Corriere degli Italiani Mercoledi 5 luglio 2017 13 A c i c ... · A metà libro Elena parla di un...

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ATTUALITÀ 13 Corriere degli Italiani Mercoledi 5 luglio 2017 di Luca Bernasconi La cittadella, Ultimo (con Raul Bova), San Pietro (con Omar Shariff), Il Re- stauratore (con Lando Buzzanca), Gio- vanni Paolo II , Don Matteo, Un passo dal cielo (con Terence Hill) e I fantasmi di Portopalo (con Beppe Fiorello) non sono che alcuni fra i numerosissimi titoli di serie televise di successo ideate o sceneggiate da Salvatore Basile, uno dei personaggi più noti della televisione italiana. Lo scorso anno ha pubblicato da Garzanti il suo romanzo d’esordio ‘Lo strano viaggio di un oggetto smar- rito’, una storia di delicata umanità e sorprendente trasformazione, nella quale un bambino diventato uomo dovrà fare i conti con il suo passato e il male di vivere. Qualche settimana fa Salvatore Basile, napoletano di nascita e romano d’adozione, era a Zurigo per presentare il suo libro che è uscito di recente in lingua tedesca per l’editore Blanvalet. Tre intense giornate di in- contri con il pubblico germanofono e italofono, organizzate da Eva Vogel- Degli Espositi al ‘Salottino’, un angolo di italianità nel cuore di Horgen. Nel corso degli animati incontri seguiti anche dai ragazzi dei Corsi di cultura di Antonio Ravi Monica e da studenti del Liceo Artistico, Salvatore Basile ha raccontato di sé, del romanzo e della attività di sceneggiatore, incantando il pubblico per le doti di empatico af- fabulatore. Qual è la scintilla che ha acceso Lo strano viaggio di un oggetto smarrito? Ci sono svariati modi per farsi venire un’idea da raccontare, necessità a parte. Spesso mi chiedono dell’ispirazione: non è un fulmine a ciel sereno, bensì un lavoro costante. L’importante è mettersi in uno stato ricettivo, come una radio le cui frequenze sono tutte quante sintonizzate sul mondo, stare attenti a quello che ci circonda, dopo- diché le idee arrivano da sole e in seguito le si elaborano per dar vita a una storia. A me è successo che avevo in mente di scrivere un romanzo senza però avere un tema preciso. Essendo abituato a scrivere tante storie, mi dicevo che sicuramente ne avrei trovata una per il romanzo. Ho cercato di ab- bozzarne qualcuna meccanicamente, eppure nessuna mi convinceva, per quanto potesse essere adatta per un eventuale film o serie televisiva. Un giorno stavo cercando in una canti- netta-cunicolo in soffitta una vecchia Polaroid per mia figlia quando mi im- batto per caso in una scatola di ferro. La apro. Dentro c’erano vecchie foto- grafie mie del liceo e lettere di compagni di scuola. Ad un tratto un quaderno rosso mi guarda. Lo apro, accorgendomi che si tratta di un mio diario, mai scritto, che reca soltanto la scritta iniziale «Napoli, 1972, ai Salvatore che verranno». La scoperta del diario vuoto e della dedica mi hanno dato una scossa anche perché quello era l’anno in cui lasciavo Napoli. In quel momento ho provato a immaginarmi che cosa avrebbe significato per me se avessi trovato un mio diario da diciassettenne, fitto di annotazioni su tutto quello che avevo fatto in quel periodo. È a quel punto che è scoccata l’idea di base del mio romanzo: un diario che torna a casa dopo vent’anni e che spin- gerà il protagonista al viaggio. Trovata l’idea di partenza, bisogna svi- lupparla e darle forma. Come ha pro- ceduto? Per una volta tanto volevo scrivere senza la preparazione dello sceneg- giatore, il quale arriva a stendere un copione soltanto quando tutto è già stato preordinato, vale a dire dopo una fase di approfondite ricerche che sfocia nella fatidica scaletta. Per una volta tanto volevo partire al buio, se- guendo l’idea del diario che mi era balenata e lasciandomene trasportare. L’ho lasciata fermentare qualche giorno e poi ho cominciato a scrivere di getto. Ne è venuto fuori un dialogo tra una madre e suo figlio e il diario. A un certo punto è entrato in scena il per- sonaggio di Elena, sorprendendo sia me che il protagonista Michele. Quan- do la ragazza ha bussato alla porta di Michele, non sapevo assolutamente chi fosse. Ho perciò mandato letteral- mente Michele ad aprire la porta ed è apparsa questa figura dagli occhi neri e le guance tonde, che ha iniziato a parlare nel suo tipico modo, ovvero a valanga. Elena è una figura chiave