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Dall’interazione sociale alle istituzioni sociali
Il primo scenario della moralità (...) non è quello in cui io faccio qualcosa per te o tu fai qualcosa per me, ma uno in cui noi facciamo qualcosa insieme. . .
Christine Korsgaard
Negli studi che si stanno compiendo sull’evoluzione del comportamento umano ci si focalizza soprattutto sul fenomeno dell’altruismo, in particolare su quale sia stata la sua origine. Non esiste una soluzione unanimemente accettata, ma di certo le proposte non mancano. Il vero nodo da sciogliere è che ci deve essere un modo che permetta all’individuo che si sacrifica di non sacrificare sé stesso o la sua progenie fino alla morte: ci deve essere una qualche forma di vantaggio compensativo per il suo sacrificio. E stato dimostrato che la punizione (come la maldicenza, il «gossip» che nuoce alla reputazione) inflitta ai soggetti non cooperativi contribuisce a stabilizzare la cooperazione - sempre in un’ottica di altruismo -, ma la punizione è un bene pubblico di cui il soggetto punito paga il prezzo e da cui tutti traggono beneficio, il cosiddetto problema di secondo grado dell’altruismo. La punizione inoltre può adempiere la sua funzione solo se chi la subisce tende a reagire facendo la «cosa giusta», perciò la minaccia della punizione di per sé non basta a spiegare le origini dell’altruismo.
Certamente non risolverò in questa sede il problema dell’evoluzione dell’altruismo, ma va bene così, visto che comunque non ritengo sia questa la questione cardine; in
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altre parole, non penso che l’altruismo sia il primo fattore responsabile della cooperazione umana intesa nella sua accezione più ampia, ovvero come la tendenza e la capacità di vivere e operare insieme all’interno di gruppi culturali fondati su una base istituzionale. In questa vicenda, l ’altruismo recita una parte marginale. La vera star è la mutualità: noi tutti traiamo beneficio dalla nostra cooperazione solo a patto di lavorare insieme. In altre parole, solo a patto che tra noi ci sia collaborazione. Il rischio di free-rìding persiste, ma nei casi più concreti - quando, per esempio, tu e io dobbiamo spostare un grosso tronco - esso non è materialmente possibile perché al successo dell ’impresa sono necessari gli sforzi di entrambi, e ogni tentativo di sottrarsi verrebbe immediatamente notato. Come beneficio secondario, nel contesto di un mutuo sforzo, il mio altruismo nei tuoi confronti - per esempio indicarti uno strumento che ti agevolerà il compito - in realtà aiuta anche me: il fatto che tu svolga il tuo lavoro avvicina entrambi al nostro obiettivo comune. La mutualità dunque potrebbe anche essere la culla dell’altruismo umano: un ambiente protetto, per così dire, per avviare le persone in quella direzione.
Se prendiamo le moderne scimmie antropomorfe in generale come modello per l’ultimo antenato comune agli umani e agli altri primati, ci toccherà affrontare un lungo percorso per giungere a quelle attività collaborative e istituzioni culturali su grande scala tipiche delle società umane moderne. Eppure, è proprio quello che cercheremo di fare adesso, seppure a grandi linee. Tanto per cominciare, grazie al lavoro di Joan Silk e altri, sappiamo che le società dei primati non umani funzionano in gran parte su base geni- toriale e nepotistica, con l’aggiunta, nella maggior parte dei casi, di una bella dose di dominanza. Perciò ogni loro forma di cooperazione dipenderà molto probabilmente da le
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gami familiari o reciprocità diretta. Grazie al lavoro di Brian Skyrms, invece, sappiamo che, nel costruire una collaborazione simile a quella umana partendo dai primati, non ci troviamo di fronte a un dilemma del prigioniero, in cuTgli individui valutano ì possibili benefici personali contrapponendoli a quelli del gruppo. Lo scenario in cui ci troviamo è piuttosto quello della caccia al cervo, in cui ognuno preferisce collaborare in vista delle ricompense che questo porterà a ciascun individuo e al gruppo. Il problema è come poter arrivare al punto di unire le forze. E non è una faccenda da poco, dato che ciò che io faccio in situazioni del genere dipende da ciò che penso farai tu e viceversa, ricorsivamente, il che significa che dobbiamo essere in grado di comunicare tra noi in modo soddisfacente e di fidarci l’uno dell’altro. Chiamerò questa mia ipotesi evolutiva «Ipotesi Silk per le scimmie, Skyrms per gli umani».
Per passare dalle attività di gruppo delle grandi scimmie alla collaborazione umana sono necessari tre processi fondamentali. Innanzitutto i primi esseri umani dovevano necessariamente sviluppare alcune fondamentali abilità sociocognitive e motivazioni per coordinarsi e comunicare con gli altri in modi complessi, che prevedevano obiettivi comuni e una suddivisione coordinata del lavoro tra le parti; in altre parole, si tratta di ciò che chiamerò «abilità e motivazioni per l ’intenzionalità condivisa». Secondo processo fondamentale: anche solo per dare il via ad attività di collaborazione così complesse, i primi esseri umani dovevano prima diventare virendemlffi^^quanto non siano le attuali scimmie antropomorfe, forse so- prattutto nell’ambito del cibo. E infine il terzo: quegli esseri umani più tolleranti e collaborativi dovevano sviluppare- a livello di gruppo - alcune pratiche istituzionali che prevedessero norme sociali pubbliche e l’assegnazione di status deontico a ruoli istituzionali. Prima di approfondire questi
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tre passaggi fondamentali, vediamo di dare una forma un po’ più concreta al punto di partenza e a quello d’arrivo di questo nostro ipotetico percorso evolutivo.
Un esempio concreto lega i due estremi della nostra storia evolutiva: il procacciamento del cibo e il «fare la spesa». Quando gli esseri umani vanno in cerca di noci nella foresta, lo fanno in modo pressoché identico a quello degli scimpanzé. Sia gli uomini sia le scimmie comprendono la disposizione spaziale della foresta, la causalità coinvolta nell’uso di determinati strumenti, e la mediazione dei loro compagni finalizzata all’obiettivo. Ma che cosa succede quando gli esseri umani vanno a procacciarsi il cibo al supermercato? Qui accadono cose che non si verificano tra gli scimpanzé a caccia di cibo, e non possono verificarsi perché dipendono da processi che trascendono le mere cognizioni e motivazioni individuali.
Immaginiamo uno scenario di questo tipo: entriamo nel supermercato, buttiamo qualche articolo nel carrello, ci mettiamo in coda per pagare, porgiamo al cassiere la carta di credito, prendiamo le cose che abbiamo comprato, e ce ne andiamo. Dal punto di vista degli scimpanzé, potremmo descrivere tutto questo in modo piuttosto semplice: vai da qualche parte, recuperi un po’ di cose, e te ne torni da dove sei venuto. Gli esseri umani, invece, interpretano - in modo più o meno esplicito - l ’atto di fare la spesa a un livello completamente diverso, quello della realtà istituzionale. In primo luogo, entrare nel negozio mi sottopone a tutta una serie di diritti e doveri: ho il diritto di acquistare i beni al prezzo esposto e il dovere di non rubarli o distruggerli, perché sono proprietà del supermercato. Secondariamente, mi aspetto di poterli mangiare in tutta tranquillità perché il governo ha un apposito dipartimento che lo garantisce: se un bene si rivela dannoso, pos
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so far causa a qualcuno. In terzo luogo, il denaro poggia su una complessa struttura istituzionale in cui tutti credono a tal punto da consegnare beni in cambio di questi particolari pezzi di carta, o addirittura in cambio dei segnali elettronici che provengono da qualche parte della mia carta di credito. Quarto punto, mi metto in coda perché rispetto norme ampiamente accettate: se cercassi di fare il furbo passando davanti agli altri, verrei redarguito e la mia reputazione di persona a modo ne soffrirebbe. Potrei andare avanti praticamente all'infinito nelPelencare le realtà istituzionali che popolano la sfera pubblica, realtà che presumibilmente gli scimpanzé in cerca di cibo non sperimentano affatto.
Ciò che accomuna tutti questi fenomeni istituzionali è un «senso del noi» squisitamente umano, la cosiddetta intenzionalità condivisa. Questa non deriva solo dal mondo istituzionale, collettivo, dei supermercati, della proprietà privata, dei ministeri della salute e simili: il «senso del noi» può essere colto - forse ancor più nitidamente - nelle interazioni sociali più semplici. Facciamo finta che voi e io ci siamo messi d’accordo per andare insieme al supermercato. Mentre camminiamo, io tutto d’un tratto giro i tacchi e me ne vado senza dire una parola, lasciandovi 11 sul marciapiede. Voi ovviamente non solo resterete sorpresi, ma anche un po’ seccati (o magari sareste preoccupati per me) e, quando tornerete a casa, racconterete ai vostri amici ciò che è successo. «Noi» stavamo andando al supermercato insieme, e io ho rotto - unilateralmente - quel «noi», a causa del mio egoismo o di un momentaneo squilibrio mentale. La cosa interessante è che avrei potuto evitare tutto questo semplicemente «congedandomi», dicendo che mi ero appena ricordato di avere una cosa urgente da fare, chiedendovi, per così dire, il permesso di rompere il nostro «noi».
