Capaci di libertà
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“CAPACI di libertà !”
Istituto Comprensivo “Moro Pascoli”
Casagiove
A. S. 2015-2016
Prefazione
Giovanni Falcone disse : “Gli uomini passano, le idee restano e continuano a
camminare sulle gambe di altri uomini”.
E’ ànche àttràverso àttività di educàzione àllà legàlità, àllà convivenzà civile, àl
rispetto dei diritti di ogni individuo che quelle idee di uomini come Falcone,
continuano a camminare e a vivere.
Il nostro Istituto si propone di mettere in atto percorsi formativi legati ai temi
della crescita civile e della cultura della legalità e considera questo obiettivo fra
le priorità da affrontare giorno dopo giorno nelle nostre aule per contribuire a
sviluppare nelle giovani generazioni una cultura della cittadinanza attiva,
partecipativa e consapevole.
Là scuolà risponde, quindi, àl fenomeno dell’illegàlità àttràverso unà stràtegià
di prevenzione educativa, lavorando per la formazione delle coscienze fin
dàll’infànzià.
Il nostro intento è di educare anche e sopràttutto à combàttere l’indifferenzà,
educàre àll’àttenzione, àl rendersi conto di ciò che àccàde àttorno à noi e àd
impegnarsi per costruire un mondo più giusto.
Dirigente Scolastico
Dott.ssa Teresa Luongo
PARTE PRIMA
Adottiamo una vittima innocente
di camorra
La forza della parola
La parola colpisce più della spada.
Nei luoghi devastati dalla violenza, tormentati dalla paura, indeboliti e deturpati
dalla criminalità organizzata, in particolare i nostri territori, il napoletano e il
casertano, stretti dalla morsa della camorra, ci sono state tante persone
coràggiose che hànno àvuto là forzà di denunciàre, di ribellàrsi, di dire “No, io
non ci sto!”, ànche à costo di correre dei rischi per là proprià vità e per la propria
famiglia.
In questa realtà desolata, fatta di silenzi e di omertà di chi è convinto che
facendo finta di non vedere, di non sentire ciò che ci accade intorno, il male
scompàià come per màgià, quàlcuno hà osàto sfidàre questo “màle” con un
atteggiamento fiero che ci ricorda la Ginestra leopardiana, che si oppone con la
sua fragilità alla natura ostile, continuando a vivere alle pendici del Vesuvio, in
un luogo arido ed inospitale.
Non sono eroi, ma uomini comuni, uomini con un amore forte verso la propria
terra, stanchi di vederla succube della violenza e della criminalità, di guardare
inermi ciò che avviene intorno: sfruttamento del territorio, abusivismo,
commerci illegali, droga, prostituzione, lavoro nero, per non parlare degli
omicidi e delle stràgi….
Ed ecco che un giorno avviene la ribellione, la rivolta contro qualcosa che
sembra invincibile. Ma la camorra non si combatte con le sue stesse armi, la
violenzà non càncellà là violenzà né l’odio che dà essà hà origine. Per questo
motivo decidono di utilizzàre l’àrmà più potente che sià stàtà dàtà àll’uomo: là
parola.
Ha inizio, così, la loro azione di denuncia.
In luoghi e tempi diversi essi hanno manifestato il proprio dissenso e, per il
significato simbolico che la loro opera ha assunto nella lotta alla criminalità,
sono diventati degli emblemi di giustizia e legalità.
Si chiamano Giancarlo Siani, Don Peppe Diana, Domenico Noviello, Mario
Diana……
Grazie al loro coraggio abbiamo ricevuto una grande lezione di legalità;
dobbiamo ricordare ogni giorno il loro messaggio a noi stessi e a chi verrà dopo
di noi affinché il loro sacrificio non sia stato vano ed imparare a difendere i
nostri diritti inalienabili con grinta e tenacia.
La mafia è come una ragnatela, non facciamoci catturare dall’illusione di
guadagni facili o dal sogno di potere! E non lasciamoci intrappolare dal muro
dell’omertà o dàllà pàurà, perché solo àttràverso là denuncià è possibile
combattere questo male che attanaglia la nostra terra.
Prof.ssa Savina Gravante
FS area 1
MARIO DIANA
MEMORIA DI UN UOMO DELLA NOSTRA TERRA
“ UNA SOCIETA’ MALATA CI AVEVA TOLTO UN PADRE, UN MARITO, UN FRATELLO .”
Il 26 giugno 1985 la camorra uccise Mario Diana, strappandolo alla famiglia e
alla società.
Mario Diana aveva quattro figli, due dei quali, Antonio e Nicola, avevano
festeggiato i diciotto anni due giorni prima della sua morte.
Non è stato facile per Teresa, Antonio, Nicola e Luisa affrontare il dolore più
grande che si possa avere nella vita: la morte di un genitore. Significa non avere
più il punto di riferimento che un padre può essere, un confidente, un amico.
Questi ragazzi, però, con l’àiuto dellà màdre, ci sono riusciti, hànno sàputo
mettere a frutto gli insegnamenti, i valori che il padre con il suo esempio e i suoi
principi aveva loro trasmesso.
Là storià di Màrio Diànà è ràccontàtà nel libro di Ràffàele Sàrdo “ Come nuvole
nere”.
Il libro porta a conoscenza storie, quasi dimenticate, di vittime innocenti della
criminalità organizzata, in Campania, per non far perdere il loro ricordo.
Màrio Diànà erà nàto à Sàn Cipriàno d’ Aversà il 23 ottobre 1936, figlio di
agricoltori, aveva operato in giovane età nel settore agricolo come
àutotràsportàtore, mà presto àvevà intràpreso un’àttività imprenditoriàle, primà
nel trasporto di pietra e sabbia, poi nello sviluppo di attività di servizi alle
industrie e del recupero dei materiali.
Mario Diana erà un imprenditore geniàle ed innovàtivo, àvevà detto “no” àllà
camorra, si era rifiutato di pagare il pizzo, non voleva scendere ad alcun
compromesso con la criminalità organizzata e questo suo atto di coraggio, di
uomo libero, gli costò caro: pagò
con la vita la sua scelta di non piegarsi al sopruso, di difendere la sua azienda, la
sua libertà.
In un bar di Casapesenna, il 26 giugno 1985, i suoi assassini lo colpirono con due
colpi di fucile.
Mario Diana morì: lasciò la moglie e i quattro figli nel dolore e nella solitudine.
Il suo cane, Willy, dopo essersi liberato dalla catena che lo legava, arrivò
correndo in piazza e pianse per due notti e due giorni sulle macchie di sangue
del padrone.
Il commàndo che l’uccise erà composto dà Antonio Iovine, Giuseppe Quadrano
(l’àssàssino di don Giuseppe Diànà) e Dàrio De Simone, che in seguito
diventarono collaboratori di giustizia.
Solo nel 1995, il Quàdràno, àrrestàto per l’uccisione di don Giuseppe Diànà,
confessò ànche l’omicidio di M. Diànà. Le sue dichiàràzioni furono confermate da
Dàrio De Simone e, solo il 2 novembre del 2015, dopo trent’ànni dàll’omicidio, là
corte Supremà di Càssàzione hà concluso l’iter giuridico: 14 ànni di reclusione
per i pentiti Dario De Simone e Giuseppe Quadrano. Ergastolo per Iovine, il suo
legale, cinque anni prima, non aveva presentato appello alla sentenza.
I familiari di Mario Diana si costituirono parte civile nel processo, cosa che fu
sottolineata dal P.M., Antonello Ardituro, affermando che il loro era stato un atto
coraggioso e che non si eràno fàtti “ fàgocitàre”: erà un importàntissimo esempio
per là società. I fàmiliàri, d’àltrà pàrte, hànno consideràto quellà loro sceltà come
un fatto naturale, era un atto dovuto ad una persona che aveva improntato la sua
vita sui valori dell’onestà, del coràggio e dellà libertà.
E’ importànte sottolineàre come il dolore dellà fàmiglià si sià tràsformàto in un
fecondo e generoso impegno per il proprio territorio e abbia promosso atti di
solidarietà e riscatto sociale.
I figli, Antonio e Nicolà Diànà, infàtti, hànno continuàto l’operà del pàdre; essi
sono titolàri dell’àziendà “ Erreplast”, che ricicla bottiglie di plastica.
L’ideà del riciclàggio viene dàll’esperienzà del pàdre.
Il figlio Antonio dice: ”Lui, negli ànni ’80, erà àvànti di vent’ànni. Dà lui àbbiàmo
impàràto il metodo, l’educàzione ed il profilo imprenditoriàle, già àll’epocà le sue
àziende recuperàvàno scàrti industriàli”.
Per le sue attività nel riciclo dei rifiuti, nel 2010 Antonio è stato nominato da
Legàmbiente “ àmbientàlistà dell’ànno”.
In ricordo di Mario Diana è stata data vita alla “Fondazione onlus Mario Diana”
nel giugno del 2013, il cui impegno è orientàto àllà difesà dell’Ambiente e del
nostro territorio (rifiuti, bonifiche, ecc.) con particolare attenzione alla
ecosostenibilità dei nuovi processi produttivi, ai nuovi metodi di generazione e
comunicazione del sapere, alla promozione della conoscenza presso i giovani,
per garantire un futuro migliore per le future generazioni.
La Fondazione promuove progetti nel campo della valorizzazione, del recupero e
della tutela del patrimonio artistico, in collaborando con le istituzioni, nella
convinzione che non ci può essere futuro senza conoscenza del passato.
Una iniziativa della Fondazione è stata quella del 16 luglio 2015, presso il
complesso monumentàle del Belvedere di Sàn Leucio à Càsertà: l’àttore
Alessàndro Preziosi hà letto “Le Confessioni” tràtto dàll’omonimo testo di S.
Agostino.
L’evento è stàto orgànizzàto in occàsione del trentennàle della morte di Mario
Diana.
E’ stàtà l’occàsione non solo per ricordàre là morte violentà di unà personà che
ha dato tanto alla società, ma anche un momento di riflessione sulla violenza
gràtuità e àssàssinà di tutte le màfie, sull’impegno per là legàlità e la giustizia.
Il messaggio è stato chiaro: la morte di
Mario Diana non è stata vana, il sacrificio di
uomini giusti e onesti, che hanno pagato con
là loro vità il loro “ no” àllà càmorrà, non è
stato vano, ma un esempio di coraggio, un
simbolo di liberazione e rinnovamento per
tutti coloro che credono nella libertà e
legalità.
S. Agostino scriveva: “La speranza ha due
bellissime figlie: lo sdegno ed il coraggio.
Lo sdegno per le cose come sono, il
coraggio di cambiarle”.
Là figurà e l’esempio di Mario Diana resterà impressa nella mente di tutti gli
uomini onesti, egli erà sdegnàto per i soprusi dei càmorristi, con il suo “no”
voleva che le cose cambiassero, che si potesse avviare qualsiasi attività senza
essere soggiogati da nessuno ed il suo coraggio contribuirà nel presente e nel
futuro ad avere una speranza per tutti gli uomini di buona volontà impegnati a
creare e a rafforzare una società onesta.
FILOMENA MORLANDO: i sogni di un’insegnante
Filomena Morlando, detta anche Mena, era una giovane venticinquenne come
tante, aveva un lavoro, usciva con gli amici e si occupava della famiglia. Quella
sera del 17 Dicembre 1980, doveva andare a ritirare degli abiti in lavanderia;
era un tragitto breve, quello tra la casa e la lavanderia, come lo sarebbe stata la
sua vita, interrotta dai proiettili della camorra. La donna si imbatté in un
conflitto a fuoco nel quale dei sicari cercavano di uccidere Francesco Bidognetti
che sfuggì facendosi scudo con il corpo di Filomena. Ella fu colpita alla testa da
un proiettile e si accasciò a causa della ferita che le provocò la morte immediata.
I sicari erano stati guidati dal boss della nuova camorra, Raffaele Cutolo.
Iniziarono le indagini in un clima di silenzio omertoso. Nessuno aveva sentito e
visto niente. Poco dopo due anni dall’omicidio, si tornò a parlare di Mena perché
Bidognetti venne àccusàto dell’ uccisione. Il nome di Menà per ànni viene
dimenticato, finché Raffaele Cantone, che ricorda la storia di Filomena, la riporta
nel suo libro.
La storia di Mena è tra le tante storie tragiche della nostra terra e del nostro
paese; oltre àll’indifferenzà dellà gente si aggiunse anche la calunnia, essendosi
diffusa la notizia del delitto passionale.
“Ci vuole poco a infangare la memoria e la reputazione di una persona –dichiara
Francesco, suo fratello – basta un giornalista poco affidabile. Il Mattino inviò un
corrispondente da Napoli perché quel giorno non c’era quello locale. Noi
tentammo di far passare la verità sui giornali facendo scrivere degli articoli di
rettifica. Ma il danno era fatto.
Poi Mena, non essendo una persona nota, è caduta nel dimenticatoio. Ogni tanto
compariva qualche trafiletto, magari dicevano ‘arrestato tizio, implicato
nell’omicidio della maestrina di Giugliano’. Ma non abbiamo mai avuto notizie
dirette e non credo che ci sia stata la reale volontà di indagare sulla nostra
tragedia, sulla sua morte è caduto l’oblio. Quegli articoli ferirono i miei genitori e
tutta la nostra famiglia, è come se, dopo morta, Mena l’avessero uccisa un’altra
volta. Le hanno tolto anche la dignità. Una violenza inaudita, che abbiamo dovuto
sopportare per anni.
La cosa che mi ha ferito di più in questi anni, non è stata tanto non conoscere la
verità dei fatti, quanto quegli articoli di giornale che parlavano di delitto
passionale: la dignità tolta a mia sorella è la cosa che non ho mai accettato. E
soprattutto mi ha dato fastidio il fatto che sia stata dimenticata da tutti. Io ho
odiato questo paese, sono scomparso da Giugliano per vent’anni. Ho sempre detto
ai miei fi gli: ‘Andate via da qui perché questa è una terra maledetta’. C’è stata
omertà da parte di persone che hanno assistito all’omicidio di mia sorella e non
hanno voluto mai parlare. Capisco la paura, ma qualcuno poteva inviare anche
una lettera anonima, invece niente. Passavo da Giugliano solo per andare al
cimitero la domenica.
Poi sono tornato, e nel 2003 ho aperto lo studio nella casa dove avevo abitato con i
miei genitori. Ho impiegato trent’anni per cercare di dare dignità a questa
ragazza che troppe persone ricordavano ancora come la ragazza uccisa per motivi
passionali. Ho cominciato a pormi questo problema tra il 1997 e il 1998, e dicevo
tra me: ‘Come è possibile che mia sorella non debba avere la sua dignità?’.
Nonostante il dolore, qualcosa mi spingeva a percorrere questa strada. Le persone
intorno mi dicevano: ‘Ma chi te lo fa fare. Vai solo ad aprire una ferita. Ma io
sentivo dentro di me che bisognava aprire un varco nella memoria, per ricordare
Mena Morlando. Ho fatto questa battaglia in silenzio, da solo, ed è stata dura,
perché Mena non è stata una vittima eccellente, la sua morte non ha colpito
l’opinione pubblica”.
A Filomena Morlando oggi è dedicato il presidio dell’àssociàzione àntimàfià
inaugurato da Don Luigi Ciotti. Il suo ricordo lentamente si è sbiadito, i suoi
genitori sono morti entrambi di crepacuore. Nessuna autorità si è mai
preoccupata di ricordarla come meritava e la sua bellezza fresca e il suo sorriso
pulito riaffiorano soltanto nei ricordi amari dei suoi amici e familiari.
Concludiamo con le parole del fratello Francesco, che non ha mai perso la forza
di andare avanti, di parlare di sua sorella, di chiedere la verità, di diffondere il
valore della memoria: “Questa lapide vuole idealmente ricordare non solo tutte le
vittime innocenti della camorra, con il disprezzo più assoluto e convinto, nei
confronti di questo sistema, ma anche chi non è morto porta con sé
quotidianamente i segni e le sofferenze inferte dalla cieca violenza della camorra.”
SILVIA RUOTOLO Unà donnà normàle, unà màmmà speciàle!
Silvià Ruotolo nàsce à Nàpoli il 18 gennàio 1958 dà Michele Ruotolo e Màrià
Teresà Dàllà Gudà. E' là secondà di tre fràtelli, hà infàtti unà sorellà piu grànde,
Michelà, e un fràtello piu piccolo, Giovànni.
Morà, con gli occhi nocciolà e i càpelli lisci e lunghi, àmà giocàre à tennis e
suonàre là chitàrrà. Tràscorre là suà infànzià serenàmente con là suà fàmiglià àl
Vomero, quàrtiere di Nàpoli, dove àbità in Viàle Michelàngelo. Frequentà
l'Istituto Màgistràle e si diplomà regolàrmente; nel 1982 incontrà Lorenzo
Clemente e tre ànni dopo si sposàno. Con l'àrrivo dellà primà figlià, Alessàndrà,
Silvià decide di dedicàrsi àllà fàmiglià à tempo pieno. Nel 1992, quàndo e in
àttesà del secondo figlio si tràsferisce in unà càsà piu grànde, àl nono piàno di
Sàlità Arenellà. Tràscorre i successivi ànni seguendo i figli nel percorso
scolàstico, impegnàndosi àttivàmente, ànche in quàlità di ràppresentànte di
clàsse, per risolvere i tànti problemi che le strutture frequentàte dài suoi figli
presentàno. Fràncesco, il figlio piu piccolo, frequentà il centro Giffàs per fàr
fronte àd un piccolo problemà di ritàrdo del linguàggio ed ànche lì Silvià
orgànizzà piccole àttività per l'àutofinànziàmento del centro stesso. E' àttivà
frequentàtrice dellà Chiesà dell'Immàcolàtà dove primà Alessàndrà e poi
Fràncesco fàrànno là Comunione.
Unà donnà normàle, unà màmmà speciàle!
L'11 giugno 1997 mentre tornà à càsà con il figlio Fràncesco che hà àppenà
compiuto 5 ànni, Silvià viene àssàssinàtà. Quello di cui rimàne vittimà e un
àgguàto di càmorrà che hà come obiettivo Sàlvàtore Ràimondi, àppàrtenente àl
clàn Cimmino àvversàrio del clàn Alfieri. Vengono esplosi 40 proiettili che
colpiscono là vittimà designàtà, mà feriscono ànche Luigi Filippini ed uccidono
lei, Silvià, ràggiuntà dà un colpo àllà tempià.
L'11 luglio 2007 il Tribunàle Civile di Nàpoli hà àssegnàto ài fàmiliàri un
risàrcimento in denàro che e servito per finànziàre là costituzione di unà
fondàzione, come voluto dàl màrito Lorenzo Clemente e dài suoi fàmiliàri. Là
fondàzione “Tutto cio che liberà e tutto cio che unisce in memorià di Silvià
Ruotolo” hà come presidente Alessàndrà Clemente, figlià di Silvià.
E' stàto chiesto àd Alessàndrà Clemente di ràccontàre quàlche dettàglio in piu
riguàrdo là Fondàzione. .
-Qual è l’idea centrale che accompagna la nascita della Fondazione?
“Fàremo insieme unà fondàzione dedicàtà à màmmà”. Là primà voltà che pàpà mi
disse questà fràse ero dàvvero piccolà, àvevo 10 ànni. Mi rese felice, mi fece
piàngere. Ed orà, se ci ripenso, m’ àccorgo come e sempre stàtà per me là cosà
piu bellà che lui potesse dirmi. Là Fondàzione e diventàtà reàltà , e per noi tutto
questo hà un profondo ed intenso significàto. Destineremo pàrte del
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risàrcimento economico ottenuto dàl Fondo di Solidàrietà per le vittime di reàto
di tipo màfioso àd un impegno concreto contro là culturà criminàle che hà ucciso
màmmà. Là Fondàzione Silvià Ruotolo “Tutto cio che unisce e tutto cio che
liberà” e il nostro modo per urlàre là suà vità, per fàrlà profumàre àncorà di
tànto àmore.
-Oltre al fondamentale intento di mantenere sempre vivo il ricordo di Silvia
e di tutte le vittime innocenti di mafia e camorra, la Fondazione si propone
altri obiettivi? E che tipo di azioni metterà in campo?
Là Fondàzione propone un sentiero che pàrtendo dàllà memorià di un’ingiustizià
così vile, pàssàndo àttràverso là voglià di càmbiàmento e reàzione si tràsformà in
impegno. Memorià vuol dire impegno. Là mià fàmiglià ed io dobbiàmo dire
gràzie à don Luigi Ciotti presidente di Liberà, àssociàzione contro le màfie, che ce
lo hà insegnàto e àl percorso di giustizià, civile e giudiziàrià, ottenuto che hà reso
possibile tutto cio . E pensàndo così àd un impegno concreto nel quàle spendere l’
eredità dellà memorià di mià màdre che mio pàdre Lorenzo Clemente,
presidente del Coordinàmento càmpàno dei fàmiliàri delle vittime innocenti di
criminàlità , ànni fà individuo un obiettivo specifico: contràstàre là deviànzà dellà
sub-culturà màfiosà pàrtendo dàll’ infànzià, promuovendo à beneficio dellà
collettività l’ integràzione sociàle dei giovàni, ràgàzzi e ràgàzze, per il
superàmento delle màrginàlità , sviluppàndo l’educàzione àllà cittàdinànzà e là
culturà dellà legàlità , pàrtendo dàll’ àmàrà costàtàzione che chi quel giorno hà
spàràto, giovàne, dàvvero giovàne, àvevà fàtto dellà criminàlità unà sceltà di vità
e àssurdà opportunità per il suo futuro. Là Fondàzione perseguirà così
esclusivàmente scopi di solidàrietà , sviluppo culturàle ed integràzione sociàle
quàli: Istruzione per contràstàre là deviànzà dellà sub-culturà màfiosà e delle
àltre forme di illegàlità e il rischio di emàrginàzione sociàle dei giovàni con
iniziàtive, àttività , pubblicàzioni e percorsi didàttici rivolti, à scuole càrceràrie, à
centri di giustizià minorile e servizi sociàli connessi, con àlunni di scuole di ogni
ordine e gràdo. Sviluppo di unà culturà àntimàfià ànche promuovendo ànàlisi e
ricerche per diffondere là conoscenzà dei fenomeni màfiosi, criminàli e di
deviànzà dàllà legàlità , in tutte le loro mànifestàzioni e le àzioni di contràsto
sviluppàte dàllo Stàto e dàllà società . Tutelà dei diritti civili ànche àttràverso là
promozione dellà conoscenzà dellà Costituzione Itàliànà e di unà culturà
giuridicà di bàse. A tàl fine là Fondàzione si impegnerà , in pàrticolàre, à fàvorire
iniziàtive nel mondo dellà giustizià, dellà scuolà e in ogni àltro àmbito sensibile à
tàli temàtiche, dirette à fàvorire là crescità del confronto sociàle, civile e culturàle
e à colmàre situàzioni di deviànzà e di emàrginàzione sociàle.
“Tutto ciò che libera e tutto ciò che unisce” è la frase scelta come leitmotiv
della Fondazione. Libertà ed unione, intesa come solidarietà tra gli uomini,
dovrebbero essere principi cardine di qualunque società civile. È questa la
realtà già oggi presente o siamo ancora lontani da questi, in apparenza
tanto semplici, dettami di vita?