del romanzo: come un vulcano irrompe nella vita di Michele, stravolgendogliela in un senso positivo. Che rapporto intrattiene con questo personaggio? A metà libro Elena parla di un patto della felicità, stretto con la sorella ge- mella all’età di 10 anni. In quel momento mi è preso un colpo perché avevo fatto lo stesso all’età di 4 anni con i miei due migliori amici. Ho perciò capito che Elena ero io. Sono entrato nel ro- manzo a tradimento, tramite lei, per il desiderio di raccontare qualcosa che non avevo mai avuto il coraggio di ri- velare e che riguardava un dolore pro- fondo. Questi miei amici ed io siamo stati inseparabili fino ai 28 anni quando una brutta malattia li ha portati via nell’arco di pochi mesi di distanza l’uno dall’altro. Per me è stata una mazzata. Da quel momento ho aspet- tato che arrivasse il mio turno visto che, avendo fatto le stesse identiche cose, era inevitabile che succedesse pure a me, ma così non è stato. Di conseguenza ho avuto una fase di ri- nuncia alla vita molto forte, che poi ho risolto quasi all’improvviso quando ho capito che stavo tradendo quel patto della felicità: mi sono quindi fatto carico, in un certo senso, delle potenzialità inespresse dei miei due amici e sono andato avanti vivendo per tre. Questa presa di coscienza mi ha dato la forza di cambiare lavoro, dedicandomi alla scrittura. Elena è stata una figura per certi versi salvifica e liberatoria perché attraverso lei sono finalmente riuscito a raccontare un’ama- ra vicenda della mia vita che a lungo ho tenuto dentro di me. Come si riesce a elaborare e trasformare attraverso la parola un avvenimento tanto doloroso della propria biografia affinché non risulti insopportabile per i lettori? Non è un’operazione né semplice né automatica. L’errore che spesso si com- mette è confondere quello che ognuno di noi vive e considera significativo con ciò che può invece interessare ed emozionare gli altri. Siccome questi due aspetti quasi mai coincidono, è necessario consegnare nelle mani di un personaggio terzo i propri avveni- menti, affinché li viva e permetta altresí che si crei quel distacco indispensabile per poterli raccontare. Io ricorro a un trucco del mestiere che permette di avere sempre accesa l’autocritica: im- magino di avere sulla spalla sinistra, mentre scrivo, un muppet che inter- viene di continuo e mi dice, in roma- nesco, «e chi se ne importa?». A volte lo invito a zittirsi pensando che si sta sbagliando di grosso, ma lui non de- morde facilmente. Un altro importante stratagemma, questa volta tecnico, è il seguente: la prima riga che si scrive è libera, a partire dalla seconda bisogna invece alternare «ma» e «allora» co- stantementemente fino alla conclu- sione della storia sigillata da un «fi- nalmente». Questi «ma» e «allora» coincidono con la progressione dram- matica del racconto: c’è un’affermazione che scatena un conflitto, il quale suscita una reazione che a sua volta innesca un altro conflitto e via discorrendo. Questo espediente permette di ragio- nare per svolte di cui si nutre il racconto. La svolta è un cambio di direzione che può avere diversi gradi: ciò che cambia completamente il verso è la sorpresa della storia, che pone il protagonista nella condizione di dover agire in ma- niera non abituale alla sua vita. Il ritrovamento casuale di un oggetto smarrito quale il diario segna una svolta nel percorso esistenziale del protagonista. Eppure quell’oggetto assume anche una valenza metaforica… Precisamente. Non si tratta soltanto di un oggetto concreto potendosi riferire a qualcosa di immateriale che si è smarrito come la direzione del nostro cammino o altro ancora, e che solo recuperandolo è possibile com- prendere chi siamo e dove intendiamo andare. È spesso difficile ritrovare la propria strada per paura di soffrire, preferendo, quindi, evitare di metterci alla prova, con il risultato però che, invece di vivere, sopravviviamo. Si può essere come Michele, sorta di Piccolo Principe dei nostri giorni, che si chiude in se stesso e si lascia schiacciare dal dolore in attesa che la vita gli regali una svolta, oppure come Elena, forza della natura che cavalca il dolore, anzi lo scavalca, per poi ripartire. Tra queste due modalità per superare le vicissi- tudini che ci si presentano nella vita, ve n’è una intermedia che consiste nel saper aspettare e cogliere i segnali che