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Questo senso del fare qualcosa insieme, che crea aspettative, e addirittura diritti e doveri reciproci, è - si potrebbe argomentare - unicamente umano perfino in un caso semplice come quello appena illustrato. Searle, insieme ad altri, ha dimostrato come il senso di agire insieme può crescere di scala fino a raggiungere quel tipo di intenzionalità collettiva necessaria per compiere azioni istituzionalmente complesse come la spesa al supermercato, che esiste perché esistono diritti, doveri, denaro, e governi, che a loro volta esistono perché tutti «noi» ci crediamo e agiamo come se esistessero.1 Ne consegue che gli esseri umani vivono non solo nei mondi fisici e sociali noti anche ad altri primati, ma in un mondo istituzionale o culturale che essi stessi hanno creato, un mondo popolato da entità d’ogni genere alle quali è stato deonticamente conferito potere. Le caratteristiche di questo mondo variano molto da un gruppo all’altro, ma ogni gruppo vive in un mondo fatto più o meno così.
Sebbene molti tratti osservabili nel mondo culturale umano lo differenzino nettamente dal mondo sociale degli altri primati, identificare i processi psicologici soggiacenti a questi tratti distintivi è un’operazione tutt’altro che semplice. L ’approccio che abbiamo adottato nel nostro laboratorio è stato di individuare le differenze nelle modalità con cui le grandi scimmie e i piccoli d’uomo interagiscono con gli altri socialmente, quando si trovano a collaborare e comunicare in situazioni relativamente semplici. Mi concentrerò sui tre processi cui ho accennato prima, esaminandoli uno per uno:
1 . Coordinazione e comunicazione.2. Tolleranza e fiducia.3. Norme e istituzioni.
1 Searle, La costruzione della realtà sociale cit.
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E, per mantenere il discorso il più possibile semplice e coerente, racconterò la mia storia evolutiva concentrandomi soprattutto sul procacciamento del cibo, poiché sono giunto alla conclusione che molti passaggi chiave nell’evoluzione della cooperazione umana siano connessi al modo in cui gli individui si rapportano l’un l’altro mentre cercano di procurarsi il pane quotidiano.2
Coordinazione e comunicazione
Tutti gli animali sociali sono, per definizione, cooperativi, ovvero vivono insieme in gruppi in modo relativamente pacifico. La maggior parte delle specie sociali, in un modo o nell’altro, si dedica alla ricerca del cibo in gruppo, soprattutto per difendersi dagli attacchi dei predatori. In molte specie di mammiferi, gli individui formano anche relazioni specifiche con altri individui, dando vita a coalizioni e alleanze nella competizione intra-gruppo per il cibo e l ’accoppiamento. Anche la difesa inter-gruppo e quella dai predatori rappresentano un’attività di gruppo in molte specie di mammiferi. Gli scimpanzé e altre grandi scimmie si dedicano più o meno a tutte queste operazioni di gruppo; dunque, ciò che vogliamo scoprire è in quale modo le loro attività collettive assomiglino alle forme di collabo- razione umana e in quale modo se ne differenzino.
Nelle «attività cooperative condivise»,3 i collaboratori devono prima di tutto essere mutuamente ricettivi agli stati intenzionali dell’altro. Oltre a questo requisito minimo, però, le due caratteristiche chiave sono: (i) i parte
2 Per una convincente argomentazione a questo proposito, vedi K. Sterelny, Ni-cod Lectures, 2008: http://www.institutnicod.0rg/lectures2008_outline.htm.
3 Bratman, Shared Co-operative Activity cit.; Gilbert, On SocialFacts cit.
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cipanti hanno un fine congiunto nel senso che noi (sulla base di una mutua comprensione) facciamo x insieme; (2) i partecipanti coordinano i loro ruoli - i rispettivi piani e sottopiani d’azione, compreso quello di aiutare l’altro nel suo ruolo, se necessario - che sono interdipendenti. Stabilire un fine comune costituisce già di per sé una sorta di problema di coordinazione e, in quanto tale, richiede alcune forme di comunicazione specifiche.4
La più complessa impresa collaborativa in cui gli scimpanzé si cimentano allo stato naturale è la caccia di gruppo al colobo rosso tra gli alberi della foresta di Tal, in Costa d’Avorio. In questa loro caccia, gli scimpanzé hanno un fine condiviso e assumono ruoli complementari. Un individuo, detto «inseguitore», rincorre la preda in una certa direzione, mentre altri, detti «stopper», si arrampicano sugli alberi e le impediscono di cambiare direzione. A un certo punto, un «imboscato» si para di fronte alla preda precludendole la fuga.5 E evidente che se l ’evento della caccia viene descritto utilizzando questo vocabolario di ruoli complementari, esso non può che apparire come un’attività collaborativa a pieno titolo: ruoli complementari implicano l’esistenza di un fine congiunto. Tuttavia, sarebbe il caso di chiedersi se queste scelte lessicali siano corrette.
A mio parere si può caratterizzare in modo più plausibile quest’attività di gruppo. La caccia ha inizio quando uno scimpanzé maschio comincia a inseguire il colobo tra i rami degli alberi, consapevole che i suoi compagni di gruppo - necessari al successo dell’impresa - sono nei paraggi. A quel punto, tutti gli altri scimpanzé vanno a oc-
4 H. Clark, Uses o f Language, Cambridge University Press, Cambridge 1996.5 C. Boesch, Joint Cooperative Hunting among Wild Chimpanzees: Taking Natu
rai Observations Seriously, in «Behavioral and Brain Sciences», XX VIII (5), 2005, pp. 692-93.
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cupare, a turno, la collocazione spaziale più favorevole ancora disponibile in quel determinato momento della caccia. Il secondo scimpanzé blocca la scimmietta in fuga, il terzo va a sorvegliare un’altra potenziale via di fuga, altri rimangono a terra nel caso la scimmia si lasciasse cadere giù. In questo processo ogni partecipante tenta di massimizzare le proprie probabilità di catturare la preda, senza che siano stati prefissati un fine congiunto o una distribuzione di ruoli. E indubbio che questa partita di caccia rappresenta un’attività di gruppo piuttosto complessa, in cui si presuppone che gli individui siano consapevoli delle rispettive localizzazioni spaziali mentre accerchiano la preda; ma anche lupi e leoni fanno qualcosa di molto simile, e praticamente nessuno studioso ha ancora attribuito loro fini o piani congiunti. Le grandi scimmie si impegnano in un’attività di gruppo in termini di I-mode («modalità-io»), non di We-mode («modali- tà-noi»).6
Al contrario delle attività di gruppo degli scimpanzé informate alla «modalità-io», i piccoli d’uomo, più o meno a partire dal primo anno di vita, operano in « modali tà-noi», elaborando un fine congiunto con il loro compagno. Questo dato emerge con estrema chiarezza in uno studio comparativo in cui Warneken e altri proponevano a bambini di un’età compresa tra i quattordici e i venti- quattro mesi, e a tre giovani scimpanzé allevati in cattività, quattro attività collaborative diverse: due prove strumentali che prevedevano un obiettivo concreto e due giochi sociali nelle quali non era previsto alcun obiettivo esterno, la finalità era il gioco in sé stesso. Il compagno adulto a un certo punto doveva smettere di partecipare alle prove per valutare se i soggetti avessero compreso
6 Tuomela, The Philosophy ofSociality: The Shared Point ofView cit.
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l’impegno profuso dall’adulto nell’attività condivisa. I risultati furono chiari e costanti. Gli scimpanzé non manifestavano alcun interesse nei confronti dei giochi sociali, rifiutandosi sostanzialmente di partecipare. Nelle prove di problem-solving, invece, sincronizzavano con una certa abilità il loro comportamento a quello dell’umano, prova ne è che spesso riuscivano a ottenere il risultato sperato. Tuttavia, quando il compagno umano smetteva di partecipare, nessun scimpanzé tentava mai un atto comunicativo per tornare a coinvolgerlo - neppure nel caso di soggetti che apparivano molto motivati a raggiungere l’obiettivo - suggerendo che non avevano elaborato con lui un fine congiunto. I bambini, invece, collaboravano sia nei giochi sociali sia nelle prove strumentali. A volte arrivavano perfino a trasformare questi ultimi in giochi sociali rimettendo a posto la ricompensa ottenuta per ricominciare a giocare: l’attività collaborativa risultava di per sé più gratificante dell’obiettivo strumentale. L ’aspetto ancor più interessante è che, quando l’adulto smetteva di partecipare, i bambini lo incoraggiavano attivamente a riprendere il suo posto comunicando in qualche modo, suggerendo che avevano elaborato con lui un fine condiviso cui volevano tornasse a dedicarsi.7
Altri due esperimenti compiuti nel nostro laboratorio offrono un’ulteriore conferma della capacità infantile di dedicarsi a un fine congiunto. Il primo si proponeva di verificare l ’ipotesi che, nel contesto di un’attività collaborativa, nessuno dei due partner sarà soddisfatto finché entrambi non avranno ottenuto la propria ricompensa. In altre parole, il fine congiunto può dirsi raggiunto solo a
7 Warneken e Tomasello, Altruistic Helping in Human infanti and Young Chim- panzees cit.; Warneken et al., Spontaneous Altruism hy Chimpanzees and Young Chil- dren cit. Video relativi a questi studi sul comportamento collaborativo sono visionabili su bostonreview.net/whywecooperate.
