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Diario di Viaggio in Namibia Attraverso una terra varia, completa, dove il deserto fronteggia il mare “E’ molto bello sognare uno spazio immenso nel quale viaggiare o dirsi che un giorno partiremo. Il sogno rallegra, giacché ci regala una infinità di prospettive che non appartengono alla quotidianità” ha scritto Paulo Coelo.. ...ed è un pensiero che io ho sempre condiviso.. per cui sto continuando a sognare e, per fortuna, anche a viaggiare! La Namibia era dunque uno dei tanti miei sogni e, dopo una miriade di progetti, valutazioni, era diventata una realtà..

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Diario di Viaggio in Namibia Attraverso una terra varia, completa, dove il deserto fronteggia il mare

“E’ molto bello sognare uno spazio immenso nel quale viaggiare o dirsi che un giorno partiremo. Il sogno rallegra, giacché ci regala una infinità di prospettive che non appartengono alla quotidianità” ha scritto Paulo Coelo..

...ed è un pensiero che io ho sempre condiviso.. per cui sto continuando a sognare e, per fortuna, anche a viaggiare! La Namibia era dunque uno dei tanti miei sogni e, dopo una miriade di progetti, valutazioni, era diventata una realtà..

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...una regione bellissima che racchiudeva aspre montagne rocciose, savane alberate, immense estensioni di sabbia e dune.. inoltre c’erano le praterie vaste e selvagge, abitate da una miriade di animali tanto da dare “l’impressione di perdersi in un ambiente primordiale fatto di infiniti spazi”.

Era dunque un luogo che amavo già senza esserci ancora andata.. era un mondo che mi aspettava e che già mi emozionava… volevo vedere quel deserto con le sue dune di sabbia bianche e rosa che sconfinavano nell’oceano, le lagune, le genti, un mosaico di popolazioni diverse per lingua e cultura..

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E non sono rimasta delusa… la Namibia mi ha accolto con i suoi km e km di dune cespugliose, aride, semidesertiche.. ero all’altro capo del mondo e in quel luogo, che mi è apparso in un primo momento veramente disabitato, avevo l’impressione di respirare un’aria di pace quasi selvaggia, primordiale.

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Durante il percorso dall’aeroporto verso la capitale, mi sembrava che la natura si volesse divertire a giocare con le immagini: vedevo catene di colline in lontananza, strade sterrate, alberi contorti che, lottando contro l’arsura di un terreno arido, erano cresciuti con fatica nei luoghi più disparati e poi vedevo anche alcune oasi probabilmente vicino a sorgenti sotterranee.

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Poi l’impatto con la capitale Windhoek mi ha disorientato… era una città occidentale, pulsante di vita, ordinata, pulita, moderna, con ville a schiera circondate da giardini, chiese moderne, pochi uomini di colore… ma mi trovavo veramente in Africa?

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Windhoek era situata nel cuore geografico del paese, ad un’altitudine di 1720 metri, nel bel mezzo di una vallata degli altopiani centrali, circondata dunque, da ogni lato, da monti. La sua nascita si faceva risalire al 1890 quando vi si era installata una guarnigione della Germania imperiale.. poi piano piano fu trasformata in municipio e infine nel 1965 fu elevata al rango di città!

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L’edificio più caratteristico e storico era la chiesa luterana di Gesù Cristo, progettata all’inizio del XX secolo.. definirla era difficile in quanto presentava un insieme di stili che oscillavano tra il neogotico e l’art nouveau. I muri poi erano realizzati in pietra saponaria tipica della zona.

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Insieme ad un piccolo gruppo che pareva già affiatato, nel pomeriggio mi sono diretta verso il deserto del Kalahari e finalmente ho assaporato il piacere di un assaggio dell’Africa vera.. ho costeggiato i caratteristici alberi di acacia che spiccavano nella brulla savana.. e in lontananza finalmente mi sono apparse le tanto attese dune rossastre.

