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Debutto in società di 14 ottobre 2017 Cinecittà, Roma

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Debuttoin società di

14 ottobre 2017Cinecittà, Roma

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Indice

1. L’EMOZIONE CON CUI CI SIAMO MESSI IN CAMMINO ............................................................................................................................1

2. I LAVORI ....................................................................................................................................................................................................................................... 5

2.1 Il programma ................................................................................................................................................................................................................6

2.2 Chi altri lo farà?, intervento di Francesco Galtieri .............................................................................................................................8

2.3 Essere gli elefanti, intervento di Alessandro Fusacchia ...........................................................................................................11

2.4 La vostra responsabilità, intervento di Emma Bonino ............................................................................................................... 17

2.5 I brief per i gruppi di lavoro .............................................................................................................................................................................21

Brief 1_ Basta lavoratori invisibili ........................................................................................................................................................22

Brief 2_ Imparare per rimettersi in gioco .................................................................................................................................. 26

Brief 3_ Redistribuire le rendite dei nuovi latifondi ...........................................................................................................30

Brief 4_ Le banche chiudono presto ........................................................................................................................................... 34

Brief 5_ Le imprese non sono affari di famiglia ................................................................................................................... 38

Brief 6_ La disuguaglianza nasce tra le aziende ................................................................................................................ 42

Brief 7_ Aiutare le transazioni sul lavoro ...................................................................................................................................46

Brief 8_ Ridisegnare la Pubblica Amministrazione ...........................................................................................................50

Brief 9_ Chi ribalta la cattedra .......................................................................................................................................................... 54

Brief 10_ Produrre nuova cultura in Italia .................................................................................................................................58

Brief 11_ Abolire il contante .................................................................................................................................................................62

Brief 12_ Adesso facciamo l’Europa .............................................................................................................................................66

2.6 Il questionario sull’Europa ................................................................................................................................................................................ 73

Se l’Europa fosse un condominio: le domande ..................................................................................................................... 73

Cosa hanno risposto i partecipanti ............................................................................................................................................... 75

3. IL RISCONTRO DEI PARTECIPANTI ......................................................................................................................................................................85

Diritti alle opportunità Cinecittà, Roma, 14 ottobre 2017

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L’EMOZIONE CON CUI CI SIAMO MESSI

IN CAMMINO

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Movimenta ha fatto il suo debutto in

società il 14 ottobre 2017, a cinque

mesi esatti dalla sua costituzione,

organizzando “Diritti alle opportunità”.

Abbiamo scelto questo titolo per

mettere insieme ciò che di più prezioso

abbiamo, e quindi le conquiste di chi ci

ha preceduto – i diritti – con il moto per

luogo da ciò che più manca oggi in Italia,

per tantissimi cittadini, di cui moltissimi

giovani, verso quello che vorremmo

costruire per loro: opportunità.

Ci siamo ritrovati simbolicamente in un

teatro di Cinecittà, a testimoniare che

non ci sarà nessuna politica nuova senza

la produzione di una nuova cultura.

A questo primo evento hanno

partecipato circa 300 persone

provenienti da tutta Italia e da diversi

Paesi europei. Altre 2500 persone hanno

seguito i lavori da remoto, grazie alla

diretta streaming.

Abbiamo iniziato con un gioco pensato

per conoscerci grazie a domande a

cui dovevamo rispondere spostandoci

tutti dentro lo stesso box, per scoprire

che cosa, oltre le apparenze, ci

accomunasse davvero. A seguire,

abbiamo costruito in diretta la nostra

piazza, prendendo ciascuno la propria

sedia e disponendola in semicerchio.

A quel punto abbiamo spiegato le

ragioni che ci hanno spinto a decidere

di impegnarci attivamente in politica,

e abbiamo ascoltato la testimonianza

e l’incoraggiamento di Emma Bonino.

Per il resto della giornata ci siamo

divisi in gruppi per discutere di temi

fondamentali per il futuro dell’Italia

e dell’Europa, a partire dalla nuova

economia e geografia del lavoro, a come

ripensare il nostro modello educativo, ai

meccanismi che irrigidiscono la Pubblica

Amministrazione, a come far crescere

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Alessandro FusacchiaSegretario

Denise Di DioPresidente

Francesco GaltieriTesoriere

le imprese e ripensare l’accesso al

credito, o avviare una nuova stagione di

produzione culturale, fino all’abolizione

del contante. Tutte discussioni che

avevano sullo sfondo la necessità di

salvaguardare e rilanciare ulteriormente

il processo di integrazione europea.

Abbiamo a quel punto ospitato interventi

di alcuni amici italiani e di altri Paesi

europei – dall’Estonia alla Romania, dai

Paesi Bassi alla Francia – impegnati

in politica, appassionati e motivati a

ragionare insieme sul percorso comune

che dobbiamo fare insieme negli anni

a venire per assicurare all’Europa una

Storia a lieto fine.

Abbiamo risposto alle domande di

un questionario per immaginare che

cosa sarebbe quest’Europa “se fosse

un condominio” e ci siamo salutati

dicendoci che avevamo provato, nel

corso di un’intensa giornata, non solo a

capire qualcosa di più, ma anzitutto ad

avvertire qualcosa di diverso.

Questo rapporto raccoglie i documenti

principali e le foto di quella giornata,

e restituisce la valutazione fatta dai

partecipanti. Speriamo faccia rivivere

a chi era a Cinecittà quel giorno, e

trasmetta a chi non c’era l’emozione con

cui ci siamo messi in cammino.

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I LAVORI

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Diritti alle opportunità / Il programma

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Il programma 2.1

Il programma

arrivo dei partecipanti e consegna dei materiali

“Ciò che ci unisce”, versione adattata di All that we share a cura di Jader Giraldi

Interventi

Francesco Galtieri, tesoriere di Movimenta Alessandro Fusacchia, segretario di Movimenta Emma Bonino

Lavori di gruppo

introduzione in plenaria Denise Di Dio, presidente di Movimenta divisione in gruppi (lavoro | impresa | education | cultura | PA | Europa)

pausa caffè

Intermezzo con interventi dal vivo di Fabrizio Barca, Mara Mucci, Alessandro Avataneo, Chiara Bertelli, Vincenzo Zappino, e in video di Marietje Schaake, Alberto Alemanno, Kaja Kallas, Dragos Pislaru, Brune Poirson

Restituzione in plenaria dei lavori di gruppo

“Se l’Europa fosse un condominio” a cura di Federica Thiene

Conclusioni: dove andiamo adesso? Alessandro Fusacchia, segretario di Movimenta

9.15

10.00

10.30

11.30

14.30

15.00

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10.00

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Diritti alle opportunità / Il programma

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Diritti alle opportunità / Gli interventi

8

Immaginate una classe gremita, con tanto rumore di sottofondo. Persone in piedi e sedute per terra. Entra un uomo di una certa età, tutto tondo, lunghi baffi bianchi. Di colpo, è silenzio. “Se non mi impegno per me, chi altri lo farà? Ma se mi impegno solo per me stesso, cosa sono? E se non mi impegno ora, quando?” – questa citazione e questa persona ancora a me sconosciuta mi rivelano, improvvisamente, perché sono lí. È inizio settembre 2016. Esattamente un anno prima, sono sulla spiaggia di un paesino della Calabria, Montegiordano Marina, dove vado in vacanza con i miei genitori dall’inizio degli anni 80, ed ancora oggi ci ritroviamo per una settimana insieme – per ricaricare le batterie. L’ennesima volta che leggendo la cronaca politica su un giornale sono preso da un misto di rabbia e senso di impotenza. Nessuna notizia in particolare, ma le solite notizie di insulti reciproci tra politici, accuse all’Europa “che ci chiede sacrifici” – quando poi a decidere sono sempre i Governi degli Stati – e qualche articolo su come modificare dell’1% qualche parametro economico specifico o come allungare l’età pensionabile, ma anche dare lavoro ai

giovani, mi raccomando! Le stesse cose da anni; anzi da decenni – mi dico. Mi giro verso i miei genitori e dico: mi dimetto; torno in Italia – non può continuare così senza provare a fare qualcosa. I loro volti di fronte a me sono increduli sembrano domandarsi “Che gli é preso?”. Già, che mi é preso. Vivo in giro per il mondo da 15 anni, ho un’ottima posizione di lavoro. Ho faticato per arrivarci ma, diciamocelo, mi é anche andata bene. E poi la mia coscienza é apposto: lavoro per popoli in difficoltà, ho fatto volontariato sin da piccolo e continuo a farlo persino in Italia. Ma in quel momento, su quella spiaggia arrivo finalmente alla conclusione che non basta.

La ragionevolezza di mio padre, il buon senso di mia madre, mi portano a prendere un anno per riflettere. Un anno in cui, dopo 15 anni di lavoro, decido di tornare a studiare – per riflettere a mente fredda, prendermi il tempo necessario per capire cosa é scattato in me. Perché qualcosa è scattato:

“Se non mi impegno per me, chi altri lo farà? Ma se mi impegno solo per me stesso, cosa sono? E se non mi impegno ora, quando?”

è questo signore attempato, che con tre domande, un anno dopo, mi spiega cosa sta succedendo in me. Lui si chiama Marshall Ganz, viene dal mondo delle lotte per i diritti civili negli Stati Uniti degli anni sessanta e – dopo essersi ritirato nell’insegnamento per decenni - nel 2008 decide di impegnarsi per sostenere un quasi sconosciuto senatore dell’Illinois ad aiutarlo ad organizzare una delle più grandi macchine di volontari degli ultimi tempi

Intervento di Francesco Galtieri, Tesoriere di Movimenta

Chi altri lo farà?

Gli interventi

2.2

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Diritti alle opportunità / Gli interventi

per vincere i cuori e le menti delle persone comuni e diventare Presidente degli Stati Uniti. Io sono un cittadino italiano, da sempre impegnato civicamente che in quel settembre 2015 ha deciso che quando quello che accade al tuo Paese, alla tua comunità non ti piace, tocca anche a te fare la tua parte.

E che mentre l’impegno civico è importante, puó avere impatto sulla vita di alcune persone, solo la politica può influenzare il cambiamento di un’intera società.

Quelle dimissioni sono arrivate a giugno di quest’anno – non come un gesto solitario, ma dopo aver incontrato tante persone in questi ultimi due anni con le quali abbiamo trasformato l’intuizione, la voglia di mettersi in gioco e prendersi una piccola parte di responsabilità in un progetto collettivo, concreto. Molte di quelle persone sono qui oggi, ne riconosco i volti tesi – perché ci stiamo mettendo la faccia; ma anche i sorrisi di soddisfazione perché questi primi piccoli passi li abbiamo fatti. Con alcuni di loro questa avventura di “cittadinanza consapevole” é cominciata esattamente 21 anni fa, il 14 ottobre 1996, nella sede goriziana dell’Universitá di Trieste. Ancora una piccola città a incubare grandi passioni. E 21 anni dopo è bello ritrovarsi per costruire qualcosa assieme. Ma piú di recente, ciascuno di noi di Movimenta ha fatto il percorso che per me è iniziato su una piccola spiaggia di provincia; ciascuno di noi ha deciso di non gettare la spugna e nemmeno di aspettare che qualcosa accada o – peggio ancora – che a farla accadere siano “altri”. Insieme abbiamo deciso di rilanciare la scommessa su noi stessi, come italiani. Scommettiamo che coloro pronti ad impegnarsi per far vivere i valori di solidarietà, equità e di diritto all’opportunità siano meno di quelli che opinione pubblica e manipolatori del consenso vogliono farci credere. Ciascuno di noi è meno solo, in questo

cammino, di quanto vogliono farci credere.

Ed allora tocca a noi; ciascuno con il rischio che puó prendere; ciascuno con la parte di responsabilità che sente di poter portare, ma non da solo – assieme ad altri che abbiamo fiducia saranno sempre di piú.

Qualche settimana fa ho incontrato qui al Pigneto Marianna. Marianna ci ha contattati via email per dire che quello che leggeva di noi ha senso, ma che ormai la fiducia nelle promesse è finita. Le ho chiesto di concedermi il tempo di un caffè; me lo ha concesso – allora la fiducia non era proprio tutta esaurita. O per lo meno la voglia di fidarsi. Mi dice “Per la semplicitá di questo incontro, facciamo che io sono la cittadina e tu il politico, perché il fatto che tu non sia stato politico prima per me non cambia niente”. Grazie a Marianna ho sentito – non capito – sentito in cosa si traduce la responsabilità di impegnarsi a rappresentare in politica chi si sente deluso e inascoltato. Ma Marianna, alla fine, mi ha anche augurato l’in bocca al lupo – per cui attraverso la sua fiducia mi ha offerto un po’ di energia per costruire questo cammino sapendo di contare sul sostegno di tante persone.

Chiudo col messaggio con cui mi sono svegliato stamattina, di Eva – un’altra delle persone che ci ha contattati conoscendoci “per caso”.

“Buon inizio per questa avventura che si preannuncia, comunque vada, un esempio importante per tutte le generazioni più giovani che hanno bisogno di modelli innovativi e trasparenti da seguire. In bocca al lupo!”

Ad Eva ed alle tante persone qui, a coloro che ci seguono via diretta ed a quanti si avvicineranno a noi dico “Crepi il lupo. Ma é importante farsi avanti adesso, è importante dirsi che non può “solo andare cosi” ed è importante scoprire che non siamo poi così soli a pensarla in questa maniera e ad avere ancora le energie e la voglia di impegnarci.” Impegnarci noi, non solo per noi stessi. Impegnarci ora.

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Diritti alle opportunità / Gli interventi

Francesco ci ha raccontato com’è che succede che ad un certo punto — a quarant’anni, ma può essere a trenta o a cinquanta — ti fermi, ti guardi dentro, e senti che non puoi più prenderti in giro. Che devi assumerti una responsabilità.

Quando maturi una convinzione così, non lo fai dopo una domanda sola. Parti da una domanda, poco dopo sono diventare due, poi tre, poi dieci, poi non le conti più. E passi settimane a cercare di rispondere a tutte, fino a quando capisci che devi ricominciare da capo: lasciando perdere il piccolo bilanciamento dei pro e dei contro, e decidendo invece qual è l’unica domanda che davvero conti. Nel nostro caso è stata:

perché ci impegniamo in politica? Qual è l’ingiustizia che vogliamo combattere?

Veniamo dal nulla. Dalla piccola provincia. Da famiglie normali che si erano sempre considerate fortunate ad essere il ceto medio. Col tempo abbiamo trovato la nostra strada. Facendo tanti sacrifici; e avendo tanta fortuna. Soprattutto, non scoraggiandoci mai. Solo che ad un certo punto ci siamo fermati e abbiamo scoperto che intorno c’era il deserto. Che avevamo fatto un po’ di strada, ma che molti — che troppi, che quasi tutti gli altri — erano rimasti indietro.

La mancanza di opportunità. Quando non hai neppure la possibilità di giocartela. Quando non puoi decidere nemmeno di rischiare che vada tutto male.

Questo Paese qui. Questa ingiustizia qui. Non ci sta più bene.

Abbiamo deciso di impegnarci in politica perché non accettiamo più di essere stati gli ultimi a potersela giocare. A potersi cercare il proprio posto al mondo.

Noi vogliamo che tutti abbiano la possibilità di un lavoro. Perché la mancanza di lavoro non è solo la mancanza di uno stipendio a fine mese. È la mancanza di un aggancio alla società. La mancanza di lavoro mina la solidità delle persone. Mina la fiducia che una persona ha in se stessa. E senza fiducia in te stesso, come fai ad avere fiducia negli altri? Ed ecco che tutto si sfalda.

Potremmo dire che siamo per il diritto al lavoro. Ma in realtà siamo per il diritto ad un’opportunità di lavoro.

Perché a differenza delle battaglie per i diritti fatte in passato, nessuno può darti il lavoro per legge. Un tempo scendevi in piazza e facevi rumore fino a quando non ti adottavano una legge. I diritti sono stati storicamente conquistati così. Ma col lavoro non funziona. Non lo puoi creare con un decreto del governo.

Per anni abbiamo fatto volontariato e associazionismo. Alcuni di noi hanno lavorato nelle istituzioni pubbliche provando ad incidere su decisioni che riguardavano moltitudini di persone. Eppure ad un certo punto abbiamo detto basta. Perché ci siamo accorti che tutto ciò era molto, ma era non abbastanza.

Guardate, non è proprio scontato che un gruppo di persone che sta più o meno serenamente conducendo la propria vita decida di lanciarsi apertamente nella cosa

Intervento di Alessandro Fusacchia, Segretario di Movimenta

Essere gli elefanti 2.3

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meno pop — e probabilmente più invisa — che ci sia in giro. Ma noi lo facciamo perché siamo consapevoli che solo la politica può fare alcune cose.

In questo mondo iper-tecnologico che corre verso l’ignoto, uno si aspetterebbe che la scienza o la finanza — o che la ribellione contro la scienza e contro la finanza — finiscano presto per governare tutto.

Ma in realtà è ancora la politica il più potente strumento che abbiamo a disposizione per anticipare e indirizzare il futuro.

Movimenta è nata attorno a 3 punti fermi.

Il primo è che non possiamo più continuare con interventi marginali.

Con piccoli emendamenti che al massimo fanno la cronaca, ma in nessun modo incidono sul corso della storia.

Da troppi anni abbiamo preso ormai a considerare naturale guardare a quello fatto un mese o un anno prima, a cercare di capire cosa non ha funzionato, e provare ad aggiustarlo con un colpetto, una volta a destra, una volta a sinistra.

Questo atteggiamento inerziale ci sta paralizzando lentamente senza che neppure ce ne accorgiamo.

Se è vero che il mondo sta conoscendo un periodo di trasformazioni profonde, noi dobbiamo cambiare il modo in cui ragioniamo sui problemi, e di conseguenza sulle soluzioni. Dobbiamo accettare di rimettere in discussione i dogmi.

