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[Corso di METODOLOGIA della PROGETTAZIONE] Dipartimento di Progettazione e Arti Applicate A.A. 2015/2016
Titolare della Cattedra: Prof. Arch. Gaetano CATALDO
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AUSILI DIDATTICI - COMPENDIO DELLE LEZIONI.01
IL DISEGNO È PROGETTO
Non ha futuro un paese che non mette al centro di se stesso il diritto dei cittadini all’educazione
all’Arte. Soprattutto per le ricadute sulla tutela del Patrimonio e del Paesaggio. Il concetto di
educazione e formazione si riferisce all’acquisizione di uno dei linguaggi fondamentali per la vita
dell’uomo.
Il Disegno e la Storia dell'arte, vissuti come discipline che permettono la decodificazione del mondo
delle forme e la successiva attivazione di percorsi progettuali, sono contenuti che favoriscono
l'apprendimento in modo accattivante e creativo. Il Disegno stimola le modalità di analisi e di
rappresentazione della realtà e favorisce la creazione di una coerente weltanschauung.
Il progettista usa il foglio da disegno e le forme geometriche che, opportunamente composte e
descritte nelle differenti espressioni analitiche e/o sintetiche, diventano elementi di progettazione.
Sono immagini che, attualizzando il futuro, danno concretezza ai pensieri e alle parole.
NATIVI DIGITALI
Camille Paglia: "Siamo passati dalla pop art all'arte delle pop star. I ragazzi, persi tra videogiochi e
smartphone, non hanno alcuna educazione alle immagini". "L'intera storia dell'arte occidentale sta per
essere dimenticata. La fine della spiritualità coincide con il crollo della nostra stessa civiltà".
Seducenti immagini è un manuale per rieducare i giovani alla storia dell'arte attraverso 29
capolavori: dall'antico Egitto a Star Wars.
La procedura didattica genera risultati diversi, da studente a studente. Ognuno elabora il dato
scritto secondo le proprie sensibilità, le proprie aspirazioni, le proprie conoscenze, innescando, in
questo modo, un processo creativo, descrittivo e rappresentativo.
La geometria descrittiva è una scienza del tutto particolare, da
sempre compromessa con l’arte e fatta di pensiero e di immagini
(perciò anche di metafore) in un corpo solo. Non si può fare la
geometria descrittiva senza le immagini, e le immagini, quelle che
guidano il progetto dalla invenzione alla realizzazione, non si
possono fare senza la geometria descrittiva.
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IL PROGETTO
Il primo teorico ad aver affrontato consapevolmente (sia pur limitatamente al settore dell’architettura
con il De Re Aedificatoria) il tema della progettazione è stato L. B. Alberti sottolineando, con la
dissociazione fra progetto ed esecuzione, l’autonomia liberale dell’Architetto: “Lo edificio è un certo
corpo fatto siccome tutti gli altri corpi, di disegno e di materia: l’uno si produce dallo ingegno, la altra
dalla natura: onde all’uno si provede con applicamento di mente, e di pensiero, all’altra con
apparecchiamento, e sceglimento” (1450).
Il PROGETTO è un’anticipazione per il venire-in-essere di qualcosa che, rispetto al futuro, può
essere qualificato come possibile. La PRE-COSTITUZIONE O PRE-VISIONE di possibilità è un
fenomeno essenzialmente legato all’agire umano (Agire Tecnico, Etico o Teoretico).
IL PROGETTO è ANTICIPAZIONE (pro-iectum)
Il progetto, in quanto anticipazione, implica un riferimento al futuro come proprio ed essenziale
ORIZZONTE di TEMPORALITÀ
Dato STRUTTURALE del concetto è offerto dalla categoria della POSSIBILITÀ
(FUTURO POSSIBILITÀ) costituiscono la matrice fenomenologica di tale idea.
Il problema della SOGGETTIVITÀ è il perno intorno al quale si costruisce l’IDEA di PROGETTO.
La soggettività, nel determinismo greco, è costituita da:
tecnh arte (Tekné - agire produttivo intenzionale - tecnica) Mito di Prometeo
praxiz agire etico (Praxis)
con il termine Progetto s’intende, modernamente, la possibilità inerente all’agire produttivo di
ipotizzare formazioni nuove o anche solo parzialmente inedite da inserire nel contesto di ciò che è già
disponibile: cosmos cosmo fusiz natura
Nel determinante rapporto DISEGNO/PROGETTO il disegno interviene come medium di
un’operazione che sta al di sopra: l’Artista/Designer/Progettista deve saper coordinare e riunire in uno
schema produttivo i molti saperi dispersi degli artigiani per tradurli nel programma del disegno/mercato
dell’industria: e in tal senso il DISEGNO e la capacità tecnica della rappresentazione sono
determinanti.
“In verità non tutto dall’inizio gli dei rivelarono ai mortali, ma cercando nel corso del tempo questi
trovarono il meglio”. (Senofane, V sec. a.C.)
La citazione conferma l’origine divina della cultura e la teoria dell’avvio del suo sviluppo storico: gli
Dei non dettero, gli uomini presero cercando [determinismo] ed “imitarono le operazioni divine”
(Bacone)
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M. Heidegger conferì una posizione centrale al progetto (Entwurf) come carattere costitutivo
dell’esistenza; ABITARE viene prima di COSTRUIRE (vedi il saggio Costruire, abitare, pensare del
1954)
“Il bisogno dell’uomo di una dimora è ininterrotto; l’architettura non a mai conosciuto pause”. (W.
Benjamin)
“Il progetto è trasformazione in senso generale e nell’ambito più ristretto e disciplinare delle
pratiche costruttive o ricostruttive architettoniche e urbanistiche. Non esiste creazione dal nulla, ma
uno spazio plurale entro il quale tracciando una riga o proponendo una figura, delimitiamo il campo del
possibile. Come scrive F. Jacob, in ciò sta l’interesse di tutte le creature, nel mostrare come una
cultura affronta il possibile e ne segna i limiti”. (F. Rella)
Sul Metodo:
Methodus (dal latino) deriva da methòdos (in greco metà = per, dopo, e hòdos = via, cammino)
significano “procedere indietro per indagare” ma anche “modo per investigare” :
Metodo dogmatico (o espositivo) - assolutismo intellettuale
Metodo interrogativo (o dialogico) – processo maieutico
Fino al XVI secolo vi era una forma di passività: metodo = trasmissione [Scolastica, Metafisica,
Teologia]
Col naturalismo rinascimentale (XVI-XVII sec.): metodo = ricerca dell’evidenza [Cartesio, Bacone,
Galilei]
Il metodo è un insieme di strumenti operativi per risolvere una specifica classe di problemi;
esempio: risoluzione per un sistema di equazioni.
La metodologia include i metodi da applicare, insieme ai paradigmi per generare i metodi per la
risoluzione di una classe di problemi; si compone di:
decomposizione in passi indipendenti tra loro;
strategie e criteri
modelli di riferimento
Le proprietà di una metodologia sono:
la generalità rispetto alle applicazioni
la qualità del prodotto (efficienza, correttezza, completezza)
la facilità d’uso di strategie e modelli.
Per esempio la Metodologia della progettazione di un database deve essere costituita da:
a) Progettazione concettuale:
o rappresentare le specifiche formali della realtà di interesse in termini di una descrizione formale
e completa, ma indipendente dai criteri di rappresentazione dei dati:
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o Si rappresenta il contenuto informativo del database, senza preoccuparsi né delle modalità di
rappresentazione né delle applicazioni che ne faranno uso.
b) Progettazione logica:
o Traduzione dello schema concettuale nel modello di rappresentazione dei dati adottato dal
sistema di gestione di database;
o Le scelte progettuali si basano su criteri di ottimizzazione delle operazioni da effettuare sui dati
[normalizzazione].
c) Progettazione fisica:
Lo schema logico è corredato con la specifica dei parametri fisici di memorizzazione.
