera delle Regioni,
appare affatto insoddisfacente, nella versione che si realizzerebbe nel nostro Paese. Da una parte,
infatti, un vero regionalismo cooperativo dovrebbe completare e perfezionare (e non soppiantare) il
regionalismo garantistico di stampo liberale, nel senso che l’operazione di portare le Regioni al
centro – così compensandole (grazie alla partecipazione alla determinazione di scelte centrali che
ripercuoteranno i loro effetti nei loro territori) di quanto perdono, in ogni Stato sociale
contemporaneo in cui si manifestano forti tendenze centripete, in termini di esercizio esclusivo delle
614
loro competenze – dovrebbe accompagnarsi e coniugarsi con il mantenimento di congrue
competenze in capo alle stesse261
, ciò che non appare pienamente assicurato nel testo di riforma.
Dall’altra, lo stesso organo in cui la cooperazione alle funzioni centrali dovrebbe realizzarsi (il
nuovo Senato appunto) mostra una fisionomia alquanto incerta, apparendo un ibrido, come ben si è
notato262
, tra una forma di rappresentanza politica ed una di rappresentanza territoriale, come tale
inadeguato ad essere realmente luogo di emersione e di garanzia degli interessi regionali alla cui
tutela – sin dall’etichetta (che però rischia appunto di rimanere tale …) – dovrebbe essere deputato.
Il nodo centrale sta, com’è noto, nell’introduzione dell’inciso secondo cui i senatori sono eletti dai
Consigli regionali «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in
occasione del rinnovo dei medesimi organi», previsione che stempera il legame territoriale (che
sarebbe stato garantito dalla rappresentanza delle sole forze degli esecutivi regionali) nella
pluralistica composizione politica dell’assemblea consiliare: come è stato giustamente notato, al
Senato, al contrario, «non si dovrebbe dare per scontata» né la presenza di Commissioni permanenti
con composizione proporzionale ai gruppi, né di questi ultimi (entrambi previsti infatti,
significativamente, solo per la Camera, dai nuovi artt. 72, co. 4, e 82), mentre sarebbe auspicabile
prevedere la «posizione unitaria» di ciascuna delegazione regionale263
, solo così potendosi evitare
che la seconda Camera si riduca nuovamente ad un “doppione” della prima.
Ma non mancano certo tutta una serie di altre incongruenze ed aporie nella fattura del nuovo
istituto, che sono state puntualmente e accuratamente richiamate nel corso di alcuni interventi di
questo Seminario.
Sicché, in breve, la riforma sembra superare – in ritardo rispetto alla lezione che già veniva
dall’esperienza degli ordinamenti federali – il modello garantista a favore del modello cooperativo
di regionalismo, facendo tesoro della preziosa ammonizione secondo cui non può esservi vera
261
Come nota da ultimo A. RUGGERI, Sogno e disincanto dell’autonomia politica regionale nel pensiero di
Temistocle Marines (con particolare riguardo al “posto” delle leggi regionali nel sistema delle fonti), in Dir. reg.,
III/2016, 460, richiamando un pensiero espresso a più riprese da T. MARTINES, di cui v. spec. Dal regionalismo
garantista al regionalismo cooperativo: un percorso accidentato, in Una riforma per le autonomie, Milano 1986, 45
ss., ora in Opere, III, cit., 913 ss., e T. MARTINES - G. SILVESTRI, Fortuna e declino dei concetti di sovranità e di
autonomia, in Economia Istituzioni Territorio, 1/1990, 7 ss., ora in Opere, I, cit., 583 ss., spec. 599. 262
V. gli interventi soprattutto di A. RAUTI e di A. MORELLI, in questo Seminario. 263
G. BRUNELLI, La funzione legislativa bicamerale nel testo di revisione costituzionale: profili problematici,
in Rivista AIC, 1/2016, 4, che richiama l’attenzione sull’importanza a questo fine tanto delle nuova legge elettorale della
seconda Camera quanto della riforma dei regolamenti parlamentari.
615
autonomia finché, «a livello di Stato centrale, non esisterà un’istanza democratica di contrappeso
territoriale all’indirizzo politico nazionale»264
, per poi tuttavia rischiare di tradire in concreto la
portata dirompente di tale innovazione o di non assicurarne compiutamente la realizzazione,
affidandola alla normativa di attuazione costituzionale.
Se le accennate carenze strutturali e funzionali del Senato e tutti i difetti di contorno sono
innegabili, resta però il fatto che, prima di addentrarsi in questi lunghi e fitti cahiers de doléances,
non si può prescindere dallo sciogliere un drammatico ma inevitabile interrogativo metodologico.
Occorre cioè chiedersi che tipo di giuristi si voglia essere: se, precisamente, ci si voglia
accontentare di valutare la riforma per ciò che appare “sulla carta”, oppure si voglia estendere il
raggio della propria analisi fino ad abbracciare fattori che non sono solo giuridico-formali, ma che
affondano le loro radici nel terreno politologico e sociologico, con cui i primi sono strettamente
connessi, anzi interdipendenti, in quanto i secondi finiscono con il determinare quello che si
imporrà come il “diritto costituzionale vivente”. È evidente che con simile espressione s’intende
alludere non alla locuzione entrata nel linguaggio comune della giurisprudenza costituzionale, con
riferimento all’interpretazione della legge dominante nelle aule dei tribunali (sulla scorta della
teoria ascarelliana), bensì all’omonimo concetto proprio della dottrina di matrice tedesca, che
contrappone la Rechtszustand alla Rechtssatz265
.
Ad orientare nel dilemma può giovare la seguente constatazione ed il successivo paradosso.
Dopo la riforma del Titolo V della Parte II Cost., avvenuta con le ll. cost. nn. 1/1999 e 3/2001, se ci
si fosse fermati alla valutazione delle “due parole della legge” (al netto di alcune avvisaglie, quale
ad es. l’esistenza, prontamente rilevata, delle materie “trasversali” nell’elencazione delle
competenze esclusive dello Stato), si sarebbe dovuto concludere che il modello di regionalismo
appena introdotto costituisse senz’altro un avanzamento delle condizione di autonomia di cui
264
G. SILVESTRI, Rileggendo, sessant’anni dopo, il saggio di Temistocle Martines sull’autonomia politica
delle regioni in Italia, in Dir. reg., III/2016, 476. L’A. insiste sulla necessità di «istituzioni, poste all’interno del
processo di decisione politica nazionale, destinate a comporre, in via preventiva – già nell’iter di formazione delle leggi
statali – le esigenze dell’uniformità e quelle dell’autonomia», anche per evitare i continui ed episodici «rattoppi» cui è
chiamata la Corte costituzionale nei giudizi in via d’azione, che non a caso, a partire dal 2012 sorpassano
quantitativamente i giudizi in via d’eccezione: ID., Relazione del Presidente Gaetano Silvestri sulla giurisprudenza
costituzionale del 2013, in www.cortecostituzionale.it. 265
… preoccupandosi dello «studio del diritto non contenuto nella proposizione giuridica»: E. EHRLICH, I
fondamenti della sociologia del diritto (1913), Milano 1976, 585.
Sul contiguo concetto di effettività v. L. D’ANDREA, Effettività, in Diz. dir. pubbl., III (2006), 2118 ss.
616
potevano avvalersi le Regioni ordinarie in precedenza (per l'inversione del criterio di riparto delle
competenze tra Stato e Regioni, per l'acquisto della potestà piena da parte delle Regioni ordinarie,
etc.). Ma, se si fosse poi esteso lo sguardo alla realtà che è seguita alla riforma, si sarebbe notato
che, in virtù tra l’altro dell’interpretazione estensiva dei principi generali delle materie di potestà
concorrente e della chiamata in sussidiarietà da parte dello Stato (entrambe avallate dalla
giurisprudenza costituzionale), lo scenario si presentava ben più ridimensionato e a tratti persino
desolante. Se oggi si considera il tessuto normativo corrispondente alle materie di competenza
regionale, infatti, ci si avvede con facilità che la sua major pars è tuttora costituita da norme statali
(basti pensare all’espansione dei principi generali in materie quali la concorrenza, l’ambiente e
l’ordinamento civile), mentre le Regioni, quando non si sono attestate sulla disciplina di settori
tendenzialmente tradizionali, corrispondenti al dettato originario dell’art. 117 Cost. (urbanistica,
agricoltura, etc.), hanno prevalentemente virato su interventi normativi caratterizzati dalle finalità di
riordino e di manutenzione266
.
Il paradosso sta nella risposta alla seguente domanda. Ipotizziamo che la riforma odierna
introducesse un Senato realmente soddisfacente rispetto all’obiettivo di istituire una Camera delle
autonomie, caratterizzato da una composizione che lo rendesse autentico rappresentante territoriale
e portatore degli interessi regionali in particolare, nonché provvisto sul piano funzionale delle
competenze legislative adeguate a garantire tali interessi: potremmo allora finalmente affermare di
essere davanti ad una vittoria per le autonomie e per il regionalismo italiano, ad una tappa storica
che compie e supera il regionalismo garantista grazie al tanto atteso passaggio verso un sistema di
regionalismo cooperativo? A mio avviso, permarrebbe una ragione profonda e ineludibile di
insoddisfazione, se si ha a cuore l’effettiva espressione e tutela degli interessi degli enti dotati di
autonomia istituzionale.
Ciò perché – andando a rivelare il nodo centrale della questione sotteso all’interrogativo
metodologico sopra avanzato – qualsiasi forma di governo multilivello funziona solo dove esiste un
decentramento politico e precisamente dei partiti, altrimenti corre il serio rischio di essere solo
apparente. Volendo fare un paragone azzardato ma (a me pare) efficace, esso rischia di fare la fine
266
V. da ultimo U. DE SIERVO, Realtà attuale delle funzioni e del finanziamento delle Regioni, in AA.VV.,
Che fare delle Regioni? Autonomismo e regionalismo nell’Italia di oggi, Atti del Convegno organizzato dall’Istituto
Luigi Sturzo, Roma 24-25 gennaio 2014, a cura di N. Antonetti e U. De Siervo, 197 ss.
617
della separazione dei poteri nei regimi totalitari, dove il lascito del Baron de Montesquieu diviene
appunto solo formale e fittizio, non essendo accompagnato al livello sottostante dal riconoscimento
e dalla realizzazione di un effettivo pluralismo delle forze politiche in campo.
In presenza di una struttura dei partiti fortemente centralizzata, anche la principale obiezione
cui il novellato Senato delle autonomie si espone, vale a dire che esso costituisca un ibrido tra una
forma di rappresentanza territoriale ed una di rappresentanza politica267
, rischia di non essere più
decisiva. In linea concettuale le due forme di rappresentanza sono distinguibili, anche se non
nettamente268
; tuttavia la differenza diventa evanescente fino a perdersi del tutto in assenza di partiti
organizzati in maniera non rigidamente centralistica: ragionando pragmaticamente, appare difficile
infatti, in tale contesto politico, immaginare che un consigliere regionale, che voglia assumere e
difendere nella sede istituzionale parlamentare una posizione dettata dall’esclusivo interesse della
Regione di provenienza, possa effettivamente farlo fino a quando è vincolato ad una rigida
gerarchia di partito.
È un allargamento della visuale che in un certo senso non può che essere scomodo per il
giurista, perché si accompagna alla più cocente sensazione della sua impotenza, posto che lo pone
dinanzi agli effetti controproducenti di fattori in gran parte extragiuridici e dunque non governabili
dal diritto. Al contempo essa è semmai l’unica constatazione che – non potendosi comunque ad essa
sfuggire – può far impercettibilmente pendere il piatto della bilancia a favore del sì, potendo forse le
aspettative riposte nell’aspetto minimale della riforma, sul piano del sistema delle fonti, prevalere
sulle gravi insufficienze dell’aspetto massimale, in considerazione dell’elevato rischio di uno
svuotamento di desiderabili garanzie del regionalismo, che pure fossero previste sulla carta, ad
opera del diritto costituzionale vivente, sociologicamente e politologicamente connotato.
267
V., in particolare, in questo Seminario, A. RAUTI. 268
V. in questo Seminario L. D’ANDREA e, approfonditamente, I. CIOLLI, Il territorio rappresentato. Profili
costituzionali, Napoli 2010, 100 ss.
Riforma costituzionale e costituzionalismo interlivello: brevi note
di Luigi D’Andrea*
Cercherò di inserirmi nel solco tracciato dagli interventi fin qui svolti, tentando di non
ripetere inutilmente considerazioni già avanzate e di apportare un utile contributo al nostro
confronto.
La legge di revisione costituzionale approvata dalle Camere (la c.d. riforma “Renzi/Boschi”)
è assai ampia, modifica numerose disposizioni della Carta costituzionale vigente, contiene non
poche novità degne di rilievo e di attenzione critica (basti qui pensare all’istituto del referendum
propositivo, di non agevole configurazione positiva e di parimenti problematico inserimento
nell’ambito del sistema gerarchico delle fonti). E con riferimento appunto all’ampiezza del disegno
riformatore ed all’eterogeneità dei relativi contenuti, si è avanzata da più parti (anche da qualche
autorevole nostro collega) la proposta del c.d. “spacchettamento” del quesito referendario,
sottoponendo al giudizio del corpo elettorale distintamente le molteplici parti in cui si può
ragionevolmente articolare il testo di revisione, così da consentire all’elettore di esprimere
liberamente il suo assenso od il suo rifiuto in relazione ad opzioni normative univoche e
chiaramente determinate. Al riguardo, mi pare debba osservarsi non soltanto che la prassi relativa ai
referendum costituzionali è senza alcuna eccezione orientata in direzione dell’unicità del quesito,
per quanto esteso e variegato fosse l’articolato normativo sottoposto al giudizio del corpo elettorale,
ma anche che come unitaria è stata la votazione finale delle Camere sul testo di modifica della Carta
fondamentale, così unitario deve essere il giudizio popolare in sede referendaria; e se è vero che
l’elettore ne risulta limitato nella libertà di esprimere le sue (in ipotesi, diversamente orientate)
valutazioni in ordine alle diverse norme recate dalla legge di revisione costituzionale, deve anche
osservarsi che si consente per tale via allo stesso elettore di maturare e fare valere un giudizio che
tenga conto del complessivo disegno riformatore, ponderando opportunamente (mi verrebbe da
dire, ragionevolmente …) vantaggi e svantaggi alle diverse parti della proposta di riforma
imputabili.
* Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università di Messina.
619
Mi pare che con riguardo alla problematica dell’oggetto della pronunzia referendaria
autunnale si ponga un’altra questione, che mi sorprende non sia stata ancora sollevata nell’ambito
del nostro incontro, essendo di formidabile rilievo politico ed istituzionale (nonché largamente
presente, se non addirittura centrale, nel dibattito pubblico riguardante la legge di revisione
costituzionale ed il relativo referendum). Mi riferisco alla questione riguardante la legge elettorale
vigente (e che dal 1° luglio sarà anche applicabile) per la Camera dei deputati (il c.d. Italicum): sarà
anch’essa soggetta alla prossima pronunzia referendaria? Dal punto di vista squisitamente formale
(dunque, sul terreno giuridico-formale), la risposta non può che essere un secco ed inequivocabile
“no”, poiché il prossimo referendum avrà ad oggetto soltanto le norme di rango costituzionale
(approvate secondo la procedura recata dall’art. 138 Cost., nel cui ambito è previsto) che novellano
circa un terzo della Parte seconda dalla Carta fondamentale, ed è ben noto a tutti che il sistema
elettorale è determinato con atto normativo primario. Tuttavia, dal punto di vista sostanziale (o, se
si vuole, politico-istituzionale), la risposta alla domanda sopra formulata non può che perdere
nettezza di contorni ed assumere un carattere altamente problematico. Infatti, resta condivisibile la
tesi che vuole separare la (già di suo complessa …) problematica riguardante la revisione del testo
costituzionale dalla (parimenti complessa …) questione relativa alla legge elettorale (e
segnatamente alla c.d. “formula elettorale”, cioè al sistema normativo che presiede alla
trasformazione dei voti degli elettori in seggi dei parlamentari), se si considera che il testo novellato
della Costituzione ben potrebbe convivere con molteplici sistemi elettorali (sia per la Camera dei
deputati, quanto per il Senato, rispetto al quale in proposito si prospetta per il legislatore
un’autentica sfida, essendo i senatori in larga misura consiglieri regionali che dovranno essere eletti
«in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo
dei medesimi organi»: art. 57, V comma). Ma non può in alcun modo ignorarsi che la legge di
revisione “Renzi/Boschi” e l’Italicum, pur ben differenziati nei contenuti (e diversamente dislocati
sul terreno della gerarchia delle fonti), sono stato generati secondo un unitario disegno riformatore,
e soprattutto che il secondo (la legge elettorale della Camera dei deputati) non potrebbe restare in
vigore (risultando anche di assai dubbia compatibilità costituzionale) ove la prevalenza del “no” al
referendum costituzionale mantenesse vigente l’attuale assetto dei rapporti tra gli organi cui è
affidata la direzione politica del Paese. E non casualmente, come ho già accennato, nel dibattito
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pubblico sulla riforma “Renzi/Boschi” un ruolo per nulla marginale è giocato appunto dalla legge
elettorale vigente per la Camera dei deputati: per le ragioni adesso accennate, ciò mi sembra
praticamente inevitabile, ed anche – almeno sotto il profilo politico-istituzionale – accettabile.
Premessa dunque l’esigenza che si proceda ad una valutazione unitaria della riforma
costituzionale, e sottolineata la (quantomeno pratica) impossibilità di prescindere in tale giudizio
complessivo da un’adeguata considerazione dell’Italicum, conviene adesso andare alla ricerca
dell’opzione fondamentale del disegno riformatore recentemente licenziato dalle Camere, intorno
alla quale incardinare le brevi osservazioni critiche che i tempi del nostro confronto consentono di
avanzare. Mi sembra difficilmente revocabile in dubbio che il cuore della riforma costituzionale che
nel prossimo autunno sarà sottoposta agli elettori sia rappresentato dal superamento del vigente
bicameralismo perfetto (del tutto atipico nel panorama dei parlamenti contemporanei) in favore
dell’adozione di un Senato rappresentativo delle «istituzioni territoriali» (art. 55, V comma) e sede
di raccordo tra lo Stato ed i diversi livelli territoriali di governo (Unione europea, Regioni,
Comuni). Per valutare una simile innovazione, è necessario considerare come essa bene si inserisca
nella logica che complessivamente informa lo spazio costituzionale europeo, caratterizzato dalla
compresenza di identità politico-istituzionali definite (anche) dalla fitta rete di relazioni che tra le
stesse intercorrono (e dunque connotato in senso interlivello, secondo una qualificazione da me
preferita a quella dominante – multilivello – suggerita alla fine del secolo scorso da I. Pernice).
Infatti, il Senato novellato, ex art. 57 Cost., è composto «da novantacinque senatori rappresentativi
delle istituzioni territoriali» (I comma), eletti dai Consigli regionali e dai Consigli delle Province
autonome di Trento e Bolzano tra i propri componenti, con metodo proporzionale e, «nella misura
di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori» (II comma), oltre che da
«cinque senatori che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica» (ancora I comma) in
quanto «cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico,
artistico e letterario», i quali restano in carica sette anni senza possibilità di nuova nomina (art. 59).
Ad un Senato così strutturato vengono affidate attribuzioni, tanto sul terreno della
legislazione quanto su quello delle attività di informazione, indirizzo e controllo, che non pochi
commentatori (ed anche alcuni tra di noi) giudicano di scarsa consistenza politico-istituzionale,
soprattutto se si tiene conto che lo stesso Senato è stato escluso dal circuito fiduciario, che trova nel
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revisionato testo costituzionale quali protagonisti soltanto il Governo e la Camera dei deputati. Non
condivido una simile valutazione, ma mi sembra che vadano soprattutto poste in evidenza le
«funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica» cui espressamente si
riferisce il primo inciso dell’art. 55, V comma: infatti, mi pare si possa fondatamente avanzare
l’ipotesi interpretativa secondo la quale tali «funzioni di raccordo» tra i diversi livelli territoriali di
governo (dall’Unione europea ai Comuni) non valgano a definire un novero di specifiche
attribuzioni che si aggiungano ad altre in ulteriori disposizioni indicate, ma piuttosto configurino il
ruolo complessivo in coerenza con il quale le diverse competenze del Senato novellato devono
essere esercitate. Il Senato, precisamente in quanto «rappresenta le istituzioni territoriali» (così il
già citato art. 55, V comma), è chiamato a svolgere le sue prerogative, che naturalmente
appartengono al patrimonio di attribuzioni dello Stato, in funzione della rete di relazioni tra livelli
territoriali che definisce l’ordito dello spazio costituzionale europeo: in questa prospettiva
«concorre all’esercizio della funzione legislativa», «partecipa alle decisioni dirette alla formazione
e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea» e «valuta le politiche
pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche
dell’Unione europea sui territori» (magari esercitando le prerogative riconosciute ai parlamenti
nazionali dal Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità),
«verifica l’attuazione delle leggi dello Stato» (ho rapidamente richiamato le principali funzioni del
Senato come enunciate dall’art. 55, V comma). In sintesi, potrebbe qualificarsi il Senato come
“un’istituzione di relazione”; e si osservi al riguardo come l’intera trama delle competenze allo
stesso devolute si collochi nella logica del concorso con attribuzioni di altri soggetti, che non
raramente dispongono – per così dire – del potere di decisione finale (al riguardo, non mi pare
casuale l’iterazione del termine “concorre” nella definizione delle competenze senatoriali). In
questa prospettiva, si può prevedere che la fortuna del Senato riformato dipenderà in larga misura
dalla sua capacità (squisitamente politica) di esercitare autorevolmente le proprie attribuzioni in tale
logica “interlivello”. E mi pare di potere aggiungere che la possibilità del Senato di operare in
fedeltà al rinnovato disegno costituzionale riposa nella capacità (di tutti i soggetti del sistema, tanto
a livello politico quanto a livello istituzionale, senza trascurare il ruolo dei soggetti sociali …) di
declinare sinergicamente la dialettica (che deve restare sempre aperta nella dinamica del sistema)
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tra pluralismo territoriale e pluralismo politico-partitico, rigettando ogni ipotesi di separazione
dicotomica, di indifferenza o – peggio ancora … – di ostilità tra le due. Non nego in alcun modo
che si tratti di una sfida davvero ardua (vi hanno fatto riferimento nel loro intervento Alessio Rauti
e Giusi Sorrenti): lo è in ragione dei complessi equilibri che presiedono ad un sistema che intenda
restare fedele alla sua caratterizzazione interlivello, lo è (ancor di più …) in considerazione della
crisi in cui versano ormai da qualche decennio le forze politiche e le istituzioni pubbliche del nostro
Paese. Ma a me pare che ove dovessero configurarsi come reciprocamente alternativi il pluralismo
territoriale ed il pluralismo politico-partitico, l’ordinamento complessivo non potrebbe che
radicalmente sfigurarsi, essendo “costretto” ad optare tra il valore autonomistico ed il valore
democratico, che invece nella fisiologia del costituzionalismo contemporaneo sono chiamati a
rendersi compatibili (anzi, meglio, a convivere in felice sinergia).
Per concludere sul punto, a me pare che il superamento del bicameralismo perfetto e la
configurazione di un Senato “Camera delle autonomie” costituiscano ragioni più che sufficienti per
votare favorevolmente alla riforma costituzionale nel prossimo referendum: certamente, non si può
negare che si poteva fare meglio (magari mantenendosi fedeli al modello di seconda Camera offerto
dal Bundesrat tedesco, o devolvendo più incisive funzioni al Senato riformato), ma pure sembra a
me che comunque il Parlamento che risulterebbe dalla vittoria del “sì” sarebbe più del Parlamento
delineato dalla Costituzione vigente in linea con le esigenze esibite dallo spazio costituzionale
europeo e con i modelli parlamentari consolidati in Europa (e non solo in Europa): in nessun Paese
esiste il bicameralismo perfetto che vige in Italia, quasi ovunque le seconde Camere rappresentano
le autonomie territoriali, per così dire «portando la periferia al centro» (per usare un’espressione
cara al prof. Ruggeri), e, si può aggiungere, quasi ovunque vivono una vita piuttosto grama (a
conferma dell’ardua sfida alle istituzioni pubbliche che la caratterizzazione interlivello del sistema
reca in sé stessa …).
Appunto tale caratterizzazione interlivello dell’ordinamento, che ho appena suggerito come
“chiave di lettura” e di valutazione critica del modello di Senato prefigurato dalla riforma
costituzionale, mi consente anche di avanzare qualche rapida osservazione critica in ordine alla
legge elettorale della Camera dei deputati (con la quale la riforma costituzionale deve essere
analizzata e valutata: per così dire, in combinato disposto …): infatti, i profili di quest’ultima
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maggiormente esposti alle critiche degli oppositori del complessivo disegno riformatore promosso
dal Governo Renzi (il ballottaggio tra le due liste più votate, il premio di maggioranza …) si
presentano come funzionali all’esigenza di assicurare all’Esecutivo insieme stabilità e (sia pure
indiretta) legittimazione popolare. Ebbene, entrambi tali esigenze, oltre a non risultare assenti dalla
legge di revisione costituzionale (si pensi alla limitazione alla Camera dei deputati del rapporto
fiduciario con il Governo), riconducono alla “logica” di un sistema nel quale la fitta ed incessante
rete di relazioni tra i diversi livelli territoriali del potere pubblico (e, più in generale, tra i diversi
soggetti del sistema) inevitabilmente si incardina sull’organo di vertice del potere esecutivo, che
non può che risultare fisiologicamente stabile e godere (almeno normalmente) della peculiare forza
politica assicurata dalla legittimazione popolare (che nella maggior parte dei casi consegue da una
adeguata sinergia tra sistema politico e legge elettorale): tali due condizioni si pongono come
praticamente necessarie per un’efficace interlocuzione negoziale e per la credibile assunzione delle
conseguenti responsabilità politico-istituzionali. Dunque, mi sembra ne possa derivare un giudizio
complessivamente positivo sull’Italicum, in quanto esso delinea, in riferimento al presente contesto
politico e istituzionale, un ragionevole punto di equilibrio tra l’esigenza di garantire la
rappresentatività dell’Assemblea e l’esigenza di assicurare stabilità e radicamento popolare
all’organo di vertice del potere esecutivo.
In conclusione, desidero svolgere qualche rapidissima notazione in ordine ai processi di
attuazione che la riforma costituzionale inevitabilmente innescherebbe (ad essi hanno fatto
riferimento Stefano Agosta e Alessandro Morelli, con notazioni critiche relative alla scarsa
coerenza interna della legge di revisione costituzionale). Non vi è dubbio che numerose – e di non
poco momento – sono le opzioni cui sarebbe chiamato il legislatore (e, con esso, i tutti gli attori del
sistema, ciascuno naturalmente nell’esercizio delle rispettive funzioni) in sede di positiva
implementazione e attuazione degli istituti introdotti dalla riforma costituzionale (nonché di
riconformazione di altri, già presenti nella Carta fondamentale, ma comunque dalla revisione
incisi): basti pensare alla legge elettorale per il Senato ed alla radicale riscrittura del regolamento
dello stesso, da cui passeranno molte scelte decisive in ordine all’articolazione dei rapporti tra
dialettica territoriale e dialettica politico-partitica, ovvero all’esigenza di ripensare alle relazioni tra
leggi statali e leggi regionali nel (nuovamente …) novellato Titolo V. Del resto, da tempo la
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migliore dottrina si mostra consapevole dell’impossibilità di racchiudere staticamente la dimensione
costituzionale del sistema nella cittadella fortificata rappresentata delle solenni Carte costituzionali,
dovendosi ravvisare l’irriducibile presenza della stessa in termini dinamici, immanente nel
complessivo divenire del sistema, all’interno dell’esercizio della funzione legislativa,
amministrativa, giurisdizionale, nella prassi politica e sociale. Come è stato autorevolmente
rilevato, la Costituzione è – e non può non essere – un atto ed un processo insieme; ed a siffatte
esigenze non potrebbe certo in alcun modo sottrarsi la riforma costituzionale in discussione. Del
resto, lo stesso articolato normativo approvato dalle Camere si presenta come una conferma della
teoria adesso richiamata, contenendo non poche disposizioni che, già presenti nell’ordinamento
vigente in norme di rango (formalmente) subcostituzionale, in forza della revisione costituzionale
risalgono di livello gerarchico, facendo ingresso nella Carta fondamentale (basti qui rimandare al
riguardo all’art. 77, che sancisce sul piano super-primario limiti della decretazione d’urgenza già
previsti dalla l. n. 400/1988): dunque, si tratta di norme già presenti nella Costituzione-processo
che, consolidate nel (e legittimate dal) tempo, finalmente si immettono nella Costituzione-atto. Non
sfugga, infine, come appartenga alla fisiologia dei sistemi costituzionali la possibilità che i processi
mediante i quali gli istituti costituzionali trovano inveramento storico e attuazione positiva risultino
di segno, fisionomia e orientamento differenti (e talora anche marcatamente differenziati) con il
mutare dei contesti complessivi, degli indirizzi politici dominanti, delle esigenze esibite dal sistema
economico e sociale: perciò, la tessitura delle disposizioni costituzionali non solo può, ma deve
presentare un grado di elasticità sufficiente a “contenere” tale molteplicità di forme di
implementazione.
Riforma della Costituzione e referendum: una scelta difficile
di Giovanni Moschella*
Diversamente dagli altri colleghi dirò solo alla conclusione del mio intervento quale è la mia
posizione sul referendum costituzionale, mentre preliminarmente vorrei esporre alcune brevi
considerazioni di carattere metodologico. Da oltre trent’anni proposte di una profonda revisione del
testo costituzionale sono state costantemente avanzate dalle forze politiche, sebbene non abbiano
condotto, fino ad oggi, ad alcun risultato concreto sul piano legislativo, almeno per quanto riguarda
la ridefinizione della forma di governo parlamentare. Stante l’impossibilità di procedere, almeno su
tale specifico profilo, ad una riforma condivisa della Costituzione, a partire dagli anni ’90
l’attenzione dei partiti e del Parlamento è stata rivolta alla legislazione elettorale, ritenendosi di
poter arrivare, per tale via, non solo ad una riconfigurazione (e/o semplificazione) del sistema
politico-partitico, ma ancor di più ad una razionalizzazione della forma di governo. Va riconosciuto,
tuttavia, come le riforme elettorali succedutesi a partire dal 1993 non abbiano in alcun modo
prodotto quegli obiettivi di stabilità ed efficienza dell’esecutivo (governabilità), né di rafforzamento
del potere di decisione e di scelta dei cittadini-elettori che s’intendevano perseguire. Non è quindi
un caso che l’approvazione del D.D.L. Renzi-Boschi, che segna l’approdo di un lunghissimo
processo per la cui conclusione manca solo l’ultimo decisivo passaggio, quello del referendum
costituzionale contemplato dall’art. 138 Cost., sia stata preceduta da una riforma del sistema
elettorale (l. n. 52/2015) che risulta strettamente correlata alla trasformazione della forma di
governo delineata dal testo di revisione costituzionale. Sul piano metodologico, ci preme
evidenziare come la riforma vada collocata ed esaminata in un’ottica di riflessione obiettiva, del
tutto scevra, come invece avviene da parte di alcuni osservatori politici, ma ahimè anche da parte di
alcuni autorevoli costituzionalisti, da posizioni ideologicamente precostituite. Si ritiene, infatti, che
la valutazione complessiva debba essere effettuata nel merito dell’articolato, in relazione a quelli
che si ritengono gli obiettivi sistemici da perseguire e sulla base della condivisione o meno di tali
obiettivi. Anche per tale ragione appare certamente poco lungimirante l’idea del Presidente del
* Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico, Università di Messina.
626
Consiglio di personalizzare e/o politicizzare la questione legando addirittura la permanenza del
Governo all’esito del procedimento referendario. Allo stesso modo appaiono del tutto fuorvianti le
posizioni di coloro che, apoditticamente, sostengono che la riforma produca non una revisione, pur
profonda del testo del 1948, ma addirittura una rottura della stessa Costituzione, che esporrebbe a
rischi profondi la democrazia italiana fino a sospingere le istituzioni repubblicane verso una deriva
di tipo autoritario . Va aggiunto, peraltro, che anche alcune delle motivazioni poste a fondamento
della riforma, riconducibili prevalentemente all’esigenza di una riduzione dei parlamentari e dei
costi della politica (spending review), sembrano più rispondere alle spinte populistiche e
demagogiche che avanzano nel Paese contribuendo ad alterare il quadro interpretativo. Infine,
sarebbe stato auspicabile, a mio avviso, che l’intero processo di revisione fosse stato affidato ad un
organismo costituente, all’interno del quale ricercare quell’accordo alto tra le forze politiche
indispensabile per una modifica così ampia del testo costituzionale. Tale considerazione può trovare
conferma nella “fortuna critica” della Carta del 1948, elaborata, in sede di Assemblea Costituente,
sulla base di un accordo alto (definito «patto compromissorio», ma da intendersi nella accezione più
elevata del termine compromesso) sancito tra correnti politiche, ideologiche e di pensiero
profondamente diverse tra loro, ma concordi sui principi e valori da porre alla base del nuovo Stato.
La condivisione del processo costituente si è configurata, pertanto, come un elemento fondamentale
di consolidamento delle istituzioni democratiche, garantendo la fidelizzazione di larghe masse di
cittadini e di lavoratori alla fondazione della Repubblica, ed al suo ordinamento costituzionale.
Così, nelle fasi più delicate e gravi della storia repubblicana i partiti protagonisti del processo
costituente, indipendentemente della loro collocazione parlamentare, hanno partecipato attivamente
e lealmente alla difesa dell’ordinamento costituzionale, al funzionamento delle istituzioni
rappresentative, concorrendo in modo determinante al loro sviluppo democratico. Va aggiunto che
nei pochi casi in cui la revisione costituzionale è avvenuta a colpi di maggioranza, o i risultati non
hanno corrisposto alle aspettative (2001) o le riforme non hanno superato il giudizio degli elettori
(2006).
Muovendoci sul piano dei contenuti va evidenziato che l’ampio spettro dell’articolato di
revisione, che investe oltre 50 articoli della Costituzione, incide non solo sul sistema bicamerale e
sulle competenze di Stato, Regioni ed enti locali, ma soprattutto – in ragione degli effetti della
627
recente riforma elettorale – sulla forma di governo e sul ruolo degli organi di garanzia, del
Presidente della Repubblica in primis. In tale quadro di riferimento ci sembra opportuno procedere
ad una, pur non esaustiva, valutazione della coerenza della riforma rispetto alle finalità sistemiche
che si intendono perseguire. Si ritiene, a tal proposito, che l’obiettivo primario di pervenire al
superamento del bicameralismo paritario e ad una razionalizzazione/stabilizzazione della forma di
governo attraverso il rafforzamento del ruolo del Premier e dell’Esecutivo venga coerentemente
perseguito, mentre meno chiaro appare il disegno relativo alla configurazione della forma di Stato,
con particolare riferimento sia al ruolo del Senato quale locus di rappresentanza degli interessi
territoriali sia al nuovo criterio di distribuzione della potestà legislativa tra Stato e Regioni, che
vede l’abolizione della potestà legislativa concorrente e l’inserimento della clausola di salvaguardia
e dell’interesse nazionale. In tale chiave interpretativa va collocata anche la riduzione dei
componenti del nuovo Senato della Repubblica, ora «rappresentativo delle istituzioni territoriali» e
composto da 100 senatori, dei quali 5 nominati dal Presidente della Repubblica per 7 anni, 21
Sindaci dei comuni capoluogo e altri 71 membri designati dai Consigli regionali con elezione di II
grado, «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri». Il ruolo del
Senato risulta ridimensionato sul piano della funzione di indirizzo politico, restando esso escluso
dal voto di fiducia al Governo (attribuito adesso alla solo Camera dei Deputati), ma anche in
relazione alla funzione legislativa, registrandosi un forte ridimensionamento dell’ambito di
competenza legislativa di tale organo. È vero che al Senato viene riservato un compito di raccordo
tra legislazione nazionale e regionale, ma non ci sembra che tale attribuzione sia, di per sé,
sufficiente a giustificare la definizione del nuovo Senato quale organo rappresentativo delle
autonomie. Appare contraddittorio, infatti, che da un lato il novellato art. 55 Cost. configuri il
Senato quale organo di rappresentanza delle istituzioni territoriali che «esercita funzioni di raccordo
tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica» e dall’altro, così come risulta dalla scelta di
mantenere la denominazione di «Senato della Repubblica», si proceda ad una sostanziale riduzione
delle attribuzioni sia della seconda Camera che delle stesse Regioni, secondo un disegno che
sancisce chiaramente e, per certi versi, anche opportunamente, una riallocazione di molte
competenze a favore dello Stato. Sarebbe stato certamente più coerente con tale disegno l’adozione
di un sistema monocamerale, anche se non può disconoscersi una coerenza di fondo rispetto a
quello che forse
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può ritenersi il reale obiettivo perseguito, vale a dire la riduzione dei poteri delle Regioni che,
invero, nella più recente esperienza costituzionale, non si sono dimostrate all’altezza della maggiore
autonomia loro attribuita dalla riforma del Titolo V del 2001.