Una dozzina d’anni fa ero a Bruxelles a parlare con alcuni funzionari della Commissione che si occupavano di mercato unico. A me pareva una gran cosa l’idea di trasformare l’Unione europea in uno spazio unico

delle telecomunicazioni in cui uno poteva telefonare in Europa da qualsiasi posto a qualsiasi altro posto al costo di una chiamata nazionale. E loro che mi ripetevano: “impossibile”; “non succederà mai”. E quando dicevo “perché?” mi sorridevano e mi rispondevano “le Telecom di tutta Europa sono troppo potenti. Non lo permetteranno mai. Non rinunceranno mai a questi guadagni”.

Whatsapp. Poi si sono inventati whatsapp. Mica l’avevano previsto. E la gente usa whatsapp per telefonare gratis in tutto il mondo. E a Bruxelles hanno cominciato ad alzare la voce contro le Telecom di tutta Europa e almeno un primo passo col roaming lo abbiamo fatto.

Ho anche una seconda storia. Qualche mese fa tutti i cittadini romani sono diventati ostaggio dei tassisti. Ve lo ricordate? I tassisti da una parte e gli autisti di Uber dall’altra. Impossibile muoversi: scioperi selvaggi, paralisi della città. E tu dovevi decidere da che parte stare, per chi tifare — se per i tassisti o per gli autisti di Uber. Ognuno che proponeva la sua soluzione, la sua nuova regolamentazione, il prossimo divieto, le prossime regole sulle licenze. Non ce n’è stato uno che ha detto che tra dieci anni molto probabilmente le macchine si guideranno da sole.

Il nostro primo punto fermo è questo: non ci possiamo più permettere di governare e di indirizzare la società senza guardare ai prossimi dieci anni. Immaginando come potrà essere cambiato per allora il mondo, e provando a ragionare a ritroso per capire — di quel mondo — come incoraggiare ciò che ci piace, e come contrastare ciò invece che non ci piace.

Il secondo punto fermo di Movimenta ha a che vedere con la fisicità della politica.

Siamo tutti immersi nell’online. Siamo costantemente connessi e vicini. La cosa ha qualche limite ed è

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Diritti alle opportunità / Gli interventi

particolarmente stancante, ma è innegabile che questo rappresenti un enorme vantaggio nel moltiplicare le possibilità umane.

E tuttavia, se si è rotto il patto sociale, non lo ricostruiamo su Facebook.

Abbiamo tutti più possibilità di dire la nostra ma non ci siamo accorti che nel frattempo abbiamo disimparato ad ascoltare quello che hanno da dire gli altri. Per noi tornare in piazza, tornare nella provincia, vuol dire recuperare la dimensione profonda del confronto. Quella che può partire solo dalle difficoltà che stanno vivendo le persone.

Non è detto che riusciremo ad arrivare alle soluzioni. Potrebbe non dipendere solo da noi. Magari il mondo è troppo incartato perché riusciamo a venirne a capo. Ma recuperare empatia e vicinanza. Questo dipende solo da noi.

Il terzo punto fermo è l’Europa.

Perché qualcuno sta rimettendo in discussione anche le fondamenta della nostra convivenza su questo continente. Sta rimettendo in discussione la premessa di tutto quello che facciamo ogni giorno. L’integrazione europea ha molti limiti, e ogni giorno rimproveriamo all’Unione qualcosa che non ha fatto. Ma quante cose ha fatto? Quanti risultati abbiamo ottenuto in questi decenni.

L’Europa è stata per un lungo periodo una terra di opportunità. Per tutti, a partire da coloro che non uscivano mai dalla loro città, perché ha portato fondi, diffuso libertà fondamentali, espanso la base dei diritti che ciascuno di noi aveva come cittadino nazionale del proprio Paese. Così come lo è stata per milioni di europei che hanno trovato in Europa la loro casa più grande. Tutti coloro che sono andati a studiare o lavorare in un altro Paese.

Per tanti anni è stato così. Poi nell’ultimo decennio è

cambiato tutto.

È arrivata la crisi, sono arrivati vincoli di bilancio e politiche di austerità e il racconto nazionale è diventato quello dell’Europa che non ti capisce, quello della terra che limita le opportunità. I giovani che vanno a scuola o all’università sono dieci anni che tutti i giorni subiscono questo martellamento. Che idea pensate si siano fatti dell’Europa? Ma se perdiamo loro alla causa europea, siamo finiti tutti.

Perché l’Europa?

Mi fanno ridere i sovranisti.

L’Europa perché è la condizione minima per poter sperare di continuare a decidere noi le regole “a casa nostra”.

Da soli siamo solo degli staterelli troppo piccoli per incidere. Secondo voi, un cinese come guarda alla lotta tra Catalogna e Spagna? La discussione sull’autonomia è fondamentale, ma va inquadrata nel mondo di oggi. Non possiamo pensare che in un mondo senza frontiere per i capitali e per i terroristi, gli unici che mettono delle barriere sono gli Stati e proprio sulle decisioni da prendere per governare questi fenomeni. Ma davvero abbiamo deciso che vogliamo perdere in partenza?

Ripensare i dogmi. La fisicità della politica. L’Europa. Sono queste le ragioni per cui abbiamo deciso di impegnarci in maniera radicale.

Per andare alla radice.

Perché battaglie nette e di avanguardia per assicurare opportunità ed emancipazione sono la storia radicale di questo Paese.

Perché la fisicità della politica è stato spesso ciò che ha consentito agli attivisti radicali di convincere sulla base dei propri argomenti, mettendoci la faccia come stiamo facendo adesso, incarnando le proprie idee.

Perché l’Europa è da sempre stato l’orizzonte minimo di

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coloro che si riconoscevano nella politica portata avanti dai radicali.

Ma lasciatemi aggiungere altre tre ragioni non meno importanti.

Perché i radicali potranno non stare simpatici a tutti, ma tutti riconoscono loro integrità e pulizia.

Perché studiano e si preparano, e continuano a farlo in un’Italia dove la mancanza di applicazione e di cultura sta diventando un valore, come se solo i vergini di tutto — coloro che non hanno mai fatto niente, coloro che non si son mai sporcati le mani — fossero gli unici degni di fare politica.

Per Emma Bonino. Che con gli anni più generazioni di italiani hanno imparato a stimare e rispettare, per aver dimostrato che non è vero che sono tutti uguali, che non è vero che uno vale uno, che non è vero che non si può fare diversamente, se tu per primo sei fatto diversamente.

Io ho avuto la fortuna di lavorare con Emma a più riprese. Mentre ieri ragionavo su questa giornata a Cinecittà, mi sono messo a pensare ad un istante con lei, ad un istante solo di questi anni in cui mi ha insegnato a non farmi sconti; e a non dare mai nulla per scontato.

È quasi mezzogiorno. 20 dicembre 2007. Siamo all’EUR, al Ministero del commercio internazionale, in un grande salone per gli auguri di Natale. Ci sono un po’ di panettoni e pandori sul tavolo, qualche bottiglia di spumante. Un centinaio di dipendenti.

Io me ne sto leggermente appartato e mi appresto a sentire cosa dirà il ministro. C’è tensione. Ci sono state riunioni difficili coi sindacati interni. I dipendenti del

ministero non sono necessariamente ben disposti.

Emma Bonino non parla tanto, ma dice questa cosa che mi si fissa nella testa e che non scorderò più.

“So che tra noi ci sono tanti disaccordi. E alla fine ognuno si assumerà le responsabilità che gli competono. Ma vorrei che di una cosa non dubitaste mai. Non esiste una agenda nascosta, non c’è un secondo fine. Potete non essere d’accordo con me, ma quello che dico, quello che faccio, lo dico e lo faccio solo perché lo credo profondamente.”

Quello che sto per dire potrà suonare paradossale, ma abbiamo deciso di fare politica perché crediamo profondamente nelle istituzioni.

Noi crediamo che le cose si cambino attraverso le istituzioni. Che le istituzioni siano ciò che permette al cambiamento di durare oltre quello che ciascuno di noi riesce a fare. Sono ciò che ci sopravvive. Per questo noi vogliamo impegnarci in politica. Perché vogliamo candidarci per entrare nelle istituzioni e da lì cambiare radicalmente le cose.

Queste istituzioni le abbiamo viste da vicino. Le abbiamo viste da dentro. E ci siamo vaccinati.

Che cosa intendo? Voglio dirlo oggi, molto chiaramente, qui davanti a voi.

Sappiamo che corriamo il pericolo di non riuscire ad aggregare abbastanza, di non riuscire a guadagnare sufficiente consenso. Ma sappiamo anche che questo è l’unico pericolo che corriamo. Siamo pronti a farcene una ragione.

Molti ci dicono: ma non starete rischiando troppo? Chi ve lo fa fare?

Ma io ribalto la domanda: se non siamo noi a farlo, chi lo farà?

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Diritti alle opportunità / Gli interventi

Non possiamo sempre aspettare che sia qualcun altro. Ci sono momenti nella vita in cui devi correre il rischio di lasciare andare le piccole sicurezze che hai meticolosamente accumulato fino a quel momento.

Alla metà degli anni ’60 dell’Ottocento, Andrew Carnegie si mette in testa di costruire il primo ponte in acciaio al mondo.

È un imprenditore visionario. L’acciaio è ancora un materiale poco usato. È terribilmente pesante. La ricerca scientifica lavora sull’acciaio per renderlo più leggero, ma solo un pazzo può immaginare di arrivare a costruire addirittura un ponte.

A Saint Louis. 2 km di ponte sul Mississipi.

Dopo studi, contro-studi, tentativi che non vanno, Carnegie riesce nell’impresa storica. Costruisce il primo ponte di acciaio della storia.

Solo che qualcosa non funziona. La gente di Saint Louis non utilizza il ponte. Non crede che il ponte reggerà. Non ha fiducia. E quindi non lo usa per attraversare il fiume.

Carnegie è disperato, non sa come fare. Visita alcune famiglie per convincerle. Mostra i dati, fa vedere cosa

dicono gli ingegneri. Per un po’ non riesce a pensare a niente. Poi gli torna in mente questa convinzione popolare sugli elefanti.

Gli elefanti sono animali estremamente cauti, intuiscono il pericolo e lo scampano sempre. Non corrono mai rischi.

Carnegie non sa se questa cosa sia vera o meno, ma sa che è sicuramente vera per gli abitanti di Saint Louis.

E cosa fa?

Prende un elefante al circo e lo mette all’inizio del ponte. L’elefante annusa, e poco dopo inizia a camminare. Si incammina sul ponte di acciaio.

Lo attraversa. E la gente di Saint Louis cammina dietro di lui. Supera le proprie paure. Si fida.

Abbiamo passato gli ultimi vent’anni a capire come fare nella vita qualcosa di importante come quello che aveva fatto Carnegie. Poi un giorno ci siamo fermati, ci siamo guardati dentro, e abbiamo deciso che dovevamo provare ad essere gli elefanti.

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Diritti alle opportunità / Gli interventi

Grazie a Movimenta per i rapporti e dialoghi che abbiamo avuto su questa vostra idea, o nostra idea, decideremo come la vogliamo definire.

È importante che ci si occupi di economia e lavoro. Temi di cui non sono esperta (…) ma che mi incuriosiscono e mi appassionano. Altri all’interno di Radicali Italiani hanno cercato in passato di forzarci l’interesse a questo tipo di temi e penso che abbiano incontrato qualche resistenza. Perché la storia di un’organizzazione politica si crea attorno a qualche DNA e fa un po’ difficoltà ad aprirsi a nuove cose.

(…)

Sono contenta di esserci per vedere un gruppo di gente che non conoscevo. Mi fa piacere e sono curiosa di capire cosa tirerete fuori non solo dalle analisi, che mi sembrano molto illuminanti, ma in termini di proposte. Non di sogni, di proposte. Perché sono capace anch’io a sognare, ma non funziona così. Funziona che ognuno deve avere in mente il proprio obiettivo e quali sono i passi – ed anche i compromessi – che uno deve fare in vista di quell’obiettivo.

Mi sembra di vedere l’inizio di una comunità di gente perbene – e va bene – ma anche di qualche competenza. Ognuno di voi viene da esperienze diverse e devo dire che non ho mai apprezzato coloro che sostengono che basti

essere nuovi per essere efficaci o che basti essere giovani per essere efficaci.

Essere giovani non è un impegno; capita nella vita. E il dramma di essere giovani è che dura pochissimo, passa a una velocita straordinaria e in più hai sùbito quello più giovane che pensa che tu sei vecchio. Insomma, una vitaccia. Allora è meglio se ci guardiamo come persone e per esempio proviamo a dirci che un po’ di competenza, capacità di studio, ed esperienza non sono un reato; aiutano. E poi, questa idea si applica in ogni mestiere; in politica pare di no. Una vera stranezza: meno sai, più sei nuovo, più va bene. Salvo scoprire che non va bene ma a quel punto nessuno vuole la responsabilità e se la prende con qualcun altro.

Pare vada fortissimo non sapere i congiuntivi; è un segno di innovazione. Sbagliare le capitali e le nazioni e i continenti è una cosa che vi assicuro essere molto apprezzata. Storpiare e non sapere l’inglese è segno di radici profonde. A parte queste bazzecole, ma senza chiamare in causa Anna Arendt e La banalità del male, badate che tutti questi piccoli episodi messi uno dopo l’altro fanno massa. E guardate che fanno massa e alla fine prospettano una classe dirigente non proprio brillantissima. E quando parlo di classe dirigente non parlo solo della classe politica che per lo meno ha il dovere di farsi eleggere e che “voi” avete eletto.

Parlo di una classe dirigente complessiva: media,

Il testo riporta alcuni dei passaggi principali del discorso tenuto a braccio da Emma Bonino.

Intervento di Emma Bonino *

La vostra responsabilità

*

2.4

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Diritti alle opportunità / Gli interventi

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imprenditori, università – parlo più in generale, insomma – e a volte ho l’impressione che non sia proprio all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte.quell’obiettivo.

Voi affrontate il tema del lavoro di cui, come ho detto, non sono espertissima ma curiosa di imparare. Anche sul lavoro vanno in giro idee contrastanti. Ad esempio, che la robotizzazione ci renderà schiavi o ucciderà il lavoro. Ed aspetto con curiosità il vostro percorso di approfondimento che sempre di più vorrei fosse in un contesto europeo. Perché la nostra dimensione “fortunata” è la dimensione europea.

Non perché tutto dipenda dall’Europa – in Italia ci sono problemi che abbiamo creato noi e dobbiamo risolvere noi. È stata una politica sciagurata degli anni ’80 e ’90 di cui voi e i vostri figli porteranno il peso. E così come le sovranità sono a vari livelli, anche le responsabilità sono a vari livelli, dal sindaco, alla regione, alla nazione, all’Europa, a cui dovremmo conferire non tutte le competenze – nell’accezione spinelliana – ma quelle che vale la pena fare: bilancio, politica estera, politica di difesa, politica commerciale e poco altro. Noi abbiamo aggiunto, per fortuna, almeno i diritti umani fondamentali con la Carta dei Diritti, pur nella difficoltà di applicarla. Un’aggiunta molto importante.

Per ora nessuno di noi ha pensato ai grandi Stati europei, che normalmente gestiscono il 50% del PIL, mentre l’UE gestisce l’1%. Tanto per dirne una, la burocrazia europea è composta di circa 35 mila funzionari. Roma con le municipalizzate ne fa 55 mila. Eppure questa storia dell’enorme macchina burocratica continua imperterrita ad andare avanti.

Questa “questione lavoro” – e il suo futuro – angoscia un po’ tutti. Ma il problema è che non è lo Stato che crea i posti di lavoro e quando l’ha fatto non è stato proprio il massimo. È la competizione che aiuta il miglioramento del servizio ai cittadini. Ma noi abbiamo ancora un Paese con dei settori di grande rilevanza elettorale protetti. Credo che vadano smantellati per rendere più efficienti ed adeguati agli interessi dei cittadini: i litorali della spiaggia si tramandano di padre in figlio o di mazzetta in mazzetta – se posso dire – tutti protetti.

In questa situazione cresce la differenza; pare che in Italia si sia fermata la mobilità della scala sociale. Si rimane – se va bene – a quello che i genitori ci hanno offerto. E questa mancanza di fiducia mette ansia. E forse per questo assistiamo a questo esodo di italiani che vanno a lavorare all’estero.

Fatemi fare una premessa: credo che un’esperienza fuori casa – possibilmente fuori Italia – sia importante.

C’è l’idea delle università decentrate e le lauree brevi e decentrate che hanno generato costi senza che guardassimo alla qualità dell’insegnamento. Anche se con il vantaggio di poter “tornare a pranzo a casa”.

Da qui l’importanza dell’Erasmus: te ne vai. Questo senso della famiglia non può essere familismo – dove la famiglia fornisce servizi. Senza la famiglia non si trova lavoro, non per merito o per demerito.

La protezione dei figli non può diventare – come a livello commerciale – protezionismo.

Dobbiamo essere capaci di offrire opportunità ed essere coscienti che il merito conta. Nel nostro Paese è di scarsa diffusione. Sono convinta che se riuscissimo a fare scelte meritocratiche migliorerebbe anche la condizione femminile. Ma il merito non è un tema centrale nel nostro

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Diritti alle opportunità / Gli interventi

Paese; e non aiuta. Non aiuta ad avere fiducia in se stessi, mettersi alla prova; perché uno pensa “già lo so come va a finire”. E questo ci ha fatto sedere un po’ tutti.

C’è un’altra divergenza che si crea: tra città e campagna nonostante siamo tutti connessi. Questo comincia ad essere un problema reale.