· Progettazione Concettuale
· Diagrammi Entità-Relazione
· Progettazione Logica
· Tavole Data Base
· Progettazione Fisica
· Indici e Strutture
Elementi determinanti di una METODOLOGIA sono:
· I DATI DI INGRESSO (studi, indagini)
· LE NORME E LE LEGGI DI RIFERIMENTO GENERALI
· LA NORMATIVA SPECIFICA (materiali, sistemi tecnologici)
· LE VERIFICHE DI SISTEMA E DI CONTENUTO
· IL PROCESSO DI PROGETTAZIONE
Iter di Progettazione:
BRIEFING
ANALISI DELL’ESISTENTE ED IL RILIEVO (spazio conosciuto)
ANALISI LOGICA FUNZIONALE
RICHIESTA DI PRESTAZIONI
SCELTA DEL COMPONENTE PRINCIPALE DI PROGETTAZIONE
VERIFICA DEL COMPONENTE PRINCIPALE DI PROGETTAZIONE
PROGETTO DI MASSIMA ED ESECUTIVO
LO SCHEMA DELLE 6 DOMANDE:
WHY? IL MOTIVO ESISTE IL BISOGNO DELL’OGGETTO
WHERE? IL LUOGO DOVE DEVE ESSERE REALIZZATA
WHEN? QUANDO DEVE ESSERE REALIZZATA
WHO? CHI LA DEVE REALIZZARE
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WHAT? LO SCOPO CHE COSA DEVE ESSERE REALIZZATA
HOW? IL METODO COME DEVE ESSERE REALIZZATA
IL METAPROGETTO
È uno strumento di coordinamento delle scelte da fare attraverso la razionalizzazioen dei problemi
e la loro scomposizione e riorganizzazione. Le fasi sono:
1.CONFIGURAZIONE IN PRESTAZIONI POSSIBILI DEGLI OBIETTIVI GENERALI PER IL
SETTORE DI INTERVENTO (DECISIONI POLITICHE)
2.DEFINIZIONE DEI REQUISITI FUNZIONALI E LORO GERARCHIZZAZIONE IN RELAZIONE
AGLI OBIETTIVI (INTERDISCIPLINARIETÀ)
3.TRADUZIONE DEI REQUISITI FUNZIONALI IN REQUISITI SPAZIALI, DEFINIZIONE DELLE
UNITÀ SPAZIALI (DISCIPLINARIETÀ)
4.QUANTIFICAZIONE DEI REQUISITI SPECIFICI DELLE UNITÀ SPAZIALI (PERFORMANCE E
STANDARDS)
5.ANALISI COMPORTAMENTALE (ATTIVITÀ IN RELAZIONE AL CONTESTO)
6.ANALISI FUNZIONALE (REQUISITI IN RELAZIONE A COMPORTAMENTI E CORRELAZIONI
SPAZIALI)
Caratteristiche del metaprogetto
CAPACITÀ DI ADATTAMENTO E CAMBIAMENTO SECONDO IL CONTESTO ED I BISOGNI
RICHIESTI PERCHÈ:
1.SUBORDINA DIMENSIONI E QUALITA’ DEL PROGETTO AL CONTESTO E ALLE ATTIVITÀ
PRESENTI, RENDENDO I SOTTOSISTEMI MODIFICABILI NEL TEMPO SECONDO LE VARIAZIONI
DEL SISTEMA
2.SLEGA LA VARIABILITÀ DELLE AGGREGAZIONI SPAZIALI DA ORGANIZZAZIONI
PRECOSTITUITE
3.PREVEDE COLLABORAZIONI INTERDISCIPLINARI
4.PREVEDE ALTA FUNZIONALITÀ DEGLI SPAZI IN RELAZIONE CON BISOGNI E
COMPORTAMENTI DI GESTORI E UTENTI
Una metodologia di progetto da applicare nel passaggio dal disegno alla rappresentazione alla
realizzazione può essere la seguente:
1.PROGETTO: nasce da una necessità; contiene gli elementi per la soluzione
2.DEFINIZIONE DEL PROGETTO: individua gli ambiti di riferimento
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3.COMPONENTI DEL PROGETTO: articolazione in sottoproblemi (metodo cartesiano)
4.RACCOLTA DATI: informazioni sui sottoproblemi
5.ANALISI DEI DATI: analisi delle informazioni
6.CREATIVITÀ/IDEA: individuazione delle prime bozze di soluzioni
7.MATERIALI & TECNOLOGIA: verifica delle soluzioni individuate
8.SPERIMENTAZIONE: verifica e raccolta di altre informazioni
9.MODELLI: verifica la congruità del metodo e anticipa la soluzione
10.VERIFICA: conformità ai requisiti richiesti e controllo
11.DISEGNI COSTRUTTIVI: redazione di grafici esecutivi in scala
12.SOLUZIONE: realizzazione del progetto
La configurazione della forma
“È però ragionevole pensare che le creazioni dell’uomo siano fatte pel corpo, e questo principio
chiamano utilità, o siano fatte per l’anima, e lo vanno cercando col nome di bellezza. Ma per altro, chi
costruisce o crea, considerando come il resto del mondo e il fluire della natura tendano in perpetuo a
dissolvere, a corrompere o a capovolgere quant’egli fa, deve riconoscere un terzo principio e cercare
di comunicarlo alle sue opere. Esso esprime la resistenza con cui l’uomo vuole che le opere si
oppongano al destino che le fa periture, e però ricerca la solidità o la durata”.
Il senso di questo brano tratto dal dialogo Eupalino o l’Architetto di Paul Valéry va ricercato
nell’ansia per l’immortalità e nella volontà di lasciare tracce della propria esistenza aprendo il grande
problema della configurazione della forma.
Nota: L’architetto Eupalinos di Megara costruì un tempietto per Ermes riuscendo a infondervi
l’immagine matematica di una ragazza di Corinto da lui molto amata. L’anima di Fedro ne racconta le
abilità all’anima di Socrate nel celebre dialogo Eupalinos o l’Architetto, pubblicato da Paul Valéry nel
1921, mentre Le Corbusier scriveva Vers une architecture.
COSTRUIRE ABITARE PENSARE
Nel suo fondamentale saggio del 1951 Costruire Abitare Pensare Martin Heidegger ricordava che
“le cose che, in quanto luoghi, accordano un posto, le chiameremo ora – anticipando – edifici”.
E di seguito: “Eretto l’edificio riposa sul suo basamento di roccia. Questo riposare dall’opera fa
emergere dalla roccia l’oscurità del suo supporto, saldo e tuttavia non costruito. Stando lì l’opera tiene
testa alla bufera che l’investe, rivelandone la violenza. Lo splendore e la luminosità della pietra, che
essa riceve in dono dal sole, fanno apparire la luce del giorno, l’immensità del cielo, l’oscurità della
notte”.
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“Il suo sicuro stagliarsi rende visibile l’invisibile regione dell’aria. La solidità dell’opera fa da
contrasto al moto delle onde, rivelandone l’impeto con la sua immutabile calma. Questo venir fuori e
sorgere, come tali nel loro insieme, è ciò che i Greci chiamarono originariamente fusiz. Essa illumina
ad un tempo ciò su cui e ciò in cui l’uomo fonda il suo abitare. Noi la chiamiamo Terra”.
Alois Riegl (1858-1905) deve essere ricordato come storico dell’arte soprattutto per la sua teoria
dei valori, la DenkmalKultus, a cui si lega la sua battaglia contro il "restauro stilistico" di Eugene
Viollet-le-Duc: ancora oggi è di assoluta attualità per quanto riguarda la storia e la teoria della
conservazione delle opere d’arte. Secondo Riegl il restauratore deve operare con la consapevolezza
dell'esistenza di diversi valori, agendo attraverso il confronto dialettico tra questi. Il "valore storico" che
invita a garantire la leggibilità del documento storico (richiedendo l'eventuale reintegrazione di parti
mancanti o perdute); il "valore d'antichità", invece, reclama in non-intervento (andando contro la
stessa conservazione) per tutelare gli effetti causati dal passaggio del tempo (e dunque, a favore della
"patina" tanto amata da John Ruskin); il "valore di novità" asseconda gli istinti di ripristino e
rifacimento, è visibile nei restauri di Viollet-le-Duc; infine il "valore d'uso" garantisce la sopravvivenza
del documento storico e non mero resto archeologico. Grazie al suo contributo teorico, in Austria si
giunse alla prima sistematica legge nazionale di tutela dei monumenti, base per le successive Carte
del Restauro.
Fu esponente delle teorie della pura visibilità (B. CROCE, Teoria dell’arte come pura visibilità, Bari
1920), esperto di tessuti, dal 1881 al 1886 fu membro dell'Istituto austriaco di ricerca storica e dal
1886 al 1897 lavorò presso l'Österreichischen Museum für Kunst und Industrie (Museo austriaco per
l'Arte e l'Industria), per un anno come volontario e poi come conservatore responsabile della sezione
tessuti.
Per approfondire: S. SCARROCCHIA, Alois Riegl: teoria e prassi della conservazione dei monumenti. Antologia
di scritti, discorsi, rapporti 1898-1905, con una scelta di saggi critici, Bologna, CLUEB, 1995.
Il Neuheitswert di Alois Riegl
• Il Neuheitswert, il valore di novità si conferma, nella nostra società, come prevalente valore
contemporaneo indipendentemente dalla qualità;
• Il valore di novità deve andare di pari passo con il progresso tecnologico e culturale, così come
avveniva nel passato;
• Il valore di novità è inteso, oggi, come annullamento di un oscuro e misero passato, come riscatto
da sfavorevoli situazioni pregresse.
Il Denkmalkultus di A. Riegl
• Il culto moderno dei monumenti non ha caratteristiche culturali comuni;
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• Il Denkmalkultus, il culto dei monumenti, non va associato al solo valore di antichità in
contrapposizione a quello di novità: “Fra gli elementi che all’epoca nostra maggiormente concorrono
alla depressione del sentimento estetico nelle masse, va annoverato il pregiudizio sempre più diffuso,
secondo il quale il patrimonio artistico e storico del nostro paese si può compendiare nei principali
monumenti, …, tutto il resto si trova abbandonato alla più desolante indifferenza e condannato ad un
fatale deperimento”. L. Beltrami, 1881
La Kunstwollen di A. Riegl
• La Kunstwollen, la volontà o esigenza d’arte, va intesa come ricostruzione di una comune cultura
che, tradotta in termini operativi, significa dare una regola agli interventi ben al di là di quanto
prescritto.
• Il progetto - inteso come complessa operazione di sintesi - non deve escludere alcuna possibilità
e deve organizzare ogni dato in serie concatenate di scelte che preludono a soluzioni molteplici: esso
nasce insieme ai materiali da utilizzare.
In tal senso il ruolo dell’ARTISTA, mediatore fra committente e società, è ancora una volta
determinante.
La realtà oggettiva: “Un segno dritto sul foglio è la pianura”. (C. Zavattini)
La realtà oggettiva, il paesaggio: “È la realtà in cui l’uomo abita; e realtà che abitandovi esperisce
direttamente, e può produrre, modificare in meglio o in peggio; od anche distruggerla, cancellandola
dal proprio orizzonte”. (R. Assunto)
Il paesaggio come palinsesto: “Il territorio è un PALINSESTO e va inteso non come semplice
dato ma come risultato articolato di diversi processi: che possono essere quelli naturali o quelli umani,
sì da fare del territorio uno spazio incessantemente modellato”. (A. Corboz)
Il paesaggio deve essere letto nella doppia accezione sincronica e diacronica
Il paesaggio e l’uomo: “Il territorio resta pur sempre l’unità di misura dei fenomeni umani e si
assiste ad un bisogno diffuso di comprendere come si sia formata e in che consista quest’entità fisica
e mentale che è il paesaggio.”