Il punctum crucis ci sembra, tuttavia, debba essere ricondotto alla configurazione della
forma di governo, quale risulta non certo dalla revisione formale della Costituzione, che in vero
nulla dice in proposito, ma dall’ incidenza della riforma elettorale sull’equilibrio dei rapporti tra gli
organi di indirizzo politico. La contaminatio tra riforma del sistema elettorale di tipo maggioritario
(con premio del 55% dei seggi attribuito alla lista che consegue il maggior numero di voti) e le
disposizioni, qui succintamente descritte, della riforma costituzionale, con particolare riferimento
alla ridefinizione del ruolo del Senato, ridisegna sul piano della Costituzione materiale la forma di
governo incentrandola sul ruolo del Premier e della maggioranza parlamentare (identificata in un
solo partito) alla quale, peraltro, verrebbe di fatto demandato il potere di scelta degli organi di
garanzia costituzionale (Presidente della Repubblica, Presidente delle Camera, un terzo dei giudici
costituzionali, i membri laici del CSM). Il processo di revisione determina, così, una preferenza a
favore del valore della governabilità, a tutto discapito del ruolo del Parlamento come organo di
indirizzo politico, ma anche di controllo nei confronti del Governo. Nel contempo viene messa in
discussione la funzione di organo di garanzia, di impulso e di regolazione del corretto
funzionamento del sistema politico-costituzionale riconosciuta al Capo dello Stato, dando luogo,
senza alcuna modifica formale della Costituzione, al passaggio da una democrazia parlamentare ad
una “democrazia di investitura”. Ciò detto, ferme restando le perplessità su una revisione non
formalizzata della forma di governo, il modello adottato risponde, invero, a forme di
razionalizzazione e di stabilizzazione dell’esecutivo invalse ad esempio nel cancellierato tedesco o
nel modello britannico alle quali per anni costituzionalisti e osservatori politici ed istituzionali si
sono ispirati nel tentativo di garantire al sistema italiano la transizione da un sistema bloccato ad un
sistema compiuto di democrazia. La finalità è quella di costituire nel Paese e negli organi
istituzionali una maggioranza che governi contrapposta ad una opposizione che svolga la sua
funzione di controllo, facilitando così la possibilità di ricambio della classe di governo e il pieno
svolgimento del principio della responsabilità politica e del controllo da parte dei cittadini/elettori
sui rappresentanti e sugli organi rappresentativi. La previsione di un rilevante rafforzamento del
629
continuum Premier-Governo-maggioranza parlamentare, realizzato anche attraverso meccanismi di
revisione del procedimento legislativo, segna, incontestabilmente, un disallineamento rispetto al
vigente quadro costituzionale che caratterizza la forma di governo. Come recentemente ha sostenuto
la Corte costituzionale, il principio rappresentativo e la governabilità, ovvero le esigenze del
“rappresentare” e del “governare”, sono contenuti fondamentali del principio democratico, il cui
bilanciamento, perseguito soprattutto attraverso il sistema di trasformazione dei voti in seggi
(sistema elettorale), è indispensabile al mantenimento di una democrazia rappresentativa. Anche in
ragione di tali considerazioni, ci sembra eccessivo parlare di deriva autoritaria o di rottura
costituzionale, tenuto anche conto che nel testo di revisione della Costituzione al rafforzamento del
governo e della maggioranza corrisponde, comunque, una contestuale riduzione del potere di
decretazione d’urgenza, un innalzamento del quorum per l’elezione del Presidente della Repubblica,
la costituzionalizzazione, all’art. 64 Cost., dei diritti delle minoranze parlamentari e dello Statuto
dell’opposizione.
Profondamente svilita risulta, invece, la figura del Presidente della Repubblica, che vede
dissolversi il ruolo, più volte efficacemente esercitato nel corso della storia repubblicana, di organo
di equilibrio e di garanzia costituzionale, con particolare riferimento alla soluzione delle crisi
politiche ed al potere di scioglimento anticipato delle Camere. È del tutto evidente, infatti, che la
definizione di una forma di governo incentrata sulla figura del Premier (nominato in via formale dal
Capo dello Stato, ma designato, di fatto, dal voto degli elettori) e su una precostituita maggioranza
parlamentare trasforma il Presidente del Consiglio nel dominus del sistema politico-costituzionale,
rimettendo nella esclusiva disponibilità sua e del suo partito ogni decisione sulla durata del
Governo, sulla tenuta della maggioranza politica e sulla scelta di ricorrere alle elezioni. Il
Presidente della Repubblica dovrà limitarsi a registrare decisioni assunte dal Premier e dalla sua
maggioranza.
Sono questi i profili più rilevanti, ma anche più controversi, su cui si fonda la riforma
costituzionale ed è su questi temi, sulla condivisione o meno di tali obiettivi sistemici che i cittadini
saranno chiamati a pronunciarsi.
Devo, infine, assolvere all’impegno che ho preso all’inizio e svelare la mia posizione sul
referendum costituzionale. Dal mio intervento credo siano emerse molte critiche di metodo e di
630
merito sul testo di revisione, che tuttavia non precludono, al momento, la possibilità, di un mio voto
positivo al referendum costituzionale.
Perché, tra pregi e difetti della riforma costituzionale, la bilancia pende a favore dei primi
di Antonino Spadaro*
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Non è più tempo per proporre l’optimum: siamo chiamati a decidere su “questa”
riforma. – 3. Concretezza e sguardo prospettico: viviamo una più generale stagione di riforme. – 4. I difetti “veri”, o
melius: gli svantaggi della riforma… – 5. (segue): … e i difetti “falsi”, ovvero le critiche strumentali, alla riforma. – 6. I
pregi, o melius: i vantaggi della riforma.
1. Premessa
Innanzitutto ringrazio il Prof. Antonio Ruggeri per l’idea di questo scambio, libero e
informale, di impressioni fra alcuni amici, seduti intorno a un tavolo, sulla riforma costituzionale.
Dico subito che ci sono evidenti implicazioni “politiche” legate alla scelta per il sì o per il
no al referendum costituzionale. Per quanto essa dovrebbe essere ispirata a sole valutazioni
“tecnico-giuridiche”, è difficile ignorare le conseguenze politiche, ma pure economiche, di tale
scelta per il nostro Paese: basti pensare al riverbero sui mercati finanziari internazionali in genere
del tema delle riforme e della stabilità dei governi. Sarebbe ipocrita fingere di non conoscere anche
questi profili, insieme al potenziale rischio dell’avanzata dei populismi, alla crisi dell’Ue dopo la
c.d. Brexit, ecc.
Né può dimenticarsi che, in fondo, il diritto costituzionale essenzialmente rappresenti il
tentativo storico di razionalizzare giuridicamente proprio la politica, che a sua volta “dovrebbe”
governare l’economia.
Tuttavia non possono essere considerazioni di ordine strettamente politico a determinare la
decisione pro o contro la riforma.
E nemmeno dovrebbero ispirare la scelta aspetti di natura squisitamente psicologica, legati
ai contesti accademici d’origine, o persino all’attitudine e al carattere dei singoli studiosi, benché
certo tali fattori mi sembra siano presenti, anche in modo non trascurabile, in molti dei commenti
alla riforma.
* Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università «Mediterranea» di Reggio Calabria.
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Chi scrive, ovviamente, non è immune dagli stessi rischi, ma – proprio per cercare di
sottrarsi all’accusa di faziosità preconcetta che tendenzialmente c’è sempre in ogni presa di
posizione pubblica – ha scelto la scomoda posizione di non aderire ai comitati per il sì, né di
sottoscrivere gli appelli per il no, rendendosi così forse antipatico agli uni e agli altri. Ma non posso
aderire ai primi perché – per quanto io voterò «sì» al referendum – riconosco che la riforma
presenta alcune imperfezioni, e ovviamente non posso aderire ai secondi perché ritengo comunque
prevalenti i pregi sui difetti, come cercherò qui brevemente di spiegare.
Ad ogni modo, spero proprio che emerga che il mio orientamento di voto sia fondato solo
sulla base di considerazioni squisitamente giuridiche.
2. Non è più tempo per proporre l’optimum: siamo chiamati a decidere su “questa” riforma
Il tentativo di dar vita a una riforma costituzionale – intesa come macro-riforma, o riforma
di settore, e non come semplice revisione della singola, isolata, disposizione del testo – è ricorrente
nella storia della Repubblica, ma, salvo forse il caso della novella costituzionale sul Titolo V della
Parte II del 2001, come sappiamo tutti benissimo non ha avuto alcun esito pratico, rivelandosi solo
un costante e stucchevole refrain del dibattito politico nazionale.
Il fatto è che la nostra Carta, per quanto forse non sia la più bella del mondo (come un po’
demagogicamente qualcuno dice), è comunque una buona Costituzione. Ma soprattutto, come tutte
le umane cose, è sicuramente “migliorabile” e, con il trascorrere del tempo, chiaramente abbisogna
di adeguati aggiornamenti. È vero che la Costituzione – in quanto processo storico, e non solo atto
puntuale nel tempo – non può essere ridotta solo alla Carta del 1948, ma è anche vero che l’atto
iniziale della Carta nemmeno può essere ritenuto un “vangelo laico” intoccabile.
Ora, poiché l’oggetto prevalente della Costituzione è la politica e l’arte della politica attiene
al fattibile, quindi al reale, e poiché, come ci ha insegnato Salvatore Pugliatti, il diritto è una
“scienza sociale pratica”, a mio avviso la cosa peggiore che potremmo fare è sognare una Carta
ideale e perfetta, che non esiste e non esisterà mai, rincorrendo e proponendo modifiche
(giuridiche) utopistiche perché prive di necessario consenso (politico-parlamentare).
633
Infatti, anche a prescindere dal fatto che ognuno immagina la “sua” Carta ideale, e che
probabilmente ci sono tante Carte ideali quanti sono i costituzionalisti, l’utopismo, come il
perfezionismo, sono malattie adolescenziali degli intellettuali, in particolare accademici. Non
esistono Carte perfette o comunque perfettamente funzionanti, semplicemente perché – senza
necessariamente scomodare Jürgen Habermas e la sua ricerca su Fatticità e validità – è il diritto che
insegue il fatto, e non viceversa: ex facto oritur ius. E i fatti che hanno cambiato il mondo e l’Italia,
in questi 70 anni di Repubblica, sono davvero tanti. Il diritto, non solo costituzionale, “arranca”
dietro le novità e le continue accelerazioni della storia.
Il fatto che il diritto faccia fatica a star dietro all’evoluzione, o involuzione, sociale da un
lato conferma che urgono riforme, anche del diritto costituzionale, e, da un altro lato,
paradossalmente la dice lunga sui limiti intrinseci dello stesso diritto e delle connesse riforme.
Le riforme, tutte le riforme, sono espressione di un compromesso politico che, per quanto si
auspichi sia inteso in senso alto, è comunque imperfetto: se siamo onesti, dobbiamo riconoscere che
nessuna riforma è mai stata perfetta.
Insomma, non è più tempo per proporre l’optimum, ammesso che esista un optimum e che i
giuristi concordino davvero su cosa esso sia.
Siamo invece chiamati a decidere su “questa” riforma e ben poco serve immaginare di
spezzettarla, salvando solo quelle parti che – per ciascuno di noi – sono salvabili. Piaccia o no,
infatti, la riforma va accettata, o rigettata, per intero. A mio parere sarebbe metodologicamente
riduttivo e discutibile, quindi, “fissarsi” solo su alcune parti, ritenute le uniche importanti (per
esempio, il nuovo Senato), trascurando tutte le altre, considerate, invece, secondarie e irrilevanti.
Un’analisi onesta, a mio sommesso avviso, deve tener conto di “tutto” il pacchetto delle riforme in
ballo, affinché sia possibile una ponderazione corretta, organica e completa.
Altrimenti detto: siamo chiamati, laicamente, all’ardua e difficile attività del
“bilanciamento”, per valutare se – n.b.: complessivamente, ossia in tutta la riforma – i pregi siano
maggiori o minori dei difetti. E questo bilanciamento, naturalmente, deve essere svolto sia in senso
quantitativo che qualitativo: cosa difficile, ma non impossibile. Il voto verrà di conseguenza e le
opinioni naturalmente potranno divergere, con l’avvertenza, per usare un’espressione che era cara a
Temistocle Martines, che «il meglio è peggio del bene».
634
Siamo chiamati, quindi, a scelte coraggiose (che io auspico per il «sì») e non a comode
titubanze (forse sì, forse no, sarebbe meglio…).
3. Concretezza e sguardo prospettico: viviamo una più generale stagione di riforme
S’è detto che la politica spicciola non dovrebbe influenzarci, ma questo non significa che
viviamo nel mondo dell’iperuranio e che, chiusi nella tradizionale turris eburnea accademica, ci
possiamo rifiutare di vedere la realtà. La realtà, certo problematica ma incontrovertibile, è che la
riforma costituzionale (d.d.l. “Renzi-Boschi”) si colloca nel quadro di una più ampia stagione delle
riforme, nazionali e non solo, destinate a cambiare il volto del nostro Paese.
In particolare, segnalo la riforma:
degli EE.LL. (Comuni, Province e Città Metropolitane), la c.d. Delrio: l. n. 56/2014;
del mercato del lavoro, il c.d. Jobs Act: l. n. 183/2014;
del sistema elettorale, il c.d. italicum: l. n. 52/2015;
della Pubblica Amministrazione, la c.d. Madìa: l. n. 124/2015;
cui si aggiunge, ora, appunto
la riforma della Costituzione, il c.d. d.d.l. cost. “Renzi-Boschi”: (A.C., 2613-DG.U. 15
aprile 2016)
Tutto ciò, per tacere di altre, importanti (e discusse) riforme: per esempio della scuola e, se
vogliamo uscir fuori d’Italia, dell’ordinamento dell’Unione Europea dopo la c.d. Brexit.
Tornando in Italia, è riprovevole – come ho avuto modo di sottolineare altrove – che parte di
queste riforme siano state fatte troppo presto, ossia a Costituzione invariata, quindi esplicitamente
“in attesa” della riforma costituzionale, ma certo è innegabile che – se cadesse la riforma
costituzionale – crollerebbe non dico tutto, ma certo una parte non trascurabile del castello delle
riforme, buone o cattive che siano: mi riferisco, in particolare, alla legge elettorale (è improbabile
avere due sistemi elettorali diversi per le due Camere) e, almeno parzialmente, alla legge c.d.
Delrio. È bene prenderne atto.
635
Ma, paradossalmente, proprio questo più che probabile “effetto domino”, o a cascata, della
mancata approvazione della riforma costituzionale costituisce spesso uno dei fattori che influenzano
la scelta dei fautori del «no», a conferma del carattere pregiudiziale, politico e viscerale di molti
oppositori della riforma. Parimenti proprio la connessione con le “altre” riforme (e l’alta posta
“politica” in gioco: la continuità di governo) genera in molti, talvolta, eccessi ciechi e irrazionali
nella difesa del d.d.l. “Renzi-Boschi”.
Inoltre va precisato che la riforma costituzionale, prevedendo molte riserve di legge (anche
bicamerali e costituzionali) – per essere valutata pienamente – andrà vista alla prova dei fatti, ossia
in pratica, attraverso l’applicazione di tutti gli strumenti di attuazione, che al momento mancano. In
questo senso, è vero che le future norme di attuazione potrebbero rivelarsi peggiorative, ma non
vedo perché escludere che invece possano essere migliorative, anzi che plausibilmente saranno tali,
visto anche il ruolo di pungolo della dottrina. La questione dell’attuazione/implementazione della
riforma, dunque, resta tutta aperta….
Anche per questo conviene, almeno ad avviso di chi scrive, essere concreti e cercare di
guardare lontano, sorvolando sulle presumibili conseguenze immediate dell’esito del referendum. In
particolare non ha senso, a mio avviso, essere pregiudizialmente pessimisti, ipotizzando il
“disastro” quale effetto inevitabile della riforma costituzionale e, parimenti, nemmeno pare corretto
profetizzare un “disastro” nel caso di prevalenza dei “no” alla riforma.
Ciò detto, chi scrive vede il bicchiere mezzo pieno, consapevole che non andrebbe
dimenticata la lezione gramsciana per cui – accanto al pessimismo dell’intelligenza – serve
l’ottimismo della volontà. Del resto, l’“evoluzione” del pensiero di buona parte dei fautori del «no»
è indicativa di un percorso per diversi aspetti più emotivo che razionale: si è passati dal cupio
dissolvi della originaria, pesantissima accusa del carattere «eversivo» del d.d.l. “Renzi-Boschi” al
più ragionevole dissenso sull’opportunità tecnica di alcuni punti qualificanti del testo.
Effettivamente, frasi come «torsione autoritaria» e «minaccia alla democrazia» confermano che non
sempre c’è stato un uso controllato del linguaggio.
Le critiche veramente costruttive alla riforma riconoscono, invece – accanto a evidenti
manchevolezze – la presenza di importanti aspetti positivi nel ricordato d.d.l. di revisione
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costituzionale. La verità è che non ci sono riforme che non possono essere migliorate. Anzi, la
storia del nostro Paese è ricca di riforme riformande.
Ma bisogna pur “cominciare” le riforme e “decidere” sulle stesse...
Un tempo si diceva che l’Italia è la terra dei “gattopardi”, quelli che dicono di voler
cambiare tutto per non cambiare niente. È vero, ma ora questo mi sembra un assunto superato dalla
storia. A me pare che, oggi, molti – nonostante i passi indietro fatti dal nostro Paese, specialmente
dal 2008 (anno d’inizio della grande crisi) fino ai nostri giorni – seccamente non vogliano cambiare
e non pochi semplicemente abbiano paura di cambiare, anche perché non hanno capito cosa
cambierà davvero. La cosa più grave è che moltissimi, poi, non capiscono che, se non ci
“riformiamo” noi, da soli, saranno gli altri a farlo per noi. Sarà il mondo globalizzato – che corre e
va avanti anche senza di noi – a farci subire una pseudo-riforma, costringendoci a un cambiamento
che non necessariamente sarà quel che vogliamo.
Credo che pressoché tutti i cittadini italiani desiderino mantenere i principi di fondo
liberaldemocratici della Repubblica e, con essi, lo Stato sociale, almeno quel po’ di Stato sociale
funzionante che abbiamo costruito. Bene: questa riforma non tocca la I Parte della Costituzione et
pour cause. Rivede invece, significativamente, solo la parte organizzativa che, per decenni, proprio
i costituzionalisti si sono affannati a criticare, invocando revisioni e miglioramenti. Valutiamo,
dunque, e ponderiamo serenamente questo d.d.l., prendendo in considerazione cosa di buono
possiamo trarne, non limitandoci solo a «criticare, che è facile, mentre capire è difficile…»
(direbbe Hegel).
Dunque, almeno sotto quest’aspetto, mi sono fatto l’idea che – in Italia – i veri
“progressisti” sono i riformatori (anche della Costituzione), non i conservatori (dell’intoccabile
Carta del 1948). So bene che quasi tutti i fautori del “no” diranno che non considerano la Carta
intoccabile, ma poiché “questa” (come altre) riforme non aggrada loro – ormai parliamo di riforme
costituzionali da decenni! – di fatto il risultato è che, alla fine, la Carta del 1948, tranne alcune
minori revisioni, non si tocca.
637
4. I difetti “veri”, o melius: gli svantaggi della riforma…
Dei difetti della riforma dirò pochissimo e non perché ci sia poco da dire, ma perché non si
fa altro che evidenziarli, in continuazione, oltre che da parte di tecnici, soprattutto da parte di
politici e opinionisti, che invero rovesciano anche innumerevoli critiche “a tappeto”, coinvolgendo
pure parti del d.d.l. invece ragionevoli e pienamente condivisibili.
Ma quest’atteggiamento – di rifiuto alla fine “generalizzato” di un testo perché “in una sua
parte” è fatto male o addirittura ripugna – appare molto emotivo, poco razionale e scientificamente
discutibile: è come quando di una persona si vede soltanto un difetto, da cui si è così ossessionati al
punto da non cogliere i tantissimi pregi della stessa. Succede, ma la cosa non è indicativa di un
approccio sufficientemente razionale, equilibrato e meditato.
Fuor di metafora, la riforma ha alcuni gravi difetti e molte minori manchevolezze ed
incertezze di natura tecnica, su cui qui è inutile soffermarsi (altri avendoli esposti minuziosamente:
spec., con molto equilibrio, Emanuele Rossi), ma – n.b.: nell’insieme – certo migliora la macchina
organizzativa dello Stato, tanto più quanto più sarà “ben” attuata e applicata (nonché, ove possibile
e laddove occorre, persino corretta).
Molto in breve: essenzialmente la parte più “discutibile” della riforma attiene al nuovo
Senato, pasticciato, indebolito e rappresentativo in modo ibrido delle forze politiche e (et o aut?)
degli enti territoriali. È inutile spendere ancora troppe parole sul punto: le critiche generali già
svolte da Roberto Bin, e le preoccupazioni espresse da Alessio Rauti in questa sede di dibattito,
sono – se non tutte, quasi tutte – condivisibili. Dunque, non vi ritorno. È chiaro che sarebbe stato
migliore l’originario progetto del Governo, anche se non condivido l’idea semplicistica che forse
sarebbe stata preferibile addirittura l’abolizione tout court del Senato.
Il riconoscimento dell’imperfezione del progetto non significa, comunque, che “questo”
Senato sia – come pure è stato detto in modo tranchant – inutile. Men che meno che esso sia inutile
perché, a differenza della Camera, non dà la fiducia al Governo, cosa invece, più che comprensibile
e ragionevole nella nuova forma di governo, che si delinea più agile e netta e del tutto conforme ad
altri ordinamenti. Il Senato non è affatto inutile, da esso passando l’approvazione di importantissimi
atti: anche senza contare le funzioni di raccordo fra Stato, Regioni, Enti Locali ed Unione Europea
638
(in fase ascendente e discendente) e di valutazione/verifica delle politiche pubbliche, dell’attività
delle P.A. e dell’attuazione delle leggi dello Stato, l’organo esprime pareri sulle nomine di
competenza del Governo (art. 55) e soprattutto approva numerose leggi bicamerali in materia di
revisione costituzionale, minoranze linguistiche, referendum, normativa elettorale e organi di
governo degli EE.LL., partecipazione agli atti UE, trattati internazionali, Roma capitale, ecc. (per il
lungo elenco, cfr. non solo l’art. 70, ma gli artt.: 57, VI c.; 80; 114, III c.; 116, III c.; 117, IX c.;
119, VI c.; 120, II c.; 122, I c.; 132, II c.).
In particolare, sarà la legge bicamerale (art. 57, VI c.) a stabilire “come” saranno eletti in
concreto i senatori (74 consiglieri regionali e 21 sindaci): speriamo dunque che venga rispettata
l’idea – il c.d. emendamento Finocchiaro – che gli elettori possano in qualche modo “scegliere” i
consiglieri-senatori. Per quanto oscura, la previsione è presente nel testo (art. 57, V c.) e qualcuno
(Raffaele Bifulco) persino dubita che si possa correttamente parlare di “elezione indiretta” dei
senatori. Ciò non toglie che 8 Regioni e 2 Province autonome eleggeranno solo 2 senatori e non
potranno applicare, alla lettera, il principio proporzionale (per non parlare della figura dei sindaci-
senatori).
Nemmeno mi piace la prevista immunità dei consiglieri-senatori, ma francamente mi pare
eccessivo e solo polemico “prevedere” che, proprio per l’esistenza dell’immunità, le Regioni
manderanno al Senato la “feccia” della classe politica italiana. Al solito, come si diceva, è proprio
quest’approccio, aprioristicamente pessimista, quindi pregiudiziale, che indebolisce le pur giuste
critiche sulla seconda Camera: ferma restando l’inopportunità della previsione dell’immunità per i
consiglieri-senatori, nessuno (almeno non gli scienziati sociali, che – direbbe Max Weber – non
sono profeti) può sapere, ora, l’uso che davvero si farà di quest’immunità. Purtroppo, basta un
dettaglio negativo del genere – irritante ed impopolare, su cui demagogicamente decine di
commentatori hanno avuto buon gioco a sprecare fiumi di parole – per indurre tanta gente a
rigettare per intero la riforma… buttando così il bambino insieme all’acqua sporca.
Un altro, questo a mio avviso più grave, difetto della riforma – di cui invece si parla molto
meno – è la mancata, reale, tutela delle minoranze parlamentari. È chiaro che il modello generale
di forma di governo derivante dal d.d.l. “Renzi-Boschi”, anche in accoppiata con la legge elettorale,
rafforza soprattutto maggioranza ed esecutivo. N.b.: dico subito che – a differenza di tanti colleghi
639
conservatori, fermi all’iper-parlamentarismo classico del 1948, estrema reazione a vent’anni di
dittatura – non mi straccio le vesti per questo effetto, che permette a chi governa di farlo senza
eccessivi lacci e lacciuoli, assumendosi la responsabilità delle sue azioni, praticamente per tutta la
legislatura, ed è in sintonia con la larga maggioranza degli ordinamenti costituzionali d’Europa e
del mondo.
Quel che mi lascia perplesso, invece, è la mancata introduzione – quale “contrappeso” a
questo punto necessario, a mio avviso anzi indispensabile – di un ricorso preventivo della
minoranza parlamentare alla Corte costituzionale, come previsto ormai in moltissimi ordinamenti
anche europei. Insisto, ormai da più di vent’anni, sulla necessità di un’introduzione generalizzata –
accanto al sindacato successivo di costituzionalità – del ricorso preventivo alla Corte quale garanzia
costituzionale per tutti, in primo luogo delle minoranze/opposizioni parlamentari.
Ma invano, fino a questo momento, che almeno vede l’insufficiente, ma positiva, previsione
del ricorso preventivo per le sole leggi elettorali.
5. (segue):… e i difetti “falsi”, ovvero le critiche strumentali, alla riforma
Accanto ai ricordati difetti “reali” della riforma, essenzialmente legati alle incertezze sulle
funzioni del nuovo Senato, spesso i fautori del «no» al referendum elencano una panoplia di difetti
“finti”, o almeno tali a chi scrive paiono. Provo a ricordarne alcuni.
Dopo quella sulla composizione (non sulle funzioni) del Senato, la critica più forte e
pregnante è quella sulla riduzione dei poteri delle Regioni. È senz’altro vero che – se passa la
riforma – le Regioni subiranno una deminutio delle loro competenze. Si tratta però di stabilire se
tale riduzione sia un bene e, ove fosse un bene, se è stata ben congegnata.
Per rispondere correttamente a questo interrogativo, bisogna tener conto del fatto che le
nostre Regioni, com’è noto, hanno ricevuto – ormai 15 anni or sono, con la novella costituzionale di
riforma del Titolo V della Parte II Cost., approvata nel 2001 per contenere le tendenze secessioniste
della Lega Nord – una straordinaria quantità di funzioni, che in larga parte nemmeno hanno
esercitato o comunque nemmeno hanno saputo esercitare. Insomma, non avrei dubbi sul fatto che il
640
bilancio delle funzioni di gran parte delle Regioni italiane, non solo di quelle meridionali – con le
solite eccezioni (Toscana, Emilia Romagna, Trentino…) – sia stato largamente deficitario e
caratterizzato da molti sprechi. La classe politica di questi importantissimi enti locali raramente si è
rivelata all’altezza dell’immane compito ricevuto. La riprova di quanto si afferma è nella
giurisprudenza della Corte costituzionale che, in questi ultimi 15 anni, nelle controversie fra Stato e
Regioni, molto spesso ha dato torto a queste ultime, riducendo/contenendo per via pretoria le
straripanti competenze regionali.
In fondo, la riforma – abolendo, in teoria, la potestà concorrente – non fa altro che
“fotografare” lo stato dell’arte dei poteri regionali siccome ora delineato dal Giudice delle leggi.
Anzi forse, per certi versi, lo fa in modo meno severo di quanto non abbia operato la Corte
costituzionale in questi anni. Se teniamo conto di tale aspetto, al contrario di quanto è stato detto:
non è vero che ci sarebbero, più che in passato, incroci e sovrapposizioni di materie fra
Stato e Regioni: ovviamente i contrasti ci saranno sempre, soprattutto nel caso
eccezionale di applicazione della c.d. clausola di supremazia statale, ma plausibilmente
in via ordinaria ci saranno meno conflitti per incroci e sovrapposizioni;
non è vero che potrebbero sorgere problemi almeno per le leggi bicamerali di interesse
regionale, visto che il Senato non dà più la fiducia. Al contrario, ciò per un verso
rafforza la funzione di prevalente rappresentanza territoriale del Senato e, per l’altro,
rafforza il Governo;
non è vero che si possano ipotizzare controversie insanabili sulle competenze fra le due
Camere: il penultimo comma dell’art. 70 prevede che i due Presidenti delle Camere
risolvano tali conflitti «d’intesa fra loro» ed in ogni caso esiste sempre la possibilità di
ricorrere alla Corte costituzionale, quale extrema ratio;
non è del tutto vero che «in varie materie ora di competenza esclusiva statale il
legislatore dovrebbe delimitare (peraltro in sostanza senza limiti) alcune aree di
competenza delle Regioni» (Ugo De Siervo). Sarà invece sempre la Corte a “decidere”,
alla fine, i “confini” dell’autonomia regionale e lo Stato non avrà dunque un potere
assoluto;
641
non è vero che l’introduzione della c.d. clausola di supremazia, di prevalenza o di
salvaguardia («la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla
legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della
Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale»: art. 117, IV c.) cancella
l’autonomia regionale, anche perché Presidente della Repubblica e Corte costituzionale
avrebbero «difficoltà» ad intervenire in questi casi (per tutti: Emanuele Rossi). Al
contrario, sia il Presidente che la Corte possono – anzi debbono – intervenire per evitare
abusi, soprattutto quest’ultima in via definitiva, quale garante finale della Costituzione e,
quindi, anche dell’equilibrio fra Stato e Regioni. Inoltre, non va dimenticato che esiste
un equilibrio complessivo di pesi e contrappesi: alla “clausola di salvaguardia”, infatti,
corrisponde un’importante “norma di chiusura pro Regioni” (spetta alla Regione la
potestà legislativa «in ogni materia non espressamente riservata alla competenza
esclusiva dello Stato»: art. 117, III c.).
non è vero che la riduzione dei poteri nelle 15 Regioni di diritto comune si rivelerebbe
dannosa per le 5 Regioni a Statuto speciale: al contrario, in tal modo, si giustifica
razionalmente la specialità. Mentre la precedente riforma del Titolo V incrementava
spropositatamente le competenze delle Regioni comuni, rendendo praticamente inutile la
specialità – che dunque a ragione avrebbe dovuto cancellarsi vista la tendenziale
omogeneità di poteri fra Regioni – la riduzione delle competenze per le Regioni di
diritto comune, con la riforma “Renzi-Boschi”, esalta le motivazioni della specialità e la
legittima, riconoscendo che appunto solo la specialità di tali Regioni giustifica il fatto
che abbiano più poteri;
non è vero che, se passa la riforma, le Regioni si ridurranno a semplici, «grossi enti
amministrativi» (Ugo De Siervo). Al contrario disporranno di un’ampia potestà
legislativa “esclusiva” su un significativo campo di materie, sui cui potranno finalmente
esercitare in modo tendenzialmente pieno le proprie competenze.
Un altro difetto, a mio avviso falso, segnalato dalla dottrina è l’ipotesi che l’elezione di 2
giudici costituzionali da parte del Senato introduca «una pericolosa logica corporativa che potrebbe
fortemente irrigidire i rapporti interni» alla Corte. Francamente non vedo perché: tale elezione
642
rafforza il ruolo del Senato e, con esso, le autonomie regionali, ma ciò non toglie che i giudici
costituzionali restino indipendenti e non siano, quindi, rappresentativi delle realtà locali.
Parimenti, almeno a parere di chi scrive, falso difetto è pure il paventato rischio di
politicizzazione della Corte per l’attribuzione ad essa del sindacato preventivo sulla legge elettorale,
che a mio avviso, invece è solo un timido riconoscimento dei più ampi poteri di controllo
preventivo che – già lo ricordavo prima (cfr. § 4) – in genere ad essa dovrebbero spettare a tutela
della minoranza/opposizione, a maggior ragione in un sistema che rafforza governo e maggioranza.
Infine, pure falsi difetti mi sembrano quelli, più volte segnalati, di un presunto
indebolimento degli strumenti e degli organi di garanzia: al contrario, la Corte costituzionale non
subisce alcuna deminutio (anzi viene rafforzata dal potere di sindacato preventivo sulle leggi
elettorali) e il Capo dello Stato sarà ancora più super partes e rappresentativo dell’unità nazionale:
per la sua elezione, infatti, occorrerà una maggioranza più ampia di quella attualmente prevista.
E potrei continuare nell’elenco dei difetti che, a mio personalissimo avviso, paiono falsi…
6. I pregi, o melius: i vantaggi della riforma
Senza certo negare alcuni svantaggi e imperfezioni (§ 4), ma anche senza dimenticare che
molte critiche sono “preconcette” o “pregiudiziali”, e quindi, molti difetti sono solo presunti (§ 5), è
difficile non riconoscere alcune cose buone, talvolta anche piccole, che la riforma costituzionale
porta con sé. Con questo spirito, non rassegnato ma costruttivo, provo ad elencarle:
eliminazione di un inutile CNEL, che certo non ha dato buona prova nella storia
repubblicana: si tratta di un piccolo risparmio, ma costituisce soprattutto la cancellazione del
“simbolo” degli enti inutili che pullulano in Italia;
eliminazione di un bicameralismo perfetto e paritario per farraginosità unico al mondo. Da
decenni si auspica questo risultato, giustificato ex post sulla base di un’ipotetica maggiore
ponderazione della produzione legislativa, ma in realtà causa di inutili riti, che rallentano e
danneggiano la funzionalità dei lavori parlamentari;
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riduzione, pur minima, delle spese e del numero dei membri della c.d. “casta politica”. La
riduzione dei senatori da 315 a 100 non è molto, ma è già qualcosa. Certo sarebbe stato
preferibile anche ridurre il numero dei deputati, ma – come ho ricordato – l’ottimo è nemico
del bene;
eliminazione dei cinque senatori “a vita” di nomina presidenziale (art. 59, II c.): adesso la
carica è solo settennale e – fatti salvi gli ex Presidenti della Repubblica (art. 59, I c.) –
sparisce l’idea di incarichi «a vita», poco conforme alla tradizione costituzionale italiana e al
principio democratico;
eliminazione delle Province e riduzione “ragionata” dei poteri delle Regioni. Si è posto così
rimedio alla follia della precedente, caotica, riforma cripto-federalista del titolo V, fonte di
innumerevoli contrasti fra Stato e Regioni. A ben vedere, ora si propone alla fine un discreto
equilibrio fra Stato (clausola di salvaguardia) e Regioni (norma di chiusura pro Regioni),
che però naturalmente solo i fatti ci diranno se e come funziona. In ogni caso, una riduzione
razionalizzata delle competenze regionali non significa affatto cancellazione dell’autonomia
regionale;
la creazione di una corsia preferenziale per i disegni di legge del Governo «essenziali per
l’attuazione del programma»: il c.d. “voto a data certa”. È una novità importante, che
avvicina il nostro ordinamento ad altri europei, ed è prevista dall’art. 72, VII c., per buona
parte dei procedimenti monocamerali. In tal modo si razionalizzano i rapporti fra Governo e
Parlamento e il secondo non rischia più di diventare una “palude” per il primo;
una corposa limitazione dei decreti-legge. Per decenni tutti i costituzionalisti hanno
lamentato dell’abuso della decretazione d’urgenza, criticando il carattere meramente
persuasivo e non vincolante dei limiti posti con la legge n. 400 del 1988. Oggi finalmente,
nel nuovo art. 77, quei limiti vengono elevati al rango di parametro costituzionale. Mi pare
una disposizione che, limitando opportunamente i poteri del Governo, fa da pendant
equilibrato a quella che prevede, invece, il c.d. “voto a data certa”;
la proroga dell’efficacia dei decreti-legge, di trenta giorni, nel caso di “rinvio” del
Presidente della Repubblica, su cui da tempo la dottrina opportunamente insisteva;
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la possibilità di un giudizio preventivo sulla legge elettorale. Ancora troppo poco, dal mio
punto di vista, ma meglio di niente: si tratta, comunque, di una previsione certo non filo-
maggioritaria;
l’introduzione del referendum popolare propositivo e di indirizzo (art. 71, IV c.) e la nuova
disciplina del referendum abrogativo. Nel primo caso non v’è dubbio che si rafforzi la
democrazia partecipativa; nel secondo, più controverso, è certo che comunque, almeno
quando si raccolgono più di 800.000 firme, il quorum ora richiesto – essendo calcolato sul
numero «dei votanti alle ultime elezioni» – si abbassa parecchio a tutto vantaggio degli
elettori-cittadini;
l’introduzione di un’espressa tutela delle minoranze/opposizioni (art. 64, II c.), anche se per
ora piuttosto vaga e teorica, rinviandosi ai regolamenti delle Camere;
l’incremento della «tutela di genere» nelle leggi elettorali per le Camere e per le Regioni
(artt. 55 e 122), anche se nulla in merito espressamente dice la normativa transitoria.
Naturalmente anche gli aspetti della riforma ora ricordati presentano – ad un’analisi svolta
funditus, in questa sede impossibile – alcune imprecisioni, talune sviste tecniche e qualche
incertezza, ma ad avviso di chi scrive sono sicuramente positivi: con questo spirito andrebbero
valutati ed implementati attraverso il (presumibilmente lungo) processo di attuazione.
Se, come s’è detto all’inizio (cfr. § 2), non è più il tempo di immaginare la “migliore”
riforma costituzionale possibile, ma di decidere ora su “questa” riforma, presa per intero – ossia nel
bene e nel male – occorre valutare laicamente, quindi razionalmente e non pregiudizialmente, i pro
e i contra. Dei “veri” difetti si è detto. Della cortina fumogena dei “falsi” difetti pure. I pregi sono
appena stati elencati. Si tratta perciò di ponderare gli uni e gli altri e di valutare secondo il principio
non tanto del meglio astratto, quanto del bene parziale possibile (o del minor male).
Almeno per chi scrive, questa ardua e difficile attività del bilanciamento, porta a ritenere
che, votando «sì» il cittadino porterebbe all’incasso, accanto ad alcuni problemi, un mucchio di
vantaggi e l’ordinamento ne trarrebbe non pochi benefici. Insomma, mi pare che, “alla fine” – n.b.:
complessivamente – la bilancia penda più per i vantaggi e che, dunque, i pregi siano maggiori dei
difetti. Insomma: meglio la riforma costituzionale, pur imperfetta, che la Costituzione invariata, con
tutti i suoi evidenti e pluridecennali limiti.
645
Ma questa è, ovviamente, solo la mia opinione, molto schietta (e appena argomentata, vista
la sede).
Molti giuristi invece, forse la maggioranza, sono soggetti alla nota sindrome della
“conservazione dell’esistente” di fronte ad ogni “cambiamento”, per una discutibile forma mentis,
che porta S. Cassese, nel suo diario sull’esperienza alla Corte, a dire che talvolta il diritto «è una
prigione, perché è un mondo incatenato alla tradizione e ai precedenti, anche dove non ce n’è
bisogno». E a ragione il giudice costituzionale emerito cita una frase di un anestesiologo di Harvard
chiamato a definire la morte celebrale: «i giuristi sono quelli che ritengono che non si possa mai
fare qualcosa per la prima volta». Ecco, molti costituzionalisti – forse inconsapevolmente
(trattandosi di forma mentis diffusa) – hanno paura del nuovo, quale che sia: figuriamoci di una
riforma di queste proporzioni!
