conversazione Dacia Manto Marinella Paderni

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STANZE 101 e 102 conversazione con Dacia Manto 7/7/2011 Marinella Paderni On growth and form è un tuo nuovo progetto performativo ideato per lo spazio EX Brun di Bologna. In questo lavoro il disegno è l’elemento naturale di un’azione che riflette sull’atto artistico generativo e sul disegnare quale scrittura del corpo, ridiscutendo la centralità del corpo dell’artista sempre più smaterializzato nell’arte dei processi immaginifici virtuali e messo in crisi dalle psicotecnologie. Il titolo suggerisce l’idea di un’origine lontana, di una crescita e di un compimento nella forma, che è nella natura stessa del disegno. Cosa vuoi esprimere con quest’opera? Dacia Manto On growth and form è un laboratorio aperto, un cantiere mutevole e non finito come molti altri miei lavori. Una forma in divenire dunque, e che non trova compimento. Forse potrebbe dirsi persino caotica. Ho detto spesso che il caos è generoso, solo da li' si può tentare un ordine. E' un' esperienza costruttrice del proprio spazio, che si compie attraverso il corpo, il gesto. E' certo una scrittura, come affermi. Ed è anche la costruzione di un rifugio, un ingombro precario, invadente, in crescita lenta. Si costituisce come uno spazio intimo all'interno di un altro spazio, al quale lo spettatore può avvicinarsi solo 'spiando', cercando un proprio campo visivo. Il disegno è il tentativo di rappresentare, mappare, misurare lo spazio. Ma e' anche un mezzo che utilizzo spesso. Penso davvero che si possa parlare di una ecologia del disegno: Il disegno è il mezzo più povero, più economico, più immediato, non necessita di nulla. E' 'antimonumentale'. Tuttavia in questo caso- e in altri miei lavori passati- si tratta di costruire un luogo usando il disegno. E il costruire un luogo, infine, è scultura. La sua fruizione entra in rapporto con il movimento, dunque con la durata, con il tempo. Da sempre la scultura richiede che le si giri intorno. Richiede perciò una maggiore partecipazione fisica rispetto a quella richiesta dalla pittura. Una azione che faccia muovere lo spettatore attraverso lo spazio forse deriva della scultura, io credo. MP La tua performance s’innesta all’interno di un progetto artistico preesistente, un ambiente creato da Flavio Favelli che si relaziona all’anima del luogo, un tempo abitato dall’Hotel Ex Brun... DM Il progetto di Flavio Favelli entrava certo in relazione con l'identità passata del luogo, con la sua memoria. Io a mia volta ho tentato una relazione con la sua lettura, sovrapponendo altri segni. Dunque una stratificazione ulteriore credo. Ho preso spunto dal rosone decorativo a terra, a motivo vegetale: un pattern allo stesso tempo simile e differente rispetto ad altri che ho utilizzato in passato. Da lì sono partita per costruire il mio ingombro, la mia 'scultura' fragile, sempre sul punto di collassare, che lascia intravedere il 'disegno' sottostante. MP La performance non è una pratica ricorrente nella tua ricerca, ma riveste un ruolo significativo e ingloba altre espressioni linguistiche da te impiegate più di frequente - come la scultura, il disegno, il video. Allora perché agire con la performance piuttosto che “sparire” nelle immagini? DM Il suggerimento a costruire una azione mi è venuto da Fabio Farne', e io ho accettato. Mi sembra il modo più profondo di entrare in uno spazio. Esserci nello spazio, essere li', nel corpo. La propria presenza è un rischio, un segno forte. In realtà io ci sono, si', ma sono quasi nascosta.. Allo stesso tempo ciò' consente al pubblico di 'osservare ' la costruzione di un lavoro, di entrare in contatto con una presenza in divenire. Anche se poche volte ho utilizzato la performance- e in quasi tutte si trattava della costruzione in fieri di qualcosa- non mi precludo mai l'utilizzo di un linguaggio rispetto ad un altro. Nel caso dell'azione c'è una componente forte, autentica, che è quella del mettersi in gioco. Ma credo che il mio lavoro- dal disegno, al video, all'installazione- cerchi un suo luogo proprio nelle corrispondenze tra i diversi linguaggi, nelle fessure dei continui rimandi che tentano di formare una rete infinita di rapporti, coincidenze, ma anche sfasamenti, rotture, errori, scarti, insomma margini che si aprono inaspettati.