Il luogo: “L’ambiente, nel suo significato più lato ed inteso anche come summa delle sue
componenti urbane e naturali è il modo di essere fisico della storia che lo ha costruito e per muoversi
verso il suo centro ideale, verso il suo luogo bisogna ripercorrere idealmente il lungo cammino delle
modificazioni storiche che lo hanno prodotto”. (V. Gregotti)
Il Topos: “La costruzione del patrimonio fisico urbano e territoriale è avvenuta lentamente
attraverso la storia e con un insieme di intelligenti, miracolose coerenze, di coerenze collettivamente
significative, oppure attraverso atti sapienti e di radicale semplicità. Fin dalla preistoria, in una natura
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intatta ma ostile perché sconosciuta l’uomo ha posto la pietra sulla terra per riconoscere il luogo in
mezzo all’universo ignoto: per misurarlo e modificarlo”. (V. Gregotti)
SAPER VEDERE E SAPER PROGETTARE
La capacità di saper vedere, non solo guardare, si forma proprio con la consuetudine quotidiana
con gli strumenti del disegno e della rappresentazione: quest’ultima si formalizza con l’applicazione
consapevole degli strumenti grafici, soprattutto manuali, con i tempi connessi alla riflessione e
all’osservazione e non con la rapidità dei media contemporanei, tanto bulimici di informazioni quanto
superficiali nei contenuti.
Qui di seguito si accludono due brevi saggi di Marco Romano, docente al Politecnico di Milano,
nonché autore di uno dei testi suggeriti in bibliografia, (La città come opera d'arte, Einaudi Editore,
Torino, 2008). Il riferimento è alla città intesa come luogo privilegiato del vivere, nella quale passiamo
la quasi totalità della nostra vita, e del fare (arte, vivere, passare, transitare, progettare etc.): si
affronta l’ambito delle relazioni connesse, attraverso il tema ambizioso della progettazione della città,
o di una parte di essa in chiave coerente con il messaggio che si vuole trasmettere. Il determinante e
costruttivo rapporto fra l’urbs, intesa come componente fisica e tangibile della città, e la civitas, intesa
come componente sociale e depositaria dei valori collettivi, è l’unica nostra possibilità che ci resta per
fruire la città come vera opera d’arte e non come luogo dell’alienazione e dello straniamento collettivo.
M. Romano, Saper vedere
Le guide turistiche ci conducono abitualmente a visitare i monumenti architettonici più cospicui delle città, quelli
di maggiore dimensione che sono anche, spesso, quelli di rilevante interesse estetico, selezionati con il punto di
vista della storia dell’arte, quasi sempre quelli delle città più grandi che dispongono di rilevanti risorse. Le guide
turistiche ci conducono abitualmente a visitare i monumenti architettonici più cospicui delle città, quelli di
maggiore dimensione che sono anche, spesso, quelli di rilevante interesse estetico, selezionati con il punto di
vista della storia dell’arte, quasi sempre quelli delle città più grandi che dispongono di rilevanti risorse.
Così il paesaggio di tutte le città appare sostanzialmente omogeneo, un tessuto di case scarsamente interessanti –
se non quando abbiano le facciate decorate dei palazzi rinascimentali europei o degli Haveli del Rajastan, e di
recente quelle pittoresche dei nostri centri storici – sul quale emergono codesti edifici monumentali, in un’ottica
che di fatto accomuna le città europee a quelle di ogni parte del mondo, Notre Dame a Parigi analogo alla
Moschea Blu a Istanbul o al Taj Mahal ad Agra.
Ma le cose non stanno così, perché ogni città europea – diversamente da quelle di ogni altra parte del mondo –
costituisce nel suo insieme di case e di edifici cospicui un’opera d’arte, e come tali dobbiamo diventare capaci di
vederle, una capacità di vedere che è poi la medesima dopotutto necessaria anche per apprezzare quei medesimi
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monumenti architettonici segnalati dalla guida, altrimenti in buona sostanza anch’essi poco leggibili: chi
saprebbe poi, al ritorno da un viaggio, ricordare perché la cattedrale di Amiens è così diversa dall’abbazia di
Westminster a Londra se non ha prima almeno letto qualcosa sul mondo degli architetti gotici?
Perché sia possibile considerare un manufatto come opera d’arte – con tutti i distinguo sollecitati da questa
nozione nel campo delle teorie filosofiche – occorre in buona sostanza che sia stato pensato da un artista con una
consapevole intenzione estetica e che questa intenzione venga riconosciuta e apprezzata da qualcuno, quanto
meno dal suo committente o meglio ancora da un suo pubblico: così per un quadro, una statua, un edificio.
La città è costituita dai monumenti dei quali le guide turistiche garantiscono il rilievo nella storia dell’arte,
compresi alcuni rilevanti palazzi privati, ma soprattutto dalle case dei suoi abitanti, che abbiamo in genere tutto il
diritto di trascurare ma che invece in Europa – e soltanto in Europa – sono state realizzate con la deliberata
intenzione di renderle belle.
Il fatto è che da mille anni i cittadini di una città europea sono tali non solo perché condividono il patto comune
– lo statuto un tempo giurato solennemente in pubblico e oggi sottoscritto quando segnaliamo all’anagrafe il
nostro cambio di residenza - che costituisce la civitas, la loro cittadinanza morale, ma soprattutto perché hanno il
possesso di una casa (non importa se in proprietà o con un altro titolo equivalente) dove sono appunto
rintracciabili con la loro famiglia nucleare e che nel loro insieme costituiscono l’urbs, la nostra cittadinanza
materiale, entrambe connesse per questo motivo come il palmo e il dorso della mano.
Nulla di simile nelle altre civiltà, dove gli uomini sono persone socialmente riconosciute perché appartengono
prima di tutto non a una città ma una gens, a un clan, a una tribù, a una etnia (tutti gruppi legati dalla
consanguineità) a una fede o talvolta a una corporazione, che vive in un grande caseggiato – intorno a una corte
dove ogni generazione affaccia una propria stanza – o in un quartiere che, come i quaranta nei quali era ripartita
la Baghdad del Duecento o i cinquantatré del Cairo agli inizi dell’Ottocento – alla sera serravano i loro accessi.
La civitas viene immaginata come un organismo quasi vivente, una vera e propria “persona”, con una sua
volontà di ordine superiore alla volontà individuale dei cittadini che la compongono - quasi ne fosse il benevolo
ma anche autorevole padre - espressa da un governo in qualche modo elettivo, mentre in genere nelle altre civiltà
le città erano guidate dal consiglio dei più anziani, resi saggi dalla loro stessa sopravvivenza, mentre le più
grandi venivano amministrate dal sovrano con propri funzionari civili e talvolta religiosi, vescovi o mukhtasir.
Oltre che democratica nell’espressione della propria volontà collettiva, la civitas europea è soprattutto una
società aperta e mobile, della quale ciascuno può riuscire a fare parte immigrando e raggiungere i vertici in
grazie proprio e soltanto della attendibilità dimostrata nell’esercizio del proprio mestiere, a prescindere dalla
nascita, tanto che per qualche secolo la sua struttura politica verrà affidata alle corporazioni o alle gilde: tutto
diversa dalla polis greca, una società chiusa della quale erano cittadini soltanto i figli dei fondatori, o delle
società islamiche dove il privilegio di appartenere al clan o alla tribù del sovrano assicura – come abbiano di
recente constatato nella vicenda irachena per molto tempo dominata dai sunniti – un privilegio di stirpe.
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Poiché dunque la civitas è una società mobile e la cittadinanza è connessa al possesso della casa, ogni cittadino
mostra pubblicamente lo status conseguito nella gamma ramificata della sua gerarchia sociale nella facciata della
propria casa, costruita e decorata con l’esplicita intenzione di farla a questo scopo, nell’ambito delle proprie
disponibilità materiali e delle proprie inclinazioni culturali, la più bella possibile, un’opera d’arte: dunque
possiamo rilevare che le case sono tutte l’esito di una consapevole volontà estetica, la cui lettura costituisce un
registro del nostro apprezzamento estetico della città.
Se il fine di abbellire le case è quello di mostrare pubblicamente il proprio status – i predicatori rimproveravano
ai più ricchi la loro smania di murare, ammonendo che i medesimi denari sarebbero stati meglio spesi per salvare
l’anima in elemosine ai poveri – il legittimo desiderio di ciascuno di mostrarsi diverso dagli altri è poi temperato
dalla necessità di rispettare un certo conformismo non scritto, dal momento che lo status consiste poi
nell’attendibilità sociale del cittadino e un’eccessiva eccentricità o una smodata a esibizione sortirebbero l’effetto
contrario.
Il conformismo cui ogni generazione si attiene è soltanto una regola di fondo nel cui rispetto ciascuno ha peraltro
tutte le chance di esprimere status e personalità - proprio come possiamo esprimerla quotidianamente nel nostro
vestito - evidente ai contemporanei ma col tempo meno riconoscibile, quando lo stile architettonico prevalente
sia troppo cambiato: accade così che i centri storici ci sembrano a prima vista costituiti da facciate uniformi
soltanto perché non siamo spesso più in grado di leggere gli specifici caratteri che distinguono una casa dalle
altre (e non perché la società dei primi secoli, dilaniata dalle lotte tra le fazioni, fosse più omogenea della nostra)
proprio come non siamo in grado di distinguere – è un trattatista quattrocentesco, Filarete, a rilevarlo – la
diversità delle facce dei cinesi.
Quando visitiamo una città, dovremmo dunque imparare a riconoscere i caratteri architettonici del conformismo
di fondo sul quale ciascuno ha ricamato la sua propria singola espressione nella propria facciata, apprezzando le
lievi trasgressioni che ciascuna incorpora: nella disposizione delle finestre, se accostate le une alle altre fino a
diventare quasi una vetrata continua oppure con il grave pieno di molta muratura, nel loro ritmo dispari o pari,
nelle decorazioni intorno alle finestre e intorno ai portali, più o meno ricche e lavorate, nei balconi e nelle loro
mensole, nel basamento e nel cornicione, e spesso anche nei comignoli (come quelli di Torino o quelli di
Venezia nei quadri del Carpaccio) o nei materiali, intonaco gesso mattoni legno o rivestite oppure dipinte, e nei
loro colori dominanti.
Come i cittadini in quanto individui mostrano la propria volontà estetica nelle case la civitas nel suo insieme la
mostra nei suoi temi collettivi - la cui realizzazione conforta i cittadini della loro stessa esistenza come civitas - il
proprio rango nei confronti della altre città, temi collettivi che la nostra comune esperienza insegna essere per
questo i medesimi in tutte le città europee, dal villaggio alla capitale, come le matrjoske russe distinte per la loro
dimensione ma non per i loro disegni.