Nel momento in cui mi esprimo, l’esito del referendum è assai incerto e la recente
esperienza inglese della Brexit conferma, ove ve ne fosse bisogno, l’assoluta imprevedibilità dei
sondaggi e della stessa volontà popolare. È plausibile che vinceranno i «no», non tanto perché il
corpo elettorale si sarà formato un’opinione matura fondata su argomentate ragioni tecnico-
giuridiche, quanto per le più svariate motivazioni possibili, non ultime legate al contesto politico.
Temo, dunque, che – ben al di là delle diatribe tecniche fra costituzionalisti – il voto
referendario sarà un voto “di pancia” più che “di testa”.
Perché non so ancora come voterò al referendum sulla riforma Renzi-Boschi
di Antonio Ruggeri*
Desidero, innanzi, tutto esprimere il mio grazie di cuore a tutti i partecipanti a questo
incontro di studio dal quale personalmente esco molto arricchito. Confesso, tuttavia, che, malgrado
le non poche chiarificazioni avute in relazione ai numerosi dubbi che la lettura del testo di riforma
ha in me sollevato, mi porto ancora dentro alcune incertezze che non mi consentono di esprimermi
in modo risoluto né per il sì né per il no all’interrogativo circa l’atteggiamento da tenere in
occasione della prova referendaria di autunno. Invidio coloro che, invece, hanno un convincimento
incrollabile che, però, come tenterò di mostrare, non mi parrebbe essere incoraggiato dall’articolato
portato al nostro esame.
Alcune avvertenze preliminari, prima di dire perché.
La prima è legata all’ordine cronologico degli interventi al nostro incontro. A me non tocca
fare – come suol dirsi – una relazione di sintesi, qui peraltro praticamente impossibile a motivo
della varietà delle questioni fatte oggetto di esame e delle relative prese di posizione, ma solo di
svolgere un intervento che si aggiunge agli altri e conclude la serie. Parlare, ratione aetatis, per
ultimo è poi – come si sa – un vantaggio ma anche uno svantaggio. È la seconda cosa, dal momento
che molte delle osservazioni che mi ero ripromesso di fare sono già state anticipate da altri (è
interessante notare: sia da coloro che si sono schierati dall’una o dall’altra parte e sia pure da quelli
che si sono dichiarati a tutt’oggi indecisi). Dunque, non ha alcun senso che io torni a ripeterle,
anche se qualche punto dovrò necessariamente sfiorarlo al fine di rendere conto della mia posizione.
È però anche la prima cosa, perché i rilievi fatti, per un verso, mi sono serviti a mettere
meglio a fuoco alcuni profili della riforma che mi apparivano ancora confusi ed appannati, mentre,
per un altro verso, mi hanno dato lo spunto per riflessioni che non avevo dapprima fatto ed alle
quali ora rapidamente accennerò.
* Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università di Messina.
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La seconda avvertenza è che non credo (e mi pare che nella stessa linea d’onda si siano già
espressi, pur da varie prospettive e con parimenti varia argomentazione, A. Morelli, G. D’Amico,
C. Panzera, A. Randazzo, G. Sorrenti, A. Spadaro) che debbano trovare spazio nei nostri discorsi
argomenti di ordine politico, di opportunità, quali quelli largamente circolanti in molti ambienti
secondo cui, nel caso che la riforma dovesse essere bocciata, si aprirebbero scenari inquietanti per
effetto delle dimissioni del Governo, il quasi certo appello al corpo elettorale, il salto nel buio che
ne conseguirebbe, l’aggravarsi del quadro economico, ecc. È vero che ciascuno di noi è, a un
tempo, un cittadino ed uno studioso di diritto costituzionale; perlomeno noi, però, se non pure
l’uomo della strada, dobbiamo ambientare la nostra analisi al piano congeniale a quello della nostra
formazione professionale non consentendo che risulti inquinata dalla considerazione di elementi ad
esso estranei. Altrimenti, cadremmo anche noi nella trappola di fare un uso congiunturale della
Costituzione – come mi è venuto di dire in altre occasioni (ed ha oggi ribadito A. Morelli) –, non
prestando attenzione a ciò che essa può (e deve) rappresentare nel lungo periodo, alle conseguenze
(buone o cattive che siano) che possono aversene per effetto delle sue previsioni.
La terza avvertenza è che scopo del nostro incontro non è – a me pare – quello di misurarci
su questioni pure di straordinario interesse teorico, che trovano (e devono) trovare spazio negli
scritti di carattere scientifico ma che non possono averne in un’occasione, quale quella odierna, in
cui siamo chiamati unicamente a soppesare i pro ed i contra all’approvazione della riforma,
determinandoci quindi di conseguenza. Lo hanno fatto notare F.F. Pagano ed altri, tra i quali A.
Spadaro, in un argomentato passaggio del suo intervento: oggi, così come quello davanti alle urne, è
il giorno della decisione, non della riconsiderazione al piano teorico-astratto di questioni pur
meritevoli della massima attenzione. Per questa ragione, non riprenderò la questione sollevata da G.
Moschella, a cui opinione una riforma della portata di questa avrebbe, con ogni probabilità, dovuto
essere opera di un’Assemblea Costituente. È un argomento che – com’è noto – è sotteso all’avviso
di quanti hanno fatto notare, con toni fortemente preoccupati, che la riforma minaccia di far crollare
le stesse basi portanti, i principi fondamentali, dell’ordinamento costituzionale vigente e, perciò, si
sono schierati risolutamente per il no, a difesa della Costituzione appunto. G. Moschella ha tenuto a
precisare di non condividere questa preoccupazione; e anch’io, al pari di altri (anche tra coloro che
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sono intervenuti al nostro dibattito), desidero esprimermi nel senso che questa riforma non mette a
rischio le basi su cui è costruito l’ordine repubblicano.
La tesi secondo cui le grandi riforme, pur laddove si dimostrino essere nel segno della
continuità rispetto ai fini-valori fondamentali della Repubblica, possano essere fatte solo da
un’Assemblea Costituente è, nondimeno, da tempo presente nel dibattito scientifico del nostro
Paese. Mi limito al riguardo solo a rammentare che, ai tempi del discutibile (e discusso) messaggio
del Presidente Cossiga sulle riforme istituzionali nel quale questa soluzione era stata delineata
unitamente ad altre, molti di noi hanno fatto notare che, col fatto ed al momento stesso di dar vita
ad un’Assemblea siffatta, per un verso, viene ad essere definitivamente ed irreversibilmente
delegittimata la Costituzione vigente, nel mentre, per un altro verso, nessuna certezza si ha né che la
Costituente riuscirà a sfornare una nuova Carta costituzionale né (e soprattutto) che quest’ultima
sarà migliore della vecchia. D’altro canto, le Costituenti non nascono di certo come i funghi dopo
una notte di pioggia, a caso: nascono – come l’esperienza storico-comparata c’insegna – a seguito
di fatti traumatici, di veri e propri fattori politici, prima ancora che giuridici, di discontinuità
costituzionale, quali guerre, rivolgimenti istituzionali interni, ecc. Mi chiedo: siamo già nel nostro
Paese in una situazione disperata siffatta?
Quarta avvertenza, con la quale per vero entro già in medias res. Non esiste – che io sappia
– Costituzione o legge costituzionale di ordinamento liberal-democratico (con la sola eccezione,
forse, della legge che ha consentito il ritorno in Italia dei discendenti maschi di casa Savoia) che
non abbia subito anche gravi, vistose e ripetute torsioni in sede d’implementazione nell’esperienza:
in breve, corpose e diffuse modifiche tacite, come si è soliti chiamarle. Altamente istruttiva al
riguardo appare essere la vicenda del Titolo V riformato nel 2001, con la “riscrittura” – com’è stata
chiamata da una sensibile dottrina – cui è andato soggetto, specie per mano della giurisprudenza
costituzionale. Non foss’altro che per questa ragione, la riforma Renzi-Boschi non va, dunque,
sovraccaricata di attese che, fatalmente, potrebbero restare deluse. È un’avvertenza, questa che ora
ripropongo, che ho già anticipato in un altro mio commento, corredandola di alcuni esempi (uno
solo per tutti: è verosimile pensare, come molti hanno fatto notare, che la potestà concorrente,
malgrado la sua formale rimozione, possa “risuscitare” facendo leva su alcuni disposti connotati da
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strutturale ambiguità semantica o – come pudicamente si è soliti dire – “elasticità”, quali quelli che
danno modo allo Stato di porre le “disposizioni generali e comuni” relative ad alcune materie).
Naturalmente, quest’avvertenza non va esasperata, altrimenti dovremmo concludere nel
senso che non v’è motivo di chiedersi come votare al referendum (anzi, e di più, di andare a
votare…) e che, a conti fatti, la Costituzione e le leggi costituzionali sono pezzi di carta che non
servono a nulla, privi di autentica forza normativa. Quest’esito sconfortante ed inquietante non può,
però, trovare spazio né nei nostri discorsi di giuristi, quali pure quelli che andiamo oggi facendo, né
(e soprattutto) nel nostro quotidiano operare di cittadini fedeli alla Repubblica ed alla sua legge
fondamentale. Sappiamo, infatti, che la scrittura costituzionale ha pur sempre una sua capacità, ora
maggiore ora minore a seconda degli enunciati e delle circostanze, di delimitare l’area delle opzioni
interpretative fattibili, perché possiede l’attitudine a dare un orientamento (e, dunque, un limite) alle
pratiche giuridiche, anche a quelle espressive della maggiore carica di politicità e portate a
debordare da ogni argine positivamente eretto. Un’attitudine che, nondimeno, può sortire gli effetti
attesi sempre che attorno agli enunciati costituzionali si coagulino i più larghi e diffusi consensi,
tanto in seno alla comunità governata quanto tra gli organi di apparato. D’altronde, come si sa, il
vigore o la validità hanno costantemente bisogno di convertirsi in effettività. Quelli senza questa
non sono nulla, con questa sono tutto.
Ora, il tema delle modifiche tacite è tornato più volte e con varietà di accenti nel corso del
nostro dibattito, stranamente – a me pare – piegato a favore della tesi in cui gli uni o gli altri che lo
hanno evocato si riconoscono. È stato, infatti, osservato da parte di alcuni dei sostenitori sia del sì
che del no che ad alcune carenze della riforma (tra le quali, sopra ogni altra, quella relativa alla
elezione dei senatori, su cui tornerò) sarà possibile rimediare in sede di attuazione.
Ebbene, questo è – a me pare – un argomento che prova troppo e, a conti fatti, si neutralizza
da solo, potendo essere speso, come lo è stato, da entrambi gli schieramenti in campo. Quanto
all’attuazione, poi, mi dichiaro essere come San Tommaso: se non vedo, non credo; e, solo dopo
che l’avrò vista, potrò dire se mi piace o no (vorrei, poi, sapere se, in che misura e soprattutto in
quali forme la vedremo, specie qualora dovessimo assistere – ed è un’ipotesi che giudico
nient’affatto remota – ad un cambiamento di maggioranza politica alle prossime elezioni; non
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dimentichiamo, ad ogni buon conto, il saggio avvertimento di A. Morelli per cui persino la stessa
maggioranza che ha varato la riforma potrebbe poi far ostruzionismo alla sua attuazione).
Direi, comunque, di mettere da canto l’argomento dell’attuazione. In autunno tutti noi
saremo chiamati a pronunciarci su questa riforma, così com’è, non su quale potrà essere per effetto
dell’adozione dei provvedimenti richiesti per la sua implementazione nell’esperienza.
Con ciò credo di aver implicitamente precisato il mio pensiero anche a riguardo di una tesi,
da cui dunque desidero prendere le distanze, evocata da A. Randazzo e dovuta a S. Staiano, secondo
cui le carenze, ampiamente denunziate da numerosi commenti alla riforma, del linguaggio esibito
dall’articolato e la sua complessivamente scadente qualità tecnica potrebbero anche risolversi in un
vantaggio, agevolando il formarsi di prassi interpretative “sananti”.
Trovo francamente singolare e, a dirla tutta, stupefacente questo ragionamento: come dire,
generalizzandolo, che è meglio avere leggi scritte coi piedi, di cui è agevole prospettare
interpretazioni… manipolative, piuttosto che leggi ben fatte ma i cui contenuti, risultanti da
previsioni stringenti, non ci sono graditi…
Tutto ciò posto, è pur vero – lo ha fatto notare, se mal non ricordo, L. D’Andrea – che un
testo aperto a plurime letture costituisce una risorsa, non un difetto; il punto è però che, per un
verso, anche l’apertura in parola deve pur sempre avere un limite, non potendosi spingere oltre una
certa soglia al di là della quale scemerebbe fino a smarrirsi del tutto la vis prescrittiva degli
enunciati, e, per un altro verso, va comunque preservata e resa visibile l’identità e – vorrei dire –
l’anima di ogni testo normativo, tanto più ove si tratti – come qui – di una legge che innova a largo
raggio alla Carta. Temo, però, che il nostro testo non abbia né l’una né l’altra.
Qual è, infatti, la cifra identificante della riforma?
Per rispondere a modo a questa domanda, consiglierei di mettere da canto alcuni suoi
aspetti, invero non privi di significato, ai quali è stato fatto appello in molti interventi che mi hanno
preceduto. Li ha, tra gli altri, evocati uno ad uno, con la sua consueta attenzione, A. Spadaro, in
molti di essi rinvenendo argomenti a sostegno della sua posizione favorevole all’approvazione della
riforma: tra gli altri, la rimozione delle Province (a riguardo della quale – in disparte la questione di
fondo su cui mi sono già intrattenuto altrove e che vedo ora ripresa da S. Agosta circa la sua liceità,
stante la natura di tali enti di elementi costitutivi della Repubblica – direi che si è, piuttosto, in
651
presenza della loro “decostituzionalizzazione”, nulla a mia opinione escludendo che possano
“resuscitare” a mezzo di legge comune), del CNEL (v. sopra), la nuova disciplina in fatto di decreti-
legge (attinta dalla legge 400 dell’88 ma finalmente ora dotata di una forza non meramente
persuasiva bensì autenticamente prescrittiva), i ricorsi diretti avverso le leggi elettorali (che però,
come molti di noi hanno da tempo fatto notare e ci ha oggi rammentato S. Agosta, potranno
comportare il rischio della “politicizzazione” del giudizio della Consulta o, comunque, di letture
strumentali, in chiave politica appunto, dello stesso), persino la contrazione dell’autonomia
regionale, che – apprendo con un certo stupore – sarebbe ben vista, in considerazione del
rendimento complessivamente deludente avutosi per effetto della istituzione delle Regioni, ed altri
aspetti ancora su cui non mi parrebbe opportuno ora intrattenerci. Solo due parole tengo a dire in
merito all’ultimo punto appena richiamato, a motivo del suo speciale rilievo, facendo notare che la
ricetta giusta non mi parrebbe essere quella di dare il colpo di grazia ad un ente, la Regione, già
agonizzante, quanto piuttosto produrre ogni sforzo utile a cercare di curare il malato o, quanto
meno, di alleviarne le sofferenze, agendo su ogni fronte, a partire da quello interno al sistema
politico, su cui si reputi possibile attendersi buoni risultati. Ebbene, esattamente nella direzione
opposta a quella qui auspicata va la riforma, quanto meno (e specificamente) nel suo nuovo Titolo
V.
Ora, è appena il caso qui di accennare al fatto che le novità sopra elencate (ed altre ancora)
avrebbero potuto ugualmente aversi per effetto di leggi di revisione allo scopo specificamente
adottate (ad oggetto circoscritto), senza dover dunque far luogo ad una “riforma”, vale a dire ad una
riscrittura a largo raggio della Carta.
Queste novità (ed altre su cui si sono intrattenuti molti dei partecipanti al nostro incontro),
ad ogni buon conto, non rappresentano il fuoco del problema. Non è, dunque, ragionando su di esse
che possiamo rinvenire argomenti utili a pronunziarci in un senso o nell’altro al momento della
prova referendaria. Andiamo piuttosto al cuore del problema stesso e chiediamoci se, in relazione
ad esso ed all’esito di una attenta ponderazione degli elementi che lo compongono, consideriamo
questa, nel complesso, una buona ovvero una cattiva riforma.
Le due gambe, infatti, su cui essa cammina e si porta avanti sono date dal rifacimento del
Titolo V e del Senato. Su questo (e solo su questo), a mia opinione, giova concentrarci.
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Prima gamba. Non conosco scritto alcuno in cui non sia rilevato, con toni ora più ed ora
meno accesi e preoccupati, che la riforma penalizza gravemente l’autonomia regionale e che, a
conti fatti, trasuda centralismo da tutti i pori. Ovviamente, condivido questo crudo giudizio, oggi
ripreso da M. Quattrocchi e da altri; mi limito solo, al riguardo, a far notare che, per l’aspetto ora
considerato, la riforma in fondo non fa che fotografare l’esistente, “razionalizzando” in buona
sostanza una giurisprudenza costituzionale marcatamente sensibile più alle istanze di unità che a
quelle di autonomia. Forse, non è un azzardo dire che la giurisprudenza va persino oltre, nel senso
che la riforma è troppo timida e cauta dando un’immagine dell’autonomia “abbellita” rispetto a
quella emergente dal diritto costituzionale vivente.
Nella sua parte relativa al Titolo V, la Renzi-Boschi appare, dunque, essere una riforma-
bilancio, più che una riforma-programma, volendo ad essa ora adattare note etichette coniate per le
Costituzioni di Paesi connotati da forme di Stato diverse.
Così stando le cose, viene da pensare che – riforma sì o riforma no – il trend
giurisprudenziale prevedibilmente seguiterà qual è stato sin qui, anche perché in tal senso premono
spinte che poco o nulla hanno a che fare col testo costituzionale (il vecchio come il nuovo) e che
piuttosto si fanno riportare alla crisi economica soffocante in atto (vorrei oggi aggiungere, avendo
rivisto questo intervento all’indomani della Brexit, che è da mettere in conto un’ulteriore
accelerazione della crisi dagli imprevedibili, negativi effetti).
Il rigurgito centralista, d’altro canto, è – come si sa – di portata persino interordinamentale,
connotando i rapporti intercorrenti tra Unione europea e Stati e quindi riflettendosi a cascata su
quelli interni a questi ultimi. Si pensa infatti – a parer mio e di altri, a torto – che al fine di far fronte
ai vincoli viepiù stringenti che ci vengono imposti dall’Unione e dalla Comunità internazionale sia
necessaria, comunque inevitabile, una piatta ed incolore uniformità degli interventi in ambito
interno e, di conseguenza, un forte centralismo degli stessi.
Allo stesso tempo, in cui tutto ciò spinge per il rafforzamento dell’apparato centrale dello
Stato e a detrimento delle autonomie, spinge altresì per una sensibile accentuazione del ruolo di
direzione politica del Governo ed a discapito del Parlamento, con grave torsione degli equilibri
istituzionali delineati dalla Carta, secondo quanto hanno, tra gli altri, fatto notare A. Citrigno e G.
Moschella. Proprio in questa luce può dunque essere colta la ratio della riforma del Senato che, per
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il fatto stesso di ridimensionare la posizione costituzionale dell’organo, porta naturalmente a
rimarcare il ruolo di centralità del Governo – e, per esso, specificamente, del Presidente del
Consiglio – nel sistema delle istituzioni della Repubblica. Una centralità che, peraltro, è da alcuni
vista – come si sa – di buon occhio, mentre da altri come il fumo negli occhi; rammento, a
quest’ultimo riguardo, lo scoop fatto da G. D’Amico (o, come lui stesso l’ha chiamato, il
divertissement) con la citazione di un pensiero di V.E. Orlando: efficacissimo, senza dubbio, ma
anche – a me pare – esagerato, sia con riferimento al dettato originario della Carta, secondo quanto
ha peraltro avvalorato una pluridecennale esperienza, e sia pure in merito alla riforma in commento,
ove si convenga che altro è il pur innegabile rafforzamento del Governo (e, in esso e per esso, del
Presidente) ed altra cosa un regime “totalitario” imperniato sullo strapotere del Premier, secondo la
passionale denunzia del Maestro palermitano fondatore della Scuola di diritto pubblico in Italia.
La composizione della seconda Camera appare essere un autentico pastrocchio: l’esito
naturale, ma appunto indesiderabile, di un compromesso (al ribasso…) tra le componenti del PD,
cui Renzi e la maggioranza che lo sostiene hanno dovuto piegarsi pur di portare all’incasso la
riforma. A riguardo dell’emendamento apportato al testo originario, nella parte in cui esige che la
scelta dei senatori risulti conforme al risultato delle elezioni, non siamo, comunque, oggi in grado di
dire se potrà essere, almeno in una certa misura, corretto dalla legge di attuazione – come, forse con
ingiustificato ottimismo, ritengono L. D’Andrea ed altri – o, addirittura, peggiorato (torna – come si
vede – a riproporsi la questione, cui ho inizialmente accennato, dell’attuazione quale strumento
double face).
In merito alla struttura della seconda Camera, tutti noi avremmo voluto, come anche nel
corso del nostro dibattito è stato ribadito da A. Morelli e da altri, che in essa prendesse corpo
un’autentica rappresentanza territoriale, che però qui a conti fatti non si ha (e, se si ha, la si ha
comunque in forma sgraziata). È stato, peraltro, fatto notare (specie da A. Rauti, A. Morelli e G.
Sorrenti) che dietro (ed anzi dentro) le istituzioni ci sono i partiti, la cui organizzazione – come,
ancora da ultimo, ci rammenta G. Sorrenti – si connota per un soffocante centralismo. Dunque,
anche se avessimo avuto una genuina rappresentanza territoriale si sarebbe pur sempre trattato di
una rappresentanza – diciamo così – “partitico-territoriale”. Raccolgo, al riguardo, l’invito di L.
D’Andrea a rigettare «ogni ipotesi di separazione dicotomica» tra «pluralismo territoriale e
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pluralismo politico-partitico», altrimenti l’ordinamento si troverebbe innaturalmente obbligato «ad
optare tra il valore autonomistico ed il valore democratico, che invece nella fisiologia del
costituzionalismo contemporaneo sono chiamati a rendersi compatibili (anzi, meglio, a convivere in
felice sinergia)».
Insomma, l’enunciato relativo alla composizione del Senato esibisce una sua non rimossa,
consustanziale ambiguità che lo rende potenzialmente idoneo a svuotare la rappresentanza delle
«istituzioni territoriali» – come la riforma la qualifica – della sua stessa ragione giustificatrice.
Se, poi, dalla norma sulla composizione passiamo a quelle relative alle funzioni e al ruolo
dell’organo, ancora una volta ricaviamo conferma del carattere confuso ed appannato,
pericolosamente oscillante, dell’articolato in esame.
L’oscillazione del pendolo è, infatti, a tutto campo.
Per un verso, la figura appare sbiadita ed incolore, come quella di chi fa poco o nulla,
comunque poco di rilevante (al di fuori della perdurante sua partecipazione, su basi di parità con la
Camera, alla formazione delle leggi costituzionali), privata com’è del suo potere maggiormente
qualificante: quello di dare e togliere la fiducia al Governo.
Per un altro verso, non soltanto si ha l’impressione di un organo che seguita a concorrere
alla direzione politica ma – di più – che possa in potenza proporsi addirittura come il massimo
decisore politico, sol che si pensi che ad esso soltanto è riservata la non meglio precisata funzione
di “raccordo” con l’Unione europea (termine che ho altrove qualificato “autostradale” e non
giuridico…), nonché la partecipazione, in fase sia ascendente che discendente, ai processi politico-
normativi attivati presso l’Unione stessa e bisognosi di svolgimento e completamento in ambito
interno, vale a dire nascenti in uno di quei “luoghi” istituzionali situati all’esterno delle mura
domestiche in cui ormai si prendono le maggiori decisioni politiche (altri luoghi a questo analoghi
si trovano in seno alla Comunità internazionale, ma su ciò non è qui possibile intrattenersi).
Ora, la domanda cruciale che mi pongo (ed alla quale ancora oggi confesso di non saper
dare sicura risposta) è la seguente: quale autorevolezza e credibilità può esprimere un Senato
estromesso dal circuito politico-fiduciario nel momento in cui è chiamato ad esercitare la funzione
di “raccordo” in parola? Qualora, per una misteriosa ragione, di siffatta auctoritas dovesse aversi
riscontro, sarebbe una contraddizione insanabile col mancato inserimento dell’organo nel circuito
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suddetto. Se, di contro, non dovesse aversi, a che servirebbe la previsione del “raccordo” in parola?
Quali, cioè, i risultati che da esso possono in concreto attendersi? Seguito al riguardo a considerare
non del tutto persuasiva la spiegazione datane da L. D’Andrea che anche nel corso del nostro
incontro mi ha invitato a vedere nell’ambigua indicazione costituzionale in ordine al “raccordo”
null’altro che ciò che risulta già al presente previsto dal protocollo sulla sussidiarietà
(«un’istituzione di relazione», ci ha detto L. D’Andrea, appare essere il nuovo Senato; un
riferimento alla sussidiarietà è anche in A. Arena).
In disparte, però, la circostanza per cui nessuna sicurezza si ha che è proprio il protocollo
suddetto che aveva in mente l’autore dell’articolato, non si trascuri che altro è il ruolo ritagliato dal
protocollo medesimo a beneficio di assemblee parlamentari che possono dare e togliere la fiducia al
Governo ed altra cosa ciò che può fare (ed è giusto che faccia) un’assemblea amputata di siffatto
potere. Ripropongo, perciò, il mio quesito: v’è coerenza tra le due cose, tra il ruolo squisitamente
politico delineato nel protocollo suddetto e l’estromissione dal circuito fiduciario? E, se non v’è,
cosa mai potrà significare il “raccordo” in parola?
Come che sia di ciò, ho l’impressione – potrei sbagliarmi, ma questo è ciò che oggi mi viene
da pensare – che il Senato conterà sempre di meno, risultando pertanto gradatamente emarginato dal
gioco politico (principalmente appunto in quanto tagliato fuori dalla relazione fiduciaria), fino a
quando – non saprei dire se tra dieci anni o di più o di meno – non si riuscirà a prendere con
coraggio la decisione che – come molti hanno fatto notare – già avrebbe potuto essere presa,
cancellandolo definitivamente dalla lavagna costituzionale (d’altronde, con la riforma viene a
disegnarsi – secondo la efficace, ma forse un po’ forzata, qualificazione datane da S. Agosta – un
monocameralismo “abbellito”).
Davanti all’immagine del nuovo Senato dipinta con mano insicura dall’autore della riforma
mi viene, in conclusione, di riproporre la provocazione che ho già avanzato in altri commenti, vale a
dire che se, per una inspiegabile ragione, si fosse dovuto scegliere un solo luogo istituzionale in cui
assicurare la partecipazione delle Regioni e delle altre autonomie territoriali presso l’apparato
centrale dello Stato, nell’alternativa tra Parlamento e Governo non avrei avuto esitazione alcuna ad
optare per quest’ultimo piuttosto che per il primo, ove si convenga che il cuore del processo
decisionale è, ormai da tempo, nel secondo e non già nell’organo che pure dà il nome alla forma di
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governo prescelta per il nostro Paese dal Costituente. È stato, infatti, un errore grave, ad opinione
mia e di altri, non aver razionalizzato il sistema delle Conferenze e, in genere, aver disciplinato con
norme costituzionali i procedimenti di formazione degli atti del Governo, assicurandone l’attiva
partecipazione delle autonomie territoriali in genere (e della Regione in ispecie). La qual cosa, poi,
al pari di ciò che si è detto a riguardo delle Province, non vuol di certo dire che le Conferenze
saranno obbligate ad uscire di scena; potranno, piuttosto, seguitare ad operare sotto il regime per
esse previsto dalla normativa subcostituzionale. È chiaro, però, che non è la stessa cosa che se ne
abbia, o no, fondamento nella Carta novellata.
Vengo al dunque.
Se si è fatto caso, fin qui non ho speso una sola parola a sostegno della riforma, solo critiche
più o meno incisive, nei limiti personali di argomentazione cui questa, così come ogni altra, mia
riflessione va incontro.
Ebbene tutto ciò non deve far pensare che io punti diritto come un treno contro la riforma e
quanto essa di negativo con sé porta e potrebbe riversare a danno delle istituzioni della Repubblica
e della comunità governata. E, invece, confesso di essere ad oggi indeciso perché sull’altro piatto
della bilancia metto una cosa, una sola cosa, che considero buona e che, però, col suo peso
compensa quanto di non buono v’è sul piatto restante. Ed è data dall’idea, che giudico
metodicamente apprezzabile, anzi altamente apprezzabile, di mettere mano alla ristrutturazione
dell’apparato centrale e, segnatamente, del Parlamento, il grande malato del sistema, anche se
quest’idea ha qui trovato – come si è veduto – una traballante, per non dire pessima, realizzazione
(perlomeno sulla carta e salva la possibilità di apportarvi in seguito una qualche correzione). È,
tuttavia, importante appunto cominciare col porre fine a quel bicameralismo perfetto e
perfettamente inutile (anzi, dannoso), quale è stato da noi (non dico – si badi – che sia sbagliato in
astratto, per ogni ordinamento ed ogni tempo, ma solo appunto che nel nostro Paese ha avuto una
non buona riuscita), col porre cioè il primo mattone in vista di un più corposo rifacimento
dell’edificio; anche perché, se non si dà una buona volta l’avvio a quest’opera, il deterioramento
dell’edificio stesso non potrà che andare precipitosamente avanti.
La domanda – e con questo chiudo – alla quale però non mi sento ancora oggi in grado di
dare risposta è la seguente: potrà questo primo mattone, così com’è, sorreggere ciò che verrà posto
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sopra di esso o c’è il rischio che l’intera costruzione rovini miseramente a terra? E, se così dovesse
essere, chi di noi potrà sentirsi sgravato di colpe per non aver saputo o potuto impedire quest’esito?
Costituzione economica, costituzionalismo multilivello
e ‘leale conflittualità’ nel nuovo Senato (delle autonomie)
di Giampiero Di Plinio
(Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico,
Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara)
(26 luglio 2016)
Parto da una semplice constatazione. Non si può costruire una teoria interpretativa e tanto
meno valutativa di una riforma, specie di una riforma costituzionale complessa, se non si pongono
prima dei paletti, dei presupposti, che sono esterni alla pur articolata legge di revisione che andremo
a giudicare al referendum di ottobre. Più precisamente, sarebbe un devastante errore metodologico
valutare la riforma alla luce del passato, cioè alla luce del contesto socioeconomico e istituzionale
che precede il grande spartiacque rappresentato da Maastricht. Fino agli anni novanta, infatti, lo
scenario interno e anche internazionale era raffigurato da una ‘costituzione economica’ di tipo
interventista, e un modello di stato sociale/assistenziale di stampo keynesiano. L’effetto pratico era
quello dello smussamento dei conflitti, sia industriali che istituzionali, all’interno di una specifica
filosofia della “cornucopia inesauribile” della finanza pubblica. Di fronte a una crisi industriale,
mettiamo, in val di Sangro, la soluzione, per il grande ‘Zio’ dell’Abruzzo era semplice (e mi scuso
del tono ‘leggero’ che vuol essere tutt’altro che irriguardoso nei confronti di una Classe Politica di
altri tempi, ma comunque con la C e la P maiuscole). In elicottero o in auto, lui piombava a Palazzo
Koch, sede della Banca d’Italia, prendeva di petto il Governatore e gli chiedeva di stampare i due,
tremila miliardi necessari per tamponare la crisi, mediante l’oliatissima macchina del conto corrente
di tesoreria e della creazione di debito pubblico. Era dappertutto così, non solo in Abruzzo. La
GEPI e la Cassa per il Mezzogiorno, con un’altra miriade di enti, organi, uffici, tutti generosi centri
di costo, facevano il resto del lavoro. La spesa delle Regioni, dei Comuni era liquidata ex post, a piè
di lista, con manovre finanziarie sempre aggiuntive e sempre senza ‘spargimento di sangue’.
Nessuno (salvo le allora misteriose e sconosciute generazioni future) si faceva realmente male, in
un contesto in cui il teorema dominante dei bilanci pubblici era quello dell’incrementalismo senza
fine. Il problema dei conflitti tra Stato e Regioni, e tra Regioni, era solo un placido sistema di
negoziazione, sempre al rialzo, ‘win-win’ per tutti i contendenti. Come poteva, la collaborazione tra
Regioni e Stato, non essere ‘leale’?
La legge elettorale proporzionale, la duplicazione a specchio di Camera e Senato, i governi
di coalizione e quelli di compromesso, storico o meno, il dosaggio da ‘Manuale Cencelli’ di forze
politiche e correnti dentro Cipe, comitati di settore, enti pubblici economici, banche pubbliche,
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erano tutti ingredienti perfettamente compatibili, anzi in un certo senso conseguenziali, di una
costituzione economica puramente keynesiana, materna, amorevole, assistenziale, e di una
costituzione finanziaria in cui un capitolo di bilancio, alla fine, non si negava a nessuno. Erano i
tempi in cui la politica non aveva bisogno di scegliere tra un uso o un altro del denaro pubblico,
perché il pozzo del denaro pubblico era, appunto, inesauribile. O almeno così appariva.
Il brusco risveglio da questo meraviglioso sogno, negli anni novanta della globalizzazione e
negli anni duemila dei bilanci scritti da Bruxelles, nei nuovi tempi della installazione di una
novella, dolorosa, costituzione economica non più interventista né assistenziale, ha buttato il paese,
le sue forze politiche, le sue istituzioni, i suoi meccanismi costituzionali scritti per un altro tempo
dal Costituente, in mezzo a un inferno personale tipicamente italiano.
La politica, repentinamente, sì è trovata davanti alla necessità di operare delle scelte, di
stabilire priorità di spesa, di tagliare intere ramificazioni di intervento pubblico, di contrarre il ruolo
dello stato, senza possedere strumenti adeguati, con una macchina costituzionale costruita appunto
per un altro tempo e per un’altra costituzione economica, e ora inaspettatamente inceppata. Un
modello di macchina superata dal tempo, con strumenti e meccanismi ― coalizioni, dosaggi,
negoziazioni, proporzionale, bicameralismo perfetto e tanti altri ancora ― perfettamente
inutilizzabili, anzi controproducenti in maniera devastante di fronte alle sfide della nuova economia
e della nuova società.
Il mutamento della costituzione economica ha, dunque, reso irreversibile la necessità di un
mutamento delle fattezze e degli strumenti, insomma del modello, della macchina costituzionale. La
riforma Renzi-Boschi, pur nella sua complessità densa anche di ombre, e non solo di luci, ha
costruito questa nuova macchina, che si configura, nel suo mix con una legge elettorale realmente
maggioritaria, come modello razionale per la creazione di una democrazia rappresentativa coesa,
stabile e legittimata, in grado realmente di decidere, e capace di fronteggiare le esigenze della
nuova costituzione economica multilivello e post-assistenziale, fondata su crescita economica,
qualità della regolazione, efficienza della spesa pubblica ed equilibrio di bilancio.
A una maggiore stabilità dei legislatori e dei governi corrisponde dunque un più alto tasso di
democrazia, ma anche un più alto tasso di costituzionalismo, sia appunto perché la riforma ha
l’effetto di ri-bilanciare il sistema dei poteri proprio a favore delle istituzioni democratico
rappresentative sia perché introduce nuovi contropoteri ― senza toccare minimamente quelli già
660
esistenti ― potenziando gli istituti di democrazia diretta e riconfigurando il principio costituzionale
di autonomia territoriale, sancito nella ‘parte alta’ della Costituzione, all’art.5, nel nuovo Senato,
che crea, direttamente a Roma, un meccanismo aggiuntivo di checks & balances, fondato sul
riequilibrio della dimensione multilivello della democrazia rappresentativa.
A questo punto, osservo che nel futuro di questa riforma costituzionale, la “leale
collaborazione” è morta, perché non ha più senso giuridico, venendosi a formare, al suo posto,
quello che potrei chiamare principio di “leale conflittualità”. Nell’impianto della riforma, infatti la
divisione fra le competenze regionali e competenze statali sarà realmente netta e, salvo qualche
esito che pure potrà esserci, ma in via di eccezione, sarà una forma di prevenzione della copiosa
conflittualità tra Stato e (singole) Regioni davanti alla Corte Costituzionale alla quale l’esito
imprevisto della riforma del 2001 del Titolo V ci aveva purtroppo abituati.
Infatti, a competenze nettamente divise, non può più, razionalmente, corrispondere un
coordinamento puntuale tra lo Stato e ogni singola Regione. Con la riforma, le Regioni si
costituiscono in organo costituzionale ‘nazionale’.
Sarà il Senato a ‘negoziare’ con il Governo e con la Camera, e lo farà su un terreno di
assoluta parità, non solo sulle materie riservate alla legislazione bicamerale, e tutte le Regioni,
tramite il Senato, potranno intervenire, a Roma, con autorevolezza e con pari dignità costituzionale.
E anche quando il governo decidesse di attivare i meccanismi di salvaguardia dell’interesse
nazionale del nuovo art. 117, quarto comma, si tratterebbe di una extrema ratio, non di sociologia
costituzionale quotidiana, com’è oggi il diritto vivente delle relazioni Stato-Regioni.
Il mito della leale collaborazione a questo punto non serve più. In tale contesto diventerebbe
non solo inutile ma anche dannoso, perché esso presuppone al contrario lo ‘spacchettamento’ della
negoziazione legislativa in rapporti di forza puntuali. Dunque, il futuro del Sistema delle
Conferenze non va più costruito (o riformato) sulla mitologia della leale collaborazione, ma su altri
innovativi modelli.
Fino ad oggi il meccanismo delle Conferenze è stato sostanzialmente strumentale e
subordinato alle politiche del Governo, che lo presiede e lo orienta; sappiamo che questo, per così
dire, difetto è stato segnalato dalla maggior parte degli studiosi, oltre che dalle stesse Regioni. Con
la riforma, invece, il sistema delle Conferenze viene ad essere innestato in un organo costituzionale,
661
paritario rispetto agli altri organi costituzionali e in una certa misura antagonista nei confronti del
Governo. Il Sistema delle Conferenze non sarà più, come dire, uno showroom, una specie di reality
in cui ministri e burocrazie ministeriali fanno da ‘conduttore’; a questo punto, l’intero sistema dei
rapporti Stato - Regioni - Enti locali dovrà vivere in un'altra dimensione, passando per un Organo
costituzionale paritario. Il sistema delle Conferenze dovrà, pertanto, essere modificato
profondamente, nei suoi stessi principi ordinatori.
