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STUDI E DOCUMENTI DAGLI ACCORDI DI BRETTON WOODS ALLA CRISI DEL SISTEMA MONETARIO 1944-1971 I piani per il dopoguerra in Italia Era convinzione abbastanza diffusa negli ambienti economici *, sul fi- nire della guerra, che la fine di questa avrebbe aumentato la disoccupa- zione in seguito al cessare delle produzioni belliche, e sarebbe stata, inol- tre, contrassegnata, in genere, da « stocks » di beni di consumo prossimi alTesaurimento o del tutto distribuiti, e da penuria di merci. In effetti, soprattutto per quanto riguarda l’occupazione della manodopera, « mal- grado tutti gli sforzi per integrare redditi e risparmi nazionali con redditi e risparmi di altri paesi e promuovere più estese produzioni indipendenti di beni di consumo; malgrado tutti gli sforzi per predisporre l’ambiente più propizio a siffatti sviluppi produttivi, con l’esecuzione di opere pub- bliche tipicamente strumentali, e però redditizie soltanto nel decorso del tempo1 2, la disoccupazione di energie lavorative può persistere, special- mente se nemmeno sia possibile addivenire a riduzione di salari vigenti ». Sicché, « l’immanenza del problema può allora suggerire tentativi più o meno avventurosi, la maggior parte dei quali, estraniandosi dal criterio economico, attinge quasi esclusivamente carattere sociale e politico ». In definitiva, pertanto, il Papi richiedeva che, nell’immediato dopoguerra, il criterio economico riuscisse a « mantenere la propria influenza sui singoli e sui governanti », poiché la libertà, « di cui tanto si parla — soggiungeva —, sebbene non sempre con evidenza ne sia compreso il significato concreto, è, senza dubbio, incomprimibile aspirazione dello spirito umano, mèta d’istinto di ogni essere ansioso di sviluppare la propria personalità in una convivenza di eguali ». Tale posizione doveva necessariamente condurlo ad una acuta diffidenza verso i piani economici dello stato o di qualsiasi altro ente pubblico. Questo perchè simili piani esigevano una indagine così profonda quale non sempre era stata svolta: 1 Cfr. G. U. P api , Preliminari ai piani per il dopoguerra. Reddito, Alimentazione, Disoccupazione, Risanamento monetario, Finanziamento, Ricostruzione. Piani economici, Roma, 1944. 2 Verso le quali teorie, dette brillanti, del « moltiplicatore », e che, poi, non erano altro che le teorie keynesiane, lo stesso Papi (cfr. Aspetti economici di una politica di opere pubbliche, nel voi. Equilibrio fra attività economica e finanziaria, Milano, 1943) dimostrava una aperta diffidenza, affermando che esse giungevano ad offrire « occupazione soltanto transitoria » alle energie dapprima impiegate in un determinato settore.

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STUDI E DOCUM ENTI

DAGLI ACCORDI DI BRETTON WOODS ALLA CRISI DEL SISTEMA MONETARIO 1944-1971

I piani per il dopoguerra in Italia

Era convinzione abbastanza diffusa negli ambienti economici *, sul fi­nire della guerra, che la fine di questa avrebbe aumentato la disoccupa­zione in seguito al cessare delle produzioni belliche, e sarebbe stata, inol­tre, contrassegnata, in genere, da « stocks » di beni di consumo prossimi alTesaurimento o del tutto distribuiti, e da penuria di merci. In effetti, soprattutto per quanto riguarda l’occupazione della manodopera, « mal­grado tutti gli sforzi per integrare redditi e risparmi nazionali con redditi e risparmi di altri paesi e promuovere più estese produzioni indipendenti di beni di consumo; malgrado tutti gli sforzi per predisporre l’ambiente più propizio a siffatti sviluppi produttivi, con l’esecuzione di opere pub­bliche tipicamente strumentali, e però redditizie soltanto nel decorso del tempo1 2, la disoccupazione di energie lavorative può persistere, special- mente se nemmeno sia possibile addivenire a riduzione di salari vigenti ». Sicché, « l’immanenza del problema può allora suggerire tentativi più o meno avventurosi, la maggior parte dei quali, estraniandosi dal criterio economico, attinge quasi esclusivamente carattere sociale e politico ». In definitiva, pertanto, il Papi richiedeva che, nell’immediato dopoguerra, il criterio economico riuscisse a « mantenere la propria influenza sui singoli e sui governanti », poiché la libertà, « di cui tanto si parla — soggiungeva — , sebbene non sempre con evidenza ne sia compreso il significato concreto, è, senza dubbio, incomprimibile aspirazione dello spirito umano, mèta d’istinto di ogni essere ansioso di sviluppare la propria personalità in una convivenza di eguali ». Tale posizione doveva necessariamente condurlo ad una acuta diffidenza verso i piani economici dello stato o di qualsiasi altro ente pubblico. Questo perchè simili piani esigevano una indagine così profonda quale non sempre era stata svolta:

1 Cfr. G. U. P a p i, Preliminari ai piani per il dopoguerra. Reddito, Alimentazione, Disoccupazione, Risanamento monetario, Finanziamento, Ricostruzione. Piani economici, Roma, 1944.2 Verso le quali teorie, dette brillanti, del « moltiplicatore », e che, poi, non erano altro che le teorie keynesiane, lo stesso Papi (cfr. Aspetti economici di una politica di opere pubbliche, nel voi. Equilibrio fra attività economica e finanziaria, Milano, 1943) dimostrava una aperta diffidenza, affermando che esse giungevano ad offrire « occupazione soltanto transitoria » alle energie dapprima impiegate in un determinato settore.

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Solo se preventivamente l ’indagine scientifica avrà avuto cura di precisare tu tte le condizioni dei piani dei singoli e tu tte le implicazioni [ ...] , potrà esa­minarsi se i piani degli enti pubblici, prima di tutto sorgono come tali, nel concorso delle condizioni in grado di determinarli; in secondo luogo se, sovrap­ponendosi ai piani, che ogni individuo è indotto a formulare, riescano utili dal punto di vista economico: procurino cioè vantaggi più estesi dei danni che possono infliggere. Solo se un piano di pubblici poteri, in vista di talune finalità da raggiungere, allevia una situazione, o almeno non la peggiora dure­volmente, può essere desiderato: con auspicio tanto più opportuno, quanto più lo stato, in talune circostanze, che affiorano numerose specialmente nel periodo del dopoguerra, può far meglio di quanto non possano i singoli, o i gruppi. Occorre tuttavia dimostrazione preventiva che si tratta di piani logi­camente consistenti e in grado di recare effettiva utilità.

Nelle quali ultime parole riaffiora la già notata diffidenza verso un intervento dei poteri pubblici nell’economia, che deve rimanere, secondo il Papi, un affare di privati.

Indubbiamente, quelle che erano dette « ingenti distruzioni causate dalla guerra, solitamente espresse in termini monetari, chiamata ’ricchezza nazionale’ (ricchezza che comprende tanto beni pubblici quanto beni pri­vati) », ponevano problemi molto gravi per chi doveva occuparsi « del razio­nale ripristino di tale ricchezza distrutta » 3. Perciò, la convinzione che si trattasse appunto di « ingenti distruzioni » era comune e molto diffusa, di distruzioni che erano state il « costo della guerra », il che significava « costo della ricostruzione del reddito nazionale ». In realtà, si credeva che gli impianti industriali dovessero possedere una produttività media notevolmente inferiore a quella prebellica.

Basta pensare — soggiungeva il Lenti — alle perdite sia per morte sia per mutilazione di forze giovani; alla forzata inattività produttiva di considerevoli contingenti di uomini per richiami alle armi e per altre circostanze; al mancato addestramento lavorativo delle giovani generazioni; alla disoccupazione provo­cata dal passaggio dalle lavorazioni di guerra alle lavorazioni di pace; alla mancanza, nei primi tempi, di beni strumentali adatti alle forze lavoratrici disponibili, e così via [...].

Insomma, il problema fondamentale era quello di fare in modo che il reddito nazionale postbellico ritornasse a quello prebellico, il che sembrava la più alta aspirazione possibile, in quel momento, sebbene non ci si na­scondesse che l’attrezzatura produttiva italiana era rimasta molto in ritardo, come efficienza tecnica, rispetto al grande progresso tecnico che si era verificato in diversi paesi del mondo; e che un’altra grossa questione sa­rebbe nata dall’inserimento dell’economia produttiva italiana nella più vasta economia internazionale, poiché sembrava ormai del tutto finita

3 Cfr. L. Lenti, Criteri per il calcolo del costo della guerra, in Lo Stato moderno, 20 maggio 1945.

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l’epoca dell’autarchia e dell’economia chiusa e si riteneva inevitabile l’av­vento di una fase di scambi più stretti fra l’economia italiana e le economie straniere, con la conseguenza di importanti e profonde modificazioni strut­turali per il nostro sistema produttivo.

Ma le temute distruzioni, se apparivano una conseguenza naturale a chi scriveva — come il Papi — prima della fine della guerra, non altret­tanto avrebbero dovuto apparire a chi — come il Lenti — scriveva dopo la guerra, perchè l’intervento delle forze partigiane erano riuscite ad evi­tare, quasi dappertutto, nell’Italia settentrionale, che era quella che mag­giormente contava sul piano industriale, le distruzioni minacciate dai tedeschi.

Intanto, giungeva una comunicazione della Commissione alleata di controllo del novembre 1944 (avvenuta, perciò, in un momento in cui, dopo la conferenza di Mosca fra il Churchill e lo Stalin nell’ottobre dello stesso anno, gli anglo-sassoni avevano la certezza che l’Italia sarebbe rien­trata nella loro zona d’influenza), in base alla quale il nostro governo (Bonomi, a Roma) avrebbe potuto utilizzare, per l’acquisto di macchinari e di materie prime, un credito in dollari corrispondente alle AM-lire (che rappresentavano la moneta dell’esercito alleato) messe in circolazione dalle truppe americane, alle rimesse dei nostri emigranti, ecc. (credito che, al­cuni mesi dopo, venne calcolato in 120-130 milioni di dollari). Questo aveva consentito l’elaborazione di un piano, detto di « primo aiuto », riguardante le importazioni da effettuarsi appunto con la nuova disponi­bilità di dollari. Tale piano doveva necessariamente partire, come scrisse P. Saraceno4, dal

duplice presupposto: a) doversi esso svolgere mentre la guerra era in corso e tener conto quindi di tutte le limitazioni che questo fatto comportava; b) dover l’Italia meridionale contare solo sulle sue risorse, dato che sulle risorse del nord gravava la duplice incognita della liberazione e della ulteriore estensione delle distruzioni che, fino a quel momento, avevano accompagnato la ritirata tedesca.

Di queste due condizioni, la seconda appariva senz’altro come la più grave e onerosa, poiché l’industria meridionale era praticamente inesi­stente, ed era stata sempre strettamente integrata con quella settentrionale, di cui era stata spesso una pura e semplice appendice mantenuta sul piano coloniale. Il piano fu portato a termine nel gennaio del ’45, ed era ancora all’esame degli organi competenti, quando il presidente della Commis­sione alleata, Harold MacMillan, rivolse al governo italiano un prome­moria con il quale annunciava un allentamento del controllo alleato sul nostro paese, e, nel tempo stesso, informava che sia l’Inghilterra sia gli

4 Cfr. Origine e vicende dei primi piani di ripresa industriale nel dopoguerra, in L’Industria, 1945, n. 3-6.

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Stati Uniti si impegnavano a fornire determinate importazioni (divise in due categorie: A di cui si assumevano la responsabilità le autorità alleate, e B di cui il governo italiano doveva fornire i mezzi di pagamento), desti­nate a soddisfare i bisogni della popolazione, gli usi civili essenziali e la riattivazione dei mezzi di comunicazione, di produzione elettrica e di tra­sporto, ritenendo che ciò rientrasse nel loro interesse per la miglior con­dotta delle operazioni e sempre pensando alle notevoli distruzioni che sarebbero state attuate dai nazisti in ritirata.

Un simile annuncio, che pure non stabiliva con esattezza l’ammon­tare dei rifornimenti dei due gruppi per la mancata conoscenza dei prezzi, rese possibile il pensare ad un altro piano, che venne presentato nel marzo; sicché nell’aprile potè partire per Washington la missione tecnica italiana incaricata di prendere gli accordi definitivi per la sua esecuzione. Ma, nel frattempo, avveniva la liberazione dell’Italia settentrionale, e subito si comprendeva come questo secondo piano non rispondesse più alla nuova situazione, appunto perchè le distruzioni tedesche erano state di gran lunga inferiori a quanto si era preventivato. Così, acquistava un notevole prestigio la Commissione economica centrale per l’Alta Italia, istituita, insieme con le Commissioni economiche regionali e provinciali, dal CLNAI, il 5 febbraio 1945, e che, il 26 aprile, subito dopo la liberazione, aveva emesso le ordinanze con cui doveva regolarsi la vita economica del Set­tentrione, vincolando i prezzi al livello ufficiale esistente, bloccando le merci presso i detentori, e dando disposizioni per la vendita delle merci stesse nella città. Alla sezione industria di tale Commissione, pertanto, fu affidato l’incarico di compilare il nuovo piano in collaborazione con i rap­presentanti del governo italiano e della Commissione alleata: esso fu il « piano per la determinazione delle importazioni industriali », la cui data d’inizio venne fissata, in un secondo momento, per il 1° gennaio 1946, in modo da lasciare « un conveniente lasso di tempo alle autorità economiche e politiche alleate per lo studio e la discussione del piano e da darci, quindi, una certa sicurezza circa l’effettivo arrivo dei beni richiesti » 5. Venne, però, anche predisposto un altro piano, detto « di transizione », con cui si provvedeva al periodo maggio-dicembre 1945: in una prima fase (maggio-giugno) furono richieste solo modestissime quantità di car­bone, date le scarse possibilità degli alleati, ancora impegnati nella guerra contro il Giappone, e alle limitate capacità del nostro sistema di trasporti, ma in una seconda fase (settembre-dicembre) furono richieste materie pri­me ed una quantità di carbone corrispondente press’a poco ad un terzo del nostro fabbisogno normale.

Il fatto era che qualsiasi piano avrebbe dovuto tener conto soprat­tutto di queste ridotte capacità dei mezzi di trasporto, che avevano subito

5 L. Lenti, Piani di primo aiuto per l’economia italiana, in L’Industria, 1945, n. 3-6.

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notevoli distruzioni in manufatti, in materiale rotabile e in attrezzature, anche perchè erano stati quelli più sfruttati dai tedeschi: infatti, rispetto a 12.798 carrozze e bagagliai del 1934 ne esistevano, ora, soltanto 1.197 buoni e 2.047 rovinati, mentre i 136.960 carri merci si erano ridotti a 21.881 buoni e 11.076 guasti. Era una percentuale molto bassa, e assolu­tamente inadeguata a consentire un pieno sfruttamento dell’apparato pro­duttivo, le cui possibilità si aggiravano intorno al 75 per cento di quello normale6. Questa era, senza dubbio, come disse R. Morandi, una delle « strozzature » più gravi per la nostra ricostruzione industriale7, cioè quanto si riferiva ai rifornimenti di carbone e di materie prime, insieme con gli altri problemi del livellamento dei prezzi e degli scambi tra nord e sud, del finanziamento della produzione, degli adeguamenti salariali, e della eventuale disoccupazione. In realtà, si poteva prevedere, per la seconda metà del 1945, una efficienza di circa un terzo del nostro sistema ferroviario-stradale (i 100.000 autocarri esistenti nel 1939 si erano ridotti a circa 45.000). Per quanto riguardava il carbone, si pensava di poterne avere, nella migliore delle ipotesi, nel trimestre giugno-agosto, 140 mila tonnellate contro un effettivo fabbisogno di 1.500.000.

Si aveva, dunque, questa situazione: un apparato produttivo quasi intatto che non poteva essere alimentato per l’insufficienza dei trasporti e per la mancanza delle materie prime. Infatti, nell’industria cotoniera su 173 stabilimenti di filatura e 848 di tessitura (con una potenza di 5.370.000 fusi e di 143.871 telai) erano stati danneggiati solo 8 stabilimenti (in totale 205.792 fusi e 6.954 telai, senza, tuttavia, che nemmeno questi 8 avessero avuto completamente inutilizzata la loro attrezzatura, tanto che si calcolava che la maggior parte avrebbe potuto riprendere l’attività entro pochi mesi). Altre grandi industrie, che allora detenevano una posi­zione di primo piano nel sistema economico del nostro paese, come quella della lana, si trovavano in difficoltà, ma non per la distruzione degli im­pianti — che anzi si faceva notare come soprattutto queste industrie aves­sero approfittato della necessariamente diminuita attività negli ultimi tempi della guerra, diminuzione di attività a cui non aveva corrisposto una dimi­nuzione di utili, perchè, come aveva affermato in una sua relazione il ministro delle finanze del fascismo repubblicano, Pellegrini, nel dicembre 1944 8, « da parte germanica [erano] stati acquistati in Italia, all’infuori

6 P. Fortini e F. Santoro, I trasporti, in Annuario della congiuntura economica italiana, 1938-1947, a cura di A. De Vita, Firenze, 1949; G. Messina, La situazione dei trasporti, in Realtà e prospettive della economìa italiana, con prefazione di L. Barzini Jr., Milano, 1946.7 Cfr. Verso il governo del popolo, relazione al I Convegno dei CLN regionali dell’Alta Italia, Milano, 6-7 giugno 1945, nel voi. Lotta di popolo 1937-1943, Torino, 1958.8 Sulla relazione Pellegrini e sui provvedimenti conseguenti cfr. il resoconto della riunione del Consiglio dei ministri di Salò del 19 gennaio 1945, in Opera omnia di B. Mussolini, vol. XXXII, Firenze, 1964, pp. 143-148.

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del clearing, e quindi senza alcuna contropartita di merci, prodotti per vari miliardi di lire, soltanto nel settore tessile circa 5 miliardi, con un evidente depauperamento dell’economia nazionale », ma solo per man­canza di carbone e di materie prime. Della stessa mancanza soffrivano la Pirelli, la Montecatini, i cui impianti, peraltro, erano definiti in situazione buona (« Quasi tutti i più importanti impianti — è detto nel paragrafo riguardante le industrie chimiche nel cit. Annuario della congiuntura eco­nomica italiana ecc. — dotati di moderne attrezzature, sono stati ripristi­nati nella loro primitiva capacità », sicché « la produzione chimica, che nel giro di due anni è più che triplicata, non ha potuto tuttavia seguire di pari passo l’opera di ricostruzione degli impianti, soprattutto per carenza di energia elettrica e di combustibili »); l’industria siderurgica, alla quale, peraltro, si poneva, o si prevedeva che si sarebbe ben presto posto il problema di riorganizzarsi su nuove basi, essendo venuta a cessare quella situazione di favore di cui essa aveva goduto durante il fascismo e che le aveva impedito di attuare un efficace processo di razionalizzazione, che era, d’altronde, in atto in tutti i paesi; l’industria elettrica, che rappre­sentava un’altra « strozzatura » per la ripresa produttiva italiana, una strozzatura, però, che era molto più grave nell’Italia centro-meridionale (in seguito alle distruzioni di una guerra che aveva percorso quelle zone quasi metro per metro), che in quella settentrionale. Di conseguenza, l’Italia del nord, che aveva subito minori distruzioni, avrebbe trovato il pretesto, in queste esigenze del sud, per dare lavoro alle sue maestranze specializzate e alle sue industrie. Così, il dualismo della nostra economia, cioè il contrasto fra il sottosviluppo del Meridione e lo sviluppo del Set­tentrione, non avrebbe fatto altro che aggravarsi, sebbene fosse presente negli uomini usciti dalla resistenza la necessità — morale, politica, econo­mica e sociale — di eliminare tale squilibrio (ma, forse, affrontavano ancora il problema nei termini tradizionali ottocenteschi o del primo Novecento e non comprendevano che esso, invece, doveva essere posto in modo completamente nuovo).

In complesso, si trattava di un apparato produttivo ancora in buone condizioni, al quale si presentavano prospettive favorevoli per il futuro, tanto più che quasi tutta l’Europa usciva dalla guerra con le industrie molto più danneggiate o addirittura distrutte, come quella tedesca: l’Italia, invece, avrebbe potuto lavorare per soddisfare le esigenze degli altri popoli, purché, però, fosse stata aiutata con adeguati e consistenti rifornimenti di carbone e di materie prime dagli alleati. Si capisce, quindi, la relativa tran­quillità del ministro del tesoro, Soleri, il quale faceva sì presente che avevamo circa 1.000 miliardi di debito pubblico, oltre 350 miliardi di circolazione, 150 miliardi di deficit e che avremmo dovuto spendere oltre 500 miliardi per la ricostruzione di opere pubbliche, ma, nel tempo stesso,

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dichiarava che l’entità di tali cifre non doveva far disperare della possi­bilità di risanare la situazione finanziaria ed economica9. Ma un econo­mista come il Demaria sosteneva che una « crescente situazione debitoria » avrebbe indebolito gravemente il paese 10.

Come tu tti abbiamo capito che un altro giro al torchio dei biglietti sarebbe fatale — affermava ancora — , così dobbiamo riconoscere che solo se entro prestissimo, e in ogni caso non o ltre l ’anno solare 1945, potremo pareggiare il bilancio statale con entrate effettive, rinunciando dopo quell’epoca a ingigantire ancor più l ’albero del debito pubblico (triste albero dalle male radici), salvo l’assestamento dei debiti fluttuanti o la ricostruzione di opere indiscutibil­mente produttive di reddito nazionale reale non solo, ma monetariamente tan­gibile anche al pubblico fisco, solo a patto di cotesta suprema condizione, sarà impedito alla lira di fisicamente morire.

