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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Ufficio per gli Incontri di Studio Incontro di studio sul tema: Gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali: indagini e giudizioRoma, 5 - 7 novembre 2012 Ergife Palace Hotel La tutela della salute e sicurezza sul lavoro tra direttive comunitarie e ordinamento giuridico italiano: cenni introduttivi Relatore Avv. Lorenzo FANTINI Dirigente del Ministero del Lavoro. Presidente del Comitato di Gestione del Casellario Centrale Infortuni

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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Ufficio per gli Incontri di Studio

Incontro di studio sul tema:

“Gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali: indagini e giudizio”

Roma, 5 - 7 novembre 2012 Ergife Palace Hotel

La tutela della salute e sicurezza sul lavoro tra direttive comunitarie e ordinamento giuridico italiano: cenni introduttivi

Relatore Avv. Lorenzo FANTINI Dirigente del Ministero del Lavoro. Presidente del Comitato di Gestione del Casellario Centrale Infortuni

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La tutela della salute e sicurezza sul lavoro tra direttive comunitarie e

ordinamento giuridico italiano: cenni introduttivi

Sommario: 1. Introduzione: la trasposizione in Italia delle direttive europee in

materia. 2. Le responsabilità del datore di lavoro in materia di salute e sicurezza;

rilevanza dell’organizzazione del lavoro e della delega in materia di salute e

sicurezza sul lavoro. 3. Responsabilità amministrativa delle imprese per reati

infortunistici e modelli di organizzazione e gestione con efficacia esimente (articolo

30, d.lgs. n. 81/2008).

1. Introduzione: la trasposizione in Italia delle direttive europee in materia.

L’Italia ha da sempre ritenuto fondamentale garantire la piena coerenza

della propria normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro con le direttive

comunitarie di riferimento, a partire dalla direttiva n. 89/391 CE. Ed, infatti, dapprima

il decreto legislativo n. 626 del 1994 e, quindi, i decreti legislativi 9 aprile 2008, n.

81, e 3 agosto 2009, n. 106, entrambi attuativi della medesima delega (contenuta

all’articolo 1, comma 2, della legge n. 123 del 2007), anche indicati (nel loro

complesso e di seguito) come “testo unico” di salute e sicurezza sul lavoro,

evidenziano che l’Italia dispone di una legislazione particolarmente completa ed

avanzata in materia di salute e sicurezza sul lavoro, perfettamente in linea con i

principi ispiratori della normativa comunitaria e, quindi, che considera la tutela della

salute e della sicurezza di ogni lavoratore un obiettivo imprescindibile e inderogabile,

che va perseguito da ogni datore di lavoro, pubblico e privato, indipendentemente

dalle dimensioni delle imprese.

Tale complesso normativo va apprezzato, come nel dettaglio più

avanti si esporrà, non solo nelle sue specifiche previsioni ma anche in relazione

alle regole di obbligatoria applicazione contenute nel codice penale e nel codice

civile vigenti in Italia. Da tale lettura combinata emerge, dunque, innanzitutto

l’esistenza di un obbligo primario e irrinunciabile del datore di lavoro di organizzare

la propria impresa in modo che tale obiettivo venga perseguito in modo costante e

sistematico, tenendo conto di una programmazione di attività di prevenzione idonea

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alla prevenzione dei rischi e delle malattie professionali, che parte dalla valutazione

dei rischi e porta l’impresa a individuare misure per eliminare i rischi o, quando

impossibile, ridurli al minimo e gestirli al meglio. In tale contesto, particolarmente

importanti appaiono i ripetuti richiami alla organizzazione del lavoro, intesa in Italia

come elemento indefettibile per una corretta attività di prevenzione, nei termini

appena indicati, la quale deve concretizzarsi in specifiche attività, più che nella

formalizzazione di tali attività in documenti che sono solo un elemento di prova della

programmazione e concreta realizzazione – le sole che contano per migliorare i livelli

di sicurezza sul lavoro – di tali attività di prevenzione. Tale impostazione promana

direttamente dalla direttiva n. 89/391 CE, che considera come fondamentale la

garanzia di una organizzazione aziendale che in concreto agisca a fini di prevenzione

e solo in via derivata che produca idonea documentazione che comprovi lo

svolgimento di tali attività di prevenzione.

2. Le responsabilità del datore di lavoro in materia di salute e sicurezza; rilevanza

dell’organizzazione del lavoro e della delega in materia di salute e sicurezza sul

lavoro

Invero, i principi della direttiva n. 89/391 CE sono pienamente operanti e

sono stati correttamente trasposti nell’ordinamento giuridico italiano in quanto, in

piena continuità con quanto fatto con il d.lgs. n. 626/1994, le disposizioni del “testo

unico” inseriscono regole di derivazione comunitaria (delle quali costituiscono

puntuale trasposizione) in un quadro normativo da oltre 60 anni vigente in Italia nel

quale spiccano, in particolare, gli articoli 40 e 41 del codice penale (anno 1933) e

2087 del codice civile (anno 1942), i quali – ancor prima degli articoli del “testo

unico” di salute e sicurezza sul lavoro – hanno determinato e determinano le scelte

della giurisprudenza in tema di responsabilità dei datori di lavoro per violazione della

normativa antinfortunistica.

In particolare, l'articolo 40 del codice penale esprime il concetto –

fondamentale anche per la salute e sicurezza sul lavoro – in forza del quale

“Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se

l`evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è

conseguenza della sua azione od omissione” esplicitando il c.d. “principio di

causalità”, il quale richiede, come imposto dall'articolo 27 della Costituzione (il

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quale, a sua volta espone il principio per cui “la responsabilità penale è personale”),

che di un fatto nessuno possa rispondere oggettivamente ma sempre per avere

concorso, in via causale, a determinarlo. Tale regola generale è completata dal

secondo capoverso dell'articolo 40 che specifica come: “Non impedire un evento, che

si ha l`obbligo giuridico di impedire, equivale e cagionarlo”; quest'ultimo principio è

di assoluta rilevanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro, dove tale tipo di

situazione si verifica molto spesso (es.: il datore di lavoro che non valuta i rischi o

che non vigila sul corretto rispetto delle norme antinfortunistiche da parte dei propri

lavoratori).

Il successivo articolo 41 del codice penale (“concorso di cause”) statuisce

che: “Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se

indipendenti dall`azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di

causalità fra l`azione od omissione e l`evento. Le cause sopravvenute escludono il

rapporto di causalità quando siano state da sole sufficienti a determinare l`evento

(...)”. Tale disposizione è anch'essa fondamentale in materia di salute e sicurezza sul

lavoro in quanto comporta che la responsabilità del soggetto obbligato non viene

meno se vi sono altri soggetti che hanno concorso, con la propria condotta

antigiuridica, al verificarsi dell'evento. Ciò implica, in particolare, che il datore di

lavoro è comunque responsabile delle violazioni delle disposizioni antinfortunistiche

in azienda rispondendone anche se esse sono violazioni da parte di altri soggetti,

salvo che tali violazioni siano state tali da determinare da sole l'evento.

Ancora più ampia è la influenza in materia dell'articolo 2087 c.c., secondo

il quale: “L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure

che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a

tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Tale

articolo è costantemente utilizzato dalla giurisprudenza in funzione integrativa dei

precetti del codice penale da un lato e del “testo unico” dall'altro, in modo da imporre

al datore di lavoro un generale “obbligo di sicurezza” che non si limita alle sole

previsioni positive in materia ma implica un vincolo finalistico – perché diretto a

tutelare la salute, bene di rilevanza costituzionale (art. 32), e la sicurezza (cfr. articolo

41 Cost. il quale, al secondo comma, specifica che la libertà di iniziativa economica

privata non può svolgersi in contrasto con la “sicurezza”, l'”utilità sociale” e la

“dignità umana”) dei lavoratori – al datore di lavoro, di portata molto ampia.

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Infatti, la giurisprudenza – sia civile che penale – applica in materia di

salute e sicurezza il noto principio della ‘‘massima sicurezza tecnologicamente

possibile’’, inteso come obiettivo al quale il datore di lavoro dovrebbe costantemente

mirare e che – per la natura “elastica” della norma di riferimento (art. 2087 c.c.),

considerata per questo “norma di chiusura” dell'ordinamento antinfortunistico –

impone al datore di lavoro di attuare tutte le misure che, pur non essendo state

espressamente previste e contemplate da leggi o atti normativi secondari1,

risultino comunque necessarie per garantire la sicurezza e la salute dei

lavoratori (così, tra le tante, Cass. Pen., sez. IV, 11 agosto 2010, n. 31679).

