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Università degli Studi di Salerno
Facoltà di Scienze Politiche
Corso di Laurea in Scienza del Governo
e dell’Amministrazione
Esame di Diritto dell’Unione Europea
A.A. 2005 – 2006
Compendio di Diritto dell’Unione Europea
Prof. Salvatore Sica
Studente: Aniello Spina - 1210200068
Università degli Studi di Salerno - Facoltà di Scienze Politiche
Corso di Laurea in Scienza del Governo e dell’Amministrazione
Esame di: Diritto dell’Unione Europea Studente: Aniello Spina – 1210200068 pag. 2 di 94 www.nellospina.it
Genesi dell’Unione Europea
Con la fine della II guerra mondiale si è innescato un lento cammino verso l’integrazione
economica e politica; cammino irto di ostacoli che più volte ha conosciuto battute d’arresto.
Oggi comunque l’Unione conta di 25 paesi aderenti e per il 2007 è atteso l’ingresso di Bulgaria
e Romania mentre più lentamente l’ammissione della Turchia.
I momenti più importanti del cammino verso l’integrazione europea si sono avuti con la
sottoscrizione del Trattato di Maastricht (1992), del Trattato di Amsterdam (1997); del
Trattato di Nizza (2000) e del Vertice di Roma (29/10/2004).
Le ragioni che portarono all’Unione
Già a metà dell’ottocento troviamo gli auspici di un’Europa nell’opera di G. Mazzini, ma la
spinta più importante ci si ebbe dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando venne fuori la
constatazione che l'Europa non era più al centro del mondo: a est si profilava il blocco sovietico
ad ovest gli Stati Uniti avevano assunto una incontrastata leadership. Non vi era dubbio ormai
che per acquistare un ruolo significativo bisognava intraprendere la strada della collaborazione
sia sul piano economico e politico. Il processo prese avvio proprio per iniziativa di due secolari
antagonisti la Germania è la Francia. Le due conclusero un accordo che prevedeva la creazione
di un ente sovranazionale con il compito di regolare lo sfruttamento dei bacini della Rurh e
della Saar (1951). Subito dopo, l'iniziativa interessò altri paesi per cui nacque la CECA
(Comunità Europea Carbone Acciaio) con lo scopo di creare un mercato comune nel
settore carbosiderurgico.
il 18 aprile 1951 a Parigi i sei paesi aderenti firmarono vari atti comprendenti il trattato
istitutivo della comunità europea del carbone e dell'acciaio. La CECA rappresentava non solo la
prima reazione alle forze disintegranti scatenata dalla guerra, ma anche la prima ricerca del
benessere del singolo Stato nazionale dello sviluppo della comunità europea per sé seduzione
faceva sì che ciascuno degli stati aderenti cedesse una parte della propria sovranità in un
settore limitato, conservando peraltro inalterate le proprie prerogative in altri settori di qui la
sua configurazione come struttura sola nazionale e non internazionali, dotata di poteri propri e
di una propria assemblea munita di poteri consultivi e di controllo politico, decisamente più
consistenti di quelli accordati agli organi del consiglio d'Europa. All'alta autorità era affidato
non solo il potere esecutivo, ma anche il potere normativo nei controlli delle stradine, delle
imprese e delle associazioni di imprese di produzione e di distribuzione del prodotto
carbosiderurgico.
Al consiglio dei ministri spettavano compiti consultivi ed esprimeva pareri vincolanti sulle
proposte avanzate dall'Alta Autorità, mentre alla Corte di Giustizia veniva assegnato il potere
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giurisdizionale con il compito di interpretare e di vigilare sulla corretta applicazione delle norme
del diritto comunitario contenuto nel trattato istitutivo della CECA.
Il modello CECA esercitò la sua prima influenza nel settore militare in seguito allo scoppio della
guerra in Corea si aumentò il timone di una sempre più profonda divisione del mondo in due
blocchi, prese vita il progetto di una comunità militare europea di incontro numerose difficoltà
soprattutto per il contrasto legata al riarmo della Germania e quindi non però possibilità di
attuazione.
I trattati di Roma
Sono i trattati che hanno istituito la Comunità economica europea e la Comunità europea per
l’energia atomica, firmati dai sei Stati membri della CECA il 25 marzo 1957 e conclusi per un
periodo illimitato.
L’obiettivo era quello di creare un mercato comune e riavvicinare progressivamente le
politiche economiche degli Stati, al fine di promuovere uno sviluppo armonioso delle attività
economiche, una continua e bilanciata espansione economica, una crescita del livello di vita dei
popoli e relazioni più strette fra gli Stati membri. La mancata ratifica del trattato istitutivo
della Comunità europea di difesa (CED), nel 1952, non spense di certo il crescente entusiasmo
dell’opinione pubblica europea intorno ai primi dibattiti su un progetto relativo all’istituzione del
mercato comune. L’esperienza positiva della CECA (il cui trattato istitutivo era stato era stato
firmato nel 1951) diede nuovamente slancio al processo d’integrazione europea.
Nel 1955 ebbe così luogo lo storico incontro di Messina (Conferenza di Messina) fra i ministri
degli esteri dei sei paesi membri della CECA, nel corso del quale fu presa in considerazione
l’idea di un’unione economica dell’Europa, da realizzare mediante la creazione del mercato
comune e l’introduzione delle quattro libertà.
I sei ministri degli esteri si riunirono successivamente il 30 maggio 1956 a Venezia, per
negoziare la trasformazione del rapporto Spaak1, redatto dopo l’incontro di Messina, in veri e
propri trattati.
I negoziati si protrassero fino al febbraio del 1957 e finalmente il 25 marzo dello stesso anno si
giunse alla firma, a Roma, dei due trattati.
Il Trattato CEE, stabilendo un ordine giuridico specifico, ha istituito una Comunità di durata
illimitata dotata di personalità e capacità giuridica e poteri propri che le sono stati attribuiti in
base ad un trasferimento di competenze dagli Stati membri alla Comunità.
Si definisce come trattato-quadro in quanto elenca gli obiettivi che le istituzioni comunitarie
dovranno perseguire attraverso l’adozione degli atti giuridici.
1 Documento, presentato il 29 maggio 1956 alla Conferenza di Venezia dei ministri degli esteri da un comitato intergovernativo presieduto da Paul Henry Spaak, contenente indicazioni dettagliate sulla creazione della CEE e dell’EURATOM. La decisione di affidare ad un comitato la redazione di un rapporto che esaminasse tutte le possibili forme di integrazione in specifici settori (ad esempio quello dell’energia) fu adottata dai ministri degli esteri dei paesi già membri della CECA nel corso della Conferenza di Messina. Il rapporto Spaak si articolava in tre parti: mercato comune, energia nucleare e settori che necessitavano di interventi: energia, trasporti e telecomunicazioni. Il rapporto, che portò in breve tempo alla firma dei Trattati della CEE e dell’EURATOM, prevedeva anche una struttura istituzionale simile a quella della già costituita CECA.
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Nel corso degli anni i trattati istitutivi sono stati più volte modificati sia dai vari atti approvati
successivamente come il Trattato sulla fusione degli esecutivi, l’Atto unico europeo, il
Trattato di Maastricht ed il Trattato di Amsterdam, che dai diversi trattati di adesione.
Trattato Quadro è una espressione che si riferisce al trattato istitutivo della Comunità
economica europea per sottolineare la sua caratteristica di negoziato permanente, vale a dire
di un trattato che fissa soltanto l’obiettivo ultimo cui mira, delegando ad altre disposizioni il
compito di definire le procedure di attuazione.
Il Trattato CEE, infatti, al momento della sua firma, conteneva l’indicazione precisa degli
obiettivi intermedi e finali che si volevano raggiungere, senza però specificare nulla riguardo le
procedure che le istituzioni comunitarie avrebbero dovuto seguire.
Le norme contenute nel trattato erano dettagliate in riferimento ai tempi e alle modalità di
attuazione solo per quel che riguardava la realizzazione dell’unione doganale e l’istituzione di
una tariffa doganale comune; per il raggiungimento della completa integrazione economica
comunitaria, invece, erano necessari interventi di armonizzazione legislativa, sia economica
che sociale, che sono stati oggetto di compromessi con gli Stati membri.
I padri fondatori dell’Europa comunitaria, infatti, avevano previsto un graduale trasferimento di
sovranità dagli organi nazionali alle istituzioni comunitarie sulla base di continui negoziati
durante i quali si è cercato di mediare gli interessi a volte contrastanti tra gli Stati e la
Comunità europea.
Trattato sulla fusione degli esecutivi
È il trattato firmato a Bruxelles nel 1965 che prevedeva l’istituzione di un Consiglio ed una
Commissione unica per tutte e tre le Comunità europee, segnando un passo avanti nel
processo di integrazione europea.
A partire dal 1957, venivano ad operare sul medesimo territorio la CEE, la CECA e la CEEA,
rendendo spesso difficile individuare lo specifico campo di intervento di ciascuna Comunità. I
padri fondatori delle Comunità europee all’indomani della stipula dei trattati sentirono
l’esigenza di giungere ad una fusione delle stesse ma le resistenze politiche degli Stati membri
impedirono di giungere ad una totale unificazione.
Va rilevato che sin dalla loro istituzione il Parlamento europeo e la Corte di Giustizia sono stati
istituzioni comuni alle tre Comunità. Invece solo con il Trattato sulla fusione degli esecutivi si
è giunti alla stesura di un testo definitivo che ha unificato le due Commissioni (CE ed Euratom)
e l’Alta Autorità della CECA da un lato, ed i tre Consigli dall’altro.
Successivamente il citato Trattato è stato abrogato dal Trattato di Amsterdam; le relative
disposizioni sono ora richiamate all’interno dei Trattati istitutivi mentre alcuni dei principi
fondamentali, introdotti dal testo abrogato, sono stati richiamati all’art. 9 del Trattato di
Amsterdam.
Alla fusione delle istituzioni, però, non si accompagnava una unificazione delle loro funzioni che
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restarono fondamentalmente separate. Ogni istituzione, infatti, pur essendo composta dalle
stesse persone per tutte e tre le organizzazioni, operava ora come organo di una Comunità,
ora come organo di un’altra.
Come chiaramente affermava l’art. 1 del Trattato sulla fusione degli esecutivi, il Consiglio
unificato esercitava i poteri e le competenze in precedenza devoluti ai tre Consigli; ugualmente
disponeva l’art. 9 in relazione alla Commissione Unica che sostituiva l’Alta Autorità della CECA
e le Commissioni delle altre due Comunità; l’unico atto di tali istituzioni che veniva
espressamente unificato dal trattato in questione era la Relazione Generale sull’attività delle
Comunità che la Commissione era tenuta a pubblicare ogni anno.
AUE (atto unico europeo)
insieme di disposizioni che modificano e completano i tre trattati costitutivi della comunità
europea. L'obiettivo più importante era la realizzazione entro il 31 dicembre 1992 del mercato
interno, cioè di uno spazio senza frontiere interne nel quale è assicurata la libera circolazione
delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali.
Nell’atto unico, oltre alla creazione del mercato interno sono previsti:
a) la ricerca di una coesione economica più stretta tra le ragioni e europei e una riduzione
della disparità regionali restano riforma di fondi strutturali.
b) il rafforzamento della cooperazione monetaria;
c) introduzione di norme in materia di tutela dell'ambiente e di ricerca scientifica e
tecnologica.
L’atto unico ha anche previsto modifiche istituzionali, fra cui ricordiamo:
a) il passaggio dall'unanimità alla maggioranza qualificata per le decisioni del consiglio
dell'Unione Europea nei settori del mercato interno, della politica sociale, della coesione
economica e sociale e della ricerca;
b) l'affidamento alla commissione delle competenze esecutive degli atti al re dà consigli, il
conferimento al Parlamento europeo di un potere di parere conforme in materia di
adesione e degli accordi di associazione:
c) indulge nella procedura di cooperazione tra la commissione, il Parlamento e il consiglio;
d) l'istituzionalizzazione del consiglio europeo;
e) la creazione di un tribunale di primo grado che ha affiancato la corte di giustizia.
Trattato di Maastricht
È il documento firmato a Maastricht nel 1992 dai rappresentanti degli Stati membri, la cui
denominazione ufficiale è Trattato sull’Unione europea.
Il Trattato di Maastricht è il risultato di lunghi e laboriosi negoziati finalizzati al completamento
del mercato interno e all’individuazione delle future tappe dell’integrazione comunitaria. Le
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istituzioni comunitarie, infatti, già a partire dal 1988 avevano avviato un intenso lavorio,
culminato nelle due conferenze intergovernative tenutesi a Roma nel dicembre 1990
sull’unione economica e monetaria e sull’unione politica. Il testo elaborato nelle due conferenze
intergovernative fu definitivamente firmato nel corso del vertice europeo di Maastricht del
dicembre 1991.
Il processo di ratifica del Trattato sull’Unione è stato particolarmente travagliato, tanto da far
temere più volte un completo abbandono del progetto. In Francia il trattato è stato sottoposto
a referendum, così come in Danimarca dove si sono svolte due consultazioni referendarie: la
prima lo ha bocciato e solo dopo aver ottenuto le deroghe richieste la seconda consultazione
ha dato esito positivo. In Gran Bretagna è stato approvato solo dopo che il governo ha posto la
questione di fiducia; in Germania il Parlamento ha ratificato il trattato già nel dicembre 1992,
ma ha dovuto attendere una pronuncia della propria Corte Costituzionale prima di poter
depositare la ratifica.
La portata estremamente innovativa di questo trattato risiede principalmente nella nuova
struttura a tempio dell’Unione europea, composta da tre pilastri (Pilastri dell’Unione
europea): la dimensione comunitaria, la politica estera e di sicurezza comune e la
cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni.
Allo stesso trattato sono aggiunti vari protocolli e dichiarazioni, tra cui spiccano i due Protocolli
che definiscono lo statuto del Sistema europeo delle Banche centrali (SEBC), dell’Istituto
monetario europeo (IME) e della Banca centrale europea (BCE).
In particolare il trattato è articolato nelle seguenti sezioni:
• disposizioni comuni (titolo I). Questa prima sezione definisce le linee guida che ispirano
l’azione comunitaria, il cui compito è quello di organizzare in modo coerente e solidale le
relazioni tra gli Stati membri ed i loro popoli;
• modifiche al Trattato CEE (titolo II). Questa sezione rappresenta la parte più innovativa
dell’intero Trattato di Maastricht a cominciare dall’alto valore simbolico da attribuire alla
disposizione che sostituisce l’espressione “Comunità Economica Europea” con “Comunità
Europea” in tutto il Trattato di Roma del 1957. La modifica è un evidente segnale della
volontà di non limitare più l’azione della Comunità alle sole relazioni economiche ma di
estenderla anche ad altri campi finora considerati di esclusiva competenza degli Stati
membri. Principi fondamentali di questa parte del trattato sono:
1. l’instaurazione di una unione economica e monetaria;
2. l’istituzione di una cittadinanza europea
3. l’affermazione del principio di sussidiarità;
4. l’ampliamento delle politiche comunitarie (in particolare, industria, sanità pubblica,
educazione e cultura);
5. la revisione dei poteri attribuiti ad alcune istituzioni comunitarie ed, in particolare,
l’ampliamento delle funzioni del Parlamento europeo;
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• modifiche ai Trattati CECA ed Euratom (titoli III e IV). Le disposizioni contenute in questi
due titoli sono largamente riproduttive di quelle contenute nel titolo precedente;
• disposizioni relative alla politica estera e di sicurezza comune (titolo V). Rappresenta una
delle novità più importanti del Trattato di Maastricht ed è il risultato finale dei lunghi
negoziati intrapresi nell’ambito della conferenza intergovernativa convocata nel 1990. Le
disposizioni contenute in questo titolo non introducono alcuna modifica ai Trattati istitutivi
delle Comunità europee;
• disposizioni relative alla cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale (titolo VI).
L’apertura delle frontiere tra i paesi comunitari a partire dal 1° gennaio 1993 ha
inevitabilmente imposto un notevole ridimensionamento delle possibilità di controllo
frontaliere. Al fine di realizzare una più efficace cooperazione in questo settore con il
Trattato di Maastricht si è deciso di delineare alcune strategie comuni tra gli Stati membri,
tra cui rientra anche la costituzione di un Ufficio europeo di Polizia. Tuttavia molte delle
disposizioni contenute in questo titolo (che originariamente era denominato cooperazione
nei settori della giustizia e degli affari interni) sono state comunitarizzate con il Trattato di
Amsterdam;
• disposizioni su una cooperazione rafforzata (titolo VII). Non era previsto dall’originario
Trattato di Maastricht, ma è stato aggiunto dal Trattato di Amsterdam. Prevede la
possibilità che alcuni Stati membri possano perseguire autonomamente determinate
politiche quando non è possibile raggiungere l’unanimità;
• disposizioni finali (titolo VIII). Oltre all’art. 49 (ex O), che disciplina la procedura per
l’adesione di nuovi Stati, la disposizione più importante (ora abrogata) contenuta in questo
titolo era quella che prevedeva la convocazione, entro il 1996, di una conferenza
intergovernativa per apportare eventuali modifiche al trattato: da questa disposizione è
nato il Trattato di Amsterdam.
Trattato di Amsterdam
Dopo l’Atto unico europeo ed il Trattato di Maastricht si tratta del terzo trattato con il quale
sono state apportate significative modifiche ai trattati istitutivi delle Comunità europee. In
particolare il Trattato di Amsterdam è nato sulla base di una specifica disposizione contenuta
già nel Trattato di Maastricht e che prevedeva la convocazione, per il 1996, di una Conferenza
intergovernativa con il compito di proporre i necessari adattamenti ai trattati, in vista delle
sfide che si pongono per il nuovo millennio ed in seguito alla introduzione dell’euro.
L’accordo finale sul testo del nuovo trattato è stato raggiunto nel corso del vertice europeo di
Amsterdam del 17 giugno 1997, mentre la firma ufficiale si è avuta il 2 ottobre dello stesso
anno: esaurito il processo di ratifica il trattato è entrato in vigore il 1° maggio 1999.
La più importante novità introdotta dal Trattato di Amsterdam nell’ambito delle politiche
comunitarie è sicuramente l’impegno assunto per la promozione di un più alto livello
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occupazionale; nel Trattato istitutivo della Comunità europea è stato aggiunto un nuovo titolo
interamente dedicato alle problematiche occupazionali, con il quale, pur ribadendo che la
responsabilità in materia di occupazione è posta principalmente a carico degli Stati membri, si
tenta di introdurre un coordinamento anche a livello europeo.
Un altro capitolo dedicato al mondo del lavoro è quello relativo alla politica sociale, finora
relegata in un protocollo allegato al Trattato sull’Unione e che ora entra a far parte a pieno
titolo delle politiche comuni, essendo cadute tutte le obiezioni britanniche.
Altre modifiche hanno riguardato la politica dell’ambiente , la sanità pubblica e la tutela
dei consumatori.
Sebbene estremamente limitate rispetto alle iniziali aspettative, non mancano anche nel
settore della PESC rilevanti novità introdotte dal Trattato di Amsterdam. In particolare:
• è previsto che l’Unione possa adottare strategie comuni per le azioni da intraprendere
nell’ambito della politica estera;
• viene introdotto il principio dell’astensione costruttiva , che potrebbe consentire una più
efficace azione da parte degli Stati membri;
• tra le priorità dell’azione comunitaria rientrano le missioni umanitarie, di soccorso e di
mantenimento della pace, secondo le indicazioni contenute nella Dichiarazione di
Petersberg;
• viene creata una cellula di programmazione politica e di tempestivo allarme che ha il
compito di individuare le zone di conflitto potenziale e anticipare eventuali situazioni di
crisi;
• per dare continuità all’azione dell’Unione in questo settore al Segretariato generale del
Consiglio viene attribuito il ruolo di Alto rappresentante per la PESC.
Le più importanti novità del Trattato di Amsterdam sono, però, sicuramente quelle che hanno
radicalmente trasformato la cooperazione in materia di giustizia e affari interni.
Coerentemente con un’indicazione già contenuta nel Trattato di Maastricht quasi tutti i settori
che rientravano nell’ambito del terzo pilastro sono ora stati trasferiti nel primo pilastro,
comunitarizzando, materie che in precedenza erano trattate esclusivamente in ambito
intergovernativo (rilascio di visti, concessione di asilo, azione comune in materia di
immigrazione, cooperazione doganale, cooperazione giudiziaria in materia civile e più in
generale tutte le questioni attinenti alla libera circolazione delle persone).
La radicale modifica delle disposizioni contenute nel titolo VI del Trattato sull’Unione europea si
riflette anche nella nuova denominazione introdotta dal Trattato di Amsterdam: non più
cooperazione in materia di giustizia e affari interni, ma cooperazione di polizia e giudiziaria
in materia penale.
Con il Trattato di Amsterdam è stata anche istituzionalizzata la facoltà di procedere ad una
integrazione differenziata attraverso il meccanismo della cooperazione rafforzata; in pratica
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si sancisce il diritto per quegli Stati membri che intendono perseguire determinate politiche
comuni a procedere anche in assenza di una volontà comune di tutti i membri.
L’introduzione del principio della cooperazione rafforzata ha consentito, ad esempio, di
comunitarizzare l’acquis di Schengen.
Con il Trattato di Amsterdam si è proceduto anche ad un’opera di razionalizzazione e
semplificazione di questo groviglio di disposizioni; la seconda parte del nuovo trattato è
interamente dedicata a questa operazione.
Trattati di adesione
Accordi internazionali che si concludono tra gli Stati richiedenti l’adesione all’Unione europea e
gli Stati contraenti del trattato originario. Tali accordi devono essere sottoposti alla ratifica di
tutti gli Stati contraenti conformemente alle loro rispettive norme costituzionali.
I trattati di adesione non contengono le condizioni per l’ammissione né gli adattamenti ai
trattati istitutivi che questa rende necessari (esempio: numero dei membri degli organi, elenchi
di prodotti, tariffa doganale comune etc.). Tali elementi sono contenuti nell’Atto relativo alle
condizioni d’adesione e agli adattamenti dei trattati, le cui disposizioni costituiscono parte
integrante del trattato di adesione.
Gli strumenti relativi all’adesione (Trattato, Atto, Allegati, Protocolli, Dichiarazioni) contengono
soprattutto la previsione di periodi transitori, in ossequio al principio, già applicato nei trattati
originari, di gradualità. Di massima, invece, gli strumenti di adesione non contengono
modificazioni alle norme che riguardano i settori d’intervento e le politiche della Comunità.
Un ampliamento anomalo in questo contesto è rappresentato dall’ingresso nell’Unione dell’ex
Repubblica democratica tedesca. Com’è noto la riunificazione delle due Germanie è avvenuta il
3 ottobre 1990: tuttavia già durante il Vertice di Dublino dell’aprile 1990 i capi di Stato e di
governo avevano stabilito che non vi era alcuna necessità di procedere ad una formale
revisione dei trattati istitutivi. Furono introdotte soltanto alcune misure di adeguamento che
tenessero conto della nuova situazione
U n io n e E u r o p e a - T r a tta t i , I s t itu z io n i, S to r ia d e ll 'in te g r a z io n e e u r o p e a
1 9 5 2 1 9 5 8 1 9 6 7 1 9 9 3 1 9 9 9 2 0 0 3 2 0 0 4 - U N I O N E E U R O P E A ( U E )
C o m u n ità e u r o p e a d e l c a r b o n e e d e ll'a c c ia io (C E C A ) C o m u n ità E c o n o m ic a
E u r o p e a (C E E )
C o m u n ità E u r o p e a (C E )
E u r a to m (C o m u n ità E u ro p e a d e ll 'E n e rg ia A to m ic a ) G iu s tiz ia e
a ffa r i in te rn i (C G A I) C o m u n ità
e u ro p e e : C E C A , P o li t ic a e s te ra e d i s ic u re z z a c o m u n e (P
C E E , E u ra to m E S C )
T r a tta to d i P a r ig i
T r a tta t i d i R o m a
T r a tta to d i B r u x e lle s
T r a tta to d i M a a str ic h t
T r a tta to d i A m ste r d a m
T r a tta to d i N iz z a
C o st itu z io n e E u r o p e a
I "T re P ila s tri " d e ll 'U n io n e E u ro p ea - C o m u n ità E u ro p e e (C E E , C E C A , E u ra to m ) , P o lit ic a E s te ra e d i S ic u re z z a C o m u n e (P E S C ), C o o p e ra z io n e n e i se tto r i d e lla G iu s t iz ia e d e g li A f fa r i In te rn i (C G A I)
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I valori gli obiettivi le competenze
Sono i primi articoli della carta costituzionale ad individuare i valori nei quali l'unione si
riconosce e gli obiettivi che essa intende perseguire e la distribuzione delle competenze.
I valori art. 1.2
L'Unione si fonda nei suoi valori della dignità umana, sulla libertà della democrazia
dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani.
Se uno Stato membro non rispetta questi valori, accade che il consiglio dei ministri decide la
sospensione dei diritti che derivano dalla appartenenza all'Unione.
Gli obiettivi art. 1.3
L'Europa si prefigge: di promuovere la pace, il benessere dei suoi popoli, di offrire spazio di
libertà e giustizia ai suoi cittadini senza frontiere interne, di sviluppare l'economia dei membri
ed il progresso sociale, di tutelare l'ambiente e di combattere le discriminazioni sociali, tutelare
i minori e di promuovere la parità tra donne e uomini.
L'aver fissato specifici obiettivi nella costituzione è importante non solo perché ha significato
decidere il percorso da seguire ma anche perché, in questo modo, risulta incostituzionale
qualsiasi iniziativa presa in contrasto con essi.
Le competenze
Avere la competenza significa avere l'autorità necessaria ad assumere certe iniziative per il
raggiungimento degli obiettivi. Sono attribuite in parte ai singoli Stati in parte all'unione.
Abbiamo competenza esclusiva vuol dire che solo l'unione europea ha competenze
necessarie a raggiungere obiettivi predestinati. Competenza concorrenti significa che le
norme necessarie possono essere emanate sia dall'unione che dagli stati membri secondo il
principio di sussidiarietà.
Il principio di attribuzione
È la pietra angolare del sistema delle competenze dell'Unione Europea ed è la valvola di
sicurezza. L'Unione Europea può adottare iniziative sono nell'ambito delle misure in cui i
trattati, le vere basi giuridiche, le permettono di agire. La corte di giustizia ha identificato
alcuni settori in cui solo europea può agire.
Il principio di sussidiarietà
Può essere visto come l'elemento regolatore delle competenze comunitarie, è stato introdotto
dal trattato di Maastricht. In base a tale principio la comunità interviene in quei settori che
non sono di sua esclusiva competenza solo quando la sua azione è considerata più efficace di
quella intrapresa a livello nazionale, regionale, locale. Prendere decisioni il più vicino possibile
ai cittadini i diversi presupposti sono:
1 riguardare le nuove politiche di cooperazione
2. la dimensione europea
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3. vi dovrà essere presunzione dell'insufficienza degli Stati e risolvere il problema.
Il trattato di Amsterdam ha introdotto alcuni principi guida sulla base dei quali procedere alla
valutazione delle condizioni:
1. La questione deve presentare aspetti transnazionali e gli Stati membri non sono in
grado di regolare
2. L'azione degli Stati membri comprometterebbe l'interesse degli altri Stati membri ciò
prescrive il trattato
3. Attraverso l'intervento della comunità si conseguirebbero risultati più vantaggiosi.
Tre riferimenti al principio di sussidiarietà. La commissione dovrebbe presentare una relazione
annuale di giustificazione al Consiglio Europeo, al Parlamento Europeo ed al Consiglio
dell'Unione circa l'applicazione del principio di sussidiarietà.
Il consiglio valuta la conformità delle proposte e informa il Parlamento, in questo modo viene
introdotto una sorta di controllo preventivo sulla negazione del principio di sussidiarietà. La
applicazioni vengono controllate dalla Corte di Giustizia.
Principio di proporzionalità, art. 5
È il principio secondo il quale l'azione della Comunità Europea da non va al di là di quanto
necessario per il raggiungimento degli obiettivi posti dal trattato. Più esattamente, quando a
disposizione degli operatori economici, abbiamo una pluralità di misure appropriate per
raggiungere gli obiettivi prefissati, si dovrà ricorrere a quelle misure meno impegnative, cioè si
deve fare in modo che gli oneri siano proporzionati agli oggetti. La commissione deve scegliere
tra un atto vincolante oppure no.
Le cooperazioni rafforzate
Le cooperazioni rafforzate sono la strada che si può percorrere quando viene a mancare il
consenso di uno o più Stati membri nella realizzazione di un obiettivo previsto dalla
costituzione. Quando ciò avviene non si può permettere che i 1000 trend europeo e viaggia
verso l'integrazione sia rallentato dalla resistenza di vagoni particolarmente lenti. Le
cooperazione rafforzata sono quelle che uniscono i paesi dell'euro gruppo gruppo che adotta
l'euro), quelle che uniscono i territori dell'area shengen; quelle che uniscono i paesi che
tentano di costruire una rete di difesa.
Trattato di Nizza
Con il trattato di Nizza è stata accolta l'adesione di 12 nuovi Stati 10 dei quali hanno fatto il
loro ingresso nel 2004. È stata proclamata la Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione ed
è stata modificata la composizione degli organi comunitari.
Il nuovo testo apporta ai trattati preesistenti modifiche estremamente tecniche ma
indispensabili per delineare il nuovo equilibrio istituzionale dell’Unione. A differenza dei
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precedenti trattati non fissa nessun obiettivo di ampio respiro, come poteva essere la
realizzazione dell'unione doganale per il trattato di Roma, il mercato interno per l'atto unico o
la moneta unica per il trattato di Maastricht, ma delinea un quadro istituzionale dell'Unione che
consentirà di assorbire in modo efficace il più grande allargamento della sua storia.
Fra le novità più significative introdotte nel trattato ricordiamo:
o la loro ripartizione del numero dei rappresentanti degli Stati membri nelle istituzioni e
negli organi comunitari (Parlamento, commissione, consiglio economico e sociale,
comitato delle regioni). Per il consiglio, invece, è stata introdotta una nuova
ponderazione dei voti2;
o l'ampliamento dei poteri del presidente della Commissione Europea, che ora si
viene attribuito un vero e proprio potere direttivo sul collegio, o la possibilità di decidere
sulla struttura interna, sulla nomina dei vicepresidenti e con la facoltà di richiedere le
dimissioni di un commissario;
o una drastica riduzione dei casi in cui il consiglio deve deliberare all'unanimità. Con il
nuovo trattato la regola per l'adozione delle decisioni in seno al consiglio è costituita
dalla votazione a maggioranza qualificata, mentre restano residuali le ipotesi di
votazioni con il consenso di tutti gli Stati membri;
o Le modifiche all'ordinamento giudiziario comunitario. Per poter assorbire l'aumento
del carico di lavoro la competenza del Tribunale di primo grado è estesa anche ad altre
materie in precedenza di esclusiva competenza della Corte. In pratica si viene a creare
un vero e proprio doppio grado di giurisdizione tra Tribunale e la Corte;
o l'introduzione di una procedura di preavviso nel caso in cui siano contestate violazioni
dei diritti fondamentali da parte di uno Stato membro. Prima di adottare decisioni gravi,
infatti, il consiglio può, dopo aver sentito lo Stato interessato, rivolgergli appropriate
raccomandazioni;
o uno snellimento delle procedure per poter procedere ad una cooperazione rafforzata,
attraverso la soppressione del diritto di veto in precedenza attribuito agli Stati membri.