la realtà ci offre di continuo per poter agire di conseguenza. È una via piut- tosto difficile perché ci costringe a uscire da uno stato di comodità, per lo meno apparente, e a soffrire, ma alla lunga è indispensabile per vincere i nostri blocchi mentali. A volte basta un avvenimento di scarsa importanza (come una notte insonne) per rimuo- vere un ostacolo. Bisognerebbe che seguissimo di più le nostre emozioni e, soprattutto, che ci concedessimo allo sbaglio. Come funziona nel suo caso il rapporto fra imma- ginare e scrivere? È l’immagine che si trasforma in parola o è la parola che costruisce l’immagine? Ambedue le cose. Spesso sono le immagini colte al volo, in situazioni disparate, a spingermi a ri- portarle sulla carta, cercando le parole adatte per descriverle. Altre volte è il suono delle parole, il loro susseguirsi secondo un ritmo quasi musicale, a delineare l'immagine che, in questo caso, prende corpo quasi da sola. Quali sono stati nella costruzione del romanzo gli aspetti che le hanno dato più filo da torcere? È sempre difficile uscire da una situazione per entrare in un’altra. Nel mio romanzo vi è un pro- tagonista che viaggia e che prima di viaggiare va spinto alla partenza: questi passaggi sono stati cruciali perché sentivo di non poterli rendere con un’ellisse, come talvolta si fa in sceneggiatura, e temevo molto di rallentare il ritmo del racconto rendendolo noioso. Questi snodi hanno richiesto un notevole sforzo creativo di volta in volta per renderli il più possibile gradevoli e interessanti per i lettori prima che si avventurassero nel cuore dell' episodio. Lei ha affermato che, trovata una storia, bisogna saperla vestire, e che dal come si cuciono le ombre dei personaggi deriva la qualità della storia stessa. Che cosa intende di preciso? Ogni storia ha uno o più significati reconditi. Le trame, in fondo, sono come i sogni: successioni di eventi che conducono a ciò che nascondiamo nel profondo, proprio come ombre in movimento che celano la fonte di luce che le proietta. Ecco, può sembrare un ossimoro, ma quella luce parte proprio dall’interno dell’ombra. È una luce fatta di ricordi, di paure, di irrisolti, di non detti. Potrei dire che più si riesce a dettagliare l’ombra, più viene fuori la luce che l’ha creata. In mezzo, c’è il personaggio, con le sue azioni e le sue sco- perte. Che cosa ha imparato di nuovo sulla scrittura dando alle stampe il suo primo romanzo? Sorrido. Ho la sensazione di avere tutto da imparare ancora. Forse perché detesto le certezze e cerco sempre di metterle in discussione. Non credo esistano regole, nella scrittura, nonostante si moltiplichino continuamente i manuali di istruzione. Ciascuno procede a modo suo. Forse, l’unica regola che sento di seguire è il rispetto per il lettore: sapere di aver qualcosa da raccontare e raccontarlo al meglio, magari senza fare sfoggio di forzati virtuosismi lunguistici. Ma è solo la mia opinione. Ha ideato e sceneggiato innumerevoli storie per il piccolo schermo. Quali sono le principali differenze tra la scrittura di un romanzo e quella per una serie televisiva? Sintetizzando, si può dire che nella sceneggiatura l’approfondimento viene fatto in anticipo e quando si scrive si può anche sorvolare su deter- minati aspetti ben conosciuti all’autore come ad esempio il passato del protagonista che si può anche non rivelare per tutta la fiction, ma che viene fuori dai gesti, dalle parole, da alcune im- magini e a volte anche dai flashback. Nel romanzo, per contro, il passato del personaggio principale è parte integrante della narrazione: va raccontato e approfondito, va fatto palpitare essendo praticamente il motore della storia. Se intervista A colloquio con Salvatore Basile, ideatore e sceneggiatore di numerose serie televisive di successo Gioia di scrivere e piacere della scoperta scrivendo la sceneggiatura è un racconto lineare di scorri- mento, il romanzo è invece un racconto sferico che tiene conto di tutti gli aspetti possibili: può tornare indietro o può fermarsi per approfondire e poi lanciarsi in avanti: un’architettura piuttosto complessa ma di certo anche più gratificante. Quali sono gli elementi fondamentali per co- struire una buona fiction? Il primo è sicuramente individuare un protagonista o più che siano portatori di valori precisi, rico- noscibili e soprattutto condivisibili. Ci vuole poi