COME ESSERE FELICI BENCHÈ SPOSATI - premiodomina.it · Di sicuro in futuro nessuno si ricorderà...
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COME ESSERE FELICI
BENCHÈ SPOSATI
PAOLO BORSONI
LAVORO TEATRALE
PERSONAGGI:
UOMO
DONNA
GIOVANE
RAGAZZO
Paolo Borsoni
[email protected] - tel 3488130329
via Santo Stefano 52 - Ancona 60122
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SCENA 1 - AGONE
Personaggi: Uomo, Donna
Un tempo antico. Una stanza povera. Al centro della stanza un tavolo,
sopra il tavolo un cespo di cipolle. In fondo: un lavello e una dispensa
con piatti, posate, pentole, brocche, pane, una caraffa di vino, un
contenitore del sale, un mucchio di piselli posati su una scodella.
Accanto alla dispensa c’è una porta. Lungo la parete destra della
stanza sporge il focolare. Poco discosto dal focolare lungo il muro: un
giaciglio. Sul lato sinistro della stanza c’è una finestra e vicino alla
finestra un altro giaciglio; sopra questo giaciglio una sacca di stoffa.
Al centro della scena, davanti al tavolo, U e D, un uomo e una donna.
Sono di spalle, in piedi, vicini. Accanto a loro, fra il tavolo e il
proscenio, due sedie anch’esse poste di schiena l’una all’altra, quasi
ad affiancare nella loro opposizione i due esseri umani. L’uomo e la
donna indossano tuniche un po’ consunte. La donna tiene in mano un
vecchio vestito, infila un ago nel tessuto, rammenda la veste. L’uomo
con in mano una tavoletta scrive con uno stilo; ogni tanto si ferma;
pensa; poi riprende a incidere lo stilo sulla tavoletta.
La scena è in penombra.
In sottofondo: la musica “Variations for the Healing of Arinushka” di
Arvo Part.
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La stanza viene illuminata. La luce aumenta con lentezza;
raggiungerà il suo livello massimo quando i due personaggi
inizieranno a parlare, in quell’istante la musica si affievolirà
svanendo. L’atmosfera è sospesa.
U e D si muovono nello stesso istante in direzioni contrarie verso i lati
opposti della stanza afferrando entrambi la sedia che hanno vicino,
portandosela dietro. Si spostano lentamente quasi in un sogno.
D posiziona la sedia vicino al focolare, appoggia il vestito con l’ago e il
filo sulla sedia, poi torna al tavolo, prende i cespi di cipolle, un coltello
dalla dispensa; ritornata al focolare taglia le cipolle sulla pentola
posta sul focolare.
U con l’altra sedia è andato al capo opposto della stanza vicino alla
finestra. Piazzata la sedia al chiarore che viene dall’esterno, dopo
aver fatto vari tentativi per trovare la posizione comoda, si siede e
riprende a scrivere sulla tavoletta; ha una postura tesa, è talmente
concentrato nel suo sforzo mentale da piegarsi di lato, come se
ammirasse un quadro.
China sul focolare con le gote rosse, D soffia sul fuoco, sventola, si dà
da fare con energia. Di quando in quando guarda di sottecchi U
piazzato sulla sedia vicino alla finestra, immerso nei suoi pensieri. D
sventola, soffia, quando finalmente il fuoco scintilla e scoppietta sotto
la pentola si rialza, stiracchia la schiena, riprende il vestito su cui
stava lavorando, siede sulla sedia accanto al focolare, riprende il
rammendo.
La musica si attenua fino a svanire.
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D (con tono ironico a U) «Cosa sono queste chiacchiere che
saresti diventato un filosofo?».
U (senza alzare gli occhi dalla tavoletta) «Esagerazioni, mia cara.
Di sicuro in futuro nessuno si ricorderà di me, forse da qualcuno
per essere stato tuo marito. Tu sì che hai un gran fama!»
D «Ti accusano di empietà, di sviare i giovani, di non riconoscere
l’autorità del governo».
U «Accuse assolutamente ridicole, mia cara. Pochi hanno a cuore
come me questa città. Non credere a quello che dicono. Sono
dicerie create ad arte e che si spargono in giro; assomigliano a
nuvole, spariranno».
D «Non so se queste accuse che ti rivolgono spariranno come
nuvole, come dici tu. Non sono mica tutti pazienti come me!»
U (cerca di sviare il discorso) La tua minestra, cara, manda un
profumo davvero invitante».
D (ghigna irridente) «Ma come può mandare un profumo
invitante, sempliciotto che non sei altro, se ho appena acceso il
fuoco!»
U (aggrotta la fronte) «Sempliciotto?».
D «Proprio un sempliciotto! un filosofo che continua a perdere
tempo con astruserie di matematica e di filosofia»
U «Il tempo non esiste, mia cara. Quindi non c’è nulla da
perdere».
D «Sì, tu coi tuoi giochetti di parole, sempliciotto mio!».
U (borbotta) «Mi sembra che ci sia una contraddizione: come si
può essere sempliciotti e filosofi allo stesso tempo? Potrei aprire
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un dialogo su questo tema, ma è meglio rimandare ad altra
occasione».
D «Sì, meglio! Pensiamo alla cena».
U (preoccupato per il tono di D) «Mi sembra, mia cara, che tu sia
un po’ nervosa stasera. Tutto bene?».
D (esacerbata con la voce rauca,) «Sto bene! Tanto bene che non
potrei stare meglio in questa casa!».
U «Io invece mi sento… un po’ strano ultimamente».
D «Un filosofo un po’ strano e un po’ sempliciotto».
(U guarda D perplesso, poi ritorna a immergersi nella geometria. D
riprende a rammendare)
D (sottovoce a se stessa) «Se ci lasciamo, le cose andranno
meglio. Si troverà un’altra casa. Da quel filosofo ricco ad
esempio. Quel Platone una casa di sicuro gliela trova, ha una
famiglia tanto agiata, un posto dove farlo abitare ce l’avrà di
sicuro, invece che star qui tutto il giorno a inacidirmi l’anima».
U (fra sé) «Questi alterchi quotidiani mi rendono ardua ogni
giornata. Ma questo è anche l’unico posto dove riesco a
ragionare. In qualsiasi altro luogo finirei col perdermi».
D (senza guardare U a voce alta) «Prendi la salina!».
(L'uomo si scuote, l’urlaccio è stato tonante. Ma è troppo impegnato a
risolvere il suo problema di geometria per alzarsi e muoversi)
U «Come hai detto, cara?».
D (allungando le sillabe) «Prendi la salina!».
U (con una vocetta gentile) «Aspetta un attimo, mia cara. Ho un
problema di geometria sottomano, quello sugli angoli dei
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dodecaedri che neppure Talete è riuscito a risolvere. Non posso
piantare in asso la matematica proprio ora che sono al punto
cruciale. Cerca di capirmi!».
D (lo minaccia) «Se non prendi subito la salina, tu stasera non
mangi! Vai da Talete!».
U «Ti prego, mia cara, la geometria mi sembra più importante di
una minestra».
D «Va bene: allora tu stasera mangi la geometria!».
U «Mangiare la geometria?! Per carità. Diamoci una mossa
dunque, se no qui cominciamo a dare i numeri e passiamo
all’algebra. Magari alla fine mi tocca davvero mangiare un
dodecaedro. In effetti ho anche un po’ fame; è da stamattina
che non metto niente sotto i denti».
D «Neppure io! In questa casa si mangia solo una volta al giorno
coi pochi soldi che arrivano. Fra un po’ mi toccherà mettermi a
sgranocchiare i tuoi libri di filosofia e di matematica».
U (s’adombra) «Mangiare i libri di filosofia? di matematica? Con
tutto quello che costano! Cos’è che volevi, mia cara?».
D «La salina».
U «La salina?!».
D «Proprio la salina!».
U «È un po’ difficoltoso portartela. Dovrei andare al litorale e poi
non saprei come inscatolarla e trasportarla. Ci vorrebbe un
grande architetto, Callicrate ad esempio!».
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D «Portami la salina, se no tu stasera… vai a mangiare da
Callicrate! quel riccastro che s’è fatto una fortuna con
quell’obbrobrio del Partenone!»
U «Il Partenone un obbrobrio?!»
D «Proprio un obbrobrio! Sembra un mercato!»
U «Il Partenone non è un mercato!».
D «Sì, invece! È stato costruito per impressionare i citrulli e i
turisti che vengono qua dalla campagna. Ci si potrebbe
organizzare una fiera! In ogni caso un giretto da qualche parte
ogni tanto ti farebbe bene, se non altro per la salute, invece che
star qui tutto il giorno a cianciare di geometria e di filosofia. E
poi t’ho detto ‘portami la salina’! E fallo subito, filosofo dei miei
stivali!».
U (stupito) «Vorrai dire la saliera!».
D «Saliera, salina, salotto! Tu… coi tuoi giochetti di parole! E poi
piantala di mettere in evidenza quanto io sono ignorante
mentre tu saresti sapiente».
(Come se gli costasse tantissimo, l'uomo lentamente ripone la
tavoletta, lascia la sedia. Va a raccogliere la saliera dalla dispensa)
U (fra sé e sé ridacchiando) «Andare a prendere una salina!
Questa sì che è un’idea, un’impresa degna di Ercole! (Si avvia
verso il focolare. Ma si ferma a metà stanza. Gli è venuta
un’idea!)
D (commenta con un sorriso sardonico, guardandolo fermo a
ragionare in mezzo alla stanza) «A quello là ogni tanto
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dovrebbero dare una pedata sul di diedro. Allora forse sì che si
smuoverebbe da questa stanza».
(U si ferma in mezzo alla stanza, fa ampi gesti con la mano; traccia
figure geometriche nell’aria come in una lavagna)
U «È evidente! È chiaro! Quel diavolo d’un Talete aveva ragione
anche questa volta!».
D «Sarà evidente! Ma, se tu non mi porti subito la saliera, è anche
evidente che tu e Talete stasera… non mangiate niente! Fa
anche la rima».
(U sorridendo e annuendo, soddisfatto del risultato conseguito col suo
ragionamento in modo imprevisto, porta la saliera alla donna)
U (con tono gentile e ironico) «Ecco la salina, mia cara»
D «Salina? Prima dicevi che era una saliera. Adesso dici che è una
salina. Mi sa che c’è un po’ di confusione in quella tua testolina
filosofica».
U «Sì, forse un po’. Non so. So solo di non sapere».
D «Sì, tu! Con la tua aria da finto ignorante. Dicendo di sapere di
non sapere fai finta di essere ignorante e così vuoi farti passare
come il più sapiente. Furbastro, il tipo!».
U (dolciastro) «Mi sembra, mia cara, che ci sia un filino di
animosità nelle tue parole stasera».
D «Animosità? Per niente, mio caro! È solo una constatazione. Sei
furbo come un pesce gatto!».
(U annusa più volte l’aria; stavolta è sicuro che il suo olfatto non stia
prendendo lucciole per lanterne)
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U «Questa cosa la so: in questo momento la tua minestra diffonde
un profumo delizioso in tutta la casa. È una minestra elevata
all’ennesima potenza; essa è data, come tale fa parte della
Datità del Tutto».
D (sconcertata) «La datità della minestra?!».
U «Proprio così, mia cara! Niente allucinazioni, niente percezioni
illusorie. Questa è la minestra elevata alla sua ennesima
potenza. Essa è data! Come tale, fa parte della Datità del
Tutto!».
D (ripete sogghignando) «La datità della minestra! Questa non la
volevo sapere! Mancava solo la datità della minestra!».
U «È inutile che ridi, mia cara! La datità della minestra non è
un’ombra proiettata sul fondo della caverna».
D «Caverna?! Va bene che questa casa non è una reggia, anzi è
parecchio malandata e sarebbe da riparare se tu portassi a casa
qualche soldino, sempliciotto mio, invece che startene lì in
panciolle a divertirti dalla mattina alla sera coi tuoi giochetti
matematici e filosofici. Ma per adesso non abitiamo ancora in
una caverna. Fra un po’ sì, se va avanti così. Ma per adesso
no!».
U «E invece sì, mia cara! La nostra vita è come se si svolgesse
sempre in una caverna, in quanto tutti, poveri e ricchi, donne e
uomini, vecchi e giovani, confondiamo le entità reali con le
finzioni che crediamo vere, quasi osservassimo le ombre
proiettate da una luce sullo sfondo di una caverna credendo che
quelle che vengono proiettate siano proprio le entità reali».
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D «Adesso ho capito! Viviamo in una caverna e tu sei un
cavernicolo!».
U «Sì, però, a differenza di altri, cerco di spingermi al di là
dell’oscurità. Anzi, quando mi avvio nella luce e lascio alle spalle
l’oscurità della caverna, scopro entità mirabili, essenze
straordinarie. È quando ritorno nell’oscurità della caverna, che
trovo difficoltà a spiegarmi: sembra che nessuno voglia
prendermi sul serio, a cominciare da te. Pochi prestano fede e
attenzione a quanto ho scoperto nella luminosità della Realtà
Vera, della Realtà Pura: pur se trasparente essa appare un
sogno o addirittura un inganno ordito ai danni di chi è dentro la
caverna. Queste ombre, che offuscano la realtà, divengono più
reali della vita, l’unica verità che ci circonda».
D «Adesso ho capito! Tu sei un cavernicolo e ogni tanto esci. Già
che sei tornato, prendi il mestolo! È in fondo alla caverna!».
U (perplesso, sembra pensare come se gli fosse stata rivolta una
richiesta strana) «Il mestolo?».
D «Proprio così, mio caro! Il mestolo! Mica un dodecaedro! Avanti,
cavernicolo caro, va’ a prendere il mestolo. A tanti tu sembri un
pochino strano, e questo sia dentro sia fuori della caverna. Un
filosofo un po’ strano».
(Di fronte all’irrisione della donna, U torna alla sua sedia, si siede; fa
le sue solite manovre di posizionamento per trovare la sistemazione
più comoda. Infine decide di sedere alla rovescia fronteggiando lo
schienale e prende a tracciare alcune linee geometriche sulla
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tavoletta. La donna va alla dispensa, Estrae il mestolo; torna al
focolare; mescola le cipolle nel paiolo)
D (borbotta) «La caverna! La caverna! È proprio una caverna
quella in cui abitiamo!». (Di tanto in tanto riempie il mestolo,
assaggia, scuote il capo, sogguarda U)
D «Ssss!… Ci mancava solo la caverna!».
U (quasi per scusarsi osserva) «Ogni tanto io esco però».
D «Allora restaci fuori della caverna! Va’ da Platone, va’ da
Callicrate, va’ dove ti pare, ma non star qui a rovinarmi l’anima
con queste astruserie».
(La minestra ora sparge un profumo ineguagliabile in tutta la stanza.
U alza il capo, annusa l’aria, sorride)
U (fra sé bisbiglia) «Stasera si mangia da re».
(D guarda U con fare sospettoso)
U (vedendo la faccia arcigna di D, chiede) «Beh? Che c'è?».
D «Che c'è cosa?»(L'uomo si gira dall'altra parte e riprende a
chinarsi sulla sua tavoletta di geometria, ricomincia a scrivere)
U (a se stesso) «Perché è capitata proprio a me questa donna?
Perché è successo proprio a me d’incontrarla? Esiste un destino
che trasforma la vita di ognuno in un cammino predestinato,
segnato in partenza? È possibile che solo in questa stanza,
accanto a questa persona che mi rimbrotta dalla mattina alla
sera sia riposto il senso della mia esistenza?».