Se il Senato, nella riforma, è fuori del circuito fiduciario, il Governo e la Camera (la
democrazia maggioritaria ‘nazionale’) non potranno più razionalmente coordinare (rectius
‘dirigere’) i livelli infra-nazionali di governo, il cui coordinamento con le politiche nazionali ora
spetta in esclusiva al Senato, il quale potrà e dovrà dettare (nel Regolamento) le regole procedurali
per la partecipazione del Governo a quel coordinamento. Se si trascurasse la prepotente novità di
questo modello (separazione tra indirizzo politico nazionale, contenuto nel rapporto Governo-
Camera, e coordinamento degli indirizzi politici regionali e locali, custodito nel Senato come
organo costituzionale paritario) non solo non si comprenderebbe il senso della riforma, ma si
legittimerebbe l’esibizione di una delle più gattopardesche operazioni mai compiute in questo
Paese.
Fine della leale collaborazione, dunque, e vernissage della ‘leale conflittualità’, a Roma,
però, tra Senato e Governo quali organi costituzionali paritari, e non più regione per regione, non
più all’interno di una relazione storicamente asimmetrica tra governo centrale e governi locali.
Il Senato, dunque, può configurarsi come contropotere, ma non solo verso il basso. Mi
spiego: nella riforma, il Senato è anche apparentemente fuori della ‘costituzione economica e
finanziaria’, in particolare in riferimento alla formazione del bilancio dello Stato e alla elaborazione
delle politiche pubbliche nazionali. Non è proprio esattamente così, e per fortuna! Il rapporto si
gioca infatti in un’altra dimensione, si muove su due grandezze principali: da un lato, sulla
ripartizione generale delle risorse disponibili (e ovviamente mi aspetto che si riapra anche a breve il
dibattito sul federalismo fiscale), e dall’altro sulla capacità delle Autonomie, cioè dei “Territori”, di
affrontare l’imperativo costituzionale che l’articolo 81 riformato pone davanti a tutti i pubblici
poteri. Oggi infatti i Territori regionali e locali hanno come ‘primum movens’ un problema di
equilibrio di bilancio, che non è una questione leggera del tipo ‘facciamo quadrare i conti’, ma
662
coinvolge relazioni tra grandezze materiali che hanno valore di pre-condizione delle politiche, quali
il prodotto interno lordo dei Territori stessi, la competitività, il mercato, la crescita, cioè valori non
solo economici dato che sono ormai divenuti regole costituzionali primarie, già percepite come tali
anche in sentenze delle Corti superiori (penso alla 8/2013 della Corte costituzionale e a tante altre
precedenti e successive, alle posizioni ‘storiche’ della Corte dei Conti, ai dettami della Corte di
giustizia dell’Unione Europea).
Come lavora, in tale contesto, il nuovo Senato? Prendiamo il testo dell’articolo 55 della
riforma, che prevede, oltre alla funzione di raccordo di cui si è detto sopra, una funzione nuova,
sorprendente, niente affatto casuale ma precisamente voluta dai riformatori costituzionali. Si tratta
della ‘valutazione delle politiche pubbliche’. Ora, cosa vuol dire valutare le politiche pubbliche per
il Senato (non per la Camera dei Deputati, alla quale quella norma non è destinata, si gioca il
rapporto con le politiche del Governo sul programma e sulla sua attuazione, entro la linea rossa del
mix irrinunciabile tra la fiducia della sola Camera e una maggioranza parlamentare stabile che
scaturisce da una legge elettorale realmente maggioritaria).
Nel nuovo art. 55, è solo il Senato che valuta le politiche pubbliche, perché il Senato diverrà
il punto di emergenza e di controllo, di negoziazione e di bilanciamento di tutte le irrazionalità che
le politiche pubbliche del Governo possono produrre sui Territori. A questo punto, le Regioni
dispongono di uno strumento ben più potente del sistema delle Conferenze, di un varco di ingresso
dentro il potere nazionale che non è la porta di servizio ma la porta principale dell’articolo 55, il
quale rompe tutti i ponti con le procedure quasi feudali di ‘leale collaborazione’ e parla di
‘valutazione’ con cui un organo costituzionale, il Senato, giudicherà le politiche pubbliche di un
altro organo costituzionale, il Governo, in relazione al paradigma rappresentato dagli interessi dei
Territori e delle Autonomie, a loro volta dimensionati alla luce della costituzione economica e
finanziaria, e dei vincoli che questa esplicitamente impone ai Territori stessi.
Ciò trae giustificazione in una catena di teoremi e corollari scientifici di diritto
costituzionale. Infatti, l’articolo 81, in combinato disposto con altri e in particolare con il 119, ha
ormai costituzionalizzato anche sul piano formale la relazione strettissima fra PIL e spesa delle
Istituzioni politiche territoriali. Insomma, la ricchezza economica di ogni regione è un valore
costituzionale, e conseguentemente, in linguaggio ‘volgare’: se le politiche del Governo fanno
663
abbassare il PIL della mia Regione, come diavolo faccio ad ottenere il pareggio di bilancio, in
questa Regione? Che forbice schizofrenica è, se mi dai da un lato, per Costituzione, l’obbligo di
pareggiare il bilancio e poi mi togli dalle mani con interventi e politiche devastanti per le vocazioni
economiche del mio territorio, le risorse di entrata ― quelle di cui parla, in rigorosi termini di
matching principle, l’art. 119 Cost. ― necessarie per pareggiarlo in termini di alta qualità della
spesa regionale?
Abbiamo dunque un nuovo controlimite, un bilanciamento ‘multilevel’ aggiuntivo, che, se
fosse stato in vigore da tempo, avrebbe semplicemente stroncato sul nascere decine e decine di
conflitti costituzionali, di impari lotte tra una singola Regione e lo Stato, di ricorsi, liti, campagne di
stampa, mortificazione delle popolazioni locali, dalle scelte sconsiderate di localizzazione delle pale
eoliche in Sardegna alla recente e devastante vicenda delle cosiddette ‘trivelle’.
In una prospettiva come questa, come non vedere che il Sistema delle autonomie in questa
riforma è più potente che non in passato? Come non vedere che la fine del bicameralismo perfetto e
il nuovo Senato aumenteranno vistosamente, anziché diminuire, la dose di costituzionalismo,
bilanciamento dei poteri, autonomia dei territori? Come non vedere, infine, che Regioni e Poteri
locali, potranno ora tutelare davvero, direttamente e in via generale, attraverso un organo
costituzionale di pari dignità rispetto alla Camera e al Governo, i propri territori, le proprie
economie, le proprie vocazioni di sviluppo e di crescita, all’interno dei nuovi contesti e delle nuove
sfide della costituzione economica e finanziaria del terzo millennio?
Dal generico (e angusto) localismo delle autonomie territoriali
al maturo (e ideale) regionalismo di Temistocle Martines
di Antonino Spadaro
(Professore ordinario di Diritto costituzionale,
Università “Mediterranea” di Reggio Calabria)
(27 luglio 2016)
1. Confesso che avrei preferito soffermarmi su “altri” temi affrontati da Temistocle
Martines, ma – chiamato a offrire un contributo sul pensiero del grande studioso per Diritti
regionali. Rivista di diritto delle autonomie territoriali – ho deciso di restare, pur brevemente, sul
terreno specifico a Lui così caro delle autonomie.
In effetti, non solo leggendo i Suoi lavori ma anche nell’esperienza del dialogo con Lui, lo
spazio dedicato alle autonomie territoriali era notevole, come del resto conferma l’amplissima
produzione scientifica in merito. Del resto, non a caso il volume più corposo dell’Opera omnia è
dedicato, oltre che allo Stato (Sez. I), proprio alle autonomie territoriali (Sez. II)269
.
Credo di poter dire di essere stato forse l’ultimo (in ordine di tempo e non solo) allievo
diretto di Martines, che in passato ho definito, et pour cause, “Maestro di maestri”. Nelle
conversazioni con Lui – persona dai modi squisiti e raffinati, ma dal carattere riservato, discreto e
fondamentalmente schivo – non ricordo, se non in forma del tutto marginale e occasionale, uno
scambio di riflessioni sugli EE.LL., mentre ho chiaro il suo costante interesse per il livello e
l’autonomia regionali, cui dedicava molto del Suo tempo già prima dell’iniziale insegnamento di
Diritto regionale alla Sapienza di Roma, prima di passare al Diritto costituzionale, e ben prima di
dirigere mirabilmente, a partire dal 1983 fino alla fin dei suoi giorni (1996), l’Istituto di studi per le
Regioni del Consiglio Nazionale delle Ricerche.
In breve, senza indulgere in impossibili graduatorie, si può dire senza tema di smentite che
Temistocle Martines sia stato – fra i grandi costituzionalisti italiani – uno dei “regionalisti” più
convinti (forse anche un po’ idealista), competente e illuminato. E ciò, ben al di là del fatto che
fosse autore, dal 1984 con Antonio Ruggeri, di un importante manuale di Diritto regionale. C’è
stato un tempo, quello precedente al manuale di diritto costituzionale, in cui dire “Martines” e
sottintendere soprattutto “Diritto regionale” era automatico.
2. Tuttavia – almeno questa è la mia impressione – Martines è stato uno studioso, acuto e
chiaro in modo esemplare, soprattutto dell’autonomia regionale, mentre gli “altri” enti locali, pur
269
Cfr. T. MARTINES, Opere, Tomo III, Ordinamento della Repubblica, Milano 2000, 293 ss.
665
non essendo trascurati nella sua ricostruzione, non hanno certo avuto l’interesse e l’attenzione che il
nuovo istituto regionale invece ha rivestito, per altro comprensibilmente, per il costituzionalista
siciliano, fin dai tempi del saggio Studio sull’autonomia politica delle Regioni in Italia per la
Rivista Trimestrale di diritto pubblico, ormai risalente a ben sessant’anni fa ma ancora denso di
intuizioni e riflessioni attuali (1956).
In altri termini, Martines aveva fiducia non tanto nelle autonomie territoriali genericamente
intese, quanto soprattutto nelle Regioni, le quali – a differenza di Province e Comuni –
rappresentavano, almeno dal punto di vista dell’articolazione territoriale dello Stato, la vera,
radicale “novità” introdotta dal nuovo ordinamento repubblicano.
Si noti bene: parliamo di Regioni, ossia di enti autonomi e derivati (sia pure con rilevanti
poteri anche legislativi), e non di Stati, dunque di enti sovrani e originari. Infatti, la tentazione
“federalista” mai fu presente in Martines, che pure – siciliano d’origine – avrebbe potuto indulgere
a simpatie ultra-autonomistiche in un territorio insulare, anzi nella più grande isola del
Mediterraneo con precedenti di indipendentismo. Al contrario, il regionalismo di Martines
affondava le sue radici, per restare sempre in Sicilia, nell’acuto pensiero di Don Sturzo, piuttosto
che nelle esasperate teorie separatiste di Finocchiaro Aprile. In questo senso, può ben dirsi che il
laico – per tradizione, cultura, stile di vita – Martines non disdegnava il pensiero del prete di
Caltagirone270
.
Insomma, il riconoscimento della funzione indispensabile delle autonomie territoriali –
ribadisco: segnatamente regionali – mai in Martines prevalse sul principio di «unità e indivisibilità
della Repubblica» (art. 5 Cost.), che per Lui restava la stella polare da cui mai allontanarsi. In
questo senso, il Maestro siciliano fu davvero e semplicemente un autentico “regionalista”, essendo
il regionalismo della Costituzione del 1948 la forma verticale-territoriale del più ampio principio
pluralista che ispira, anche in senso orizzontale, il nuovo ordinamento: si pensi ai c.d. corpi
intermedi.
Il regionalismo di Martines, dunque, essendo espressione di un necessario rispetto delle
diversità territoriali, senza indulgere in morbose tentazioni localistiche, era maturo e di ampio
respiro: costituiva un naturale svolgimento dei principi costituzionali di decentramento istituzionale
(art. 5) e di raffinata applicazione del principio di uguaglianza, sotto forma di necessario
trattamento
270
Del resto – pur mantenendo il suo agnosticismo religioso – il Maestro messinese era pienamente tollerante e
aperto verso il mondo cattolico, con alcuni esponenti del quale mantenne sempre un eccellente rapporto: penso, per
tutti, fra i costituzionalisti, a Leopoldo Elia e, fra i filosofi del diritto, a Rodolfo De Stefano e Domenico Farias.
666
differenziato a seconda della diversità del territorio e della comunità ivi residente (art. 3). Del resto,
nel disegno di Martines (ed in fondo del Costituente) la Regione non doveva essere un nuovo
“carrozzone amministrativo”, ma un ente legislativo di programmazione, oggi forse si direbbe…di
area vasta.
3. L’Uomo, poi, senza mai rinnegare le Sue origini ed i legami con la Sua terra, era
largamente inserito nel circuito nazionale (e non solo) della ricerca, sicché – per stile accademico,
modi, attitudini, cultura ecc. – era, e appariva, un intellettuale e professore universitario “senza
etichette”: certo, figlio anch’esso della grande Scuola giuridica messinese e di Pugliatti, ma in realtà
studioso autonomo, capace di percorrere sue personalissime vie di ricerca, nelle quali un ruolo
significativo avevano soprattutto la dottrina costituzionalistica francese e tedesca.
Di più: gli dava palesemente fastidio la “localizzazione” dei docenti universitari italiani, che
considerava una insopportabile deminutio localistica degli stessi. Ricordo ancora molto bene le sue
forti riserve sul titolo di un importante convegno in Calabria, che lo vedeva autorevole relatore, su
«Costantino Mortati, costituzionalista calabrese». Il titolo era, per altro, presumibilmente
giustificato anche per favorire comprensibili sostegni finanziari locali all’iniziativa, ma Martines –
che amava e stimava molto Mortati, da Lui descritto come introverso ma geniale – disse: «Non ha
senso. Del resto, non avrebbe senso dire, per esempio: Vittorio Emanuele Orlando, costituzionalista
siciliano»271
.
Aveva sostanzialmente ragione, la qualificazione territoriale di uno studioso essendo
possibile e sensata soltanto per ragioni di forma, ossia per evitare di ripeterne il nome nel corso di
una trattazione (per esempio: in luogo di Hans Kelsen, può dirsi “lo studioso praghese”…).
Ho ricordato quest’episodio, che è marginale ma non trascurabile, solo per segnalare il
respiro ampio dell’attenzione di Martines verso ogni tema ed ogni studioso, la cui produzione
scientifica veniva esaminata decontestualizzandola territorialmente. Sotto quest’aspetto, pur non
avendone mai parlato con Lui, presumo ragionevolmente di poter dire che impostazioni come
quella di Gianfranco Miglio fossero lontane anni luce, proprio sul piano metodologico, dallo stile di
Martines.
271
Più in generale, sui problemi legati al “localismo”, specialmente siciliano, v. ora M. SAIJA, L’equivoco del
sicilianismo, in AA.VV., Scritti in onore di Gaetano Silvestri, Vol. III, Torino 2016, 2182 ss.
667
Questo “respiro ampio” si ritrova in tutti i Suoi studi sull’autonomia “locale”, che, per Lui,
era prevalentemente studio dell’autonomia “regionale”, da intendersi sempre nel quadro dell’«unità
e indivisibilità della Repubblica», quindi in senso più ampio, più esteso, più aperto, senza scadere
mai in un angusto localismo o, peggio, municipalismo.
4. Certo, l’originario disegno ideale dell’autonomia politica delle Regioni secondo Martines
ha avuto ben poco a che fare con la concreta, spesso affannosa e deludente, realtà istituzionale di
questi enti nel corso degli anni.
Parimenti, il modo “alto” di concepire la politica nelle Regioni e il rapporto fra il diritto e la
politica – che Martines voleva corretto e perfettamente rispondente alla (e rappresentativo della)
comunità locale – raramente si è sperimentato nelle Regioni italiane, specialmente meridionali.
Abbiamo invece assistito alla riproposizione, sul piano regionale, delle tradizionali faide
politiche nazionali, in barba ad ogni nesso fra autonomia giuridica regionale e autonomia politico-
partitica regionale, più volte invece invocate da Martines272
.
Ma lo studioso siciliano rimase sempre – sul piano dell’articolazione territoriale dello Stato
– un convinto regionalista e – sul piano del sistema politico-elettorale – un convinto
proporzionalista, oltre che un innamorato della Costituzione del 1948, da Lui sempre definita «una
bella donna bisognosa tutt’al più solo di un semplice maquillage».
Nonostante l’Italia degli 8000 Comuni e quindi la forte tradizione municipalistica del Bel
Paese, nella complessiva teoria martinesiana, lo Stato italiano era, eminentemente, uno Stato
“regionalista” e la Costituzione italiana proprio in questa caratterizzazione regionale aveva uno dei
suoi tratti più felici, innovativi ed originali. La cosa si comprende bene, nel quadro di una diffusa e
naturale reazione al centralismo del ventennio fascista.
Ma l’ordine “sistemico” di Martines era, come si accennava, più ideale che reale.
Naturalmente l’Uomo non era un ingenuo: era perfettamente consapevole dei colpevoli disastri di
una non trascurabile parte delle classi politiche e dirigenti un po’ in tutte le Regioni (non ultima la
272
Sul punto v. spec., di T. MARTINES: Contributo per una teoria giuridica delle forze politiche, Milano 1957,
passim; Formazioni sociali, sistema delle autonomie e centralità del Parlamento (1978); Partiti, sistema di partiti,
pluralismo (1981); L’«intreccio delle politiche» tra partiti e Regioni: alla ricerca dell’autonomia regionale (1988), ora
tutti in Opere, cit., rispett. Tomo I, Teoria generale, 3 ss.; Tomo IV, Libertà ed altri temi, 41 ss. e 83 ss.; Tomo III, Sez.
II, cit., 919 ss.
668
sua Sicilia) – e qualche volta, in privato, emergeva, soprattutto verso il mondo politico, una Sua
garbata ironia, tanto fine quanto severa – ma mai avrebbe ammesso il fallimento generale
dell’“istituto” regionale. Quel che di negativo accadeva, di volta in volta, negli enti regionali, a
giudizio di Martines non era “effetto” della struttura giuridica dell’ordinamento, “conseguenza” di
un disegno imperfetto dei costituenti, ma semplice “patologia costituzionale”, fatto non diritto
costituzionale. Il malcostume politico-amministrativo regionale atteneva a quel che Lui chiamava
assenza di “rigore costituzionale” e che io, più modestamente, qualifico come assenza di “etica
pubblica”, che in Italia notoriamente spesso prende la forma di “familismo amorale”273
.
Il Martines idealista era così: totalmente liberale ed aperto verso l’interlocutore di turno, ma
fermo e deciso nelle sue acquisite certezze, mi sia consentito dire, giuridico-morali. Anche di fronte
ai palesi e crescenti «limiti della democrazia» (il mio tema d’elezione, che lo affascinava e su cui
mi incoraggiava, ammettendo che – prima o poi – avrebbe dovuto occuparsene), alla fine
propugnava, per risolvere il problema, paradossalmente «più democrazia», perché con ogni
evidenza non propriamente democratico a Lui appariva il nostro ordinamento, come del resto tutti
quelli parlamentari274
. Così, di fronte ad alcune palesi inefficienze delle Regioni, l’idealismo di
Martines lo portava alla fine a propugnare «più regionalismo» o, se si preferisce, ancor meglio: un
regionalismo autentico, compiuto.
In questo quadro di convinzioni profonde e radicate, guai, dunque – di fronte a Martines – a
critiche generiche e non adeguatamente argomentate alle Regioni, istituzioni che rientravano nel
sollen martinesiano. E la credibilità delle tesi di Martines discendeva dalla coerenza della Sua
testimonianza civile personale, dal fascino discreto della Sua persona e dal Suo stile accademico:
273
Il fenomeno riguarda soprattutto, ma non solo, le Regioni meridionali: cfr. A. RAUTI - A. SPADARO,
Senso dello Stato, familismo amorale e ‘ndrangheta: il problema dell’inquinamento criminale della partecipazione
politica in Calabria, in http://federalismi.it, n. 2/2011 (26-01-2011). 274
Cfr. Governo parlamentare e ordinamento democratico, Milano 1967, ora in Opere, cit., 255 ss. e il mio
Indirizzo politico e sovranità. Dal problema dell’“effettività” della democrazia (la lezione di Martines) a quello dei
“limiti” alla democrazia (la lezione della storia), in AA.VV., Indirizzo politico e Costituzione. A quarant’anni dal
contributo di Temistocle Martines, giornate di studio Messina 4-5 ottobre 1996, a cura di M. Ainis - A. Ruggeri - G.
Silvestri - L. Ventura, Milano 1998, 287 ss. Sia pure solo sotto questo particolarissimo aspetto, forse potrebbe non
essere considerato un azzardo accostare la figura di Temistocle Martines, squisitamente liberale, a quella del filosofo
del diritto calabrese, ma sempre docente in Messina, di Rodolfo De Stefano, dichiaratamente anarchico. Entrambi, in
fondo, pur partendo da presupposti diversi, dubitavano della natura autenticamente “democratica” dei moderni
ordinamenti parlamentari.
669
riservato, essenziale, scientificamente rigoroso, non a caso di recente accostato a quello di un altro
grande studioso, anch’esso schivo ed autorevole: Livio Paladin275
.
5. Come si diceva, se grande e appassionato è stato il regionalismo di Martines, non pare, a
chi scrive, che eguale sia stata l’attenzione verso gli “altri” enti locali. Martines riconosceva certo
l’importanza di tali enti minori, al punto da condannare più volte il fenomeno ben noto e patologico
del neo-centralismo regionale, tutto a discapito appunto degli EE.LL.276
, ma la vera autonomia –
che più stava a cuore al Maestro – era quella vera e più ampia, regionale, perché coinvolgeva la
sfera legislativa, tradizionale appannaggio della sovranità statale nell’ordinamento pre-
repubblicano.
Un’eco di quest’atteggiamento non anti-localistico, ma più attento al regionalismo (ed in
genere alle istituzioni di più ampio respiro), può forse scorgersi anche nella Sua esperienza
istituzionale e politica personale. Spinto da un senso civico d’altri tempi, Martines nel 1985 accettò
la candidatura al Consiglio comunale di Messina. Ricordo ancora il suo impegno in campagna
elettorale, per qualità e competenza ovviamente di gran lunga superiore a quello della media dei
suoi interlocutori politici, ma credo di poter dire che, complessivamente, fu per Lui un’esperienza a
dir poco deludente. Si dimise dalla carica di consigliere, infatti, dopo un paio d’anni (1987), nella
sempre più chiara consapevolezza della maggiore ampiezza dei Suoi interessi scientifici e
istituzionali che lo assorbivano quasi totalmente (per tacer d’altro, oltre a insegnare alla Sapienza e
continuare a dirigere l’Istituto di studi per le Regioni, nel 1995 sarà eletto Presidente
dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti).
La lettura dei Suoi lavori più specificatamente rivolti alle minori autonomie locali conferma,
mi pare, questo atteggiamento di massima che non può esser definito anti-localistico in senso
stretto, ma che certo rifuggiva dalla mera esaltazione del microcosmo di una modesta Heimat, della
275
Parlando di Livio Paladin, così ora si esprime M. BERTOLISSI (Livio Paladin. Appunti, riflessioni, ricordi di
un allievo, Napoli 2015, 64): «Sobrietà, rigore, equilibrio, eleganza, autorevolezza: sono parole che sorgevano
spontanee al suo apparire. Qualche altra figura di giurista – è il caso di circoscrivere il campo – del medesimo stile? Tre
nomi per tutti: Enrico Guicciardi, Temistocle Martines e Umberto Pototschnig». 276
Cfr. spec., espressamente sulla scia del pensiero mortatiano, T. MARTINES, Le autonomie degli enti pubblici
territoriali La Regione, la Provincia, il Comune. Mortati e la questione delle Regioni nella storia dell’Italia
repubblicana (1990), ora in Opere, Tomo III, cit., spec. 960 s.
670
“piccola patria” del natio paesello, nell’auspicio di una socialità pluralista e progressiva, sempre più
ampia, aperta e meno angusta277
.
6. Mi sembra di poter dire che, nelle relazioni, la “cifra” essenziale di Temistocle Martines
fosse la discrezione, insieme all’eleganza del tratto e a una naturale gentilezza dei modi (“Tito” era
l’appellativo riservato solo ai più intimi, fra familiari e colleghi). Era soprattutto uno studioso
rigoroso e metodico, costantemente aggiornato sul piano della letteratura giuridica: la Sua ricca
biblioteca, che generosamente lascerà in eredità agli allievi (i quali, a loro volta, hanno interamente
donato il cospicuo patrimonio librario all’Università di Messina), ne era eloquente conferma.
Anche nelle discussioni su temi giuridici apparentemente lontani dai suoi interessi
più diretti del momento – almeno questa è la mia esperienza – rivelava sorprendenti conoscenze di
dettaglio, non di rado sulla letteratura straniera, mai esibite, ma offerte con gentile distacco nella
conversazione, da cui si intuiva facilmente l’ampiezza e la profondità delle Sue letture, soprattutto
dei classici.
In tempi di faticose e minuziose ricerche libresche senza il comodo ausilio di internet,
raccoglieva pazientemente quelle che chiamava le “schede bibliografiche” – veri e propri
“malloppi” di cartelline, scritti a penna di suo pugno, con la bibliografia sui più svariati argomenti:
una volta mi aprì un cassetto, a casa sua, mostrandomi una parte di quel “ben di Dio” e invitandomi
a seguire lo stesso metodo di raccolta del materiale. In una di queste occasioni – che per me erano
sempre fonti di arricchimento tanto più preziose quanto più riservato e schivo era l’uomo – mi
chiese di raccogliergli e preparagli la bibliografia sul rapporto fra Costantino Mortati e le autonomie
locali. Lusingato, da giovanissimo ricercatore, dell’opportunità, lessi tutto il leggibile e cercai tutto
il cercabile, consegnandogli poco tempo dopo uno zibaldone di testi, sintesi ed appunti.
Ricordo l’episodio perché, nel saggio che Martines produsse in quell’occasione, forse più
che in altre sedi, emerse chiaramente l’intenzione del Maestro di distinguere fra federalismo (G.
277
Fra i lavori di T. MARTINES sugli EE.LL., si segnalano: Il Comune del Mezzogiorno d’Italia dopo l’Unità
(1967); Comprensorio e servizi sociali (1978); Le autonomie degli enti pubblici territoriali. La Regione, la Provincia, il
Comune, cit.; Le deleghe regionali agli enti infraregionali: modello costituzionale e modelli di sperimentazione-
attuazione (in coll. con A. Ruggeri) (1992), ora in Opere, Tomo III, cit., rispett. 544 ss., 611 ss., 939 ss., 979 ss.
671
Salvemini), regionalismo (L. Sturzo), autonomismo (G. Dorso), municipalismo (N. Colajanni) e
separatismo (A. Finocchiaro Aprile), per ricordare gli autori più citati in quel caso278
.
La concezione “armonica”, ideale – per certi versi, come accennavo, forse idealistica o
irenica, come oggi direbbe qualcuno – che Martines aveva di ogni autonomia, privilegiando
beninteso fra tutte quella regionale, non ammetteva – direi, meglio, non concepiva – alcun
«pregiudizio per l’unità nazionale (vista anche, sotto il profilo giuridico, come unitarietà
dell’ordinamento statale)»279
.
Credo che, su questa sua concezione di ampio respiro ed armonica dell’autonomia,
prevalentemente filo-regionalista – ben oltre il «localismo» municipalistico italiano, tutta «nello»
Stato democratico-pluralista e mai «contro» lo Stato – abbia giuocato un ruolo decisivo (oltre che il
ricordato pensiero di Sturzo) proprio l’insegnamento di Costantino Mortati, che Martines
considerava il suo vero Maestro insieme a Paolo Biscaretti di Ruffìa. Quest’impostazione non solo
rivela una sorprendente attualità nel momento in cui viviamo – soprattutto alla luce dell’ordine del
giorno Piccioni-Moro, cui poi aderì Mortati, volto a costituire un Senato su base regionale mediante
elezioni di secondo grado, cui avrebbero concorso tutte le categorie sociali280
– ma aveva anche il
pregio, oggi quasi del tutto dimenticato, di realizzare una felice congiunzione fra regionalismo e
meridionalismo, sulla scia della lezione di Giustino Fortunato e Guido Dorso.
È un lascito intellettuale prezioso, questo, che ha radici antiche e che lo studioso siciliano
consegna, non solo agli allievi diretti, ma a tutti i giovani ricercatori, chiamati a riflettere su tale
“modello” di autonomia, specialmente regionale, che probabilmente mai si è realizzato in pienezza
nella storia d’Italia, almeno nella limpida ricostruzione martinesiana.
Quel modello evoca un tempo e un mondo che – dopo quasi cinquant’anni di regionalismo,
con i suoi indiscussi pregi ma anche, purtroppo, con i suoi eloquenti e macroscopici difetti – appare
ormai lontano e forse mai più ritornerà. Continuo ad interrogarmi sul perché quell’ideale non sia
mai divenuto realtà, se non in parte.
L’incerto futuro verso cui stiamo andando sembra piuttosto indifferente, se non addirittura
ostile, alle Regioni, per recuperare semmai la tradizione storica prerepubblicana dell’Italia dei
278
Cfr. Le autonomie degli enti pubblici territoriali, cit., 944. 279
Così in Le autonomie degli enti pubblici territoriali, op. ult. cit., 946. 280
Cfr. Atti Assemblea Costituente, vol. IV, sed. pom. del 17 settembre 1947, 2890.
672
Comuni, attraverso, oggi, la valorizzazione dei c.d. enti intermedi di area vasta e delle Città
Metropolitane. Saranno queste le nuove forme di autonomia dei prossimi anni? E, soprattutto,
daranno i frutti sperati? Vedremo. Ma in ogni caso, senza trascurare la necessità di un continuo
aggiornamento delle istituzioni, almeno personalmente cerco di non dimenticare gli insegnamenti di
Temistocle Martines.
È la democrazia, giovani bellezze
di Luigi Ventura
(Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università “Magna Græcia” di Catanzaro)
(19 agosto 2016)
Avevo deciso di non pubblicare queste osservazioni, poiché credo fermamente che il
“dibattito” dovrebbe riguardare il merito e il contenuto proposti agli elettori e non già il metodo con
cui è partita la discussione, contando chi è favorevole o contrario, lanciando definizioni ed insulti
da stadio, quasi si trattasse di una disputa tra tifosi di calcio, tra guelfi e ghibellini, tra buoni e
cattivi, tra milanisti, interisti, romanisti, fiorentini e juventini (lo sono con tutta la passione possibile
dal 1956. Ho cominciato da Boniperti, Charles, Sivori, per continuare, per una vita, al dominio di
questi anni e di quelli futuri. Pertanto, sotto questo profilo, sono un vincente). Ma non posso tacere,
dinanzi all’inasprimento del dibattito intorno al referendum costituzionale, al quale si è assistito
nelle ultime settimane e, in particolare, dopo l’improvvida sortita del Ministro delle riforme sui
partigiani, doverosamente resettata dal Presidente del Consiglio, con una pezza a colori assai più
vistosa del buco, proprio perché non è possibile ritenere (come dice l’autrice) che siano state
strumentalizzate le sue parole chiarissime, per grammatica e sintassi; dopo che lo stesso Ministro ha
dichiarato che chi intende votare per il no al prossimo referendum costituzionale «non rispetta il
Parlamento» (ma il suo staff, con un’altra pezza a colori, ha precisato che «la frase era riferita a chi
(minoranza dem., ndr) oggi chiede di ripartire da capo con il percorso in Parlamento», quando alle
Camere aveva votato, nei mesi scorsi, il testo attuale: La Repubblica del 10 agosto 2016).
E c’è stata anche la sortita del più grosso tours operator parlamentare (il plurale è voluto)
sui “Professoroni” sulla Rai, richiamando una definizione (calzante, meritata, ma inopportuna)
perché, per l’appunto, la Ministro non è abilitata a dare definizioni, anche in virtù della sua carica.
Ho seguito il dibattito – su Sky, l’unico telegiornale, con relativi approfondimenti, che
riesco a seguire – che si è dipanato sul merito della riforma, ed ho ascoltato con grande rispetto le
motivazioni di Giuseppe Vacca, fautore del sì, oltre che degli altri due interlocutori, Sisto (il più
lucido ed efficace), e D’Attorre (il terzo non corre). Pur non condividendo le sue posizioni, ho
apprezzato gli argomenti ed i motivi addotti dal presidente dell’Istituto Gramsci. La classe non è
mai acqua. Così come, anticipando qualche prossimo tema, ho sempre apprezzato con ammirazione
gli argomenti di un politologo grandissimo come Giovanni Sartori, un vero fuoriclasse riconosciuto,
al di là della sua età, in Italia ma soprattutto negli Stati Uniti, ove non guardano la carta di identità,
ma il talento di un Maestro; così come molto più di recente ho seguito gli interventi (a favore Treu
e, contro, Flick) improntati all’intenzione di argomentare con massima civiltà.
674
Mi è capitato, il 9 maggio, di seguire su Sky (can. 505) la relazione del segretario del P.D.
alla direzione del Partito e, siccome in quella sede egli discorre non in modo antipatizzante come gli
capita quando esterna in t.v. e sui giornali, ho condiviso sostanzialmente le sue valutazioni di
politica generale, come è avvenuto altre volte, sempre seguendo il can. 505.
Non ho seguito il resto del dibattito e le conclusioni, poiché avevo un impegno per i miei
valorosi studenti di Diritto costituzionale, e mi sono perso la definizione di archeologi travestiti da
costituzionalisti e, pertanto, non ho percezione se tale definizione si riferisse ai cinquantasei
costituzionalisti che hanno firmato l’appello per il no, ovvero ad un insigne, grandissimo
archeologo italiano, il Prof. Settis, che evidentemente si è schierato contro la riforma costituzionale.
Avevo tuttavia ascoltato nella relazione il richiamo dell’intervento di Roberto Bin,
costituzionalista vero, bravo ed amico; di un costituzionalista, già senatore, che non essendo stato
candidato per la XVII legislatura aveva, tra l’altro, a suo tempo espresso « … amarezza e stupore
per la compressione del pluralismo» e di un politologo (non citata la consorte anch’essa politologa),
in risposta ai cinquantasei. Il Gotha del diritto costituzionale, escluso naturalmente il sottoscritto, è
invece solo un numero. Per l’appunto il cinquantasei.
Alle argomentazioni di Bin hanno risposto Enzo Cheli, Valerio Onida, Ugo De Siervo,
Paolo Caretti, con il consueto stile e la profonda sapienza. Ed io condivido, pur non possedendone il
prestigio.
Siccome ho affidato alla rivista Diritti regionali le mie prime osservazioni sulla riforma,
voglio qui fare il lavoro “sporco”, da mediano duro, pur sentendomi una mezz’ala sinistra,
volutamente non politically correct. Tutt’altro che un vecchio arnese “emerito”. Come non lo è
alcuno dei cinquantasei.
Mi riservo, per il momento, questo compito, a bocce apparentemente ferme. E proprio per
questo, in un mondo in cui fiumi di parole scorrono, senza poi lasciare traccia e memoria. Solo per
il momento. Di qui ad ottobre o novembre (anche se la data del referendum non appare ancora
fissata) c’è tempo. Ma non riesco a tollerare che su un “giornale” che porta lo stesso nome di
quello fondato da Antonio Gramsci, che, nelle galere cui l’aveva destinato chi voleva impedire al
suo cervello di pensare, scrisse I Quaderni del Carcere, opera enciclopedica e fondamentale per la
formazione di tanti “vecchi” della mia età, ma eterna nella sua modernità (per non dire delle Lettere
dal carcere, monumento di umanità, dolore e sapienza), si permettano sproloqui offensivi, da parte
675
di quanti hanno metaforicamente scritto sullo “stemma patronimico”: nomina sunt consequentia
rerum.
Ora, credo che sia compito imprescindibile dei costituzionalisti, soprattutto se antichi, ma
anche giovani o in fase di apprendimento, di esprimere il proprio pensiero sulla Costituzione, sulle
sue disinvolte ed a volte surreali riforme, e quant’altro la riguardi, poiché si tratta del pane
quotidiano di studi, di ricerca, di insegnamento. Si tratta insomma del loro lavoro di “tecnici” (non
di obsoleti “odontotecnici”, passato e respinto con “perdite”).
Ma, mi chiedo, è possibile essere insultati da “giovani” politologi, studiosi, a mio giudizio
antico, del “nulla”, cioè della “ politica” (con linguaggio ad essa adeguato), ridotta come sappiamo
poiché non conosce regole (meno che mai, come è noto nel Paese di Machiavelli, quella della lealtà;
ma vogliamo parlare degli U.S.A. dell’inconcepibile Trump?) ed è possibile non rispondere
all’aggressione arrogante, maleducata, senza alcuno stile nei confronti dei cinquantasei “emeriti”
(io, per la verità, ancora non lo sono), di cui si pubblica la media dell’età? Per poi costituire (del
tutto legittimamente e spero con argomenti diversi) un comitato del “sì”, lasciando che le Gazzette
li definiscano “costituzionalisti” assieme ad altri politologi, storici ed economisti, sicuramente
degni di stima professionale (La Stampa del 17 maggio 2016). Sono accorsi anche dei
costituzionalisti che la pensano in modo omologo e del tutto legittimamente avranno i loro
argomenti, ma anche grimpeur, “cerchiobottisti” e cinici opportunisti, cui della Costituzione e delle
sue riforme non importa alcunché. Perché un dato è ragionevolmente certo: schierarsi per il “no”
non può produrre alcun esito auto-promozionale politico, se non, per taluno, effimera visibilità. È
del tutto evidente.
Se il giovanilismo perdente si reputa per questo vincente, dà dimostrazione, già in apicibus,
di essere destinato a perdere. Ed in breve tempo, magari a vantaggio di ancora più giovani poulains.
Difatti, una delle più insopportabili motivazioni a favore della riforma costituzionale, come
dichiara (in camera caritatis) anche chi ne è profondamente contrario, è che, altrimenti (data la
improvvida politicizzazione e personalizzazione, della quale, tuttavia, lo stesso Presidente del
Consiglio si è ora pentito: cfr. La Repubblica del 10 agosto 2016), avremo in un prossimo futuro
come Presidente del Consiglio o (traduco) il personaggio che dà vita allo spot televisivo del treno
Italo, ovvero la versione nord italiana di chi è xenofobico, pur nei confronti di popoli del Sud (e
che, da diciassette anni, pare essere iscritto all’Università Milano-Bicocca, senza utile esito, per
fortuna).