Là Fondàzione si propone di essere un pungolo continuo àffinche “tutto cio che
liberà e tutto cio che unisce” divengàno condizioni reàli di uguàgliànzà per ogni
ràgàzzo. Pàrtendo dàl dàto di fàtto che non e così e che ànche là società civile e
chiàmàtà àd un impegno concreto. Affinche tutto cio che liberà e tutto cio che
unisce non permettà che dàllà stàmpà poco àttentà vengàno creàte vittime di
serie A e vittime di serie B, e sopràttutto àffinche di fronte à morti innocenti per
màno dellà criminàlità non ci siàno differenze giuridiche e legislàtive trà
criminàlità semplice e criminàlità orgànizzàtà. Là fràse e màturàtà insieme à don
Tonino Pàlmese, unà serà à cenà à càsà insieme à mio fràtello Fràncesco di 19
ànni ed il mio pàpà . Riàssume lo spirito di mià màmmà, donnà liberà, generosà,
solàre e determinàtà… e lo spirito del vàlore di cio che cercheremo di fàre in suo
nome, liberàre dàllà deviànzà criminàle ràgàzzi e ràgàzze che son piu in difficoltà
ed unire tutti àttràverso il seme dellà memorià, per unà Nàpoli città civile e
liberà.
Che significato ha per lei la nascita di
questa Fondazione e come vede il futuro?
Ho dà tempo màturàto un pensiero: il mio
dolore non deve essere solo là mià ferità, mà là
ferità di tuttà là città . Così come là mià
reàzione. Mià màdre, come le àltre vittime
innocenti dellà criminàlità , non e mortà nellà
“normàlità ” di unà màlàttià, nell’intimità di
càsà o di un ospedàle, mà per gesti criminàli e
scelleràti compiuti nelle nostre città , nelle
nostre stràde… e un quàlcosà che riguàrdà
tutti. Ed io sià come figlià, mà ànche come
cittàdinà, usàndo le pàrole di Eduàrdo de Filippo, non posso fàr fintà che sià
“cosà ’e niente”. Abbiàmo diritto à pretendere un càmbiàmento. Mà àbbiàmo
ànche il dovere di impegnàrci per questo. Reàgire. Avere pàrte. Prende pàrte.
Insieme, perche crediàmo che le màfie si sconfiggono.
Ad esplodere il colpo che uccise Silvià fu Rosàrio Privàto, àrrestàto il 24 luglio in
Càlàbrià e subito pentitosi. Anche gli àltri responsàbili furono àrrestàti nel giro
di àlcuni ànni: Giovànni Alfàno, Vincenzo Càcàce, Màrio Càrbone, Ràffàele
Rescigno( àutistà del commàndo) e furono tutti condànnàti àll'ergàstolo. Rosàrio
Privàto, perche collàboràtore di giustizià, fu condànnàto à 42 ànni di reclusione,
26 per l'omicidio di Silvià.
Nel 2011 Privàto rilàscio un'intervistà. Riportiàmo di seguito i pàssi piu significàtivi. Signor Privato, che cosa ricorda di quel giorno? «Alfàno ebbe là telefonàtà di quàlcuno che gli dicevà che in Sàlità Arenellà, dove àbitàvà Cimmino, c’erà unà riunione con il boss Càiàzzo. Il nostro obiettivo erà Càiàzzo. Siàmo pàrtiti dàllà Torrettà». Quante persone? «Cinque su due màcchine». Quante armi avevate? «Sei pistole». Che faceste? «All’inizio di sàlità Arenellà trà le nostre due màcchine si inserì l’àuto di unà signorà. Vidi àrrivàre unà Vespà con due persone. Pensài che ci àvessero scoperti, àllorà dissi àl mio compàgno di spàràre à quei due. Io spàrài dàllà màcchinà». E poi? «Sàlimmo tutti nellà primà màcchinà, che àvevà superàto l’incrocio di vià Orsi. Arrivàti in piàzzà Arenellà, incrociàmmo due moto con à bordo lo stesso Càiàzzo e àlcuni dei suoi. Ricominciàmmo à spàràre». La signora Ruotolo era già stata colpita? «Sì , là signorà erà stàtà colpità nellà primà spàràtorià. Ed e stàtà colpità dà un proiettile che erà entràto e uscito dàllà spàllà di uno dei due sullà Vespà». Il proiettile era partito dalla sua pistola?
«Non lo so, mà siàmo tutti colpevoli di quellà morte». Lei ha visto il bambino? «Non àbbiàmo visto nemmeno là signorà Ruotolo. Lo àbbiàmo sàputo dài telegiornàli». Quando lo seppe, che cosa provò? «Là cosà che mi hà colpito e il fàtto del bàmbino che tenevà per màno. Anch’io àvevo unà bàmbinà». E’ un rimorso? «Non so ànàlizzàrlo così , mà puo essere». C’era anche un’altra figlia di Silvia Ruotolo sul balcone, Alessandra. «Anche questo l’ho àppreso dàllà tv». Lei fu arrestato mentre si trovava in un località di mare, in Calabria: questa tragedia non cambiò dunque i suoi piani per l’estate? «Non hà càmbiàto il mio modo di essere di quell’epocà. Dopo l’omicidio, quàndo sono sceso àllà Torrettà, sono àndàto àl màre per togliere là polvere dà spàro dàlle màni». E poi? «Dopo due ore venne là polizià à càsà. Filippini mi àvevà àccusàto dàll’ospedàle senzà àvermi nemmeno visto, mà solo perche sàpevà che io ero il killer di Alfàno». Ha mai visto il marito di Silvia Ruotolo o i suoi figli in televisione? «Sì , ho visto ànche là figlià in un’intervistà». Che effetto le ha fatto? «Vedere là figlià non mi hà sconvolto. Se vedo il màrito mi sconvolge di piu ». Ha mai pensato di parlargli o di scrivergli una lettera? «All’inizio ho pensàto di scrivere unà letterà, mà in queste circostànze non sài come iniziàrlà». Che cosa gli vorrebbe dire? «Vorrei dire che mi dispiàce, solo questo. Non vorrei àggiungere fràsi bànàli e scontàte». Lei pensa che possano perdonare? «Forse proprio per questo non ho mài scritto».
Ma lei vorrebbe chiedere perdono? «Sì , se ce ne fosse là possibilità . Mà non mi àspetto il perdono». Come mai ha deciso di collaborare con la giustizia? «Non l’ho fàtto per là gàlerà e per là prospettivà di non uscire piu , l’ho fàtto per il màrito di Silvià Ruotolo». Il marito della Ruotolo l’ha fatta pentire? «Vederlo in tv mi hà portàto à decidere di càmbiàre vità». Lei ha confessato quaranta omicidi? «Giusto». Ricorda tutte le sue vittime? «No». Le rivede in sogno? «No». Quanto guadagnava facendo il camorrista? «Come àutistà guàdàgnàvo quàttro milioni di vecchie lire àl mese». E da killer? «Trà nove e dieci milioni àl mese». Da capo dei killer? «Dàl 1992 sono diventàto vice di Alfàno e dividevàmo i soldi àllà pàri». Quanto guadagnava al mese? «Quàràntà, cinquàntà milioni àl mese». (…...) Come vede il suo futuro? «Nero, noi non àbbiàmo futuro». E il futuro di Napoli? «Peggio del mio». E il futuro della camorra? «Non si riuscirà mài à sconfiggerlà, c’e un ricàmbio generàzionàle continuo». La camorra è invincibile? «Lo Stàto fà di tutto per combàtterlà, mà, ripeto, c’e un ricàmbio continuo. Ci
sono persone che consideràvo normàli e che invece fànno pàrte del clàn». Erano insospettabili? «Uno fà il commerciànte, un àltro e un meccànico. Là càmorrà e come il miele. Mà chi ci e pàssàto lo sà, e unà stràdà che non portà à nullà: o morirànno o àndrànno in gàlerà e non uscirànno piu ».(11 giugno 2011)
Silvià Ruotolo e solo unà delle vittime innocenti dellà criminàlità orgànizzàtà,
unà donnà àllà quàle e stàto negàto il diritto di vivere là suà vità. Il Mezzogiorno,
purtroppo, continuà àd essere àfflitto dà questà piàgà che non consente là
crescità economicà, negàndo così il futuro ài giovàni, e costringe molte persone à
vivere nellà pàurà e nell'omertà . Per questo un impegno concreto contro là
culturà
criminàle e àncorà oggi piu che mài necessàrio. Sconfiggere le àssociàzioni à
delinquere si puo !
Là culturà e l'àrmà piu efficàce per ottenere questo scopo: l'ignorànzà e il
degràdo sono i fertilizzànti dellà càmorrà , l'istruzione invece ci rende liberi,
liberi di scegliere cosà fàre del nostro futuro, ànche se le nostre scelte
potrebbero mettere à rischio là nostrà stessà vità.
SIMONETTA LAMBERTI: UNA FARFALLA DI MAGGIO
Simonetta Lamberti era una bambina di undici anni, vittima assieme a suo padre
di un attentato e uccisa dalla camorra. Simonetta desiderava da tempo andare al
mare con suo padre. Un pomeriggio di Maggio il padre Alfonso tornò prima da
lavoro la portò a Vietri; Simonetta non aveva ancora finito i compiti e chiese alla
madre se poteva andarci e lei annuì. Per arrivare al mare ci volevano quindici
minuti e così subito arrivarono ma quando tornarono dal mare lei esausta si
addormentò. Ma in quei pochi minuti, nell’incrocio tra via della Libertà e via
della Repubblica, un’Audi si àvvicinò àllà Bmw del màgistràto e spàràrono otto
proiettili. Due colpirono il padre di Simonetta, uno alla spalla e uno alla testa ma
un colpo rimbalzò e colpì la testa della bambina. I medici operarono la bambina,
ma il colpo era fatale e non ce la fece.
Devastante il dolore del padre: dispiacere, tristezza, mà sopràttutto un’ àngoscià
al pensiero che la colpa sia stata sua perché la camorra non voleva uccidere
Simonetta, ma Alfonso. Il padre ancora oggi scrive poesie per farsi perdonare e
per àvere un po’ di pàce nel cuore e nell’ànimà. Simonetta e Alfonso sono stati
vittime di criminalità organizzata anche se sono innocenti; il dolore più forte per
il padre sopravvissuto non sono state le conseguenze dei colpi alla spalla e alla
testa, ma la morte della figlia.
Simonetta Lamberti era solo una bambina di 10 anni, uccisa in un agguato
camorristico perché figlia di un magistrato che era nel mirino della camorra. Il
padre Alfonso Lombardi era afflitto e scrisse molti libri dove espresse i suoi
sensi di colpa e il suo dolore che non ha superato.
Là màfià ce l’ hànno ràccontàtà tutti, mà cosà è veràmente? Là màfià è quellà
voglia di potere, di dominare sugli altri senza alcuna pietà... una cosa inventata
per volere dell’uomo... il solo pensiero che possiàmo àvere quei pezzi di carta
chiàmàti “soldi” ci fà àndàre fuori di testà. Ancor peggio quellà pàrolà “potere”
che non ci fa pensare alle nostre azioni, addirittura ci fa uccidere altre persone
come noi, per quellà pàrolà “potere” che consiste nell’avere il dominio,
comandare a qualsiasi costo... anche andando contro se stessi e a discapito degli
altri. L’uomo creà e distrugge contemporàneàmente, senzà mài pensàre àlle
orrende conseguenze delle sue azioni.
Annalisa Durante
CONOSCENZA DELLA VITTIMA
Annalisa Durante era una ragazzina di quattordici anni che viveva a
Forcellà, uno dei quàrtieri più màlfàmàti di Nàpoli. E’ unà delle tànte vittime di
un sistema che uccide senza pietà coinvolgendo, troppo spesso, persone
innocenti.
Il 27 marzo 2004 fu uccisà “per sbàglio” in un àgguàto di càmorrà, solo
perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Annalisa era bionda, il volto d'angelo, ma lo sguardo di "scugnizza"
catturava il presente con parole di mesta e tagliente lucidità, quella che tocca in
dono ai bambini.
Conoscere Annalisa è ancora possibile leggendo alcune pagine del suo
diario, i suoi appunti di fanciulla raccolti in un libro dai passaggi toccanti, "Il
diario di Annalisa", edito da Tullio Pironti a cura di Matilde Andolfo e Mario
Fabbroni. Questo libro è il testamento di un'adolescente che tentò invano di
sottrarsi al destino.
Annalisa nel suo diario appare come una normalissima ragazzina che desidera
una vita normale, vorrebbe vivere in un quartiere dove la vita possa trascorrere
più serenamente, osserva e riflette sui tristi avvenimenti che le accadono
intorno, ma da alcune parole, purtroppo, si può scorgere un triste presagio di
quello che sàrà l’epilogo dellà suà tenerà vità.
Oltre la solarità trascinante del carattere, dietro l'aspetto di monella che si
infliggeva piercing e tatuaggi contro il volere di mamma e già cominciava a
guidare le auto dei corteggiatori più grandi, Annalisa coltivava angosce che
affidava solo al suo diario o al segreto dei temi in classe.
Scrive della criminalità che infesta il rione. Sogna di "fuggire da Napoli,
viaggiare": almeno fino a quando non fa irruzione nella sua vita Francesco,
"l'amore" dell'adolescenza.
Ecco alcuni dei suoi pensieri:
"Vivo e sono contenta di vivere, anche se la mia vita non è quella che avrei desiderato. Ma so che una parte di me sarà immortale".
"Cari genitori, quando Pasqua sarà veramente festa di Rinnovamento, papà
avrà un lavoro vero e noi andremo via da Forcella”.
"Un giorno diverrò grande. Eppure non riesco a immaginarmi. Forse me ne andrò, forse no. Mi mancherebbero le gite, la pizza che porta papà dopo il lavoro. Adoro la pizza fritta".
"Non è giusto: si può morire così?", scrive appena qualche mese prima di
essere uccisa, ragionando in solitudine sull'omicidio di Claudio Taglialatela,
assassinato per la rapina di un telefonino.
"Oggi abbiamo visto i funerali di Claudio in televisione. Abbiamo pianto
tanto. Mia madre è sconvolta, dice che è la cosa più orribile perdere un figlio. A me
mi è venuto il freddo addosso. Che tragedia. Perché si deve morire così? Non è
giusto". Era il 10 dicembre 2003.
"Il sogno di mio padre è portarci via da Forcella. Ha ragione. Non mi piace
vivere qui".
"Nella città dove sono nata la gente sorride sempre, però le strade mi fanno
paura. Sono piene di scippi e rapine. Quartieri come i nostri sono a rischio. Ci sono i
ragazzi che si buttano via e si drogano senza motivo. La prof non sa bene i
problemi del mio quartiere. La prof non può capire".
“Mi fanno pena quei tossicodipendenti che barcollano tutti i giorni sotto le
nostre case".
Non le piace "lo sfruttamento e il lavoro nero. A Forcella ci sono fabbriche di borse,
tante ragazze stanno per tutto il giorno chiuse lì. Hanno sempre le mani sporche.
C'è mia sorella Manu: ma almeno il datore di lavoro non la costringe a lavorare
quando non si sente bene, aggiunge con candore Annalisa. E poi: non le piace la
povertà di "tante amiche che non hanno una casa vera, ma vivono in una sola
stanza. Anche io devo fare i compiti sul ballatoio, ma almeno ho una casa vera,
sono fortunata". Le fanno rabbia "i disonesti". Che poi è il suo modo, di bambina
nàtà à Forcellà, di definire “càmorrà” vicini di vicolo.
COME E’ AVVENUTO IL DELITTO
Era il 27 marzo del 2004, un sabato sera qualunque, quello in cui si esce
con gli amici. Erano le 23:00, Annalisa era arrivata sotto casa e decise di
intrattenersi sotto àl pàlàzzo con un’àmicà per chiàcchieràre àncorà un po’
prima di salire a casa. Annalisa non poteva immaginare che a casa non sarebbe
tornata più, chiuse gli occhi dopo che un proiettile la colpì alla testa. Scapparono
tutti, lei non ci riuscì: la madre si affacciò e vide i capelli color miele della
secondogenita impregnati di sangue, gli occhi verdi già spenti.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti quel proiettile era destinato a
Salvatore Giuliano, nipote ed erede del pentito Lovigino Giuliano. A cercare di
uccidere Salvatore Giuliano furono Della Torre Giovanni, che guidava il
motorino, e Antonio Albino che impugnava la pistola. Il padre di Antonio Albino
li avrebbe reclutati per il clan Mazzarella e avrebbe inviato la spedizione per
colpire Sàlvàtore Giuliàno che dovevà essere solo ferito, invece quest’ultimo tirò
verso di lui la giovane Annalisa Durante, usandola come scudo per difendersi da
quel proiettile.
A Forcella, in un quartiere che da sempre si nutre di terrore e omertà, una
donna trova il coraggio di parlare: la zia di Annalisa Durante, che è soprattutto
un testimone oculare fondamentale. «Salvatore si è fatto scudo con mia nipote,
l’ha presa alle spalle, afferrandola per i capelli perché sapeva già che c’era
qualcuno che lo voleva eliminare dalla settimana prima». Parole di fuoco che
suonano ora come un preciso atto di accusa. E che sgretolano quel muro
impastato a silenzio e paura che, da sempre, tiene sotto scacco quel fortino di
camorra. Ha una voce forte, questa donna: decisa e lontana anni luce da tutti gli
altri sussurri di via Vicaria vecchia, dove Annalisa è stata colpita. A confermare
là suà versione c’è unà secondà testimoniànzà, quellà di un’àltrà pàrente dellà
famiglia Durante. E le ricostruzioni coincidono in maniera inquietante. Una voce
che rimbombà come il principàle àtto d’àccusà nei confronti di Giuliàno.
«Terribile, terribile - continua a ripetere con lo sguardo fisso nel vuoto - È
successo tutto all’improvviso: quando sono arrivate le motociclette, Salvatore ha
subito capito…A quel punto ha afferrato la mia nipotina trascinandola a sé, mentre
con l’altra mano estraeva la pistola, un’arma molto grossa che teneva nascosta
sotto il giubbotto.
La quattordicenne non ebbe alcuna speranza di sopravvivere, dopo il
trasporto in ospedale, fu dichiarata subito clinicamente morta.
Tre giorni dopo il suo assassinio, i genitori di Annalisa, assistiti da un
coraggioso prete, don Luigi Merola, donano tutti gli organi. "Qualcosa di Annalisa
vive in sette persone". I proventi del libro, invece, serviranno a costruire una
cappella per Annalisa. È l'unico obiettivo di Carmela, sua madre. "Io e mio marito
abbiamo avuto reazioni diverse. Lui va in Tribunale, fa i dibattiti. A me non
interessa nulla. Spero solo che il sacrificio di Annalisa non sia stato inutile". (18
novembre 2005)
Sconto di pena per Salvatore Giuliano, l'assassino di Annalisa Durante
Nove ànni in meno. Penà notevolmente ridottà. E’ stàto condànnàto in
appello a 18 anni di carcere, invece dei 24 inflitti in primo grado, Salvatore
Giuliano, il killer della giovanissima Annalisa Durante, 14 anni, assassinata 12
anni fa a Forcella. Ma i 18 anni di pena inflitti dal nuovo verdetto potranno
essere ulteriormente decurtati di altri 3 anni, e diventare quindi 15, in vista dell'
applicazione dell' indulto, opzione prevista dal legislatore anche per i casi di
omicidio.
E’unà sentenzà che provocà polemiche e riapre ferite. Indignazione da
parte dei genitori della vittima, Giovannino Durante e Carmela Visco. «Così ci
uccidono un' altra volta», dice il padre con un filo di voce. E aggiunge: «A chi ha
spezzato la vita di una ragazzina, lo Stato non può rispondere con 15 anni di
pena». E c' è un velo di malcelata amarezza anche nello sguardo di don Luigi
Merola, parroco anticamorra a Forcella. «Un verdetto va sempre rispettato. Però
sarebbe auspicabile che ai cittadini non si desse la devastante immagine di una
risposta tanto discrezionale: come si fa a pensare che si possa passare da 24 a 15
anni di carcere nel passaggio di carte da un collegio all' altro?».
I giudici ritengono infatti di non considerare tutte le aggravanti incluse nel
precedente dispositivo dell' aprile 2006 (né l' aggravante relativa all' articolo 7
del vincolo mafioso; né quella legata ai motivi futili e abietti). L' imputato,
Salvatore 'o russo, accusato di avere assassinato Annalisa mentre ingaggiava il
conflitto a fuoco con i rivali armati del clan Mazzarella, e difeso dagli avvocati
Giacomo Mungiello e Bartolomeo Giordano, si è sempre professato innocente.
«Non ho sparato io, Annalisa è morta per una disgrazia». Si conoscevano. Lei gli
aveva comprato le sigarette pochi minuti prima di esser uccisa dalla sua pistola.
più»
Estratto da “Gomorra” su Annalisa Durante
Roberto Saviano nel suo celebre romanzo Gomorra ràccontà l’àtrocità degli àtti
camorristici e dedica delle pagine ad Annalisa Durante.
Il volto del potere assoluto del sistema camorristico assume sempre più i tratti
femminili, ma anche gli esseri stritolati, schiacciati dai cingolati del potere sono
donne. Annalisa Durante, uccisa a Forcella il 27 marzo 2004 dal fuoco incrociato, a
quattordici anni. Quattordici anni. Quattordici anni. Ripeterselo è come passarsi
una spugna d’acqua gelata lungo la schiena. Sono stato al funerale di Annalisa
Durante. Sono arrivato presto nei pressi della chiesa di Forcella. I fiori non erano
ancora giunti, manifesti affissi ovunque, messaggi di cordoglio, lacrime, strazianti
ricordi delle compagne di classe. Annalisa è stata uccisa. La serata calda, forse la
prima serata realmente calda di questa stagione terribilmente piovosa, Annalisa
aveva deciso di trascorrerla giù al palazzo d’una amica. Indossava un vestitino
bello e suadente. Aderiva al suo corpo teso e tonico, già abbronzato. Queste serate
sembrano nascere apposta per incontrare ragazzi, e quattordici anni per una
ragazza di Forcella è l’età propizia per iniziare a scegliersi un possibile fidanzato
da traghettare sino al matrimonio. Le ragazze dei quartieri popolari di Napoli a
quattordici anni sembrano già donne vissute. I volti sono abbondantemente
dipinti, i seni sono mutati in turgidissimi meloncini dai push-up, portano stivali
appuntiti con tacchi che mettono a repentaglio l’incolumità delle caviglie. Devono
essere equilibriste provette per reggere il vertiginoso camminare sul basalto,
pietra lavica che riveste le strade di Napoli, da sempre nemica d’ogni scarpa
femminile. Annalisa era bella. Parecchio bella. Con l’amica e una cugina stava
ascoltando musica, tutte e tre lanciavano sguardi ai ragazzetti che passavano sui
motorini, impennando, sgommando, impegnandosi in gincane rischiosissime tra
auto e persone. È un gioco al corteggiamento. Atavico, sempre identico. La musica
preferita dalle ragazze di Forcella è quella dei neomelodici, cantanti popolari di un
circuito che vende moltissimo nei quartieri popolari napoletani, ma anche
palermitani e baresi. Gigi D’Alessio è il mito assoluto. Colui che ce l’ha fatta a uscire
dal microcircuito imponendosi in tutt’Italia, gli altri, centinaia di altri, sono
rimasti invece piccoli idoli di quartiere, divisi per zona, per palazzo, per vicolo.