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Abbiamo attraversato poi il tropico del Capricorno e l’entusiasmo di trovarci immersi in quel paesaggio solitario ed unico è stato grande, soprattutto perché avevamo trovato alloggio in un lodge abbracciato dalle acacie e allora la sera, seduta sulla veranda del mio bungalow, insieme ai nuovi amici, potevo godere del silenzio rotto dal canto dei grilli o dal verso di qualche animale del deserto.

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Il giorno dopo è iniziato il suggestivo viaggio in jeep per esplorare la grande conca centrale del deserto del Kalahari con la sua rossa sabbia, un deserto in parte arido e in parte semiarido, profondamente inciso dall’azione erosiva dei corsi d’acqua..

...era bello percorrere quelle ampie distese accarezzate dal vento alla ricerca di animali.. eravamo stregati da quella bellezza dolce e selvaggia nello stesso tempo, e soddisfatti, anche se gli animali, in questa prima uscita, erano veramente rari e molto lontani per poterli fotografare.

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Entusiasmante per la sua bellezza è stata invece la Quiver Tree Forest, costituita da circa 250 esemplari di Aloe Dicotoma, una pianta tropicale tipicamente namibiana, chiamata anche “Albero Faretra” perché i suoi rami, cavi al centro e leggerissimi, erano usati dai Boscimani per costruire appunto le faretre.

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Accanto a loro grossi sassi di basalto ammucchiati per terra, in modo quasi artistico, mi avevano fatto pensare ad un sito archeologico.. poi, ad uno sguardo più approfondito, ho capito di essere in una strana foresta dove gli Aloe con i loro grossi tronchi chiari, i rami che apparivano rinsecchiti, protesi verso l’alto quasi a pregare il cielo di mandare loro un po’ d’acqua, erano, in fondo, immagini di un quadro di Salvator Dalì, ed io mi sentivo immersa, parte viva di quel paesaggio surreale…

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Più avanti verso sud, percorrendo una strada sterrata in una zona arida e stepposa vedevamo in lontananza alcune montagne, frutto degli sconvolgimenti tettonici antichi.

Alcune di queste montagne erano percorse longitudinalmente da strisce nere di basalto e venivano per questo simpaticamente chiamate “montagne che piangono”.. infatti la doralite o il basalto, da lontano, dava vita a particolari miraggi simili a rivoli di lacrime che una leggenda diceva anche fossero le stesse lacrime di disperazione del viandante assetato!

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Siamo poi arrivati al Fish River Canyon, il secondo più grande canyon del mondo, dopo quello del Colorado.. un paesaggio che mi ha lasciato davvero senza parole… dove imponenti pareti rocciose, che raggiungevano anche i 600 metri di altezza, e profonde gole, si erano formate e modellate nel tempo non solo per l’erosione dell’acqua, ma anche per il crollo della valle a causa dei movimenti tellurici della crosta terrestre, avvenuti oltre 500 milioni di anni fa.

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E pensare che una antica leggenda San, raccontataci dalla nostra guida contrastava con quella “verità geologica”.. si narrava infatti che i meandri del Fish River Canyon fossero stati scavati dal serpente Koutein Kooru, mentre cercava di sfuggire ai cacciatori che lo stavano inseguendo.

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Al di là di queste notizie reali o leggendarie, devo confessare che mai come in quel luogo ho avvertito tutta l’inconsistenza, la fragilità del nostro essere umano.. in quello spazio sconfinato, caldo ed assolato, mi sono sentita una briciola nel tutto.

Poi scendendo verso il piccolo e apparentemente quasi insignificante Fish River, un affluente temporaneo dell’Orange, mi sono oltremodo stupita per la sua capacità di erosione della roccia… 160 km di canyon era riuscito a creare quel rivolo d’acqua, un vero e proprio monumento naturale!

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Stendendo poi lo sguardo sulle varie stratificazioni rocciose mi è parso pittoresco e fantastico l’insieme delle varie tonalità dei monti, che attestavano la diversità dei sedimenti delle varie epoche.. mancava il rossiccio, ma abbondavano i colori del grigio e del nero che poi, al tramonto, si sarebbero trasformati in indaco e violetto.