Per conseguenza, il Demaria proponeva « quelle drastiche tassazioni che sole potrebbero, con taglio cesareo, mettere il paese di fronte alla dura necessità del risparmio » ed esortava a limitare il consumo interno « nella misura più spartana ». Ma come era possibile continuare a consi­gliare una drastica limitazione dei consumi interni dopo anni e anni di astinenza e di forzate privazioni? Era naturale che quegli strati — che non erano, poi, tutti del grande capitalismo, ma anche, ad esempio, dei contadini che avevano potuto sfruttare il periodo degli alti prezzi dei loro prodotti, venduti a borsa nera — si sfogassero nell’acquisto dei beni a cui avevano dovuto lungamente rinunciare: ed ecco, da ciò, aprirsi la spirale inflazionistica, essendo superiore la richiesta all’offerta. Si trattava di un fenomeno che si era verificato anche dopo la prima guerra mondiale, e ad esso i vari governi avevano cercato di porre un rimedio con prov­vedimenti che non avevano fatto altro che aggravarlo poiché erano ricorsi al protezionismo più rigido. Che era quello, in fin dei conti, che proponeva il Demaria. Perciò, sembrava che egli fosse propenso a ritornare ad una specie di autarchia, o almeno di razionamento, tale da consentire la rico­struzione del capitale industriale privato mediante lo sfruttamento del mercato interno, anche se non era alieno dal suggerire « un’imposta di ricchezza mobile fortemente progressiva », quando, però, il reddito fosse fornito da beni di consumo. Ma l’Italia non era ormai più la potenza orgogliosa del suo isolamento, come era stata durante il fascismo, ed era entrata, dopo la suddivisione in due sfere dell’Europa, nella sfera occi­dentale e non era più libera di disporre, come meglio credeva, della sua economia, perchè doveva adattarsi alla volontà degli stati più forti, che, allora, erano l’Inghilterra e soprattutto gli Stati Uniti.

9 Cfr. F. Catalano, L’Italia della dittatura alla democrazia, Milano, 1970, vol. II,pp. 181-82.10 Cfr. l’art. Prestito e moneta, del 23 agosto 1945, nel voi. Problemi economici e sociali del dopoguerra, 1945-1950, a cura di T. Bagiotti, Milano, 1951.

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La conferenza di Bretton Woods

Questo aveva, infatti, dimostrato chiaramente la conferenza di Bretton Woods) tenuta in un hotel isolato in mezzo alle foreste ai piedi del monte Washington, nel New Hampshire, fra il 1° e il 20 luglio 1944. In prepara­zione di essa erano stati elaborati quattro piani, che presero il nome dei rispettivi autori: l’economista inglese J. M. Keynes, il sottosegretario al tesoro americano H. White, il professore all’Università di Oxford E. F. Schumacher, e, infine, il francese H. Alphand. Ma gli ultimi due furono fatti conoscere solo frammentariamente, e, in verità, non esercitarono quasi nessuna influenza sull’ulteriore fase di formulazione dei progetti. Così, i due piani fondamentali rimasero quello Keynes e quello White, che ricevettero anche una specie di crisma ufficiale da parte dei due governi, poiché il piano Keynes venne presentato, in un libro bianco, nella seduta del Par­lamento britanico dell’8 aprile 1943 (Proposals for an International Clear­ing Union), mentre quello White, compilato da una personalità che rive­stiva una carica ufficiale nel governo americano (era vicesegretario al te­soro), era stato reso noto poco prima (United States Proposals for a United and Associated Nations Stabilization Fund). Tuttavia ci fu chi disse che quest’ultimo piano risentiva un po’ della fretta con cui Wash­ington, risalendo all’accordo monetario tripartito Francia-Inghilterra-USA del 25 dicembre 1936, aveva cercato di precedere il governo inglese e segnare così dei punti a proprio vantaggio su una questione tanto impor­tante 11.

Il Mantegazza sosteneva che, da un lato, si aveva un piano di ampio respiro, che non attribuiva le disastrose esperienze valutarie degli ultimi decenni soltanto a manovre politiche o ad aggressività economica, e, per­tanto, considerava anche alcuni sistemi antiliberistici, come, in partico­lare, la compensazione bilaterale, quali espedienti suggeriti dalle necessità, e, così, indici di nuove soluzioni. Si trattava, dunque, di un piano che affrontava il problema con spregiudicatezza e con arditezza e con quel fiducioso ottimismo riformatore con cui erano stati ideati pure altri piani in Inghilterra, durante la guerra, fra i quali bisognava ricordare soprat­tutto il piano Beveridge 11 12. D’altro lato, invece, c’era un progetto, anzi

11 Cfr. Financial News, 6 aprile 1943; Europa-Kabel, 16 aprile 1943; G. Mantegazza, Documentazione. Gli accordi monetari di Bretton Woods, in Lo Stato moderno, 5 settembre 1945.12 Sul piano Beveridge, cfr.: The Beveridge Report and the Public, London, 1943; C. C. Saxton, Beveridge Report Criticised, London, 1943; H. W. Singer, Can we Afford « Beveridge »?, London, 1943; L. Watt, A Catholic View of the Beveridge Plan, Oxford, 1943; The Problem of Unemployment, London, 1943; N. Kaldor and O thers, Planning for Abundance, London, 1943; B. W ootton, Full Employment, London, 1943; R. F. H arrod, Full Employment and Security of Livelihood, in The Economic Journal, dicembre 1943; A. G. B. Fisher, International Implications of Full Employment, a cura del Royal I nstitute of I nternational Affairs, London, 1946; J. H. G. P ierson, Full Employment and Free Enterprise, Washington, 1947.

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uno schema di progetto, che, per timore di scostarsi troppo dall’ortodos­sia e di sconfinare nell’utopistico, limitava volutamente i propri compiti -e si manteneva fedele ad una formula-oro, che il Keynes, considerandola quasi un residuo psicologico, sembrava considerare unicamente per quel tanto che gli era sufficiente a non urtare troppo violentemente potenti interessi costituiti.

Quarantaquattro delegati di altrettanti paesi furono presenti alla confe­renza, che fu, però, praticamente dominata dai due rappresentanti delle potenze più importanti: gli Stati Uniti, che possedevano circa i due terzi dello stock d’oro monetario (20.619 miliardi di dollari su un totale di 26,9 miliardi), e la Gran Bretagna, che nutriva l’illusione di potere, una volta finita la guerra, e iniziato il periodo della ricostruzione, giocare, con la sua moneta, la sterlina, un ruolo, internazionale. L’URSS prese parte ai lavori, ma passivamente, tanto che non firmò l’accordo finale 13. E i due personaggi più importanti furono naturalmente lo statunitense White, accusato, più tardi, di nutrire simpatie per il comuniSmo sovietico, mentre sembra che la sua azione fosse soltanto guidata dall’idea che se gli Stati Uniti avessero accordato un massiccio aiuto all’URSS (di circa 10 miliardi di dollari), questa, uscendo dalla povertà e dalla miseria, non sarebbe più stata nemmeno uno stato totalitario. La delegazione inglese -era naturalmente presieduta dal Keynes, il cui prestigio intellettuale era, in quel momento, al culmine 14. Era presente anche la Francia, sebbene gli USA non riconoscessero ancora il governo provvisorio di Algeri: il capo della sua delegazione era Pierre Mendès-France, il quale, resistendo efficacemente alle pressioni dei suoi colleghi di governo più propensi ad aumentare le spese pubbliche, era riuscito a mantenere intatta una note­vole riserva d’oro (dell’ordine di circa 1.177 miliardi di dollari), che si trovava a Dakar e alla Martinica.

Secondo il Fabra sarebbe alquanto semplicistico spiegare i negoziati

13 Cfr. P. Fabra, Vingt-cinq ans après la conférence de Bretton-Woods. On est toujours à la recherche d’un système monétaire stable, in Le Monde de l’économie, 8 luglio 1969; Après-demain, «journal mensuel de documentation politique», no­vembre 1969, numero dedicato a « La monnaie et l’économie mondiale ».14 « In Inghilterra — scrisse J. H. Williams, in un saggio Currency Stabilization-, American and British Attitude, in Foreign Affairs, gennaio 1944, poi nel voi. Postwar Monetary Plans, and Other Essays, New York, 19473 — ogni commento rivelava la forte decisione di non tornare più al gold standard ed a quella che era chiamata la ’troppo stretta giacchetta del 1925-31’ [ the ’Straitjacket of 1925-31’\. Una simile decisione sembrava comune a tutte le classi della comunità nazionale. L’opposizione al piano White era risoluta [...]. Sul piano Keynes, l’opinione pubblica inglese era generalmente favorevole, sebbene, a Londra, 1 'Economist del 28 agosto [ ’43], dopo una sospensione di giudizio durata alcuni mesi, insistesse sulla sostanziale somiglianza dei due piani, e mettesse in guardia sul pericolo di ripetere l’errore del gold standard del 1925 e di mettere in piedi un sistema eccessivamente rigido che non avrebbe potuto essere mantenuto, ed esprimesse dubbi sulla sicurezza che anche il piano inglese fosse abbastanza flessibile per lavorare nelle condizioni che molto probabilmente sarebbero esistite dopo la guerra.

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di Bretton Woods unicamente con l’opposizione fra il White e il Keynes: questo perchè bisogna tenere presente il modo come avevano reagito i due paesi alle conseguenze della grande crisi del 1929, che era stato un modo profondamente diverso, perchè la Gran Bretagna aveva distaccato il valore della sterlina dalPoro; nel settembre del 1931, con il risultato di renderla teoricamente oscillante (fluttuante), con due eccezioni abba­stanza importanti: a) l’Inghilterra aveva stabilito con i paesi con cui man­teneva intensi rapporti commerciali (praticamente con il suo impero) una zona-sterlina all’interno della quale i cambi erano rigorosamente fissi; b) Londra aveva creato un fondo di stabilizzazione dei cambi che inter­veniva ogni volta che si dovevano limitare le fluttuazioni della sterlina nei riguardi di altre monete, franco, dollaro, ecc. Gli USA, invece, avevano seguito una via diversa, poiché, dopo aver abbandonato anch’essi il rap­porto del dollaro con l’oro, nel marzo del 1933, vi erano ritornati — con il presidente Roosevelt — nel gennaio del ’34, fissando una nuova parità oro-dollaro (1/35 once). Fra il 1936 e il 1940 si verificarono immensi trasferimenti di capitale dall’Europa negli Stati Uniti, per sfuggire alle difficoltà politiche ed agli imminenti pericoli di guerra, il che spiega come mai, alla vigilia del conflitto, più della metà delle riserve monetarie mon­diali si trovasse custodita nei forzieri di Fort Knox. Ma a partire dal 1942 gli americani e gli inglesi cominciarono ad avvertire l’importanza di riflettere sul sistema monetario del dopoguerra ; e da tali riflessioni nacquero, appunto, i due piani Keynes e White 15.

I quali differivano sostanzialmente, perchè l’idea fondamentale del primo piano era quella di far funzionare

l ’assieme dei movimenti valutari internazionali, dovuti agli scambi com­merciali, in un circuito chiuso, press’a poco come funziona il movimento mone­tario all’interno del sistema bancario di ogni singola nazione. M entre secondo il sistema aureo classico, i saldi delle bilance commerciali estere, non coperti da partite invisibili, verrebbero pareggiati con rimesse in oro, nel piano Keynes verrebbe creata una Clearing U n io n , che funzionerebbe come una stanza di compensazione internazionale I6.

15 « Nel grande fermento dei ’Postwar Plans’ — scrive R. M ossi, Les problèmes monétaires internationaux, Paris, 1967 — che, in piena guerra, agitarono gli. inglesi e gli americani, i problemi monetari conquistarono ben presto il primo posto, prima ancora dei programmi di ricostruzione economica e dei progetti politici ». In tal modo, i due grandi piani monetari, il piano Keynes e quello White, furono pubblicati in anticipo e portarono a lunghe discussioni e alla elaborazione di un piano alleato ufficiale, che fu, poi, sottoposto alla conferenza di Bretton Woods, e che, approvato il 21 aprile 1944, fu noto sotto il nome di Joint Statement by Experts on the Establi­shment of an International Monetary Fund of the United and Associated Nations (cfr. il testo inglese in Proceeding and Documents of the U. N. Monetary and Financial Conference, Bretton Woods, New Hampshire, July 1-22, 1944, a cura del Diparti­mento di stato, Washington, 1948, vol. II; il governo britannico pubblicò, poco dopo, un altro White paper in cui metteva a confronto il piano Keynes con il Joint Statement: cfr. S. H ome, The International Monetary Fund, London, 1964).16 Cfr. G. Mantegazza, art. cit.

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Per evitare troppe complicazioni, avrebbe dovuto essere creata una unità monetaria internazionale, il b a n c o r , con un valore stabilito in oro, riconosciuta dagli stati aderenti al piano, e con cambio fisso rispetto alle varie valute nazionali. Ogni stato avrebbe dovuto aprire un conto presso la C lea r in g U n io n , accreditato di una somma in b a n c o r corrispondente al suo movimento commerciale nel triennio prebellico, somma che avrebbe dovuto costituire la cifra più alta di credito concessa ad ogni stato. Le banche centrali, o gli istituti corrispondenti, avrebbero comunicato i saldi delle loro bilance commerciali alla C lea r in g U n io n , che avrebbe effettuato le compensazioni mediante addebitamenti o accreditamenti in b a n co r sui conti degli stati partecipanti, i quali si sarebbero impegnati a non chiedere alla C lea r in g U n io n il versamento dei saldi in oro.

Naturalmente, il sistema non poteva impedire l’accumularsi di saldi debitori o creditori a seconda se le bilance commerciali fossero state croni­camente attive o passive, sicché il piano prevedeva alcune misure atte a porre rimedi alla natura dei saldi. Anzitutto, cercava di proteggere i paesi creditori imponendo a quelli debitori di saldare il loro passivo versando alla C lea r in g U n io n oro, divise estere o monete nazionali; prevedeva anche la svalutazione della moneta o il controllo delle esportazioni di capitali. Ai paesi creditori imponeva, al contrario, come prima misura, una espan­sione del credito e della domanda interni; inoltre, non rivelandosi suffi­cienti tali misure, una rivalutazione o una riduzione delle tariffe doganali; infine, come ultimo provvedimento, la concessione di prestiti internazio­nali per facilitare lo sviluppo economico di altri stati. « Quest’ultimo punto — osserva il Mantegazza — è molto importante perchè mostra come il piano, da un miope concentramento dell’attenzione sugli scopi più immediati, si sollevi ad una visione più ampia della vita economica ». Ed in realtà, mediante l’apertura automatica di crediti ai paesi in deficit, il Keynes voleva tendere alla creazione di una giunta di investimenti inter­nazionali e di una giunta economica internazionale, incaricata della stabi­lizzazione dei prezzi; entrambe, poi, operando di concerto e servendosi dei fondi inoperosi giacenti presso la C lea r in g U n io n (proprio allo stesso modo di coloro che, forniti di spirito di iniziativa, utilizzano il denaro inoperoso depositato in una banca), avrebbero potuto sviluppare l’economia dei paesi arretrati e, nel tempo stesso, equilibrare le fluttuazioni del ciclo economico. Insomma, come scrive R. Mosse l7, la C lea r in g U n io n dell’economista bri­tannico non era solo un meccanismo di compensazione multilaterale, dal momento che « avrebbe potuto diventare il cardine del futuro governo economico mondiale » 18 ; avrebbe potuto favorire la fondazione di una Agenzia speciale di aiuto e di ricostruzione; finanziare un organismo inca-

17 Cfr. R. Mosse, op. cit.18 Cfr. S. H orie, op. cit.

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ricato di mantenere la pace, pronto a servirsi dell’arma del blocco finan­ziario; estendere la sua azione al controllo dei prezzi e delle risorse di materie prime; e, infine, essere completata con una banca internazionale di investimenti e con un organismo di regolamento della congiuntura.

Come osserva il fedele discepolo e biografo del Keynes, R. F. Harrod 19, la C lea rin g U n io n non aveva bisogno di attività iniziali di alcuna entità, perchè queste si sarebbero accumulate nel corso del suo funzionamento.I crediti che il Keynes avrebbe voluto fossero messi a disposizione in base al suo piano, avrebbero dovuto ammontare press’a poco a venticinque miliardi di dollari; al contrario, il piano White ne offriva solo cinque (si giunse, alla fine, ad una specie di compromesso, che fissò la somma totale a 8,8 miliardi di dollari20, ai quali si potevano aggiungere le quote degli aderenti). Si trattava di una differenza quantitativa molto sensibile che diventava, però, anche una differenza qualitativa21.

Ma, secondo il Fabra, la realtà sarebbe stata alquanto diversa, poiché soltanto in apparenza il Keynes voleva instaurare un ordine sopranazionale,

19 Cfr. R. F. H arrod, La vita di J.M. Keynes, Torino, 1965; ma lo stesso Harrod, allora, nel 1946 — cfr. A Page of British Folly, London, 1946 — fu di parere alquanto diverso da quello del maestro, perchè, pur dichiarandosi favorevole ai cambi flessibili o fluttuanti, disse di pensare che gli americani avessero ragione.20 Nelle discussioni fra le delegazioni inglese e americana, svoltesi il 1° maggio 1944, cioè prima della conferenza, il Keynes riuscì a raggiungere un accordo in base al quale la quota degli Stati Uniti avrebbe dovuto essere di 3 miliardi di dollari, quella inglese di 1 miliardo e 300 milioni e quella degli altri paesi di 8,5 miliardi (cfr. The International Monetary Fund, 1945-1965. Twenty Years of International Monetary Cooperation, vol. I, Chronicle, a cura di J. K. H orsefield, Washington, 1969, pp. 96-97: a p. 96 c’è una tabella con tutte le quote via via proposte dal giugno 1943 al luglio 1944). Secondo i calcoli USA del giugno 1943, il totale avrebbe dovuto ammontare a 10 miliardi e 64 milioni di dollari (cfr. A Suggested Formula for the Determination of Member Country Quotas, a cura dell’US Treasury, 9 giugno 1943), mentre le quote raccomandate dal Comitato nel luglio 1944 furono di 8.800 miliardi di dollari. Per la discussione su queste quote, cfr. O. L. Altman,, Quotas in the International Monetary Fund, in Staff Papers, vol. V, 1956-57, pp. 136- 41. Vi fu una protesta da parte del delegato francese, prof. Mosse, il quale disse che, alla fine, le quote erano state stabilite più o meno arbitrariamente dagli Stati Uniti (cfr. R. Mosse, Le système monétaire de Bretton Woods et les grands problèmes de l’après-guerre, Paris, 1948, p. 48).21 « Keynes — nota sempre l’Harrod — desiderava un fondo tanto abbondante- da ispirare ai governi la fiducia necessaria per allentare restrizioni poco amichevoli; venticinque miliardi di dollari avrebbero forse ottenuto lo scopo, cinque certamente- no. Il fondo doveva servire veramente di base alla costruzione di un mondo migliore, o ridursi a un modesto contributo alla soluzione dei problemi dei paesi più poveri?' Le opinioni contemporanee e successive fuori degli Stati Uniti sono state, in com­plesso, unanimi nel ritenere che il Keynes avesse ragione ». Senza dubbio, sostiene ancora il Mosse (op. cit.), il piano Keynes era più sistematico e pure più ambizioso,, ed anche se la Banca d’Inghilterra si mostrò riservata nei suoi riguardi (cfr. S. H orie, op. cit.), lo stesso economista così espose le sue idee alla Camera dei Lords: 1) vogliamo che il valore esterno della sterlina si adegui al suo valore interno e non viceversa; 2) intendiamo conservarci padroni del nostro tasso d’interesse interno e mantenerlo tanto basso quanto ci converrà; 3) non accetteremo più una deflazione dovuta ad influenze esterne; 4) ripudiamo il tasso d’interesse e la restrizione del credito come mezzo per allineare l’economia interna sulle esigenze esterne.

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mentre, in verità, la sua preoccupazione, come risulterebbe anche chiara­mente dai suoi documenti che ci sono rimasti, era di assicurare l’indipen­denza della zona-sterlina nei riguardi degli Stati Uniti e di tutte le altre istituzioni internazionali. Fu per questo motivo che egli insistette così a lungo sul carattere automatico dei crediti da accordare ai paesi debitori.

Se un delegato tedesco — soggiunge il Fabra — fosse stato nascosto in un angolo dell’hotel di Bretton Woods, non avrebbe potuto astenersi dal sor­ridere amaramente nell’osservare che la Clearing Union che voleva istituire il Keynes, non era altro che una estensione a tutto il mondo del sistema di paga­menti immaginato dal dottor Schacht. Infatti, è proprio vero che non si può scherzare con la moneta: se si ripudiano i principi di responsabilità nei con­fronti della comunità internazionale, che teoricamente sono impliciti nel tallone- oro, si arriva necessariamente a un sistema in cui i rapporti fra creditori e debitori sono regolati in maniera arbitraria, secondo la legge del più forte22.

Ed i più forti erano, allora, senza dubbio, gli Stati Uniti23: tuttavia,

22 Si può vedere quanto poco sia fondata questa alquanto maligna critica del Fabra da ciò che è successo, nel sistema monetario internazionale, negli ultimi mesi.23 Molti commentatori hanno, in effetti, messo in rilievo come « 0 rigore ortodosso » instaurato a Bretton Woods abbia giovato in particolare « all’economia dominante » (cfr. F. Perroux, Le pian Marshall, ou l’Europe nécessaire au monde, Paris, 1948, che anzi intitola tutto un capitolo L'Amérique et les responsabilités d’une économie internationale dominante), anche se il Perroux si rifiuta di inserire l’economia ame­ricana nell’ambito di una teoria dell’imperialismo e se non accetta le affermazioni di Thomas Balogh (in risposta ad un articolo postumo di Lord Keynes), in cui viene tracciato il quadro di una minacciosa Pax americana, che ricorda l’impero romano e che creerebbe una disparità di forze mai vista dopo l’apogeo di Roma e tale da superare lo stesso imperialismo britannico del XIX secolo. Per il Perroux un simile giudizio sarebbe un controsenso storico, reso più grave da un falso senso psicologico. E questo perchè? Perchè il perseguimento dell’interesse nazionale si collega, presso gli americani, con un’innegabile generosità realistica. Eppure, egli non si nasconde quali possono essere i limiti di Bretton Woods, che avrebbe voluto, come auspicava anche Jacob Viner (cfr. Two Means of International Monetary Stabilization, in Yale Review, voi. 33, 1943-44), accompagnato da un fondo internazionale di stabilizzazione dell’impiego, ossia del posto di lavoro, e che va inteso — aggiunge — per ciò che è, « come l’espressione di una fiducia accordata dalla maggioranza delle nazioni ad un metodo mondiale e l’intromissione di organismi internazionali tra le offerte dell’eco­nomia dominante e le domande delle economie meno progredite. È naturale — conclude — che, per abituare il popolo americano a metodi di cui non ha l’abitudine e per stimolare i debitori alla saggezza ed alla prudenza, si sia cominciato con un sistema molto rigido ».