676
Ma se, come frutto perverso della politicizzazione del referendum (ora incredibilmente
negato, sempre su consiglio dell’emerito spin doctor statunitense), è ciò che vogliono
malauguratamente gli italiani, evviva la Democrazia. Sarebbe il frutto della politica di cui si
occupano “lucide” teste, non come quelle dei cinquantasei costituzionalisti, ma come quelle di chi è
affetto da calvizie, magari iuvenilis.
Ricordo che Massimo Severo Giannini (Messina, 1981, cinquantenario della Casa editrice
Giuffré), bacchettò i giovani di allora poiché, a differenza dei maestri, scrivevano “temini”. Ricordo
che nessuno ebbe un atteggiamento non rispettoso nei confronti di un Nume. Ricordo che ero
d’accordo con lui.
Oggi si vorrebbero far tacere gli “emeriti”. Allora facciamo tacere e cancelliamo la memoria
di Maestri come Paolo Barile, Leopoldo Elia e Temistocle Martines (Lui con un cancro mortale),
che giravano l’Italia per difendere la Costituzione. Per non dire di Dossetti, che lasciò il convento in
cui si era ritirato, avendo la politica in gran “dispitto”, per far sentire la sua voce a difesa della
Carta, fondando i comitati per la Costituzione.
Tutti zitti, ora parlano i giovani e gli scienziati del nulla, mentre della politica, così com’è,
soprattutto perché personalizzata, si dovrebbero occupare antropologi, psicologi e, ahimè, ormai
obsoleti frenologi.
In generale, si può certamente dire che il referendum è stato concepito dai Costituenti come
uno strumento eccezionale di democrazia diretta con precisi paletti e limiti introdotti nell’art. 75
Cost. ed implementati da successive, svariate sentenze della Corte costituzionale. Ma tale istituto è
stato via via depotenziato poiché inflazionato dall’uso indiscriminato da parte dei radicali e di
Giacinto (detto Marco) Pannella, tanto che si è giunti persino a proporre al giudizio di ammissibilità
e poi al corpo elettorale, ad ogni tornata, decine e decine di leggi da abrogare in tutto o in parte. E
dall’inflazione è conseguito il mutamento della natura del referendum, per effetto della tecnica del
“ritaglio” di parti di disposizioni, perché ne risulti, in seguito all’abrogazione, una norma diversa o
opposta, tanto che il controllo della Corte in tali casi è divenuto un controllo preventivo ed astratto
di costituzionalità dell’eventuale risultato positivo, nel senso dell’abrogazione, del referendum
stesso. Come si era previsto già in una edizione provvisoria (Premesse ad uno studio sulla Sanzione
costituzionale, 1977, e poi ribadita ne Le sanzioni costituzionali, Giuffré, 1981), i partiti politici e i
movimenti si sarebbero impadroniti, attraverso la loro propaganda, del risultato positivo nel senso
677
dell’abrogazione, ovvero del risultato negativo nel senso della non abrogazione. Ma è avvenuto
anche che in due referendum su leggi di natura elettorale ci sia stato, negli anni Novanta, così come
negli anni Duemila, l’invito “ad andare al mare”, allo scopo di far mancare il quorum previsto. Il
che è ovviamente meno nobile nei riguardi della democrazia dell’impadronirsi del risultato. Molti
ricorderanno che per un referendum un leader politico, commentando risultati parziali per tutta la
notte, si è per l’appunto impadronito, negli anni Duemila, di un possibile risultato e del suo opposto,
nonché dell’avvenuta mancanza del quorum. Strumentalizzazione pura e alternata.
Qui, però, si sta parlando del referendum costituzionale, che, ovviamente, è altra e più
importante cosa. È un istituto ancora più eccezionale in una democrazia rappresentativa che viene
innescato a norma dell’art. 138 Cost. nel caso in cui la stessa democrazia rappresentativa produca
un voto parlamentare nelle due ultime deliberazioni di Camera e Senato, non già dei due terzi, ma
della maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera. Il punto è che bisogna maneggiare
questi istituti, non già come denunciato quarant’anni fa circa, come strumento di lotta politica o
come una forma di ricatto in vista di nefaste (?) conseguenze per il Governo, poiché la Costituzione
è patrimonio conquistato faticosamente dal popolo italiano, melius dalla sua élite, che non può
essere, pertanto, strumentalizzato.
C’è un paragone che viene alla mente, vale a dire quello del referendum britannico sulla
cosiddetta Brexit, in cui il popolo inglese è stato chiamato a rispondere immediatamente ad un
quesito, quasi che fosse di immediata attuazione, sulla uscita della Gran Bretagna dall’Unione
europea. In realtà, nonostante gli organi di informazione abbiano parlato di due anni di tempo per
detta uscita, i tecnici del diritto dell’Unione europea informano che si tratterà di un periodo di dieci
anni, che va oltre, con tutta evidenza, alla sorte segnata del Premier Cameron, che ha sentito la
responsabilità e l’obbligo di dimettersi per aver proposto lui stesso al popolo britannico il
referendum, nonostante egli fosse per la permanenza del Regno Unito nell’Unione europea; mentre
sarebbe stato più ovvio, e politicamente meno erroneo, che il referendum fosse proposto proprio
dalle opposizioni rispetto a detta permanenza.
Il consiglio del sopradetto “Guru” statunitense di propagandare il messaggio del risparmio ai
danni della politica è risibile e populista. Cinquecento milioni di risparmio ad un fondo per la
povertà. Ma si può dire? Sia nel merito che come metodo? Il problema, semmai, è la reale
produttività di un Parlamento rappresentativo. Il problema non è la politica, ma la corruzione nella
678
politica e nella burocrazia, che determina costi altissimi e disfunzioni enormi ai danni dei cittadini,
che per questo sono consapevoli. E che ne è degli stipendi dei dipendenti del CNEL, organo inutile,
giustamente eliminato? E non bastava, come ha detto un leader veramente autorevole, sottoporre,
prima alle Camere e poi al corpo elettorale, la diminuzione pura e semplice del numero dei
parlamentari, ovvero, come ritengo da sempre, l’abolizione del Senato o la sua permanenza in
numero di un terzo degli attuali componenti, come camera realmente espressiva delle realtà
regionali, rappresentativa e, quindi, direttamente elettiva? Ovvero ancora stabilire che il rapporto
fiduciario deve intercorrere solo tra la Camera dei Deputati e il Governo? O limitare la funzione
legislativa del Senato, per superare il bicameralismo perfetto?
Pur con tutte le marce indietro congegnate dal suddetto “Guru”, questo referendum è stato
prima fortemente personalizzato dal Presidente del Consiglio, che ora sul punto sembra aver
cambiato idea. Sono invece d’accordo con il Presidente del Senato Grasso, per un verso, per il quale
il prossimo referendum costituzionale non è un giudizio di Dio, e per altri versi con il Presidente
D’Alema, che afferma giustamente che non si chiama il popolo, il corpo elettorale, ad un
referendum su un libretto, probabilmente più ponderoso (ma sicuramente più confuso e scritto
male) della Costituzione della Repubblica.
Sarebbe stato forse opportuno lo spacchettamento del referendum in più quesiti, in modo da
evitare che la consultazione assumesse quella connotazione plebiscitaria che invece sembra avere
irrimediabilmente assunto. E tale aspetto dovrebbe anche fare riflettere sull’idoneità della procedura
prevista dall’art. 138 Cost. a veicolare grandi riforme palingenetiche della legge fondamentale.
A prescindere comunque dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio, che sembra aver
compreso finalmente la necessità di scindere il proprio futuro politico dall’esito referendario, molti
accademici e persone comuni, pur contrari alle riforme, continuano a temere che l’eventuale vittoria
del no alla consultazione del prossimo autunno potrebbe sfociare comunque in una crisi di governo
il cui esito si risolverebbe (per uscir di metafora) nella premiership del Movimento Cinque Stelle.
Intanto non è così, perché già il Presidente Mattarella ha saggiamente fatto intendere che in base
alla Costituzione non può essere considerato automatico lo scioglimento delle Camere nel caso, qui
auspicato, e altrimenti certificato, del risultato negativo rispetto alla proposta di riforma
costituzionale. Ricordo che siamo ancora all’interno di una forma di governo parlamentare, tant’è
che è perfettamente legittimo che il Presidente del Consiglio non sia stato eletto dal corpo elettorale.
679
In ogni caso, tecnicamente, non è proponibile un ragionevole bilanciamento tra l’integrità
della Costituzione e il futuro politico del Presidente del Consiglio, entità o valori non comparabili.
Ad ogni modo, se si producesse uno scioglimento, sarà il popolo, il corpo elettorale, a decidere. È il
bello della Democrazia.
Autonomie territoriali e sistema dei partiti nel pensiero di Temistocle Martines
di Luigi D’Andrea
(20 agosto 2016)
1. Nell’ampia e variegata produzione dottrinale di Temistocle Martines, generosamente
dispiegatasi lungo l’arco di oltre 40 anni di fervida e feconda attività di ricerca scientifica sul
terreno costituzionalistico, indubbiamente uno spazio assolutamente rilevante (tanto dal punto di
vista quantitativo che da quello qualitativo) è da assegnare a due – strettamente connesse, come
subito si dirà – problematiche: la prima riguarda le relazioni tra la sfera pregiuridica e
l’ordinamento giuridico281
, la seconda è relativa al principio di autonomia locale ed alla sua portata
in seno al sistema costituzionale incardinato sulla Carta repubblicana del 1948282
.
Non può in alcun modo sfuggire come entrambe le tematiche conducano inevitabilmente al
cuore del costituzionalismo contemporaneo, che risulta profondamente connotato dal principio
democratico, “ontologicamente” abitato da un’istanza di incessanti relazioni osmotiche tra società
civile e istituzioni pubbliche, mediate da un robusto e pluralistico sistema politico, nonché
dall’esigenza di decentrare il potere pubblico su scala territoriale, così da garantirne ad un tempo
limitazione, efficacia/efficienza ed accessibilità da parte dei cittadini. Ed è altresì del tutto evidente
come tali due tematiche – lo si ribadisce, autenticamente centrali nel pensiero del Maestro
messinese – non soltanto risultino intimamente connesse, ma si presentino anche l’una funzionale al
contenimento di possibili degenerazioni dell’altra (si direbbe, perciò, che si siano reciprocamente
necessarie): il valore dell’autonomia territoriale, traducendosi in una significativa divisione e
distribuzione del potere pubblico sul territorio, si pone come prezioso presidio rispetto al sempre
incombente rischio di pericolosa (dal punto di vista dei valori del costituzionalismo contemporaneo,
naturalmente…) concentrazione del potere dei governanti, preludio di una praticamente imparabile
degenerazione autocratica dello stesso…; l’istanza di costante osmosi tra realtà pregiuridica
(intrinsecamente politica, secondo l’insegnamento di Martines)283
e ordinamento giuridico assicura
281
In proposito, basti qui segnalare del Maestro messinese la sua prima opera monografica, Contributo ad una
teoria giuridica delle forze politiche, Milano, 1957, ora in Opere, I, Milano, 2000, 3 ss., nonché Governo parlamentare
e ordinamento democratico, Milano 1967, ora in Opere, I, cit., 255 ss. e la voce Indirizzo politico, in Enc. dir., XXI,
Milano, 1971, ora in Opere, I, cit., 403 ss. 282
Al riguardo, ci si limita in questa sede a ricordare i Lineamenti di diritto regionale, in coll. con A. RUGGERI,
I ed., Milano 1984 (l’ultima ed curata dal Maestro qui onorato è del 1992); Studio sull’autonomia politica delle Regioni
in Italia, in Riv. trim. dir. pubbl., 1956, ora in Opere, III, cit., 293 ss.; Il Consiglio regionale, Milano 1981, ora in
Opere, III, cit., 612 ss.; La parabola delle Regioni, Palermo 1993, ora in Opere, III, cit., 1021 ss. 283
Rilevava T. MARTINES che «il costituzionalista in particolare (la cui scienza è, più delle altre, permeata di
“politicità”) non può prescindere, nello studio del giuridico, dalla sfera del preguiridico», e precisava che la politica si
riferisce «alla composizione ed alla armonizzazione degli interessi e dei bisogni umani (operazioni che presuppongono,
tuttavia, una originaria differenziazione, viste però, non nella fase statica (che è fine a se stessa) ma nella fase
681
che l’articolata rete di relazioni tra i diversi livelli territoriali in cui si articola entro un ordinamento
autonomistico l’organizzazione del pubblico potere non si rinchiuda autoreferenzialmente entro il
protetto recinto dell’apparato autoritativo, ma rimanga costantemente aperta alla dinamica sociale
ed alla trama dei bisogni e degli interessi da questa emergenti.
In proposito, particolarmente ricca e suggestiva si offre l’elaborazione di Martines. Per un
verso, a Lui si deve una caratterizzazione rigorosa (nonché davvero antesignana, in relazione
all’evoluzione della parabola degli studi giuspubblicistici relativi al regionalismo italiano)
dell’autonomia regionale (ed in generale dell’autonomia degli enti territoriali)284
come autonomia
politica; e dunque come potere degli enti locali di darsi un proprio indirizzo politico, anche diverso
dall’indirizzo politico dello Stato o di altri enti territoriali (omogenei e non omogenei), “purché non
contrastante con i principi strutturali dell’ordinamento costituzionale”285
, alla cui positiva
attuazione anzi essi sono chiamati a dare un infungibile contributo. Per altro verso, costante emerge
nelle sue indagini intorno al sistema di autonomie locali delineato dalla Costituzione repubblicana
la preoccupazione di porre in evidenza, sin dalla definizione della relativa nozione286
, l’attitudine
relazionale dell’autonomia, che perciò si traduce positivamente nella tessitura di una fitta trama di
rapporti tra i diversi centri di potere autonomo distribuiti sul territorio, tanto tra di loro, secondo il
modello del “regionalismo cooperativo”287
, quanto con l’articolata e disomogenea comunità di
dinamica, di elaborazione di dati da trasferire nella sfera del diritto. Il tal senso, politica e pregiuridico coincidono e la
politica non si contrappone al diritto, del quale costituisce, anzi, l’antecedente logico» (Contributo ad una teoria
giuridica delle forze politiche, cit., rispett. 16 e 110). 284
Perentoriamente afferma T. Martines (Studio sull’autonomia politica delle Regioni in Italia, cit., 339) che
«l’autonomia degli enti territoriali o si caratterizza in senso politico o non è autonomia». Ha rileva peraltro A.
SPADARO, in Dal generico (e angusto) localismo delle autonomie territoriali al maturo (e ideale) regionalismo di
Temistocle Martines, in Dirittiregionali.org, 3/3016, che «Martines è stato uno studioso, acuto e chiaro in modo
esemplare, soprattutto dell’autonomia regionale, mentre gli “altri” enti locali, pur non essendo trascurati nella sua
ricostruzione, non hanno avuto certo l’interesse e l’attenzione che il nuovo istituto regionale invece ha rivestito, peraltro
comprensibilmente, per il costituzionalista siciliano» (p. 1 del paper). Al riguardo, mi pare si possa avanzare l’ipotesi
che un tale privilegiato interesse di Martines per l’istituto regionale si spieghi soprattutto alla luce della devoluzione alle
sole Regioni della funzione legislativa, che il Nostro peculiarmente legava all’attività di direzione politica (al riguardo,
v. Studio sull’autonomia politica delle Regioni in Italia, cit., 318) e riteneva posta in posizione di supremazia rispetto
alle altre pubbliche funzioni (così in La democrazia pluralistica, in Ann. Univ. Messina, 1963, ora in Opere, I, cit., 244-
245). 285
In proposito, v. Studio sull’autonomia politica delle Regioni in Italia, cit., 301 ss. (da p. 323 è tratta la citaz.
testuale). Secondo A. MORELLI [Unità e autonomia nel pensiero del prof. Temistocle Martines, in Dirittiregionali.org.,
3/2016 (16 maggio 2016), 393], al Nostro si deve «la più compiuta elaborazione del concetto di autonomia politica». 286
Osserva T. MARTINES (Formazioni sociali, sistema delle autonomie e centralità del Parlamento, in Il
Tommaso Natale, 1978, ora in Opere, IV, cit., 66) che la nozione di autonomia, come anche quella di libertà, esprime
«un’idea di relazione: si è liberi (ed autonomi) nei confronti di (o rispetto a) qualcosa». 287
Riguardo al quale, del Maestro messinese, v. Dal regionalismo garantista al regionalismo cooperativo: un
percorso accidentato, in AA.VV., Una riforma per le autonomie, Milano 1986, ora in Opere, III, cit., 913 ss.
682
riferimento288
. Con sintesi efficace, il Nostro sosteneva che un sistema costituzionale non può
inverarsi in un confronto che si svolga «tra entità rigidamente contrapposte, ciascuna con la propria
sfera di poteri o di attribuzioni o con il proprio ruolo nettamente separato e distinto, bensì come
effettiva partecipazione di tutti i governati, ai vari livelli di autonomia in cui essi si organizzano, al
governo dello Stato, come concordia discors da cui scaturisca la sintesi e l’unificazione politica»289
;
e, nella stessa prospettiva, identificava il modello di “democrazia pluralista” delineato nella Carta
fondamentale del 1948 in un sistema incardinato sull’esigenza di «avvicinare i governati
all’apparato autoritario mediante strutture organizzative che prendano atto della moltiplicazione dei
centri di potere in una società di massa e consentano la più ampia rilevazione e valutazione dei
molteplici e spesso contrastanti interessi sociali e la loro composizione a livello di Stato-
governo»290
.
2. Appunto nella prospettiva di arricchire e rafforzare i non numerosi strumenti di raccordo
tra i diversi livelli territoriali di governo, l’elaborazione del Maestro messinese ha avuto modo di
incrociare una proposta (che era – e tuttora rimane… – de iure condendo) la quale si colloca al
centro del dibattito pubblico (e, naturalmente, dottrinale) in riferimento alla riforma costituzionale
che è stata recentemente approvata dalle Camere e che nel prossimo autunno verrà sottoposta al
voto referendario. Si tratta, come è agevole comprendere, dell’ipotesi di trasformare il Senato in
Camera delle autonomie territoriali, così da corrispondere all’esigenza, generalmente avvertita in
seno agli ordinamenti connotati dal valore dell’autonomia locale e autorevolmente patrocinata in
Italia, tra gli altri, da Costantino Mortati291
, di istituire un organo parlamentare che, in quanto
288
Sottolinea icasticamente T. Martines (Studio sull’autonomia politica delle Regioni in Italia, cit., 324) che
l’adozione da parte dell’ente locale di un proprio indirizzo politico mira in ultima analisi «a disciplinare sul piano
giuridico gli interessi ed i bisogni delle loro popolazioni». 289
Così in Formazioni sociali, sistema delle autonomie e centralità del Parlamento, cit., 68. Ha rilevato G.
SILVESTRI, Rileggendo, sessant’anni dopo, il saggio di Temistocle Martines sull’autonomia politica delle regioni in
Italia, in Dirittiregionali.org, 3/2016 (9 giugno 2016), 471, che T. Martines ha accolto la tesi secondo la quale l’unità
del sistema non si dà nell’uniformità, ma nella diversità (dunque, come «sintesi delle diversità»), essendo il potere
«fondato sulla differenziazione politica, senza con ciò frantumarsi e disgregarsi». 290
Così in La democrazia pluralistica, cit., 242. 291
Merita di essere qui ricordato che il magistero scientifico di C. Mortati ha con forza influenzato la
riflessione dottrinale di T. Martines, fino al punto che nella Premessa della prima edizione del prestigioso e fortunato
manuale di diritto costituzionale sul quale si sono formate generazioni di giuristi (Diritto costituzionale, Milano 1978),
quest’ultimo esprime un «riconoscente pensiero» appunto a Costantino Mortati, «senza il cui insegnamento, scientifico
e morale, questo libro non sarebbe stato scritto». Al contributo di C. Mortati all’elaborazione del modello autonomistico
delineato nella Costituzione repubblicana è dedicato, del Maestro messinese, Le autonomie degli enti pubblici
territoriali. La Regione, la Provincia, il Comune. Mortati e la questione delle Regioni nella storia dell’Italia
repubblicana, in AA.VV., Il pensiero giuridico di Costantino Mortati, Milano 1990, ora in Opere, III, cit., 939 ss.; ivi,
964 ss. si fa specificamente riferimento alla proposta di istituire un Senato rappresentativo delle autonomie regionali,
definita «una delle idee portanti della concezione mortatiana del regionalismo» (ivi, 964).
683
rappresentativo delle istituzioni territoriali, si configurasse come sede di raccordo tra Stato
nazionale ed enti locali. In proposito, si riscontra un significativo (e, naturalmente, argomentato…)
favor di Martines per la trasformazione della Camera alta in Camera delle Regioni. Martines,
denunciando le “insufficienze” palesate nell’esperienza repubblicana dal sistema bicamerale, si
pronunzia a favore dell’esigenza di «differenziare in qualche modo le due Camere», ipotizzando la
«trasformazione del Senato in “Camera delle Regioni”, secondo una proposta che, del resto, era
stata avanzata nell’Assemblea costituente e che prevede l’estrazione diretta di tutti o di parte dei
senatori dalle regioni mediante la loro elezione ad opera dei Consigli regionali»292
; deve
aggiungersi che in una scritto successivo il Nostro ha mostrato di preferire un modello di seconda
Camera ispirato al sistema tedesco, in cui dunque i senatori siano designati dagli Esecutivi (o in
subordine dai Consigli) e siano tenuti a votare in blocco, in quanto espressione unitaria dell’ente, e
perciò vincolati dalle istruzioni ricevute con mandato imperativo293
.
È appena il caso di osservare che non avrebbe senso alcuno chiedersi come Martines
giudicherebbe la riforma costituzionale “Renzi-Boschi” (sul profilo qui considerato, come su
altri…) e come si pronunzierebbe in ordine al prossimo referendum costituzionale294
: comunque, a
fronte di alcune sue prese di posizione favorevoli ad una radicale riforma del Senato in una
direzione per più di un aspetto sovrapponibile a quella patrocinata dal testo di revisione
costituzionale, deve pure ricordarsi che il Nostro, pur non mostrandosi radicalmente ostile ad ogni
proposta di modifica della Carta costituzionale repubblicana, con i cui principi fondamentali
totalmente (e, si direbbe, esistenzialmente!) si identificava, ha sempre predicato grande cautela al
riguardo, in generale auspicando che i valori e gli istituti recati dal testo costituzionale vigente
fossero, piuttosto che modificati, attuati con fedeltà e rigore.
3. La ricca riflessione di Temistocle Martines intorno alle complesse relazioni che nella
dinamica dell’ordinamento costituzionale si manifestano tra sistema politico e assetto autonomistico
292
In questi termini T. MARTINES, Formazioni sociali, sistema delle autonomie e centralità del Parlamento,
cit., 75. 293
Così in A futura memoria, Appendice all’VIII ed. del Diritto costituzionale, Milano 1994, ora in Opere, III,
cit., 289. 294
Considera «un esercizio ozioso immaginare cosa direbbe oggi Martines in questa situazione» G. SILVESTRI,
Rileggendo, sessant’anni dopo, il saggio di Temistocle Martines sull’autonomia politica delle regioni in Italia, cit., 475.
684
dei pubblici poteri interloquisce con il dibattito pubblico (e dottrinale) che si viene allargando
intorno alla revisione costituzionale ed alla relativa pronunzia referendaria anche per un ulteriore
profilo. Infatti, lucidamente il Maestro messinese individuava una delle principali ragioni
dell’insoddisfacente rendimento (specialmente, dal punto di vista del processo di attuazione dei
valori costituzionali) del modello di decentramento territoriale del potere politico delineato dal
Titolo V della Parte II della Costituzione del 1948 nella caratterizzazione centralistica e verticistica
assunta dal sistema dei partiti. Osservava incisivamente T. Martines: «se autonomia politica sta ad
indicare autonomia di scelta, nei limiti costituzionalmente prescritti, dei fini da perseguire, e dei
mezzi finanziari ed organizzativi necessari per la loro attuazione; se cioè non significa uniformità o
appiattimento delle periferie al centro, bensì distinzione, diversità ed anche contrapposizione, pure
sempre nell’ambito dell’unitarietà dell’ordinamento, ebbene, allora la domanda da porsi in primo
luogo è se non tanto la struttura dei partiti, quanto piuttosto il sistema dei partiti, così come è venuto
conformando nel nostro Paese, sia in grado di assicurare un soddisfacente grado di autonomia alle
articolazioni locali dello stato unitario»295
; infatti, i partiti italiani appaiono connotati da una
organizzazione «rigida, centralizzata, verticistica ed, in ogni caso, non adeguata allo sviluppo ed
alle “domande” della società civile», sicché «di fatto […] i processi decisionali procedono dall’alto
verso il basso e non già dal basso verso l’alto, dalle segreterie nazionali dei partiti verso le
articolazioni periferiche e i singoli iscritti»296
.
Come ho già accennato, la complessa problematica delle relazioni tra ordinamento
autonomistico delle istituzioni pubbliche e struttura del sistema delle forze politiche è stato con
forza riproposto dalla riforma costituzionale “Renzi-Boschi”, che trova i suoi cardini appunto della
configurazione del Senato come “Camera delle autonomie locali” e nella riarticolazione dell’assetto
dei diversi livelli territoriali di governo. Molte voci critiche della novella costituzionale si sono
295
L’“intreccio delle politiche” tra partiti e regioni. Alla ricerca dell’autonomia regionale, in AA.VV.,
Autonomia politica regionale e sistema dei partiti, I, Milano 1988, ora in Opere, III, cit., 921. 296
Partiti, sistema di partiti, pluralismo, in St. parl. e pol. cost., nn. 43-44/1979, ora in Opere, IV, cit., 90-91.
Non è forse inutile qui porre in evidenza come nella visione di Martines la «funzione tipica dei partiti appare […] essere
quella di dare sede e voce alla diverse istanze politiche dei governati in una società pluriclasse, di aggregare e ridurre ad
uno i consensi dei cittadini intorno ad un programma politico, di trasformare in dati giuridico-formali i dati elaborati sul
piano pre-giuridico o della realtà sottostante all’ordinamento, ed, in prospettiva, di conquistare il governo dello stato»
(ivi, 85): come si può agevolmente constatare, la funzione assegnata ai partiti politici dal Nostro si pone come
imprescindibile nell’organizzare ed ordinare il flusso di relazioni osmotiche tra società civile ed assetto dei pubblici
poteri, anche se lo stesso A. ha costantemente e con forza negato ai partiti ogni forma di monopolio nella
rappresentanza politica (in tal senso, ad esempio, in Formazioni sociali, sistema delle autonomie e centralità del
Parlamento, cit., 51 ss.).
685
levate assumendo una secca contrapposizione (o, quantomeno, una sostanziale alternativa) tra
rappresentanza propriamente politica, naturalmente incardinata sui partiti, e rappresentanza
territoriale, che si collocherebbe sul piano squisitamente istituzionale. Pare a me che la lezione del
Maestro messinese qui onorato si presenti preziosa anche riguardo a tale nodo problematico, tanto
arduo quanto centrale in ordine alla definizione della fisionomia complessiva del sistema ed al
conseguimento dei necessari equilibri, laddove essa evidenzia l’esigenza di declinare la logica di un
ordinamento autenticamente autonomistico, secondo la quale l’unità deve essere conseguita nella e
per la diversità (territoriale, e non solo …), tanto sul terreno delle pubbliche istituzioni quanto sul
piano del sistema partitico. In altri termini, lungi dal separare – o, peggio, contrapporre – il
pluralismo territoriale ed il pluralismo politico-partitico, lungi dall’optare tra il valore
autonomistico ed il valore democratico, la fisiologica dinamica dei sistemi costituzionali
contemporanei non può che riposare sulla loro reciproca compatibilità; anzi, sulla loro felice
sinergia. Una simile istanza, naturalmente, appartiene al sistema costituzionale in quanto accoglie
tra i suoi principi fondamentali il valore dell’autonomia territoriale, e dunque opera tanto nel caso in
cui nel prossimo referendum prevalgano i “sì” quanto nell’ipotesi opposta, in cui ad avere la meglio
sia l’opzione per il “no”. Semmai, può incidentalmente rilevarsi che uno degli aspetti più positivi
della riforma “Renzi-Boschi”, al netto dei limiti che certamente essa presenta, mi sembra
ravvisabile appunto nella spinta che essa imprimerebbe al sistema partitico italiano in direzione di
una adeguata articolazione territoriale, capace tuttavia di farsi carico delle istanze di unità e
coesione del Paese: la stessa assenza di vincolo di mandato dei senatori, sancita dal novellato art. 67
Cost., mi sembra possa e debba essere interpretata appunto nel senso che si “responsabilizza” il
sistema partitico in quanto tale rispetto all’esigenza, icasticamente enunciata dal riformato art. 55,
che il Senato rappresenti – come Camera del Parlamento nazionale – «le istituzioni territoriali» ed
eserciti «le funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica»297
.
297
Ma è ai miei occhi del tutto evidente che nella prospettiva indicata nel testo occorre che si manifestino ed
operino positivamente, insieme a forze e dinamiche propriamente politiche, energie e risorse presenti nel tessuto civile:
sono perciò pienamente d’accordo con A. MORELLI (Unità e autonomia nel pensiero del prof. Temistocle Martines, cit.,
394-395) e A. RUGGERI [Sogno e disincanto dell’autonomia politica regionale nel pensiero di Temistocle Martines (con
particolare riguardo al “posto” delle leggi regionali nel sistema delle fonti), in Dirittiregionali.org., 3/20016 (29
maggio 2016), 469], laddove considerano necessario il radicamento nel Paese di una forte e diffusa cultura
dell’autonomia.
686
4. Concludendo queste rapide e succinte notazioni, conviene ribadire che non ci è dato
(purtroppo …) far tesoro della riflessione di Martines sulla difficile situazione che il nostro Paese
attraversa (anche) dal punto di vista politico-istituzionale: si può tuttavia essere certi che Egli,
coerentemente con la prospettiva “realistica” cui ha costantemente improntato il suo magistero, ci
inviterebbe ad analizzare attentamente e criticamente i dati offerti dalla realtà, nelle sue molteplici
dimensioni (giuridica, istituzionale, politica, sociale …). Ed è ben difficile negare che una lettura
realistica, aliena da preconcetti timori o da ingiustificate speranze, della condizione delle istituzioni
pubbliche e dello stato del sistema politico possa facilmente condurre a sconfortanti conclusioni.
Pure, mi piace riconoscermi nell’invito, autorevolmente formulato da G. Silvestri, ad imitare il
nostro Maestro nella speranza che sempre ne ha accompagnato la fede nei «valori della
democrazia» e nella «salda fiducia» da Lui costantemente testimoniata «nella forza storica degli
ideali»298
.
298
G. SILVESTRI, Rileggendo, sessant’anni dopo, il saggio di Temistocle Martines sull’autonomia politica delle
regioni in Italia, cit., 476.
Martines e la “specialità” siciliana
di Antonio Saitta
(Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università di Messina)
(26 agosto 2016)
1. Già molti anni prima che l’esperienza delle regioni ordinarie prendesse avvio, Martines
aveva indirizzato una parte cospicua della propria attività di studioso a questa esperienza di
decentramento politico inedita per un paese come l’Italia di forti e consolidate tradizioni
centralistiche. Fino al 1970 si contano otto saggi specificamente dedicati al diritto regionale299
, ma
ciò che rileva non è tanto il numero dei contributi quanto l’approccio al tema, immediatamente
focalizzato al cuore delle questioni che il nuovo ente implicava: fu subito chiaro al Maestro che con
la Regione non si aggiungeva semplicemente un nuovo ente di autonomia agli altri già conosciuti
dall’esperienza ordinamentale italiana300
, ma si apriva una grande questione di ordine costituzionale
e politico-istituzionale che avrebbe imposto un ripensamento ab imis della concezione stessa della
sovranità statuale e delle funzioni che lo Stato è chiamato a svolgere: in una parola, della forma di
Stato, nell’accezione più ampia che all’espressione si possa dare. Non a caso uno dei suoi primi
impegni sulle regioni è lo storico Studio sull’autonomia politica delle Regioni in Italia che,
legandosi alle ricerche che in quegli stessi anni stava conducendo – in termini generali – sul
concetto di indirizzo politico, qualificava il tema del regionalismo come una delle pietre angolari
per la corretta comprensione della organizzazione del potere pubblico disegnata dalla nuova
Costituzione, mettendo già in luce quali sarebbero stati i punti di crisi del tormentato rapporto con
lo Stato.
2. Una parte importante delle sue riflessioni regionalistiche è stata dedicata alla Sicilia, e
credo che ciò non sia dovuto solo al fatto che, in quanto messinese, gli era naturale volgere la mente
all’esperienza autonomistica che vedeva svolgersi più da vicino, interesse peraltro coltivato non
solo come studioso, ma anche come cittadino attivo e partecipe delle vicende politiche e sociali del
299
In ordine cronologico, Questioni e dibattiti sulla legislazione regionale siciliana, in Riv. Trim. Dir. Pubbl.,
1954, 1 ss., ora in Opere, II, Milano 2000, 147 ss., Studio sull’autonomia politica delle Regioni in Italia, in Riv. trim.
dir. Pubbl., 1956, 100 ss., ora in Opere, III, Milano 2000, 294 ss., Documentazione e cronaca costituzionale. Regione
siciliana, in Giur. cost., 1956, n. 6, 1200 ss., ora in Opere, cit., 377 ss., Documentazione e cronaca costituzionale.
Regione siciliana, in Giur. cost., 1959, n. 1, 137 ss., ora in Opere, cit., 401 ss., Controlli sulle istituzioni pubbliche di
assistenza e beneficienza nel Trentino-Alto Adige: i poteri dello Stato e della Regione, in Giur. it., 1960, p. I, sez. I, 921
ss., ora in Opere, cit., 421 ss., voce Consiglio regionale, in Enc. dir., IX (1961), 268 ss., ora in Opere, cit., 435 ss., La
ordenación regional en Italia, in Revista del Instituto de Ciencias sociales, 1964, 239 ss., ora in Opere, cit., 485 ss.,
Decentramento, codipendenza funzionale e norme di attuazione dello statuto siciliano in materia finanziaria, in Riv.
trim. dir. pubbl., 1967, 866 ss., ora in Opere, cit., 517 ss. 300
Assai interessante è la ricostruzione fatta in Il comune del mezzogiorno d’Italia dopo l’unità, in Clio, 1967,
170 ss., ora in Opere, cit., 545 ss.
688
territorio in cui viveva e operava. Rileggendo i suoi saggi si ricava l’idea che la particolare
attenzione rivolta alle vicende dell’autonomia siciliana fosse dovuta soprattutto al fatto che quella
dell’Isola gli deve essere apparsa subito come una vera e propria epifania della Parabola delle
Regioni301
.
Egli, infatti, riconduceva la crisi del regionalismo all’assenza «di una sua radice popolare,
nella inesistenza di consistenti e diffuse tradizioni autonomistiche, nel – diciamolo pure –
disinteresse di buona parte delle popolazioni che abitano le diverse Regioni ad essere rette da un
governo locale anziché dipendere, per la cura dei loro primari interessi, dal governo centrale»302
. La
storia dell’autonomismo speciale non è estranea a questi limiti, tutt’altro: a parte le regioni di
confine la cui più ampia autonomia era stata imposta da ragioni internazionali, anche per la
Sardegna e la Sicilia, nelle quali «qualche istanza autonomistica si era manifestata»303
, gli Statuti
erano stati documenti costituzionali ottriati, “artificiali”, nel caso siciliano determinati anche dalle
gravissime condizioni dell’ordine pubblico a poche settimane dall’elezione dell’Assemblea
costituente e dal referendum istituzionale.
La crisi dell’autonomia speciale è analizzata dal Maestro anche come paradigma della
distorta attuazione del disegno regionalistico costituzionale: accentramento del sistema politico-
partitico e resistenza dell’apparato politico-burocratico dello Stato sono individuati come i
principali fattori – unitamente alla poco attiva «spinta dal basso» della quale si è già fatto cenno –
del sostanziale fallimento dapprima dell’esperienza delle Regioni speciali e, quindi, di quelle
ordinarie304
.
Questa è una costante dell’approccio di Martines alle questioni autonomistiche siciliane, di
considerarle, cioè – al netto delle specificità storiche, culturali, economiche e politiche che pure
teneva ben presenti – non come casi isolati o una serie di bizzarre peculiarità insulari, ma piuttosto
come rappresentative di un’esperienza esemplare da studiare con grande attenzione proprio perché,
nel bene e nel male, simbolica dell’intera vicenda del regionalismo in Italia.
301
È il titolo di un suo saggio apparso in AA.VV., L’autonomia regionale siciliana tra regole e storia, Palermo
1993, 505 ss., ora in Opere, cit., 1021 ss. 302
Op. ult. cit., 1022. 303
Ibidem, 1023. 304
La parabola delle Regioni, 1044.
689
3. È questa l’idea che si ricava soprattutto dal suo lavoro più notevole in materia: Lo Statuto
siciliano oggi305
. Si tratta di un saggio magistrale, ancora oggi fondamentale punto di partenza di
ogni nuova riflessione sull’autonomia siciliana, di inalterata attualità a distanza di tanti anni e dopo
i profondi mutamenti (sul piano costituzionale, legislativo, giurisprudenziale, politico) frattanto
intervenuti.
La prima importante notazione vien fatta in riferimento alla circostanza che lo Statuto
siciliano, pur anteriore al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, e quindi scritto all’oscuro di
quali sarebbero state le vicende costituzionali del Paese, contiene una serie di fondamentali scelte
anticipatrici di ciò che avrebbe poi fatto l’Assemblea costituente per l’intera nazione: principio di
legalità costituzionale sovraordinato a quello di legalità ordinaria, istituzione di un organo preposto
al controllo giurisdizionale della costituzionalità delle leggi, forma di governo parlamentare, varietà
di tipi di potestà normativa regionale, enumerazione delle materie di potestà legislativa,
partecipazione della Regione ad attività statali, controllo statale sulle leggi regionali e possibilità di
impugnazione da parte della Regione delle leggi statali davanti all’organo di giustizia
costituzionale, giudizio penale sulla condotta dei componenti il Governo promosso dall’Assemblea
parlamentare e affidato all’organo di giustizia costituzionale. Certo vi erano pure parti del tutto
inedite, e che sarebbero rimaste un autentico unicum non solo in riferimento alla Costituzione ma
anche agli altri statuti regionali, ma era comunque notevole la circostanza che alcune tra le più
importanti opzioni politico-costituzionali, tutt’altro che scontate (si pensi solo all’istituzione
dell’Alta Corte) fossero poi sostanzialmente confermate nel testo costituzionale, così dimostrando
di essere frutto non di scelte occasionali o contingenti, ma piuttosto di precise esigenze di
composizione e organizzazione dei pubblici poteri.