In lontananza il fiume, unica nota viva tra tante rocce, scorreva tranquillo.. qua e là spuntavano piante spinose, qualche ciuffo d’erba inaridito e qualche insetto che al nostro passaggio fuggiva spaventato.. tutto era così lontano dal mio mondo quotidiano.. eppure lo sentivo familiare e vicino al mio spirito.

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Ripreso il viaggio verso Luderitz abbiamo vissuto una vera e propria avventura.. eravamo finalmente circondati dalle dune rosa in un paesaggio a dir poco suggestivo, quando ad un certo punto si è preannunciata una tempesta di sabbia. “Che bello!” ho pensato impulsivamente fino a quando la forza del vento a 130 km all’ora ha cominciato a spaventarmi… eppure le immagini che vedevo dal finestrino dell’auto erano favolose.

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La sabbia volava sull’asfalto prima coprendolo, poi liberandolo di nuovo finché alla fine fu trasformata in una serie di dune mobili trasportate qua e là dal vento. La nostra auto sobbalzava attraversandole, ma di fronte ad una duna più estesa delle altre si è miseramente impantanata.. era impossibile procedere. Fermi tra la sabbia che vorticava in mulinelli ed aumentava a vista d’occhio, osservavamo quello spettacolo che ci avvolgeva, eravamo un po’ intimoriti da quel folle vento bizzarro che spazzava via tutto e sembrava divertirsi un mondo!

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Finalmente arrivarono i soccorsi.. due grosse Jeep trasportarono persone e bagagli e così arrivammo tutti sani e salvi a Luderitz, la “Monaco del deserto”, una cittadina stretta tra il desolato deserto del Namib e la costa atlantica battuta dal vento.

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Per la sua architettura coloniale tipicamente bavarese, Luderitz sembrava essersi un po’ fermata nel tempo.. ma era proprio quella sua mancanza ordinata di modernità e di frenesia, caratteristica delle grandi città, a conferirle un’atmosfera particolare di “vecchio mondo europeo”… inoltre si trovava in una posizione veramente panoramica, affacciata su una delle più belle baie della Namibia!

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Il giorno dopo ci dedicammo all’esplorazione di alcune di queste baie… quella più vicina alla città era piccola, ma pittoresca, con stormi di fenicotteri rosa che se ne stavano tranquilli in acqua, a godere del pallido sole.. disposti in una lunga fila, si muovevano sincronicamente, ordinati, e quella massa colorata di colori pastello spiccava decisa in contrasto con l’azzurro del mare.

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Poi ci siamo spostati alla Shearwater Bay dove qualche folle, nonostante il vento e il clima non proprio benevolo, aveva deciso di fare un bagno nell’oceano.

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Le onde, sospinte dal vento incessante parevano infuriare, sembravano inghiottire ogni rumore… io ne ascoltavo con piacere la voce che si propagava sull’acqua creando uno sciabordio particolare, quasi musicale. Le onde si rincorrevano allegramente buttandosi sulla riva forse volevano comunicarci qualcosa.. il piacere di essere libere, forti, vive, forse volevano comunicarci anche la voce di mondi lontani!

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Costeggiando l’oceano siamo poi arrivati fino alla Baia Grande, la Grosse Bucht, una splendida spiaggia selvaggia abitata anche questa da stormi di fenicotteri abituati a nutrirsi nelle pozze di marea.

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Di baia in baia siamo arrivati al Diaz Point, un promontorio ventoso ed arido dove si trovava un faro e una copia della croce eretta nel luglio del 1488 dal navigatore Bartolomeo Diaz, durante il viaggio di ritorno dal Capo di Buona Speranza. I frammenti, ancora esistenti, della famosa croce erano sparsi in altre città come Lisbona, Berlino e Cape Town. Dal promontorio il panorama che riuscivamo a vedere in quell’estensione rocciosa battuta dalla furia del vento era impressionante per la suggestiva aridità di quegli orizzonti sconfinati!

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Nel pomeriggio a chiusura di quella giornata di mare e vento siamo andati ad Agate Beach un’altra spiaggia lunga e deserta caratteristica per la profusione di rose del deserto e sassolini di agata.. Abbiamo rovistato tra la sabbia cercando di non essere trascinati via dal vento e devo confessare che i reperti trovati, pur non essendo di grande importanza, ci hanno soddisfatto, dato che ci siamo divertiti un mondo a cercarli!