Ad ogni modo, la discussione sulla validità di Bretton Woods fu, allora, molto intensa, ed a chi, come J. Lhomme (cfr. Le destin de l’Europe et les institutions de Bretton Woods, in Banque, dicembre 1947), dichiarava che l’Europa, per vivere, aveva bisogno di quelle istituzioni, anche per poter reagire alla tendenza che si andava rivelando nella politica internazionale a sostituirle con istituzioni nazionali, si opponeva un certo S. W. (cfr. Bretton Woods am Scheideweg, in Neue Ziircher Zeitung, 10 gennaio 1948), secondo il quale l’accordo monetario di B. W. si era dimostrato incapace di attuare i compiti che gli erano stati assegnati, perchè gli obblighi imposti ai vari paesi e la rigorosa osservanza delle parità monetarie ufficiali avevano ostacolato la formazione di un nuovo equilibrio nell’economia mon­diale ed avevano creato un serio pericolo per il commercio mondiale. Ad ogni modo,

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il piano White (detto « piano di stabilizzazione », il che voleva dire che l’accento era messo sulla necessità di ottenere tassi di cambio stabili e di impedire sostanzialmente le svalutazioni24) aveva una funzione netta­mente sussidiaria. L’organo, che avrebbe dovuto essere costituito in base ad esso, consisteva in un fondo monetario internazionale di stabilizza­zione, a cui ogni stato partecipante avrebbe conferito una quota determi­nata corrispondente alle sue riserve in oro e in divise estere, all’ampiezza delle oscillazioni della sua bilancia dei pagamenti e al suo reddito nazio­nale. La quota-parte doveva essere versata o in oro, o in moneta na­zionale, oppure in titoli emessi dallo stato. Il piano contemplava il caso in cui un determinato paese avesse bisogno di valuta estera per la sua bilancia commerciale: in tal caso avrebbe potuto acquistarla dal fondo contro il versamento di valuta nazionale fino ad un limite eguale al dop­pio della quota, salvo casi eccezionali previsti dal fondo stesso, che tutta­via non contemplava il caso in cui un dato paese avesse disposto di una eccessiva quantità di valuta. Non era imposta nessuna misura riequilibra­trice, tranne un generico impegno degli stati di offrire al fondo contro propria moneta o altra valuta estera, l’oro o le valute estere che avessero eccedute le scorte iniziali. Il piano, infine, proponeva la creazione di una moneta internazionale, detta u n ita s , a valore aureo e a parità fissa rispetto alle monete nazionali, che avrebbe servito al fondo come moneta di conto. Da parte loro, gli stati aderenti si impegnavano

a non variare le loro parità monetarie senza il consenso del fondo, e, in caso di variazione, a mantenere costante il valore assoluto complessivo della loro quota presso il fondo; a togliere, non appena lo ritenessero possibile, le restrizioni sui cambi e a non reintrodurle senza il consenso del fondo; a rinunciare ad accordi bilaterali di compensazione valutaria2S. il

il giudizio finale su questi accordi fu che si trattò di un « workable agreement », cioè di una passabile intesa.24 Secondo R. G. H awtrey (cfr. Bretton Woods for Better or Worse, London, 1946), il sistema di Bretton Woods non avrebbe contribuito a creare un efficace meccanismo per controllare il flusso della moneta. A suo parere, il difetto fondamentale di tale conferenza sarebbe stato di non avere posto sostanziali rimedi contro una espansione generale. E, a causa delle restrizioni che imponeva alle alterazioni delle parità di scambio, non avrebbe dato una adeguata soddisfazione a quei paesi che desideravano affrontare o un movimento inflazionistico generale o deflazionistico. Hawtrey asse­risce bruscamente che « il diritto di un paese ad alterare la parità della sua moneta non dovrebbe essere condiviso con nessuno »: il che sembrava — commentava Y Eco­nomist del 25 gennaio 1947 — che egli propendesse a negare ogni valore alla coope­razione internazionale nella sfera monetaria.25 Un esame acuto delle sostanziali differenze tra il piano Keynes e quello White è svolto da J oan Robinson, The International Currency Proposals, in The Economie journal, giugno-settembre 1943: secondo lei, lo schema unitas era poco favorevole ai paesi creditori, poiché i loro deficit dipendevano dall’ammontare della somma sottoscritta presso il fondo monetario internazionale in base ai surplus degli stessi paesi, mentre con il bancor il deficit di un paese poteva essere riconosciuto dalla Clearing Union introducendo controlli, se ciò non fosse già stato fatto, come condi­zione per aumentare il debito oltre la metà della sua quota. Sotto questo aspetto,

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Per E. Janeway26 questo sistema monetario del White « sosteneva l’immobilismo reazionario », sebbene il suo autore fosse accusato di sim­patie per il marxismo, ma « il suo attaccamento all’oro rifletteva le vedute conservatrici del Marx ». Era un piano che ricostruiva semplicemente il sistema dell’oro screditato già nel 1931 27, e ad esso era stato solo aggiunto

affermava la Robinson, Yunitas è meno severa del bancor verso i paesi che godono di surplus, cioè di una bilancia attiva. Inoltre, Lord Keynes attribuiva grande importanza agli effetti educativi del bancor, e, di fronte a ciò, le complicazioni (the intricacies) àeWunitas non apparivano altrettanto morali. In un breve articolo, pub­blicato in questo numero della rivista, era lo stesso Keynes a chiarire i veri scopi del suo piano (cfr. The Objective of International Price Stability): « Alcuni paesi hanno avuto più successo di altri nei preservare la stabilità dei prezzi interni e un livello efficace dei salari [...]. Un paese comunista è in una posizione che gli consente un vero successo. Talune persone deducono da ciò che un paese capitalista è con­dannato a fallire perchè trova impossibile conciliare le condizioni del pieno impiego con un progressivo aumento dei salari. In base a questo ragionamento severe cadute e ricorrenti periodi di disoccupazione sarebbero stati finora i soli effettivi mezzi per mantenere un alto livello dei salari per un ragionevole e duraturo periodo. Ma è proprio questo che rimane da vedere. Quanto più saremo coscienti di tale problema, tanto più saremo in grado di superarlo ». Si vede, da queste parole, che sul Keynes continuava ad agire il ricordo delle disastrose conseguenze della grande crisi del 1929, né il nuovo dopoguerra poteva apparire, nel 1943-’44, molto diverso o meno penoso per i lavoratori, date le previste difficoltà della riconversione dell’industria alle esigenze di pace (alcune perplessità di J. H. W illiams, nei riguardi della Clearing Union keynesiana, sono espresse nell’art. After Bretton Woods, in Foreign Affairs, ottobre 1944, poi nel voi. cit. Postwar Monetary Plans).26 Cfr. E. Janeway, L’économie des crises, Paris, 1968, trad, dall’americano.27 Non solo dal 1931, almeno secondo a quanto disse R. G. H awtrey (cfr. The Gold Standard in Theory and Practice, London, 1947), il quale è stato sempre uno dei più decisi difensori delle teorie monetarie del ciclo economico ed ha sostenuto che il sistema aureo non rappresenta affatto un modo come attenuare le crisi, bensì è una dannosa ed ormai anacronistica difesa che, di fronte all’aumento dei prezzi, finisce con il rendere inevitabile la deflazione e, pertanto, il rovesciamento della tendenza. Lo Hawtrey era uno di quegli economisti che si solevano dire « volon­taristici », perchè credeva nella efficacia delle manovre monetarie per modificare l’andamento ciclico tradizionale dell’economia. Con una sua significativa formula, egli di solito affermava che il valore della moneta non dipende dal valore dell’oro, ma il valore dell’oro si adegua, invece, al valore delle unità monetarie: si trattava di un quasi completo capovolgimento dell’ottocentesca fede nel gold standard, che avrebbe dovuto essere una conseguenza di una continua cooperazione delle banche di emissione dei singoli paesi. Da tali sue posizioni derivava il giudizio dell’Hawtrey su Bretton Woods (alla fine del cap. V ili c’è un interessante confronto tra i risultati di quest’ultima conferenza e quelli di Genova). Bretton Woods — egli scrive, ribadendo il suo già noto giudizio negativo — volle realizzare un gold standard molto più coerente e realistico di quello classico, poiché fissò dei limiti ai muta­menti del valore aureo delle monete, limiti a cui, come l’esperienza aveva dimostrato, non si era mai assoggettata nessuna legislazione che confidasse nell’automatismo della moneta: « Con Bretton Woods la moneta verrà legata all’oro ancor più strettamente che con il primo gold standard (tuttavia, il sistema è basato sull’adesione delle autorità monetarie dei vari paesi al principio dei cambi fissi, il che significa che questi ultimi considerano il mantenimento di simili tassi un obiettivo altamente prio­ritario di fronte al quale sono spinti a sacrificare tutti gli altri ». Quei paesi dovevano dichiarare la parità della loro moneta « in termini d’oro o di dollari degli USA del peso e del valore in vigore il 1° luglio 1944 ». Ma c’era una eccezione a tale regola, costituita dal fatto, che gli Stati Uniti, la cui moneta corrispondeva a 35 dollari l ’oncia d’oro, non erano costretti ad intervenire sul mercato dei cambi, ed erano solo

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il fondo monetario internazionale, come difesa contro il ritorno di crisi finanziarie devastatrici e come compromesso illuminato con i partigiani più avanzati del Keynes. Ma questo piano, alla fine, riportò la vittoria su quello dell’economista britannico. Eppure la struttura ideata dal W hite poteva funzionare fino a quando gli Stati Uniti avessero voluto e potuto' assumersi il ruolo di finanzieri del mondo, eppure il Keynes aveva affermato che soltanto un’istituzione internazionale avrebbe potuto svolgere tale compito. Ed il Fabra, nell’articolo più volte citato, forse più duramente, sostiene che gli americani fecero prevalere l’idea che il diritto di ottenere dei prestiti dal fondo sarebbe stato un privilegio e non un diritto, cioè che essi non sarebbero stati accordati automaticamente. Ci si trovò, così, di fronte ad una tipica esigenza dei creditori, giacché gli Stati Uniti si fecero forti di tutta la loro influenza per imporre l’oro come la pietra angolare del sistema, al contrario dei progetti del Keynes, che cercavano- di limitare al massimo il contributo in oro dei paesi europei, e, in parti­colare, della Gran Bretagna28.

Ma, senza molti misteri, C. Morgan lascia capire che allora l’Inghil­terra rivelò, nella conferenza, la propria situazione, che sarebbe stata quella di un paese che aveva liquidato le proprie riserve di crediti sull’estero e anche gran parte delle fonti di tali crediti: sarebbe stata, pertanto, la posizione di un paese che aveva assoluto bisogno di un credito interna­zionale e che attingeva, a questo proposito, alle risorse nord-americane. Di una simile esigenza, che spingeva il popolo britannico a puntare sul commercio estero per riequilibrare la propria posizione internazionale, si era fatto interprete il Keynes. Tuttavia, negli stessi Stati Uniti gli accordi di Bretton Woods destarono forti critiche, poiché non si riusciva a capire come mai si fosse attuato un sistema unico, manovrato dallo stato, per i prestiti esteri. Ma, dall’altra parte, si accennava alla necessità che alla ricostruzione economica delle « aree » distrutte o minorate dalla guerra, dovessero prendere parte non i singoli (come avrebbe potuto avvenire mediante il tradizionale sistema delle banche), bensì istituzioni di carattere

tenuti ad impegnarsi a comperare ed a vendere l’oro a tale livello, mentre potevano la­sciare alle altre banche centrali il compito di intervenire per mantenere il tasso invaria­to rispetto al dollaro: cfr. J. W eiller, La convertibilité monétaire de 1958 et l’aban­don du protectionnisme traditionnel, nei Cahiers de l’ISEA, t. IV, n. 5, maggio 1970). Da ciò scaturiscono le sue critiche più vivaci e la rivalutazione del convegno di Genova, sicché può concludere augurandosi che Bretton Woods ne accolga le esigenze fondamentali: « Il piano di Bretton Woods aborre la contrazione dell’economia, e tale contrazione può essere evitata con una generale riduzione delle parità auree. Ma ciò aprirebbe la via ad una rinnovata espansione. E l’idea che un’illimitata espansione possa essere tollerata è un fatale traviamento ».28 Ma oggi, 1970, gli americani sono nella situazione dei debitori (infatti, all’inizio del 1969, possedevano solo 10.936 miliardi di riserve metalliche di contro a 38,9 miliardi di dollari in tutto il mondo); è per tale motivo che essi favoriscono soluzioni (come l’apertura di diritti di prelievo speciali utilizzabili senza alcuna condizione), esattamente contrarie a quelle di Bretton Woods.

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pubblico e con collaborazione internazionale: ciò si presentava opportuno anche per i rischi che l’opera di ricostituzione del potere d’acquisto del mondo poteva far sorgere. In verità, si accennava anche alla « stabilità » dei governi del dopoguerra, stabilità collegata al benessere generale. In tal modo, il Morgan giungeva a parlare dello spirito che animava gli accordi di Bretton Woods, in quanto l’uomo della strada era stato posto in grado di giudicare le finalità del sistema monetario escogitato soprat­tutto dagli Stati Uniti, che avevano finito con il far prevalere il loro punto di vista: il che era effettivamente in rapporto con la posizione di creditori del resto del mondo per merci e servizi e di detentori contem­poraneamente della maggior parte delle riserve auree allora esistenti. Que­sta era la critica fondamentale che veniva rivolta a Bretton Woods, seb­bene si facesse notare, nello stesso tempo, che un grande passo in avanti verso la rinascita economica mondiale era rappresentato dal riconoscimento della funzione, non certo disinteressata, ma logicamente impostata, che gli USA intendevano assolvere per il futuro29.

Uno dei punti più importanti degli accordi riguardava la fondazione del Fondo monetario internazionale, che, in effetti, tendeva ad un rian- coramento delle valute all’oro e si preoccupava, in particolare, di stabi­lizzare i cambi e di « evitare le svalutazioni monetarie in concorrenza l’una con l’altra ». Gli stati membri si impegnavano a fissare una parità mone­taria rispetto all’oro e al dollaro e a non variarla oltre l’I per cento in su e

29 C. Morgan, Bretton Woods: Clues to a Monetary Mistery, Boston, 1945. In effetti, come metteva in rilievo D. H. Robertson, in due nuovi capitoli aggiunti, nel 1948, alla ristampa del suo noto manuale su La moneta (cfr. Vicende e teorie monetarie nell'ultimo ventennio, in Moneta e credito, IV trimestre del 1948), « nel complicato corso della storia monetaria di questi anni eccezionali, si scorge lo svol­gersi di due fili conduttori differentemente colorati, di due influenze in conflitto operanti in senso contrapposto negli organi deliberativi delle nazioni e persino nei pensieri o discorsi o atti di quelle preminenti personalità (quali un Roosevelt o un Keynes) che ebbero un ruolo di particolare rilievo nella guida degli eventi. Da un lato, il proposito di trattare la moneta come ancella e non come padrona della politica economica nazionale, sia che questa fosse soprattutto diretta al superamento della depressione, alla preparazione della guerra, alla efficiente condotta della ’econo­mia di assedio’ del periodo bellico, ovvero all’opera di riassetto postbellico. Dall’altro lato, il riconoscimento che nessuna nazione può vivere da sola, e che se ciascuna di esse si propone di saltare sopra le spalle di un’altra, è sin troppo probabile che tutte finiscano per cadere a terra. Questi due fili conduttori sono chiaramente indi­viduabili in quel complicato documento che è noto ufficialmente come atto conclusivo della Conferenza monetaria e finanziaria delle Nazioni Unite, convocata nel 1944 dalle nazioni che allora si avviavano sul cammino luminoso deila vittoria, allo scopo di regolare nel modo migliore gli affari monetari postbellici, e che diede origine a due nuove istituzioni: il Fondo monetario internazionale e la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo. Le 44 nazioni che hanno sinora aderito [e che salirono a 49 alla fine del 1948] alla prima di dette istituzioni, hanno dichiarato ciascuna (o, in alcuni casi si sono riservate di dichiarare entro un breve periodo di tempo) la ’parità’ della loro unità monetaria in termini di oro o in termini di ’dollaro degli Stati Uniti del peso e della finezza in essere al 1° luglio 1944’ (una ’rara avis’ che nessuno ha ancora visto, giacché le è proibito di venire alla luce) ».

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in giù senza il consenso del Fondo; a non permettere variazioni nei cambi e nei prezzi dell’oro, rispetto alla parità della loro valuta, superiori a quelle stabilite dal Fondo stesso; a non adoperare le risorse ottenute dal Fondo per trasferimenti di capitali che non fossero destinati ad ordinari affari commerciali30. Veniva abbandonata l’idea di una moneta interna­zionale, che, d’altronde, nel piano White « dava la sensazione di un’ag­giunta non indispensabile » 31. « Non occorre insistere [si faceva osservare in 'Banca d e i r e g o la m e n ti in te r n a z io n a li , Q u in d ic e s im a r e la z io n e a n n u a le , 1° a p r ile 1 9 4 4 - 3 1 m a rzo 1 9 4 5 , Basilea, autunno 1945] sul fatto che, in pratica, il buon funzionamento del nuovo organismo dipenderà in gran parte dalla fiducia che questo saprà guadagnarsi »: cosa abbastanza semplice da capire, perchè l ’alterazione del valore di cambio di una moneta si sarebbe potuta ridurre ad una pura formalità, non essendovi altra alternativa possibile. E dubbi nascevano fin da allora sulla possi­bilità che gli 8.880 milioni di dollari, derivanti dalle sottoscrizioni dei partecipanti al Fondo, fossero sufficienti a soddisfare tutte le esigenze:

Ciò dipenderà (come si ammette generalmente) dal verificarsi o meno di determinate condizioni relative al movimento del commercio mondiale, del rego­lamento dell’indebitamento internazionale, della tendenza generale dei prezzi e della riuscita degli sforzi d ’ogni paese per mantenere l’equilibrio, tanto nella propria economia nazionale, quanto nei rapporti con il mondo esterno32.

Considerato da questo punto di vista, il Fondo non poteva essere preso in se stesso, isolatamente, ma doveva essere collegato con la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, un organismo decisivo per la ripresa postbellica, dal momento che il suo governatore e il suo direttore erano stati incaricati, in base alla « legge sull’accordo di Bretton Woods », di « ottenere prontamente dalla Banca un’interpretazione uffi­ciale circa la sua facoltà di concedere o garantire prestiti per programmi di ricostruzione economica e di ricostruzione di sistemi monetari, com­presi i prestiti di stabilizzazione a lunga scadenza ». Ne era derivata l’im­pressione, negli stessi Stati Uniti, che il compito della ricostruzione mone­taria spettasse piuttosto alla Banca che non al Fondo, o che almeno que­st’ultimo avrebbe avuto ampia e piena libertà di manovra solo quando

30 Tutto sommato, peraltro, i vantaggi di simili organismi sembravano al R obertson (op. cit.) di gran lunga superiori agli eventuali svantaggi, poiché il meccanismo del FMI non pareva così rigido come altri lo presentavano, sebbene egli concludesse che: « tutto quanto si può dire di un simile, rigido ritorno ad un totale liberismo, basato sul dovere morale di ogni membro di rispettare alcune norme essenziali e sulla fiducia di un quasi perfetto automatismo del nuovo sistema monetario mondiale, è che esso rispecchia i diritti preminenti dello stato più forte, che era voluto dal paese più sviluppato economicamente e che, pertanto, era sicuro di battere facilmente tutti gli altri nella dura concorrenza internazionale ».31 Cfr. G. Mantegazza, art. cit.32 Cfr. W .T. G. H acket, Bretton Woods, Toronto, 1945; T. Scitovsky, Money and the Balance of Payments, London, 1969.

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fosse stato posto rimedio alla disorganizzazione del periodo postbellico, mentre lo scopo della Banca diventava quello di far fronte alle difficoltà che sarebbero sorte nell’immediato dopoguerra.

Indubbiamente, la somma di quasi nove miliardi di dollari, di cui avrebbe potuto disporre il fondo per gli interventi più urgenti, come abbiamo detto, appariva alquanto esigua e tale almeno da limitarne la azione positiva. Il Mantegazza citava l’esempio della Polonia, la quale, con una quota di 15 milioni di dollari, avrebbe potuto ricorrere al Fondo, teoricamente e nel caso più ottimistico, per un massimo di 250 milioni di dollari, e con un funzionamento normale del Fondo stesso, per non più di 156,25 milioni di dollari: cifra molto, troppo bassa, per sperare di avviare efficacemente l’opera di ricostruzione del paese, terribilmente di­strutto.

D’altra parte, le previsioni di Bretton Woods si rivelarono ben presto troppo ottimistiche, poiché nessun paese fu capace di ristabilire, dopo la fine della guerra, la convertibilità delle rispettive monete, e ancor meno vi riuscì l’Inghilterra con la sua sterlina. Fra il 1946 e il 1956 si ebbe un notevole numero di svalutazioni, più o meno consentite dalle nuove autorità monetarie 33.

Il primo stato a dover consultare un organismo internazionale per procedere ad una riduzione del valore della sua moneta fu la Francia, ad essa costretta dal rialzo eccessivo dei prezzi — inflazione — , superiore e più rapido che negli altri paesi, derivante in buona parte da un conside­revole deficit della bilancia commerciale34, che condusse ad uno squilibrio che solo la svalutazione — non certo una rivalutazione — avrebbe potuto

33 Si verificava, in tal modo, ciò che, proprio nel 1946, aveva predetto R. G. H aw- trey (cfr. Bretton Woods for Better or Worse, cit.), per il quale i vantaggi del- l’lnternational Monetary Fund e della International Bank erano viziati dal fatto che si era trascurata, all’atto della loro fondazione, una vitale considerazione, cioè che la stabilizzazione del potere d’acquisto (o, come egli la dice, la « wealth-value ») delle unità monetarie doveva essere collegata insieme attraverso il Fondo. Ed era vero che una singola nazione poteva alterare la sua parità aurea se ciò era giustifi­cato da un « fondamentale squilibrio », ma questo poteva essere senza fatica invocato quando il problema era quello di coprire le fluttuazioni di breve periodo del ciclo. Che se, poi, tale ciclo continuava, il corso dei cambi fissi serviva essenzialmente per trasmettere le fluttuazioni da un paese all’altro. Ma, secondo C. W. Guillebaud (v. la recensione in Economie Journal, dicembre 1947), l’Hawtrey aveva troppo a lungo predicato sui pericoli della deflazione per convincere, ora, i suoi lettori degli opposti pericoli dell’inflazione. Egli era, senza dubbio, conseguente in questo, che una deflazione era soltanto l’inevitabile conseguenza di un’anteriore inflazione: « the way to stop a slump is to stop the boom ». Tuttavia, poteva sì essere possibile, dopo che era avvenuto, fissare il momento esatto in cui uno sviluppo moderato assumeva l’andamento di un boom dalle serie proporzioni, ma era una cosa molto diversa stabilire tale momento quando il presente, nel 1943-’44, era così oscuro ed il futuro talmente incerto.34 Cfr. L. Laurat - M. Pommera, Le drame économique et monétaire français depuis la Libération, Paris, 1953; M. N iveau, Histoire des faits économiques con­temporains, Paris, 1966-69.