Il trattato di Roma o costituzione europea
Il 20 ottobre 2004 a Roma è stata sottoscritta la costruzione dell'Europa che entra in vigore
gradualmente. La costituzione europea si compone di un preambolo è di quattro parti.
Il preambolo esprime la convinzione che l'Europa possa proseguire il suo cammino integrazione
per il progresso di civiltà, economico, politico e per il bene di tutti i suoi abitanti.
2 Ponderazione dei voti Con l’adozione del sistema della ponderazione nell’ambito delle organizzazioni internazionali viene attribuito ai voti di ciascuno Stato membro un peso diverso a seconda dell’importanza economica, demografica o politica; rappresenta una deroga al principio generale della piena uguaglianza degli Stati nei diritti e nei doveri.Il sistema del voto ponderato è adottato in ambito comunitario per le decisioni assunte dal Consiglio dell’Unione europea , quando per la decisione è richiesta la votazione a maggioranza qualificata; in questo caso viene attribuito un numero di voti più alto ai paesi maggiori (Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia) e, proporzionalmente, un numero inferiore agli altri Stati.
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La prima parte contiene norme che definiscono gli obiettivi e le competenze dell'unione
regolano la dignità degli organi costituzionali, stabiliscono le caratteristiche degli atti normativi
dell'unione europea.
La seconda parte recepisce la carta dei diritti fondamentali dell'unione, proclamata nel vertice
di Nizza nel 2000.
La terza parte contiene disposizioni specifiche dell'esercizio delle competenze spettanti
all'unione europea.
La quarta parte contiene disposizioni specifiche dalle quali va ricordato l'articolo 2 nel quale si
stabilisce che l'entrata in vigore della nuova costituzione porta all'abrogazione di tutti trattati
precedenti.
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Le organi dell'unione europea
Le istituzioni principali dell'Unione Europea sono:
Consiglio europeo
art. 4 Trattato sull’Unione europea
Il Consiglio Europeo è nato inizialmente come un organo informale di cooperazione politica che
riuniva almeno due volte l’anno i capi di Stato e di governo dei diversi Stati membri. Non era
un organo previsto dai Trattati istitutivi delle Comunità e doveva originariamente svolgere un
ruolo di stimolo per le più importanti iniziative politiche della Comunità nonché dirimere le
controversie di notevole rilevanza politica ed economica sorte in seno al Consiglio
dell’Unione europea. Le riunioni di questo organo erano molto informali: soltanto in seguito
esse hanno assunto una ben definita cadenza (che in genere coincide con la fine della
presidenza semestrale di ciascuno Stato membro) e rappresentano ormai un appuntamento
molto importante nella definizione delle linee d’azione della Comunità.
Il riconoscimento formale del fondamentale ruolo assunto nel corso degli anni è avvenuto
dapprima con l’Atto unico europeo e poi più esplicitamente con il Trattato di Maastricht.
Secondo l’articolo 4, infatti, spetta a quest’organo dare “all’Unione l’impulso necessario al suo
sviluppo e ne definisce gli orientamenti politici generali”. Con il secondo comma si stabilisce,
invece, che il Consiglio riunisce almeno due volte l’anno i capi di Stato e di governo nonché il
Presidente della Commissione; di fatto si formalizza una procedura ormai già ampiamente
collaudata da diversi anni.
Da tale norma si evince che:
o il Consiglio europeo è un organo delle Comunità (si parla infatti di “Stati membri”);
o le sue competenze non sono stabilite, pertanto si può ritenere che, secondo la prassi
già instauratasi, esso possa continuare a svolgere attività di orientamento politico;
o di conseguenza, il Consiglio, dal punto di vista giuridico è privo di poteri decisionali, in
quanto non è prevista una competenza di attribuzione, ad eccezione di quanto dispone
in merito il Trattato di Maastricht.
Discussa è la natura degli atti adottati dal Consiglio europeo, anche se si propende per la
valenza politica, più che giuridica degli stessi; ciononostante, non bisogna privare del giusto
rilievo le deliberazioni del Consiglio europeo.
Nonostante il Consiglio europeo non sia l’organo legislativo della Comunità, il Trattato di
Maastricht ha contemplato due casi in cui lo stesso esercita poteri decisionali:
• unione economica e monetaria. Il Consiglio europeo ha provveduto a stabilire nel mese
di maggio ’98 quali Stati rispettavano i criteri di convergenza3 e potevano pertanto
procedere sulla strada della moneta unica;
3 Criteri di convergenza Complesso di requisiti in materia economica e finanziaria richiesti affinché si potesse procedere alla terza fase dell’unione economica e monetaria tra gli Stati membri della Comunità europea.
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• politica estera e di sicurezza comune. Spetta al Consiglio europeo definire gli
orientamenti generali e le strategie comuni sulla cui base dovrà operare il Consiglio dei
ministri.
Il Trattato di Amsterdam ha in seguito provveduto a conferire al Consiglio altre attribuzioni in
materia di:
• cooperazione rafforzata4. In questo caso il compito è quello di dirimere eventuali
contrasti nati dall’opposizione di uno Stato alla concessione dell’autorizzazione a
procedere alla cooperazione rafforzata (art. 11 Trattato CE);
• sanzioni a carico degli Stati che non rispettano i diritti umani. È compito del
Consiglio constatare una violazione grave e persistente dei diritti fondamentali
dell’uomo e comminare (nonché successivamente revocare) la relativa sanzione (art. 7
TUE);
• occupazione. Riceve dalla Commissione e dal Consiglio dell’Unione una relazione
annuale sulla situazione occupazionale e adotta le conclusioni del caso; su questa base
saranno elaborati gli orientamenti di cui dovranno tener conto gli Stati membri nelle
rispettive politiche in materia di occupazione (art. 128 Trattato CE).
Commissione delle Comunità europee
artt. 211-219 Trattato CE; Regolamento interno 18 settembre 1999
La Commissione unica delle Comunità europee, istituita nel 1965 col Trattato di fusione degli
esecutivi, ha ereditato le competenze precedentemente attribuite dal Trattato di Parigi all’Alta
Autorità della CECA e dai Trattati di Roma alla Commissione della CEE e dell’Euratom.
Per le sue funzioni e per le sue caratteristiche di indipendenza rispetto ai governi degli Stati
membri, la Commissione è l’istituzione delle Comunità europee che presenta più evidenti
caratteri di originalità.
La Commissione è nominata, attraverso una procedura che si articola in varie fasi:
— i governi degli Stati membri designano la persona che intendono nominare Presidente
della Commissione; la nomina è approvata dal Parlamento europeo;
— i governi procedono poi alla designazione degli altri membri della Commissione di comune
accordo con il Presidente designato;
Gli indicatori del rispetto dei criteri di convergenza stabiliti dal protocollo allegato al Trattato di Maastricht sono: — l’inflazione. Il tasso d’inflazione rilevato in tutti gli Stati membri non può superare di 1,5% quello dei tre Stati membri con il più basso tasso d’inflazione rilevato su base annua; — le finanze pubbliche. Il disavanzo pubblico, o meglio l’indebitamento netto della pubblica amministrazione non deve essere superiore al 3% del PIL; inoltre il debito netto della Pubblica Amministrazione non deve superare il 60% del PIL; — i tassi d’interesse. I tassi d’interesse a lungo termine di ciascuno Stato membro non devono essere superiori del 2% rispetto a quelli adottati dai paesi che possono vantare la migliore performance in termini di stabilità dei prezzi; — la moneta. Nei due anni che precedono la verifica dei criteri di convergenza la moneta nazionale deve aver rispettato il proprio margine di oscillazione nell’ambito dello SME e, quindi, non deve aver subìto svalutazioni volontarie. La verifica del rispetto di criteri di convergenza era affidata all’IME che nel mese di marzo 1998 ha presentato il suo rapporto conclusivo. Sulla base di tale documento il Consiglio ha deciso quali Stati potevano entrare a far parte sin dall’inizio del club dei paesi che adottano l’euro. 4 Principio della cooperazione rafforzata Principio che attribuisce agli Stati membri che intendano perseguire determinate politiche comuni, a procedere anche in assenza di una volontà comune.
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— il Parlamento europeo è chiamato ad esprimere un voto di approvazione sul collegio così
formato: dopodiché avrà luogo la nomina della Commissione nel suo complesso da parte dei
governi, che agiscono di comune accordo.
Il ruolo del Presidente è stato rafforzato dal Trattato di Amsterdam sotto due profili. In
primo luogo partecipa attivamente alla scelta degli altri commissari (in precedenza era solo
consultato) e in secondo luogo si vede attribuire un vero ruolo di leadership, dal momento che
l’art. 219 specifica che “la Commissione agisce nel quadro degli orientamenti politici del suo
Presidente”.
La Commissione deve comprendere almeno un cittadino di ciascuno Stato membro e non più di
due membri aventi la cittadinanza di uno stesso Stato (art. 213).
Anche se i trattati tacciono in tal senso, la prassi è che gli Stati maggiori accreditano due
rappresentanti nella Commissione. Attualmente la Commissione è formata da 20 membri:
due membri per la Francia, l’Italia, il Regno Unito, la Germania e la Spagna e uno per gli altri
Stati.
Il mandato dei commissari dura cinque anni ed è rinnovabile. Al suo interno la Commissione
può nominare uno o due vicepresidenti (art. 217). I Commissari sono nominati a titolo
individuale e devono esercitare “le loro funzioni in piena indipendenza” (art. 213).
La loro indipendenza è tutelata da una serie di norme che creano dei precisi obblighi a carico
dei singoli commissari e, correlativamente, per gli Stati membri. Al fine di garantire la massima
indipendenza e trasparenza all’attività dell’istituzione, la Commissine ha adottato, nell’ambito
del programma di riforma la Commissione di domani, tre codici di condotta che fissano le
regole di comportamento e funzionamento della futura commissione. Pertanto la Commissione
(così come la Corte di Giustizia e il Parlamento e a differenza del Consiglio) è un organo
formato da individui e non da rappresentanti degli Stati, ed agisce nell’esclusivo interesse della
Comunità.
Le volizioni dei singoli componenti della Commissione che concorrono a formare la volontà
dell’organo collegiale, non sono, dunque, riferite agli Stati membri d’appartenenza, ma restano
volizioni individuali e solo la volontà collegiale dell’organo viene in rilievo divenendo così
imputabile alla Comunità nel suo complesso. A conferma di tale indipendenza gioca il fatto che
i membri della Commissione non possono essere rimossi né dai governi nazionali, né dal
Consiglio. Un provvedimento in tal senso può essere preso solo dal Parlamento attraverso la
cd. mozione di censura.
L’art. 218 stabilisce che la Commissione fissa il proprio regolamento interno in piena
autonomia e provvede alla sua pubblicazione. Tale regolamento, del 18 settembre 1999, indica
sistematicamente i criteri di organizzazione del lavoro della Commissione, il quorum per la
validità delle riunioni, i rapporti fra la Commissione e i servizi da essa dipendenti. All’atto
dell’insediamento la Commissione organizza il proprio lavoro ripartendo fra i suoi membri i
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compiti di supervisione dell’attività delle varie unità amministrative nelle quali è articolata la
propria struttura burocratica: direzioni generali, uffici, servizi autonomi.
I poteri della Commissione possono essere distinti in tre grandi gruppi:
- funzione di proposta o iniziativa legislativa;
- funzione esecutiva: tale funzione si sostanzia nella emanazione di atti di esecuzione, cioè di
regolamenti comunitari destinati ad integrare altri regolamenti emanati dal Consiglio, e
nella vigilanza sull’osservanza dei trattati:
- funzione di rappresentanza: la Commissione rappresenta la Comunità sia in ciascuno degli
Stati membri che nei rapporti con gli altri Stati. Sono sue prerogative: la negoziazione di
accordi, le relazioni internazionali e i rapporti con le altre organizzazioni internazionali.
È un organo esecutivo delle comunità in quanto il suo compito principale è quello di far
applicare il trattati e gli atti comunitari, oltre che la gestione delle varie politiche comuni.
È un organo indipendente in quanto i commissari sono nominati a titolo individuale e non
rappresentano negli stati da cui provengono né alcun gruppo di interesse esterno.
È un organo collegiale per cui tutte le delibere vengono riferite sempre alla commissione nel
suo complesso.
È un organo tempo pieno che si riunisce almeno una volta alla settimana e ciò giustifica
l'incompatibilità prevista per i membri della commissione con qualsiasi altra carica.
Per il ruolo che essa svolge e per le sue caratteristiche di dipendenti la commissione è
istituzione della comunità europea che rasenta l'evidente carattere di originalità.
La Commissione Europea è un organo permanente ed i suoi membri rimangono in carica fino al
termine del loro mandato;
Il Consiglio Europeo
Organo decisionale della Comunità composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro
a livello ministeriale. Esso provvede anche al coordinamento delle politiche economiche
generali degli Stati membri nonché a svolgere funzioni esecutive.
L’attuale denominazione di Consiglio dell’Unione europea è stata adottata l’8 novembre
1993 in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, il quale ha stabilito che tale
organo è competente anche in materia di politica estera e di sicurezza comune (PESC) e di
cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Nella prassi si usa distinguere un
Consiglio Affari generali tenuto a livello dei ministri degli esteri, dai Consigli settoriali che
riuniscono i ministri di volta in volta competenti (agricoltura, lavoro ecc.).
Il più noto di tali Consigli, anche per il rilevante ruolo che assume nell’ambito della politica
economica e monetaria, è quello che riunisce i Ministri economici e finanziari, noto come
Consiglio Ecofin. Il motivo di questa distinzione è puramente pratico e consiste nel distribuire
le sessioni del Consiglio trattando di volta in volta argomenti omogenei.
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Le funzioni attribuite in questo organo sono indicate nell’art. 202 del Trattato CE.
Al Consiglio spetta un potere decisionale vero e proprio. Questo potere però non è illimitato in
quanto è subordinato alle condizioni poste dal trattato: ciò significa che il Consiglio può
prendere quei provvedimenti che sono, materia per materia, previsti dai trattati istitutivi.
Il potere decisionale del Consiglio si esplica:
— nell’emanazione di atti normativi secondo la Procedura di codecisione o la
Procedura di cooperazione;
— nella formazione ed adozione del bilancio comunitario che condivide con il
Parlamento europeo;
— nella conclusione degli accordi con Stati terzi precedentemente negoziati dalla
Commissione.
Il Consiglio, inoltre, ha un potere di controllo sul rispetto dei trattati e degli atti comunitari da
parte degli Stati membri o, comunque, dei destinatari di questi atti. Questo potere è però
indiretto poiché il Consiglio ha competenza generale a promuovere ricorsi in questo ambito
dinanzi alla Corte di Giustizia delle Comunità europee.
Infine, nel settore dell’unione economica e monetaria il Consiglio è responsabile, su
raccomandazione della Commissione, del coordinamento e della sorveglianza multilaterale
delle politiche nazionali di bilancio.
L’accrescersi col tempo della mole del lavoro comunitario, insieme alla sempre più sentita
esigenza di un più costante contatto tra Consiglio e Commissione, ha fatto sì che con il
Trattato sulla fusione degli esecutivi del 1965 venisse istituito un Comitato dei
rappresentanti permanenti degli Stati membri, costituito dalle rappresentanze diplomatiche
presso le Comunità.
La presidenza del Consiglio è esercitata a turno dagli Stati membri ogni semestre.
Le votazioni in seno al Consiglio sono prese a maggioranza semplice, a maggioranza
qualificata ovvero all’unanimità a seconda delle materie in discussione; quando è prevista la
votazione a maggioranza qualificata i voti dei singoli Stati membri vengono opportunamente
ponderati. Il Trattato di Amsterdam ha esteso il campo delle decisioni per le quali è sufficiente
la maggioranza qualificata dei voti.
Il Consiglio è assistito da un Segretariato Generale posto sotto la direzione di un Segretario
Generale, nominato dal Consiglio all’unanimità. Il calendario delle riunioni del Consiglio non è
rigido, anche se un certo numero di riunioni viene pianificato anno per anno, e anche se in
realtà il Consiglio si riunisce con notevole frequenza, di solito a Bruxelles o a Lussemburgo
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Parlamento europeo
artt. 189-201 Trattato CE
Istituzione delle Comunità europee, prevista dai trattati istitutivi, originariamente denominata
Assemblea; l’attuale denominazione è stata adottata il 30 marzo 1962.
Il Parlamento europeo si compone, attualmente, di 626 membri. A seguito della crescita del
numero dei parlamentari europei, dovuta alle nuove adesioni, il Trattato di Amsterdam ha
stabilito che in futuro essi non potranno essere in numero superiore a 700.
Ha sede a Strasburgo, ogni Stato ha diritto a un numero di parlamentari proporzionale al
numero dei suoi elettori quindi nel 2009 il numero totale non potrà essere superiore a 750,
ogni Stato potrà avvenire massimo sei seggi.
I membri del Parlamento europeo, in base ai trattati istitutivi, venivano designati dai singoli
Parlamenti nazionali, secondo le procedure stabilite da ciascuno Stato membro. La ripartizione
dei seggi tra gli Stati, inoltre, era stata attuata sulla base del loro diverso peso politico e
demografico, pur essendo stata garantita un’adeguata rappresentatività degli Stati minori. A
partire dal giugno 1979, sulla base della decisione del Consiglio n. 787 del 20 settembre 1976,
i membri del Parlamento europeo sono eletti in ogni Stato membro tramite suffragio universale
diretto e restano in carica per cinque anni.
Secondo quanto disposto dall’art. 10 del regolamento interno dell’istituzione, la sessione del
Parlamento europeo ha durata annuale. Il quorum per la validità della seduta è di un terzo dei
membri del Parlamento. All’inizio della sessione viene eletto il Presidente del Parlamento
europeo, che dirige i dibattiti e gode di vasti poteri disciplinari, e l’Ufficio di Presidenza del
Parlamento europeo.
Le deliberazioni del Parlamento europeo sono adottate a maggioranza assoluta dei suffragi
espressi (art.198), a meno che i trattati non dispongano diversamente; di solito si vota per
alzata di mano, ma può anche essere richiesto l’appello nominale.
Nato come organismo dotato di meri poteri consultivi, che si traducevano nell’emanazione di
un parere mai vincolante, il Parlamento europeo ha assunto un ruolo sempre più determinante
nel corso degli anni, colmando in parte il deficit democratico5 che caratterizzava l’originario
assetto istituzionale. Con l’Atto unico europeo, infatti, furono introdotte la procedura di
cooperazione, primo tentativo di inserire il Parlamento nel procedimento legislativo, e la
procedura del parere conforme. In seguito, le disposizioni del Trattato di Maastricht prima e
di quello di Amsterdam poi, hanno conferito al Parlamento europeo un ruolo determinante in
5 Deficit democratico Con questa espressione si fa riferimento agli scarsi poteri attribuiti, in ambito europeo, all’istituzione che più direttamente è espressione del corpo elettorale, il Parlamento europeo, mentre maggiore è il peso delle altre istituzioni i cui membri sono nominati dagli Stati, la Commissione delle Comunità europee ed il Consiglio dell’Unione europea. Tuttavia occorre ricordare che il ruolo del Parlamento europeo si è andato evolvendo nel corso degli anni. Infatti, mentre agli albori della sua attività gli erano attribuite esclusivamente funzioni consultive e di controllo politico, si è in seguito provveduto ad un ampliamento dei suoi poteri, soprattutto attraverso una sua più incisiva partecipazione al procedimento legislativo. Al concetto di deficit democratico hanno fatto riferimento soprattutto coloro i quali sostenevano la necessità di un contributo ancor più efficace del Parlamento europeo nell’ambito dell’iter decisionale comunitario, al fine di elevarlo a vero e proprio co-legislatore con il Consiglio.
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materia legislativa: pur senza attribuirgli la titolarità esclusiva del potere normativo, gli è stato
concesso di inserirsi a pieno titolo nel procedimento di formazione degli atti comunitari,
attraverso l’istituzione della procedura di codecisione e l’attribuzione al Parlamento di un
parziale potere d’iniziativa legislativa.
Il Parlamento europeo è titolare anche di poteri di controllo, che, unitamente a quelli
deliberativi, costituiscono una delle fondamentali prerogative di questa istituzione.
I poteri di controllo del Parlamento possono così suddividersi:
o controllo sugli atti delle istituzioni. Per quanto riguarda il Consiglio, tale controllo
riguarda essenzialmente il bilancio comunitario, mentre quello esercitato sulla
Commissione ha per oggetto la Relazione generale che tale istituzione è tenuta a
presentare annualmente al Parlamento;
o controllo sul bilancio;
o controllo sulle istituzioni. Nei confronti della Commissione, il Parlamento dispone di
un effettivo strumento di controllo giuridico rappresentato dalla mozione di censura;
sul Consiglio, invece, esercita un controllo politico attraverso pareri consultivi e
interrogazioni;
o controllo sull’apparato amministrativo. Si tratta di forme di controllo volte a
salvaguardare i diritti dei membri della Comunità, siano essi Stati, persone fisiche o
persone giuridiche. Tale forma di tutela è volta ad assicurare l’effettiva e corretta
applicazione del diritto comunitario nei confronti dei suoi destinatari. Le innovazioni più
significative alla luce del Trattato sull’Unione riguradano la possibilità per il Parlamento
di costituire una Commissione temporanea d’inchiesta, di nominare un Mediatore
europeo e di ricevere petizioni su materie di interesse comunitario.
Elezione del Parlamento europeo
art. 190 Trattato CE; Decisione 20 settembre 1976 n. 787/76/CEE, CECA, Euratom
A partire dal giugno 1979 i membri del Parlamento europeo vengono eletti in ogni Stato
membro tramite suffragio universale diretto, per un periodo di cinque anni. In precedenza i
membri del Parlamento europeo erano delegati dai rispettivi Parlamenti nazionali (l’elezione,
quindi, avveniva in secondo grado) e potevano essere designati solo coloro che avevano un
mandato nazionale. Le modalità di designazione non erano uniformemente stabilite, ma fissate
autonomamente da ogni Stato membro.
L’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo era già prevista dai trattati
istitutivi delle Comunità (art. 21 Trattato CECA, art. 108 Trattato Euratom e art. 138 Trattato
CEE). Questi, oltre ad indicare il sistema di elezione dei parlamentari europei delegati come
provvisorio, affermavano che il Parlamento europeo avrebbe elaborato progetti volti alla
realizzazione di una procedura di elezione uniforme per tutti gli Stati membri.
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Tra il 1951 e il 1976 si sono succeduti numerosi progetti volti all’istituzione della procedura di
elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo, ma nessuno di essi ha mai
trovato concreta attuazione. Con l’atto del Consiglio del 1976 la questione della procedura
elettorale fu accantonata, lasciando liberi gli Stati membri di adottare la propria procedura. In
compenso il citato atto stabilì la data della prima elezione a suffragio universale (1979) e dettò
alcune regole per lo svolgimento delle consultazioni elettorali. In particolare fu stabilito che le
elezioni si svolgessero alla scadenza del mandato del Parlamento quasi contemporaneamente
in tutti gli Stati membri, in un giorno, scelto da ciascuno Stato, nell’ambito di un unico periodo
che va dal giovedì alla domenica successiva. In tutti gli Stati membri le elezioni europee si
svolgono ora secondo il sistema proporzionale; per le elezioni del 1999 anche il Regno Unito ha
abbandonato il sistema maggioritario.
L’armonizzazione delle procedure elettorali è prevista anche dal Trattato di Amsterdam, che
ha modificato l’art.138 del Trattato CE (ora art.190) affermando che “il Parlamento europeo
elaborerà un progetto inteso a permettere l’elezione a suffragio universale diretto, secondo una
procedura uniforme in tutti gli Stati membri o conformemente a principi comuni a tutti gli Stati
membri”. In pratica, con l’aggiunta di quest’ultimo periodo, gli Stati membri hanno preso atto
delle difficoltà nello stabilire una procedura applicabile su tutto il territorio comunitario e hanno
optato per un semplice ravvicinamento delle diverse legislazioni nazionali stabilendo dei
principi comuni. In attuazione di tale articolo, il 2 giugno 1998 la Commissione per gli affari
istituzionali del Parlamento europeo ha elaborato una relazione contenente i principi comuni di
cui all’art.190, proponendo l’elezione dei rappresentanti al Parlamento con un sistema
elettorale di tipo proporzionale e con l’istituzione di circoscrizioni elettorali uniformi in ciascuno
Stato membro
Presidente del Parlamento europeo
art. 197 Trattato CE; artt. 14, 17-19 Regolamento interno del Parlamento europeo
È eletto per due anni e mezzo dal Parlamento a maggioranza assoluta dei voti espressi, nei
primi tre turni; al quarto turno si procede al ballottaggio tra i due candidati più votati dei turni
precedenti.
Il Presidente forma, insieme ai quattordici vicepresidenti del Parlamento europeo e ai cinque
questori, l’Ufficio di presidenza.
Il Presidente, che riveste un ruolo politico di primaria importanza, esercita le seguenti funzioni:
o di protocollo e di rappresentanza;
o dirige i lavori e i dibattiti del Parlamento, esercitando anche poteri disciplinari per
regolare lo svolgimento delle discussioni;
o è invitato ad esprimersi all’inizio dei lavori del Consiglio europeo.
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Egli inoltre svolge un ruolo di notevole importanza nel dialogo tra le diverse istituzioni della
Comunità: ad esempio insieme al Presidente della Commissione e al Presidente del Consiglio
partecipa alle riunioni per risolvere le questioni sull’attribuzione delle spese in bilancio.
Ufficio di Presidenza del Parlamento europeo
art. 197 Trattato CE; artt. 5, 9,11, 17, 21-30, 166, 182, 183 Regolamento interno del
Parlamento europeo
Organo del Parlamento europeo composto, oltre che dal Presidente, da quattordici
vicepresidenti e da cinque questori, in carica per due anni e mezzo. Questi ultimi svolgono
funzioni consultive e sono incaricati di compiti amministrativi e finanziari riguardanti
direttamente i deputati.
All’Ufficio di Presidenza sono attribuiti i seguenti compiti:
— adotta decisioni di carattere finanziario, organizzativo e amministrativo relative ai
deputati, all’organizzazione interna del Parlamento, al suo Segretario e ai suoi organi;
— disciplina le questioni relativa allo svolgimento delle sedute;
— organizza la segreteria del gruppo dei non iscritti, nonché la loro posizione e le loro
prerogative parlamentari;
— nomina il Segretario generale e stabilisce l’organigramma del Segretariato generale;
— decide sulla richiesta delle commissioni parlamentari di svolgere altrove le proprie
riunioni, nonché di organizzare un’udienza di esperti qualora lo ritengano necessario;
— stabilisce il progetto preliminare dello stato di previsione del Parlamento.
Segretariato generale
Organo complesso delle organizzazioni internazionali, avente funzioni di assistenza
amministrativa e tecnica di altri organi dell’organizzazione medesima. La struttura e le funzioni
del segretariato generale sono analiticamente disciplinate dalle Convenzioni istitutive e dai
relativi regolamenti di attuazione dell’organizzazione in cui è incardinato. I componenti del
segretariato generale rivestono la qualifica di funzionari internazionali
Commissioni parlamentari
artt. 150-167 Regolamento interno Parlamento europeo
La maggior parte dei lavori del Parlamento europeo è svolta all’interno di commissioni
permanenti specializzate, individuate dal regolamento interno dell’istituzione.
Tali commissioni (attualmente in numero di 17) sono suddivise a loro volta in
sottocommissioni, e sono incaricate di esaminare tutte le questioni di loro competenza
sottoposte dal Parlamento.
I membri delle commissioni sono inizialmente designati dai gruppi politici e dai deputati non
iscritti; successivamente spetta alla Conferenza dei presidenti presentare una propria proposta,
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che, se non viene modificata dall’Assemblea, costituisce la fase finale di nomina. I membri
delle commissioni durano in carica due anni e mezzo. La composizione delle varie commissioni
riflette, per quanto possibile, la composizione del Parlamento.
Oltre alla normale attività legislativa, le commissioni redigono anche rapporti di carattere non
legislativo, comprendenti proposte di risoluzioni o di iniziative diverse.
Accanto alle commissioni permanenti è possibile istituire, su proposta della Conferenza dei
presidenti, commissioni temporanee o d’inchiesta, con un mandato che non può superare i
dodici mesi (a meno che il Parlamento non prolunghi questo periodo alla sua scadenza).
Commissioni parlamentari permanenti
I Affari esteri e sicurezza - (AFET)
II Bilanci - (BUDG)
III Controllo bilanci - (CONT)
IV Libertà, diritti dei cittadini, giustizia e affari interni - (LIBE)
V Affari economici e monetari - (ECON)
VI Questioni giuridiche e mercato interno - (SURI)
VII Industria, commercio estero, ricerca, energia - (INDU)
VIII Occupazioni e affari sociali - (EMPL)
IX Ambiente, sanità e politica dei consumatori - (ENVI)
X Agricoltura e sviluppo rurale - (AGRI)
XI Pesca - (PECH)
XII Politica regionale, trasporti e turismo (REGI)
XIII Cultura, gioventù, istruzione, mezzi d’informazione e sport - (CULT)
XIV Sviluppo e cooperazione - (DEVE)
XV Affari costituzionali - (AFCO)
XVI Diritti della donna e pari opportunità (FEMM)
XVII Petizioni - (PETI)
Corte di Giustizia delle Comunità europee
artt. 220-245 Trattato CE; Protocollo 17 aprile 1957
La Corte di Giustizia assicura il rispetto del diritto comunitario nell’interpretazione e
nell’applicazione dei Trattati e degli atti normativi derivati.
Così come il Parlamento europeo, la Corte è unica per le tre Comunità, avendo assorbito le
competenze precedentemente spettanti alla Corte di Giustizia della CECA.
La Corte di Giustizia ha una competenza di attribuzione nel senso che può intervenire solo nei
casi espressamente previsti dai trattati. Gli articoli 221-224 del Trattato CE regolano la
composizione della Corte. Inizialmente di essa facevano parte sette giudici, assistiti da due
avvocati generali. In seguito all’adesione di nuovi Stati alla Comunità il numero dei giudici e
quello degli avvocati è aumentato: attualmente è di 15 giudici e 8 avvocati generali. Sia i
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giudici che gli avvocati sono nominati di comune accordo dai governi degli Stati membri. L’art.
223 del Trattato CE precisa che essi debbono essere scelti fra “personalità che offrano tutte le
garanzie di indipendenza, e che riuniscano le condizioni richieste per l’esercizio, nei rispettivi
paesi, delle più alte funzioni giurisdizionali, ovvero che siano giureconsulti di notoria
competenza”.
I giudici e gli avvocati generali restano in carica sei anni, ma ogni tre anni avviene un
rinnovamento parziale; il mandato è rinnovabile.
La Corte nomina ogni tre anni il Presidente, che dirige i lavori e le sedute. Le sedute sono di
solito plenarie, ma è possibile creare delle sezioni, composte da tre, cinque o sette giudici.