Emblematico, a questo riguardo, e` quanto costantemente enunciato da tale

consolidata giurisprudenza e per la quale ‘‘l’articolo 2087 c.c. (...) stimola

obbligatoriamente il datore di lavoro anche ad aprirsi a nuove acquisizioni

tecnologiche’’ imponendogli di ottemperare ‘‘non soltanto alle regole ‘‘scritte’’ ma

anche alle norme prevenzionali che una figura-modello di ‘‘buon imprenditore’’ e` in

grado di ricavare dall’esperienza, secondo diligenza, prudenza e di perizia’’ (così, ad

esempio, Cass. Pen., sez. IV, 14 ottobre 2008, n. 38819). Di conseguenza, la

Cassazione ribadisce sempre che il datore di lavoro, in quanto garante ultimo della

incolumità psicofisica dei lavoratori, non deve limitarsi a predisporre le misure di

sicurezza ritenute necessarie, né limitarsi a informare i lavoratori sulle stesse, ma

deve attivarsi e controllarne con prudente e continua diligenza la puntuale osservanza

(cfr., tra le tante, Cass. Pen., sez. IV, 12 febbraio 2009, n. 6195; Cass. Pen., sez. IV, 8

ottobre 2008, n. 39888), come ribadito finanche dalle sezioni unite della medesima

Corte di Cassazione già nella sentenza 24 aprile 1989, 6168.; e ciò anche in relazione

alle attività che si svolgano eventualmente fuori dal territorio italiano (Trib. Milano,

14 aprile 2011).

Inoltre, è egualmente pacifico che – in applicazione dei principi sopra

riportati di cui agli articoli 40 e 41 c.p. – la responsabilità del datore di lavoro

sussiste, perché esiste il nesso di causalità tra evento e comportamento richiesto dal

codice penale, non solo in caso di eventi che costituiscono una conseguenza

necessitata della condotta datoriale ma anche nei confronti degli eventi che,

1 In tal modo, il rispetto dell’”obbligo di sicurezza” imposto dalla giurisprudenza va valutato non solo relativamente ai precetti specifici di leggi e regolamenti ma anche tenendo conto della adozione di procedure operative o alla realizzazione di scelte organizzative da parte del datore di lavoro. Tra di esse, ad esempio, vanno annoverate le “norme tecniche”, le “linee guida” e le “buone prassi”, definite all’articolo 2 del d.lgs. n. 81/2008, e s.m.i., attraverso un richiamo che si configura come rafforzativo della giurisprudenza costante, peraltro, si ripete, formulata in applicazione delle leggi vigenti

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secondo un giudizio prognostico ex ante, sarebbero stati prevedibili e ai quali la

condotta risulti collegata alla stregua di un concetto di causalità adeguata (Cass.

Lav., 24 giugno 2009, n. 14842). In tal modo viene ancora una volta puntualizzato

che il concorso di cause preesistenti o sopravvenute, ancorche´ indipendenti

dalla condotta del colpevole, non esclude il rapporto di causalita` tra l’azione od

omissione e l’evento, anche quando la causa preesistente o sopravvenuta sia

costituita da un fatto illecito altrui.

Il nesso causale tra condotta ed evento – chiarisce costantemente la

Cassazione (Cass. pen., sez. IV, 18 aprile 2010, n. 15081; Cass. Pen., sez. IV, 10

dicembre 2009, n. 6215) – può essere interrotto solo nel caso in cui le cause

concorrenti (quindi anche il concorso di colpa del danneggiato, in generale

irrilevante) siano ‘‘da sole sufficienti a determinare l’evento’’, identificandosi con

tale espressione quelle circostanze che configurino un fatto autonomo del tutto

eccezionale, straordinario e rarissimo (e non meramente anomalo o inconsueto),

che da` luogo ad un decorso causale atipico, privo di prevedibilita` e di controllo

da parte dell’agente. Dunque, l'”area” dell'esonero del datore di lavoro è di fatto

molto limitata a casi quali:

− le ipotesi di “rischio elettivo”, che ricorrono ove l'evento lesivo risulti collegabile a

una particolare situazione che il lavoratore stesso abbia creato per scelta volontaria,

puramente arbitraria, estranea allo svolgimento dell'attività lavorativa (cfr., tra le

tante, Cass. lav., 11 maggio 2002, n. 6796; Cass. lav., 30 maggio 2001, n. 7367);

− il caso fortuito (cfr., tra le tante, Cass. lav., 2 febbraio 2009, n. 870);

− la specificità della lavorazione, la quale presenti elementi di pericolosità intrinseca

ed ineliminabile da parte del datore di lavoro (Cass. lav., 30 agosto 2000, n. 11427).

Resta comunque inteso, sempre per la consolidata interpretazione della

giurisprudenza, che sul datore di lavoro incombe un intenso dovere di vigilanza sul

comportamento dei propri lavoratori, che deve esprimersi in modo molto stringente,

se vuole assumere efficacia liberatoria della responsabilità del medesimo datore di

lavoro. Ciò in quanto, in applicazione dei richiamati principi penalistici e civilistici

(con particolare riguardo all'art. 2087 c.c.), sul datore di lavoro incombe,

nell'attuazione del generale programma prevenzionistico in azienda, un dovere di

verifica, di controllo, puntuale e costante, dell'osservanza delle misure

antinfortunistiche da parte dei propri collaboratori, escludendo la responsabilità

dello stesso soltanto nelle ipotesi in cui il comportamento di questi ultimi, in

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quanto eccezionale e imprevedibile, sia risultato la causa esclusiva dell'evento

(solo tra le ultime, cfr. Cass. pen., sez. IV, 22 aprile 2011, n. 16089, che si allega al n.

4; Cass. pen., sez. IV, 16 marzo 2011, n. 10645; Cass. pen., sez. IV, 26 gennaio 2011,

n. 2606).

Questo punto merita un approfondimento. Come già ricordato, il datore di

lavoro è tenuto a organizzare la propria impresa in modo che in essa non vi siano (o

siano ridotti al minimo possibile) pericoli per la salute e sicurezza dei propri

lavoratori, garantendo una efficace e credibile partecipazione dei lavoratori alla

“gestione” delle attività di prevenzione in azienda, sulla base del postulato

inconfutabile che la sicurezza è un bene indivisibile, e dipende dai comportamenti

individuali. Da questo dipende la efficacia in azienda della attività di prevenzione

degli infortuni e delle malattie professionali.

Tale partecipazione si esprime, come tra poco meglio si evidenzierà

esplicando il significato di specifiche previsioni di legge, in modo differente a

seconda della posizione in azienda, secondo l’elementare principio per il quale la

responsabilità è tanto maggiore quanto maggiori sono i poteri di modificare

l’organizzazione del lavoro a fini di sicurezza. Dunque, la responsabilità primaria

per la salute e sicurezza nelle imprese è del datore di lavoro, ma ognuno in

azienda deve collaborare alla gestione delle attività di prevenzione – unica

maniera davvero efficace – rispondendo, in base ai suoi poteri in materia, del

proprio operato, con responsabilità che concorre con quella necessaria del

datore di lavoro.

In pratica, sul datore di lavoro grava anche e comunque – per la posizione

di supremazia che egli necessariamente ha in ogni organizzazione del lavoro – un

obbligo di vigilanza su tutti gli obblighi che gravano sui soggetti del sistema di

prevenzione aziendale, in ordine ai quali il datore di lavoro dovrà operare con

costanza ed efficacia in funzione di controllo del rispetto dei relativi adempimenti.

Così, ad esempio, in materia di informazione è stato sottolineato che:

- l’obbligo di informazione (articolo 36 del d.lgs. n. 81/2008) non può ritenersi

assolto con la sola consegna di un manuale di sicurezza contenente norme generali di

comportamento (Cass. pen. n. 41997 del 2006), ne´ di un libretto di istruzioni che

‘‘gli operai, per nulla educati e stimolati, hanno distrattamente sfogliato’’ (Cass.

pen., n. 6486 del 1995), o altrimenti attraverso semplici ‘‘istruzioni’’ sull’uso di

macchine e sulle cautele da adottarsi (Cass. pen., sez. IV, 21 aprile 2006, n. 14175);

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ancora con l’addestramento tecnico che ‘‘è senz’altro utile per completare il quadro

informativo preventivo [...], ma non puo` direttamente sostituirlo’’ (Cass. pen., 14

giugno 2006, n. 20272), o tramite un semplice avviso affisso in bacheca (Cass. pen.,

sez. IV, 11 marzo 2011, n. 9923). Sulla base di una ‘‘interpretazione dinamica’’

dell’intera disciplina, al di là dell’adempimento formale del disposto di legge, il

datore di lavoro deve ‘‘avere la ‘forma mentis’ del garante del bene

costituzionalmente rilevante costituito dall’integrita` del lavoratore ed ha percio` il

preciso dovere non di limitarsi ad assolvere normalmente il compito di informare i

lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste, ma deve attivarsi e controllare

sino alla pedanteria, che tali norme siano assimilate’’ (Cass. pen., sez. IV, 6

febbraio 2004, n. 4870). Dunque, ancora una volta si ribadisce l'importanza della

verifica e del controllo datoriale, stavolta perché l'informazione possa essere

considerata effettiva ed efficace (Cass. pen., sez. IV, 14 novembre 2007, n. 41830).