Infine, sui cambiamenti. Mi irrito abbastanza; perché ognuno di noi vuole sempre che cambi l’altro. Nessuno è disponibile: cambi prima l’altro e poi mi adeguo anche io.

L’altra dimensione che pare incida su questa ansia è la velocità. Anche nell’ambito lavorativo e non solo. Anche nell’ambito del piacere di incontrarsi, di vedersi. Oggi basta un tweet o un like; ed abbiamo risolto. Perdiamo il senso di una comunità reale.

Mi aveva molto colpita un incontro con un amico. Questo amico mi raccontava che suo padre faceva selle; poi è arrivata la macchina. Ma i tempi della diffusione dell’automobile sono stati lenti. Per cui il sellaio padre ha avuto il tempo di andare in pensione da sellaio; dicendo al figlio di fare il medico, peraltro. Ora questo tempo non c’è più e l’impatto della tecnologia avviene all’interno della stessa generazione.

Questo è difficile perché il tema è frastagliato e non c’è un deus ex machina che dà e garantisce lavoro.

Per concludere, sono molto interessata a quello che approfondirete dalle schede di questa giornata. Sono interessata perché dal confronto nascano delle proposte. Sono contenta perché questo tema del lavoro sarà presente nella Convenzione europeista che avrà dei panel che spero riprendano una parte delle vostre discussioni. E spero questo tema rientri anche all’interno del Congresso di Radicali Italiani,

perché io ritengo che accompagnare (o precedere) l’evoluzione, per saperla guidare meglio, sia una responsabilità importante della politica. Essere fuori tempo non produce grandi risultati in politica.

Negli anni ’80, Panella ricordava che il Mediterraneo non è un mare che ci separa ma un lago che ci unisce: e che se non ci occupavamo di Africa, l’Africa si sarebbe occupata di noi. Anche lì non aver saputo governare un problema ha consentito che bugie e stereotipi si impiantassero nel Paese.

Infine, lasciatemi parlare della vostra responsabilità: questa classe politica non la abbiamo per destino, ma perché l’abbiamo ripetutamente votata. Questa idea che basta essere nuovi non vuol dire nulla. Ognuno di noi ha una parte della responsabilità del ceto politico che si ritrova. So che mi stimate molto, ma so anche che non mi avete votata mai. Lo dico perché ognuno deve potersi dire “ho preso una cantonata”. Io le ultime elezioni ho avuto amiche che hanno votato M5S perché erano nuovi. Non hanno dimostrato grandi competenze ma ancora adesso la posizione più diffusa è che “ci sia un complotto”. Forse planetario, se no che complotto sarebbe?

Poi c’è chi si rifiuta e non va a votare perché “sono tutti uguali”; ma ci sono persone nel mondo che danno la vita per andare a votare. Badate che più si lascia vuota la politica più sarà riempita da “nuovisti”. E non è nella tecnologia che si deve esaurire la persona che è molteplice e fatta di forze e fragilità. L’incontro e la fisicità della politica sono una grande esperienza. Un colpo di giovinezza; incontrarsi con chi non si è mai visto né conosciuto e riuscire a trovare un terreno di dialogo o disaccordo è una bella e utile esperienza.

Io credo che unendo tutte le forze in una politica a viso aperto – che magari assume posizioni discutibili ma

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limpide trasparenti e dichiarate, specialmente in questa atmosfera ma non solo – impegnarsi nel mondo radicale sia un onore. Abbiamo una storia che ha attraversato la politica italiana senza discredito. Ma la politica vuol dire anche soldi e o lo si fa in modo trasparente o ci si arrangia. E quando ci si arrangia, non si è più liberi.

Spero che questa tessera radicale di cui sono orgogliosa sia motivo di orgoglio anche per voi. Non come tessera unica perché un partito non è una “chiesa” e la persona è molteplice. Io spero che associarvi ai radicali sia qualcosa di cui essere orgogliosi, come lo sono io. Di aver fatto parte di questo partito e – in parte – di offrirlo anche a voi.

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I brief per i gruppi di lavoro 2.5

I brief

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Diritti alle opportunità / I brief

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Lo scenario

L’effetto della tecnologia sul lavoro è sempre stato importante. Oggi però rischia di essere più veloce e dirompente rispetto al passato.

L’applicazione su vasta scala della tecnologia e del digitale mette pressione al ribasso sui salari di coloro che sono più agevolmente sostituibili dalle macchine. Fino ad ora erano soprattutto gli operai, in un prossimo futuro si stima che saranno sempre più anche gli impiegati su funzioni d’ufficio a rischiare di perdere il lavoro per l’avanzata delle nuove forme di capitale (robot, intelligenza artificiale, ecc.).

Non solo. La tecnologia sta anche modificando in profondità l’organizzazione del lavoro rendendolo sempre più “liquido” e parcellizzato. Ne vediamo già gli effetti nella cosiddetta gig-economy, ovvero l’economia dei piccoli lavori, discontinui, di breve durata, con poche garanzie e protezioni sociali, con orari di lavoro improbabili ed in alcuni casi con un obiettivo di durata 24 ore su 24 (come le macchine). Se non governiamo questa dinamica finiremo per rendere stabile questo precariato estremo e per considerare tutto ciò normale.

Questa evoluzione più recente si innesta, inoltre, su una situazione già difficile. Continua infatti, in Italia, ad esistere (ed espandersi) un sottobosco diffuso di lavoro poco tutelato e sfruttato: lavoratori autonomi con pochissime o zero tutele, partite IVA e contratti a progetto utilizzati per coprire funzioni essenziali per un’azienda, mille forme di lavoro non pagato o sottopagato con la scusa che si tratta di praticantato, gavetta, formazione di avvio di un qualche tipo. Per non parlare di quelle forme più drammatiche di lavoro illegale (caporalato, lavoro nero)

1. Basta lavoratori invisibili

2 su 1000 La stima di robot che ci sono attualmente rispetto ai lavoratori negli Stati Uniti. Il loro numero potrebbe quadruplicare entro il 2025, causando la perdita di un numero compreso tra 2 e 4,5 milioni di posti di lavoro.(Elaborazioni di Movimenta su Acemoglu e Restrepo, 2017)

7 euro È quanto viene pagato all’ora il fattorino di Amazon che alle 8 del mattino ci porta il libro che abbiamo comprato la sera prima.Uno steward di Ryanair viene pagato 8,30 euro/ora.(La Repubblica, 2 ottobre 2017)

13% È la percentuale della popolazione mondiale in età lavorativaoccupata secondo il modello del lavoro “on-demand” (lavoratori autonomi che svolgono prestazioni lavorative temporanee o a part-time o saltuarie legate alla cosiddetta gig-economy).(World Economic Forum, 2016)

77 I miliardi di euro di PIL irregolare all’anno prodotto dagli oltre 3 milioni di lavoratori in nero presenti in Italia (riguarda lavoratori dipendenti che fanno un secondo lavoro; cassaintegrati o pensionati che arrotondano le loro entrate mensili; disoccupati che in attesa di rientrare nel mercato ufficiale del lavoro vivono alla giornata con introiti frutto di attività irregolari).(Istat, 2016)

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2.065.220 Il numero di professionisti autonomi in Italia nel 2016. Sono il 9,1% degli occupati totali e il 38% dei lavoratori autonomi.(Acta, 2016)

24% È quanto guadagna in media un giovane professionista rispetto ad un collega che rientra nella fascia d’età 55-60. In valore assoluto, è un importo “molto basso per poter presumere una piena indipendenza economica”.(Adepp, 2016)

7% La percentuale di avvocati che in un anno incassano la metà dell’intero fatturato prodotto dalla categoria.Un quarto degli iscritti alla Cassa Forense ha dichiarato di percepire meno di 1000 euro al mese, da cui vanno dedotti spese e contributi.(Cassa Forense, 2016)

che sono ai limiti di una nuova forma di schiavitù.

È un problema centrale per la società italiana, per il tasso di fiducia, per le speranze di chi cerca lavoro e quindi una strada nella vita e vede davanti a sé solo un lungo periodo di mortificazioni; oppure di chi sarebbe magari anche tentato da un percorso meno sicuro, ma che non vede neppure un minimo di tutela a fronte dell’enorme rischio che corre nel mettersi in proprio. È questo sottobosco la zona grigia dove prima che altrove si è rotto il patto sociale.

Il problema si riflette negativamente non solo sui lavoratori ma anche sulle aziende che operano nella legalità e che credono nel costruire filiere e reti produttive e di creazione di valore sia offrendo tutele ai propri lavoratori sia stabilendo rapporti di lavoro e committenza corretti con altre aziende, con il settore pubblico, con gli stessi lavoratori autonomi. Un problema che aumenterà nei prossimi anni con il moltiplicarsi di “nuovi lavori” a cui il nostro sistema normativo non è pronto. È assolutamente intollerabile che nel Paese ci siano lavoratori invisibili. Se non interveniamo radicalmente, il loro numero potrà solo crescere.

La sfida

SE eliminiamo una volta per tutte questo sottobosco di sfruttamento ed illegalità che tiene la società, ancora prima che l’economia italiana, in una situazione di profondo disagio diffuso;

SE adattiamo gli schemi con cui vengono misurate competenze e prestazioni lavorative, definiti gli inquadramenti, fissati tariffe e compensi minimi ad indicatori più adeguati a garantire la qualità di vita delle persone;

SE irivediamo non solo i contratti di lavoro, ma le stesse modalità di classificazione dei lavoratori, provando a

mettere al centro le competenze al posto delle mansioni, le capacità al posto delle qualifiche;

ALLORA contribuiremo a creare le condizioni affinché il lavoro sia tutelato e retribuito sempre.

Tocca a noi

› Come rompiamo il circolo vizioso innescato dalla difficoltà di accesso al mercato del lavoro regolare, che produce la proliferazione del lavoro nero, bassi introiti, urgenza di generare introiti addizionali, profonde disuguaglianze sociali, e favoriamo la crescita del lavoro buono e dignitoso?

› Come possiamo fare sì che le imprese restino o diventino competitive senza fare leva sul costo del lavoro, anzi, valorizzando il capitale umano?

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› Come garantiamo i diritti, e l’accesso al welfare a tutti coloro che operano nella gig-economy con contratti a intermittenza e temporanei o con forme di lavoro subordinato mascherato da volontariato o da lavoro autonomo?

› Come possiamo valorizzare le competenze dei lavoratori, in un mercato del lavoro in cui i confini tra una professione e l’altra sono sempre più labili

e in cui le categorie di classificazione tradizionali non sono più adatte a descrivere la realtà?

Il prossimo passo

Che iniziativa politica possiamo immaginare su questo tema?

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Lo scenarioOggi è tutto più veloce e lo sviluppo tecnologico cambia la natura di molti lavori più volte nell’arco della vita lavorativa di ciascuno di noi, per cui nel giro di pochi anni quello che sappiamo fare non è più quello che serve per lavorare. Non dovremo stupirci se gli annunci di lavoro del futuro, oltre alle competenze tecniche, richiederanno abilità nel risolvere problemi, visione sistemica, capacità di lavoro di gruppo, gestione dei rapporti interpersonali, capacità critica e di delega, collaborazione, tolleranza allo stress, apprendimento continuo, capacità imprenditoriali e di relazione con altre culture – magari in altre lingue.

L’aggiornamento e l’accrescimento delle competenze individuali diventa quindi uno dei fattori fondamentali – probabilmente il fattore fondamentale – per darsi nuove opportunità in un sistema economico dove la trasformazione tecnologica sta velocemente sgretolando i modelli di business tradizionali, riorientando l’offerta di lavoro su un più alto livello di conoscenze trasversali e su capacità di adattamento a nuove tecniche produttive e gestionali. Ciò vale sia per le nuove generazioni che si affacciano ora sul mondo del lavoro ma anche per coloro che un impiego lo avevano e lo hanno perso, o lo hanno ancora ma potrebbero perderlo – spesso 40-50enni troppo lontani dalla pensione per pensare ad un’altra soluzione che non sia “un nuovo lavoro”.

Siamo chiamati a pensare e applicare nuovi percorsi formativi in grado di insegnare i mestieri del futuro e potenziare le cosiddette soft skill, quelle conoscenze sulle qualità personali, sulle capacità relazioni e interpersonali che assumono un ruolo nel nuovo mondo disegnato dalla tecnologia e in cui conterà sempre meno ciò che

2. Imparare per rimettersi in gioco

65% La percentuale dei bambini che oggi sono nella scuola dell’infanzia e che saranno occupati in mansioni non ancora esistenti.(Elaborazione World Economic Forum su McLeod, Scott e KarlFisch, Shift Happens, 2016)

13 milioni Il numero di italiani adulti che faticano a comprendere testi di matematica.(OCSE, 2017)

20% Gli italiani laureati tra i 25-34 anni. La media OCSE è il 30%.(OCSE, 2017)

7% Gli italiani tra i 25-64enni che hanno partecipato ad attività di formazione permanente, a fronte di una media europea dell’11%.(XVII Rapporto sulla Formazione Continua in Italia, 2016)

2% La percentuale delle persone con istruzione di base che faformazione, a conferma che la possibilità di essere coinvolti inattività formative diminuisce tra chi è poco istruito, ha superato i 45 anni di età e svolge un lavoro poco qualificato.(XVII Rapporto sulla Formazione Continua in Italia, 2016)

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sappiamo fare e sempre più come lo sappiamo fare.

Le nostre competenze oggi risultano spesso deboli, il che ci rende meno “occupabili” e meno capaci di partecipare nella società; ciononostante, pochi cercano la soluzione nella formazione. Non dobbiamo nasconderci che in Italia la formazione negli ultimi anni è stata vissuta non come un momento di crescita professionale utile per il futuro, ma – a seconda dei soggetti coinvolti – come un adempimento burocratico per avere accesso a sussidi o aumentare il proprio punteggio ad un concorso pubblico o bando; un utile momento di riposo dalla routine del lavoro; un business lautamente compensato, anche con fondi pubblici, minimizzando i costi di erogazione del servizio, con conseguente riduzione della qualità. In definitiva, pochi pensano che la formazione come fatta fino ad oggi sia stata utile per attrezzare le persone al mondo che cambia. Ciò non vuol dire però che la formazione non serva. Vuol dire che va ripensata radicalmente, ed anche allargata ad opportunità fuori dall’Italia per valorizzare uno scambio e un rafforzamento delle competenze per mettere le persone al pari del meglio che succede a livello globale. Inoltre, quando questa formazione avviene all’interno delle aziende, occorre che non ci si limiti a fornire conoscenze teoriche, ma si permetta ai lavoratori di sperimentare subito ciò che si è imparato partecipando attivamente nei processi aziendali, “sporcandosi le mani”. L’investimento in capitale umano non può essere lo slogan per i convegni del sabato e della domenica, ma una voce importante del bilancio delle aziende.

Accanto ai problemi relativi all’offerta di formazione per i lavoratori ce ne sono altri che riguardano invece la formazione dei datori di lavoro. Di frequente troppo coinvolti nell’operatività quotidiana, non trovano il tempo per alzare lo sguardo e pensare in un’ottica di medio periodo, identificando quali competenze specifiche sarebbero necessarie per far crescere la propria impresa, per migliorarne la produttività e la competitività.

La sfidaSE riattiviamo l’offerta di formazione post-universitaria, rivedendone fortemente le finalità, la qualità, gli strumenti e la capacità di individuare e colmare velocemente le mancanze;

SE incentiviamo le imprese a valorizzare le competenze delle persone che assumono, a creare contesti di reale innovazione al loro interno e non ragionare solo in funzione di meri incentivi all’assunzione, in un’ottica prevalentemente di contenimento dei costi e non di investimento sulle competenze e su una cultura del capitale umano “dalla selezione alla formazione”;

SE indirizziamo più investimenti in formazione, invece di generici sussidi, per giunta transitori, per le assunzioni che alimentano comportamenti opportunistici e di breve periodo da parte delle imprese;

SE manterremo le competenze dei lavoratori al passo con i tempi e valorizzeremo il capitale umano delle aziende al servizio dell’attività di impresa.

ALLORA manterremo le competenze dei lavoratori al passo con i tempi e valorizzeremo il capitale umano delle aziende al servizio dell’attività di impresa.

Meno di 1 su 5 Le imprese che hanno investito in formazione nel 2015,diminuite del 2,3% rispetto al 2014.(XVII Rapporto sulla Formazione Continua in Italia, 2016)

Ultimo L’Italia è l’unico Paese G7 a impiegare la maggior parte dei suoi laureati in occupazioni ripetitive, mentre negli altri Paesii laureati che svolgono lavori routinari sono una piccola minoranza.(OCSE, 2017)

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Tocca a noi › Come fare in modo che cambi la percezione

rispetto alla formazione e venga intesa come chiave per costruirsi un futuro? Come assicurarsi che tutti comprendano che senza solide competenze e capacità di adattarsi alle trasformazioni il rischio è di ritrovarsi senza un proprio posto al mondo?

› Come sviluppare le competenze rilevanti di cui avremo bisogno? In che modo possono collaborare enti statali, attori transnazionali ed imprese private per mettere a punto programmi di formazione non burocratici, realmente utili e coinvolgenti per i lavoratori o per i giovani che il lavoro lo cercano? Che ruolo possono avere i vari laboratori urbani di innovazione, dagli spazi di co-working ai fab-labs per i makers, nel processo di trasformazione della formazione professionale? In generale, come ripensare la formazione professionale?

› Come concretamente dobbiamo procedere per ridare centralità alla formazione – incluse le opportunità fuori dall’Italia – quale elemento costitutivo del bagaglio professionale dei singoli individui? Come fare per migliorare la corrispondenza tra studi e lavoro e tra la qualità delle competenze maturate e gli stipendi?

› Come permettere alle imprese di utilizzare in modo più efficace le competenze dei propri dipendenti? Come incentivarle ad investire sulle competenze del proprio “capitale umano” in un’ottica di lungo periodo?