La ripartizione delle cause tra sezioni è decisa dal Presidente sulla base di criteri di massima
stabiliti dalla Corte. La Corte, tuttavia, si riunisce sempre in seduta plenaria qualora lo richieda
uno Stato membro o un’istituzione comunitaria che è parte dell’istanza.
Infine, è previsto per la Corte un Cancelliere, con importanti funzioni giudiziarie e
amministrative.
Per far fronte al progressivo aumento del carico di lavoro della Corte, l’Atto Unico Europeo ha
previsto la possibilità che, su domanda della Corte stessa e previa convocazione della
Commissione e del Parlamento europeo, il Consiglio potesse istituire una giurisdizione di primo
grado competente a conoscere di talune categorie di ricorsi proposti da persone fisiche o
giuridiche, con riserva di impugnazione davanti alla Corte di Giustizia per motivi di diritto. Dal
1989 la Corte è pertanto affiancata da un Tribunale di primo grado.
La procedura davanti alla Corte comprende una fase scritta, con scambio di memorie fra le
parti, ed una fase orale, introdotta dalla relazione del giudice relatore.
Le udienze della Corte sono di regola pubbliche, diversamente dalle deliberazioni che sono e
restano segrete.
Le sentenze, firmate dal Presidente e dal Cancelliere, devono essere motivate e lette in
pubblica udienza. Esse sono definitive e soggette a revisione soltanto in casi eccezionali; hanno
efficacia vincolante per le parti in causa e forza esecutiva all’interno degli Stati membri, alle
condizioni fissate dall’art. 256 del Trattato CE per le decisioni comportanti obblighi pecuniari a
carico di privati.
Le competenze della Corte sono varie ed eterogenee e riguardano in particolare:
— competenza in tema di inadempimento degli Stati (Ricorso per inadempimento). I
ricorsi sono proponibili dalla Commissione o da uno degli Stati membri;
— controllo di legittimità sugli atti comunitari (Ricorso per annullamento). Tale
controllo si estende agli atti vincolanti del Consiglio dell’Unione europea e della
Commissione, nonché a quelli adottati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal
Consiglio, quelli del Parlamento europeo destinati a produrre effetti nei confronti degli
Stati terzi e quelli della BCE;
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— controllo sul comportamento omissivo delle istituzioni (v. Ricorso in carenza). Sono
legittimati a ricorrere: gli Stati membri, le istituzioni diverse da quella imputata di
carenza nonché le persone fisiche e giuridiche e la BCE limitatamente alle materie che
rientrano nella sua competenza;
— competenza in tema di questioni pregiudiziali (v. Rinvio pregiudiziale). Qualora
davanti ad un giudice ordinario è sollevata una questione di interpretazione dei Trattati
CE o di atti vincolanti adottati dalle istituzioni comunitarie e dalla BCE, il giudice può, o
deve se di ultima istanza, sospendere il processo e chiedere una pronuncia della Corte.
La pronuncia è vincolante nel giudizio in questione e per tutte le eventuali
interpretazioni successive.
Il Trattato di Amsterdam ha previsto che la Corte possa pronunciarsi in via pregiudiziale
sulla validità o sulla interpretazione delle decisioni e delle decisioni-quadro adottate in
materia di cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, nonché
sull’interpretazione delle misure di applicazione delle stesse.
Tribunale di primo grado
art. 225 Trattato CE;
Decisione 24 ottobre 1988, n. 88/591/CECA/CEE/EURATOM;
Decisione 8 giugno 1993, n. 93/350/CECA/CEE/EURATOM
Per far fronte al progressivo aumento del carico di lavoro della Corte di Giustizia l’Atto unico
europeo ha previsto la possibilità che, su domanda della Corte stessa e previa convocazione
della Commissione e del Parlamento europeo, il Consiglio potesse istituire una giurisdizione di
primo grado competente a conoscere di talune categorie di ricorsi proposti da persone fisiche o
giuridiche, con riserva di impugnazione davanti alla Corte di Giustizia per motivi di diritto. Di
qui la decisione del Consiglio del 24 ottobre 1988, n. 591 che ha provveduto ad istituire il
Tribunale di primo grado delle Comunità europee.
L’art. 225 ha recepito con carattere di definitivà tale decisione, nella misura in cui affianca alla
Corte di Giustizia una giurisdizione di primo grado a carattere permanente.
Il Tribunale ha la propria sede in Lussemburgo, presso la Corte di Giustizia.
Esso è composto di 15 membri, nominati di comune accordo dai governi degli Stati membri,
per un periodo di 6 anni con criteri analoghi a quelli seguiti per i membri della Corte. Il
Tribunale siede in sezioni composte di tre o cinque giudici; nei casi previsti dal regolamento di
procedura può riunirsi in seduta plenaria o statuire nella persona di un giudice unico. È lo
stesso regolamento di procedura che provvede a stabilire la composizione delle sezioni.
In via generale le sezioni non sono assistite da un avvocato generale: tuttavia, in casi
particolari, la sezione è tenuta a farne formale richiesta al Tribunale, che deciderà in seduta
plenaria.
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La presenza dell’avvocato generale è prevista invece come continuativa e permanente
nell’adunanza plenaria.
Il Tribunale di primo grado è competente in materia:
— di controversie tra la Comunità ed i suoi agenti;
— di ricorso per annullamento, per carenza e per responsabilità extracontrattuale
promosse da persone fisiche nell’ambito del Trattato;
— di ricorsi per annullamento e per carenza promossi da persone fisiche o giuridiche;
— di ricorsi per responsabilità extracontrattuale delle Comunità promossi da persone
fisiche o giuridiche;
— di ricorsi promossi da persone fisiche o giuridiche contro i provvedimenti emessi nel
campo della protezione commerciale, in caso di dumping e sovvenzioni.
La procedura davanti al Tribunale è fondamentalmente analoga a quella prevista davanti alla
Corte, comprendendo una fase scritta, con scambio di memorie tra le parti, ed una fase orale,
che è introdotta dalla relazione del giudice relatore.
Come quelle della Corte, le udienze del Tribunale sono di regola pubbliche, mentre le sue
deliberazioni sono segrete.
Per la decisione della causa è necessario un quorum di tre giudici, quando è riunito in sezione,
di nove in adunanza plenaria. Alle deliberazioni partecipano solo i giudici intervenuti in
udienza.
Le decisioni del Tribunale sono soggette ad impugnazione davanti alla Corte, alla quale sono
legittimati le parti soccombenti (totalmente o parzialmente), gli Stati membri e le istituzioni
della Comunità (anche se non sono intervenuti in primo grado dinanzi al Tribunale).
Questa particolarità fa sì che, in caso di accoglimento dell’impugnazione proposta da Stati
membri o istituzioni comunitarie non intervenuti in primo grado, la Corte ha facoltà di precisare
gli effetti della decisione del Tribunale da considerarsi definitivi per le partecipazioni.
Lo scopo dell’istituzione del Tribunale è stato quello di esonerare la Corte dall’esame dei fatti in
settori di particolare complessità.
Il principio dell’unicità della giurisdizione resta tuttavia garantito:
— dalla impugnabilità delle sentenze del Tribunale di primo grado dinanzi alla Corte di
Giustizia;
— dalla giurisdizione esclusiva della Corte di Giustizia nei ricorsi contro atti normativi o
atti di interesse generale.
Corte dei conti delle Comunità europee
artt. 246-248 Trattato CE; Regolamento interno 22-23 febbraio 1995
Organo di controllo sulla gestione finanziaria della Comunità, istituito dal Trattato di
Bruxelles (v.) del 22 luglio 1975 ed insediato a Lussemburgo nel 1977.
L’art. 7 del Trattato CE ha elevato la Corte al rango di istituzione comunitaria: ciò spiega il
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trasferimento delle disposizioni ad essa relative nella parte quinta del trattato, che concerne le
“disposizioni istituzionali”.
La Corte è composta attualmente di 15 membri (uno per ogni Stato), nominati dal Consiglio
all’unanimità, dopo consultazione del Parlamento europeo, che restano in carica per 6 anni.
I membri della Corte dei Conti devono essere scelti tra persone competenti, che offrano
garanzia di indipendenza.
Alla Corte è stata attribuita una competenza di controllo generale: essa esamina, in base
all’art. 248 del Trattato CE, i conti di tutte le entrate e le spese della Comunità, nonché di ogni
organismo creato dalla stessa, a meno che l’atto costitutivo non esclude espressamente tale
riesame.
Per lo più si tratta di un controllo formale di legittimità, ossia d’un controllo diretto a verificare
la correttezza e la regolarità della gestione finanziaria. Talvolta la Corte dei Conti esercita
anche un controllo di tipo sostanziale o di efficienza sulla gestione finanziaria considerata nel
suo insieme (POCAR). Questa istituzione, organo di controllo per eccellenza, svolge un ruolo
determinante nei riguardi di quello che è il maggiore documento contabile: il bilancio
comunitario. Ad essa spetta il controllo esterno sulla relativa gestione, unitamente agli atti
della Comunità che impegnano le sue risorse, quando si chiude l’esercizio finanziario oppure in
un momento precedente, quello dell’impegnativa.
Il controllo della Corte si esplica attraverso una relazione, che racchiude i tipi di controllo
effettuati sulla gestione. Tale documento consta di due parti:
— una relativa all’esecuzione del bilancio generale della Comunità;
— l’altra relativa ai fondi europei di sviluppo (FES; FESR).
È in questo modo che la Corte si affianca al Consiglio e al Parlamento europeo nella
responsabile opera di gestione.
Il controllo può essere esercitato sui documenti, ma la Corte possiede anche un potere
d’ispezione che può effettuare sul posto: presso le istituzioni della Comunità e negli Stati
membri, tenuti a collaborare.
Il Trattato di Amsterdam ha esteso tale potere di ispezione anche ai locali di qualsiasi
organismo che gestisca le entrate e le spese per conto delle Comunità compresi i locali di
persone fisiche e giuridiche che ricevono contributi a carico del bilancio comunitario.
Viene inoltre riconosciuto alla Corte il diritto di accedere alle informazioni della BEI,
relativamente alla gestione delle entrate e delle spese della Comunità, attraverso un accordo
fra Banca, Corte e Commissione.
L’art. 248, al secondo comma, fa obbligo alla Corte dei Conti di presentare al Consiglio e al
Parlamento europeo una dichiarazione in cui attesta l’affidabilità dei conti e la legittimità e
regolarità delle relative operazioni.
Accanto alla competenza generale di controllo, la Corte dei Conti dispone inoltre di un generale
potere consultivo nelle materie di sua competenza. Tale funzione può avere carattere:
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— obbligatorio, nei casi previsti dall’art. 279 del Trattato CE;
— facoltativo, ogni qualvolta una delle istituzioni della Comunità richieda il suo parere.
Inoltre la Corte può, in ogni momento, presentare di propria iniziativa le sue osservazioni su
problemi particolari.
Comitato delle Regioni
artt. 263-265 Trattato CE
Organo a carattere consultivo istituito dal Trattato di Maastricht e composto di rappresentanti
delle collettività regionali e locali nominati, su proposta dei rispettivi Stati membri, per quattro
anni dal Consiglio dell’Unione europea che delibera all’unanimità. È formato da 222 membri.
Essi esercitano le loro funzioni in piena indipendenza, nell’interesse generale della Comunità, e
non sono vincolati da alcun mandato.
Il Comitato delle Regioni è convocato dal Presidente, che dura in carica 2 anni, su richiesta del
Consiglio o della Commissione delle Comunità europee, ma può anche riunirsi di propria
iniziativa. Nel consultare il Comitato, il Consiglio e la Commissione fissano, qualora lo ritengano
opportuno, un termine per la presentazione del suo parere; tale termine non può essere
inferiore ad un mese a decorrere dalla data della comunicazione inviata a tal fine al Presidente.
Il Comitato delle Regioni, qualora lo ritenga utile, può formulare un parere di propria iniziativa.
I membri del Comitato (222) sono così suddivisi: Germania, Francia, Italia e Regno Unito 24;
Spagna 21; Belgio, Austria, Svezia, Grecia, Paesi Bassi e Portogallo 12; Danimarca, Finlandia e
Irlanda 9; Lussemburgo 6.
BEI [Banca Europea degli Investimenti]
Istituto finanziario che ha il compito di contribuire, facendo appello al mercato dei capitali ed
alle proprie risorse, allo sviluppo equilibrato della Comunità europea. Dispone di un proprio
capitale, sottoscritto fin dall’inizio dagli Stati membri e periodicamente aumentato.
È stata istituita con il Protocollo del 25 marzo 1957 (atto autonomo allegato al Trattato CE):
essa appoggia quelle iniziative economiche dei singoli Stati membri che i governi nazionali non
sono in grado di finanziare ma la cui realizzazione si rivela di volta in volta opportuna al fine di
attenuare gli squilibri esistenti tra regioni o fra settori produttivi all’interno della compagine
comunitaria.
La BEI non ha fini di lucro e può concedere prestiti sia ai governi che ai privati. Dotata di
propria personalità giuridica distinta da quella della Comunità, è retta dal Consiglio dei
Governatori (responsabile degli indirizzi creditizi), dal Consiglio di amministrazione (che
approva i finanziamenti) e dal Consiglio direttivo (che cura l’attività operativa).
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Mediatore europeo
art. 195 Trattato CE; Decisione 9 marzo 1994, n. 262/94/CE/CECA/EURATOM;
Disposizioni di esecuzione 16 ottobre 1997
Figura introdotta con il Trattato di Maastricht, il mediatore è nominato dopo ogni elezione del
Parlamento europeo per la durata della legislatura e dispone di un mandato rinnovabile. Egli
esercita le sue funzioni in piena indipendenza; per tutta la durata del suo mandato non può
esercitare alcuna altra attività professionale.
Il mediatore è abilitato a ricevere le denunce di qualsiasi persona fisica o giuridica che,
rispettivamente, risieda o abbia sede in uno Stato membro, e di qualsiasi cittadino dell’Unione,
riguardanti i casi di cattiva amministrazione da parte degli organi comunitari, salvo comunque
l’esercizio delle funzioni giurisdizionali da parte della Corte di giustizia e del Tribunale di primo
grado.
Si parla di cattiva amministrazione quando un’istituzione omette di compiere un atto dovuto,
opera in modo irregolare o agisce in maniera illegittima (ad esempio vi sono irregolarità
amministrative, iniquità, discriminazioni, abuso di potere, carenza o rifiuto di fornire
informazioni, ritardi ingiustificati etc. La denuncia può essere presentata al mediatore in una
qualunque delle lingue ufficiali6 dell’Unione, indicando chiaramente le proprie generalità,
l’istituzione o l’organo contro il quale si intende procedere ed i motivi che inducono a farlo. La
denuncia deve essere presentata entro due anni dalla data in cui si è avuta conoscenza dei
fatti contestati. Non è necessario che il denunciante sia stato personalmente vittima del caso di
cattiva amministrazione segnalato, anche se è fondamentale che vi sia stato un precedente
interpello dell’istituzione interessata. La denuncia può essere inoltrata tramite semplice lettere
o utilizzando il formulario predisposto dal mediatore.
Di propria iniziativa, ovvero sulla base delle denunce presentategli direttamente o tramite un
membro del Parlamento europeo, il mediatore compie le indagini necessarie e, qualora constati
un caso di cattiva amministrazione, ne investe l’autorità interessata che, entro 3 mesi, dovrà
pronunciarsi con un parere. Egli trasmette quindi una relazione al Parlamento europeo ed
all’istituzione interessata, mentre la persona che ha sporto denuncia viene informata dei
risultati dell’indagine; annualmente inoltre presenta al Parlamento europeo una relazione sui
risultati delle sue indagini.
La disposizione relativa alla nomina del Mediatore ha trovato la sua prima applicazione nel
mese di luglio del 1995 con la designazione da parte del Parlamento del finlandese Jacob
Sodermann, riconfermato nel 1999.
6 Lingue ufficiali Le lingue ufficiali della Comunità sono attualmente undici: inglese, francese, tedesco, spagnolo, italiano, portoghese, greco, olandese, svedese, finlandese e danese. Sebbene le lingue più usate siano l’inglese e il francese, ogni documento deve essere necessariamente tradotto in tutte le lingue.
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Petizione
art. 194 Trattato CE; artt. 174-176 Regolamento interno del Parlamento europeo
Istanza rivolta al Parlamento europeo su materie rientranti nel campo d’azione della Comunità
europea o in materie che la riguardano direttamente.
Legittimati attivi sono i cittadini dell’Unione europea nonché ogni persona fisica o giuridica che
risiede o abbia la propria sede in uno degli Stati membri: il diritto può essere esercitato sia a
titolo individuale, che a titolo collettivo.
Non si richiedono requisiti formali particolari per redigere la petizione, purché essa contenga le
generalità del richiedente (nome, cognome, nazionalità, professione e domicilio) sia scritta in
maniera chiara e leggibile e sia firmata. La stessa può essere redatta in una delle lingue
ufficiali della Comunità. Una volta ricevuta la petizione, il Parlamento la trasmette ad una
Commissione specializzata (detta appunto Commissione per le petizioni) che ha il compito di
valutare la pertinenza della richiesta.
In caso positivo, dichiarata ricevibile la richiesta, si passa all’esame del merito, dopodiché la
Commissione deciderà le misure da adottare.
Della decisione finale verranno adeguatamente informati, con debita motivazione, gli autori
delle petizioni.
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Le fonti del diritto comunitario
Le fonti del diritto comunitario sono costituite da:
1. trattati costitutivi; che costituiscono il diritto comunitario originario;
2. atti emanati dalle istituzioni comunitarie, costituiscono il diritto comunitario derivato;
3. accordi con Stati terzi.
Le fonti si dividono in tre gradi:
1° i trattati sibillini che hanno bisogno di una legge di autorizzazione alla ratifica e l'ordine di
esecuzione
2° i regolamenti comunitari, direttive, decisioni, atti;
3° i regolamenti della commissione di attuazione degli atti emanati dal consiglio dell'Unione
Europea.
La sfera di applicazione del diritto comunitario coincide con quella dei diritti nazionali comprese
le zone di mare e gli spazi aerei.
a funzione legislativa del Parlamento europeo del consiglio dei ministri.
I principi di diritto comunitario
La corte di giustizia e l'unica istituzione competente ad interpretare le norme comunitarie.i
principi generali del diritto sono mutuati dei sistemi giuridici nazionali esso certezza del diritto
proporzionale dà dell'azione e diretta applicabilità.
La nostra costituzione del 1948 essendo stata emanata prima dell'istituzione della comunità
europea nulla prevede in materia nel nostro paese trattati istitutivi della comunità sono stati
recepiti mediante ordine di esecuzione adottato con legge ordinaria a norma dell'articolo 11
che consente la limitazione di sovranità per assicurare la pace tra paesi.
Principi generali di diritto comunitario
L’individuazione dei principi generali di diritto comunitario è avvenuta ad opera della Corte di
Giustizia che, nello svolgimento della sua funzione volta ad assicurare il rispetto del diritto
nell’interpretazione e nell’attuazione dei trattati, prevista dall’art. 220, ha colmato alcune
lacune normative presenti nei trattati comunitari, dato il loro carattere iniziale prettamente
economico, formando di conseguenza un diritto comunitario non scritto.
In tal senso anche la Corte di Giustizia che, nella sentenza n. 309 del 18 dicembre 1997 ha
affermato che “i principi generali del diritto sono parte integrante dell’ordinamento comunitario
soltanto nella misura in cui sono collegati a situazioni disciplinate dal diritto comunitario”. In
particolare la sentenza fa riferimento alla protezione dei diritti individuali, riconosciuti e tutelati
dall’ordinamento comunitario, ma solo con riferimento a situazioni disciplinate da tale
ordinamento.
I principi generali si pongono al vertice delle fonti di diritto comunitario rientrando nella
categoria del diritto comunitario originario: essi, quindi, non possono essere disattesi dalle
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istituzioni comunitarie né dagli Stati membri nell’esercizio delle proprie competenze.
La Corte di Giustizia è l’unica istituzione competente ad interpretare le norme comunitarie,
ricorrendo ai principi generali e colmando in tal modo le lacune del diritto comunitario.
Si suole distinguere i principi generali in due categorie:
— principi generali di diritto mutuati dai sistemi giuridici nazionali che, essendo comuni ad
ogni ordinamento giuridico, rappresentano la base comune dell’ordinamento
comunitario. Tra di essi si suole ricordare: la certezza del diritto, la irretroattività della
legge penale, la proporzionalità dell’azione amministrativa, il rispetto dei diritti quesiti,
l’affidamento dei terzi in buona fede, la forza maggiore etc.;
— principi generali propri del diritto comunitario. Possono ricavarsi dai testi scritti
dell’ordinamento comunitario o possono desumersi dalla natura e dalle finalità
dell’organizzazione. Rientrano in questo gruppo i principi di solidarietà tra gli Stati
membri, della preferenza comunitaria, del primato del diritto comunitario, del mutuo
riconoscimento, della diretta applicabilità del diritto comunitario, dell’equilibrio
istituzionale etc.
Il Trattato CE richiama espressamente i principi generali di diritto solo all’art. 288 in materia di
responsabilità extracontrattuale della Comunità quando afferma che “la Comunità deve
risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni
cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni”.
Il nucleo centrale dei principi generali, però, è quello che riguarda la tutela dei diritti
fondamentali dell’uomo. L’esigenza di una tutela in tale ambito è stata affermata fin dal 1969
dalla Corte di Giustizia che ha cercato di colmare questa grave lacuna dei trattati comunitari
attraverso la sua giurisprudenza.
Diritto comunitario
Complesso di norme che regolano l’organizzazione e lo sviluppo delle Comunità europee
nonché i rapporti tra queste e gli Stati membri.
Le fonti del diritto comunitario sono costituite:ù
— dai trattati istitutivi, così come integrati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e
modificati da atti successivi cd Diritto comunitario originario;
— dagli atti emanati dalle istituzioni comunitarie costituenti il cd. diritto comunitario
derivato;
— dagli accordi con Stati terzi.
I trattati istitutivi (così come gli accordi con Stati terzi) rappresentano le fonti di 1° grado
dell’ordinamento giuridico comunitario: le norme in essi contenute non potranno quindi essere
disattese dagli atti delle istituzioni comunitarie. Questi atti, ovvero regolamenti comunitari,
direttive, decisioni e altri atti non vincolanti, costituiscono infatti le fonti di 2° grado: il sistema
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normativo è completato dalle fonti di 3° grado costituite da quei regolamenti della
Commissione di attuazione degli atti emanati dal Consiglio dell’Unione Europea.
Le norme dei trattati istitutivi e le modificazioni ed integrazioni convenzionali hanno un impatto
con il nostro ordinamento come una norma internazionale pattizia. È necessaria, quindi, per
l’Italia, la legge di autorizzazione alla ratifica e l’ordine di esecuzione. Viceversa per il diritto
comunitario derivato non occorre una procedura speciale di adattamento, ma si porranno in
essere dei provvedimenti normativi (leggi, decreti legislativi, decreti presidenziali, atti
amministrativi) per l’attuazione dell’atto comunitario.
Per ciò che riguarda la sfera di applicazione territoriale del diritto comunitario, esso coincide
con quella dei diritti nazionali, comprese le zone di mare e gli spazi aerei e i territori europei di
cui uno Stato membro abbia la rappresentanza nei rapporti esterni, ex art. 299, n. 4, Trattato
CE. Per alcuni territori sono poi previsti regimi particolari, quali ad es. i cd. paesi e territori
d’oltremare che sono sottoposti ad uno speciale regime di associazione.
L’ordinamento giuridico comunitario ha bisogno degli ordinamenti nazionali per il
raggiungimento degli obiettivi fissati: gli atti giuridici della Comunità, infatti, non solo devono
essere osservati dagli organi degli Stati membri, ma devono anche essere applicati da questi
ultimi. Questo stretto collegamento tra i due ordinamenti non intacca, tuttavia, il principio
dell’autonomia del diritto comunitario rispetto all’ordinamento giuridico statale.
Questo principio è stato elaborato dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee già nel 1963,
nella famosa sentenza Van Gend & Loos. In quell’occasione, infatti, la Corte aveva affermato
che “la Comunità Economica Europea costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel
campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati membri hanno rinunciato, seppure
in settori limitati, ai loro poteri sovrani ed al quale sono soggetti non soltanto gli Stati membri,
ma pure i loro cittadini”.
L’esigenza di affermare e ribadire con forza il principio dell’autonomia del diritto comunitario
deriva dalla necessità di impedire che quest’ultimo possa essere svuotato nei suoi contenuti da
disposizioni nazionali e garantire una uniforme applicazione su tutto il territorio della Comunità.
In caso contrario, infatti, qualsiasi disposizione nazionale potrebbe introdurre
un’interpretazione restrittiva delle norme comunitarie che non assicurerebbe più una uniforme
applicazione sul territorio della Comunità.
Tuttavia l’autonomia del diritto comunitario non implica una netta separazione o una semplice
sovrapposizione con gli ordinamenti degli Stati membri. A differenza di quanto avviene tra
ordinamento interno e internazionale nel caso delle Comunità si instaura una stretta
integrazione e interdipendenza tra i due ordinamenti.
In quest’ottica può operarsi una distinzione tra:
— rapporto tra ordinamento internazionale e ordinamento interno: in questo caso si deve
parlare di un rapporto di coordinamento, dal momento che sono due ordinamenti
autonomi, ciascuno dei quali non è subordinato all’altro;
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— rapporto tra ordinamento comunitario e ordinamento degli Stati membri: in questo
caso si tratta di un rapporto di integrazione, dato che il primo è destinato ad integrarsi
nel secondo.
Gli elementi dei quali si può desumere l’esistenza di tale rapporto sono i seguenti:
— in primo luogo, tra i due ordinamenti vi è comunità di soggetti, dal momento che i
soggetti dell’ordinamento interno sono anche i destinatari delle norme comunitarie;
— in secondo luogo è riscontrabile una comunità di poteri, in quanto gli organi comunitari
possono talvolta emettere dei comandi che operano direttamente sui soggetti di diritto
interno;
— infine è rilevabile una comunità di garanzie, perchè sia i soggetti di diritto comunitario
che quelli di diritto interno possono adire direttamente gli organi giurisdizionali
comunitari per ottenere il rispetto delle norme comunitarie.
Proprio questa stretta integrazione tra i due ordinamenti potrebbe condurre in alcuni casi a
situazioni di conflitto tra norme comunitarie e disposizioni nazionali, sia anteriori che posteriori,
in particolare per quelle disposizioni che attribuiscono direttamente ai singoli cittadini diritti e
doveri. Tale contrasto, più volte verificatosi nei primi anni di applicazione del Trattato CE, è
stato risolto dalla Corte di Giustizia delle Comunità che, attraverso una costante
giurisprudenza, ha delineato nettamente i due principi cardine che regolano i rapporti tra
ordinamento comunitario e ordinamento degli Stati membri:
— il principio della diretta applicabilità del diritto comunitario;
— il principio della preminenza del diritto comunitario rispetto alla norma conflittuale
statale cd. Principio del primato del diritto comunitario.
Diritto comunitario originario
Insieme delle norme che contengono i principi giuridici fondamentali sui quali si fondano le
Comunità europee. Questi principi rappresentano, insieme agli accordi con Stati terzi, che
traggono la loro validità giuridica dai trattati istitutivi, il cd. diritto primario della Comunità,
in quanto espressione diretta della volontà degli Stati firmatari.
Il diritto comunitario originario comprende i trattati istitutivi delle Comunità europee, compresi
gli allegati e i protocolli, nonché gli atti che nel corso del tempo li hanno modificati e integrati,
come i trattati di adesione, l’Atto unico europeo, il Trattato di Maastricht e il Trattato di
Amsterdam. Le norme in essi contenute non possono essere disattese dagli atti delle istituzioni
comunitarie e non possono essere oggetto di interventi giurisdizionali.
I trattati istitutivi, però, non contengono un’elencazione dettagliata dei principi fondamentali
dell’organizzazione comunitaria. Ciò è dovuto al fatto che la Comunità, nata come unione
economica, ha posto le basi per la regolamentazione di queste discipline; a seguito della sua
evoluzione, l’ambito di applicazione del diritto comunitario si è notevolmente ampliato,
ricomprendendo anche problematiche, quali il rispetto dei diritti umani, che esulano dal settore
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strettamente economico. L’adeguamento quindi dei principi generali alla realtà avviene
attraverso l’opera delle istituzioni comunitarie che, in virtù dei poteri legislativi ed
amministrativi attribuiti loro dai trattati istitutivi, emanano gli atti giuridici delle Comunità.
L’esigenza di dotare le Comunità di un documento contenente i principi giuridici fondamentali si
è tradotta nella proposta, avanzata durante il Consiglio europeo di Tampere dell’ottobre 1999,
di istituire un organo ad hoc incaricato di elaborare un progetto di Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea.
I principi generali che formano il diritto comunitario originario, pur non essendo esplicitamente
ordinati in forma gerarchica, non hanno tutti lo stesso valore. Di alcuni di essi (principio di
democrazia, solidarietà, non discriminazione) la Corte di Giustizia, attraverso la sua
giurisprudenza, ha sancito la maggiore forza e ne ha affermato l’immodificabilità anche
attraverso la procedura di revisione dei trattati.
Diritto comunitario derivato
art. 249 Trattato CE
Insieme di norme giuridiche emanate dagli organi comunitari per la realizzazione degli obiettivi
definiti dai trattati.
Il Trattato istitutivo della Comunità europea, in quanto trattato quadro, si limita a definire i
principi e gli obiettivi generali della Comunità, lasciando alle istituzioni ampi poteri circa la loro
realizzazione attraverso l’emanazione di specifiche norme.
Tali norme costituiscono il cd. diritto derivato, in quanto promanano dalle regole formali
contenute nei trattati. Esse sono pertanto gerarchicamente subordinate ai trattati non potendo
in alcun modo disattendere le norme in essi contenute. L’art. 249 del Trattato CE dispone che
“per l’assolvimento dei loro compiti e alle condizioni contemplate dal presente Trattato, il
Parlamento europeo congiuntamente con il Consiglio, il Consiglio e la Commissione adottano:
regolamenti comunitari e direttive, prendono decisioni e formulano raccomandazioni o
pareri ”.
Per ciò che concerne l’individuazione dello strumento giuridico da utilizzare, generalmente sono
i trattati a precisare quale tipo di atto le istituzioni sono tenute ad adottare. Tuttavia qualora
ciò non sia espressamente indicato dalle disposizioni del trattato o sia concessa alle istituzioni
una scelta tra diverse misure, queste possono discrezionalmente emanare il tipo di atto che
considerano più opportuno.
Accanto agli atti elencati e disciplinati dal trattato esistono poi altri atti che possono essere
emanati dagli organi comunitari, pur sfuggendo alle categorie previste dall’art. 249. Si tratta
dei cd. atti atipici, tra cui rientrano alcuni atti vincolanti come gli atti di autorizzazione e di
concessione e gli atti interni con i quali le istituzioni regolano il proprio funzionamento, e atti
non vincolanti, quali proposte, richieste, dichiarazioni e programmi d’azione.
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Per l’emanazione degli atti comunitari si rende necessaria l’esistenza di alcuni requisiti formali,
quali la motivazione e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee in
ciascuna delle lingue ufficiali della Comunità.