D (tra sé) «C’è qualcosa che non va nella sua testa. Perché non si
alza da quella sedia? Perché non va a lavorare? Perché parla
sempre dell’Essere, del Tutto, del Nulla, come se ci fossero al
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mondo cose più essenziali che brigare dalla mattina alla sera
per mettere sotto i denti un pezzo di pane e una minestra. Lui
ragiona sull’universo, sullo Spirito e non sulle cose di cui
parlano tutti. Con quelle frottole non si mangia, non si mette
una pentola sul fuoco. Questa è la vera filosofia: lavorare per
mangiare e poi stendersi su un letto per riposare».
U (ragiona) «Per quale ragione questa donna si è posata sulla mia
strada? E perché io, malgrado tutto, le voglio ancora bene?
Stare con lei significa passare il tempo ad altercare dalla
mattina alla sera. Questo è il destino di quell’io che vorrebbe
percorrere i sentieri della Filosofia più elevata, di quell’io che
vorrebbe interpretare i fondamenti dell’Essere e decifrare il
mistero del Tutto, e invece si ritrova a discutere sulle posate
sporche e sul prezzo delle cipolle. Sono dunque io quella
persona che pensa alla profondità dell’Anima e deve altercare
dalla mattina alla sera sul prezzo dei piselli? Ma anche questa
donna è capitata male: molti mi considerano un buono a nulla».
(U si volta, guarda la donna che ha ripreso a rammendare seduta
sulla sedia vicino al focolare. D di tanto in tanto si alza e va a
controllare quanto sta cuocendo dentro la pentola)
D (ordina) «Prepara la tavola!».
U (per mostrare la sua contrarietà all’atmosfera che regna in casa
risponde) «Stasera non mangio!».
D (inesorabile) «Meglio così! Mangio io due volte!».
(L’uomo storce il naso; l'evidente ostilità di lei lo amareggia)
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U (a bassa voce come se lo spiegasse a qualcuno) «È
straordinariamente abile nelle faccende domestiche. È una sarta
sopraffina. Potrebbe competere con le sartorie più famose della
città. Ma mi si rivolge in modo talmente rude da angustiarmi.
Non ne uscirò mai. Eppure, a pensarci bene, anche il suo modo
di parlare è un’abile forma di retorica tesa ad avere sempre
ragione; è davvero una forma di comunicazione scaltra la sua,
un modo di discutere che ha una sua reale efficacia. Eppure mi
manca la possibilità di parlare con chi ogni giorno mi è vicino di
filosofia, di geometria, di letteratura, di scienza. Questa
impossibilità di discutere con chi mi sta vicino sui temi che
considero più elevati è qualcosa che mi mancherà sempre».
(D continua a darsi da fare in cucina; fa ordine tra le pentole, dispone
piatti in tavola; ritorna al focolare, vigorosamente mestola, assaggia.
Poi va alla dispensa, prende a sbucciare i piselli. Il profumo della
minestra ora ha raggiunto ogni angolo della casa; il suo aroma
delicato e penetrante ha davvero un profumo sublime. L’uomo si alza,
annusa, va in giro con la tavoletta e lo stilo in mano. Si china, si
piega sulle ginocchia; scrive qualcosa sulla tavoletta, prende appunti;
annota. Alza il viso… Poi scrive)
D (sardonica) «Caro, cosa stai facendo? Scrivi poesie per caso?».
U «Cara, non sarebbe strano scrivere un iporchema sulla tua
minestra».
D «Non dire parolacce!».
U «Non è una parolaccia. L’iporchema è una forma di poesia
accompagnata dal suono della cetra, dal flauto e dalla danza. Mi
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potrei esibire in un iporchema, danzando e celebrando la tua
minestra di cipolle che diffonde un profumo così celestiale».
D «Lascia perdere la danza alla tua età, filosofo! Ma non ho
ancora capito che cosa tu stia facendo. Giri per la stanza come
un citrullo».
U «Aerostatizzo».
D (sorpresa) «Aerocosa?!».
U «Aerostatizzo».
D «E cosa vuol dire?!».
U «Statuisco in forma scientifica se il profumo della tua minestra
giunga in modo uniforme in ogni punto della stanza e se
conformemente alla sua espansione nell’etere e nello spazio
abbia eguale capacità di stimolo dei sensi in ogni direzione. Gli
atomi, di cui parla egregiamente Democrito…».
D «Basta così, grazie, ho capito! Non c’è bisogno che ti dilunghi
nella tua dotta dissertazione. Riprendi pure a fare quello che
facevi! Ma a bocca chiusa, per favore! Non m’occorrono ulteriori
spiegazioni. Continua a spruzzare, a struzzare, a strizzare, fa
quello che ti pare, in silenzio però!».
U (sorride) «Entrambi, mia cara, stiamo creando qualcosa di utile:
tu cucini, io aerostatizzo, tu crei una minestra di cipolle dal
profumo divino, io elaboro concetti. Questo profumo della tua
zuppa è davvero sublime. Ha impregnato di sé ogni sostrato
dell’Essere sostanziale e subsostanziale».
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D (sogghigna rivolgendosi a una terza persona invisibile) «È un
cavernicolo filosofico e scientifico; un po’ complicato, ma chi ci
capisce dice che è bravo».
U «Questa minestra è la sostanzialità dell’Essere elevata alla sua
ennesima potenza. Essa è data! Come tale fa parte della Datità
del Tutto!».
D (borbotta) «E dàgli con questa datità del tutto!».
U «Te la ricordi, cara, quella minestra di cipolle che mangiammo a
Egina, dopo che ci siamo sposati?».
D «Eccome se me la ricordo! Niente filosofia allora, solo fatti
concreti. E mi ricordo anche tutto il resto».
U «Non era male quella minestra, niente male!».
D «Già! Allora c’era parecchio appetito, sia di cipolle… sia del
resto».
U (cerca di schivare il discorso) «Mi ricordo, cara, che il giorno
successivo, facendo il bagno, tu stavi per affogare».
D «Me lo ricordo anch’io. E mi ricordo anche di tutto il resto».
U «Mi ricordo che dalla riva io ti guardavo mentre annaspavi».
D «Me lo ricordo ancora e mi ricordo anche di tutto il resto».
U «Tutto il resto?».
D «Tutto il resto! Mentre adesso… (la donna assume
un’espressione sconfortata di fronte all’evidenza della situazione
attuale) adesso c’è solo la minestra di cipolle!».
U «Ti guardavo e riflettevo “quella donna sta per affogare”, e
pensavo: “Sarà vero? o farà finta?”. E mi dicevo: “Non vorrei
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trarre conclusioni affrettate, ma quella là sembra proprio sul
punto di rimetterci le penne”».
D «Me le ricordo anch’io quelle onde… e anche tutto il resto!».
U «Se non ci fossi stato io quel giorno, non so come te la saresti
cavata. Dopo attimi di riflessione e aver fatto profondi esercizi
di respirazione mi gettai in mare nuotando in stile perfetto.
Avanzavo coordinando e mulinando braccia e gambe. Poi ti
afferrai come se fossi un cespo di cipolle e cercai di riportarti a
riva, ma tu facevi resistenza, eri tutta agitata e mi volevi
portare al largo. Ma io ero determinato a portarti a riva. Tu però
continuavi a cercare di portarmi al largo».
D «Me lo ricordo anch’io che ero un po’ confusa. E mi ricordo
anche di tutto il resto».».
U (prosegue imperturbabile) «Dovetti far ricorso a tutte le mie
competenze natatorie per restare a galla e non finire a fondo».
D «Me lo ricordo anch’io che stavi per finire a fondo».
U «Pensavi forse che volevo spingerti sott’acqua. Se non ci fossi
stato io quel giorno, mia cara, tu ci avresti rimesso le penne. E
invece riuscii a riportarti all’asciutto, ti stesi sulla spiaggia, ti
trassi in salvo, e presi a farti il respiro bocca a bocca. Ma tu non
ne avevi proprio bisogno, perché ti eri già ripresa. Eri viva e
vegeta. Ne approfittasti per continuare a darmi baci. Mi
ringraziavi in quel modo bizzarro. Erano baci molto armoniosi».
D (aggrotta la fronte) «Già, già! Me li ricordo anch’io quei baci. E
mi ricordo anche di tutto il resto.
U «Tutto il resto?».
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D «Proprio tutto il resto! Se mi succedesse ora di affogare, non so
come andrebbe la faccenda. Mi chiedo che cosa faresti tu in
un’occasione del genere: il bocca a bocca o una spintarella per
buttarmi più a fondo?».
U «Me lo chiedo anch’io. Come dire?… Le cose cambiano… (U sta lì
a pensarci…) Beh, in ogni caso niente spintarelle! Ma forse
neppure il bocca a bocca».
D «Del resto anche le cipolle, come tutto il resto, non sono più
quelle di una volta».
(U si affaccia alla finestra; è inebriato dal profumo che aleggia nella
stanza)
U (esclama a voce alta) «Nell’Infinito c’è il riflesso dell’Essere e di
ogni profonda Essenza».
D (commenta) «Essenza di che? Delle cipolle forse!».
U (aggrotta la fronte, poi ripete serio) «Essenza delle cipolle? Può
essere interessante come metafora del sapere».
D (sconcertata) «Le cipolle metafora del sapere?!».
U «Proprio così, mia cara. Nel dialogo filosofico si toglie uno strato
dopo l’altro dell’apparenza che offusca la realtà. E velo dopo
velo alla fine resta solo l'essenza: la verità! Questo modo di
procedere assomiglia tanto a quello di sbucciare una cipolla,
quando se ne toglie un velo dietro l’altro finché rimane la parte
più preziosa, più buona: l’essenza della cipolla!».
D (commenta sorridendo a una terza persona invisibile) «Riesce a
fare collegamenti anche tra la filosofia e le cipolle!».
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U «In ogni caso mi chiedo: le cipolle col loro profumo esprimono
un’essenza? E se sì: la qualità di queste sensazioni che fanno
provare è nel loro gusto o nella risposta che provocano in chi le
percepisce? ovvero nell’ombra proiettata sulla parete della
caverna?».
D «Basta con la caverna! Non ricominciamo con la caverna!».
U (bisbiglia) «Devo sviluppare questo tema dell’essenza della
sostanzialità delle sensazioni come aspetto inesprimibile della
materia o come forma della sensibilità di chi viene a contatto
con essa nell’oscurità che regna all’interno della caverna».
D (sbotta) «Esci dalla caverna! Va’ a lavorare!».
U (si volta sconcertato) «Come hai detto, mia cara?».
D «Ho detto: esci dalla caverna e va’ a lavorare. Se tu portassi a
casa qualche soldino, sempliciotto mio, potremmo tornare a
Egina e farci una bella vacanza».
U «Sì, così tu magari stavolta affoghi davvero!».
D «In che senso ‘magari’? È un augurio o un’osservazione velata
da timore?».
U «Un augurio. Volevo dire timore! Mi stai facendo dire le cose
che non penso! Mi fai confondere!».
D «Avevo capito bene che avevo capito male».
U «Tanto a Egina non ci torniamo. È così piena di armatori! gente
piena di milioni, furbastri che coi loro barconi ti cavano anche il
vestito di dosso per il trasbordo, speculatori abilissimi! Meglio
non rischiare e starsene a casa. Così si può ragionare con calma
di filosofia e dei pericoli scampati da un viaggio a Egina».
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D «Proprio così! Meglio affogare in un mare di parole, parole,
parole. Tanto loro non costano niente!».
U (rivolto a D, per sviare il discorso) «Mi chiedo se sia giusto
sostenere l'eguaglianza di tutti gli uomini, se sia legittimo porre
sullo stesso piano chi persegue la virtù e la verità con chi cerca
solo un bicchiere di vino per ubriacarsi o addirittura con chi
froda gli altri per accumulare denaro e potere. E poi cos'è la
Verità? Cos’è la Virtù».
(U si rivolge a D aspettando la risposta. Ma questa fa una faccia
perplessa e disgustata)
U «Allora?».
D «Boh?»
U «Ma almeno tenta, dì qualcosa. Secondo te, che cos’è la Virtù?»
D «Non te lo dico neanche se mi regali un fagiano di Leogora!».
U «Leogora?».
D «Sì, quello dei fagiani».
U «Va bene! Dopo vado da Leogora; mi faccio regalare un fagiano
per te. Poi passo dalla salina e ti porto anche la salina, così sei
contenta. Ma adesso, ti prego, cerca di camminare al mio fianco
verso l’Assoluto, verso il Supremo. Da quale principio, oserei
dire da quale noumeno possiamo dedurre che la verità e
l’onestà siano quanto di più elevato un essere umano possa
mirare nella propria esistenza?».
D (esausta) «Mi fai diventare nevrastenica con queste
stramberie!».
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U (commenta serio) «Nevrastenica? Certo, mia cara! Anche la
nevrastenia può essere una via per raggiungere la verità, per
conseguire una conoscenza superiore. Nelle ombre che noi
vediamo proiettate sulla parete della caverna…».
D (spazientita) «Basta, con la caverna! Non ce la faccio più con la
caverna!».
U «… si riflettono entità che non nella caverna…».
D «Non la sopporto la caverna!»
U «… esistono realmente ma attraverso il foro dell’antro della
caverna…»
D «Sto diventando matta con la caverna!».
U «Ho perso il filo… Cos’è che dicevo?… Ah sì! Nelle ombre
proiettate sulla parete della caverna, nei tempi antichi, le
baccanti, notoriamente affette da nevrastenia, venivano
considerate sacerdotesse sacre alle divinità. Euripide nella sua
fammosa commedia illustra come meglio non si potrebbe…».
D (l’interrompe) «Lascia perdere Euripide e passami un cucchiaio
piuttosto».
U (sorpreso) «Ma stavo parlando delle ‘Baccanti’ di Euripide!».
D «Lo so che parlavi di Euripide! Quell’Euripide che “Eschilo
eschilo che qui si sofocle! Attenti alle scale, Euripide, che se no
tucidide!’».
(L’uomo rimane a bocca aperta… Ma poi si riprende e andando avanti
e indietro nella stanza ragiona a voce alta come se fosse in un
simposio)
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U «Questi vaneggiamenti vanno al di là di ogni limite! Ma
riprendiamo: noi vediamo ogni cosa nella sua ombra proiettata
sul fondo della caverna…».
D «Non ce la faccio più con la caverna! Basta con la caverna! Io
un giorno o l’altro mi butto dalla caverna, volevo dire dalla
finestra!».
U (senza darsi pensiero degli strepiti di D continua) «In ogni caso
su quale principio possiamo dedurre l’assunto che la Virtù abbia
più valore dell'immoralità? Per quale dottrina la speranza o
meglio il ‘principio speranza’ è l’àncora di salvezza in questa
stagione di ansia e di affanni?».
D «Mi sta venendo l’ansia».
U (continua imperterrito) «Mi chiedo se la speranza abbia senso
anche quando la vita sta declinando o se la speranza racchiuda
valore e senso solo per chi davanti a sé abbia un tempo
adeguato alla traduzione del principio speranza che si opponga
a questo tempo di affanni».
D (grida) «Aiuto! Ho l’affanno!».
U «O per caso è nel ‘principio speranza’, nel suo noumeno direi,
nella sua datità che noi possiamo confidare?».
(U si è fermato, è rivolto verso D, è in attesa di una sua risposta. D
resta in silenzio)
U «Allora?».
D (si sorprende) «Allora cosa?».
U «Stavo parlando del ‘principio speranza’».