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sanare. Così, il 26 dicembre 1945 il franco fu svalutato una prima volta, salendo il valore della sterlina, che era stato, nel settembre 1939, di 176,25 fr. a 480 fr. e il dollaro da 43,8 fr. a 119,11 fr. Dopo tale data, la svalu­tazione proseguì inarrestabile, mentre le esportazioni venivano frenate dalla domanda interna sempre più alta di quanto non fosse l’offerta. La produzione era venduta in anticipo e questo non incoraggiava certo la esportazione, ma, nel tempo stesso, creava per alcuni prodotti condizioni di monopolio. Inoltre, il mercato nero delle divise, molto sviluppato, toglieva i mezzi per pagare le importazioni. Sicché, si era determinata una situazione nettamente favorevole ai grandi industriali, che poterono godere di un aumento dei prezzi del 22 per cento fra l’agosto 1946 e l’ottobre 1947 (indice da 733 a 796) e del 60 per cento fra l’agosto 1947 e l’ottobre 1948. Il che rese inevitabile una nuova svalutazione del franco che rag­giunse l’80 per cento, il 26 gennaio 1948 (la sterlina fu portata a 864 fr. e il dollaro a 214,39 fr.). Successive manipolazioni della moneta fecero passare il valore della sterlina a 1.062 fr., nell’ottobre del 19483S, mentre, nel settembre del 1949, tale valore venne fissato a 980 fr. e quello del dollaro a 350 fr.

Si trattava, indubbiamente, di una svalutazione, e di un conseguente processo inflazionistico notevole, che provocò una forte ondata di scioperi, dato il desiderio dei lavoratori di far riacquistare al loro salario il per­duto potere d’acquisto. Così, il 6 settembre del 1948, il ministero Schuman accordò un premio fisso di 2.500 fr. a tutti gli operai, e, subito dopo, nell’ottobre, il nuovo governo Queuille decise un aumento uniforme del 7 per cento, e, nel tempo stesso, l’imposta cedolare sui salari era sostituita

35 Per la svalutazione del gennaio 1948, essa venne studiata da un consiglio di gabinetto straordinario del 13 gennaio; il 15, il ministro delle finanze francese, R. Mayer, partiva per Londra al fine di ottenere l’adesione del suo collega britannico, Sir Staffort Cripps al piano francese. Ritornò il 18 senza avere avuto l’assenso dell’Inghilterra, che temeva, da un ritorno al mercato libero delle divise, una svalu­tazione effettiva della sterlina nei riguardi del dollaro. Nel tempo stesso, Mendès- France cercava di strappare l’indispensabile permesso al Fondo monetario internazio­nale, ma, anche qui, la richiesta francese si urtava contro l’opposizione inglese che portò ad un rifiuto. Malgrado queste opposizioni, la svalutazione fu annunciata il 25 gennaio 1948: creava un regime provvisorio, il cui scopo principale era di favorire le esportazioni e il rientro delle divise. Fissava praticamente tre diversi corsi per il franco: uno ufficiale, svalutato dell’80 per cento; un corso libero determinato dal gioco della domanda e dell’offerta sul mercato delle divise, e, infine un corso medio, sui 260 franchi per un dollaro, praticato dagli esportatori francesi nei loro acquisti di divise, e che doveva essere effettuato per metà al corso ufficiale e per metà sul mercato libero. Nell’ottobre, la nuova svalutazione, del 22 per cento, fu resa necessaria dal bisogno di favorire le esportazioni, ma anche dalla constatazione di alcuni inconvenienti nati da quella precedente del 25 gennaio, e soprattutto dal fatto che, ufficialmente, la sterlina si era deprezzata rispetto al dollaro (causando, in tal modo, difficoltà al commercio francese) e dalle complicazioni causate da un sistema a tassi multipli che rendeva alquanto oscuri i risultati della politica finan­ziaria decisa (cfr. L'année politique, 1948, a cura di A. Siegrieed, Paris, 1949, pp. 9-10

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da una somma versata dai lavoratori. Ma nemmeno questi provvedimenti valsero a far calmare l’agitazione degli operai, i quali continuarono i loro scioperi intensi in seguito al deprezzamento del franco, scioperi fra i quali il più lungo e il più grave fu quello nelle miniere, ai primi d’ottobre del 1948. Ma questa via di riequilibrare la bilancia dei pagamenti per mezzo di manipolazioni monetarie fu una pura illusione dei vari governi, poiché un paese in forte ritardo nel suo sviluppo industriale, e, per di più, colpito in misura notevole dalle distruzioni della guerra, non poteva essere in grado di ritrovare le sue capacità di esportare prima di avere portato a termine la ricostruzione del suo capitale produttivo. « Il Fondo monetario internazionale — si chiede M. Niveau — non era forse chiamato a distin­guere gli ’squilibri fondamentali’ dagli squilibri di natura congiunturale? Ai primi non si potevano applicare rimedi puramente monetari, perchè sarebbero stati inefficaci. Fu questo il motivo per cui il controllo dei cambi ed i controlli quantitativi rimasero i migliori metodi di difesa di tutti i paesi europei durante il duro periodo della ricostruzione » 36 37.

C’era, inoltre, un’altra considerazione che rivelava chiaramente come il sistema attuato a Bretton Woods dovesse essere in funzione degli inte­ressi predominanti degli USA: dal criterio di assegnazione dei voti e dal meccanismo delle elezioni risultava che, su un totale di 12 amministratori, 4 ne sarebbero spettati alla Gran Bretagna e al suo impero, 4 all’Europa compresa la Francia, 2 alle Americhe del nord e del sud, 1 all’URSS e 1 alla Cina. Ma il numero dei voti di cui avrebbe potuto disporre ciascuno di questi aggruppamenti sarebbe stato in proporzione profondamente di­versa perchè gli Stati Uniti e le repubbliche dell’America latina, che gra­vitavano nell’orbita di quelli, disponevano di quasi il 35 per cento dei voti, l’impero britannico di circa il 26 per cento, l’Europa del 16 per cento, la Russia del 12,5 per cento, la Cina del 6 per cento, mentre fra tutti gli altri Stati doveva essere suddiviso il rimanente 4,5 per cento.

L ’in g re sso d e l l 'I ta l ia n e l s is te m a d i B r e t to n W o o d s

Secondo il Fabra, il quale riflette chiaramente l’opinione negativa sulla conferenza molto diffusa, soprattutto in questi ultimi anni, nel suo paese dietro l’influenza del Rueff, si può dire che il Fondo monetario non abbia giocato alcun ruolo nella ricostruzione monetaria dell’Europa17.

36 Cfr. M. N iveau, op. cit.37 « Al momento in cui viene scritto il presente capitolo — afferma il Robertson, nelle conclusioni della sua opera citata, che è del 1948 — vi sono ordinazioni esterne per circa 575 milioni di sterline, cui non si è ancora cominciato a rispondere: ma siamo solo all’inizio. Nel frattempo si è fatto fronte con speciali accorgimenti a talune necessità immediate. In particolare, si è compiuto un tentativo di provvedere alle necessità della Gran Bretagna (uno dei pilastri delle due istituzioni) con prestiti in dollari per un importo pari a 930 milioni di sterline, da parte degli Stati Uniti, e di 310 milioni all’incirca, da parte del Canada: accordi che al momento attuale si

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Questo perchè alla svalutazione della Francia (a cui il fondo stesso oppose il suo rifiuto, non però alla svalutazione in se stessa, bensì alle misure che l’accompagnavano, tanto che il dissidio durò fino al 1954), seguì, nel settembre del 1949, la svalutazione della Gran Bretagna, che annunciò, solo con pochi giorni di anticipo, di avere l’intenzione di diminuire il valore della sterlina del 30,5 per cento. Ma questo giudizio, dato a poste­riori ed a lunga distanza dall’avvenimento, non corrisponde affatto al senso di sollievo che quasi tutti, allora, provarono per essere usciti finalmente dai molti danni, che talora si tramutarono in tragedie, che aveva causato l’abbandono del regime aureo, avvenuto già durante la prima guerra mon­diale e dovuto principalmente al fatto che il finanziamento di una lunga guerra, per di più « totale », non poteva farsi soltanto con imposte e prestiti, ma doveva attuarsi mediante il ricorso alla carta moneta, data l’ampiezza del fabbisogno finanziario38. Sempre a parere del Papi, la deviazione del potere d’acquisto di ogni moneta dal potere d’acquisto del suo contenuto metallico (« gold specie standard »), era avvenuta per cause quasi impon­derabili, e; ad ogni modo, indipendenti dalla volontà dei singoli governi,

appalesano meno adeguati di quanto apparirono allorché furono conclusi, dato il forte aumento verificatosi nei prezzi degli Stati Uniti e dato che la Gran Bretagna si è assunta l’occupazione di una larga fetta della Germania che le sta procurando un gravissimo costo in dollari ». Come si vede, il Robertson rigettava, in parte, sulla stessa Inghilterra la responsabilità della scarsa rispondenza alle necessità più pressanti degli organismi creati per rendere possibile la politica inaugurata a Bretton Woods: ma la realtà era che, come anch’egli doveva riconoscere, « una brocca di latte per un importo di 250 milioni di dollari » era stata fornita, nel maggio del 1947, alla Francia, e successivamente erano seguiti altri prestiti in favore dell’Olanda (195 mi­lioni di dollari), della Danimarca (40 milioni), del Lussemburgo (12 milioni), di com­pagnie di navigazione olandesi (12 milioni), e di enti pubblici cileni (16 milioni), per un totale di 525 milioni di dollari. Il problema era reso, poi, più grave dai fatto che, « nel contempo, la ricerca di ’ pascolo ’ sui mercati finanziari americani non si è dimostrata molto incoraggiante, pur avendo portato alla raccolta di 250 milioni di dollari in sottoscrizione dei titoli emessi dalla Banca; altra limitata emis­sione si è avuta sul mercato svizzero (per 17 milioni di franchi svizzeri). Quanto alle richieste rivolte alla Banca — era costretto alla fine ad ammettere —, esse superano i 2 miliardi di dollari ». Del resto, lo stesso Keynes, dopo aver affermato, in un articolo sull 'Economist (Bretton Woods Twins, in The Economist, settembre 1948), che il pericolo per i due « gemelli » consisteva in una intrusione politica, che li avrebbe fatti apparire organi del governo americano, amministrati da dirigenti americani, e che non avevano ancora potuto sostenere una efficace lotta contro i prezzi differenziali dell’oro né quella per la stabilità monetaria dei paesi membri, concludeva che le varie quote a disposizione degli stessi si erano rapidamente esaurite, ed il ritmo delle operazioni con il Fondo aveva subito un netto rallentamento, tanto che, nel periodo maggio-luglio 1948, esso aveva venduto valuta per soli 27 milioni di dollari, mentre per quanto riguardava la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, i mezzi a sua disposizione (circa un miliardo di dollari) si erano rivelati molto pochi in confronto alle urgenti necessità dei paesi associati. Tutto ciò avveniva — proseguiva la critica del Keynes — proprio nel momento in cui le spese amministrative per i due enti (che dovevano essere pagate in dollari, risiedendo a Washington) andavano aumentando.38 Cfr. G. U. P api, Che significa dopo tutto « Bretton Woods », in Rivista di politica economica, dicembre 1946.

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i quali, anzi, avevano cercato, in ogni caso, di ancorare di nuovo la loro moneta all’oro. Ma, non potendo, allora, conseguire tale scopo, per la mancanza della quantità di oro nel mondo necessaria al ripristino di una circolazione metallica, si era fatto ricorso al « gold bullion standard » e al « gold exchange standard ». Tuttavia, come è noto, l’Inghilterra, che aveva stabilizzato la sterlina, nel 1925, ad un corso, peraltro, troppo alto, era stata costretta nel 1931, a svalutare, dando origine a tutta una serie di sganciamenti dall’oro delle più potenti monete. Sempre secondo l’eco­nomia classica del Papi, poiché le svalutazioni accrescevano l’espressione monetaria delle scorte di oro e di divise esistenti nel paese,

tali scorte si destinano a dotare i « Fondi di stabilizzazione », « isolatori », entro certi limiti del mercato interno e del corso dei cambi dei movimenti internazionali di risparmio; « spugne », se si vuol meglio, di afflussi e deflussi di oro e di divise, per lasciare immuni le riserve della Banca centrale. Sorge così il « gold standard elastico », il quale, mediante interventi del Fondo di sta­bilizzazione più vasti di quelli consentiti dai sistemi precedenti, aspira a preser­vare il potere d ’acquisto della moneta all’interno e all’esterno più stabile di prima, perchè sottratto all’influenza delle correnti internazionali di risparmio.

Eppure, vennero a mancare le condizioni essenziali al funzionamento di un « gold standard elastico », nè le intese intercorse fra alcuni paesi impedirono che, dopo la svalutazione, « ogni paese giungesse all’egua­glianza tra potere d’acquisto dell’unità monetaria e potere d’acquisto del reale, o ideale, contenuto metallico », cioè all’eguaglianza fra il potere d’acquisto della moneta all’interno e il potere d’acquisto all’estero. Il prezzo delle divise continuava, anzi, a fluttuare sollevando notevoli intralci allo sviluppo del commercio internazionale. Sicché, afferma sempre il Papi, « già nel ’39, prima della seconda guerra mondiale, ritornava assillante il problema di una maggiore stabilità del potere d’acquisto della moneta », mentre i nazisti ed i fascisti andavano blaterando di fine del valore del­l’oro come termine di riferimento appunto del potere d’acquisto delle varie divise.

Ecco perchè, sia il Fondo sia la Banca erano visti, in definitiva, abba­stanza favorevolmente, in quanto rappresentavano un passo avanti sulla via di un sistema di « gold standard elastico »; ed anche se la loro portata era forse più che altro prevalentemente morale, tendevano a collegare tutti i paesi in un intento di collaborazione internazionale. Per questa ragione, il gesto degli Stati Uniti, che si mostravano ben disposti a venire incontro al resto del mondo, doveva, ancora secondo l’opinione del Papi, essere giudicato positivamente, purché questo resto del mondo non dimen­ticasse « che, per poco avesse una visione meno spaziosa dei nostri inte­ressi, [l’America] potrebbe passarsi il lusso di non agganciarsi all’econo­mia degli altri paesi e di lasciare che questi se la sbrogliassero da sè ». Non lo avrebbe fatto, poiché gli accordi di Bretton Woods rivelavano

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■esattamente il contrario, ed « anche se poi non dovessero fornire quanto se ne attende, hanno il loro significato (benedetta umanità!) di resipi­scenza », di resipiscenza cioè degli errori commessi dopo la prima guerra mondiale, se gli USA, con i loro venti miliardi di dollari accumulati nel forte Knox, con la loro potenza di lavoro gigantesca, con le loro ricchezze naturali, si mostravano pronti e disposti a venire in aiuto agli altri paesi. Certo, il sistema di Bretton Woods presentava già evidenti pericoli, il primo dei quali consisteva nel fatto che il Fondo rischiava di arenarsi se quasi tutti gli stati si fossero messi a richiedere la divisa di un solo paese — ad es., degli Stati Uniti — , con la quale compiere acquisti, e « se in conseguenza la moneta di tal paese diviene scarsa, nè si trovi altra ma­niera di immettere dollari, ad es., nel ’pool’ delle divise ». Inoltre, il Fondo, che era stato pensato principalmente per i periodi di squilibri solo temporanei, soltanto in parte aiutava ad attuare le condizioni di un « gold standard elastico »: in verità, per riuscire veramente a tale scopo, nella realtà dell’immediato dopoguerra,

si richiederebbe il concorso contemporaneo sia di larghi prestiti esteri, a media e a lunga scadenza (essi sono in grado di consentire ai paesi devastati Ai ricrearsi il reddito anteguerra e magari di svilupparlo), sia di trattati e accordi fra paesi, animati dal comune desiderio di sopprimere gradualmente le varie misure che ostacolano gli scambi.

Se tutto ciò non si fosse verificato, mai Bretton Woods sarebbe riuscito a tenere in piedi un sistema di « gold standard elastico ».

Come si vede, il giudizio, rimaneva alquanto problematicamente in­certo, sebbene apparisse, alla fine, più positivo che negativo: così, era, ad esempio, anche nel rapporto della Commissione economica del mini­stero per la Costituente, in cui si notava che le innovazioni apportate al vecchio sistema aureo classico dai nuovi accordi consistevano nella pos­sibilità concessa ai membri di sanare i temporanei squilibri della loro bilancia dei pagamenti mediante acquisto di valuta dal Fondo. Al contra­rio, nel predetto sistema aureo tali squilibri sarebbero stati sanati da immediati deflussi di oro, che avrebbero inciso profondamente sull’eco­nomia del paese, mentre nel regime monetario di Bretton Woods tali squi­libri venivano saldati con le valute che il Fondo metteva a disposizione dei membri39. Tuttavia, c’era anche chi non si nascondeva il pericolo che, di fronte agli USA, i quali non avrebbero avuto bisogno di ricorrere al Fondo, esistessero numerosi altri paesi, i quali avrebbero dovuto ricor­rervi, anche largamente, sia per un deficiente afflusso nelle loro riserve ufficiali delle valute provenienti dalle esportazioni, sia dalla preferenza dei propri cittadini a trattenere in valuta i proventi delle esportazioni

39 Ministero per la costituente, Rapporto della Commissione economica, pro­blemi monetari e commercio estero, parte I, Relazione, Roma, 1946.

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piuttosto che realizzarli sul mercato nazionale. Sicché, in alcuni ambienti americani si era messo in rilievo — però con scarso intendimento degli scopi del Fondo, affermava G. Parravicini40 — che, entro un relativa­mente breve periodo di tempo, gli Stati Uniti avrebbero potuto trovarsi con un forte credito immobilizzato verso il Fondo, davanti ad una notevole offerta di valute poco pregiate, od anche non liberamente spendibili, tanto che si riteneva più utile e sensato per l’economia internazionale abbando­nare alle banche private statunitensi il compito di provvedere esse diret­tamente crediti a chi dimostrasse di essere solvibile41. In questi ultimi articoli era anche espresso il dubbio, dal Williams, che in breve tempo il Fondo venisse caricato solamente di valute non convertibili e deboli, dub­bio al quale cercava di rispondere il White.

Il Parravicini metteva, inoltre, in rilievo le difficoltà delle conversazioni preliminari, poiché, pur essendo tutti convinti della necessità di una più ampia cooperazione internazionale, non sempre riuscivano a nascondere i divergenti interessi. Da un lato, infatti, c’erano gli USA, i quali erano presi dal problema di eliminare gli impacci al commercio e non si preoc­cupavano affatto della piena occupazione in tutti i paesi; dall’altro lato, c ’era l’Inghilterra, che, invece, poneva in primo piano il problema della occupazione e subordinava la libertà degli scambi all’impegno degli altri stati di mantenere condizioni stabili di pieno impiego. Infine, i paesi indu­strialmente meno avanzati temevano la concorrenza di quelli più progre­diti, mentre quelli che dovevano provvedere alla ricostruzione del loro apparato produttivo non si dichiaravano disposti a rinunciare a severe misure protezionistiche. Ma il dissidio più grave era quello fra gli Stati Uniti e l’Inghilterra, anche perchè era esso che minacciava di rendere vani gli sforzi intrapresi per dare un assetto normale alla cooperazione ed al commercio internazionale42. Nel passato, e in particolare fra le due guerre mondiali, si era tentato, ma solo tentato, di rimediare alle conseguenze di un anormale sviluppo dell’attività economica a carattere inflazionistico

40 G. Parravicini, Il sistema monetario di Bretton Woods, in Critica economica, febbraio 1947.41 Cfr. J. H. W illiam s, International Monetary Plans after Bretton Woods, in Foreign Affairs, ottobre 1944 (nel voi. cit.); ma per una serrata critica a queste obie­zioni cfr. il successivo art. di D. D. White, The Monetary Fund: Some Criticism Examined, in Foreign Affairs, gennaio 1945.42 Forse fu dovuto a questi contrasti il ritardo con cui il FMI entrò in azione: 1*8 marzo 1947, 1’Economist scriveva: « Questa è stata la settimana decisiva per le due istituzioni di Bretton Woods, la Banca e il Fondo. La Banca ha un nuovo pre­sidente, ed il Fondo ha cominciato le sue operazioni [...]. Perchè, senza un notevole programma di prestiti ad opera della Banca ci può essere scarsa fiducia che il Fondo mantenga tutte le speranze che sono state riposte in esso. Il Fondo è un meccanismo stabilizzatore che non può entrare effettivamente in azione se le condizioni che prevalgono fra alcuni suoi membri sono caotiche » (cfr. Bretton Woods in Practice). E, più tardi, il 17 maggio, lo stesso periodico esclamava: « Il periodo di formazione è stato lungo e talvolta addirittura angoscioso. Ma non si può dire che sia stato lutto tempo buttato via » (cfr. Bretton Woods Begins).

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o deflazionistico avente origine dall’estero. Così, alla influenza negativa di una flessione della domanda straniera, si era cercato di rispondere svi­luppando il consumo interno, come alle influenze inflazionistiche dall’este­ro, che giungevano in fase di piena occupazione, si reagiva riducendo la domanda interna. Si trattava, pertanto, di una politica compensatrice rozza e primitiva, che aveva portato « al progressivo isolamento economico, alle elevatissime barriere doganali, ai contingentamenti, ai controlli valutari e agli accordi bilaterali. Per combattere un male, se ne è prodotto uno ancora maggiore con conseguente abbassamento del reddito di tutti ». Come si sarebbe potuto allora uscire da un simile dilemma? Mediante « la coordinazione della politica generale dei redditi, dei prezzi e dei costi in tutti i paesi. È la politica della sincronizzazione dell’indirizzo econo­mico di tutti i paesi su un piano internazionale » 43 44.