un tema preciso, che spazia dall'amore all'amicizia passando per i rapporti interpersonali su su fino al perseguire un sogno o un progetto riconoscibile. Oltre a questo bisogna essere in grado di costruire un mondo credibile che faccia affezionare il pubblico di telespettatori affinché vi si sentano a casa anche qualora si rappresenti un mondo di- stopico. Nella costruzione bisogna tener conto dell’orizzontalità – una serie racconta una storia che va avanti puntata dopo puntata – e del fatto che la dimensione orizzontale contiene una ver- ticalità, come nel caso di Don Matteo: in ogni episodio viene narrata una storia che si conclude all’interno di quell’episodio mentre contempo- raneamente si continuano a muovere i fili oriz- zontali che procedono dalla prima fino all’ultima puntata. La scelta di una tematica da sviluppare in una fiction: si pesca nel reale oppure si va alla ricerca di qualcosa di inedito che potrebbe persino antici- pare ciò che diventerà un argomento di rilievo più avanti nel tempo? Sicuramente ambedue le cose. Negli ultimi cinque anni vi è molta attenzione a rappresentare problematiche che si vivono quotidianamente nel sociale. Esse si trovano nei media e sono quindi sotto gli occhi di tutti: spetta a chi crea le fiction intuire quale possa essere l’argomento interessante da sviluppare. Se si riesce ad avere l’idea che possa anticipare qualcosa che avverrà, a quel punto si è fatto veramente centro e si pos- sono mettere in scena serie davvero significative. Una fiction anticipatrice, per fare un esempio, è stata Ultimo nel 1998 in quanto inaugurava una contaminazione di generi, dal poliziesco al social con tracce di dramedy. Che tipo di ricerche va svolto prima di affrontare una fiction come quella su Giovanni Paolo II nella quale entrano anche gli avvenimenti storici? Innanzitutto una documentazione feroce che prevede la lettura di tutto quello che è stato scritto su Papa Wojtyla, le interviste con consulenti e con persone che l’hanno conosciuto e che hanno vissuto con lui. Alla fine si raccoglie tutto questo materiale e si inizia a fare una sorta di cernita, separando gli argomenti drammatici, non solo quelli che possono interessare il pubblico ma anche quelli che costituiscono una progres- sione della storia, e tralasciando quelli poco ap- petibili che potrebbero rallentare il ritmo della narrazione. Dopo aver mescolato queste com- ponenti, si comincia a immaginare lo sviluppo della fiction dalla prima all’ultima scena, lenta- mente, giorno per giorno, discutendone con gli altri della squadra per arrivare a stendere la scaletta, ovvero il piano sequenziale delle scene. Una volta approvata dalla Rai e dalla produzione, si procede a sceneggiare: è lì che inizia il diverti- mento poiché si dà sfogo alla propria creatività, al proprio gusto. Qual è la serie televisiva cui è più affezionato? Quella che mi ha emozionato più di tutte è cer- tamente La cittadella che ho sceneggiato da solo in quattro puntate nel 2002. Io appartengo alla generazione cresciuta a pane e Rai, quindi La cittadella con Alberto Lupo rappresentava qualcosa di mitico. Quando mi chiesero di proporne il remake, l’emozione fu talmente enorme che mi ci dedicai con tutto il cuore per un anno intero. Vederla realizzata è stata una gioia incredibile perché mi ricordava i tempi in cui abitavo a Napoli e in casa eravamo gli unici del palazzo a possedere un te- levisore catodico. La sera tutti i vicini si presen- tavano da noi, sedia in mano, portando vino e pastarelle, e il nostro tinello si trasformava prati- camente in una sala cinematografica. Fra i protagonisti della fiction di successo da lei ideata Un passo dal cielo figura Terence Hill, presente anche in Don Matteo, un’altra serie di cui lei si è occupato e che annovera molti attori noti al grande pubblico come Nino Frassica. Si viene a creare una sorta di complicità al di fuori del set tra chi sta dietro alla cinepresa e il cast di attori? La complicità è assolutamente necessaria e si crea in maniera naturale. È una sorta di solidarietà tra persone che stanno in "trincea", pronte ad af- frontare qualunque difficoltà pur di condurre in porto il lavoro nel migliore dei modi. Per quanto riguarda Terence Hill e Nino Frassica, sono stato molto fortunato in quanto quella complicità si è trasformata in solida e sincera amicizia che dura nel tempo.