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Il catalogo dei temi collettivi è arricchito dalle successive generazioni ma, una volta messo in campo, ciascuno di
essi è poi acquisito all’esperienza comune e verrà ripreso liberamente dalle generazioni successive, sicché
quando noi visitiamo una città li consideriamo tutti insieme come i termini costitutivi della sua bellezza senza
riguardo alla loro cronologia: semmai, chi abbia approfondito la loro origine e le loro regole grammaticali, sarà
in grado di ricostruire la storia della città a partire dal loro sito. Come le facciate delle case rispecchiano la
volontà estetica dei singoli cittadini come individui così i temi collettivi, nel loro vistoso e visibile spreco, nella
ricchezza e nella dignità della loro architettura, rispecchiano la loro volontà estetica come civitas, e in quanto
esito dell’intenzione estetica della civitas i temi collettivi dovranno corrispondere per principio a un linguaggio
architettonico compreso da tutti i cittadini che, per averli promossi e finanziati, ne sono anche i legittimi giudici,
cui a Firenze veniva fatto ricorso persino per decidere la forma dei capitelli di Santa Maria del Fiore: radicale
differenza con i monumenti delle altre città del mondo, promossi e finanziati dal sovrano o da un ricco Evergete,
sicché a nessun abitante di Istanbul sarebbe mai passato per la mente di considerare l’architettura della moschea
Blu un argomento di sua pertinenza, così come nessuno avrebbe discusso l’aspetto esteriore del Colosseo,
munifico dono ai romani della famiglia Flavia. Tuttavia il fatto che le case e i temi collettivi siano stati realizzati
con l’intento di farne un’opera d’arte e che questo richiedevano i cittadini ai loro costruttori, non ci consente
ancora di affermare che l’urbs nel suo insieme costituisca un’opera d’arte: in fin dei conti anche una città indiana
ha talvolta facciate decorate ed è inframmezzata da qualche tempio indù o qualche moschea senza che si possa
considerarla per questo un’opera d’arte.
Nella loro lunga vicenda gli europei hanno invece messo in campo le strade e le piazze tematizzate - questa sì
un’invenzione originalissima, senza eguale in nessuna città al mondo –, piazze e strade con un loro nome e con
un loro riconoscibile ruolo, con loro specifiche caratteristiche materiali e collocate particolari siti: sono la piazza
principale, la piazza del mercato, la piazza del convento, il prato della fiera, la piazza della chiesa, la piazza
monumentale, la piazza nazionale, e la strada principale, la strada monumentale, la strada trionfale, la
passeggiata, il boulevard, il viale alberato.
Mai sono esistite altrove codeste piazze e codeste strade tematizzate. Certo, forse fin nella lontana Uruk esisteva
talvolta un grande spiazzo libero per le cose incompatibili con gli stretti vicoli tra le case, dalle esibizioni dei
giocolieri alle giostre dei cavalieri e al mercato del bestiame – il vasto terreno sotto la cittadella del Cairo o
l’immensa spianata per le parate militari davanti al palazzo imperiale a Pechino – e anche altrove esistevano
botteghe, ma soprattutto concentrate in un reticolo di stradine commerciali nella forma di un bazar – nelle città
dell’Islam o i quelle cinesi - cui talvolta il sovrano dava un aspetto dignitoso, ma per principio non potevano
esistere strade monumentali e gli esempi di passeggiate sono rarissimi, forse solo quella di Shah Abbas a Isfahan
Strade e piazze tematizzate consentono di disporre i temi collettivi in sequenze, consistenti in una successione in
stretta contiguità, nelle quali il loro significato di espressione collettiva della civitas viene confermata ed esaltata.
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Così ricordiamo a Firenze la sequenza degli Uffizi, della piazza principale (con la loggia dei Lanzi, il palazzo
della Signoria, i monumenti e le statue), di via dei Calzaioli con la loggia dell’Orcagna, della
piazza del duomo con Santa Maria del Fiore il campanile e il battistero, di via Larga con il palazzo dei Medici e
altri palazzi cospicui, la piazza del convento di san Marco e, infine, la piazza della Libertà, una piazza
monumentale ad architettura coordinata intorno a una porta della città. O, a Parigi, la sequenza lunghissima dal
parco di Fontainebleu alla Place de la Nation, al Musée de l’Homme, allo Chatelet con la sua piazza, al palazzo
del Louvre e alla facciata monumentale di rue de Rivoli, affacciata sul giardino delle Tuileries, da dove continua
sulla dirittura, segnata dall’arco del Carrousel, nella piazza della Concordia, negli Champs Elysées – ritmati dal
Grand e dal Petit Palais – per concludersi con l’Arco di Trionfo, seguito dalla lontana prospettiva della Arche de
la Defense ma soprattutto dalla strepitosa avenue Foch fino al Bois de Boulogne.
Ogni volta che un tema collettivo si è affacciato all’orizzonte delle città europee la civitas lo ha deliberatamente
disposto in sequenza con quelli esistenti, nella convinta intenzione di esaltarlo con questa contiguità – talvolta
facendone il termine di una prospettiva trionfale – in una catena estesa fino alla parte più esterna della città, fino
ai suoi confini, sicché anche i cittadini che abitavano nelle periferie più lontane percepissero attraverso la loro
presenza di appartenere alla figura simbolica dell’urbs, e per questo di vedere pienamente riconosciuta la dignità
della loro appartenenza morale alla civitas.
Poiché i cittadini hanno sempre preso la decisione di collocare i temi collettivi nelle più appropriate sequenze,
ritmati dalle strade e dalle piazze tematizzate, hanno fatto della loro città, espressione di una costante e vigile
intenzione estetica, nel suo insieme - e non soltanto nelle sue case e nei suoi temi collettivi - un’opera d’arte. E
ogni urbs costituisce in se stessa, per la volontà estetica delle generazioni che nei secoli l’hanno costruita come
tale, un’opera d’arte con la medesima dignità di tutte le altre, e se certamente i temi collettivi delle città maggiori
sono spesso memorabili, la loro disposizione può apparirci suggestiva anche in quelle minori.
Il ricorso costante al medesimo linguaggio espressivo, ai temi collettivi e alle loro sequenze con le strade e le
piazze tematizzate, non significa infatti che le singole città siano poi tutte eguali: al contrario ciascuna di esse,
pur ricorrendo ai medesimi materiali, costituisce un fatto singolare, proprio come gli architetti hanno costruito,
con i medesimi ordini, edifici tutti diversi gli uni dagli altri: possiamo infatti legittimamente asserire che ogni
città ha un suo proprio riconoscibile stile, e quando noi giudichiamo bella o brutta una città diamo in realtà un
giudizio sul suo stile.
L’espressione di una riconoscibile volontà formale nell’ambito di un medesimo universo linguistico è resa
possibile dal fatto che i temi collettivi sono stati disposti secondo alcune regole grammaticali – chiamate così per
una loro lontana analogia con le regole sintattiche del linguaggio verbale – consistenti in alcune consuetudini
quasi costanti relative alla loro disposizione: ciascuno di essi è stato infatti di solito disposto più vicino o più
lontano dagli altri della famiglia alla quale appartiene, o disposto più all’interno o più verso l’esterno
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dell’incasato (e secondo qualche altra regola ancora) che ci consentono tra l’altro di ricostruire, a partire dal loro
sito attuale, quale fosse la consistenza della città nel momento nel quale ciascuno è stato avviato.
Il peculiare carattere dello stile di ogni città lo leggiamo nelle modeste trasgressioni a queste regole grammaticali
alle quali viene affidata la sua espressione, proprio come le frasi dei poeti le distinguiamo da quelle correnti
perché trasgrediscono con leggerezza quelle regole sintattiche alle quali noialtri di solito, timorosi di non farci
comprendere, restiamo fedeli. Ecco per esempio Milano o Digione affidare il proprio stile alla disposizione dei
propri temi collettivi nel cuore dell’incasato, mentre vediamo Palermo o Bordeaux disporli ai suoi margini;
vediamo a Roma o a Torino due chiese gemelle – in piazza del Popolo e in piazza San Carlo – costituire una
trasgressione che sottolinea una inusuale volontà di esaltare la forma di una piazza; vediamo a Genova i palazzi
privati emergere con una ricchezza fuori del comune sull’architettura meno rilevante dei suoi temi collettivi,
vediamo una città come Voghera o Vercelli affidarsi generosamente ai suoi boulevard, alle passeggiate, ai viali
alberati e Prato trascurarli del tutto, vediamo a Lucca un contrappunto ricchissimo di piccole piazze e di chiese
mentre a Pistoia a stento riconosciamo le piazze più classiche: e d’improvviso, nelle pieghe della loro forma,
emerge la differenza delle diverse intenzioni estetiche, la diversa intensità della loro volontà di forma.
Proprio come nella ricognizione di ogni altra opera d’arte la comprensione dello stile di ogni città comporta un
confronto con le altre, e mano a mano che impariamo a vederle e ad apprezzarle come un’opera d’arte la visita di
una città diventa una emozionante avventura nell’anima secolare dei loro cittadini, che riusciamo ad evocata
nella forma millenaria dell’urbs.
Ora sappiamo che l’apprezzamento di una città richiede una lettura lenta del suo stile, e come non potremmo dire
di conoscere Guerra e pace perché ne abbiamo scorso riassunto o ne abbiamo visto il film, così la lettura di una
città richiede il suo tempo, richiede attenzione per i suoi dettagli, richiede riflessione sul suo stile: dobbiamo
percorrerla a piedi lentamente senza essere travolti dall’ansia di visitarne tante riempiendone un immaginario
carniere, ma piuttosto dedicando a ciascuna il riguardo che merita, senza trascurare tutti quegli aspetti
contemporanei - le vetrine dei negozi o i menu dei ristoranti - che costituiscono l’espressione più recente e
vivace di quella medesima civitas della quale la generazione presente costituisce l’epigono e che ha poi, a
saperla riconoscere, la medesima volontà di forma incorporata nei suoi muri secolari.