4. Tuttavia, l’acutezza dell’analisi è inedita e spietata soprattutto in un altro punto. Martines,
infatti, per primo nota l’assenza di norme programmatiche nello Statuto. Si tratta di una lacuna
giustamente considerata essenziale ed esiziale perché mina l’intero impianto statutario. L’Autore è
consapevole, ventun anni prima delle note pronunce della Corte costituzionale306
, del rischio che
305
In Le Regioni, 1983, 895 ss. e in AA.VV., La Sicilia e le altre Regioni a statuto speciale davanti ai
problemi delle autonomie differenziate, in Quaderni a cura del Servizio studi legislativi dell’A.R.S., 1984, n. 20, 39 ss.,
ora in Opere, cit., 825 ss. 306
Il riferimento è a C. cost. nn. 372, 378 e 379 del 2004.
690
norme siffatte potessero avere solo efficacia politica e non giuridica, e tuttavia ne denunzia
egualmente l’assenza per l’intrinseco valore direttivo e promozionale che avrebbero portato con
loro in quanto espressive di valori e principi legittimati dalle sottostanti forze politico-sociali.
Ma c’è di più, molto di più: «la mancata inserzione nello Statuto siciliano (così come, del
resto, negli Statuti delle altre Regioni ad autonomia differenziata) di norme programmatiche va
imputata essenzialmente ad una concezione ristretta di autonomia politica regionale (peraltro
successivamente convalidata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale)»307
. Lo Statuto, in
sostanza, non spiega il fondamento e le finalità dell’autonomia siciliana, proprio «nel quadro
dell’allora risorgente “questione meridionale”», non parla dell’arretratezza economica e sociale che
funestava nel 1946 la Sicilia rispetto alle altre parti del pur martoriato Paese. Vi sono solo norme di
carattere finanziario, ma rivolte allo Stato in una logica rivendicazionista e risarcitoria che, giusta o
sbagliata che fosse, era destinata a rimanere, come le cronache di questi mesi dimostrano in termini
ormai probabilmente definitivi, sconfitta. Insomma, un insieme di norme organizzative, protese solo
a far partire il funzionamento della struttura regionale e poco più.
Qui si annida una grande (forse la grande) questione del sostanziale fallimento della
specialità siciliana: uno Statuto nato come Costituzione provvisoria (se non emergenziale in ragione
delle già richiamate esigenze di ordine pubblico esistenti alla vigilia dell’elezione della
Costituente), in un contesto di ordinamento costituzionale anch’esso provvisorio per l’intero Paese,
è poi rimasto sostanzialmente immutato nei settant’anni successivi, simulacro di un’autonomia che
nelle forme originarie non poteva essere e, quindi, non fu e, direi proprio, non potrà mai essere.
Proprio per questa piena consapevolezza, in tutti i suoi scritti sulla materia Martines, da
rigoroso giurista qual era, richiamava l’attenzione sulla inderogabile necessità di effettuare l’opera
di coordinamento con la Costituzione tramite la difficile, ma pur ineludibile, via maestra della
riforma del testo statutario. Era – e ancor di più lo è oggi – una necessità ovvia, percepita già alla
nascita dello Statuto dallo stesso R.D. 15 maggio 1946, n. 455 laddove annunciava che l’atto
sarebbe stato «sottoposto all’Assemblea Costituente per essere coordinato con la nuova
Costituzione»; lo ribadiva l’art. 1, comma 2, della L. cost. 26 febbraio 1948, n. 2, secondo il quale
«le modifiche ritenute necessarie dallo Stato o dalla Regione saranno, non oltre due anni
dall’entrata in vigore della presente legge, approvate dal Parlamento nazionale con legge ordinaria,
307
Lo Statuto siciliano oggi, cit., 829.
691
udita l’Assemblea regionale della Sicilia»; lo rilanciava dopo oltre mezzo secolo l’art. 10 della L.
cost. n. 3 del 2001. Tutto inutile: lo Statuto è diventato il monumento di se stesso, emblema di un
provvedimento nato con il respiro della provvisorietà e poi destinato a superare agevolmente i
confini del nuovo secolo.
Non si tratta della solita disattenzione del legislatore, ma di un processo di trasfigurazione
ben più profonda avvenuta nella percezione della classe politica regionale (e non solo di quella).
Basti pensare che nel 2004, allorché l’Assemblea regionale formulò una proposta organica di
riforma dello Statuto ci si mosse ancora nella logica della novella degli articoli del testo originario
del 1946 e non della riscrittura integrale del documento. D’altronde, anche la L. cost. n. 2 del 2001,
concernente l’elezione diretta dei presidenti delle regioni a statuto speciale, si è ben guardata dal
mettere mani all’intero impianto statutario ma si è limitata a intervenire con poche ed essenziali
modifiche rese indispensabili dall’introduzione diretta del Presidente.
Ecco allora come lo sguardo di Martines riusciva a vedere lontano quando notava come la
mancanza di una parte valoriale e programmatica negli Statuti speciali, e in particolare in quello
siciliano, indebolisse le ragioni stesse della specialità perché sarebbe stato inevitabile veder
scolorire il fondamento delle forme particolari dell’autonomia isolana quando queste restavano
affidate solo ad una serie di norme organizzative e funzionali ispirate ad una logica risarcitoria,
orfana di giustificazione con il passare dei decenni. Come negare che sia oggi questa la condizione
in cui si trova l’autonomia siciliana, sempre più criticata da forze politiche e ascoltati commentatori,
additata spesso all’opinione pubblica – anche al di là dei propri specifici demeriti – quale esempio
di costi, inefficienze e privilegi non più sopportabili né giustificabili?
Per queste ragioni il Maestro messinese richiamava la diversa sorte che avrebbe potuto avere
la specialità siciliana se il suo Statuto avesse fatto mostra di condividere e far proprio il programma
di trasformazione sociale tracciato in Costituzione e tanto più necessario in una Regione afflitta da
mille problemi come la Sicilia. Sostenuto da una parte programmatica, il disegno riformatore, ad un
tempo costituzionale e statutario, sarebbe stato affidato anche alla responsabilità degli organi
dell’ente regionale e, quindi, in ultima analisi, allo stesso corpo elettorale chiamato ad esprimere la
propria classe di governo. Per questa via il dualismo tra Stato e Regione non sarebbe stato certo
superato, ma si sarebbe potuto svolgere in forme diverse da quelle che – ad esempio, in materia
finanziaria – ancora nel 2010 la Regione ricercava vanamente nella lettera dello Statuto. È nota la
692
risposta negativa della Corte costituzionale, che affermò candidamente che «le norme di attuazione
dello statuto hanno costruito un diverso modello dell’ordinamento finanziario siciliano», addirittura
«“allontanandosi dal disegno originariamente sotteso alla formula testuale dell’art. 36 dello statuto”
(sent. n. 138 del 1999)»308
, così implicando – probabilmente con eccessiva disinvoltura sotto
l’aspetto giuridico-formale – la prevalenza sul dato giuridico-formale del coordinamento di mero
fatto anche quando compiuto contra statutum.
Negli anni in cui scriveva Martines, peraltro, la percezione da parte dell’opinione pubblica
dei problemi connessi all’esperienza regionale, e della specialità in particolare, era ben diversa da
quella, per tanti aspetti grossolana e brutalmente semplificatoria, oggi imperante. Lo studioso, però,
già allora individuava – in prospettiva storica, ma anche nell’attualità istituzionale degli anni ’80
del secolo scorso – la forma della legge costituzionale propria degli statuti speciali come un
ostacolo, e non una garanzia, per la causa della specialità309
. È innegabile, infatti, come la legge
costituzionale si sia rivelata per gli statuti speciali un vero e proprio privilegio formale, ma una
condanna sostanziale. La vulgata – buona solo a compiacere vuote vanità – narra di uno Statuto
«pari alla Costituzione» (il che, ovviamente, non è). In realtà, oltre le apparenze rimane solo una
forma normativa sostanzialmente sottratta all’iniziativa della stessa Regione e quasi immodificabile
per la complessità degli equilibri politici (nazionali) necessari, se non in occasione di interventi
omologatori per tutte le cinque regioni così come è stato nel 2001 con la legge costituzionale n. 2.
Oggi, oltre alle difficoltà, già messe in luce da Martines, di coagulare maggioranze adeguate per
approvare leggi costituzionali di riforma degli statuti speciali, si dovrebbero aggiungere anche le
incertezze di un referendum costituzionale affidato a forze politiche sempre più rissose e
frammentate soprattutto sui temi istituzionali e all’indomani dell’approvazione parlamentare di una
riforma del Titolo V della Costituzione certamente non favorevole alle ragioni dell’autonomia
regionale.
Parlare di riforma dello Statuto siciliano, quindi, è oggi certamente inattuale se si guarda al
tema con le lenti della quotidianità politica concentrata su ben altri problemi, ma è, invece,
questione della massima urgenza se la si considera nella prospettiva di sistema alla quale Martines
richiamava sempre: anche prescindendo dalla previsione di adeguamento degli Statuti speciali
308
Così C. cost. n. 116 del 2010. 309
Cfr. Lo Statuto siciliano oggi, cit., spec. 835 ss.
693
contenuto all’art. 39, comma 13, della legge di riforma costituzionale sottoposta al referendum
costituzionale nei prossimi mesi, la necessità di un adeguamento formale tra Costituzione e Statuto
siciliano resta una priorità istituzionale la cui mancata attuazione ha determinato una serie di
modifiche tacite e di coordinamenti di fatto da sempre denunziati dalla dottrina, e da Martines
prima di altri, come una vera e propria zavorra per le sorti della specialità.
5. Torna sempre, quindi, la questione che Martines giustamente riteneva essenziale, della
necessità che il coordinamento avvenga per la via formale della riforma statutaria, non solo perché è
quella la strada prevista dall’ordinamento, ma perché l’unica a poter avere fondamento
democratico. Il coordinamento, infatti, in questi settant’anni, è avvenuto lo stesso ma solo per via
giurisprudenziale, di prassi, di azioni politiche. Nessuna esegesi giuridica, però, nessun
accomodamento politico, nessun rapporto di fatto tra forze politiche e istituzionali poteva supplire
all’opera di rinnovamento delle ragioni dell’autonomia: consumato, ormai, il «sostanziale
svuotamento delle ragioni storico-politiche e socio-economiche che avevano (o avrebbero dovuto
stare) a fondamento della peculiarità»310
, si tratterebbe oggi di (ri)trovare l’ubi consistam della
specialità.
Proprio per questo Martines parlava della necessità «di una “rifondazione” dell’autonomia
siciliana o, se si vuole, delle autonomie speciali più in generale, con una revisione ed integrazione
degli Statuti che adeguino alla evoluzione delle comunità regionali ed al loro sviluppo socio-
economiche le “forme e condizioni particolari di autonomia” delle cinque Regioni, nel più ampio
quadro del riassetto dell’ordinamento regionale in Italia»311
. Parole profetiche ed assolutamente
attuali a distanza di oltre trent’anni.
Ma ancora più illuminanti di queste sono le considerazioni svolte dal Maestro sull’altro
profilo da affrontare per portare il regionalismo tutto al di fuori delle secche in cui si trovava negli
anni delle sue analisi e si trova viepiù oggi. È la questione della riforma delle forze politiche, della
loro percezione dei grandi temi di cui si discute, della necessità di riformare non tanto la
Costituzione formale, quanto quella “effettivamente vigente”. Per far ciò, la vera riforma avrebbe
dovuto passare non tanto (non solo) dalla modifica dei testi costituzionali, ma dalla piena
310
Lo Statuto siciliano oggi, cit., 832. 311
Ibidem, 847.
694
acquisizione delle ragioni fondative e giustificatrici dell’autonomia che, come ripeteva Martines, o
è politica o non è312
. E nella sua visione il concetto di autonomia politica rinvia necessariamente a
quello di società responsabile, al consenso del corpo elettorale mediato dai partiti politici – soggetti
collettivi a loro volta pienamente democratici e partecipati al proprio interno – che si manifesta
anche attraverso altre mille forme di cittadinanza attiva e vita democratica.
Oggi, alla luce dell’esperienza maturata negli anni che ci separano dagli insegnamenti sopra
richiamati, tutto ciò può apparire come il disegno di un quadro lontano dalla realtà, idilliaco nella
visione dei rapporti politici e istituzionali. In effetti, come negare che i partiti, anziché sviluppare il
loro ruolo costituzionale, sono entrati in una crisi devastante che ne ha ulteriormente alterato
struttura e funzioni? Mentre Martines li sollecitava verso una più piena democratizzazione e
indipendenza, per dar corpo sostanziale alle ragioni dell’autonomia regionale, i partiti hanno
compiuto il percorso inverso, perdendo sempre più di autonomia al proprio interno e credibilità agli
occhi dell’opinione pubblica diventavano così strumenti a disposizione di leaders transeunti in un
percorso di legittimazione che va dal vertice verso la base e non all’inverso come il metodo
democratico dovrebbe imporre.
La povertà del momento, però, non riesce a smentire la lezione di Martines ma semmai a
farla brillare ancor di più. Per contrasto, appare nella sua giusta luce di visione schiettamente
democratica, responsabile e matura del regionalismo così come del rapporto tra istituzioni e
cittadini. In una parola, una concezione moderna e sempre attuale proprio per la capacità di
individuare, con tanti anni di anticipo, che il vero focolaio della crisi delle istituzioni italiane, e
delle regioni in particolare, non risiedeva tanto nella struttura costituzionale ma nel suo fondamento
sostanziale, nell’incapacità delle forze politiche e sociali di comprendere e perseguire la strada della
propria preliminare (auto)riforma.
Ed è questo insegnamento che vale ancor oggi immutato per lo Statuto siciliano così come
per le istituzioni dell’intero Paese.
312
Cfr. La parabola delle regioni, cit., 1048.
La controriforma degli enti locali in Sicilia ed il gioco della campana
(a partire dalle riflessioni di Temistocle Martines sull’art. 15 St. SI)
di Stefano Agosta
(Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Messina)
(30 agosto 2016)
Lanciare il sasso e seguirlo nel quadrato dove
andava a finire, raccoglierlo e poi tornare al punto di
partenza senza cadere, saltando su un piede solo era,
ogni volta, una sfida che metteva alla prova la nostra
abilità.
[M. GRAZIOSI, Il gioco della campana, Villanova di
Guidonia (RM) 2015, 1].
SOMMARIO: 1. Tra «deplorevoli ritardi» e devianti interpretazioni: l’interminabile attuazione dell’art. 15 St. SI.
– 2. La controriforma dell’autonomia locale siciliana nella l.r. n. 5/2016: la nuova governance dei liberi Consorzi di
Comuni. – 3. (Segue): e quella delle Città metropolitane. – 4. Le complessive carenze persistenti pure all’indomani della
l.r. n. 5/2016 e la necessità di un ulteriore intervento correttivo. – 5. L’inappagante soluzione approntata dalla
successiva l.r. n. 8/2016 (con l’ennesima richiesta governativa di modifica). – 6. Tre lunghi anni di gioco della campana
(per ritornare infine al punto di partenza): qualche notazione di chiusura sulla complessiva introduzione dei Consorzi
comunali in Sicilia. – 7. (Segue): e su quella degli enti metropolitani.
1. Tra «deplorevoli ritardi» e devianti interpretazioni: l’interminabile attuazione dell’art.
15 St. SI
In «mancanza in Italia di esperienze di decentramento legislativo e politico su base regionale
e di validi riferimenti stranieri», lo Statuto regionale siciliano rappresenta senz’altro il «primo
documento a rilevanza costituzionale dell’immediato dopoguerra in materia di autonomia
regionale»313
: così dichiarava T. Martines, il cui pensiero è sul punto più che mai vivido ed attuale
anche nel ventennale dalla scomparsa che quest’anno ricorre. Tendenzialmente sprovvista di quelle
disposizioni sostanziali – sulla programmazione socio-economica e sulla partecipazione popolare,
ad esempio – che avrebbero successivamente connotato invece i futuri Statuti regionali ordinari, la
Carta statutaria dell’isola «appare dunque come un corpo di norme prevalentemente organizzative
313
In tal senso, T. MARTINES, Lo Statuto siciliano oggi, in Le Regioni, 1983, 895 ss., ora in Opere, III,
Ordinamento della Repubblica, Milano 2000, 826 − cui sono da intendersi i successivi richiami testuali (così,
rispettivamente, 830, 844, 845) – su cui, da ultimo, A. SAITTA, Martines e la “specialità” siciliana, in questa Rivista,
III/2016, 687 ss.
696
(…) rivolte soprattutto a consentire un primo avvio dell’autonomia concessa alla Sicilia»: talune
propriamente anticipatrici dell’ordinamento costituzionale italiano per come sarebbe andato
edificandosi dall’Assemblea Costituente in poi; talaltre evidentemente peculiari della realtà
regionale siciliana, a motivo del mancato coordinamento formale con la neonata Costituzione
italiana dello Statuto del 1946.
Sopprimendo nell’ambito della Regione siciliana le circoscrizioni provinciali (e gli organi
ed enti pubblici che ne derivano) in favore dei c.d. liberi Consorzi di Comuni, tra le previsioni c.d.
speciali un posto di particolare rilievo sicuramente merita l’art. 15 St. SI: frutto − a parere di T.
Martines − di una «felice anticipazione» del modello statutario, tale avanzata disposizione finisce
nondimeno per disperdere gran parte della propria carica innovativa nell’esperienza successiva, a
causa dell’indifferenza esibita nel corso dei decenni dal legislatore siciliano. Ancora al tempo in cui
il Maestro scrive, d’altro canto, l’Assemblea Regionale Siciliana non ha provveduto a dare a siffatta
norma né corpo, né tantomeno implementazione: il quale già «deplorevole ritardo» – non ritenuto
giustificato da «perplessità d’ordine costituzionale» ovvero «particolari tensioni al riguardo tra
Stato e Regione» − «appare ancora più grave ove si osservi che spetta alla Regione ed
esclusivamente alla Regione (alla sua volontà politica) di dare vita con una sua legge ad un ente
intermedio quale sede di poteri di indirizzo, di programmazione e di coordinamento, nel quadro del
più ampio disegno di riforma dell’amministrazione locale».
Quando indugia su quest’amara constatazione, T. Martines non può certo immaginare che –
ad appena una manciata di mesi dalla pubblicazione del Suo citato contributo – il Parlamento
siciliano avrebbe invece dato finalmente seguito all’art. 15 cit., sebbene in maniera non poco
deviante rispetto all’originario alveo statutario314
: né, soprattutto, che il legislatore vi sarebbe
tornato più volte sopra proprio negli ultimi tempi, con la (poco) invidiabile media di addirittura un
testo di revisione del sistema delle autonomie locali all’anno (così, rispettivamente, l.r. nn. 7/2013,
8/2014, 15/2015, 5 e 8/2016).
Con la terza delle discipline richiamate − n. 15, Disposizioni in materia di liberi Consorzi
comunali e Città metropolitane – per la verità tale travagliato iter riformatore pareva finalmente
avviarsi alla propria definitiva conclusione: concepito nelle originarie intenzioni per colmare le non
314
Sul punto, volendo, S. AGOSTA, Il singolare destino del livello di area vasta nell’alternanza di svuotamenti
e riempimenti dell’esperienza siciliana, in AA.VV., Scritti in onore di G. Silvestri, Torino 2016, 1 ss.
697
poche, né secondarie, lacune di costruzione lasciate sul campo dai suoi due illustri predecessori315
,
quello della l.r. n. 15 cit. si presentava difatti come un articolato assai dettagliato e complesso,
occupandosi non solo più analiticamente dell’ordinamento degli enti di area vasta (titolo I) ma pure,
se non soprattutto, delle funzioni e del personale (titolo II) nonché delle previsioni economico-
finanziarie (titolo III), oltre a ritoccare l’assetto territoriale di liberi Consorzi e Città metropolitane
(titolo IV)316
.
Non passano, ad ogni modo, nemmeno due mesi dall’approvazione di tale ultima normativa
che nell’autunno del medesimo anno giunge – neanche poi tanto inaspettata, ad onor del vero –
l’impugnazione da parte del Governo nazionale di ben quattordici dei complessivi cinquantadue
articoli di cui si compone il richiamato disposto, sebbene lo stesso Consiglio dei Ministri lasci sin
da subito aperto lo spiraglio della possibile rinunzia al ricorso qualora siano tempestivamente
recepiti dall’Assemblea Regionale Siciliana i rilievi sollevati317
. A tale ultimo proposito,
nondimeno, dal principio si delinea chiaramente la netta contrapposizione tra la posizione hard ed
oltranzista sostenuta dall’Esecutivo e quella soft e possibilista patrocinata invece dall’ARS: col
primo intenzionato a difendere strenuamente l’ultimo tassello del proprio mosaico di riscrittura
degli enti locali davanti alla Corte costituzionale (al salatissimo prezzo, però, di rischiare di non
ottenere i finanziamenti statali pure connessi a tale revisione); e la seconda al contrario intenzionata
a scongiurare il sindacato del Giudice delle leggi, con l’introduzione delle richieste proposte di
correzione e la contestuale sospensione delle già fissate elezioni nell’isola318
.
Nonostante la mediazione del Presidente dell’Assemblea Regionale, bisogna comunque
attendere l’inizio della primavera successiva perché l’ennesimo ddl di riordino delle ex Province
regionali siciliane (n. 1070) approdi infine in sala d’Ercole per la discussione. Sin dalle prime
schermaglie d’aula, appare peraltro evidente l’obiettivo pragmaticamente perseguito dall’Esecutivo
315
In oggetto, part. Z. ZIEMBIÑSKI, Les lacunes de la loi dans le système juridique polonnais contemporain et
les méthodes utilisées pour les combler, in AA.VV., Études de logique juridique, a cura di Ch. Perelman, Bruxelles
1966, 41 e, più in generale, R. GUASTINI, Lacune del diritto, in Dig./Priv., X (1994), 4. 316
Così, se si vuole, S. AGOSTA, Il recente riordino delle autonomie locali siciliane alla prova dei fatti: fra
nodi ancora da sciogliere ed un’auspicabile inversione del metodo riformatore per il futuro, in Nuove aut., n. 2/2015,
219 ss. 317
Cfr. comunicato stampa n. 85 del Consiglio dei Ministri, in www.governo.it (5 ottobre 2015). 318
In tal senso, sia consentito ancora rinviare a S. AGOSTA, Un faticoso parto (all’esito di una non meno
travagliata gestazione): il controverso ingresso delle Città metropolitane ed il cenotafio delle Province regionali in
Sicilia, in Federalismi.it, n. 23/2015, 1 ss.
698
regionale319
: che non è più quello secco di qualche mese addietro di resistere innanzi alla Consulta
ma neppure quello – non meno radicale ma diametralmente opposto – di recepire in toto le
prescrizioni contenute nella l. n. 56/2014, Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province,
sulle unioni e fusioni di comuni (c.d. Delrio). Nella cornice dei principi generali dettati dalla
disciplina statale, si decide insomma di discostarsi da essa solo per taluni singoli profili nella
speranza di scansare in tal modo la paventata scure dell’illegittimità costituzionale: quella che sin
da subito appare un’ibrida via intermedia intrapresa per non scontentare nessuno rischia nondimeno
di rivelarsi – come non di rado accade − insoddisfacente per tutti.
Così facendo, si apre ad ogni modo un’intera sessione parlamentare completamente riservata
dall’ARS alla discussione della c.d. riforma della riforma degli enti locali siciliani (a conti fatti una
vera e propria “controriforma”, quindi)320
. Alla prima vera prova successiva alla discussione
generale dell’aula, tuttavia, cade sotto i colpi dei franchi tiratori − nonostante il parere negativo
espresso dal Governo − quell’emendamento parlamentare che vorrebbe almeno introdurre il voto
ponderato per l’elezione degli organi di governo metropolitani. Per fortuna dell’Esecutivo che la
sostiene, in maniera sensibilmente diversa va, invece, la votazione sulla posticipazione delle
elezioni dall’originaria data del 30 giugno ad una domenica compresa tra il 30 giugno e il 15
settembre321
.
2. La controriforma dell’autonomia locale siciliana nella l.r. n. 5/2016: la nuova
governance dei liberi Consorzi di Comuni
Il risultato della votazione conclusiva vede infine recepite quasi tutte le indicazioni espresse
dal Consiglio dei Ministri con la (macroscopica) eccezione del Sindaco metropolitano il quale –
bocciata con voto segreto dell’aula (compreso il Movimento cinquestelle) la proposta avanzata dalla
maggioranza del Pd della coincidenza, almeno in prima applicazione, dei Sindaci dei tre capoluoghi
319
Sul punto, REDAZIONE, Ex Province al palo, l’Ars ci riprova. Riforma in aula martedì prossimo, in
www.blogsicilia.it (16 marzo 2016). 320
In oggetto, REDAZIONE, Riforma province, l’Ars ci riprova, in www.blogsicilia.it (22 marzo 2016). 321
… seppure da non pochi ritenuta una variazione orchestrata ad hoc per indebolire l’eventuale candidatura a
Sindaco delle rispettive Città metropolitane da parte degli attuali Sindaci dei capoluoghi siciliani di Palermo, Catania e
Messina (il cui mandato si sarebbe così approssimato sempre più alla scadenza): su questi profili, part. M. VIOLA,
Riforma ex Province, governo battuto in Aula ma la ‘revisione’ passa, in www.blogsicilia.it (30 marzo 2016).
699
con quelli metropolitani – rimane dunque elettivo (soprattutto in considerazione dell’elevata
concentrazione di poteri che in capo a quest’ultimo diversamente si ritiene che si sarebbe avuta322
).
Ulteriormente prorogate le gestioni commissariali delle ex Province regionali (dal 30 giugno al 30
settembre 2016323
) molteplici risultano i versanti della l.r. n. 15 cit. sui quali la l.r. n. 5 cit. perciò
insiste: a partire dai Consorzi di Comuni e le Città metropolitane per finire con talune correzioni
alle funzioni regionali ed all’Osservatorio regionale.
Con riferimento ai primi, è indubitabilmente quella relativa alla governance dei nuovi enti
consortili la porzione di intervento modificativo più consistente, senza trascurare comunque il
rilevante emendamento di cui all’art. 12, comma 1, l.r. n. 5 cit., il quale − da quelle c.d. proprie del
libero Consorzio comunale – stralcia adesso l’importante funzione ex art. 27, comma 1, punto 3),
lett. e), l.r. n. 15 cit. dell’organizzazione e gestione dei servizi nonché della localizzazione e
realizzazione degli impianti di smaltimento dei rifiuti e di depurazione delle acque (quando i
Comuni, singoli o associati, non possano attendervi).
Rispetto all’originario assetto disposto dalle discipline pregresse, la forma di governo dei
Consorzi di Comuni appare ora ampiamente rimaneggiata da interventi di soppressione (e
contestuale sostituzione) concomitanti a quelli di mera modifica. Soppressa risulta, in primo luogo,
la c.d. Adunanza elettorale di cui all’art. 4, comma 1, lett. d), l.r. n. 15 cit.324
(e, ovviamente, tutte le
disposizioni ad essa relative325
), seguita a ruota dalla Giunta del libero Consorzio ex art. 5, commi
1, 2, 6, 7, 8 e 9, l.r. n. 5 cit. le cui funzioni adesso passano tutte al neoistituito Consiglio
consortile326
: eletto dai Sindaci e dai Consiglieri comunali (in carica) dei Comuni rientranti nel
Consorzio comunale − eccettuati quelli sospesi di diritto dalla carica, ai sensi dell’art. 11, D.Lgs. n.
235/2012327
− tra i Sindaci ed i Consiglieri comunali in carica328
, esso viene istituito dall’art. 4,
comma 1, l.r. n. 5 cit. (aggiungendo pertanto all’art. 4, comma 1, lett. a), l.r. n. 15 cit. una lettera a
bis).
322
Così REDAZIONE, Riforma ex Province approvata. Il no dei 5 stelle, il sì del sindacato, in www.blogsicilia.it
(31 marzo 2016). 323
Cfr., art. 51, comma 1, l.r. n. 15 cit. modificato dall’art. 13, comma 1, l.r. n. 5/2016, Modifiche alla legge
regionale 4 agosto 2015, n. 15 «Disposizioni in materia di liberi Consorzi comunali e Città metropolitane». 324
In tal senso, art. 1, comma 1, lett. a), l.r. n. 5 cit. 325
Sul punto part. artt. 10 e 11, comma 1, lett. d), l.r. n. 15 cit. 326
In oggetto, artt. 5, commi 3, 4 e 5, nonché art. 7, comma 1, lett. a), l.r. n. 5 cit. 327
Così, art. 7 bis, comma 7, l.r. n. 15 cit. aggiunto dall’art. 4, comma 3, l.r. n. 5 cit. 328
Cfr. art. 7 bis, comma 6, l.r. n. 15 cit.
700
In particolare, si prevede poi che l’elezione dell’organo consiliare avvenga sulla base di liste
composte da un numero di candidati non superiore al numero dei Consiglieri da eleggere (e
comunque non inferiore alla metà degli stessi), sottoscritte da almeno il cinque per cento degli
aventi diritto al voto e presentate dalle ore otto del ventunesimo giorno alle ore dodici del
ventesimo giorno antecedente la votazione all’ufficio elettorale329
. Premesso che debba essere
diretto, libero, segreto ed attribuito a liste di candidati concorrenti in un unico collegio elettorale
corrispondente al territorio consortile, il voto espresso da ciascun elettore per il Consiglio è frutto
della ponderazione di cui all’art. 1, commi 33 e 34, l. n. 56 cit. (sulla base di un indice determinato,
cioè, in relazione alla popolazione complessiva della fascia demografica del Comune di cui l’eletto
è Sindaco o Consigliere330
).
Composto dal Presidente del libero Consorzio comunale e da un numero variabile di
Consiglieri in proporzione ai cittadini residenti nel territorio consortile331
, quale organo di indirizzo
politico e di controllo dell’ente di area vasta332
della durata di cinque anni333
il Consiglio approva (a
maggioranza assoluta) i bilanci consuntivi e pluriennali di previsione proposti dal Presidente del
Consorzio di Comuni ed il regolamento per il proprio funzionamento nonché i regolamenti, i piani
ed i programmi334
oltre a proporre all’Assemblea del libero Consorzio comunale lo Statuto e le
relative modifiche335
. Composta dai Sindaci dei Comuni appartenenti al territorio consortile,
quest’ultima viene infine istituita − secondo quanto statutariamente disposto − con poteri
propositivi e consultivi336
, su proposta dell’appena citato Consiglio adottando o respingendo lo
329
In tal senso, art. 18, comma 4 bis, l.r. n. 15 cit. − inserito ex art. 7, comma 1, lett. c), l.r. n. 5 cit. – il quale
altresì stabilisce (comma 4 ter) che «nelle liste nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore al 60
per cento del numero dei candidati, con arrotondamento all’unità superiore qualora il numero dei candidati del sesso
meno rappresentato contenga una cifra decimale inferiore ai 50 centesimi. In caso contrario, l’ufficio elettorale riduce la
lista cancellando i nomi dei candidati appartenenti al sesso più rappresentato, procedendo dall’ultimo della lista, in
modo da assicurare il rispetto delle disposizioni di cui al primo periodo. La lista che, all’esito della cancellazione delle
candidature eccedenti, contenga un numero di candidati inferiore a quello minimo prescritto di cui al comma 4 bis è
inammissibile». 330
Sul punto, art. 18, comma 4 quater, l.r. n. 15 cit., introdotto dall’art. 7, comma 1, lett. c), l.r. n. 5 cit. 331
Dieci, dodici o sedici componenti a seconda che la popolazione residente del Consorzio di Comuni
raggiunga i trecentomila abitanti, sia superiore a trecentomila ma inferiore a settecentomila abitanti ovvero sia pari o
superiore a settecentomila abitanti (così, art. 7 bis, comma 5, l.r. n. 15 cit.). 332
In oggetto, art. 7 bis, comma 1, l.r. n. 15 cit. 333
Così, art. 19, comma 1, l.r. n. 15 cit. il cui nuovo periodo è stato aggiunto dall’art. 8, comma 1, lett. b), l.r.
n. 5 cit. 334
Cfr. art. 7 bis, commi 2 e 3, l.r. n. 15 cit. 335
In tal senso, art. 7 bis, comma 4, l.r. n. 15 cit. 336
Sul punto, art. 8, commi 1 e 2, l.r. n. 15 cit. sostituito ai sensi dell’art. 6, comma 2, l.r. n. 5 cit.
701
Statuto e le eventuali modifiche (con i voti che rappresentino almeno la metà dei Comuni compresi
nel Consorzio e la metà della popolazione complessivamente residente337
).
Passando dagli organi rimossi e rimpiazzati a quelli mantenuti – soppresso il riferimento al
mandato che non deve scadere prima di diciotto mesi dalla data di svolgimento delle elezioni – ad
oggi candidabile a Presidente del Consorzio di Comuni è ciascun Sindaco di Comune appartenente
all’ente consortile a meno che non risulti sospeso di diritto dalla carica ex art. 11, D.Lgs. n. 235
cit.338
. Premesso che le candidature da presentare all’ufficio elettorale per l’elezione presidenziale
devono ora essere sottoscritte da almeno il quindici per cento degli aventi diritto al voto339
, il
Presidente − ai sensi del novellato art. 6, comma 5, l.r. n. 15 cit. – viene quindi eletto dai Sindaci e
dai Consiglieri comunali in carica appartenenti (non più alla soppressa Adunanza bensì) ai Comuni
del libero Consorzio340
con voto diretto, libero e segreto: vincitore risulta così il candidato che abbia
riportato il maggior numero di voti, calcolato coi criteri di ponderazione di cui all’art. 1, commi 32,
33 e 34, l. n. 56 cit.341
. Tra le cause di cessazione dalla carica presidenziale, poi, non figura più la
rimozione a seguito di approvazione di mozione di sfiducia ai sensi dell’art. 10, l.r. n. 15 cit.
(soppressa adesso dall’art. 8, comma 2, l.r. n. 5 cit.). Sparita l’Adunanza elettorale ed apparso in sua
vece il Consiglio del Consorzio comunale, tocca infine al Presidente convocare e presiedere
quest’ultimo ai sensi dell’art. 5, comma 1, lett. d), l.r. n. 15 cit. novellato dall’art. 4, comma 2, l.r. n.
5 cit.
3. (Segue): e quella delle Città metropolitane
Parimenti destinatarie di interventi diretti al nucleo della loro governance, le Città
metropolitane sembrano dalla l.r. n. 5 cit. subire una riscrittura in tutto e per tutto speculare a quella
appena esaminata per i loro omologhi consortili, mediante le medesime misure di
soppressione/sostituzione e modifica. Così − a norma dell’art. 1, comma 1, lett. f), l.r. n. 5 cit. −
sparisce anche a livello metropolitano l’Adunanza elettorale di cui all’art. 17, l.r. n. 15 cit.
337
In oggetto, art. 2, comma 2, l.r. n. 15 cit. rimpiazzato dall’art. 6, comma 1, l.r. n. 5 cit. 338
Così, art. 6, comma 6, l.r. n. 15 cit. modificato ex art. 3, comma 1, lett. c), l.r. n. 5 cit. 339
Cfr. art. 18, l.r. n. 15 cit. riscritto dall’art. 7, comma 1, lett. b), l.r. n. 5 cit. 340
In tal senso, art. 1, comma 1, lett. b), l.r. n. 5 cit. 341
Sul punto, art. 6, comma 7, l.r. n. 15 cit. sostituito ex art. 2, comma 1, lett. a), l.r. n. 5 cit.
702
Parimenti soppressa dall’art. 5, comma 14, l.r. n. 5 cit. la Giunta metropolitana ex art. 16, l.r. n. 5
cit., è quindi ai Consiglieri metropolitani, alla stregua dei propri colleghi del libero Consorzio, che
passano talune delle funzioni a quest’ultima originariamente spettanti (si pensi, ad esempio, a quella
della previa deliberazione della data di elezione del Sindaco metropolitano342
): ai componenti del
Consiglio, peraltro, lo stesso Sindaco può adesso assegnare − nel rispetto del principio di
collegialità nonché delle modalità e limiti stabiliti dallo Statuto metropolitano – deleghe (in ogni
momento revocabili con motivato provvedimento sindacale)343
.
Aggiunto con la nuova lett. a bis) all’art. 11, comma 1, l.r. n. 15 cit.344
, il Consiglio
metropolitano rappresenta ora l’organo di indirizzo politico e di controllo dell’ente di area vasta345
,
eletto dai Sindaci e dai Consiglieri comunali in carica dei Comuni appartenenti alla Città
metropolitana – fatta eccezione per quelli sospesi di diritto dalla carica, ai sensi dell’art. 11, D.Lgs.
n. 235 cit.346
− tra i Sindaci ed i Consiglieri comunali in carica347
sulla base di liste composte da un
numero di candidati non superiore al numero dei Consiglieri da eleggere (non inferiore alla metà
degli stessi) e sottoscritte da almeno il cinque per cento degli aventi diritto al voto348
: diretto, libero
e segreto, il voto così espresso dall’elettorato viene attribuito a liste di candidati concorrenti in un
unico collegio elettorale corrispondente al territorio metropolitano; pure in tale frangente, esso
risulta ponderato sulla base di un indice dipendente dalla popolazione complessiva della fascia
demografica del Comune di cui l’elettore è Sindaco o Consigliere, determinata ai sensi dell’art. 1,
commi 33 e 34, l. n. 56 cit.349
.