Il prossimo passoChe iniziativa politica possiamo immaginare su questo tema?

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Lo scenarioLa tassazione del capitale è stata storicamente considerata dalla dottrina economica un’azione non efficiente perché riduce la possibilità che lo stesso sia investito o reinvestito nell’attività di impresa, frenando così crescita e opportunità di occupazione. In altre parole, la teoria sostiene che il capitale a disposizione del sistema economico deve essere sfruttato integralmente perché contribuisca ad aumentare il prodotto interno lordo e in ultima istanza il benessere di tutti noi.

Ci troviamo però in un’epoca dove l’applicazione delle tecnologie ai processi aziendali sta producendo una sensibile riduzione del lavoro, soprattutto per i lavoratori non altamente qualificati, che sarà solo parzialmente compensata dalla nascita di nuove opportunità, e comunque a condizione che i processi di trasformazione digitale propri della rivoluzione industriale 4.0 dispieghino appieno tutto il loro potenziale. La quota di valore aggiunto che rimane nelle tasche dei lavoratori si sta riducendo, mentre un numero sempre maggiore di aziende accumula profitti record che molto spesso non reinveste in nuove attività economiche né distribuisce ai propri azionisti, causando un accumulo di capitale inutilizzato. Questo meccanismo sta provocando un aumento della disuguaglianza, peggiorando le condizioni di vita di vasti strati della popolazione. E probabilmente contribuisce anche alla stagnazione dell’economia in generale.

Vanno pertanto studiati correttivi per trovare un nuovo equilibrio tra la tassazione del capitale e degli altri fattori di produzione, tra i quali il lavoro, che permettano di ridurre gli effetti distorsivi dell’attuale quadro e conducano verso una crescita più sostenibile. A

maggior ragione in un ecosistema dove il possesso dei dati, troppo spesso inconsapevolmente ceduti dai singoli cittadini a piattaforme sempre più diffuse, sta diventando l’elemento immateriale vincente, il principale “nuovo latifondo”, capace di generare grandissimi profitti concentrati in pochissime mani e con la forza crescente di costruire barriere che riducono la competizione.

3. Redistribuire le rendite dei nuovi latifondi

59% È la percentuale di ricchezza prodotta negli Stati Unitiredistribuita ai lavoratori tramite la loro remunerazione. Trent’anni fa era al 65%. Nello stesso periodo, la remunerazione del capitale è scesa dal 24% al 17%, mentre la quota rappresentata dai profitti aziendali è salita dal 2% al 16%.(Barkai, Declining Labor and Capital Shares, 2016)

45 È il numero di volte in cui il flusso internazionale di dati tramite banda larga è aumentato tra il 2005 e il 2016.Nello stesso periodo il volume degli scambi di merci fisiche è rimasto all’incirca allo stesso livello.(McKinsey Global Institute, 2016)

4500 Sono le riserve di denaro liquido, in miliardi di dollari, detenute dalle principali imprese mondiali. È una somma pari al doppio del PIL italiano.Per le imprese europee, la quota è di circa 800 miliardi di dollari.(UNCTAD, 2014 e Moody’s, 2015)

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Profitti che, peraltro, attualmente sfuggono ad una giusta tassazione causa di complesse architetture fiscali che permettono di sfruttare le diverse aliquote di tassazione tra i vari Paesi.

La sfidaSE attraverso la rimodulazione della tassazione sul capitale troveremo nuove risorse per combattere le disuguaglianze, senza deprimere l’innovazione;

SE in ambito europeo riusciremo a armonizzare i sistemi fiscali in modo da impedire operazioni di arbitraggio delle multinazionali, oggi favorito dall’immaterialità di molti dei servizi che vengono venduti globalmente;

SE creeremo un sistema di regole per impedire che i dati diventino un fattore produttivo essenziale nelle mani di pochi attori capaci di conquistare – e mantenere – una posizione dominante sul mercato;

SE a livello nazionale ed europeo promuoveremo una cultura della rete – soprattutto tra le classi più vulnerabili e anagraficamente più esposte – con l’obiettivo di proteggere i dati sensibili e consentire un uso più consapevole delle piattaforme e dei canali che utilizzano dati per generare profitto;

ALLORA contribuiremo a riequilibrare la distribuzione della ricchezza e del potere di mercato tra lavoro e

capitale, mobilitando risorse che alimentino le tutele previdenziali e liberino investimenti per la creazione di nuove opportunità.

Tocca a noi › Quali forme di capitale oggi sono poco o

scarsamente tassate e quali dovrebbero esserlo?

› Come tassare diverse forme di capitale in un contesto di mercati aperti in cui la fuga verso lidi migliori è sempre dietro l’angolo?

› La cosiddetta “web-tax” attualmente in discussione nel contesto europeo è una risposta sufficiente?

› Chi dovrebbe essere il titolare di diritti sui dati che riguardano le persone fisiche, siano esse cittadini, consumatori, utenti, lavoratori, ecc.?

› Come evitiamo che il dominio su immensi database, elaborati da sistemi sempre più intelligenti, si trasformi in nuove forme di monopolio?

Il prossimo passoChe iniziativa politica possiamo immaginare su questo tema?

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Lo scenarioIl sistema finanziario italiano è arretrato, asfittico e poco trasparente.

In Italia, fino ad oggi, non si è adeguatamente sviluppato un mercato dei capitali per l’impresa che, per capacità di visione e per disponibilità di risorse, sia in grado di aiutare a sviluppare idee innovative e di dare impulso al consolidamento delle aziende più dinamiche e aperte all’internazionalizzazione. Questo è accaduto perché tutto gravita intorno ad un sistema bancario inefficiente, dove la relazione tra istituti di credito, politica e ristretti gruppi di imprenditori porta a privilegiare la cultura del “solito noto”, invece che a sostenere soggetti con idee imprenditoriali innovative e potenzialmente vincenti ma poco codificabili.

Nel nostro Paese, inoltre, non hanno ancora trovato molto spazio forme alternative di finanziamento alle imprese quali i fondi di venture capital, i fondi di private equity, i minibond e altri strumenti più sofisticati, in parte per la presenza oligopolistica delle banche, ma in parte anche per le inefficienze del sistema Paese e per la resistenza di molti imprenditori di introdurre regole di governance più aperte.

In tale contesto non c’è da stupirsi se in Italia le start-up faticano a nascere, ma soprattutto a crescere. Non ci mancano le idee e neppure i talenti, ma purtroppo ci mancano operatori finanziari specializzati che non solo finanzino, ma consiglino e guidino gli imprenditori – di antica o prima generazione – nella strada verso la crescita.

La foresta pietrificata del settore finanziario potrebbe però

4. Le banche chiudono presto

27,3% È la capitalizzazione, in percentuale del PIL, delle imprese italiane quotate in borsa.La Spagna è al 72,2%, la Francia al 73,2%, la Germania al 44,8%.(Banca Mondiale, 2014)

12,2% È Il valore, in percentuale del PIL, dell’emissione di obbligazioni in Italia tra il 2011 e il 2015.È stato del 18,2% in Spagna, del 30,8% in Germania, del 36,7% in Francia.(World Economic Forum, 2017)

2 su 100 Sono le Piccole e Medie Imprese disposte a prendere in considerazione apporti di capitali alla propria impresa tramite il finanziamento di investitori esterni(equity financing).È il numero più basso in Europa. In Germania sono 13 su 100, in Francia 21 su 100.(Eurostat, 2016)

47% Sono, in media, i membri dei consigli di amministrazione delle fondazioni bancarie nominati da politici locali.(Mediobanca, 2012)

51 Sono i milioni di dollari investiti come capitale di rischio in nuove imprese (venture capital) in Italia nel 2015.Erano 758 milioni in Francia, e 174 milioni in Spagna.(OCSE, 2017)

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essere rivitalizzata dal forte impatto che l’applicazione della tecnologia digitale avrà sui sistemi di pagamento e

sull’accesso a capitali freschi attraverso piattaforme di crowdfunding o di credito peer-to-peer.

Il fintech promette di avviare una forte disintermediazione del sistema bancario, e potrebbe aiutarci a risolvere alcuni dei limiti del sistema “relazionale” di oggi, anche se porrà nuovi problemi in termini di privacy, sicurezza ed affidabilità. Dobbiamo assicurarci che la finanza del futuro crei più opportunità di quella presente; dobbiamo sfruttare i cambiamenti rappresentati dalle nuove tecnologie applicate ai sistemi finanziari; dobbiamo fare in modo che la disintermediazione che viene portata dalle varie iniziative fintech conduca verso un sistema più efficiente e utile alla crescita delle imprese.

La sfidaSE scardiniamo il capitalismo di relazione basato sui legami personali tra banche e imprese (e politica);

SE incanaliamo la ricchezza italiana verso operatori e strumenti finanziari alternativi a quelli delle banche e più adatti e sostenere lo sviluppo delle imprese;

SE prepariamo gli imprenditori italiani all’uso di strumenti finanziari più innovativi, puntando anche sul fintech;

SE favoriamo un ambiente f SE avorevole alle start-up e a chi investe su di loro;

ALLORA contribuiremo a un settore finanziario più aperto a sostenere le aziende più dinamiche e le idee più innovative e in generale allo sviluppo del sistema imprenditoriale italiano.

Tocca a noi › Come vivono quotidianamente gli imprenditori e gli

innovatori il loro rapporto con l’accesso al credito?

› Il sistema bancario è oggi ancora sotto il controllo della politica e dei potentati locali tramite il sistema delle fondazioni bancarie o crisi e le ultime riforme sono riuscite a cambiare questo stato di cose?

› Come spostare il risparmio degli italiani verso strumenti e intermediari che sono più adatti a finanziare idee innovative e a sostenere la crescita e la patrimonializzazione delle imprese?

› Come aumentiamo la consapevolezza tra le famiglie e gli imprenditori italiani sul ruolo della finanza e dei diversi strumenti di investimento a disposizione, e come accompagniamo questo processo anche culturale?

› Come sostenere gli investimenti nelle nuove imprese, in particolare quelle più innovative?

Il prossimo passoChe iniziativa politica possiamo immaginare su questo tema?

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Lo scenarioLa produttività e il potenziale di espansione delle imprese italiane è largamente al di sotto del livello a cui un Paese come l’Italia potrebbe ambire. Se è vero che vi sono fattori ambientali, dall’inefficienza e dal peso fiscale dello Stato all’arretratezza del sistema finanziario, che ostacolano il processo di crescita e la dinamicità delle imprese, vi sono fattori anche interni alle aziende e relativi soprattutto alla loro gestione e alla selezione dei loro manager. Si tratta di aspetti troppo spesso tralasciati dal dibattito politico anche per una certa ritrosia della classe imprenditoriale italiana ad affrontare il problema, ma che numerosi studi identificano come uno dei principali problemi del sistema economico italiano.

L’impresa in Italia è stata spesso, anzitutto, un “affare di famiglia”, in parte per orgoglio e tradizione, ma in parte anche per la percezione degli imprenditori di essere poco sostenuti da parte degli attori istituzionali, dal sistema bancario e più in generale da chiunque fosse al di fuori del proprio gruppo ristretto. L’instabilità del quadro regolamentare, la scarsa trasparenza di molti contesti

5. Le imprese non sono affari di famiglia

47% La percentuale delle aziende familiari italiane con fatturato superiori ai 20 milioni di euro il cui leader ha più di 60 anni. In quasi la metà di esse (23% del totale) ha più di 70 anni, mentre solo in 5 aziende su 100 ha meno di 40 anni.Le aziende gestite dai più anziani registrano un indice di rendimento inferiore di 0,8-1,2 punti rispetto alla media e quelle gestite dai più giovani hanno un risultato migliore di 1,9-2 punti.(Osservatorio AUB, 2015)

56% La percentuale delle imprese italiane il cui management è interamente composto da membri della famiglia proprietaria.Sono infatti familiari l’85% delle imprese italiane con obbligo di registrazione di bilancio. Nel 66% di esse il management è riservato a membri della famiglia; corrisponde a più del doppio di Francia e Germania e a sei volte in più del Regno Unito.(Aidaf, 2014)

30% La percentuale di aziende familiari italiane che sopravvive al fondatore.Solo il 13% arriva alla terza generazione.(Osservatorio AUB, 2016)

5% La crescita della produttività dell’economia italiana nell’ultimo ventennio.È stata del 40% negli Stati Uniti, de 30% in Francia, Regno Unito e Germania, del 25% in Portogallo e del 15% in Spagna.(Eurostat, 2016)

Impresa Dipendenti Fatturato

Micro

Piccola

Media

< 10

< 50

< 250

< 2 milioni

< 10 milioni

< 50 milioni

Parametri per definire le Piccole e Medie Imprese secondo la Commissione europea

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competitivi, la necessità di intrattenere forti relazioni interpersonali – a volte, purtroppo, di natura clientelare – per poter svolgere la propria attività, sono tutti aspetti che hanno accentuato la centralità dell’imprenditore e della propria famiglia nella conduzione del business e, di conseguenza, la bassa propensione a delegare ad un manager esterno la gestione o ad attrarre soci per il rafforzamento patrimoniale. È questa la storia di una parte significativa di imprese famigliari di piccola e media taglia – dai 10-15 milioni in su di euro di fatturato annuo – che sono riuscite a fare un passo ma non il salto di scala e oggi faticano a tenere il passo.

Per decenni, la sovrapposizione fra impresa e relazione familiare/personale non ha necessariamente ostacolato la crescita complessiva del sistema, in un contesto in cui i mercati erano più localizzati e informali, meno competitivi, e in cui la disponibilità di risorse – e sprechi – era ben maggiore. Oggi, tuttavia, in un mondo molto più complesso e competitivo, dove non esistono barriere, il mancato aggiornamento del modello imprenditoriale italiano costituisce un impedimento serio alla costruzione di opportunità, per le imprese e per i lavoratori.

L’Italia ha bisogno di aziende gestite da più professionisti con sguardo globale, di più giovani formatisi nel mondo e meno figli restati sempre a casa. Aziende nelle quali la famiglia gioca un ruolo chiave nella tutela del patrimonio aziendale sono, e possono restare, quindi, la chiave di volta dell’economia, ma devono assicurarsi che a guidare le decisioni siano gli obiettivi di impresa e non gli equilibri e le relazioni familiari. Specialmente in un Paese fatto di tante piccole e medie imprese che, pur essendo cresciute e rappresentando realtà importanti, restano a bassa produttività, è importante che gli imprenditori scelgano la crescita aziendale – che per l’ulteriore passaggio di scala non possono realizzare con le strategie e prassi che hanno usato per crescere al punto in cui sono – superando la paura di perdere il controllo. La governance di un’impresa di 10, 20 o 50 milioni deve diventare più

capace di quanto non lo sia oggi di risolvere conflitti di interesse e tensioni, affidando quindi la direzione ai più competenti e non necessariamente continuando col parente più prossimo, se quest’ultimo non può vantare, oltre alla “fiducia naturale” della proprietà anche una preparazione adeguata maturata in contesti anche esteri.

Questa evoluzione indispensabile chiaramente non si improvvisa. C’è bisogno di un lavoro di forte accompagnamento – culturale e rispetto agli strumenti in campo – nei confronti degli imprenditori, affinché tutto ciò venga visto non come una minaccia ma come una opportunità, in primis per loro.

Un approccio diverso alla gestione delle aziende familiari di piccole e medie dimensioni che, pur riconoscendone lo spirito e i valori tradizionali che ne costituiscono la forza principale, accetti le realtà del mercato, migliorerà la performance con un effetto positivo a catena sul mercato del lavoro, sulle comunità circostanti – anche territoriali di riferimento delle singole aziende – e quindi sulla costruzione di opportunità di lavoro.

Senza trascurare che queste nuove aziende diventerebbero anche un modello per tante micro imprese che risentono in misura più diretta e forte della ritrosia delle banche nel concedere finanziamenti se non a fronte di garanzie extra rispetto ai risultati economici, o dei ritardi nei pagamenti da parte della PA o di aziende più grandi, per le quali la decisione familiare è spesso un trade-off tra sopravvivere o crescere, e in cui l’aggregazione per rete può rappresentare un primo passo verso la managerializzazione della gestione comune.

La sfida

SE si rinnova la classe dirigente delle imprese sulla base delle competenze;

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SE si spingono le aziende familiari di medie dimensioni ad aprire l’azionariato a investitori esterni o ad altre aziende con cui fare fusioni o partenariati di vario tipo per consolidarsi e crescere; se l’aggregazione in rete di micro imprese diventa un meccanismo di professionalizzazione e managerializzazione assente prima;

SE si sviluppa un percorso di accompagnamento e affiancamento anche culturale agli imprenditori;

SE si valorizzano giovani professionalità cresciute anche grazie ad esperienze all’estero;

SE il ruolo dei proprietari resta soprattutto volto a valorizzare il legame con il territorio e le comunità di riferimento per mettere in risalto il ruolo di ispirazione che imprese di tradizione possono avere come “cittadino corporate”, ma non impedisce che gli incarichi di guida dell’azienda vadano alle migliori figure capaci di assicurare la crescita sul mercato;

ALLORA più aziende cresceranno realizzando pienamente il proprio potenziale sul mercato, aumentando la propria produttività e creando opportunità migliori per le comunità in cui operano.

Tocca a noi

› Come vivono quotidianamente gli imprenditori di

aziende familiari il loro rapporto con la possibilità di una maggiore managerializzazione? Quali dinamiche caratterizzano le aziende micro rispetto a quelle medie di 20-30 milioni di fatturato?

› Il forte affidamento delle aziende familiari italiane verso il mantenimento di una direzione famigliare a tutti i costi è una questione di cultura aziendale o ci sono questioni legate alla struttura legislativa/del mercato del lavoro?