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Il giorno dopo ci aspettava la bella avventura legata alla visita della città di Kolmanskop, un tempo fulcro della prospera industria diamantifera, oggi solo una città fantasma…. Arrivare non è stato difficile anche se, le grandi dune di sabbia trasportate dal vento in cumuli, erano sempre pronte ad ostruire il passaggio.

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La gloria passata, la ricchezza, le attrezzature più elaborate, le abitazioni, erano state abbandonate, il deserto piano piano aveva preso il sopravvento e si era insinuato lentamente e subdolamente nelle case, negli orti, nelle baracche, nelle finestre rotte, nelle porte ormai divelte, si era insinuato proprio dove un tempo fervevano tutte le intense attività.

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Rimanevano soltanto i ricordi … le vecchie abitazioni di dirigenti e pionieri erano diventate dei musei e ci attestavano la vita di allora, di un mondo di usi e costumi europei, trasportati con minuziosa pignoleria ed una buona dose di nostalgia.

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Eravamo timorosi e un po’ impressionati da quell’abbandono.. vedevamo utensili abbandonati sul tavolo, delle ceramiche decorate, mobili in stile, ambienti caldi e confortevoli, addirittura una palestra ginnica, un teatro, e per il divertimento anche un casinò, molti luoghi di ricreazione tra cui un angolo adibito al gioco del bowling.

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La gente era ricca e felice in quel luogo, l’euforia regnava sovrana e la ricchezza poteva scorrere come un fiume in piena, alimentata dalla febbre dell’oro e dei diamanti. Tutta la zona di Luderitz bay era infatti stata invasa da impiegati, doganieri, magistrati, oltre ai veri e propri cercatori che volevano delle concessioni. Era un nuovo Eldorado e richiamava ogni avventuriero, ma soprattutto fomentava speranze, alimentava sogni impossibili!

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Oggi la città fantasma, evacuata definitivamente nel 1956, era davanti a noi con il suo abbandono, il suo triste squallore di incompiutezza, di qualcosa che era finito perché forse gli uomini avevano desiderato troppo… i filoni di diamanti si erano esauriti e i sognatori erano usciti dalla loro illusione!

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Eppure quell’ammasso di case sopraffatte dalla sabbia era quasi bello a vedersi, le antiche abitazioni apparivano stagliate tra il giallo ocra di quella sabbia assassina ed il cielo senza nubi, nitido, trasparente, di un blu intenso come possono esserlo solo i cieli africani.

A noi turisti non restava che ascoltare quei vecchi muri che ci parlavano, non restava che fotografare, cogliere scorci ed immagini caratteristiche o magari ricostruire con un pizzico di fantasia quel mondo di pionieri che avevano avuto il coraggio di lasciare la casa avita, magari anche la famiglia e la patria per inseguire una chimera... erano arrivati in cerca di fortuna e di avventura.. e forse l’avevano anche trovata!

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Ripreso il percorso, il panorama non cambiava.. distese steppose, montagne e savana di una incredibile bellezza.. ma luoghi assolutamente disabitati, senza case, senza uomini in vista, tanto che ci chiedevamo tutti dove fossero finiti gli abitanti della Namibia…

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Finalmente siamo arrivati, dopo un viaggio abbastanza faticoso, al nostro lodge nel deserto del Namib e subito la bellezza delle dune rosate ha cancellato ogni traccia di stanchezza e poi più tardi il tramonto di quel paradiso africano ha trasformato il cielo in un trionfo di colori purpurei che mi ha letteralmente incantato. Dopo cena, dato il caldo afoso, mi sono seduta nella veranda del mio bungalow e mi sono persa a contemplare la volta del cielo.. là dove un momento prima c’era una sola stella solitaria, forse Venere, una miriade di piccole luci hanno preso a brillare… ora ce n’erano un’infinità, tutte enormi e belle, un manto stellato che incantava e faceva pensare a mondi lontani, all’universo sconosciuto, a vite possibili in altri luoghi, in altri pianeti!