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D «Sono in fondo alla caverna, fra un po’ riemergo, allora ti
rispondo».
U (ricomincia a camminare in lungo e in largo per la stanza e a
ragionare) «La speranza è un’illusione o realmente esiste come
motivazione dell’essere? E il ‘principio speranza’ ha ragione e
vale come datità di valore nel fondo della caverna…».
D «Se continui a parlarmi della caverna ti strozzo!».
U (sorpreso) «Ma argomentavo sul senso dell’Essere!».
D «Fa senso lo stesso!».
D (scuotendo il capo sconsolata va a prendere un cucchiaio;
mentre cammina per la stanza passando davanti a U gli ripete
in faccia come un’ossessione) «La caverna!… La caverna!…».
U (seguendola con gli occhi) «È inutile che mi prendi in giro, mia
cara. Noi viviamo in una caverna com’è vero che stasera
mangeremo una buona minestra di cipolle».
D (si sorprende) «Ma se avevi detto che non mangiavi!».
U «Ah! M’ero dimenticato».
D (scuote il capo, fa uno sbuffo divertito) «Un bicchiere di vino ti
farebbe diventare un po’ più sobrio».
U (insiste, rivolto a D) «Dimmi, cara, perché dobbiamo perseguire
la Virtù? Perché non è giusto arraffare tutto quello che ci capita
sottomano? Eh? Spiegami!».
D (ridacchiando e girando il cucchiaio nel paiolo replica con una
vocetta ghignante) «So solo di non sapere».
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U «Non fare la spiritosa. Cerca di aiutarmi con il tuo buon senso
pratico. Seguimi nei meandri del sapere alla ricerca della
Verità!».
D «Vammi a prendere quel fagiano piuttosto. Avevi detto che
andavi da Leogora».
U «Te l’ho già detto, cara! Dopo te lo vado a prendere quel
fagiano! Andrò da Leogora e gli dirò: ‘Senta, mi dia un fagiano
se no a casa mia non si vive più’. Anzi andrò più per le spicce,
lo affronterò di brutto: ‘Leogora! o la borsa o un fagiano! Sta’
buono, pollivendolo da strapazzo! Non fare storie se no ti tiro il
collo come se fossi un fagiano!’».
D «Ma lo conosci così bene questo Leogora?».
U «Mai visto! Ma non ho alternative. Adesso però, per favore,
rispondimi sull’Essenza, sull’Anima, non sui fagiani».
D «Lascia perdere l’Essenza! Lascia perdere l’Anima! Vammi a
prendere quel fagiano piuttosto o se non altro una cipolla. E poi
sbuccia i piselli!».
U «Dove sono?».
D «Nella dispensa».
(U sta lì a pensarci. Poi riprende in mano la tavoletta di geometria. Va
a sedersi sulla sua sedia sotto la finestra. Fa movimenti studiati come
in una cuccia per sistemarsi comodamente. Infine si siede di lato, con
lo schienale di fianco)
U (senza alzare lo sguardo) «Devo risolvere questo problema di
geometria e non saranno certo i piselli o i fagiani a distogliermi
da uno scopo supremo così supremo! Le cipolle, i piselli possono
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aspettare, la geometria no. La mia occupazione è risolvere
quesiti di matematica. Io mi occupo di geometria e di
matematica! mica di piselli!».
(La donna va alla dispensa e comincia a sbucciare i piselli)
D (parlando fra sé) «Invece di aiutarmi, se ne sta sempre lì in
panciolle a divertirsi coi suoi giochetti parolai».
U (scuotendo il capo, sottovoce bisbiglia) «Invece di essermi
accanto nella ricerca della Virtù, sbuccia i piselli!».
U (si rivolge di nuovo a D) «Dimmi, cara: che cos'è che fa della
nostra vita un’esistenza degna di essere vissuta? Mangiare una
minestra o ragionare sul senso ineffabile della vita? Riempire la
pancia o argomentare per un’ascesi a una conoscenza più
profonda della saggezza, verso un traguardo dello Spirito in cui
non esistano le cipolle e i piselli soltanto ma soprattutto
l’Indicibile?».
D «Indicosa?».
U «Indicibile».
D «Mai sentito nominare!».
U «Se è Indicibile, è ovvio che non l’hai sentito nominare».
D «Ma se tu lo nomini, non è più indicibile!».
U «È vero, ma è un Indicibile che può essere nominato in quanto
Indicibile nella sua essenza dicibile di Indicidibilità».
D «Non ci ho capito niente, ma mi sembra complicato. Molto
profondo però!»
U «Proprio così: il profondo Indicibile!»
D «Vorrai dire l’Indicapperi!».
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U (sconcertato) «L’Indicapperi?!».
D (con entusiasmo) «Sì, Indicapperi! Proprio quelli!».
U «Ma che cosa stai inventando?! Di che cosa stai parlando? Stai
scherzando per caso?».
D (ghignando) «Gli Indicapperi! Grattugiandoli sul sugo di piselli,
sono buonissimi!».
U «Facciamo finta di non aver sentito e ritorniamo all’Assoluto,
all’Essenza, alla Virtù. Cos’è più convenevole all’essere umano:
tendere ai livelli supremi della spiritualità o riempirsi la pancia
di piselli e di cavoli, e quindi, con rispetto parlando, di svuotare
in seguito la pancia, faccio notare, dentro la caverna? Non
pensi, mia cara, che una risposta a tali quesiti sia molto più
importante che occuparsi di piselli, di cipolle e di cavoli?»
D «I cavoli servono per mangiare, le cavolate servono per perdere
tempo. E non bisogna dimenticare neppure i finocchi?».
U (sconcertato) «I finocchi?!»
D «Già, i finocchi! Anche quelli sono importanti. Si possono fare
buonissime minestre con i finocchi!».
U (sgrana gli occhi) «Le minestre di finocchi?!».
D «Proprio così! Mica sono scema!».
U «Donna, mi sembra che tu ti stia parlando con un eloquio
complesso come quello della Sibilla. È difficile da interpretare il
tuo eloquio stasera anche per un esperto di etimologia ermetica
come me. Ascoltandoti mi sembra di essere nel tempio
dell’oracolo di Delfi!».
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D «Delfi? No, niente Delfi! Niente oracoli! Solo semplici, evidenti
constatazioni».
U «Questo discorso, mia cara, mi sembra terribilmente
enigmatico».
D «Sarà enigmatico, ma in giro, fuori della caverna, senza
bisogno della Sibilla si parla di finocchi e di finocchietti. E non
c’è bisogno di andare a Delfi per sapere come vanno le cose a
questo mondo».
U «Finocchietti?!».
D «Lasciamo perdere! Tanto per me la minestra è sempre la
stessa!».
U «Stento a capire, mia cara, di che cosa tu stia discettando, a
cosa tenda questo tuo discorso traverso, fatto di
argomentazioni oblique e nebulose».
D «Cambiamo discorso! Parliamo di cipolle! Lasciamo perdere la
retorica e torniamo alla minestra. Del resto a me dei discepoli
del tuo pensatoio non m’importa proprio un fico secco!».
U «Pensatoio? Quale pensatoio?!».
D «Il pensatoio! Come lo chiamano tutti!»
U «Vorrai dire il cenacolo di giovani che si raccolgono attorno a
me nei simposi di filosofia».
D «Proprio quello! Coi tuoi scolaretti Alcibiade e Aristodemo così
carini, tanto affettuosi».
U «Ti prego, donna, dimmi una buona volta una parola di verità,
di conoscenza, di sapienza, di amore del sapere, di filosofia,
qualcosa che si avvicini al Logos; non sviare il discorso con
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pettegolezzi indecorosi degni solo di quel furfante di
Aristofane!».
D «Va bene! Lasciamo perdere il Cosos, lasciamo perdere gli
scolaretti e non parliamo di niente. Stiamo zitti! Così ci
guadagniamo. Ormai m’è capitato di vivere in questa caverna,
ma almeno lasciami sbucciare in pace i piselli!».
U «Smettila di fare battute da commedia da quattro soldi e dimmi
una buona volta una parola di verità! Provaci!».
D «Le donne sono tutte bugiarde».
U (sconsolato) «È inutile tentare di parlare con te, donna».
D (vezzeggiando il suo contendente) «È inutile parlare con le
donne».
U (insiste incrollabile) «Perché bisogna riconoscere in qualsiasi
essere umano un proprio simile?».
D (quasi seria) «Perché mangia pure lui le cipolle!».
(Negli occhi dell’uomo brilla il lampo di un’intuizione, di una
riflessione)
U «Questa è un’idea! Perché mangia pure lui le cipolle! Qui c’è
uno spunto! un filo del Logos. Da questa osservazione può
venire un suggerimento, una risposta. Non c’è male, non c’è
male, cara, come argomentazione sul Logos».
D «Ma quale Cosos! Io parlavo di cipolle!».
U (prosegue imperterrito nella sua elucubrazione) «In questo
traslare dal cielo alla terra e di nuovo dalla terra al cielo le
domande più profonde sull’Essere si apre un sentiero per uscire
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dall’oscurità, per raggiungere la trasparenza della conoscenza
dei concetti fondamentali dell’Universo».
(U si ferma meditabondo a pensare, a riflettere)
D (scuote il capo e dice sottovoce a una terza persona invisibile)
«Continua a fare filosofia mentre io continuo a lavorare. Ma
guarda un po’!».
U (interroga la donna) «Ma se è così, mia cara, perché in questa
prospettiva concettuale in fondo alla caverna…».
D (sbotta) «Basta con la caverna!».
U (prosegue imperterrito) «… abbiamo solo una finitezza di
oggetti a disposizione per i nostri sensi».
D (spazientita) «Mi fai venire i nervi».
U (sorpreso) «Ma è dell’Essenza, della Virtù, dell’Assoluto, del
Sublime, dell’Anima che sto parlando!».
D (spiegando come a un bambino) «L’anima? Quale anima? L’hai
mai vista tu l’anima? Con queste frottole non si apparecchia la
tavola! Lasciami lavorare piuttosto che devo sbucciare i piselli».
U (convinto e ispirato) «Sbucciare i piselli? Posso farlo io! Stasera
mi appresterò a qualcosa di pratico. Sbucciare piselli! Eccomi
qua! Risolvere problemi pratici è altrettanto essenziale che
ragionare sugli Enti Supremi, è una via, è un sentiero, un
tentativo di appropinquarsi al Logos: sbucciare piselli!». (U si
alza, va alla dispensa, prende in mano alcuni piselli e continua
ad argomentare). «Anche nell’impegnarsi in qualcosa di pratico,
come quest’azione di sbucciare codesto pisello…». (U alza il
pisello al cielo, lo squadra come una reliquia, poi toglie la buccia
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e teorizza). «Pisello… Tempo… Spazio… Istante… Pisello…
Infinito-Pisello… Tu! miserissimo sostrato del Reale! Tu,
umilissimo pisello! Tu, espressione della Datità del Tutto… ».
D (guarda U irridente) «Adesso si mette a parlare anche ai
piselli!».
(Finito di sbucciare i suoi primi piselli, U va a riporli sulla scodella e
sta per prenderne altri, ma si accorge che tutti gli altri piselli sono già
stati tutti sbucciati)
U (sorpreso) «Ma gli altri piselli sono già stati tutti sbucciati!».
D (sbuffa) «E già! Li ho sbucciati io! Se in questa casa non lavoro
io, qui non si mangia, si fa solo filosofia».
U (con magnanimità acconsente) «Hai ragione, cara! Nel tuo agire
pratico c’è una dimostrazione del Logos. Praticamente fai
filosofia!».
D «Chi io?!»
U «Certo mia cara: filosofia pratica»
D (ridendo ironica) «Che filosofa che sono! Potrei tenere un corso
sulla ‘Filosofia del Pisello’».
U «Pisello?»
D (irridente) «Pisello!»
(U posa i piselli che ha sbucciato nella scodella. U torna alla sua
sedia, cerca la posizione più comoda, fa vari tentativi. Poi visto che
non trova una posizione che gli aggrada resta in piedi accanto alla
sedia. Riprende in mano la sua tavoletta di geometria)
U «Bene! Dopo aver lavorato, dopo essermi speso in un’attività
eminentemente pratica, esercitata ogni giorno da tutti i miei
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simili, eccomi qua di nuovo teso al Logos, alle vette supreme
dell’Assoluto».
D «Già, già! Sui sentieri delle posate sporche e dei piselli da
sbucciare me la devo sfangare io, come al solito!».
U (come se non avesse sentito) «Si deve praticare anche un
impegno quotidiano su problemi di minor conto per avanzare
poi con consapevolezza maggiore sui sentieri eccelsi del
Logos».
D «Ma lascia perdere il cosos! Prepara la tavola piuttosto!».
(L'uomo la osserva… Sembra decidere se davvero apparecchiare la
tavola, ma poi torna con gli occhi sulla tavoletta)
U (replica altezzoso) «Preparare la tavola? Ma se ho detto che non
mangio! E poi io ho questo problema di geometria da risolvere
prima di stasera. Mangiare per me non ha alcuna rilevanza!».
D «Fa’ un po’ tu!».
(U, in piedi accanto alla sua sedia vicina alla finestra, piega il capo
sulla tavoletta; esibisce un deliberato impegno sul problema
geometrico)
U «La cena può aspettare, il Sublime no!».
D (sussurrando) «Filosofo… se non apparecchi la tavola… tu non
mangi non solo stasera… ma neppure domani sera! Te lo dice il
cosos!».
(U, per non far vedere che esegue gli ordini a bacchetta, non alza lo
sguardo, continua a ragionare di geometria; traccia vigorosi, energici
segni sulla tavoletta come se si trattasse di un dipinto da riempire di
colori. Dopo un po’ però, quasi soprappensiero, posa la tavoletta sulla
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sedia, lascia la finestra, va al lavello, raccoglie alcune posate e
stoviglie, si avvicina alla tavola e le posa)
U (mentre dispone le posate e le stoviglie sul tavolo, parla a voce
alta, ragiona) «Come può l'essere umano che persegue la virtù
assumere la sicurezza di elevarsi sempre al di sopra del Non-
Essere».
D (si porta il dito indice diritto alla tempia e fa il gesto che quello
lì è un po’ svitato)
U «La nullificazione è vivere senza tendere all’Assoluto, la
reificazione del non-Essere è un’In-Essenza ».
(D in silenzio è scossa da fremiti del ridere)
U (come se fosse usuale disporre posate in tavola e fare filosofia
allo stesso tempo, continua) «Come può un essere umano alla
ricerca della Verità, della Conoscenza confrontarsi con la datità
delle cose di minor conto?».
(D sgrana gli occhi ridacchiando. U dispone bicchieri, cucchiai, piatti,
tutto compito, assorto nel suo filosofare… D cambia d’improvviso
atteggiamento, osserva U dalla sua sedia accanto al focolare e le
sembra di vedere qualcosa che non la convince. D si alza in piedi:
come un uccello posato su un ramo studia con attenzione, con
sospetto che cosa stia facendo l’uomo…)
D (improvvisamente strepita) «Diavolo d’un buono a nulla! Ma
non vedi che stai mettendo in tavola i bicchieri usati? Le posate
sporche! I piatti luridi!».
(L'uomo sgrana gli occhi sorpreso… Si ferma… Osserva quanto ha
posato sul tavolo… Poi recupera stoicamente e velocemente le posate,
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i bicchieri e riporta in fretta tutto l’armamentario nel lavello dove
l’aveva preso)
D (l’ingiuria) «Stai sempre lì a chiacchierare dalla mattina alla
sera con te stesso e non vedi la differenza tra un piatto sporco
e uno pulito, tra un bicchiere usato e uno lavato!».