Ma, come si è visto, gli USA, spinti dall’interesse delle loro scorte auree e per motivi contabili, riuscirono ad imporre a tutti gli altri paesi (erano 32 i membri del Fondo) l’accettazione della u n ita s , una unità monetaria equivalente a 10 dollari americani ed avente, pertanto, un contenuto aureo di gr. 8,8867 44. Il Fondo comunicò le parità definitive il 18 dicembre 1945, e da esse si vide che gli stati più danneggiati erano quelli europei, che maggiormente avevano sofferto dell’occupazione nazista (la Francia, ad esempio, ebbe fissata la sua unità monetaria per 1 dol­laro USA in 119.107 franchi, la Cecoslovacchia in 50.000, il Belgio in 43.827,5, ecc.). Per quanto riguardava, poi, l’Italia, si presero, come punto di riferimento, i dati della bilancia dei pagamenti, del com­mercio estero, del reddito e delle riserve auree del 1938, un anno cioè anormale perché in pieno regime autarchico, mentre si sarebbero dovuti prendere quelli del 1934: così si ottenne una quota di partecipazione al Fondo di 219,35 milioni di dollari, una quota, pertanto, « inadeguata alla nostra posizione nel mondo economico internazionale » 45. Una simile anormalità della situazione economica italiana, che probabilmente era stata tenuta presente nella determinazione della relativa quota, andava « considerata — soggiungeva il Masera — come transitoria, poiché al­l’interno sussistono elementi atti a stimolare la ripresa, prime fra tutte l’operosità e l’entità delle forze di lavoro esistenti ». Si trattava, però, di una posizione che puntava tutte le possibilità di ripresa sul sacrificio-

43 Cfr. L’expérience monétaire internationale, a cura della Società delle Nazioni, opera compilata da M. R. N urske, W. A. Brown J r., ecc., Genève, 1944; La stabilite économique dans le monde d'après guerre. La condition de la prospérité après le passage de la guerre à la paix, rapporto a cura della Commissione per la- studio delle depressioni economiche, p. II, Ginevra, 1945.44 Cfr. F. Masera, Considerazioni relative ai propositi anglo-americani di organiz­zazione monetaria postbellica, in Rivista bancaria, nn. 6, 7, 8, 1944.45 Cfr. F. Masera, La nostra quota di partecipazione al Fondo monetario interna­zionale, in Critica economica, aprile 1947.

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•delle forze di lavoro, come se si fosse ancora in un mondo chiuso in sistemi autarchici e autosufficienti, sostanzialmente autoritari.

Cosa assurda perchè, anzi, era proprio questo che Bretton Woods si proponeva di evitare, e ciò spingeva F. Masera a formulare « un giu­dizio sostanzialmente positivo sulla nuova organizzazione monetaria che si va instaurando », in quanto essa era basata sul « principio della soli­darietà economica internazionale », che trovava, per la prima volta, « una concreta, seppure imperfetta, attuazione » 46. Tuttavia, non si poteva af­fatto dire che si fosse restaurata una economia a tipo aureo come era stata quella del secolo scorso, retta dall’Inghilterra, perché — aggiungeva il Masera — l’indicazione della parità aurea aveva solo un carattere estrinseco e formale e non sostanziale.

La soppressione dell’automatismo del tipo aureo che si è realizzata a Bretton Woods, ha portato alla creazione di un sistema che, risultando dalla fusione di elementi antitetici fra di loro, trova la sua base di stabilità non tanto in se stesso, quanto piuttosto nell’animus dei singoli partecipanti e nello spirito di reciproca collaborazione e solidarietà.

Ma il giudizio finale su questa nuova organizzazione monetaria inter­nazionale rimaneva sostanzialmente positivo, poiché, come si è visto, per la prima volta « il principio di solidarietà economica » trovava una « con­creta, seppure imperfetta attuazione ». Più critico, peraltro, si mostrava G. Parravicini, nello scritto già citato, quando sosteneva che

senza un accordo internazionale che abbatta, o, ove ciò non sia possibile, riduca gli impedimenti al commercio internazionale e quelli al libero trasfe­rimento dei lavoratori, e senza una armonica economia congiunturale da parte di tutti i paesi, nessun sistema monetario internazionale, anche se munito di quei requisiti di flessibilità, di cui è stato munito il sistema di Bretton Woods, può durare a lungo.

Questo perché sarebbero stati necessari « una sufficiente libertà dei traffici » e un sicuro e saldo « coordinamento internazionale della politica economica di ogni paese », per evitare il perseguimento « di politiche economiche indipendenti al fine di mantenere all’interno la stabilità del­l ’occupazione », fine primordiale che, in quei momenti, tutte le nazioni cercavano di conseguire (basti pensare all’importanza assunta dal piano Beveridge); altrimenti, le opposte tendenze provenienti dall’estero avreb­bero finito « con l ’infrangere quel movimento automatico di riequilibrio della bilancia dei pagamenti, che discende dall’influenza che i mutamenti delle esportazioni e delle importazioni esercitano sul reddito monetario nazionale ». Sicché, qualora fosse perdurato lo squilibrio, ne sarebbero

46 Cfr. F. M asera , Lineamenti generali del sistema monetario di Bretton Woods, in Critica economica, giugno 1947.

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derivati spostamenti unilaterali dei mezzi di pagamento internazionale », finché, « esaurite le riserve auree e le disponibilità sull’estero, i paesi de* f ici tari [sarebbero stati costretti a ricorrere] alla svalutazione ed al controllo valutario e del commercio estero ».

Quando si trattò di negoziare la partecipazione dell’Italia agli accordi di Bretton Woods, il Demaria scrisse un articolo in proposito, il 6 ottobre 1946 47. A suo parere, tale adesione comportava l’accettazione di due « importantissime conseguenze », la prima delle quali consisteva nel fatto che « ogni paese membro è costretto a prendere le misure monetarie e finanziarie indispensabili ad impedire ogni ’slittamento’ della propria moneta rispetto alla parità calcolata in oro (o in dollari) assegnata alla moneta nazionale »: il che avrebbe dovuto rendere praticamente impos­sibile qualsiasi inflazione, o « manipolazione monetaria », finché almeno il paese fosse rimasto membro del Fondo. La seconda importava che ogni nazione, oltre a garantire il mantenimento di un cambio estero fisso, dovesse astenersi « dall’applicare restrizioni ai pagamenti relativi agli scambi intemazionali, né [potesseJ adottare misure monetarie multiple». Tutto questo si poteva riassumere nell’impegno a collaborare con gli altri stati per facilitare lo sviluppo e « l’accrescimento equilibrato del commercio internazionale ». Certo, il Demaria, in questo articolo, non poteva nascondersi che una partecipazione al Fondo finisse con il re­stringere « notevolmente i diritti degli stati »; per quanto contribuisse « a combattere il caos monetario », poiché costringeva le tesorerie alla politica del risanamento finanziario ad ogni costo. Problema delicatis­simo — egli lo diceva —, che era « avversato decisamente dai fautori della politica delle grandi spese pubbliche senza contro-partita di suf­ficienti entrate pubbliche fiscali ». Ebbene, scartata questa via, natu­ralmente iper le gravi deficienze dell’azione di governo, il Demaria ri­teneva che proprio quello rimanesse il problema fondamentale, soprat­tutto per una economia, come la nostra, che era orientata verso il com­mercio estero e che, perciò, avrebbe dovuto agire in prevalenza sul piano dei costi e dei prezzi internazionali, cioè nel campo della concor­renza internazionale. Secondo lui, era proprio questo campo che ci avrebbe potuto dare le maggiori soddisfazioni, poiché avevamo una manodopera a basso costo rispetto agli altri paesi (il che era, in verità, un motivo di arretratezza e non di progresso), e, poi, perché avevamo anche uno stato generalmente buono della tecnica produttiva, cosa di cui era senz’altro lecito dubitare.

Come si vede, era diffuso quasi in tutti un temperato senso di sol­lievo per l’adesione e la nostra ratifica degli accordi della conferenza, che, d’altronde, sollevò notevoli speranze pure in tutti coloro che assi­

47 Significato di Bretton Woods, in Problemi economici e sociali, cit.

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stettero a quella firma: ad esempio, Lord L. Robbins, dopo avere osser­vato che era stato restaurato un nuovo tipo di gold standard, « del tutto differente da quello tradizionale, con un grado di flessibilità mai con­templato in precedenza in transazioni di questo tipo », così proseguiva:

è passato molto tempo da quell’ultima notte di Bretton Woods quando tutti noi, in piedi, agitando il tovagliolo, ci rallegrammo col delegato russo che mostrava il telegramma di Stalin, con il quale era autorizzato a firmare l’atto finale della conferenza: firma che, considerando gli sviluppi successivi, non è forse mai stata onorata. Sicché, potrebbe essere un’utile introduzione alla discussione del problema presente, chiederci fino a qual punto si sono avverate le grandi speranze che noi tutti credevamo giustificate dal successo- di quella conferenza48.

In effetti, quelle istituzioni non sono mai riuscite a prevenire l’insor­gere dell’inflazione, che, peraltro, non « figurava nell’agenda » delle di­scussioni di Bretton Woods, sebbene essa fosse una delle maggiori pre­occupazioni del Keynes, come risulta da un appunto di Sir Ralph Haw- trey su una nota che era stata passata al Robbins dall’economista inglese, ed in cui questi diceva: « Ma che cosa è tutto questo discorso sui peri­coli della deflazione? L’inflazione, non la deflazione, è il problema del dopoguerra ». Ed aveva perfettamente ragione, come dimostrarono gli avvenimenti subito dopo la fine del conflitto, ma, nel 1944, appariva molto più naturale pensare ad una pesante ed opprimente crisi di defla­zione che ad ima galoppante inflazione. Tutto ciò, per quanto ci fossero precedenti esperienze, come quella del primo dopoguerra, che avrebbero' dovuto indicare proprio il contrario. Del resto, è noto che il Keynes esercitò, in ultima analisi, una scarsa influenza sulla conferenza, sebbene non si potesse certo dire che i piani degli esperti americani e britannici sui provvedimenti monetari mondiali, che prevedevano il ritorno al « gold standard », fossero accolti benevolmente in Inghilterra, dove si rivelò contro di essi la più « veemente delle opposizioni » 49.

48 Cfr. L. R o b bin s , Procedure e alternative, nel voi. La riforma monetaria e il prezzo dell'oro, a cura di R. H in s h a w , Bologna, 1968.49 Cfr. The Monetary Debate, nella rubrica « Notes of the Week », in The Economist, 13 maggio 1944. Fu forse per combattere questa veemente opposizione che, negli Stati Uniti, ci si sforzò di insistere più sulle somiglianze ed anche sulle eguaglianze di ispirazione dei due piani, al di là delle divergenze su alcune modalità di applica­zione (cfr. J. H. W il l ia m s , Postwar Monetary Plans and Other Essays, cit.). Ed anche il M o s s e (op. cit.) afferma che ci si è compiaciuti di opporre i due piani soprattutto di fronte all’opinione pubblica e di trasformare in un grande dibattito quello che spesso non fu altro che una differenza di espressione o di temperamento nazionale. D’altra parte, lo stesso Keynes volle attenuare il contrasto, osservando che fra il bancor proposto da lui e 1’ unitas proposta dal White, ci si sarebbe potuti mettere d’accordo su una nuova parola come Unitor, e anche parlò del « principale obiettivo comune ai due piani » con una frase: « assicurare che il denaro guadagnato vendendo delle merci a un paese possa essere dedicato all’acquisto di prodotti di qualsiasi altro paese. In breve, un sistema di clearing multilaterale, e, in inglese, una

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In tal modo, il Fondo monetario internazionale diventò una specie di banca mondiale, alla quale i paesi membri erano costretti a versare un contributo nella loro moneta nazionale o in oro, a secondo delle loro ricchezze e della loro importanza nel commercio internazionale. Pertanto, l’oro restava il mezzo normale di regolamento dei debiti contratti da cia­scuna nazione. Il FMI poteva fare, indubbiamente, dei prestiti ai paesi che ne avevano bisogno, ma quando tali prestiti superavano una certa somma, occorreva che essi fossero accordati dal consiglio che dirigeva l’organismo. E siccome tale consiglio era dominato dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dai paesi loro uniti economicamente, ecco che veniva a costituirsi un predominio degli stati anglosassoni. Il che consentiva loro di imporre ad un paese povero, oppure provvisoriamente indebitato, il quale domandasse al FMI un prestito superiore a quello che gli sarebbe stato accordato automaticamente, alcune condizioni che ne limitavano la libertà, poiché gli si poteva richiedere di ridurre il deficit del suo bilancio o, addirittura, di modificare la sua politica economico-sociale50. Così, chi veniva avvantaggiato maggiormente dal sistema monetario di Bretton Woods, erano gli USA, per quanto, negli anni successivi, gli aiuti Marshall e la ricostruzione delle economie europee distrutte, oltre ai trasferimenti dei capitali dagli Stati Uniti verso l’Europa o verso le altre parti del mondo e oltre alle fantastiche spese militari attuate dagli Stati Uniti stessi all’estero, abbiano provocato un evidente deficit nella bilancia ame­ricana dei pagamenti. Il che avrebbe dovuto imporre al governo statuni­tense di regolare tale deficit in oro, oppure anche di aprire un prestito al FMI. Ma l’enorme vantaggio del sistema americano era — comemette in rilievo il Beauvallet — che poteva regolare il suo deficit indollari: infatti, gli altri paesi li accettavano, generalmente, in sostituzione dell’oro, non solo, mentre anche le pressioni che gli USA erano in grado di esercitare su parecchi stati evitavano loro di ricorrere ai prestiti anzi­detto Pertanto, essi erano liberati dall’obbligo di presentare un piano finanziario tale da riequilibrare la bilancia dei pagamenti. Ma per otte­nere simile scopo, gli Stati Uniti avevano solo due vie, che non mo­stravano affatto l’intenzione di adottare: cioè diminuire le loro spese

’ universal currency ’ valida per le transazioni commerciali in tutto il mondo ». Tut­tavia, il Mossé, il quale pure si impegna nel tentativo di sottolineare i punti di convergenza fra i due piani, non può non mettere in rilievo una certa differenza nella posizione dell’uno e dell’altro piano nei riguardi delYétalon-or, e cita, a questo proposito, la Robinson (cfr. New Economics, New York, 1948), che ha messo in rilievo come il piano Keynes avrebbe consentito ai produttori d’oro ed ai « tesauriz- zatori » di trovare un impiego per il loro oro, per quanto fosse anche vero che la Clearing Union avrebbe potuto abbassare il prezzo dell’oro, in modo da liquidare praticamente la produzione aurifera e favorire uno spostamento dei capitali verso attività più utili all’umanità.50 Cfr. A. Bea u v a llet , La crise du système monétaire international, nel fase. cit. di Après-demain.

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militari oppure ridurre i loro investimenti in Europa. Questo meccani­smo permetteva, come abbiamo ripetutamente detto, di conservare, in larga misura, un certo dominio economico da parte degli anglosassoni, e, in particolare, degli USA. I quali, esercitando un diretto controllo sul FMI, avevano escogitato particolari procedimenti con cui evitavano di ricorrere all’aiuto del Fondo, in quanto esso offriva loro i capitali im­prestati ad un basso tasso d’interesse in Europa. Ebbene, tali capitali non servivano a colmare il deficit degli scambi commerciali, bensì a compensare i movimenti dei capitali degli Stati Uniti verso gli altri paesi, e così permettevano a quelli di farsi concedere a basso tasso d’in­teresse i capitali in Europa, con cui acquistare le imprese nell’Europa stessa.

Ecco un primo esempio del meccanismo economico in base al quale un paese sviluppato riesce ad esercitare il suo dominio sui paesi sotto- sviluppati, in cui non bisogna scorgere alcun miracolo, dal momento che se gli USA possono sfruttare questa situazione non è certo perché do­minano il FMI e il sistema monetario internazionale, quanto piuttosto perché l’alto grado di sviluppo tecnologico e scientifico permette loro di esportare in Europa, mediante i capitali a buon mercato che avevano preso in prestito da quei paesi, il loro progresso tecnologico, i loro bre­vetti, e, perciò, i loro avanzamenti ed i loro perfezionamenti nella scienza e nella tecnica. Si tratta — secondo il Beauvallet — di metodi di sfruttamento perfettamente conosciuti nella colonizzazione. Ma non bisogna pensare che i problemi monetari riguardino soltanto i paesi ricchi, i rapporti fra gli Stati Uniti e l’Europa, poiché, invece, essi hanno con­seguenze molto più gravi per i paesi cosiddetti sottosviluppati — o, come si diceva nell’immediato dopoguerra, poveri, depressi — dell’Asia, del­l’Africa e dell’America latina. Il fatto era che, per queste nazioni (la maggior parte delle quali sono giunte all’indipendenza recentemente, ne­gli ultimi vent’anni), le importazioni sono aumentate in maniera più rapida che le esportazioni. Le loro riserve si sono dimostrate insuffi­cienti e, di conseguenza, le difficoltà della loro bilancia dei pagamenti sono diventate quasi croniche. Fino a quando i paesi del Terzo mondo sa­ranno costretti ad importare i prodotti industriali, i cui prezzi aumentano incessantemente, ed a vendere le materie prime ed i prodotti agricoli, i cui prezzi, al contrario, diminuiscono, è chiaro che il loro problema di equilibrare la bilancia dei pagamenti, e, perciò, dello sviluppo, rimarrà insoluto. Essendo il sistema monetario completamente dominato dai paesi ricchi, e dovendo i paesi sottosviluppati accettare i prestiti alle condizioni imposte da quelli, il sistema monetario internazionale attuale consente un vero ed effettivo predominio (e sfruttamento) sulle nazioni povere da parte di quelle altamente sviluppate.

Inoltre, il sistema è in crisi anche per altri motivi, poiché il dol­

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laro è, nel tempo stesso, la fonte principale delle liquidità interna­zionali e la divisa del paese dominante, più potente. Una simile doppia funzione — sostiene giustamente il Beauvallet — spiega le contraddi­zioni fondamentali del sistema. Affinché il dollaro possa continuare a sostituire l’oro, dovrebbe essere una moneta « forte », cioè basata su una economia in rapido sviluppo ed in cui la produttività fosse elevata. E, sotto questo aspetto, si può dire che gli Stati Uniti assolvono al loro compito. Ma bisognerebbe pure che si trattasse di una moneta sempre in grado di rispettare i suoi impegni, sempre pronta, pertanto, a far fronte ai suoi debiti, il che non è possibile che mediante una bilancia dei pagamenti equilibrata. E questo non è affatto il caso degli USA, perché le riserve di questo grande paese, all’inizio del 1969, erano circa un terzo di quelle possedute dal resto del mondo (circa 10.936 miliardi di dollari rispetto a circa 38,9 miliardi): si era, dunque, capovolta la situazione del 1944, che aveva giustificato, in parte, la posizione del White e i congiunti accordi di Bretton Woods. Così, il dollaro può continuare ad essere la moneta-base per la liquidità internazionale solo se gli Stati Uniti ne lasciano circolare attraverso il globo una somma tale da rendere il totale delle liquidità sufficiente. Cosa che fa supporre che il deficit della bilancia dei pagamenti statunitense diventi un fatto perpetuo. Ma l’aumento indefinito di tale deficit minaccia di far crollare la fiducia in questa moneta, fiducia che è all’origine del sistema del « gold standard » 51.

51 Già nel 1946, il Keynes, in un suo articolo nel numero di giugno dell’Economic Journal (The Balance of Payments of the Unites States), si diceva piuttosto dubbioso nei riguardi della teoria della persistente « scarsità di dollari » nel mondo, e questo essenzialmente per tre motivi: 1) gli Stati Uniti non potevano continuare a lungo ad essere un paese creditore; 2) l’inflazione provocata dai prezzi e dai salari stava diffondendosi rapidamente negli USA; 3) una larga disponibilità di oro o di liquidità facilmente convertibile in oro o in dollari era altamente utile fuori degli Stati Uniti. A una simile tesi, che doveva dimostrarsi più tardi esatta, cercava di ribattere S. E. H a r r is , Dollar Scarcity: Some Remarks Inspired by Lord Keynes’ Last Article, in Economic Journal, giugno 1947, osservando che il Keynes aveva considerato soltanto l’aspetto favorevole ad un prossimo mutamento di posizioni nel mercato dei dollari. Riconosceva, peraltro, che esistevano, in qualche paese, riserve auree che si andavano rafforzando e che negli Stati Uniti si erano aperte tendenze inflazio­nistiche, ma, a suo parere, questi paesi avrebbero potuto approfittare della situazione a loro favorevole, meno di quanto l’economista inglese avesse previsto. Era, in effetti,, difficile dimostrare che, ad esempio, i salari fossero aumentati o aumentassero più negli USA che in Inghilterra. La verità era che la sterlina era sopravvalutata rispetto al dollaro e che se i prezzi, in Inghilterra, fossero stati liberati da ogni controllo e gli aiuti fossero cessati, l’indice del costo della vita in sterline sarebbe immediata­mente aumentato e la sterlina sarebbe diventata sottovalutata. In definitiva, sempre secondo l’Harris, gli Stati Uniti avrebbero dovuto trovare una effettiva e seria concorrenza nel campo della produzione perchè la « scarsità di dollari » venisse meno, e, per quanto riguardava la concorrenza inglese, questa avrebbe potuto diventare reale in un più o meno lontano futuro, quando cioè fosse stata annullata la disparità esistente in favore della produzione « man-hour » americana. (« An improvement in the man-hour output that still prevails »). Ma, come si vede, c’era un punto debole-

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Peraltro, un simile sistema appare ormai condannato per diversi mo­tivi: anzitutto, se il dollaro deve soddisfare i bisogni internazionali di liquidità, non può farlo che correndo il pericolo di una massiccia infla­zione e di una conseguente diminuzione del suo valore come moneta inter­nazionale; in secondo luogo, se gli USA cercano, al contrario, di salva­guardarne il corso, sono spinti a ridurre il deficit della loro bilancia dei pagamenti e, pertanto, a ridurre, nel tempo stesso, il volume del­le liquidità internazionali; ma, in tal modo, non farebbero altro che precipitare tutto il mondo, o almeno quella parte del mondo che dipende da essi, in una grave deflazione. Eppure, il sistema ha funzionato per circa vent’anni, poiché i paesi capitalistici occidentali hanno accettato di buon grado di accrescere le loro riserve in dollari per non mettere in pericolo il sistema monetario. Ma da qualche anno a questa parte sempre più hanno cercato di limitare tali riserve, e, prendendo adeguate prote­zioni contro una eventuale svalutazione di questa moneta forte, hanno chiesto, soprattutto da parte della Francia di De Gaulle, agli Stati Uniti il cambio di una notevole quantità di dollari in oro. In tal modo, le riserve americane sono calate in misura considerevole, il che ha diminuito la fiducia nella possibilità degli USA di far fronte ai loro impegni ed ha reso più acuti i contrasti di interessi fra i diversi paesi capitalistici.