Viene altresì richiesta l’indicazione della loro base giuridica, al fine di poter verificare la
legittimità e la correttezza della procedura osservata per la loro adozione. Si tratta di un
requisito di forma essenziale per la formulazione dell’atto, in quanto l’inosservanza della base
giuridica può comportare il suo annullamento.
Quanto al rapporto fra diritto comunitario derivato e diritto degli Stati membri, mentre per i
regolamenti è lo stesso trattato a prevedere che essi siano obbligatori in tutti i loro elementi e
direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri, per le direttive e le decisioni la diretta
applicabilità è stata riconosciuta soltanto attraverso una costante giurisprudenza della Corte di
Giustizia in tal senso.
Atti vincolanti
art. 249 Trattato CE
Gli atti comunitari giuridicamente vincolanti per gli Stati membri sono:
— i regolamenti comunitari, i quali hanno una portata generale, essendo indirizzati a
tutti gli Stati membri, e direttamente applicabili;
— le direttive che possono avere una portata individuale o generale e non sono
obbligatorie in tutti i loro elementi, in quanto vincolano i destinatari solo riguardo il
risultato da raggiungere lasciando alla loro discrezione la scelta dei mezzi;
— le decisioni, che hanno una portata individuale, vale a dire che sono indirizzate a
singoli Stati membri e sono obbligatorie in tutti i loro elementi.
Regolamenti comunitari
art.249 Trattato CE
I regolamenti sono atti vincolanti emanati dalle istituzioni comunitarie e si caratterizzano per
tre elementi fondamentali: hanno portata generale, essendo indirizzati a tutti i soggetti
giuridici comunitari (Stati membri e persone fisiche e giuridiche degli Stati stessi), sono
obbligatori in tutti i loro elementi e sono direttamente applicabili (Diretta applicabilità del
diritto comunitario). Rappresentano pertanto tipiche norme self-executing, cioè operanti senza
atti di adattamento da parte degli ordinamenti statali.
La Corte di Giustizia ha, con giurisprudenza costante, contribuito a delineare il significato della
diretta applicabilità dei regolamenti, sottolineando l’illiceità di misure nazionali di
trasformazione.
Per quanto riguarda l’obbligatorietà del regolamento, invece, è utile sottolineare che tale
caratteristica non sta ad indicare necessariamente la completezza del regolamento, anzi,
spesso accade che debba essere integrato con misure di esecuzione che possono essere
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adottate sia dalla stessa istituzione che ha emanato il regolamento, sia da un’altra istituzione
comunitaria, sia dalle autorità nazionali.
Il processo di formazione dei regolamenti, in realtà, è abbastanza complesso; essi in genere
sono emanati dal Consiglio su proposta della Commissione. Al processo di formazione di tali
atti viene associato anche il Parlamento europeo, attraverso una delle procedure previste dal
Trattato (Procedura di consultazione; Procedura di cooperazione; Procedura di
codecisione). Il principale requisito formale previsto dai Trattati per i regolamenti è la
motivazione.
Laddove è previsto, devono essere richiesti anche i pareri di altre istituzioni come il Consiglio
economico e sociale ed il Comitato delle Regioni. I regolamenti sono pubblicati sulla Gazzetta
Ufficiale delle Comunità europee ed entrano in vigore dopo un periodo di vacatio legis di 20
giorni, a meno che una data diversa non sia stata indicata nel regolamento stesso
Direttiva
art. 249 Trattato CE; art. 161 Trattato Euratom
È un atto vincolante delle istituzioni comunitarie previsto dall’art. 249 del Trattato istitutivo
della Comunità europea il quale stabilisce che le direttive vincolano lo Stato membro cui sono
rivolte per quanto riguarda il risultato da raggiungere.
Requisiti formali della direttiva sono:
- la portata individuale. Esse hanno come destinatari gli Stati membri (e le imprese nella
CECA). A tal proposito le direttive si distinguono in:
a) generali, se indirizzate a tutti gli Stati membri;
b) individuali o particolari, se indirizzate ad uno o ad alcuni di essi;
— l’obbligatorietà di risultato. A differenza dei regolamenti comunitari e delle
decisioni, le direttive impongono solo l’obbligo di raggiungere un risultato, lasciando
liberi gli Stati di adottare le misure dagli stessi ritenute opportune;
— la motivazione. Le direttive devono essere motivate e devono riferirsi ai pareri
obbligatori o alle proposte previsti dal Trattato.
A causa del loro carattere individuale questi atti devono essere notificati ai destinatari e
acquistano efficacia dalla data della notifica o da una data successiva, se indicata; è tuttavia
invalsa la prassi di pubblicarle anche sulla Gazzetta Ufficiale della Comunità, oltre
naturalmente a notificarle.
Inoltre le direttive fissano un termine per la loro attuazione. Pertanto, se gli Stati membri entro
detto termine non adottano le misure interne di esecuzione, commettono una violazione del
trattato ai sensi dell’art. 226.
Per quanto riguarda l’efficacia, le direttive, secondo l’art. 249, non hanno efficacia diretta, cioè
non producono diritti ed obblighi che i giudici nazionali devono far osservare. Perciò la dottrina
sostiene che le direttive non sono direttamente applicabili, ma hanno un’efficacia mediata
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attraverso i provvedimenti che gli Stati intenderanno adottare, nel rispetto dei principi
fondamentali del Trattato.
Si può ritenere che si possa parlare di efficacia diretta delle direttive quando queste ultime:
— impongono al destinatario del provvedimento di tenere un comportamento di carattere
negativo: in tal caso, infatti, non è necessario nessun provvedimento di esecuzione;
— ribadiscono un obbligo già previsto dal Trattato e quindi già produttivo di effetti,
specificandone solo la portata e i tempi di attuazione;
— contengono con precisione le norme interne che gli Stati sono tenuti ad adottare.
Nell’ordinamento italiano le direttive sono state di regola recepite attraverso leggi ordinarie di
esecuzione per ciascun provvedimento comunitario, modificando in tal modo norme già
esistenti o introducendone di nuove. Questa procedura non ha creato difficoltà fino al 1985,
dato l’esiguo numero di direttive emanate; con l’adozione del Libro bianco sul
completamento del mercato interno, il numero dei provvedimenti comunitari da trasferire
nell’ordinamento italiano cresceva sensibilmente, rivelando l’inadeguatezza della procedura in
vigore. Si è così proceduto, in applicazione dell’art. 76 della Costituzione, all’attuazione delle
disposizioni legislative comunitarie anche mediante leggi delega al Governo, che avrebbe
emanato l’atto normativo (decreto legislativo, regolamento, decreto del Presidente della
Repubblica) necessario, data la natura della materia oggetto di direttiva.
Ma per recuperare il ritardo accumulato dall’ordinamento italiano nel recepimento delle
direttive comunitarie, si è proceduto alla razionalizzazione di tale sistema con l’emanazione
della L. 9 marzo 1989, n. 86, la cosiddetta Legge La Pergola, che ha stabilito le norme
generali del sistema di recepimento delle direttive comunitarie e ha disposto l’emanazione della
legge comunitaria.
Decisione
art. 249 Trattato CE; art. 14 Trattato CECA
È un atto vincolante delle istituzioni comunitarie, contemplato dall’art. 249 del Trattato
istitutivo della Comunità europea, il quale stabilisce che la decisione è obbligatoria in tutti i
suoi elementi per i destinatari da essa designati.
La decisione corrisponde, in sostanza, all’atto amministrativo dei sistemi giuridici nazionali e
rappresenta lo strumento utilizzato dalle istituzioni quando si vuole applicare il diritto
comunitario a fattispecie concrete. Pertanto, la decisione crea, modifica od estingue situazioni
giuridiche in capo ai destinatari che, nel caso siano individui direttamente investiti dall’atto,
non troveranno alcun ostacolo ad impugnare l’atto con il rimedio previsto dall’articolo 230 del
Trattato CE (Ricorso per annullamento).
Elementi essenziali di tale atto sono:
— la portata individuale. Ciò significa che la decisione è riferibile ai singoli destinatari, sia
essi individui che Stati membri, designati dall’atto;
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— la motivazione. Secondo la Corte di Giustizia è sufficiente che la motivazione indichi le
ragioni sulle quali l’atto è fondato (sentenza 9 luglio 1969, Governo della Repubblica
italiana e Commissione): ciò al fine di evitare abusi da parte delle istituzioni;
— l’obbligatorietà in tutti i suoi elementi, sia in relazione al risultato che ai mezzi da
utilizzare per raggiungere l’obiettivo indicato.
Le decisioni sono normalmente emanate dalla Commissione, mentre il Consiglio, di regola,
emana solo le decisioni indirizzate agli Stati membri.
Le decisioni, come le direttive, vengono notificate ai destinatari ed acquistano efficacia dalla
data della notifica o da altra data successiva, espressamente indicata.
L’efficacia delle decisioni varia a seconda che l’atto è rivolto agli Stati membri o agli individui.
Nel primo caso di solito le disposizioni obbligano lo Stato destinatario ad avere un certo
comportamento, lasciando poi allo stesso libertà di scelta sulle modalità di attuazione della
decisione; qualora invece quest’ultima contenga anche forme e mezzi di esecuzione, essendo
obbligatoria in tutti i suoi elementi, allora si può parlare di efficacia diretta.
Se le decisioni sono rivolte ad individui, siano essi persone fisiche che giuridiche, allora senza
dubbio si può parlare di efficacia diretta anche perché spetta all’istituzione che ha emesso
l’atto, e non allo Stato membro di appartenenza del destinatario, il compito di garantirne
l’osservanza.
Le decisioni del Consiglio e della Commissione che comportano un obbligo pecuniario
costituiscono titolo esecutivo negli ordinamenti statali. Questo non vale per le decisioni rivolte
agli Stati membri: in caso di mancata esecuzione, la Commissione potrà esperire la procedura
di infrazione per violazione del trattato.
L’unica condizione richiesta affinché la decisione possa essere fatta valere come titolo
esecutivo è l’apposizione della formula di esecuzione da parte dell’autorità nazionale designata,
che procede ad una verifica dell’autenticità dell’atto e che in Italia è il Ministero degli Esteri.
Atti non vincolanti
artt. 226 e 249 Trattato CE
Oltre agli atti dotati di efficacia vincolante, le istituzioni comunitarie possono emanare due tipi
di atti non vincolanti: le raccomandazioni ed i pareri.
La raccomandazione ha il preciso scopo di obbligare il destinatario a tenere un determinato
comportamento considerato più rispondente alle esigenze comuni.
Il parere tende a fissare il punto di vista dell’istituzione che lo emette in ordine ad una specifica
questione.
Premesso che sia per le raccomandazioni che per i pareri le istituzioni comunitarie hanno una
competenza generale, entrambi gli atti non sono sottoposti ad alcuna forma particolare, fatta
eccezione per alcuni pareri per i quali il Trattato CE prevede una motivazione espressa: ad
esempio art. 226 del Trattato CE, in base al quale è richiesto il parere motivato della
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Commissione, qualora questa ritenga che uno Stato membro non abbia adempiuto agli obblighi
ad esso derivanti in base al Trattato istitutivo.
Sia le raccomandazioni che i pareri possono avere come destinatari gli Stati membri, ovvero le
altre istituzioni comunitarie o, ancora, i soggetti di diritto interno degli Stati membri.
Raccomandazione
art. 249 Trattato CE
È uno degli atti delle istituzioni comunitarie che non hanno efficacia vincolante, ad eccezione di
quanto previsto all’art. 14 del Trattato CECA.
Le raccomandazioni, che non sono sottoposte ad alcuna forma particolare, possono essere
emanate dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione alle condizioni
contemplate dal Trattato. Possono essere rivolte sia agli Stati membri, come di solito avviene,
che alle istituzioni comunitarie o ancora ai soggetti di diritto interno degli Stati membri.
Di questo strumento, in realtà, si avvale di frequente la Commissione per puntualizzare la
propria posizione in merito agli sviluppi futuri della propria azione. La raccomandazione infatti,
a differenza del parere, ha il preciso scopo di sollecitare il destinatario a tenere un determinato
comportamento giudicato più rispondente agli interessi comuni.
L’efficacia non vincolante delle raccomandazioni non implica, però, che esse siano totalmente
sprovviste di alcun effetto giuridico. In dottrina si è, infatti, posto in evidenza come esse
producano un effetto di liceità, nel senso che è da considerarsi pienamente lecito un atto, di
per sé illecito, posto in essere per rispettare una raccomandazione di un’istituzione.
Anche la Corte di Giustizia (sentenza Grimaldi 1989) ha posto in evidenza come le
raccomandazioni non possono essere considerate del tutto prive di effetti giuridici, essendo
compito del giudice nazionale tenerne conto per procedere all’interpretazione degli altri atti
vincolanti emanati dalle istituzioni comunitarie e delle norme nazionali.
Parere
art. 249 Trattato CE
Si tratta di un atto non vincolante emanato dalla Commissione delle Comunità europee, dal
Consiglio, dal Parlamento europeo, dalla Corte di Giustizia (nell’ipotesi prevista dall’art. 300,
paragrafo 6, circa la compatibilità di un accordo previsto con le disposizioni del Trattato), dal
Comitato economico e sociale (art. 262) e dal Comitato delle Regioni (art. 265). Il parere
tende a fissare il punto di vista della istituzione che lo emette in ordine ad una specifica
questione.
Il parere va distinto dal:
— parere motivato, emesso dalla Commissione in base all’art. 226 del Trattato CE e
relativo alla mancata osservanza degli obblighi incombenti su uno Stato membro;
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— parere obbligatorio del Parlamento europeo, nell’ambito della procedura del parere
conforme.
Analogamente alle raccomandazioni, i pareri non sono sottoposti ad alcuna forma specifica
(tranne nel caso dei pareri motivati, per i quali è necessaria una motivazione espressa) e
possono essere indirizzati sia agli Stati che alle altre istituzioni comunitarie o a soggetti di
diritto interno degli Stati membri. La non vincolatività dei pareri non significa che gli stessi
siano privi di ogni rilevanza giuridica: infatti essi, nella misura in cui riflettono la posizione della
istituzione da cui promanano, determinano sempre una situazione di legittimo affidamento nei
destinatari, tutelabile davanti alla Corte di Giustizia.
Procedura di consultazione
artt. 81 e 82 Regolamento interno del Parlamento europeo
È uno dei procedimenti di formazione degli atti comunitari che prevede la consultazione del
Parlamento prima dell’adozione, da parte del Consiglio, di un atto normativo.
La consultazione parlamentare, già prevista dai Trattati istitutivi, può essere sia obbligatoria
che facoltativa, a seconda delle previsioni del Trattato. Essa comporta l’emanazione di un
parere da parte del Parlamento che non è mai vincolante né per la Commissione, che non è
obbligata ad adeguare la sua proposta alle osservazioni in esso contenute, né per il Consiglio
che può disattenderlo.
In realtà, alla procedura di consultazione è affidata la realizzazione di un equilibrio istituzionale
tra la Commissione (organo proponente), il Consiglio (organo decisionale) e il Parlamento. La
Commissione, infatti, sebbene abbia la facoltà di ignorare le osservazioni parlamentari, non
può restare indifferente alle opinioni dell’organo che esercita ampi poteri di controllo. A ciò
deve aggiungersi l’opera della Corte di Giustizia che, in diverse sentenze, ha sancito principi
che hanno integrato la scarna dizione utilizzata dai Trattati istitutivi. Essi sono:
— la consultazione del Parlamento è obbligatoria. La Corte ha infatti affermato che l’atto può
essere impugnato quando, potendo scegliere tra una base giuridica che non prevede la
consultazione del Parlamento e una che la prevede, si decide di utilizzare la prima;
— non è sufficiente che il Consiglio abbia chiesto al Parlamento il suo parere, ma è necessario
che l’organo esprima effettivamente la propria opinione. Se il Parlamento non adempie a tale
compito entro un ragionevole periodo di tempo, non potrà obiettare al Consiglio l’inosservanza
della procedura;
— il parere deve essere dato su di un testo che nella sostanza rispecchi quello
successivamente adottato dal Consiglio. Nell’ipotesi in cui quest’ultimo intende apportare
modifiche sostanziali all’atto, è necessaria una nuova consultazione del Parlamento.
Il regolamento interno del Parlamento disciplina inoltre il seguito da dare al parere di tale
organo. È prevista infatti la possibilità di sollecitare la Commissione ad esaminare gli
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emendamenti proposti dal Parlamento; qualora la Commissione rigetti la proposta, il
presidente del Parlamento invita il Consiglio a ritirarla.
Il Trattato sull’Unione europea ha ampliato i settori sottoposti alla procedura di consultazione
includendovi, tra le altre materie, le modalità di esercizio di voto dei cittadini dell’Unione, la
politica industriale, alcune misure relative all’unione economica e monetaria, la politica dei
visti.
Da ultimo, il Trattato di Amsterdam ha sottratto alla procedura di consultazione la disciplina
legislativa di diversi settori, prevedendo l’applicazione della procedura di codecisione, che
attribuisce al Parlamento un ruolo molto più incisivo nell’ambito dell’iter legislativo.
Procedura di cooperazione
art. 252 Trattato CE; artt. 63-80 Regolamento interno del Parlamento europeo
La procedura di cooperazione è stata introdotta dall’Atto unico europeo e confermata dal
Trattato sull’Unione europea. Essa è stata istituita per aumentare il potere del Parlamento che
può, in tal modo, apportare modifiche alle posizioni comuni del Consiglio, sebbene a
quest’ultimo compete comunque la decisione finale.
La procedura di cooperazione è stata quasi completamente abolita dal Trattato di Amsterdam
che ha ridotto il suo campo di applicazione alla sola politica monetaria, sottoponendo gli altri
settori alla procedura di codecisione.
La procedura di cooperazione prevede una doppia lettura del Parlamento in merito agli atti che
il Consiglio deve emanare. Durante la prima lettura, il Parlamento esamina una proposta della
Commissione ed esprime in proposito un parere, accompagnato da eventuali proposte di
modifica. La Commissione valuta tali modifiche e trasmette la proposta al Consiglio che,
deliberando a maggioranza qualificata, adotta una posizione comune. Successivamente
quest’ultima viene comunicata al Parlamento assieme alle motivazioni che hanno spinto il
Consiglio ad adottare tale atto e alla posizione che la Commissione ha assunto in merito alla
questione.
Il Parlamento in fase di seconda lettura può:
— approvare la posizione comune o non pronunciarsi entro il termine stabilito. In tal caso
il Consiglio adotta l’atto conformemente alla posizione comune a maggioranza
qualificata. Se l’atto si discosta dalla proposta originaria esso deve essere adottato
all’unanimità;
— rigettare il testo adottato dal Consiglio, a maggioranza assoluta dei suoi membri. Se
ciò si verifica, il Consiglio potrà adottare l’originaria posizione comune entro il termine
di tre mesi ma solo votando all’unanimità. Questa regola amplia notevolmente
l’influenza del Parlamento; è difficile, infatti, che il Consiglio riesca ad adottare
all’unanimità una proposta che inizialmente era stata votata a maggioranza qualificata
e che è stata anche respinta dal Parlamento;
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— apportare emendamenti, a maggioranza assoluta dei suoi membri, alla posizione
comune del Consiglio. Secondo quanto stabilito dall’art. 80 del regolamento interno del
Parlamento, l’obiettivo di queste modifiche mira al ripristino totale o parziale della
posizione approvata dal Parlamento in prima lettura, in modo da assicurare la coerenza
della sua posizione nelle due diverse fasi. In quest’ultimo caso, la Commissione
riesamina entro un mese la posizione comune e la ritrasmette al Consiglio, corredata
delle modifiche proposte dal Parlamento che ha ritenuto di accogliere. In merito a
quelle rigettate, la Commissione deve indicare i motivi di tale rifiuto.
Ricevuta la proposta riesaminata dalla Commissione, il Consiglio può, entro tre mesi:
— adottare la proposta riesaminata deliberando a maggioranza qualificata;
— adottare, deliberando all’unanimità, l’originaria posizione comune senza tener conto
degli emendamenti del Parlamento;
— modificare la proposta riesaminata ed adottare l’atto deliberando all’unanimità.
Qualora il Consiglio non decida nel termine fissato, la proposta riesaminata dalla Commissione
si intende rifiutata e deve ripetersi l’iter procedurale. Fino a quando il Consiglio non ha deciso,
la Commissione può modificare o ritirare la sua proposta.
Settori nei quali è prevista la procedura di cooperazione
• Armonizzazione delle denominazioni e delle caratteristiche delle monete (106)
• Divieto di assunzione di impegni presi da Stati membri (103)
• Divieto di facilitazioni creditizie (102)
• Procedure di sorveglianza multilaterale (99)
Procedura di codecisione
art. 251 Trattato CE; artt. 63-83 Regolamento interno del Parlamento europeo; Dichiarazione
comune 4 maggio 1999
La procedura di codecisione rappresenta un’assoluta novità in campo legislativo in quanto, per
la prima volta, il Parlamento europeo e il Consiglio sono posti sullo stesso piano. Introdotta dal
Trattato di Maastricht è stata notevolmente rafforzata con il Trattato di Amsterdam, che ha
trasferito nell’ambito di questa procedura quasi tutte le materie che prima ricadevano sotto
l’iter decisionale della cooperazione ed ha contribuito allo snellimento del procedimento
sopprimendo la cd. terza lettura.
Tale procedura si articola nelle seguenti fasi:
1a fase. Una delle novità del Trattato di Amsterdam riguarda proprio questa prima fase.
Secondo il nuovo articolo 251 la proposta legislativa della Commissione viene presentata al
Consiglio e al Parlamento europeo, che formula un proprio parere. Se il parere del Parlamento
non contiene emendamenti al testo iniziale o se il Consiglio accetta tutte le modifiche proposte,
allora l’atto può essere immediatamente adottato saltando tutte le successive fasi. Se ciò non
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avviene il Consiglio delibera a maggioranza qualificata una posizione comune che verrà
sottoposta all’esame del Parlamento. Questi può entro tre mesi:
— approvare o non pronunciarsi. In entrambi i casi il Consiglio adotterà l’atto in
conformità della posizione comune;
— emendare la posizione comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri. Il Consiglio,
entro il termine di tre mesi dalla ricezione degli emendamenti, può sia approvare gli
stessi (a maggioranza qualificata se questi sono stati accettati dalla Commissione,
all’unanimità in caso contrario) ed adottare il testo così emendato, sia avviare una
procedura di conciliazione;
— respingere la posizione comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri. Anche in
questo caso è previsto l’avvio di una procedura di conciliazione;
2a fase. In questa fase interviene il Comitato di conciliazione, composto dai membri del
Consiglio e dai rappresentanti del Parlamento europeo. Esso ha il compito di predisporre un
testo di compromesso, alla cui stesura partecipa anche la Commissione con funzioni di
mediatore. Se non è possibile raggiungere questo compromesso, allora il testo è
definitivamente abbandonato. Qualora, invece, sia predisposto un testo comune:
— può essere adottato dal Consiglio (a maggioranza qualificata) e dal Parlamento (a
maggioranza assoluta) nel termine di 6 settimane dalla scadenza del tempo concesso
al Comitato di conciliazione;
— non si riesce a raggiungere un accordo tra Parlamento e Consiglio: di conseguenza il
testo è abbandonato.
Nell’originaria formulazione del Trattato di Maastricht il Consiglio poteva (con la cd.
terza lettura) esperire un ultimo tentativo per l’adozione dell’atto: riprendendo, a
maggioranza qualificata, la sua posizione comune iniziale poteva inserirvi degli
emandamenti che tenessero conto delle osservazioni dal Parlamento e avviare
nuovamente la procedura ordinaria. Al termine di questo procedimento il testo era
approvato se si raggiungeva l’accordo con il Parlamento.
Con l’ampliamento delle materie che rientrano nell’ambito della procedura di codecisione si è
reso necessario snellire il già complesso iter; per questo motivo il Trattato di Amsterdam ha
soppresso la terza lettura.
Principio della cooperazione rafforzata
artt. 43-45 Trattato sull’Unione europea; art. 11 Trattato CE
Principio che attribuisce agli Stati membri che intendano perseguire determinate politiche
comuni, a procedere anche in assenza di una volontà comune. Le prime esperienze di
cooperazione al di fuori del quadro comunitario si sono avute nell’ambito della libera
circolazione delle persone, con la firma della convenzione di Schengen da parte di soli
cinque Stati, della politica sociale, con la deroga per il Regno Unito in merito all’accordo
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sociale e dell’unione economica e monetaria con l’esclusione della Grecia per il mancato
rispetto dei criteri di convergenza e con la deroga per Danimarca e Gran Bretagna.
Solo con il Trattato di Amsterdam si è proceduto però alla istituzionalizzazione della
cooperazione rafforzata, con l’inserimento del nuovo Titolo VII del Trattato sull’Unione
europea.
L’art. 43 prevede, infatti, che gli Stati membri possono liberamente instaurare tra di loro una
cooperazione rafforzata ricorrendo, se vogliono, alle istituzioni, alle procedure e ai meccanismi
previsti dal Trattato sull’Unione europea e dal Trattato CE (e quindi anche alla Corte di
Giustizia).
Qualora ciò avvenga, la cooperazione rafforzata deve rispettare una serie di condizioni:
— promuovere gli obiettivi dell’Unione e proteggere i suoi interessi;
— rispettare i principi dei trattati e il contesto istituzionale unico dell’Unione;
— perseguire obiettivi che non è possibile realizzare utilizzando le procedure comunitarie;
— riguardare almeno la maggioranza degli Stati membri;
— non pregiudicare le competenze, i diritti, gli obblighi e gli interessi degli Stati membri
non partecipanti;
— essere aperta agli Stati membri non partecipanti, qualora questi ultimi intendano
aderirvi;
— rispettare le specifiche norme riguardanti i singoli pilastri dell’Unione europea.
Per quel che riguarda il primo pilastro la disciplina è regolata dall’art. 11 del Trattato CE e
prevede la possibilità per gli Stati membri di instaurare tra di loro una cooperazione rafforzata
a condizione che:
— non riguardi settori di competenza esclusiva della Comunità;
— non interferisca con le politiche, le azioni e i programmi comunitari;
— non riguardi la cittadinanza dell’Unione né crei discriminazione tra i cittadini degli Stati
membri;
— rimanga entro i limiti delle competenze comunitarie;
— non pregiudichi le condizioni di concorrenza e gli scambi tra gli Stati membri.
Sul piano procedurale, la richiesta di autorizzazione deve essere presentata dagli Stati membri
interessati alla Commissione che elabora una proposta da sottoporre alla votazione in seno al
Consiglio.
Se un membro del Consiglio dichiara che intende opporsi alla concessione dell’autorizzazione
per gravi e specificati motivi di politica interna, non si procede alla votazione.
Per quel che riguarda la procedura di adesione, lo Stato membro che intende partecipare alla
cooperazione rafforzata instaurata deve notificare tale intenzione al Consiglio e alla
Commissione; quest’ultima deve trasmettere un parere al Consiglio entro tre mesi dalla data di
ricevimento della notifica ed, entro quattro mesi a partire dalla notifica, deve decidere sulla
richiesta e sulle eventuali misure specifiche che ritiene necessarie.
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La cooperazione rafforzata nel terzo pilastro deve attuarsi nel rispetto delle competenze della
Comunità europea e degli obiettivi di questo pilastro e deve avere come scopo quello di
consentire all’Unione di svilupparsi più rapidamente come spazio di libertà, di sicurezza e di
giustizia.
La procedura per il rilascio dell’autorizzazione è sostanzialmente la stessa di quella esaminata
per il pilastro comunitario: anche in questo caso l’autorizzazione è rilasciata dal Consiglio, ma
la Commissione è solo chiamata ad esprimere un parere.
Per quanto concerne infine la procedura di adesione di uno Stato membro alla cooperazione
rafforzata in atto, la richiesta anche in questo caso deve essere inoltrata al Consiglio e alla
Commissione ma è quest’ultima che decide sulla domanda e sulle eventuali misure specifiche
necessarie.
Teoria dei Poteri impliciti
art. 308 Trattato CE
Si tratta di una teoria inizialmente elaborata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti e
successivamente accolta anche dalla Corte Internazionale di Giustizia e dalla Corte di Giustizia
delle Comunità.
Secondo tale teoria un organo internazionale può utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per
raggiungere gli scopi previsti dal trattato istitutivo dell’organizzazione stessa, anche quando
tali mezzi non sono espressamente previsti nel testo del trattato.
Nel Trattato istitutivo della Comunità europea è stato inserito un articolo, il 308 (ex 235), che
richiama la teoria dei poteri impliciti. Secondo tale norma “quando un’azione della Comunità
risulti necessaria per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi
della Comunità, senza che il presente trattato abbia previsto i poteri d’azione a tal uopo
richiesti, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e dopo aver
consultato il Parlamento europeo, prende le disposizioni del caso”.
In virtù della portata dell’articolo 308, le condizioni per l’esercizio del potere in esame sono
alquanto restrittive. Dal punto di vista sostanziale occorre che l’azione sia necessaria per il
raggiungimento degli scopi della Comunità e deve servire al funzionamento del mercato
comune. Dal punto di vista procedurale il Consiglio deve deliberare all’unanimità, previa
proposta della Commissione e dopo aver consultato il Parlamento europeo.
In realtà i poteri riconosciuti dalla norma in questione sono subordinati all’esistenza di due
condizioni indispensabili:
— l’azione deve essere necessaria per raggiungere uno degli scopi della Comunità;
— l’azione deve servire al funzionamento del mercato comune.
La Corte di Giustizia nella sua giurisprudenza, scavalcando il dettato dell’art. 308, nonché la
complessa procedura da questo presentata, ha portato al riconoscimento alle istituzioni della
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Comunità di poteri non espressamente conferiti, ma indispensabili per esercitare in modo
efficace ed appropriato le competenze loro attribuite.
Infatti, nella prassi tutte le volte che il Consiglio ha raggiunto l’unanimità, sono stati adottati
atti che non avevano alcun collegamento con gli scopi della Comunità od il funzionamento del
mercato, nonostante l’espressa menzione dell’articolo 308. Tant’è che, proprio attraverso
l’applicazione del suddetto articolo, è stata legittimata l’azione comunitaria in settori quali la
politica regionale, la politica ambientale, la politica industriale ed energetica e finanche la
politica economica e monetaria, prima ancora che questa rientrasse nei compiti della Comunità
previsti dall’articolo 2 del Trattato CE. È possibile quindi, per le istituzioni comunitarie,
intervenire in settori non menzionati dal Trattato, oppure adottare, in un settore di
competenza comunitaria, atti diversi da quelli previsti (es. regolamenti al posto di direttive).
Ciò che è precluso alle istituzioni è di derogare alle disposizioni del trattato: infatti, l’articolo
308 si riferisce ad azioni e non fa accenno alcuno, com’è ovvio, alla possibilità di modificare la
struttura istituzionale della Comunità, così come delineata dal trattato. Altra possibile
limitazione è rappresentata dal richiamo al principio di sussidiarietà da parte degli Stati
membri.
La Corte ha così avallato l’atteggiamento del Consiglio nell’uso di poteri impliciti quando nel
1973 (nella sentenza Massey/Ferguson) ha enunciato esplicitamente il principio per cui le
istituzioni comunitarie hanno il diritto di emanare atti in tutti quei settori nei quali il trattato
attribuisce loro una competenza legittimando in tal modo l’istituzione da parte del Consiglio di
vari Comitati di gestione e regolamentazione e il suo intervento in materia di pesca e
ambiente.