− l'adempimento dell'obbligo di formazione, essenziale per la acquisizione delle

conoscenze antinfortunistiche da parte dei lavoratori, non consiste solo in un rispetto

di ordine formale, ad esempio attraverso la pur richiesta attestazione di avvenuta

formazione (ex art. 4, d.m. 16 gennaio 1997), o ancora tramite apposizione della

firma sul registro presenze (Cass. pen., sez. IV, 27 ottobre 2005, n. 39358), quale

riscontro di partecipazione, ma implica un correlato dovere di verifica in merito

all’effettivo recepimento degli insegnamenti impartiti (Cass. pen., sez. IV, 14

novembre 2007, n. 41830; Cass. pen., sez. IV, 6 febbraio 2004, n. 4870).

Le ricostruzioni e gli esempi sin qui riportati evidenziano un orientamento

di particolare rigore rispetto alla portata dell'obbligo di vigilanza del datore di lavoro,

il quale trova una efficace sintesi in Cass. pen., sez. IV, 27 ottobre 2010, n. 38118, la

quale rimarca come la responsabilità di soggetti diversi dal datore di lavoro (quali i

dirigenti, i lavoratori, i medici competenti ect.) ricorre soltanto “a condizione che non

sia riscontrabile un difetto di vigilanza da parte del datore di lavoro e dei dirigenti’’.

Come a dire: non basta che il fatto sia ascrivibile interamente ad uno dei soggetti sui

quali gravano gli obblighi di cui agli artt. 19, 20, 22, 23, 24 e 25 del “testo unico”, ma

occorre che risulti (in positivo) effettivamente adempiuto, da parte del datore di

lavoro (e, eventualmente, del dirigente), il connesso dovere di vigilanza sul corretto

espletamento dei previsti obblighi. Ancora di recente la Cassazione ha ribadito il

principio secondo il quale, in materia di sicurezza sul lavoro, il datore di lavoro e gli

altri titolari della posizione di garanzia (dirigenti e preposti) sono tenuti non solo a

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curare l’istruzione dei lavoratori sui rischi connessi alle attivita` lavorative svolte e ad

adottare tutte le opportune misure di sicurezza, ma debbono anche predisporre

effettivamente tali misure ed esercitare il controllo, continuo ed effettivo, circa la

concreta osservanza delle misure predisposte per evitare che esse vengano trascurate

o disapplicate, nonche´ il controllo sul corretto utilizzo, in termini di sicurezza, degli

strumenti di lavoro e sul processo stesso di lavorazione, e, dunque, versano in colpa,

qualora tollerino l’esistenza di una prassi di lavoro insicura in violazione anche delle

più elementari regole di prudenza (Cass. pen., sez. IV, 27 ottobre 2010, n. 38118).

L’insieme dei principi legali e della interpretazione giurisprudenziale

consolidata che sin qui si è cercato, per quanto sinteticamente, di descrivere rendono

necessario che il datore di lavoro proceda a una efficace pianificazione della

organizzazione del lavoro la quale, tenendo innanzitutto conto delle risultanze della

valutazione dei rischi, sia efficace ai fini della prevenzione degli infortuni e delle

malattie professionali prevedendo una articolazione di compiti e funzioni che tale

obiettivo prevenzionistico persegua effettivamente. Spetterà, quindi, al datore di

lavoro – responsabile per la salute e sicurezza in base a quanto sin qui riportato –

scegliere i propri referenti in azienda, formarli, addestrarli e vigilare su di essi, in

modo che possa dirsi ottemperato all’obbligo di tutela su di lui gravante in base ai

principi giuridici italiani, derivazione di quelli comunitari.

Il decreto legislativo n. 81/2008 si muove in piena coerenza con tali

principi fondamentali e, allo stesso tempo, con la filosofia delle stesse direttive

comunitarie (a partire proprio dalla n. 89/391 CE), la quale delinea – come più volte

rimarcato dalla stessa dottrina italiana2, – un rinnovato modello prevenzionistico, nel

quale la salute e sicurezza è obiettivo perseguito non solo per mezzo della attività del

datore di lavoro ma attraverso l’azione combinata di tutti i soggetti della prevenzione

aziendale (dirigenti, preposti, lavoratori, medico competente ect.). Dunque, la

responsabilità del datore di lavoro andrà valutata tenendo conto delle scelte operate in

ordine alla individuazione dei soggetti che abbiano un ruolo specifico in materia di

salute e sicurezza sul lavoro e della vigilanza su tali soggetti.

Tale visione della salute e sicurezza, che presuppone – come imposto

dalle direttive dell’Unione europea – l’adattamento della organizzazione del lavoro al

mutare delle condizioni di rischio è stata propria della legislazione italiana di

recepimento delle prime 13 direttive comunitarie (a partire dalla n. 89/391 CE) di cui

2 Per la cui rassegna sul punto si veda, per tutti, Lepore, Manuale di sicurezza sul lavoro, Roma, 2010.

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al d.lgs. n. 626/1994 ed è stata ulteriormente consolidata dai decreti legislativo 9

aprile 2008, n. 81, e 3 agosto 2009, n. 106. In particolare, l’articolo 299 del citato

“testo unico” di salute e sicurezza sul lavoro formalizza in legge un principio già

pacifico nella interpretazione giurisprudenziale (definito sinteticamente come

“principio di effettività” della normativa antinfortunistica) ed in forza del quale le

posizioni di responsabilità in materia di salute e sicurezza sul lavoro (che

l’articolo 299 definisce come “posizioni di garanzia”) non discendono dalla

attribuzione formale ma dalla circostanza che il soggetto eserciti di fatto i poteri

riferiti ai ruoli identificati dalla legge3. Ciò significa, a livello di responsabilità del

datore di lavoro, che tale responsabilità verrà valutata dal Giudice, in caso di

intervento giudiziale, non certo tenendo conto delle sole risultanze formali (es.:

individuazione del datore di lavoro dal Consiglio di Amministrazione) ma, invece,

considerando chi svolga i compiti ed eserciti i poteri che sono propri del datore di

lavoro.

La normativa vigente, del tutto conseguenzialmente, identifica diversi

ruoli che vanno attribuiti ai diversi soggetti della prevenzione in azienda, ai quali

corrispondono precisi obblighi, quali, in particolare:

- il dirigente, definito dall’articolo 2, comma 1, lettera d), del d.lgs. n.

81/2008, come: “persona che, in ragione delle competenze professionali e di

poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura degli incarichi conferitogli,

attua le direttive del datore di lavoro organizzando l’attività lavorativa e

vigilando su di essa”, i cui obblighi vengono individuati all’articolo 18, figura

eventuale (vale a dire presente ove il datore di lavoro ritenga opportuno, tenendo

conto della complessità dell’organizzazione aziendale, di individuare personale

con poteri corrispondenti a quelli definiti dalla legge come propri del dirigente), i

cui obblighi sono individuati all’articolo 18 del “testo unico”;

- il preposto, definito dall’articolo 2, comma 1, lettera e), del d.lgs. n.

81/2008, come: “persona che, in ragione delle competenze professionali e nei

limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico

conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l’attuazione delle

direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori

3 Il testo dell’articolo 299 del d.lgs. n. 81/2008 prevede testualmente che: “Le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all’art. 2, comma 1, lettere b), d) ed e) gravano altresì su colui il quale, sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi indicati”.

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ed esercitando un funzionale potere di iniziativa”, i cui obblighi sono previsti

all’articolo 19 del “testo unico” di salute e sicurezza sul lavoro;

- il lavoratore, definito dall’articolo 2, comma 1, lettera a), del d.lgs. n.

81/2008, come: “persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale,

svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di

lavoro pubblico e privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di

apprendere un mestiere, un’arte o una professione (…)”, i cui obblighi sono

individuati all’articolo 20 del “testo unico”.