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STANZE 101 e 102

conversazione con Dacia Manto

7/7/2011

Marinella Paderni On growth and form è un tuo nuovo progetto performativo ideato per lo spazio EX Brun di Bologna. In questo lavoro il disegno è l’elemento naturale di un’azione

che riflette sull’atto artistico generativo e sul disegnare quale scrittura del corpo,

ridiscutendo la centralità del corpo dell’artista sempre più smaterializzato nell’arte

dei processi immaginifici virtuali e messo in crisi dalle psicotecnologie.

Il titolo suggerisce l’idea di un’origine lontana, di una crescita e di un compimento

nella forma, che è nella natura stessa del disegno. Cosa vuoi esprimere con quest’opera?

Dacia Manto On growth and form è un laboratorio aperto, un cantiere mutevole e non finito

come molti altri miei lavori. Una forma in divenire dunque, e che non trova compimento.

Forse potrebbe dirsi persino caotica. Ho detto spesso che il caos è generoso, solo da

li' si può tentare un ordine.

E' un' esperienza costruttrice del proprio spazio, che si compie attraverso il corpo, il

gesto. E' certo una scrittura, come affermi. Ed è anche la costruzione di un rifugio, un

ingombro precario, invadente, in crescita lenta. Si costituisce come uno spazio intimo

all'interno di un altro spazio, al quale lo spettatore può avvicinarsi solo 'spiando',

cercando un proprio campo visivo.

Il disegno è il tentativo di rappresentare, mappare, misurare lo spazio. Ma e' anche un

mezzo che utilizzo spesso. Penso davvero che si possa parlare di una ecologia del

disegno: Il disegno è il mezzo più povero, più economico, più immediato, non necessita di

nulla. E' 'antimonumentale'.

Tuttavia in questo caso- e in altri miei lavori passati- si tratta di costruire un luogo

usando il disegno. E il costruire un luogo, infine, è scultura. La sua fruizione entra in

rapporto con il movimento, dunque con la durata, con il tempo. Da sempre la scultura

richiede che le si giri intorno. Richiede perciò una maggiore partecipazione fisica

rispetto a quella richiesta dalla pittura. Una azione che faccia muovere lo spettatore

attraverso lo spazio forse deriva della scultura, io credo.

MP La tua performance s’innesta all’interno di un progetto artistico preesistente, un

ambiente creato da Flavio Favelli che si relaziona all’anima del luogo, un tempo abitato

dall’Hotel Ex Brun...

DM Il progetto di Flavio Favelli entrava certo in relazione con l'identità passata del

luogo, con la sua memoria. Io a mia volta ho tentato una relazione con la sua lettura,

sovrapponendo altri segni. Dunque una stratificazione ulteriore credo. Ho preso spunto

dal rosone decorativo a terra, a motivo vegetale: un pattern allo stesso tempo simile e

differente rispetto ad altri che ho utilizzato in passato. Da lì sono partita per

costruire il mio ingombro, la mia 'scultura' fragile, sempre sul punto di collassare, che

lascia intravedere il 'disegno' sottostante.

MP La performance non è una pratica ricorrente nella tua ricerca, ma riveste un ruolo

significativo e ingloba altre espressioni linguistiche da te impiegate più di frequente -

come la scultura, il disegno, il video. Allora perché agire con la performance piuttosto

che “sparire” nelle immagini?

DM Il suggerimento a costruire una azione mi è venuto da Fabio Farne', e io ho accettato.

Mi sembra il modo più profondo di entrare in uno spazio. Esserci nello spazio, essere

li', nel corpo. La propria presenza è un rischio, un segno forte.

In realtà io ci sono, si', ma sono quasi nascosta.. Allo stesso tempo ciò' consente al

pubblico di 'osservare ' la costruzione di un lavoro, di entrare in contatto con una

presenza in divenire. Anche se poche volte ho utilizzato la performance- e in quasi

tutte si trattava della costruzione in fieri di qualcosa- non mi precludo mai l'utilizzo

di un linguaggio rispetto ad un altro.

Nel caso dell'azione c'è una componente forte, autentica, che è quella del mettersi in

gioco. Ma credo che il mio lavoro- dal disegno, al video, all'installazione- cerchi un

suo luogo proprio nelle corrispondenze tra i diversi linguaggi, nelle fessure dei

continui rimandi che tentano di formare una rete infinita di rapporti, coincidenze, ma

anche sfasamenti, rotture, errori, scarti, insomma margini che si aprono inaspettati.

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MP In un suo recente articolo, Dieter Roelstraete s’interroga sulle ragioni che stanno

portando un numero crescente di artisti a privilegiare la performance e la scrittura alla

creazione di nuove immagini. La sua teoria è che recentemente il teatro ha sostituito il

cinema, e le arti performative dal vivo il posto delle proiezioni, quali fenomeni

naturali di contrapposizione alla smaterializzazione del libro e della parola scritta

operata dalla nuova era dell’e-book. Un ritorno al primato della parola sull’immagine, su

cui in passato è stata costruita la tradizione occidentale della “metafisica della

presenza”.