È bene sottolineare che negli ultimi anni la Corte ha mostrato un atteggiamento più restrittivo,
evidenziando il carattere residuale della norma ed escludendone l’uso ogni volta che, in base al
trattato, sia possibile disporre di una base giuridica alternativa.
Motivazione degli atti comunitari
art. 253 Trattato CE; art. 15 Trattato CECA
Requisito formale necessario per l’emanazione di tutti gli atti vincolanti comunitari. In
mancanza di tale requisito, l’atto sarebbe viziato e potrebbe essere dichiarato nullo in base
all’art. 231 Trattato CE.
La motivazione deve indicare la base giuridica dell’atto, cioè le norme comunitarie che ne
consentono l’emanazione: in questo modo si facilita l’individuazione di eventuali vizi di
legittimità, di cruciale importanza soprattutto per gli atti di portata individuale quali le
decisioni, e si permette alla Corte di Giustizia di esercitare il suo sindacato.
La Corte ha valutato con una certa larghezza questo requisito, nel senso che ha negato la
necessità di una motivazione espressa. Nella sentenza del 23 febbraio 1978, C. 92/77, An Bord
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Bainne Cooperative c. Ministro dell’agricultura, infatti, ha sancito l’ammissibilità della
motivazione implicita, cioè una motivazione che può risultare “… non soltanto dal suo testo, ma
altresì dall’insieme delle norme giuridiche che disciplinano la materia in questione”.
Clausola di salvaguardia
art. 134 Trattato CE
Clausola dei trattati commerciali internazionali che autorizza uno Stato contraente ad adottare
un regime tariffario più oneroso o limitazioni quantitative nei confronti di quei prodotti di altri
paesi la cui importazione potrebbe avere effetti negativi sulla produzione nazionale di merci
similari.
Una specifica clausola di salvaguardia è prevista dall’articolo 19 del trattato istitutivo del GATT
secondo il quale una nazione, in deroga al regime normalmente previsto, può introdurre
misure restrittive temporanee sulle importazioni nel caso in cui vi sia un eccessivo disavanzo
della bilancia dei pagamenti e tale disavanzo possa danneggiare la propria produzione
nazionale.
Analoga deroga è prevista dall’articolo 134 del Trattato CE, previo ottenimento della necessaria
autorizzazione da parte dei competenti organi comunitari. In tutti i casi è generalmente
richiesto un presupposto di necessità, che viene definito in relazione a particolari difficoltà
incontrate dal paese per quanto riguarda i movimenti di merci o di capitali o persistenti deficit
della bilancia dei pagamenti. L’autorizzazione ad adottare una clausola di salvaguardia è
normalmente richiesta per relazioni economiche con paesi terzi e, comunque, in quelle materie
in cui non esista una politica comune da parte della Comunità europea.
L’espressione è, inoltre, riferita a quelle clausole che conviene apporre nei contratti con
obbligazioni pecuniarie al fine di sfuggire la svalutazione monetaria del credito. Costituiscono
esempi di clausola di salvaguardia la clausola oro e la clausola di indicizzazione.
Clausola di sospensione
art. 309 Trattato CE; art. 7 Trattato sull’Unione europea
La clausola di sospensione prevede che, qualora si verifichi l’esistenza di una violazione grave
e persistente dei principi di libertà e democrazia e del rispetto dei diritti umani e dello Stato
di diritto da parte di uno Stato membro della Comunità europea, si può procedere alla
sospensione di alcuni suoi diritti in seno alla Comunità.
Tale verifica deve essere effettuata dal Consiglio europeo, il quale delibera a maggioranza
qualificata senza tener conto del voto del rappresentante dello Stato in questione.
La sospensione non riguarderà gli obblighi derivanti dal Trattato, che continueranno a vincolare
lo Stato trasgressore.
La disposizione è stata introdotta dal Trattato di Amsterdam allo scopo di rafforzare
ulteriormente gli strumenti comunitari a difesa dei diritti umani.
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Legge comunitaria
artt. 2-5 L. 9 marzo 1989, n. 86
Si tratta di un provvedimento normativo con il quale vengono disciplinate le modalità di
attuazione della normativa comunitaria nell’ordinamento italiano. La sua emanazione è stata
disposta dall’art. 2 della L. 86/89, meglio nota come legge La Pergola.
I ritardi accumulati dal nostro ordinamento nel recepimento delle direttive e delle decisioni
con lo strumento della delega legislativa, ha portato a gravi inadempienze dello Stato italiano
nei confronti della Comunità e alle conseguenti condanne della Corte di Giustizia.
Per accelerare il processo di adeguamento alla normativa comunitaria, la L. 86/89 ha previsto
che entro il 31 gennaio di ogni anno (termine originariamente fissato al 31 marzo) il governo
presenti un disegno di legge recante “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti
dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee”.
Tale legge consente di dare attuazione nel nostro ordinamento alle disposizioni comunitarie
attraverso:
— la normazione diretta. In questo caso si abrogano o si modificano norme interne in contrasto
con quelle comunitarie direttamente attraverso la legge comunitaria. Questo metodo è
utilizzato soprattutto per il recepimento di disposizioni di non rilevante complessità;
— la delega al Governo. In questa ipotesi, dopo aver ricevuto le necessarie autorizzazioni,
l’esecutivo emana disposizioni di attuazione delle direttive comunitarie e delle
raccomandazioni CECA tramite decreto, regolamento o altro atto amministrativo, a seconda
della materia oggetto della norma comunitaria.
Tutte le direttive contenute nelle leggi comunitarie sono ripartite in diversi allegati in base al
tipo di provvedimento utilizzato per la loro adozione:
— in un primo allegato sono contenute le direttive da attuare con delega legislativa;
— in un secondo allegato sono contenute le direttive da attuare con delega legislativa
previo parere delle commissioni parlamentari competenti per materia;
— in un terzo allegato sono contenute le direttive da attuare in via regolamentare;
— in un quarto allegato sono contenute le direttive da attuare in via regolamentare previo
parere delle commissioni parlamentari competenti per materia;
— in un quinto allegato sono contenute le direttive da attuare in via amministrativa.
È prevista la presentazione al Parlamento da parte del Governo di una relazione semestrale,
nella quale viene esaminato lo stato di conformità dell’ordinamento interno a quello
comunitario e le eventuali procedure di infrazione.
Le leggi comunitarie
L. 29 dicembre 1990, n. 428 - Comunitaria 1990
L. 19 febbraio 1992, n. 142 - Comunitaria 1991
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L. 19 dicembre 1992, n. 489 - Mini-Comunitaria 1992 (1)
L. 22 febbraio 1994, n. 146 - Comunitaria 1993
L. 6 febbraio 1996, n. 52 - Comunitaria 1994
L. 24 aprile 1998, n. 128 - Comunitaria 1995/1997
L. 5 febbraio 1999, n. 25 - Comunitaria 1998
L. 21 dicembre 1999, n. 526 - Comunitaria 1999
(1) Promulgata per l’attuazione delle direttive più urgenti poiché l’iter della legge comunitaria
per l’anno 1992 (divenuta poi Comunitaria 1993) procedeva a rilento.
Legge La Pergola L. 9 marzo 1989, n. 86
È così denominata la L. 9 marzo 1989, n. 86, contenente “Norme generali sulla partecipazione
dell’Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi
comunitari”, comunemente nota con il nome dell’allora Ministro per il coordinamento delle
politiche comunitarie che presentò il disegno di legge.
Questo atto normativo si rese necessario per accelerare le procedure di esecuzione, da parte
dell’Italia, degli obblighi derivanti dalla sua partecipazione alla Comunità, in particolare delle
numerose direttive emanate in vista della realizzazione del mercato interno.
In precedenza, infatti, il Parlamento italiano si era servito esclusivamente dello strumento della
legge-delega; ma l’eccessiva lentezza di questa misura di esecuzione aveva fatto accumulare
un grave ritardo allo Stato italiano nell’adeguamento dell’ordinamento interno a quello
comunitario e l’aveva esposto a diverse condanne della Corte di Giustizia.
È stata infatti abbandonata la pratica della delega al Governo per l’esecuzione degli obblighi
comunitari, stabilendo che tutta la normativa comunitaria da recepire venga esaminata
previamente dalle Camere, assolvendo in tal modo ad un duplice compito:
• garantire il periodico adeguamento dell’ordinamento nazionale all’ordinamento comunitario;
• garantire lo svolgimento di un vero e proprio dibattito politico effettuato nella sede più
idonea, ovvero il Parlamento, sia in ordine alle tematiche comunitarie sia sulla scelta
razionale dei mezzi atti all’adeguamento della legislazione nazionale.
La legge La Pergola istituisce, pertanto, per il Governo l’obbligo di presentazione al Parlamento
della legge comunitaria entro il 31 gennaio di ogni anno.
Il Governo, inoltre, presenta alle Camere, in allegato al disegno di legge comunitaria, un
elenco delle direttive per l’attuazione delle quali chiede l’autorizzazione citata. Ha altresì il
compito di presentare alle Camere una relazione semestrale circa la partecipazione dell’Italia al
processo normativo comunitario, in cui sono esposti i principi e le linee caratterizzanti della
politica italiana nei confronti degli atti normativi comunitari.
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La L. 86/89, prevede altresì una corretta ripartizione delle competenze delle regioni, e delle
province autonome, in ordine alle direttive comunitarie, alla legge comunitaria ed alla funzione
di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative di queste ultime.
Iniziativa legislativa
artt. 250-253 Trattato CE
Potere di proporre l’adozione di atti giuridici; secondo quanto previsto dai trattati l’iniziativa
legislativa spetta alla Commissione delle Comunità europee.
A norma dell’art. 253 le proposte della Commissione devono contenere la motivazione nonché
menzionare tutti i pareri obbligatori o facoltativi richiesti per l’adozione di un atto in quel
determinato settore. Alla proposta è data ampia pubblicità attraverso la sua pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee.
La proposta della Commissione viene sottoposta, assieme ad una relazione introduttiva,
all’approvazione del Consiglio. Quest’ultimo accerta innanzitutto la necessità di sottoporre la
proposta all’esame di altre istituzioni comunitarie. La proposta della Commissione,
eventualmente modificata dai pareri delle istituzioni intervenute, viene discussa dal gruppo di
lavoro di esperti e dal COREPER. Infine, se il Consiglio concorda pienamente con la
Commissione l’atto è adottato con le modalità previste dal trattato.
Nel caso in cui intende respingerla ed elaborare un testo ex novo (non tenendo conto delle
osservazioni della Commissione) o intende apportarvi delle modifiche deve necessariamente
adottare l’atto all’unanimità.
La Commissione può modificare la propria proposta in qualunque momento, purché il Consiglio
non abbia ancora deliberato.
Da quanto detto risulta evidente che l’iniziativa della Commissione assume una diversa valenza
a seconda che il trattato prevede che l’atto sia adottato all’unanimità o a maggioranza.
Nel primo caso, infatti, la proposta è parzialmente vincolante per il Consiglio: se questi l’adotta
senza modificarla potrà votare a maggioranza semplice o a maggioranza qualificata
mentre in caso contrario dovrà giungersi ad un accordo tra tutti i membri. Se l’atto dev’essere
adottato comunque all’unanimità è indifferente per il Consiglio modificarlo o meno.
Alle sedute del Consiglio partecipa anche un membro (talvolta anche più di uno) della
Commissione, che può in alcuni casi (su richiesta del Consiglio) procedere a modifiche della
proposta. Nella prassi comunitaria, infatti, la Commissione non solo elabora il progetto di atto
normativo, ma accompagna spesso tale disegno con una serie di possibili modifiche che ritiene
accettabili.
Il rappresentante della Commissione in Consiglio è quindi al corrente dei propri margini di
manovra e può, anche in sede di riunione del Consiglio, modificare la proposta originaria: in
questo modo si evita di dover giungere ad una votazione all’unanimità poiché l’atto è stato
formalmente emendato dalla Commissione e non dal Consiglio.
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La Commissione può, in qualunque momento, ritirare la propria proposta, impedendo di fatto
la delibera del Consiglio, che non può deliberare (salvo rare eccezioni) senza una proposta
della Commissione.
Il Trattato di Maastricht ha attribuito al Parlamento europeo un cd. potere di iniziativa
dell’iniziativa, vale a dire la facoltà di richiedere alla Commissione la presentazione di
proposte legislative.
Gerarchia degli atti comunitari
I trattati istitutivi non introducono alcuna forma di gerarchia tra gli atti comunitari, né per
diversità di rango né di valore formale. Il Trattato CE, all’art. 249, indica i mezzi che le
istituzioni comunitarie devono adottare per svolgere la propria azione, strumenti differenziati in
ragione della natura, del livello di azione prescelta e delle finalità che si intendono perseguire.
Quando il trattato non indica il tipo di atto da adottare, la scelta è lasciata alla discrezionalità
delle istituzioni.
Nemmeno la diversa procedura di adozione degli atti comunitari può costituire una condizione
di differenziazione gerarchica, poiché essa cambia a seconda delle materie da trattare, non a
seconda del tipo di atto.
La questione della gerarchia degli atti comunitari è stata spesso oggetto di discussione, tanto
che la Dichiarazione n. 16 allegata al Trattato di Maastricht auspicava che la Conferenza
intergovernativa del 1996 esaminasse il problema riconsiderando la classificazione degli atti
comunitari “…per stabilire un’appropriata gerarchia tra le diverse categorie di norme…”. Il tema
era stato già affrontato in precedenza, durante i primi dibattiti del 1990 sulla possibilità di
inserire la procedura di codecisione nel trattato. L’idea era quella di far corrispondere ai vari
tipi di atti uno specifico processo decisionale, in modo da evitare che una procedura più
complicata potesse essere applicata ad atti d’importanza secondaria. In seguito la
Commissione, durante i negoziati sul Trattato di Maastricht, ha proposto una gerarchia ed una
nuova tipologia delle norme comunitarie, proposta che si è duramente scontrata con le diverse
tradizioni giuridiche degli Stati membri.
Il principale obiettivo della gerarchizzazione degli atti comunitari sarebbe di assoggettare quelli
di rango costituzionale, per i quali è previsto il voto all’unanimità in seno al Consiglio, a
procedure più complicate rispetto agli altri atti legislativi che dettano la normativa di principio
per settori e materie. Procedure ulteriormente semplificate dovrebbero, invece, applicarsi agli
atti di esecuzione, in genere di competenza della Commissione.
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Metodo comunitario
Espressione con la quale si indica il procedimento istituzionale che utilizza i meccanismi tipici
del primo pilastro dell’Unione europea, vale a dire le procedure proprie delle tre Comunità
istituite negli anni ’50.
A differenza del metodo intergovernativo sul quale poggiano gli altri due pilastri
dell’Unione europea, tale sistema è fondato sul criterio dell’integrazione fra gli Stati membri
e dispone degli strumenti legislativi e delle procedure definite dai trattati istitutivi della CECA,
della CE e dell’Euratom.
Le Comunità europee, infatti, sono delle organizzazioni alquanto peculiari nel panorama delle
organizzazioni internazionali, dal momento che sono tra le poche organizzazioni alle quali
gli Stati membri hanno effettivamente trasferito un fetta di sovranità, attribuendo
contestualmente a degli organismi autonomi il potere di disciplinare le materie trasferite;
questa caratteristica attribuisce alle Comunità il tipico carattere sovranazionale che le distingue
dalle normali organizzazioni internazionali.
In quest’ultimo caso, infatti, gli Stati membri restano sempre i depositari dei veri e propri
poteri decisionali. Difficilmente le organizzazioni internazionali sono dotate di poteri vincolanti
nei confronti degli Stati aderenti, in quanto la cooperazione riposa sul più classico degli
strumenti del diritto internazionale, vale a dire il trattato; è soltanto con quest’ultimo atto che i
vari paesi esplicitano la loro volontà di obbligarsi a tenere un determinato comportamento.
A differenza dei trattati, invece, gli atti comunitari si impongono agli Stati membri in virtù delle
disposizioni contenute nei trattati istitutivi; tale caratteristica è ulteriormente rafforzata dalla
progressiva affermazione del principio del primato del diritto comunitario.
I settori dove, tuttavia, gli Stati membri non hanno voluto trasferire completamente alle
istituzioni comunitarie i loro poteri sovrani sono quelli della politica estera e della cooperazione
giudiziaria in materia di affari interni. Per questi settori la cooperazione comunitaria continua a
svolgersi secondo il classico schema negoziale delle organizzazioni internazionali (pur con delle
peculiarità), riposando fondamentalmente sulla stipula di convenzioni internazionali che
dovranno essere successivamente ratificate da ciascuno degli Stati membri. Per questo motivo
in ambito comunitario si suole introdurre la distinzione tra settori in cui si applica il metodo
intergovernativo, vale a dire il secondo ed il terzo pilastro, e quelli in cui i meccanismi
decisionali sono quelli propri delle Comunità ed in cui si applica il metodo comunitario.
Metodo intergovernativo
Espressione con la quale si definisce il sistema di funzionamento istituzionale proprio del
secondo e del terzo pilastro dell’Unione europea.
La reticenza di molti Stati a delegare competenze da sempre considerate di esclusiva
competenza interna ad un organo sovranazionale ha difatti indotto gli estensori del Trattato di
Maastricht ad escludere la PESC e la CGAI dal quadro istituzionale della Comunità. Esse
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sono pertanto perseguite mediante una collaborazione a livello intergovernativo anche se la
loro gestione viene comunque affidata agli stessi organi comunitari.
Tutti i meccanismi istituzionali tipici delle Comunità europee e tutti gli atti giuridici previsti dai
trattati istitutivi non possono essere adottati per le materie disciplinate esclusivamente dalla
cooperazione intergovernativa; in sintesi ciò vuol dire che per questi settori non trova
applicazione il metodo comunitario. In questi casi lo strumento principale di cooperazione
rimane la convenzione internazionale, l’unico che effettivamente risulta vincolante per gli Stati
membri, vista anche la scarsa incidenza degli altri strumenti contemplati.
Tuttavia i trattati istitutivi prevedono anche la possibile comunitarizzazione delle materie
disciplinate nell’ambito della cooperazione intergovernativa. Con il meccanismo della cd.
passerella comunitaria settori attualmente disciplinati unicamente dalla cooperazione tra gli
Stati possono essere trasferiti al pilastro comunitario, applicandosi in tal caso le procedure
tipiche delle Comunità. Tale facoltà è stata già utilizzata nel corso della stesura del Trattato di
Amsterdam con il quale si è proceduto ad una comunitarizzazione delle politiche nel campo
dell’immigrazione, dell’asilo, dei visti e altre politiche connesse.
COREPER [Comitato dei Rappresentanti Permanenti]
art. 207 Trattato CE; artt. 17-18 Regolamento interno Consiglio dell’Unione europea
Istituito dal Trattato sulla fusione degli esecutivi del 1965, il Comitato dei rappresentanti
permanenti degli Stati membri è costituito da esponenti delle rappresentanze diplomatiche
degli Stati membri presso le Comunità.
Si tratta di un organo intergovernativo, i cui membri agiscono su istruzione dei rispettivi
governi ma, nel contempo, operando collegialmente come membri di un organo previsto dalla
normativa comunitaria, si collocano all’interno della struttura istituzionale della Comunità.
Più precisamente il COREPER si riunisce a due livelli:
— di ambasciatori rappresentanti permanenti (COREPER II) per trattare gli affari di rilievo
politico e quelli concernenti le relazioni esterne;
— di ministri plenipotenziari rappresentanti permanenti aggiunti (COREPER I) per trattare
gli affari correnti, di procedura o essenzialmente tecnici.
Esso provvede a:
— coordinare l’attività di una serie di gruppi di lavoro, formati da esperti dei governi
nazionali in relazione a materie specifiche;
— predisporre l’ordine del giorno delle riunioni del Consiglio dell’Unione europea;
— organizzare comitati permanenti o ad hoc per la trattazione sistematica di problemi
specifici;
— adottare decisioni di procedura nei casi previsti dal regolamento interno del Consiglio.
I gruppi di lavoro, permanenti o ad hoc a seconda dei casi, elaborano, in accordo con la
Commissione, gli atti su cui il Consiglio dovrà deliberare e li trasmettono al Comitato, cui
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spetta il compito di predisporre l’ordine del giorno delle riunioni inserendo in un primo elenco i
provvedimenti sui quali è stato già raggiunto l’accordo nel Comitato, ed in un secondo elenco
quelli sui quali ancora non vi è unanimità. I primi vengono semplicemente ratificati dal
Consiglio (senza discussione) mentre i secondi sono posti all’ordine del giorno.
Tali compiti non potrebbero essere svolti dal Consiglio (la cui attività è discontinua), né dalla
Commissione (che ha carattere d’indipendenza), mentre il COREPER è portatore degli interessi
degli Stati.
Va rilevato che il COREPER è la sede in cui si svolgono i negoziati tra gli Stati membri e dove
spesso vengono raggiunte soluzioni di compromesso tra i diversi interessi nazionali che
facilitano l’opera del Consiglio.
Ricorsi giurisdizionali comunitari
Sono appelli rivolti alla Corte di giustizia delle Comunità europee, allo scopo di accertare e far
cessare un comportamento in contrasto con l’ordinamento comunitario.
A differenza di ciò che avviene per gli altri organi di giustizia internazionale, possono adire la
Corte sia gli Stati membri che le istituzioni comunitarie e gli individui.
I ricorsi giurisdizionali comunitari si suddividono in:
— ricorso in carenza;
— ricorso per annullamento;
— ricorso per inadempimento;
— ricorso in via pregiudiziale.
Ricorso per inadempimento
artt. 226-227 Trattato CE
Si tratta del giudizio della Corte di Giustizia delle Comunità europee sulla violazione degli
obblighi degli Stati membri derivanti dai trattati e dagli atti vincolanti delle istituzioni.
La procedura è promossa dalla Commissione o da uno Stato membro:
— nel primo caso, quando la Commissione reputa che uno Stato membro abbia violato gli
obblighi derivanti dai trattati, dopo averlo posto in condizione di presentare le sue
osservazioni, emette un parere motivato. Dopo l’esaurimento di questa fase precontenziosa,
qualora lo Stato non si conformi al parere della Commissione, quest’ultima può adire la Corte
di Giustizia;
— nel secondo caso, lo Stato che intenda rivolgersi alla Corte, perché reputa che un altro Stato
membro abbia violato gli obblighi derivanti dai trattati, deve ugualmente rivolgersi prima alla
Commissione.
Si ha dunque anche in questo caso una fase precontenziosa in cui la Commissione istituisce un
vero e proprio contraddittorio tra le parti. Solo dopo l’emissione da parte della Commissione di
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un parere motivato (o qualora la Commissione nel termine di tre mesi non abbia formulato il
parere) lo Stato può adire la Corte.
La sentenza della Corte è di mero accertamento dell’esistenza o meno della violazione; dispone
infatti l’art. 228 che lo Stato “è tenuto a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della
sentenza della Corte di Giustizia importa”.
La Corte, in altri termini, non può indicare le misure necessarie per far cessare
l’inadempimento o stabilire (almeno per questa prima fase) misure per il risarcimento di
eventuali danni.
L’art. 228 pone, però, a carico degli Stati membri un nuovo obbligo giuridico, avente ad
oggetto l’esecuzione della sentenza della Corte. Qualora lo Stato non si conformasse a tale
obbligo, sarebbe possibile l’instaurazione di un nuovo giudizio per far constatare una nuova
violazione del trattato.
Il secondo comma dell’art. 228 dispone una prosecuzione del giudizio nel caso in cui lo Stato si
sia reso inottemperante alla sentenza della Corte.
Distinguiamo al riguardo:
— una fase precontenziosa, in cui la Commissione, dopo aver dato allo Stato inadempiente
la possibilità di far conoscere il suo punto di vista, formula un parere motivato. In esso
precisa i punti sui quali lo Stato non si è conformato alla sentenza della Corte, come
pure stabilisce i termini entro cui lo Stato in questione deve adottare i provvedimenti
che l’esecuzione della sentenza comporta;
— una fase contenziosa, meramente eventuale, che si attiva nel caso in cui lo Stato
membro non abbia rispettato il termine impartitogli. In tal caso la Commissione ha la
facoltà di adire la Corte di Giustizia, precisando nel ricorso l’importo della somma
dovuta a titolo di penalità dallo Stato inadempiente.
L’innovazione di grande rilievo introdotta dal Trattato di Maastricht concerne il ruolo della Corte
di Giustizia. Quest’ultima, infatti, ove accolga il ricorso della Commissione, può comminare allo
Stato inadempiente il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità.
Ricorso per annullamento
artt. 230-231 Trattato CE; art. 33 Trattato CECA; art. 146 Trattato CEEA
Ha per oggetto gli atti delle istituzioni comunitarie che presentano delle irregolarità.
I soggetti legittimati a presentare ricorso sono suddivisi in ricorrenti privilegiati, i quali possono
chiedere l’annullamento di qualsiasi atto, e ricorrenti non privilegiati che godono di un diritto di
ricorso limitato.
Secondo la disciplina prevista dal trattato CECA sono considerati ricorrenti privilegiati solo gli
Stati membri ed il Consiglio; per il trattato CE e CEEA sono gli Stati membri, il Consiglio e la
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Commissione, i quali possono chiedere l’annullamento di qualsiasi atto che non sia un parere
o una raccomandazione.
Secondo la formulazione dell’art. 230, tra i legittimati attivi e passivi del ricorso per
annullamento sono ricompresi anche il Parlamento europeo e la BCE e la Corte dei Conti,
limitatamente agli atti destinati a spiegare efficacia nei confronti dei terzi.
Sono ricorrenti non privilegiati le persone fisiche e giuridiche.
Il ricorso è sottoposto a un termine di decadenza di due mesi dalla pubblicazione o dalla
notificazione dell’atto (in mancanza della notificazione il termine decorre dal giorno in cui il
ricorrente ha avuto conoscenza dell’atto).
I vizi degli atti comunitari sono:
— incompetenza, che può essere relativa, quando l’istituzione che ha emanato l’atto non
aveva il potere di emanarlo, o assoluta, quando l’atto non era di competenza
comunitaria;
— violazione delle forme sostanziali, cioè mancanza di un requisito di forma essenziale per
la formulazione dell’atto;
— violazione del trattato e delle norme giuridiche relative alla sua applicazione, che deve
intendersi come un vizio residuale, a cui ricondurre la contrarietà dell’atto al trattato
fuori dei due casi già esaminati.
Notiamo che questo vizio si estende, oltre che alle norme contenute nel trattato e negli atti
derivati, anche ai principi generali di diritto comunitario non scritto e alle norme internazionali
vincolanti per le Comunità;
- sviamento di potere ossia esercizio del potere per un fine diverso da quello per il quale tale
facoltà era stata conferita.
Secondo quanto previsto dall’art. 242 del Trattato la Corte può sospendere, in via cautelare,
l’atto impugnato. La domanda di sospensione deve essere presentata dopo aver avviato la
procedura di ricorso o comunque contestualmente ad essa. La sospensione cautelare dell’atto è
di pertinenza del Presidente della Corte dopo una breve udienza in cui sono sentite le parti e gli
intervenuti.
Una volta constatata l’illegittimità dell’atto, la Corte ha il potere di annullarlo, con effetti erga
omnes, a partire dal momento dell’emanazione (annullamento ex tunc).
L’annullamento dell’atto comporta, per l’istituzione che lo ha emanato, l’obbligo di ripristinare
la situazione preesistente all’emanazione dell’atto, anche attraverso la revoca di atti collegati a
quello annullato, nonchè l’obbligo di risarcire i danni provocati dal suo comportamento qualora
questo sia anche illecito.
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Ricorso in via pregiudiziale
art. 234 Trattato CE
Nell’ambito della giurisdizione non contenziosa alla Corte di Giustizia delle Comunità europee
spetta la competenza esclusiva a titolo pregiudiziale sulla interpretazione dei trattati e la
validità degli atti delle istituzioni e dalla BCE.
Inoltre, il nuovo status di istituzione attribuito alla Corte dei Conti fa sì che il sindacato
giurisdizionale della Corte si estenda anche agli atti di questa istituzione.
Scopo di tale attribuzione è quello di assicurare l’uniforme interpretazione del diritto
comunitario.
Si noti che il rinvio pregiudiziale può riguardare:
— la corretta interpretazione da attribuire a disposizioni del Trattato o ad atti di diritto
comunitario derivato .
— Compito della Corte in questo caso è quello di chiarire e precisare “il significato e la
portata della norma, quale deve, o avrebbe dovuto, essere intesa e applicata dal
momento della sua entrata in vigore”;
— la validità di un atto di diritto comunitario derivato. La Corte, in questo caso, è tenuta a
verificare che l’atto in parola rispetti “tutte le regole giuridiche applicabili nel quadro
dell’ordinamento giuridico comunitario”.
L’art. 234 precisa che quando una questione di interpretazione e validità degli atti comunitari
“è sollevata davanti a una giurisdizione di uno degli Stati membri, tale giurisdizione può,
qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto,
domandare alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sulla questione”.
Qualora una questione del genere venga sollevata in un giudizio pendente davanti a una
giurisdizione nazionale (avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di
diritto interno) quest’ultima è tenuta a rivolgersi alla Corte di Giustizia.
Pertanto l’iniziativa del giudice interno è facoltativa, ovvero obbligatoria, a seconda che si tratti
di una istanza di primo grado o di un giudice di ultima istanza (ad es. in Italia la Cassazione).
Va rilevato che alla Corte spetta unicamente l’interpretazione dei trattati e degli atti
comunitari, mentre ai giudici nazionali spetta l’applicazione di questi ultimi.
Una volta avutasi l’interpretazione pregiudiziale della questione interpretativa, la causa ritorna
al giudice interno per la decisione sul caso.
Per quanto riguarda le pronunce pregiudiziali sulla validità degli atti emessi dalle istituzioni, pur
essendo questo accertamento diverso da quello condotto per l’annullamento, sia per i soggetti
legittimati a proporre il ricorso, sia per gli effetti della sentenza della Corte (che nel caso
dell’art. 234 sono limitati alla controversia in esame) in pratica le istituzioni, di fronte a una
pronuncia di invalidità nascente da una richiesta di un giudice nazionale, si comportano come
se fosse intervenuto l’annullamento dell’atto, e lo modificano o lo sostituiscono.
Si tratta, se vogliamo, di un mezzo dato al singolo per impugnare un atto comunitario, quando
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non ne sia investito direttamente ed individualmente da poter esperire il ricorso per
annullamento.
In alcuni casi la Corte ha rifiutato di rispondere al quesito pregiudiziale, e precisamente:
• in presenza di questioni puramente ipotetiche e di nessuna utilità per il giudice nazionale;
• in mancanza di indicazioni chiare e precise della base di fatto e di diritto nel quale si
inserivano le questioni sollevate;
• nel caso di controversie fittizie, nelle quali le parti erano già d’accordo sull’esito della
disputa.
È prevista, inoltre, dalla Corte la possibilità di accordare misure cautelari nel caso si
verificassero gli elementi del fumus boni iuris e del periculum in mora.