patto che entrambi i soggetti ne traggano beneficio. I ricercatori avevano previsto che una coppia di bambini di tre anni unisse le forze per sollevare e trasportare un’asta piuttosto pesante lungo una specie di scala. Alle estremità dell’asta erano state fissate due ciotole contenenti un «buono premio» che poteva essere facilmente riscosso nelle vicinanze. Il trucco consisteva nel fatto che a uno dei due bambini veniva data l’opportunità di mettere le mani sul buono prima del previsto grazie a un’apertura nel plexiglas che copriva i gradini. I soggetti che si trovavano in questa posizione privilegiata prendevano la ricompensa, ma poi si accorgevano che per consentire all’altro bambino di ottenere la sua dovevano lavorare insieme per superare un altro gradino. Alcuni bambini andavano subito a incassare il loro buono, ma poi tornavano a collaborare per affrontare l’ultimo gradino e assicurarsi che il compagno meno fortunato potesse ottenere il suo. Altri, addirittura, prima di incassare la ricompensa aspettavano di aver aiutato il compagno. Nel complesso, la maggior parte dei bambini sembrava sentirsi impegnata al fine congiunto - portare a termine la prova affinché entrambi ottenessero la ricompensa - molto più di quanto accadesse nella condizione di controllo, che prevedeva semplicemente di aiutare l’altro in una situazione identica ma non in un contesto di collaborazione.8
Nel secondo esperimento, un adulto e un bambino cominciavano un’attività collaborativa con un accordo esplicito di impegno congiunto. L ’adulto diceva qualcosa del tipo: «Dai, adesso facciamo questo gioco, ok?» Solo dopo che il piccolo aveva dato il suo assenso, cominciavano a giocare insieme. In una condizione di controllo, il picco-
8 K. Hamann, F. Warneken e M. Tomasello, Children’s Commitment to a Sha-red Goal in Peer Collaboration, poster presentato al Meeting o£ thè Society for Research in Child Development, aprile 2009.
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lo iniziava da solo, e l’adulto si aggiungeva di sua iniziativa. In entrambe le condizioni a un certo punto l’adulto smetteva improvvisamente di giocare. I bambini di tre anni (ma non quelli di due) si comportavano in modo diverso a seconda che si fossero presi o meno un reciproco impegno formale con l’adulto. Se quest’ultimo si era impegnato, i bambini insistevano di più affinché riprendesse l’attività: dopotutto, avevano stretto il patto di gipcare in- sieme. Per di più, in una variante di questa procedura, quando i ricercatori allontanavano il bambino dall’attività condivisa (allettandolo con un giòco ancor più divertente all’altro lato della stanza), quelli che si erano esplicitamente impegnati con l’adulto tendevano molto più degli altri a esprimere una forma di congedo, per esempio dicendogli qualcosa, porgendogli il giocattolo, o guardandolo in faccia prima di allontanarsi.9 Sapevano che stavano venendo meno a un impegno preso, perciò cercavano di addolcire la pillola.
Oltre a un fine congiunto, una vera attività collaborativa prevede una qualche forma di suddivisione del lavoro e che ciascun partner comprenda il ruolo dell’altro. In un altro studio, una squadra di ricercatori si dedicava a un’attività di collaborazione con bambini molto piccoli - intorno ai diciotto mesi d ’età - , poi nella fase successiva invertivano i ruoli, costringendo i bambini a giocarne uno che non avevano mai sperimentato. Questi, pur essendo così piccoli, si adattavano prontamente al nuovo ruolo, lasciando intendere che nella precedente attività congiunta con l ’adulto avevano compreso la sua prospettiva e il suo ruolo.10 A tre giovani scimpanzé allevati in cattività,
9 M. Grafenhain, T. Behne, M. Carpenter e M. Tomasello, Young Children’s XJnderstanding ofjoint Commitments to Cooperate, in «Developmental Psychology», in corso di stampa.
10 M. Carpenter, M. Tomasello e T. Striano, Role Reversai Imìtation in 12 and 18 Month-Oldsand Children with Autism, in «Infancy», V i l i (3), 2005, pp. 253-78.
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invece, una simile inversione di ruoli non riusciva.11 A nostro parere questo dimostra che gli infanti umani assumevano per l’attività congiunta iin punto di vista «a volo d’uccello», in cui il fine congiunto e i ruoli complementari rientravano in un unico « format rappresentazionale » (simile allo «sguardo da nessun luogo>) di Nagel). Invece, gli scimpanzè interpretavano la propria azione strettamente da una prospettiva in prima persona e quella del partner da una Jro^pettixa ia-terza persona, ma non avevano una visione a volo d’uccello che abbracciasse l’attività nella sua interezza e l ’interscambiabilità dei ruoli. Dunque, dal punto di vista di_entrambi i partecipanti, le attività collaborative umane vengono svolte attraverso ruoli generalizzati potenzialmente attribuibili a chiunque, compreso il Sé. Alcuni filosofi li definiscono «ruoli di agente neutrale».
Nel momento in cui gli individui coordinano le loro azioni con quelle di un altro nell’ambito di un’attività collaborativa, coordinano anche la loro attenzione. Non a caso, nella letteratura sullo sviluppo infantile, le prime attività collaborative sono spesso definite «attività di attenzione congiunta». Intorno ai nove mesi, i bambini iniziano a fare alcune cose insieme agli adulti, come far rotolare una palla avanti e indietro o impilare dei cubi: attività che richiedono un fine congiunto, per quanto elementare. Mentre giocano, i bambini monitorano l’adulto e la sua attenzione, e lo stesso fa l’adulto con il piccolo. Nessuno sa con certezza come meglio caratterizzare questa ricursione potenzialmente infinita di monitoraggio, ma sembra che compaia nell’esperienza infantile - in una forma ancora abbozzata - entro il primo anno di vita. Indipendentemente da come si possa caratterizzarlo al me
11 M. Tomasello, M. Carpenter e R.P. Hobson, The Emergence o f Social Cogni-tion in Three Young Chimpanzees, Blackwell, Oxford 2005.
glio, all’inizio il loop attenzionale è reso possibile dalla presenza di un fine congiunto. Se entrambi sappiamo di avere il fine congiunto di costruire insieme questo strumento, sarà relativamente facile per entrambi capire dove si focalizzerà l ’attenzione dell’altro, perché il locus della nostra attenzione è il medesimo: siamo focalizzati su ciò che è di qualche rilevanza per il nostro obiettivo. Più in là nel tempo, gli infanti potranno entrare nella modalità di attenzione congiunta anche in assenza di un fine congiunto. Per esempio, nel sentire un rumore forte, il piccolo e l’adulto possono badarvi insieme, con quel tipo di attenzione congiunta che ho definito bottom-up, in quanto prende le mosse da un evento che cattura l’attenzione. Nella fase iniziale, però - sia nella filogenesi sia nell’ontogenesi -, l ’attenzione congiunta insorge solo quando esiste un fine congiunto - quello che abbiamo definito fine congiunto top-down - poiché sono i fini degli attori a determinare l’attenzione.
Nelle attività collaborative, i partecipanti non solo prestano congiuntamente attenzione a elementi rilevanti per l’obiettivo comune, ma hanno anche là propria prospettiva personale. In realtà, la nozione stessa di prospettiva presuppone l’esistenza di un focus attenzionale congiunto, che in un secondo momento potremo vedere in modi diversi (altrimenti vedremmo soltanto cose completamente differenti). Questa struttura attenzionale su due livelli - a quello più alto abbiamo un focus attenzionale condiviso; a quello inferiore la diversificazione in prospettive - è perfettamente parallela alla struttura intenzionale su due livelli dell’attività collaborativa stessa (fine condiviso con ruoli individuali) e in ultima analisi ne è una derivazione.12
12 H. Moli e M. Tomasello, Cooperation and Human Cognition: The Vygotskian Intelligence Hypotbesis, in «Philosophical Transactions of thè Royal Society», (Se- ries B), C C C L X II (1480), 2007, pp. 639-48.