(L'uomo sospira, ritorna vicino alla finestra, guarda con fare assorto
la sua sedia studiandola, sembra indeciso se sedere o non sedere; la
gira e rigira per verificare quale sia la disposizione migliore. Verso
quale angolo? Verso la finestra? Verso il centro della stanza? Dopo
una meditazione sulle varie possibilità, posiziona la sedia contro il
muro, quasi attaccata al muro, e si siede con la faccia rivolta al muro
per guardare il muro a pochi centimetri dal muro. Fa sommovimenti
per sistemarsi come si deve, come in una cuccia. E così rivolto al
muro riprende a ragionare sui quesiti di geometria)
U «Se la cuspide del dodecaedro è riconducibile nella sua
spazialità differenziale a un esagono proiettato nello spazio, la
sua reversibilità imporrebbe una traslazione del piano obliquo
lungo tutti i lati minori. Ovvio! E questo, faccio notare, per tutti
i dodecaedri. Come Volevasi Dimostrare!».
D «L’unica cosa che gli riesce è parlare in questo modo dalla
mattina alla sera. Se prendessi nota di tutte le stramberie che
dice e le riferissi in giro, gli altri non ci crederebbero. Sofisti e
non sofisti, algebrici e geometrici vivono a metà strada fra la
terra e il cielo, fra le nuvole! Aristofane ci ha visto giusto! Non
so come ho fatto a sopportarlo per tutti questi anni, questo tipo
che vaneggia in questo modo in questa casa».
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U (sottovoce) «È difficile vivere accanto a questa donna. La mia
vita è come se brancolasse nel buio. Lei apparecchia la mia
tavola e mi redarguisce; lei rassetta la mia casa e mi rimbrotta.
Ma non è soltanto lei a trattarmi in questo modo, anche tanti
altri in questa città hanno verso di me un atteggiamento di
rigetto. Forse però anche lei e la sua animosità sono solo
un’apparenza. La futilità è l’Anima del non-Essere. In questa
vita il non-Essere incombe. Il Nulla è in agguato!».
D (gira lentamente il mestolo nella minestra e dice sottovoce) «Se
non ci fossi io si mangerebbe una volta ogni tre giorni! Non si
ricorda nemmeno di quando è l'ora di mettersi a tavola! Un
giorno o l’altro coi suoi ragionamenti arriverà a dimostrare che
il cielo è una stufa e noi siamo il carbone e ficcati dentro quella
stufa ci arrostiamo se non ce la svigniamo in fretta. Aristofane è
proprio un genio ad aver detto queste cose!».
(Il profumo della minestra fa trasalire l’uomo tanto è stuzzicante e
invitante. L’uomo annusa l’aria)
U «L’unico motivo per non cambiare idea sul non mangiare
stasera è la consapevolezza che il non avere bisogni materiali
costituisce la vera ricchezza dell’uomo, la sua più profonda
conquista. Rinunciare a qualsiasi cosa superflua è quanto
avvicina di più l’uomo al Logos».
D (che ha sentito, commenta) «Angelo mio, mangiare una
minestra non è superfluo e non ti allontanerà di sicuro dal cosos
o dai tuoi dèi. Buttare giù una minestra non ti svierà
dall’empireo delle tue filosofie celestiali!».
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U (borbotta tra sé) «Adesso mi chiama angelo. Prima diceva che
ero un sempliciotto. Poi ha detto che ero un diavolo. C’è un po’
di confusione in quella testolina. Non manca occasione che non
mi tratti a male parole. Poi di punto in bianco mi si rivolge con
paroline dolci quasi fossi un angioletto o forse un cagnolino da
vezzeggiare e da portare un po’ in giro. È davvero un luogo
oscuro quello che in cui viviamo, in tutto e per tutto simile a
una caverna! Non riusciamo neppure a decidere di che pasta sia
fatta la persona che abbiamo accanto e come rivolgerci a lei:
come a un diavolo o come a un angelo? come a qualcuno che ci
aiuta ad attraversare il sentiero della vita o a un estraneo che ci
carica addosso, sul groppone anche le sue magagne fino a
schiacciarci e non farci più muovere?».
D «Nel regno celestiale della tua filosofia ti domandi persino se sia
il caso di mangiare una minestra! Riesci a imbastire un discorso
filosofico anche sulla cena di stasera! Riusciresti a vedere
problemi di algebra persino in un piatto di lenticchie!».
U (a una terza persona invisibile) «Quella donna borbotta da
quando si sveglia a quando si corica. Come minimo mi sta
portando in giro!».
D (a una terza persona invisibile) «Quel tipastro parlotta dalla
mattina alla sera; di sicuro sparla di me; dice quanto io sono
stupida, tanto lui si ritiene intelligente. Un giorno o l’altro potrei
anche incavolarmi e usare il matterello per la pasta, ma non per
fare la pasta, allora s’accorgerà di quanto m’ha irritato in tutti
questi anni!».
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U (a se stesso) «Comunque stasera io non mangio. Ho detto che
non mangio e non mangerò! Manterrò fede al mio proposito.
Anche se ho una fame da lupo».
D (si rivolge a U con tono ironico) «Non mi sembra, mio caro, che
quella di mangiare o non mangiare una minestra di cipolle sia
una questione decisiva per la tua filosofia. Su, angelo mio,
alzati e vieni a cenare che è pronto».
(La donna porta la pentola al tavolo, con il mestolo inizia a distribuire
due porzioni in due piatti disposti ai lati opposti del tavolo. U guarda
che cosa D stia facendo; si alza per osservare meglio D che prepara
la tavola per due)
U (sedendosi sulla sedia, rivolto al muro, convinto) «Ho detto che
non mangio e non arretrerò dalla mia scelta! Non devo
rinunciarvi! Ho detto che non mangio e non mangerò! Potesse
venire giù un diavolo e ribaltarsi la terra! Ma io stasera non mi
siederò a quella tavola! (U fa gesti di assenso con la testa,
infervorato della propria decisione, come una promessa cui
tener fede) Rimango fermo nelle mie decisioni, nei miei
proponimenti. Dalla saldezza sulle piccole cose nasce la
saldezza anche sulle grandi scelte!».
(La donna ha finito di riempire le due scodelle, va a prendere la sedia
vicina al focolare, la porta al tavolo e inizia a mangiare. Spezza il
pane dentro la minestra)
D (dice compassionevole verso U) «Vieni a cenare, angelo mio.
Non fare l’eroe. Non star lì sulla soglia della tua caverna. Se non
riempi la pancia stasera, domani non ti riuscirà non solo di fare
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filosofia e di deliziarti coi tuoi giochetti matematici ma neppure
di alzarti dal letto e di lavarti la faccia».
U (deciso) «Ho detto che non mangio e non mangerò! Gli uomini
malvagi dicono una cosa e ne fanno un’altra, gli ignoranti
parlano in un senso e si comportano nel senso opposto. Sia
malvagi sia ignoranti vivono per mangiare e per bere. I saggi
invece mangiano e bevono esclusivamente per vivere».
D (compassionevole) «Malvagi o non malvagi, ignoranti o saggi,
se non mettono sotto i denti qualcosa alla sera fanno poca
strada il giorno dopo. E se mangiare è necessario per stare in
piedi, occorre mangiare anche per fare filosofia. Prendi nota di
questo concetto e scrivilo nei tuoi libri: è necessario buttare giù
qualcosa senza strozzarsi anche per studiare la matematica. Sia
che mangi per vivere o che vivi per mangiare è meglio sorbire
una minestra la sera; sia che tu viva in fondo a una caverna o
in cima a un cucuzzolo a scrutare gli astri compatendo quei
poveri cavernicoli che la sfangano con difficoltà ogni giorno in
fondo alla caverna, di tanto in tanto devi prendere un cucchiaio
in mano e riempirlo di minestra: la minestra t’aiuta a trovare
soluzioni anche per i tuoi problemi più eccelsi».
U (si volta sorpreso) «Nel tuo ragionamento, mia cara, c’è una
trama del discorso più forbita del solito, quasi che la filosofia,
dopo essermi stata accanto in tutti questi anni, abbia fatto
breccia anche nella tua mente. Ma io stasera… non mangio! Non
mi siederò a quella tavola, malgrado il profumo della tua
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minestra assomigli tanto a quello del nettare degli dèi. Se gli
dèi esistessero ovviamente, è una pura ipotesi di lavoro».
D «Lavoro? Quale lavoro?!».
U «Lavoro filosofico».
D «Ah! Pensavo un lavoro vero».
U «Dicevo: l’ipotesi che gli Dèi esistano è assimilabile a quella che
esistano le cipolle? E poi esistono davvero le cipolle o è solo un
sogno? Forse quanto mi sta accadendo è semplicemente un
tentativo di indurmi in tentazione, di farmi assumere
comportamenti inappropriati, in contrasto con i miei ideali.
Questa minestra di cipolle indurrebbe a cedere alla
concupiscenza anche il più stoico degli asceti, anche il più
mistico dei mistici, ma non farà cadere in errore me, non
riuscirà a farmi arretrare dai miei principi: cipolle o non cipolle,
io tendo al Logos!».
(D prende a mangiare da sola, lo fa in maniera assorta, se ne frega
delle dotte argomentazioni del suo filosofo casalingo. U traccia segni
sulla tavoletta di geometria, lo fa con grandi svolazzi artistici, come
se provasse piacere a ragionare, a scrivere e quindi a non mangiare)
U «Dodecaedri!».
D «Dodecavoli!».
U (sorpreso) «Cosa?!».
D «Dodecavoli. Sto studiando matematica da sola».
U (convinto) «Ah bene! Dedichiamoci alla matematica dunque!».
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(U legge in silenzio quanto ha scritto nella tavoletta, fa ampi cenni di
assenso col capo come per avvalorare i suoi pensieri, le sue
elucubrazioni)
D (come se parlasse fra sé, ma chiaramente per far sentire U
seduto vicino alla finestra) «Davvero buona questa minestra!
Ottima! Queste cipolle hanno un sapore squisito! Davvero
brava! Proprio brava, mia cara! Mi faccio i complimenti da sola!
Se non c’è nessun altro che mi fa i complimenti in questa casa,
me li faccio io! Complimenti, carissima! Con quei pochi soldi a
tua disposizione sei riuscita a preparare una leccornia da
leccarsi i baffi».
U (sorpreso) «Baffi? Quali baffi?»
D (convinta) «I baffi! Quelli che hanno tutti!»
(D guarda U per vedere la sua reazione. Ma U storce il naso schifato e
riprende a chinarsi sulla tavoletta)
U (scrollando la testa esclama) «Cipolle! Bleah! Non mangerò più
una cipolla in vita mia! Cipolle diaboliche!».
(D prende a mugulare di piacere)
D «Che buona questa minestra! Umm… Che ghiottoneria! Siamo
sinceri: è il nettare degli dèi! Siamo assolutamente sinceri: è
superottima!».
U (schifato, a voce alta) «Cipolle?! M’hanno sempre fatto venire il
mal di stomaco! Sono indigeribili! Hanno dimostrato che fanno
venire ulcere e abrasioni alle budella».
D (estasiata) «Sublime! Questa minestra di cipolle è una bontà
divina! È il nettare degli dei!».
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U (sottovoce) «È duro fare lo sciopero della fame con qualcuno
che emette quei versi osceni. È arduo astenersi dal cibo con
quella donnaccia che emette sconci schiamazzi di goduria per le
sue schifosissime pietanze. Ma io terrò duro! Questa si chiama
saggezza! Questa si chiama forza d’animo!».
D «Che prelibatezza! Mmm… Che pietanza! Eccelsa! Sublime! Il
logos!».
(U non fa una piega)
D (sottovoce a se stessa) «Sembra davvero che quel citrullo abbia
intenzione di non venire a mangiare stasera! Ma lo fa solo per
finta! Fra un po’ cede e verrà a papparsi la sua minestra! Lo
conosco! È tutta una manfrina».
(U guarda D di sottecchi, storcendo il naso schifato)
D (alzando la voce) «Domani mi comprerò un buon pollo. Ottima
idea! Domani mi compro un pollo. Così domani sera potrò
cucinarmi una buona minestra di pollo. Ecco quello che ci vuole!
un prelibato brodo di pollo».
(U si scuote come se avesse sentito qualcosa di importante. Quanto è
stato appena detto ha sollecitato la sua attenzione. È come se fosse
emersa una problematica non trascurabile da non tralasciare. Si
volta. Si alza in piedi)
U (chiede) «Pollo?! Hai detto pollo?!».
D «Sì, pollo! Domani invece che cipolle comprerò un pollo, così
passerò dalla ci-polla al ci-pollo. Un passaggio decisivo dal
punto di vista filosofico. E me lo sceglierò con accortezza quel
buon ci-pollo, come ho fatto oggi con le ci-polle. E me lo
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mangio domani sera e dopodomani quel buon ci-pollo. Me lo
pappo, me lo gusto il mio ci-pollo!».
U «Ma intendi acquistarlo di genere femminile?… o di genere
maschile?».
D (perplessa) «Di che cosa stai parlando, mio caro?».
U «Di quanto hai appena detto che comprerai domani».
D «In che senso?».
U «Intendi comprare un maschio?… o una femmina?».
D (sorpresa) «Maschio?! Femmina?! La geometria t’ha dato di
volta al cervello?».
U (insiste pedante) «Tu domani comprerai un animale maschio? o
un animale femmina?».
D «Vedrò…».
U «Tu con la stessa parola, con lo stesso vocabolo indichi sia il
maschio sia la femmina. Pollo!… e pollo!».
D «E allora?! Cosa c’è di strano?».
U «Tu chiami pollo sia il maschio sia la femmina!».
D «E perché?! Quale sarebbe il problema adesso?!».
U «Ma come? Con tutte le tue diatribe di genere sul femminile,
con tutte le tue proteste sul fatto che i maschi, in particolare io,
si comportano come individui sfaticati, in particolare io, sul fatto
che sono scansafatiche, in particolare io, con tutte le tue
invettive sugli uomini fannulloni, in particolare io, che parlano a
vanvera, in particolare io, adesso tu indichi con lo stesso nome
sia una femmina, pollo,… sia un maschio: pollo! E se ci fosse
una terza possibilità: pollo pure lui! Tutti pollo!».
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D «Adesso siamo passati al sesso. Il discorso si fa delicato. E
come dovrei chiamarlo allora?».
U «Evidentemente pollo se è un maschio e polla se è una
femmina!».
D «Sì! Così si confonde con la sorgente!».
U «Beh, quella chiamiamola pollessa».
D «E se è un fiume?».
U «Pollone».
D «E se è piccolo?».
U «Pollino».
D «Sì, così finiamo in Magna Grecia e non ci muoviamo più!».
U «Va bene allora: chiamiamolo pollastro».
D «Mi sembra di essere finita in una commedia di Aristofane».
U (indignato) «Lascia perdere quel reazionario!».
D (accondiscendente) «Lasciamo perdere i reazionari e mangiamo
il pollo, volevo dire le ci-polla o cipollessa. Domani vedrò di
arrangiarmi in qualche modo col pollivendolo; ci capiremo. Gli
farò un gesto sconcio: m’intenderà di sicuro al volo.
Rimandiamo i discorsi sui polli e sulle polle al prossimo
arrosto».