Per ciò che attiene agli effetti della sentenza pregiudiziale emanata dalla Corte, è opportuno
fare una distinzione. La sentenza interpretativa della Corte vincola il giudice nazionale, che
dovrà eventualmente disapplicare la norma nazionale confliggente con la norma comunitaria.
La sentenza avrà, però, la sua efficacia anche al di fuori del contesto che l’ha provocata, per
diventare vincolante nei confronti di altri giudici che saranno tenuti, in futuro, ad applicarla.
Viceversa, nel caso di una sentenza di validità emessa dalla Corte, l’effetto della stessa si
esplicherà limitatamente al caso di specie ed ai motivi del rinvio. Anche la formula utilizzata
dalla Corte (“dall’esame delle questioni sottoposte alla Corte non sono emersi elementi idonei
ad inficiare la validità dell’atto”), fa intendere che la legittimità dell’atto che si ritiene non
viziato potrebbe essere messa in discussione in un momento successivo e per motivi diversi.
Ricorso in carenza
artt. 232 e 233 Trattato CE
Nel caso in cui il comportamento delle istituzioni abbia rilievo sotto il profilo omissivo, si parla
di ricorso in carenza, che consiste nella constatazione, da parte della Corte di Giustizia, della
omissione di atti dovuti da parte delle istituzioni che a ciò erano tenute.
Sono soggetti legittimati a ricorrere: gli Stati membri, le istituzioni, diverse da quella imputata
di carenza, nonché le persone fisiche e giuridiche se l’atto le riguarda direttamente e se non si
tratti di raccomandazioni o pareri.
Nel novero dei legittimati attivi è inclusa anche la BCE, limitatamente ai ricorsi in settori che
rientrano nella sua competenza o siano stati proposti contro la stessa.
L’innovazione concerne anche i legittimati passivi, tra i quali è stato incluso formalmente il
Parlamento europeo, prima genericamente compreso tra le altre istituzioni della Comunità.
Prima di adire la Corte occorre che l’istituzione carente sia messa in mora e che per due mesi
non abbia preso posizione: entro i due mesi successivi il ricorrente può rivolgersi alla Corte.
Se la Corte dichiara contraria al trattato l’astensione dell’istituzione comunitaria, quest’ultima
ha l’obbligo di adottare i provvedimenti necessari per l’esecuzione della sentenza. Contro
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l’inosservanza di tale obbligo potrà solo esperirsi un nuovo ricorso ai sensi dell’art. 232 del
Trattato.
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Pilastri dell’Unione europea
art. 1 Trattato sull’Unione europea
Espressione comunemente usata nel gergo comunitario per descrivere la struttura tripolare
dell’Unione europea così come delineata dal Trattato di Maastricht.
I tre pilastri che compongono il figurato tempio dell’Unione sono:
— la dimensione comunitaria, disciplinata dalle disposizioni contenute nei trattati
istitutivi delle Comunità europee;
— la politica estera e di sicurezza comune disciplinata dal titolo V del Trattato
sull’Unione europea;
— la cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni contemplata dal
titolo VI del Trattato sull’Unione europea, divenuta, in seguito alle modifiche introdotte
dal Trattato di Amsterdam, cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale e che
costituisce attualmente il terzo pilastro dell’Unione.
La struttura a tempio è il risultato di un compromesso faticosamente raggiunto fra le volontà
contrapposte degli Stati membri al momento della firma del Trattato di Maastricht. In
quell’occasione alcuni Stati, temendo che una netta separazione potesse provocare la
disgregazione della costruzione europea, propendevano per l’inserimento delle tre colonne in
un testo giuridico unitario, assimilando di fatto le nuove politiche a quelle già previste dai
trattati originari. Altri sostenevano invece la necessità di salvaguardare il potere decisionale
degli Stati membri nei settori della politica estera nonché degli affari interni e della giustizia. Il
risultato finale fu questa anomala struttura che attribuisce alle diverse istituzioni ruoli diversi a
seconda del pilastro in cui operano.
La principale differenza tra i tre pilastri è data dal fatto che per le politiche avviate nell’ambito
del primo pilastro si applica il cd. metodo comunitario, che marginalizza il ruolo dei governi
nazionali a favore delle istituzioni comunitarie. I governi degli Stati membri infatti possono
intervenire soltanto nelle forme e secondo le procedure previste dai trattati, bilanciando il loro
ruolo con quello delle altre istituzioni; ciò vuol dire, ad esempio, che nessun atto può essere
adottato nell’ambito del primo pilastro dal Consiglio dell’Unione, istituzione che più
direttamente rappresenta gli interessi degli Stati membri, senza la preventiva iniziativa
legislativa della Commissione delle Comunità europee; com’è noto i trattati istitutivi riservano
l’iniziativa legislativa alla sola Commissione che esercita in tal modo una sorta di controllo a
priori sull’attività legislativa comunitaria.
La collaborazione nell’ambito degli altri due pilastri è, invece, di carattere tipicamente
intergovernativa, attribuendo tutto il potere decisionale agli Stati membri. Gli strumenti tipici
della cooperazione nell’ambito del secondo e del terzo pilastro sono i principi e gli
orientamenti generali, le strategie comuni, le azioni comuni, le posizioni comuni, la
cooperazione sistematica, le decisioni-quadro e le decisioni, tutti scarsamente vincolanti
per gli Stati membri e comunque quasi sempre adottabili soltanto all’unanimità. L’unico atto
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veramente vincolante, previsto soltanto nell’ambito della cooperazione del terzo pilastro, è la
convenzione internazionale che però impegna lo Stato soltanto nel momento in cui ha ricevuto
la ratifica; non a caso quasi tutte le convenzioni elaborate sulla base della cooperazione in
materia di giustizia e affari interni non sono ancora entrate in vigore.
Per quanto riguarda il terzo pilastro è da sottolineare che il Trattato di Maastricht ha anche
previsto la possibilità di trasferire alcune politiche avviate in questo settore nell’ambito del
primo pilastro, avvalendosi della cd. passerella comunitaria e procedendo ad una
comunitarizzazione7 della relativa disciplina. Tale facoltà è stata già sfruttata in occasione
della firma del Trattato di Amsterdam che ha provveduto alla comunitarizzazione delle
disposizioni in materia di asilo, visti, immigrazione e cooperazione doganale.
Primo pilastro
art. 1 Trattato sull’Unione europea
Nell’ambito dell’assetto istituzionale dell’Unione europea delineato dal Trattato di Maastricht,
con questa espressione si fa riferimento ai meccanismi e alle politiche che rientrano nel campo
di attività delle tre Comunità create negli anni ’50.
L’architettura istituzionale dell’Unione europea, sulla base di quanto disposto dall’articolo 1 del
Trattato di Maastricht, viene generalmente individuata come una struttura che poggia su tre
diversi pilastri, il primo dei quali è dato dalle tre Comunità già esistenti; a questo primo
pilastro vanno ad aggiungersi gli altri due relativi alla politica estera e di sicurezza comune e
alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.
Il motivo di questa anomala costruzione va ricercato nella volontà degli Stati membri di non
abdicare del tutto alle proprie prerogative sovrane in settori da sempre considerati di
competenza interna. Nel primo e nel secondo pilastro, infatti, si attua una classica
cooperazione intergovernativa, mentre la cooperazione nei settori del primo pilastro si
avvale di procedure del tutto particolari, applicandosi il cd. metodo comunitario.
In pratica per le politiche intraprese nell’ambito del primo pilastro gli Stati membri hanno
rinunciato alla propria sovranità, attribuendo una competenza esclusiva in materia alle
istituzioni comunitarie. Ciò non vuol dire che gli Stati non hanno alcun potere nei settori
individuati, ma semplicemente che tali poteri vanno esercitati nei modi e secondo le procedure
proprie dei meccanismi comunitari. In particolare la volontà degli Stati si manifesta in seno al
7 Comunitarizzazione Con il termine comunitarizzazione si fa riferimento all’assorbimento in ambito comunitario di politiche in settori che prima erano svolte soltanto a livello di cooperazione tra i governi nazionali, con un coinvolgimento marginale delle istituzioni comunitarie. Con il trasferimento sotto l’ombrello comunitario le procedure cambiano radicalmente: in questo caso, infatti, sono ben definite le istituzioni alle quali compete l’approvazione degli atti (in pratica quelle comunitarie), la procedura di adozione degli stessi è compiutamente disciplinata dal Trattato CE, gli atti che possono essere adottati sono previsti dallo stesso trattato e la Corte di Giustizia è competente ad esercitare il proprio controllo giurisdizionale sulle disposizioni emanate. Tutte queste garanzie non sono invece presenti laddove si applicasse il cd. metodo intergovernativo, nell’ambito del quale i governi degli Stati membri sono i soli arbitri delle decisioni assunte. Con il Trattato di Amsterdam molte politiche condotte nell’ambito della cooperazione in materia di giustizia e affari interni sono state comunitarizzate, così come gli Accordi di Schengen che addirittura esulavano completamente dal quadro istituzionale dell’Unione.
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Consiglio, che tuttavia può deliberare anche senza raggiungere l’unanimità, diversamente da
quanto avviene negli altri due pilastri per i quali la regola è quella del consenso di tutti gli
Stati, regola parzialmente mitigata con l’introduzione del meccanismo dell’astensione
costruttiva .
Il Trattato di Maastricht contiene anche una disposizione, la cd. passerella comunitaria, che
consente il passaggio di determinate politiche dal terzo al primo pilastro; tale strumento è
stato già utilizzato in occasione della stesura del Trattato di Amsterdam con il quale si è
proceduto alla comunitarizzazione delle politiche in materia di immigrazione, asilo, visti e
tematiche connesse, provvedendo altresì alla ridenominazione del terzo pilastro che ora
riguarda la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.
Secondo pilastro
art. 1 Trattato sull’Unione europea
Termine che indica, nell’ambito della tipica struttura a tempio dell’Unione, la politica estera e di
sicurezza comune.
La politica relativa al secondo pilastro, seppur gestita ancora al di fuori delle strutture
istituzionali delle Comunità, con il Trattato di Maastricht è entrata a far parte a pieno titolo
degli obiettivi comunitari.
Terzo pilastro
artt. 29-41 Trattato sull’Unione europea
Con riferimento alla struttura istituzionale introdotta dal Trattato di Maastricht con
l’espressione terzo pilastro si indica l’attuale cooperazione di polizia e giudiziaria in
materia penale. Nell’originaria formulazione del Trattato di Maastricht (prima delle modifiche
introdotte dal Trattato di Amsterdam) il terzo pilastro riguardava la cooperazione nei settori
della giustizia e degli affari interni.
La caratteristica fondamentale del terzo pilastro è il metodo intergovernativo con cui
vengono adottati gli atti tutti scarsamente vincolanti ad eccezione delle convenzioni
internazionali.
In seguito alle modifiche apportate dal Trattato di Amsterdam, che ha proceduto alla
comunitarizzazione delle disposizioni in materia di asilo, visti, immigrazione e
cooperazione doganale, rientrano attualmente nel suddetto pilastro:
— la lotta contro il terrorismo;
— la tratta degli esseri umani;
— i reati contro i minori;
— il traffico di droga e armi;
— la lotta contro la corruzione e la lotta contro le frodi.
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Gli obiettivi sono attuati attraverso una più stretta cooperazione fra le forze di polizia, fra le
autorità giudiziarie in materia penale e attraverso un ravvicinamento delle normative nazionali
in materia penale.
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Quattro libertà
artt. 3 e 14 Trattato CE
Sono le quattro libertà fondamentali, simbolo dell’integrazione comunitaria, previste dal
Trattato di Roma per la completa realizzazione il mercato interno:
— la libera circolazione delle merci che prevede la soppressione delle barriere
doganali e il conseguente libero trasporto delle merci tra gli Stati membri;
— la libera circolazione delle persone che ha abolito tutte le formalità doganali tra gli
Stati membri a carico dei cittadini comunitari in transito e ha dato la possibilità ai
lavoratori, sia essi subordinati che autonomi, di svolgere un’attività lavorativa sul
territorio di qualunque Stato membro;
— la libera prestazione dei servizi che si riferisce alla possibilità di fornire prestazioni
retribuite in uno Stato membro diverso da quello di stabilimento;
— la libera circolazione dei capitali in virtù della quale si è avuta la completa
liberalizzazione valutaria e l’integrazione nel settore dei servizi finanziari.
Libera circolazione delle merci
artt. 23-31 Trattato CE; Regolamento CEE 12 ottobre 1992, n. 2193/92
Gli articoli 23-31 del Trattato CE disciplinano la libera circolazione delle merci, sulla premessa
che la Comunità è fondata sopra un’unione doganale. L’attuazione dell’unione doganale è
avvenuta progressivamente, con la soppressione non solo delle barriere fisiche, tecniche e
fiscali, ma anche e soprattutto degli ostacoli tariffari e non tariffari.
L’abolizione degli ostacoli tariffari si riferisce ai dazi doganali ed alle tasse di effetto
equivalente ed è avvenuta il 1° luglio 1968. Per ostacoli non tariffari si intendono, invece, le
restrizioni quantitative all’importazione e all’esportazione e le misure di effetto
equivalente. La differenza tra i due tipi di ostacoli sta non solo nella diversa natura dei dazi
doganali e delle tasse di effetto equivalente rispetto alle restrizioni, ma anche nella diversa
disciplina cui sono sottoposti. Queste ultime, infatti, godono della deroga prevista dall’articolo
30 del Trattato CE, mentre l’articolo 23 pone a carico dei dazi e delle tasse di effetto
equivalente un divieto di carattere assoluto. Ciononostante, sia per le tasse, che per le misure
di effetto equivalente, la Corte di Giustizia ha compiuto un notevole lavoro per ampliare il più
possibile la nozione e farvi rientrare anche quegli oneri o pratiche che solo apparentemente
non erano discriminanti. Va aggiunto, inoltre, che l’articolo 90 del Trattato CE fa divieto agli
Stati membri di applicare, direttamente o indirettamente, imposizioni interne discriminatorie o
protezionistiche rispetto ai prodotti nazionali.
Per quanto riguarda le barriere doganali, invece, dal 1° gennaio 1993 non esistono più
impedimenti al transito da uno Stato all’altro di merci: sono in tal modo scomparsi tutti i
controlli e le formalità doganali. L’attraversamento di una frontiera interna, pertanto, non è più
un evento che dà necessariamente luogo ad un controllo delle merci in transito: ciò non vuol
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dire che lo Stato non potrà più effettuare controlli sui beni viaggianti sul suo territorio, ma più
semplicemente implica un controllo non più sistematico alle frontiere ed attuato secondo
procedure non discriminatorie riguardo all’origine e al modo di trasporto delle merci.
L’intera materia è ora disciplinata dal regolamento n. 2913 del 12 ottobre 1992, il Codice
doganale comunitario, che ha raccolto e armonizzato l’intera normativa relativa al transito
delle merci in ambito comunitario e ricomprende gli scambi tra paesi membri attraverso paesi
terzi e gli scambi con paesi terzi.
Quando lo scambio di merci tra paesi comunitari comporta, per motivi di trasporto,
l’attraversamento di un paese terzo, è necessario porre in essere (tanto al momento dell’uscita
dalla Comunità, quanto al momento del reingresso in essa) un’operazione doganale, sia al fine
di provare lo status comunitario della merce al momento dei reingresso nel territorio della
Comunità, sia a garanzia che la merce stessa non venga immessa in consumo nello Stato
attraversato.
Le modalità di effettuazione di tale operazione doganale variano a seconda che il paese terzo
attraversato aderisca o meno all’EFTA.
Riguardo le merci esportate o importate da paesi terzi, la realizzazione del mercato interno ha
imposto necessariamente un regime uniforme.
Per ciò che concerne le esportazioni verso paesi terzi possono verificarsi due ipotesi:
a) le formalità di esportazione saranno espletate in un ufficio di frontiera della Comunità e
l’inoltro delle merci dallo Stato membro di esportazione fino all’ufficio di frontiera dovrà
avvenire senza alcuna formalità;
b) le formalità di esportazione avranno luogo in un ufficio doganale situato all’interno della
Comunità e l’inoltro delle merci fino all’ufficio doganale della frontiera comunitaria sarà
effettuato senza alcun controllo alle frontiere interne. Nell’ufficio doganale di frontiera dovrà
comunque essere presentato un esemplare della bolletta di esportazione per consentire di
attestare l’uscita delle merci dal territorio doganale della Comunità.
Relativamente alle importazioni di merci da paesi terzi saranno possibili tre soluzioni:
a) le formalità di importazione definitiva saranno espletate nel primo ufficio doganale di
ingresso nella Comunità e le merci potranno, quindi, circolare nel territorio comunitario
senza alcuna forma di controllo;
a) nel primo ufficio di ingresso nella Comunità le merci saranno immesse soltanto in libera
pratica mediante il pagamento dei dazi doganali e circoleranno vincolate al regime di
transito comunitario interno fino al luogo di immissione in consumo, presso la cui dogana
saranno versate le imposte interne;
b) si potrà procedere, contestualmente, alla immissione in libera pratica ed alla immissione in
consumo presso la dogana interna, nella cui competenza territoriale è compreso il luogo di
destinazione finale delle merci. In tale ipotesi le merci circoleranno nell’ambito del mercato
unico e fino al luogo di immissione in consumo vincolate al regime di transito comunitario
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esterno, e presso la dogana interna saranno corrisposti sia i dazi doganali che le imposte
interne.
Libera circolazione delle persone
artt. 3, 14, 17-21 Trattato CE
Con questa espressione si fa riferimento al diritto attribuito ai cittadini degli Stati membri
dell’Unione europea di circolare e soggiornare liberamente su tutto il territorio comunitario,
indipendentemente dall’esercizio di un’attività lavorativa.
Originariamente destinato dal Trattato di Roma ai soggetti economicamente attivi per la
realizzazione del mercato interno, questo diritto è stato successivamente esteso a tutti i
cittadini dell’Unione. Il primo ampliamento della libertà di circolazione dei lavoratori è
riconducibile alla risoluzione del 23 giugno 1981 con la quale venne istituito il passaporto
europeo. L’obiettivo era rafforzare nei cittadini degli Stati membri il sentimento di
appartenenza ad una stessa Comunità e facilitarne la circolazione sul territorio comunitario.
Progressi più significativi si sono avuti con tre direttive (v.) del 1990, recepite
dall’ordinamento italiano con il D.Lgs. 26 novembre 1992, n. 470:
— la direttiva n. 90/364 relativa al diritto generico di soggiorno. In virtù di questo atto, gli
Stati membri accordano il diritto di soggiorno ai cittadini comunitari che non
beneficiano di questo diritto sulla base di altre disposizioni del Trattato istitutivo delle
Comunità e dispongono il rilascio della carta di soggiorno di cittadino di uno Stato
membro, valida per cinque anni e automaticamente rinnovabile;
— la direttiva n. 90/365 relativa al diritto di soggiorno dei lavoratori salariati e non
salariati che hanno cessato la propria attività professionale, estendendo il diritto in
questione anche ai pensionati;
— la direttiva n. 90/366 (successivamente sostituita dalla direttiva n. 93/96) relativa al
diritto di soggiorno per gli studenti, cittadini di uno Stato membro. Il diritto di
soggiorno, constatato mediante la carta di soggiorno, è limitato alla durata della
formazione seguita o all’anno, se la durata della formazione è superiore a tale periodo:
in tal caso la carta di soggiorno è rinnovabile annualmente.
La disponibilità di propri mezzi di sussistenza, tali da evitare oneri per lo Stato
ospitante, è il requisito indispensabile per l’esercizio del diritto di soggiorno.
Strettamente collegato alla libera circolazione delle persone è la realizzazione di uno spazio
senza frontiere, con l’abbattimento dei controlli tra gli Stati membri e l’aumento di quelli alle
frontiere esterne. L’accordo di maggiore rilevanza in questo ambito è quello siglato a
Schengen il 14 giugno 1985 (successivamente integrato dalla Convenzione di applicazione del
19 giugno 1990), cui l’Italia ha aderito nel 1993 ed ha applicato dal 26 ottobre 1997. Il
notevole progresso compiuto dall’accordo è stato però limitato dal fatto che non tutti gli Stati
membri vi hanno aderito, creando in tal modo una frammentazione dello spazio di libera
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circolazione.
Importanti innovazioni nell’ambito della libera circolazione delle persone sono state introdotte
dal Trattato di Maastricht, che ha attribuito a tutti i cittadini degli Stati membri la
cittadinanza europea, che ha come corollari: il diritto per i cittadini degli Stati membri di
circolare e di soggiornare liberamente, fatta salva la competenza esclusiva di ciascuno Stato a
definire quali siano i soggetti che possono avere la propria nazionalità; il diritto di voto ed
eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei
cittadini di detto Stato; il diritto di usufruire della tutela diplomatica e consolare dello Stato
terzo, al pari dei cittadini di quest’ultimo, qualora su tale territorio lo Stato membro di cui ha la
cittadinanza non è rappresentato; il diritto di presentare petizioni al Parlamento e denunce al
mediatore europeo.
Il Trattato prevede anche disposizioni per i cittadini dei paesi terzi, attribuendo alla Comunità
una competenza specifica in materia di visti (v.) e introducendo la cooperazione nel settore
della giustizia e degli affari interni. Quest’ultima può condurre all’adozione di misure in materia
di attraversamento delle frontiere esterne, di politica dell’immigrazione, di lotta contro il
terrorismo, stabilendo in tal modo un parallelismo tra la creazione di uno spazio di libertà
interno ed il rafforzamento delle politiche comunitarie verso l’esterno del territorio comunitario.
Con il Trattato di Amsterdam molte delle materie prima disciplinate dalle procedure
intergovernative nell’ambito della cooperazione in materia di giustizia e affari interni sono state
comunitarizzate con l’introduzione di un nuovo titolo nel Trattato CE in materia di “Visti, asilo,
immigrazione ed altre politiche connesse alla libera circolazione delle persone”. Inoltre, in virtù
della progressiva convergenza degli obiettivi di Schengen con quelli dell’Unione europea, e al
fine di rimuovere gli ostacoli derivanti dall’esistenza di due sistemi distinti, le disposizioni del
nuovo trattato hanno previsto la comunitarizzazione dell’acquis di Schengen. Tentativi in
proposito erano già stati effettuati negli anni precedenti ma diversi Stati membri si erano
tenacemente opposti, in primis la Gran Bretagna, che, temendo un afflusso incontrollato di
cittadini extracomunitari sul proprio territorio, non solo non aveva aderito alla Convenzione ma
si è anche opposta alla diretta applicabilità dell’art. 14 del Trattato CE relativo alla libera
circolazione delle persone. La comunitarizzazione della Convenzione ad opera del Trattato di
Amsterdam ha, dunque, dovuto tener conto delle posizioni della Gran Bretagna e dell’Irlanda:
l’art. 4 del protocollo sull’integrazione dell’acquis di Schengen ha pertanto previsto che questi
due Stati possano non applicare le disposizioni dell’accordo.
Libera prestazione di servizi
artt. 49-55 Trattato CE
Possibilità garantita ai cittadini comunitari di prestare la propria attività in un altro Stato della
Comunità alle stesse condizioni dei professionisti che vi risiedono, senza dover per questo
stabilirsi nello Stato in cui la prestazione è fornita.
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A differenza del diritto di stabilimento la libera prestazione di servizi non pone come
condizione essenziale del suo esercizio la residenza permanente in un altro Stato membro.
Come per il diritto di stabilimento, però, anche per la libera prestazione di servizi deve essere
applicato il principio della parità del trattamento nazionale: sono, quindi, nulle, non solo le
clausole di nazionalità, ma anche le clausole di residenza e di stabilimento, che operano una
discriminazione verso soggetti, che risiedono in uno Stato diverso da quello nel quale
effettuano la prestazione. È bene sottolineare che gli articoli 49 e 50 non impediscono ad uno
Stato membro di disciplinare l’esercizio, nel proprio territorio, di un’attività non salariata,
sottoponendolo eventualmente a determinate restrizioni e condizioni, ma queste devono
trovare applicazione anche nei confronti dei cittadini dello Stato membro (vedi sentenza CGCE,
Commissione c. Francia, del 26 febbraio 1991 in causa C-154/89).
Secondo il disposto dell’art. 50 del Trattato CE sono considerate come servizi le prestazioni
fornite normalmente dietro retribuzione, in quanto non siano regolate dalle disposizioni relative
alla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone.
In particolare i servizi comprendono:
— attività di carattere industriale;
— attività di carattere commerciale;
— attività artigiane;
— attività delle libereprofessioni.
Gli artt. 45 e 46 del trattato CE stabiliscono due eccezioni:
— la prima esclude dalla liberalizzazione le attività che partecipino, sia pure
occasionalmente, all’esercizio di pubblici poteri;
— la seconda prevede l’applicazione di disposizioni legislative, regolamentari, ed
amministrative, che prevedono un regime particolare per i non residenti e che siano
giustificate da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica.
Libera circolazione dei capitali
artt. 56-60 Trattato CE
Secondo quanto disposto dall’art. 56, paragrafo 1, del Trattato CE “sono vietate tutte le
restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri nonché tra Stati membri e Paesi terzi”. Il
paragrafo 2 dello stesso articolo prevede inoltre, che “sono vietate tutte le restrizioni sui
pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi”. Già dal dettato
dell’articolo possiamo tracciare una differenza tra i due commi, relativamente all’oggetto della
libertà esaminata: infatti, mentre i pagamenti sono “trasferimenti di valuta che costituiscono
una controprestazione nell’ambito di un negozio sottostante”, i movimenti di capitale sono
“operazioni finanziarie che riguardano essenzialmente la collocazione o l’investimento di cui
trattasi e non il corrispettivo di una prestazione” (vedi sentenza CGCE, Luisi, del 30 gennaio
1984, cause riunite 286/82 e 26/83).
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La precisazione ha una sua importanza per definire il campo di applicazione della libertà in
esame, in quanto per la libera circolazione dei capitali non fu attuata una liberalizzazione
assoluta ed incondizionata come per le altre libertà, ma solo “nella misura necessaria al buon
funzionamento del mercato comune”. Si tratta senza dubbio di una formulazione più prudente
e meno liberale, in virtù di un settore che andava ad investire la politica economica e
monetaria degli Stati membri: tutto ciò, fino all’inizio degli anni ’80, era guardato con molta
cautela, poiché si riteneva che una liberalizzazione assoluta dei movimenti di capitali, avrebbe
potuto provocare uno squilibrio nella bilancia dei pagamenti di uno o più Stati, pregiudicando il
buon funzionamento del mercato comune (vedi sentenza CGCE, Casati, in causa 203/80 dell’11
novembre 1981).
La liberalizzazione dei movimenti di capitali è stata attuata attraverso l’emanazione di tre
direttive (rispettivamente nel 1960, nel 1962 e nel 1986) che, tuttavia, non avevano rimosso
tutti i vincoli ancora esistenti.
Soltanto con la direttiva 88/361 del 24 giugno 1988 è stata introdotta in ambito comunitario la
completa liberalizzazione dei movimenti di capitali, con la soppressione di tutti i controlli e le
restrizioni in materia di cambi.
Il Trattato CE prevede comunque una clausola di salvaguardia, inserita nell’art. 60, laddove
recita che “uno Stato membro può, per gravi ragioni politiche e per motivi d’urgenza, adottare
misure unilaterali nei confronti di un paese terzo per quanto concerne i movimenti di capitali
ed i pagamenti”. L’adozione di tali misure è però subordinata ad alcune condizioni:
— il Consiglio non deve aver adottato alcuna misura;
— lo Stato deve informare la Commissione e gli altri partner comunitari;
— non deve essere intervenuta una delibera del Consiglio che imponga la revoca di tali
atti.
Per far fronte a circostanze eccezionali è, altresì, previsto che le misure di salvaguardia
possano essere adottate dal Consiglio, su proposta della Commissione, sentita la BCE e per un
periodo non superiore a sei mesi.
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Politiche comunitarie
artt. 3-5, 23-188 Trattato CE
Sono gli interventi determinati e diretti delle istituzioni comunitarie e quelli che integrano le
azioni degli Stati membri, realizzati in settori individuati dai trattati istitutivi e nei quali si è
proceduto ad un trasferimento di competenze dagli Stati membri alla Comunità. Le politiche
comunitarie sono disciplinate dalla parte IV del Trattato CE (articoli da 23 a 188).
In origine il Trattato istitutivo della Comunità contemplava esplicitamente soltanto i settori
strettamente connessi alla realizzazione della libera circolazione dei beni, dei servizi, delle
persone e dei capitali: agricoltura, concorrenza, trasporti e commercio. Ben presto, però, il
campo d’azione delle politiche comuni si estese anche ad altri settori, a mano a mano che
procedeva il processo di integrazione e si rendeva necessario operare anche in campi non
esplicitamente previsti dai trattati istitutivi. Attraverso una interpretazione estensiva dell’ex
art. 235 (ora 308), fondamento dei cd. poteri impliciti, furono ad esempio avviate azioni nel
campo dell’ambiente, della coesione economica e sociale o della ricerca e sviluppo tecnologico,
successivamente inserite a pieno titolo tra le politiche comunitarie con l’Atto unico europeo.
Tuttavia è soltanto con il Trattato di Maastricht che si è assistito ad un notevole ampliamento
dei settori di intervento della Comunità (istruzione, cultura, sanità pubblica, protezione dei
consumatori, reti transeuropee, industria, cooperazione allo sviluppo); tale estensione fu
parzialmente compensata dall’introduzione del principio di sussidiarietà.
Il Trattato di Amsterdam ha provveduto ad ampliare ulteriormente le politiche comuni,
introducendo nuove disposizioni in materia di occupazione, cooperazione doganale e politiche
connesse alla libera circolazione delle persone.
Politica sociale
Azioni e misure messe in atto dalla Comunità e dagli Stati membri che hanno come obiettivo la
promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e lo sviluppo
delle risorse umane.
Il Trattato firmato a Roma già prevedeva una serie di disposizioni relative alla politica sociale,
in particolare norme in materia di sicurezza sociale e relative al divieto di discriminazione tra
lavoratori e lavoratrici. Tuttavia i padri fondatori della Comunità non ritenevano necessario
introdurre disposizioni più specifiche, né tantomeno significativi strumenti di intervento;
fondamentalmente si pensava che il miglioramento delle condizioni sociali sarebbe stato una
logica e inevitabile conseguenza dell’integrazione economica.
Un primo impulso ad una più incisiva politica sociale è stato dato con l’approvazione dell’Atto
unico europeo, che prevedeva la procedura di cooperazione, e non più l’unanimità, per
l’adozione degli atti comunitari in questo campo.
Lo stesso trattato tentava per la prima volta di ampliare e sviluppare il dialogo tra le parti
sociali a livello europeo, prefigurando anche la stipula di contratti collettivi di lavoro applicabili
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su tutto il territorio comunitario. Nonostante queste novità la politica sociale europea stentava
a decollare. Per questo motivo durante i lavori preparatori del Trattato di Maastricht fu deciso
di ampliare notevolmente la dimensione sociale della Comunità, estendendo le sue competenze
anche a settori fino ad allora esclusi. Tale decisione incontrava, però, la netta opposizione del
Regno Unito, deciso a bloccare qualsiasi intervento comunitario in questo campo.