In questa maniera, chiunque faccia parte della comunità di lavoro deve

avere un ruolo a fini di prevenzione e la ripartizione e funzionalità di tale “sistema

aziendale” finalizzato alla prevenzione degli infortuni e delle malattie

professionali è soggetta a valutazione da parte dell’interprete, sia in relazione alla

congruità della scelta (es., per capire se i ruoli sono stati affidati a persona esperta

e adeguatamente formata per svolgere i compiti di dirigente e/o preposto) che

rispetto alla verifica della efficacia – in termini prevenzionistici – delle scelte

operate (es.: per capire se, ad esempio, l’affidamento di compiti decisionali in

materia di salute e sicurezza si accompagni a una congrua dotazione finanziaria

per il soggetto designato, idonea allo scopo). In sostanza, questo controllo è

espressione pratica dei principi sin qui riportati, a loro volta espressione dei

principi costituzionali di cui agli articoli 32 (che riconosce il diritto alla salute dei

cittadini) e 41, citato. Ne deriva che le scelte organizzative del datore di lavoro

sono soggette a verifica – nei termini sin qui riportati – successiva, in modo che

l’interprete possa verificare che esse siano conformi ai principi costituzionali, di

codice civile e di codice penali sin qui riportati.

Ora, quanto alle modalità concrete con le quali tale controllo si realizza, va

rimarcato che il sistema giuridico italiano è sotto tale profilo particolarmente

rigoroso, in quanto incardina la responsabilità del datore di lavoro

addirittura su diversi livelli (civili, penali e amministrativi). E’ in questo

quadro che va colta l’ampiezza e il contenuto della responsabilità del datore di

lavoro. Infatti, dall’analisi del sistema vigente in Italia si ricava:

1) una responsabilità civile del datore di lavoro, persona fisica o giuridica, a

seconda che l’impresa agisca in forma individuale o collettiva (art. 2087 c.c.);

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2) una responsabilità individuale penale (o amministrativa a seconda dei casi)

del datore di lavoro-persona fisica in caso di violazione addebitabile al datore

di lavoro, inteso (articolo 2 del d.lgs. n. 81/2008, “definizioni”) come “il

soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il

soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il

lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione

stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di

spesa” (cfr. le fattispecie incriminatrici o costituenti illecito amministrativo, in

materia di tutela della salute e sicurezza del lavoro, contenute nel d.lgs. n.

81/2008, quali, ad esempio, quelle indicate all’articolo 55 del “testo unico”),

che prescinde dal fatto che vi sia stato un infortunio sul lavoro e opera sul

semplice presupposto che sia stata violata una norma di tipo prevenzionale

(es.: non è stato valutato uno specifico rischio da lavoro);

3) una responsabilità individuale penale del datore di lavoro-persona fisica

nel caso in cui dalla violazione addebitabile al datore di lavoro sia disceso un

infortunio o una malattia professionale, ai sensi degli articoli 437, 589 e 590

del codice penale (rispettivamente, omissione rimozione omissione dolosa di

cautele infortunistiche, omicidio colposo e lesioni per violazione della

normativa antinfortunistica), i quali prevedono sanzioni penali per le relative

violazioni;

4) una responsabilità “amministrativa” del datore di lavoro inteso come “ente

collettivo” o “persona giuridica” (art. 25-septies del d.lgs. n. 231/2001,

rispetto ai reati di omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime,

commessi con violazione delle norme in materia di tutela della salute e

sicurezza dei lavoratori; con possibilità di applicare sanzioni interdittive nei

confronti dell’azienda che possono giungere anche fino alla chiusura

dell’impresa. Tale responsabilità è specificamente richiamata dal “testo

unico” di salute e sicurezza all’articolo 3004.

4 Che si riporta di seguito: Art. 300, d.lgs. n. 81/2008, e successive modifiche e integrazioni: “L'articolo 25-septies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, è sostituito dal seguente: “Omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro” 1. In relazione al delitto di cui all'articolo 589 del codice penale, commesso con violazione dell'articolo 55, comma 2, del decreto legislativo attuativo della delega di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura pari a 1.000 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all'articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno.

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Ciò appare, dunque, pienamente in linea con la direttiva n. 89/391 la quale

prevede la responsabilità primaria del datore di lavoro nel garantire la salute e

sicurezza dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi con il lavoro, ma non impone

una precisa natura giuridica di tale responsabilità, lasciando quindi liberi i Stati

membri di configurarla come civile o penale (v. sul punto anche sentenza della

Corte giustizia CE, sez. III, 14 giugno 2007, Commissione delle Comunità

europee contro Regno Unito di Gran-Bretagna e Irlanda del Nord, causa C-

127/05). Dunque, l’Italia, addirittura, non solo prevede 4 tipi di possibile

responsabilità del datore di lavoro ma configura come possibile la

compresenza di responsabilità penale, amministrativa, civile e da

responsabilità per l’operato dell’impresa in capo al datore di lavoro, in tale

modo evidenziando una piena coerenza con il principio di responsabilità

imposto dalle direttive europee in materia.

Al riguardo, nel rinviare alla approfondita trattazione del tema da parte di

altri relatori, va comunque qui rimarcato come l’istituto della delega di funzioni

assume rilievo solo nell’ambito della responsabilità penale individuale, dove

costituisce una causa di esclusione, assai rigorosamente delimitata come si

dimostrerà tra poco, della responsabilità in concreto (non certo e mai in via

generale ed astratta: quindi, senza alcuna deresponsabilizzazione) del datore di

lavoro. Non assume rilievo, invece, sul piano della responsabilità civile o

amministrativa del datore di lavoro: ne discende che il datore di lavoro non

potrà addurre, per andare esente da responsabilità - civile o amministrativa - di

aver delegato le sue funzioni in materia prevenzionistica ad un soggetto terzo.

Dunque, anche a voler ammettere che il diritto italiano renda possibile che per

mezzo della delega di funzioni in materia infortunistica si realizzi una

deresponsabilizzazione del datore di lavoro, essa NON varrebbe comunque a

escludere le responsabilità civili e amministrative del medesimo.

2. Salvo quanto previsto dal comma 1, in relazione al delitto di cui all'articolo 589 del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a 250 quote e non superiore a 500 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all'articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno. 3. In relazione al delitto di cui all'articolo 590, terzo comma, del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non superiore a 250 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all'articolo 9, comma 2, per una durata non superiore a sei mesi.

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Nel campo specifico del diritto penale italiano, l’istituto della delega

risponde, tradizionalmente, ad una duplice finalità:

1) assicurare un miglior adempimento dei doveri datoriali in tutti i casi in cui

il soggetto di vertice non abbia il tempo o le cognizioni necessarie per

adempiere; in questo modo, delegando poteri e doveri ad altri soggetti meglio

in grado di adempiere ai precetti penali (i quali divengono così titolari di una

nuova posizione di garanzia “derivata”), non si ottiene un artificioso discarico

delle responsabilità ma una migliore tutela dei beni giuridici; sarà compito del

giudice verificare rigorosamente la sussistenza dei presupposti di legittimità

della delega e se questa rappresenti effettivamente un corretto modo di

adempiere ai doveri datoriali;

2) garantire il rispetto di un principio fondamentale del diritto penale

individuale, riconosciuto da Stati membri, e quindi corrispondente alle

tradizioni costituzionali comuni, quale il principio del carattere personale

della responsabilità penale e, al suo interno, di colpevolezza (art. 27, comma

1, Costituzione), in base al quale non si può imporre a nessun individuo una

responsabilità penale in assenza di potenziale addebito individuale per il fatto

commesso. Nel campo della salute e sicurezza, anche la Corte giustizia CE

sez. III, 14 giugno 2007, Commissione delle Comunità europee contro Regno

Unito di Gran-Bretagna e Irlanda del Nord, causa C-127/05, ha chiaramente

sancito, sia pure non trattando specificamente il tema della delega di funzioni,

che la responsabilità del datore di lavoro ai sensi della direttiva n. 89/391

CEE non è una responsabilità oggettiva.

Dunque, il datore di lavoro delegante non viene in alcun modo

deresponsabilizzato mediante il ricorso alla delega (anche alla luce della

rigorosissima giurisprudenza nazionale italiana, che si può leggere più avanti),

ed, infatti, resta responsabile anche in caso di delega:

a) della programmazione generale della sicurezza (obbligo di valutazione e

documentazione dei rischi, con indicazione delle misure necessari a prevenirli:

articolo 17 del “testo unico”):

b) della vigilanza sull’attuazione dei compiti delegati da parte del delegato.