U (Di nuovo seduto rivolto contro il muro è indeciso sul da farsi;
sottovoce come se lo confidassi a un suo interlocutore invisibile
riprende a ragionare) «In attesa del pollone o pollessa o
pollastro di domani, non so se sia il caso di farmi tornare
l'appetito stasera, un appetito, faccio notare, peraltro mai
smarrito. E in caso di risposta affermativa, come comportarmi
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di fronte a questa donnaccia che con veemenza sfacciata si sta
gustando in modo indecoroso la sua minestra di cipolle tanto
profumata da essere una vera, diabolica tentazione? Il pensiero
di dover capitolare in modo palese, evidente di fronte a quella
spudorata mi consiglia di non cedere. No! Io non cederò!
Stasera non mangio! neppure se arriva un demone mandato
dall’Inferno a impormelo col suo forcone!».
D «Ci ho ripensato: domani mi compro una gallina».
U (stoico replica) «Per me è uguale! Tanto io non mangio né
stasera né domani! La mia decisione è unica! irrevocabile!
definitiva!».
D (dà un’occhiata a U sempre seduto sotto la sua finestra e
borbotta) «Quel citrullo è ancora seduto là, anche se ha una
fame da lupo. Che citrullo quel filosofo! Proprio uno stupidotto
quel filosofo dei miei stivali!».
U (si volta, guarda la donna e dice sottovoce) «Quella donnaccia
si sta gustando in modo indecoroso la sua cena e lo fa senza
pudore. Che spudorata! La dovrebbero arrestare! Mostra un
ostentato piacere. È il piacere osceno esibito alla sua massima
potenza, un’esibizionista di prima riga! La dovrebbero
rinchiudere in carcere. Guardala come se la pappa la sua
minestra! E accentua pure con pose oscene la sua soddisfazione
sguaiata. E tutto per farmi dispetto! Che tipastra! Che teppista!
Mostra di assaporare e di godere e di gustare e di pappare con
voluttà le sue pietanze. Guarda come se le gusta! Guarda come
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se le pappa! Lecca anche il cucchiaio quella spudorata! Siamo al
limite dell’oscenità!».
D (lecca voluttuosamente il cucchiaio. Guardando di sottecchi U
borbotta) «Quel citrullo se ne sta ancora là! Aspetta che io gli
dica un’altra volta di venire a mangiare. Povero babbeo! Te lo
sogni!».
U (si volta verso il muro e dice piano) «Se quella là me lo
chiedesse ancora una volta di sedermi a quella tavola, potrei
forse con suprema condiscendenza far vedere di cedere alle sue
continue insistenze, di arrendermi ai suoi petulanti assilli, e,
dimostrando che lo sto facendo solo per non contrariarla, solo
per mantenere la pace familiare, acconsentirei con superiore
benevolenza a rinunciare momentaneamente, diciamo per una
mezzoretta, allo sciopero della fame e mi accosterei con gelida
imperturbabilità al suo desco, sedendomi con nobile distacco a
quel tavolo che, faccio notare, è già apparecchiato e dove la
mia minestra si sta pure raffreddando!».
(U si rialza in piedi, guarda D in attesa di una parola, di un segno, di
un cenno. Ma siccome D non fa né un cenno né un segno e non dice
nulla si rimette a sedere rivolto al muro e ricomincia a tracciare
formule sulla sua tavoletta. Dopo poco però U si alza di nuovo in
piedi; guarda D. Con la tavoletta e con lo stilo in mano U esita. D
mangia e scruta U di sghimbescio e sogghigna)
D (a fior di labbra bisbiglia) «Quel citrullo aspetta che io lo inviti
ancora una volta. Che stupidotto quel filosofo! Proprio un
babbeo quel sapientone dei miei stivali!».
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U (sottovoce fra sé e sé) «Basterebbe una parola, una sola parola,
sarebbe sufficiente un invito. Basterebbe che dicesse: ‘Caro,
perché non vieni a mangiare?’. Oppure: ‘Per favore, siediti,
accantona per un po’ il tuo duro lavoro filosofico! Ti prego,
mangia una minestra, ti fa bene, ne hai bisogno per sostenerti e
sopravvivere alle tue sfiancanti fatiche intellettuali!’. O anche
rusticamente: ‘Ehi! Dàtti una smossa! Prendi quel cucchiaio e
butta giù la cena!’. E invece… niente! Pappa la minestra e se ne
sta provocatoriamente zitta! Se la vuole pappare tutta da sola
la sua minestra. Che egoista! Che sguaiata! Che donnaccia!
Proprio a me doveva capitare!».
(U con passi lentissimi in silenzio si avvicina al tavolo. Arrivato
accanto al tavolo, guarda D; ha la tavoletta in una mano e lo stilo
nell’altra. Esibisce un fare da saggio, da filosofo di un cenacolo
eccelso. Sta aspettando che lei gli dica una parola)
D (alza lo sguardo dal piatto, lo squadra, fa un gesto interrogativo
della mano raccolta a dite unite, chiede) «Che c’è?».
U (timido) «La tua minestra manda un profumo sublime».
D (lo guarda con un sorriso) «Proprio così, mio caro. Mi sembra
davvero buona questa minestra. È venuta particolarmente
bene. Queste cipolle, scelte a una a una al mercato, valgono
ogni soldo che ho speso».
U «Vedo bene che valgono i soldi che hai speso! Stai gustando
quella minestra con un piacere sfacciato. Te la stai spassando!
Te la stai godendo come in un paradiso di bagordi».
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D (spiegando con subdola accuratezza) «Questa minestra, mio
caro, è stata realizzata con tutti gli ingredienti scelti a uno a
uno. È stata preparata con ogni accortezza. Gli ho prestato ogni
attenzione sia nei tempi di cottura sia nelle sue componenti. Per
questo è davvero una cenetta deliziosa. Ti assicuro: riconcilia
l’animo al termine della giornata».
U «Soprattutto se uno ha fame».
D «Proprio così, angelo mio: soprattutto se uno ha fame. E in
particolare tanta fame. Magari, se uno fa lo sciopero della fame
e gli costa un po’ fare quello sciopero. Potrebbe essere indotto a
interromperlo per una mezzoretta il suo arduo sciopero
durissimo della fame».
(D trattiene a stento gli sghignazzi, ritorna a guardare il piatto, fa
finta di non capire la manfrina di U, riprende a mangiare mostrando
indifferenza verso U)
U (quasi triste) «Mi sembra davvero sublime il profumo»
D (compita) «Sublime? Diciamo buono. Le cipolle sono state
cucinate con tutti i crismi della gastronomia. Altro che
geometria! Meglio la gastronomia! Tutte le cipolle comprate al
mercato si stanno rivelando squisite!».
U (perplesso) «Dunque?».
D (sorpresa) «Dunque cosa, angelo mio?!».
U (dimesso) «Cosa dovrei fare?».
D «Fa’ un po’ tu».
U (con fare indignato guardandola esclama) «È incredibile dove
possa arrivare l’egoismo umano!».
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D (sorridendo ironica) «Oppure dove possa cominciare l’invidia».
U (sconcertato) «Prego?».
D (svagata) «Dicevo».
U «Vogliamo intavolare un dialogo sul punto di svolta tra egoismo
e invidia?».
D «Preferisco mangiare la minestra».
U «Da sola?».
D «Da sola, in due; l’essenziale è farlo in pace».
U «Sembra una filosofia della vita».
D «Può darsi. In ogni caso non potremmo rimandare le discussioni
di filosofia a più tardi. La minestra si sta raffreddando».
U (come per avere l’ultima conferma) «È davvero così buona
quella minestra?».
D (tirando un sospiro di rassegnazione per il tira e molla) «Buona?
Te l’ho già detto, angelo mio! È venuta bene. O come dici tu:
assomiglia al nettare degli dèi. Se gli dèi esistessero
ovviamente, per seguire le tue profonde riflessioni di lavoro.
Lavoro filosofico naturalmente, non un lavoro vero. Oppure se
torniamo coi piedi per terra: buonissima!».
U «Dunque?».
D (con una faccia subdolamente stupita) «Dunque cosa?».
U (sovrappensiero, con un atteggiamento di superiore distacco,
voltandosi, avviandosi verso la finestra) «Mangio anch’io».
D (indifferente) «Come vuoi, caro».
(D riprende a mangiare e a guardare assorta nel suo piatto.
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U, tornato verso la finestra, posa la tavoletta e lo stilo sul giaciglio.
Afferra la sedia; la spolvera con la mano e si avvia verso il tavolo
portandosela dietro come un cagnolino. Piazza la sedia accanto al
tavolo davanti al suo piatto. Si siede facendo la solita manfrina di
posizionamenti per trovare la postura più comoda)
U (sorpreso) «Non c’è niente per apericena?».
D (sgrana gli occhi) «Apericosa?!».
U «Apericena».
D «E cos’è?».
U (sorridendo) «Un modo aggiornato per iniziare la cena! Consiste
in vari stuzzichini e vari bicchierini».
D «No, niente stuzzichini, niente bicchierini, niente aperitivi
birichini. Stiamo mangiando senza pretese. Siamo rustici da
queste parti! Solo minestra di cipolle e un bicchiere di rosso».
U «Fa lo stesso! Meglio rustici che affettati».
D «Non abbiamo neppure gli affettati».
U «Beh, un affettato ci sarebbe voluto, ma accontentiamoci!
Abbandoniamo dunque momentaneamente l’empireo della
Geometria e dedichiamoci alla Gastronomia».
(U, seduto sull’orlo della sedia, come per non disturbare, quasi da
invitato in casa d’altri e che si faccia riguardo di non essere di peso,
prende a mangiare. La donna continua a sorseggiare con gusto la sua
minestra; di tanto in tanto sgranocchia il pane. Non alza lo sguardo
verso U. L'uomo, mentre mangia, guarda di sottecchi la donna. U non
si sente a suo agio)
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U (tra un cucchiaiata e l’altra, guardando nel piatto bisbiglia tra
sé) «Queste schermaglie, queste dispute si ripetono ogni
giorno. Pensare di andare avanti così per tutta la vita è come
avere una spina nel fianco».
D (fa un sospiro di superiore sopportazione, replica svagata)
«Spine? Quali spine, mio caro? Ci sono anche le spine adesso
nella tua minestra?».
U «Cara, ti chiedo: quanto durerà questo battibecco? Per quanto
tempo dovremo sostenere un peso così sfiancante che ci spossa
e ci sfinisce?».
D (spazientita) «Stasera, per favore, mangiamo soltanto in pace.
Non insceniamo melodrammi».
U «Mi domando se non sarebbe il caso di stare da soli».
D « Da soli? Lo siamo già».
U «Intendevo ciascuno per conto suo».
D «Non mi sembra che pur abitando nella stessa casa ci sia molta
corrispondenza fra noi due».
U «Forse non eravamo fatti per percorrere insieme la stessa
strada».
D «Anch’io la penso così».
U (sottovoce) «E allora?».
D «Allora cosa?»
U (con un’espressione triste) «Possiamo cambiare se vuoi».
D «In che senso?».
U «E se ci lasciassimo?».
D «Già! Se ci lasciassimo?».
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U «Cosa accadrebbe?».
D «Nulla di particolare. Non saremmo di sicuro i primi».
U «Ma forse non ne vale più la pena».
D «Non ne vale più la pena? Perché? Ogni giorno in fondo è un
giorno che ci resta da vivere, per fare qualcosa che ci piace. Se
ci riusciamo. Se vogliamo».
U «Del resto non saprei dove andare; ormai mi sono abituato a
questa casa. Mi trovo in difficoltà nei traslochi».
D «Già! Tu t’intendi solo di filosofia, ovvero parole, parole, parole,
tante parole da sfiancare chi ti ascolta. Neppure gli argonauti
riuscirebbero ad attraversare un oceano così grande di parole».
(U tira sul col naso abbacchiato. La donna continua a mangiare,
scuote la testa. Nel mangiare, tra un cucchiaio e l’altro, sgranocchia
pezzi di pane. Nel sorbire la minestra rumoreggia a ogni cucchiaiata)
U (con tono gentile e amichevole) «Cara, non pestare così con la
bocca».
(D alza gli occhi; ha uno sguardo più di sorpresa che di disappunto;
ma non risponde, scuote solo il capo, e riprende a mangiare, a
rumoreggiare ancora più forte con la bocca)
U (aggiunge a mo’ di spiegazione sorridendo, con tono cortese per
non far pesare l’invito) «Non è fine».
(D si ferma col cucchiaio a mezz'aria, guarda U. Ha l’espressione di
chi ha a che fare con un citrullo sbucato appena adesso da un
manicomio e approdato chissà perché a casa sua)
D (sbotta) «Non è cosa?!».
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U (spiega con voce gentile sorridendo) «Non è fine. Ho detto
semplicemente ‘non è fine’. Non ho detto niente di male. Non
ho detto nulla contro di te. Ho detto soltanto ‘non è fine’. Cerca
di esserlo, no!».
D (come se parlasse a se stessa, esclama) «Qui sto sognando! La
vita è un sogno».
U (condiscendente) «È vero. L’ha già detto Esiodo. Ma più che un
sogno, è una sequenza di ombre sulle pareti di una caverna».
D (spazientita) «Non ricominciamo con la caverna!».
U «Va bene. Facciamo finta che io non abbia detto nulla. Tu, mia
cara, continua pure a mangiare come hai sempre fatto in vita
tua».
D (convinta e incavolata) «Certo che lo farò! E non sarai certo tu
a insegnarmi come si sta al mondo, diavolo d’un filosofo! Te ne
stai sempre lì tutto il giorno seduto su una sedia a rovinarti il
cervello, a fare dibattiti con te stesso, e siccome non puoi farli
con nessun altro perché nessuno ti dà ascolto, li fai in questa
stanza dove ci sono io che dalla mattina alla sera devo
sopportare le tue stramberie, mentre io in questa caverna
lavoro, rassetto, porto da mangiare, esco dalla caverna e vado
al mercato per scegliere a una a una le cipolle. E adesso hai il
coraggio di venirmi a dire come si deve stare a tavola in questo
buco oscuro di caverna!».
U «Interessante questo discorso sulla caverna!».
D «Non voglio più sentire pronunciare la parola ‘caverna’!».
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(L'uomo tira un sospiro di rassegnazione. Poi prende a mangiare e a
sorseggiare la sua minestra facendo attenzione di evitare anche il più
che inavvertibile fruscio)
U (borbotta fra sé) «Mi sembra di essere assediato».
D «Assetato?».
U «Assediato».
D «Dalle pulci?».
U (cambia discorso, cerca di proposito di pensare ad altro) «È
davvero buona questa minestra di cipolle. È tanto che non ne
mangiavo una così».
(U lecca il cucchiaio con la lingua)
D (con sarcasmo ghigna) «Non leccare così il cucchiaio, mio caro.
Non è fine!».
U (acconsente con aria di superiorità) «Hai ragione, donna
operosa e scaltra: non è fine. Grazie per avermelo fatto
notare».
D (micidiale) «Che stupido!».
U (aggrotta la fronte sorpreso perché la sua aria di superiore
condiscendenza è stata messa in ridicolo) «Stupido?».
D «Proprio così: che stupido! ‘Stu pi do’! Chi non nota cose ovvie
è uno stupido. Lo dice la parola stessa: stupito da ovvietà,
sciocco, o, visto che sei tu, che mi sei tanto simpatico,…
scioccone!».
U (adombrato) «Adesso sei diventata esperta di etimologia?».
D «Etimocosa?».
U «Lasciamo perdere. Pensiamo alla minestra».