Inoltre, altri elementi si sono aggiunti a questa pre-crisi (che sta or­mai precipitando in aperta crisi), elementi che rimettono in discussione tutto il sistema monetario uscito da Bretton Woods. Infatti, sotto la pres­sione degli ambienti capitalistici, i vari governi, in numero sempre mag­giore, hanno consentito ai loro cittadini di trasferire i capitali da una nazione all’altra (in seguito a temute perturbazioni politiche o sociali, ecc. ), mentre ogni stato si attribuiva la libertà di fissare autonomamente il tasso d’interesse. Da ciò ne sono conseguite differenze sensibili tra un paese e l’altro, con il congiunto incitamento ai capitalisti di investire

molto evidente in questo ragionamento dell’Harris, cioè che solo dalla Gran Bretagna potesse venire un serio pericolo alla funzione esercitata dal dollaro sul piano della produttività; ma se all’Inghilterra si fosse sostituito qualche altro paese, come, infatti, è avvenuto, un altro paese dotato di maggiore iniziativa? L’Harris cita, qui, un articolo di T. Balogh, The United States and the World Economy (in Institute of Statistics, Oxford, ottobre 1946), in cui lo stesso Balogh non si sarebbe dimostrato, per l’Harris, così ottimista come il Keynes sulla possibilità di risolvere il problema del dollaro, sebbene forse le conclusioni a cui il Balogh giungeva potessero apparire molto vicine a quelle dell’economista inglese: infatti, egli prevedeva una seria crisi negli USA, che avrebbe colpito anche tutte le altre nazioni, data la posizione dominante assunta dal­l’economia nordamericana e le misure restrittive che quel governo avrebbe adottato, con la conseguenza di una sempre più grave deficienza di dollari. L’Harris ribatteva che, pur convenendo sulla eventualità di una crisi, gli Stati Uniti avevano imparato « a great deal » e avrebbero saputo applicare prontamente le misure correttive (che non erano, poi, altro che misure keynesiane, poiché consistevano in provvedimenti di sicurezza sociale, di revisione delle imposte, di investimenti pubblici pur non senza una conseguente pressione inflazionistica sull’economia), di organizzazione delle trade unions [dei sindacati], ecc.).

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i loro capitali nel paese in cui il tasso era più alto. Pertanto, ogni giorno ingenti trasferimenti di capitali si effettuano attraverso il mondo (hot money) a seconda del variare del tasso (e noi, in Italia, abbiamo avuto, di tale fenomeno, dimostrazioni molto evidenti, in particolare, in questi ultimi anni, quando abbiamo dovuto registrare uscite clandestine di capi­tali dell’ordine circa di vari miliardi di lire al mese). Ma è chiaro che i governi non possono assistere a simili emorragie, i governi almeno, come non sembra sia sempre il caso dell’Italia, che non mantengono un rispetto ancora ottocentesco per la pura economia di mercato e per l’assoluta libertà di movimento del denaro. Ed allora, eccoli manovrare il tasso d’interesse, elevandolo in modo da rendere attraente l’investimento in patria dei capitali che altrimenti fuggirebbero all’estero, con la conse­guenza, peraltro, di creare dei profitti bancari che non hanno alcuna giu­stificazione economica, e di rendere più cari gli investimenti, poiché si alza l’interesse dei capitali presi a prestito dalle banche, rendendo, in tal modo, più difficile lo sviluppo e favorendo l’espandersi della disoccu­pazione (si tratta, d’altronde, di un metodo deflazionistico rivelatosi aper­tamente insufficiente e le cui conseguenze sociali possono essere gravi).

Ma questo non è tutto, dal momento che, quando i trasferimenti spe­culativi finiscono con il rappresentare una parte massiccia delle riserve di un determinato paese, i capitalisti di tale paese sono spinti ad espor­tare i loro capitali sempre più rapidamente verso quegli stati ritenuti sicuri, in modo da non rimanere vittime di una eventuale svalutazione. E, perciò, la situazione del primo paese non fa che aggravarsi di giorno in giorno. Ecco perchè il sistema monetario internazionale subisce sempre più duri colpi: gli uni cercano di speculare su un rialzo del prezzo del­l’oro, che potrebbe essere stabilito per accrescere l’ammontare delle liqui­dità internazionali, mentre gli altri speculano sulla debolezza di una moneta che minaccia di essere svalutata. In tal modo, i governi e le banche centrali sono costretti a far fronte a nuove crisi, che non sono altro che il risultato della rivalità tuttora esistente fra i paesi capitalistici. Ma tali crisi, lasciando intravedere il pericolo di una crisi mondiale, riescono ad introdurre, nella vita economica occidentale, qualche elemento di soli­darietà. Sicché, quando i capitali escono in misura allarmante da un paese, gli altri stati ricchi sono disposti a prestargli un po’ delle loro monete in cambio di quella del paese pericolante. Questo consente di ristabilire la fiducia per un periodo più o meno lungo, tanto che si è pensato di rendere simili crediti « swaps » automatici52, in modo da evitare la na­

52 F. D iw o k (cfr. Gold, Dollar und unser Geld, Vienna-Monaco-Zurigo, 1968) de­dica alcuni paragrafi a questo problema degli accordi di swap (dall’inglese to swap, cioè scambiare), e così ne parla: « Come complemento alle riserve in oro e in divise possedute da un determinato paese e in aggiunta alle possibilità di credito di cui esso dispone presso il Fondo monetario, 14 banche centrali importanti godono pure dei benefici di quelli che vengono chiamati accordi di swap. Tali accordi rappresen-

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scita di movimenti speculativi. Non si tratta certo di posizioni sentimen­tali, ma della acquisita coscienza di interessi comuni e di vantaggi com­merciali talvolta considerevoli che la nazione con la moneta svalutata potrebbe ritrarre da tale manovra economico-finanziaria, il che dannegge- rebbe notevolmente i paesi che non avessero adottato questo provvedi­mento 53. C’è stata sempre anche la preoccupazione di non indebolire maggiormente le varie maggioranze conservatrici, ritenute l’estrema difesa contro l’avanzare del socialismo e del comuniSmo.

Così, si può spiegare l’indulgenza delle varie potenze occidentali nei riguardi della Francia dopo che essa si rifiutò di svalutare il franco in seguito agli avvenimenti del maggio 1968 (novembre 1968), e, soprat­tutto, il loro massiccio aiuto dopo la svalutazione dell’agosto 1969. Ma ciò non toglie che ormai si parli apertamente di « occidente in fallimento », anche se le catastrofi, preannunciate ogni tanto regolarmente dall’econo­mista francese J.Rueff (sebbene, si debba riconoscere, con un serio fondamento)54) non si sono verificate. Eppure una cosa è certa, ed è che nè gli organismi internazionali nè le autorità monetarie sembrano più essere capaci di opporsi efficacemente ai movimenti speculativi. Un simile disordine monetario, in cui i vari governi non riescono quasi più

tano un quadro all’interno del quale una banca centrale può, a breve termine, scam­biare la propria moneta contro un’altra, ma simili accordi di scambio possono essere interessanti per le due parti purché la moneta di colui che la cede sia utilizzabile sul piano internazionale (cioè sia convertibile). Per le banche e gli esportatori, gli affari di swap servono a garantirsi dal pericolo rappresentato dalle monete, e per prevenire tali pericoli si pagano quasi sempre gli interessi di swap. In generale, colui che chiede della moneta straniera sarà uno che vuole evitare una eccessiva pressione sulla propria moneta. Se, ad esempio, la Federal Reserve System emette un assegno bancario sulla Banca federale tedesca, i marchi messi a disposizione dai tedeschi in seguito all’accordo di swap sono utilizzati dagli americani sui mercati internazionali delle divise e ritirati dopo un certo tempo. Questo perchè, come regola generale, il ricorso a simili accordi di swap ha una durata di 3 o di 6 mesi, sebbene sia sempre possibile un certo differimento ». Fra il 1966 e il 1968 i mutui aiuti di swap sono passati da circa 2,8 miliardi di dollari (il 496 del totale delle riserve dei diversi paesi) a 10,4 miliardi (circa il 15% delle riserve). Questi accordi hanno con­tribuito, in misura notevole, a far superare all’Italia le sue difficoltà della bilancia dei pagamenti nel 1963-1964; hanno anche giocato una funzione non indifferente nella guerra dei sei giorni fra Israele e gli stati arabi, nel 1967, oppure nel giugno di questo stesso anno, quando la sterlina si trovò in pericolo e New York ne acquistò per un valore di circa 113 milioni di dollari. Tuttavia, questi interventi (gli swap possono essere considerati come un tipico esempio di ciò che gli americani definiscono IOU, unità che io vi devo I owe you) hanno suscitato le critiche del FMI (cfr. Fond monétaire international, rapport annuel, ed. francese, Washington, 1967), soprattutto perchè il sistema ha da diverso tempo oltrepassato gli accordi puramente bilaterali e consentito alle monete-chiave di offrirsi un aiuto reciproco ricorrendo ad altre monete: la Francia vi ha scorto un mezzo per sostenere la sterlina e ha ritenuto che questi aumenti reciproci di crediti non sono che la creazione di riserve monetarie supplementari che permettono a Londra e a Washington di nascondere con nuovi prestiti i progressivi ritiri in oro.53 Cfr. P. B e l c h a m p , Un combat douteux, nel fase. cit. d i Après-demain.54 Cfr. in particolare, il suo L’âge de l’inflation, Paris, 1967, e dello stesso Le lancinant problème de la balance des paiements, Paris, 1967.

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nemmeno a capirci, è la situazione ideale e desiderata dai governatori delle banche centrali, che sono liberi di ricercare i palliativi (crediti swaps, ad esempio) che permettono di tamponare le crisi momentaneamente, seb­bene contribuiscano a rendere ancora più fragile il sistema attuale. In tal modo, abbiamo una Inghilterra che gode di prestiti superiori, global­mente, alle sue riserve, e, pertanto, essa è in uno stato quasi permanente di fallimento. Anche la Francia, dopo il maggio 1968, si avvicina molto a tale stato, avendole consentito la svalutazione dell’8 agosto 1969 soltanto un breve periodo di stabilizzazione. Infine, quanto agli USA non potreb­bero assolutamente, come abbiamo già notato, cambiare in oro la massa di dollari posseduta dagli altri paesi, qualora questi lo chiedessero con­temporaneamente: teoricamente, dunque, sono in una situazione di falli­mento.

Ebbene, tutto ciò dimostra che il modello concepito a Bretton Woods del Fondo monetario internazionale non è stato molto appropriato, poiché uno dei più importanti articoli di quel trattato affermava che « l’opposizione a svalutazioni competitive avrebbe dovuto essere il com­pito maggiore del Fondo stesso, mentre l’esperienza successiva ha rivelato che la sovravvalutazione delle monete è stato un problema più grave della svalutazione » 55 56. In effetti, come scrive Ch. MegrelisM, dopo che, nel­l’immediato dopoguerra, il dollaro era stato accettato, con l’oro, quale unico mezzo di pagamento internazionale (dal momento che solamente gli Stati Uniti praticavano la convertibilità esterna in seguito alla svalutazione di parecchie altre monete), la bilancia dei pagamenti americana, dal 1949, cominciò a diventare negativa. Così, le perdite d’oro degli USA hanno raggiunto la notevole somma di circa 14 milioni di dollari fra il 1950 e il 1968; nel tempo stesso, i dollari non presentati per lo sconto al Tesoro statunitense dalle banche centrali, continuavano a gonfiare le riserve dei paesi occidentali. Dal 1953, poi, le bilance in dollari dei non residenti, che giunsero ad ammucchiare crediti sensibili, cominciarono ad essere negoziati per mezzo del sistema bancario europeo. Così, era nato il mercato dell’euro-dollaro: occorre ricordare, per capire bene tale mer­cato, che un dollaro diventa un euro-dollaro quando il suo possessore è una persona che non risiede negli Stati Uniti e cioè appartiene all’Europa o ad altri paesi.

In simile mercato si possono distinguere diverse fasi, dopo che con il ritorno della Francia, nel 1958, alla convertibilità esterna del franco

55 Cfr. The International Monetary Fund: Twenty Years of International Monetary Cooperation, vol. I, cit., vol. II, Analysis, a cura di M. G. de V r ie s , J. K. H o r se- field e altri, voi. I l l , Documents, pubblicazione dellTnternationa! Monetary Fund, Washington, 1969: soprattutto nel I voi., Chronicle, è un minuto e molto interes­sante resoconto sia dei preliminari sia dello svolgimento della conferenza con tutte le discussioni che vi si svolsero.56 Cfr. Le rôle de Veuro-dollar, nel fase. cit. di Après-demain.

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(alla convertibilità per i cittadini degli altri paesi), si era potuto quasi credere nella restaurazione di un ordine monetario stabile mondiale. Ma si trattò — osserva ancora P. Fabra, nell’articolo più volte citato — di una illusione che non doveva durare a lungo, poiché già nell’ottobre del 1960 vi fu un allarme alquanto vivo per il repentino rialzo del prezzo dell’oro sul mercato londinese, che generò conseguenze abbastanza im­portanti in quanto dieci paesi stabilirono di creare il « pool dell’oro » ” , di mettere cioè a disposizione del FMI 6 miliardi di dollari di risorse supplementari nello sforzo di sostenere il rapporto dollaro-oro ad un livello costante. Tre anni più tardi (nel giugno) si dovette constatare che la posizione del dollaro si era ulteriormente indebolita e che non si poteva più parlare di « dollar gap », ma che, al contrario, c’erano troppi dollari, il che era reso evidente dal fatto che i paesi debitori erano invitati a pagare i loro debiti con altre monete (marco, franco, yen, lira, ecc.). Nel luglio di quello stesso 1963, il presidente Kennedy imponeva una tassa sui prestiti stranieri emessi sul mercato americano, con il risultato di far passare dal suo paese in Europa il centro del mercato finanziario inter­nazionale, mediante il sempre crescente sviluppo delle euroemissioni. Da allora, il FMI divenne praticamente uno strumento di sostegno della divisa americana e soprattutto di quella inglese: tutte le sue risorse fu­rono, infatti, mobilitate per aiutare Londra e, indirettamente, Washington.

In tal modo, la persistenza di squilibri nelle bilance dei pagamenti finì ■con il creare l’impressione — che, molto spesso, anche in economia conta molto — che il mondo fosse destinato a soffrire una grave penuria di liquidità. Ne nacquero discussioni in seno al club dei Dieci intese a creare una nuova unità di riserva, discussioni che somigliavano molto a quelle che avevano occupato, circa vent’anni prima, la conferenza di Bretton Woods, quando il Keynes proponeva il suo bancor. Ma, per il momento, non si giunse a nessuna conclusione, dimostrando così quanto fosse grave la soluzione del problema, sicché continuò la corrente di dollari, a cui si dovevano aggiungere quella degli investimenti diretti delle grandi imprese nel vecchio continente e quella dei prestiti ai non residenti: tutto ciò rese ancora più pesante lo squilibrio della bilancia dei pagamenti statu­nitense, sebbene assicurasse l’incessante approvvigionamento del mercato internazionale. Fu nel 1966 che il presidente Johnson, al fine di ristabi­lire l’equilibrio della bilancia dei pagamenti del suo paese, inaugurò un programma di restrizioni « volontarie » alle uscite dei capitali USA. Le banche furono costrette a diminuire i prestiti a breve termine concessi 57

57 Questi dieci paesi, che dispongono del 53% dei voti nel FMI, perchè hanno versato quote importanti, sono gli Stati Uniti, il Canada, l’Inghilterra, la Francia, il Belgio, il Giappone, l’Italia, l’Olanda, la Svezia e la Repubblica federale tedesca (il pool è anche detto « gruppo dei ricchi »): la Svizzera non ne fa parte, ma assiste alle riunioni come osservatore influente.

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ai cittadini non americani del 40 per cento in un anno, mentre l’adozione di misure interne deflazionistiche trasformò il sistema in una specie di forte pompa aspirante: nell’intento, pertanto, di risolvere le questioni interne (che avrebbero richiesto ben altro tipo di provvedimenti), il governo americano, invece di alleggerire il mercato dell’euro-dollaro, non fece che appesantirlo notevolmente5S. Tanto che le ultime esperienze hanno rivelato che, pur esistendo una stretta interdipendenza fra le economie di tutti i paesi occidentali, la rigidità dei tassi di cambio è diventata e diventa un obbligo troppo pesante per la maggior parte delle nazioni: in tale situazione si accentua un rafforzamento della tendenza a ritornare ad un sistema di cambi fluttuanti, che comporterebbe gravi inconvenienti per il commercio internazionale, e potrebbe anche condurre alla costitu­zione di zone monetarie chiuse e separate (una per il Mercato comune, un’altra per gli Stati Uniti, un’altra ancora per il Giappone, ecc.): si avrebbe cioè il ritorno alla condizione del 1939, quella condizione che generò la seconda guerra mondiale e che i migliori propositi di Bretton Woods avevano cercato di superare59.

58 Anche se c’è qualcuno (come Y. D u r r ie u , Le mur de l’argent est-il actuel?, nel fase. cit. di Après-demain) che considera il mercato dell’eurodollaro come un nuovo e ulteriore fattore di internazionalizzazione, poiché « si tratta di movimenti di capitali a breve termine, che obbediscono alle norme più liberali, secondo i tassi d’interesse praticati nei vari momenti. Per la loro stessa definizione, gli eurodollari non possono essere assoggettati a qualsiasi restrizione, che ne distruggerebbe il mercato ». Ma è, come si può ben capire, una internazionalizzazione sui generis, e questo assoluto liberismo, reclamato con tanto vigore per tale mercato, non fa altro che aggravare, in ultima analisi, la crisi del dollaro che, poi, diventa crisi di tutto il sistema monetario occidentale, il quale viene gravemente colpito dall’inflazione americana in seguito al deficit perdurante della bilancia dei pagamenti degli USA (cfr. J. K ahn , Four comprendre les crises monétaires, Paris, 1969). E l’inflazione, si chiede il Kahn, non è forse un tentativo di nascondere, anche se solo momen­taneamente, la tendenza inevitabile del capitalismo alla « sovrapproduzione » (« sovrap­produzione » relativa di merci in rapporto agli sbocchi possibili, cioè, in realtà,. sottoconsumo)? Inoltre, l’instabilità monetaria è resa più pericolosa dall’esistenza di notevoli masse di capitali « fluttuanti », in grado di spostarsi rapidamente da una moneta all’altra, capitali « fluttuanti » che sono un chiaro indice, da parte del capi­talismo, dell’incapacità di utilizzare produttivamente una parte di una quantità cre­scente di capitali; mentre, da un punto di vista più immediato, il volume dei capitali fluttuanti è tanto più elevato (e l’instabilità di cui minacciano la singola moneta tanto più acuta) quanto più diffusa è l’incertezza nella solidità delle divise. Perciò, non si può assolutamente parlare in termini entusiastici del mercato degli eurodollari, anche se sarebbe molto affrettato, d’altra parte, ritenere prossima una crisi irrime­diabile del capitalismo: come l’esperienza ci ha largamente insegnato, quest’ultimo non è mai entrato in crisi decisive per soli motivi monetari.59 Con una certa dose di velato cinismo B ancor (cfr. Da che cosa nasce e in che modo si può superare l’attuale caos monetario. La mano passa all'Europa, in L'Espresso. Economia e Finanza, 30 maggio 1971), sostiene che il « caos monetario », generato dalla decisione di alcuni governi europei di rendere la loro moneta fluttuante, conduce ad una soluzione possibile, anche se remota, che sarebbe quella « bipolare ». O « tripolare », perchè il ruolo principale sta passando ad una moneta internazionale. « Cioè l’esistenza di due o più aree monetarie, ciascuna agganciata a proprie regole e a propri strumenti di riserva, con tassi di cambio tra le diverse aree fluttuanti entro una fascia ampia ma determinata, e col Fondo monetario in veste di ’’cassa

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Ecco perchè si è giunti, ora, primi mesi del 1971, a ritenere che nella conferenza del 1944 avesse ragione il Keynes nei riguardi del White, anche — e forse soprattutto — perchè il primo prevedeva che se si fos­sero verificati rilevanti disavanzi nella bilancia dei pagamenti di alcuni paesi ed altrettanto rilevanti sopravanzi nella bilancia di altri, sarebbe stata precisa responsabilità sia dei paesi debitori sia di quelli creditori di adottare provvedimenti intesi a ristabilire la parità. Invece, il piano White faceva ricadere la responsabilità di far ritornare l’economia ad un simile equilibrio solo sui paesi debitori, in quanto gli USA non ammettevano, nemmeno in via ipotetica, di poter diventare, un giorno, da paese forte­mente creditore, un paese debitore o che il dollaro potesse perdere di valore a causa di una grave inflazione60.

Il Perroux, al contrario, interpreta la logica interna dei sistema di Bretton Woods in maniera più benevola, poiché dice che esso esigeva che la bilancia dell’economia dominante e quelle delle altre nazioni dovessero trovare, alla fine, un reciproco equilibrio. Ed aggiunge che tale « sistema

di compensazione” tra tutte [...]; all’interno di ogni area ci sarà necessariamente un’economia dominante sulle altre (e quindi una moneta dominante). Nel caso che ci concerne l’economia dominante sarà quella tedesca. Il governatore Carli fa bene a rifiutarsi di andare in barca con due elefanti, ma con uno bisogna che si rassegni ad andare. Il problema a quel punto diventa di costruire una barca sufficientemente capace per portare a bordo tutti, l’elefante e gli altri passeggeri ». Questo spiega l’improvviso e ardente desiderio di Pompidou di fare entrare l’Inghilterra nel Mercato comune per bilanciare, con una intesa franco-inglese, l’eccessiva potenza della Ger­mania, data ormai per scontata. La quale Germania avrebbe raggiunto, a 25 anni dalla fine della guerra, il risultato per il quale Hitler ha trascinato il vecchio conti­nente in una disastrosa guerra, che ha trovato il suo motivo essenziale nella volontà di dominare l’Europa, riducendo gli altri paesi a fornitori di materie prime e di generi alimentari in favore dell’unico possente stato industriale tedesco.60 Cfr. La crisi del dollaro. Aveva ragione Keynes, in II Mondo, 30 maggio 1971. Anche E. J aneway (cfr. The Economics of Crisis, New York, 1968) riconosce che le prospettive del Keynes erano più chiaroveggenti di quelle del White, il quale, a suo parere, non aveva fatto altro che ritornare al sistema aureo, discreditato fin dal 1931. D’altronde, egli aggiunge, il piano americano poteva reggere finché gli USA avessero voluto e potuto rappresentare il ruolo di banchieri del mondo occidentale, ma già attorno al 1960 i timori dell’economista inglese apparivano giustificati e i vecchi dubbi rinascevano. Tanto che, nel 1966, un uomo politico francese, Pierre Mendès-France, espose chiaramente il suo pensiero all’Università di Cambridge: « Il sistema non può funzionare che se gli Stati Uniti continuano a fornire nuove liquidità sviluppando un forte deficit internazionale; ma ogni dollaro di deficit contribuisce a scuotere la fiducia nel sistema » (per una più completa esposizione del pensiero del Mendès-France, cfr. Les échéances qui approchent, in Courrier de la République, n. 70, maggio 1969; La situation monétaire dans les principaux pays, in Courrier de la République, n. 72, settembre 1969; Le fonctionnement du système monétaire international, in Courrier de la République, n. 73, ottobre 1969; Les problèmes monétaires et l'Europe, in Courrier de la République, n. 76, dicembre 1969). Cfr., inoltre, quanto osserva R. Mosse, op. cit., sulla originalità del piano Keynes, in particolare nei riguardi dei paesi che godono di un surplus monetario, che cioè sono creditori: ad essi, come abbiamo detto, questo piano attribuisce la maggiore responsabilità di riequilibrare la situazione internazionale, mentre il piano White non ignora del tutto i creditori, ma usa verso di loro una mano più leggera, come abbiamo già detto.