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Il delegante può, quindi, concorrere nella violazione del delegato (reato

contravvenzionale di pura condotta o reato di evento come omicidio o lesioni), sia

per omessa o scorretta programmazione della sicurezza, sia per omessa o

insufficiente vigilanza sul delegato, sia per concorso nel reato di altri (il delegato),

come previsto, oltre che dai citati articoli 40 e 41 del c.p., dall’articolo 110 del

codice penale, che prevede e regolamenta il “concorso di persone nel reato”.

A tutto quanto sin qui esposto si aggiunga che ammettendo in termini del

tutto generali l’utilizzo della delega il decreto legislativo n. 81/2008, all’articolo 16,

pone però puntuali limiti e condizioni di ammissibilità, richiedendosi: a) che essa

risulti da atto scritto recante data certa, con espressa accettazione; b) che il

delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla

specifica natura delle funzioni delegate; c) che essa attribuisca al delegato tutti i

poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura

delle funzioni delegate; d) che essa attribuisca al delegato l’autonomia di spesa

necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate5 e, infine, che alla delega sia

data adeguata e tempestiva pubblicità.

Appare evidente come innanzitutto sia stato codificato l’obbligo della forma

scritta con data certa risolvendo così la prima annosa questione relativa

all’inammissibilità della “delega implicita”; questione in vero già affrontata in

termini univoci dalla giurisprudenza di legittimità della Corte di Cassazione e, difatti,

anche con recente sentenza - Cassazione Penale, Sez. IV, 1° giugno 2010, n. 20592 -,

viene ribadito il principio secondo cui perché una delega di funzioni abbia efficacia,

è necessario che il suo rilascio sia provato in modo rigoroso. In altri termini,

prosegue la pronuncia gli obblighi di cui è titolare il datore di lavoro possono essere

trasferiti ad altri sulla base di una delega che deve però essere espressa, inequivoca e

certa, non potendo la stessa essere invece implicitamente presunta dalla ripartizione

interna all'azienda dei compiti assegnati ai dipendenti o dalle dimensioni dell'impresa

(ex plurimis, cfr. Cassazione Penale Sez. 4, n. 8604/08). In termini analoghi anche -

Cass. Pen Sez. IV, 25 febbraio 2010, n. 7691 – nella quale i Giudici osservano come

la delega di funzioni, spettanti e facenti carico al datore di lavoro, nei riguardi di terzi

non possa ritenersi implicitamente presunta dalla ripartizione interna

5 In merito alla necessità del conferimento al delegato di effettivi poteri di spesa si veda Cass. Pen., sez. IV, 24 settembre 2007 n. 4713, ove la Corte Suprema ribadisce il principio secondo cui in tema di delega di funzioni va verificato in concreto che il delegato abbia effettivi poteri decisionali e di spesa per la sicurezza indipendentemente dal contenuto della delibera con cui è stato nominato.

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all’azienda dei compiti assegnati ai dipendenti o dalle dimensioni dell’impresa

(v. Cass., 6 febbraio 2007, n. 12794; Cass., 29 gennaio 2008, n. 8604; Cass., 10

dicembre 2008, n. 4123)6.

In ordine agli altri requisiti di cui all'articolo 16, lettere da b) a d), appare

evidente che tali lettere impongono al datore di lavoro che intenda avvalersi dello

strumento organizzativo della delega obblighi precisi e univoci relativamente a

condizioni non certo formali ma sostanziali (quali, ad esempio, la competenza del

delegato o l'attribuzione al medesimo di un potere di spesa idoneo allo svolgimento

delle attività che si intendono delegare) il cui rispetto va verificato dal Magistrato

in sede di verifica della efficacia della delega stessa; verifica di particolare

importanza ai fini della responsabilità del datore di lavoro, la quale verrà esclusa

unicamente ove si verifichi che la delega è stata rilasciata in presenza di tutti,

senza eccezione alcuna, dei criteri di cui all'articolo 16 del “testo unico” di

salute e sicurezza sul lavoro.

A ciò si aggiunga, alla luce di quanto sopra esposto relativamente alla

portata dell'obbligo di vigilanza del datore di lavoro, la immanenza del principio –

precedentemente solo di matrice giurisprudenziale e ora espressamente contemplato

dalla Legge – per cui (articolo 16, comma 3, d.lgs. n. 81/2008) la delega di funzioni

non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto

espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite. Si tratta di una scelta

normativa improntata alla prudenza del legislatore in una materia nella quale sono

coinvolti interessi, quale quello alla salute, costituzionalmente posti e primariamente

tutelati. In altri termini, il legislatore ha ritenuto sì ammissibile, codificandolo, il

trasferimento ad altri soggetti degli obblighi, e relative responsabilità, cui il datore di

lavoro in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro stesso è tenuto ai sensi del

d. lgs. n. 81/2008, ma non ha attribuito alla delega un’efficacia pienamente

liberatoria, tale da mandare comunque esente il delegante da qualsiasi

responsabilità.

Infatti, come ribadito anche dalla giurisprudenza di legittimità – Cass. pen.,

Sez. IV, 15 settembre 2010, n. 33661 – anche in presenza di una delega formalmente

e correttamente conferita con atto notarile permane, in ogni caso, l'obbligo del datore

di lavoro di vigilare e di controllare che il delegato usi correttamente la delega,

6 La pronuncia richiama poi la necessità che sia rigorosamente provata l'esistenza di una delega espressamente e formalmente conferita, con pienezza di poteri ed autonomia decisionale, ulteriori pronunce: Cass., sez. IV, 23 marzo 1998, Ruggiero e Cass. pen., sez. II, 20 settembre 1994, Cairo.

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verificando, ad esempio, l’andamento infortunistico, gli esiti delle riunioni

periodiche e di eventuali accertamenti ispettivi7. Si noti al riguardo che la

giurisprudenza precedente, investita della questione, ha posto in particolare l’accento

su un obbligo di vigilanza che nasce dagli stessi limiti di applicazione oggettiva della

delega come posti dall’articolo 17 (Obblighi del datore di lavoro non delegabili) del

decreto legislativo. Una sentenza - Cass. pen., sez. IV, 10 dicembre 2008, n. 4123

– ha, in particolare, evidenziato come, pur a fronte di una delega corretta ed

efficace, non possa andare esente da responsabilità il datore di lavoro qualora le

carenze nella disciplina antinfortunistica e, più in generale, nella materia della

sicurezza, siano riferibili a scelte di carattere generale della politica aziendale

ovvero a carenze strutturali, rispetto alle quali nessuna capacità di intervento

possa realisticamente attribuirsi al delegato alla sicurezza8. La Corte ritenendo,

quindi, fermo l'obbligo per il datore di lavoro di intervenire allorché apprezzi che il

rischio connesso allo svolgimento dell'attività lavorativa si riconnette alle predette

scelte di carattere generale ovvero a carenze strutturali, sottolinea come l’obbligo

medesimo consegua a principi che hanno trovato conferma nel d.lgs. n. 81/2008,

laddove il provvedimento prevede gli obblighi del datore di lavoro non delegabili,

per l'importanza e, all'evidenza, per l'intima correlazione con le scelte aziendali di

fondo che sono e rimangono attribuite al potere/dovere del datore di lavoro. Ne

consegue, dalla lettura della sentenza, l’importanza di un’attenta analisi delle

deleghe, pur correttamente conferite, nel senso della necessità di una puntuale

verifica dell’oggetto delle deleghe stesse che, in concreto, non devono investire il

delegato di compiti e attribuzioni propri del datore di lavoro.

Le motivazioni che hanno indotto la giurisprudenza e la dottrina in passato a

ritenere ininfluente per la validità del trasferimento di funzioni il dato dimensionale

delle imprese ed in particolare il richiamo agli innumerevoli adempimenti tecnici ed

amministrativi connessi alla direzione delle imprese moderne, tali da giustificare la

necessità di decentrare compiti e responsabilità, possono riferirsi anche alla decisione

del legislatore di dare ingresso nell’ordinamento della materia della sicurezza alla

subdelega. L’opportunità della scelta legislativa appare evidente considerata la

complessità delle organizzazioni e degli adempimenti rimessi al datore di lavoro che

richiedono istituti che consentano, ai fini della realizzazione di un sistema in grado di

garantire effettiva sicurezza, una articolazione delle funzioni il più possibile rimessa

7 In senso conforme Cassazione n. 38425/06 e n. 12794/07. 8 Negli stessi termini Cass. pen., sez. IV, 6 febbraio 2007.

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a soggetti competenti ed in grado di assolvere in concreto i compiti loro affidati. In

questo contesto la subdelega assolve un ruolo importante al pari della delega.