Ora la sappiamo leggere, e quelle città che prima forse sfuggivano alla nostra memoria, effimero telaio di strade
a connettere i monumenti, sono diventate ora l’espressione conseguente di una volontà stilistica dove le case e i
temi collettivi esprimono una riconoscibile volontà di forma che serberemo nella nostra memoria come
espressione consapevole di una civitas che abbiamo imparato a riconoscere e ad amare, un’altra delle centomila
città che da mille anni popolano l’Europa.
M. Romano, Saper progettare
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Progettare città non consiste nel coordinare in un quadro unitario le domande più diverse, da quelle propriamente
materiali – il piano del traffico o quelli del rumore o dei servizi - a quelle manifestate dai cittadini nelle occasioni
più disparate, a quella di nuove case rappresentata dagli imprenditori immobiliari o a quella della grande
distribuzione con i suoi shopping center, perché ciascuna di queste domande ha motivazioni sue proprie, tra loro
diverse e incommensurabili, sicché il loro realizzarsi o il loro declinare o il loro modificarsi cambiano di per se
stessi i presupposti del quadro del quale cerchiamo la coerenza, un quadro con la pretesa di essere stabile nel
tempo che non è tuttavia in grado di imprigionare una realtà mobile.
Il fine cui codesto quadro affida la legittimità della propria pretesa di coordinare i comportamenti futuri dei
cittadini anche a dispetto dei loro effettivi desideri è quello di perseguire la loro “vera” felicità, consistente in
alcuni diritti universali e immutabili - scuole, ospedali, mobilità, verde – da collocare nella città con i criteri di
una razionalità distributiva ispirata all’efficienza tecnica.
Ma la città europea è il terreno della libertà e quale sia il “vero bene” dei cittadini è un campo aperto pertinente
alla civitas, che quotidianamente lo affronta con le procedure della sua democrazia: sicché, ogni volta che
immaginiamo quale dovrà essere il comportamento a priori più conveniente trattiamo gli uomini non come fini –
dei quali ampliare le chance di scelta - ma come mezzi, perché ipotizziamo un criterio di funzionamento della
città che considera prevedibili (e quindi di fatto coartabili) i comportamenti, riducendone implicitamente la
libertà: i piani più rigorosi sono quelli dei regimi totalitari, quelli che registrano la disperazione dei sudditi e che
diventeranno subito obsoleti appena riconquistata la libertà.
La premessa esplicita di Le Corbusier è, infatti, la ricerca della felicità. Nessun dolore resiste, dice Le Corbusier,
quando uno destandosi tre mattine di seguito ha nella faccia lo splendore vivificante del sole che sorge –
commenta Gianfranco Contini che ha assistito a una sua conferenza: “Dimentichiamo altamente il diritto di
piangere contro ogni meteorologia che ce ne vorrebbe frodare; e in un ottimismo ben più ampio e fondamentale
chiediamo che il bonheur, e dico uno stabile bonheur, trovi origini assai più fragili e imponderabili fino dentro
al buio urbano...Il suo bonheur è un bonheur moscovita, lo svago è obbligatorio, legislativo e collettivo, e
dittatorio è l’invito a una natura di Stato”. Ogni piano che pretenda di avere costruito un quadro di coerenza
verrà in seguito smentito, perché la maggioranza che lo approva – tirandolo spesso da tutte le parti come una
coperta corta per superare i dissensi – pretende di sottrarre quel campo di decisione alle maggioranze future, le
quali hanno tutto il diritto di rivederlo, fin dal giorno seguente alla sua approvazione, interpretando nuove
domande o ribaltando la loro precedente gerarchia: come le regole degli standard urbanistici che da tempo non
intercettano una domanda sociale reale e le cui tracce restano nelle città come dinosauri estinti e innominati
rottami.
Il campo proprio del magister urbis è certamente quello di redigere piani, ma non integrando i molteplici punti di
vista dei soggetti e delle tecniche in un quadro coerente, bensì ricorrendo a un suo proprio sapere, indipendente
da ogni altro che non inerisca alla sua propria tecnica – le larghezze delle strade, le proprietà dei suoli, le regole
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degli espropri, i vincoli idrogeologici ecc. -, sedimentato e definito nel corso di questo millennio e che ha come
fine di progettare una bella città: è quindi un’arte fondata, come tutte le arti, su un mestiere definito, con le sue
specifiche conoscenze, che concernono l’ossatura teorica, gli strumenti operativi, la casistica delle città,
precisamente analoghe a quelle che potremmo sperare possieda il medico al quale affidiamo la cura della nostra
salute.
L’ossatura teorica consiste nella consapevolezza che la bellezza della città viene espressa nelle sequenze dei temi
collettivi sedimentati nel corso di questo millennio, sequenze che coinvolgono l’intera città esistente e sulle quali
dovremmo innestare quelle dei nuovi progetti (che solo nel caso eccezionale di lontani centri satelliti possiamo
immaginare di creare ex-novo). Temi collettivi e strade e piazze tematizzate, ciascuno con un suo proprio nome e
una propria riconoscibilità, costituiscono una sorta di catalogo al quale ricorrere per progettare una bella città, un
catalogo comune a tutte le città europee che si è andato formando lentamente, arricchito generazione dopo
generazione con lenti ritmi, dei quali non possiamo accelerare i tempi con la pretesa di modernizzarla.
Acquisiti alla nostra conoscenza per il fatto stesso di averli imparati abitando le città, i temi collettivi maturati in
questo millennio sono per noi simili alle parole della nostra lingua, che impariamo parlandola e delle quali
intendiamo il significato anche senza conoscerne l’etimologia, e hanno per questo tutti piena cittadinanza nel
lessico contemporaneo della città, simboli della civitas anche senza conoscerne l’origine, sempre pienamente
attuali nella loro intera gamma e sempre disponibili al desiderio espressivo della generazione presente, attraverso
i quali le città continuano a confrontarsi in un universo senza tempo.
L’intera gamma dei temi collettivi è, infatti, tuttora disponibile per intero, e anche se taluni sembrano, per il
momento dimenticati forse verranno ripresi, e come abbiamo visto di recente ricomparire nuove porte della città
o nuove fontane forse vedremo nuovi castelli o nuove mura, come nelle scherzose forme degli Outlet. Quando
una città desidera esaltare la propria bellezza ricorre ancora oggi alla realizzazione di un nuovo palazzo
municipale (vecchio di sette secoli), di una nuova biblioteca (vecchia di sei secoli), di un nuovo teatro (vecchio
di cinque secoli), di un nuovo cimitero monumentale (vecchio a Pisa di sei secoli ma altrove di soli due secoli),
di un nuovo giardino pubblico (vecchio di quattro secoli), di un nuovo parco (vecchio di due secoli), di un nuovo
stadio o almeno di un campo sportivo, sul tappeto soltanto da un secolo.
I temi collettivi sono poi legati in sequenze dalle piazze e dalle strade tematizzate, anch’esse prodotte con le
medesime modalità e appartenenti al medesimo catalogo, costituite seguendo regole maturate anch’esse nel
corso dei secoli per renderle esteticamente più efficaci. Strade e piazze tematizzate, nate per corrispondere a un
tema sociale definito, sono subito diventati i termini con i quali costruire una bella città, e il loro impiego
prescinde da altri scopi che non appartengano alla sfera propriamente estetica: se infatti nelle passeggiate
alberate disegnate oggi nessuno converge più la sera con le carrozze come in quelle originarie del Cinquecento,
nondimeno quelle e queste hanno oggi ancora proprio il medesimo effetto di ravvivare l’aspetto estetico della
città. È vero che anche le passeggiate più nobili e consolidate – come gli Champs Elysées o la Castellana – sono
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oggi devastate dalle automobili, ma non avrebbe senso disegnare una nuova passeggiata per farne un canale
essenziale al traffico cittadino, così come nuove piazze non possono venire progettate oggi perché favoriscano
gli incontri tra persone sconosciute: un tempo la piazza era il luogo dei brogli elettorali, dei teatranti di
passaggio, del gioco del pallone, di corse di cavalli, delle corride, di terrificanti esecuzioni, di bancarelle, e nella
misura in cui vengano ancora oggi adibite ad uno scopo che costituisca un terreno di socializzazione predefinito
saranno un luogo di incontro – la mia sconosciuta vicina al mercato mi insegna ambiziose ricette di cucina, i
giovani tessono ancora corteggiamenti negli strusci serali delle città meridionali – ma è piuttosto un determinato
comportamento a scegliere il proprio sito privilegiato, peregrinando da un sito all’altro senza che
possiamo sapere il perché.
Tuttavia, se i singoli temi hanno scopi pratici di rilievo secondario e soprattutto modificabili col tempo, la
bellezza della città, della quale sono gli elementi portanti, incorpora a sua volta il fine sociale primario,
connaturato stabilmente ai suoi tempi millenari, di fare dell’urbs l’habitat appropriato di una civitas – unica al
mondo - aperta, mobile, democratica ed egualitaria: i temi collettivi, per il loro intrinseco carattere di espressione
dell’intera civitas, costituiscono infatti un riconoscimento simbolico immediatamente percepibile
dell’appartenenza di una casa all’urbs – e dunque della famiglia che la abita alla civitas - riconoscimento
consistente in modo visibile nella loro evidente prossimità, così marcata nelle silhouette di certe città medievali,
dominate e protette dalle guglie delle loro cattedrali.
Chi progettava le città faceva tutto il possibile perché anche i quartieri più lontani dal centro fossero connessi
alle sequenze cittadine, così da sottolineare un sotteso principio di eguaglianza, e questo medesimo obiettivo
deve essere ancora oggi il fine ultimo del nostro progetto per una nuova zona di ampliamento della città o per la
riforma di una zona esistente - dove vecchi edifici industriali siano stati dismessi o dove quartieri costruiti
frettolosamente cinquant’anni fa meritino di venire demoliti -, assicurando loro una soddisfacente tematizzazione
e a tutti i loro abitanti il riconoscimento pubblico e immediato della dignità di cittadini, evitando
quell’emarginazione simbolica dal contesto dell’urbs – quasi appartenessero a qualsiasi altra città - che talvolta,
soprattutto nelle città più grandi, è anche emarginazione sociale.