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D «Almeno su questo punto siamo d’accordo. Io e te abbiamo
raggiunto un risultato condiviso nel nostro dialogo: stasera non
c’è niente di meglio che occuparsi di cipolle ovvero dell’Anima
cucinata delle cipolle».
U (stupefatto) «L’Anima cucinata delle cipolle?!».
D «Proprio così! Ormai ho imparato anch’io come si fa filosofia:
l’anima di questo, l’anima di quello, la sostanza di su, la
sostanza di giù, un’essenza di qua, un’essenza di là. È
esattamente come preparare una minestra o meglio un
minestrone di cipolle, dove però al posto delle cipolle ci sono le
parole! Ogni tanto una citazione di un saggio, un aforisma di un
filosofo e poi alla fine, per condire, uno spruzzo di parole
spezzettate: Dis-Prezzo, Av-Versione, Contrad-dizione. E
spizzichi, spizzichi, spizzichi di espressioni esoteriche: Panta
Rei, Eidos, Kalos, Etnos, Phìsis, Techné, pronunciate con un’aria
di superiorità, a volte di preoccupazione come se si fosse in
ambasce per le sorti dell’umanità. E alla conclusione di tanto
elucubrare una frasetta tratta da una poesia celebre o da una
commedia famosa per insaporire il discorso, proprio come si fa
con un pizzico di pepe prima di servire l’arrosto!».
U «Arrosto?»
D «Arrosto di filosofia!».
U (interloquisce serio) «Sembra che la retorica abbia preso piede
anche nella tua mente, cara, seppure solo per criticare in modo
indecoroso chi fa filosofia. D’altra parte il non rispondere è una
forma del conversare, anch’essa esprime un messaggio».
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D «Proprio così! Ogni tanto ci vuole anche il silenzio, un silenzio
tanto prolungato da suscitare domande; uno si chiede: chissà
cosa starà pensando quel filosofo sapiente che se ne sta così
silenzioso? Quello lì di sicuro ragiona su problemi epocali,
decisivi per le sorti del mondo. E invece è un silenzio che non
vuol dire niente: è tutta una manfrina, una commedia per
abbindolare i citrulli, per invogliarli a battere le mani alla
conclusione dello sbrodolamento di parole. È tutto un
minestrone filosofico!».
U (protesta) «La filosofia non è un minestrone».
D «È invece sì! Un minestrone di parole! Ormai con tutti gli anni
che ti sono stata accanto ho imparato a conoscere quei
furbacchioni di filosofi che parlano, parlano, parlano e in realtà
non dicono niente».
U (s’indigna) «Come non dicono niente?! Ma se sono soltanto loro
a esprimere una parola di verità in quest’età dell’ansia».
D «Sì, età dell’ansia, età della paura. E poi filosofia della crisi, non
dimenticando la crisi della filosofia, l’Anima del Mondo e il
Mondo dell’Anima: parole, parole, parole. I filosofi non si
preoccupano neppure di contare i secondi che impiega una
pietra a cadere al suolo. Loro discettano sul fatto se quella
pietra possa cadere davvero o non cadere, se il moto esista o
non esista. E per dare una risposta a tali dotti quesiti si
confrontano su testi antichi, disputano sulla base di principi e
asserzioni preliminari se una pietra possa cadere o non cadere.
Leggono volumoni di secoli prima, su questi si confrontano,
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contendono sul filo di ragionamenti che come unico senso logico
hanno solo il fatto che loro hanno sempre ragione. Non gli viene
neppure in mente a quei sapientoni di misurare i secondi che
impiega un sasso per scendere al suolo. Se volessi potrei fare
anch’io filosofia, basta allenarsi un po’ ed essere convinti di
avere sempre ragione di riffa o di raffa. In ogni caso meglio di
un minestrone di parole e di paroloni è questa minestra di
stasera, solo cipolle! È più concreta, più saporita, più genuina e
più semplice. A dispetto di tutte le pietanze filosofiche
preferisco una modesta pietanza di cipolle».
U «Su questo avrei qualcosa da obiettare; ma è meglio non aprire
un dialogo».
D (acconsente) «Sì, meglio. Mangiamo solo stasera. Fino alla fine
della cena restiamo zitti, così ci guadagniamo».
SCENA 2 - CATARSI
Personaggi: Uomo, Donna
(U e D mangiano in silenzio. Sorbiscono la loro minestra, ogni tanto
guatandosi come gatti selvatici. Entrambi sono attenti a non fare il
minimo rumore. U finisce per primo la cena, era veramente affamato,
passa con la mollica sul piatto si gusta con soddisfazione anche quel
tozzo di pane insaporito. Beve un bicchiere di vino. Fa un rutto)
U «Uh! Scusa!».
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(D lo guarda ridendo. U si alza, si porta dietro la sua sedia, la piazza
accanto alla finestra, fa varie prove per trovare la posizione migliore,
e infine piazza la sedia in orizzontale, si siede per terra usando lo
schienale della sedia come una poltrona improvvisata. Ritorna alla
sua tavoletta e al suo problema di geometria; sembra sia seduto su
un prato tanta è la sua aria soddisfatta, vacanziera)
U (serafico) «Cipolle e geometria forse si accordano meglio di
quanto si possa immaginare».
(La donna prende a sparecchiare; scuote il capo sorridendo,
tranquillizzata da quel concludersi della serata con la buona minestra.
L’umile cena ha riportato la pace nel corpo, nella mente e in famiglia)
D «Te le sei pappata la tua minestra di cipolle, eh, filosofo?».
U «Pappata, mia cara?»
D «Proprio così: pappata! Sei contento, eh?, diavolaccio!».
U «Contento?».
D «Di esserti pappato di riffa o di raffa la tua cenetta».
U «Sono contento come un cherubino!».
D «Ripetilo!».
U (ridendo) «Sono contento come un cherubino!».
D «Stai barando!».
U «Non sto barando, stasera sono davvero contento».
D «Parecchio tempo fa a questo punto ci sarebbe stata anche una
pietanza».
U «Quale pietanza, mia cara? Sono sempre stato così morigerato
per la cena»
D «Una pietanza un po’ particolare che forse te la sei scordata».
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U (resta lì a pensarci) «Mi chiedo di che cosa tu stia parlando, mia
cara».
D «Fa lo stesso. Sono contenta lo stesso».
U «Anch’io».
D «Siamo contenti».
U «Siamo contenti».
D «Almeno una volta in questa giornata possiamo dirlo».
U «Di’, cara, hai mai avuto un attimo di felicità da quando siamo
sposati? Voglio dire… qualcosa che ti facesse pensare: ‘In
questo momento non sono solo contenta ma addirittura…
felice!’?».
D «Che io sappia no».
U «Ti ricordi quando alla mattina andavamo sempre al mare e ci
facevamo tutte quelle belle nuotate».
D «Eccome se me le ricordo! tutte quelle belle nuotate! Quanto
resistenti eravamo! E poi tornati a casa ci scordavamo di fare
colazione».
U (sorpreso) «Questo non me lo ricordo! E come mai ci
scordavamo di fare colazione?».
D «Facevamo ginnastica».
U (sconcertato) «Ginnastica?!».
D «Proprio così! Dopo il nuoto, la ginnastica! Eravamo sportivi
allora!».
U «La ginnastica proprio non me la ricordo. Prima parlavi di
pietanze strane, adesso di ginnastica di prima mattina».
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D «Devi aver cancellato quelle pietanze e quegli sport dalla
mente».
U «Non so».
D «Com’eri maldestro con le tue giravolte! E poi tra un esercizio e
l’altro dicevi paroline dolci, che erano meglio di tutte le tue
parolone attuali».
U «Paroline dolci? Saranno stati lemmi, corollari, deduzioni».
D «No, niente lemmi, niente corollari, niente deduzioni, erano
paroline, come dire?…, divine; e anche se nel dirle eri
terribilmente rustico, eri lo stesso sublime. Eri rustico e
sublime! Sembravi proprio una cipolla!».
U (allibito) «Assomigliavo a una cipolla?!».
D (sicura e convinta) «Certo! Una cipolla calzata e vestita! E io
ero in un brodo di giuggiole! E ti amavo più di tutte le cipolle e
di tutte le giuggiole messe assieme. Ero felice per la tua
rustichezza cipollesca. Sì, forse sono stata felice mentre mi
pappavi come una giuggiola!».
U (esclama allibito) «Ti pappavo come una giuggiola?! Ma cara,
cosa stai dicendo?! Sembri declamare una poesia un po’ spinta
di Esiodo».
D «Sto semplicemente dicendo che una volta eri rustico e
cipollesco! Così mi piacevi!».
U «E cosa facevo per renderti felice, anche se ero cipollesco.
Forse ragionavo sulle entità supreme? Forse m’inerpicavo nelle
vette eccelse della filosofia?».
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D «No, non t’inerpicavi, anzi stavi zitto zitto, ti mantenevi terra
terra. Quanto stavi zitto! E quanta ginnastica facevi! Tutta
quella ginnastica zitto zitto. Ti davi da fare come un furetto!».
U «Cara, mi sembra che tu stasera stia parlando in modo un po’
bizzarro. Non ti sembra di parlare in modo un pochino bizzarro?
Non dico la voce, anzi il tono è quello che vorrei tu avessi
sempre, gentile ed emozionato, ma le parole, le parole sono
davvero strane: pietanze sibilline! ginnastiche sorprendenti!
somiglianze con furetti!».
D «È vero: a volte anch’io trovo il mio modo di parlare bizzarro. È
quando mi ritornano in mente piacevolezze mai scordate, allora
mi metto a parlare in modo parecchio strano».
U «Santo cielo! Sei poetica stasera, cara! Quando parli in questo
modo sembri una poetessa!».
D «Trovi?».
U «Assomigli a Saffo».
D «A Saffo?! Ma cosa stai dicendo, cipollone? Quella là se la
intendeva con le donne!».
U «Allora a Corinna, che per ben cinque volte batté Pindaro in
gare di poesia!».
D «Meglio! E anche tu gareggiavi! Non eri mica pigro! Non lo eri
affatto! Questo non lo posso dire. Non lo eri per niente! Già,
già! Me lo ricordo ancora. È adesso che te ne stai sempre lì su
quella sedia a rovinarti il cervello con i grovigli matematici e
filosofici. Allora eri, come dire?…, scientifico e poetico, sportivo
e artistico. Io cercavo delle scuse: ‘guarda, uccellino, che la
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colazione si sta raffreddando’. E tu… niente! E io dicevo: ‘caro,
sono un po’ stanchina. Angelo mio, non stancarti così! Magari ti
fa male’. E tu… niente! Tiravi diritto! E io dicevo: ‘uccellino, non
tirare troppo la corda! Sei mica di ferro!’. Tu scuotevi il capo e
continuavi a darti da fare! Sembravi Ermes con le ali ai piedi,
anzi da tutte le parti».
U (perplesso) «Cara, stai parlando di cure termali per caso?».
D «No, non erano cure termali, ma facevano benissimo, molto più
delle cure termali! Era una ginnastica, come dire? divina: ti
rimetteva in forze la mattina e ti conciliava il sonno la sera. Ce
la siamo spassata, perché anche tu dicevi che eri felice».
U «Poi ci sa fa l’abitudine».
D «Anche a non far niente».
U «A stendersi su un letto»
D «A guatarsi come gatti selvatici»
U (per cambiare discorso) «Fra un po’ piove».
D (sicura) «Non pioverà!».
U «Credi, cara?».
D «Non pioverà! La pioggia oggi vuole fare la spiritosa e scende
verso l’alto».
U (aggrottando la fronte) «Cosa hai detto?!».
D «Ridi, per favore! Non mi capita tutti i giorni di fare battute
tanto divertenti».
U «Ma non ho capito».
D «Ridi, per favore, diavolo d’un filosofo! Ho detto che ‘oggi la
pioggia vuole fare la spiritosa e scende verso l’alto’».
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U «Vuoi che mi metta a ridere?».
D «Sì!».
U (ride in modo sguaiato, si muove in preda a un tremolio
ostentato) «Ah! Ah! Ah! Quanto rido! Quanto mi sono divertito!
Questa non la volevo sapere: la pioggia oggi scende verso
l’alto! Ah! Ah! Ah! Che battuta!».
D (lo guarda perplessa, non molto convinta) «Non mi sembri
molto sincero in quel divertimento».
(U rimette diritta la sedia, ci sale sopra e si mette a ballare sopra la
sedia e a ridere)
U (a tempo del suo ballo) «Ah! Ah! Rido, rido! Rido, rido! Sto
morendo per quella battuta!».
(U si ferma. Guarda D in silenzio)
U «Va bene cosi?».
D «Meglio! La mia era una spiritosaggine davvero azzeccata: ‘non
piove perché la pioggia oggi vuole fare la spiritosa e scende
verso l’alto’».
U (scende dalla sedia) «Una spiritosaggine davvero riuscita! Una
freddura degna di quel mascalzone di Aristofane!».
D «Sono contenta che tu ti sia divertito tanto per la mia battuta».
U «Dimmi, cara, e a parte la direzione della pioggia, pensi che la
pioggia sia composta sempre dalla stessa acqua? Ovvero che il
sole l’attragga come umidità? oppure che a ogni pioggia l’acqua
sia diversa?».
D «Non lo so e non me ne importa un fico secco!».
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U (imperterrito) «Ovvero: esiste un ciclo della pioggia oppure a
ogni pioggia cadono quantità d’acqua mai piovute prima?».
D «Non lo so e non me ne importa un fico secco!».
U (sdegnato) «Ma come fai a dire che non t’importa un fico secco
se prima facevi battute sulla pioggia e poi il lato scientifico del
problema non t’interessa? È importantissimo sapere se l’acqua
sia davvero l’umidità attratta verso le nuvole e poi rigettata a
terra da sbalzi di temperatura e di pressione oppure se l’acqua
sia una sostanza che si ricrei per fenomeni di condensazione
formandosi attraverso l’umidità dell’aria».
D (interrompendolo) «Non ci ho capito niente, ma non me ne
importa un fico secco lo stesso!».
U «Ma è un problema di formazione della materia!».
D «E a me della materia non me ne importa un fico secco!».
(L’uomo la guarda sconcertato)
U «E a parte i fichi secchi, cosa t’importa?»
D «Di cipolle»
U «Cipolle e fichi!»
D «Proprio così!»
U la guarda a occhi sgranati. Poi va alla finestra, osserva il cielo)
U «È vero: stasera il cielo non ha nessuna intenzione di piovere, si
sta riempiendo di stelle».
D «Anche lui deve essersi pappato la sua buona minestra di
cipolle!».
U (sorpreso) «Chi?».
D «Il cielo».
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U «Il cielo non mangia le cipolle!».
D «E invece sì: per questo è contento. Scintilla di contentezza con
tutte le sue stelline per essersi pappato la sua bella minestra
assieme a loro».
U «Neppure quel picchiatello di Aristofane arriverebbe mai a
inventare una storia del genere. In ogni caso, come mai sorbire
una minestra può rendere tanto appagati e contenti come dopo
aver risolto un problema di geometria? Che senso ha vivere se
semplicemente una minestra ti fa stare meglio? A che scopo
continuare a ragionare sull’Assoluto, sul Sublime, sulla Virtù, se
basta un piatto di minestra di cipolle per renderti soddisfatto?».
D «Forse perché tutto quello che c’è bisogno a questo mondo è un
po’ di gentilezza, una briciola d’affetto e una minestra calda alla
sera».