› Come si può arrivare a gestire al meglio il passaggio generazionale tenendo in considerazione gli asset aziendali (patrimonio), l’armonia (famiglia) e la meritocrazia (azienda)?

› Come aiutare questa colonna portante dell’economia italiana a trovare il modo di trasferire la cultura imprenditoriale in un mondo che non è più quello del fondatore?

› Come far sì che le grandi aziende familiari italiane di successo portino il giusto messaggio a quelle medie e le aiutino nel loro percorso di evoluzione?

Il prossimo passo

Che iniziativa politica possiamo immaginare su questo tema?

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Lo scenarioIn Italia, più che altrove, la disuguaglianza comincia tra le aziende. L’incapacità di chiudere il differenziale di produttività tra le aziende, facilitando così l’espansione delle migliori realtà imprenditoriali esistenti, siano esse nuove aziende innovative o aziende leader mature, rimane un limite alla creazione di opportunità di lavoro offerte dal settore privato. Tale differenziale si riflette anche nelle condizioni lavorative offerte ai propri impiegati, e alimenta la disuguaglianza sociale, poiché nelle aziende più produttive gli stipendi sono più alti che nelle altre.

Con la stessa parola “impresa” ci riferiamo in Italia a realtà molto diverse tra loro: da un lato ci sono aziende leader mondiali che hanno saputo coniugare in formule vincenti il Made in Italy con innovazione, produttività e scala; dall’altro tantissime altre che sono rimaste indietro, inerti e spesso decotte, che fanno stagnare il Paese e non permettono una crescita umana e professionale dei propri lavoratori. Tra questi due estremi ci sono tante imprese sane che sono nate da brillanti intuizioni dei loro fondatori, che hanno saputo cogliere e sfruttare le eccellenze del proprio territorio (agricoltura, cibo, moda, meccanica, etc.), ma che non riescono a fare il salto nella competizione globale.

Nella stragrande maggioranza dei casi, e in tutti i Paesi avanzati, le aziende più produttive sono più grandi delle altre, investono di più in ricerca e sviluppo, coltivano maggiormente collaborazioni con le università. Sono anche aziende più aperte al commercio internazionale, e riescono a sfruttare a pieno collaborazioni con fornitori su scala globale acquisendo e trasmettendo le migliori competenze mondiali.

6. La disuguaglianza nasce tra le aziende

1 su 2 È il numero di dipendenti in Italia che lavora in un’azienda con meno di 10 dipendenti.In Germania è 1 su 5. In Francia 1 su 3.(OCSE, 2016)

2x È il contributo al PIL di un dipendente in una grande impresa (oltre 250 dipendenti) rispetto a uno di una micro impresa (da 1 a 9 dipendenti).È anche il rapporto tra lo stipendio medio nel settore manifatturiero tra un dipendente di una grande azienda (€ 37.100) e quello di una micro (€ 18.900).(Elaborazioni su dati OCSE, 2017)

9 Le imprese italiane tra le 500 aziende più grandi al mondo per fatturato.Sono 29 in Francia e 28 in Germania.(Fortune, 2017)

82,5% La percentuale di grandi imprese che hanno introdotto innovazioni di prodotto-servizio nell’arco di un triennio.Il dato scende a 49,3% tra le piccole imprese.(Istat, 2015)

5 I miliardi di dollari investiti in start-up da altre imprese inEuropa nel 2016.(CB Insights, 2017)

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In genere, i campioni nazionali fungono da testa di ponte per importare nuove pratiche di management e processi innovativi all’interno del paese. La sfida è poi garantire che queste novità vengano introdotte il più possibile rapidamente e con continuità all’interno delle filiere, promuovendo lo sviluppo, la competitività, la produttività, e quindi un aumento complessivo dei salari nell’intero Paese.

In Italia questo accade molto poco. Non perché ci manchino campioni nazionali, ma perché essi stessi, pur essendo mediamente più grandi del resto della filiera, ne rappresentano una porzione troppo piccola per fungere da traino dell’intero sistema. È un problema che ha a che fare con tanti aspetti diversi: da leggi fallimentari penalizzanti che impediscono alle realtà in difficoltà di uscire dal mercato o essere assorbite da quelle più dinamiche, fino alla scarsa propensione delle imprese migliori a pensare in una logica sistemica e a investire in altre aziende promettenti, siano esse mature o start-up.

La sfidaSE spingiamo sull’acceleratore dell’innovazione e della diffusione tecnologica tra aziende, affinché nessuna con potenzialità (ancorché non del tutto consolidata) “resti indietro” e abbia la possibilità di aumentare la propria produttività e la qualità di ciò che produce;

SE smettiamo di tenere in vita artificialmente imprese che sono palesemente fuori mercato e in alcuni casi con i propri comportamenti (compreso nei rapporti con la PA o con i propri dipendenti) distorcono la concorrenza danneggiando le imprese sane, focalizzandoci invece sul facilitare il reimpiego dei lavoratori che perderebbero il proprio lavoro;

SE incoraggiamo forme di aggregazione che premino innovazione e produttività e non danneggino la concorrenza;

SE facilitiamo il raccordo tra grandi e piccole imprese per generare diffusione di conoscenza e innovazione e creare “nuove filiere”;

SE eleviamo start-up e settori ad alta tecnologia a piattaforma di innovazione per tutto il Paese;

SE lavoriamo affinché le esperienze imprenditoriali fallimentari si chiudano senza stigmi e gli imprenditori si possano dedicare al progetto successivo;

ALLORA creeremo imprese mediamente più produttive, innovative, resilienti ed adatte alla natura dei mercati attuali, capaci di generare più occupazione e lavoro di maggiore qualità.

Tocca a noi › Come facilitare il trasferimento di conoscenza e

innovazione dalle aziende più dinamiche alle altre?

› Cosa frena i piccoli imprenditori italiani di successo dal fare il salto di categoria ed espandere le proprie attività? E cosa impedisce ai nostri campioni nazionali di trasformarsi da imprese grandi in veri attori globali?

› Cosa si può fare per superare lo stigma tutto italiano associato ad un imprenditore che ha tentato qualcosa e ha fallito?

› Come decidere quali aziende sono davvero strategiche per il futuro del Paese e meritevoli di maggiori tutele?

Il prossimo passoChe iniziativa politica possiamo immaginare su questo tema?

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Lo scenarioQuasi un quarto degli italiani è oggi a rischio di povertà ed esclusione sociale. Un fenomeno purtroppo non nuovo ma che è peggiorato negli anni della crisi e che potrebbe aggravarsi ulteriormente per effetto dell’impatto della tecnologia sull’occupazione e sui nuovi modelli di lavoro (gig-economy, lavoro on demand, e altro) che rendono il lavoro intermittente, mal pagato e senza reali prospettive di stabilità.

I più colpiti saranno giovani che, oltre a non avere la possibilità di sfruttare nuove opportunità di lavoro, rimangono scoperti dal lato della protezione sociale e della previdenza. I dati ISTAT degli ultimi mesi descrivono una situazione insostenibile: la povertà assoluta aumenta in particolare tra i giovani di 18-34 anni, attestandosi al 10%.

Non sorprende che in tale contesto l’Italia abbia anche un tasso di fertilità tra i più bassi di Europa, con tutte le conseguenze economico-sociali che derivano dal calo demografico.

Tutto ciò rende indifferibili interventi di modifica del sistema del welfare, attraverso politiche di redistribuzione delle risorse con l’obiettivo di ridurre sensibilmente la povertà e il disagio sociale. Su come agire c’è da anni un vivace dibattito che però non ha prodotto azioni coordinate e sistemiche, ma solo estemporanei interventi legislativi sulla spinta di situazioni emergenziali o emotive. Ci si scontra sulla misura delle singole prestazioni ma non, più in generale, sulla scelta di garantire una protezione universalistica o una protezione “mirata” basata sulle necessità di una fascia più debole di popolazione – e sugli effetti di “giustizia” (è giusto dare il beneficio a chi

è abbiente?) e di “distorsione” (come fissare una soglia che eviti che chi sta appena sopra e non beneficia del sostegno si ritrovi peggio di chi sta appena sotto e ne beneficia?) che i due schemi si portano dietro.

Le possibilità offerte dalle tecnologie digitali di raccogliere e catalogare enormi quantità di dati sui contribuenti aprono inoltre la strada a un più efficace indirizzo del supporto pubblico verso fasce specifiche della popolazione, e a una misurazione accurata dell’impatto dell’intervento statale. È questo un altro elemento che costringe a ripensare il modo in cui il nostro welfare è organizzato.

Radicali Italiani stanno preparando una legge di iniziativa popolare che si prefigge la quasi totale eliminazione della povertà assoluta e la riduzione di quella

7. Aiutare le transazioni sul lavoro

8 su 100 Il numero di italiani che nel 2016 vivevano in condizioni di povertà assoluta. Si tratta di 4,7 milioni di persone.(Istat, 2016)

Over-65 È l’unica fascia di età in cui la povertà assoluta è diminuita nell’ultimo anno.La situazione peggiora per tutte le altre fasce: il 10,4% delle persone 18-34 anni è povero (10,2% nel 2015); l’8,9% di quelli di età 34-44 (8,1% nel 2015); il 7,6% di età 45-54 (7,5% nel 2015), il 5,2% di colo di 55-64 anni (5,1% nel 2015). Per gli over-65 è al 3,9% (4.0% nel 2015).(Istat, 2016)

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relativa attraverso l’introduzione di una misura strutturale di reddito minimo d’inserimento e la riforma di altre misure di protezione sociale. Il sostegno sarà concentrato soprattutto sui più poveri e sulle situazioni di maggiore fragilità economica, in particolare le famiglie con minori dove un assegno sostituirà le attuali detrazioni, e il nuovo reddito minimo d’inserimento sostituirà la lunga serie di sussidi e detrazioni a sostegno del reddito attualmente esistenti. Al fine di ottenere il reddito minimo d’inclusione, ogni nucleo familiare dovrà concordare con i centri per l’impiego un progetto d’inclusione personalizzato che prevedrà la ricerca attiva di un impiego per i membri adulti del nucleo familiare e il rispetto dell’obbligo scolastico per i minori.

Allo stesso modo, un assegno per persone non autosufficienti e una nuova pensione per invalidi civili

sostituiranno i molteplici interventi di sostegno (pensioni, assegni) presenti oggi con l’obiettivo di diminuire la sperequazione e di aumentare l’efficacia degli aiuti.

In base ai calcoli dei proponenti il riordino delle prestazioni sociali garantirebbe il quasi integrale finanziamento del reddito minimo di inclusione, con un costo di 5 miliardi di euro.

Si tratta di una proposta complessiva su contrasto alla povertà e riforma del welfare che ha evidenti implicazioni sul futuro del lavoro e sull’impatto che, sempre più, tecnologie e innovazione avranno sui percorsi lavorativi. La proposta rappresenta, infatti, anche uno strumento per rispondere alla domanda di sostegno e accompagnamento delle transizioni sul lavoro per tutti coloro che si ritroveranno per un periodo senza più occupazione, in attesa della successiva, cosa che

Germania

Francia

Spagna

Italia

Regno Unito

11%

5%

8%

6%

10%

4%

11%

6%

6%

2%

(Eurostat, 2017 — dati riferiti al 2014)

Suddivisione della spesa in welfare tra le voci principali

Sostegno

alle famiglie

e all’infanziaSostegno ai

disoccupati

43%

33%

35%

29%

37%

Sanità e

sostegno ai

disabili

39%

49%

46%

58%

43%

Pensioni di

vecchiaia e

reversibilità

3%

2%

5%

1%

8%

Sostegno per

la casa e lotta

all’esclusione

sociale

24,40%

23,50%

30,39%

25,29%

26,18%

Spesa netta in

welfare, % del

PIL

86,65%

85,19%

87,89%

91,93%

87,01%

Quota di

spesa su base

universalistica

13,35%

14,77%

12,11%

8,07%

12,99%

Quota di spesa

indirizzata

esclusivamente

ai più poveri

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probabilmente accadrà più volte nel corso della vita per un numero sempre maggiore di persone.

La sfidaSE riusciremo a bilanciare il bisogno di contrasto alla povertà con il mantenimento dei giusti incentivi per la partecipazione al mercato del lavoro;

SE riusciremo a sviluppare un meccanismo di sostegno alle persone per i periodi di transizione tra un lavoro e l’altro (combinato con opportunità di formazione, vedi #2);

SE riusciremo a garantire equità nella distribuzione delle risorse evitando distorsioni nel disegno e/o nell’attuazione delle nuove misure;

ALLORA saremo in grado di rinsaldare il patto sociale che ci permetterà di affrontare con maggiore solidità le sfide che il veloce avanzare della tecnologia e il suo impatto sul lavoro ci sta ponendo.

Tocca a noi › Nel dibattito globale tra coloro che credono sia

meglio dare un aiuto a tutti (per esempio con il reddito minimo universale o di cittadinanza) e coloro che credono sia meglio indirizzare le risorse in base ai bisogni (con il reddito minimo d’inserimento), qual è la strada più coerente con la necessità di garantire a tutti opportunità e lavoro inteso come “partecipazione attiva alla società”?

› Ci sono fattori storici o culturali che spiegano la tendenza in Italia a favorire approcci universalistici (ad esempio tramite il Sistema Sanitario Nazionale) piuttosto che quelli indirizzati verso segmenti specifici della popolazione?

› Come la lotta alla povertà si interseca con il sostegno al lavoro? Quale il ruolo dei centri per l’impiego?

Il prossimo passoMovimenta continuerà a seguire da vicino la proposta di legge di iniziativa popolare di Radicali Italiani.

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Lo scenarioNon c’è bisogno di sondaggi o di ricerche sofisticate per misurare l’insoddisfazione, la sfiducia e la rassegnazione che molti cittadini mostrano nella valutazione dei servizi e, più in generale, dei comportamenti della Pubblica Amministrazione (PA).

C’è chi sostiene che la soluzione sia meno Stato, tagli ai dipendenti pubblici, più affidamento di servizi ai privati. La soluzione per noi è invece ridisegnare radicalmente la PA. Siamo convinti che sia urgente rivederne il modo di funzionare, di reclutare e valorizzare i propri dipendenti nonché di organizzarne i servizi per renderli più facili da fruire e più moderni, anche alla luce del mondo digitale in cui siamo tutti immersi.

Molto spesso ce la prendiamo con gli impiegati pubblici, ma una grande parte della responsabilità è nella scelta politica di regolamentare ogni singolo aspetto dell’attività con processi e procedure rigide – cosa che deresponsabilizza e porta al rispetto della forma più che della sostanza – oppure di lasciare ambiguità interpretativa nei testi di legge, non volendo sciogliere i nodi “a monte”. Entrambe le situazioni portano ad ingessare e paralizzare lo Stato, inducono al rispetto della forma più che della sostanza e mancano l’obiettivo dichiarato di combattere la corruzione.

La PA va organizzata non cercando di prevedere e prevenire eventuali comportamenti scorretti o fraudolenti e inseguendo quindi le patologie, ma cercando di rendere facile e veloce la vita del cittadino nelle sue interazioni con l’Amministrazione. Vanno incentivate la responsabilità e la trasparenza, passando dal controllo ex ante al monitoraggio in itinere e alla valutazione ex

post. Ciò significa garantire una nuova capacità d’azione a chi lavora nel pubblico impiego: vanno “liberati” i dirigenti e funzionari pubblici dai troppi vincoli burocratici e va restituito un valore positivo alla discrezionalità (cosa ben diversa dall’arbitrio). Senza fare ciò, in un mondo veloce come quello di oggi, in cui la complessità ha bisogno costantemente di innovazione per essere gestita e i cittadini chiedono sempre più servizi “su misura”, la

8. Ridisegnare la Pubblica Amministrazione

2,24% È la percentuale di impiegati pubblici con un’età compresa tra i 18 e i 34 anni. Siamo all’ultimo posto tra i Paesi più avanzati.Specularmente, l’Italia è tra i Paesi con la più alta percentuale di impiegati pubblici over-55: il 45% (erano il 31% nel 2010).(OCSE, 2017. I dati sono relativi al 2015 e solo all’amministrazione nazionale)

12% È la percentuale di italiani che, nel 2016, ha dichiarato di aver inviato nei precedenti 12 mesi documenti pubblici tramite internet.Si tratta di una percentuale pari ad appena un terzo della media dei Paesi OCSE. È il 49% in Francia, il 32% in Spagna, il 34% nel Regno Unito, e il 17% in Germania.(OCSE, 2017)

160 È il valore, in miliardi di euro, delle gare di appalto della PA in Italia. Equivale a oltre il 10% del PIL.(OCSE, 2017)

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mancanza di scelta per chi lavora nell’amministrazione porta la PA nel suo complesso a restare indietro e essere una zavorra per tutta la società.

Altro elemento centrale ha a che vedere con la necessità di fare un investimento massiccio, non solo economico ma anche culturale, nel ridisegno dei processi in chiave digitale. La digitalizzazione va utilizzata per cambiare come si lavora e come si affrontano e risolvono i problemi, non come strumento di comunicazione.

Da sola, però, neppure la digitalizzazione è sufficiente, se parallelamente non si investe sulle persone. La PA ha la necessità di aumentare la qualità dei propri dipendenti e di rivedere i percorsi di formazione. Non è più rinviabile l’immissione di migliaia di giovani capaci, così come allevare una nuova classe di dirigenti pubblici preparati alla cultura del risultato sostanziale, con spirito di proattività e una mentalità internazionale.

Infine, va ripensata radicalmente la maniera in cui lo Stato “sta sul mercato”. Appalti e gare devono diventare il meccanismo con cui portare dentro lo Stato il meglio dell’innovazione nata fuori,

spezzando la logica da discount e puntando invece a valorizzare nuovi prototipi di prodotti, processi e servizi, sfruttando appieno la massa critica e l’impatto sulla creazione di una nuova cultura Paese che l’adozione di strumenti diversi da parte dalla macchina pubblica produrrebbe. Lo Stato dovrebbe lanciare al privato sfide ad alto impatto e ricaduta sociale, non chiamate per il semplice approvvigionamento dei vari uffici.