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sarà possibile solo al patto di rovesciare il moto a senso unico che rende­rebbe i creditori indefinitamente più creditori, e i debitori più debitori, cioè se ottiene l’obiettivo che si era proposto fondamentalmente: evitare un ri­torno alla d is lo c a tio n degli anni 30 ». Altri criteri essenziali del piano Keynes ■erano costituiti dalla possibilità di allentare progressivamente la dipenden­za dei sistemi monetari dall’oro, mediante la creazione di una « banca sovra- nazionale », che potesse emettere riserve supplementari di carattere con­venzionale e fornita di un grado relativamente ampio di flessibilità per ricondurre le valute alla parità reciproca. Le crisi finanziarie di questi ultimi anni hanno dimostrato l’opportunità di accettare questi principi, dato che il primo principio è stato accolto sotto forma del cosiddetto « oro di carta » (diritti speciali di prelievo)61, e il secondo sotto la forma dello sganciamento di alcune monete dalla obbligatoria parità con il dollaro (il dollaro canadese nel 1969, il marco tedesco, il franco svizzero, il fiorino olandese e lo scellino austriaco, quest’anno). Si è giunti persino a stu­diare la possibilità di rendere automaticamente fluttuante, sotto certe con­dizioni, la parità delle monete (sistema detto dello « sliding peg ») e di estendere le percentuali, fissate a Bretton Woods, all’l per cento e, poi, ristrette allo 0,75 per cento, entro cui sono consentite le variazioni dei cambi. In un breve articolo di E n tr e p r is e , in cui pure è detto che la recente tempesta valutaria ha segnato una vittoria per il tallone-oro (« Bisognava aspettarselo. La potenza degli Stati Uniti è una realtà, mentre l’Europa non esiste ancora »), si afferma anche che le prospettive sono semplici: -« Ci si orienta sempre più verso un regime di flessibilità dei tassi di cambio. Già in Inghilterra si delinea una offensiva per chiedere che i cambi fluttuanti siano generalizzati, a cominciare dalla sterlina » 62.

61 Sebbene, forse, in un senso diverso da come l’intendeva il Keynes, poiché, come mette in rilievo il Kahn, i diritti speciali di prelievo sarebbero alimentati da un ■contributo annuale di ciascuno stato nella propria moneta (e, perciò, non necessa­riamente in oro). La cassa delle divise aumenterebbe ogni anno di circa 3 miliardi di dollari e su di essa ogni stato avrebbe un diritto di prelievo equivalente alla somma versata. Ma, a differenza dei prelievi soliti, questi prelievi « speciali » non ■dovrebbero essere rimborsati che per il 30 per cento, sicché per l’altro 70 per cento non sarebbero più dei prestiti, bensì una creazione permanente di carta-moneta, tale da espandere sempre più l’inflazione. I principali beneficiari ne sarebbero i grandi stati capitalistici indebitati, e, in pratica, i vari paesi capitalistici dell’Europa occidentale sarebbero obbligati a fornire dei mezzi di pagamento ana più ricca potenza imperialistica. Pure J. Rueff definisce ipocrita e fraudolento il negoziato che, nel gruppo dei Dieci, ha portato alla creazione dei DTS {droits de tirage spéciaux), in quanto si è riusciti a far passare per un problema generale quello che, invece, non era che un problema specifico degli USA e dell’Inghilterra. Il pool si era proposto di rimediare alla pretesa insufficienza delle liquidità internazionali, mentre i soli paesi che mancavano di mezzi di pagamento internazionale erano le due grandi potenze anglo-sassoni che avevano « bisogno di monete che non fossero dollari o sterline [cioè marchi, franchi, lire, yen] per coprire senza una nuova perdita d’oro il deficit della loro bilancia dei pagamenti » (cfr. J. Rueff, Le péché monétaire de l’Occident, Paris, 1971).62 Cfr. H. Lepage, Le triomphe de Vétalon-dollar, 15 maggio 1971.

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In realtà, osserva il Lepage, il mondo occidentale è entrato in una nuova fase della sua storia monetaria, nè poteva, forse, essere altrimenti, dato soprattutto il fatto che, come scrive I I M o n d o e come noi abbiamo ■già messo in rilievo, l’accordo di Bretton Woods rispondeva « ai criteri conservatori predominanti al Congresso americano all’epoca della fine della guerra », e, in particolare, alla preoccupazione ed al timore di non dan­neggiare eccessivamente i forti e prevalenti interessi commerciali ame­ricani.

L a cr is i d e l s is te m a d i B r e t to n W o o d s

Abbiamo finito di scrivere questo articolo verso il giugno scorso, ma da allora si sono verificati alcuni avvenimenti molto importanti, che hanno dato, in buona parte, ragione alle nostre pessimistiche previsioni sulla situazione monetaria internazionale, previsioni, del resto, che erano con­divise da parecchi. L’inflazione ha continuato ad aumentare, negli Stati Uniti, ad un ritmo molto rapido, e ciò è stato provocato dal fatto che le grandi c o r p o ra z io n i monopolistiche americane, incontrando difficoltà ad esportare i loro prodotti perchè troppo cari, si sono messe a costituire filiali e ad investire all’estero, dove le possibilità di espansione erano più forti ed i salari più bassi. Così, non poche volte la produzione in altri paesi superava quella della casa madre americana, mentre una quantità notevole di tale produzione era destinata allo stesso mercato americano: il 51 per cento dei televisori o il 50 per cento di alcuni prodotti tessili -erano fabbricati da succursali americane in zone sottosviluppate a basso salario. Pertanto, a differenza dell’industria tedesca, francese o svizzera, quella statunitense non ha costretto all’immigrazione la manodopera del terzo mondo, poiché l’ha sfruttata proprio nelle stesse aree depresse. Il rapido peggioramento — scrive M. Bosquet, A p r è s le c o u p d e fo r c e d e N ix o n , in L e N o u v e l O b s e r v a te u r , 23 agosto 1971 — della bilancia com­merciale americana si spiega largamente con simili fatti. Esportando molto poco (4 per cento del prodotto nazionale contro il 20 per cento della Francia e il 25 per cento della Germania), e godendo di un monopolio tecnico per la maggior parte dei prodotti che esportano (aerei, macchine speciali, brevetti, calcolatori elettronici, ecc.), le c o r p o ra z io n i americane non sono affatto costrette a praticare prezzi competitivi. Dopo sette anni di espansione ininterrotta si sono abituate all’inflazione. E quando il presi-

.dente Nixon, per porre un freno all’aumento dei prezzi, cercò di inver­tire la tendenza tra il 1969 e il 1970, ottenne il risultato contrario di quello che si aspettava: per mantenere intatti i loro elevati profitti in una congiuntura negativa, le c o rp o ra z io n i aumentarono ancor di più i loro prezzi (dal 6 all’8 per cento all’anno), ricorrendo, nel tempo stesso, ai prestiti, soprattutto in Europa, per sottrarsi alla stretta creditizia. Infine,

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quando, all’inizio del 1971, di fronte alla depressione congiunta con l’in­flazione (fenomeno già da diverso tempo studiato nei paesi anglo-sassoni e in Francia e definito s ta g f la t io n ), Nixon si dichiarò vinto e tentò di rilanciare l’economia del suo paese, le c o r p o ra z io n i, molto scettiche sulle possibilità di una rapida crescita dei loro profitti, rovesciarono sull’Europa una marea di dollari ricercando guadagni immediati. In circa sei mesi, il deficit globale della bilancia americana oltrepassò 11 miliardi di dol­lari: più di quanto non fosse rimasto a Fort Knox. Queste perdite gigan­tesche hanno rapidamente portato a 46 miliardi di dollari (che, secondo alcuni, sarebbero 60) il debito americano verso l’estero (qui, bisogna met­tere in rilievo anche la responsabilità dei governatori delle Banche centrali, i quali, secondo quanto scrive anche N e w S ta te s m a n , N ix o n P a sse s th e B u c k , 20 agosto 1971,

inevitabilmente possono sembrare ad alcuni non aver troppo peccato di previdenza. Infatti, i loro sono stati i metodi tipici di un pazzo. Sono state proprio le Banche centrali di questi paesi che hanno guadagnato di più e che, pure, sono state pronte a rimproverare agli americani gli errori della loro condotta. Non sono state capaci di suggerire alcuna diminuzione degli investi­menti esteri di capitali americani, che avrebbe potuto essere un modo come scongiurare la presente crisi, nè si sono preparate ad una riforma monetaria ».

Se si accetta l’una cifra o l ’altra, circa 35 miliardi o 49 sono « malsani » e « inflazionati », per gli economisti classici, perchè ad essi non corrisponde un’adeguata copertura in riserve di oro e di divise.

Messo di fronte a questa situazione — generata, peraltro, dallo stesso governo statunitense con le imponenti spese per condurre guerre limitate sì, ma estremamente dispendiose (come la guerra del Vietnam, in cui un rappresentante del partito socialista giapponese, Kawasaki, ha visto l’ori­gine prima dell’attuale crisi del dollaro: « Questa crisi è il prezzo pagato per la guerra del Vietnam. Le misure protezionistiche di Washington [per cui v. più avanti] colpiscono soprattutto i piccoli esportatori giapponesi, poiché i grandi hanno ben altre corde al loro arco. In tal modo, gli americani fanno loro pagare il prezzo della guerra »: cfr. J. Lacouture, Ja p o n : u n e p r o ie re b e lle , in L e N o u v e l O b s e r v a te u r , n. cit), con gli aiuti militari ai paesi reazionari di tutto il mondo, ecc. — Nixon non ha potuto fare altro, il 15 agosto, che abbandonare il rapporto fisso del dollaro con l’oro stabilito a Bretton Woods, dal momento che gli speculatori inter­nazionali, denunciati dal presidente americano come i soli responsabili del marasma monetario (ma questi speculatori — osserva J. J. Servan- Schreiber, L ’h o m m e e t la b ê te , in L ’E x p r e s s , 23-29 agosto 1971 — non sono che i managers delle grandi società internazionali, industriali e finan­ziarie che hanno creato e sviluppato l’economia mondiale: « Non ricono­scono, ed è questo il motivo del loro successo, alcuna frontiera, alcuna bandiera, alcun’altra morale che il vantaggio della loro impresa. Non

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hanno nulla di anonimo. Se ne conoscono i nomi. Sono quelli delle 500 più grandi società mondiali. Sono, per ogni legge nazionale, ir r e sp o n sa b ili , nel senso più esatto. E lo resteranno »), si erano messi a comperare marchi, franchi svizzeri, yen, non avendo più alcuna fiducia nel dollaro, che era stato fatto accettare, fino allora, dal governo degli USA, sotto il pretesto che, per convinzione, valeva oro e doveva servire come la sola moneta convertibile per tutto il mondo occidentale (« Si trattava — sostiene Bosquet — di un puro brigantaggio imperialistico »). Un vero panico si stava impadronendo dei mercati finanziari del mondo intero, il che avrebbe messo in evidenza il fallimento del dollaro. È stato questo il motivo che ha spinto Nixon a lanciare la « nuova sfida » con il diktat, alquanto bru­tale, a dire la verità, del 15 agosto: gli Stati Uniti hanno mostrato di voler provvedere alla salvaguardia dei loro interessi, lasciando agli altri paesi il compito di salvaguardare i propri come meglio potranno. I debiti americani non sono più rimborsabili nè in oro, nè in divise straniere, nè con il diritto ai prelievi speciali sul FMI: non sono più rimborsabili del tutto. È quanto ha affermato, con molta disinvoltura, l’inviato speciale del presidente Nixon in Europa, il sottosegretario al Tesoro, P. Volcker, destando — così afferma J. Mornand, L e ca sseu r et les p a y e u rs , in L e N o u v e l O b s e r v a te u r , n. cit., e poi anche in S e t te g io r n i , D a B r e t to n W o o d s a d o g g i, 22 agosto 1971 — la stupefatta indignazione dei suoi interlo­cutori, alla riunione di Bruxelles, interlocutori degli stati del vecchio continente più direttamente danneggiati e, peraltro, tutti pro-americani.

A questo punto, si deve veramente dire che gli accordi Bretton Woods sono morti, in quanto essi imponevano, come è noto, agli USA l’obbligo di convertire in oro tratto dalle proprie riserve tutti i dollari che fossero stati loro presentati dalle varie banche centrali. Eppure, se si può dire che è morto Bretton Woods, bisogna anche dire: viva Bretton Woods, questo perchè le nazioni europee non sono affatto riuscite, il 19 agosto, a Bruxelles, a mettersi d’accordo su una risposta comune alla sfida di Camp David. Washington vuol mantenere, a tutti i costi, la leadership economica e finanziaria su scala mondiale — ha esclamato lo stesso Nixon, non mostrando alcuna intenzione di mutare la politica estera di guerra calda in zone limitate del globo fin qui condotta. Pertanto, egli ha potuto adottare una simile svalutazione c a m o u flé e (« svalutazione dalla porta di servizio », è stata detta dal probabile candidato democratico alla Casa Bianca, McGovern, o anche « inflazione senza inflazione », come hanno concordemente — e b r i l la n te m e n te — definito tale difesa del dollaro sia Nixon sia Connally, n o n d e v a lu a tio n d e v a lu a tio n d e fe n s e o f th e d o l la r ), sicuro che gli sarebbe stato facile costringere tutti i paesi legati al dollaro a rivalutare, in misura maggiore o minore, le loro monete. Una soluzione, tutto sommato, che potrebbe anche sembrare migliore dell’altra possibile, consistente in una modifica del prezzo dell’oro, il che avrebbe significato

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una svalutazione ufficiale del dollaro. Quest’ultima soluzione sarebbe stata­selo apparentemente una disfatta finanziaria di prima grandezza per il capitalismo americano, perchè si sarebbe subito tramutata in una sua vit­toria finanziaria e politica di portata storica, in quanto avrebbe reso le merci americane altamente competitive sui mercati internazionali, dove avrebbero potuto battere con estrema facilità qualsiasi altra concorrenza 63. Questo spiega il tono trionfalistico delle dichiarazioni dei responsabili della politica economico-finanziaria statunitense: per il segretario al Tesoro, J. Connally, le decisioni di Nixon sono « le più ardite, coraggiose e im­portanti sul piano economico fra quelle prese negli ultimi 40 anni », e il direttore del Council of Economie Advisers, P. W. McCracken, ha affer­mato che il programma del presidente è il solo in grado di affrontare contemporaneamente i tre o quattro problemi essenziali: l’inflazione, la

63 Tuttavia, lo stesso Rueff, in un recente articolo, Ils m’appelaient Cassandre..., in Le Figaro, 19 settembre 1971 (nel supplemento dedicato all’« Économie-Finances »), ha rintracciato la storia della sua ormai vecchia proposta di rialzare il prezzo dell’oro, proposta avanzata il 27 settembre 1966, in due articoli pubblicati su Le Monde e sul Times (Business Review), in cui esponeva il suo « programma d’azione ». Ma, trala­sciando qui tutte queste vicende monetarie, il Rueff afferma che, nel 1970, la situazione era diventata, relativamente alla possibilità di ristabilire con l’artificio dell’aumento del prezzo dell’oro la convertibilità metallica del dollaro, molto diversa rispetto a quella del 1961. Anzitutto, perchè l’economia americana era colpita da una molto grave inflazione che allora non esisteva. Inoltre, alla fine del 1970, lo stock d’oro degli Stati Uniti era ridotto a circa 11,1 miliardi di dollari e le riserve ufficiali, oro compreso, a 14,5 miliardi, mentre i dollari posseduti dagli altri paesi e dai privati ammontavano a 45,7 miliardi (cfr. Review of the Federal Reserve Bank of St. Louis, luglio 1971, p. 11); a questa somma bisognava aggiungere gli eurodol­lari, sicché da tali cifre risulta che se, nel 1970, si fosse voluto rimborsare una parte importante dei debiti di dollari e dei loro diversi surrogati mediante il rialzo del prezzo dell’oro, lo si sarebbe dovuto almeno triplicare. Il che avrebbe provocato un aumento sensibile del suo livello, producendo distorsioni intollerabili. Pertanto, era diventata, sempre nel 1970, una soluzione ormai impossibile. In tal modo, il carat­tere non rimborsabile delle « balances-dollar », data l’ampiezza che queste hanno assunto, fanno pesare una pesante minaccia, secondo il Rueff, sul presente sistema monetario internazionale. Nè il modo escogitato dal Triffin — cioè ricorrere ad una moneta sostitutiva, non convertibile in oro, del tipo « diritti di prelievo speciali », in esclusivo beneficio degli USA, fino al livello dei rimborsi che saranno loro richiesti — sembra possibile al Rueff, perchè esso scatenerebbe sul mondo una nuova ondata di inflazione di immensa grandezza. Eppure, dopo questa dimostrazione, il Rueff ritorna alla sua idea preferita, e propone di nuovo un rialzo del prezzo dell’oro, purché i paesi detentori di una importante parte di riserve metalliche si rassegnino a mettere a disposizione degli USA, sotto forma di prestiti a lungo termine, ed a basso tasso d’interesse, una frazione della valorizzazione di cui le loro riserve avranno goduto (ma questo non sarebbe forse un modo per detronizzare definitivamente il dollaro e gli Stati Uniti dal ruolo mondiale che hanno finora svolto?). « Non so — conclude il Rueff —- se queste procedure riusciranno ad evitare la crisi che minaccia l’Occidente. Tuttavia, perchè abbiano possibilità di successo, bisogna che la loro applicazione sia fatta sistematicamente, a freddo, e prima che nuove crisi non siano scoppiate. Altrimenti, andremo, trasportati dalla corrente, nel disordine, come nel 1931-33, verso la liquidazione del tallone di cambio-oro. Che possiamo essere rispar­miati dalle sofferenze e dalle rovine che sarebbero le inevitabili conseguenze di una simile catastrofe ».

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disoccupazione, la bilancia commerciale e dei pagamenti US e il troppo lento adeguamento del processo tecnologico (in una intervista a U S N e w s & W o r ld R e p o r t , 30 agosto 1971, T h e P r o s p e c ts fo r 1 9 7 2 a re N o w M a r k e d ly I m p r o v e d ) .

Insomma, si ha l’impressione che Nixon abbia giocato la sua partita ad occhi chiusi, al sicuro, non riuscendo ad immaginare altra reazione da parte dei suoi partners europei e mondiali se non quella da lui voluta. Eppure, una nuova soluzione va trovata, e senza troppe esitazioni, se è vero ciò che ha detto Samuel Pisar, autore de L e a r m i d e l la p a ce , al Senato americano nel maggio scorso, quando, dopo aver parlato dell’atteggiamento degli europei di fronte al dollaro, ha brevemente accennato alle tendenze del capitalismo internazionale:

Per gli europei, il dollaro diventa rapidamente oggetto, nel tempo stesso, di amore e di odio. L’amano perchè è il veicolo del loro sviluppo, ma lo dete­stano perchè è lo strumento dell’inflazione incontrollata. Hanno paura del dollaro ed anche paura per il dollaro [...]. Lo stato politico, oggi, non ricopre più la minima superficie della realtà economica. Forze inesorabili stanno creando un mercato mondiale al di sopra di ogni frontiera e di ogni ideologia.

Ed è proprio così, poiché imprese come General Motors, Shell, Ford, Siemens, Unilever, Pechiney o Mitsubishi devono poter andare dove vogliono, altrimenti muoiono; scegliere liberamente i loro campi d’inve­stimento, altrimenti sono condannate; fare circolare liberamente i loro capitali, altrimenti corrono il pericolo di asfissia. Ecco la b e s tia , sostiene Servan Schreiber nell’articolo citato, la cui ferocia, che è la sua stessa natura, ha lacerato tutto quanto le si opponeva: lo stato politico, la sua legge e la sua moneta. « In ogni capitale — scriveva la F r a n k fu r te r A llg e m e in e — ci si sente, adesso, sgomenti e impotenti ». L’unica via di uscita da una simile situazione consiste nell’elaborazione di un « nuovo sistema monetario internazionale », che si ponga accanto al dollaro, due monete di base come espressione di due diverse realtà politiche. Se l’Eu­ropa riesce in questo compito — conclude Servan-Schreiber — , daremo agli uomini una possibilità di continuare nello sviluppo economico ed una speranza di dominarlo. Se, invece, paralizzati dalle vecchie dispute del passato, rimaniamo divisi, rischiamo di assistere, veramente impotenti, a una temibile degradazione: dalla chiusura alla recessione, dalla paura al­l’egoismo sacro, dal nazionalismo allo scontro.