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Nella comunicazione umana, la prospettiva insita nell ’attenzione congiunta gioca un ruolo chiave. Per chiarire il concetto, prendiamo in esame un esperimento condotto su bambini di un anno. Un adulto entrava nella stanza, guardava da lontano un giocattolo particolarmente complesso ed esclamava: «Oh, ma che bello! Guardate lì! » Alcuni bambini non avevano mai avuto alcun contatto con l ’adulto, perciò inferivano che la sua reazione dipendesse dal bellissimo giocattolo che vedeva per la prima volta. Altri, invece, avevano già avuto occasione di incontrarlo e di giocare a lungo con quell’oggetto insieme a lui. Il giocattolo perciò era qualcosa di già noto, apparteneva al loro terreno comune. In questo caso, i piccoli supponevano che l’adulto non potesse riferirsi all’oggetto in sé - non si comunica a un’altra persona un entusiasmo del genere per qualcosa di già noto a entrambi -, ma che fosse entusiasta alla vista di un altro oggetto o di qualche altro aspetto del giocattolo stesso.13
Tutto - compresi numerosi esperimenti espressamente volti a indagare questo aspetto14 - fa ritenere che le grandi scimmie non conoscano l’attenzione congiunta. Molti dati indicano che uno scimpanzé sa che il suo compagno di gruppo vede la scimmia,35 ma non abbiamo prove che lo scimpanzé sappia che il suo compagno lo vede vedere la scimmia. In altre parole, non ci sono prove che le grandi scimmie possano compiere anche un solo passaggiojdi lettura ricorsiva della mente (se mi è concesso usare questo termine), che rappresenta il presupposto cognitivo per
13 H. Moli, C. Koring, M. Carpenter e M. Tomasello, Infants Determine Others’ Focus o f Attention by Pragmatici and Exclusion, in «Journal of Cognition & Deve- lopment», VII (3), 2006, pp. 411-30.
14 Tomasello, Carpenter e Hobson, The Emergence o f Social Cognition in Three Young Chimpanzees cit.
15 J. Cali e M. Tomasello, Does thè Chimpanzee Have a Theory o/Mind: } o YearsLater, in «Trends in Cognitive Science», XII (5), 2008, pp. 187-92.
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qualsiasi terreno concettuale comune. Se, come noi ipotizziamo, il primo passo sulla strada verso ciò che è stato definito «mutua consapevolezza», «conoscenza condivisa», «attenzione congiunta», «ambiente cognitivo comune», «intersoggettività» e simili è stato fatto in un contesto di attività collaborative improntate a fini congiunti, il motivo per cui le grandi scimmie non stabiliscono un’attenzione congiunta è prima di tutto che esse non partecipano ad attività improntate a fini congiunti.16 Nei molti studi sulla collaborazione che abbiamo condotto, le grandi scimmie non hanno mai tentato una forma diretta di comunicazione per stabilire fini congiunti o attenzione congiunta; invece i bambini, pur di arrivarci e al fine di coordinare i rispettivi ruoli, ricorrevano a ogni genere di comunicazione, verbale e non.
La tendenza umana a cooperare, perciò, inizialmente si sviluppò entro attività collaborative perché queste fornivano il terreno comune necessario a stabilire oggetti di interesse congiunti e perché generavano quelle intenzioni cooperative che Grice17 considerava essenziali per il corretto funzionamento del meccanismo inferenziale. Esaminiamo, ancora una volta, il più basilare degli atti comunicativi prettamente umani: il gesto di indicare (pointing). AI di fuori di un contesto condiviso, tale, gesto non significa nulla. Se però ci troviamo nel bel mezzo di un’attività collaborativa (per esempio, stiamo raccogliendo noci), l ’atto di indicare il più delle volte trasmette un messaggio immediato e inequivocabile («ecco una noce»). Come Witt-
16 M. Tomasello, Origins o f Human Communìcatìon, m it Press, Cambridge (Mass.) 2008 (trad. it. he origini della cognizione umana, Raffaello Cortina, Milano 2009).
17 P. Grice, Logic and Conversation, in P. Cole e J. Morgan (a cura di), Syntax and Semantici, voi. 3. Speech Acts, Academìc Press, New York T97J (trad. it. Logica e conversazione. Saggi su intenzione, significato e comunicazione, il Mulino, Bologna 1993).
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genstein osservò per primo, potrei indicare un foglio di carta, il suo colore, la sua forma o qualsiasi altra sua caratteristica, a seconda della Lebensform (forma di vita) in cui l’atto comunicativo si contestualizza.18 Entrare in contatto con una qualche Lebensform - un’attività collaborativa ne sarebbe forse un prototipo - fonda l’atto di indicare all’interno di una pratica sociale condivisa, che dà significato a un gesto che altrimenti resterebbe vuoto di senso. E, senza questa costruzione di un fondamento, la comunicazione convenzionale basata su simboli linguistici «arbitrari» sarebbe soltanto rumore. Solo dopo aver sviluppato mezzi di comunicazione cooperativa all’interno di attività collaborative gli esseri umani cominciarono effettivamente a comunicare cooperativamente al di fuori di esse.
Riassumendo, la struttura specie-specifica delle attività collaborative umane prevede un fine congiunto con ruoli individuali, coordinati da attenzione congiunta e prospettive individuali. Fu attraverso la caccia al cervo19 di Slcyrms che gli esseri umani svilupparono abilità e motivazioni per dedicarsi a questo genere di attività in vista di mutui e concreti profitti. Le abilità e le motivazioni per la comunicazione cooperativa si coevolsero con quelle attività collaborative perché questo genere di comunicazione dipendeva da esse e, al tempo stesso, a esse contribuiva favorendo il coordinamento necessario alla costruzione di un fine congiunto e una diversificazione dei ruoli. La mia ipotesi è che le attività collaborative concrete del tipo che osserviamo oggi nei bambini piccoli siano perlopiù rappresentative delle primissime attività di collaborazione
18 L. Wittgenstein, Philosophische XJntersuchungen, Blackwell, Oxford 1953 (trad. it. Ricerche filosofiche, a cura di Mario Trincherò, Einaudi, Torino 1967).
19 B. Skyrms, The Stag Hunt and thè Evolution o f Social Structure, CambridgeUniversity Press, Cambridge 2004.
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comparse nell’evoluzione umana. Hanno la stessa struttura di base della caccia collaborativa di una grossa preda o della raccolta collaborativa di frutti in cui un individuo aiuta l ’altro a salire sull’albero per recuperare quel cibo che in seguito verrà condiviso. Anzi, ritengo che il contesto ecologico in cui si svilupparono quelle abilità e motivazioni fosse una sorta di procacciamento cooperativo del cibo. Gli esseri umani subirono una qualche pressione selettiva al fine di collaborare nella raccolta del cibo - divennero collaboratori coatti - , cosa che invece non accadde ai loro parenti primati più prossimi.20
Quanti avessero bisogno di qualcosa di un po’ più concreto dell’osservazione e dell’analisi comportamentale e cognitiva considerino che gli umani presentano una caratteristica fisiologica estremamente rara che potrebbe essere connessa alla loro cooperatività. Ognuna delle oltre duecento specie di primati non umani è in sostanza caratterizzata da occhi scuri, con la sclera - comunemente nota come «il bianco dell’occhio» - a malapena visibile. La sclera degli esseri umani (cioè la parte visibile) è circa tre volte più grande e, di conseguenza, pernii altri è molto più facile seguire la direzione del nostro sguardo. Da un esperimento compiuto di recente è emerso che, per seguire la direzione dello sguardo altrui, gli scimpanzé si basano quasi solo sul movimento della testa: seguono l’orientamento versoTalto della testa del ricercatore anche se questi tiene gli occhi chiusi. Gli infanti umani, invece, si affidano soprattutto al movimento oculare: seguono lo sguardo del ricercatore anche se questi tiene la testa immobile.21 Da un punto di vista evolutivo è facile immaginare perché risulti vantaggioso per
20 Vedi anche Sterelny, Nicod Lectures cit., consultabili su http://www.msti-tutnic0d.0rg/lectures2008_out-line.htm.
21 M. Tomasello, B. Hare, H. Lehmann e J. Cali, Reliance on Head versus Eyes in thè Gaze Vollow'mg o f Great Apes and Human Infants: The Cooperative Eye Hy- pothesis, in «Journal of Human Evolution», LII (3), 2007, pp. 314-20.
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voi poter seguire facilmente la direzione del mio sguardo- per localizzare predatori e cibo, per esempio -, ma la natura non può selezionare la bianchezza del mio occhio solo per dare un vantaggio a voi: dev’essere vantaggiosa (o almeno non svantaggiosa) per me. In quella che chiamiamo «ipotesi dell’occhio cooperativo», il mio team ha sostenuto che la possibilità di «pubblicizzare» in questo modo la direzione del mio sguardo si sarebbe potuta evolvere solo in un ambiente sociale cooperativo, dov’era improbabile che gli altri la sfruttassero a mio detrimento. Dunque, è possibile che occhi capaci di rendere più facile agli altri seguire il mio sguardo si siano evoluti in gruppi sociali cooperativi dove il reciproco monitoraggio del focus attenzionale risultava vantaggioso per tutti, al fine di portare a termine compiti che richiedevano uno sforzo congiunto.