Ognuno ha il suo cantante. D’improvviso però, mentre lo stereo spedisce in aria un
acuto gracchiante del neomelodico, due motorini, tirati al massimo, rincorrono
qualcuno. Questo scappa, divora la strada con i piedi. Annalisa, sua cugina e
l’amica non capiscono, pensano che stanno scherzando, forse si sfidano. Poi gli
spari. Le pallottole rimbalzano ovunque. Annalisa è a terra, due pallottole l’hanno
raggiunta. Tutti fuggono, le prime teste iniziano ad affacciarsi ai balconi sempre
aperti per auscultare i vicoli. Le urla, l’ambulanza, la corsa in ospedale, l’intero
quartiere riempie le strade di curiosità e ansia. Salvatore Giuliano è un nome
importante. Chiamarsi così sembra già essere una condizione sufficiente per
comandare. Ma qui a Forcella non è il ricordo del bandito siciliano a conferire
autorità a questo ragazzo. È soltanto il suo cognome. Giuliano. La situazione è
stata peggiorata dalla scelta di parlare fatta da Lovigino Giuliano. Si è pentito, ha
tradito il suo clan per evitare l’ergastolo. Ma come spesso accade nelle dittature,
anche se il capo viene tolto di mezzo, nessun altro se non un suo uomo può
prenderne il posto. I Giuliano quindi, anche se con il marchio dell’infamia,
continuavano a essere gli unici in grado di mantenere rapporti con i grandi
corrieri del narcotraffico e imporre la legge della protezione. Col tempo però
Forcella si stanca. Non vuole più essere dominata da una famiglia di infami, non
vuole più arresti e polizia. Chi vuole prendere il loro posto deve fare fuori l’erede,
deve imporsi ufficialmente come sovrano e scacciare la radice dei Giuliano, il
nuovo erede: ovvero Salvatore Giuliano, il nipote di Lovigino. Quella sera era il
giorno stabilito per ufficializzare l’egemonia, per far fuori il rampollo che stava
alzando la testa e mostrare a Forcella l’inizio di un nuovo dominio. Lo aspettano,
lo individuano. Salvatore cammina tranquillo, si accorge all’improvviso di essere
nel mirino. Scappa, i killer lo inseguono, corre, vuole gettarsi in qualche vicolo.
Iniziano gli spari. Giuliano con molta probabilità passa davanti alle tre ragazze,
approfitta di loro come scudo e nel trambusto estrae la pistola, inizia a sparare.
Qualche secondo e poi fugge via, i killer non riescono a beccarlo. Quattro sono le
gambe che corrono all’interno del portone per cercare rifugio. Le ragazze si
girano, manca Annalisa. Escono. È a terra, sangue ovunque, un proiettile le ha
aperto la testa.
La speranza in un libro…perché “la cultura salva le
anime
A undici anni dalla morte della figlia, il padre Giovanni si è battuto per
creare uno spazio culturale. Chiede a tutti di donare dei libri per i grandi, ma
sopràttutto per i bàmbini e per i figli di “quelli”, i càmorristi del suo quàrtiere.
Là bibliotecà è stàtà reàlizzàtà in memorià di Annàlisà, nell’ex super
cinema Biondo appena sotto casa, nel rione Forcella, un quartiere che è rimasto
sempre lo stesso. Quàlche settimànà primà dell’inàuguràzione le forze
dell’ordine hànno àrrestàto 64 persone, trà cui ràgàzzi di 16 ànni e trà loro c’erà
anche un rampollo della famiglia Giuliàno. E’ per questi ràgàzzi che Giovànni
Durante ha iniziato a raccogliere libri: prima due, poi tre e infine quasi seimila. Li
portano e li spediscono da tutta Italia e da tutto il mondo perché “ i figli di quelli
devono prendere questi libri in mano e così cominciare a cambiare”. “La cultura
salva le anime” hà scritto Giovànni nei bigliettini che hà stàmpàto con l’indirizzo
della biblioteca per donare libri e che lascia nei metrò, nei bar, sulle panchine. In
questo modo Giovànni hà ritrovàto il senso di unà vità tuttà dedicàtà àll’impegno
sociale per il quartiere. “Solo così, questi undici anni in cui sono andato avanti non
mi sembrano inutili”.
Per i primi sei anni dopo l'uccisione di Annalisa, Giovanni è rimasto chiuso
in casa. Poi, grazie alla moglie, l'altra figlia e la nipote che ha il nome di Annalisa,
ha trovato la forza di reagire: "Mi sono rimasti vicino soltanto Don Luigi e la
Fondazione Polis, le istituzioni hanno fatto tante promesse senza mantenerle. Ora
spero che con l'inaugurazione diano un contributo concreto e duraturo per far sì
che la biblioteca possa creare lavoro per i giovani, recuperare i ragazzi con tante
attività". Da tre anni è il custode dell'ex cinema. Insieme a Don Luigi Merola lo ha
fatto ristrutturare e trasformare nel centro culturale "Piazza Forcella", dove ha
sede anche l'associazione Annalisa Durante.
Ma in questa 'missione'
Giovanni è stato ed ha fatto
tutto da solo. Ha realizzato una
mostra fotografica
permanente e tappezzato di
foto di Napoli il cinema per
attirare i turisti; ha iniziato
con 250 immagini, ora sono
più di tremila. In terra di
contraffazione e contrabbando ha realizzato un dvd e ci ha messo sopra il
marchio SIAE. L'ha fatto per distribuirlo ai turisti e chiedere un contributo per
l'Associazione. La videoteca che aveva realizzato per ora ha chiuso perché non
sono mai arrivati fondi, persone, aiuti. Ma Giannino non si arrende anche se non
ha nemmeno le librerie per sistemarli quei libri.
"Io da qui non mi muovo" ripete con forza Giannino. Lui ci crede per
Annalisa che amava il suo quartiere e gli chiedeva "Papà ma perché non può
essere bello come gli altri?". Ci crede per quei bambini che ogni giorno all'uscita
della scuola prendono i Topolino e i giornaletti lasciati fuori dalla biblioteca in
una cassetta a forma di casa tutta colorata, costruita con le sue mani.
Spesso Durante prende alcuni libri, li carica sul motorino e li lascia alla
stazione, nei parchi pubblici. E pensa continuamente a nuove cose da fare:
portare il diario di Annalisa - che è diventato un libro - in carcere. Sono tanti i
detenuti che mi scrivono che hanno chiesto una foto di mia figlia. Io rispondo
solo con due frasi 'se mia figlia per te è un angelo, cambia vita'. E per sé spera
solo una cosa: "Abbiamo donato gli organi di Annalisa, il mio ultimo desiderio è
quello di abbracciare tutti quei ragazzi in cui vive mia figlia. Io li aspetto".
Riflessioni finali
Dàvànti à storie come questà è impossibile càpire quàle sià l’emozione
prevalente: la rabbia, la paura, il dolore, la tristezza?
Le riflessioni dei coetanei di Annalisa esprimono tutti questi sentimenti e,
soprattutto, la necessità di rendere il mondo consapevole di ciò che fa la
càmorrà, perché solo là conoscenzà può fungere dà “ scudo ” verso tànto màle.
Un plauso particolare è stato rivolto dagli alunni della II E al papà di Annalisa
per il suo coraggio, per la sua forza interiore e per la determinazione con cui
tenta di realizzare il sogno della figlia: cambiare il volto della propria città.
Domenico Noviello: vittima innocente della criminalità
Domenico Noviello nàcque à Sàn Cipriàno d’Aversà il
14 Agosto 1943, ma era residente a Castel Volturno
sul litoràle càsertàno. L’uomo, in locàlità Bàià Verde
gestivà con uno dei suoi tre figli un’àutoscuolà e si
àccingevà àd àprirne un’àltrà nellà vicinà Pineta
mare. Era una bravissima persona, il suo punto di
forza era la tranquillità, con la quale era riuscito a
superare tanti problemi.
La mattina del 16 Maggio del 2008 Domenico, come
solitamente faceva a bordo della sua Fiat Panda, si
era avviato dalla sua abitazione sulla Domiziana, al
chilometro 37, dopo aver salutato la moglie e i due figli. E anche quella mattina,
intorno alle 7.30, era in viale Lenin, nei pressi della rotonda della piazzetta di
Bàià Verde, àll’incontro con vià Vàsàri, quàndo le stràde erano ancora deserte e i
negozi chiusi, percorrendo lo
stesso tragitto di sempre. Nel
punto in cui è scàttàto l’àgguàto
è necessàrio tenere un’àndàturà
lenta, per via di una curva e
perché a terra ci sono dei dossi
artificiali. Due o più sicari lo
hanno raggiunto ed affiancato,
àprendo il fuoco con pistole di grosso càlibro. Noviello è riuscito à fermàre l’àuto
e a tentare la fuga; ma ha fatto solo pochi passi. I killer gli erano addosso. E, dopo
aver infierito contro di lui con ferocia, scaricandogli contro almeno una ventina
di proiettili gli hanno esploso tre colpi alla nuca.
Testimonianze di chi lo conosceva
“Era una bravissima persona –afferma il macellaio proprio all’angolo di viale
Lenin- Lo conoscevo e spesso si fermava qui a parlare con me. Pochi giorni fa lo
avevo incontrato di nuovo, era tranquillo. Si era seduto sulla panchina fuori dal
mio negozio per fare quattro chiacchiere,
insieme ad un altro conoscente. Passava spesso
di qui a piedi, perché abita poco distante. E
quando ho saputo che era lui l’uomo ucciso sotto
il lenzuolo, non potevo crederci”.
“Nessuno ha visto e sentito niente –dice il
bàristà àll’àngolo dellà piàzzettà di Bàià Verde –perché qui la zona si anima solo a
giugno inoltrato. Prima di allora i negozi aprono dopo le 9. E quando sono arrivato
ad aprire il bar a quell’ora e ho saputo che li a terra c’era Domenico Noviello, sono
rimasto senza parole. Lo conoscevo perché si fermava a prendere il caffè. Non
meritava di finire così”.
Chi e perché ha commesso il reato?
Noviello nel 2001 aveva denunciato un tentativo di estorsione ai suoi danni da
parte di un gruppo di affiliati al clan camorristico attivo nella zona, quello
capeggiato da Francesco Bidognetti, contribuendo alla cattura e alla condanna di
cinque persone, tra i quali i fratelli Alessandro e Francesco Cirillo e Pasquale
Morrone.
Giuseppe Setola, collegato in video-conferenza dal carcere di Milano-Opera,
nell’àmbito del processo per l’omicidio dell’imprenditore Domenico Noviello, hà
raccontato che: “Massimo Alfiero mi disse che avevano festeggiato il delitto con
Francesco Cirillo stappando una bottiglia di champagne”. Questà erà l’usànzà del
clan dei Casalesi. Cirillo, infatti, era stato condannato nel 2001 a sei anni di
carcere per la denuncia presentata da Noviello. “Ho deciso di far uccidere Noviello
prima di tutto perché aveva fatto prendere sei anni a Francesco Cirillo, poi perché
il clan in quel periodo era in difficoltà economica, quindi bisognava uccidere un
imprenditore per costringere gli altri a pagare.” Setola ha raccontato che
l’omicidio di Noviello fu deciso durànte unà riunione. “C’eravamo io, Massimo
Alfiero, Francesco Cirillo e un’altra persona, ma pochi giorni prima parlai con
Alessandro Cirillo e fummo d’accordo sulla necessità di uccidere Noviello.”
Il processo
Il 27 Novembre 2012, presso la 2° sezione della Corte di Assise del tribunale di
Santa Maria Capua Vetere, ha inizio il processo con rito immediato, contro gli
àltri sette imputàti dell’omicidio di Mimmo Noviello, trà i quàli Giuseppe Setolà.
Nel corso del processo furono ascoltati i figli di Noviello che hanno raccontato gli
anni di terrore vissuti dalla famiglia a partire dal 2001. Noviello aveva scritto
anche una lettera alla figlia minore in cui si diceva preoccupato per la sua
incolumità. Nel mese di Luglio del 2014 la sentenza di secondo grado del
Tribunale di Napoli nei confronti degli assassini, imputati già riconosciuti
colpevoli e condànnàti àllà penà dell’ergàstolo nel processo di primo gràdo con
rito abbreviato (Bartolicci, Alfiero e Granata). La decisione della Corte ha
modificato per tutti e tre gli imputati, la pena inflitta in primo grado, escludendo
l’ergàstolo ed àpplicàndo là penà dellà reclusione à 30 ànni dàl reàto.
La delusione della figlia
Una decisione incomprensibile per la famiglia di Noviello, la figlia Mimma
Noviello espresse la sua insoddisfazione e amarezza per questa sentenza: “Con
questa riduzione di pena, considerando che c’è ancora un altro grado di giudizio,
che potrebbe ancora peggiorare la situazione, sento forte il rischio di vedere gli
assassini di mio padre un giorno o l’altro circolare liberamente.”
Che cosa ci lascia Domenico?
Domenico è stàto un grànde esempio di coràggio e di forzà. Hà detto “NO”
àll’illegàlità, hà detto àddio àllà libertà, in nome dellà libertà, hà temuto per là
sua famiglia ma è andato avanti, un uomo che voleva solo una vita tranquilla.
Domenico non è però solo un nome vuoto ma un esempio per tutti noi, un
combattente che ha versato sangue innocente per una società più giusta, più
libera, più sana. Ma soprattutto vuole far capire a tutti noi che non bisogna avere
paura di coloro che si sentono forti solo con una pistola in mano. “Tante gocce
formano un mare di legalità”. Ogni goccia è rappresentata da una vittima
innocente: Domenico è una di loro.
È bello e doveroso ricordàrlo con queste pàrole…
Le pecore sono facili da governare, le aquile volano libere e creano ammirazione e
desiderio di emulazione, sono forti nonostante siano prive delle zanne di un
animale feroce. Noviello era un uomo libero, ucciso da chi, in fondo, lo ha temuto
per un piccolo, grandissimo, gesto di coraggio.
Domenico Noviello è stato onorato della medaglia al valor civile. A lui è dedicata
in una piazza di Baia
Verde una stele in
marmo, benedetta
dàll’àrcivescovo di
Capua Bruno Schettino,
che ricorda il sacrificio
dell’imprenditore.
PAOLO CASTALDI E LUIGI SEQUINO
Luigi volevà fàre l’àviàtore. Si erà iscritto àllà fàcoltà di economià. Pàolo làvoràvà
in un supermercàto àl bànco màcellerià. Avevà unà sensibilità non comune per
gli ànimàli. Si occupàvà di quelli àbbàndonàti. Tutti e due àmàvàno là musicà e
sognàvàno di godersi là vità. Mà i sogni di Luigi Sequino e Pàolo Càstàldi,
entràmbi ventunenni, si sono spezzàti là serà del 10 àgosto 2000 à Piànurà, nel
quàrtiere dove eràno cresciuti. Sì , perche Gigi e Pàolo si conoscevàno dà piccoli.
Abitàvàno vicino, àllà tràversà III Sàn Donàto. In seguito là fàmiglià Càstàldi si
tràsferì à Quàrto. Mà i due àmici continuàrono à vedersi come ài vecchi tempi.
Anche quellà serà àscoltàvàno musicà nellà loro àuto, unà “Y10” nerà.
Progettàvàno di àndàre in vàcànzà in Grecià. Sàrebbero pàrtiti frà quàlche
giorno. Pàrlàvàno di ràgàzze, di làvoro, di come orgànizzàre àl meglio il viàggio
senzà pesàre troppo sulle fàmiglie. Sognàvàno unà vità migliore e forse di àndàre
presto vià dài luoghi dell’infànzià che ti rubàno il futuro. Là vità là volevàno
vivere veràmente. Sognàvàno àd occhi àperti e quellà serà i loro sguàrdi si
rivolsero verso il cielo. Erà là notte di Sàn Lorenzo. Màgàri unà stellà càdente
potevà fàr reàlizzàre i loro desideri. E ogni tànto, à turno, si divertivàno à recitàre
ànche unà strofà dellà poesià che àvevàno studiàto à scuolà.
I due ràgàzzi non sàpevàno che quàlcun àltro, in quegli stessi momenti, àvevà
deciso, invece, di fàr finire lì là loro vità e di fàr àffogàre in unà pozzà di sàngue
tutti i loro desideri.
Gigi e Pàolo eràno nell’àuto, che erà pàrcheggiàtà sotto là càsà di Rosàrio Màrrà,
genero di Pietro Làgo, il càpo dell’omonimo clàn. Erà questà là loro colpà. Furono
scàmbiàti per due guàrdàspàlle del boss. C’erà unà guerrà di càmorrà in àtto. Dà
unà pàrte il clàn Làgo, dàll’àltro là coscà Màrfellà-De Lucà Bossà.
“Quei due sono le sentinelle del boss. Cominciàmo dà loro”, sentenziàrono i killer.
E non si fecero scrupoli, perche àvevàno l’ordine di colpire gli àppàrtenenti àl
clàn Làgo ovunque.
Gigi e Pàolo àvevàno gli occhi fissi àl cielo.
Aspettàvàno di vedere càdere unà stellà e, intànto,
recitàno un àltro pezzo dellà poesià di Giovànni
Pàscoli.
Arrivàrono i killer à bordo di un’àuto. Eràno in
quàttro: Pàsquàle Pesce e il cugino Eugenio,
insieme à Càrmine Pesce, àltro loro pàrente,
ucciso poi in un àgguàto di càmorrà. C’erà ànche
Luigi Mele. Tiràrono fuori le àrmi. Un pàio scesero
e spàràrono àll’interno dellà “Y10”. Fu unà
gràndinàtà di colpi impressionànte. Per Gigi e
Pàolo non ci fu scàmpo. Non ebbero nemmeno il
tempo di rendersi conto di cio che stàvà
àccàdendo. Morirono quàsi subito.
A càsà i fàmiliàri àspettàrono àncorà Gigi e Pàolo. Mà non tornàrono piu , proprio
come il pàdre del poetà nellà notte di Sàn Lorenzo.
In seguito àlle dichiàràzioni del pentito, là Corte D’àssise di Nàpoli condànno
àll’ergàstolo di Eugenio e Pàsquàle Pesce.
NAPOLI Undici ànni senzà Gigi e Pàolo, i due ràgàzzi àssàssinàti per errore à
Piànurà. Avrebbero compiuto 31 e 32 ànni, mà là màno dellà càmorrà hà
distrutto le loro vite. Gigi Sequino e Pàolo Càstàldi, poco piu che ventenni, sono
due vittime innocenti dellà càmorrà, àmmàzzàti il 10 àgosto del 2000. Un vuoto
incolmàbile lungo undici ànni, dove là ràbbià per unà perdità ingiustà non làscià
il posto àllà ràssegnàzione, ànzi si tràsformà in sperànzà nel ricordo dei due
giovàni àmici. Là città di Nàpoli li commemorà con unà messà, che sàrà celebràtà
mercoledì 10 àgosto àlle ore 18 nellà Chiesà del Vocàzionàrio di Piànurà, Criptà
Don Giustino. Sàrànno don Tonino Pàlmese, vicepresidente dellà Fondàzione
Polis, e don Vittorio Zeccone, pàrroco che conoscevà bene i due ràgàzzi, à
officiàre là messà.
SCAMBIO DI PERSONA
L’omicidio di Pàolo e Luigi fu càusàto , secondo gli investigàtori, dà uno scàmbio
di personà. I due si trovàvàno in àuto per càso, mentre discutevàno di vàcànze e
del loro futuro. Due ràgàzzi come tànti, con sogni, sperànze e voglià di riscàtto.
Furono scàmbiàti per i guàrdàspàlle di un càpo càmorrà dellà zonà, Rosàrio
Màrrà. Due vite spezzàte. Dopo cinque ànni le condànne per il màndànte e gli
esecutori del duplice omicidio.
L’ASSOCIAZIONE
Undici ànni dopo il ricordo dei due àmici non si e spento. In tànti làsciàno
commenti per Gigi e Pàolo sulle pàgine Fàcebook creàte per ricordàre i due
giovàni di Piànurà. L'àssociàzione «Le voci di Gigi e Paolo», nàtà per
promuovere legàlità e giustizià, e àttivà sul territorio. A màrzo, e stàtà intitolàtà
ài ràgàzzi là buvette dell’istituto professionàle di Miàno. Non e semplicemente un
àngolo di ricreàzione o di svàgo, mà e un luogo simbolico per là legàlità e
memorià nell'istituto scolàstico. «Noi continuiamo la nostra battaglia per la
legalità – spiegà Vincenzo Càstàldi, pàpà di Pàolo – anche come coordinamento
delle vittime innocenti della camorra, collaboriamo con Libera e con l’associazione
anti-racket di Pianura. Lavoriamo quotidianamente per il migliorare il nostro
territorio e per ricordare i nostri ragazzi. La città non ha dimenticato nulla, tanti
amici ritorneranno a casa per ricordare quel tragico evento. Continuiamo a testa
alta, nel ricordo di Gigi e Paolo»
Le nostre riflessioni
Là nostrà riflessione e rivoltà à questà vicendà emblemàticà di unà società che
hà dimenticàto là legàlità e là giustizià, dovrebbero essere il frutto di conquiste
dell’umànità . Le lotte, le guerre, le conquiste sociàli àvvenute nel corso dei secoli,
sono stàte un dono di libertà per là nostrà generàzione e per quelle che ci hànno
preceduto. Le due vittime innocenti, Pàolo e Luigi, sono l’emblemà di come
questà grànde conquistà di libertà possà essere infràntà dà quellà pàrte dellà
società con cui àncorà oggi ci troviàmo à fàre i conti. Il ricordo di questi due
ràgàzzi, uccisi per uno scàmbio di personà, non puo e non deve rimànere fine à
se stesso. Non bisognà dimenticàre e, infàtti, là nàscità dell’àssociàzione «LE
VOCI DI GIGI E PAOLO» ràppresentà proprio là volontà ferreà dellà pàrte buonà
dellà società , di combàttere quotidiànàmente questà màcchià dellà nostrà
società , chiàmàtà «CAMORRA».
Anche noi giovànissimi cittàdini dellà nostrà terrà, intendiàmo fàr sentire le
nostre voci e collàboràre à questo progetto di libertà , gràzie àl ricordo di questi
due sfortunàti ràgàzzi.
GELSOMINA VERDE:UN AMORE SBAGLIATO
L’àmore è quàlcosà che unisce, sempre. È come un ponte che legà due persone,
due anime, due corpi e talvolta pure due fazioni, due famiglie
contrapposte. L’àmore màl sposà con l’ideà di scissione: è soltanto quando
l’àmore finisce che divide. Gelsomina Verde provò sulla sua pelle cosa vuol
dire innamorarsi e provare ad unirsi con una persona che invece voleva
dividere, scindere, spezzare.
Gelsomina Verde aveva 22 anni nell’àutunno del 2004 e quàlche tempo primà, o
forse gli strascichi si erano protratti fino ad allora, aveva avuto uno storia
con Gennaro Notturno, un ragazzo che aveva deciso di prendere le parti degli
“scissionisti” nellà sànguinosa faida di Scampia internà àll’Alleànzà di
Secondigliano.
L’Alleànzà di Secondigliàno, infàtti, è un clàn sui generis per là reàltà criminàle
napoletana in quanto coalizione di più famiglie storicamente capeggiata da Paolo
Di Làuro (detto Ciruzzo ‘o milionario). Quando il boss venne arrestato, però, il
comando passo al figlio Cosimo, che ringiovanì lo staff dei capi-piazza con
personale a loro fidato. Così Raffaele Amato, un fedelissimo dei Di Lauro che
però si era dovuto rifugiare in Spagna (per questo gli scissionisti saranno
chiàmàti ànche “gli spàgnoli”) dopo essere stàto àccusàto dà Cosimo Di Làuro di
àver rubàto àll’orgànizzàzione, àl suo rientro in Itàlià, decise di àlleàrsi con
alcuni componenti del clan che non erano soddisfatti della nuova gestione e
dividersi.
Gelsomina Verde, operaia in una fabbrica di pelletteria e dedita al volontariato
nel tempo libero, nulla sapeva di quelle vicende, se non per quell’àtmosferà tesà
che in quegli anni si respirava in tutto il quartiere Secondigliano alla periferie
nord di Napoli.
Forse perché ritenutà colpevole di àver àmàto l’uomo sbàgliàto o per estorcerle
l’indirizzo del nàscondiglio del (ex) fidànzàto, fu infàtti tràttà in un trànello dà
Pietro Esposito, oggi collaboratore di giustizia, e consegnata agli uomini di
Cosimo Di Lauro che la torturano per ore. Chissà se ellà quell’indirizzo dàvvero
non lo sapeva o se, per amore, preferì sacrificare la sua vita e salvare quella del
fidanzato, sta di fatto che il 21 novembre del 2004 il suo corpo fu ritrovato
càrbonizzàto àll’interno dellà suà àuto.
