Dicotomia

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Voglio avere tutto dalla vita, belle donne, arte, cultura, buon cibo e vino raffinato, voglio che del piacere sia fatta la mia volontà, conscio della fine ultima in scarto e rifiuto, e non solo questo, voglio un giorno tornare ad insidiare col mio corpo i vivi e tendere mani ripugnanti alla gola del mondo io, non ancora sazio della mia vita passata, voglio inquin- are i pensieri di gioia con persistenze decomposte ed indecorosi gesti. Voglio che la paura che vi assilla si avveri, sarà il giorno del ritorno.

Transcript of Dicotomia

Enormi discariche, depositi di rifiuti, oggetti uno sull’altro in equilibrio instabile, profon-dità dense di rimembranze materiali. Eppure ogni singolo detrito fu toccato da mani e dita, innumerevoli volte, oggetto d’affetto giace dimenticato, disperso. Il rifiuto supera in letteratura la dimensione materiale, lo scarto è simbolo, è memoria, e la letteratura così indocile e strabica, rivolta nel contempo a passato e futuro, raccoglie l’eredità dei post-mondi nel proprio magazzino sotterraneo, sottocutaneo all’uomo e la fine, che pure è materia, non si mostra.

Voglio avere tutto dalla vita, belle donne, arte, cultura, buon cibo e vino raffinato, voglio che del piacere sia fatta la mia volontà, conscio della fine ultima in scarto e rifiuto, e non solo questo, voglio un giorno tornare ad insidiare col mio corpo i vivi e tendere mani ripugnanti alla gola del mondo io, non ancora sazio della mia vita passata, voglio inquin-are i pensieri di gioia con persistenze decomposte ed indecorosi gesti. Voglio che la paura che vi assilla si avveri, sarà il giorno del ritorno.

Il tema affonda radici in antichi terreni, noi, come le querce d’Ossian troviamo nutri-mento nel sangue dei morti: “[...] e ‘l peregrin assiso Presso l’accesa quercia, udia tranquillo Romoreggiar per la foresta il vento. Ma canuto se’ tu, possente figlio Di Ducaro possente; ah perchè nuoti Nel sangue tuo? sopra di te si curva Sfrondata pianta, il tuo spezzato scudo Giaceti appresso, e al rio mescesi il sangue.” Al mondo post-moderno terrorizzato dallo scarto, è complementare il mondo letterario che, con la sua massiccia indagine sul desueto, rifunzionalizza il rifiuto, dona ad esso ca-pacità comunicative dimenticate, analizza la realtà primigenia della vita che è la morte. Un ciclo artificiale quale è il pensiero, è in grado di rievocare l’idea originaria e naturale di esistenza come legame-oggetto complementare e indissolubile di morte.

Da qui il rapporto morboso dell’uomo moderno e post-moderno con gli oggetti di scarto, il rifiuto del rifiuto, esasperato all’ennesima potenza dall’abbondanza e varietà di materia. Le cause della rottura sono da ricercarsi in terreni oscuri, perché celati ai sensi, terreni la cui unica riprova d’esistenza può venire da confessioni, inconscie ed involon-tarie, dall’inferenza del pensiero dello studioso teso ad illuminare quelle stanze divorate dal continuo, intenso brulichio dell’insetto-paura.