La tua scelta di operare con la performance e tramite il disegno, che spesso nel tuo

lavoro pare divenire una parola scritta (il segno liquefatto e criptico della natura),

trova una corrispondenza nell’analisi del filosofo e curatore tedesco.

DM Mi sembra una lettura molto interessante e calzante. Di sicuro io ho sempre aderito,

anche mio malgrado, ad una mia attitudine a non smaterializzare. Credo che il mio lavoro

resti fisico e materiale anche quando il mio corpo non è presente. Molto di esso è legato

ai materiali, alle superfici, alle 'cose'. Anche se spesso si tratta di materiali

volatili, come le polveri e la grafite. O di 'oggetti' e reperti anch'essi sfuggenti,

ambigui. La mia presenza e' comunque tangibile nel gesto, nella traccia che lascia sulle

cose. E' un farsi corpo e insieme luogo. Una partitura di segni, come dicevamo prima,

che attraversa il pensiero ma si compie poi, nelle tracce e nelle scritture del corpo.

MP Il suono è l’altro elemento di On growth and form, senza cui l’azione non avrebbe la

stessa onda di propagazione sensoria e un’eco fisica nella mente dello spettatore. Su

che suono hai lavorato?

DM Sui suoni prodotti dai gesti e dal corpo appunto, nel costruire il lavoro. Dunque i

suoni costruiti dal disegnare, dal ritagliare, piegare, stropicciare la carta. Come Il

rumore ritmico della matita sul foglio, che accompagna l'odore della grafite che si

spande. Si tratta di percezioni minime, fragili, su cui ho tentato di lavorare

amplificandole.

Poi volevo ci fosse un'altra figura a farmi da contrappunto visivo e sonoro, in

'risposta' al mio propagare suoni e alla mia presenza, anzi dovrei dire al mio essere

quasi nascosta. Come una eco appunto, ma maschile.

MP In una tua recente intervista su Temamagazine paragoni il tuo lavoro ad un “terzo

paesaggio”, un luogo di autonomia radicale per l’arte di ripensare la natura e di

reinventare la sua immagine. Si tratta della creazione di paesaggi mediati, in cui la

realtà dell’esistente si contamina di nuove visioni trasformandosi nella semi-realtà (e

nella nostalgia) di un possibile domani? O c’è anche altro…

DM Quello che intendevo dire è che paragonerei il territorio dell'arte ad un 'terzo

paesaggio'. Potenzialmente, esso è un territorio libero, sfuggente, e ai margini, in cui

crescere incontrollati.. Avrebbe questa incredibile possibilità rispetto a tutti gli

altri territori, la possibilità di una grande libertà individuale, di una autonomia, di

una diversità infinita. Questa è una mia personale rilettura del testo di Clément, anzi

dei testi di Clément ( non solo Il manifesto del terzo paesaggio, ma anche, per esempio,

Il giardino planetario e Il giardino in movimento, e tanti altri. di cui alcuni

pubblicati solo in francese) divenuti ormai conosciutissimi in questi anni: quando li

incontrai, qualche anno fa, furono per me rivelatori, nel senso che ritrovai alcuni fili

dei miei pensieri, incontrai ciò' che andavo cercando. Ma a parte la possibilità di una

lettura metaforica, certo questi testi parlano dei luoghi reali e dei paesaggi che

abitiamo: luoghi che da indefiniti diventano possibilità ulteriori, mondi interstiziali

che sfuggono al controllo umano e brulicano di vita animale e vegetale. Anche i disegni

sono luoghi, aventi leggi proprie, seguono un proprio sviluppo autonomo. Non so se siano

delle semi-realtà, forse essi si aprono come delle spaccature nel reale, come delle

voragini ambigue. Di certo abitano un territorio, sono un territorio. Allora mi

piacerebbe citare una frase di Deleuze che è stata usata per un testo sul mio lavoro.

Gli animali con un territorio sono prodigiosi. Costruire un territorio è per me la

nascita dell'arte. In questo caso forse ha molto a che fare con l'idea di tana, di

rifugio, di luogo che mi costruisco con le mani, come tento di fare qui.

EX-BRUN FARNESPAZIO© Galleria del Toro, 1 BOLOGNA 3386151961 www.farnespazio.it

FARNESPAZIO© è una associazione culturale non profit per la promozione dell'arte contemporanea da un progetto di Fabio Farnè