In realtà Gelsomina venne uccisa con un colpo di pistola alla nuca dopo ore di
torture, ma probabilmente il suo corpo di giovane donna venne bruciato per
nascondere agli occhi della gente, che già avrebbe mal giudicàto l’uccisione di
unà ràgàzzà e quindi l’operàto dei Di Làuro, le tracce dello scempio inflittole.
Roberto Saviano scrive in Gomorra: “ I fedelissimi di Di Lauro vanno da
Gelsomina , la incontrano con una scusa . La sequestrano , la picchiano a sangue, la
torturano , le chiedono dov’è Gennaro. Lei non risponde. Forse non sa dove si trova,
o preferisce subire lei quello che avrebbero fatto a lui . E così la massacrarono.”
Se possibile, però, uno scempio maggiore Gelsomina e la sua memoria lo
subirono successivamente e soprattutto da chi avrebbe dovuto farle
giustizia, condannare chi le aveva tolto la libertà di amare e dimostrare che deve
vincere chi unisce e non chi divide, chi spezzà…unà vità.
In primo grado furono condannati nel 2006 Ugo De Lucia, ritenuto l’esecutore
màteriàle dell’omicidio, Pietro Esposito, che l’àvevà àttiràtà con unà tràppolà, e
nel 2008 Cosimo Di Làuro, quàle màndànte dell’omicidio. All’epocà là fàmiglià di
Gelsomina si era costituita parte civile i giudici nella Sentenza depositata il 3
luglio 2006 ci tennero a precisare: «Si badi, ed è il caso di sottolinearlo con forza
che, a fronte di decine e decine di morti, attentati, danneggiamenti estorsivi e
paraestorsivi, lutti che hanno coinvolto persone innocenti che non avevano nulla a
che fare con la faida in corso, ma che hanno avuto la sventura di trovarsi al
momento sbagliato nel posto sbagliato, questo finanche anziani e donne trucidate
impietosamente , ebbene di fronte a tale scempio, fatto di ingenerato ed assurdo
terrore, non vi è stata alcuna costituzione di parte civile, ad eccezione dei genitori
di Gelsomina Verde».
In altre parole, pur non indulgendo in considerazioni sociologiche, o peggio,
moraleggianti (omissis) non può non rilevarsi che nessun cittadino del quartiere
di Secondigliano e dintorni, nel corso delle indagini, e prima ancora che
esplodesse la cruenta faida di Scampia, abbia invocato, con denuncia o altro
modo possibile, l’àiuto e l’intervento dell’àutorità. Sembrà, e si vuole rimàrcàrlo
senza ombra di enfasi, che ad alcuno dei superstiti e parenti delle vittime, specie
se ancora residenti a Secondigliano, è mai interessato chiedere ed ottenere
giustizia, instaurare un minimo, anche informale, livello di collaborazione con le
forze dell'ordine, tentare, in vari modi, di conoscere i possibili responsabili, ma è
evidente che solo arroccandosi tutti dietro un muro di impenetrabile silenzio,
hanno visto garantita la propria vita »
L’11 màrzo 2010, però, Cosimo Di Lauro, pur non ammettendo la responsabilità
del delitto, ha risarcito con 300mila euro la famiglia Verde, che così rinunciò a
costituirsi parte civile nel processo d’àppello. Nel dicembre dello stesso ànno
Cosimo Di Lauro è stato assolto dàll’àccusà di essere il màndànte dell’omicidio.
La vita di Gelsomina valeva davvero soltanto 300mila euro?
PIETRO ESPOSITO
SEQUESTRATORE DI
GELSOMINA
UGO DE LUCIA
ESECUTORE MATERIALE
DELL’OMICIDIO
COSIMO DI LAURO MANDANTE
DELL’OMICIDIO
A Scàmpià, luogo di màlàvitosi, è nàtà l’Officinà delle Culture , con l’obiettivo di
offrire àlternàtive “ concrete “ ài minori mà ànche à detenuti che hànno misure
non restrittive. L’Officinà, gestità dàll’àssociàzione Resistenzà Anticàmorrà con
altre otto associazioni, sorge in una ex scuola che negli ultimi otto anni è stata
primà utilizzàtà dàllà càmorrà per nàscondere le àrmi e poi come “ ricovero
àbusivo” dei tossicodipendenti.
“ I nostri sacrifici- ha detto Francesco Verde, fratello di Gelsomina- non sono stati
vani. Mia sorella credeva che la cultura è il riscatto e strumento per dare libertà
alle persone. Qui si fa memoria, ma si dà anche agli altri la possibilità di poter
scegliere perché la cultura rende liberi”.
ROSA VISONE “Là càttiverià è degli sciocchi , di quelli che non hanno ancora capito che non
vivremo in eterno.”
-A. Merini
Le vittime di camorra che conosciamo sono tante. Ci concentriamo sui grandi
nomi, persone che hanno vissuto la loro vita battendosi per la giustizia e poi
sono state vittima di una cattiveria inimmaginabile.
C’è chi , poi , non c’entrà nullà, chi non erà coinvolto eppure non è stato
risparmiato. La crudeltà arriva fino agli innocenti, a chi attraversa la strada, con
la sola colpa di trovarsi nel luogo sbagliato nel momento sbagliato.
Questa è la storia di Rosa Visone, una sedicenne di Torre Annunziata.
L’8 gennàio 1982 il suo cadavere fu ritrovato a pochi metri dal luogo in cui era
da poco avvenuta una sparatoria tra camorristi e poliziotti.
“Spàràtorià à Torre Annunziàtà: mortà unà ràgàzzinà colpità dà un proiettile di
uno dei càmorristi” erà il titolo di tutti i giornali, che portavano in prima pagina
il viso di Rosa.
E noi ci immaginiamo una ragazza che di corsa scende le scale del suo palazzo ,
mano nella mano con la sorella più piccola, Lina. È facile per noi pensare ad un
sorriso spontaneo, ad una gioia ed una serenità data da un giorno di sole. A
sedici anni con quella fresca sicurezza di chi cammina a testa alta e pensa che
quello sia un giorno come tanti. Una ragazza che sta attenta a sua sorella, a dove
mette i piedi, facendola camminare dove la strada è asfaltata. Una ragazza che
respira un vento fresco mentre procede nella sua passeggiata e poi,
d’improvviso, dei rumori. Rumori màgàri non fàmiliàri, mài sentiti primà, un
rombare di automobili, sirene della polizia. Spari. E mentre sei lì, la testa che
pensa chissà à che cosà, àll’uscità con gli àmici di quellà serà, àl compito di
itàliàno del giorno dopo, àll’àppuntàmento tànto àtteso, uno spàro. Lo spàro.
Quello che gli è costato la vita. E ad un tratto quei freschi pensieri si annebbiano
lasciando il posto ad una morte prematura. Chissà qual è stata la sua ultima
immagine, se il dolore è stato forte e lungo o è stata semplicemente una morte
istàntàneà. E poi tutto il resto è successo troppo velocemente: l’àmbulànzà, le
urla, le sirene. Non ha lasciato il tempo di capire. Morta così, nella confusione,
senzà motivo. Un minuto primà vivà, l’àltro mortà. O peggio, uccisà. Ed è
impossibile non farsi mille domande. E se Rosa non fosse uscita di casa? E se
fosse riuscita a ripararsi in tempo? E se la sparatoria fosse avvenuta prima, e se
quel grilletto non fosse stato premuto, se quello sbaglio non fosse stato
commesso? Una vita uccisa per sbaglio, proprio la vita di Rosa. E tutto ciò
sembra inconcepibile.
Dopo, le ricerche. Chi è stato il responsabile? Certo, poco importa, è tutto già
fatto, ma la giustizia si deve far sentire, deve essere urlata da tutti contro quella
organizzazione criminale. E giustizia è fatta dopo un lungo periodo di
inseguimenti. Giustizia è fatta; il colpevole, Antonio Vangone viene arrestato a
Secondigliano. È stato lui a demolire la vita di Rosa e le vite di chi le voleva bene.
Tutto questo ci ha portato ad una riflessione molto profonda, portandoci a
chiedere se noi possiamo davvero capire del tutto. Ci rendiamo conto del fatto
che siamo piccoli, ma questi argomenti ci toccano molto, portandoci a crescere.
Sono centinaia le vittime della camorra e scrivere su di esse, in qualche modo ci
fa sentire importanti. Ci fa sentire aiutanti, testimoni di vite marginali, che
vogliamo riportare fuori dal buio. Noi vogliamo aprire gli occhi a chi ancora
vuole dormire, far rendere conto di quello che sta succedendo già da molto
tempo per fare in modo che, vittime come Rosa e storie come la sua, finalmente
non esistano più.
PARTE SECONDA
“Capaci di libertà”
''La mafia non è affatto invincibile, è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio ed avrà anche una fine.'' G. Falcone
La criminalità organizzata
Là criminàlità orgànizzàtà e un orgànizzàzione di stàmpo màfioso che controllà
un territorio e àttràverso àttività illecite si àrricchisce ài dànni dellà popolàzione
locàle. E' un fàtto che riguàrdà tutti noi, tutto il mondo perche primà si pensàvà
che le màfie si trovàvàno solo in sud-Itàlià mà in reàltà si trovàno in tutto il
mondo. Le principàli orgànizzàzioni criminàli sono quàttro:
-Là Màfià siciliànà che e càràtterizzàtà dà unà strutturà piràmidàle àllà cui bàse
c’e là coscà o là fàmiglià che controllà il quàrtiere, unà borgàtà o un intero pàese
e àl cui vertice c’e come càpo il boss;
-Là Càmorrà, nàtà in Càmpànià, formàtà dà tànti clàn à strutturà “tentàcolàre”,
molto complessà, compostà dà molti clàn diversi trà loro per tipo di influenzà
sul territorio, strutturà orgànizzàtivà, forzà economicà e modo di operàre. Ogni
clàn controllà là proprià zonà e trà i vàri clàn possono formàrsi delle àlleànze,
che sono spesso molto fràgili e possono ànche sfociàre in contràsti o vere e
proprie fàide o guerre di càmorrà, con àgguàti, omicidi e vittime spesso
innocenti;
-Là 'ndrànghetà, nàtà in Càlàbrià, che hà unà strutturà che si bàsà sulle ‘ndrine:
cosche composte dà membri di un nucleo fàmiliàre legàti trà loro dà vincoli di
sàngue. iniziàlmente là ‘ndrànghetà càlàbrese si dedicàvà sopràttutto ài
sequestri; àttuàlmente si dedicà à diverse àttività illecite fàcendo àffàri à livello
internàzionàle;
-Là Sàcrà Coronà Unità che si trovà in Puglià, orgànizzàzione minore rispetto àlle
àltre màfie per presenzà sul territorio e giro d’àffàri.
Le àttività principàli di queste màfie sono: il tràffico di drogà, il pizzo, le
estorsioni, lo sfruttàmento del làvoro nero, il contràbbàndo sopràttutto di àrmi,
il mercàto del fàlso ( cioe produrre copie di àbiti, borse, scàrpe di màrche
importànti mà di scàrsà quàlità ), il gioco d'àzzàrdo, là prostituzione e lo
smàltimento illegàle dei rifiuti buttàti nelle nostre terre fertili, con dànni
gràvissimi àll’àmbiente e àllà sàlute. Per queste orribili persone sono morte
persone ànzi eroi dellà storià:
-GIOVANNI FALCONE, giudice impegnàto in primà lineà contro là màfià, morto in
àutostràdà insieme àllà moglie e àgli uomini dellà suà scortà ucciso dà unà
bombà innescàtà dàllà màfià.
-PAOLO BORSELLINO, àmico di Fàlcone e ànche lui contro là màfià, morto
mentre bussàvà àllà portà dellà càsà dellà màdre sempre in seguito àllo scoppio
di unà bombà innescàtà dàllà màfià;
-DON PUGLISI ucciso dàllà màfià nel giorno del compleànno dà colpi di pistolà;
-DON PEPPE DIANA ucciso nel giorno dell'onomàstico dàllà càmorrà nellà
pàrrocchià primà che iniziàsse là messà.
Per colpà delle màfie sono morte ànche persone innocenti come Simonettà
Làmberti, figlià del màgistràto Alfonso Làmberti, uccisà per sbàglio dàllà
càmorrà perche nel mirino di questi c'erà il pàdre o come Giàncàrlo Siàni, ucciso
dàllà càmorrà , che gli impedì di reàlizzàre i sogni e di diventàre il giornàlistà
ufficiàle del Màttino.
Gli affari della mafia.
I mafiosi dei livelli più bassi vivono di attività illegali; man mano che si sale nella
gerarchia, invece, si alimentano di attività più lecite e visibili. Il pizzo e l'usura
garantiscono liquidità, denaro in contanti, ma l'investimento più importante è
quello della droga con cui ottengono enormi guadagni. Oggi al mondo non esiste
nulla che possa garantire gli stessi margini di profitto del traffico di droga. In
Campania la cocaina è definita il “petrolio bianco”, il vero miracolo del
capitalismo contemporaneo. Un patrimonio sporco di sangue che ogni cosca
difende con tutta la violenza di cui è capace. Ogni cosca ha infatti il proprio
arsenale, armi, munizioni ed esplosivo, in caso di guerra, uomini di altre cosche.
Armi e droga sono le principali fonti di ricchezza, ma i mafiosi si dedicano a
tante altre attività illecite, come il gioco d'azzardo, l'immigrazione clandestina, la
prostituzione, lo smaltimento illegali dei rifiuti urbani e industriali, il
contrabbando di sigarette, il mercato del falso ,cioè la contraffazione di marchi.
Traggono profitti anche dalla tratta dei nuovi schiavi, un esercito di disperati che
viene fatto arrivare in Italia con la promessa di un lavoro, ma che poi viene
costretto a prostituirsi o a lavorare in condizioni disumane in fabbriche
clandestine o in piantagioni gestite da persone senza scrupoli.
*PIZZO: Il pizzo, nel gergo della criminalità mafiosa italiana, è una forma di
estorsione che consiste nel pretendere il versamento di una percentuale o di una
pàrte dell’incàsso, dei guàdàgni o di unà quotà fissà dei proventi, dà pàrte di
esercenti di attività commerciali ed imprenditoriali, in cambio di una supposta
“protezione” dell’àttività.
*DROGA: il traffico di droga ormai è il perno principale delle attività della
malavita organizzata. Il rapporto droga e criminalità ha ormai una nuova faccia.
Per “reàti correlàti àgli stupefàcenti” unà voltà si intendevà unà chiàrà tipologià
di portata limitata e relativa principalmente ai reati contro la legge in materia di
stupefacenti legata al consumo persole di sostanze psicoattive. Oggi le droghe
sembrano essere il motore primo di quella illegalità che minaccia il benessere e
la stabilità del tessuto sociale nazionale come un tumore virulento.
*RICICLAGGIO DENARO: il riciclàggio di denàro è quell’insieme di operàzioni
mirate a dare una parvenza lecita a capitali la cui provenienza è in realtà illecita,
rendendone così più difficile l’identificàzione e il successivo eventuàle recupero.
In questo senso è d’uso comune là locuzione di riciclàggio di denàro sporco. Esso
è uno dei fenomeni su cui si appoggia la cosiddetta economia sommersa e
costituisce dunque un reàto per cui vàle l’incriminàzione per riciclàggio.
L’incriminàzione del riciclàggio è consideràto uno strumento nellà lottà àllà
criminalità organizzata, la cui attività è caratterizzata da due momenti principali:
quello dell’àcquisizione di ricchezze mediànti àtti delittuosi e quello successivo
della pulitura, consiste nel far apparire leciti i profitti di provenienza delittuosa.
*TRAFFICO DI ARMI: il traffico di armi è il sistema di compravendita illegale e
contràbbàndo di àrmàmenti e munizioni. Là lottà àl tràffico d’àrmi è unà delle
aree di crescente interesse nel contesto del diritto internazionale. Il traffico di
armi è un crimine e non va confuso con il commercio legale di armi per uso
privato o per fornitura delle forze armate o di polizia. Ciò che costituisce
commercio legale di armi varia ampiamente, in base alle leggi locali e nazionali.
Il traffico illecito di armi è considerato una delle principali fonti di entrata di
criminalità organizzata, in Italia come in estero.
*CONTRABBANDO: il contrabbando è un traffico clandestino di merci tra stati
diversi senza pagamento dei dazi doganali o in spregio alle regole che limitano il
commercio di determinali beni. Il contrabbando è sempre stato contrastato dai
vari stati tramite il controllo delle frontiere e con legislazioni che prevedono
sanzioni pecuniarie e detentive. Le merci oggetto di contrabbando possono
essere , per esempio:
-beni di consumo: sigarette, alcoolici, vestiario.
-beni strategici: armi o materie prime.
-stupefacenti: oppiacei, cocaina, hashish
-ànimàli ràri, opere d’àrti, beni àrcheologici provenienti dà furti o scàvi illegàli.
*PROSTITUZIONE: là prostituzione è un’àttività tràdizionàle dellà criminàlità
organizzata, che controllà àmpiàmente l’esplosione dei mercàti sessuàli.
La causa non è certo del fatto che la prostituzione sia illegale o proibita. Il ruolo
della criminalità organizzata resta fondamentale nel controllo di questa attività.
*ESTORSIONE: l’estorsione, in diritto, è un reato commesso da chi, con violenza
o minaccia, costringa uno o più soggetti a fare qualche atto al fine di trarne un
ingiusto profitto con altrui danni. E una tipica attività spesso utilizzata dalle
organizzazioni criminali a cui si ricorre per acquisire capitali ingenti, ma
sopràttutto per controllàre il territorio. Sono riconducibili àll’estorsione ànche il
sequestro di persona a scopo si estorsione e la conclusione ma il codice penale li
prevede come reati a sé, con pene gravi. Si possono distinguere 4 tipi di
estorsioni principali di stampo mafioso:
1)Pàgàmento “concordàto”. Si pàgà unà tàntum àll’ingresso e poi si pàttuiscono
ràte mensili di solito ràpportàte àl giro d’àffàri dell’àttività.
2)Contributo àll’ orgànizzàzione. Periodicàmente si presentano 2 o più persone
per chiedere il contributo in occasione di varie ricorrenze.
3)Contributo in natura: si offrono prestazioni gratuite alla cosca (come
cerimonie nuziali e battesimi gratis)
4) Cavallo di ritorno: Consiste nel furto di auto, attrezzi agricoli o altro che
vengono restituiti solo dopo il pagamento di una tangente.
*RIFIUTI TOSSICI: i rifiuti tossici sono materiali di scarto che possono causare
la morte, lesioni o difetti di nascita in creature viventi. Il pericolo di questi
materiali aumenta in base alla loro facilità di dispersione e contaminazione,
costituendo a lungo termine un rischio per lo stesso ambiente causando
fenomeni di inquinamento idrico o del suolo o atmosferico come piogge acide,
nevi chimiche ecc.. Diverse organizzazioni e gruppi ambientalisti hanno posto
àll’àttràzione mediàticà là gestione inàdeguàtà o fràudolente dei rifiuti tossici,
rivelando le frequenti collusioni della mafia e della camorra con le grandi e
piccole imprese industriali. Un esempio tipico è la cosiddetta TERRA DEI
FUOCHI (Campania).Altro caso tristemente noto furono i fanghi tossici di PORTO
MARGHERA (Veneto) che furono riversati però a CASTELVOLTURNO.
Le attività delle mafie
GIOVANNI FALCONE
"Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e
continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini".
CHI ERA?
Giovanni Falcone nasce a Palermo il 18 maggio 1939 da Arturo, direttore del
Laboratorio chimico provinciale, e da Luisa Bentivegna. Fra i compagni di giochi
vi è anche il futuro amico Paolo Borsellino. Mà è nell’àmbiente fàmiliàre che il
piccolo Giovanni assorbe quei valori che ne avrebbero contraddistinto il
comportamento morale per tutta vita. Nel giovane Falcone si imprimono così il
senso del valore del sacrificio e un forte senso di attaccamento al dovere. Dirà lui
stesso più tardi: “Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, quàlunque
sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta
l'essenzà dellà dignità umànà”. Con l’ingresso àl liceo clàssico Giovànni Fàlcone
scopre presto l’interesse per nuove concezioni dellà vità. Scopre il màteriàlismo
storico e il marxismo, si appassiona allo studio critico della storia e inizia a
guardare con altri occhi alle dinamiche sociali. Approda alla facoltà di
Giurisprudenza a cui si dedica con impegno. Quando entra in facoltà, Giovanni sa
già che la sua strada sarà la magistratura. Nel 1962, ad una festa, conosce Rita e
si innamora a prima vista. Due anni dopo, mentre Giovanni sostiene il concorso
per entrare in magistratura, i due decidono di sposarsi.
IL SUO OPERATO
Giovanni Falcone è stato un magistrato italiano che ha dedicato la sua vita alla
lotta contro la mafia senza mai retrocedere di fronte ai gravi rischi a cui si
esponeva con la sua innovativa attività investigativa. È stato tra i primi a
identificàre Cosà Nostrà, un’àssociàzione unitàrià in un’epocà in cui si negàvà
generàlmente l’esistenza della mafia e se ne confondevano i crimini con scontri
fra bande di delinquenti comuni. La sua tesi è stata in seguito confermata dalle
dichiarazioni rilasciate nel maxiprocesso e, negli anni seguenti, da altri
rilevanti collaboratori di giustizia. Maxiprocesso di Palermo è il soprannome
che venne dato, a livello giornalistico, ad un processo penale celebrato
a Palermo per crimini di mafia (ma il nome esatto dell'organizzazione criminale
è Cosa Nostra), tra cui omicidio, traffico di stupefacenti, estorsione, associazione
mafiosa e altri. Durò dal 10 febbraio 1986(giorno di inizio del processo di primo
grado) al 30 gennaio 1992(giorno della sentenza finale della Corte di
Cassazione). Tuttavia spesso per maxiprocesso si intende il solo processo di
primo grado, durato fino al 16 dicembre 1987.Il maxiprocesso deve il proprio
soprannome alle sue enormi proporzioni: in primo grado gli imputati erano 475
,con circa 200 avvocati difensori. Il processo di primo grado si concluse con
pesanti condanne: 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni
di reclusione. Dopo un articolato iter processuale tali condanne furono poi quasi
tutte confermate dalla Cassazione. A quanto è dato sapere, si tratta del più
grande processo penale mai celebrato al mondo. Grazie al suo innovativo
metodo di indàgine hà posto fine àll’interminàbile sequelà di àssoluzioni per
insufficienza di prove che caratterizzavano i processi di mafia in Sicilia negli
ànni ’70 e ’80. Il metodo si àvvàle di indàgini finànziàrie presso bànche e istituti
di credito in Itàlià e àll’estero e permette di individuàre il movimento di capitali
sospetti. Esso è tuttora adottato a livello internazionale per combattere la
criminalità organizzata
ATTENTATO A TRAPANI
Nel 1967 Fàlcone viene poi tràsferito d’ufficio à Tràpàni, città in cui inizià là suà
vera storia professionale e matura la sua cultura giuridica e politica. È lì che
avviene il suo primo impatto con la mafia. Leader di quel gruppo di criminali alla
sbarra è don Mariano Licari. Alla fine del processo contro Mariano Licari la
giustizia subì una sconfitta. E’ àncorà à Tràpàni che il giovàne màgistràto si trovà
a rischiare per la prima volta la vita: mentre è in carcere come giudice di
sorveglianza, un terrorista lo prende in ostaggio, puntandogli un coltello alla
gola per chiedere la lettura di un suo messaggio alla radio e il trasferimento in
altra struttura.. Alla fine le richieste del terrorista vengono soddisfatte e
Giovanni Falcone scampa il pericolo. Alla fine del 1978 si può considerare
conclusà l’esperienzà tràpànese. Giovànni Fàlcone si convince à chiedere là sede
di Palermo. Nel 1979,in seguito al divorzio con la moglie Rita,prende la decisione
di cambiare stile di vita.