Tolleranza e fiducia
Qui intendo concentrarmi sulle attività collaborative in quanto elemento chiave di molte qualità esclusivamente umane. In una storia evolutiva, però, queste attività rappresentano una sorta di passaggio intermedio: esiste uno sviluppo precedente che ha spianato la strada all’evoluzione di attività collaborative complesse. Nessuno dei progressi nella cooperazione di cui abbiamo parlato avrebbe potuto compiere passaggi evolutivi in animali che fossero sempre competitivi: deve esserci stata una fase iniziale in cui sono emerse tolleranza e fiducia - nello specifico della nostra storia, relativamente~al cibo - per mettere una popolazione di nostri antenati in una posizione in cui fosse possibile la selezione di abilità collaborative raffinate.
Nella classica spiegazione evolutiva della socialità, le specie animali diventano sociali per proteggersi dai pre
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datori. In genere stando in gruppo ci si difende meglio. Quando non è necessario proteggersi, gli individui preferiscono andare in cerca del cibo da soli per evitare di competere costantemente con gli altri. Quando il cibo è disseminato in aree piuttosto vaste, di solito non ci sono problemi: le antilopi brucano tranquillamente nelle pianure fertili, restando insieme per proteggersi. Ma quando il cibo si concentra in zone circoscritte, l ’istinto di dominanza si fa sentire prepotentemente. Quando un gruppo di primati trova un albero carico di frutti, in generale si assiste a una corsa e a una competizione, e gli individui si allontanano dagli altri di alcuni metri per mangiare. Il caso più paradigmatico di fonte concentrata di cibo è l ’animale da preda. Per i cacciatori solitari, ovviamente, gli animali da preda non comportano alcun problema di competizione; ma per i carnivori sociali come i leoni e i lupi, un’uccisione di gruppo pone il problema della divisione della carcassa. La soluzione è semplice: la carcassa è abbastanza grossa da far sì che, nonostante alcuni individui possano appropriarsi di una parte più consistente, tutti riescono comunque a saziarsi. Nel caso in cui sia un individuo in particolare a dare il colpo di grazia, quando gli altri si avvicinano alla vittima, dovrà consentire loro di ottenerne una parte: cercare di combattere uno dei concorrenti significherebbe cedere la preda agli altri (il cosiddetto modello della divisione del cibo a «furto tollerato»).
Gli scimpanzé si nutrono soprattutto di frutti e altri vegetali. I frutti tendono a essere una risorsa non troppo concentrata, ma molto apprezzata, e che incita quindi alla competizione. Alcuni scimpanzé, però, si dedicano anche alla già citata caccia di gruppo al colobo rosso. Come abbiamo osservato, quest’attività di gruppo appare a tutti gli effetti collaborativa, caratterizzata da fini condivisi e da una suddivisione del lavoro. Quando la scimmia viene
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catturata, i soggetti che hanno partecipato alla caccia ottengono più carne rispetto ai semplici osservatori. Questo andrebbe a sostegno dell’idea di un obiettivo condiviso con un’equa spartizione delle spoglie.22 Una recente ricerca, tuttavia, ha dimostrato che le cose vanno in un altro modo. Prima di tutto, lo scimpanzé che ha vibrato il colpo mortale alla preda tenta immediatamente di defilarsi allontanandosi dal luogo dell’uccisione, se possibile, o raggiungendo il punto più inaccessibile di un ramo per limitare l’arrivo agli altri scimpanzé. Nella maggior parte dei casi, però, quelli che hanno il bottino non riescono a tenerselo tutto per sé, e vengono circondati da «mendicanti» che tentano di strappare via qualche brandello di carne. Di solito lo scimpanzé che ne è in possesso lascia che questi ne prendano un po’, e i ricercatori hanno documentato che la quantità di carne concessa è direttamente proporzionale all’insistenza nel mendicare e nell’essere molesti: jpiìL un soggetto è pressante*.._più^ciba^tisne. L ’insistenza di questi comportamenti potrebbe essere un indicatore del vigore con cui il soggetto sarebbe disposto a combattere; e quest’ansia di combattere potrebbe derivare, almeno in parte, dall’eccitazione indotta dalla caccia. C ’è anche la possibilità che perfino i cacciatori che non hanno avuto successo ottengano più carne degli ultimi arrivati perché sono i più vicini alle spoglie e i primi a mendicare, mentre i ritardatari sono relegati all’ultimo posto.23
Questa interpretazione della caccia di gruppo degli scimpanzé è suffragata dallo studio compiuto da Melis e descritto nel primo capitolo. Come si è visto, i ricercato
22 Boesch, Joint Cooperative Hunting among Wild Chimpanzees: Taking NaturaiObservations Seriously cit.
23 I. C. Gilby, Meat Sharing among thè Gomhe Chimpanzees: Harassmentand Reciprocai Exchange, in «Animai Behaviour», LX X I (4), 2006, pp. 953-63.
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ri presentavano a due scimpanzé del cibo che poteva essere raggiunto solo a patto che entrambi tirassero contemporaneamente verso di sé una delle due corde (fissate a un’assicella con un po’ di cibo sopra). Il risultato più eclatante fu che, quando c’erano due mucchi di cibo, ciascuno dei quali si trovava di fronte ai partecipanti, si osservava un buon grado di sincronizzazione, e di conseguenza si aveva il successo dell’operazione. Tuttavia, quando c’era un unico ammasso di cibo posto al centro dell’assicella, cosa che avrebbe reso difficile la spartizione finale, il livello di cooperazione precipitava quasi a zero. In generale, quando la posta in gioco è il cibo, gli scimpanzé si dimostrano talmente competitivi da riuscire a coordinare attività sincronizzate solo se il problema della spartizione del bottino è in qualche modo secondario. In un esperimento affine condotto su alcuni bonobo - gli altri nostri parenti più prossimi, che hanno fama di essere più cooperativi degli scimpanzé - alla prospettiva di condividere ammassi di cibo, emerse un po’ di tolleranza in più, ma non poi così tanta.24
Nel caso dei bambini - a loro volta studiati utilizzando questo metodo -, il fatto che il cibo fosse ammassato non costituiva assolutamente un problema. Anzi, trovavano vari modi per spartirselo senza bisticciare quasi mai (forse, a beneficio di coloro che hanno più di un figlio, è il caso di puntualizzare che non si trattava di coppie di fratelli o sorelle). L ’aspetto interessante è che in questa situazione i bambini a volte si scontrano per questioni di equità. In una prova, uno dei piccoli si appropriò di tutte le caramelle che lui e il suo partner erano riusciti a conquistare. Il derubato, allora, protestò e il bambino avido
24 B. Hare, A . Melis, V . Woods, S. Hastings e R. Wrangham, Tolerance Allows Bonobos to Outperform Chimpanzees in a Cooperative Task, in «Current Biology», X V II (7), 2007, pp. 619-23.
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fu costretto a capitolare. I ricercatori non registrarono alcuno scontro quando i due bambini si trovavano di fronte parti uguali.
Attraverso esperimenti ancora in corso, questo studio è stato ampliato per esaminare diversi generi di problemi di azione collettiva. Per esempio, i soggetti tirano verso di sé un’assicella sopra la quale stanno due gruppi di ricompense, ma in alcuni casi la distribuzione del cibo è decisamente sbilanciata: cinque per me e uno per te; sei per me e niente per te. In assenza di qualche aggiustamento che consenta una distribuzione più equa delle ricompense, la collaborazione è destinata a scemare gradualmente. Ed è proprio ciò che accade nel caso degli scimpanzé. Dopo aver prestato aiuto in una o due prove senza ottenere alcuna ricompensa, lo scimpanzé sfortunato non è più disposto a offrirlo, e il tentativo fallisce. Di solito, il soggetto cui è capitato il cibo non lo condivide, scoraggiando un’ulteriore collaborazione. L ’ipotesi è che i bambini trovino diversi modi per dividere le ricompense in modo più equo per fare sì che durante le prove si mantenga un buon livello di collaborazione.
Questi studi suggeriscono che gli esseri umani e gli scimpanzé competono per il cibo con livelli d’intensità notevolmente diversi. Perché noi umani sviluppassimo abilità complesse e motivazioni per attività di tipo collaborativo, in cui tutti traggono beneficio, ci deve essere stato un primo passo che ci ha allontanato dallo schema tipico delle grandi scimmie: forte competizione per il cibo, scarsa predisposizione nei confronti della condivisione e totale assenza dell’offerta di cibo. Nello scenario della «grande carcassa», per gli scimpanzé è relativamente facile collaborare: ogni individuo ha una ragionevole probabilità di catturare la scimmia e perfino quelli che partecipano senza successo alla caccia possono ottenere comunque un
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po’ di carne assillando chi ha in mano il bottino. Ma nel catturare una scimmia come può esserci un fine congiunto - nell’accezione umana - se i cacciatori sanno che il successo dell’impresa condurrà inevitabilmente a una zuffa per la spartizione del bottino?