Il motivo fondamentale della persistenza nel tempo dei principi estetici della città dipende dal fatto che l’urbs
deve essere realizzata con un linguaggio comune a tutti i cittadini perché sono essi stessi a deciderla e ad
apprezzarla, e i cittadini hanno appreso non solo la gamma dei temi collettivi ma anche la forza delle loro
sequenze abitandola fin da bambini e senza ricorrere a questo linguaggio consolidato non è possibile immaginare
e giudicare la sua bellezza. E nei temi collettivi, come percepiamo la bellezza dell’urbs, così leggiamo la volontà
della civitas di rappresentare la concorde volontà di tutti i cittadini, che vi riconoscono l’espressione della
propria identità, come dimostrano le reazioni inviperite quando tentiamo di manometterli.
A progettare le città vorrei evocare una figura nuova con un atteggiamento mentale diverso da quello
dell’urbanista contemporaneo, non immaginato più come un esperto con una verità da imporre ma piuttosto che
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dolcemente suggerisce – il magister urbis - che non ritiene e neppure desidera di insegnare o di costringere, che
ha tenerezza per la città e per i cittadini, e che crede di avere il compito essenzialmente gioioso di incoraggiare
tutti a sognare la propria urbs: i cittadini devono trovare in lui chi dà suggerimenti rendendo palese a loro stessi
quello che avevano nel fondo del cuore, che lascerà in tutti con le sue idee una traccia di affezionato rimpianto
anziché l’amarezza degli eccessi vincolistici o la lontananza dei punti di vista strettamente disciplinari.
Il magister urbis legge lo stile della città per individuare le sequenze esistenti cui legare le nuove, indi traccia il
proprio disegno ricorrendo al catalogo consolidato: tuttavia, salvo casi particolarissimi, non potrà conoscere
quali nuovi temi collettivi saranno decisi in seguito dalla civitas, perché il loro desiderio emergerà in maniera
imprevedibile nella sfera della politica cittadina, sicché dovrà affidarsi soprattutto alle strade e alle piazze
tematizzate, con la cui disposizione delineare siti privilegiati dove localizzarli mano a mano che si
presenteranno.
Comporrà dunque le strade e le piazze tematizzate quasi come un puzzle, provando e riprovando – anche
ricorrendo alla citazione di altri analoghi casi – per individuare quale disegno risulti più efficace per tematizzare
la nuova città, quella più audace e gradevole nella successione delle visuali, e nel contempo la connetta meglio
alle rete delle sequenze e dei quartieri esistenti: e questo disegno, invenzione che altri avrebbe forse potuto
immaginare diversa ma che possiede l’intima coerenza dell’opera d’arte, sarà il suo progetto.
Il progetto della città deve rispettare anche esigenze materiali, come per esempio quelle del traffico - proprio
come ci aspettiamo che una casa non crolli e che abbia servizi igienici convenienti -, ma tenendo presente che
codeste richieste corrispondono a una sfera tecnica connotata da un progresso fondato (contrariamente alla
scienza) sulla negazione o sul superamento dei suoi risultati precedenti, sicché le relazioni fondate sulla
razionalità strumentale – come quella che connette un centro commerciale a un quartiere e a una strada o a una
ferrovia – saranno un giorno rese obsolete dal mutamento delle convenienze commerciali e delle preferenze dei
modi di spostarsi, oltre che dalle propensioni residenziali: perché i criteri della convenienza tecnica implicano un
comportamento dei cittadini fondato su una regola di razionalità oggettiva che forse, in una civitas fondata sulla
libertà, non condivideranno né ora né mai.
La forma dell’urbs è destinata a durare per secoli e deve dunque rispondere a principi che, per essersi dimostrati
validi nei secoli passati, offrono la garanzia di durare per altrettanti secoli a venire: sicché non dovremo farla
dipendere da momentanee esigenze funzionali, che certo prenderemo in considerazione purché non condizionino
in modo plateale – come nei progetti di città lineari – la sua coerenza.
È possibile che oggi la mancanza di un soddisfacente universo simbolico, la sfiducia che la modernità sia capace
di realizzare città così belle come quelle del passato induca da un lato ad affezionarsi morbosamente non soltanto
ai centri storici ma a qualsiasi modesto reperto di cascinali vecchi o di capannoni dismessi, e dall’altro a chiedere
alla città nel suo insieme soprattutto l’efficienza meramente meccanica di un congegno progettato per soddisfare
bisogni materiali, rivendicando strade, asili, scuole, ospedali, piste ciclabili, metropolitane e quant’altro, tutte
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cose che tuttavia – come i gasometri o gli acquedotti o gli altri ordigni che la tecnica mette sul nostro cammino e
che svettano talvolta sul suo skyline – appartengono alla sfera del necessario e sono privi di qualsiasi significato
simbolico.
Ma questi bisogni materiali è in realtà la tecnica stessa a crearli, suggerendo la prospettiva che ai suoi estremi
limiti potrà soddisfarli tutti, e poiché ciò non sarà possibile perché da un lato questi limiti costituiscono di fatto
una frontiera irraggiungibile - come il vago orizzonte dell’immortalità - in quanto la tecnica non può mantenere
tutte le promesse che noi le attribuiamo, e dall’altro i bisogni così maturati nelle attese dei cittadini sono
conflittuali tra loro, le città diventano un terreno di estenuanti e contraddittorie frustrazioni.
Al contrario noi abbiamo soprattutto bisogno – come ogni specie vivente - del nostro habitat appropriato e
l’habitat appropriato alla civitas europea non è tanto quello del nostro corpo – che è poi il nostro corpo animale -
ma è quello della nostra specifica cultura, che appunto dagli animali ci distingue, la sua urbs, l’universo
simbolico dove noi siamo persone la cui identità è socialmente riconosciuta, frutto e manifestazione della
volontà estetica dei suoi cittadini come individui nelle facciate delle nostre case e come civitas nei suoi temi
collettivi e nelle loro sequenze, espressione compiuta e sedimentata nel corso di un millennio della sua mobilità e
della sua democrazia. E sappiamo che questa urbs durerà per molte generazioni a venire, anche se non sempre
riuscirà ad assorbire al meglio tutte le esigenze materiali che via via si presenteranno: ma si tratta di
inconvenienti modesti, quel traffico e quel rumore che la intridono da mille anni e che rappresentano dopotutto il
suo modesto costo e che forse è anche parte del suo contraddittorio fascino: perché altrimenti chi lo contesta non
si ritira nella silenziosa solitudine di una campagna, del resto a portata di mano?
La consapevolezza che la bellezza dell’urbs è la sfera nella quale i cittadini dei diversi ceti sono integrati in
un’immagine unitaria ci induce soprattutto a evitare che in futuro si rinnovi l’inconveniente di questi ultimi
cinquant’anni, di periferie nelle quali sopravvivono cittadini privi del loro universo simbolico, strappati al loro
habitat appropriato come gli animali selvaggi rinchiusi nelle gabbie degli zoo, e se codesto spaesamento non
costituisce sempre il tema di una loro esplicita rivendicazione, è perché, non essendo chiaro come potrebbero
evitarlo, hanno rinunciato a prenderne coscienza, come forse il leone prigioniero non ha più nostalgia della
savana: ma noi non vediamo perché dobbiamo essere così attenti alla solitudine degli animali selvaggi e così
disattenti al nostro stesso habitat.
Il quadro tematizzato dell’urbs tracciato dal magister urbis costituirà l’ancoraggio dei quartieri futuri – non più
alla deriva come negli ultimi cinquant’anni - con una loro propria dignità simbolica, assicurata dai temi collettivi
locali, la cui disposizione dovrà di regola seguire il principio generale da un lato di venire legati alle sequenze
principali e dall’altro di venire esaltati al loro interno rendendoli visibili dovunque.
Ma, affermato questo principio, il magister urbis non deve pretendere di disegnare i progetti delle zone
residenziali, deve anzi limitarsi al campo di sua propria specifica competenza, là dove possiede un sapere
esclusivo, evitando di sconfinare in campi dove altri hanno competenze equivalenti e forse maggiori, soprattutto
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perché rappresentano la domanda espressiva dei cittadini nelle loro case e non il desiderio della civitas nel suo
insieme.
L’urbs è l’espressione della volontà estetica dei cittadini come individui nelle facciate delle loro case e della
civitas nei suoi temi collettivi, sicché il magister urbis sa bene che il suo compito consiste soltanto nell’ordinarli
in appropriate sequenze - terreno di stretta pertinenza della civitas - e non solo non desidera sconfinare nella
sfera dell’espressione individuale dei cittadini, nelle facciate delle case, ma considerandoli come fini del suo
lavoro e non come mezzi per realizzare una propria città ideale cerca di aumentarne il grado di libertà,
arricchendo le loro chance di scelta. La democrazia consiste prima di tutto nella possibilità di esprimere
liberamente il proprio pensiero e, per quanto ci concerne, le proprie propensioni estetiche connesse alla dignità
dell’essere cittadino nella propria casa, mentre i rituali del voto e delle elezioni costituiscono la procedura per
prendere le decisioni inerenti all’intera civitas. Per questo il magister urbis lascerà ad altri il disegno delle
lottizzazioni, perché sarà sempre possibile che un gruppo di futuri abitanti o un imprenditore a loro nome
continui a preferire le disposizioni libere ereditate dalla modernità, dove le case sono disgiunte dalle strade.
Se la nostra contrarietà a questo punto di vista non ci deve indurre ad estendere la competenza della civitas anche
ad una sfera che concerne dopotutto la condizione di cittadini la cui appartenenza simbolica alla città è
comunque assicurata dalle sequenze dei temi collettivi, non ci deve d’altra parte impedire di sostenere e di
predicare quanto sia più consona alla nostra urbs europea la disposizione delle case lungo le strade, maturata nel
corso di un millennio e rispondente alle specifiche caratteristiche della civitas europea.