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Una bella alzataccia ha poi dato inizio al giorno successivo dedicato interamente all’escursione nel deserto del Namib, che nella lingua della gente locale, significava “ampia pianura arida”… una giornata stupenda tra dune color ocra, nella zona di Sussusvlei, dune che parevano muoversi e danzare sotto i riflessi del sole cocente… tutto dunque continuava a conquistarci.

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La luce era un fattore determinante per creare magia e spettacolo in quel paesaggio tutto uguale, arido, diversificato solo dal colore e dai giochi d’ombra. Ne stavo cogliendo l’aspetto estetico, la bellezza, ma la guida ci ha chiarito anche qualche notizia legata all’aspetto scientifico.. per esempio che la loro intensa colorazione era da attribuirsi ad un deposito superficiale di ossido di ferro, accumulatosi nel corso dei secoli.

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Mentre arrancavo con fatica, insieme ad alcuni amici, su una di quelle dune, vedevo con stupore che cambiavano man mano colore passando dal giallo ocra, al rosa, al rossiccio, al marrone bruciato, erano abbellite da contorni rotondi e smussati… in lontananza sembrava addirittura che toccassero il cielo, in un contrasto violento di colori, dune dolci e morbide a vedersi, ma, me ne stavo rendendo conto, difficili per una qualsiasi salita!

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Osservando gli scorci delle dune di sabbia del Namib, quel grande mare di sabbia che tutto abbracciava e nascondeva, mi sentivo sopraffatta da quella immensa spazialità..

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Dicono i Tuareg che “Dio creò il deserto affinché gli uomini vi potessero conoscere la loro anima”.. e devo confessare che io ho sempre amato la sconfinata essenza del paesaggio desertico e il suo cielo azzurro, unico, reso più limpido dalla totale assenza di inquinamento, un cielo che si estendeva infinito, suggestivo, proprio come infinito e suggestivo era il deserto sottostante.

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Sossusvlei che significava “Luogo di non ritorno” era una depressione del Namib creata dal fiume Tsauchab, asciutto per gran parte dell’anno, che scorreva attraverso il Sesriem Canyon, lungo circa un chilometro e proprio in quella gola, scavata nella roccia sedimentaria nell’arco di un periodo di circa 15 milioni di anni, ci siamo spinti dopo la faticosa scalata delle dune.

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In Afrikaans, Sesriem significava “sei cinghie” e il nome derivava dal fatto che i primi coloni dovevano usare un sistema di sei corregge per estrarre l’acqua dal fondo della gola. In alcuni punti il canyon diventava molto stretto e si formavano delle pittoresche pozze d’acqua perenni dove gli animali potevano andare a bere.

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Abbiamo attraversato poi la parte meridionale della catena dei monti Naukluft, un paesaggio lunare indescrivibilmente bello che era intersecato da una serie di pittoreschi piccoli canyon.. tutti da esplorare se avessimo avuto tempo!

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Il giorno dopo altri paesaggi lungo la costa atlantica… siamo arrivati a Walvis Bay una baia scoperta nel 1487 da Bartolomeo Diaz che, in queste terre, era quasi di casa… la zona, alquanto calda ed umida, mi è apparsa come un’ampia laguna, con innumerevoli uccelli marini, pellicani e fenicotteri rosa, un vero paradiso per gli uccelli.. ne abbiamo visti a migliaia, fermi in acqua a godersi il fresco, e così colorati e fitti, parevano confondersi con l’orizzonte.

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Più avanti Cape Cross su un roccioso promontorio era famoso per ospitare colonie di foche, a volte più di 100.000, per tutto l’anno, in quanto arrivava la corrente oceanica di acqua fredda del Benguela che dava loro la possibilità di sopravvivere.

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La colonia è stata proclamata una riserva naturale da parte del Ministero dell'Ambiente e del Turismo della Namibia e nonostante le proteste dei sostenitori di protezione degli animali, migliaia di questi animali venivano ancora brutalmente uccisi per la loro pelliccia o per le saporite carni.