U «Credi, mia cara? Ma se è così allora a che pro esistono gli Dei
e le Idee Supreme?».
D «Non lo so e non me ne importa un fico secco!».
U «E dàgli con questi fichi secchi!».
D «In effetti anche i fichi sono buoni».
U «È vero. È tanto che non ne mangiamo».
D «Domani al mercato domando se qualcuno li vende a buon
prezzo».
U «Bene, cara! Così domani sera mangiamo piselli e fichi: un
pranzo da leccarsi i baffi».
D (sconcertata) «Baffi? Quali baffi?! Anche prima parlavi di baffi.
Mica siamo topi! Non abbiamo i baffi».
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U «A dire il vero a te un pochino spuntano».
D (sdegnata) «Cosa?!».
U «I baffi».
D «Maleducato che non sei altro!».
U «Scherzavo, solo qualche peluzzo».
D «Domani al mercato in ogni caso provo a chiedere i fichi».
U «Bene! Ma ora, cara, torniamo alla scienza, alla filosofia, alla
matematica. Quale differenza possiamo supporre dal punto di
vista dell’Essere tra il disvelarsi delle ombre della realtà nelle
loro apparenze subsostanziali rispetto alla profondità del
noumeno?».
D «Non ci ho capito niente, ma non me ne importa un fico
secco!».
U (non si dà per vinto) «Come cambia dal punto di vista
dell’essenzialità e della materialità del Tutto il fondamento della
datità della materia in quanto esistente nella sua essenzialità
subsostanziale noumenica?»
D «Aiutoooo!!»
U (prosegue imperterrito) «E col fondamento del permanere di un
sostrato superiore di verificabilità delle Idee Supreme tra le
congetture superiori nella loro verificabilità alla pura
contingenza?»
D «…».
U «Che ne pensi?»
D «…».
U «Non ho capito»
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D «Non ho detto niente»
U «Di’ qualcosa»
D «Boh»
U «Le cipolle e i piselli sono splendidi! Ma splendide sono anche le
idee supreme. Non trovi, mia cara?»
D «Boh?»
U «Il sapore della minestra di cipolle fa pensare a qualcosa di
sublime, fa provare sensazioni elevate quasi quanto quelle che
si provano risolvendo un problema di matematica»
D «Boh?»
U «Non sei d’accordo, mia cara?».
D «A me della matematica non me ne importa proprio un fico
secco! Io vorrei solo una parolina gentile la sera. Mi
accontenterei di una parolina dolce per concludere la giornata».
U «Una parolina dolce?».
D «Già!».
U «Te l’ho già detta! Sei stata brava a preparare quella minestra
stasera».
D «Così va meglio. Ma basta che non ricominci con la filosofia».
U «A ciascuno la sua piccola pena».
D «La mia non è tanto piccola».
U «T’è andata meglio che ad altri».
D «È vero: a migliaia di altri».
U «E mentre ci sopportiamo, cerchiamo di parlare senza farci
tanto del male».
D «Solo graffiandoci un pochino».
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U «Abbiamo delle attenuanti».
D «Siamo fragili come foglie su un ramo d’autunno».
U «L’ha già scritto Mimnermo».
D «Siamo leggeri come una piuma portata lontana dal vento».
U «L’ha già scritto Alcamne».
D «Siamo spettatori della meraviglia del mondo».
U «L’ha già detto Pindaro».
D (sbotta) «Ma hanno già detto tutto! Hanno scritto tutto!».
U «Beh, nessuno ha mai provato a fare una poesia sui fichi
secchi».
D «Adesso ci provo… In tutta la vita ci capita a volte di cogliere
soltanto un fico secco!».
U «È vero. Ma non mi sembra una frase tanto poetica, anzi è
piuttosto greve e prosaica. Poteva inventarla quel farabutto di
Aristofane, mettendoci però uno sberleffo finale per dargli una
sterzata meno piagnona, come: ‘Alla fine però con tutti quei
fichi secchi andiamo in bagno e ci passa tutto!’».
D «Beh, m’è venuta un’altra poesia: ‘Non valiamo un fico secco,
ma siamo buonissimi. A gustarci pian piano siamo dolcissimi.
Siamo soavi e gustosi proprio come fichi secchi!’».
U «Non male, non male, mia cara».
(La donna emette un rutto di soddisfazione. U fa un sobbalzo per il
rumore non proprio elegante della sua compagna)
D «Un po’ d’amore, non chiedevo altro. Non la filosofia, non le
idee supreme, non la matematica, solo un po’ d’amore. Una
volta al giorno, due volte al giorno, come quelli che fanno la
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cura di olio di fegato di merluzzo. Un bacetto la sera, un bacetto
la mattina, due bacetti al giorno. Finché le labbra ti si schiudono
da sole e alla fine il bacetto è quasi automatico, come prendere
il cucchiaio e riempirlo di olio di fegato di merluzzo e buttarlo
giù per la salute».
U «Olio di fegato di merluzzo?».
D «Proprio olio di fegato di merluzzo! È parecchio sgradevole, ma
fa bene! Ti fa rivoltare lo stomaco, ma sai che ti rimette al
mondo. E anche se le budella ti si attorcigliano, lo butti giù lo
stesso perché quell’olio di fegato di merluzzo col suo saporaccio
ti farà dormire tranquilla e pensi che dormirai quella notte,
perché hai buttato giù il tuo buon olio di fegato di merluzzo e la
notte poi non è così tremenda e paurosa dopo quel bacetto che
sapeva tanto di olio di fegato di merluzzo!».
U (sconcertato) «Merluzzo?».
D (convinta) «Merluzzo!».
(U porta la sua sedia vicino alla finestra. Dopo aver fatto vari
tentativi per trovare la posizione migliore per sedersi, non avendo
trovato una soluzione che gli aggrada, resta in piedi a fianco della
sedia con in mano la sua tavoletta e il suo stilo per scrivere. Guarda
fuori nel cielo)
U «La soluzione del problema di geometria è sempre più vicina!
Lo sento!».
D (continua a riporre piatti e posate e bisbiglia a se stessa) «Se
ne sta sempre lì! Il suo cervello continua a ragionare, a
costruire teorie, s’attorciglia su questioni che per altri non
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esistono, eppure gli voglio ancora bene, non vorrei che gli
facessero del male con tutte le maldicenze che girano sul suo
conto: che travia la gioventù, che non rispetta i governanti, che
non riconosce gli dèi. Adesso poi ci si sono messi questi due
potenti che l’hanno preso di mira, Anito e Licone: servendosi di
uno sprovveduto, un certo Meleto, accusano quest’uomo, che
mi vive accanto, di empietà, di corrompere i giovani, di
insegnare dottrine che portano al disordine sociale e alla
negazione degli dèi e alla mancanza di rispetto verso gli anziani.
Quei due avidi hanno trovato un bugiardo impenitente che, pur
di guadagnare qualcosa, ha sottoscritto una denuncia contro
quest’uomo che non fa male a nessuno. Meleto, quella canaglia,
ha giurato di aver assistito di persona ai reati! Spudorato d’un
vigliacco, Meleto del villaggio di Pito, pieno di ghiande e di porci
come lui!».
(Quando ha finito di riporre l’ultima posata, la donna riporta la sua
sedia vicino al focolare)
D (gentile) «Caro, vado da Mirto, la nostra vicina».
U (cortese) «Va’ pure, cara. Ti aspetto. Leggerò qualcosa mentre
sei via. Non mi addormenterò di sicuro prima del tuo ritorno».
(Mentre lei si appresta a uscire, l’uomo sposta la sedia sotto la
finestra)
D (uscendo) «Prima di addormentarti, spegni il fuoco, se no
stanotte finiamo arrosto!».
U (replica sorridendo) «Ma non mi addormento! Ti aspetto!».
D «Bene. Allora ci vediamo dopo».
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U «Salutami tanto Mirto».
D (si ferma, lo guarda dal vano della porta, fa una smorfia) «Ti
piace eh, Mirto?!».
U (con una faccia sorpresa) «Chi? Mirto?! Ma se la conosco
appena!».
D (fa cenni di assenso ironico) «Mmm…».
(D esce. U prende la sacca da sopra il letto, vi infila tavoletta e stilo e
la posa sopra la sedia. Aggiusta il cuscino sul giaciglio, lo sistema, si
stende sul letto)
U (a se stesso) «Lei ha le sue vicine, le sue amiche… Mirto poi è
così carina! così disponibile!… E si mette tanto facilmente in
libertà! (Fa cenni di assenso ridacchiando). Mmm… Speriamo
che non si lasci scappare niente… (Scuote il capo tutto
contento). Lei con le sue amiche può parlare di tutto, magari di
un merluzzo che qualcuna di loro ha comprato stamattina al
mercato. Io invece devo stare attento a scambiare i miei
pensieri con gli altri, a condividere le mie riflessioni: rischio
sempre di venire accusato di minare le fondamenta del governo
dello Stato, le sue leggi. Proprio ora, che viviamo nella
democrazia, questa città si dimostra incapace di scegliere le
persone più sagge per guidarla. Proprio quando i Trenta Tiranni
sono stati sconfitti, vengono favoriti gli arrivisti, gli arroganti
che arraffano tutto quanto riescono. Sembra una legge del
contrappasso o forse è il problema di fondo della democrazia:
quali sono i suoi limiti e quali sono i suoi vantaggi. Questi due
potenti, Anito e Licone, vogliono farmi pagare il prezzo delle
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mie affermazioni che il governo sia un diritto di tutti e non una
prerogativa di pochi».
(U chiude gli occhi, si addormenta. Dopo poco la donna rientra, trova
l’uomo addormentato. Sorridendo D scuote il capo, va a spegnere il
fuoco del focolare. Infine si corica sul giaciglio al lato opposto della
stanza. Prima di addormentarsi allunga la mano per spegnere la
candela accanto al letto e con essa cala il buio nella stanza)
U (si sveglia) «Sei già tornata, cara?».
D «Proprio ora!».
U «Buona notte, allora».
D «Buona notte anche a te, filosofo».
U (bisbiglia fra sé) «Speriamo che Mirto non si sia lasciata
scappare niente».
(Inizia prima pianissimo e poi sempre più nitida la musica di Arvo
Part)
SCENA 3 - PARABASI
Personaggi: Giovane
Si accende un sottile cono di luce nel proscenio. Compare GIOVANE,
che nel cono di luce inizia a parlare. La musica si affievolisce fino a
svanire.
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GIOVANE «Molte sono le cose straordinarie, ma nessuna è più
straordinaria dell’uomo.
Quest’uomo così semplice eppure complesso, così umile e
anche saggio, quest’uomo che è il più sapiente perché di fronte
agli altri, che argomentano con sicurezza e senza incertezze, è
l’unico che sia consapevole dei limiti del proprio sapere,
quest’uomo, che di fronte a quanti si definiscono filosofi e
danno risposte a qualsiasi domanda che venga loro posta, si
premura di suscitare problemi, domande, di proporre
argomentazioni diverse così da poterle confrontare e
raggiungere un’opinione migliore, condivisa, quest’uomo che ha
portato ad arte il metodo del dialogo e che non dice mai a
nessuno “stai sbagliando” e che cerca di raggiungere un punto
di vista comune con i suoi interlocutori, quest’uomo così saggio
nella sua umiltà, così quieto nella sua ricerca, così attento nel
cercare di capire ogni persona, con questo suo mettere in
discussione qualsiasi discorso, qualsiasi argomentazione,
qualsiasi principio, col suo non dare mai risposte conclusive è
un maestro del dubbio. E in questo suo essere Maestro del
Dubbio risiede la sua grandezza e agli occhi dei potenti la sua
colpa, quella che gli vorranno fare pagare».
(Si spegne il cono luminoso. Nella stanza si diffonde la musica di Arvo
Part.)
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SCENA 4 - EPEISÒDIA
Personaggi: Uomo, Donna
(Fuori della finestra albeggia.
La stanza s’illumina. L’uomo si sveglia, si siede sul lato del letto, si
guarda in giro spaesato. Il focolare è già acceso. Sopra il focolare c’è
una pentola. La donna è già seduta sulla sedia vicino al focolare,
intenta a rammendare. Lo guarda di sottecchi.
La musica di Arvo Part s’attenua e svanisce.)
U (si rivolge alla donna con tono affettuoso) «Dormito bene,
cara?».
D (lo guarda aggrottando la fronte, risponde in modo ironico)
«Non male, caro. E tu come te la passi?».
U «Ho qualche dolorino alla schiena».
D «Sei mica un giovincello! Qualche dolorino lo devi sopportare».
U «Ieri mi sono dimenticato di dirti che Aristofane ha scritto una
nuova commedia su di me»
D «Un’altra ancora?!».
U «Sì, un’altra! L’ha intitolata ‘Le Nuvole’».
D «Ti fa un po’ di pubblicità!».
U «Ne farei volentieri a meno. Mi mette alla berlina dalla prima
all’ultima scena. Prendersi gioco di me sembra diventata
l’occupazione di quel commediografo. Stavolta mette alla
berlina la mia asserzione che siano le nuvole a far piovere e non
gli dèi».
D (sorpresa) «Perché non sono gli dèi a far piovere?!».
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U «No, sono le nuvole. Aristofane deride il fatto che io sostenga
che i fulmini sono provocati da sbalzi di pressione e non dagli
sghiribizzi dei numi».
D (sconcertata) «Sbalzi di pressione?! Mi sembra una spiegazione
molto stravagante. Mi spiace, mio caro, ma in questo caso ha
ragione Aristofane. Sono i numi a lanciare i fulmini e lo fanno
quando ce l’hanno con qualcuno che gli ha rotto un po’ le
scatole».
U «In questa nuova commedia Aristofane dice che io con la mia
filosofia invece di partire dalle certezze degli antichi, dalle verità
stabilite dai testi riconosciuti, voglio misurare la lunghezza dei
salti delle pulci».
D «In effetti misurare la lunghezza dei salti delle pulci mi sembra
parecchio ridicolo».
U «Ma io non ho mai detto nulla di simile! Ho semplicemente
affermato che qualsiasi asserzione va confrontata con i dati,
qualsiasi teoria va supportata con delle misure, con delle
verifiche concrete».
D «Mi sa tanto che fra tutti voi sapientoni il più pieno di sé sia
proprio quell’Aristofane»
U «Tutti i giorni quel tizio si fa beffe di me. In questa nuova
commedia mi rappresenta mentre viaggio fra le nuvole in una
cesta sospesa a metà strada tra la terra e il cielo e spostandomi
per aria metto in discussione le verità supreme e rendo più
forte il pensiero erroneo. Sostiene che io insegno ai giovani
come vessare i vecchi».
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D «Quell’Aristofane assomiglia tanto a chi sparge in giro
informazioni fasulle così da screditare qualcuno che ha preso di
mira, una persona che osteggia. E questa volta ce l’ha con te. È
un fabbricante di notizie perfide e inventate!».
U «E poi ci sono questi due potenti, Anito e Licone, che servendosi
di un poveretto, un certo Meleto, mi accusano di empietà, di
traviare la gioventù, di insegnare dottrine che preparano il
disordine sociale, di non riconoscere le leggi dello Stato e
l’esistenza degli dèi. Anche se quello che faccio è solo cercare di
parlare con tutti, con i giovani e con gli anziani, con gli
aristocratici ma anche con le persone del popolo, con i saggi ma
anche con chi non ha alcuna istruzione, mettendo sempre al
primo posto di non credere a quanto è detto senza fondamento,
cercando di far capire di non considerarsi mai soddisfatti delle
notizie che vengono divulgate, di quello che si vuol far credere
solo perché qualcuno ha detto che quella è la verità, di non
credere mai senza aver prima elaborato una propria riflessione
personale ed aver verificato di persona quanto viene detto,
perché quello che si vuol far credere a volte è solo un mezzo
per colpire chi non è gradito, per denigrarlo di fronte alla
comunità. Nel dubbio, nel dialogo, nella ricerca riposa il metodo
per giungere a convinzioni salde e a una conoscenza migliore».