L’idea horrorosa, inconscia, del ritorno dei morti, razionalmente giustificata nel cadavere come corpo infetto, è una antica idea antropologica indagata dalla psicoanalisi, che ne ricerca le origini nel rapporto che durante l’infanzia, ogni essere umano ha con le proprie feci. Il bambino riconosce un valore allo scarto del suo corpo, con l’espulsione delle feci abbandona una parte di sé, perde qualcosa dotato di importanza. In seguito il bambino apprende un nuovo significato, lo scarto rappresenta un disvalore, il rifiuto è oggetto in-fetto, da abbandonare, relegare, mai nominare; nasce la paura, il timore del ritorno, l’uovo è dischiuso, l’insetto liberato. La letteratura, valorizzando lo scarto si presenta, come l’inconscio, luogo per nulla in-genuo, e dotato al suo interno di autocoscienza, contagiosa per chiunque sia disposto a rischiare la sofferenza della scoperta, e sopportare il peso della conoscenza. La dicotomia adulta si presenta in tutta la sua illuminante rivelazione, valore e disvalore rappresentano in origine un’unica entità la cui rottura causa sconforto e disorientamento, veniamo tuttavia ripagati da una moneta preziosa: l’ignoranza della fine. E’ interessante a questo punto ricordare un fatto storico: il progresso, le idee illuministe, la prima industrializzazione, liberarono in parte l’umanità da antichi timori e superstizioni, e lentamente comparve l’esigenza di separare sempre più nettamente, l’utile dallo scarto, il puro dall’infetto, i vivi dai morti. L’Editto di Saint Cloud, 1804, di epoca napoleonica, stabiliva che le chiese, per motivi igienici, non potessero più essere adibite a cimiteri, e che le tombe dovessero essere por-tate fuori dalla città, in luoghi soleggiati ed arieggiati (la chimica aveva infatti dimostrato che nel Medio Evo l’usanza di seppellire i morti nelle chiese era stata causa di epidemie). Nelle chiese si aprirono le cripte e le ossa ritrovate finirono in fosse comuni nei cimiteri extraurbani, famosissima fu la protesta del Foscolo per la perdita delle spoglie del maestro Parini. La Chiesa dei Morti (Cappella Cola fino al 1836), sita ad Urbania nelle Marche, fu tra i luoghi soggetti al provvedimento, ma quando si andarono a riesumare i cadaveri, non furono trovate povere ossa, ma mummie essiccate. Grande fu lo stupore degli addetti alle riesumazioni, mistero o miracolo forse, ma la mummificazione era semplicemente do-vuta ad una muffa presente nel terreno. Alla sistemazione dei corpi provvide la Compagnia della Buona Morte fondata a Castel-durante nel lontano 1567, il cui priore e ideatore della cappella, Vincenzo Piccini, decise di disporre i corpi lungo le pareti della chiesa. Oggi la sua mummia è visibile tra le altre, vestita con l’abito cerimoniale. Sono i luoghi storici che ancora mettono in contatto l’uomo con la morte, sono le occasioni in cui la discarica ci avverte attraverso l’aria della sua presenza, una presenza assillante che difficilmente si affronta, la letteratura è oggi il virtuale della fine, raccoglie il rifiuto e il fallimento più grande dell’umanità: la perdita del senso valoriale dello scarto.

A waste land “April is the cruelest month, breeding Lilacs out of the dead land, mixing Memory and desire, stirring Dull roots with spring rain. Winter kept us warm, covering Earth in forgetful snow, feeding A little life with dried tubers.” [T.S. Eliot, The burial of the dead]

L’inverno ci mantenne al caldo, coprendo con immemore neve la terra, nutrì con secchi tuberi una misera vita. Ignoranza così dolce, d’inizio o fine non ha importanza, la letteratura raccoglie impietosa-mente l’appello del mondo a dimenticare e straccia il patto, incurante del dolore, decisa a ricordare ed essere via privilegiata della conoscenza. Nel grande incendio industriale e post-industriale, il propellente, il combustibile per lo sviluppo energetico dell’uomo è il mondo stesso, un mondo sbranato dall’industria, per-forato da trivelle, invaso da discariche , una realtà che con forza porta alla luce il tema del rifiuto, nella sua accezione più pragmatica e nel contempo carica di simboli: “La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra len-zuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fi-ammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio. Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti di Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, con-tenitori, materiali d’imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di por-cellana: più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove.” [I.Calvino, Le città invisibili]

E’ una città Leonia, che espelle cose infette, memoria e passato, un catalogo infinito di rifiuti tradotto in accumulazione caotica di oggetti, che vanno ad ingrandire ogni giorno di più l’instabile discarica circostante la città:

“Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città che anch’esse respingono lontano da sé montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta .

Più ne cresce l’altezza, più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, cal-endari d’anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere […]. Un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo.” [I.Calvino, Le città invisibili]

Il tema del ritorno è affrontato, e in più occasioni si risolve in un cataclisma purificatore, espiatorio, penso alla profezia apocalittica espressa da Svevo a concludere “La coscienza di Zeno”. La letteratura rappresenta l’inconscio, e la paura del futuro, unita ai timori dell’abbandono e del ritorno sono temi presenti e sensibili: La spiaggia Sono andati via tutti - blaterava la voce dentro il ricevitore. E poi, saputa, - Non torneranno più -. Ma oggi su questo tratto di spiaggia mai prima visitato quelle toppe solari... Segnali di loro che partiti non erano affatto? E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse. I morti non è quel che di giorno in giorno va sprecato, ma quelle toppe d’inesistenza, calce o cenere pronte a farsi movimento e luce. Non dubitare, - m’investe della sua forza il mare - parleranno. [Vittorio Sereni, Gli strumenti umani]

Quelle toppe solari, presenze misteriose, i morti, toppe d’inesistenza, mucchi di sterile polvere, calce o cenere, esistono in quella luce, allegoria del ritorno di ciò che era perduto per sempre. Ma non dubitare, parleranno.