La contrapposizione fu superata solo facendo ricorso ad uno stratagemma, alcuni dicono
“pasticcio”, giuridico: il Trattato CE rimase sostanzialmente immutato per quanto riguarda gli
articoli sulle disposizioni sociali, ma ad esso fu aggiunto un protocollo sulla politica sociale,
sottoscritto da 11 Stati (con esclusione del Regno Unito), che in pratica riscriveva gli articoli
del trattato. In questo modo, tutti gli Stati firmatari si sono impegnati a considerarsi vincolati
da questa fonte più che dal Trattato CE, inclusi i nuovi Stati che hanno aderito nel 1995.
Soltanto con il Trattato di Amsterdam è stata superata questa anomalia, dal momento che il
Regno Unito (nel frattempo passato da un governo conservatore ad uno laburista) ha accettato
di aderire pienamente alle politiche comunitarie in questo settore. Nel procedere alla revisione
dei trattati si è provveuto a trasfondere il contenuto dell’accordo sulla politica sociale nei nuovi
articoli da 136 a 145 ed è stato contestualmente abrogato il protocollo n. 14 allegato al
Trattato sull’Unione che conteneva, appunto, le disposizioni adottate a Maastricht.
Attualmente per conseguire gli obiettivi comunitari in materia di politica sociale, tenendo
presente i diritti sociali fondamentali così come stabiliti nella Carta sociale europea e nella
Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, la Comunità sostiene e
completa l’azione degli Stati membri nei seguenti settori:
— ambiente di lavoro, al fine di migliorarlo per proteggere la sicurezza e la salute dei
lavoratori. In questo campo può ricordarsi la direttiva 89/391, contenente una serie di
garanzie minime suscettibili di essere specificate, completata da altre 12 direttive che si
ispirano alla considerazione di base che “occorre adeguare il lavoro all’uomo”;
— formazione professionale. L’azione si è sviluppata sia attraverso l’impiego dei fondi
strutturali, in particolare il FSE, sia nella realizzazione di un quadro di riferimento
relativo a numerosi programmi. Da segnalare anche l’attività di ricerca e informazione
promossa dal CEDEFOP;
— parità uomo donna. Sebbene già il Trattato sull’Unione, nel richiamare nel preambolo la
Carta sociale europea e la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei
lavoratori, faceva proprio il rispetto di uguaglianza tra uomini e donne, è solo con il
Trattato di Amsterdam che tale principio diventa uno degli obiettivi principali della
Comunità;
— armonizzazione dei rapporti di lavoro. La disciplina è tutta rivolta a porre garanzie
minime a tutela dei lavoratori. Si segnalano in questo settore numerose direttive e in
particolare la direttiva 94/45 che ha previsto l’istituzione del Comitato aziendale
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europeo formato di rappresentanti dei dipendenti e che ha il diritto di essere informato
e consultato su tutte le misure riguardante gli interessi dei lavoratori;
— dialogo sociale. Se già il Trattato di Roma prevedeva un Comitato economico e sociale
con funzioni consultive, formato dai rappresentanti delle parti sociali, è con il nuovo
articolo 139 del Trattato CE che si prevede una reale promozione del dialogo tra le parti
sociali.
Politica della concorrenza
Politica comunitaria volta a realizzare nel mercato comune una sana e corretta concorrenza tra
le imprese in esso operanti.
Il diritto della concorrenza ha costituito l’elemento principale dei progetti di unificazione
europea; dopo il fallimento della Comunità europea di difesa, infatti, gli Stati membri hanno
convenuto che, prima di poter realizzare una unione politica, era indispensabile creare una
vera unione economica, il cui nucleo centrale fosse rappresentato dalla disciplina dei
comportamenti concorrenziali delle imprese.
Nel porre il principio (all’articolo 3) che l’azione della Comunità comporta “la creazione di un
regime volto a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato comune”, gli estensori
del Trattato si sono riferiti ai meccanismi tipici dell’economia di mercato.
Pertanto la politica di concorrenza comunitaria mira a tre obiettivi fondamentali:
— contribuire a realizzare l’unicità del mercato comune a vantaggio delle imprese e dei
consumatori. Ciò significa che, oltre ad eliminare gli ostacoli alle frontiere, occorre
applicare tutte quelle regole che impediscono alle imprese di creare artificiose barriere
economiche con accordi di cartello: il consumatore deve essere in condizione di poter
accedere a tutti i beni prodotti nella Comunità ai migliori prezzi, attraverso la piena
trasparenza e fluidità del mercato comunitario;
— impedire l’abuso di potere economico, cioè non consentire che eventuali imprese
sfruttino abusivamente la loro posizione economica dominante sul mercato per far
cadere la regola della “sana concorrenza”;
— mettere in condizione le imprese di razionalizzare la produzione e la distribuzione,
adeguandosi al progresso tecnico e scientifico. In tal modo si contribuisce ad una
migliore divisione professionale e tecnica nell’ambito delle attività economiche svolte nel
territorio comunitario e, di conseguenza, si creano le condizioni per realizzare una
maggiore competitività nel mondo delle imprese appartenenti alla Comunità.
A tal fine la disciplina prevede norme di carattere generale (art. 65 Trattato CECA e artt.85-90
Trattato CE) che enunciano i principi fondamentali della politica di concorrenza, seguiti da
un’elencazione di casi specifici che precisano il contenuto della normativa generale.
Le pratiche vietate, in quanto anticoncorrenziali, sono:
— le intese e le pratiche concordate tra imprese;
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— l’abuso di posizione dominante da parte di una o più imprese;
— l’emanazione o il mantenimento, nei confronti delle imprese pubbliche, di misure
nazionali contrarie al principio di non discriminazione ed alle regole di concorrenza;
— le pratiche di dumping;
— gli aiuti di Stato alle imprese nazionali.
Le disposizioni dei trattati istitutivi sono state nel corso degli anni integrate dalla normativa
derivata emanata dal Consiglio e dalla Commissione.
Tra gli atti più importanti del Consiglio volti all’applicazione delle norme del Trattato CE
figurano:
— il regolamento del 6 febbraio 1962, n.17. Esso dispone che gli accordi che possono
pregiudicare il corretto funzionamento della concorrenza all’interno del mercato comune e lo
sfruttamento abusivo della posizione dominante sono vietati, senza che vi sia la necessità di
un’apposita decisione. Il regolamento, inoltre, disciplina i poteri della Commissione
nell’applicazione delle sanzioni comunitarie volte a porre fine a comportamenti scorretti da
parte delle imprese. L’intervento della Commissione, oltre che d’ufficio, può essere sollecitato
dagli Stati membri o da persone fisiche o giuridiche che vi abbiano interesse (generalmente si
tratta di imprese danneggiate o concorrenti). È così che ha inizio la procedura di verifica,
attraverso la quale la Commissione avanzerà richieste di informazioni alle imprese, oppure si
potrà avvalere del diritto di accesso per effettuare delle verifiche in loco presso le sedi
dell’impresa.
Dopo la fase preliminare, e sulla base degli elementi raccolti, la Commissione può archiviare il
caso, inviando una lettera di archiviazione all’impresa, oppure può inviare a quest’ultima una
comunicazione di addebiti con la quale ha inizio la procedura formale. Quest’ultima può,
inoltre, concludersi con una decisione di infrazione, eventualmente comprensiva di
un’ammenda o di una penalità di mora, che sarà pubblicata sulla GUCE, oppure con una lettera
di archiviazione. Infine, è opportuno segnalare che la Commissione, oltre ad essere titolare di
un potere decisorio conferitogli dall’articolo 3 del regolamento n. 17 del 6 febbraio 1962, ha la
potestà di assumere provvedimenti provvisori. Tale potere le viene riconosciuto dalle pronunce
giurisprudenziali della Corte di Giustizia, al fine di rendere più incisivo il ruolo della
Commissione e per evitare che un pregiudizio grave ed attuale, possa arrecare un danno
irreparabile;
— il regolamento del 20 dicembre 1971, n. 2871. Con questo documento, il Consiglio autorizza
la Commissione ad esentare alcune categorie di accordi dai divieti comunitari;
— il regolamento del 21 dicembre 1989, n. 4064, in seguito più volte modificato, relativo al
controllo delle operazioni di concentrazione di imprese. Solo nelle ipotesi previste
espressamente da tale atto, gli Stati membri possono applicare la propria legislazione
nazionale alle operazioni di concentrazione che abbiano dimensione comunitaria. La sua
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applicazione è demandata alla competenza esclusiva della Commissione, sotto il controllo della
Corte di Giustizia.
La Commissione ha assunto un ruolo sempre più determinante nell’ambito della politica di
concorrenza. Essa, infatti, oltre al potere di istruttoria e di decisione nei casi di violazione della
normativa comunitaria può concedere esenzioni per categoria. La Commissione, inoltre,
pubblica ogni anno una Relazione generale sulla concorrenza. Redatta almeno un mese prima
della sessione del Parlamento europeo, la relazione contiene informazioni sulla politica della
concorrenza in generale e sull’attività della Commissione in tale ambito. Inizialmente questo
documento faceva parte integrante della relazione generale sull’attività della Comunità; a
partire dal 1971 il Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione di pubblicare una relazione
autonoma.
Antitrust
artt. 3, 81, 82, 86 Trattato CE; artt. 65-66 Trattato CECA
La politica della concorrenza riveste un ruolo particolarmente importante anche ai fini del
conseguimento degli obiettivi posti dalla Comunità europea per il raggiungimento della
integrazione economico-politica dell’Europa.
L’art. 3 del Trattato CE, infatti, prevede “la creazione di un regime inteso a garantire che la
concorrenza non sia falsata nel mercato interno”.
I principi fondamentali della disciplina della concorrenza, posti dal Trattato di Roma, possono
così sintetizzarsi:
— divieto di intese pregiudizievoli al commercio tra gli Stati membri e restrittive della
concorrenza all’interno del mercato comune, disponendo la nullità delle intese
eventualmente concluse con efficacia retroattiva;
— divieto, alle imprese che hanno una posizione dominante nel mercato comune, di farne
un esercizio abusivo (art. 82);
— disciplina delle relazioni finanziarie tra i poteri pubblici e le imprese pubbliche, nonché
le imprese alle quali gli Stati affidano la gestione di servizi nell’interesse generale (art.
86);
— regolamentazione degli interventi degli Stati membri nell’economia, per impedire che
gli aiuti economici alle imprese generino limitazioni e modifiche al libero esplicarsi della
concorrenza (artt. 87-89).
Il Trattato non contiene, invece, una specifica normativa in relazione alle concentrazioni
d’imprese.
L’applicazione delle regole comunitarie della concorrenza è demandata alla Commissione, che
ha il compito generale di fare rispettare il Trattato CE ed il controllo finale è riservato, ad
istanza degli interessati, alla Corte di Giustizia.
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Un particolare procedimento è previsto, infine, per realizzare il ravvicinamento delle legislazioni
nazionali in materia. L’art. 96 del Trattato stabilisce, infatti, che la Commissione debba
consultarsi con gli Stati membri interessati qualora abbia a constatare “che una disparità
esistente nelle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative degli Stati membri falsa
le condizioni di concorrenza sul mercato comune e provoca, per tale motivo, una distorsione
che deve essere eliminata”. Se attraverso tale consultazioni non si perviene ad un idoneo
accordo, spetta al Consiglio (su proposta della Commissione) stabilire le direttive necessarie
per eliminare la distorsione.
Anche il Trattato CECA, applicabile, ratione materiae, alle sole imprese produttrici di carbone
ed acciaio, vieta gli accordi e le attività miranti ad impedire, restringere o falsare il normale
esplicarsi della concorrenza nel mercato comune, nonché gli abusi di posizione dominante e le
concentrazioni finalizzate in vario modo ad alterarla od ostacolarla.
È prevista, peraltro, un’autorizzazione preventiva della Commissione per ogni operazione che
abbia di per se stessa, come effetto diretto o indiretto, una concentrazione tra imprese,
operata attraverso fusione, acquisto di azioni o di elementi dell’attivo, prestiti, contratti, o
qualunque altro mezzo di controllo.
Abuso di posizione dominante
art. 82 Trattato CE
Si intende la posizione di potenza economica di una o più imprese, che consente loro di
determinare unilateralmente il mercato, ostacolando di fatto il gioco della concorrenza, e di
tenere comportamenti indipendenti rispetto a concorrenti, clienti, consumatori (Sent. 13-2-
1979, in causa 85/76; Sent. 10-7-1991 in causa T-70/89).
La possibilità di fissare i prezzi a proprio piacimento è senz’altro l’indizio più sicuro
dell’esistenza di una posizione dominante.
Quest’ultima va inoltre misurata in rapporto al relevant market (cd. mercato rilevante) ossia il
territorio nel quale si producono gli effetti anticoncorrenziali, inteso sia in senso geografico, sia
rispetto alla natura del prodotto.
Non è necessaria, invece, l’esistenza di un vero e proprio monopolio di fatto: non occorre, cioè,
che sia stata effettivamente eliminata ogni concorrenza, bastando la possibilità per una o più
imprese di eliminare dal mercato, a proprio piacimento, le imprese concorrenti.
L’assunzione di una posizione dominante è dunque vietata solo quando viene sfruttata
abusivamente.
L’art. 82 del Trattato CE e la normativa italiana (L. 287/90) vietano l’abuso di posizione
dominante da parte di una o più imprese all’interno del mercato nazionale nella misura in cui
sia pregiudizievole al commercio tra gli Stati membri e specificano, con elencazione non
tassativa, che esso si realizza attraverso le seguenti pratiche:
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— imporre prezzi di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente
gravose;
— impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, lo sviluppo
tecnico o il processo tecnologico, a danno dei consumatori;
— applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente
diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare ingiustificati svantaggi per la
concorrenza;
— subordinare la conclusione dei contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di
prestazioni supplementari che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non
abbiano alcuna connessione con l’oggetto dei contratti stessi.
Concentrazione di imprese
Regolamento CEE 21 dicembre 1989, n. 4064/89; Regolamento CE 30 giugno 1997, n.
1310/97
Processo attraverso il quale le imprese si raggruppano allo scopo di indebolire la concorrenza
ed accrescere la quota di controllo del mercato.
Nel Trattato CE mancano esplicite previsioni normative volte a disciplinare le concentrazioni tra
imprese sotto il profilo della concorrenza. Ciò è dovuto al fatto che i redattori del trattato
ritenevano la creazione di un apposito strumento di controllo del fenomeno non necessario
poiché, negli anni cinquanta, sul mercato esistevano solo molte piccole e medie imprese. Di
conseguenza le concentrazioni tra imprese venivano addirittura favorite allo scopo di creare
organizzazioni di dimensioni adatte alla Comunità europea.
Nel corso degli anni, con il moltiplicarsi delle fusioni di imprese e delle acquisizioni tra
imprese, si è reso necessario tutelare la concorrenza anche dalle concentrazioni.
La Corte di Giustizia delle Comunità europee ha cercato di colmare la lacuna normativa
comunitaria a riguardo, attraverso un’interpretazione estensiva degli artt. 81, relativo al
controllo delle imprese, e 82, relativo alla repressione degli abusi di posizione dominante.
La Corte ha affermato inizialmente che “le concentrazioni cui partecipano imprese aventi una
posizione dominante possono, in talune circostanze, essere considerate casi di sfruttamento
abusivo di una posizione dominante, ai sensi dell’art. 86, e quindi vietati” (sentenza 21-2-
1973, nel caso Continental Can Company Inc. di New York).
In seguito è pervenuta ad una interpretazione ancor più evolutiva, affermando la possibilità di
applicazione cumulativa degli artt. 81 e 82 alla concentrazione (sentenza 17-11-1987, nel caso
Philip Morris Inc.).
L’interpretazione giurisprudenziale anzidetta ha improntato la formazione del regolamento n.
4064 sul controllo della concentrazione, adottato dal Consiglio il 21 dicembre 1989, la cui
applicazione è demandata alla competenza esclusiva della Commissione, sotto il controllo della
Corte di Giustizia.
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L’art. 3, paragrafo 1, del regolamento stabilisce che si ha un’operazione di concentrazione
quando due o più imprese procedono ad una fusione, oppure quando una o più persone che già
detengono il controllo di almeno un’impresa, o una o più imprese, acquistano direttamente od
indirettamente (sia tramite acquisto di partecipazioni nel capitale o di elementi del patrimonio,
sia tramite contratto o qualsiasi altro mezzo) il controllo dell’insieme o di parti di una o più
imprese.
Tutte le operazioni di concentrazione devono essere notificate alla Commissione, la quale dovrà
dichiarare (con una decisione) l’accertata compatibilità delle stesse con il mercato comune
ovvero ordinare (in ipotesi di incompatibilità) la separazione delle imprese o degli elementi
patrimoniali acquistati o incorporati, la cessazione del controllo comune, nonché ogni altra
misura idonea a ripristinare condizioni di concorrenza effettiva. L’incompatibilità, in particolare,
riguarda quelle operazioni che creano o rafforzano una posizione dominante, sì da ostacolare in
modo significativo il mantenimento o lo sviluppo della concorrenza effettiva nel mercato
comune o in una parte sostanziale di questo.
La procedura prevista dal suddetto regolamento è stata innovata dal regolamento del 30
giugno 1997, n. 1310. La nuova soluzione ha ampliato la competenza della Commissione,
finora limitata ai casi più rilevanti, abbassando la soglia del fatturato necessario per l’esame
delle operazioni di fusione e concentrazione da parte del Commissario Europeo.
Aiuti di Stato alle imprese
artt. 87-89 Trattato CE
Accanto alle regole applicabili alle imprese (private o pubbliche) e che mirano ad impedire che
le stesse tengano comportamenti anticoncorrenziali, il trattato CE prevede anche delle norme
in materia di concorrenza dirette più specificatamente agli Stati membri: si tratta degli artt. da
87 a 89, con i quali viene posto il principio della illegittimità degli aiuti pubblici alle imprese. In
realtà la decisione di uno Stato di concedere ad un’impresa un aiuto ha effetti
anticoncorrenziali, poichè pone l’impresa beneficiaria in una posizione di vantaggio rispetto ai
concorrenti .
In particolare le disposizioni in materia di aiuti degli Stati alle imprese da un lato rispecchiano
l’esigenza che la concorrenza non venga falsata da interventi statali, e dall’altro vengono
incontro a talune esigenze strutturali della politica economica interna. L’art. 87, di
conseguenza, al paragrafo 1 dispone che in linea di principio gli aiuti degli Stati sono
incompatibili col mercato comune. Ai paragrafi 2 e 3 prevede però che possano essere
erogate dagli Stati, previo accordo della Commissione, determinate categorie di aiuti. Esse
sono:
— gli aiuti sicuramente compatibili, come quelli destinati ad ovviare ai danni arrecati dalle
calamità naturali e quelli, a carattere sociale, concessi a singoli consumatori.
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— gli aiuti che possono essere considerati compatibili, come quelli destinati a favorire lo
sviluppo economico delle regioni meno sviluppate, o a promuovere lo sviluppo di un
importante progetto di interesse europeo.
Il controllo sugli aiuti degli Stati alle imprese spetta alla Commissione.
Per i regimi di aiuti esistenti, è istituito un controllo successivo e permanente, mentre per i
progetti è previsto un controllo preventivo.
In entrambi i casi, se lo Stato interessato non ottempera all’obbligo di stand still, la
Commissione o qualsiasi altro Stato interessato, può adire direttamente la Corte di Giustizia, in
deroga agli artt. 226 e 227 CE.
L’attività svolta dalla Commissione in questo settore è stata molto intensa, e si è basata su
alcuni principi che la stessa ha elaborato secondo i quali gli aiuti degli Stati devono:
a) essere inquadrati in una prospettiva comunitaria;
b) rispondere a determinati criteri economici: cioè, devono rendere le imprese capaci di
affrontare il mercato sulla base dei propri mezzi;
c) essere proporzionati alla gravità dei problemi da risolvere;
d) essere temporanei e cessare una volta raggiunto l’obiettivo.
In particolare, nell’applicazione pratica di tali principi, la Commissione ha individuato e
disciplinato tre principali tipi di aiuti degli Stati alle imprese, e precisamente:
— gli aiuti regionali, ossia quelli che gli Stati concedono sulla base di particolari problemi
relativi ad una determinata area geografica, caratterizzati dalla mancanza di specificità
settoriale (il che significa che ne possono usufruire tutte le imprese che operano in
quell’area, prescindendo dalle eventuali difficoltà del settore in cui operano);
— gli aiuti settoriali, ovvero quelli che gli Stati concedono in considerazione delle difficoltà
di un determinato settore economico;
— gli aiuti generali, cioè quelli che sono privi di una loro specificità regionale o settoriale e
che rispondono invece a necessità più generiche d’incentivazione, ovvero sono concessi
a imprese in crisi.
Quest’ultima categoria di aiuti è, ovviamente, quella più “sfuggente”; infatti la Commissione li
considera, in linea di principio, incompatibili col mercato comune. La Commissione ha tuttavia
ammesso che si possa presentare la necessità per gli Stati di erogare aiuti di tal genere; essi
possono di conseguenza essere autorizzati, ma a condizione che gli Stati ne rendano più
agevole il controllo, il che può avvenire, in generale, inserendo gli aiuti generali in programmi
regionali o settoriali.
Tutela dei consumatori
Sebbene il trattato istitutivo della Comunità europea non contemplasse alcuna specifica
disposizione in materia, è opinione corrente che essa abbia ricevuto notevole impulso ad opera
dell’ordinamento comunitario.
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Affinché alla politica dei consumatori fosse conferito uno specifico fondamento giuridico, fu
necessario attendere l’approvazione dell’Atto unico europeo, il quale dava mandato alla
Commissione di definire le proprie proposte di legislazione per la realizzazione del mercato
unico, in relazione a rigorosi criteri di tutela nei settori della salute, della sicurezza,
dell’ambiente e della protezione dei consumatori.
Ma è solo con il Trattato di Maastricht che viene segnata una tappa fondamentale per questo
settore. Con questo atto, infatti, è stato introdotto un apposito titolo dedicato alla tutela dei
consumatori (l’ex titolo XI, ora XIV), nel quale esplicitamente si affermava l’obiettivo di
garantire un “elevato livello di protezione dei consumatori”. Nello stesso titolo si precisava che
le iniziative dell’Unione europea, a protezione dei consumatori, dovevano tendere ad integrare
e a non sostituire le attività delle autorità nazionali regionali e locali, limitandosi a definire un
livello comune di tutela dei consumatori valevole per il mercato unico.
L’art. 129A (ora 153) del Trattato CE è stato successivamente riformulato con il Trattato di
Amsterdam. Dopo aver sottolineato l’esigenza di garantire una più adeguata promozione degli
interessi economici dei consumatori, del loro diritto all’informazione, all’educazione e
all’organizzazione per la salvaguardia dei propri interessi, l’art. 153 sottolinea che la Comunità
provvederà a garantire un alto livello di protezione dei consumatori nella definizione e
nell’attuazione di ogni sua politica.
Lo stesso articolo stabilisce che la Comunità contribuisce al conseguimento degli obiettivi sopra
citati mediante:
— misure relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative;
— misure di sostegno, di integrazione e di controllo della politica svolta dagli Stati membri,
adottate dal Consiglio secondo la procedura di codecisione.
In attuazione degli obiettivi comunitari in materia di difesa dei consumatori sono state
emanate una serie di direttive riguardanti la sicurezza dei prodotti, l’etichettatura degli
alimenti, la pubblicità ingannevole, i diritti dei consumatori nelle vendite a domicilio.
Un’accelerazione nei tempi di produzione legislativa si ebbe nel 1992 con il varo del
programma per l’attuazione del mercato unico: tra il 1988 e il 1993 furono, infatti promulgate
una serie di direttive di portata settoriale che fissavano i requisiti di sicurezza per i giocattoli, i
mezzi e le attrezzature di protezione del personale e che disponevano nuovi controlli sanitari e
sistemi di etichettatura per gli alimenti e i prodotti agricoli.
Questa direttive furono completate nel 1992 con una direttiva ad indirizzo generale; essa
imponeva ai fabbricanti e ai distributori l’obbligo d’immettere sul mercato prodotti sicuri e
attribuiva la responsabilità agli Stati membri in merito all’utilizzo delle strutture di controllo per
verificarne l’applicazione.
Infine è da menzionare la decisione n. 283 del 25 gennaio 1999 che stabilisce un quadro
generale per le attività comunitarie a favore dei consumatori. Tale decisione è stata adottata al
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fine di contribuire alla realizzazione di un livello elevato di protezione dei consumatori, della
salute umana e di contribuire al rafforzamento della fiducia dei consumatori nei prodotti e nei
servizi.
Il quadro generale di attività per il periodo 1° gennaio 1999-31 dicembre 2000 identifica
quattro settori d’intervento della Comunità a tutela dei consumatori:
— la loro salute e sicurezza in relazione a prodotti e servizi;
— la protezione dei loro interessi economici e giuridici, compreso l’accesso ai mezzi di
risoluzione delle controversie;
— l’educazione e l’informazione sui mezzi di tutela e i diritti di cui essi godono;
— promozione e rappresentanza dei loro interessi.
La Commissione è l’organo preposto alla vigilanza sull’attuazione del quadro generale, valuta i
risultati delle azioni e dei progetti realizzati ed ha il compito di presentare al Parlamento e al
Consiglio una relazione sui primi tre anni di attuazione delle attività realizzate nell’ambito del
quadro generale.
Tutela della sanità pubblica
artt. 30, 39 e 46 Trattato CE
La protezione della sanità pubblica rientra tra le deroghe previste dal Trattato in materia di
libera circolazione delle merci e libera circolazione dei lavoratori dipendenti e
autonomi.
In relazione alle deroghe previste in tema di libera circolazione delle merci, l’articolo 30 del
Trattato CE fa riferimento alla tutela della salute pubblica, deroga più volte invocata dagli
importatori nazionali per impedire che fossero importati alcuni prodotti alimentari contenenti
additivi o conservanti ammessi dalla legislazione dello Stato di produzione, ma vietati nello
Stato di importazione. La Corte di Giustizia si è più volte pronunciata, adottando il criterio di
subordinare l’ammissibilità di una legislazione restrittiva solo in presenza di determinate
condizioni, quali la possibilità, da parte degli importatori dei prodotti in causa, di chiedere una
deroga al divieto di importazione, attraverso la prova che l’additivo non è pericoloso per la
salute e che il suo uso è reso necessario per ragioni tecniche, quali, ad esempio, le esigenze di
trasporto (sentenza CGCE del 12 marzo 1987, Commissione c. Germania, in causa 178/84;
sentenza CGCE del 4 giugno 1992, Debus, cause riunite C-13/91 e C-113/91; sentenza CGCE
del 16 luglio 1992, Commissione c. Italia, in causa C-95/89).
Per ciò che riguarda la tutela della sanità pubblica, come deroga alla libera circolazione dei
lavoratori, la direttiva 64/221 prevede (articolo 4) che solo le malattie o infermità contenute
nel suo allegato possono essere invocate nei confronti di un lavoratore, e sempreché le
patologie siano insorte prima del rilascio del primo permesso di soggiorno. Lo stesso dicasi
per la libera circolazione dei lavoratori autonomi, relativamente alle norme di cui all’articolo 46
del Trattato CE.
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Sanità pubblica
Politica comunitaria volta a garantire un elevato livello di protezione della salute umana.
L’azione della Comunità, che completa quelle degli Stati membri, è rivolta alla prevenzione
delle malattie e alla eliminazione delle fonti di pericolo per la salute umana, in particolare
attraverso la ricerca sulle cause, la propagazione e la prevenzione dei grandi flagelli, quali ad
esempio la droga, nonché l’informazione e l’educazione in materia sanitaria.
Gli obiettivi dell’attività dell’Unione nell’ambito della sanità pubblica sono raggiunti attraverso
l’operato del Consiglio, il quale, deliberando secondo la procedura di codecisione, previa
consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle Regioni, può adottare
misure:
— che fissano parametri elevati di qualità e sicurezza degli organi e delle sostanze di origine
umana, del sangue e degli emoderivati. In ogni caso, queste misure non pregiudicano le
disposizioni nazionali riguardanti la donazione e l’impiego medico di organi e sangue;
— nei settori veterinario e fitosanitario per la protezione della sanità pubblica;
— di incentivazione volte a proteggere e a migliorare la salute umana, escludendo qualsiasi
armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri.
Tutte queste azioni, però, rispettano le competenze degli Stati membri relative
all’organizzazione e alla fornitura dei servizi sanitari.
In particolare, nel settore farmaceutico, è stata istituita l’Agenzia europea per la valutazione
dei medicinali che pone in stretto collegamento le autorità sanitarie degli Stati membri.
Politica industriale
Politica comunitaria diretta a sostenere la competitività dell’industria europea sui mercati
internazionali.
A tal fine l’art. 157 del Trattato CE precisa che, in conformità al sistema dei mercati aperti e
concorrenziali, l’azione della Comunità in questo settore è tesa a perseguire i seguenti
obiettivi:
• sollecitare l’adattamento dell’industria ai mutamenti strutturali;
• creare le condizioni favorevoli ad incoraggiare lo sviluppo delle imprese, con particolare
riguardo alle PMI;
• stimolare la cooperazione fra le imprese;
• favorire lo sfruttamento del potenziale industriale delle politiche di ricerca e sviluppo
tecnologico.
Le azioni vengono decise dalla Comunità ed è prevista la possibilità che il Consiglio possa
deliberare misure di sostegno all’azione degli Stati membri. È inoltre contemplato il
coordinamento e la consultazione reciproca fra di essi in collegamento con la Commissione.
La necessità di procedere alla definizione di una politica industriale fu dettata dall’esigenza di
salvaguardare le industrie europee minacciate dalle importazioni, consentendo agli operatori
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economici di continuare ad ottenere dei profitti anche in uno spazio così esteso e competitivo
come il mercato unico.
La politica industriale non era tuttavia espressamente prevista dai Trattati istitutivi: il
fondamento giuridico dell’azione comunitaria in questo campo era costituito dagli obiettivi
generali contenuti nell’art. 308 del Trattato stesso.
Nel corso degli anni ’70 e ’80 tale politica è stata circoscritta ad interventi settoriali, intrapresi
per lo più attraverso l’elaborazione di programmi strutturali in settori specifici (industria tessile,
siderurgia etc.). Si era difatti disposti a bloccare temporaneamente il gioco della concorrenza
pur di favorire la diminuzione delle capacità di tutte le imprese del settore, ritenendo che l’uso
delle barriere commerciali e delle regole discriminatorie applicate per proteggere le imprese
fosse in grado apportare dei benefici economici all’industria comunitaria.
Fu solo a partire dagli anni ’90 che si cominciò a delineare un nuovo approccio in materia
industriale. In quell’anno la Commissione presentò un documento con il quale dettava nuove
linee direttrici, evidenziando l’importanza della concorrenza e dello sviluppo di politiche di
adattamento positive che favorissero la cooperazione fra PMI e grandi imprese. Il
miglioramento della competitività dell’industria non doveva pertanto essere più perseguito
attraverso il ricorso a misure settoriali di tipo protezionistico, bensì mediante provvedimenti
tesi alla creazione di un clima favorevole allo sviluppo di tale competitività che solo la
liberalizzazione dei mercati avrebbe potuto garantire.
L’affermazione di questi principi influenzò in larga misura la formulazione dell’art. 157,
introdotto con il Trattato di Maastricht, nonché i successivi interventi della Commissione in
materia industriale.