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ATTUALITÀ 13Corriere degli ItalianiMercoledi 5 luglio 2017

di Luca Bernasconi

La cittadella, Ultimo (con Raul Bova),San Pietro (con Omar Shariff), Il Re-stauratore (con Lando Buzzanca), Gio-vanni Paolo II, Don Matteo, Un passodal cielo (con Terence Hill) e I fantasmidi Portopalo (con Beppe Fiorello) nonsono che alcuni fra i numerosissimititoli di serie televise di successo ideateo sceneggiate da Salvatore Basile, unodei personaggi più noti della televisioneitaliana. Lo scorso anno ha pubblicatoda Garzanti il suo romanzo d’esordio‘Lo strano viaggio di un oggetto smar-rito’, una storia di delicata umanità esorprendente trasformazione, nellaquale un bambino diventato uomodovrà fare i conti con il suo passato e ilmale di vivere. Qualche settimana faSalvatore Basile, napoletano di nascitae romano d’adozione, era a Zurigo perpresentare il suo libro che è uscito direcente in lingua tedesca per l’editoreBlanvalet. Tre intense giornate di in-contri con il pubblico germanofono eitalofono, organizzate da Eva Vogel-Degli Espositi al ‘Salottino’, un angolodi italianità nel cuore di Horgen. Nelcorso degli animati incontri seguitianche dai ragazzi dei Corsi di culturadi Antonio Ravi Monica e da studentidel Liceo Artistico, Salvatore Basile haraccontato di sé, del romanzo e dellaattività di sceneggiatore, incantandoil pubblico per le doti di empatico af-fabulatore.

Qual è la scintilla che ha acceso Lo

strano viaggio di un oggetto smarrito?

Ci sono svariati modi per farsi venireun’idea da raccontare, necessità a parte.Spesso mi chiedono dell’ispirazione:non è un fulmine a ciel sereno, bensìun lavoro costante. L’importante èmettersi in uno stato ricettivo, comeuna radio le cui frequenze sono tuttequante sintonizzate sul mondo, stareattenti a quello che ci circonda, dopo-diché le idee arrivano da sole e inseguito le si elaborano per dar vita auna storia. A me è successo che avevoin mente di scrivere un romanzo senzaperò avere un tema preciso. Essendoabituato a scrivere tante storie, midicevo che sicuramente ne avrei trovatauna per il romanzo. Ho cercato di ab-bozzarne qualcuna meccanicamente,eppure nessuna mi convinceva, perquanto potesse essere adatta per uneventuale film o serie televisiva. Ungiorno stavo cercando in una canti-netta-cunicolo in soffitta una vecchiaPolaroid per mia figlia quando mi im-batto per caso in una scatola di ferro.La apro. Dentro c’erano vecchie foto-grafie mie del liceo e lettere di compagnidi scuola. Ad un tratto un quadernorosso mi guarda. Lo apro, accorgendomiche si tratta di un mio diario, maiscritto, che reca soltanto la scrittainiziale «Napoli, 1972, ai Salvatore cheverranno». La scoperta del diario vuotoe della dedica mi hanno dato unascossa anche perché quello era l’annoin cui lasciavo Napoli. In quel momentoho provato a immaginarmi che cosaavrebbe significato per me se avessitrovato un mio diario da diciassettenne,fitto di annotazioni su tutto quelloche avevo fatto in quel periodo. È aquel punto che è scoccata l’idea dibase del mio romanzo: un diario chetorna a casa dopo vent’anni e che spin-gerà il protagonista al viaggio.

Trovata l’idea di partenza, bisogna svi-lupparla e darle forma. Come ha pro-ceduto?Per una volta tanto volevo scriveresenza la preparazione dello sceneg-giatore, il quale arriva a stendere uncopione soltanto quando tutto è giàstato preordinato, vale a dire dopouna fase di approfondite ricerche chesfocia nella fatidica scaletta. Per unavolta tanto volevo partire al buio, se-guendo l’idea del diario che mi erabalenata e lasciandomene trasportare.L’ho lasciata fermentare qualche giorno

e poi ho cominciato a scrivere di getto.Ne è venuto fuori un dialogo tra unamadre e suo figlio e il diario. A uncerto punto è entrato in scena il per-sonaggio di Elena, sorprendendo siame che il protagonista Michele. Quan-do la ragazza ha bussato alla porta diMichele, non sapevo assolutamentechi fosse. Ho perciò mandato letteral-mente Michele ad aprire la porta ed èapparsa questa figura dagli occhi nerie le guance tonde, che ha iniziato aparlare nel suo tipico modo, ovvero avalanga.