D (con gli occhi sul vestito che rammenda) «Sarai un po’ troppo
filosofico ma certamente tu non fai del male a nessuno, a
differenza di altri».
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U «Cara, se non fosse per te, con tutte le persone potenti che mi
osteggiano, con tutti i politici che mi odiano, avrei difficoltà a
trovare un tozzo di pane sulla tavola la mattina e una minestra
la sera».
D (sorride, risponde senza alzare lo sguardo) «Grazie per averlo
riconosciuto».
(L’uomo estrae la tavoletta e lo stilo dalla sacca. Posa la sacca sopra
il letto. Placidamente va a sedersi sulla sua sedia spostandola vicino
alla finestra. Con in mano tavoletta e stilo riprende a studiare il
problema di geometria)
U (sorridendo rivolto alla donna dice con dolcezza) «Quella
cenetta di ieri sera era davvero squisita!».
D «Sembra che stamattina tu ti sia alzato dal letto con l’idea di
portarmi un po’ con te fra le nuvole».
U «Non c’entrano niente le nuvole, è solo la verità, la realtà».
D «Va bene allora. Adesso però lasciami lavorare, se no mi
confondo con tutte queste paroline dolci».
(D continua a testa china a cucire il vestito che sta rammendando)
D (infilando ago e filo, dice piano a se stessa) «Forse con un po’ di
buona volontà riusciremmo a stare insieme senza patemi. Basta
essere un po’ più tolleranti e ogni tanto lasciar correre i difetti
dell’altro. La tolleranza, questo sentimento così poco nobile,
eppure è essenziale, forse è la soluzione di tanti problemi».
(L’uomo annusa il profumo che viene dal focolare, sorride, si alza.
Lascia la sua tavoletta e lo stilo. Va verso la donna, guarda dentro la
pentola sopra il fuoco)
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U «Cara, ti sei già data da fare per preparare qualche altra
leccornia, qualche altra prelibatezza?».
D «È la minestra di piselli, quelli che ho sbucciato ieri. Anche tu
hai contribuito a sbucciarli. Se non ricordo male hai sbucciato
sei piselli».
U «Proprio così! Mi sono dato da fare ieri e sento già l’acquolina in
bocca».
D (sorridendo) «È ancora presto. Devi aspettare».
(U si china su D e l’abbraccia)
D «Ehi! Cosa t’è venuto in mente? Mi fai pungere con l’ago!».
U (sorridendo) «Allora lascia l’ago. Ho pensato che potremmo fare
qualcosina d’interessante insieme stamattina».
D «Sì, e poi chi lo cuce il vestito?! Lo devo consegnare prima di
stasera».
U «Allora lascia perdere i vestiti! Intendo tutti i vestiti».
D «Che stai dicendo, birichino? Hai bevuto di prima mattina?».
(U continua ad abbracciarla. D sorridendo si divincola ma non molto)
U «Credevi che non sapessi cosa volevi dire quando parlavi di
ginnastica e di pietanze strane?».
D «Credevo di no».
U «E invece lo sapevo benissimo, e in fondo in fondo un po’ di
energia per la ginnastica ce l’ho ancora! Dài, vieni qua!».
(U continua ad abbracciare D)
D «Dài, che mi fai pungere!».
U «Vieni qua pollastrella!».
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D «Ma sta’ buono, diavoletto d’un angioletto! Alla tua età! Invece
che startene tranquillo sulla tua sedia a disegnare i triangolini e
i quadratini adesso vieni qui a insidiarmi?!».
U «T’ho detto: stamattina ho fame di pietanze strane! Un po’ di
fame per la ginnastica ce l’ho ancora».
D «Non ora, però, di prima mattina».
U (si sorprende) «Ma la ginnastica si fa sempre di prima mattina!
La facevamo sempre di prima mattina!».
d «Beh, una volta le energie erano un po’ diverse. Rimandiamo a
stasera».
U «È una promessa?».
D «Una promessa».
U «Allora a stasera: prima minestra di piselli, poi ginnastica e
pietanze strane. Già sento l’acquolina in bocca, pollastrella».
D «Pollastrella?».
U «Pollastrella stagionata fa buon brodo!».
D «D’accordo allora, a stasera! Adesso però va a ricominciare a
disegnare i triangolini e i quadratini che io devo cucire».
(U torna alla sua sedia vicino alla finestra; ride compiaciuto. Prende in
mano tavoletta e stilo. Fa le solite manovre per trovare la posizione
più conveniente sulla sedia, finché si siede con la gambe sotto le
cosce come un fachiro)
U «Una notte è passata e un giorno sta per aprirsi, è noi siamo
vivi, pimpanti e pieni di energie. Un giorno radioso dedicato alla
filosofia e alla matematica si apre davanti a noi!».
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D «Pimpanti? Pieni di energie? A dire il vero io sono già un po’
stanchina».
U «Eh no, mia cara, siamo pieni di energie e pimpanti, pronti ad
affrontare un’altra giornata dedicata alla filosofia e alla
matematica. E poi stasera: minestra di piselli! Pietanze strane!
Ginnastica! Un programma per l’Olimpo!».
D (sbuffando) «Già, già! Io però prima di stasera dovrò occuparmi
di altre cose più terra terra, come pulire la casa».
U «Siamo proprio contenti e felici risolvendo ogni giorno problemi
di matematica e di filosofia!».
D «Felici risolvendo i problemi di filosofia? In effetti io un
problemino filosofico ce l’avrei da risolvere, uno cui sto
pensando da tempo».
U «Quale?».
D «Come essere felici benché sposati».
U (sorpreso) «Che problema è? Mai sentito nominare! Mai sentito
prima!».
D «Sembra semplice, in realtà è anche un po’ complicato: come
essere felici benché sposati».
U «Questo sì che è un problema filosofico mica da poco!».
D «Ci penso e ci ripenso, qualche idea m’è venuta, ma chissà se è
quella giusta».
U (sta a lì a pensarci e poi dice) «Come essere felici benché
sposati. Appena ho risolto il problema sulla rotazione inversa
dei dodecaedri e sul quesito di come discernere la conoscenza
vera dalla mera opinione soggettiva mi ci butto anima e corpo.
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Bisogna pur trovare una soluzione anche a questo problema
filosofico: come essere felici benché sposati! Dunque: ci sono
due che invece che starsene tranquilli tranquilli per conto
loro…».
D «Aspetto la tua soluzione. Intanto io continuo a cucire».
SCENA 5 - EPILOGOS
Personaggi: Uomo, Donna, Ragazzo
(Si sentono rumori venire dalla strada. Nelle vie le botteghe stanno
aprendosi a una a una. Il silenzio è rotto da uno scalpiccio di cavalli,
da un clangore di ferri.
Qualcuno bussa alla porta. U e D alzano gli occhi verso la porta.)
VOCE DA FUORI «Signore?»
(U e D osservano la porta senza fiatare)
VOCE DA FUORI «Signore?»
U «Chi è?»
(Bussano di nuovo senza rispondere)
D «Chi è?»
(Non c’è risposta. Bussano ancora)
D «Chi è che bussa?»
(Nessuna risposta. U va verso la porta. Apre. Sulla soglia c’è un
ragazzetto)
U (sorridendo) «Vieni avanti ragazzo! Non aver paura»
(Il ragazzo entra. Ha un’aria spersa, quasi intimorita)
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RAGAZZO «Siete voi il signor filosofo?»
U (sorridendo) «Così dicono»
(Il ragazzo si guarda in giro)
D «Come mai sei qua?»
(Il ragazzo guarda la donna ma non parla)
U «Vieni avanti, ragazzo mio. Hai sete? Hai fame? Vuoi un
bicchier d’acqua? Un po’ di pane?»
(Il ragazzo non si muove)
D «Ragazzo, non tirarla tanto per le lunghe. Coraggio! Parla!»
(Il ragazzo si fa avanti timidamente. Si ferma)
U (sorridendo) «Allora che c’è?»
RAGAZZO «È mio padre che mi manda»
D «Chi è tuo padre?»
RAGAZZO «Mio padre lavora in tribunale»
U «Sei per caso il figlio di Lisia?»
RAGAZZO «Sì, signor filosofo»
U «E perché ti ha mandato qua?»
RAGAZZO «Mio padre, signore, mi ha detto di dirvi che vi consiglia
di lasciare immediatamente la città»
(Silenzio)
U «Tutto qua?»
RAGAZZO «Sì, signore»
U «E non ti ha spiegato il perché?»
RAGAZZO «Nossignore. Mi ha detto di raccomandarvi di allontanarvi
subito da Atene e di fare assolutamente come dice lui. Ha detto
che è importantissimo»
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U «Ringrazia tuo padre. Portagli i miei saluti»
RAGAZZO «Sarà fatto, signore»
(Il ragazzo resta lì perplesso)
D «Beh… Va’ pure ora»
RAGAZZO «Cosa devo dire a mio padre?»
U «Dìgli che lo ringraziamo per il suo interessamento e che
rifletterò a fondo sul suo consiglio»
RAGAZZO «Va bene, signor filosofo»
(Il ragazzo esce. U e D si guardano in silenzio)
D «Cosa pensi di fare?»
U (ridendo) «Tagliare la corda non è proprio nelle mie corde!»
D «Lisia sa quello che dice! Le sue orazioni in tribunale sono le
migliori! E non è certo uno abituato a dire di scappare, di
fuggire. Le persone che lui difende quasi sempre riescono a
ottenere quanto volevano. Con le sue difese, con le sue orazioni
Lisia è riuscito a far assolvere persone che sembravano
spacciate. La sua competenza in fatto di leggi è ineguagliabile:
ha tratto fuori dai guai individui che per le accuse che gli
venivano rivolte apparivano ormai senza scampo in tribunale»
U «Cara, ma io non ho nulla da temere! Ho solo sempre cercato di
far prevalere la verità e la giustizia. Se questa è una colpa!
Allora non c’è più democrazia!»
D «E allora? Cosa intendi fare?»
U «Stamattina vado in tribunale. Andrò a parlare con Lisia. Poi
cercherò di capire cosa vogliono da me, di cosa mi accusano»
(D tira un sospiro di rassegnazione)
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D «Tu sei un po’ troppo fiducioso; hai un’idea troppo ottimista
della razionalità di coloro che presiedono le assemblee, di quelli
che conducono i processi e delle garanzie offerte a chi viene
accusato dai potenti che si possono permettere di tutto, anche
di corrompere i testimoni. Spero che tu non stia facendo un
grande errore. Lisia di sicuro non è uno che parla a vanvera. Se
Lisia ti ha detto di allontanarti da Atene, avrà buone ragioni per
farlo. A non seguire il suo consiglio almeno per un po’ di tempo,
per vedere come si mettono le cose, sbagli!»
U «Non temere, cara!»
(U raccoglie la sua tavoletta, l’infila in una sacca. Cambia la tunica)
D «Ti prego: torna!»
U «Cara, se si cerca la virtù, la giustizia, la verità non si può
cadere in errore»
(D in piedi accanto alla sedia, con in mano la veste che stava
rammentando, guarda U , si asciuga una lacrima sullo zigomo col
dorso della mano)
D (con le lacrime agli occhi) «Non confidare troppo in te stesso e
nella razionalità degli altri. I potenti, con i loro soldi, con la loro
influenza, riescono a piegare a proprio vantaggio anche quanto
sembrerebbe impossibile, assurdo sostenere! E riescono a
corrompere chiunque!»
U «Non preoccuparti, cara! Non mi succederà nulla di male! Ci
vediamo stasera!»
D (mormora tra sé mentre guarda U che si prepara a uscire)
«Ecco, tu sei simile a un dio, uno di quelli rappresentati nelle
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teche ai quadrivi: all’esterno raffigurano un satiro, ma
all'interno custodiscono la statuetta di un dio. Sei così poco
attraente per l’aspetto esteriore, impegnato sempre nella
soluzione di problemi che per altri non esistono, ma hai l’animo
buono e cerchi sempre il bene comune e l’accordo con quanti
discutono con te»
(D si passa la mano sotto le ciglia per asciugare le lacrime)
U (vedendo la donna piangere) «Che stranezza è questa, mia
cara! Bisogna accompagnare qualcuno che si avvia a lottare per
la giustizia e per la verità con parole di lieto augurio. Dunque sii
quieta, sii forte, e aiutami con il tuo sorriso e con le tue parole
di sostegno ad avvicinarmi a questo lato difficile della mia
esistenza, alla prova che mi aspetta, alla sfida che tenterò di
sostenere per far prevalere la giustizia e la virtù»
( U esce. D, rimasta sola, si asciuga le lacrime con il dorso della
mano.
Passano alcuni istanti e inizia la musica di Arvo Part, prima un soffio
lieve, poi più nitida, ma sempre in sottofondo.
D in piedi vicino al focolare non si muove. Infine va verso la finestra,
prende la sedia dell’uomo e la porta accanto al focolare, sistemandola
accanto alla sua sedia. Le due sedie ora sono affiancate, vicine,
rivolte al focolare. La donna si siede e appoggia la testa sul braccio
posato sullo schienale dell’altra sedia. La stanza lentamente si
oscura)
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SCENA 6 - ÈXODOS
Personaggi: Giovane
(Si accende un cono di luce davanti alla scena. Compare GIOVANE,
che va sotto il cono di luce. Con la musica di Arvo Part in sottofondo
inizia a parlare)
GIOVANE «Dialogava quieto con chiunque. Attraverso congegnate
domande riusciva a far sì che anche il più umile degli umili gli
dimostrasse un teorema complicato di Geometria, perché
ognuno aveva dentro di sé la conoscenza assoluta. E come una
levatrice fa scaturire la vita e il pianto dei neonati alla luce, lui
illuminava i pensieri nascosti alle menti. La sua intelligenza
sprigionava scintille. A chiunque gli si accostasse dava una
scossa, simile a una torpedine. Le cose più profonde le
esprimeva con semplicità. Ogni luogo comune veniva smontato
dalla sua ironia. Chiunque credesse di conoscere per lui era
ignorante. A chi affermava di essere un giusto opponeva uno
sguardo sorridente.
Lo condannarono a morte naturalmente.
Fino all’ultimo istante riuscì ad affrontare con serenità la sua
sorte. Espose agli altri condannati, con mite chiarezza, la sua
teoria sulla sopravvivenza dell’anima…
Davvero, ti sarebbe sorpreso, amico mio, a sapere che la tua
anima, dal disincanto così illuminato, è qui ad ascoltare quanto
viene detto stasera di te, dell’ultima notte della tua vita, così
straordinaria eppure semplice, del tuo insegnamento così chiaro
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eppure complesso, che parla di un anelito di libertà, di una
ricerca della verità, di una modestia nella grandezza, di una
tranquillità anche nella generale concitazione, tanto essenziali in
questi tempi moderni, presenti, dov’è arduo sciogliere l’enigma
della geometria della vita, dov’è pesante sopportare il giogo
della corruzione, dell’arroganza, della vanagloria e della falsità
dei potenti».
SIPARIO