La sfidaSE rilasciamo ai dirigenti pubblici più discrezionalità, dando loro più responsabilità sui risultati e facendoli operare in un contesto normativo con meno leggi (ma più chiare), e con un’organizzazione del lavoro – e degli uffici – per sfide e non per mansioni;

SE la digitalizzazione della PA diventa ridisegno dei processi dentro la singola amministrazione, tra amministrazioni diverse, e nelle interazioni con i cittadini, e se viene fatta rendendo i servizi più semplici e immediati nella loro fruizione oltre che meno costosi per lo Stato – arrivando fino all’abolizione completa della carta e stabilendo il principio secondo cui diverse articolazioni del settore pubblico non possono richiedere allo stesso cittadino gli stessi dati;

SE investiamo sulle persone, modificando i criteri di selezione dei dipendenti pubblici e portando nella PA migliaia di giovani capaci e portatoti di storie di innovazione, oggi magari all’estero o in procinto di andarci, e predisponendo per loro programmi formativi innovativi e posizioni di responsabilità fin dall’inizio, premiando la capacità di trasformazione e non quella di conservazione;

SE ripensiamo la Scuola Nazionale dell’Amministrazione affinché contribuisca a sfornare dirigenti non più con la cultura della sopravvivenza amministrativa – che diventa l’unica preoccupazione in un sistema fatto ogni giorno di processi inceppati tra circolari ministeriali e sentenze del TAR – ma dirigenti formati alle conseguenze sociali ed economiche delle decisioni che prendono, preparati alla cultura del risultato sostanziale e con una capacità di azione europea e internazionale;

SE gli appalti/gare nella PA diventano un motore per portare all’interno dello Stato il meglio dell’innovazione nata fuori, promuovendo prodotti e servizi di frontiera e non continuando a farne un luogo che troppo spesso contribuisce a conservare sistemi obsoleti, secondo la logica del massimo ribasso e/o della scarsa attenzione all’innovazione;

ALLORA la PA può diventare una leva che contribuisce alla crescita e alla creazione di opportunità da parte degli attori privati del sistema Paese, oltre che una meta ambita per i giovani con la vocazione per il servizio

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pubblico inteso come principalemezzo di trasformazione del Paese.

Tocca a noi › Qual è la priorità di intervento nella PA?

› Come far sì che maggiore discrezionalità non diventi maggiore arbitrio da parte di – o maggiore ricattabilità nei confronti dei – dirigenti pubblici?

› Che impatto potrebbe avere, sul senso di appartenenza e sulla performance, introdurre logiche privatistiche di remunerazione e di incentivazione dei dipendenti?

› Per accelerare il processo di digitalizzazione

quali azioni concrete fareste? Come far sì che i cittadini utilizzino i servizi on-line? Da quali servizi si dovrebbe partire?

› Come ripensare reclutamento, formazione e carriere dentro la PA, se l’obiettivo è quello di attrarre migliaia di giovani capaci, magari con esperienze importanti all’estero?

› Come andrebbe modificato il sistema degli appalti pubblici per farne un volano di innovazione?

Il prossimo passoChe iniziativa politica possiamo immaginare su questo tema?

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Lo scenarioPer troppo tempo nel mondo dell’istruzione italiana si è accettato un patto al ribasso.

Alla fine della Seconda Guerra mondiale l’Italia è un Paese senza istruzione di massa, ma che capisce il ruolo strategico dell’alfabetizzazione e accompagna quindi gli anni del miracolo economico con il recupero di un ritardo storico in termini di scolarizzazione dei propri cittadini. E tuttavia, in quegli stessi anni vengono fissati i termini di un patto al ribasso che prevede, da un lato, che gli insegnanti di scuola vengano pagati relativamente poco – con conseguenze dirette anche sullo status di cui i docenti finiscono per (non) godere nella società – e, dall’altro, che proprio per questo anche lo Stato possa pretendere relativamente poco da essi. Un patto che poteva funzionare nell’Italia degli anni ’60 e ’70, perché lo scopo in fondo era crescere bambini e ragazzi che sapessero scrivere, leggere e fare di conto, e che una volta terminati gli studi avrebbero svolto per tutta la vita lo stesso lavoro in una fabbrica – ma valeva anche per i servizi o per il settore pubblico – senza che questo richiedesse grandi competenze.

Sempre in quegli anni, le scelte della politica cominciano ad essere sempre più orientate da considerazioni di consenso in cui si guarda al mondo della scuola anzitutto come ad un settore pubblico di centinaia di migliaia di lavoratori, e solo in seconda istanza al posto dove dare una formazione di qualità ai ragazzi. È allora che cominciano le false promesse di “concorsi senza cattedra”, a cui segue un precariato endemico e l’ingiustizia delle stabilizzazioni una tantum. Col tempo, la scuola italiana diventa così un luogo di agitazione permanente, dove è impossibile riformare in profondità e a cui il resto del

9. Chi ribalta la cattedra

72% È lo stipendio medio di un insegnante di scuole medie con 15 anni di esperienza in percentuale dello stipendio medio di un lavoratore laureato. Questa percentuale è del 78% in Francia, 93% in Inghilterra e 118% in Spagna.(OCSE, 2017)

53 L’età media di un professore delle superiori in Italia nel 2015, la più alta tra i paesi OCSE. Nello stesso anno l’età media era di 47 anni in Germania e di 46 anni in Francia, Spagna e Regno Unito.(OCSE, 2017)

14% La percentuale di persone di età compresa tra i 30 e i 44 anni, i cui genitori non sono laureati, che hanno completato un percorso di studi universitari. È il 16% in Francia, il 20% in Spagna, il 25% in Inghilterra.(OCSE, 2017)

9.708 Gli euro spesi ogni anno, a parità di potere d’acquisto, per l’educazione universitaria di uno studente in Italia. Sono 20.700 nel Regno Unito, 14.490 in Germania, 13.851 in Francia e 10.533 in Spagna.(OCSE, 2017)

4,7% Numero di ricercatori nel 2015 rapportato alla popolazione, contro una media europea del 7,4%.(CRUI, 2017)

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Paese assiste con sempre più distanza, ricavandone come unica conclusione che sia un “mondo” nel quale convenga poco avventurarsi, e ancora meno investire. Per decenni la scuola rimane l’ambito di intervento pubblico più superficialmente ritoccato.

Noi pensiamo che sia tempo, ormai, di riscrivere il patto.

Perché nel mondo di oggi quel patto pluri-decennale non funziona più. Abbiamo bisogno di docenti capaci di preparare adeguatamente gli studenti alla realtà iper-complessa che si ritroveranno ad affrontare una volta fuori, e nella quale dovranno essere attrezzati a rimettersi continuamente in gioco. Ciò richiederà ai docenti di sviluppare progettualità (non solo formative), di attualizzare le variegate competenze e le conoscenze richieste ai ragazzi oggi, di realizzare percorsi interdisciplinari, di “creare valore” da tutte le loro attività formative e istituzionali. Tutto questo richiede inevitabilmente stipendi diversi, che non siano appena rialzati di qualche decina di euro a seguito di un rinnovo contrattuale. Ma stipendi rialzati significativamente per poter stabilire i termini di un nuovo patto che faccia diventare la professione docente un forte attrattore per tanti giovani motivati e capaci disposti a misurarsi con concorsi molto selettivi; pretendendo per gli stessi docenti – oltre ad una massiccia iniezione di formazione continua, fatta fuori da schemi burocratico-localistici – valutazione, merito e premialità, intese come unici baluardi possibili contro “gare al ribasso” nella qualità dell’insegnamento.

Tutto ciò in una scuola che sviluppa meno istruzione frontale uguale per tutti e più metodi e metodologie di insegnamento che consentano di prendersi cura in maniera mirata di ogni studente; una scuola in cui il digitale diventa lo strumento che può facilitare l’apprendimento, in cui la presenza del docente in classe resta un valore aggiunto irrinunciabile, e in cui l’orientamento degli studenti entra tra le principali pre-occupazioni di dirigenti

scolastici e docenti.

Questa attenzione per la didattica deve diventare centrale anche per l’università, che ha bisogno di ripensare in profondità i meccanismi di incentivazione, selezione e carriera dei suoi ricercatori e professori. Oggi solo la ricerca conta per gli avanzamenti di carriera, mentre ovunque si parla di tre missioni (ricerca, didattica, valorizzazione dei risultati), con chiare conseguenze sulla scarsa attenzione che i docenti universitari riservano alle altre due, e quindi al cosa e al come insegnano e all’impatto delle loro ricerche sulla società e sul generale progresso del Paese.

L’università deve ristabilire la priorità del valore “sostanziale” della formazione rispetto al valore “formale” del titolo legale, e deve recuperare e/o esercitare un ruolo di leadership sui territori promuovendo, guidando e cooperando nei processi di innovazione, specializzazione e valorizzazione territoriale.

Così come la ricerca scientifica deve ritornare a costituire un forte attrattore per tanti giovani motivati e capaci altrimenti indotti a rifuggire il percorso accademico (a iniziare dal più alto livello di formazione: il dottorato), il quale deve divenire più flessibile e aperto e favorire la mobilità da, e verso, il settore privato.

Ciò richiede da una parte maggiori risorse, e dall’altra maggiore autonomia nell’uso di queste, per consentire all’università italiana di scalare la sua capacità di offrire formazione di primissimo livello (testimoniata dall’esportazione in tutto il mondo di cervelli), di potenziare la quantità della ricerca di qualità che quotidianamente i ricercatori italiani sviluppano (testimoniata dagli ottimi risultati se “normalizzati” rispetto ai finanziamenti erogati); e infine richiede una revisione del sistema degli incentivi e del reclutamento universitario, dopo anni passati a oscillare tra formule più decentrate e meccanismi più accentrati, nessuno dei quali ha dimostrato di essere blindato contro le infiltrazioni di coloro che rifiutano

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il merito-senza-se-e-senza-ma quando si tratta di assegnare cattedre o bandire concorsi.

È possibile che le università debbano essere ancora più autonome nelle loro politiche di reclutamento e investimento, e vadano quindi svincolate da complesse procedure burocratiche all’interno delle quali è comunque sempre possibile trovare il modo per aggirare il sistema. Vanno incoraggiati meccanismi di job posting dove chi recluta si prende completamente e pubblicamente la responsabilità della selezione, consapevole che esiste un ferreo meccanismo di assegnazione dei finanziamenti basato su valutazioni ex post, e dove esiste la possibilità di uscire dalla logica tutta italiana e novecentesca dei settori scientifico-disciplinari, ormai troppo ristretti e anacronistici per un mondo dove gli sviluppi più promettenti avvengono, in ogni ambito, alla frontiera con ambiti limitrofi.

La sfidaSE riridiamo dignità e costruiamo opportunità per coloro che sono quotidianamente impegnati nella formazione delle nuove generazioni e nella ricerca di soluzioni ai problemi della società, e quindi i docenti di scuola e i ricercatori, tornando a rendere ambite queste professioni;

SE costruiamo un nuovo modello educativo, adeguato alle sfide del futuro del lavoro e della trasformazione profonda della società, scommettendo sulla ricombinazione di nuova cultura digitale e di nuovo ruolo per i docenti in classe;

SE diamo priorità all’orientamento per assicurare che i giovani scoprano anzitutto chi sono (quali passioni e talenti hanno) per fare di questa scoperta ciò che guida le loro scelte di vita;

SE ridiamo centralità alla didattica e ripensiamo i meccanismi di selezione e reclutamento di ricercatori e professori universitari, andando nella direzione di

maggiore autonomia e maggiore responsabilità, mentre superiamo ogni logica di compartimenti stagni tra discipline e stabiliamo il primato del valore sostanziale della formazione sul valore formale del titolo di studio;

ALLORA costruiremo una filiera formativa in grado di aiutare le nuove generazioni a prepararsi a vivere e lavorare in un mondo sempre più iper-complesso e stabiliremo il valore dell’istruzione come principale ascensore sociale.

Tocca a noi › Quali sono le principali caratteristiche di un “bravo

insegnante” oggi, e come svilupparle e valorizzarle nel mondo della scuola?

› Quale tipo di orientamento scuola-università sarebbe opportuno sviluppare per aumentare le iscrizioni, ridurre gli abbandoni o i cambi di percorso? In generale, come evitare che scuola e università restino silos separati?

› Cosa cerca uno studente oggi nella scelta dell’università?

› Come ricucire un Paese spaccato tra “università baronali e concorsi truccati” e le tante punte di eccellenza nella ricerca e nella didattica riconosciute a livello internazionale?

› Da dove partono i cervelli in fuga e cosa trovano all’estero che l’Italia non offre?

› A quali condizioni avrebbe senso evolvere da un sistema di “università tutte uguali” ad uno misto di università più specializzate sulla didattica e di altre più sulla ricerca?

Il prossimo passoChe iniziativa politica possiamo immaginare su questo tema?

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Lo scenarioSiamo sempre stati il Paese della cultura e della creatività. Ma da troppi anni siamo solo il Paese della passata cultura e della passata creatività. Esiste una tendenza consolidata a considerare la cultura come un “patrimonio” da conservare immutato. Quando invece beni e attività culturali e creative dovrebbero essere considerate come qualcosa di “vivo”,

capace di generare progresso sociale ed economico del Paese. Siamo ancorati ad un’idea di cultura come stock del passato che va protetto, invece che ad un’idea di cultura come flusso costante che va continuamente prodotto.

Investire in nuova cultura è uno dei modi più naturali che abbiamo per recuperare il ruolo di avanguardia che l’Italia ha storicamente avuto in tutte le arti. Per farlo, abbiamo l’occasione straordinaria di unire la creatività con l’innovazione – sia tecnologica sia sociale – per alimentare sperimentazioni uniche e dare vita così ad una nuova generazione di industrie culturali e creative.

Per secoli, le arti e l’artigianato hanno pressoché coinciso; oggi, con il nuovo Rinascimento delle stampanti 3D, della robotica, dell’intelligenza artificiale, dei sensori “intelligenti”, della realtà virtuale e aumentata – e in generale di tutta la cultura dei maker – potremmo inaugurare un’intera stagione di “cultura 4.0”, integrata anche con le nuove forme di innovazione sociale ed urbana.

Rimettere in movimento il mondo della cultura non solo avrebbe importanti riflessi in termini di opportunità di lavoro e di espressione, soprattutto per i giovani, ma

90 È il valore, in miliardi di euro, della ricchezza generata dal sistema produttivo culturale e creativo italiano (industrie culturali e creative, patrimonio storico artistico, performing arts, arti visive, e i creative driven come design, editoria, moda, ristorazione). Corrisponde ad oltre il 6% del PIL. Finanza e assicurazioni valgono 82 miliardi di euro; la sanità ne vale 79; le costruzioni 72; la metallurgia e meccanica 34.

6% La percentuale di occupati in Italia nel settore della creatività. Si tratta di 1,5 milioni di persone.

54% L’aumento percentuale – dal 2014 al 2015 – della richiesta di profili professionali collegati al design.

76% La percentuale di imprese digitalizzate tra quelle che puntano sulla creatività.La media per tutte le imprese è del 54%.

24% La percentuale di professionisti del sistema produttivo culturale con età compresa tra i 25 e i 34 anni.È oltre il 3% in più rispetto a tutti gli altri settori dell’economia.

1,4% La percentuale di spesa pubblica che l’Italia destina alla

10. Produrre nuova cultura in Italia

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inciderebbe anche sulla capacità di un intero Paese di costruire una nuova identità in grado di generare nuovi sensi di appartenenza a comunità – sia territoriali, sia de-territorializzate – grazie ai quali ridare fiducia alle persone nei confronti dei propri luoghi e del proprio avvenire.

Molto dello sfaldamento civile attuale è dovuto anche a questo: la cultura che avevamo comincia a non bastarci più, e la nuova che potremmo produrre e valorizzare non è ancora diventata una priorità per la società e la politica. Viviamo in questa fase di mezzo, in cui continuiamo a vedere la cultura come una lista di settori che necessitano di interventi ad hoc, illudendoci che continuare con questa divisione per compartimenti stagni e con politiche di sostegno fatte di “minimi indispensabili” possa portarci da qualche parte.

Una fase di mezzo delicata, perché senza ridare alla cultura il ruolo di collante sociale e interprete del tempo – con cui proiettarci coesi verso il futuro – rischiamo di dividerci tra seguaci di diversi pifferai magici.

Per invertire tutto questo servono strumenti capaci di trasformare le imprese culturali italiane e gli artisti da “specie protetta” in nuovi protagonisti della società; servono investimenti di attenzione e di risorse massicci; serve riconoscere il valore della dimensione no profit, particolarmente significativa in ambito culturale; serve puntare sulla ricerca e la sperimentazione culturale e creativa come se si trattasse di biotecnologie o meccatronica, convinti che la qualità di vita dei cittadini in futuro dipenderà altrettanto, se non più, dalle innovazioni prodotte in questo settore – che necessitano urgentemente di essere riconosciute per il loro valore sociale. E in tutto questo senso vanno ricompresi gli sforzi che molti artisti fanno per aiutare le comunità a (ri)costruire la propria identità, a ricucire gli strappi, a maturare consapevolezza e nuova coesione, a tradurre le esperienze in linguaggi contemporanei.