Oltre che dal Sindaco il Consiglio metropolitano risulta composto da un numero di elementi
dipendente dalla popolazione residente nella Città metropolitana (quattordici o diciotto a seconda
che la popolazione metropolitana raggiunga ovvero superi la soglia di ottocentomila abitanti350
):
della durata di cinque anni, esso dev’essere rieletto entro sessanta giorni dalla proclamazione del
Sindaco del Comune capoluogo della Città metropolitana in caso di rinnovo del Consiglio
comunale
342
In oggetto, art. 13, comma 2, l.r. n. 15 cit. revisionato dall’art. 5, comma 12, l.r. n. 5 cit. 343
Così, art. 12, comma 3, l.r. n. 15 cit. emendato ex art. 5, comma 11, l.r. n. 5 cit. 344
A norma dell’art. 4, comma 5, l.r. n. 5 cit. 345
Cfr. art. 14 bis, comma 1, l.r. n. 15 cit. inserito dall’art. 4, comma 7, l.r. n. 5 cit. 346
In tal senso, art. 14 bis, comma 7, l.r. n. 15 cit. 347
Sul punto, art. 14 bis, comma 6, l.r. n. 15 cit. 348
In oggetto, art. 18, comma 4 bis, l.r. n. 15 cit. introdotto ex art. 7, comma 1, lett. c), l.r. n. 5 cit. 349
Così, art. 18, comma 4 quater, l.r. n. 15 cit. aggiunto dall’art. 7, comma 1, lett. c), l.r. n. 5 cit. 350
Cfr. art. 14 bis, comma 5, l.r. n. 15 cit.
703
di quest’ultimo (e la cessazione dalla carica di Sindaco di un Comune o di Consigliere comunale,
per qualsiasi causa, inevitabilmente comporterà l’immediata decadenza da qualsiasi carica
metropolitana351
). A maggioranza assoluta il Consiglio metropolitano approva i bilanci, consuntivi
e pluriennali, di previsione proposti dal Sindaco metropolitano352
, il regolamento per il proprio
funzionamento interno nonché i regolamenti, i piani ed i programmi, oltre a proporre alla
Conferenza metropolitana lo stesso Statuto e le sue modifiche353
ed esercitare ogni ulteriore
funzione statutariamente attribuita354
.
Passando alle modifiche rispettivamente introdotte per Sindaco e Conferenza metropolitana
– soppresso il riferimento al mandato che non doveva scadere prima di diciotto mesi dalla data di
svolgimento delle elezioni − candidabile all’ufficio del primo risulta ciascun Sindaco in carica di
ogni Comune appartenente alla Città metropolitana (sempre che non risulti sospeso di diritto dalla
carica ex art. 11, D.Lgs. n. 235 cit.355
). Considerato che le candidature da presentare all’ufficio
elettorale per l’elezione del Sindaco metropolitano ad oggi devono essere sottoscritte da almeno il
15 per cento degli aventi diritto al voto356
, ai sensi dell’art. 13, comma 5, l.r. n. 15 cit.357
il Sindaco
metropolitano risulta eletto dai soli Sindaci e Consiglieri comunali, in carica, dei Comuni
appartenenti alla Città metropolitana (vengono così esclusi dall’elettorato attivo i Presidenti dei
Consigli circoscrizionali in carica del Comune capoluogo, facenti originariamente parte della
soppressa Adunanza elettorale metropolitana): con voto diretto, libero e segreto, risulta pertanto
vincitore quel candidato che abbia riportato il maggior numero di voti, calcolato con i consueti
criteri di ponderazione di cui all’art. 1, commi 32, 33 e 34, l. n. 56 cit.358
mentre − tra le cause di
cessazione − adesso non figura più la rimozione del Sindaco metropolitano a seguito di
approvazione di mozione di sfiducia ai sensi dell’art. 14, comma 1, l.r. n. 15 cit. (ora soppressa ex
art. 8, comma 3, l.r. n. 5 cit.).
Venuta pure in tale occasione meno l’Adunanza elettorale metropolitana in favore del
Consiglio metropolitano, è quindi incombenza del Sindaco metropolitano convocare e presiedere
351
In tal senso, art. 19, comma 1, l.r. n. 15 cit. riformato ex art. 8, comma 1, lett. b), l.r. n. 5 cit. 352
Sul punto, art. 14 bis, comma 2, l.r. n. 15 cit. 353
In oggetto, art. 14 bis, comma 4, l.r. n. 15 cit. 354
Così, art. 14 bis, comma 3, l.r. n. 15 cit. 355
Cfr. art. 13, comma 6, l.r. n. 15 cit. novellato ai sensi dell’art. 3, comma 2, lett. d), l.r. n. 5 cit. 356
In tal senso, art. 18, l.r. n. 15 cit. modificato dall’art. 7, comma 1, lett. b), l.r. n. 5 cit. 357
… per come riscritto dall’art. 1, comma 1, lett. e), l.r. n. 5 cit. 358
Sul punto, art. 13, comma 7, l.r. n. 15 cit. rimpiazzato ex art. 2, comma 1, lett. b), l.r. n. 5 cit.
704
quest’ultimo359
. A norma dell’art. 12, comma 5, l.r. n. 15 cit. (anch’esso modificato dall’art. 4,
comma 8, l.r. n. 5 cit.) è sempre al Consiglio metropolitano – e non più alla Conferenza – che il
Sindaco deve ogni sei mesi presentare una relazione relativa al lavoro svolto nel semestre
precedente. Non è più tra i componenti della Giunta metropolitana, poi, che il Sindaco nomina un
Vicesindaco metropolitano che lo sostituisca nei casi di assenza o impedimento bensì tra quelli del
Consiglio360
(qualora pure quest’ultimo sia assente o impedito, ad assumere le funzioni sindacali
sarà infine il consigliere metropolitano più anziano di età).
Composta dai Sindaci dei Comuni metropolitani361
, a chiudere questa breve carrellata degli
organi di governo è la Conferenza metropolitana (titolare adesso di poteri propositivi e consultivi
secondo quanto statutariamente disposto362
): previa proposta del Consiglio, essa in particolare
adotta o respinge lo Statuto (e le sue modifiche) con i voti che rappresentino almeno la metà dei
Comuni compresi nella Città metropolitana e la metà della popolazione complessivamente
residente363
.
A completamento delle modifiche in commento, sono infine da evidenziare le disposizioni
in tema, rispettivamente, di Osservatorio regionale e funzioni proprie della Regione siciliana. Con
riferimento al primo – oltre ad aver procrastinato il termine di istituzione previsto dagli originari
novanta ai nuovi centocinquanta giorni – la l.r. n. 5 cit. ne ritocca la composizione, rimpiazzando i
Presidenti dei liberi Consorzi comunali, i Sindaci metropolitani ed i rappresentanti dell’ANCI
Sicilia e dell’URPS facenti parte dell’originario assetto dell’organo coi rappresentanti dei Consorzi
di Comuni, delle Città metropolitane, delle associazioni delle autonomie locali e di quelle sindacali
maggiormente rappresentative364
. Relativamente alle seconde, l’art. 12, comma 2, l.r. n. 5 cit. da
quelle c.d. proprie della Regione stralcia oggi l’importante funzione della tutela dell’ambiente
nonché della prevenzione e controllo dell’inquinamento (anche mediante vigilanza sulle attività
industriali) di cui all’originario art. 33, comma 1, punto 2), l.r. n. 15 cit.
359
In oggetto, art. 12, comma 1, lett. d), l.r. n. 15 cit. revisionato dall’art. 4, comma 6, l.r. n. 5 cit. 360
Così, art. 12, comma 2, l.r. n. 15 cit. emendato dall’art. 5, comma 10, l.r. n. 5 cit. 361
Cfr. art. 15, comma 1, l.r. n. 15 cit. sostituito dall’art. 6, comma 4, l.r. n. 5 cit. 362
In tal senso, art. 15, comma 2, l.r. n. 15 cit. rimpiazzato dall’art. 6, comma 4, l.r. n. 5 cit. 363
Sul punto, art. 3, comma 2, l.r. n. 15 cit. sostituito dall’art. 6, comma 3, l.r. n. 5 cit. 364
In oggetto, art. 25, comma 1, l.r. n. 15 cit. riformato ex art. 11, comma 1, l.r. n. 5 cit.
705
4. Le complessive carenze persistenti pure all’indomani della l.r. n. 5/2016 e la necessità di
un ulteriore intervento correttivo
Come si anticipava supra, nemmeno il quarto intervento legislativo in materia (in altrettanti
anni…) sembra tuttavia riuscire a sgombrare il campo dalle residue incoerenze della complessiva
disciplina di revisione in commento tanto sul piano finanziario che su quello più strettamente
giuridico. Si pensi, con riferimento al primo, alle segnalazioni di grave squilibrio economico-
finanziario che – ancora all’indomani dell’approvazione della l.r. n. 5 cit. – sono inoltrate dai
responsabili dei servizi finanziari dei Consorzi comunali, rispettivamente, di Agrigento,
Caltanissetta, Enna, Messina, Palermo e Trapani alla sezione regionale di controllo della Corte dei
conti per la Sicilia e che hanno ben presto portato all’audizione del Presidente delle sezioni riunite
in I Commissione ARS (Affari Istituzionali) proprio in merito alla delicata situazione finanziaria
delle ex Province regionali365
.
Espressa «viva preoccupazione per il ritardo accumulato in Sicilia rispetto ad altre zone
territoriali del Paese, in cui risulta quasi del tutto ultimata la procedura del disegno di riforma
previsto dalla legge sul riordino delle province», le sezioni riunite per la Regione siciliana della
Corte dei conti rimarcano in particolare come «lo stentato avvio, in concreto, del processo di
riordino delle funzioni di area vasta» rischi «di avere ricadute molto pesanti sui già deteriorati
equilibri di bilancio dei liberi Consorzi, per via di quella mancata attivazione delle procedure di
rilevazione delle dotazioni organiche, degli eventuali esuberi e della ricollocazione del relativo
personale eccedente, altrove già portate a termine con successo», non mancando infine di
evidenziare come − «nell’ottica di un processo di riordino gestito attraverso una visione strategica
‘di sistema’» − «particolare importanza» assuma «anche la razionalizzazione complessiva degli
enti, per alcuni dei quali, peraltro, non risulta attuata la riforma di settore prevista a livello
nazionale»366
.
Nonostante sia stato molto recentemente approvato il D.L. n. 113/2016, Misure finanziarie
urgenti per gli enti territoriali e il territorio (c.d. DL Enti locali) − il cui art. 11, comma 1 [proprio
365
Così, I. MARCHESE, La Corte dei Conti bacchetta Crocetta sulla riforma delle province, in
www.blogsicilia.it (14 aprile 2016). 366
Cfr. CORTE DEI CONTI - SEZIONI RIUNITE PER LA REGIONE SICILIANA, Elementi conoscitivi sullo stato
finanziario dei liberi Consorzi e delle Città metropolitane, in www.cortedeiconti.it (14 aprile 2016).
706
in attuazione dell’accordo fra il Governo e la Regione Siciliana (20 giugno 2016)] assegna «alla
Regione Siciliana, a titolo di acconto sulla compartecipazione spettante alla medesima Regione per
l’anno 2016, un importo pari a 5,61 decimi dell’imposta sul reddito delle persone fisiche
(IRPEF)»367
− non sfugge comunque la persistente confusione dell’attuale quadro finanziario: non
solo perché i Comuni dell’isola, trovandosi in esercizio provvisorio dal 1° maggio, non sono in
condizione di programmare la propria spesa ma, pure, perché il previsto acconto sui
trasferimenti regionali di parte corrente dovuti ai Comuni per il 2016 non è ancora stato versato;
senza contare che tempi e modalità di erogazione delle risorse destinate dall’Accordo Stato-Regione
cit. ai Comuni non sono note, né parimenti lo sono, rispettivamente, gli effetti di tale accordo sulla
complessiva tenuta finanziaria degli enti intermedi siciliani nonché i tempi di erogazione
delle risorse assegnate alle spese per il personale comunale a tempo determinato (oltre al fatto che
non si conosce ancora il riparto programmatico e l’erogazione di un acconto relativamente alle
assegnazioni di parte corrente e in conto capitale 2016 in favore degli enti di area vasta)368
.
La verità è che forse lo stanziamento di centoquarantotto milioni di euro da ultimo disposto
col D.L. cit. in favore delle ex Province italiane dovrebbe più in generale fare riflettere sulla
presunta inutilità di un livello territoriale di governo che si è fatto presto ad abolire salvo poi
scoprirne l’ancora perdurante centralità in ambiti fondamentali come la manutenzione stradale e
scolastica (seppure ben centoventidue di quei centoquarantotto milioni di euro dovranno colmare il
debito provinciale derivante da tagli lineari che hanno solo determinato ulteriore disavanzo anziché
essere realmente destinati alla manutenzione)369
.
Sul diverso fronte giuridico, invece, si segnalano tanto profili di mancata esecuzione della
riforma delle autonomie locali siciliane quanto aspetti di difforme attuazione da parte di questa
rispetto alla disciplina nazionale. Con riferimento alla prima deve segnalarsi, in primo luogo, la
diffida ad adempiere rivolta all’Esecutivo regionale da parte dei dipendenti della Città
367
… la quale ultima risulta nel dettaglio determinata «con riferimento al gettito maturato nel territorio
regionale, al netto degli importi attribuiti, per compartecipazioni al predetto gettito, alla regione, in applicazione della
legislazione vigente, mediante attribuzione diretta da parte della struttura di gestione, individuata dal decreto del
Ministro delle finanze 22 maggio 1998, n. 183, da accreditare sul sottoconto infruttifero della contabilità speciale di
tesoreria unica intestata alla regione medesima − gestione ordinaria − e aperta presso la tesoreria statale». 368
Su tutti questi profili, v. Associazione dei Comuni siciliani in REDAZIONE, Dubbi sull’accordo fra Stato e
Regione. Comuni ed ex Province restano senza soldi, in www.blogsicilia.it (27 giugno 2016). 369
In tal senso, M. VIOLA, Le Province esistono ancora. La Sicilia e la riforma di cartone, in
www.blogsicilia.it (25 luglio 2016).
707
Metropolitana di Palermo e dei Consorzi di Ragusa e Caltanissetta i quali lamentano – a distanza di
quasi un anno dalla sua formale istituzione – la mancata costituzione dell’Osservatorio regionale
cit. cui invece spetterebbe non solo il coordinamento dell’attività di riordino delle funzioni e (ironia
della sorte …) il monitoraggio sulla corretta attuazione della revisione in commento ma, soprattutto,
il centrale compito di stabilire i criteri per la riallocazione delle risorse finanziarie, umane e
strumentali dell’ente intermedio370
.
Se possibile, ancor più grave si dimostra la questione – cruciale eppure ancora inevasa –
della ridefinizione dei confini degli attuali liberi Consorzi a seguito della decisione dei Comuni di
Gela, Piazza Armerina, Niscemi e Licodia Eubea di transitare verso enti di area vasta diversi da
quelli iniziali di appartenenza. A norma degli artt. 2 e 9, l.r. n. 8 cit., difatti, tali Comuni hanno già
deliberato di migrare, rispettivamente, verso il Consorzio etneo e ragusano: secondo quanto
disposto dall’art. 44, l.r. n. 15 cit. tuttavia, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della
presente legge, con deliberazione del Consiglio comunale adottata a maggioranza assoluta, i primi
tre possono deliberare di aderire alla Città metropolitana di Catania ed il quarto di spostarsi nel
libero Consorzio comunale di Ragusa. È a seguito di tale variazione che il Governo regionale
avrebbe dovuto infine presentare all’Assemblea regionale siciliana proprio il disegno di legge di
conseguente modifica territoriale dei complessivi enti di area vasta: peccato solo che − anziché
limitarsi a ratificare la volontà popolare espressa mediante i rispettivi referendum − agli inizi dello
scorso maggio la I Commissione Affari Istituzionali abbia preferito inopinatamente bocciare (fatti
salvi i due voti del Movimento cinquestelle) tale proposta di variazione territoriale. Da ciò il
(neanche poi tanto velato) rischio – sul quale si tornerà, comunque, infra (par. 6) − che, a riscrittura
ultimata, le originarie nove Province regionali siciliane ci siano state ben tre anni a sparire per poi
lasciare il posto ad altrettanti enti intermedi371
.
Assai di recente infine – secondo quanto calendarizzato peraltro dalla conferenza dei
capigruppo – l’ARS ha approvato (5 agosto 2016) il ddl stralcio di rinvio delle elezioni di secondo
livello negli attuali nuovi enti di area vasta: i termini dell’11 e 25 settembre 2016, rispettivamente
370
Sul punto, F. LAMIANI, Province, dopo riforma ancora caos. I dipendenti diffidano la Regione, in
www.blogsicilia.it (22 aprile 2016). 371
… «la Sicilia» confermandosi, insomma, «terra gattopardesca dove cambiare tutto per non cambiare nulla,
almeno dal punto di vista della definizione territoriale delle ex province»: così M. VIOLA, Rinviata la Riforma delle
Province. Proteste da quattro grandi comuni, in www.blogsicilia.it (5 maggio 2016).
708
fissati per i liberi Consorzi ed i Consigli delle Città metropolitane, vengono così procrastinati in una
data compresa tra il 1° ottobre ed il 30 novembre. Sebbene tale ultimo slittamento possa poi essere
proficuamente sfruttato dal Governo regionale per ripresentare i ddl di variazione territoriale
recentemente bocciati, almeno due sono le ombre che sembrano allungarsi sulle future elezioni
nell’isola372
: innanzitutto a partire proprio dalla possibile modifica dei confini territoriali,
considerato che la perimetrazione dei collegi elettorali – ricalcata sull’estensione delle ex Province
regionali – rischia di risultare non perfettamente allineata col nuovo assetto territoriale frutto delle
scelte già espresse dai menzionati Comuni di Gela, Piazza Armerina, Niscemi e Licodia Eubea. Non
va, in secondo luogo, sottovalutato l’irrisolto nodo della corretta parificazione di rappresentatività e
peso tra i vari Comuni siciliani derivante dal mancato coordinamento tra le l.r. n. 11/2015,
Disposizioni in materia di composizione dei Consigli e delle Giunte comunali, di status degli
amministratori locali e di Consigli circoscrizionali. Disposizioni varie, e n. 15 cit.: ciò in
considerazione del fatto che i Comuni in cui si è votato nella recente tornata elettorale (5 Giugno
2016) presenterebbero ex art. 1, comma 1, l.r. n. 11 cit. un peso di rappresentanza inferiore del venti
per cento rispetto a quella dei restanti Comuni dell’isola in cui non si è votato alle elezioni
amministrative 2016.
5. L’inappagante soluzione approntata dalla successiva l.r. n. 8/2016 (con l’ennesima
richiesta governativa di modifica)
A parte i rilievi appena richiamati con riferimento alla sua mancata esecuzione, è ad ogni
modo indubitabilmente quella della difforme attuazione rispetto alla normativa statale l’incoerenza
forse più evidente che affligge l’intera riforma in commento: la quale – come già si diceva nelle
pagine che precedono – pure all’indomani della sua ultima modifica in ordine di tempo (l.r. n. 5
cit.) assai discutibilmente opta ancora per il mantenimento di talune controverse soluzioni
legislative come, su tutte, la differente modalità di elezione del Sindaco nella Città metropolitana.
Mentre per la Regione Siciliana questi andrebbe, difatti, eletto con votazione ponderata (che vede
tutti i Sindaci
372
Per le considerazioni che seguono, v. part. REDAZIONE, Ex Province, il voto slitta ancora. Da risolvere le
variazioni territoriali, in www.blogsicilia.it (5 agosto 2016).
709
eleggere, cioè, il proprio collega metropolitano, il voto di ciascuno diversamente “pesando” in
proporzione alla popolazione che rappresenta), non altrettanto accadrebbe invece per la disciplina
statale, a norma della quale costui dovrebbe necessariamente coincidere con l’attuale Sindaco del
Comune capoluogo.
Nessuno pare più di tanto stupirsi, quindi, allorché (con successiva delibera del 27 aprile
2016373
) il Consiglio dei Ministri − pur prendendo atto degli emendamenti apportati al testo di
revisione di cui alla l.r. n. 15 cit. dalla l.r. n. 5 cit. − decide comunque di «non revocare»
l’impugnativa precedentemente proposta davanti alla Corte costituzionale. Per ben tre volte
consecutive – vi è da dire – l’Esecutivo regionale si è sforzato di far passare in Assemblea regionale
l’emendamento che allinea l’elezione del Sindaco metropolitano siciliano a quella dei suoi colleghi
nelle restanti altre Città metropolitane, risultando nondimeno sconfitto per altrettante volte col voto
segreto dei franchi tiratori374
: è così che – tornata per l’ennesima volta sui rilievi avanzati dal
Governo centrale − la Conferenza dei capigruppo all’ARS calendarizza ben presto l’ulteriore
modifica che dovrebbe finalmente equiparare il sistema elettivo in commento, sottoscritta da tutti i
capigruppo della maggioranza e da Forza Italia (con l’eccezione di MPA, Movimento cinquestelle e
Lista Musumeci)375
. Con una risicata maggioranza (espressa sempre a scrutinio segreto, con
trentaquattro voti a favore, ventisette contrari ed un astenuto) passa infine la seconda riscrittura,
nell’arco di un mese e mezzo, della l.r. n. 15 cit.
Quale unica vistosa deroga alla regola generale in virtù della quale gli organi di governo dei
liberi Consorzi comunali e delle Città metropolitane sono eletti con sistema indiretto di secondo
grado376
, il Sindaco metropolitano è adesso «di diritto il Sindaco del Comune capoluogo»377
.
Contestualmente all’eliminazione del termine per la presentazione delle candidature per l’elezione a
Sindaco metropolitano si introduce, inoltre, il tetto minimo alla sottoscrizione di quelle per
373
Cfr. M. VIOLA, Non c’è pace per la riforma delle Province, a maggio terza modifica, in www.blogsicilia.it
(27 aprile 2016). 374
In oggetto, F. LAMIANI, La legge ex province torna in Aula? Ancora dubbi sulla firma dei ‘Patti’, in
www.blogsicilia.it (29 aprile 2016). 375
Così, M. VIOLA, Ex Province, legge da rifare per le terza volta. La capigruppo la rimanda in aula, in
www.blogsicilia.it (3 maggio 2016). 376
Cfr. art. 1, comma 3, l.r. n. 15 cit. novellato ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. a), l.r. n. 8/2016,
Disposizioni per favorire l’economia. Norme in materia di personale. Disposizioni varie. 377
In tal senso, art. 13, comma 1, l.r. n. 15 cit. integralmente sostitutivo dei commi 1-7 della medesima
disposizione ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. b), l.r. n. 8 ult. cit.
710
l’elezione a Presidente del Consorzio di Comuni (che deve avvenire da parte di almeno il quindici
per cento degli aventi diritto al voto378
). Delle cause di cessazione dalla carica sindacale
precedentemente canonizzate dalla l.r. n. 15 cit. (dimissioni e rimozione per approvazione della
mozione di sfiducia) infine non rimane ora che la sola «cessazione dalla carica di Sindaco del
Comune capoluogo della Città metropolitana», il Vicesindaco metropolitano rimanendo «in carica
fino all’insediamento del nuovo Sindaco metropolitano»379
.
È quindi solo grazie a tali chirurgiche modifiche da parte dell’ARS che – ad appena due
settimane esatte dall’entrata in vigore della l.r. n. 8 ult. cit. − giunge finalmente l’agognata delibera
di non impugnazione da parte del Consiglio dei Ministri380
: per un beffardo scherzo del destino,
nondimeno, non passano neppure due mesi e la stessa l.r. n. 8 si ritrova nuovamente impugnata dal
Governo centrale, stavolta «in quanto una norma riguardante il personale dirigente regionale» è
sospettata di violare «l’art. 97, commi 1 e 3 della Costituzione, che stabiliscono l’accesso agli
impieghi nelle pubbliche amministrazioni mediante concorso pubblico, nonché i principi di
ragionevolezza, imparzialità e buon andamento della Pubblica amministrazione di cui agli articoli 3
e 97 della Costituzione»381
.
Beneficiando del momento di apparente quiete è così che – nel giro di appena una settimana
– possono pertanto insediarsi i Sindaci delle tre Città metropolitane di Palermo (7 giugno 2016),
Catania (8 giugno 2016) e Messina (10 giugno 2016). Ricevute le consegne dai rispettivi
commissari straordinari, i nuovi Sindaci possono perciò sottoscrivere il verbale di insediamento
(redatto dai nuovi segretari generali delle Città metropolitane) e prestare infine giuramento di
fedeltà: naturalmente cessato per le funzioni ora esercitate dal Sindaco e dalla Conferenza
metropolitana, il commissariamento della Città metropolitana deve ad ogni modo proseguire per
quelle assegnate invece ai nascituri Consigli metropolitani (a patto che l’approvazione del prossimo
Statuto metropolitano continui a prevederne l’elezione)382
.
378
Sul punto, art. 18, comma 3, l.r. n. 15 cit. rimpiazzato ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. g), l.r. n. 8 cit. 379
In oggetto, art. 14, comma 1, l.r. n. 15 cit. sostitutivo del precedente art. 14, commi 1-3, ai sensi dell’art. 23,
comma 1, lett. c), l.r. n. 8 cit. 380
Così, comunicato stampa n. 118 del Consiglio dei Ministri, in www.governo.it (31 maggio 2016). 381
Cfr. comunicato stampa n. 123 del Consiglio dei Ministri, in www.governo.it (14 luglio 2016). 382
In tal senso, A. FRAGALÀ, Orlando, Bianco e Accorinti. Si insediano i sindaci metropolitani, in
www.blogsicilia.it (6 giugno 2016).
711
La sospirata tregua giuridico-istituzionale, nondimeno, non è che sia destinata a durare
troppo a lungo, anzi. Non trascorre difatti che qualche giorno dall’insediamento dell’ultimo Sindaco
metropolitano che – con una nota ufficiale del Sottosegretario agli Affari regionali rivolta alla
Regione Siciliana (14 giugno 2016) – l’Esecutivo nazionale torna a pretendere due ulteriori
emendamenti alla già abbondantemente (e rocambolescamente …) rimaneggiata riforma383
: così,
non solo viene richiesto di adeguare i termini di eleggibilità dei candidati a Presidente dei sei liberi
Consorzi siciliani − introducendo il divieto di candidabilità per quei Sindaci che abbiano meno di
diciotto mesi di mandato residuo – ma, pure, che la possibilità attualmente riconosciuta alle Città
metropolitane di stabilire per Statuto di eleggere il proprio Sindaco col metodo diretto (in luogo
dell’attuale modalità indiretta di secondo grado) venga invece preclusa all’ente consortile per il
proprio Presidente. Seppure almeno stavolta risulti che il Governo regionale − memore della
precedente (ancora vivida e bruciante nella memoria) lezione – abbia tempestivamente inoltrato
all’ARS gli emendamenti necessari a soddisfare l’odierna doppia richiesta di modifica384
, non vi è
dubbio che i più recenti sviluppi della tormentata vicenda della revisione delle autonomie locali in
Sicilia – in chiusura del presente contributo in ricordo di T. Martines − meritino una conclusiva
considerazione d’insieme.
Così non possono innanzitutto non fare quantomeno meditare i ben trentasei mesi necessari
perché il numero complessivo dei neoistituiti enti di area vasta – paradossalmente nati anche, se non
soprattutto, per contenere gli smodati costi dell’ex livello provinciale di governo – anziché
diminuire rispetto alle sei pregresse Province in un primo momento (2014) addirittura s’impenni per
poi nuovamente contrarsi (2015) tornando a coincidere con quello provinciale inizialmente fissato.
Istituiti «per l’esercizio delle funzioni di governo di area vasta, in sostituzione delle Province
regionali»385
, al principio i nuovi Consorzi di Comuni ammontano difatti a sei (coincidenti con le
rispettive Province regionali di Agrigento, Caltanissetta, Catania, Enna, Messina, Palermo, Ragusa,
Siracusa e Trapani386
) e vanno così a sommarsi alle tre neoistituite Città metropolitane di Palermo,
Catania e Messina (in quanto coincidenti col territorio dei «Comuni compresi nelle rispettive aree
383
Sul punto, M. VIOLA, A rischio nuovo stop la riforma delle ex Province, due articoli inapplicabili, in
www.blogsicilia.it (8 luglio 2016). 384
In oggetto, M. VIOLA, Non partono i Liberi Consorzi, ancora modifiche, in www.blogsicilia.it (16 giugno
2016). 385
Così, art. 1, comma 1, l.r. n. 7/2013, Norme transitorie per l’istituzione dei liberi Consorzi comunali. 386
Cfr. art. 1, comma 1, l.r. n. 8/2014 cit.
712
metropolitane individuate dai decreti del Presidente della Regione 10 agosto 1995 pubblicati nella
Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana 21 ottobre 1995, n. 54»387
) per un totale di ben nove enti
siciliani intermedi: senza contare la possibilità per i Comuni che lo deliberino a maggioranza di due
terzi del Consiglio comunale «di costituire, in aggiunta a quelli previsti (…), ulteriori liberi
Consorzi» a condizione che rispettino taluni prescritti requisiti388
. È solo l’anno successivo che,
dovendosi necessariamente uniformare alle prescrizioni della l. n. 56 cit. in tema di Città
metropolitane nazionali, la l.r. n. 15 – con l’ambigua formula dei «liberi Consorzi comunali di
Palermo, Catania e Messina, composti dai Comuni delle corrispondenti Province regionali, i quali
costituiscono le Città metropolitane»389
− è infine costretta a ritornare all’originaria somma di sei
enti di area vasta.
6. Tre lunghi anni di gioco della campana (per ritornare infine al punto di partenza):
qualche notazione di chiusura sulla complessiva introduzione dei Consorzi comunali in Sicilia
Il leitmotiv del ritorno al punto di partenza, ad ogni modo, non caratterizza esclusivamente il
numero totale dei nuovi livelli territoriali, se sol si pensi che pur sempre tre anni ci sono voluti per
inventare una formula − sulla carta assai innovativa e promettente quale esperimento di benefica
competizione al rialzo tra le singole realtà comunali390
− come quella dell’estensione, per così dire,
a geometria variabile del Consorzio di Comuni, certificarne il sostanziale fallimento e ritornare
infine ad una condizione pressoché identica a quella antecedente all’intervento riformatore in
commento. Introdotto nel 2014 (artt. 2 e 12, l.r. n. 8 ult. cit.) a ben definite condizioni sostanziali −
continuità territoriale tra i Comuni aderenti, popolazione non inferiore a centottantamila abitanti nel
libero Consorzio d’ingresso e non minore di centocinquantamila abitanti nel Consorzio comunale di
provenienza (ovvero preservazione della dimensione sovracomunale nella Città metropolitana di
provenienza) − e procedurali (deliberazione del Consiglio comunale adottata a maggioranza di due
terzi dei componenti), tale istituto risulta difatti ridimensionato già nel 2015 (art. 45, l.r. n. 15 cit.)
387
In tal senso, art. 7, comma 2, l.r. n. 8 ult. cit. 388
Sul punto, art. 2, comma 1, l.r. n. 8 ult. cit. 389
In oggetto, art. 1, comma 2, l.r. n. 15 cit. 390
Così, se si vuole, S. AGOSTA, Tra scarsa fantasia della politica e non rimosse esigenze di riforma delle
autonomie locali siciliane: l’imperdonabile peccato dei liberi Consorzi di Comuni, in Rivista AIC, n. 2/2015, 1 ss.
713
in conseguenza della diversa perimetrazione dell’ente metropolitano, per produrre da ultimo
l’esiguo risultato della sola emigrazione dei citati Comuni di Gela, Niscemi e Piazza Armerina
verso la Città metropolitana di Catania e di Licodia Eubea verso il libero Consorzio di Ragusa (art.
44, l.r. n. 15 cit.)391
.
Sempre proseguendo sulla scorta di questo singolare gioco della campana – al quale, non
per caso, si è scelto di fare riferimento già nel titolo del presente contributo − ancora un triennio si è
dovuto poi attendere, com’è noto, per assistere al fondamentale passaggio dell’esatta definizione
delle nuove funzioni consortili. Inizialmente (2013) corrispondenti con non meglio specificate
«funzioni di governo di area vasta»392
, bisogna difatti pazientare: un anno (2014) per scoprire che «i
liberi Consorzi (…) esercitano funzioni di coordinamento, pianificazione, programmazione e
controllo in materia territoriale, ambientale, di trasporti e di sviluppo economico»393
; altri dodici
mesi (2015) per constatare che esse praticamente coincidono con quelle già spettanti alle ex
Province regionali ai sensi della normativa vigente (oltre ad includere le funzioni proprie già
attribuite, ai sensi dell’art. 13, l.r. n. 9/1986 e successive modifiche ed integrazioni, all’ex livello
provinciale)394
; un ulteriore anno ancora (2016) per ottenere finalmente il definitivo panorama
funzionale dell’ente consortile, in sostanza equivalente però a quello originariamente prefissato
dalla l. n. 56 cit. Almeno un biennio di ritardo accumulato si sarebbe potuto in definitiva recuperare
se solo si fosse tempestivamente scelto di recepire – in toto ovvero con esigui mirati adattamenti –
il disposto di cui all’art. 1, commi 85, 86 ed 87, l. n. 56 cit. che già dal lontano 2014 definiscono le
funzioni fondamentali di area vasta ed i rispettivi limiti.
Nessuna delle nuove funzioni consortili, com’è ovvio, può nondimeno dirsi correttamente
esercitata, né esercitabile, se non previamente sorretta dalla corrispondente previsione di adeguate
risorse finanziarie, materiali ed umane. Peccato che dodici mesi (2014) ci vogliono solo per stabilire
che «i liberi Consorzi continuano ad utilizzare» quelle «già di spettanza delle corrispondenti
Province regionali»395
e che almeno altrettanti (2015) se ne impiegano solamente per definire l’iter
391
… il quale trasferimento poi – per la solita beffa della sorte – come si è visto supra (par. 4) rimane tutt’ora
inattuato a seguito della sonora bocciatura dei corrispondenti ddl governativi di variazione territoriale da parte
dell’Assemblea regionale siciliana. 392
Cfr. art. 1, comma 1 (primo periodo), l.r. n. 7 cit. 393
In tal senso, art. 10, comma 2, l.r. n. 8 ult. cit. 394
Sul punto, art. 27, comma 1, l.r. n. 15 cit. 395
In oggetto, art. 1, comma 7, l.r. n. 8 cit.
714
di individuazione di esse396
: nelle more del quale ultimo sempre alle ex Province regionali bisogna
tuttavia ritornare, considerato che ancora dal livello provinciale provengono le risorse ora a
disposizione dei nuovi enti intermedi i quali mantengono, perciò, «la titolarità dei relativi rapporti
giuridici, nell’ambito delle relative dotazioni di bilancio e senza nuovi o maggiori oneri a carico del
bilancio della Regione»397
). Ancora di recente (2016) non sembra peraltro chiaro, infine, quali siano
non solo le funzioni tutt’ora da definire ma, soprattutto, gli ex dipendenti provinciali da avviare alla
mobilità verso i Comuni od altri uffici regionali (né se ciò debba avvenire con ulteriori decreti
attuativi ovvero con le ennesime modifiche legislative398
).
A parte gli accennati profili relativi al numero complessivo, all’estensione territoriale, alle
funzioni ed alle risorse dei liberi Consorzi comunali, fin troppo tempo è stato invero impiegato pure
nella disciplina della loro governance (solo per scoprire che, anche sotto questo aspetto, si è
inevitabilmente ritornati al punto d’inizio).
Assai emblematico in tal senso è il circolare tragitto cui è andato incontro proprio quello che
del neonato ente consortile avrebbe dovuto rappresentare l’organo più rappresentativo. Nel volgere
di quasi un triennio, si è così assistito alla parabola di un Presidente del Consorzio di Comuni che:
nel 2014 – oltre a rappresentarlo − convoca e presiede, rispettivamente, l’Assemblea e la Giunta del
libero Consorzio399
; nel 2015 convoca l’Adunanza elettorale consortile, sovrintendendo al
funzionamento dei servizi, degli uffici, all’esecuzione degli atti ed esercitando le ulteriori funzioni
statutariamente attribuite400
; nel 2016, infine, inopinatamente perde − a seguito della soppressione
di entrambi401
− la presidenza della Giunta ed il potere di convocazione dell’Adunanza per tornare
sostanzialmente a svolgere i compiti fissati molti mesi addietro. Bisogna pure in questo caso
ammettere quindi che tre anni di complessiva incertezza proprio al vertice del nuovo ente
intermedio si sarebbero potuti, forse, risparmiare più semplicemente adattando, ad esempio, alle
esigenze del libero Consorzio quelle previsioni che la legge Delrio cit. dedica − già dal 2014 − al
Presidente della Provincia (part. laddove espressamente dispone che esso «rappresenta l’ente,
convoca e presiede il Consiglio provinciale e l’Assemblea dei Sindaci, sovrintende al
396
Così, art. 27, commi 4 e 5, l.r. n. 15 cit. 397
Cfr., art. 39, comma 2, l.r. n. 15 cit. 398
In tal senso, M. VIOLA, A rischio nuovo stop la riforma delle ex Province, cit. 399
Sul punto, art. 5, comma 3, l.r. n. 8 cit. 400
In oggetto, art. 5, comma 1, l.r. n. 15 cit. 401
Così, rispettivamente, artt. 5, comma 1, e 1, comma 1, lett. a), l.r. n. 5 cit.
715
funzionamento dei servizi e degli uffici e all’esecuzione degli atti; esercita le altre funzioni
attribuite dallo statuto»402
).
Non diversamente si sarebbe potuto sin da subito pianamente estendere al Presidente del
Consorzio di Comuni la disciplina contemplata dalla legge nazionale (elezione da parte di Sindaci e
Consiglieri dei Comuni appartenenti all’ente di riferimento403
) e che sono eleggibili i Sindaci il cui
mandato scada non prima di diciotto mesi dalla data di svolgimento della tornata elettorale404
anziché disporre: prima che questi «è eletto dai Consiglieri comunali e dai Sindaci dei Comuni
aderenti allo stesso, a maggioranza assoluta dei voti, fra i Sindaci dei Comuni appartenenti al libero
Consorzio»405
; poi, un’articolata normativa d’indizione delle elezioni406
; successivamente che il
«Presidente del libero Consorzio comunale è eletto dai Sindaci e dai Consiglieri comunali, in carica,
dei Comuni del libero Consorzio comunale» (in luogo della rimossa Adunanza), che «non sono
elettori i Sindaci ed i Consiglieri comunali sospesi di diritto dalla carica» ai sensi dell’art. 11,
D.Lgs. n. 235/2012407
; infine – come si è già evidenziato − la soglia minima della sottoscrizione di
almeno il quindici per cento degli aventi diritto al voto per la presentazione all’ufficio elettorale
delle candidature per l’elezione presidenziale408
.