Elena è una figura chiave del romanzo:come un vulcano irrompe nella vita diMichele, stravolgendogliela in un sensopositivo. Che rapporto intrattiene conquesto personaggio?A metà libro Elena parla di un pattodella felicità, stretto con la sorella ge-mella all’età di 10 anni. In quel momentomi è preso un colpo perché avevo fattolo stesso all’età di 4 anni con i mieidue migliori amici. Ho perciò capitoche Elena ero io. Sono entrato nel ro-manzo a tradimento, tramite lei, peril desiderio di raccontare qualcosa chenon avevo mai avuto il coraggio di ri-velare e che riguardava un dolore pro-fondo. Questi miei amici ed io siamostati inseparabili fino ai 28 anni quandouna brutta malattia li ha portati vianell’arco di pochi mesi di distanzal’uno dall’altro. Per me è stata unamazzata. Da quel momento ho aspet-tato che arrivasse il mio turno vistoche, avendo fatto le stesse identichecose, era inevitabile che succedessepure a me, ma così non è stato. Diconseguenza ho avuto una fase di ri-nuncia alla vita molto forte, che poiho risolto quasi all’improvviso quandoho capito che stavo tradendo quelpatto della felicità: mi sono quindifatto carico, in un certo senso, dellepotenzialità inespresse dei miei dueamici e sono andato avanti vivendoper tre. Questa presa di coscienza miha dato la forza di cambiare lavoro,dedicandomi alla scrittura. Elena èstata una figura per certi versi salvificae liberatoria perché attraverso lei sonofinalmente riuscito a raccontare un’ama-ra vicenda della mia vita che a lungoho tenuto dentro di me.

Come si riesce a elaborare e trasformareattraverso la parola un avvenimentotanto doloroso della propria biografiaaffinché non risulti insopportabile per ilettori?Non è un’operazione né semplice néautomatica. L’errore che spesso si com-mette è confondere quello che ognunodi noi vive e considera significativocon ciò che può invece interessare edemozionare gli altri. Siccome questidue aspetti quasi mai coincidono, ènecessario consegnare nelle mani diun personaggio terzo i propri avveni-menti, affinché li viva e permetta altresí

che si crei quel distacco indispensabileper poterli raccontare. Io ricorro a untrucco del mestiere che permette diavere sempre accesa l’autocritica: im-magino di avere sulla spalla sinistra,mentre scrivo, un muppet che inter-viene di continuo e mi dice, in roma-nesco, «e chi se ne importa?». A voltelo invito a zittirsi pensando che si stasbagliando di grosso, ma lui non de-morde facilmente. Un altro importantestratagemma, questa volta tecnico, èil seguente: la prima riga che si scriveè libera, a partire dalla seconda bisognainvece alternare «ma» e «allora» co-stantementemente fino alla conclu-sione della storia sigillata da un «fi-nalmente». Questi «ma» e «allora»coincidono con la progressione dram-matica del racconto: c’è un’affermazioneche scatena un conflitto, il quale suscitauna reazione che a sua volta innescaun altro conflitto e via discorrendo.Questo espediente permette di ragio-nare per svolte di cui si nutre il racconto.La svolta è un cambio di direzione chepuò avere diversi gradi: ciò che cambiacompletamente il verso è la sorpresadella storia, che pone il protagonistanella condizione di dover agire in ma-niera non abituale alla sua vita.

Il ritrovamento casuale di un oggettosmarrito quale il diario segna una svoltanel percorso esistenziale del protagonista.Eppure quell’oggetto assume anche unavalenza metaforica…Precisamente. Non si tratta soltantodi un oggetto concreto potendosiriferire a qualcosa di immateriale chesi è smarrito come la direzione delnostro cammino o altro ancora, e chesolo recuperandolo è possibile com-prendere chi siamo e dove intendiamoandare. È spesso difficile ritrovare lapropria strada per paura di soffrire,preferendo, quindi, evitare di mettercialla prova, con il risultato però che,invece di vivere, sopravviviamo. Si puòessere come Michele, sorta di PiccoloPrincipe dei nostri giorni, che si chiudein se stesso e si lascia schiacciare daldolore in attesa che la vita gli regaliuna svolta, oppure come Elena, forzadella natura che cavalca il dolore, anzilo scavalca, per poi ripartire. Tra questedue modalità per superare le vicissi-tudini che ci si presentano nella vita,ve n’è una intermedia che consiste nelsaper aspettare e cogliere i segnali chela realtà ci offre di continuo per poteragire di conseguenza. È una via piut-tosto difficile perché ci costringe auscire da uno stato di comodità, per lomeno apparente, e a soffrire, ma allalunga è indispensabile per vincere inostri blocchi mentali. A volte bastaun avvenimento di scarsa importanza(come una notte insonne) per rimuo-vere un ostacolo. Bisognerebbe cheseguissimo di più le nostre emozionie, soprattutto, che ci concedessimoallo sbaglio.