Nel settembre del 1994 quest’ultima stabilì infatti le seguenti quattro priorità sulla base delle
quali si sarebbe dovuta portare avanti la politica industriale comunitaria:
— promozione dell’investimento immateriale. Questa comprende la ricerca e lo sviluppo
tecnologico, il miglioramento della formazione professionale, l’introduzione di nuove forme
di organizzazione del lavoro, lo sviluppo di reti di informazione e l’apertura a nuovi mercati;
— sviluppo della cooperazione industriale. Tale priorità include il rafforzamento della posizione
delle imprese europee sui mercati in espansione geografica, il trasferimento di esperienze a
beneficio delle piccole e medie imprese e la promozione di investimenti nei paesi
dell’Europa centro orientale, nei paesi asiatici di nuova industrializzazione e in quelli
dell’America latina;
— mantenimento di condizioni di concorrenza eque. Si tratta di procedere al consolidamento
della libera concorrenza assoluta all’interno del mercato europeo e all’instaurazione di un
regime di concorrenza internazionale che superi i risultati raggiunti dal GATT e
dall’Uruguay Round attraverso l’eliminazione degli accordi bilaterali che creano disparità sul
mercato mondiale;
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— modernizzazione dell’intervento statale. L’obiettivo viene attuato tramite lo snellimento
delle procedure amministrative e il potenziamento della cooperazione amministrativa tra le
autorità comunitarie e quelle degli Stati membri.
Per sostenere la competitività dell’industria europea sui mercati internazionali la Comunità si
avvale di una serie di strumenti che vanno dall’erogazione di contributi finanziari all’adozione di
misure fiscali, dalla promozione della ricerca tecnologica alla concessione di appalti pubblici.
Fra gli strumenti più innovativi si ricordi inoltre la creazione di organismi di trasferimento delle
tecnologie e l’istituzione di un ente di consulenza tecnologica diretto a favorire lo scambio di
opinioni e di esperienze fra esperti nei settori delle scienze, della politica e dell’economia.
L’azione intrapresa dalla Comunità in questo campo coinvolge inevitabilmente settori di
competenza di altre politiche. E’ pertanto necessario che nell’attuazione della politica
industriale essa tenga conto anche di elementi che ineriscono la ricerca e lo sviluppo
tecnologico, la politica della concorrenza, la politica ambientale, la politica
dell’istruzione e la politica di formazione professionale.
Politica energetica
Politica finalizzata alla creazione di un mercato interno dell’energia.
Inizialmente l’intervento comunitario in questo settore era limitato ai campi d’azione tracciati
dalle disposizioni specifiche contenute nei Trattati CECA ed EURATOM, relative rispettivamente
al carbone e all’energia nucleare.
Fu soltanto in seguito alla crisi petrolifera del 1973, e alla conseguente necessità di ridurre la
forte dipendenza che i paesi europei avevano sviluppato nei confronti delle importazioni di
greggio, che cominciò a delinearsi una vera e propria strategia nel settore energetico, fondata
sulla diversificazione delle fonti energetiche e sulla riduzione dei consumi.
In seguito al Vertice europeo tenutosi a Copenaghen nel dicembre del 1973 fu deciso che la
Comunità avrebbe adottato una politica centralizzata in materia di accumulo e gestione delle
scorte, che sarebbero state gestite da un apposito organismo, il Comitato dell’energia.
Nel corso degli anni ’80 la Comunità arrivò pertanto a ridurre del 50% le sue importazioni di
greggio e del 20% i suoi consumi energetici; in questo periodo furono inoltre adottate le prime
misure dirette a ridurre i danni ambientali provocati dall’impiego di alcune fonti energetiche
altamente inquinanti. Fra queste, l’introduzione della benzina senza piombo, la diminuzione del
tasso di zolfo nei combustibili per il riscaldamento e la limitazione delle sostanze tossiche
emesse dai gas di scarico delle automobili.
All’inizio degli anni ’90 cominciò tuttavia a registrarsi una nuova crescita della dipendenza della
Comunità in materia di approvvigionamento energetico, accompagnata da una serie di
fenomeni piuttosto allarmanti, fra cui l’influenza sulle condizioni climatiche della presenza di
biossido di carbonio nell’atmosfera e i problemi concernenti l’energia nucleare e lo smaltimento
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delle scorie. Da qui la necessità che la Comunità si adoperasse affinché le azioni promosse
dagli Stati membri potessero convergere verso obiettivi comuni.
Un primo passo in questa direzione è stato compiuto con la pubblicazione del Libro verde nel
gennaio 1995, con il quale la Commissione ha provveduto a delineare le tre principali finalità
verso cui devono tendere gli Stati membri nell’elaborazione di una politica energetica comune:
assicurare la sicurezza dell’approvvigionamento, promuovere la tutela dell’ambiente e
garantire la sicurezza dei consumatori.
Il Libro bianco pubblicato dalla Commissione nel dicembre dello stesso anno ha poi
provveduto a tradurre questi obiettivi in veri e propri orientamenti per la politica energetica
degli anni a venire.
Il documento, intitolato “Una politica energetica per l’Unione europea ”, ha difatti proposto un
programma d’azione per una durata di cinque anni, da realizzarsi attraverso i seguenti
interventi strategici:
— l’integrazione del mercato energetico sulla base del principio dei mercati aperti e
concorrenziali, che comporta la fissazione un quadro politico generale che tenga conto
delle differenze strutturali del mercato dell’energia all’interno degli Stati membri;
— il sostegno dello sviluppo durevole, che si sostanzia nella necessità di rendere
compatibili gli obiettivi energetici e quelli ambientali. Tali interventi comportano
l’adozione di misure economiche e fiscali tese a limitare le emissioni di gas ad effetto
serra, l’utilizzo di un sistema più trasparente di fissazione del costo totale della
produzione e del consumo di energia e la sensibilizzazione dei cittadini europei nei
confronti dell’influenza che le scelte individuali in questo settore possono avere
sull’ambiente;
— la promozione della ricerca e delle tecnologie avanzate, allo scopo di contribuire alla
diffusione delle fonti energetiche alternative, allo sviluppo durevole e alla riduzione dei
consumi. Tale finalità può essere raggiunta mediante una maggiore integrazione fra le
esigenze del mercato dell’energia e le varie fasi della ricerca e dello sviluppo tecnologico
in questo campo;
— la gestione della dipendenza energetica, che consenta di garantire la sicurezza degli
approvvigionamenti attraverso la valutazione dell’aumento dei consumi energetici a
livello mondiale e della situazione politica dei principali paesi fornitori.
Approvvigionamenti più sicuri potrebbero inoltre essere favoriti dall’instaurazione di
relazioni più strette con i paesi terzi in campo energetico, in modo da poter rispondere
in maniera più flessibile ad eventuali interruzioni di forniture di energie fondamentali,
quali petrolio e gas.
L’impegno comunitario nel settore energetico è proseguito con l’adozione della comunicazione
della Commissione del 23 aprile 1997, in cui vengono individuate le sfide principali che la
Comunità sarà chiamata ad affrontare nei prossimi anni.
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Fra queste:
— la necessità di rendere i mercati energetici maggiormente rispondenti alle urgenze
ambientali, con particolare riferimento agli impegni presi dalla Comunità in tema di
cambiamenti climatici;
— l’aumento vertiginoso della dipendenza energetica dei paesi membri, che per il 2020
raggiungerà probabilmente il 70 % per il gas naturale, l’80 % per il carbone ed il 90%
per il petrolio;
— l’esigenza di assicurare prezzi energetici più competitivi, in grado di adeguarsi al
processo di globalizzazione dell’economia.
Fra gli strumenti più importanti elaborati nel corso degli anni ’90 nel quadro della politica
energetica, l’adozione della Carta europea dell’energia, firmata nel 1991 da 51 Stati e
contenente i principi fondamentali che i paesi firmatari dovrebbero osservare per consentire la
creazione di un libero mercato delle risorse energetiche.
Allo scopo di rendere vincolanti i principi enunciati dalla Carta sull’energia, gli Stati firmatari
hanno in seguito provveduto a concludere il Trattato sulla Carta europea dell’energia, che
contiene disposizioni relative alla tutela degli investimenti, allo scambio di materiali e prodotti
energetici, al transito e alla soluzione delle controversie.
Nel 1994 il Consiglio europeo ha inoltre stabilito un programma specifico relativo al
finanziamento delle reti transeuropee di trasporto dell’energia.
La Comunità contribuisce inoltre, a sostenere una serie di programmi diretti al progresso
tecnologico nel settore dell’approvvigionamento, dell’utilizzo delle risorse energetiche e della
conversione. Fra questi, Altener e SAVE per la riduzione del disossido di carbonio e lo
sviluppo delle energie rinnovabili e Energia, ambiente e sviluppo sostenibile, programma
di ricerca nel settore dell’energia non nucleare.
Infine è da menzionare il programma quadro nel settore dell’energia (v.) e misure
connesse per il periodo 1998-2002, adottato con decisione del Consiglio il 14 dicembre 1998 n.
1999/21/CE/Euratom.
Politica dell’ambiente
Politica comunitaria volta alla salvaguardia, alla tutela e al miglioramento dell’ambiente.
I Trattati istitutivi delle Comunità europee non prevedevano alcuna competenza specifica in
materia ambientale, sebbene nel preambolo del Trattato istitutivo della CEE fosse indicato tra
gli obiettivi degli Stati fondatori anche il “miglioramento costante delle condizioni di vita” dei
popoli. Nonostante ciò la Comunità ha avvertito sin dagli anni ’60 l’esigenza di adottare
provvedimenti specifici in materia di protezione ambientale: risalgono, infatti, al 1967 la prima
direttiva riguardante la classificazione, l’imballaggio e l’etichettatura di alcuni prodotti
pericolosi (direttiva n. 67/548/CEE) e al 1970 le direttive n. 70/157/CEE e n. 70/220/CEE
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riguardanti, rispettivamente, l’inquinamento da rumore e le emissioni inquinanti da veicoli a
motore. Contemporaneamente, la Commissione in un memorandum sottolineava la necessità
per gli Stati membri di adottare un programma d’azione a livello comunitario che riguardasse
la tutela dell’ambiente.
Tuttavia fu soltanto nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite (v. ONU) di Stoccolma del
1972 che tale volontà riuscì a concretizzarsi in un preciso indirizzo comunitario,
successivamente ribadito in seno alla Conferenza dei Capi di Stato della Comunità tenutasi a
Parigi nel 1972.
La base giuridica per l’adozione degli atti comunitari era inizialmente costituita dagli artt. 94 e
308 del Trattato CE, riguardanti rispettivamente il ravvicinamento delle disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative e i cd. poteri impliciti.
Nel 1987, con l’approvazione dell’Atto Unico Europeo, fu inserito un nuovo titolo
specificamente destinato alla tutela dell’ambiente e formato dagli artt. 174-176, nel quale
venivano per la prima volta definiti gli obiettivi, i principi e gli strumenti per la politica
comunitaria in questo settore, successivamente riconfermati dal Trattato sull’Unione europea,
seppure con alcune modifiche.
Con la firma del Trattato di Amsterdam la tutela dell’ambiente ha assunto una valenza
trasversale nell’ambito delle politiche comunitarie. Secondo quanto previsto dal nuovo articolo
6, infatti, tutte le politiche devono tener conto delle esigenze connesse alla salvaguardia
dell’ambiente, soprattutto nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile, vale a
dire uno sviluppo economico che consenta di non alterare il delicato equilibrio ambientale.
Gli obiettivi principali dell’attività comunitaria in materia ambientale sono: la salvaguardia, la
tutela ed il miglioramento della qualità dell’ambiente, attraverso un uso razionale delle risorse
naturali; la protezione della salute umana; la promozione di azioni concertate a livello
internazionale.
I principi che informano l’azione comunitaria invece sono:
— il principio dell’azione preventiva, secondo il quale è necessario predisporre tutte le
misure volte ad evitare danni ambientali;
— il principio della correzione (soprattutto alla fonte) dei danni causati all’ambiente.
Questo principio impone un’immediata rimozione della fonte di inquinamento
ambientale;
— il principio chi inquina paga, in base al quale chi produce danni all’ambiente è tenuto al
risarcimento della collettività;
— il principio della precauzione. Esso impone a tutti coloro che svolgono attività
potenzialmente dannose per l’ambiente, la ricerca di rimedi atti a scongiurare un tale
evento.
Sebbene la normativa in materia di protezione ambientale abbia previsto il trasferimento di
competenze alle istutzioni comunitarie, gli Stati membri possono comunque applicare la
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normativa nazionale qualora questa risulti maggiormente efficace. Il Trattato CE, inoltre,
prevede che gli Stati membri e l’intera Comunità concludano accordi con Stati terzi e con le
organizzazioni internazionali nell’ambito di attuazione della politica ambientale.
I settori d’intervento dell’attività legislativa dell’Unione sono:
— l’inquinamento atmosferico. L’azione comunitaria è molto in ritardo rispetto al grave
inquinamento raggiunto dall’atmosfera, nonostante l’adozione di numerose direttive in merito
all’emissione di gas di scarico dei veicoli a motore e alle immissioni di rifiuti industriali.
La direttiva 84/360/CEE del 24 giugno 1984 ha introdotto la disciplina quadro relativa
all’inquinamento atmosferico provocato dalle emissioni industriali, prevedendo valori-limite di
emissioni.
Per quanto riguarda l’uso dei clorofluorocarburi (cfc), il regolamento 3952/92 del dicembre
1992, ha imposto la totale eliminazione dal 1° gennaio 1995 dei cfc utilizzati dalle industrie
degli espansi plastici, della refrigerazione e dei condizionatori.
All’esame del Consiglio c’è ancora la proposta di applicare la carbon tax (v.), per ridurre la
concentrazione di sostanze inquinanti nell’atmosfera e aumentare il rendimento energetico;
— l’inquinamento delle acque. La Comunità ha adottato numerose direttive che fissano i livelli
di qualità dell’acqua potabile, delle acque per la balneazione, dell’acqua dolce con presenza di
pesci e di quelle per l’acquacoltura. In particolare la direttiva 74/464/CEE riguarda
l’inquinamento provocato da sostanze dannose scaricate nell’ambiente idrico; essa è stata
successivamente integrata da provvedimenti contenenti misure più restrittive per la protezione
delle falde acquifere. Nell’ambito della cooperazione con i paesi terzi, la Comunità ha firmato
molteplici convenzioni volte alla riduzione dell’inquinamento nelle vie di navigazione
internazionali;
— l’inquinamento acustico. Alcune direttive comunitarie fissano i livelli massimi di rumore dei
veicoli a motore, dei motoveicoli, degli aerei subsonici, dei trattori, dei tosaerba e dei
macchinari per l’edilizia. Per quanto riguarda gli elettrodomestici il loro livello di rumorosità
deve essere indicato sull’imballaggio;
— lo smaltimento e il trattamento dei rifiuti. La direttiva quadro in tema di rifiuti e loro
smaltimento è la 75/442/CEE che fissa i criteri di base relativi a tutti i rifiuti in riferimento alla
raccolta, allo smaltimento, al riciclaggio e al trattamento. La disciplina in essa contenuta è
stata successivamente integrata dalla direttiva 78/319/CEE del 1978 sui rifiuti tossici e
pericolosi;
— la protezione della fauna e della flora. Nella direttiva 79/409/CEE relativa alla salvaguardia
degli uccelli selvatici sono contenute le norme generali per la loro protezione: vengono difatti
ridotte le specie per cui è consentita la caccia, sono elencati i mezzi per praticare la caccia,
vengono stabiliti limiti al commercio di alcune specie e sono fissati i criteri generali per la
protezione degli habitat naturali.
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Nel 1986, invece, è stata introdotta la disciplina concernente la protezione degli animali
utilizzati a scopi sperimentali o scientifici in particolare per quelle in via di estinzione.
Altre due direttive vietano l’uso di prodotti provenienti dalle balene e dai cuccioli di foca
destinati a fini commerciali;
— la valutazione di impatto ambientale. Con direttiva 85/337/CEE è stato previsto (a partire
dal 3 luglio 1988) che i principali interventi di sviluppo pubblici o privati concernenti
l’agricoltura, l’industria o le infrastrutture debbono essere soggetti ad una valutazione
dell’impatto ambientale che produrranno, da effettuare prima della realizzazione del progetto,
il cui responsabile è tenuto a fornire ragguagli circa i suoi potenziali effetti sull’ambiente.
Gli strumenti della politica ambientale comunitaria, oltre all’adozione di una normativa quadro
che tuteli l’ambiente nel rispetto delle norme di funzionamento del mercato interno,
prevedono: uno strumento finanziario di protezione e sostegno delle azioni in tale ambito
denominato LIFE; strumenti tecnici quali l’etichettatura ecologica, un sistema di gestione
ambientale e una procedura di valutazione del livello di compatibilità tra i procedimenti
produttivi industriali e la tutela dell’ambiente.
La Comunità, inoltre, ha emanato un programma quadro per l’ambiente e si è dotata
dell’Agenzia europea per l’ambiente il cui compito è attuare una rete comunitaria di
informazioni in materia e coordinare le azioni di monitoraggio ambientale.
Programma quadro per l’ambiente
art. 175 Trattato CE; Risoluzione 1° febbraio 1993
Si tratta del più importante documento adottato nel campo della politica dell’ambiente, volto
a definire i principi fondamentali e a coordinare in un unico testo tutte le azioni intraprese in
questo settore.
L’ultimo programma (il quinto) è stato adottato nel 1993 ed è valido fino al 2000. Rispetto a
quelli precedenti non mira più soltanto a punire i comportamenti nocivi per l’ambiente, ma
tenta una maggiore responsabilizzazione del mondo industriale e produttivo in relazione alle
problematiche ambientali, così da prevenire le attività che distruggono le risorse naturali e
danneggiano l’ambiente; a tal fine sono previste anche azioni premianti per quanti rispettano
determinati standard ambientali.
Le linee guida del programma sono:
— assicurare una gestione sostenibile delle risorse naturali (acqua, suolo, zone naturali e
zone costiere);
— avviare una politica di controllo integrato dell’inquinamento e prevenire la creazione dei
rifiuti;
— tendere ad una riduzione del consumo di fonti energetiche non rinnovabili;
— migliorare la gestione della mobilità (assetto territoriale e razionalizzazione dei
trasporti);
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— migliorare la qualità dell’ambiente, soprattutto nei grandi agglomerati urbani;
— rafforzare la tutela della sanità pubblica e della sicurezza.
Sviluppo sostenibile
art. 6 Trattato CE; Decisione 24 febbraio 1997, n. 97/150/CE
Espressione che indica un processo di crescita economica e sociale che non rechi danno
all’ambiente e alle risorse naturali, limitatamente disponibili, dalle quali dipende il futuro
dell’uomo e delle sue attività.
In pratica si tratta di predisporre le condizioni più idonee affinché lo sviluppo economico a
lungo termine avvenga nel rispetto dell’ambiente. A tal fine si rende necessario:
— prevedere un ciclo produttivo completo che minimizzi la produzione di rifiuti,
incoraggiando il loro riciclo, ed eviti il consumo eccessivo delle risorse naturali;
— porre un freno allo sfruttamento irrazionale delle risorse naturali;
— modificare il comportamento della collettività dinanzi al consumo.
A livello comunitario l’esigenza di assicurare all’uomo migliori condizioni di vita ha
portato alla necessità di affermare, con il Trattato di Amsterdam, che le politiche
comunitarie (v.) devono attuarsi tutte all’insegna della promozione dello sviluppo
sostenibile.
L’impegno comunitario in questo campo si può tuttavia far risalire al 1993, con l’adozione di un
programma a favore dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile.
Il programma affronta diverse tematiche relative all’ambiente, quali il cambiamento climatico,
l’inquinamento, il deterioramento dell’ambiente urbano e delle zone costiere, i rifiuti etc.,
tentando di creare un’interrelazione tra i diversi soggetti interessati (governi, imprese,
collettività) e i principali settori interessati (trasporti, energia, industria, agricoltura, turismo),
in applicazione del principio di sussidiarietà.
Il programma, inoltre, prevede l’istituzione di gruppi di dialogo che, affiancando gli organismi
nazionali e comunitari già impegnati in questo ambito, contribuiscono a promuovere la
condivisione pratica delle responsabilità tra i soggetti interessati e l’applicazione dei
provvedimenti adottati. Essi sono:
— una rete di responsabili, composta dai rappresentanti delle amministrazioni locali e della
Commissione, che deve provvedere allo scambio di informazioni e di esperienze e allo
sviluppo di strategie comuni;
— un gruppo di analisi, formato dai rappresentanti della Commissione e degli Stati
membri, incaricato di procedere ad uno scambio di pareri sulla politica a tutela
dell’ambiente;
— un foro consultivo, formato dai rappresentanti delle imprese, dei consumatori, delle
associazioni di categoria e sindacali, degli organismi non governativi e delle
amministrazioni locali e regionali.
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L’esperienza positiva di quest’ultimo gruppo di dialogo ha portato la Commissione ad istituire
un Forum consultivo europeo per l’ambiente e lo sviluppo sostenibile. Al Forum partecipano
personalità provenienti dal settore degli affari e della produzione, dalle autorità regionali e
locali, dalle organizzazioni di difesa dei consumatori e dell’ambiente e dai sindacati.
Agenzia europea per l’ambiente
Regolamento CEE 7 maggio 1990, n. 1210/90
Organismo che ha il compito di coordinare al meglio l’attività delle istituzioni comunitarie nel
settore dell’ambiente. L’Agenzia è divenuta operativa solo a partire dal 1994, allorché è stata
individuata la sede atta ad ospitarla: Copenaghen.
L’Agenzia per l’ambiente deve sviluppare una rete di controllo ed informazioni sullo stato
dell’ambiente, al fine di permettere una maggiore efficacia delle azioni comunitarie e procedere
ad una più corretta valutazione delle iniziative da intraprendere.
L’Agenzia ha istituito e coordina una rete europea di informazione e osservazione (EIONET),
che ha il compio di raccogliere dati, identificare le problematiche più rilevanti dal punto di vista
ambientale e fornire informazioni aggiornate sullo stato dell’ambiente nei paesi aderenti.
Fanno parte dell’Agenzia, oltre agli Stati membri della Comunità, anche l’Islanda, il
Liechtenstein e la Norvegia.
Ecolabel [Marchio Ecologico]
Regolamento CEE 23 marzo 1992, n. 880/92
Marchio ecologico messo a punto dalla Comunità per spingere le imprese ad una maggiore
attenzione verso le problematiche ambientalistiche. Si tratta di un’etichetta (un fiore stilizzato
a dodici petali con all’interno la lettera E) volta a segnalare la rispondenza del prodotto alle
esigenze di tutela dell’ambiente.
Non è possibile utilizzare il marchio per prodotti alimentari, per le bevande e per i farmaci.
Natura 2000
Direttiva 2 aprile 1979, n. 79/409/CEE; Direttiva 21 maggio 1992, n. 92/43/CEE; Decisione 18
dicembre 1996, n. 97/266/CE
Nell'ambito della politica dell'ambiente comunitaria, si tratta di una rete europea di siti protetti,
volta in modo particolare alla tutela degli ambienti naturali e alla conservazione della flora e
della fauna.
Il progetto di costituire la rete Natura 2000 nasce con l'approvazione della cd. direttiva habitat
(dir. 92/43/CEE), che fornisce una definizione dei siti da tutelare, vale a dire quei tipi di habitat
la cui area di distribuzione naturale è molto ridotta o gravemente diminuita sul territorio
comunitario come torbiere, brughiere, dune, habitat costieri o di acque dolci. La stessa
direttiva individua più di 200 specie animali e circa 500 specie vegetali il cui ambiente di vita
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occorre tutelare (allegati I e II della citata direttiva). Al progetto di Natura 2000 è stata
associata anche la speciale tutela accordata dalla cd. direttiva uccelli (dir.79/409/CEE) alle
specie volatili.
La procedura per l'individuazione dei siti da includere nella rete si articola in tre fasi:
— ciascuno Stato membro procede ad un'accurata valutazione scientifica e propone una
lista di siti che provvede a trasmettere alla Commissione;
— quest'ultima, avvalendosi anche della consulenza dell'Agenzia europea per l'ambiente e
in collaborazione con gli Stati membri, provvede all'individuazione dei siti di rilevante
interesse comunitario. Nell'elenco possono essere inseriti anche siti inizialmente non
indicati dai singoli Stati. La decisione finale sull'inclusione nella rete spetta al Consiglio;
— dopo la decisione finale gli Stati membri sono tenuti a designare (entro un termine di
sei anni o comunque entro il 2004) il sito come zona speciale di conservazione (ZSC) e
provvedere ad adottare tutte le misure necessarie per la protezione e la gestione
dell'area designata.
I siti per la tutela degli habitat delle specie di uccelli sono, invece, direttamente scelti dagli
Stati membri e immessi automaticamente nella rete Natura 2000.
Le spese per le misure adottate per la conservazione e la tutela dei siti che fanno parte della
rete possono essere cofinanziate dalla Comunità europea, in particolare nell'ambito del
programma LIFE (v.), sottosezione natura.
Politica monetaria
artt. 105-111 Trattato CE
Si definisce politica monetaria quell’insieme di interventi che le autorità monetarie adottano
per raggiungere determinati obiettivi di politica economica.
In quanto parte della più generale politica economica, la politica monetaria deve tener conto di
obiettivi ugualmente desiderabili ma, spesso, fra loro contrastanti:
— la crescita dell’attività economica ed il contenimento delle sue fluttuazioni. Ciò si
sostanzia, in pratica, nel sostegno alla produzione per limitare la disoccupazione;
— la stabilità monetaria, ovvero la difesa del potere d’acquisto della moneta ed il
contenimento della crescita dei prezzi;
— l’equilibrio nei conti con l’estero, soprattutto per quanto riguarda la stabilità del cambio.
Oltre a questi obiettivi, comuni anche alla più generale politica economica, la politica monetaria
può perseguire altri obiettivi più specifici, quali una migliore efficienza dei mercati e degli
intermediari finanziari, uno sviluppo della struttura creditizia capace di assicurare stabilità al
sistema e prevenire crisi bancarie, un’ottimale allocazione del risparmio.
Quando fu istituita nel 1957 la Comunità europea (allora Comunità economica europea) il
problema della cooperazione monetaria tra i paesi membri era del tutto marginale e poteva
essere completamente ignorato, concentrandosi invece sulla creazione dell’unione doganale.
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Il primo passo verso l’attuazione di un sistema monetario integrato risale alla fine degli anni
’70, quando fu creato il sistema monetario europeo al fine di stabilire tra le economie dei paesi
membri non soltanto delle relazioni di cambio più stabili, ma anche una disciplina comune nel
campo della politica economica e monetaria. Lo SME si poneva, infatti, come obiettivo la
creazione di una zona di stabilità monetaria in Europa grazie all’attuazione di determinate
politiche in materia di cambi, crediti e trasferimenti di risorse, per evitare che il disordine
monetario ostacolasse il processo di integrazione a livello comunitario.
Con l’Atto unico europeo fu inserito, all’art. 102A (ora 98), un obbligo di coordinamento delle
politiche economiche degli Stati membri. Con il nuovo capo dedicato alla “Cooperazione in
materia di politica economica e monetaria”, l’Atto unico si limitava, dopo aver riconosciuto la
necessità di operare una convergenza delle politiche economiche e monetarie degli Stati, a
disporre che questi ultimi, nel rispetto delle competenze esistenti, “tengono conto delle
esperienze acquisite grazie alla cooperazione nell’ambito del sistema monetario europeo e allo
sviluppo dell’ECU ”.
In realtà con questa disposizione venne solo rafforzata la competenza comunitaria in tale
materia; bisogna attendere il Rapporto Delors per avere una programmazione del processo
di integrazione monetaria ed economica. Tale processo era articolato in tre fasi temporali:
— nella prima fase era prevista la completa liberalizzazione dei movimenti di capitale e
una maggiore convergenza economica tra gli Stati membri;
— nella seconda fase si doveva procedere all’istituzione di un organismo capace di
coordinare e monitorare il livello di convergenza e valutare la possibilità di passare ad
una politica monetaria comune;
— nella terza fase era previsto, invece, il definitivo passaggio agli organismi comunitari
della politica economica e monetaria degli Stati membri. In particolare il passaggio
all’ultima fase avrebbe comportato la creazione di una moneta unica.
Il Trattato di Maastricht, modificando il Trattato CEE, riprende in sostanza, agli artt. 98-124 e
in alcuni protocolli allegati, i contenuti del Rapporto Delors: vengono, infatti, stabilite le tre
tappe per giungere alla moneta unica, fissando anche le relative scadenze.
La prima tappa era già stata avviata nel 1990, la seconda sarebbe cominciata nel 1994 mentre
per la terza si ponevano due alternative: il 1997, se almeno 7 Stati erano pronti, oppure il
1999, come in realtà è accaduto.
Il Trattato, inoltre, stabiliva una serie di criteri di convergenza economici e monetari che
tutti gli Stati membri si impegnavano a rispettare per poter consentire un graduale ed
equilibrato passaggio alla moneta unica europea.
Da ultimo il Trattato delineava il quadro istituzionale per il passaggio alla moneta unica, con la
creazione di quegli organismi che avrebbero dovuto seguire la politica monetaria nella seconda
e nella terza fase. A partire dal 1994 sarebbe stato operante l’Istituto Monetario Europeo che
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nella terza fase avrebbe lasciato il posto al Sistema Europeo delle Banche Centrali e alla Banca
centrale europea.
Il controllo del rispetto dei parametri stabiliti dal Trattato è stato affidato all’IME, che il 25
marzo 1998 ha pubblicato un rapporto sullo stato di convergenza fra i paesi dell’Unione.
Sulla base di questo documento, unitamente alla relazione della Commissione europea che ha
raccomandato al Consiglio i paesi che a suo giudizio hanno soddisfatto i criteri di convergenza,
durante il vertice dei capi di Stato e di governo tenutosi a Bruxelles dall’1 al 2 maggio 1998
sono stati scelti gli Stati che potevano adottare la moneta unica sin dall’inizio della terza fase.
Nella stessa sede si è proceduto anche alla nomina del Presidente della BCE e alla fissazione
dei tassi di cambio bilaterali tra le monete degli Stati partecipanti.
La terza fase dell’UEM è iniziata il 1° gennaio 1999 con la fissazione dei tassi di conversione
irrevocabili tra l’euro e le valute partecipanti. Da quella data è partita una lunga fase di
transizione che si concluderà nel 2002 quando la nuova moneta unica entrerà materialmente in
circolazione.
Autorità monetaria
Organo a cui è demandata la definizione della politica monetaria europea.
L’autorità in questione manovra gli strumenti finanziari sotto il suo diretto controllo per il
raggiungimento degli obiettivi dell’azione monetaria. Tali strumenti sono in genere costituiti
da:
— aumento (o riduzione) della riserva obbligatoria;
— aumento (o riduzione) del saggio d’interesse;
— operazioni di mercato aperto.
In ambito europeo, con l’avvio della terza fase dell’unione economica e monetaria che ha
previsto l’introduzione della nuova moneta unica, l’euro, la definizione della politica monetaria
è demandata al Sistema europeo di banche centrali composto dalla Banca centrale europea e
dalle Banche centrali nazionali.