Esistono numerose ipotesi evolutive circa il contesto in cui gli esseri umani diventarono più socialmente tolleranti e meno competitivi riguardo al cibo. Potremmo raccontare una storia che si sviluppa interamente all’interno del contesto del procacciamento del cibo: quando la collabo- razione diventò obbligatoria, quegli individui che erano già meno competitivi e più tolleranti nei confronti degli altri si ritrovarono naturalmente ad avere un vantaggio adattativo (sempre che potessero trovare altri con le stesse caratteristiche, come è stato evidenziato da Skyrms).
Potremmo anche fare un’altra ipotesi: dal momento che le società di cacciatori-raccoglitori erano in linea di massima egualitarie, e allontanavano o uccidevano i prepotenti, gli esseri umani andarono incontro a una sorta di auto-domesticazione grazie alla quale gli individui molto aggressivi o rapaci venivano epurati dal gruppo.25
Infine, potremmo chiamare in causa l’importanza del cosiddetto cooperative breeding (cure genitoriali cooperative).E sorprendente il fatto che in tutte le specie di grandi scimmie, eccetto quella umana, la madre provvede in pratica al 100 per cento all’assistenza e alla cura dei propri piccoli. Tra gli umani, sia nelle società tradizionali sia in quelle moderne, la percentuale si assesta intorno al 50 per cento. In uno scenario di cooperative breeding, gli aiutanti - tutti coloro che non sono la madre - spesso adottano comportamenti prosociali come fornire cibo e assistenza di base. In Mothers and Others, Sarah Hrdy sostiene che questo muta-
23 B. Hare e M. Tomasello, Human-like SocialSkills in Dogs?, in «Trends in C ognitive Science», IX (9), 2005, pp. 439-44.
to contesto sociale - che potrebbe essere sorto in virtù delle diverse modalità con cui gli umani dovevano procurarsi il cibo e delle relazioni monogame tra maschi e femmine - diede vita a quelle motivazioni prosociali che si osservano esclusivamente nell’uomo.26
Ovviamente è possibile che tutti gli scenari appena descritti abbiano giocato un ruolo. L ’aspetto importante è che nell’evoluzione umana si verificò una specie di primo passo di allontanamento dalle grandi scimmie - con il coinvolgimento del lato emozionale e motivazionale dell’esperienza - che spinse gli esseri umani in un nuovo spazio adattativo in cui potesse avvenire la selezione di abilità e motivazioni complesse per attività collaborative e intenzionalità condivisa.
Quando siamo impegnati in un’attività collaborativa reciprocamente vantaggiosa, nel momento in cui io ti aiuto a svolgere il tuo ruolo offrendoti un sostegno concretoo informazioni utili, sto di fatto aiutando anche me stesso: il tuo successo nel tuo ruolo è infatti fondamentale peril nostro successo complessivo. Le attività mutualistiche offrono perciò un ambiente protetto per i primi passi nell’evoluzione delle motivazioni altruistiche. A quel punto devono evolvere condizioni che permettono agli individui di estendere la loro propensione all’aiuto anche al di fuori di questo ambiente protetto. Per spiegare questo ulteriore passaggio evolutivo dobbiamo chiamare in causa i soliti sospetti: reciprocità e reputazione in primis, oltre a punizione e norme sociali. Sarebbe molto difficile, se non impossibile creare motivazioni altruistiche, sui generis, al di fuori di attività mutualistiche, e di contesti di selezione genitoriale che, per altri primati, potrebbero aver rappresentato l ’ambiente protetto. Ma generalizzare motivi
26 S. Hrdy, Mothers and Others, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)2009.
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preesistenti per nuovi individui non è poi così problematico in termini evolutivi: se si presentano le condizioni giuste, la macchina cognitivo-motivazionale è già pronta.
Norme e istituzioni
Se stessimo raccontando una storia in termini evoluzionistici, a questo punto avremmo degli ominidi più tolleranti e fiduciosi nei confronti degli altri di quanto lo siano le attuali grandi scimmie antropomorfe, nonché dotati di abilità e motivazioni più potenti per l ’intenzionalità condivisa e la collaborazione. Per completare il quadro, però - per passare dal procacciamento del cibo al fare la spesa - servono alcuni mutamenti a livello di gruppo; nello specifico, ci servono norme e istituzioni sociali.
Come sostenevo nel primo capitolo, non ritengo che le grandi scimmie abbiano delle norme sociali, se con questo termine intendiamo aspettative reciprocamente riconosciute e concordate socialmente, dotate di forza sociale, controllate e fatte rispettare da terzi. Nel corso di alcuni studi compiuti di recente, i miei colleghi e io abbiamo documentato due comportamenti affini nei nostri antenati primati. In un’altra versione dell’esperimento dell’assi- cella da tirare insieme, era previsto che gli scimpanzé scegliessero il partner con cui affrontare la prova. Grazie a test precedenti, i ricercatori sapevano che uno dei soggetti era un collaboratore molto valido, mentre un altro era molto scadente. Gli scimpanzé in esame coglievano in fretta questa distinzione ed evitavano di scegliere il collaboratore scadente.27 Ovviamente stavano solo cercando di massimizzare il guadagno ottenuto attraverso la colla-
27 A. Melis, B. Hare e M. Tomasello, Chimpanzees Recruit thè Best Collabora- tors, in «Science», 311 (5765), 2006, pp. 1297-300.
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borazione e non pensavano in alcun modo a punire il compagno poco performante. Scelte di questo genere, però, in quello che qualcuno ha definito «mercato biologico» sono comunque in grado di scoraggiare i collaboratori scadenti: finiscono per essere esclusi da opportunità vantaggiose. Tale esclusione potrebbe perciò essere vista come un’an- tenata della punizione.
In un altro studio compiuto nel nostro laboratorio, i ricercatori hanno dimostrato che, se uno scimpanzé ruba del cibo a un altro, la vittima reagirà impedendo al ladro di tenersi e mangiarsi il cibo. Questa ricerca è tuttora in corso, ma finora non abbiamo mai riscontrato un comportamento simile da parte dei soggetti osservatori: se il furto è ai danni di qualcun altro, non tentano di impedire al ladro di godersi il suo bottino (né ricorrono a qualche altro tipo di sanzione negativa). Nonostante i tentativi in corso, non abbiamo osservato alcuna punizione da parte di soggetti terzi. Anche se questi due comportamenti delle grandi scimmie - esclusione e rivalsa - servono a scoraggiare il comportamento antisociale tra compagni di gruppo, né l’uno né l ’altro dipendono dall’applicazione di qualche norma sociale, certamente non nel senso di un agente neutrale nella posizione di soggetto terzo.28
Gli umani, invece, operano sulla base di due principali tipologie di norme sociali, anche se certo esistono numerose ibridazioni: le norme di cooperazione (comprese le norme morali) e quelle di conformità (comprese le regole costitutive).
Si può presumere che, storicamente, le norme di cooperazione provengano da situazioni in cui individui che si stanno dedicando alle loro faccende quotidiane, in con
28 K. Jensen, J. Cali e M. Tomasello, Chimpanzees Are Vengefulhut Not Spiteful, in «Proceedings of thè National Academy of Sciences», C IV (32), 2007, pp.13046-50.
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testi individualistici o mutualistici, s’imbattono in qualche modo l’uno nell’altro. Attraverso processi che non ci sono del tutto chiari, emerge una serie di aspettative reciproche, e forse gli individui tentano di indurre gli altri a comportarsi diversamente,29 oppure concordano su un piano egualitario di comportarsi in determinati modi, conil risultato di raggiungere una sorta di equilibrio. Nella misura in cui tale equilibrio è governato da aspettative di comportamento reciprocamente riconosciute, e che tutti gli individui concorrono a far rispettare, si può iniziare a parlare di norme o regole sociali.
Non fingerò di avere qualche risposta particolarmente nuova a questo che è uno dei maggiori dilemmi di ogni scienza sociale: da dove hanno avuto origine queste norme cooperative e come operano? Mi limito a sostenere che il genere di attività collaborative alle quali oggi si dedicano i bambini piccoli rappresentano la culla naturale della varietà cooperativa. E questo perché contengono i semi dei due ingredienti chiave. Innanzitutto, le norme sociali hanno forza. Questo può dipendere dalla minaccia della punizione per i trasgressori, ma le norme hanno anche una dimensione razionale. Nelle attività di mutua collaborazione, entrambi sappiamo di dipendere l’uno dall’altro per raggiungere il nostro fine congiunto. Questo di fatto trasforma la normatività individuale dell’agire razionale - per raggiungere questo obiettivo, devo fare x (tipico di tutti gli organismi caratterizzati da guida cognitiva) - in una specie di normatività dell’azione razionale congiunta: per raggiungere il nostro obiettivo, io dovrei fare x, e tu dovresti fare y. Se tu non fai y, il tuo comportamento sarà la causa del nostro insuccesso e io me la prenderò con te. Se io non faccio
29 J. Knight, Institutìons and Social Conflict, Cambridge University Press, Cambridge 1992.
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la mia parte, falliremo di nuovo, ma in questo caso io proverò un sentimento di simpatia nei tuoi confronti (e magari mi arrabbierò con me stesso). La forza delle norme cooperative, dunque, deriva dalla nostra interdipendenza reciprocamente riconosciuta e dalle nostre reazioni spontanee al fallimento, nostro e al tempo stesso altrui.