Come funziona nel suo caso il rapporto fra imma-ginare e scrivere? È l’immagine che si trasforma inparola o è la parola che costruisce l’immagine?Ambedue le cose. Spesso sono le immagini colteal volo, in situazioni disparate, a spingermi a ri-portarle sulla carta, cercando le parole adatteper descriverle. Altre volte è il suono delle parole,il loro susseguirsi secondo un ritmo quasimusicale, a delineare l'immagine che, in questocaso, prende corpo quasi da sola.

Quali sono stati nella costruzione del romanzo gliaspetti che le hanno dato più filo da torcere?È sempre difficile uscire da una situazione perentrare in un’altra. Nel mio romanzo vi è un pro-tagonista che viaggia e che prima di viaggiare vaspinto alla partenza: questi passaggi sono staticruciali perché sentivo di non poterli renderecon un’ellisse, come talvolta si fa in sceneggiatura,e temevo molto di rallentare il ritmo del raccontorendendolo noioso. Questi snodi hanno richiestoun notevole sforzo creativo di volta in volta perrenderli il più possibile gradevoli e interessantiper i lettori prima che si avventurassero nelcuore dell' episodio.

Lei ha affermato che, trovata una storia, bisognasaperla vestire, e che dal come si cuciono le ombredei personaggi deriva la qualità della storia stessa.Che cosa intende di preciso?Ogni storia ha uno o più significati reconditi. Letrame, in fondo, sono come i sogni: successionidi eventi che conducono a ciò che nascondiamonel profondo, proprio come ombre in movimentoche celano la fonte di luce che le proietta. Ecco,può sembrare un ossimoro, ma quella luce parteproprio dall’interno dell’ombra. È una luce fattadi ricordi, di paure, di irrisolti, di non detti.Potrei dire che più si riesce a dettagliare l’ombra,più viene fuori la luce che l’ha creata. In mezzo,c’è il personaggio, con le sue azioni e le sue sco-perte.

Che cosa ha imparato di nuovo sulla scritturadando alle stampe il suo primo romanzo?Sorrido. Ho la sensazione di avere tutto daimparare ancora. Forse perché detesto le certezzee cerco sempre di metterle in discussione. Noncredo esistano regole, nella scrittura, nonostantesi moltiplichino continuamente i manuali diistruzione. Ciascuno procede a modo suo. Forse,l’unica regola che sento di seguire è il rispettoper il lettore: sapere di aver qualcosa da raccontaree raccontarlo al meglio, magari senza fare sfoggiodi forzati virtuosismi lunguistici. Ma è solo lamia opinione.

Ha ideato e sceneggiato innumerevoli storie per ilpiccolo schermo. Quali sono le principali differenzetra la scrittura di un romanzo e quella per unaserie televisiva?Sintetizzando, si può dire che nella sceneggiatural’approfondimento viene fatto in anticipo equando si scrive si può anche sorvolare su deter-minati aspetti ben conosciuti all’autore come adesempio il passato del protagonista che si puòanche non rivelare per tutta la fiction, ma cheviene fuori dai gesti, dalle parole, da alcune im-magini e a volte anche dai flashback. Nel romanzo, per contro, il passato del personaggioprincipale è parte integrante della narrazione:va raccontato e approfondito, va fatto palpitareessendo praticamente il motore della storia. Se

intervista A colloquio con Salvatore Basile, ideatore e sceneggiatore di numerose serie televisive di successo

Gioia di scrivere e piaceredella scoperta scrivendo

la sceneggiatura è un racconto lineare di scorri-mento, il romanzo è invece un racconto sfericoche tiene conto di tutti gli aspetti possibili: puòtornare indietro o può fermarsi per approfondiree poi lanciarsi in avanti: un’architettura piuttostocomplessa ma di certo anche più gratificante.