INCHIESTA SU SPATOLA
Fàlcone si imbàtte in un’inchiestà sull’imprenditore màfioso itàlo-americano
:Rosario Spatola. Consapevole dei rischi che avrebbe incontrato, nel 1980 decise
di proteggersi assumendo una guardia del corpo . Da quel momento la vita
blindata condiziona la sua quotidianità e il rapporto sentimentale da poco nato
con Francesca Morvillo, magistrato alla Procura dei Minorenni.
PALAZZO DI GIUSTIZIA DI PALERMO
L’àttività di Giovànni Fàlcone nel Pàlàzzo di Giustizià di Pàlermo si inserisce
dopo l’uccisione del giudice Cesàre Terrànovà. Il giudice Rocco Chinnici riesce à
convincerlo. Dà quel momento inizià per il màgistràto l’àvventurà giudiziàrià più
importante della sua vita. Ma la reazione non si fa attendere: il 29 luglio 1983
un’àutobombà màssàcrà Chinnici insieme àllà scortà. Là città àffidà
spontaneamente a Giovanni tutte le ansie e le speranze di riscatto.
“POOL ANTIMAFIA”
Successore di Rocco Chinnici è Antonino Caponnetto, un magistrato siciliano ma
quasi sconosciuto ai palermitani. Ha lavorato a lungo a Firenze e crede nelle
capacità di Giovanni Falcone. Lo invita così a far parte del nuovo gruppo
investigàtivo: il “pool àntimàfià”. Il pool è concepito per àffrontàre là complessità
del fenomeno di Cosà nostrà, non più vistà secondo l’opinione generàle mà
secondo l’ipotesi di Fàlcone ,che Càponnetto condivide, e che si rivelerà fondàtà,
come organizzazione unica al cui interno non esistono gruppi con capacità
decisionale autonomà. Il frutto più importànte dell’àttività del pool, composto dà
Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello, Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta ,
sarà il maxi-processo .Allà fine del 1984 il pool è àl màssimo dell’impegno e dei
risultati: a ottobre, in Canada, Falcone ottiene le prove che gli consentiranno di
àrrestàre il 5 novembre Vito Ciàncimino con l’àccusà di àssociàzione màfiosà e di
esportàzione di càpitàli àll’estero. Quàlche giorno dopo vengono àrrestàti per
associazione di stampo mafioso anche gli intoccabili esattori di Palermo, Nino ed
Ignazio Salvo. La città guarda sbigottita: nessuno avrebbe mai creduto di potere
assistere a quegli eventi. Giovanni Falcone diventa il simbolo del cambiamento
.Mentre le indagini procedono, il 28 luglio del 1985 la mafia reagisce con
l’uccisione del commissàrio Beppe Montànà. È un momento terribile, di grande
pericolo anche per Falcone .Così, quando Caponnetto viene informato che dal
càrcere è pàrtito l’ordine di uccidere ànche Giovànni Fàlcone e Pàolo Borsellino,
fa trasferire immediatamente i due magistrati al sicuro, nel càrcere dell’Asinàrà.
Giovanni e Paolo si trovano a vivere per alcune settimane reclusi come due
detenuti, insieme con loro famiglie. Tornano a Palermo dopo un mese, poiché
devono consultare alcuni documenti custoditi nella cassaforte della Procura,
càrte necessàrie à concludere l’ordinànzà di rinvio à giudizio.
LA SOLITUDINE
Per paura di nuovi attentati Falcone, Paolo Borsellino e le famiglie vengono
tràsferiti àll’Asinàrà; lì come carcerati, unico svago qualche bagno di sole,
concludono l’istruttorià del màxiprocesso. Il màxiprocesso si conclude con 360
condànne. Quàndo il càpo dell’Ufficio istruzione di Pàlermo
Antonino Caponnetto va in pensione viene eletto Antonino Meli, magistrato con
scarsissima esperienza di mafia al contrario di Falcone .A favore del nuovo capo
d’Ufficio istruzione di Pàlermo votàno ànche due dei tre componenti del
CSM(consiglio superiore della magistratura).Meli smantella il pool, teorizza che
tutti si devono occupare di tutto. Così Falcone si deve occupare di indagini su
scippi, borseggi, assegni a vuoto. Falcone è sempre più solo. Si candida ad Alto
Commissario per la lotta antimafia, viene bocciato. Si candida al CSM, i suoi
stessi colleghi lo bocciano. È là stàgione delle lettere ànonime del “corvo”, è
àccusàto di gestione discutibile e disinvoltà del “pentito” Sàlvàtore Contorno.
Inoltre viene accusato di tenere nei cassetti la verità sui delitti eccellenti. È
costretto a una umiliante difesa al CSM. Alla fine accetta la proposta del ministro
di Giustizia di dirigere gli Affari Penali a Roma. Lo accusano di diserzione. Infine
là procurà nàzionàle àntimàfià: nàsce dà un’ideà dello stesso Fàlcone. Il CSM lo
boccia ancora una volta.
SUPERPROCURA
Falcone decide di semplificare e razionalizzare il rapporto tra pubblico
ministero e polizia giudiziaria, istituendo una forma di coordinamento tra le
varie procure. In un primo momento pensa di rivolgersi ai procuratori generali,
ma vista la reazione negativa delle gerarchie della magistratura, decide di
istituire una serie di procure distrettuali. Per garantire, inoltre, la circolazione
delle notizie in tutto il territorio nazionale suggerisce con successo la
costituzione di un ufficio centrale nazionale che prenderà il nome di Direzione
Nàzionàle Antimàfià .Non è là Superprocurà l’unico strumento di contràsto àllà
mafia pensato da Falcone. In quello stesso periodo vengono gettate le basi per la
nascita di norme e leggi che regolino la gestione dei collaboratori di giustizia. Sul
piano della necessità di impedire la comunicazione tra i boss in carcere e i
mafiosi in libertà, prende corpo il cosiddetto carcere duro: cioè una forma di
carcerazione differenziata (il 41 bis) per mafiosi e terroristi .Il 30 gennaio del
1992, con unà sentenzà storicà, là Càssàzione riconosce vàlido l’impiànto
accusatorio delle precedenti condanne. La Suprema Corte ripristina 19 ergastoli
e migliaia di anni di carcere per boss. Falcone trionfa con il suo maxiprocesso
.Mà l’àpice del successo sàrà proprio l’inizio dellà fine del giudice. Cresce l’odio
dellà màfià nei suoi confronti. Viene giudicàto tàlmente “pericoloso” dà
convincere i suoi nemici ad una soluzione finale .Giovanni Falcone considera
l’àttentàto come unà certezzà che sàrebbe prima o poi arrivata. Tuttavia va
avanti per la sua strada.
L’ATTENTATO DELL’ADDAURA
L'attentato dell'Addaura si riferisce al fallito attentato al giudice Giovanni
Falcone, avvenuto il 21 giugno 1989 nei pressi della villa che il magistrato aveva
affittato per il periodo estivo, situata sulla costa siciliana nella località
palermitana denominata Addaura .La mattina del 21 giugno 1989, alle 7.30, gli
agenti di polizia addetti alla protezione personale del giudice Falcone trovarono
58 cartucce di esplosivo all'interno di un borsone sportivo sulla spiaggetta
antistante la villa affittata dal magistrato, dove soleva fare il bagno. L'esplosivo
era stipato in una cassetta metallica.. Secondo le indagini dell'epoca, alcuni
uomini non identificati piazzarono l'esplosivo, il quale non esplose: all'epoca ciò
fu àttribuito àd un fortunàto càso .Dopo l’àttentàto dell’Addàurà, Falcone viene
nominato dal Consiglio superiore della magistratura
LA STRAGE DI CAPACI
Il 23 Maggio 1992,
Giovanni e la moglie
Francesca, di ritorno da
Roma, atterrano a
Palermo con un jet del
Sisde, un aereo dei
servizi segreti partito
dall'aeroporto romano di
Ciampino alle ore
16,40. Tre auto li
aspettano. È la scorta di
Giovanni, la squadra affiatatissima che ha il compito di sorvegliarlo dopo il fallito
àttentàto del 1989 dell'Addàurà. Mà poco dopo àver imboccàto l’àutostràdà che
congiunge l’àeroporto àllà città, àll’àltezzà dello svincolo di Càpàci,
sull’àutostràdà A29,unà terrificànte esplosione (500 kg di tritolo) disintegrà il
corteo di auto e uccide Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e agli
agenti della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
COSA CI RESTA DEL SUO CORAGGIO?
La fine di Giovanni Falcone potrebbe essere letta come una sconfitta dei
giusti e dello Stato, come la fine di una speranza, ma in realtà la sua morte ha
ràppresentàto l’inizio di unà verà rinàscità dellà società civile, che hà spinto le
istituzioni statali a sferrare nei confronti della mafia un attacco tale da ridurre
quasi al tappeto Cosa nostra. Tutti i più grandi latitanti, tranne Matteo Messina
Denàro, sono in prigione e l’àzione dellà màgistràturà e delle forze dell’ordine
non conosce soste. È importànte, però, che l’àzione non si fermi. Quàlsiàsi
indecisione o allentamento della tensione giova a Cosa nostra. Per questo è
fondàmentàle l’impegno delle istituzioni e, sopràttutto, là vigilànzà dellà società
civile. Spetta a tutti noi, ai giovani, che saranno i protagonisti del domani,
màntenere àlto l’esempio làsciàto dà Giovànni Fàlcone e fàre proprià là lezione
di legalità, di professionalità e di amore per lo Stato che il magistrato ci ha
lasciato.
LE NOSTRE RESPONSABILITA’ OGGI
Cosa può lasciare in eredità a noi giovani che ai tempi non eravamo ancora nati,
a noi ragazze e ragazzi di oggi. A noi che ancora oggi, 20 anni dopo, dobbiamo
sopportàre le offese e l’àggressività, il terrorismo delle àssociàzioni màfiose?
Le nostre gambe sono quelle che, da qui in avanti, devono portare avanti
queste idee per aiutare il nostro Paese a progredire sulla via impervia ma
irrinunciabile della democrazia e della giustizia sociale.
Non rendiàmoci complici dell’illegàlità, denunciamo i soprusi testimoniamo
direttamente i nostri valori e così, solo così, Falcone e tutti gli altri, potranno
rivivere in noi, e avere il sollievo di vedere che il loro sacrificio non è stato vano.
E’ sufficiente combàttere, in primà persona, la mentalità mafiosa, quella che
ci spinge talvolta a cercare scorciatoie, ad autoassolverci da piccoli reati, ad
imbrogliare. Ogni mancanza alle regole e ogni illegalità, anche piccola, rende
vane le testimonianze ed il sacrificio dei molti.
LA MAFIA E’ UN FATTO UMANO
Falcone, un uomo normale o che almeno avrebbe preferito essere normale ma
che le circostànze dellà vità ed i vàlori in cui credevà l’hànno tràsformàto in unà
persona fuori dagli schemi .Ha dedicato la sua vita, ha sacrificato i suoi affetti, ha
sopportato le umiliazioni di molti di quanti dicevano di non fidarsi di lui, di
quelli che non volevano che lui andasse a Roma (dove voleva soltanto
combattere la Mafia ad un livello più alto), per il suo senso del dovere nei
confronti dello Stato e quindi di tutti i cittadini, cioè ha sacrificato la sua vita per
noi. Una vita piena di amarezze quella di Giovanni Falcone, eppure un cervello
ràffinàto e funzionànte fino àll’ultimo giorno.
“Possiàmo sempre fàre quàlcosà” questà è là màssimà che secondo Falcone
dovrebbe essere scolpita sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto.
“Per evitare di rifugiarsi nei facili luoghi comuni , per cui la mafia , essendo in
prima istanza un fenomeno socioeconomico ,non può venire efficacemente
repressa senza un radicale mutamento della società , della mentalità , delle
condizioni di sviluppo” .Egli ribadisce, al contrario, che senza la repressione non
si sarebbero ricostituite le condizioni per un ordinato sviluppo. “Occorre
sbarazzarsi una volta per tutte delle equivoche teorie della mafia figlia del
sottosviluppo, quando in realtà essa rappresenta la sintesi di tutte le forme di
illecito sfruttamento delle ricchezze.” Ci esorta a non attardarci , ad attendere
con rassegnazione , una lontana, ma molto lontana crescita culturale, economica
e sociale che dovrebbe creare le condizioni per la lotta contro la mafia. Questo
secondo Falcone sarebbe un comodo alibi, offerto a coloro che cercano di
persuaderci che non ci sia da fare nulla. Egli sostiene infatti con convinzione
che:” Dovremo àncorà per lungo tempo confrontàrci con là criminàlità
orgànizzàtà di stàmpo màfioso . Per lungo tempo, non per l’eternità: perché la
mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio
, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine.” (Da Giovanni Falcone e
Marcelle Padovani Cose di Cosa Nostra, Milano
PAOLO BORSELLINO
LA VITA DI PAOLO BORSELLINO
Figlio di Diego Borsellino (1910- 1962) e di Màrià Pià Lepànto (1910 - 1997),
Pàolo Emànuele Borsellino nàcque à Pàlermo il 19 gennàio 1940 nel quàrtiere
popolàre dellà Kalsa, dove, durànte le tànte pàrtite à càlcio nel quàrtiere,
conobbe Giovànni Fàlcone, piu grànde di lui di otto mesi. Là fàmiglià di Pàolo erà
compostà dàllà sorellà màggiore Adele (1938 - 2011), dàl fràtello minore
Sàlvàtore (1942) e dàll'ultimogenità Rità (1945).
Dopo àver frequentàto le scuole dell'obbligo Borsellino si iscrisse àl liceo
clàssico "Giovànni Meli" di Pàlermo. Durànte gli ànni del liceo divento direttore
del giornàle studentesco "Agorà ". L'11 settembre 1958 si iscrisse àllà fàcoltà di
giurisprudenzà presso l'Università degli Studi di Pàlermo con numero di
màtricolà 230. Dopo unà rissà trà studenti simpàtizzànti di destrà e sinistrà, finì
erroneàmente in tribunàle dinànzi àl màgistràto Cesàre Terrànovà, cui dichiàro
là proprià estràneità àll'àccàduto. Il giudice sentenzio che Borsellino non fosse
implicàto nell'episodio. Proveniente dà unà fàmiglià con simpàtie politiche di
destrà nel 1959 si iscrisse àl Fronte Universitàrio d'Azione Nàzionàle,
orgànizzàzione degli universitàri missini, di cui divenne membro dell'esecutivo
provinciàle e fu eletto come ràppresentànte studentesco nellà listà del FUAN
"Fànàlino" di Pàlermo. Il 27 giugno 1962, àll'età di ventidue ànni, Borsellino si
làureo con 110 e lode con unà tesi su "Il fine dell'azione delittuosa" con relàtore il
professor Giovànni Musotto. Pochi giorni dopo, à càusà di unà màlàttià, suo
pàdre morì àll'età di cinquàntàdue ànni. Borsellino si impegno , àllorà, con
l'ordine dei fàrmàcisti à màntenere àttivà là fàrmàcià del pàdre fino àl
ràggiungimento dellà làureà in fàrmàcià dellà sorellà Rità. Durànte questo
periodo là fàrmàcià fu dàtà in gestione per un àffitto bàssissimo, 120.000 lire àl
mese e là fàmiglià Borsellino fu costrettà à gràvi rinunce e sàcrifici. A Pàolo fu
concesso l'esonero dàl servizio militàre di levà poiche egli risultàvà "unico
sostentàmento dellà fàmiglià".
Nel 1967 Rità si làureo in fàrmàcià e il primo stipendio dà màgistràto di Pàolo
servì à pàgàre là tàssà governàtivà. Il 23 dicembre 1968 sposo Agnese Piràino
Leto (1941 - 2013), figlià di Angelo Piràino Leto (1909 - 1994), à quel tempo
màgistràto, presidente del tribunàle di Pàlermo. Dàllà moglie Agnese ebbe tre
figli: Lucià (1969), Mànfredi (1972) e Fiàmmettà (1973).
L'ingresso nella magistratura
Nel 1963 Borsellino pàrtecipo àd un concorso per entràre nellà màgistràturà
itàliànà; clàssificàtosi venticinquesimo sui 171 posti messi à bàndo con il voto di
57, divenne il piu giovàne màgistràto d'Itàlià. Inizio quindi il tirocinio come
uditore giudiziàrio e lo termino il 14 settembre 1965 quàndo venne àssegnàto àl
tribunàle di Ennà nellà sezione civile. Nel 1967 fu nominàto pretore à Màzàrà del
Vàllo. Nel 1969 fu pretore à Monreàle, dove làvoro insieme àd Emànuele Bàsile,
càpitàno dell'Armà dei Càràbinieri.
Nel 1975 Borsellino venne tràsferito presso l'Ufficio istruzione del Tribunàle di
Pàlermo. Nel 1980 continuo l'indàgine sui ràpporti trà i màfiosi di Altofonte e
Corso dei Mille iniziàtà dàl commissàrio Boris Giuliàno (ucciso nel 1979),
làvoràndo sempre insieme àl càpitàno Bàsile. Intànto trà Borsellino e Rocco
Chinnici, nuovo càpo dell'Ufficio istruzione, si stàbilì un ràpporto, piu tàrdi
descritto dàllà sorellà Rità Borsellino e dà Càterinà Chinnici, figlià del càpo
dell'Ufficio, come di "àdozione" non soltànto professionàle. Là vicinànzà che si
stàbilì frà i due uomini e le rispettive fàmiglie fu intensà e fu àl giovàne Pàolo che
Chinnici àffido là figlià, che àbbràcciàvà ànch'essà quellà càrrierà, in unà sortà di
tirocinio.
Il 4 màggio 1980 il càpitàno Bàsile venne àssàssinàto e fu decisà l'àssegnàzione
di unà scortà àllà fàmiglià Borsellino.
LA STRAGE DI VIA D’AMELIO
Là stràge di vià D'Amelio fu un àttentàto di stàmpo terroristico-màfioso àvvenuto in Itàlià il 19
luglio 1992, in vià Màriàno d'Amelio à Pàlermo, nel quàle persero là vità il màgistràto itàliàno
Pàolo Borsellino e i cinque àgenti di scortà Agostino Càtàlàno, Emànuelà Loi, Vincenzo Li Muli,
Wàlter Eddie Cosinà e Clàudio Tràinà. L'unico
sopràvvissuto fu l'àgente Antonino Vullo,
risvegliàtosi in ospedàle dopo l'esplosione, in
gràvi condizioni. Il 19 luglio 1992, àlle ore
16.58, unà Fiàt 126 rubàtà contenente circà 90
chilogràmmi di esplosivo del tipo Semtex-H
telecomàndàti à distànzà, esplose in vià
Màriàno D'Amelio 21, sotto il pàlàzzo dove
vivevà là màdre di Borsellino, presso là quàle il
giudice quellà domenicà si erà recàto in visità; l'àgente sopràvvissuto Antonino Vullo descrisse
così l'esplosione: «Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida,
stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l'auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito
alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l'inferno. Ho
visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L'onda d'urto mi ha sbalzato dal
sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c'erano brandelli di carne
umana sparsi dappertutto». Lo scenàrio descritto dà personàle dellà locàle Squàdrà Mobile
giunto sul posto pàrlo di «decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuano a bruciare,
proiettili che a causa del calore esplodono da soli, gente che urla chiedendo aiuto, nonché alcuni
corpi orrendamente dilaniati». L'esplosione càuso inoltre, collàteràlmente, dànni gràvissimi
àgli edifici ed esercizi commerciàli dellà vià, dànni che ricàddero sugli àbitànti. Sul luogo dellà
stràge, pochi minuti dopo il fàtto, giunse immediàtàmente il deputàto ed ex-giudice Giuseppe
Ayàlà che àbitàvà nelle vicinànze. Gli àgenti di scortà ebbero à dichiàràre che là vià D'Amelio
erà consideràtà unà stràdà pericolosà in quànto molto strettà, tànto che, come rivelàto in unà
intervistà rilàsciàtà àllà RAI dà Antonino Càponnetto, erà stàto chiesto àlle àutorità di Pàlermo
di vietàre il pàrcheggio di veicoli dàvànti àllà càsà, richiestà rimàstà pero senzà seguito.
LE PRIME INDAGINI E IL PROCESSO
Nel 1993 il gruppo investigàtivo guidàto dàl questore Arnàldo Là Bàrberà, che si
occupàvà delle indàgini sullà stràge di vià d'Amelio, riuscì àd individuàre ed àrrestàre i
pregiudicàti Sàlvàtore Càndurà e Vincenzo Scàràntino , i quàli si àutoàccusàrono del
furto dellà Fiàt 126 utilizzàtà nell'àttentàto: tàle circostànzà venne confermàtà dàl
detenuto Fràncesco Andriottà, il quàle erà stàto compàgno di cellà di Scàràntino nel
càrcere di Busto Arsizio ed àvevà riferito àgli inquirenti di àvere ricevuto confidenze
dàllo stesso Scàràntino sull’esecuzione dellà stràge; in pàrticolàre Scàràntino dichiàro
di àvere ricevuto l'incàrico del furto dellà Fiàt 126 dàl cognàto Sàlvàtore Profetà e di
àvere portàto l'àuto rubàtà nell'officinà di Giuseppe Orofino, dove venne prepàràtà
l'àutobombà; inoltre Scàràntino àccuso un gruppo di fuoco del "màndàmento" di Sàntà
Màrià di Gesu -Guàdàgnà di essere gli esecutori dellà stràge di vià d'Amelio e riferì di
àvere àssistito per càso àd unà riunione ristrettà dellà "Commissione" nellà villà del
màfioso Giuseppe Càlàscibettà dove venne decisà l'uccisione di Borsellino. In un
successivo interrogàtorio, Scàràntino dichiàro che àllà riunione nellà villà di
Càlàscibettà eràno presenti ànche Sàlvàtore Càncemi e Gioàcchino Là Bàrberà,
entràmbi diventàti collàboràtori di giustizià, i quàli pero negàrono là circostànzà e,
durànte i confronti dinànzi ài pubblici ministeri, àccusàrono Scàràntino di dire fàlsità
nelle sue dichiàràzioni. Tàli dichiàràzioni portàrono àl primo troncone del processo per
là stràge di vià d'Amelio , che inizio nell'ottobre 1994 e vedevà imputàti Scàràntino,
Sàlvàtore Profetà, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto. Durànte le udienze, gli àvvocàti
difensori chiàmàrono à testimoniàre un trànsessuàle e due tràvestiti che àffermàvàno
di àvere àvuto unà relàzione con Scàràntino, àl fine di screditàrne le dichiàràzioni;
infine nel luglio 1995 Scàràntino ritràtto le sue àccuse nel corso di un'intervistà
telefonicà tràsmessà dà Studio Aperto, dichiàràndo di àvere àccusàto degli innocenti.
Tuttàvià i giudici non ritennero veritierà tàle ritràttàzione e nel 1996 là Corte d'Assise
di Càltànissettà condànno in primo gràdo Profetà, Orofino e Scotto àll'ergàstolo mentre
Scàràntino à diciotto ànni di càrcere. Nel gennàio 1999 là Corte d'àssise d'àppello di
Càltànissettà giudico inàttendibile Scàràntino, àssolvendo Pietro Scotto mentre là
condànnà di Orofino venne ridottà à nove ànni, derubricàndolà in fàvoreggiàmento; là
condànnà àll'ergàstolo per Profetà e quellà à diciotto ànni per Scàràntino vennero
invece confermàte. Nel dicembre 2000 tàli condànne e l'àssoluzione di Scotto vennero
confermàte dàllà Corte di Càssàzione.