La sfidaSE stimoliamo le imprese, profit e non profit, del comparto culturale e creativo a fertilizzarsi reciprocamente in termini economico-finanziari e di input creativi;

SE consideriamo l’industria culturale e creativa alla stregua delle altre principali industrie italiane e le riserviamo una attenzione adeguata in termini di investimenti, disponibilità di fondi per ricerca e innovazione, accesso al credito e nuove forme di finanziamento;

SE ci assicuriamo che le pubbliche amministrazioni contribuiscano in maniera trasversale a integrare cultura e creatività nel ridisegno dei loro servizi ai cittadini;

SE investiamo sulla formazione a 360° (soft skills, contaminazione con altri settori) degli addetti all’industria culturale e creativa; e se accresciamo le opportunità di espressione creativa nella scuola, aumentando la consapevolezza nei cittadini, a partire dai più giovani, sul ruolo sostanziale che la cultura ha per ciascuno di noi e per tutto il Paese;

ALLORA daremo una reale possibilità all’industria culturale e creativa italiana, e a tutti i professionisti del settore, di svilupparsi e diventare un importante volano per la costruzione di opportunità nel nostro Paese e per tornare ad essere traino di un più generale recupero di senso di comunità e di fiducia da parte della società italiana nei confronti del futuro.

cultura.Siamo al penultimo posto nell’Unione europea, prima della Grecia.

Ad eccezione dell’ultimo dato, la cui fonte è Eurostat, 2016, tutti gli altri dati sono contenuti nel Rapporto di Symbola “Io sono cultura” del 2016.

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Tocca a noi › Come stimolare la produzione di nuova cultura?

Che meccanismi, incentivi, investimenti sono necessari?

› Come integrare cultura, creatività ed innovazione e ridurre l’isolamento dei produttori di cultura nei contesti sociali, civici e urbani in cui vivono?

› Come aumentare le competenze extra-settoriali degli operatori del mondo della cultura e dell’arte?

› Come favorire il finanziamento e l’accesso al credito delle imprese culturali e creative profit e non profit e dei singoli professionisti?

› Come far rinascere e sviluppare lo spirito del mecenatismo?

Il prossimo passoChe iniziativa politica possiamo immaginare su questo tema?

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Lo scenarioL’abitudine di pagare in contanti è ancora molto radicata in Italia. Non a caso il nostro Paese risulta stabilmente agli ultimi posti in Europa per utilizzo di strumenti di pagamento elettronici. Il divario, specie con i paesi del nord Europa, è molto netto, anche se negli ultimi anni una maggiore diffusione delle carte di credito, la crescita dell’e-commerce e l’introduzione di soluzioni “fintech” per agevolare i pagamenti direttamente da smartphone stanno lentamente allargando il bacino di utenza e qualche posizione in prospettiva verrà recuperata.

Ma occorre fare radicalmente di più. Va cavalcata e amplificata la tendenza del mercato per accelerare il processo che ci porterà verso l’abolizione del contante.

Non è solo una questione di modernità e di potenziale vantaggio per l’economia del Paese.

Limitare il ricorso al contante permetterebbe anche una più puntuale tracciabilità delle transazioni con evidenti benefici nella lotta contro la corruzione, l’evasione fiscale, l’estorsione,

il riciclaggio, il traffico di droghe e molti altri crimini che solo grazie al contante sono possibili.

Alcuni Paesi, come la Svezia e la Danimarca, hanno già annunciato l’intenzione di abolire gradualmente il contante, evidenziandone anche i vantaggi ottenibili. Non solo si avrebbe una probabile diminuzione – poi un drastico abbattimento e a termine si potrebbe ipotizzare un annullamento – dei costi per transazione digitale, ma verrebbero risparmiate anche le spese per la gestione delle banconote, poco percepite dall’opinione pubblica, ma rilevanti.

11. Abolire il contante

2,2 milioni Il numero di apparecchi per pagamenti con carta (POS) in Italia nel 2016, il numero più alto dell’Unione Europea, complice l’alto tasso di dispersione in piccole aziende ed esercizi commerciali in Italia.(Banca d’Italia, Relazione annuale 2016)

1.200 Il numero medio di operazioni effettuate con ogni POS in Italia nel corso di un anno. Si tratta di uno dei tassi di utilizzo più bassi d’Europa, contribuendo all’alto costo di gestione da parte degli esercenti. Sono 16.000 nei Paesi Bassi, 9.700 in Irlanda, 6.800 nel Regno Unito, 6.200 in Francia e 3.000 in Germania. Solo la Grecia fa peggio di noi con 660 operazioni per POS.(Banca d’Italia, Relazione annuale 2016)

50 Le operazioni con carta di credito pro capite in Italia, contro una media di 109 nell’Unione Europea.(Banca d’Italia, Relazione annuale 2016)

87,3% La percentuale di italiani adulti che aveva un conto corrente presso un’istituzione finanziaria nel 2014. Era il 71% solo tre anni prima ma ancora significativamente più bassa che in Germania (98,8%), Francia (96,6%) e Spagna (97,6%).(Banca Mondiale, 2017)

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L’Italia rischia di non essere pronta a questa sfida e di perdere la possibilità di essere avanguardia. Le politiche e gli strumenti fin qui adottati per rendere tracciabili i pagamenti si sono limitati ad obblighi, divieti e sanzioni per determinate categorie di imprese ed esercenti, ma non è con la coercizione che si riesce a promuovere una modifica di comportamenti che è soprattutto culturale.

L’inerzia dell’abitudine, escludendo naturalmente i comportamenti patologici, si combatte e si supera attraverso un’azione organica che miri contemporaneamente ad allineare gli interessi di tutte le parti coinvolte nel processo. Venditori, clienti ed intermediari finanziari. Solo tenendo in equilibrio gli interessi di ciascuno degli attori in gioco si possono incoraggiare cambiamenti epocali, qual è l’abolizione del contante.

Tra gli ostacoli all’utilizzo degli strumenti elettronici di pagamento c’è senz’altro uno storico problema di costi, che rappresentano una barriera soprattutto in Italia dove il tessuto aziendale è fatto di tante piccolissime imprese. Il costo del noleggio dei dispositivi (POS) e le commissioni da riconoscere agli emittenti delle carte di credito o di debito (peraltro ridotte per legge a livello europeo) sono ancora percepiti come troppo alti e penalizzanti per la propria redditività da parte dei venditori di beni e servizi.

Il risultato è che l’Italia è il Paese con il maggior numero di POS installati, ma è tra gli ultimi in termini di utilizzo. Parte del problema sono anche i consumatori che non hanno ancora sviluppato una sufficiente consapevolezza della comodità e dei vantaggi di passare ai pagamenti elettronici.

A venire in aiuto in questo senso sono le nuove forme alternative di pagamento digitale tramite cellulare che promettono minori costi di utilizzo sia ai venditori sia ai clienti ed una facilità ed immediatezza d’uso. In pochi anni è probabile che il POS faccia la fine del fax, diventando semplicemente un amuleto da collezione.

A frenare la diffusione degli strumenti di pagamento digitale ci sono anche aspetti infrastrutturali. La copertura a macchia di leopardo delle reti di nuova generazione capaci di garantire affidabilità e velocità alle transazioni costituisce indubbiamente un freno all’utilizzo, come anche la paura riguardo alla sicurezza delle operazioni.

Un miglioramento sia della qualità delle reti che dei protocolli di sicurezza – a prova di hacker privati ma anche di “grandi fratelli” pubblici – potranno favorire lo sviluppo di comportamenti più virtuosi da parte di tutti. Da non sottovalutare anche la crisi di fiducia nelle istituzioni finanziarie da parte di tanti cittadini, preoccupati che vicende come quella di MPS o delle banche venete possa ripetersi mettendo a rischio i loro risparmi.

C’è poi il problema della privacy. È fondamentale offrire garanzie rigorose sul trattamento dei dati generati tramite i pagamenti digitali e va stabilita la titolarità dei diritti. In un mondo in cui i cittadini sono sempre più monitorati nei loro spostamenti, nelle loro parole e nelle loro interazioni, la tracciabilità dei pagamenti rischia di dare alle aziende che raccolgono questa impressionante mole di dati una conoscenza delle nostre abitudini per farne un giacimento da cui estrarre rendite monopolistiche. Servono quindi regole e diritti chiari, e deve essere diffusa la consapevolezza di questi diritti tra i cittadini.

La limitazione e l’abolizione del contante non è, e non sarà un’operazione semplice proprio perché si propone di modificare uno dei comportamenti più caratterizzanti

1.400 I miliardi di dollari in contante in circolazione degli Stati Uniti, per la gran parte in banconote da 100 dollari e legati ad attività criminali.In Italia, si stima che ci siano intorno ai 177 miliardi di euro in contante.(Rogoff, The Curse of Cash, 2017 e European House-Ambrosetti, 2016)

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di una lunga epoca storica e necessiterà di gradualità per essere assimilata da tutti i cittadini. Così come va evitato che diventi uno shock negativo per le economie informali che consentono la sussistenza di piccole comunità locali e presso le quali sarà necessario investire massicciamente per far risaltare i vantaggi di una simile operazione.

Infine, l’obiettivo di abolire il contante non è una battaglia che può riguardare solo un Paese, ma deve essere una battaglia europea essendo l’Italia nella zona euro e condividendo quindi lo stesso contante con altri 17 paesi.

E considerando che nessun governo vorrà perdere i lauti incassi – per l’Italia si tratta di oltre un miliardo di euro – derivanti ogni anno dal reddito monetario (signoraggio) legato alla stampa della moneta.

La sfidaSE sdiamo un vantaggio concreto ai cittadini e agli esercenti a ridurre l’uso del contante;

SE cambiamo l’approccio culturale nell’utilizzo del denaro contante;

SE limitiamo e a termine eliminiamo del tutto i costi che le imprese sostengono nel ricevere pagamenti elettronici;

SE creiamo un giusto sistema di incentivi positivi per incoraggiare i cittadini ad usare pagamenti non in contante;

SE offriamo garanzie sul trattamento dei dati e la tracciabilità dei pagamenti e sul fatto che lo Stato non sarà nelle condizioni di trasformarsi in un “Grande Fratello”;

ALLORA ridurremmo drasticamente l’economia sommersa, l’evasione fiscale, la corruzione, l’estorsione e le altre attività criminali, eliminando lo strumento principale tramite cui tali transazioni illegali sono commesse.

Tocca a noi › Come vivono quotidianamente i commercianti i

pagamenti con sistemi elettronici?

› Come si sentono le persone comuni nel pagare anche piccole somme con sistemi di pagamento digitale?

› Come incentiviamo cittadini e imprese a preferire mezzi elettronici di pagamento al contante?

› Come realizziamo il cambiamento culturale che porti ad avere fiducia nei sistemi tracciabili di pagamento e a non sentirsi più in colpa nei confronti dell’esercente quando li si utilizza?

› Come rassicurare i cittadini sul trattamento dei dati associati ai pagamenti online?

Il prossimo passoChe iniziativa politica possiamo immaginare su questo tema?

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Lo scenarioPer un lungo periodo l’Europa è stata la “terra delle opportunità”. Ha garantito pace,

crescita economica tramite la creazione di un mercato unico, e redistribuzione di risorse con la quale sono state ridotte disuguaglianze storiche tra diverse regioni del continente.

Per tanti giovani nati negli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80, spesso figli della provincia italiana, l’Erasmus ha rappresentato “la scoperta del mondo”. Certo un numero ancora esiguo (il 7% degli studenti universitari) ma comunque protagonista di una avanguardia consistente capace di creare un senso di direzione chiaro. Più in generale, l’abbattimento dei costi di trasporto e di comunicazione ha consentito di costruire nel quotidiano uno spazio più vasto di quello nazionale dove crescere, vivere, studiare, lavorare. Per anni è sembrato che questo lento ma sicuro progresso sarebbe continuato automaticamente con l’avallo incondizionato dei cittadini europei, e che sempre più europei avrebbero scoperto, approfittato di – e contribuito a costruire – questo luogo unico al mondo dove sostenibilità e qualità della vita sono espressioni concrete e tangibili.

Poi è arrivata la crisi, ed è cambiata la realtà e il racconto che abbiamo preso a fare dell’Europa. In particolare, per le generazioni più giovani, quelle diventate adolescenti nel decennio iniziato nel 2008 – quando è partita la lunga stagione della crisi – il racconto si è ribaltato: l’Europa è diventata sinonimo di vincolo di bilancio, austerità e tagli; di pressione indebite sui governi nazionali che cercavano di dare risposta alle loro preoccupazioni. E nei dibattiti pubblici nazionali l’Europa ha iniziato ad essere dipinta

12. Adesso facciamo l’Europa

66,3% La percentuale di PIL dell’Unione Europea generato nelle 515 principali aree metropolitane. Si tratta di una percentuale in ascesa.(Eurostat, 2017)

12% L’aumento stimato del PIL dell’Unione Europea nel caso in cui il mercato unico europeo venisse completato.(Parlamento Europeo, 2015)

25 I miliardi di dollari di differenza tra quanto hanno raccolto i fondi di venture capital statunitensi rispetto agli stessi fondi europei.Nel 2016 sono stati investiti 13,6 miliardi di dollari nel settore tech europeo. Nel 2011 erano appena 2,8 miliardi.(Atomico, 2016 e World Economic Forum, 2017)

87,3% La percentuale di italiani adulti che aveva un conto corrente presso un’istituzione finanziaria nel 2014. Era il 71% solo tre anni prima ma ancora significativamente più bassa che in Germania (98,8%), Francia (96,6%) e Spagna (97,6%).(Banca Mondiale, 2017)

42% La percentuale degli italiani over-64 secondo cui l’Europa ha portato all’Italia più vantaggi che svantaggi.È la fascia d’età più positiva rispetto all’Europa.(Sondaggi Ixé, 2017)

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Diritti alle opportunità / I brief

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Diritti alle opportunità / I brief

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come la “terra che toglie opportunità”.

Ci ritroviamo così oggi con una parte dei ventenni europei insofferenti e scettici nei confronti dell’Europa, inevitabilmente poco innamorati di un progetto di cui non riescono a vedere i benefici perché non sembra farsi carico con l’urgenza necessaria delle loro preoccupazioni più pressanti.

L’argomento stesso per cui – nel mondo di oggi – qualunque Stato europeo è troppo piccolo per agire da solo se intende avere impatto, non sembra convincere più ampi strati della popolazione preoccupati dalla perdita del lavoro e dall’obsolescenza delle competenze a fronte del progresso tecnologico, e che assistono ad un progressivo impoverimento generale. Facilmente, in questo contesto, anche i meno giovani finiscono col convincersi che chiudersi a riccio e alzare muri sia l’unica soluzione possibile.

Come ribaltare tutto ciò?

Come tornare a fare dell’Europa una terra di opportunità? Come assicurarsi che fasce sempre più ampie di popolazione europea vedano nell’Europa uno spazio unico dove poter sviluppare il proprio potenziale e trovare la propria strada?

Come assicurare che il rilancio dell’Europa sia sempre più ancorato a forme di integrazione economica e sociale orizzontali tra comunità e realtà associative e imprenditoriali di diversi Paesi, invece che alla sola “concessione” verticale di politiche fatte da Bruxelles con una logica prettamente istituzionale? Come dare all’Unione, allo stesso tempo, gli strumenti per affrontare le molteplici crisi correnti? Come riempire di significato e identità la cittadinanza europea, evitando che resti un guscio vuoto, affinché diventi invece la garanzia di una serie di diritti e di opportunità assicurati a tutti su scala europea?

Cosa fare per garantire a tutti gli europei una nuova

stagione di emancipazione?

La sfidaSE creiamo opportunità di lavoro, incoraggiamo la mobilità dei lavoratori intesa come strumento per accrescere le proprie esperienze e possibilità, e garantiamo tutele minime in tutta Europa;

SE recuperiamo il deficit di innovazione e capitalizziamo davvero sulla conoscenza e ricerca che l’Europa produce;

SE garantiamo una istruzione di qualità come diritto fondamentale di ogni europeo;

SE evitiamo che un mercato unico accentri le attività più produttive in poche regioni o agglomerati urbani mentre il resto dell’Europa si popola di “periferie alla deriva”;

ALLORA l’Unione risponderà adeguatamente alle preoccupazioni dei cittadini europei e tornerà ad essere terra di opportunità.

Tocca a noi › Come evitare un indebolimento dei diritti dei

lavoratori fra i diversi Paesi europei? Come accompagnare le persone in disoccupazione con misure pan-europee? Come riportare nel mercato del lavoro coloro che perdono la propria occupazione? Come assicurare che l’Unione sia un mercato unico per i lavoratori ma che al contempo questo non generi una rincorsa al ribasso sui salari?

› Come promuovere su scala europea idee innovative con un alto potenziale di scalabilità e crescita? Come costruire uno spazio unico dove creatività e imprenditorialità possano intercettare capitali e un mercato europeo capace di rispondere alle aspirazioni globali dei giovani europei? Come sviluppare un vero mercato unico digitale e dei

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Diritti alle opportunità / I brief

servizi? Come creare dei veri “campioni europei”?

› Come far sì che, da Lisbona a Tallinn, l’istruzione contribuisca a formare cittadini europei e non solo degli Stati nazionali? Come ridare dignità e status agli insegnanti di tutta Europa, per farne le figure centrali nella costruzione della società e assicurare che ciascuno di loro sia equipaggiato – con le giuste competenze e motivazioni – per crescere i giovani di oggi allenati ad orientarsi nel mondo di domani?

› Come andare oltre i semplici fondi europei per sostenere in maniera più efficace le regioni più povere d’Europa e garantire uno sviluppo territorialmente equilibrato, pur riconoscendo il valore che la concentrazione in alcuni grandi poli può avere nella competizione globale? Tra Catalogna, Lombardia e Veneto, come ripensare il rapporto tra autonomia e coesione su scala europea?

Il prossimo passoQuali campagne e/o iniziative servirebbe lanciare per generare nuova consapevolezza in tutti, e in particolare nei più giovani, e fare in modo così che l’impegno personale di tanti contribuisca al raggiungimento di questi obiettivi politici?