Quali sono gli elementi fondamentali per co-struire una buona fiction?Il primo è sicuramente individuare un protagonistao più che siano portatori di valori precisi, rico-noscibili e soprattutto condivisibili. Ci vuole poiun tema preciso, che spazia dall'amore all'amiciziapassando per i rapporti interpersonali su su finoal perseguire un sogno o un progetto riconoscibile.Oltre a questo bisogna essere in grado di costruireun mondo credibile che faccia affezionare ilpubblico di telespettatori affinché vi si sentano acasa anche qualora si rappresenti un mondo di-stopico. Nella costruzione bisogna tener contodell’orizzontalità – una serie racconta una storiache va avanti puntata dopo puntata – e del fattoche la dimensione orizzontale contiene una ver-ticalità, come nel caso di Don Matteo: in ogniepisodio viene narrata una storia che si concludeall’interno di quell’episodio mentre contempo-raneamente si continuano a muovere i fili oriz-zontali che procedono dalla prima fino all’ultimapuntata.

La scelta di una tematica da sviluppare in unafiction: si pesca nel reale oppure si va alla ricercadi qualcosa di inedito che potrebbe persino antici-pare ciò che diventerà un argomento di rilievo piùavanti nel tempo?Sicuramente ambedue le cose. Negli ultimicinque anni vi è molta attenzione a rappresentareproblematiche che si vivono quotidianamentenel sociale. Esse si trovano nei media e sonoquindi sotto gli occhi di tutti: spetta a chi crea lefiction intuire quale possa essere l’argomentointeressante da sviluppare. Se si riesce ad averel’idea che possa anticipare qualcosa che avverrà,a quel punto si è fatto veramente centro e si pos-sono mettere in scena serie davvero significative.Una fiction anticipatrice, per fare un esempio, èstata Ultimo nel 1998 in quanto inaugurava unacontaminazione di generi, dal poliziesco al socialcon tracce di dramedy.

Che tipo di ricerche va svolto prima di affrontareuna fiction come quella su Giovanni Paolo II nellaquale entrano anche gli avvenimenti storici?Innanzitutto una documentazione feroce cheprevede la lettura di tutto quello che è statoscritto su Papa Wojtyla, le interviste con consulentie con persone che l’hanno conosciuto e chehanno vissuto con lui. Alla fine si raccoglie tuttoquesto materiale e si inizia a fare una sorta dicernita, separando gli argomenti drammatici,non solo quelli che possono interessare il pubblicoma anche quelli che costituiscono una progres-sione della storia, e tralasciando quelli poco ap-petibili che potrebbero rallentare il ritmo dellanarrazione. Dopo aver mescolato queste com-ponenti, si comincia a immaginare lo sviluppodella fiction dalla prima all’ultima scena, lenta-mente, giorno per giorno, discutendone con glialtri della squadra per arrivare a stendere lascaletta, ovvero il piano sequenziale delle scene.Una volta approvata dalla Rai e dalla produzione,si procede a sceneggiare: è lì che inizia il diverti-mento poiché si dà sfogo alla propria creatività,al proprio gusto.

Qual è la serie televisiva cui è più affezionato?Quella che mi ha emozionato più di tutte è cer-tamente La cittadellache ho sceneggiato da soloin quattro puntate nel 2002. Io appartengo allagenerazione cresciuta a pane e Rai, quindi Lacittadellacon Alberto Lupo rappresentava qualcosadi mitico. Quando mi chiesero di proporne il remake,l’emozione fu talmente enorme che mi ci dedicaicon tutto il cuore per un anno intero. Vederlarealizzata è stata una gioia incredibile perché miricordava i tempi in cui abitavo a Napoli e in casaeravamo gli unici del palazzo a possedere un te-levisore catodico. La sera tutti i vicini si presen-tavano da noi, sedia in mano, portando vino epastarelle, e il nostro tinello si trasformava prati-camente in una sala cinematografica.

Fra i protagonisti della fiction di successo da leiideata Un passo dal cielo figura Terence Hill,presente anche in Don Matteo, un’altra serie dicui lei si è occupato e che annovera molti attorinoti al grande pubblico come Nino Frassica. Siviene a creare una sorta di complicità al di fuoridel set tra chi sta dietro alla cinepresa e il cast diattori?La complicità è assolutamente necessaria e sicrea in maniera naturale. È una sorta di solidarietàtra persone che stanno in "trincea", pronte ad af-frontare qualunque difficoltà pur di condurre inporto il lavoro nel migliore dei modi. Per quanto riguarda Terence Hill e Nino Frassica,sono stato molto fortunato in quanto quellacomplicità si è trasformata in solida e sinceraamicizia che dura nel tempo.