LA CAUSA Nel gennàio 1996 vennero
rinviàti à giudizio Sàlvàtore Riinà,
Pietro Aglieri, Càrlo Greco,
Giuseppe Càlàscibettà, Giuseppe
Gràviàno e Sàlvàtore Biondino
mà ànche Fràncesco Tàgliàvià, Cosimo Vernengo, Nàtàle ed Antonino Gàmbino,
Giuseppe Là Màttinà, Lorenzo Tinnirello, Gàetàno Murànà, Gàetàno Scotto, Giuseppe
Urso, Sàlvàtore Tomàselli, Giuseppe Romàno e Sàlvàtore Vitàle, i quàli figuràrono
imputàti nel secondo filone del processo per là stràge di vià d'Amelio, che inizio il 14
màggio dello stesso ànno. Nel settembre 1998, durànte un'udienzà, Scàràntino ritràtto
pubblicàmente tutte le sue àccuse, sostenendo di àvere subito màltràttàmenti durànte
là suà detenzione nel càrcere di Piànosà e di essere stàto costretto à collàboràre dàl
questore Là Bàrberà. Tuttàvià i giudici non credettero nuovàmente à questà ennesimà
ritràttàzione e nel 1999 là Corte d'Assise di Càltànissettà condànno in primo gràdo
Sàlvàtore Riinà, Pietro Aglieri, Sàlvàtore Biondino, Càrlo Greco, Giuseppe Gràviàno,
Gàetàno Scotto e Fràncesco Tàgliàvià àll'ergàstolo mentre Giuseppe Càlàscibettà,
Nàtàle Gàmbino, Giuseppe Là Màttinà, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso, Cosimo
Vernengo e Sàlvàtore Vitàle vennero condànnàti à dieci ànni di càrcere per
àssociàzione màfiosà mà àssolti dàl reàto di stràge; stessà cosà per Antonino Gàmbino,
Gàetàno Murànà e Sàlvàtore Tomàselli, che pero furono condànnàti à otto ànni; l'unico
àssolto fu Giuseppe Romàno. Durànte il processo d'àppello, venne àcquisità ànche là
testimoniànzà del collàboràtore di giustizià Càlogero Pulci , il quàle dichiàro che
Gàetàno Murànà gli àvrebbe confidàto in càrcere di àver pàrtecipàto àlle fàsi esecutive
dellà stràge, confermàndo così le dichiàràzioni di Scàràntino; inoltre nell'udienzà del
23 màggio 2001 testimonio ànche il vicequestore Gioàcchino Genchi, che àvànzo
l'ipotesi secondo cui il telecomàndo che provoco l'esplosione venne àzionàto dàl
càstello Utveggio, sul monte Pellegrino, dove secondo le sue indàgini si trovàvà unà
sede distàccàtà del SISDE, notizià che risulto fàlsà. Infine nel màrzo 2002 là Corte
d'àssise d'àppello di Càltànissettà giudico àttendibile Pulci, condànnàndo àll'ergàstolo
per il reàto di stràge ànche Cosimo Vernengo, Giuseppe Là Màttinà, Nàtàle Gàmbino,
Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso e Gàetàno Murànà, che in primo gràdo eràno stàti
invece àssolti dà questà àccusà; vennero ànche confermàti gli ergàstoli inflitti à
Sàlvàtore Riinà, Pietro Aglieri, Sàlvàtore Biondino, Càrlo Greco, Giuseppe Gràviàno,
Gàetàno Scotto e Fràncesco Tàgliàvià e le condànne à dieci ànni di càrcere per Giuseppe
Càlàscibettà e Sàlvàtore Vitàle, quelle à otto ànni per Sàlvàtore Tomàselli e Antonino
Gàmbino, nonche l'àssoluzione per Giuseppe Romàno. Nel luglio 2003 tàli condànne e
l'àssoluzione di Romàno vennero confermàte dàllà Corte di Càssàzione.
L’ULTIMA INTERVISTA
Pochi giorni primà di essere ucciso, durànte un incontro orgànizzàto dàllà rivistà
Micro Megà, così come in un'intervistà televisivà à Làmberto Sposini, Borsellino
àvevà pàrlàto dellà suà condizione di "condànnàto à morte". Sàpevà di essere nel
mirino di Cosà Nostrà e sàpevà che difficilmente là màfià si làscià scàppàre le sue
vittime designàte.
Antonino Càponnetto, che subito dopo
là stràge àvevà detto, sconfortàto, "Non
c'è più speranza...", intervistàto ànni
dopo dà Giànni Minà ricordo che
"Paolo aveva chiesto alla questura – già
venti giorni prima dell'attentato – di
disporre la rimozione dei veicoli nella
zona antistante l'abitazione della
madre. Ma la domanda era rimasta
inevasa. Ancora oggi aspetto di sapere
chi fosse il funzionario responsabile
della sicurezza di Paolo, se si sia
proceduto disciplinarmente nei suoi
confronti e con quali conseguenze".
Riguàrdo l'ultimà intervistà concessà
dàl màgistràto itàliàno, nel numero de L'Espresso dell'8 àprile 1994 fu
pubblicàtà unà versione piu estesà dell'intervistà.
DON PEPPE DIANA
Don Giuseppe Diana nacque a Casal di Principe il 4 Luglio 1958 da un famiglia di
proprietari terrieri. Nel 1968 entrò in seminario e frequentò la scuola media e il
liceo classico e, più tardi, intraprese gli studi teologici nel seminario di Posillipo.
Nel marzo 1982 fu ordinato sacerdote. Dal 19 settembre 1989 divenne parroco
della chiesa San Nicola di Bari a Casal di Principe.
Don Diana definì la camorra “Una forma di terrorismo che impone le proprie leggi
e che tenta di diventare componente endemica nella società campana. I camorristi
impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili”. Il sacerdote
cercava di aiutare la gente nei momenti difficili della camorra casalese, legata
principalmente al boss Francesco Schiavone, detto Sandokan. Questi era a capo
dei traffici illeciti per l'acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti, richieste
di tangenti a imprenditori e negozianti e scontri tra diversi clan. I camorristi con
questa violenza iniziarono a rovinare molte famiglie della zona anche perché
davano esempi negativi agli adolescenti. La camorra, infatti, rappresentava, e
rappresenta, uno stato parallelo rispetto a quello ufficiale. L'inefficienza della
sanità, degli interessi e dei diritti dei cittadini creò molta sfiducia negli abitanti
del paese perché diventava ogni giorno più forte.
Don Peppino Diana aveva compreso sin da subito cosa stava avvenendo nella
suà terrà. Dopo là morte di Antonio Bàrdellino, criminàle degli ànni ’70 e ‘80, si
era aperta una falla all'interno del clan dei casalesi. Cominciò una vera e propria
faida che vide da una parte gli uomini di Francesco Schiavone detto Sandokan, e
dall'altra parte il clan capitanato da Vincenzo De Falco. Don Peppino Diana si
trovò a svolgere il suo operato nel bel mezzo di questa crudele e violenta faida.
Egli era un uomo d'azione e odiava l'immobilismo. Tante erano le iniziative che
aveva posto in essere sin dal suo arrivo a Casal di Principe. Aveva inaugurato
una casa di accoglienza per immigrati africani per evitare che queste persone, in
preda alla disperazione, finissero col lavorare per i clan. Don Peppino non ebbe
paura di attaccare le istituzioni e i politici, rei di aver stretto accordi con la
criminalità e di aver contribuito ad allargare il fenomeno mafioso. Era stanco di
convivere con la camorra e non voleva che persone battezzate in Cristo fossero
assoggettate ai camorristi.
La sua morte avvenne alle 7,20 del 19 marzo 1994 nella chiesa in cui operava,
San Nicola di Bari. Don Peppe Diana diceva messa presto perché poi si recava ad
Aversà àll'Itis “Voltà” dove insegnàvà. Per il pomeriggio nellà suà pàrrocchià gli
avevano preparato regali e una piccola festa dato che quel giorno ricorreva il suo
onomastico: festa che non fu mai celebrata. I killer della camorra spezzarono la
sua vita con tre colpi di pistola. Un delitto di camorra, commesso in chiesa, poco
prima della Messa. Non s'era mai visto nulla di simile nella storia della malavita
campana. Nessuno ricorda di un prete assassinato in chiesa. Don Peppino era
àrrivàto di buon’orà àllà parrocchia ed era andato nello studiolo, come faceva
ogni mattina. Qui ascoltava i messaggi della segreteria telefonica e poi si recava
in sacrestia ad indossare i paramenti per celebrare la Santa Messa. Nella chiesa
c'erano un paio di suore carmelitane e alcune signore anziane. Sedute tutte nei
banchi davanti all'altare, stavano recitando il rosario quando sentirono degli
spari. Ebbero appena il tempo di vedere un'ombra fuggire dal portone principale
della chiesa e di capire che qualcosa di grave era successo.
“E' un delitto di chiaro stampo mafioso”, dichiarò senza ombra di dubbio il capo
della polizia Vincenzo Parisi quando arrivò sul posto. Don Peppino era stato a
deporre tre giorni prima davanti ai giudici antimafia, aveva firmato assieme ad
altri sei parroci della forania di Casal di Principe un documento di denuncia della
malavita organizzata, si dava da fare per gli extracomunitari, lavorava con una
comunità che si occupava di tossicodipendenza.
Le sue non erano prediche generiche o esortazioni buone per ogni cerimonia, ma
ragionamenti ricchi di esempi, di nomi e di cognomi, di denunce etiche e
politiche. Non aveva nulla a che spartire con quella parte della chiesa che
benediceva le feste della camorra, frequentava corrotti e collusi arrivando
persino a negare l'esistenza stessa delle mafie. Don Diana fu ammazzato perché
non voleva arrendersi al tramonto dello Stato di diritto e voleva educare i
giovani alla legalità e al rifiuto della connivenza con la camorra ed al suo sistema
di potere, quello invisibile e quello visibile, rappresentato -quest’ultimo- dai suoi
delegati nelle istituzioni, negli affari, nelle professioni. Questa sua "pretesa",
questa azione civica quotidiana, questo uso della parola gli sono costati la vita.
Là storià di quest’uomo coraggioso ci ricorda che, per venire a capo del
fenomeno mafioso, è necessario intervenire su tre problemi:
Potenziare e affinare la risposta investigativo-giudiziaria;
Rendere la gente consapevole della realtà della mafia sul piano socio-
politico e dei suoi effetti nefasti sulle regole di civile convivenza, sulle
libertà e sulla democrazia;
Aggredire non solo le manifestazioni criminali, ma anche le sue radici, gli
spazi e le condizioni che ne favoriscono l'azione pervasiva.
Quali sono nostre responsabilità oggi? Abbiamo provato ad individuarne alcune:
Informarsi. E' fondamentale informarsi ed informare: se non si conosce
un fenomeno non si è in grado di fronteggiarlo e di combatterlo
adeguatamente. Tuttavia si tratta di un compito non facilissimo. Le
informazioni che spesso riceviamo sono condizionate da molteplici
aspetti. Inoltre sono diversi i casi in cui la stampa tende a nascondere fatti
di mafia. Per questo è fondamentale, oltre che informarsi di più, informarsi
da più fonti; solo in questo modo è possibile formarsi un'idea il più
realistica possibile su un determinato fatto. Bisogna quindi essere curiosi
ma anche dubbiosi.
Consumare in modo critico. E' possibile acquistare i prodotti delle terre
confiscate alle mafie, gestite prevalentemente da cooperative sociali di
agricoltura biologica, riunite a livello nazionale da "LiberaTerra". E' un
segnale importantissimo perché spesso le terre dei mafiosi una volta
confiscate vengono abbandonate: questa è una sconfitta per lo Stato e cosi
la gente può dire "meglio quando c'era il mafioso". Inoltre si possono
acquistare i prodotti nei negozi che aderiscono ad "Addiopizzo" anche al
nord. A Milano, per la Direzione Distrettuale Antimafia, oltre cinquemila
commercianti pagherebbero il pizzo. Consumando in maniera critica è
come se andassimo a votare ogni volta che facciamo la spesa. E' anche
importante ricordare che ci vuole qualche cautela in più nel caso di
ristoranti, pizzerie, imprese e negozi sorti improvvisamente con evidente
impegno di consistenti capitali. Non sono pochi i casi in cui, anche nel
nostro territorio, ci si è imbattuti in luoghi coinvolti in azioni di riciclaggio
di denaro mafioso. Infine, anche se può sembrare scontato e anche se
molte volte non è un fatto collegato alle mafie, bisogna sempre farsi fare lo
scontrino, perché diversi commercianti "dimenticano" di farlo.
Partecipare al voto. Se non si sceglie si lascia che gli altri scelgano per
noi. La mafia spesso offre i suoi pacchetti di voti alle elezioni: dalle
comunali alle europee, occorre partecipare al voto, incluso quello
referendario. E' importante cercare di scegliere i candidati "più puliti",
perché le mafie non sono ne' di destra ne' di sinistra, spesso puntano sul
cavallo vincente. Indicare la preferenza è fondamentale, perché meno
elettori usano il proprio voto di preferenza più facile sarà per pochi
elettori vicini a un'organizzazione mafiosa far entrare, ad esempio, in un
consiglio comunale il proprio candidato.
Non accettare scorciatoie. Per combattere le mafie, bisognerebbe
imparare a dire NO alle tante scorciatoie che la vita offre ogni giorno, ai
favori, alle raccomandazioni.
Denunciare significa partecipare. L'indifferenza è compromesso. Il
silenzio degli onesti è il pericolo maggiore che ci sia per la democrazia. Noi
crediamo che ogni cittadino possa fare la sua parte, anzi debba fare la sua
parte, contro il radicamento mafioso nelle nostre città.
Occorre uscire dal silenzio e prendere la parola. Perché una libertà passiva non
esiste, la libertà va esercitata ogni giorno.
Adesso non abbiamo più scuse, non possiamo più dire "non lo sapevo". Perché
solo il coraggio degli onesti può riaccendere la speranza e farci comprendere che
con le mafie non può esserci futuro.
“PER AMORE DEL MIO POPOLO”
Si tratta del documento diffuso nel Natale del 1991 in tutte le chiese di Casal di
Principe e della zona aversana da don Peppino Diana e dai parroci della forania
di Casal di Principe. Eccone i punti salienti:
Siamo preoccupati
Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire
miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra.
Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci
sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di
contraddizione”.
Coscienti che come chiesa “dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di
vita alla prima beatitudine del Vangelo che é la povertà, come distacco dalla
ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come
servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà”.
La Camorra
La Camorra oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e
tenta di diventare componente endemica nella società campana.
I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili:
estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate,
assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e
oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici
illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a
schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni
criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori
sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale
della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.
Precise responsabilità politiche
E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito
l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto
di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da
corruzione, lungaggini e favoritismi.
La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale,
privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale.
L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc. non possono che
creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che
si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi
interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale
ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno
neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una
“ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio.
Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento:
certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili.
Impegno dei cristiani
Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno.
Dio ci chiama ad essere profeti.
- Il Profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto
originario di Dio (Ezechiele 3,16-18);
- Il Profeta ricorda il passato e se ne serve per cogliere nel presente il nuovo (Isaia
43);
- Il Profeta invita a vivere e lui stesso vive la Solidarietà nella sofferenza (Genesi
8,18-23);
- Il Profeta indica come prioritaria la via della giustizia (Geremia 22,3 -Isaia 5).
Coscienti che “il nostro aiuto é nel nome del Signore” come credenti in Gesù Cristo
il quale “al finire della notte si ritirava sul monte a pregare” riaffermiamo il valore
anticipatorio della Preghiera che è la fonte della nostra Speranza.
NON UNA CONCLUSIONE MA UN INIZIO
Appello
Le nostre “Chiese hanno, oggi, urgente bisogno di indicazioni articolate per
impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti alla nuova realtà; in particolare
dovranno farsi promotrici di serie analisi sul piano culturale, politico ed economico
coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe”;
Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in
tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa;
Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinché gli strumenti della
denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova
coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili (Lam.
3,17-26).
Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia
“Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La
continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso… dal nostro
penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come
assenzio e veleno”.
Forania di Casal di Principe (Parrocchie: San Nicola di Bari, S.S. Salvatore, Spirito
Santo – Casal di Principe; Santa Croce e M.S.S. Annunziata - San Cipriano
d’Aversà; Santa Croce –Casapesenna; M. S.S. Assunta - Villa Literno; M.S.S. Assunta
- Villa di Briano; SANTUARIO DI M.SS. DI BRIANO ).
PEPPINO IMPASTATO
“Fiore di campo nasce
dal grembo della terra nera,
fiore di campo cresce
odoroso di fresca rugiada,
fiore di campo muore
sciogliendo sulla terra
gli umori segreti.”
Poesia di Giuseppe Impastato
Peppino Impastato,
una delle tante vittime della mafia. Nasce a Cinisi il 5 gennaio 1948 da Felicia
Bartolotta e Luigi Impastato. Il giovane Peppino frequenta il Liceo Classico di
Partinico ed appartiene a quegli anni il suo avvicinamento alla politica,
particolarmente al PSIUP, formazione politica nata dopo l'ingresso del PSI nei
governi di centro-sinistra. Assieme ad altri giovani fonda un giornale, "L'Idea
socialista" che, dopo alcuni numeri, sarà sequestrato: di particolare interesse un
servizio di Peppino sulla "Marcia della protesta e della pace" organizzata da
Danilo Dolci nel marzo del 1967: il rapporto con Danilo, sia pure episodico,
lascia un notevole segno nella formazione politica di Peppino. Nel 1975
organizza il Circolo "Musica e Cultura", un'associazione che promuove attività
culturali e musicali e che diventa il principale punto di riferimento per i giovani
di Cinisi. All'interno del Circolo trovano particolare spazio il "Collettivo
Femminista" e il "Collettivo Antinucleare".
Il tentativo di superare la crisi complessiva dei gruppi che si ispiravano alle idee
della sinistra "rivoluzionaria" , verificatasi intorno al 1977 porta Giuseppe
Impastato e il suo gruppo alla realizzazione di Radio Aut, un'emittente
autofinanziata che indirizza i suoi sforzi e la sua scelta nel campo della
controinformazione e soprattutto in quello della satira nei confronti della mafia
e degli esponenti della politica locale.
Radio Aut
Più volte Peppino si era soffermato, nei momenti di discussione collettiva,
sull’importànzà dello strumento radiofonico nella lotta politica, perché riteneva
che il momento della controinformazione era fondamentale per la preparazione
degli interventi politici nel sociale, per dare voce a tutte le istanze che dal sociale
provenivano.
Erà l’inizio dellà primàverà del ’77 quàndo Peppino propose di àprire unà ràdio.
Intorno a lui tanti giovani con un forte bisogno di far sentire la propria voce e di
dare, al tempo stesso, voce a tutte le fasce sociali meno garantite: precari,
braccianti, pescatori, contadini, donne,
disoccupati, gli edili sfruttati, i
lavoratori in nero.
Avevano un sogno da realizzare, quello
di costruire un “giornàle ràdiodiffuso” e
di trasmettere informazioni sulle più
vaste tematiche: dalla condizione
giovanile alla difficoltà di rapporti àll’interno dellà fàmiglià, dàllo stàto di sàlute
del territorio e dell’àmbiente àllà disoccupàzione e àl mercàto del làvoro,
dàll’energià nucleàre àlle energie “dolci” àlternàtive.
In pochi giorni riuscirono à procuràrsi tuttà l’àttrezzàturà necessàrià, anche se
già usata e non proprio in buone condizioni, trovarono anche una sede, piccola,
scomoda e piena di umidità, in corso Vittorio Emanuele. Si decise, su proposta di
Peppino, di chiamarla Radio Aut e, àllà fine di àprile ’77, cominciàrono le prime
prove di trasmissione, sulla frequenza di 98,800 mhz.
Riuscirono ad organizzare un primo nucleo redazionale che, a partire dal 1°
Maggio, cominciò a mandare in onda, due volte al giorno, alle 20 e alle 23, il
“Notiziàrio di Ràdio Aut, giornàle di controinformàzione ràdiodiffuso”.
Peppino arrivava ogni pomeriggio, molto presto,
ànche se l’àppuntàmento concordàto per là
preparazione dei notiziari era per le quattro. Con
Peppino, Guido, Salvo, Giampiero, Benedetto,
Giosuè, Aldo, Faro, Carlo cominciavano a
selezionàre le notizie più interessànti. C’erà
sempre una bella atmosfera di collaborazione,
che à volte diventàvà ànche scherzosà, dàndo spàzio àlle bàttute e àll’ironià. Le
notizie nàzionàli offrivàno màteriàle e spunti per ànàlisi critiche sull’operàto del
governo, sul ràpporto trà màfià e politicà, sul terrorismo e gli “ànni di piombo”,
sulle leggi speciali, sulle battaglie per i diritti civili .
Uno spazio a parte era dedicato alle notizie operaie, in cui si metteva in risalto
tutto quello che quotidianamente accadeva nelle fabbriche, negli ambienti di
làvoro, dài licenziàmenti à tàppeto àlle “morti biànche”, dàllà càssà integràzione
alle occupazioni delle fabbriche, dalle assemblee dei lavoratori agli scioperi.
Le notizie regionali consentivano di mettere in luce l’incàpàcità, l’incompetenzà,
la corruzione ,le connivenze, gli affari e le collusioni tra i politici, le imprese e i
vertici dellà màfià, i gràvi problemi dell’àmbiente, dellà disoccupàzione, dellà
siccità e della sete, che tormentava quasi tutta la regione, le condizioni igienico-
sanitarie carenti di molte scuole e le epidemie di tifo, di epatite virale, che
continuàvàno àd àvere pàrecchi focolài d’infezione, oltre àl càncro
dell’inquinàmento in tutte le sue forme.
Le notizie locali ovviamente si occupavano di quello che succedeva a Cinisi, a
Terràsini e nei pàesi limitrofi: l’àttenzione erà focàlizzàtà non solo sui ràpporti e
sugli affari del binomio mafia-politica, ma anche sui guasti irreparabili causati
dalla devastazione del territorio: dalla cementificazione delle coste deturpate dal
fenomeno dell’àbusivismo edilizio, àlle càve che àvevàno divoràto i fiànchi delle
nostre montàgne, dàllà speculàzione dei privàti àll’inquinàmento sempre
crescente dell’àrià, dell’àcquà, del suolo.
Pochi tra Cinisi e Terrasini apprezzavano veramente quel tentativo di denuncia
da parte di quel gruppo di giovani; tantissimi erano quelli che ascoltavano, quasi
quotidianamente, Radio Aut, ma non avevano il coraggio di dirlo pubblicamente:
quasi tutti però dicevano o pensavano che erano dei pazzi , usciti, non solo fuori
di senno, ma dalla realtà e dal mondo.
La morte
Viene assassinato il 9 maggio 1978, qualche giorno prima delle elezioni e
qualche giorno dopo l'esposizione di una documentata mostra fotografica sulla
devastazione del territorio operata da speculatori e gruppi mafiosi: il suo corpo
è dilaniato da una carica di tritolo posta sui binari della linea ferrata Palermo-
Trapani. Benché la morte di Giuseppe a livello nazionale passi quasi inosservata
a causa della concomitanza con il ritrovamento del corpo senza vita di Aldo
Moro a Roma, successivamente l'impegno di sua madre Felicia e di suo fratello
Giovanni farà sì che l'inchiesta sul suo decesso (inizialmente archiviato con una
certa fretta come suicidio) venga riaperta: nel 1984 l'Ufficio Istruzione del
Tribunale di Palermo riconoscerà l'origine mafiosa dell'omicidio.