La disapprovazione sociale non è ancora una norma cooperativa sociale perché le manca il secondo ingrediente chiave: la generalità. Per definizione, i giudizi normativi richiedono un qualche standard generalizzato in base al quale vengono valutate le attività specifiche del singolo. AlPinterno di una comunità, alcune attività collaborative vengono reiterate di continuo da vari membri di un gruppo sociale - prevedendo individui diversi con ruoli diversi in diverse occasioni - fino a trasformarsi in pratiche culturali. La struttura di tali pratiche - in termini dei fini congiunti e dei vari ruoli previsti - è parte del patrimonio di conoscenze condiviso. Per raccogliere il miele dagli alveari sugli alberi, per esempio, una persona deve mettersi accanto all’albero, un’altra le sale sulle spalle e raccoglie il miele per poi passarlo a una terza persona che lo versa in un vaso. Quando un soggetto nuovo a questa attività si aggrega e apprende socialmente che cosa va fatto, a seconda dei vari ruoli, questi ultimi vengono definiti in modo generale, tanto da creare nel gruppo mutue aspettative: chi ha assunto il ruolo x deve fare determinate cose per ottenere il successo collettivo. La lode o il biasimo riservati a un individuo in un particolare ruolo sono offerti nel contesto dello standard che tutti sanno di dover rispettare. Perciò, le pratiche sociali in cui «noi» agiamo insieme in modo interdipendente e con ruoli interscambiabili in vista di un fine congiunto generano, nel corso del tempo, mutue aspettative che conducono a giudizi normativi impersonali e generalizzati.
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Per illustrare a grandi linee la nascita di una pratica sociale e la sua dimensione normativa, dovrò descrivere in poche parole una situazione tipica osservata in uno dei nostri esperimenti sull’aiuto. All’inizio il bambino osserva passivamente l’adulto che ripone un plico di riviste nel- l ’armadietto. Nella seconda fase, quando l ’adulto ha qualche problema ad aprire le ante perché ha le mani piene di riviste, il bambino lo aiuta aprendole al posto suo. Poi, nella terza, avendo ormai capito come funziona la faccenda, il bambino anticipa tutto: apre subito l ’armadietto e fa da apripista nell’attività collaborativa in questione. In alcuni casi, il bambino arriva perfino a indicare all’adulto dove vanno messe le riviste (tramite il pointmg). Nei tre passaggi di questa attività, nel bambino e nell’adulto si formano reciproche aspettative in merito ai rispettivi comportamenti, tanto che il piccolo finisce per strutturare l’attività e addirittura a comunicare all’adulto qualcosa del tipo «Vanno messe lì»; ciò dimostra che, in questa attività, determinati compiti vengono eseguiti rispettando presupposti normativi. Ai fini della nostra storia evolutiva, vale la pena sottolineare che stiamo parlando di un bambino che ha solo diciotto mesi, in fase pressoché non verbale, e che non sta utilizzando alcun tipo di linguaggio normativo (in effetti l ’interpretazione normativa che ho dato al suo pointmg non è la sola possibile). Eppure, alla luce di tutti i nostri studi, sembra evidente che sulla base di un’unica o di poche esperienze nel contesto di un’attività collaborativa con un adulto, i bambini inferiscono subito che le cose vanno fatte così, che è così che «noi» le facciamo.
Oltre alle norme di cooperazione, il comportamento umano è guidato da leggi di conformità o convenzionalità. A un certo punto dell’evoluzione umana, diventò importante per gli individui di un gruppo comportarsi tutti nel-
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lo stesso modo: emerse una pressione alla conformità. La motivazione immediata è essere come gli altri, venire accettati dal gruppo, far parte di quel «noi» che lo costituisce e che entra in competizione con altri gruppi. Se vogliamo funzionare come gruppo, dobbiamo fare le cose in modi che in passato si sono dimostrati efficaci, e dobbiamo distinguerci da altri che non conoscono questi modi. E possibile che l’imitazione e la conformità siano stati per molti versi le fasi determinanti che portarono gli esseri umani in nuove direzioni da un punto di vista evolutivo.30 La ragione è che l’imitazione e la conformità possono creare un alto grado di omogeneità intra-gruppo e di eterogeneità inter-gruppo, e su una scala temporale più rapida di quella dell’evoluzione biologica. In virtù di questo fatto specifico - probabilmente estraneo a ogni altra specie - diventò possibile un nuovo processo di selezione culturale di gruppo. I gruppi sociali umani iniziarono a differenziarsi il più possibile gli uni dagli altri riguardo a linguaggio, abbigliamento e costumi, e a competere tra loro. Quelli con le pratiche sociali più efficaci ebbero la meglio. Questa, presumibilmente, è l’origine della mentalità dentro il gruppo/fuori del gruppo, che i ricercatori hanno dimostrato attivarsi anche in bambini piccolissimi (che, per esempio, preferiscono interagire con persone che parlano la loro lingua ancor prima di aver imparato a parlare).31
Sia le norme di cooperazione sia quelle di conformità sono cementate dal senso di colpa e dalla vergogna, che presuppongono una qualche forma di norma sociale, o almeno di giudizio sociale, e di conseguenza processi coevolutivi tra biologia e cultura.32 Robert Boyd, antropologo
30 Richerson e Boyd, Non di soli geni cit.31 K. Kinzler, E. Dupoux ed E. S. Spelke, The Native Language o f Social Cogni-
tion, in «Proceedings of thè National Academy of Sciences», C IV (30), 2007, PP- 12577-80.
32 Durham, Coevolution: Genes, Culture and Human Diversity cit.
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della u c l a , dando prova di grande acume ha sostenuto che la punizione e le norme trasformano i problemi di competizione (è il caso dei giochi a motivazione mista come il dilemma del prigioniero) in problemi di coordinazione. In assenza di punizione e norme, un attore individuale pensa soprattutto a come potrebbe ottenere del cibo (e forse anche a come potrebbero ottenerlo altri). Ma, in presenza di punizione e norme, è costretto anche a pensare a come si aspettano e desiderano che lui condivida l’eventuale cibo coloro che potrebbero punirlo o fare «gossip» di qualche genere; perciò, di fatto, se vuole evitare la punizione dovrà coordinarsi con le loro aspettative e i loro desideri. Norme sociali interiorizzate, con l ’accompagnamento di colpa e vergogna, garantiscono che la coordinazione con le aspettative del gruppo non debba comportare aperte prese di posizione.
Le norme forniscono quello scenario di fiducia in cui ruoli di agenti neutrali e attività cooperative condivise con fini congiunti e attenzione congiunta rendono possibili le istituzioni sociali. Ma le realtà create convenzionalmente, tipiche delle istituzioni sociali, hanno bisogno di un altro ingrediente ancora: un particolare tipo di immaginazione e di comunicazione simbolica. Quella dell’o- rigine della comunicazione simbolica è una storia molto lunga.33 Possiamo dire che è dipesa essenzialmente da modi cooperativi di svolgere determinati compiti e ha avuto inizio con il ricorso al pointing nel contesto di attività di attenzione congiunta. A quel punto, però, sorse il bisogno di comunicare in merito a cose che non si trovavano nel qui e ora, e questo portò alla nascita dei gesti iconici (non ancora convenzionalizzati) in cui io mimo per te qualcosa in una specie di messa in scena. I gesti iconici sono inter-
33 Ho cercato di raccontarla nel mio recente libro Le origini della comunicazione umana cit.
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pretabili «naturalmente» dagli esseri umani (cioè, da quanti hanno già compreso l’intenzione comunicativa di Grice, emersa in concomitanza con il pointing) che vedono subito le azioni altrui come intenzionalmente dirette a ottenere un risultato.
Nei bambini ne abbiamo un primo assaggio nel gioco simbolico, il «fare finta di». Nonostante sia spesso considerato un’attività solitaria - questo potrebbe essere vero nei bambini più grandi -, le origini del gioco (almeno la rappresentazione a beneficio di altri) sono intrinsecamente sociali. I bambini prendono con un’altra persona il reciproco impegno a trattare questo bastone come se fosse un cavallo. E così facendo hanno creato una funzione di status. Tali funzioni di status, create socialmente sul piano dell’immaginazione, sono ontogeneticamente, e forse filogeneticamente, l ’elemento precursore dell’accordo collettivo in base al quale questo pezzo di carta è denaro, o quella persona è il presidente, con tutti i diritti e i doveri che questi accordi comportano.34 Un recente e importante studio ha dimostrato che queste funzioni di stato assegnate congiuntamente sono portatrici di una forza normativa anche tra i bambini piccoli. In questo studio i bambini stabilivano con l’adulto che un determinato oggetto era un pezzo di pane da mangiare e un altro una saponetta per lavarsi: la relazione tra gli oggetti reali e i loro scopi putativi era in entrambi i casi immaginaria. Quando un pupazzo confondeva gli status assegnati e tentava di addentare il sapone, i bambini si opponevano strenuamente.35 Abbiamo convenuto che questo oggetto è il pane
34 H. Rakoczy e M. Tomasello, The Ontogeny of Social Ontology: Steps to Shared In- tentionality and Status Vunctions, in S. Tsohatzidis (a cura di), Intentional Acts and In- stitutionalFacts: Essayson John Searle’s Social Ontology, Springer Verlag, Berlino 2007.