Parimenti ci sono voluti ben tre testi di riscrittura consecutivi – quando sarebbe bastata
invece l’estensione delle corrispondenti previsioni statali409
− per: stabilire (2014) che il Presidente
del Consorzio di Comuni può essere sfiduciato mediante mozione410
e che – entro sessanta giorni
dall’approvazione della sfiducia − si elegge il nuovo Presidente (le relative funzioni essendo nel
frattempo esercitate da un Commissario nominato dall’Assessore regionale per le autonomie locali
e
402
Cfr. art. 1, comma 55, l. n. 56 cit. 403
In tal senso, art. 1, comma 58, l. n. 56 cit. 404
Sul punto, art. 1, comma 60, l. n. 56 cit. 405
In oggetto, art. 5, comma 1, l.r. n. 8 cit. 406
Così, art. 6, l.r. n. 15 cit. 407
Cfr. art. 1, comma 1, lett. b), l.r. n. 5 cit. 408
In tal senso, art. 23, comma 1, lett. g), l.r. n. 8/2016 cit. 409
Sul punto, l’art. 1, comma 65, l. n. 56 cit. dispone in particolare che «il Presidente della Provincia decade
dalla carica in caso di cessazione dalla carica di Sindaco». 410
... non presentabile prima di due anni dall’elezione del Presidente e in ogni caso per più di due volte, a
distanza di almeno un anno, durante il medesimo mandato; motivata; presentata da almeno un quinto dei componenti
dell’Assemblea; messa in discussione dopo almeno tre giorni dalla sua presentazione; previamente deliberata
dall’Assemblea a maggioranza assoluta dei componenti; entro dieci giorni da tale ultima deliberazione, approvata a
maggioranza assoluta dei voti di Consiglieri comunali e Sindaci dei Comuni appartenenti al libero Consorzio: così art.
5, commi 7 e 8, l.r. n. 8 cit.
716
per la funzione pubblica411
); nella sua sostanza confermare (2015) la disciplina appena
richiamata412
; ritornare, infine, alla normativa di partenza, stralciando (2016) – come visto supra −
dalle cause di cessazione dalla carica la rimozione dello stesso Presidente per approvazione della
mozione di sfiducia413
.
7. (Segue): e su quella degli enti metropolitani
Quanto appena accennato per i liberi Consorzi sembra invero pedissequamente riproporsi
anche per quelle che rappresentano il secondo binario della complessiva revisione delle autonomie
locali siciliane e, cioè, le Città metropolitane, a cominciare dalla loro estensione territoriale: nelle
pagine che precedono si è in effetti già visto come − inizialmente fissata nel territorio dei Comuni
compresi nelle aree metropolitane delle rispettive Città di Palermo, Catania e Messina414
− essa sia
stata poi precipitosamente modificata con la sibillina formula dell’istituzione dei «liberi Consorzi
comunali di Palermo, Catania e Messina, composti dai Comuni delle corrispondenti Province
regionali, i quali costituiscono le Città metropolitane»415
per farla corrispondere infine con
l’originaria disposizione della legge Delrio a norma della quale il territorio metropolitano deve
necessariamente coincidere con quello della Provincia omonima416
. Così obbligatoriamente
ampliato il perimetro dell’ente metropolitano (prima ristretto alla sola area metropolitana) l’iniziale
previsione (2014) di appositi accordi con lo Stato, la Regione Calabria e la Città metropolitana di
Reggio Calabria da parte della Regione Siciliana d’intesa con la Città metropolitana di Messina –
all’espresso scopo «di consentire ai cittadini residenti nell’Area metropolitana di Messina e nella
Città metropolitana di Reggio Calabria di usufruire dei servizi secondo criteri di prossimità»417
−
non può che inevitabilmente venire meno (2015) limitandosi adesso a prevederne la stipula (con la
partecipazione dei Comuni di Messina e Reggio Calabria) sempre al fine di «usufruire dei servizi
411
In oggetto, art. 5, commi 5 e 6, l.r. n. 8 cit. 412
Così art. 7, comma 1, l.r. n. 15 cit. 413
Cfr. art. 8, comma 2, l.r. n. 5 cit. 414
In tal senso, art. 7, comma 1, l.r. n. 8/2014 cit. 415
Sul punto, art. 1, comma 2, l.r. n. 15 cit. 416
In oggetto, art. 1, comma 6 (primo periodo), l. n. 56 cit. 417
Così, art. 14, l.r. n. 8/2014 cit.
717
secondo criteri di prossimità»418
ma per i soli cittadini residenti nelle Città metropolitane di Messina
e di Reggio Calabria (ad un decreto del Presidente della Regione, su proposta dell’Assessore
regionale per le autonomie locali e la funzione pubblica, spettando poi individuare le attività
programmatorie ed i servizi corrispondenti ai predetti accordi).
Pure passando al diverso profilo delle nuove funzioni metropolitane, di mesi bisogna
riconoscere che non se ne sono persi di meno. Anziché limitarsi ad attribuire all’ente metropolitano
le funzioni fondamentali già di spettanza delle Province nonché quelle proprie già esaustivamente
elencate dall’art. 1, comma 44, l. n. 56 cit. (senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e
comunque nel rispetto dei vincoli del patto di stabilità interno), difatti, si è preferito rinviare tale
cruciale incombenza ad una futura legge419
contemporaneamente delineando una cornice di
massima estremamente più ampia e generica420
: così bisogna attendere un intero altro anno per poi
scoprire che – oltre alle funzioni spettanti ai Consorzi di Comuni – le Città metropolitane sono in
pratica titolari di un elenco di attribuzioni in tutto e per tutto simili a quelle assai prima contemplate
già dalla disciplina statale421
.
Non molto diversamente sono d’altro canto andate le cose sul connesso versante delle
risorse impiegabili. Già dal 2014, la normativa nazionale attribuisce difatti alla Città metropolitana
il patrimonio, il personale e le risorse strumentali della Provincia − rispetto alla quale ciascun ente
metropolitano succede a titolo universale in tutti i rapporti attivi e passivi (comprese le entrate
provinciali, all’atto del subentro alla Provincia422
) – oltre a stabilire che al personale metropolitano
si applicano le disposizioni vigenti per quello provinciale (i dipendenti trasferiti dalle Province
mantenendo, «fino al prossimo contratto, il trattamento economico in godimento»423
). A livello
regionale siciliano, perché le Città continuino «ad utilizzare le risorse finanziarie, strumentali ed
umane già spettanti alle ex Province regionali (…) mantenendo la titolarità dei relativi rapporti
giuridici, nell’ambito delle relative dotazioni di bilancio e senza nuovi o maggiori oneri a carico del
418
Cfr. art. 30, comma 1, l.r. 15 cit. 419
In tal senso, art. 10, comma 1, l.r. n. 8/2014 cit. 420
… che fissava, cioè, in capo al livello territoriale in commento l’esercizio di «funzioni di coordinamento,
pianificazione, programmazione e controllo in materia territoriale, ambientale, di trasporti e di sviluppo economico»
(art. 10, comma 2, l.r. n. 8/2014 cit.). 421
Sul punto, art. 28, comma 1, l.r. 15 cit. 422
In oggetto, art. 1, comma 47, l. n. 56 cit. 423
Così art. 1, comma 48, l. n. 56 cit.
718
bilancio della Regione»424
, bisogna tuttavia attendere ulteriori dodici mesi (2015) senza nondimeno
conoscere né il reale ammontare delle risorse necessarie per il finanziamento delle nuove funzioni
metropolitane attribuite né, tantomeno, l’effettiva consistenza delle relative dotazioni organiche (la
disciplina regionale limitandosi difatti a definire solo l’iter procedurale necessario a tale
individuazione425
).
Ad ogni modo, se c’è un ambito che, sopra ogni altro, meglio testimonia il ritardo
nell’attuazione della riforma per poi per di più ritornare circolarmente al punto di partenza, questo è
probabilmente rappresentato dalla normazione degli organi di governo metropolitani e tra di essi, in
particolare, del Sindaco metropolitano. Così, mentre la disciplina statale ha sin dal principio
previsto che costui è di diritto il Sindaco del Comune capoluogo426
− contestualmente consentendo
allo Statuto della Città metropolitana di «prevedere l’elezione diretta del Sindaco e del Consiglio
metropolitano con il sistema elettorale che sarà determinato con legge statale» al ricorrere di una
duplice condizione427
– non egualmente ha inteso disporre quella regionale: prima (2014) si
rinviano difatti ad una futura normativa «le modalità di elezione del Sindaco metropolitano e della
Giunta metropolitana nonché il numero dei componenti della stessa, stabilito in rapporto alla
popolazione dei Comuni compresi in ciascuna Città metropolitana»428
; poi (2015) analiticamente si
disciplina l’indizione della suddetta elezione429
; successivamente (2016), come è stato evidenziato
in precedenza, si sopprime l’Adunanza elettorale metropolitana (pur mantenendo l’elezione
indiretta del Sindaco metropolitano da parte dei Sindaci e Consiglieri comunali, in carica, dei
Comuni appartenenti alla Città metropolitana430
) per infine tornare all’originaria previsione statale
addirittura nel medesimo anno (2016), sostituendo l’intera normativa elettorale del Sindaco
metropolitano con la disposizione secca che esso «è di diritto il Sindaco del Comune capoluogo»431
.
424
Cfr. art. 39, comma 2, l.r. n. 15 cit. 425
In tal senso, rispettivamente, artt. 28, commi 2, 3 e 4, e 37, l.r. n. 15 cit. 426
Sul punto, art. 1, comma 19, l. n. 56 cit. 427
… vale a dire «che entro la data di indizione delle elezioni si sia proceduto ad articolare il territorio del
Comune capoluogo in più Comuni» e «che la Regione abbia provveduto con propria legge all’istituzione dei nuovi
Comuni e alla loro denominazione ai sensi dell’articolo 133 della Costituzione» (così art. 1, comma 22, l. n. 56 cit.)
ovvero «che lo Statuto della Città metropolitana preveda la costituzione di zone omogenee (…) e che il Comune
capoluogo abbia realizzato la ripartizione del proprio territorio in zone dotate di autonomia amministrativa, in coerenza
con lo Statuto della Città metropolitana» nei soli enti metropolitani con popolazione superiore a tre milioni di abitanti. 428
In oggetto, art. 8, comma 3, l.r. n. 8/2014 cit. 429
Così, art. 13, n. l.r. n. 15 cit. 430
Cfr. art. 1, comma 1, lett. e), l.r. n. 5 cit. 431
In tal senso, art. 23, comma 1, lett. b), l.r. n. 8/2016 cit.
719
Non dissimilmente sembra per la verità essere accaduto, da ultimo, pure in ordine alle cause
di cessazione dalla carica sindacale. Ad imitazione dell’art. 1, comma 40, l. n. 56 cit. – il quale
contempla la cessazione dalla carica del Sindaco metropolitano per cessazione dalla titolarità
dell’incarico di Sindaco del proprio Comune, al contempo prevedendo che a rimanere in carica fino
all’insediamento del nuovo Sindaco metropolitano sia il Vicesindaco metropolitano – in un primo
momento (2014) anche la disciplina regionale pare genericamente accontentarsi di stabilire che «la
cessazione dalla carica ricoperta nel Comune di appartenenza comporta la cessazione dalla carica
ricoperta nella Città metropolitana»432
. Successivamente tuttavia (2015), alla cessazione per
qualsiasi causa dalla carica di Sindaco del Comune di appartenenza (o di Sindaco metropolitano), si
ritiene di dover aggiungere i casi, rispettivamente, di dimissioni ovvero di rimozione dello stesso
Sindaco metropolitano per approvazione della mozione di sfiducia ai fini dell’elezione del nuovo
Sindaco, entro sessanta giorni dalla cessazione433
salvo poi stralciare – nel giro di poco più di un
anno (2016) – prima l’eventualità della rimozione a seguito di sfiducia434
e poi, a ruota, quella delle
dimissioni: conclusivamente stabilendo insomma la cessazione dalla carica di Sindaco
metropolitano per cessazione dalla carica di Sindaco del Comune capoluogo della Città
metropolitana435
(e sancendo di fatto il ritorno, dopo un biennio, sempre alla soluzione inizialmente
adottata a livello statale).
Come si è cercato succintamente di evidenziare con gli sparsi esempi supra richiamati – e
parecchi altri potrebbero, in tal senso, ancora farsene − gli strascichi del gioco della campana
intrapreso ormai parecchi mesi fa non accennano insomma ad esaurirsi: indifferenti agli auspici
formulati dal Maestro più di trent’anni or sono come pure (ed è assai peggio) all’esigenza di
garantire invece taluni diritti fondamentali del cittadino siciliano − utente o lavoratore che sia – il
cui godimento, in definitiva, rimane inevitabilmente subordinato all’esito di quest’interminabile
revisione.
432
Sul punto, art. 8, comma 2, l.r. n. 8/2014 cit. 433
In oggetto, art. 14, l.r. n. 15 cit. 434
Così, art. 8, comma 3, n. l.r. n. 5 cit. 435
Cfr. art. 23, comma 1, lett. c), l.r. n. 8/2016 cit.
Mini-costituzioni per quali Regioni?
Considerazioni a margine della riflessione di T. Martines
sugli statuti delle Regioni di diritto comune
di Giacomo D’Amico
(Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Messina)
(31 agosto 2016)
SOMMARIO: 1. La fortuna di una “formula”. – 2. Il significato dell’espressione «mini-costituzioni». –3. La
“ricaduta” nella seconda fase dell’autonomia statutaria. – 4. Considerazioni finali.
1. La fortuna di una “formula”
La fortuna delle “formule” utilizzate dai giuristi per descrivere una certa realtà è, nella
maggior parte dei casi, legata all’idoneità di siffatte formule di cogliere, in poche battute, i caratteri
distintivi di un fenomeno. In qualche altro caso, invece, la fortuna deriva da quella che potrebbe
essere definita la “capacità predittiva” della formula, tale da fotografare l’esistente e, al contempo,
da individuare l’evoluzione futura. Entrambe queste caratteristiche ricorrono nel caso della
definizione di «mini-costituzioni», data, in senso critico, da Martines agli statuti delle Regioni di
diritto comune436
. Si tratta, dunque, non solo di una sintesi estrema della direzione di marcia seguita
dall’autonomia statutaria nella sua prima fase di vita, ma anche di una formula idonea a descrivere
gli sviluppi della seconda fase dell’autonomia statutaria, in particolare di quella avviatasi
all’indomani della riforma costituzionale del 1999. Questa seconda caratteristica della definizione
in parola non era sicuramente voluta da Martines, il quale, al contrario, auspicava che, al di là degli
“slanci” del primo legislatore statutario, le Regioni potessero presto trovare la loro dimensione
naturale, che evidentemente, alla luce delle considerazioni precedenti, equivaleva ad un
ridimensionamento rispetto a talune affermazioni contenute negli statuti.
Oggi, giunti quasi al termine della seconda stagione di redazione degli statuti437
, la
definizione di «mini-costituzioni» resta attuale. La percezione avuta da Martines già nei primi anni
’70 del secolo scorso continua ad aversi nei confronti delle disposizioni contenute nei nuovi statuti,
436
T. MARTINES, Prime osservazioni sugli statuti delle Regioni di diritto comune, in T. MARTINES, I. FASO, Gli
statuti regionali, Milano 1972, ora in T. MARTINES, Opere, III, Milano 2000, 567. È significativo che la parte dello
scritto appena citata sia stata pedissequamente riportata da T. Martines, prima, e da G. Silvestri, dopo, nelle varie
edizioni del manuale dello stesso Martines, Diritto costituzionale, fino all’ultima (Milano 2013, 684). 437
Tutte le Regioni di diritto comune si sono, infatti, dotate di un nuovo statuto, approvato secondo la
procedura e con i contenuti di cui all’art. 123 Cost., come modificato dalla legge cost. n. 1 del 1999. Da ultimo, il nuovo
statuto della Regione Basilicata è stato approvato in seconda deliberazione il 5 luglio 2016 ed è stato pubblicato nel
Bollettino Ufficiale della Regione n. 28 del 28 luglio 2016 (con errata corrige sul BUR n. 32 del 16 agosto 2016).
721
che abbondano di enunciazioni di principio e di affermazioni altisonanti. Al contempo, le nuove
previsioni statutarie risultano asfittiche con riguardo alla forma di governo, finendo con l’appiattirsi
sul modello “suggerito” dal legislatore costituzionale del 1999. A questo singolare conformismo
fanno eccezione, probabilmente, solo le disposizioni di quegli statuti che hanno previsto la
possibilità per il Presidente della Regione di porre una questione di fiducia, sia pure nell’ambito
della forma di governo c.d. neo-parlamentare438
.
Nelle carte statutarie di seconda generazione vi sono, poi, disposizioni relative a organi e a
istituti che potrebbero aprire nuovi scenari dell’autonomia regionale (si pensi, per tutti, agli organi
di garanzia statutaria e agli istituti di partecipazione), ma spesso alle affermazioni contenute nello
statuto non ha fatto seguito un’adeguata normativa di attuazione439
. Si pensi, ancora, alle
disposizioni statutarie in materia di diritti sociali, rispetto alle quali emerge la contraddizione di una
tendenza «centripeta» delle politiche sociali in una materia che, per il criterio residuale, dovrebbe
rientrare nella competenza legislativa regionale440
.
A fronte dello stato di cose anzidetto è sufficiente prendere atto di questo andamento o può
essere utile provare a individuare e a comprendere le ragioni di questa evoluzione? Non vi è dubbio
che la mera constatazione dell’esistenza di un fenomeno difficilmente può consentire di immaginare
possibili vie d’uscita. Ecco, dunque, l’utilità della formula coniata da Martines, che appare minima
se funzionale solo a descrivere il contenuto degli statuti ma che può risultare significativa se volta a
spiegare le cause di questo modo di intendere l’autonomia statutaria.
In premessa può rilevarsi che già la perdurante attualità della formula «mini-costituzioni»,
quantomeno nell’accezione data da Martines, non è una buona notizia per lo stato di salute delle
438
Al riguardo si segnalano non solo le previsioni degli statuti regionali della Calabria e della Liguria ma
anche, di recente, quelle degli statuti della Basilicata (nel cui art. 52 si parla di «verifica della fiducia») e della
Campania (il cui art. 49 è stato oggetto di una modifica ad opera della legge di revisione statutaria 8 agosto 2016, n.
28). Sul punto, fra gli altri, M. OLIVETTI, La forma di governo e la legislazione elettorale: Statuti “a rime obbligate”?,
in I nuovi statuti delle Regioni ad autonomia ordinaria, a cura di A. D’Atena, Milano 2008, 79 ss. ma spec. 114 ss., e
D. CODUTI, La questione di fiducia tra statuti regionali e regolamenti consiliari, in Osservatoriosullefonti.it, 2/2010.
Sulle recenti modifiche allo statuto della Regione Campania si rinvia a P.L. PETRILLO, Forma di governo e rapporto
giunta-maggioranza nella modifica dello Statuto regionale della Campania. Appunti procedurali, e M. SCUDIERO,
Questione di fiducia e provvedimenti deliberativi: riflessioni sulle modifiche allo Statuto campano, entrambi in
federalismi.it, 10/2016 (18 maggio 2016). 439
Sull’attuazione delle disposizioni statutarie relative agli organi di garanzia si veda, in particolare, R.
ROMBOLI, La natura ed il ruolo degli organi di garanzia statutaria alla luce delle leggi regionali di attuazione degli
statuti e della giurisprudenza costituzionale, in Osservatorio sulle fonti 2009. L’attuazione degli statuti regionali, a
cura di P. Caretti e E. Rossi, Torino 2010, 77 ss. 440
Cfr., tra i tanti, E.A. FERIOLI, Le disposizioni dei nuovi statuti regionali sulla tutela dei diritti sociali: tanti
«proclami» e scarsa efficacia, in I principi negli statuti regionali, a cura di E. Catelani e E. Cheli, Bologna 2008, 45 ss.
722
Regioni, poiché è sintomatica di un progressivo scollamento tra il legislatore regionale, preoccupato
di dare ingresso negli statuti ad enunciazioni di principio e al riconoscimento di nuovi diritti, e la
comunità regionale naturalmente più portata a cogliere le ricadute sul piano sociale delle politiche
regionali. Quest’ultima considerazione non è, però, sufficiente a ritenere inutile e sovrabbondante
ogni affermazione di principio da parte del legislatore statutario; occorre, invece, distinguere caso
per caso, disposizione per disposizione. Prima ancora, è necessario riprendere il pensiero di
Martines per tentare di cogliere il senso della formula di cui qui si discute.
2. Il significato dell’espressione «mini-costituzioni»
Utilizzando la formula in parola Martines alludeva al fatto che il legislatore statutario aveva
interpretato estensivamente l’art. 123 Cost., e, per questo verso, era andato «bene al di là delle
disposizioni in esso contenute, quasi a voler riaffermare (anche, alle volte, con punte inutilmente
polemiche) la vitalità dell’istituto regionale in una comunità statale la cui costituzione materiale
presenta oggi, in alcuni settori, caratteristiche notevolmente diverse da quelle proprie del periodo in
cui furono votati la Costituzione e gli Statuti speciali»441
.
Martines spiegava questa lettura estensiva dell’art. 123 Cost. facendo riferimento ad una
improvvisa esplosione delle istanze autonomistiche che, dopo essere state «lungamente compresse e
mortificate», avevano preso corpo «in tutta una serie di norme enunciative e programmatiche che
avrebbero potuto, almeno in parte, essere omesse negli Statuti senza con ciò togliere nulla ai
contenuti dell’autonomia regionale». Martines rilevava, quindi, una sostanziale ridondanza di talune
disposizioni statutarie. Invero, ad essere oggetto di critica era «il metodo seguito», che aveva
portato il legislatore regionale ad «includere negli Statuti, con una elencazione precisa e minuziosa,
tutti gli obiettivi che la comunità regionale intende perseguire avvalendosi dello strumento
autonomistico».
In sostanza, a suscitare le perplessità del Maestro non erano le affermazioni di principio in
sé considerate ma la loro dettagliata articolazione nelle carte statutarie, anzi in tutte le carte
statutarie in termini analoghi, a prescindere dalla collocazione geografica della Regione interessata
441
T. MARTINES, Prime osservazioni sugli statuti delle Regioni di diritto comune, cit., 567.
723
e dalla composizione politica delle maggioranze che li avevano deliberate. Questa omogeneità di
indirizzo442
tradiva (e tradisce) una sostanziale comunanza degli obiettivi che le comunità regionali
si prefiggono di raggiungere e quindi una sostanziale unitarietà nell’interpretazione dei contenuti
dell’autonomia. Di qui la rivalutazione che Martines faceva di queste previsioni statutarie, il cui
reale significato può cogliersi solo sul piano politico, concretizzandosi «nella volontà delle Regioni
di affermare la loro presenza nella comunità statale e di partecipare attivamente, in una visione
dinamica ed attuale dei problemi della società italiana, al conseguimento dei fini costituzionali»443
.
Dunque, attraverso le norme statutarie di indirizzo le Regioni sottolineano che «i fini ed i valori
costituzionali possono essere perseguiti e realizzati pienamente soltanto [con il loro apporto]; o, il
che è lo stesso, che una Costituzione pluralista non può essere attuata […] da un apparato statale
centralizzato»444
.
Ciò nondimeno permanevano le critiche sul piano della tecnica legislativa utilizzata, tali da
dubitare dell’«opportunità di inserire negli Statuti disposizioni puramente ripetitive di norme
costituzionali e disposizioni di dettaglio che, specificando gli obiettivi preminenti dell’attività della
Regione, ne appesantiscono il testo e risultano essere puramente esplicative e, per ciò stesso, senza
un effettivo contenuto normativo»445
. Martines non negava che si potesse anche dubitare della loro
legittimità costituzionale se e in quanto «amplificative di funzioni e competenze regionali»; ciò,
comunque, non faceva venir meno il loro valore sul piano politico446
.
Il senso di queste ultime affermazioni è reso ancora più esplicito là dove si afferma che «va
ascritto a merito dei legislatori statutari […] l’avere dato, esaltando questi principi, attuazione ad
una Costituzione che, a quasi un quarto di secolo dalla sua entrata in vigore, sembrava non avesse
più la forza di suscitare e far condurre a termine quei processi innovativi che, in essa previsti, la
caratterizzano come Carta essenzialmente programmatica»447
. In sintesi, per Martines gli statuti
442
Al riguardo Martines parlava di un «indirizzo politico statutario» (op. cit., 568). 443
T. MARTINES, op. cit., 569. 444
Ibidem. 445
Ibidem. 446
Com’è noto, molto più drastico è il giudizio espresso da L. PALADIN (Diritto regionale, Padova 2000, 47),
secondo cui «malgrado non debbano considerarsi illegittime per definizione, le disposizioni programmatiche si sono
rivelate inefficaci; ed hanno certamente costituito la parte più velleitaria ed improduttiva di tutta la disciplina
statutaria». 447
T. MARTINES, op. cit., 574.
724
rappresentano – «pur nella loro formulazione alle volte ridondante e retorica – l’interpretazione più
attuale [della Costituzione], fatta propria dal Parlamento con le leggi di approvazione»448
.
In definitiva, il giudizio che il Maestro dava delle numerose disposizioni statutarie di
principio era positivo quanto alla loro capacità di testimoniare l’esistenza di un idem sentire con
riguardo a determinati valori449
, ma era negativo quanto alla tecnica utilizzata per dare
riconoscimento a queste esigenze nelle carte statutarie450
. Al riguardo, però, occorre precisare come
il Suo giudizio fosse in qualche modo condizionato dal momento storico in cui Egli scriveva;
questo profilo emerge da qualche sporadica affermazione, nella quale si allude alla necessità di
attendere il passaggio «dalla “fase costituente” a quella della concreta attuazione»451
o si fa
riferimento alla «piena consapevolezza» che Stato e Regioni devono avere «dei limiti entro i quali
la loro azione dovrà essere svolta, al fine di evitare equivoci e compromessi costituzionali»452
.
Ancora più convincente sembra un’altra spiegazione di questo giudizio, apparentemente
ambiguo, di Martines: è stato fatto notare come Egli nutrisse una forte fiducia nelle Regioni (e «non
tanto nelle autonomie territoriali genericamente intese») ma, al contempo, «la tentazione
“federalista”» non fu mai presente nei Suoi scritti, quindi Regioni (cioè enti autonomi e derivati) e
non Stati453
. Queste considerazioni colgono perfettamente il senso dell’ambivalenza del suo
giudizio: positivo sul valore politico delle norme programmatiche degli statuti ma negativo sulla
loro tendenza a “imitare” le carte costituzionali (appunto, mini-costituzioni). Con riguardo al valore
politico di queste previsioni è stato, peraltro, rilevato come esse «abbiano inciso […],
448
Ibidem. 449
Al punto che [com’è stato rilevato da A. SAITTA, Martines e la “specialità” siciliana, in
Dirittiregionali.org, III/2016 (26 agosto 2016), 689 s.] Martines criticava l’assenza di norme programmatiche nello
statuto della Regione siciliana, imputandola «essenzialmente ad una concezione ristretta della autonomia politica
regionale» (Lo statuto siciliano oggi, in le Regioni, 1983, 895 ss. ed ora in Opere, III, cit., 829). 450
Su questa “doppia faccia” del giudizio espresso da Martines sulle “norme programmatiche” degli statuti si
sofferma A. RUGGERI, Sogno e disincanto dell’autonomia politica regionale nel pensiero di Temistocle Martines (con
particolare riguardo al “posto” delle leggi regionali nel sistema delle fonti), in Dirittiregionali.org, III/2016 (29
maggio 2016), 461, rilevando che «In questi passi […], per un verso, torna vistoso l’attaccamento al testo
costituzionale, nella formula dell’originario art. 123 non facendosi parola alcuna dei contenuti “eventuali” degli statuti,
e però, per un altro verso ed allo stesso tempo, prefigurandosi il suo superamento (ma con effetti rilevanti al mero piano
politico) al fine di dare comunque modo all’autonomia regionale di potersi esprimere con centralità di posto nel sistema
istituzionale, sempre (e solo) in vista dell’ottimale appagamento dei fini-valori enunciati nella Carta». 451
T. MARTINES, Prime osservazioni sugli statuti delle Regioni di diritto comune, cit., 574. 452
T. MARTINES, op. cit., 575. 453
Così A. SPADARO, Dal generico (e angusto) localismo delle autonomie territoriali al maturo (e ideale)
regionalismo di Temistocle Martines, in Dirittiregionali.org, III/2016 (27 luglio 2016), 665.
725
caratterizzandola profondamente, sulla realtà delle Regioni, spinte ad assumere una configurazione
istituzionale diversa da quella prima prevedibile sia verso l’esterno […] sia verso l’interno»454
.
Al di là di quest’ultima considerazione, oggi possiamo dire che l’attuazione degli statuti di
prima generazione e, fin qui, anche di quelli di seconda generazione non è stata all’altezza delle
previsioni statutarie e delle aspettative alimentate da queste ultime. Per queste ragioni l’espressione
«mini-costituzioni» ha assunto, sempre più, una valenza negativa, volendosi alludere con essa ad un
tentativo, spesso mal riuscito, di elaborare la Carta fondamentale di una comunità.
3. La “ricaduta” nella seconda fase dell’autonomia statutaria
La breve esperienza degli statuti di seconda generazione sembra confermare il giudizio poco
sopra espresso. La riforma costituzionale del 1999 ha, com’è noto, riproposto l’antica querelle circa
i contenuti (necessari e ulteriori) degli statuti regionali ordinari455
e ha ridato smalto alle ambizioni
dei legislatori regionali di creare delle mini-costituzioni. Questa tendenza emerge chiaramente
leggendo le disposizioni statutarie dedicate ai diritti fondamentali456
, che peraltro non mancavano
già negli statuti del 1971. In proposito, la differenza tra i nuovi e i vecchi statuti è sintetizzabile nel
fatto che, mentre questi ultimi si limitavano – al più concedere – a ripetere il dato testuale dell’art.
3, co. 2, Cost.457
, i nuovi statuti, nei rari casi in cui si occupano delle questioni in parola, si
avventurano in proclami che, però, quasi mai vanno oltre le mere enunciazioni di principio.
Al riguardo, è stato acutamente rilevato che mentre le «dichiarazioni di principio» contenute
nei vecchi statuti, che pure «manifestavano la passione politica riformatrice dei rispettivi ideatori»,
«risultavano affermazioni velleitarie» in considerazione delle limitate competenze trasferite alle
454
U. DE SIERVO, Gli statuti delle regioni, Milano 1974, 291 s. 455
In argomento, M. BENVENUTI, Le enunciazioni statutarie di principio nella prospettiva attuale, in Gli
statuti di seconda generazione. Le Regioni alla prova della nuova autonomia, a cura di R. Bifulco, Torino 2006, 21 ss.;
L. BIANCHI, Le norme di principio negli statuti, in Osservatorio sulle fonti 2005. I nuovi Statuti regionali, a cura di P.
Caretti, Torino 2006, 45 ss.; M. ROSINI, Le norme programmatiche dei nuovi statuti, in I nuovi statuti delle regioni
ordinarie. Problemi e prospettive, a cura di M. Carli, G. Carpani e A. Siniscalchi, Bologna 2006, 31 ss.; G.
D’ALESSANDRO, I nuovi statuti delle Regioni ordinarie, Padova 2008, 243 ss. 456
Fra i tanti, E. LONGO, Il ruolo dei diritti negli statuti e nelle istituzioni regionali, in Statuti atto II. Le
regioni e la nuova stagione statutaria, a cura di G. Di Cosimo, Macerata 2007, 41 ss. 457
In tal senso le norme seguenti degli statuti del 1971: art. 1 Abruzzo, art. 3 Calabria, art. 3 Campania, art. 3
Emilia-Romagna, art. 4 Liguria, art. 3 Lombardia, art. 4 Marche, art. 3 Toscana e art. 3 Veneto.
726
Regioni a quel tempo, oggi, dopo la riforma del Titolo V del 2001 e i trasferimenti di funzioni
realizzati con le leggi Bassanini, «a molte affermazioni di principio corrispondono poteri e funzioni
in grado di realizzare o “attuare” effettivamente i principi affermati statutariamente»458
.
Occorre altresì ricordare che proprio il carattere di principio delle enunciazioni recate dai
nuovi statuti ha consentito di escluderne l’illegittimità costituzionale. Il riferimento è alle note sentt.
n. 372, 378 e 379 del 2004 (e ancora prima, sia pure in termini dubitativi, alla sent. n. 2 del 2004459
)
in cui la Corte costituzionale ha ritenuto che le disposizioni statutarie recanti l’indicazione di
«principi generali» o di «finalità principali» dell’azione dell’ente regionale non abbiano un carattere
prescrittivo e vincolante, bensì che esplichino «una funzione, per così dire, di natura culturale o
anche politica, ma certo non normativa»460
.
Un caso emblematico è quello delle disposizioni statutarie in tema di contrasto alle
discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e di diritti delle persone LGBTI461
. I legislatori
statutari regionali, infatti, nella stragrande maggioranza dei casi hanno ignorato questa tematica,
limitandosi ad affermazioni molto generiche sul ripudio di ogni forma di discriminazione, mentre
solo in qualche statuto è espressamente sancito il rispetto delle identità di genere.
L’esempio appena citato sembra particolarmente adatto a chiarire il senso del pensiero di
Martines sul punto. Le disposizioni statutarie in materia costituiscono davvero «l’interpretazione
più attuale» della Costituzione e dei suoi principi ma il loro valore resta confinato al piano politico
o culturale, come ha detto, tra l’altro, la Corte costituzionale. Ciò che manca in queste norme è,
dunque, la natura giuridica, stante la loro formulazione «alle volte ridondante e retorica» e
soprattutto la sostanziale impossibilità per il legislatore regionale di dare attuazione ad alcune di
queste previsioni, in quanto attinenti alla materia dell’ordinamento civile, di competenza statale. Il
458
P. CARROZZA, Il welfare regionale tra uniformità e differenziazione: la salute delle Regioni, in I principi
negli statuti regionali, cit., 23 s. 459
In questa sentenza, infatti, a proposito dei c.d. contenuti ulteriori degli statuti la Corte si è limitata a ritenere
«opinabile la misura [della loro] efficacia giuridica» (punto 10 del cons. dir.). 460
Fra i tanti commenti a queste pronunzie si richiama quello di R. BIN (Perché le Regioni dovrebbero essere
contente di questa decisione, in le Regioni, 1-2/2005, 15 ss.), il quale, a proposito dell’inutilità (oltre che della
dannosità) di queste norme programmatiche, sottolinea come a screditare l’autonomia regionale sia «proprio l’esplicita
dichiarazione che gli statuti fanno dell’incapacità della Regione di risolvere i problemi che ci si limita semplicemente
ad elencare» (18). 461
Sul punto sia consentito il rinvio a G. D’AMICO, LGBTI e diritti, in Diritti e autonomie territoriali, a cura di
A. Morelli e L. Trucco, Torino 2014, 176 ss. ma spec. 182 ss.
727
senso della formula «mini-costituzioni» sta, in definitiva, in questa incapacità di siffatte formule di
avere un valore ulteriore rispetto a quello meramente politico.
Quanto appena detto sembra confermare che anche nella nuova fase dell’autonomia
statutaria, apertasi con la legge cost. n. 1 del 1999, permane questa tendenza del legislatore
regionale a dare ingresso nella propria carta statutaria a esigenze, interessi e valori la cui
realizzazione, il più delle volte, esula dalle sue competenze o dalle sue capacità.
4. Considerazioni finali
La perdurante attualità della formula «mini-costituzioni» per descrivere il contenuto degli
statuti ordinari pone una serie di interrogativi, il primo dei quali riguarda il grado di consapevolezza
del legislatore regionale circa la dimensione, le competenze e i limiti dell’ente Regione. Non v’è
dubbio, infatti, che una esatta percezione del proprio ruolo dovrebbe indurre il legislatore statutario
ad un ridimensionamento nell’enunciazione delle disposizioni di principio.
In secondo luogo, vale la pena di chiedersi se le ragioni di questa singolare attenzione dei
legislatori statutari per le enunciazioni di principio non possano essere individuate in una sorta di
effetto emulativo che ha progressivamente indotto le Regioni di diritto comune ad attingere dalle
carte statutarie già approvate da altre Regioni.
Inoltre, non può essere sottovalutato il fatto che si tratta di previsioni che non hanno una
significativa ricaduta in termini di responsabilità politica per le maggioranze politiche che le hanno
deliberate (con l’eccezione, forse, delle disposizioni statutarie che toccano questioni etiche e
religiose).
Questi interrogativi e soprattutto il primo di essi diventeranno ancora più rilevanti se
dovesse essere approvato il referendum sul testo di riforma della Costituzione. Infatti, a fronte di un
deciso ridimensionamento delle competenze regionali, talune previsioni statutarie finiranno con
l’apparire del tutto sovrabbondanti, se non fuori luogo. Ed allora appare quanto mai opportuno
interrogarsi su quale debba essere il modello di regionalismo per le Regioni italiane462
. Quasi
462
In tal senso A. MORELLI, Editoriale. Unità e autonomia nel pensiero del prof. Temistocle Martines, in
Dirittiregionali.org, III/2016 (16 maggio 2016), 394.
728
quaranta anni fa Giorgio Pastori, a conclusione del suo saggio su Le Regioni senza regionalismo,
confidava in un «ritorno agli statuti» come soluzione per superare le difficoltà di identificare la
Regione «in una proposta, in una funzione o in un ruolo dominante, in un progetto»463
.
Oggi, questa fase è superata. Potremmo dire di essere nell’epoca del “disincanto statutario”;
non solo manca un modello di regionalismo per le nostre Regioni, ma dobbiamo interrogarci anche
su quale sia il ruolo delle Regioni o, per dirla in altre parole, sui contenuti di «un’autentica cultura
dell’autonomia»464
. D’altra parte – e questo aspetto è spesso sottovalutato – la cultura
dell’autonomia o delle autonomie è solo una faccia della più ampia cultura democratica465
.
In definitiva, restano le «mini-costituzioni» ma non sappiamo per quali Regioni.
463
G. PASTORI, Le regioni senza regionalismo, in Il Mulino, 2/1980, 204 ss. e spec. 216. 464
Limitandoci agli scritti pubblicati nel presente numero di questa Rivista, A. MORELLI, Editoriale. Unità e
autonomia nel pensiero del prof. Temistocle Martines, cit., 394; A. RUGGERI, Sogno e disincanto dell’autonomia
politica regionale nel pensiero di Temistocle Martines, cit., 469. 465
Su questo punto insiste G. SILVESTRI, Rileggendo, sessant’anni dopo, il saggio di Temistocle Martines
sull’autonomia politica delle regioni in Italia, in Dirittiregionali.org, III/2016 (9 giugno 2016), 470 ss. ma spec. 472.