D’altronde, un chiaro monito sulle intenzioni di questo capitalismo internazionale, nella sua stragrande maggioranza americano, ci viene dai provvedimenti con cui Nixon ha accompagnato la svalutazione masche­rata: una imposta (a d d itio n a l ta x ) del 10 per cento su tutte le importa­zioni (che potrebbe rendere di nuovo attiva la bilancia commerciale ame­ricana deficitaria di parecchie centinaia di milioni nel primo semestre del

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1971); riduzione dell’aiuto all’estero del 10 per cento (un risparmio di circa 300 milioni di dollari); diminuzione delle spese pubbliche del 5 per cento e blocco dei prezzi e dei salari per tre mesi (il che potrebbe provo­care un rallentamento degli affari, particolarmente temibile a 15 mesi dalle elezioni presidenziali, sicché, contemporaneamente, vengono adottate alcune misure di rilancio: esoneri fiscali (—6 per cento delle tasse sulle automobile che potrà incrementare questo settore fra i più dinamici), alleggerimento dell’imposta sul reddito, nuovi crediti in aiuto all’impiego, ecc. Provvedimenti, certo, alquanto contraddittori M, ma fra essi si impo­ne, in particolare, l’imposta del 10 per cento sulle importazioni, quasi unanimemente criticata con maggiore o minore violenza: il Galbraith, infatti, ha affermato: « I provvedimenti in campo internazionale rappre­sentano dei passi indietro. L’introduzione di una sovrattassa sulle impor­tazioni capovolge il principio liberista che ha prevalso per trent’anni »; P. Samuelson, a sua volta, ha espresso il timore che essa dia origine ad una guerra fredda commerciale. Più vivace è stata la reazione degli am­bienti economici giapponesi, che sono stati quelli maggiormente danneg­giati (poiché, quest’anno, il loro saldo attivo nel commercio con gli USA avrebbe forse raggiunto i due miliardi di dollari): il presidente della Ca­mera di commercio nipponica, Shigeo Nagano, ha commentato: « È una dichiarazione di guerra » (e nel numero cit. de L ’E x p r e s s , M. Ullman, conclude un suo art., Poker p o u r les riches, sostenendo che « è la guerra del Pacifico che ricomincia »).

Come giustificazione di fronte al mondo, il governo americano ha ad­dotto il principio della legittima difesa, difesa contro il protezionismo agricolo del MEC e difesa contro la sempre più intensa penetrazione sul 64

64 Contraddittori, perchè, come ha spiegato P. Samuelson, il principio dei controlli è destinato all’insuccesso, ed egli li considera, più stupidamente forse più ancora che criminalmente, orientati in favore delle grandi imprese. Si sarebbe dovuto, a suo parere, imporre una tassa su sovrapprofitti ed una forte imposta provvisoria sui guadagni in capitali, se si voleva ottenere l’adesione dei sindacati. Il Samuelson, poi, biasima e rimprovera il presidente di aver ripreso con la mano destra, sospendendo alcune spese pubbliche in bilancio, ciò che aveva concesso con la sinistra, diminuendo le tasse (cfr. Two Cheers for the New Nixon Program, in Newsweek, 30 agosto 1971: McCracken, avrebbe in parte riconosciuto che il programma fiscale nixoniano ha « un carattere leggermente deflazionistico in un senso puramente statico », ma, secondo lui, le altre parti di tale programma compenserebbero largamente questo effetto negativo di 9 miliardi di dollari provocando una espansione di 24, di cui 8 deriverebbero da un maggior consumo dovuto ad una più sicura fiducia del popolo americano nel suo avvenire). A sua volta, M. Friedman, capo della scuola moneta- ristica di Chicago, ha scritto che è inutile e vano voler bloccare i salari e i prezzi per spegnere l’inflazione, poiché ciò conduce ad immobilizzare il timone di un battello per impedirgli di navigare in tempi difficili. Se anche si potesse, a suo parere, arre­stare provvisoriamente il processo inflazionistico, questo acquisterebbe maggiore slancio nel momento in cui ogni ostacolo fosse levato. Il Friedman conclude che il presidente, cercando un controllo dei salari e dei prezzi non ha fatto altro che prendere una tigre per la coda e che, in tal caso, non è segno di una grande saggezza il rifiutarsi di abbandonarla (cfr. Why the Freeze is a Mistake, ibid.).

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mercato americano dei prodotti giapponesi. Uno dei dirigenti della Xeros, P. McColough, ha invocato le « randellate », dopo aver constatato che, quest’anno, circa un terzo della produzione statunitense di calcolatrici elettroniche da tavolo (minicomputer) è rimasto invenduto a causa della concorrenza nipponica. « Fermate i giapponesi », era diventata la parola d’ordine degli industriali americani. Ma questa sovrattassa potrebbe anche diventare il modo che permetterebbe agli Stati Uniti, dopo avere finora esportato la sua inflazione, di esportare ora la sua disoccupazione (v. Ph. Siononnot, E x p o r te r le c h ô m a g e a p rè s l ’in f la t io n , in L e M o n d e d e l ’éc o ­n o m ie , 24 agosto 1971); e, siccome la disoccupazione colpisce, in America, soprattutto i negri e i giovani, due categorie particolarmente turbolente, si può capire come Nixon non abbia esitato a correre il pericolo di una guerra commerciale, che nessuno sa fin dove, una volta scatenata, potreb­be condurci. Intanto, però, una simile politica di ispirazione mercantili­stica e protezionistica, oltre a rappresentare un passo indietro di diverse decine d’anni, potrebbe anche agire come un boomerang sull’economia americana: infatti, esportando la disoccupazione in Europa e nel Giappo­ne, gli USA provocheranno una diminuzione dei redditi e, di conseguenza, potranno più difficilmente vendervi le loro merci. Ma l’aspetto, senza dubbio, più preoccupante è che essa potrebbe scatenare, come ha scritto il settimanale tedesco D ie Z e i t , « una guerra commerciale generale, e, alla fine, una nuova crisi economica mondiale ». A questo proposito, viene spontaneo il ricordo degli anni 30, quando le tariffe protettive — così ha scritto T im e , del 30 agosto 1971, T h e Dollar-. A T o w e r P la y U n fo ld s — divisero il mondo in blocchi economico-commerciali che infransero gli scambi internazionali « e diedero un grande impulso allo sviluppo dell’im­perialismo economico in Europa e nell’Estremo Oriente » (e, a nostro parere, generarono anche la drammatica spirale che condusse alla seconda guerra mondiale). E la cosa più preoccupante, in tutto questo, è che quasi nessuno sembra rendersene conto negli USA, nè l’opinione pubblica, nè gli uomini politici, nè gli economisti: questi ultimi, poi, si interessano quasi esclusivamente del blocco dei prezzi e dei salari, come fa anche il Galbraith, il quale in un articolo pubblicato su I I M o n d o del 5 settembre, L ’e rro re d e l 1 0 % , dedica solo pochissimo spazio alla sovrattassa e si dilun­ga, invece, nel mettere in rilievo i suoi meriti come anticipatore e quasi scopritore della necessità di un controllo dei salari e dei prezzi, una poli­tica che, se fosse portata dal governo americano fino alle sue ultime conseguenze, « è destinata — egli afferma — a determinare un notevole mutamento politico interno ».

La NEP (New Economìe Politics) nixoniana, con la sua esortazione a « buy American », a comperare prodotti americani, naturalmente, è stata accolta con aperto favore dagli industriali statunitensi (« La grande mag­gioranza dei leaders business ha applaudito il piano, convinti che esso

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avrebbe creato un generale incremento degli affari e dei profitti. L’ 'Argus Weekly Staff Report’ [...] ha predetto che l’attività generale industriale ne verrebbe ’accelerata notevolmente’ nel prossimo anno »: cfr. E x p lo r in g th e N e w E c o n o m ie 'W o r ld , in T im e , cit.), ma perfino un economista re- pubblicano, H. C. Wallich, già consigliere economico di Eisenhower, ha sostenuto che « vi è il pericolo che le restrizioni commerciali di più in più diventino dappertutto estremamente importanti »: cfr. T h e D o lla r V ie w e d fr o m A b r o a d , in N e e s w e e k , cit.), e lo spirito con cui gli industriali europei vanno incontro a questa nuova situazione, così grave per i loro prodotti, bt sotto certi aspetti, sintetizzata da quanto ha dichiarato il presidente della Fiat, Gianni Agnelli, all’E sp re s so (29 agosto):

Questa situazione, è facile prevederlo, significa a brevissima scadenza un aumento della concorrenza e della combattività sui mercati non statunitensi, e in particolare su quelli europei: la produzione deve essere collocata da qual­che parte. In Europa, anzi, oltre alla maggiore aggressività dei produttori penalizzati, potremmo assistere a un tentativo di maggior penetrazione da parte delle industrie automobilistiche americane, avvantaggiate dagli sgravi fiscali e dalle agevolazioni per investimenti decretati da Nixon.

Infatti, L a v ie fra n ç a ise , nel numero citato del 10 settembre 1971, in un articolo di G. Martin-Champier, S a o P a u lo . L a T ra n c e v e u t fo r c e r le m a rc h é su d -a m é r ic a in , afferma che la Francia vuole espandere le sue espor­tazioni in Brasile, al quale ha mandato il supersonico Concorde insieme con i ministri dell’economia e delle finanze e con 300 rappresentanti di industrie) che si sono riuniti, dal 9 al 30 settembre, sui 50.000 metri quadrati del nuovo palazzo di esposizioni, pare Anhembi. Ora, se verranno sottratti agli USA mercati così importanti per il loro commercio estero, sarà un disastro per l’occupazione operaia e per l’economia in generale statunitense.

Ma la cosa più preoccupante è, per il F in a n c ia l T im e s , che gli americani non hanno dato assolutamente alcuna indicazione su ciò che la Comunità europea dovrebbe fare affinchè la sovrattassa fosse tolta. Nè può essere una sufficiente assicurazione l ’affermazione di John Connally, il quale ha detto che l’America non ha, per il momento, l’intenzione di inter­venire negli scambi commerciali internazionali — il che potrebbe far nascere (osserva 1 'E c o n o m is t , N e w N a t io n a lis m , 21 agosto) una vera e propria guerra delle divise — , poiché ha soggiunto che l’esigenza di fare o meno ciò, dipende unicamente dall’interesse degli USA. Siamo, dunque, di fronte ad un pericolo estremamente grave, cioè quello che nasca, ancora una volta, come già è avvenuto due volte nel 1914 e nel 1939, una prospettiva di guerra calda dai contrasti interni al mondo capitalistico e imperialistico65. Prospettiva che richiede, molto più di prima, una effet­

65 A questo proposito, il commissario della CEE, Ralf Dahrendorf, in un suo articolo sul New York Times, del 31 agosto (Perchè l’Europa è traumatizzata), ha

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tiva unione sopranazionale di tutti gli uomini che sono decisi a scongiurare questa minaccia con un’azione rivolta a porre termine, finalmente, alla funzione di « gendarme mondiale » svolta dagli Stati Uniti (come ha dichiarato il commentatore dell’agenzia sovietica « Novosti », Spartak Beglov, a L e M o n d e del 29-30 agosto), ed alla corsa agli armamenti, così ha detto la P ra v d a , che si è tradotta, spesso, in guerra calda — come, ora, quella del Vietnam —, che ha inghiottito somme enormi senza alcun costrutto per gli americani.

Le decisioni nixoniane hanno avuto, e possono avere, anche una pe­sante conseguenza per i paesi del Terzo Mondo e per i lavoratori di tutti i paesi, anche di quelli altamente sviluppati. I primi saranno svantaggiati perchè la penetrazione dei loro prodotti sul mercato statunitense sarà molto più difficile. Ne saranno colpiti i produttori del Terzo Mondo in generale (1’I n d o n e s ia n O b s e r v e r ha scritto che davanti ai provvedimenti del presidente americano le nazioni povere si trovano più disarmate che mai, e a Seul, il K o r e a T im e s ha sostenuto che « se la politica di Nixon scatena una serie di politiche commerciali protezionistiche, saremo noi, in quanto piccola nazione, che ne soffriremo maggiormente »), ma, in particolare, quelli dell’Africa, la cui posizione commerciale è più fragile: per tentare di mantenersi sul piano concorrenziale, dovranno abbassare i loro prezzi di vendita, il che significa ridurre i loro margini di profitto e frenare il rialzo dei salari e la formazione del risparmio. Risparmio nazio­nale che è indispensabile allo sviluppo, eppure crudelmente insufficiente, poiché va dal 12 per cento del prodotto interno bruto in Marocco, al 30 per cento nel Gabon e in Algeria. Quanto al risparmio propriamente detto, esso oltrepassa raramente il 15 per cento del PIB (cfr. P. Roche, E c o n o m ie , L e d o lla r e t l ’A f r iq u e , in ] e u n e A fr iq u e , 24 agosto). Inoltre i paesi africani esportano pochi prodotti negli Stati Uniti ma ne importano molti di più: la repubblica del Congo importa quasi il 20 per cento dagli

parlato molto chiaramente: « Le decisioni del presidente Nixon — egli ha scritto -— cambieranno probabilmente l’intero tessuto dei rapporti economici internazionali [...]. La nuova tariffa e le barriere non tariffarie possono giungere a tasse del 25 per cento sulle importazioni USA, cosa senza precedenti nella storia recente [...]. È ancora troppo presto — ha proseguito — per calcolare il danno, ma si prevede che sarà colpito il 90 per cento delle esportazioni della CEE in America, esportazioni che totalizzano 7 miliardi di dollari, ed erano in aumento [...]. Gli Stati Uniti — ha concluso — hanno spesso accusato la CEE di favorire la divisione del mondo in blocchi economici. Le loro ultime decisioni, prese nel proprio esclusivo interesse contro quello altrui, sono tuttavia tali da aggravare il fenomeno. Tra Europa e America esiste un solo possibile terreno di intesa: quello della liberalizzazione degli scambi », che era il terreno che gli USA imposero all’Europa nell’immediato dopo­guerra e che ha corrisposto, per un certo periodo, alla loro esigenza di scambi com­merciali sempre più intensi. Ma le recenti decisioni nixoniane stanno a dimostrare quanto quel liberismo economico, allora, rispondesse ad un esclusivo vantaggio del­l’America, che aveva un sistema produttivo capace di invadere i mercati del vecchio continente con i suoi prodotti. Così come, adesso, queste nuove tendenze protezioni­stiche rispondono, ancora una volta, all’esclusivo interesse statunitense.

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USA e questa quota potrà aumentare se i prodotti saranno ancora meno cari (caso estremamente difficile, se non impossibile, come è detto in un art. de L a V ie fra n ç a ise , 10 settembre 1971: F. Charlonnier, L e T ie r s M o n ­d e m e n a c é p a r la g u e r re d e s M o n n a ie s ), mentre le esportazioni dell’Etiopia raggiungono il 44,5 per cento (contro il 21, 5 per cento di impor­tazioni), del Madagascar il 24 per cento, della Costa d’Avorio il 53,6 per cento (contro il 19,9 per cento di importazioni), dell’Angola il 54,2 per cento (contro il 32 per cento), della Liberia il 60,3 per cento contro il 43,9 per cento). La conseguenza è che le risorse indispen­sabili in divise (dollari, necessari per il commercio internazionale) mi­nacciano di subire una riduzione molto grave. Il segretario generale della Unctad — l’organismo dei paesi sottosviluppati —, Pereza Guer­rero, ha affermato, il 26 agosto, che una nuova conferenza interna­zionale, analoga a quella di Bretton Woods, non può non tenere nel dovuto conto le esigenze delle nazioni la cui sorte è strettamente legata a quella dei prodotti primari. Sono questi prodotti, infatti, sia agricoli sia minerari (tranne il petrolio, i cui produttori sono raccolti nell’OPEP, uno strumento di forte pressione, come ha recentemente dimostrato), che incontrano notevoli difficoltà, data l’assenza di intese e norme vera­mente efficaci per la regolamentazione dei prezzi e dei sistemi di mercato, con ovvie conseguenze negative per i paesi che li producono, la cui quota di commercio mondiale è scesa dal 40 per cento nel 1964-66 al 33 per cento nel 1970. Per contro, quella dei paesi ad economia sviluppata e bene organizzata, è salita, nello stesso periodo, dal 50 al 58 per cento. Il Guerrero ha fatto un esempio, quello del riso, la cui quota di commer­cio mondiale è calata, sempre nel periodo indicato, dal 64 per cento al 45 per cento per i paesi sottosviluppati, mentre è passata dal 23 al 42 per cento per i paesi sviluppati. Insomma, l’Unctad chiede, nel quadro di eventuali accordi per il commercio internazionale, che si tengano pre­senti questi problemi e si capisca tutta l’urgenza di prendere iniziative per equilibrare una situazione così distorta.

Nè meno pesanti saranno le ripercussioni sul livello dei salari delle classi lavoratrici dei paesi industrializzati: il N e u e s D e u ts c h la n d della Germania orientale ha detto che « sono i lavoratori che dovranno fare le spese di tutte queste vicende », e la F ra u d a ha sostenuto che la crisi del capitalismo americano si tradurrà « in nuovi fardelli per i lavoratori in Asia e in Europa ». E sarà proprio così, poiché è evidente che si andrà incontro ad una seria deflazione, sebbene i nostri giornali di informazione continuino a parlare, un po’ senza senso e in tono intimidatorio (chie­dendo una severa disciplina delle classi lavoratrici), di pericolo infla- zionstico, deflazione in quanto i produttori, per reggere e vincere la concorrenza, saranno sempre più spinti ad agire sui salari, sull’occu­pazione, diminuendo i primi e la seconda. Non saranno certo più suf-

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fidenti le misure proposte, il 1° settembre, dal ministro italiano per il commercio estero, cioè la concessione di crediti a medio termine e a condizioni agevolate per l’esportazione verso gli Stati Uniti, quando questa raggiunga un certo grado rispetto al fatturato delle aziende; oppure l’integrazione dei salari per le aziende in difficoltà; oppure ancora la fiscalizzazione degli oneri sociali per il settore calzaturiero e quello tessile, che maggiormente fanno ricorso alla manodopera femminile. Non saranno sufficienti simili provvedimenti, che dovrebbero consentire allo stato e al governo di stare alla finestra, a guardare come vanno i traffici dei privati, cercando di favorire un incremento di questi ultimi. Una tale posizione, afferma lucidamente il Bosquet, nell’articolo citato:

rinvia alla contraddizione di fondo. In seguito al suo sovrasviluppo, l’eco­nomia americana non è più in grado di funzionare secondo le sacre leggi del capitalismo. Le contraddizioni sempre più esplosive della società statunitense (tuguri, ghetti, crisi dei servizi pubblici, inquinamento, analfabetismo, disoc­cupazione [sono, questi, molti dei mali di cui soffriamo pure noi, soprattutto nel profondo Sud]) non possono essere risolti con investimenti e con produ­zioni redditizie. Per tentare di contenerli nei limiti del sopportabile, biso­gnerebbe ridistribuire in spese sociali improduttive le risorse prelevate dai profitti dei settori che rendono di più. Ora, come lo riconoscono pure vecchi liberali, ad esempio il Galbraith, questo non potrebbe farsi se non nazionaliz­zando le corporazioni. Poiché, finché esse rimangono private, risponderanno sempre al prelievo fiscale dei loro profitti cessando di investire negli Stati Uniti per trasferire sotto altri cieli le loro imprese.

Siamo giunti, perciò, ad un punto in cui anche i governi occidentali sono posti di fronte ad un dilemma che finora hanno sempre evitato di affrontare: come comportarsi di fronte al prepotere del capitalismo pri­vato? Lasciare che esso continui a svilupparsi seguendo le sue « sacre leggi », oppure vincolarlo e costringerlo ad una politica che sia di utilità per tutta la comunità nazionale? Ed inoltre, rimanere a contemplare le sue manovre, oppure intervenire molto più attivamente di quanto non si sia fatto finora per difendere con efficacia il tenore di vita dei ceti più indifesi e più sfruttati, cioè adottare una politica economica espan­sionistica, volta ad elevare il tenore di vita delle larghe masse popolari? Sono domande a cui si dovrà pur dare una risposta, a meno che non si voglia andare verso crisi di volta in volta più acute negli anni prossimi. Tuttavia non sta a noi dare una risposta a simili questioni, bensì a chi sta a cuore l’attuale società capitalistico-borghese, questa società che mostra di agire, con il paese che più compiutamente e più perfettamente la rappresenta, senza scrupolo alcuno, perchè « è per ragioni politiche — scrive M. Rocard, L a r é fo r m e d u s y s tè m e m o n é ta ir e . C r ise d u d o lla r o u cr ise d e l ’im p é r ia l is m e ? , in L e M o n d e , 8 settembre 1971 — che gli Stati Uniti si sono sempre rifiutati e si rifiutano ancora di porre termine al-

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l’emorragia di dollari che ha provocato la crisi. Essi vogliono continuare a mantenere, all’estero, importanti forze militari; vogliono continuare a controllare alcuni paesi del terzo mondo grazie al loro ’aiuto’ finanziario; vogliono lasciar libero corso all’enorme flusso di investimenti privati ame­ricani in tutto il mondo. In breve, vogliono conservare i mezzi finanziari del loro dominio imperialistico ».

Franco Catalano

Il PonteRivista mensile di politica e letteratura fondata da PIERO CALAMANDREI a. XXVII, n. 10, ottobre 1971

O sserva to rio : E . E n r iq u e s A g n o let ti, Vent’annidopo; E. E . A., Nuovo corso; ACLI, verso il con­gresso. Intervista con E . Gabaglio ; N . N e s i , Ri­forma tributaria, avanti e indietro; B. F in o c c h ia r o , Una legge « contro » il Sud; R. U b o ld i, Fascisti a Pescara: domani al governo; T . T er z a n i, C’è dav­vero un « mistero » cinese?; G. Carsaniga , Le spie che ritornano al freddo; R o n it L iv i , Israele: anche qui può accadere. I n a p p en d ice : A m o s Oz, Arabi e israeliani. La reciproca paura della pace; J o s ip Se n t ija , La Jugoslavia alla ricerca di un nuovo equilibrio; F ranco A n t o n ic e l l i, Gobetti e Prezzo­lini. Una ferita sempre aperta; R oberto R u b er to , Nelson Algren di Chicago; N elso n A lg ren , Da « Chicago: City on the Make »: R a sseg n e: Libri e problemi: P. Sc a r p e l l in i, Calamandrei e il Cellini uomo; D. T arizzo , L’ultimo fronte non è ancora chiuso; P sic h ia tr ia e po litica : S. Lazzaro. Documenti della repressione (a c. di P. Co l a c ic c h i e A. R os­s e l l i); G li u o m in i e i l tem p o : G. B e r g a m i, Ma- riategui e l’Italia; J. C. M a r ia t e g u i, La democrazia cattòlica; Opinioni sulla « Lex fundamentalis »: E. C oggiola, La Chiesa ha paura?; R itr o v o : K. D e- m ir o g l u , Addio, Turchia; L. Rosi, Mississippi: « La nostra vittoria sarà la vostra »; C. D e P a lm a , Archeologia a sorpresa; M. M a ssa r e l l i, Il porta- lettere di Radicofani; L. M a r a n in i, L’« ultimo » Alberto Cento; Divorzio e Concordato.Abbonamento annuo L. 7.000, estero L. 7.500, ccp. 5/6261. La Nuova Italia, 50100, casella postale 346.