La disciplina di cui all’articolo 16, comma 3-bis, del “testo unico”, come

introdotto dalla novella del decreto legislativo n. 106/09, prevede che il soggetto

delegato possa, previa intesa con il datore di lavoro, delegare specifiche funzioni in

materia di salute e sicurezza sul lavoro alle medesime condizioni di cui ai commi 1 e

2. Si prevede poi che la subdelega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza

in capo al delegante in ordine al corretto espletamento delle funzioni trasferite e

che, infine, il soggetto al quale sia stata conferita la delega di cui al presente

comma non possa, a sua volta, delegare le funzioni delegate. In tal modo la

subdelega non “indebolisce” il principio della responsabilità del datore di lavoro

e, comunque, non può operare se non una sola volta all’interno di una

organizzazione aziendale.

Al riguardo, va rimarcato come la delega di funzioni non esclude l’obbligo

di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del

delegato delle funzioni trasferite (c.d. culpa in vigilando) ma consente al medesimo

di esercitare effettivamente, per il tramite del delegato, che deve essere in possesso di

nozioni tecnico-giuridiche specialistiche, i suoi obblighi in materia di salute e

sicurezza nei luoghi di lavoro. In sostanza, per le ragioni nel precedente paragrafo

meglio specificate, l’esercizio della delega non limita le responsabilità del datore

di lavoro che decida di avvalersi di tale strumento di corretta gestione della

salute e sicurezza in azienda.

In particolare, la delega di funzioni, che si configura quale modalità

organizzativa, opera in senso verticale consentendo al datore di lavoro di creare, a titolo

derivativo, un nuovo garante della salute e sicurezza dei lavoratori di modo che i diversi

adempimenti in materia vengano ad essere ottemperati in modo conforme alla legge ed

adeguati dal punto di vista tecnico. Per mezzo della delega è, infatti, possibile precisare

o modificare la ripartizione di compiti di prevenzione stabilita dalla legge, realizzando

in tal modo una più razionale organizzazione della prevenzione a vantaggio sia dei

soggetti tenuti alla tutela sia dei soggetti destinatari della medesima. Ciò più che una

facoltà può essere considerato un comportamento doveroso da parte del datore di

lavoro, rispondendo ad insopprimibili esigenze di divisione dell’attività lavorativa.

Al riguardo, può essere utile rimarcare che fino all’emanazione del decreto

legislativo n. 626 del 1994, l’istituto della delega di funzioni era privo, in relazione alla

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materia antinfortunistica, di ogni riferimento normativo anche se ampiamente

riconosciuto sul piano applicativo da consolidata giurisprudenza e che con il d.lgs. n.

626 del 1994 (articolo 1, comma 4-ter), si riconobbe normativamente la possibilità del

datore di lavoro di delegare funzioni (ad eccezione della valutazione dei rischi e della

nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione).

3. Responsabilità amministrativa delle imprese per reati infortunistici e modelli di

organizzazione e gestione con efficacia esimente (articolo 30, d.lgs. n. 81/2008)

A seguito della modifica operata dall’articolo 9 della legge 3 agosto 2007, n. 123,

i reati di omicidio e lesioni colpose gravi o gravissime conseguenti alla violazione della

normativa antinfortunistica, rispettivamente previsti dagli artt. 589 e 590 c.p., possono

oggi costituire presupposto della responsabilità dell’ente ai sensi del d.lgs. n. 231/2001.

Di conseguenza, l’articolo 300 del “testo unico” – in virtù di una delega espressa

prevista dall’art. 1 della legge 123/2007 – ha oggi modificato l’apparato sanzionatorio

relativo alla fattispecie di cui all’art. 25-septies del d.lgs. n. 231/2001.

Tale importante innovazione è stata accompagnata dall’inserimento nel d.lgs.

n. 81/2008 di una disposizione – l’articolo 30 (collocato nella Sezione II, Valutazione

dei rischi, del Titolo I) – dedicata ai “Modelli di organizzazione e di gestione”. La

statuizione ha la finalità di indicare una serie di regole, verrebbe da dire

strutturali, che il modello organizzativo aziendale deve possedere per poter avere

efficacia esimente della responsabilità amministrativa degli enti ex d.lgs. n.

231/2001. Efficacia esimente, beninteso, in relazione alla commissione di uno dei reati

di cui all’articolo 25-septies, citato. In tal modo, per la prima volta ove si verta in

materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, si tenta di fornire

all’interprete un catalogo di regole e criteri sui quali basare, identificare e dimostrare la

“colpa organizzativa” imputabile all’ente o, al contrario, l’assenza della medesima

colpa.

Per quanto non siano mancate, in dottrina, perplessità al riguardo9, è

ragionevole ritenere che l’articolo 30 abbia introdotto una disciplina di diritto speciale

nel sistema della responsabilità degli enti con riferimento all’area delineata dall’art. 27-

9 ) Cfr. Ielo, Lesioni gravi, omicidi colposi aggravati dalla violazione della normativa antinfortunistica e responsabilità degli enti, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2008, sulla Rivista “La responsabilità amministrativa delle società e degli enti”, consultabile anche sul sito www.rivista231.it. In particolare, l’Autore evidenzia come non sia ben chiaro se l’articolo 30 “fissi un contenuto legale necessario dei modelli di organizzazione ai fini della loro efficacia esimente” o si limiti a completare le previsioni del d.lgs. n. 231/2001.

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septies. Di conseguenza, in sede giurisdizionale la valutazione dell’idoneità del

contenuto dei modelli organizzativi sarebbe, quindi, sostanzialmente bloccata da

valutazioni legali, sì che il giudice dovrebbe prendere atto della corrispondenza tra i

contenuti del modello e i contenuti legalmente predeterminati e sarebbe, quindi, rimessa

alla sua valutazione la sola verifica (la quale, peraltro, costituisce operazione di ampia

discrezionalità e completezza) dell’attuazione dei contenuti del modello organizzativo.

Al riguardo, va doverosamente rimarcato che l’efficacia esimente del

modello organizzativo – anche di quel modello i cui contenuti essenziali siano

predeterminati per legge – dipende principalmente dall’essere detto modello

adottato, ma soprattutto efficacemente attuato. Ciò significa che la valutazione di

idoneità sarà caratterizzata sempre e comunque da un tasso di discrezionalità, intesa

quale valutazione del caso concreto, in linea con i principi fondamentali di cui

all’articolo 133 del c.p..

L’estensione della responsabilità amministrativa degli enti ai reati di omicidio

colposo e lesioni colpose gravi o gravissime connesse alla violazione delle norme per la

prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative alla tutela dell’igiene e della salute sul

lavoro costituisce, a parere di chi scrive, l’elemento maggiormente dirompente rispetto

alla precedente regolamentazione nell’ambito del “testo unico” di salute e sicurezza sul

lavoro. Tale estensione corrisponde ad una evidente volontà di contrastare gli indici

infortunistici anche attraverso il coinvolgimento dell’ente il quale non abbia

organizzato la propria attività in maniera coerente con l’obiettivo – imposto dai principi

costituzionali (articolo 32 Cost.) e dall’articolo 2087 c.c. – di tutelare l’integrità fisica e

la personalità morale dei lavoratori e, per tale ragione, abbia in sostanza concorso

all’evento infortunistico ma, al contempo, ha posto e pone agli interpreti una serie di

problemi pratici e teorici di complessa soluzione, già oggetto di ampia trattazione in

dottrina10.

Senza alcuna pretesa di esaustività in ordine a tali problemi – per il cui

approfondimento sia consentito rinviare alla già segnalata produzione dottrinale –

volendo schematizzare sinteticamente le criticità in parola operando potrebbe sostenersi

che ci siano tre aree di riferimento.

10 ) Tra i tanti contributi ci si limita a segnalare, anche per i riferimenti bibliografici in tali scritti contenuti, Dovere, L’impatto della l. 3.8.2007, n. 123 sull’apparato sanzionatorio della tutela della salute e della sicurezza del lavoro, in Rusciano-Natullo (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro, Appendice di aggiornamento alla legge 3 agosto 2007, n. 123, in F. Carinci, Diritto del lavoro, VIII, Torino, 2008, 105; Zanalda, La responsabilità degli enti per gli Infortuni sul lavoro, prevista dalla Legge 3 agosto 2007, n. 123, in. Resp. amm. delle soc. e degli enti, 2007, n. 4, 100.

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La prima di esse, la quale costituisce una sorta di “pregiudiziale” rispetto alle

altre, è relativa alla applicabilità delle logiche e dei meccanismi del d.lgs. n. 231/2001 a

reati colposi e non dolosi, come ogni altro reato-presupposto di cui all’articolo 25,

come ampiamente integrato nel corso degli anni, del d.lgs. n. 231/2001. Tale questione

è tutt’altro che unicamente teorica ed, anzi, gravida di una serie di ricadute pratiche di

notevole portata, la più importante delle quali riguarda le condizioni alle quali l’ente

può liberarsi di responsabilità nel caso di condotta realizzata nel proprio interesse o a

suo vantaggio da persone con funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione

dell’ente. Infatti, in considerazione del dettato dell’articolo 6, punto 1, del d.lgs. n.