Sarebbe corretto che le case venissero allineate lungo le strade, da un lato perché le strade - dove le case
schierate una accanto all’altra sono la metafora di cittadini solidali nel corpo sociale della civitas - costituiscono
un palcoscenico pubblico sul quale ciascuno mostra il proprio status nell’aspetto della facciata (ma anche nelle
araucarie e nelle magnolie del giardino), e dall’altro perché la continuità delle strade e delle loro cortine murarie,
che ci accompagnano dalla periferia verso il centro, rappresenta materialmente nella contiguità fisica dell’urbs la
compattezza morale della civitas, che rende necessaria la sua democrazia. Questo tollerante punto di vista a
maggior ragione dovrà valere per le facciate delle case: stabilite alcune regole di mercato – l’altezza delle case in
rapporto alla larghezza della strada, la tipologia da adottare, la densità edilizia, il rapporto di copertura – i
cittadini dovranno avere nelle facciate (e nella disposizione interna) delle loro case la massima libertà.
La varietà delle case individuali, dove si manifesta la diversità dei caratteri e delle aspirazioni dei cittadini,
costituisce un motivo essenziale dell’urbs, perché il paesaggio frammentario e differenziato delle strade
rispecchia il pluralismo della nostra civitas, la cui anima olistica ed egualitaria non si esprime unificando le case
– come vorrebbero spesso gli utopisti totalitari da Moro a Le Corbusier - ma nel rispecchiare la propria
orgogliosa consapevolezza di sé nei temi collettivi e nelle loro sequenze.
Prescrizioni architettoniche alle facciate delle case sono legittime soltanto quando occorra dar corpo a temi
collettivi la cui consistenza simbolica comporta appunto il loro coordinamento estetico: come nelle strade e nelle
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piazze monumentali, tali proprio perché fronteggiate da edifici di cospicua qualità architettonica o addirittura di
architettura uniforme, e recentemente del centro storico, il cui carattere è assicurato – quand’anche fosse
d’invenzione - proprio dal fatto di essere costituito da case con una veste architettonica antecedente a quella
moderna.
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Didattica e disegno
In merito alla didattica del disegno si suggerisce il seguente testo redatto da Maura Boffito,
professore ordinario di Geometria Descrittiva e Disegno presso il Dipartimento di Scienze
dell’Architettura dell’Università di Genova, che evidenzia lo stretto rapporto fra disegno e
rappresentazione del costruito, elemento propedeutico alla progettazione.
La didattica del disegno di architettura tra Otto e Novecento
Dall’autobiografia inedita1
dell’architetto Riccardo Haupt, particolare interesse rivela il capitolo dedicato
“Agli studi di architettura”. L’autore, nel raccontare il suo personale percorso di studi, offre uno spaccato di vita
accademica di fine Ottocento nella Scuola di Belle Arti di Firenze, con puntuali riferimenti a “Le sezioni di
architettura istituite nelle Scuole di Applicazione per gli ingegneri civili….”.
Prima di addentrarci nel vivo della questione, però, ritengo opportuno offrire alcune note biografiche dell’autore.
Riccardo Haupt nasce a Massa Marittima nel 1864 da una famiglia di origine Sassone e studia alla Scuola di
Architettura di Firenze, diretta dall’architetto Giuseppe Castellazzi. Inizia la sua carriera professionale a La
Spezia, per trasferirsi, nel 1887, a Genova quale collaboratore dell’architetto Luigi Rovelli. Tra i collaboratori
dello studio Rovelli va annoverato l’ingegnere Giuseppe Tallero, incaricato della parte tecnica, che
successivamente lavorerà quasi esclusivamente con l’Haupt. È membro della commissione tecnica per i lavori
della futura mostra Colombiana del 1892. Alla fine del 1890, passa allo studio dell’ingegner Cesare Gamba, in
qualità di architetto, per tutte quelle opere di carattere artistico inerenti l’ampliamento di via Giulia a Roma (poi
via XX Settembre). Predilige la progettazione di villini, ma realizza anche alcuni pregevoli palazzi e si dedica
con molto interesse all’arte funeraria. Partecipa, insieme a Gino Coppedé ed altri, alla realizzazione
dell’Esposizione del 1914. Muore a Genova nel 1944.2
“Erano i tempi dei grandi concorsi; Sacconi vinceva la gara per il monumento a Vittorio Emanuele II in
Roma, il Brentano quello della facciata del Duomo di Milano. A Firenze si studiavano i progetti per la
sistemazione del centro di essa e si discuteva con plebiscito popolare il coronamento basilicale o tricuspidale
1 Si tratta di un dattiloscritto di 307 pagine, redatto dallo stesso Haupt e portato a termine nell’agosto del 1943, consultato presso l’Archivio Storico del
Comune, Palazzo Ducale a Genova. I brani riportati tra virgolette sia nel testo sia nelle note, se non diversamente indicato, s’intendono tratti dal
dattiloscritto dell’architetto Haupt. 2 Per un approfondimento sulla vita e le opere di alcuni architetti di fine Ottocento operanti a Genova, cfr. M. BOFFITO, I protagonisti di fine Ottocento a
Genova, in Disegno e immagine della città dell’Ottocento. Seminario di Studi, Trieste, 1990, pp. 219-229; ID., L’espansione sulle colline d’Albaro, in A.
MANIGLIO CALCAGNO, Giardini parchi e paesaggio della Genova dell’800, Genova, Sagep, 1984, Cap. XII, pp. 179-195.
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della facciata di S. Maria del Fiore di Emilio De Fabris; a Roma il Palazzo di Giustizia del Calderini, la nuova
Camera dei Deputati del Basile, dei nuovi Ministeri ed altre grandi opere. Io m’interessavo moltissimo a questi
avvenimenti ed ero attratto verso l’architettura con la più grande vocazione per cui decisi di coltivarne gli
studi”. Si apre così il IV capitolo dell’autobiografia, che giustifica in qualche modo la sua scelta verso gli studi di
architettura.
L’insegnamento della Scuola si svolgeva, dopo i corsi preparatori comuni, in tre anni di studi; un quarto anno,
non obbligatorio, consentiva al candidato di conseguire il diploma di licenza di professore di disegno
architettonico e gli dava diritto, dopo aver superato le prove scientifiche, all’esercizio professionale. Prima della
costituzione delle Scuole di Applicazione degli ingegneri (legge Casati 1859), in Toscana gli architetti si
formavano frequentando i corsi presso le Accademie di Belle Arti.3 Il corredo scientifico, poi, era offerto dagli
studi svolti presso istituti tecnici, “ma gli architetti del tempo si formavano specialmente con la pratica acquisita
negli studi dei più anziani e provetti professionisti. Le sezioni di architettura istituite nelle Scuole di
Applicazione per gli ingegneri civili non furono mai rigogliose e frequentate. Solo il 7,3% di essi frequentava la
sezione di applicazione di architettura, come risulta dalla relazione Boselli del luglio 1889 al Senato, nella
quale dichiarava che di sette istituti scientifici nel Regno, sopra centinaia di iscritti alla facoltà d’ingegneria e
sezione di architettura, soltanto 36 seguivano questo ramo specializzato”. Il corso di studi, infatti, presentava le
stesse difficoltà di quello di ingegneria civile, ma non apriva le porte a tutti i rami della professione.
L’impostazione delle Scuole di Applicazione, che non contemplava la possibilità di inserire nel piano degli studi
discipline di carattere storico-umanistico, appariva, quindi, inadeguato alla formazione degli architetti. A tale
proposito, l’Haupt dichiara con evidente orgoglio: “Nei grandi concorsi di architettura e nella esecuzione delle
opere più significative, i laureati della Scuola di Applicazione raramente si cimentavano, mentre gli studenti
delle Belle Arti raccoglievano i frutti migliori, ottenevano l’esecuzione dei lavori, e mantenevano alto anche
all’estero il decoro della nostra architettura”.
È utile ricordare che in Italia, nel 1885, si dibatteva la questione di nuove scuole di architettura4 per
valorizzare più efficacemente gli studi impartiti negli istituti artistici del Regno e pervenire ad una laurea di
Architetto. In questa lotta non mancano gli sforzi di Camillo Boito, del Castellazzi e di Giacomo Franco5. Le
deliberazioni legislative non erano sufficienti ad eliminare i contrasti esistenti fra le parti dissidenti, ovvero gli
accademici ed i tecnici. Gli accademici, infatti, insistevano nel provare come l’architettura fosse un’espressione
di arte, come la pittura e la scultura, anche se per la prima erano necessarie qualità tecniche per conseguire il
3 Per l’inquadramento generale in merito ai problemi inerenti l’insegnamento delle scuole di architettura di questo periodo, si veda R. GABETTI-P.
MARCONI, L’insegnamento dell’architettura nel sistema didattico franco-italiano, in “Controspazio”, giugno 1971, pp. 37-42. 4 Nella seduta del 18 Marzo 1890, il ministro Boselli presentava un disegno di legge per la costituzione delle Scuole Superiori di Architettura, “in tale occasione hanno preso la parola il Villari, il Lampertico ed altri ancora, concludendo con la istituzione delle scuole a Roma e a Napoli, ed in seguito a
Firenze e a Venezia, e mantenendo con speciali riforme quelle esistenti delle altre facoltà del regno”. 5 La questione del diploma di Stato era variamente discussa e da taluni ritenuta inutile. Nel giornale “Arte e Storia” del 31 Agosto 1891, viene pubblicata un’intervista fatta dall’Haupt ad Alfredo Melani sulla necessità del diploma: egli “ scriveva con argute argomentazioni la sua opinione sulla libera
professione e diceva che il suggello di stato non era una garanzia della capacità professionale dell’artista, che non ha necessità di sanzione legale per
eseguire il suo pensiero, essendo sufficiente la legge sulla responsabilità del costruttore a tutela del pubblico interesse”.