Per cosa battersi, in vista delle elezioni del 2019, quando Parlamento europeo e Commissione saranno rinnovati, e sarà importante assicurarsi una nuova, diffusa leadership politica europea capace di tornare a pensare in grande, e in lungo, e di costruire un sistema europeo di regole e incentivi che ci porti ad essere – entro il 2030 –

il luogo più sostenibile, con la migliore qualità della vita, e il minore livello di disuguaglianza del Pianeta?

Con chi (e su cosa) unire da oggi le forze per far sì che tutto ciò non resti un ragionamento italiano ma diventi da subito il manifesto, l’obiettivo e l’orgoglio di una alleanza pan-europea?

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Diritti alle opportunità / Il questionario sull’Europa

72

Il questionario sull’Europa

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Diritti alle opportunità / Il questionario sull’Europa

Il questionario sull’Europa

Se l’Europa fosse un condominio:le domande

Dove si trova?

Com’è fatto?

Quanti appartamenti ci sono?

Mentre visiti il condominio ti senti sicuro?

Come sono gli spazi e i servizi comuni?

Camminando incontri alcuni condomini e chiedi: “come si vive qui?”

L’attico del palazzo è in affitto. Chi ci verrà a vivere?

In che lingua parlate tra di voi?

Chi è l’amministratore del condominio?

Dove si tengono le riunioni condominiali?

Cosa è successo la volta in cui vi è capitato di dover chiedere aiuto ai vostri vicini?

In cosa state pensando di investire per migliorare il condominio?

Chi venderà presto il proprio appartamento?

C’è un fiocco rosa sul portone. Che pensi/fai?

Alla fine ti fai un’ultima domanda: ma io investirei i miei soldi per venire a vivere in questo condominio?

Il questionario sull’Europa

1.

2.

3.

4.

5.

6.

7.

8.

9.

10.

11.

12.

13.

14.

15.

2.6

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Diritti alle opportunità / Il questionario sull’Europa

Al mare

In montagna

In una grande città

In una cittadina di provincia

In campagna

1. Dove si trova?

14.3 %

6.5 %

50.6 %

24.7 %

3.9 %

Piccole casette in mattoni all’interno di un

grande parco alberato

Un grattacielo high-tech

Un tipico condominio a ringhiera

Un palazzo d’epoca

Diverse architetture modulari costruite con

materiali a zero impatto ambientale

2. Com’è fatto?

16.9 %

10.3 %

22.1 %

15.6 %

35.1 %

Come hanno risposto i partecipanti

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Diritti alle opportunità / Il questionario sull’Europa

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Sì, ci sono degli spazi curati e aperti, le persone sono socievoli

Sì, ci sono videocamere di sicurezza e una guardiania armata che gira tutto il

giorno

No, gli spazi comuni non sono curati e vedo tante porte blindate

No, c’è sorveglianza ma il muro di protezione è pieno di buchi e vedo gente

strana che va avanti e indietro con borsoni neri pieni di roba

Apparentemente sì, tutto è in ordine. Eppure non riesco a sentirmi sicuro

4. Mentre visiti il condominio ti senti sicuro?

55.8 %

5.2 %

10.4 %

3.9 %

24.7 %

28, il Comune ha bloccato il progetto di costruzione di altri appartamenti

Una cinquantina: 27 sono abitati, in uno stanno facendo trasloco, gli altri

sono affittati a extracomunitari

Non ci sono appartamenti, è un grande spazio in comune dove si condividono

cucine, salotti, lavanderie, studi, spazi giochi per bambini

Non sono appartamenti ma casette prefabbricate di legno facilmente

ricomponibili se arrivano ospiti

28, ma alcuni sono stati di recente dichiarati inagibili

3. Quanti appartamenti ci sono?

11.7 %

31.2 %

22.1 %

16.8 %

18.2 %

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Diritti alle opportunità / Il questionario sull’Europa

Bene, c’è una bella atmosfera

Un mortorio, sono tutti vecchi e non succede mai niente

Tiriamo avanti, i vicini non te li scegli!

Si potrebbe vivere meglio, solo che ogni volta che dobbiamo essere tutti

d’accordo e non si riesce mai a decidere niente

Alcuni condomini hanno un carattere difficile che rende la convivenza

complicata

6. Camminando incontri alcuni condomini e chiedi: “come si vive qui?”

16.9 %

3.9 %

9.1 %

54.5 %

15.6 %

Non ci sono

Ce ne sono solo alcuni, altri sono gestiti da singoli condomini e bisogna pagare

per usarli

In teoria i servizi sono tutti in comune, ma quando vai a chiedere c’è sempre un

“sì, ma…”

Pago una quota equa e in cambio ho tutto quello che mi serve

Ci sono, ma sono maltenuti

5. Come sono gli spazi e i servizi comuni?

3.9 %

22.1 %

28.6 %

31.2 %

14.2 %

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Diritti alle opportunità / Il questionario sull’Europa

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Una coppia cinese con due bambini in età scolare

Una giornalista single americana

Il rampollo di una dinastia del Medio oriente che è venuto a fare un sabbatico di

sei mesi in giro per l’Europa

Tre informatici indiani che lavorano per una grande multinazionale

Un magnate russo

7. L’attico del palazzo è in affitto. Chi ci verrà a vivere?

35.1 %

13.0 %

23.4 %

16.8 %

11.7 %

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Diritti alle opportunità / Il questionario sull’Europa

Inglese

Francese

Non ci parliamo più di tanto, ognuno si fa i fatti suoi

C’è un inquilino che fa l’interprete di mestiere e conosce un sacco di lingue.

Usiamo lui alle riunioni di condominio

Ognuno parla la sua lingua e usiamo una app per le traduzioni

8. In che lingua parlate tra di voi?

70.1 %

1.3 %

5.2 %

11.7 %

11.7 %

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Diritti alle opportunità / Il questionario sull’Europa

80

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Diritti alle opportunità / Il questionario sull’Europa

È uno dei condomini, eletto da noi

Paghiamo una multinazionale specializzata in

questo lavoro

Il tedesco

Il lussemburghese

Ne avevamo uno, ma da parecchi mesi non lo

abbiamo più rinominato

9. Chi è l’amministratore del condominio?

46.7 %

9.1 %

26.0 %

5.2 %

13.0 %

Abbiamo una saletta in comune al piano terra

Non si fanno da tempo

Via skype

A turno a casa di uno dei condomini

Sempre a casa del tedesco

10. Dove si tengono le riunioni condominiali?

33.7 %

11.7 %

13.0 %

23.4 %

18.2 %

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Diritti alle opportunità / Il questionario sull’Europa

82

Mi hanno risposto che non potevano aiutarmi perché avevano un’altra urgenza

Sono venuti di corsa a darmi una mano

Mi hanno detto “arrivo, arrivo…” e poi non si sono fatti vedere

Abbiamo un servizio condominiale a pagamento che risponde ad ogni tipo di

nostra esigenza

Alla fine uno è accorso, ma prima avevo chiesto ad altri cinque condomini e

ognuno aveva un’ottima scusa

11. Cosa è successo la volta in cui vi è capitato di dover chiedere aiuto ai vostri vicini?

18.2 %

28.8 %

13.0 %

10.3 %

37.7 %

Abbiamo avuto infiltrazioni, stiamo rifacendo il tetto

Stiamo costruendo un altro edificio, abbiamo avuto diverse richieste di acquisto

Stiamo investendo in sicurezza perché il quartiere è diventato pericoloso

Non investiamo, non ci sono soldi. Facciamo fatica anche solo con la

manutenzione straordinaria

Abbiamo affidato ad un architetto un progetto per ripensare completamente

gli spazi in comune

12. In cosa state pensando di investire per migliorare il condominio?

19.5 %

6.5 %

9.1 %

22.1 %

42.8 %

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Diritti alle opportunità / Il questionario sull’Europa

Il pensionato greco, ha debiti

La ricercatrice ungherese, si trasferisce in un’altra città

Il commerciante tedesco, compra l’appartamento all’ultimo piano che è grande

il doppio

Il ragazzo danese, riaffitta il proprio appartamento e con i soldi della vendita si fa

due anni il giro del mondo

La coppia di cinquantenni italiani, non vendono ma fanno donazione alla loro

figlia unica

13. Chi venderà presto il proprio appartamento?

24.7 %

11.6 %

13.0 %

22.1 %

28.6 %

Niente, non è una notizia che ti colpisce più di tanto

Sali subito le scale e bussi alla porta della dalla coppia di ventenni polacchi

per fare gli auguri

Organizzi una visita di gruppo con altri condomini interessati ad andare a fare

gli auguri alla ragazza madre portoghese

Trovi il fiocco un po’ fuori luogo, lo ha messo una coppia di cinquantenni italiani

che ha appena adottato una bambina dal Brasile

Chiedi in giro e scopri che è un fiocco vecchio, sta sul portone da due anni e

nessuno l’ha più tolto

14. C’è un fiocco rosa sul portone. Che pensi/fai?

11.6 %

37.7 %

13.0%

6.5 %

31.2 %

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Diritti alle opportunità / Il questionario sull’Europa

84

Sì, è il posto dove voglio vivere

Probabilmente sì, è il quarto condomino che visito e gli altri sono tutti peggiori

Verrò a viverci, ma non sono sicuro di comprare subito. Farò prima un periodo

in affitto

No, c’è troppa gente che non va d’accordo

Ah, dimenticavo. Già ci vivo!

15. Alla fine ti fai un’ultima domanda: ma io investirei i miei soldi per venire a vivere in questo condominio?

22.1 %

9.1 %

7.8 %

1.3 %

59.7 %

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IL RISCONTRO DEI PARTECIPANTI

3

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Diritti alle opportunità / Il riscontro dei partecipanti

86

Per l’evento di Cinecittà abbiamo chiuso le pre-registrazioni su eventbrite una volta raggiunte le 450 adesione. Circa 300 persone sono effettivamente venute. Molte sono rimaste con noi per l’intera giornata, altre sono riuscite a seguire solo una parte dei lavori.

Nei giorni successivi all’evento abbiamo mandato loro un questionario di valutazione, a cui hanno risposto 57 partecipanti. Questa sezione riporta in maniera aggregata il feedback avuto, così come alcune citazioni prese dalla sezione “commenti” del questionario.

Com’è andata?

Età dei partecipanti?

1.8%17-24

14%25-34

35-44

33,3%45-60

12,3%Più di 60

38,6%

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Diritti alle opportunità / Il riscontro dei partecipanti

Sono venuto a Cinecittà e sono stato: Tutto il giorno, non mi sono perso niente ....................................................................................................................................................64.9 %

Solo la mattina, sono andato via quando vi siete divisi in gruppi ............................................................................................................. 0 %Solo la mattina, ho partecipato ad uno dei tavoli e poi sono andato via ...............................................................................................7 %Solo il pomeriggio, sono arrivato dopo pranzo/dopo il lavoro dei tavoli ...............................................................................................7 %Diverse ore ma sono arrivato tardi ed ho perso l’inizio ...............................................................................................................................1.8 %Diverse ore ma sono partito prima della fine ................................................................................................................................................10.5 %Diverse ore ma ho perso sia l’inizio sia la fine ...................................................................................................................................................1.8 %Ho seguito le plenarie del mattino e del pomeriggio via streaming ...................................................................................................3.5 %Ho seguito la mattina via streaming .......................................................................................................................................................................1.8 %Ho seguito il pomeriggio via streaming ..................................................................................................................................................................1.7%

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Diritti alle opportunità / Il riscontro dei partecipanti

88

Molto positiva

Abbastanza positiva

Né positiva né negativa

Negativa

Seguendo il debutto di Movimenta a Cinecittà, che impressione ne hai ricavato?

50.9 %

43.8 %

5.3 %

0 %

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89

Diritti alle opportunità / Il riscontro dei partecipanti

Per ciascuno dei segmenti della giornata esprimi un voto da 1 a 5 (1 minimo, 5 massimo apprezzamento)

il gioco iniziale (“ciò che ci unisce”)

il discorso del tesoriere

Francesco Galtieri

il discorso di apertura del segretario

Alessandro Fusacchia

1 2 3 4 5 Non ho partecipato/non so

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Diritti alle opportunità / Il riscontro dei partecipanti

90

il discorso di Emma Bonino

i tavoli tematici di discussione le storie sulla fiducia e i contributi video

dei politici dall’estero

1 2 3 4 5 Non ho partecipato/non so

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Diritti alle opportunità / Il riscontro dei partecipanti

l’intervento di Mara Mucci

l’intervento di Fabrizio Barca

la restituzione dei contenuti

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Diritti alle opportunità / Il riscontro dei partecipanti

92

il questionario sull’Europa

il discorso di chiusura del segretario

Alessandro Fusacchia

1 2 3 4 5 Non ho partecipato/non so

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93

Diritti alle opportunità / Il riscontro dei partecipanti

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Diritti alle opportunità / Il riscontro dei partecipanti

94

il discorso di apertura del segretario

Alessandro Fusacchia

il discorso di Emma Bonino

i tavoli tematici di discussione

Per ciascuno dei segmenti della giornata indica se le tue aspettative sono state soddisfatte

Molto soddisfatto

Soddisfatto

Né soddisfatto né insoddisfatto

Insoddisfatto

Molto insoddisfatto

Non ho partecipato/non so

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il discorso di chiusura del segretario

Alessandro Fusacchia

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Diritti alle opportunità / Il riscontro dei partecipanti

96

Sì, sicuramente

Sì, solo se l’evento si svolge nella mia città

Non so

No

Parteciperesti a nuovi eventi di Movimenta?

68.4 %

24.6 %

5.3 %

1.7 %

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97

Diritti alle opportunità / Il riscontro dei partecipanti

100% / sono già iscritto

75%

50%

Non lo so ancora

Sicuramente non mi iscriverò

Quale possibilità c’è che nel prossimo mese tu ti iscriva a Movimenta?

42.1 %

15.8 %

7.0 %

33.3 %

1.8%

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Diritti alle opportunità / Il riscontro dei partecipanti

98

Passaparola

Pagina Facebook di Movimenta

Profilo Twitter di Movimenta

Altre inserzioni pubblicitarie online

Altro

Come hai saputo dell’evento?

47.4 %

22.8 %

1.8 %

1.8 %

26.2%

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99

Diritti alle opportunità / Il riscontro dei partecipanti

No

Sei interessato a ricevere comunicazioni periodiche sull’attività di Movimenta?

100 %

0 %

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“Penso che questo evento, vista anche la grande partecipazione, sia sintomatico di una voglia irrefrenabile di cambiamento.”

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“La cosa più bella è stata che, malgrado fossi venuto da solo, non mi

sono mai sentito solo.”

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“Avete fatto una scelta giusta sotto tanti aspetti, apprezzo davvero il vostro salto nel vuoto. Vi chiedo di non dimenticare di dare concretezza alla vostra azione.”

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“Il tema fondamentale del lavoro non può essere coniugato solo sui temi

dell’innovazione tecnologica. Nessuna sensibilità accesa sui lavori tradizionali.”

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“I momenti di condivisione sono stati quelli più preziosi.”

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“Grazie dello spazio di confronto, che ora va allargato dialogando con chi

pone l’asticella della politica allo stesso – alto – livello. Siate radicali, come

attitudine più che come provenienza.”

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“Ottima atmosfera ed impatto emotivo, ovviamente non c’è ancora un programma definito perché questo evento è stato parte del percorso per arrivare alla sua definizione.”

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“Ora si parte davvero!”

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Il 14 ottobre c’eravamo anche noi a Cinecittà.

Il battesimo di Movimenta.

Eravamo interessati ma anche curiosi.

Come si fa ad organizzare la prima di un nuovo

Movimento politico? Che tipo di incontro? Quale

cifra di linguaggio? Come fai a mettere su un

nuovo Movimento nel 2017, senza sembrare una

cosa vecchia, finta o pesante?

Abbiamo ascoltato Francesco e poi Alessandro

e poi Emma Bonino.

Tra un intervento e un altro delle attività fresche,

di partecipazione e facilitazione.

Nel pomeriggio si è lavorato in gruppi.

L’ambiente è gradevolissimo.

Le persone sono interessanti, giovani

professionisti competenti, di successo,

alcuni con un piede in Europa e altri in giro

per il mondo. Con tanta voglia di restituire.

Competenze, conoscenze, passioni, network,

progettualità, visioni per un Paese diverso.

Abbiamo avuto la netta sensazione che nessuno

di loro abbia bisogno di fare politica per

realizzarsi nella vita. Qui l’asticella è alta, molto.

Quando ci chiedono qual è il segreto di Farm

diciamo sempre che ci siamo ispirati ad un

detto siciliano che ti consiglia di stare, lavorare,

collaborare con le persone più brave di te.

Conoscendo Alessandro e i fondatori di

Movimenta abbiamo avuto quella sensazione

piacevole di poterci confrontare e stare

insieme con persone più brave di noi, con

più competenze, con più esperienza. Con

delle persone che hanno avuto più coraggio

di noi a decidere di prendersi per primi delle

responsabilità importanti.

Avremmo potuto decidere di salire sul carro

dei vincitori, metterci con chi ha il vento in

poppa, con chi ha una storia politica più

longeva, organizzazioni nazionali e regionali più

ramificate.

E invece vogliamo fare parte di Movimenta.

Ci piace fare le cose per bene, ci piace partire

dal basso, costruire le cose poco alla volta,

scegliere le donne e gli uomini più bravi, più

competenti, più capaci; quelle e quelli che

possono fare la differenza.

Andrea Bartoli

fondatore di Farm Cultural Park

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Si ringraziano Zeranta per la preziosa collaborazione nell’organizzazione della giornata a Cinecittà e Francesco Pierantoni per le fotografie contenute in questo rapporto.

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www.movimenta.info