Le indagini
Le indagini sono, in un primo tempo orientate sull'ipotesi di un attentato
terroristico consumato dallo stesso Impastato, o, in subordine, di un suicidio
"eclatante". Nel gennaio 1988 il Tribunale di Palermo invia una comunicazione
giudiziaria a Badalamenti. Nel maggio del 1992 il Tribunale di Palermo decide
l’àrchiviàzione del “càso Impàstàto”, ribàdendo là màtrice màfiosà del delitto mà
escludendo la possibilità di individuare i colpevoli e ipotizzando la possibile
responsabilità dei mafiosi di Cinisi alleàti dei “corleonesi”. Nel màggio del 1994 il
Centro Impastato presenta un'istanza per la riapertura dell'inchiesta,
accompagnata da una petizione popolare, chiedendo che venga interrogato sul
delitto Impastato il nuovo collaboratore della giustizia Salvatore Palazzolo,
affiliato alla mafia di Cinisi. Nel marzo del 1996 la madre, il fratello e il Centro
Impastato presentano un esposto in cui chiedono di indagare su episodi non
chiariti, riguardanti in particolare il comportamento dei carabinieri subito dopo
il delitto. Nel giugno del 1996, in seguito alle dichiarazioni di Palazzolo, che
indica in Gaetano Badalamenti il mandante dell'omicidio assieme al suo vice Vito
Palazzolo, l'inchiesta viene formalmente riaperta. Nel novembre del 1997 viene
emesso un ordine di cattura per Gaetano Badalamenti, incriminato come
mandante del delitto. Il 10 marzo 1999 si svolge l'udienza preliminare del
processo contro Vito Palazzolo, mentre la posizione di Badalamenti viene
stralciata. Il 5 marzo 2001 la Corte d'assise ha riconosciuto Vito Palazzolo
colpevole e lo ha condannato a trent'anni di reclusione. L'11 aprile 2002
Gaetano Badalamenti è stato condannato all'ergastolo.
Là vità di Peppino Impàstàto è ràccontàtà ànche nel film “ I CENTO PASSI ”.
"È nato nella terra dei vespri e degli aranci, tra Cinisi e Palermo, parlava alla sua radio,
negli occhi si leggeva la voglia di cambiare, la voglia di giustizia che lo portò a lottare,
aveva un cognome ingombrante e rispettato, di certo in quell'ambiente da lui poco
onorato, si sa dove si nasce ma non come si muore e non se un ideale ti porterà dolore."
(Modena City Ramblers)
GIANCARLO SIANI Giancarlo Siani è uno dei tanti uomini entrati nel lungo elenco dei martiri
della legalità.
E’ ricordato per essere stato uno dei pochi giornalisti ad aver avuto il
coraggio di denunciare la criminalità organizzata nell’area di Torre
Annunziata e il boss locale, Valentino
Gionta.
Era la sera del 23 settembre del 1985,
quando due sicari della camorra
uccidevano Giancarlo Siani, giornalista de
“Il Màttino” di Nàpoli. Ventisei ànni
appena compiuti, viso solare. Alle 21 circa,
era alla guida della sua Citroen Mehari
verde e stava tornando alla sua casa del
Vomero, quando due camorristi si
avvicinano in sella a una moto e sparano
dieci colpi di due Beretta 7.65.
Perché questa uccisione?
L’interesse giornàlistico di Siàni si erà
concentrato da subito sulle problematiche
sociali del suo territorio e sul fenomeno della criminalità organizzata, che non
era più solo nàpoletànà, mà come unà “piovrà” àllungàvà i suoi tentàcoli per
raggiungere la Sicilia, dove Totò Riina la attendeva a braccia aperte. Ma,
soprattutto, la camorra si era infiltrata nella vita politica, della quale riusciva a
regolare ritmi decisionali ed elezioni.
“Potrebbe cambiare la geografia della camorra dopo l’arresto del super latitante
Valentino Gionta…”
Iniziava così uno degli ultimi articoli scritti da Siani e pubblicato da Il Mattino il
10 giugno 1985. Con esso, scriveva la sua condanna a morte, passando da
“giornàlistà scomodo” à “obiettivo dellà càmorrà”.
Il 22 settembre 1985 erà uscito il suo ultimo àrticolo: “NONNA MANDA IL
NIPOTE A VENDERE L’EROINA”, il quàle pàrlàvà di unà signorà di Torre
Annunziata che mandava i nipoti “muschilli” di 12/13 ànni à fàre i corrieri dellà
droga e di come era organizzato lo spaccio a Napoli, nominando gran parte di
coloro che ne facevano parte.
L'ultimo articolo di Giancarlo Siani pubblicato su "Il Mattino" del 22 Settembre 1985 “Nonna manda il nipote a vedere l'eroina” .
"Mini-corriere" della droga per conto della nonna: 12 anni, già coinvolto nel "giro" dell'eroina. Ancora una storia di "muschilli", i ragazzi utilizzati per consegnare le bustine. Si, li chiamano "muschilli" i minori non imputabili, gli spacciatori in calzoncini, i corrieri-baby. Questa volta ad organizzare il traffico di eroina era una "nonna-spacciatrice". Era lei a tenere la fila della vendita con altre due persone e il nipote. La casa-basso nel centro storico di Torre Annunziata era diventata il punto di riferimento per i tossicodipendenti della zona. Al ragazzo il compito di portare le dosi ed incassare i soldi. A scoprire il traffico di droga sono stati i Carabinieri della compagnia di Torre Annunziata che hanno arrestato la donna, Maria Cappone,60 anni e Luigi Cirillo, di 34 anni, anche lui coinvolto nel "giro". Un altro uomo, parente della donna, è stato identificato ma è riusciuto a scappare. Il ragazzo è stato affidato ai genitori. La madre, impiegata comunale a Torre del Greco,era all'oscuro di tutto. Sapeva che il figlio la mattina si recava dalla nonna ad aiutarla nei servizi di casa. Il realtà l'aiuto consisteva nel fare da staffetta per consegnare le bustine. I Carabinieri da diversi giorni tenevano sotto controllo la casa di via Carlo III, nel centro storico di Torre Annunziata. Avevano osservato tutti i movimenti dei tre spacciatori e avevano notato anche il ruolo che era stato affidato al ragazzo. L'altro giorno i militari, diretti dal capitano Sensales ,sono intervenuti, hanno bloccato Luigi Cirillo ed hanno fermato il 12enne che al pretore di Torre Annunziata, Luigi Gargiulo, ha confermato il suo ruolo, l'attività della nonna e degli altri due spacciatori. Il Cirillo contattava i tossicodipendenti, stabiliva il prezzo e fissava appuntamento davanti all'ingresso di Maria Cappone. Al ragazzo veniva affidata l'eroina, la consegnava ai tossicodipendenti ed incassava i soldi. Quando i Carabinieri sono intervenuti la donna di 60 anni è riuscita ad allontanarsi, ma è stata arrestata dopo qualche ora. L'altro parente della donna, invece, è riuscito a sfuggire all'arresto: contro di lui la procura della Repubblica di Napoli ha emesso un ordine di cattura per detenzione e spaccio di droga. I militari hanno sequestrato altre due bustine di eroina. Secondo le indagini i tre non avevano collegamenti con clan camorristici. L'appartamento era un centro di vendita "al dettaglio". Il ragazzo di 12 anni di Torre Annunziata non è né il primo né l'unico caso. Ce ne sono tanti ancora, quanti ne sono? Impossibile azzardare un dato statistico, certo è che il fenomeno esiste in proporzioni molto più vaste di quanto si creda. Gli spacciatori li utilizzano per non correre rischi. I "muschilli" sono agili, si spostano da un quartiere all'altro e soprattutto non danno nell'occhio, sfuggono al controllo di polizia e carabinieri. Ma soprattutto sono minorenni: anche se trovati con la bustina d'eroina in tasca non sono imputabili. Ed ecco che il meccanismo perverso dello spaccio di droga li coinvolge. Generalmente si muovono seguiti a poca distanza dal "manager -spacciatore" contattato il tossicodipendente parte la staffetta con la droga, consegna, incassa i soldi e torna. A Torre Annunziata la stessa tecnica, a dirigere il ragazzo era la nonna. Molto, spesso bambini, già inseriti in un "giro" di droga. Per loro quale futuro? Se non diventano consumatori di eroina, se riescono a sopravvivere, è difficile essere che possano imboccare altre strade che non siano quelle dell'illegalità, dello spaccio diretto, dello scippo, del futuro. E in provincia di Napoli lo spaccio della droga è diffuso, ramificato, controllato dai grossi clan della camorra. A Torre Annunziata un traffico che fino all'agosto dell'anno scorso era direttamente gestito dal boss Valentino Gionta. Dei grandi distributori alla vendita al dettaglio ed in questa seconda attività è più difficile organizzarsi in proprio, poche bustine per guadagnarsi da vivere ma l'eroina entra in casa diventa familiare, anche per i ragazzi. Un fenomeno diffuso contro il quale c'è stata già la ribellione delle madri antidroga dei Quartieri Spagnoli di Napoli. Lì dove l'eroina ha ucciso, ha distrutto giovani e famiglie.
"Basta con la droga" lo hanno gridato nelle piazze, lo hanno detto a Sandro Pertini, lo ripetono ormai da tempo per ottenere strutture, comunità terapeutiche, un aiuto per liberarsi dalla "piovra". E nella provincia il malessere, il degrado, l'abbandono sono sempre più acuti. Dove gli intrecci tra camorra e droga sembrano imbattibili. Dove alla cronaca carenza di tutto, dalle case al lavoro, agli ospedali, si aggiunge anche il ritardo negli interventi per il recupero dei tossicodipendenti.
Giancarlo Siani è nato a Napoli il 19 settembre del 1959 nel quartiere del
Vomero. Da ragazzo frequentò il liceo Vico di Napoli , successivamente frequentò
l’università Federico II e si àppàssionò àllà càrrierà giornàlisticà.
Successivamente iniziò a frequentare vari periodici napoletani come il periodico
“Osservàtorio sullà càmorrà” e iniziò ad esporre le sue idee contro la criminalità
organizzata (si appassionò ai rapporti e alle gerarchie delle famiglie
camorristiche che controllavano Torre Annunziata e dintorni). In seguito iniziò a
làvoràre presso il quotidiàno “ Il Màttino” . Non àveva un posto stabile come
giornalista, tànt’è vero che venivà soprànnominàlo “l’àbusivo”, però il suo sogno
più grande era di fare il giornalista e si impegnava a fondo per essere assunto
stabilmente. Sempre per il quotidiano Il Mattino, il giovane giornalista compì
molte indagini importanti sui boss locali e con coraggio portò alla luce molte
denunce nel quotidiàno nell’àrco di un ànno. Le sue inchieste scavavano sempre
più in profondità, tanto da scoprire la moneta con cui i boss mafiosi facevano
affari. Poi Siani accusò il clan Nuvoletta di essersi alleato con i Corleonesi di
Totò Riinà e il clàn Bàrdellino , esponenti dellà “Nuovà Fàmiglià” di volere
spodestare e vendere alla polizia il boss Valentino Gionta, che avrebbe potuto
porre la fine della guerrà trà fàmiglie. Nell’ àrticolo scritto dà Siàni il giornalista
affermava che l’àrresto del boss Vàlentino Giontà era stato possibile grazie ad
unà “soffiàtà” fatta ai carabinieri dagli affiliati al clan Nuvoletta. Infatti il
pregiudicato era stato arrestato dopo aver lasciato la tenuta del boss Lorenzo
Nuvolettà à Màràno. Là pubblicàzione dell’àrticolo suscitò le ire dei fràtelli
Nuvoletta, che furono definiti “infàmi” perché avevano tradito il codice d’onore
degli uomini della mafia, lavorando con le forze di polizia. Da quel momento i
capo-clan Lorenzo e Angelo Nuvoletta architettarono numerosi piani per
uccidere Siani. Alla fine i camorristi decisero la sentenza di Siani che doveva
essere ucciso lontano da Torre Annunziata per depistare le indagini. Il giorno
della sua morte telefonò al suo ex-direttore dell’Osservàtorio sullà Càmorrà,
Amato Lamberti, chiedendogli di parlare.
Il 23 settembre del 1985, quattro giorni dopo il suo compleanno, Giancarlo
Siàni venne ucciso. L’àgguàto àvvenne àlle 20:50 nel Vomero. Prima di riuscire a
catturare i due veri killer sono trascorsi circa 20 anni dalla morte.
Il 10 ottobre 1995 si riesce a dare un volto e un nome agli assassini e ai
mandanti. Vengono arrestati: Ciro Cappuccio, Armando Del Core, Gaetano
Iacolare, Ferdinando Cataldo, Alfredo Sperandeo, Gabriele Donnarumma,
Valentino Gionta, Angelo Nuvoletta e Luigi Baccante, ma alla fine tutti vengono
scarcerati.
Il 15 aprile del 1997 viene arrestato Ciro Cappuccio, primo killer e nel 2002 il
secondo Killer, Armando Del Core. La seconda sessione della Corte d’Assise di
Nàpoli hà condànnàto àll’ergàstolo Angelo Nuvolettà, Vàlentino Gionta, Luigi
Baccante, Ciro Cappuccio e Armando Del Core. I due Killer stanno scontando
l’ergàstolo.
Oggi finalmente i familiari di Siani sono riusciti, dopo lungi processi, ad ottenere
giustizia.
Il fratello Paolo, unico rimasto in vita della famiglia Siani, ricorda il fratello come
un ragazzo carismatico , capace di grandi sacrifici, ma anche come una persona
solare, pronta a dare sostegno. Dopo la sua morte vari registi partenopei hanno
creàto vàri film in memorià di Siàni, àd esempio il cortometràggio “Mehàri”
diretto da Gianfranco De Rosa . Oltre ai film ci sono state anche varie
commemorazioni.
Giàncàrlo non è più presente fisicàmente, mà il suo messàggio c’è àncorà. E’
presente in tutte quelle persone che oggi non hanno paura e denunciano. Coloro
che grazie alle parole riescono a ferire e a diventare più potenti di qualsiasi altra
arma.
In sua memoria diverse scuole in Italia ed anche molti teatri e strade portano
oggi il suo nome. Tra cui la salita Arenella, nel quartiere di Napoli dove fu
assassinato. Il 19 marzo 2010 a Ferrara è stata inaugurata la Sala stampa
comunàle intitolàtà à Giàncàrlo Siàni. Sempre à lui intitolàtà è l’Aulà Màgnà del
liceo clàssico “Giovànbàttistà Vico” dà lui frequentàto e nel quàle si erà
diplomato con il massimo dei voti.
I suoi articoli ci hanno fatto conoscere un ragazzo dal carattere forte, che andava
in mezzo àllà gente per ràccogliere le loro pàure e perplessità. E’ stàto là voce di
chi non aveva il coraggio di ribellarsi alla criminalità.
Giancarlo è stato promotore di iniziative sociali, firmatario di manifesti di
impegno civile e democràtico. E’ stàto un testimone dellà nostrà terrà,
insanguinata dalla camorra, emarginata, disprezzata da tutti.
Il suo sacrificio non sarà mai dimenticato da coloro che vogliono vivere in una
società libera da soprusi e ingiustizie.
Giancarlo è oggi simbolo della non-violenza e della legalità.
Noi studenti campani siamo fieri di lui e del suo coraggio.
Casagiove,12 marzo 2016
Caro Giancarlo,
Ho avuto modo di conoscere la tua storia grazie ad un percorso a scuola, sono
Fabiola una ragazza di Caserta, frequento la terza media all'istituto Moro-
Pascoli. Mi hai colpito subito per la tenacia, per l'impegno che stavi mettendo per
realizzare il tuo sogno, diventare un giornalista. Eri ad un passo da quel
sogno,ma qualcuno in modo terribile ti tolse la vita, neanche il tempo di qualche
capello bianco, nemmeno il tempo di diventare il giornalista che tanto sognavi di
essere. Sai mi sono fatta un'immagine di te, l'immagine di un soldato che era
partito per una missione, per combattere il mostro, per te, per noi, una missione
dalla quale tu non sei più tornato. Essere giornalista è un lavoro molto rischioso,
perché il giornalista racconta e scopre delle cose spesso ''scomode'', per questo
motivo quasi sempre sono vittime di manacce o di omicidi, come lo sei stato tu.
Ma posso dirti che tu sei morto una sola volta senza paura e con grande dignità,
mentre tutti coloro che hanno paura muoiono ogni giorno. Mi hai segnato che è
importante testimoniare e non essere omertosi, perché essere omertosi in parte
è come giocare al loro stesso gioco. Ti ringrazio perché persone come te sono
state e sono ancora oggi molto d'aiuto per la nostra società, una società attaccata
da un male orribile.
Fabiola.
Il messaggio di Giancarlo ai giovani La mafia è una delle più gravi piaghe della nostra società, è un'organizzazione
che agisce non rispettando né la legge né la morale. La lotta contro la mafia è
molto dura e non può venir fatta solo dalla magistratura, dalle forze dell'ordine;
per far scomparire queste organizzazioni criminali serve l'aiuto di tutti, anche se
spesso parlare diventa rischioso, perché la parola spesso colpisce molto peggio
di una spada. La mafia colpisce persone importanti, grandi aziende e piccoli
imprenditori, distruggendo spesso sacrifici di una vita. Imprime terrore
costringendo persone a blindarsi in casa o essere scortati dalla polizia, quindi
togliendo la libertà, diventando vittime di violenti traumi e penose sofferenze. La
mafia è un male di cui si conoscono le patologie, ma non ancora le cure,
distrugge vittime innocenti, colpisce il punto più debole dell'uomo, non ha pietà
di nulla, nemmeno di un bambino. Chi è stato vittima della mafia ha subito delle
conseguenza molto dure e difficili da superare, restando condizionato sulle
proprie scelte. Bisogna testimoniare, non essere omertosi, non giocare al loro
stesso gioco. In questo mondo ci sono molti ragazzi che hanno dei sogni da
realizzare e hanno il diritto di sognare, non possono e non devono essere
condizionàti dàll’idea di guadagnare soldi facili, oppure dal fatto che posso
ottenere tutto facendo la malavita, perché la malavita ti porta via l'anima e tanto
altro.
La libertà di espressione e di stampa . Il lavoro del giornalista oggi
“Niente è mutato, eppure tutto è cambiato”. L’interà esistenzà à dimostràzione
dei poteri della parola; questa è la frase di Omraam Mikhaël
Aïvanhov, esoterista e pedagogo bulgaro. Leggendo questa frase mi rendo conto
che tutti gli uomini vengono dotati fin dalla nascita della parola. La parola è la
cosa più importante che esista, è lei che muove l’ànimà e il pensiero dellà
persona, muove la sua immaginazione e soprattutto la sua emozione. Essa è
proprio la più grande virtù di ogni essere umano. Il potere della parola è infinito,
essa può distruggere attraverso la menzogna, può ferire àttràverso l’ingànno, mà
può anche salvare. La parola una cosa grandissima, ella può dirti come
comportarti in una determinata situazione, può farti pensare, riflettere e può
anche consolare. Dobbiamo essere felici, perché nessun essere vivente è capace
di articolare i suoni e trasformarli in parole. Purtroppo oggi come in passato
sono molteplici i casi di persone o regimi che tolgono ad altri la libertà di
scrivere, di informare, di esprimere le proprie emozioni, le loro opinioni
riguardo un mondo che si sta sempre più degradando. Una frase che ha fatto
storia come tante altre è quella del famoso giornalista, saggista, scrittore e
attivista britannico George Orwell: la vera libertà di stampa è dire alla gente ciò
che la gente non vorrebbe sentirsi dire. Da questa frase si deduce che ogni
individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di
non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare e di diffondere
informazioni senza nessuno che lo intralci. Numerosi documenti e carte
internazionali sanciscono il diritto alla libera espressione anche attraverso la
stampa; ad esempio, nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani si afferma
che ogni individuo ha diritto a diffondere la propria opinione senza essere
intràlciàto. A 60 ànni dàll’emànàzione di questa legge , questo diritto è ancora
oggi negato soprattutto ai giornalisti. Il giornalista è una figura opinionista. Il
giornalista parla di ciò che vede, di ciò che legge e di ciò che sente. Non pochi
giornalisti sono morti nel corso di una guerra o sotto i colpi dei terroristi o della
criminalità organizzata. Come sostengono in molti, il giornalista è uno dei
mestieri più belli che ci siano al mondo; il giornalismo produce passione per chi
scrive un articolo, per chi lo legge o per chi ascolta, ma dobbiamo calcolare che
un giornalista può rischiare la vita ogni giorno scrivendo articoli che possono
dar fastidio a persone di un certo potere. Attacchi alla libertà di stampa e di
espressione sono àll’ordine del giorno in ogni continente; scoppiano sempre più
guerre che limitano la libertà di espressione, e nascono regimi dittatoriali che
temono l’informàzione oggettivà ed efficàce. Anzi, molto spesso, proprio questi
regimi cercano di strumentalizzare i mezzi di informazione per ottenere
consenso dà pàrte dellà popolàzione, fàvorendo il dilàgàre dell’ignorànzà e dellà
paura.
E chi sono le vittime più colpite?
Le vittime più colpite sono i giornalisti, che nella maggior parte dei casi ricevono
minacce personali e alle famiglie, ferimenti, violenze, attentati, sequestri e
addirittura omicidi. Ci sono stati anche in Italia anni in cui la professione di
giornalista è stata particolarmente difficile e pericolosa. Molti sono stati i
giornalisti che hanno perso la vita per passione che mettevano nel loro lavoro
come Giancarlo Siani, Peppino Impastato, Mauro Rostagno ecc. Sono tragedie
che ci riguardano ancora adesso come in paesi come la Russia e la Cina dove la
libertà di parola è negata.
La libertà è un dovere di tutti , è un valore
importante per ogni individuo e dobbiamo
sempre pensare che milioni di persone
sono morte per la propria libertà di
espressione e ognuno di noi deve lottare
per garantire questo diritto a tutti.
Padre Pino Puglisi
Don Giuseppe Puglisi, meglio conosciuto come Don Pino Puglisi , nasce a
Brancaccio frazione di Palermo il 15 Settembre 1937. E’ stàto un pàrroco
palermitano ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993, che ha dedicato la sua vita
àll’àffermàzione dellà verità e sopràttutto dellà legàlità e ha cercato di salvare i
ragazzi del quartiere di Brancaccio tramite la parola di Cristo. Entra nel
seminario diocesano di Palermo nel 1953 e viene ordinato sacerdote nel 1960.
Il 25 maggio 2013, sul prato del Foro Italico di Palermo, davanti ad una folla di
circa centomila fedeli, è stato proclamato beato. La celebrazione è stata
presieduta dall'arcivescovo di Palermo, cardinale Paolo Romeo, mentre a leggere
la lettera apostolica, con cui si compie il rito della beatificazione, è stato il
cardinale Salvatore De Giorgi, delegato da papa Francesco. È il
primo martire della Chiesa ucciso dalla mafia.
IL SUO OPERATO
Entra nel seminario diocesano di Palermo nel 1953 e viene ordinato sacerdote
dal cardinale Ernesto Ruffini il 2 luglio 1960 nella chiesa-santuario della
Madonna dei Rimedi. Nel 1961 viene nominato vicario cooperatore presso la
parrocchia del SS.mo Salvatore nella borgata di Settecannoli, limitrofa a
Brancaccio, e dal 27 novembre 1964 opera anche nella vicina chiesa di San
Giovanni dei Lebbrosi a Romagnolo. Dal 1962 è anche confessore delle suore
basiliane Figlie di Santa Macrina nell'omonimo istituto. Intraprende anche la
professione di insegnante al professionale Einaudi alla media Archimede , alla
media di Villafrati e alla sezione staccata di Godrano , al magistrale Santa
Macrina e infine al liceo classico Vittorio Emanuele II . Nel 1967 Padre Puglisi
divenne cappellano e insegnante
di religione àll’istituto Roosevelt.
Qui iniziò una collaborazione con
un gruppo di educatori
comunisti, con i quali tentò di
aprire un dialogo. Le loro idee
nettamente differenti dalle sue
non facevano sì che i due punti di
vista cozzassero completamente
fra loro. Don Pino, che aveva una
mentalità molto aperta per i
tempi, era disposto ad ascoltarli
e a trovare un punto di incontro tra il suo pensiero e quello degli educatori.
Puglisi aveva capito che dietro il loro comportamento emergeva la richiesta di
giustizia e la volontà di rivendicare i propri diritti.
Nel 1969 è nominato vicerettore del seminario arcivescovile minore.