231/2001, il quale individua le condizioni per liberare l’ente e di cui alle lettere da a) a

d) in modo che debbano tutte sussistere, appare sostanzialmente impossibile che si

verifichi – in relazione a reati colposi e non dolosi – la condizione di cui alla lettera c)

della norma in commento, che presuppone l’elusione fraudolenta da parte del soggetto

in posizione apicale dei modelli di organizzazione e gestione11; con la conseguenza che

o si forza il dettato normativo, cosa francamente insostenibile, o la relativa

responsabilità dell’ente assume i contorni della responsabilità oggettiva, con ogni

conseguenza in termini di compatibilità con i principi ordinamentali.

La seconda questione di ordine generale concerne il rapporto tra la disciplina

di cui al d.lgs. n. 231/2001 e quella “specifica” introdotta dall’articolo 30 del “testo

unico” di salute e sicurezza sul lavoro la quale, per quanto per molti versi prevedibile in

quanto inevitabilmente correlata ad ogni introduzione di normativa che si “intersechi”

in maniera così intima con le previgenti, ha anche essa ricadute pratiche notevoli. Al

riguardo, si consideri la difficoltà legata alla individuazione delle condizioni in forza

delle quali l’”idoneo sistema di controllo” di cui all’articolo 30 del d.lgs. n. 81/2008 si

correli all’”organismo dell’ente munito di autonomi poteri di iniziativa e controllo” di

cui all’articolo 6, punto 1, lettera b), del d.lgs. n. 81/2008; in particolare, ci si riferisce

alla necessità di comprendere quando il “sistema di controllo” possa dirsi “autonomo”

rispetto al management aziendale e, quindi, in grado di operare in maniera efficace12.

La terza questione è valutare come operi la presunzione di rispetto delle

disposizioni di cui all’articolo 30, citato, relativamente alla adozione ed alla attuazione 11 ) In tal senso, per tutti, si è espressa la c.d. “Commissione Greco”, istituita per la revisione della normativa di cui al d.lgs. n. 231/2001, la quale ha sostenuto la opportunità dell’elusione fraudolenta in quanto elemento distonico rispetto alla natura dei reati colposi dei quali si discute. Secondo tale organismo, in particolare: “in concreto una condotta caratterizzata da una componente soggettiva tanto marcata potrebbe suggerire la configurazione del delitto di omicidio volontario o di lesioni volontarie determinando una sorta di impossibilità fattuale a dimostrare da parte dell’ente la propria non colpevolezza”. 12 ) Al riguardo, c’è da chiedersi se sia possibile l’utilizzo, quale sistema di controllo, del servizio di prevenzione e protezione dell’azienda o se, da un altro punto di vista, sia possibile per l’ente utilizzare, senza alcuna integrazione o modifica, lo stesso organismo di vigilanza che abbia costituito ai fini del d.lgs. n. 231/2001.

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delle “linee guida” espressamente citate al comma 5 della disposizione in commento.

Senza voler attribuire una rilevanza di qualche tipo alla infelice espressione “In sede di

prima applicazione” usata in apertura del comma 5 dell’articolo 30 del “testo unico”13,

problemi applicativi di notevole portata vengono suscitati dalla affermazione che la

presunzione di conformità in oggetto opera unicamente per le parti “corrispondenti”

delle linee guida citate, la quale impone al Giudice di valutare nel dettaglio e con ampia

discrezionalità non solo quanto l’ente abbia applicato della linea guida ma anche quanto

della stessa linea guida sia “funzionale” alla tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Al

riguardo, chi scrive può testimoniare che la volontà degli estensori (la quale,

ovviamente, rileva solo al fine di collocare “storicamente” la disposizione in

commento, che va valutata solo secondo le regole proprie della interpretazione delle

norme di legge) era quella di fornire alle aziende qualche riferimento operativo, in

assenza di specifici modelli di gestione della sicurezza da indicare come esempio

puntuale. In tal modo si colloca la previsione in forza della quale è la Commissione

consultiva di cui all’articolo 6 del “testo unico” di salute e sicurezza sul lavoro a dover

individuare i modelli di gestione della sicurezza sul lavoro il cui rispetto – senza che il

Giudice debba valutare la “corrispondenza” o meno delle sue singole parti all’obiettivo

che il modello persegue a fini antinfortunistici – costituisca una presunzione,

ovviamente relativa, di rispetto delle disposizioni di cui all’articolo in commento;

previsione che assume una rilevanza ancora maggiore ove si consideri la assoluta

necessità di predisporre modelli di gestione della sicurezza diversificati in ragione del

rischio di impresa e, quindi, in caso di aziende con rischi non elevati, eventualmente

anche meno complessi – quindi di più semplice applicazione – dei ponderosi modelli

ora specificamente indicati nel “testo unico” ai quali, tuttavia, venga attribuita analoga

efficacia esimente rispetto ai reati di cui agli articoli 589 e 590 c.p.14.

Le criticità qui sommariamente riportate non inficiano la rilevanza dell’articolo 30

del “testo unico” sia in quanto norma che esprime, più di ogni altra all’interno del d.

lgs. n. 81/2008, la logica della gestione della sicurezza sul lavoro per mezzo di

procedure predeterminate e costantemente verificabili sia per la rilevanza dei modelli di

gestione della sicurezza sul lavoro quale esimente della responsabilità amministrativa

13 ) Ad avviso di chi scrive la formula è da ritenersi “di stile” e volta ad evidenziare che il novero dei modelli di gestione per i quali opera la “presunzione della presunzione” del rispetto dei requisiti di cui all’articolo 30 non costituisce un numero chiuso. 14 ) Su tali tematiche si rinvia, per tutti, a Merlin, Responsabilità da reato? Il modello legale di gestione elimina ogni problema, in Ambiente & Sicurezza, Il Sole-24Ore, 2008, n. 12, 67; Salvatore, Il sistema di “sanzioni interne” a garanzia dei modelli ex 231, in Ambiente & Sicurezza, Il Sole-24Ore, 2008, n. 15, 52.

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delle persone giuridiche, con peculiare riguardo alle conseguenze per ogni impresa alla

quale le disposizione di cui all’articolo 300 del “testo unico” si possa applicare.

Infine, va segnalato come il legislatore di agosto 2009 abbia ulteriormente

ribadito di voler puntare sui modelli di organizzazione e gestione della sicurezza

prevedendo che gli organismi paritetici, purché muniti di competente struttura tecnica,

possano verificare (la norma parla di “asseverazione”) la adozione e la efficace

attuazione da parte delle imprese dei modelli di organizzazione e gestione della

sicurezza di cui all’articolo 30 del decreto, in modo che gli organi di vigilanza possono

tener conto ai fini della programmazione delle proprie attività (articolo 51, commi 3-bis

e 3-ter, quali introdotti dal d.lgs. n. 106/2009). In tal modo, si intende promuovere la

diffusione dei modelli e la loro verifica, anche garantendo che di tale diffusione e

verifica gli organi di vigilanza tengano conto (auspicabilmente) pianificando gli accessi

in modo che vangano privilegiati luoghi nei quali non sono presenti modelli di gestione

rispetto ad che detti modelli applicano e nei quali si realizzano le verifiche da parte

degli organismi paritetici.

Con specifico riferimento agli elementi che devono emergere dalla adozione ed

attuazione di un modello di organizzazione e gestione della sicurezza coerente con le

previsioni di cui all’articolo 30, più volte citato, può affermarsi che la finalità dell’ente

dovrà essere:

- da un lato di dimostrare la propria volontà di fare tutto quanto in suo potere

per mitigare il rischio di violazioni di regole da parte da parte dei propri apici o

dipendenti;

- dall’altro, proprio attraverso una ulteriore e più chiara articolazione di doveri,

dei divieti, delle prassi e dei comportanti che, in ciascuna situazione prevedibile,

devono essere adottati dai lavoratori, minimizzare il rischio di comportamenti inattesi,

inadeguati e quindi rischiosi nella logica della prevenzione che si intende perseguire.

Più nel dettaglio, il comma 2 dell’art. 30 dispone che il modello debba prevedere

“idonei sistemi di registrazione dello svolgimento delle attività di prevenzione”.