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E’ stato interessante vedere come le agili foche a gruppi si buttavano in acqua vincendo la forza delle onde che tentavano di respingerle verso la riva sassosa.. loro resistevano e alla fine recuperavano il mare aperto.. e noi vedevamo una miriade di puntini neri che galleggiavano tra le onde di quelle gelide acque. Quelle rimaste a riva, ammassate le une alle altre, facevano un chiasso infernale lanciando stridii acuti quasi umani.

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Cape Cross fu scoperta dal portoghese Diego Cao che stava cercando una rotta breve per le Indie nella corsa alle spezie.. egli eresse una delle croci in pietra chiamata “Padraos” che aveva portato con sé, sulla nave, per segnare l’affermazione del Portogallo su quelle terre scoperte. Nel 1890 la croce fu portata a Berlino da un generale tedesco.. ma due anni dopo il governo namibiano mise una seconda croce esattamente nella stessa posizione in cui era stata quella originale.

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Durante la perlustrazione del deserto ci siamo anche imbattuti in uno dei fiori più fantastici e particolari del mondo, la famosa Welwitschia Mirabilis, una pianta grassa simile ad un polipo che cresceva nelle dune di sabbia e nasceva per l’impollinazione portata dal vento… la guardavamo affascinati.. sembrava quasi mostruosa, eppure aveva la capacità di crescere nella sabbia senza quasi bisogno di acqua!

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Proseguendo il viaggio verso l’Etosha National Park il panorama del deserto mi dava l’idea di una valle sulla luna, tanto era arido e desolato, sassoso, brullo.

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In quel luogo si erano stanziate le varie tribù dei Boscimani, un popolo che ha

sempre vissuto una vita errante, dura, di una fatica unica, una vita di tribolazioni sopportata con incredibile serenità e sopravvivenza, in totale sinergia con la natura. La guida ci ha raccontato alcune particolari strategie, alcuni metodi di sussistenza di cui quegli indigeni si servivano per cercare e poi conservare l’acqua nel deserto.  

Si procurano l'acqua succhiandola dal terreno con una cannuccia munita di filtro confezionato con una piuma di struzzo, inoltre poi, per non rimanere completamente a secco durante le varie migrazioni, i piccoli uomini dalla pelle rugosa sotterravano delle “borracce” lungo i sentieri della boscaglia.

L’originalità consisteva nel fatto che tali borracce erano gusci di uova di struzzo riempiti d’acqua e sigillati con un tappo ermetico di erba! Per distinguere poi le proprie uova e non appropriarsi di altre, i Boscimani le contrassegnavano ciascuno con dei segni particolari che potevano essere figure geometriche o disegni di uccelli, serpenti, animali, tutto a seconda della tribù a cui appartenevano. Erano tutti dei segnali simbolici per rispettare civilmente la proprietà in quel difficile mondo di sassi e sabbia!

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E così siamo arrivati all’Etosha National Park… nella lingua locale il nome Etosha significava “Grande Luogo Bianco” con riferimento al colore della sabbia della depressione centrale salina chiamata Pan, che costituiva il 25% dell’area del parco.

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Questa era una superficie di argilla e sale che si rifletteva abbagliando come uno specchio, all’interno di una natura arida e selvaggia.

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Il luogo ci ha subito affascinato con la sua abbondanza di animali, di vegetazione.. di alberi di Matabele, alla cui ombra Wilbur Smith faceva riposare e rinfrescare i suoi personaggi nei vari romanzi ambientati in Sud Africa.

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Era un piacere fotografare quegli animali che potevano scorazzare liberi in un’estensione complessiva di 22.900 Kq… era un piacere penetrare nel cuore dell’Africa degli spazi e degli animali!

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Quasi immediatamente mi sono apparsi gli orici, deliziosi ed agili, poi branchi di selvaggi Gnu, i Kudu, dalle lunghe ondulate corna, i brutti facoceri, gli springbok chiamati anche antilopi saltanti, i dik dik, e poi zebre e giraffe… insomma un paradiso per le fotografie!

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Verso sera quella ricca fauna selvatica si riuniva attorno alle grandi pozze d’acqua, alcune artificiali.. una creata appositamente vicino al nostro lodge… gli animali andavano per abbeverarsi e allora era un vero spettacolo.