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proprio scopo, qualità che tali artisti acquisivano con la loro genialità e con la loro esperienza. “I tecnici invece
sostenevano che l’architettura aveva sempre avuto il carattere di una scienza applicata alle costruzioni svoltasi
secondo i tempi e le varie civiltà, e i vari mezzi di esecuzione, fino a formar così ogni espressione di stile e di
forma alla quale dava rilievo il sussidio della decorazione. I sostenitori della prima tesi capitanati dal Boito,
volevano che le nuove scuole superiori di architettura fossero una emanazione più completa specialmente nei
riguardi tecnici nelle sedi degli istituti artistici, dai quali fino allora erano usciti quegli architetti che avevano
dimostrato con le loro opere, la qualità più espressiva dell’architettura italiana”.
Sembra che le “conclusioni conciliative” votate dalle Camere per i nuovi ordinamenti della scuola non
abbiano soddisfatto nessuna delle due parti (accademici e tecnici); ciò non di meno a Roma, e solo in quella città,
fu fatto l’esperimento con studenti che prima avevano seguito gli studi artistici, a cui viene aggiunto un corso
biennale di integrazione scientifica presso la Scuola di Applicazione degli ingegneri e dalla quale uscirono
valenti professionisti come il Giovannoni, il Melani ed il Calcaprina di Genova tanto per citarne alcuni. Anche
questa soluzione, però, venne in seguito abbandonata. Dovevano trascorrere più di venti anni prima di arrivare ad
una riforma completa che vede l’istituzione della prima Scuola Superiore di Architettura fondata a Roma, sotto
la direzione di Manfredo Manfredi. La sede provvisoria di tale scuola, fu istituita presso l’istituto di Belle Arti di
Roma “con la prevalenza occasionale del concetto artistico su quello scientifico sempre sostenuto”. Dopo questo
inquadramento su dispute accese, intenzioni e ripensamenti in ambito nazionale, l’architetto Haupt riprende il
filo del discorso sui propri studi “la riforma delle scuole era in quei tempi oggetto di speranza per una prossima
realtà; Giuseppe Castellazzi6 nell’interesse dei suoi discepoli, aveva tentato in Firenze di avviare a questa
riforma l’integrazione della parte scientifica con un corso preparatorio sulla scienza delle costruzioni affidato al
Prof. Collignon e alla meccanica applicata alle stesse, affidato al Prof. Castagna”.
In attesa delle riforme scolastiche, Riccardo Haupt conclude i suoi studi nel 1886 “senza la possibilità di
vedere realizzato il completo assestamento della scuola, costretto ormai a seguire le orme di quei professionisti
che mi avevano preceduto”.7 Durante i quattro anni trascorsi all’Accademia di Firenze, Riccardo Haupt ricorda
con ammirazione ed affetto il suo “primo maestro” Giuseppe Castellazzi e gli insegnamenti da lui impartiti nei
corsi di Rilievo dei Monumenti e di Restauro. Insegnamenti che gli saranno utili per una appropriata
applicazione degli stili architettonici “alla composizione di temi costruttivi che più si addicevano agli stili
studiati come ai primi tempi si manifestava la tendenza edilizia”. Nel primo anno di studio, quindi, dovrà
progettare un museo per l’arte egizia in “stile egiziano” ed un museo per l’arte greca nello stile successivo;
6 Giuseppe Castellazzi nasce a Verona nel 1834. Consegue la laurea in ingegneria a Padova nel 1856; l’anno seguente si trasferisce a Venezia per
frequentare l’Accademia di Belle Arti e perfezionarsi in architettura. Compie lunghi viaggi d’istruzione all’estero, “riportando specialmente dalla Grecia, dall’Egitto e dall’Oriente ricca messe di motivi architettonici che pubblicava coi disegni magistralmente eseguiti”. Dopo alcuni anni dedicati all’esercizio
della professione a Venezia, nel 1874 vince il concorso per la cattedra di geometria e architettura all’Accademia di Belle Arti di Firenze, di cui, poco dopo,
diviene direttore. Pubblica numerosi saggi di carattere storico e tecnico. Muore a Firenze nel 1887. Cfr., oltre al diario di Haupt, anche il Dizionario Biografico degli Italiani, 21, Roma, 1978, pp. 656-660. 7 In mancanza di legislazioni precise, la professione dell’architetto continua ad essere esercitata (secondo gli ingegneri …. in maniera abusiva!) dai
Professori di Disegno Architettonico, titolo che, come si è visto, viene rilasciato dalle Accademie di Belle Arti.
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l’anno seguente si cimenta nella progettazione di un vasto politeama all’aperto in “stile romano”.8 A questo
proposito l’Haupt osserva: “È notevole in questo progetto, il confronto del concetto dell’arco scenico sviluppato
dapprima nella curva policentrica usata nei moderni teatri ma non contemplata negli edifici romani e l’altra
soluzione dell’arco a pieno centro, più conforme all’antica architettura”. Seguirono altri progetti fra cui quello
relativo all’epoca romanica di un tabernacolo addossato all’esterno di una cattedrale o quello inerente il periodo
dell’architettura “archiacuta toscana” per un tempio crematorio; infine un progetto per una residenza signorile,
di carattere ogivale veneziano” e, da ultimo, il progetto di una grande villa in “stile Rinascimento”.
Fig. 1 – Tempio crematorio eseguito al Varignano Fig. 2 – Villa Armando Raggio in Albaro (Genova), particolare del prospetto
(La Spezia) Arch. Riccardo Haupt di ponente - Arch. Riccardo Haupt
Il tema di composizione per ottenere il diploma finale verteva sul progetto di una caserma, in “stile
medioevale”.9 La preparazione professionale dell’Haupt, dopo gli studi accademici, proseguiva frequentando
corsi speciali presso l’Istituto Tecnico di Genova in fisica sperimentale, in chimica applicata, in geometria
pratica, in celerimensura ed in meccanica, oltre ad approfondimenti nella scienze delle costruzioni ed in statica
grafica. A questo, che l’architetto Haupt definisce “corredo di integrazione degli studi artistici”, si deve
aggiungere il tirocinio da lui svolto, per circa quattro anni, presso lo studio Rovelli di Genova: “studio di uno dei
più valenti architetti”.10
Questa sua attività gli valse la nomina “di Accademico di Merito della classe di
8 La composizione, ispirata ai motivi architettonici delle terme, dei teatri antichi e degli archi di trionfo, fa parte dei saggi che la Scuola di Architettura di
Firenze presenta all’Esposizione Nazionale di Torino del 1884, dove verrà valutata “meritevole della più grande distinzione d’onore”. 9 “L’ex tempore doveva essere eseguito in otto ore e sigillato sotto vetro per non apportarvi sostanziali riforme, e lo sviluppo del progetto doveva compiersi
in venti giorni, con lo studio delle varie piante, dei prospetti, delle sezioni dei dettagli costruttivi e decorativi, d’una veduta prospettiva e di una relazione
tecnica”. 10 La carriera di Luigi Rovelli inizia a Milano, dove nasce nel 1850, come stuccatore delle grandi aquile della Galleria Vittorio Emanuele II, opera di
Giuseppe Mengoni realizzata negli anni tra il 1865 ed il 1877. Contemporaneamente, frequenta i corsi serali organizzati dall’Accademia di Brera,
completando così la sua formazione e si trasferisce a Genova per iniziare la sua professione di architetto, anche se privo di un titolo di studio ufficiale. La stima dimostratagli dai committenti e le opere realizzate gli valgono la laurea in Architettura al Politecnico di Milano. Per le sue indubbie capacità ottiene
la nomina a Cavaliere di Merito dell’Accademia di Belle Arti di Genova per Ornato ed Architettura. Le opere realizzate dal Rovelli, circa duecento,
privilegiano in percentuale piuttosto elevata le costruzioni di tipo a palazzina, genericamente riconducibili al filone della villa di fine Ottocento. Dimostra
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architettura dell’Accademia Ligustica di Belle Arti nel 1883”; la “accettazione nel collegio degli ingegneri ed
architetti di Firenze nel 1884” e la “nomina di Accademico corrispondente della Regia Accademia di Belle Arti
di Firenze nel 1884”. Il capitolo dedicato agli studi di architettura si conclude con una velata forma di rimpianto:
“Ho voluto indicare con tali descrizioni gli studi artistici di quei tempi ormai lontani e sorpassati. I laureati delle
scuole superiori di architettura dei giorni nostri (anni Quaranta del secolo scorso), possono avere idee e propositi
più moderni, ma è d’uopo riferirsi a 60 anni prima di ora, quando da poco tempo si manifestava l’applicazione
del ferro che il Mengoni aveva usato largamente nella galleria di Milano, e alla fine del Secolo XIX, dove aveva
il suo trionfo nell’arditezza della Mole Antonelliana di Torino, nella torre di 300 metri di altezza ideata da Eiffel
per l’esposizione di Parigi 1889”.
A queste considerazioni negative fa seguito, però, un auspicio e la speranza per il futuro: “L’architettura
moderna sembra oggi fortemente staccata dalle antiche tradizioni e dagli stili che formavano la catena di
successive trasformazioni, ma non potrà tardare, specialmente nei concetti decorativi, a riallacciarsi alle
tradizioni spezzate”. Lo svolgimento del capitolo dedicato “Agli studi di Architettura” da parte dell’Haupt può
sembrare non del tutto omogeneo, in quanto pare deviare dal suo percorso autobiografico per inserirsi in un
contesto di problematiche generali e difficili ai fini della semplice conoscenza della vita e delle opere di un
artista. La rilettura più attenta del capitolo, però, mi ha permesso di individuare ed apprezzare la struttura del
testo, dal momento che l’inserimento iniziale della situazione nazionale delle Scuole di Architettura, ha
consentito all’autore di esprimere un tributo doveroso al suo maestro, Giuseppe Castellazzi, oltre a dare lustro al
proprio percorso di formazione accademica.
una certa versatilità nelle numerose opere di restauro e di riqualificazione di edifici preesistenti; viene inoltre ricordato quale “eccellente e genialissimo
disegnatore di giardini”. Muore a Rapallo nel dicembre 1911. Per ulteriori approfondimenti, si rimanda ai testi citati alla nota 2.