L’obbligo di registrazione di cui al comma 2 è il corollario della impostazione della

norma, diretta a garantire che l’ente evidenzi la propria attenzione alla sicurezza. Se ne

evince che la registrazione delle attività descritte dalla norma deve risultare

puntualmente documentata perché l’efficienza del modello trova riscontro principale

nel suo funzionamento giorno per giorno nella vita dell’azienda. Variazioni delle

regole, casi di violazione delle regole che pure non hanno integrato fatti penalmente

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rilevanti, eventi che hanno reso necessario adeguare le regole esistenti è opportuno che

trovino riscontro documentale, anche al fine di poter costituire un utile elemento

probatorio a dimostrazione di una specifica e costante volontà dell’ente di attuare una

vera e propria strategia di prevenzione dei rischi.

In tale generale contesto, particolare attenzione va ascritta a due attività poste a

carico dell’ente: quella di valutazione dei rischi (e di predisposizione delle misure di

prevenzione e protezione conseguenti) e quella di informazione e formazione dei

lavoratori. Così, l’ente dovrà dimostrare puntualmente di avere ottemperato alle

previsioni di cui agli articoli 28 e 29 del “testo unico” di salute e sicurezza sul lavoro,

con particolare riguardo alla indicazione specifica e puntuale dei ruoli della

organizzazione aziendale (si veda quanto disposto dall’articolo 28, comma 2, lettera d),

ma anche – ove l’ente operi per mezzo di appalti – delle disposizioni di cui all’articolo

26 del “Testo Unico”. Del pari, la formazione del personale rappresenta un elemento

essenziale ai fini della costruzione del sistema preventivo degli illeciti nel contesto

dell’impresa, tanto che l’ente deve dunque predisporre uno specifico e adeguato

programma di formazione di tutto il personale, differenziato e graduato in relazione alle

mansioni concretamente esercitate, nonché all’eventuale appartenenza a funzioni

nell’ambito delle quali vengono svolte attività considerate a rischio, assicurando

l’effettiva partecipazione a tali iniziative, sì da rendere detti programmi effettivi.

Inoltre, specifica attenzione deve essere riservata all’informazione e formazione dei

neo-assunti e dei dipendenti che vengono chiamati a svolgere un nuovo incarico,

essendo essi posti di fronte ad una diversa realtà lavorativa.

Il comma 3 prevede che il modello organizzativo debba in ogni caso

prevedere, per quanto richiesto dalla natura e dalle dimensioni dell’organizzazione e

dal tipo di attività svolta, una articolazione di funzioni che assicuri le competenze

tecniche ed i poteri necessari per la verifica, valutazione, gestione e controllo del

rischio, nonché un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto

della misure indicate dal modello.

In tal modo si ripropongono due concetti già sviluppati dal d.lgs. n. 231/2001 e,

in particolare, si statuisce in primo luogo che il modello organizzativo “deve in ogni

caso prevedere, per quanto richiesto dalla natura e dalle dimensioni

dell’organizzazione e dal tipo di attività svolta, una articolazione di funzioni che

assicuri le competenze tecniche ed i poteri necessari per la verifica, valutazione,

gestione e controllo del rischio” (principio che esplicita la previsione di cui all’art. 6

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del d.lgs. n. 231/2001 secondo cui il modello organizzativo deve essere costruito

tenendo in considerazione “l’estensione dei poteri delegati ed il rischio di commissione

dei reati”). Il Legislatore sembra, quindi, avere inteso ribadire il principio secondo cui

non esiste un modello organizzativo efficace ed efficiente che non sia tarato sulla

specifica realtà aziendale nella quale è adottato. Realtà aziendale che è da intendersi

quale il risultato di fattori diversi che devono essere considerati complessivamente,

quali le dimensioni (seppure, anche qui, deve essere dato per acquisito il fatto che la

dimensione di per sé non costituisca mai un elemento automatico di moltiplicatore del

rischio), la attività svolta, la storia aziendale, l’articolazione delle funzioni e delle

responsabilità aziendali.

In secondo luogo si rimarca come debba essere previsto un sistema disciplinare

idoneo a sanzionare il mancato rispetto della misure indicate dal modello. Si tratta,

anche qui, di un principio già espresso nell’articolo 6 del d.lgs. n. 231/2001, con

formula identica a quella ora ripresa nel “testo unico”. Con tale specificazione si ritiene

che il legislatore abbia inteso chiarire che la mera elaborazione di direttive e linee guida

di comportamento non è sufficiente ad escludere la responsabilità dell’ente per i reati

eventualmente commessi “nel suo interesse o a suo vantaggio”. Così delineato il

modello potrà essere solo astrattamente idoneo a prevenire i reati di cui al decreto,

mentre è necessario che il modello sia anche efficacemente attuato, non solo attraverso

verifiche periodiche dell’efficacia dello stesso, ma anche introducendo un sistema

disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure di comportamento ivi

previste. Ciò in quanto solo un adeguato e specifico sistema disciplinare e

sanzionatorio può, in concreto, garantire il rispetto effettivo della disposizione e

delle procedure contenute nel modello.

Il comma 4 stabilisce che il modello debba precedere un idoneo sistema di

controllo sull’attuazione del medesimo modello e sul mantenimento nel tempo delle

condizioni di idoneità della misure adottate; prevede inoltre che il riesame e l’eventuale

modifica del modello organizzativo debbano essere adottati ogniqualvolta siano

scoperte violazioni significative delle norme relative alla prevenzione degli infortuni e

all’igiene sul lavoro, ovvero in occasione di mutamenti nell’organizzazione e

nell’attività in relazione al progresso scientifico e tecnologico.

La norma evoca, per quanto non espressamente, l’organismo di vigilanza, già

previsto dal d.lgs. n. 231/2001 come elemento fondamentale per la costruzione di un

modello coerente con la legge. In particolare, il “testo unico” richiede all’ente, una

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volta valutati i rischi e adottate le misure necessarie a eliminare o ridurre i medesimi, di

individuare un soggetto o una struttura che abbia il potere (e il correlato dovere) di

verificare costantemente il mantenimento delle condizioni di idoneità delle misure

adottate. È possibile, quindi, ritenere che ciascun ente dovrà valutare l’opportunità di

integrare le competenze attribuite all’organismo di vigilanza, adottato ai sensi del d.lgs.

n. 231/2001, in modo da poter assicurare l’opportuno controllo delle condizioni di

idoneità del modello: ciò potrà avvenire secondo modalità diversificate da struttura a

struttura, sempre in relazione alla caratteristiche dimensionali, di rischio, organizzative,

mentre non è da escludersi a priori la possibilità di coinvolgere specialisti esterni

ovvero la possibilità di cooptare specialisti provenienti dal proprio organico. Inoltre,

egualmente ragionevole è pensare che l’ente debba, eventualmente, consentire che

l’organismo di vigilanza possa avvalersi del supporto dei soggetti cui sono già

attribuite, in azienda, specifiche funzioni e responsabilità in materia e/o predeterminare

flussi informativi e periodiche procedure di controllo e/o prevedere che l’organismo di

vigilanza, secondo un principio di carattere generale finalizzato a rendere tracciabili e

documentabili le iniziative dell’organismo medesimo, provveda ad informare

(possibilmente in forma scritta), periodicamente l’organo di vertice dell’ente con

espresso riferimento alla materia della salute e sicurezza sul lavoro.

Il comma 5 dispone quindi che, in sede di prima applicazione, i modelli di

organizzazione aziendale definiti conformemente alle linee guida UNI-INAIL per un

sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGSL) del 20 settembre 2001 o

al British Standard OHSAS 18001:2007 si presumono conformi ai requisiti di cui ai

commi precedenti per le parti corrispondenti. Agli stessi fini ulteriori modelli di

organizzazione di gestione aziendale possono essere indicati dalla commissione

consultiva permanente di cui all’art. 6 del “testo unico”, la quale ha anche il compito di

elaborare “modelli semplificati” per le piccole e medie imprese.

Al momento la citata Commissione non ha ancora elaborato i “modelli

semplificati” appena richiamati, per quanto vada sottolineato come, invece, abbia

elaborato e diffuso – a mezzo di lettera circolare dell’11 luglio 2011 del Ministero del

lavoro e delle politiche sociali (disponibile sul sito www.lavoro.gov.it, alla sezione

“sicurezza nel lavoro”, unitamente a tutti i documenti elaborati dalla Commissione

consultiva e a tutta la pertinente normativa) – un documento di indirizzo per individuare

le “parti corrispondenti” tra i modelli elaborati secondo il BS OSHAS 18001 e l’

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articolo 30 del “testo unico”, di notevole interesse per gli operatori, in quanto incidente

su una delle questioni più controverse in materia.

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