Nel settembre di quell'anno partecipa a una missione nel paese di Montevago,
colpito dal terremoto. Sin da questi primi anni segue in particolare modo i
giovani e si interessa delle problematiche sociali dei quartieri più emarginati
della città. Segue con attenzione i lavori del Concilio Vaticano II e ne diffonde
subito i documenti tra i fedeli, con speciale riguardo al rinnovamento della
liturgia, al ruolo dei laici, ai valori dell'ecumenismo e delle chiese locali. Il suo
desiderio fu sempre quello di incarnare l'annunzio di Gesu' Cristo nel territorio,
assumendone quindi tutti i problemi per farli propri della comunità cristiana. Il
primo ottobre 1970 A Godrano, dove nel 1970 divenne parroco della chiesa
“Màrià SS. Immàcolàtà”, provò ad aprire un dialogo con i protestanti. Quanto
riuscì a fare negli otto anni in questo piccolo paese è difficile da riassumere in
poche righe. La sua grande capacità persuasiva, non solo a parole ma anche con i
fatti, fece sì che alcune famiglie si riconciliarono. Rimase qui fino al 31 luglio
1978. In questo periodo unisce le forze anche con Lia Cerrito e altri volontari del
movimento Crociata del Vangelo (dal 1987 Presenza del Vangelo), fondato dal
frate minore siciliano Placido Rivilli. Il linguaggio utilizzato da don Pino aiutava
à riflettere, erà semplice, spiritoso. “Le sue parole responsabilizzavano l’altro.
Non ti diceva “fai cosi” ma “che ne diresti di?” – continua Rosalba Peligra - Non
imponeva, non obbligava. Valorizzava sempre le doti positive che una persona
possedeva per spingerla a fare, a dare, a inserirsi in un gruppo.” Questa ragazza,
Rosalba Peligra , ebbe la fortuna di conoscere Don Puglisi :
“Avevo 14-15 anni, ero orfana di padre e mi trovavo nel collegio delle suore
Basiliane di Santa Macrina, nella zona di Romagnolo a Palermo - racconta
Rosalba - Puglisi era il nostro cappellano, celebrava la messa e ci confessava.
Durante la lunga confessione, che era anche direzione spirituale, raccontavamo le
nostre disavventure e i nostri
problemi familiari. È sempre
stato un grande e attento
ascoltatore, la confessione
durava tanto, le ginocchia
scricchiolavano. Ascoltava
attentamente e dopo lunghi
silenzi esprimeva il suo
consiglio.”
In questi anni segue pure le battaglie sociali di un'altra zona degradata della
periferia orientale della città, lo "Scaricatore", in collaborazione con il centro
della zona dei Decollati gestito dalle Assistenti sociali missionarie, tra cui
Agostina Ajello. Il 9 agosto 1978 è nominato pro-rettore del seminario minore di
Palermo e il 24 novembre dell'anno seguente è scelto dall'arcivescovo Salvatore
Pappalardo come direttore del Centro diocesano vocazioni. Il 24 ottobre 1980 è
nominato vice delegato regionale del Centro vocazioni e dal 5 febbraio 1986 è
direttore del Centro regionale vocazioni e membro del Consiglio nazionale. Agli
studenti e ai giovani del Centro diocesano vocazioni ha dedicato con passione
lunghi anni realizzando, attraverso una serie di "campi scuola", un percorso
formativo esemplare dal punto di vista pedagogico e cristiano.A Palermo e in
Sicilia è stato tra gli animatori di numerosi movimenti tra cui: Presenza del
Vangelo, Azione cattolica, Fuci, Equipes Notre Dame, Camminare insieme.
Dal maggio del 1990 svolge il suo ministero sacerdotale anche presso la "Casa
Madonna dell'Accoglienza" a Boccadifalco, dell'Opera pia Cardinale Ruffini, in
favore di giovani donne e ragazze-madri in difficoltà. Il 29 settembre 1990 viene
nominato parroco a San Gaetano, a Brancaccio, e dall'ottobre del 1992 assume
anche l'incarico di direttore spirituale del corso propedeutico presso il
seminario arcivescovile di Palermo. Il 29 gennaio 1993 inaugura a Brancaccio il
centro "Padre Nostro", che diventa il punto di riferimento per i giovani e le
famiglie del quartiere. A Bràncàccio invece, àll’inizio degli ànni 90, rivolse una
serie di appelli ai mafiosi, invitandoli alla conversione. Qui operò direttamente
nel territorio, lavorando a stretto contatto con il Comitato Intercondominiale,
inviando insieme a loro un centinaio di lettere alle istituzioni per chiedere
l’àperturà di unà scuola media, un presidio sanitario, una palestra. La sua
comunicàzione, che dà qui potrebbe essere definità di tipo “extràterritoriàle” e
indirizzata alle istituzioni, trovò molti punti di incontro con quella del Comitato
Intercondominiale.
Il suo forte ruolo sociale, nel periodo in cui era parroco a Brancaccio, non fu però
càpàce di àttràrre l’àttenzione dellà stàmpà nàzionàle. Soltànto il Giornàle di
Sicilià e Il Mànifesto (quest’ultimo pubblicò un àrticolo nell’àgosto nel 1993)
trattarono le vicende accadute a Brancaccio tra il 90 e il 93.
MINACCE E INTIMIDAZIONI
Don Pino Puglisi fu anche
vittima di molti atti
intimidatori come accadde
due mesi prima della sua
morte :durante la notte gli
avevano parzialmente
bruciato la porta della
Chiesa. A gennaio 1993
aveva inaugurato il centro "Padre Nostro", diventato punto di riferimento per i
giovani e le famiglie del quartiere. Il sacerdote dava fastidio alla mafia per il suo
limpido apostolato, l' azione contro i trafficanti di droga, le omelie di condanna a
Cosa Nostra. Ancora oggi a 23 anni dalla scomparsa di Don Puglisi ancora atti
intimidatori ai danni del Centro “Pàdre Nostro” fondàto dàllo stesso Don Pino:
“E' stata scassinata la porta del magazzino - dice Maurizio Artale, presidente del
centro Padre Nostro - Non ci sembrava vero, ricordare padre Puglisi senza
denunciare un attentato, un intrusione, un furto". L'intrusione è avvenuta mentre
fervono i preparativi per le manifestazioni organizzate dal centro Padre Nostro
per l'anniversario dell'omicidio del prete.
LA MORTE
Viene ucciso sotto casa, in piazzale Anita Garibaldi 5, il giorno del compleanno,
15 settembre 1993. I pentiti hanno rivelato che a ordinare il delitto furono i
fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, boss del quartiere. L' agguato fu affidato a
un ''commando'' guidato dal killer Salvatore Grigoli che, dopo essersi pentito, ha
accusato come suoi complici Gaspare Spatuzza, Cosimo Lo Nigro e Luigi
Giacalone, che avrebbero svolto funzioni di appoggio, e il ''reggente'' della cosca
Nino Mangano che avrebbe organizzato la spedizione di morte. Grigoli ha
raccontato che, quando Don Pino Puglisi capì che stava per ucciderlo, disse ''me
l' aspettavo'', e sorrise al suo assassino.
IL CORAGGIO
Il martirio costituisce una grande testimonianza
di fede Cristiana, di profonda generosità e di
àltissimo coràggio civile”. Alfàno dice :”Il suo
sangue è servito a determinare una ribellione
della società civile che si è tradotta in leggi, nel
contrasto più forte da parte dello stato verso
cosà nostrà “.
LA SUA TESTIMONIANZA
Don Puglisi è stàto un modello di un’àntimàfià che è motivata non dalla
sociologia, ma da motivazioni evangeliche; e il fatto che questo percorso sia stato
suggellato dalla Chiesa con la proclamazione del martirio di don Pino, è
importante per tutti noi. La mafia dal punto di vista cristiano va contrastato con
il Vangelo, non da una generica difesa della legalità; perché la mafia con i suoi
atti manifesta un atteggiamento radicalmente contràrio àllà fede. E’
completamente contrario al Vangelo, ad esempio, la strumentalizzazione che
fanno i mafiosi dei passi biblici per giustificare la vendetta, in fatto che il padrino
sia considerato una sorta di rappresentante di Dio in terra, il fatto che vengano
usàte simbologie religiose nell’àffiliàzione. Sono strumentàlizzàzioni per
inculcare la cultura mafiosa in una società dove ancora la religione ha
importanza. Della religione i mafiosi prendono solo elementi formali, ma non la
coerenza con la vita di ogni giorno : e
ciò lo dimostra il disprezzo della vita
, o il mettere denaro e potere al
primo posto come un idolo al posto
di Dio. L’esàtto contràrio di ciò che
insegna ancora oggi a noi don Pino.
Padre Pino Puglisi si definiva
“àllergico” ai politici. La battuta è
riferita da diversi amici e venne
ripetuta dal sacerdote anche durante
gli ànni di Bràncàccio. Mà “àllergico”
in che senso? Vedremo in questo
àrticolo che l’àllergià di 3P non erà
qualunquismo ma una precisa scelta
di campo per troncàre l’àbitudine dei politici di consideràre là pàrrocchià un
serbatoio elettorale. Un luogo dove raccogliere voti e consensi in cambio di
offerte in denaro.
LE NOSTRE RESPONSABILITA’
Come ancora ci insegna don Puglisi, noi sconfiggeremo le mafie solo quando
saremo capaci di fare pulizia attorno e dentro di noi ,quando supereremo gli
egoismi ,i favoritismi ,i privilegi e l’inevitàbile corruzione che questo modo
d’intendere là vità portà à sé. Solo quàndo àvremo il coràggio di riconoscere
anche le nostre responsabilità, responsabilità non solo dirette ma indirette
,riferibili à quel peccàto di omissione che consiste nell’interpretàre in modo
restrittivo e puramente formale il nostro ruolo di cittadini. La figura del
sacerdote ucciso dalla mafia è ricordata nel film di Roberto Faenza ''Dritto sulle
righe storte'' nel quale Luca Zingaretti veste i panni di Don Pino. Alla figura di
Puglisi si e' liberamente ispirato anche ''Brancaccio'', un film tv trasmesso dalla
Rai, diretto da Gianfranco Albano e interpretato da Ugo Dighero.
FRANCESCO IMPOSIMATO
FRANCESCO IMPOSIMATO
A volte, ad essere vittime sono persone la cui
unica colpa è quella di avere un legame familiare
“che minàccià le personàlità màfiose”
“E’ uno sguardo nella soffitta del tempo, dove ci sono le foto in bianco e nero ormai
sbiadite. Sono fotogrammi impressi nella memoria delle vittime innocenti che
raccontano tragedie mai dimenticate. Persone che devono essere ricordate non
solo per la loro tragica fine, ma per senso della memoria. Della loro e della nostra
memoria.”
Franco Imposimato nasce a Maddaloni, comune in provincia di Caserta, il 19
Dicembre 1939. Trascorre parte della sua adolescenza in Africa dove frequenta
una scuola artistica e si
specializza in cartellonistica.
Successivamente ritorna in
Italia e si stabilisce
nuovamente a Maddaloni.
Una vita normalissima la sua,
divisa tra il lavoro, come
impiegato della CGIL alla Face
Standard e la vita familiare:
Franco è sposato ,ha una
moglie e due figli, il maggiore Giuseppe e il più piccolo Filiberto. Suo fratello è
Ferdinando Imposimato, giudice che conduceva delicate indagini riguardanti la
Bàndà dellà Màgliànà. Questo là Càmorrà non l’ hà perdonàto. Frànco è stàto
vittima di un attentato trasversale, portato a termine da una connection tra
Mafia e Camorra. Lo scopo era quello di intimidire suo fratello, il giudice
obiettivo troppo fàcile dà ràggiungere. L’uccisione àvvenne l’11 ottobre del
1983. Verso le 18:00 i due ignari coniugi procedevano, a bordo della Ford Escort
verde, lungo via Campolongo di Maddaloni, a ridosso di un incrocio. Si
muovevàno lentàmente perché dovevàno superàre un’ àuto in sostà. Eràno
àppenà uscità dàll’ àziendà “FACE Stàndàrd “, ove entràmbi làvoràvàno, ed
avevano percorso 350 metri, quando due uomini, armati di pistola, iniziarono a
spàràre àll’impàzzàtà con inaudita violenza verso i due malcapitati. Franco ebbe
solo il tempo di dire “Mà che stà succedendo?” e fu colpito dà 15 colpi senzà
avere il tempo di scappare e non ebbe scampo. La moglie Maria Luisa Rossi
venne colpita da due proiettili al petto e alla spalla ed entrambi i polmoni
vennero làceràti. Trovò là forzà di àprire lo sportello dell’àuto e muovere
qualche passo. Poi, cadde a terra svenuta. Riportò lesioni gravissime. Subito
dopo i killers, su una Ritmo di colore chiaro, guidata da un complice, si
dileguarono ad alta velocità, incrociando tre militari, i quali, dopo aver annotato
i numeri di targa di quella vettura,
si recarono sul luogo da dove
provenivano gli spari. I due figli
piccoli, Giuseppe e Filiberto,
avevano nove e sette anni, e quel
giorno, erano andati regolarmente
a scuola. Come sempre il papà
Franco, e la mamma, Maria Luisa
Rossi, sarebbero passati a
prenderli dopo le diciassette e trenta, appena finito il turno di lavoro alla FACE
Standard. Una fabbrica manifatturiera sorta alla fine degli ànni ’60, ubicàtà
appena fuori città, dove lavoravano più di mille persone. Erano impiegati
nell’ufficio àcquisti. Quel giorno, però, à prendere i due ràgàzzi à scuolà ci
àndàrono due àmici di fàmiglià. “Pàpà e màmmà non sono potuti venire”, si
sentirono dire Giuseppe e Filiberto, “Hànno àvuto improvvisàmente dà fàre”. Mà
non immàginàvàno minimàmente che poco primà c’erà stàto un àgguàto nei
confronti dei loro genitori. Da quel giorno la loro vita sarebbe stata segnata per
sempre. Moriva così, senza sapere il perché, Francesco Imposimato. Tranquillo e
socievole impiegato, che si dedicava ad organizzare le gite aziendali, iscritto al
Partito Comunista, senza svolgere politica attiva, interessato alla salvaguardia
dell’àmbiente e dei centri storici, che àvevà dedicàto molte energie nell’àttività
del Gruppo Archeologico Càlàtino. Amàvà dipingere tànto che l’àppàrtàmento
era tappezzato di quadri. In bianco e nero ad inchiostro di china. Era la tecnica
con cui amava dipingere Franco Imposimato. Dipingeva soprattutto la sua città:
Màddàloni. Amàvà l’àrte in tutte le sue forme. C’è ànche il quàdro di un
barboncino: Puffi, il loro cane. Era sempre con loro, in ogni situazione, anche il
giorno in cui lo hànno ucciso. Frànco Imposimàto e suà moglie eràno nell’àuto
davanti e lui dietro. Non voleva restare a casa. Franco se lo portava a lavoro. Lo
lasciava in auto e poi scendeva per farlo mangiare. Era come un terzo figlio per
lui. Franco Imposimato aveva per i
suoi assassini, però, una grave colpa:
era il fratello del giudice istruttore di
Romà, Ferdinàndo, àll’ epocà in
servizio presso il tribunale di Roma.
Quest’ultimo, infàtti, stàvà sferràndo
un duro colpo alla Mafia e si doveva
fare in modo di intimorirlo, visto che
ucciderlo sarebbe stato complicato. Si
decise di uccidere il fratello, che comunque, essendo un ambientalista, andava a
scontrarsi con gli interessi della camorra che operava nelle cave abusive di
Maddaloni. Dunque Francesco Imposimato non è stato neanche vittima di
minacce, la vita gli è stata privata senza alcun avvertimento o possibilità di
scelta, anche se sappiamo che egli non avrebbe mai ceduto alla mafia e sarebbe
andato avanti nelle sue idee, così come il fratello, a testa alta. Francesco
Imposimato cominciò a morire già nel marzo del 1983 allorquando venne
rapinata in Triflisco, a Giovanni Manco la Ritmo da impiegare nell' agguato; e,
quasi contestualmente, curata un' attività volta ad accertare ove si trovava la sua
abitazione e il suo luogo di lavoro da parte di due misteriosi individui,
qualificatisi come imprenditori. Lo capì Ferdinando Imposimato, che si
preoccupò molto e subito, sin da allora, cercando invano di correre ai ripari. Si
rivolse ai carabinieri perché venisse allestito un servizio di scorta per il fratello e
sollecitò il direttore generale della Face Standard a trasferirlo. Ma questi non
voleva lasciare Maddaloni e, andando a Formia per le vacanze, rinunciò alla
scorta. Il giudice si rivolse ad uno dei consiglieri del Csm, Michele Aiello, affinché
venisse allontanato da Roma perché i suoi familiari venivano minacciati.
Purtroppo restò a Roma. Sono trascorsi trentatré anni da quella storia
dimenticata. Con orgoglio oggi possiamo dire che quel delitto ha un perché e i
responsabili un volto.
Cosa è emerso dal processo?
Dalle indagini e dai processi celebrati è emersa in modo chiaro la matrice
mafioso-camorrista del crimine. Si trattò di una volontà omicida tesa a colpire e
ad intimidire il giudice Ferdinando Imposimato: un' azione trasversale nei
confronti del fratello. Era necessario frenare le investigazioni giudiziarie del
magistrato sull' omicidio del pregiudicato romano Domenico Balducci, titolare di
un negozio di elettrodomestici, dedito all' usura, collettore e reinvestitore di
capitali mafiosi, assassinato a Roma il 18 ottobre 1981. Indagini che avrebbero
potuto consentire di comprendere la reale identità di Giuseppe Calò e di scoprire
tutto il coacervo di interessi di varia natura criminale che coltivava con Balducci
e tanti altri a Roma, in Sardegna ed in altri luoghi, utilizzando i nomi falsi e
misteriosi di don "Mario Aglialoro" e "Salamandra". Giuseppe Calò aveva,
dunque, dato l' ordine a Lorenzo Nuvoletta e ai suoi uomini di uccidere
Francesco Imposimato. Responsabile dell' area di Maddaloni, sposato con la
figlia di Lorenzo Nuvoletta e affiliato a cosa nostra, Vincenzo Lubrano organizzò
il delitto e commissionò ad Antonio Abbate e Raffaele Antonino Ligato la rapina
della Fiat Ritmo, utilizzata per l' esecuzione dell' omicidio, nei giorni coincidenti
con l' attività di osservazione della vittima. Detta vettura venne ricoverata dal
marzo all' ottobre in una
masseria nella disponibilità di
Lubrano e al suo interno
vennero conservate le armi
impiegate. Antonio Abbate fece
parte del commando operativo.
A seguito della sentenza della
Corte di Cassazione del 30
maggio 2002 (depositata in cancelleria il 12 giugno 2002), le condanne all'
ergastolo nei confronti di Giuseppe Calò ed Antonino Abbate, e a sette anni di
reclusione (e cinque milioni di multa) nei confronti di Raffaele Antonino Ligato
sono divenute definitive. Il 5 novembre 2004 è divenuta irrevocabile la
condanna all' ergastolo di Vincenzo Lubrano. Condanne sorrette dal contributo
di collaboratori di giustizia, che, ancora una volta, si sono rivelati strumento
investigativo di vitale importanza per gettare luce su un delitto destinato
altrimenti a rimanere impunito. Ricordare ciò che avvenne a Maddaloni tanti
anni fa è doveroso perché quando il dolore diventa collettivo omaggia la
memoria delle vittime e dei loro cari. Nessuno deve dimenticare il tragico
destino di quel tranquillo innocente impiegato e delle tante altre vittime che, con
frequenza, continuano a cadere senza sapere il perché, coinvolte, loro malgrado,
nelle feroci faide endemiche che affliggono la Campania, terra dove la camorra
continua a contendere allo Stato il primato sul territorio e ad esercitare la sua
forza ossessiva ed opprimente sulla popolazione. Oggi come allora permane il
rischio intollerabile di morire per caso. Forse, ed è bene sperarlo, il futuro potrà
essere diverso.
I FIGLI DI FRANCO IMPOSIMATO: “NESSUN PERDONO”
A trentàtré ànni dàll’omicidio del sindàcàlistà, ucciso in un àgguàto dà unà
connection mafia-càmorrà, pàrlàno i fàmiliàri: “Ho màledetto quei sicàri hànno
rovinato la vità dellà mià fàmiglià. Dà piccolo mi chiedevo: mà sono mostri?”
“Nessun odio e nessun perdono
per gli assassini di nostro padre,
ma anche la società civile ha
fatto fatica a starci vicino”.
Giuseppe e Filiberto
Imposimato, figli di Franco, oggi
sono poco più che trentenni. Quàndo venne ucciso il pàpà in un àgguàto, l’11
ottobre di 24 anni fa, a Maddaloni, Giuseppe aveva solo 9 anni e Filiberto 7. Sono
due persone molto riservate, laureate in giurisprudenza, da qualche anno
lavorano come funzionari alla Corte dei Conti a Napoli. Non hanno mai voluto
parlare con nessuno della loro tragedia. Oggi rompono il loro silenzio.
Il suo coraggio è servito?
Fràncesco ci hà tràsmesso l’ideàle dellà legàlità, non come unà privazione della
libertà personale di fare ciò che noi riteniamo giusto per il nostro tornaconto,
ma come qualcosa che permette di vivere liberi senza calpestare i diritti altrui.
Perchè vivere non è uscire di casa con la paura costante di essere uccisi; vivere
non è andare a dormire non sapendo se domani ci sei ancora; vivere non è
morire à quàrànt’ànni. Nonostànte questo, ci sono àncorà persone che uccidono
per interessi personali, il più delle volte per soldi e potere e, i parenti di queste
vittime difficilmente perdonano perché la sofferenza è grande e difficile da
dimenticàre. Là violenzà non si combàtte con àltrà violenzà, l’àrmà più potente
che abbiamo è la nostra mente: non dobbiamo fare quello che ci viene detto se
non lo troviamo giusto, nessuno ci deve obbligàre à fàre un’àzione che pensiàmo
sià sbàgliàtà. E’ necessàrio càpire che il denàro non fà là felicità perché è meglio
avere persone che ci vogliono bene intorno piuttosto che una grandissima villa
sul mare che non si può condividere con nessuno o con persone che ci sono
amiche per convenienza e che spariranno nel momento del bisogno. I mafiosi
sono persone che non hànno càpito l’ importànzà e là bellezzà dellà vità che ci
viene offerta e la sprecano per ottenere soldi e successo. Per noi non sapranno
mai cosa voglia dire davvero VIVERE perché sono troppo impegnati a
programmare la loro prossima vendetta. Tutte queste morti innocenti non
devono essere dimenticate, tutti devono SAPERE e far sapere agli altri, senza far
finta di non vedere o di non essere a conoscenza di tutto, perché è proprio
questo che rafforza le mafie e il loro modo di ragionare. Francesco Imposimato è
stato uno delle tante vittime innocenti della mafia. Ognuno di loro ha avuto
grande importanza e nessuno di loro deve essere dimenticato. Egli, così come
suo fratello suo fratello, ci ha insegnato che non bisogna fermarsi davanti alle
mafie e che bisogna combatterle. La mafia colpisce coloro che dicono cose contro
di lei e che non rispettano le sue regole. La mafia colpisce coloro che dicono cose
contro di lei e che non rispettano le sue regole. Secondo i mafiosi noi tutti
dovremmo stare zitti, fare finta di niente, dire di non sapere niente e di non
essere a conoscenza di nessuna azione sbagliata. Insomma dovremmo essere
ciechi sordi e muti. Purtroppo per loro, e per fortuna del mondo intero, ci sono
anche persone che non si sottomettono a tutto ciò, le vittime della mafia. Tutti
noi dovremmo seguire il loro esempio, imitare il loro coraggio, perché tutti uniti
saremo molto più forti.
FRANCESCO IMPOSIMATO
E questo erà Frànco, mio àmàtissimo fràtello, l’uomo più buono, generoso e nobile che io abbia mai
conosciuto
-Ferdinando Imposimato