35 E. Wyman, H. Rakoczy e M. Tomasello, Normativity and Context in Young Children’s Pretend Play, in «Cognitive Development», 24, 2009, pp. 46-55.
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e quest’altro è il sapone: ogni violazione di questa decisione deve essere corretta.
L ’accordo congiunto tra i bambini che un blocchetto di legno è una saponetta, dunque, rappresenta un primo passo verso la realtà istituzionale umana in cui si conferisce status deontico a oggetti e comportamenti attraverso una qualche forma di accordo e pratica collettivi. Questi accordi congiunti si differenziano dalle tipiche norme sociali che regolano il comportamento sociale manifesto per il fatto che prendono piede da una realtà simbolica creata convenzionalmente - lo scenario immaginario o istituzionale - e in seguito assegnano collettivamente poteri deon- tici ai ruoli e alle entità corrispondenti all’interno di quello scenario simbolico.
La mia «Ipotesi Silk per le scimmie, Skyrms per gli umani» è che, per poter creare i modi di vivere di cui si è dotato, YHomo sapiens deve aver iniziato particolari attività collaborative per le quali gli altri primati non sono semplicemente equipaggiati né sul piano emozionale né su quello cognitivo. Nello specifico, gli umani giunsero a impegnarsi in attività di collaborazione caratterizzate da un fine congiunto e ruoli distinti e generalizzati, in cui tutti i partecipanti erano consapevoli della loro dipendenza reciproca per ottenere il successo. Queste attività contengono i semi di giudizi normativi impersonali e generalizzati riguardo a diritti e responsabilità nonché a vari tipi di suddivisione del lavoro e assegnazioni di status come si osserva nelle istituzioni sociali. Sono anche la culla degli atti altruistici umani e di quelle forme di comunicazione cooperative esclusivamente umane. Gli esseri umani che uniscono le forze in attività cooperative condivise sono perciò i veri creatori della cultura umana. Non è dato sapere come e perché tutto questo sia emerso nell’evoluzio
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ne, ma si può ipotizzare che nel contesto del procacciamento del cibo (sia nella caccia sia nella raccolta), gli umani furono costretti a cooperare in un modo che agli altri primati non era stato richiesto.
E evidente che gli esseri umani non sono angeli della cooperazione: uniscono le forze anche per compiere gli atti più ignobili. Tali atti, però, di solito non sono diretti contro gli appartenenti «al gruppo». Anzi, recenti modelli evolutivi hanno confermato ciò che i politici hanno sempre saputo: il modo migliore per motivare le persone a collaborare, e a ragionare come un gruppo, è identificare dei nemici e dichiarare che «loro» costituiscono una minaccia per «noi». La notevole capacità di cooperazione umana, perciò, sembra essersi evoluta soprattutto per interagire con il gruppo locale. Per ironia della sorte, questo orientamento verso il gruppo nella cooperazione è una delle maggiori cause di conflitto e sofferenza del mondo di oggi. La soluzione - più facile a dirsi che a farsi - sarebbe quella di trovare nuovi modi per definire il gruppo.
L ’incontro di biologia e cultura
Se la misura del successo evolutivo è data dalle dimensioni della popolazione, gli esseri umani iniziarono ad avere un certo successo solo in tempi molto recenti rispetto ad altre grandi scimmie. Per la precisione, il numero di esseri umani iniziò a salire drasticamente solo diecimila anni fa, più o meno, con la comparsa dell’agricoltura e delle città. Questi due fattori portarono a tutta una serie di nuove organizzazioni cooperative, e altrettanto nuovi problemi, che a loro volta diedero vita a un’infinità di altre cose: dalla contabilità dei costi nei negozi ai sistemi legali per proteggere la proprietà privata, dalla classe sociale come strumento per organizzare la divisione del lavoro ai rituali religiosi per promuovere la coesione del gruppo e via discorrendo fino ad arrivare alla nostra società industriale, con la sua complessità disorientante.
A detta di tutti, però, i mutamenti osservati nelle società umane in seguito all’avvento dell’agricoltura e delle città non sono dovuti a una qualche forma di adattamento biologico. Tali mutamenti sembrerebbero esclusiva- mente sociologici, considerata la loro origine recente e il fatto che a quell’epoca gli ormai moderni esseri umani si erano già diffusi in tutto il pianeta (perciò un mutamento biologico su scala di specie sarebbe stato assai impro
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babile).1 Questo significa che la maggior parte - se non la totalità - delle intricatissime forme di cooperazione tipiche delle società industriali moderne, dalle Nazioni Unite agli acquisti on-line tramite carta di credito, si fonda soprattutto su abilità e motivazioni cooperative che si sono evolute biologicamente a partire da interazioni all ’interno di piccoli gruppi: quel genere di attività altruistiche e collaborative che abbiamo visto qui, nei nostri semplici studi sulle grandi scimmie e gli infanti umani.
Ma già in questo genere di interazioni all’interno di piccoli gruppi riusciamo a cogliere differenze fondamentali tra piccoli d’uomo e le scimmie. Fin da uno stadio molto precoce dell’ontogenesi, i bambini si dimostrano altruisti in modi sconosciuti agli scimpanzé e ad altre grandi scimmie. Sebbene sia provato che gli scimpanzé talvolta aiutano gli altri per via comportamentale, non si dimostrano particolarmente generosi con il cibo (rispetto ai bambini e agli umani adulti), e non offrono spontaneamente informazioni ad altri attraverso una comunicazione che possa in qualche modo assomigliare - in termini soprattutto di varietà - a quella umana. Anche in termini di collaborazione, a partire da uno stadio molto precoce dell’ontogenesi,i bambini collaborano con gli altri in modi propri soltanto alla specie umana. Creano con gli altri fini congiunti ai quali entrambe le parti sono impegnate da un punto di vista normativo, stabiliscono con loro ambiti di attenzione congiunta e un terreno concettuale comune, e creano realtà simboliche, istituzionali, che conferiscono poteri deontici a entità altrimenti inerti. I bambini sono motivati a impegnarsi in questo genere di attività collaborative per il piacere di farlo, non solo per il contributo che esse potrebbero dare agli obiettivi dei singoli.
1 J. Diamond, Guns, Germs, and Steel: The Fates o f Human Societies, Norton, New York 1997 (trad. it. Armi, acciaio e malattie: breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi, Torino 1998; nuova edizione accresciuta nel 2008).
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E, a completare il quadro, per così dire, ci pensano le norme sociali. Nel corso dell’evoluzione, gli uomini creano- e, nel corso dell’ontogenesi, i bambini interiorizzano - standard di comportamento che determinano mutue aspettative. Tutti sono pronti a far rispettare tali standard anche attraverso pene salate (sul piano altruistico). Per prime nacquero le norme di cooperazione, basate sull’interdipendenza tra partner collaborativi, nonché sulla reciprocità e il rispetto verso gli altri in quanto esseri intenzionali «al pari del Sé». Poi fu il turno delle norme di conformità, fondate sul bisogno di appartenere al gruppo sociale e di identificarsi con esso - pena l’ostracismo - e di distinguere il proprio gruppo dagli altri. Oggi i bambini rispettano e interiorizzano entrambe le tipologie (comprese molte altre norme che contengono al tempo stesso elementi cooperativi e di conformità) in virtù delle pressioni sociali esterne e delle interazioni cooperative governate da un’intenzionalità condivisa.
La normale ontogenesi umana, dunque, comporta necessariamente una dimensione culturale che invece altri primati non hanno. I singoli esseri umani devono imparare in quale modo fanno le cose gli altri appartenenti alla loro cultura e, soprattutto, in quale modo questi altri si aspettano che loro le facciano. Uno scimpanzé può sviluppare abilità cognitive e sociali specie-specifiche in una vasta gamma di contesti sociali. Ma, in assenza della nicchia culturale umana, e delle abilità e motivazioni necessarie a farne parte, un bambino crescendo non potrebbe mai diventare una persona dotata di funzionalità normale. Gli esseri umani si sono biologicamente adattati a crescere e svilupparsi fino alla maturità all’interno di un contesto culturale. Grazie ai nostri sforzi collaborativi, ci siamo costruiti i nostri mondi culturali e a essi ci adattiamo costantemente.