Ho avuto, con emozione, un incontro ravvicinato con un branco di elefanti del deserto che sono arrivati in massa… grandi, lenti, accompagnati dai loro piccoli che si sono messi subito a giocare nell’acqua, a rotolarsi ed a spruzzarsi. Era bello osservarli così sereni e tranquilli, ignari di “fare spettacolo”!

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Eravamo senza parole di fronte allo spettacolo che, come in un palcoscenico naturale, vedeva avvicendarsi una serie di animali. Una giraffa apparentemente disarticolata, troppo lunga e magra per riuscire a piegarsi, si è esibita in una sorta di simpatica, aggraziata e comica acrobazia.. a zampe aperte!

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Ma lo spettacolo vero è cominciato quando la sera ha avvolto di ombre la pozza. A malapena intrevedevamo le sagome dei tanti animali che in un totale silenzio venivano ad abbeverarsi. Prima un gruppo di elefanti con i loro piccoli...

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...dopo sono arrivati i rinoceronti, brutti con il loro muso preistorico… anch’essi, con cautela, si sono avvicinati al laghetto per bere guardandosi intorno con fare diffidente e circospetto.

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Ogni occasione ci offriva uno spunto per ammirare la capacità di vivere degli animali in quella terra un po’ arida ed inospitale.. eravamo immersi in una realtà lontana mille miglia dalle città affollate e dall’umanità.. e il momento più magico poi era al tramonto, quando il sole si tuffava all’orizzonte tingendo il cielo di caldi, intensi, magnifici colori e la sua luce rossastra evidenziava i contorni dei pochi alberi che si stagliavano all’orizzonte.

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Quello, come aveva ben affermato Tiziano Terzani, “era un altro aspetto rasserenante della natura: la sua immensa bellezza era lì per tutti. Nessuno poteva pensare di portarsi a casa un tramonto!”

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Eravamo quasi al termine del nostro viaggio, un po’ tristi, come sempre quando qualcosa si conclude… eppure volevamo ancora godere delle ultime immagini e allora la sosta al lago di Otjikoto, ovvero “Buco Profondo”, perché ritenuto dai San addirittura senza fondo, è stata quasi gustata come un ultimo dono di quella terra stupenda.

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Il lago, incassato tra ripide rocce, in realtà era profondo circa 55 metri, ma si assottigliava in un sistema di grotte laterali che rendevano difficile determinarne l’esatta profondità. Ora, davanti ai nostri occhi, risplendeva sotto il sole che ne evidenziava i colori limpidi e tersi… la guida poi ci ha raccontato che per i tedeschi, quello stupendo specchio azzurro era una discarica.

Nel Giugno del 1915, prima di arrendersi agli inglesi e lasciare il paese, vi avevano buttato ogni sorta di armi e persino carri armati! La maggior parte dei pezzi è stata poi ripescata e può essere vista nel museo Tsumed, ma purtroppo altri quantitativi di munizioni e forse anche cannoni erano ancora nel lago.

Secondo poi una leggenda i tedeschi, per non farla cadere in mano al nemico, avevano anche buttato una cassaforte contenente sei milioni di oro.. ma la sua ricerca è ancora in corso!

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Ripreso il viaggio.. siamo arrivati a Windhoek ed ho rivisto la bella moderna cittadina dove ero stata una decina di giorni prima.. il tempo era volato e non mi sembrava quasi possibile. Le nostre valigie erano tutte ammucchiate nell’atrio dell’Hotel, avevamo davanti il lungo viaggio aereo di ritorno in Italia.

Tornata poi a casa sarei stata, come sempre, ricca di immagini e di ricordi.. Henry Miller ha detto che “una destinazione non è mai solo un luogo, ma un modo di vedere le cose”: ci ero riuscita?

Il mio spirito di avventura mi ha sempre portato a voler scoprire la bellezza in ogni cosa, in ogni ambiente che mi circondava, nella sua diversità, nelle sue meraviglie e mi ha portato anche al desiderio di riviverle, di comunicarle perché, in fondo, un viaggio vero non deve finire mai!